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BIOLOGIA MOLECOLARE compressed

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Anno accademico: _______
BIOLOGIA
MOLECOLARE
Dispensa Corso di Biotecnologie
Proprietario/a: _____________________________
UNIVERSITÀ DI FERRARA
BIOLOGIA MOLECOLARE
La struttura degli acidi nucleici
In questo capitolo andremo a prendere in considerazione diversi argomenti, quali:
● Struttura chimica degli acidi nucleici
● Struttura fisica del DNA: la doppia elica e i suoi parametri strutturali
● Topologia del DNA e DNA topoisomerasi
● Struttura dell’RNA
Struttura chimica degli acidi nucleici
GLI ACIDI NUCLEICI
● DNA e RNA sono catene polinucleotidiche (= polimeri lineari di nucleotidi)
o Nel caso dell’RNA queste catene possono avere migliaia di nucleotidi
o Nel caso del DNA si arriva persino a milioni di nucleotidi
● I nucleotidi sono quindi l’unità fondamentale del DNA e RNA e hanno tre componenti:
o Uno zucchero pentoso (cioè a 5 C)
▪ Nel caso del DNA lo zucchero è il deossiribosio
▪ Nel caso dell’RNA lo zucchero è il ribosio
o Una base azotata
o Uno o più gruppi fosfato
Quando lo zucchero si lega alla base azotata, si va a formare quello che si chiama NUCLEOSIDE.
Se a questo si associa poi un gruppo fosfato si parla di NUCLEOTIDE.
Posso però avere anche più di un gruppo fosfato, questo perché, quando il nucleotide non è
incorporato all’interno di un acido nucleico, si trova solitamente nella forma di NUCLEOSIDE
TRIFOSFATO (una base, lo zucchero e tre gruppi fosfati).
Quando, invece, il nucleotide è incorporato all’interno della catena polinucleotidica, si trova nella
forma con un solo gruppo fosfato.
STRUTTURE DEI COMPONENTI CHIMICI DEI NUCLEOTIDI
Come abbiamo detto, lo zucchero è un pentoso, cioè una molecola con 5 atomi di carbonio numerati
da 1 a 5 all’interno del nucleotide.
In particolare, per distinguere i carboni dello zucchero da quelli delle basi, vengono indicati con
l’apostrofo.
I nucleotidi del DNA contengono il deossiribosio, che differisce dal ribosio (presente nell’RNA) per
l’assenza del gruppo ossidrilico al carbonio 2’.
La seconda porzione del nucleotide è la base azotata, una molecola a struttura ciclica legata al
carbonio 1’ dello zucchero (sia che sia ribosio che deossiribosio).
In particolare, nel DNA possiamo trovare 4 diverse basi azotate legate allo zucchero à adenina,
guanina, citosina e timina. L’adenina e la guanina sono delle PURINE, caratterizzate dalla presenza
di un doppio anello nella loro struttura. Citosina e timina sono invece delle PIRIMIDINE e
presentano un singolo anello. Ovviamente anche i carboni delle basi vengono numerati, ma senza
apostrofo.
Tre di queste basi (adenina, guanina e citosina) vengono a trovarsi anche nell’RNA, ma la timina è
sostituita da una diversa pirimidina, ovvero l’uracile.
Queste basi azotate sono legate allo zucchero attraverso un legame chiamato N-b-glicosidico,
questo perché si instaura tra il carbonio 1’ dello zucchero e l’azoto (ecco il perché della N del
legame) della base purinica o pirimidinica (nel caso delle purine si intende l’azoto 9, nel caso delle
pirimidine l’azoto 1).
Il beta indica la posizione del legame glicosidico rispetto all’anello del pentoso. Beta sta a indicare
che il legame sta verso l’alto rispetto al piano dell’anello, mentre alfa sta verso il basso.
L’ultima porzione del nucleotide è il gruppo fosfato, il quale è legato al C5’ dello zucchero. Questo
legame si chiama fosfoesterico.
Ricorda: senza gruppo fosfato la molecola si chiama nucleoside.
NOMENCLATURA
Per quanto riguarda i nomi dei nucleotidi, è difficile trovarli scritti come acido adenilico, etc., più
frequentemente li troviamo come la loro abbreviazione (AMP, GMP, etc. per l’RNA, dAMP,
dGMP, etc. per il DNA).
Le unità strutturali (i nucleotidi), per essere più specifici, sono dette:
● Nel DNA:
deossiribonucleotidi (=
deossiribonucleosidi 5’
monofosfato)
● Nell’RNA:
ribonucleotidi (=
ribonucleosidi 5’
monofosfato)
NOMENCLATURA DEI GRUPPI FOSFATO NEL NUCLEOSIDE TRIFOSFATO
Come già detto, i nucleotidi, quando
non sono incorporati nel DNA o RNA,
possono essere dei nucleosidi trifosfati.
Questi 3 gruppi fosfato vengono
indicati rispettivamente con alfa, beta o
gamma, a seconda che siano prossimali
o distali rispetto al C5’ dello zucchero
(quello più vicino sarà quindi l’alfa).
Chiaramente, quando il nucleotide è
incorporato in una catena
polinucleotidica, rimane solo il gruppo
fosfato alfa, mentre gli altri due vengono persi.
FORMAZIONE DEL NUCLEOTIDE MEDIANTE ELIMINAZIONE DI ACQUA
La formazione di un nucleotide e la formazione
dei due legami, ovvero il legame N-betaglicosidico e il legame tra zucchero e gruppo
fosfato, vengono a crearsi con la perdita di due
molecole di H2O.
Una base si viene ad unire perciò allo zucchero
per formare il legame beta-N-glicosidico con il
C1’ dello zucchero perdendo una molecola di
acqua (data dall’OH dello zucchero e l’H della
base); si crea così il nucleoside.
La formazione del nucleotide, poi, prevede
anch’essa l’eliminazione di una molecola
d’acqua data dall’H del fosfato e l’ossidrile del
C5’.
BASI MODIFICATE CHE SI POSSONO TROVARE NEL DNA E NELL’RNA
Sono delle basi meno frequenti che però possiamo trovare nelle catene polinucleotidiche.
Nell’immagine sottostante:
● Nella parte in a) sono tipiche le basi modificate che troviamo a livello del DNA, che hanno
soprattutto dei sostituenti metilici legati all’azoto o agli atomi di C oppure possono avere
anche dei gruppi ossidrilici
● In b) abbiamo invece le basi modificate che troviamo nell’RNA
I LEGAMI FOSFODIESTERICI NEGLI ACIDI NUCLEICI
Il passaggio successivo chiaramente è che i singoli
nucleotidi devono essere legati per formare il polimero. In
particolare, questo polimero viene chiamato polinucleotide
(> 50 nucleotidi) o oligonucleotide (fino a 50 nucleotidi).
Nell’immagine a lato vediamo una struttura di un
trinucleotide a DNA e di una molecola similare a RNA
(quindi una piccola molecola con soli 3 nucleotidi, ovvero
un polimero di nucleosidi monofosfato).
Le due molecole sono analoghe, l’unica cosa che cambia è
appunto l’assenza della timina e presenza di uracile
nell’RNA.
Ma come sono legati questi nucleotidi?
I nucleotidi vengono legati gli uni con gli altri mediante un
legame fosfodiestere, ossia un legame che si instaura tra il
gruppo fosfato legato al C5’ di un nucleotide e il gruppo
OH al C3’ del nucleotide “precedente”.
Si chiama fosfodiestere per la presenza di un atomo di
fosforo e per la presenza dei due legami esteri, il legame
C3’-O-P da una parte e il legame C5’-O-P dall’altra.
Per essere più precisi, il legame dovrebbe essere chiamato
3’- 5’ fosfodiestere.
Naturalmente, un’importante caratteristica di questi polinucleotidi è il
fatto che le due estremità della molecola non sono uguali tra di loro.
Vediamo infatti come, nell’immagine, la parte in alto termina con un 5’fosfato e viene chiamata estremità 5’ o semplicemente anche estremità
5’-P.
All’altra estremità (3’), invece, abbiamo un gruppo OH libero e in
questo caso si parla di estremità 3’ oppure estremità 3’-OH.
Quindi, la formazione di questi legami fosfodiesterici tra i diversi
nucleotidi conferisce a ciascun polinucleotide due estremità diverse. La
possibilità di distinguere chimicamente le due estremità fa sì che la
molecola possieda una direzionalità, che va dal 5’ al 3’.
Quindi, è possibile, avendo estremità diverse, che io possa avere una
diversa direzionalità; può essere quindi sia 5’-3’ (dall’alto verso il
basso) ma anche 3’-5’ (dal basso verso l’alto).
Questo sarà molto importante perché permette di creare quella
bidirezionalità tipica della doppia elica.
NB: nelle cellule viventi i polinucleotidi vengono allungati sempre nella
direzione 5’-3’. Quindi, i nucleotidi vengono aggiunti all’estremità 3’OH libera, questo perché in natura esistono enzimi capaci di catalizzare
solo questo tipo di allungamento.
Struttura fisica del DNA: la doppia elica e i suoi
parametri strutturali
La struttura a doppia elica come la conosciamo oggi è stata riportata per la prima volta nel 1953 da
Watson e Crick, che la pubblicarono su “Nature”. La loro scoperta originò anche dall’analisi di
immagini di diffrazione dei raggi X di fibre di DNA ottenute da Rosalind Franklin e Maurice
Wilkins, che lavoravano nello stesso laboratorio.
Grazie a questa scoperta, Watson e Crick, insieme a Wilkins, ricevettero il premio Nobel.
LA STRUTTURA A
DOPPIA ELICA DEL
DNA
La struttura a doppia elica
che noi conosciamo è una
struttura costituita da due
filamenti, dove i due
polinucleotidi sono
disposti in modo tale che
lo scheletro zuccherofosfato sia rivolto verso
l’esterno dell’elica,
mentre le basi azotate
verso l’interno.
Vediamo inoltre che le
basi di un filamento si appaiano alle basi dell’altro filamento mediante dei legami idrogeno, a creare
una sorta di “scala a pioli”. Le basi si appaiano le une alle altre secondo dei legami specifici, i
legami idrogeno appunto, che determinano degli appaiamenti di Watson e Crick, che sono specifici
in base alla sequenza; in particolare:
● la guanina si appaia, formando 3 legami idrogeno, con la citosina del filamento adiacente
● l’adenina, invece, si appaia con la timina, mediante due legami idrogeno
La doppia elica descritta da Watson e
Crick, tra l’altro, prevede caratteristiche
strutturali specifiche à ha un diametro di
20 Angstrom (2 nm) e un giro d’elica
corrisponde a 34 Angstrom (3,4 nm), pari a
10,5 coppie di basi.
Inoltre, la doppia elica si rivolge intorno a
un asse centrale secondo un andamento
destrorso (normalmente).
CIASCUNA BASE SI TROVA NELLA SUA
FORMA TAUTOMERICA PREFERITA
Gli appaiamenti di basi secondo Watson e Crick
richiedono che le basi si trovino nella loro forma
tautomerica corretta (quella preferita).
Ad esempio, noi sappiamo che la citosina
normalmente ha un gruppo amminico, mentre la
guanina un gruppo chetonico. Esistono però
anche altre forme tautomeriche delle basi à ad
esempio la citosina con un gruppo imminico e la
guanina con un gruppo enolico (forme
tautomeriche più rare ma che possono avvenire e
causare errori di sintesi del DNA).
Come possiamo vedere dall’immagine, esiste una
forma tautomerica preferita (per gli appaiamenti
tra basi canonici) ed è indicata dalla freccia più
spessa.
LA STRUTTURA A DOPPIA ELICA DEL DNA
La struttura della nostra doppia elica, oltre ad avere un
avvitamento destrorso, non è affatto regolare. Si possono
infatti evidenziare due solchi spiraliformi lungo il decorso
della doppia elica. Il solco maggiore è più ampio e profondo
(larghezza di 22 Angstrom o 2 nm). Invece, l’altro solco è più
stretto e viene chiamato solco minore (larghezza di 12
Angstrom o 1,2 nm).
Solitamente, le proteine che interagiscono con il DNA, lo
fanno proprio a livello del solco maggiore, che è più ampio ed
è solito accogliere strutture ad alfa-eliche delle proteine che
interagiscono con il DNA stesso.
Ritornando alla nostra struttura a doppia elica (struttura secondaria che possiede il DNA) dobbiamo
ricordare che i due filamenti hanno due caratteristiche:
● Abbiamo già parlato degli
appaiamenti specifici tra le
basi secondo Watson e
Crick
o a causa di questo
appaiamento
altamente specifico
le sequenze dei due
filamenti
polinucleotidici
sono
complementari à
questo significa che
la sequenza di un
filamento può
essere dedotta dalla
sequenza dell’altro.
● I due filamenti della doppia elica hanno un orientamento anti-parallelo, cioè i due
polinucleotidi decorrono in senso opposto (uno in direzione 5’-3’ e l’altro in direzione 3’-5’)
Bisogna poi aggiungere che la stabilità della doppia elica è assicurata da due tipi di interazioni
chimiche:
● L’appaiamento tra basi complementari (con legami idrogeno)
● Oltre a questo, la doppia elica è stabilizzata anche dall’impilamento delle basi, le quali sono
impilate le une sulle altre
come una sorta di gradini di
una “scala a pioli”. Questo
impilamento va perciò a
stabilizzare la conformazione
della doppia elica, in quanto
implica la presenza di una
serie di forze attrattive tra le
varie coppie adiacenti che
aumentano la stabilità della
doppia elica à queste forze
attrattive sono soprattutto
delle forze deboli
(interazioni di Van der
Waals).
C’è da dire che queste coppie di basi impilate le une sulle altre non sono sovrapposte perfettamente,
ma solo parzialmente perché a causa della rotazione dell’elica, ogni coppia è girata rispetto a quella
adiacente. Questa parziale sovrapposizione è però sufficiente alle interazioni di Van der Waals
appena descritte.
MODELLO DEL DNA IN FORMA B
La struttura che abbiamo descritto finora corrisponde al modello del DNA in forma B. Questo
modello è quello che è stato descritto da Watson e Crick e che ritroviamo in soluzione acquosa e
anche negli esperimenti descritti con immagini da Rosalind Franklin.
La struttura a doppia elica in forma B è favorita da condizioni di elevata umidità ed è la più comune
in vivo e in soluzione acquosa in vitro, ma non è l’unica possibile à esistono altre forme, tra cui le
più note sono:
● La forma A à ha molte differenze rispetto alla forma B; le coppie di basi hanno una
maggiore angolatura, le grandezze sono diverse (diametro, passo dell’elica, etc., inoltre le
coppie di basi per giro d’elica sono 11 contro le 10,5 della forma B). Il DNA A ha una
forma più tarchiata rispetto alla forma B. Una cosa che le accomuna è il senso di
avvolgimento dell’elica, entrambe hanno un senso destrorso.
Il DNA assume questa forma in condizioni di bassa umidità, questo in vitro. Questa forma è
stata però trovata anche in vivo, quindi in soluzione acquosa, in un caso specifico, ovvero in
duplex che contengono uno o due filamenti di RNA à quindi duplex formati da due
filamenti di RNA oppure un filamento di DNA e uno di RNA vanno ad assumere questa
forma A, questo perché la presenza del ribosio nell’RNA, che possiede il gruppo OH in
posizione 2’, impedisce alla molecola di RNA stesso di assumere la classica forma B.
● La forma Z (“zig-zag”) à molto diversa rispetto alle precedenti. Ha un senso dell’elica
sinistrorso. Ha poi un diametro di 18 Angstrom e un passo dell’elica di 46 Angstrom, il che
dimostra che questa doppia elica ha una struttura più magra e allungata.
Altro elemento importante è che
l’impalcatura ha un andamento
insolito a zig-zag (da cui il nome
della forma); questa impalcatura è
dovuta alla particolare
conformazione del legame
glicosidico, che risulta essere per
le forme B ed A “anti”, mentre
per la forma Z abbiamo
un’alternanza di anti e di syn.
Cosa vuol dire anti e syn? Stanno
ad indicare l’orientamento rispetto al legame glicosidico tra, nel caso specifico, la guanina e
lo zucchero.
Nella conformazione anti, zucchero e base (guanina) si trovano da parti opposte rispetto al
legame beta-N-glicosidico. Invece, nel caso della conformazione in syn, si ha che la base e
lo zucchero si trovano dallo stesso lato.
Quindi:
o Il DNA Z è causato dal cambiamento di orientamento del legame glicosidico tra la
guanina e il deossiribosio
o La forma a zig-zag della forma Z è determinata da un’alternanza di conformazioni
syn (tipica della guanina e in generale delle purine) e anti (tipica della citosina e in
generale delle pirimidine) di nucleotidi contigui. Perciò, la presenza di citosina e
guanina alternate, almeno in vitro, determina questa conformazione a zig zag.
o Nelle forme B ed A la conformazione del legame glicosidico è sempre anti
Il DNA Z è stato osservato in
vitro, studiando dei DNA di
sintesi (sintetici), in cui C e G
si alternano lungo questa
sequenza. Però, è stato
osservato che anche nel DNA
presente nelle cellule,
solitamente in forma B, alcuni
tratti possono essere in forma
Z.
In particolare, nella stessa
molecola di DNA possono
coesistere tratti di DNA B e
tratti di DNA Z.
Nell’immagine a lato possiamo
anche vedere il punto dove il DNA subisce questo cambiamento di conformazione da Z a B,
determinato da questa estrusione a livello della giunzione della timina e adenina
rispettivamente.
Sono persino state isolate delle proteine che si legano in maniera specifica a questi tratti di
DNA Z all’interno del DNA B, anche se non è ancora chiaro il loro ruolo.
Questi tratti sono stati rinvenuti sia in cromosomi batterici che eucariotici, ma il ruolo non è
stato ancora chiarito, anche se si suppone possano avere importanza nella ricombinazione
genetica o nella regolazione dell’espressione genica.
DNA INTRINSECAMENTE CURVO (O PIEGATO)
Nelle immagini viste finora della doppia elica, essa appare come una struttura regolare. In realtà
questo non è il caso, questo perché il DNA può avere delle sue curvature intrinseche.
Nell’immagine a lato possiamo vedere, indicate dalle
frecce, alcune paia di basi adiacenti (es. A-T/A-T) à la
presenza di queste due coppie fa sì che si vengano a
creare dei piccoli piegamenti nella nostra doppia elica,
che quindi non è più così regolare ma si ripiega un poco.
Questo è dovuto al fatto che queste due paia di basi
adiacenti A-T hanno un’intrinseca tendenza a piegarsi
dalla parte del solco minore, mentre due paia G-C hanno
una tendenza inversa (verso il solco maggiore).
Ne risulta che la doppia elica non è perfettamente dritta
ma presenta dei piccoli piegamenti.
Se poi un tratto di DNA contiene, come nel caso C della
figura, due o tre paia di basi A-T consecutive con una
certa periodicità (per esempio circa 10 paia di basi
consecutive ripetute ad ogni giro d’elica), i piccoli
angoli di ripiegamento verso il solco minore si
sommeranno tra di loro, producendo una curvatura
dell’asse della doppia elica piuttosto apprezzabile. Questa curvatura indica un DNA intrinsecamente
curvo.
Rivedremo questo concetto quando parleremo delle sue funzioni a livello della struttura della
cromatina.
DNA A TRIPLA ELICA
Finora abbiamo parlato solo di acidi nucleici che si trovano in forma di singolo filamento o di
duplex (doppio filamento).
Poi è stato scoperto che in casi molto particolari
si possono formare anche delle regioni a tripla
elica. Questo è stato osservato in vitro, non in
vivo, però la scoperta ha riscosso un certo
interesse perché questo tipo di struttura potrebbe
offrire la possibilità di sviluppare degli inibitori
specifici per bloccare l’attività di geni bersaglio
(quindi con uno scopo potenzialmente
terapeutico).
Ad ogni modo, questa struttura è stata osservata
per DNA duplex di 20-30 coppie di basi aventi
un filamento di sole purine accoppiato con un
filamento complementare di sole pirimidine.
Questo duplex è quindi in grado di interagire,
formando una tripla elica, con una terza catena
polinucleotidica più corta (che si insinua nel solco maggiore), composta solo da pirimidine,
complementare alla sequenza purinica del duplex.
I tipi di interazione che si formano tra la terza catena e il duplex sono sempre legami idrogeno,
diversi però da quelli di Watson e Crick, che prendono il nome di interazioni o appaiamenti di
Hoogsten (indicati con un puntino). Nell’immagine C a lato possiamo vedere come A e T del
duplex interagiscano in maniera normale tra di loro; ci sono però poi altri legami idrogeno, diversi
da quelli canonici, tra A e T della terza catena.
QUARTETTI DI G (TETRAPLEX G)
Un altro tipo di interazione insolita sono i quartetti di G o tetraplex G. In questo caso, questa
struttura si forma tra 4 tratti di
DNA o RNA a singolo
filamento che contengono
ciascuno 3 o più G consecutive.
In questo modo, i 4 tratti di G si
trovano sullo stesso piano e
formano delle interazioni
(proprio una specie di
quartetto), anche in questo caso
si tratta di legami idrogeno non
canonici, ma di Hoogsten.
Questo tipo di quartetto è stato osservato in laboratorio studiando i telomeri.
I telomeri, che di solito consistono di segmenti ricchi di G, quando saggiati in laboratorio, hanno
una certa propensione a formare dei tetraplex. Non è noto se queste strutture abbiano un ruolo nella
stabilizzazione e nel riconoscimento dei telomeri in vivo.
PALINDROMI E SEQUENZE RIPETUTE E INVERTITE
Un’altra possibilità di strutture secondarie riguarda i palindromi e le sequenze ripetute e invertite.
In letteratura, un palindromo è una frase che può essere letta in entrambe le direzioni e avere lo
stesso significato. Per quanto riguarda la biologia molecolare, abbiamo due sequenze ripetute
adiacenti (non interrotte) e abbiamo poi che questa intera sequenza è ripetuta nel filamento
sottostante.
Se, invece, questa sequenza ripetuta e adiacente viene interrotta da alcune basi si parla di sequenza
ripetuta e invertita.
Queste sequenze possono essere interessanti per andare a creare delle strutture secondarie.
Per esempio, se io riprendo la sequenza ripetuta e invertita di prima, attraverso interazioni
intramolecolari tra le basi della mia sequenza ripetuta e invertita, si creano su ciascun filamento
delle strutture con stelo e ansa, creando in questo caso una struttura cruciforme.
Se questa sequenza invertita e ripetuta, poi, la ritroviamo su un DNA a singolo filamento o un RNA,
abbiamo una struttura a forcina o “stem-loop”. Queste strutture a forcina si hanno spesso nell’RNA
a singolo filamento.
LE PROPRIETÀ TERMICHE DEL DNA: LA DENATURAZIONE REVERSIBILE
Le soluzioni di DNA a doppio filamento, o anche di RNA, se si trova a doppia elica, sono molto
viscose a pH 7 e temperatura ambiente (25°C).
Quando queste soluzioni vengono
sottoposte, ad esempio, a temperature
superiori agli 80 gradi, osserviamo che la
viscosità diminuisce bruscamente,
indicando che il DNA ha subito un
cambiamento fisico, che non è altro che una
denaturazione o “fusione” della nostra
doppia elica di DNA o RNA.
La denaturazione avviene quindi quando il
DNA viene riscaldato a temperature
superiori a 80 gradi e questo riscaldamento
determina una separazione delle eliche
perché vengono distrutti i legami idrogeno
tra le basi appaiate e le interazioni deboli (di
Van der Waals) che osserviamo
nell’impilamento delle basi. In questo
modo, i due filamenti della doppia elica
vengono separati.
Ovviamente, in questo processo, non si
vanno a rompere i legami covalenti, ma solo
quelli deboli (a idrogeno e di Van der Waals).
Quando poi noi portiamo la temperatura di nuovo a valori canonici, a temperatura ambiente, si nota
che i due filamenti separati si riannilano/riappaiano; quindi, si parla di Annealing.
Quindi, denaturazione e annealing costituiscono un processo reversibile.
ASSORBIMENTO DELLA LUCE UV DA PARTE DEL DNA
È possibile andare a monitorare la transizione del DNA da doppio a singolo filamento analizzando
l’assorbimento della luce UV del nostro campione di DNA man mano che viene riscaldato.
Come possiamo vedere dall’immagine a lato, il valore di assorbanza del DNA a temperatura
ambiente è di 260 nm, questo
perché il DNA ha un
massimo di assorbimento dei
raggi UV a questo valore,
dovuto agli anelli che
costituiscono le sue basi.
Andando a riscaldare la
soluzione e monitorando
l’assorbanza, si può notare
come a un certo punto
l’assorbanza aumenta fino ad
arrivare a un plateau.
Inoltre, è possibile calcolare il Tm (Temperatura di melting o fusione), che rappresenta la
temperatura alla quale metà del DNA nel campione è denaturato.
L’assorbanza del doppio filamento è più bassa di quella del singolo filamento perché il DNA
assorbe la luce UV attraverso le basi, in particolare attraverso gli anelli aromatici. Quando le basi
sono appaiate e impilate le une sulle altre, come nella doppia elica, è ovvio che questo determina
una diminuzione della capacità del doppio filamento di assorbire la luce UV à questo è il motivo
per la minore assorbanza e questo fatto si chiama effetto ipocromico.
Viceversa, man mano che il DNA si denatura, le basi sono libere dall’impilamento e
dall’appaiamento e perciò possono assorbire più facilmente la luce UV e quindi l’assorbanza
aumenta fino ad arrivare a un picco massimo quando tutto il DNA si è denaturato.
L’aumento di assorbimento che osserviamo in questo caso è chiamato effetto ipercromico.
NB: Una molecola di DNA ricca in GC ha una temperatura di melting (Tm) maggiore di una
molecola di DNA ricca in AT, questo perché nell’accoppiamento GC si hanno 3 legami idrogeno,
mentre nell’accoppiamento AT ho solo 2 legami idrogeno; perciò, avrò più legami idrogeno da
separare in una sequenza GC rispetto a una sequenza AT e quindi necessito di una Tm maggiore
chiaramente.
Topologia del DNA e DNA topoisomerasi
SUPERAVVOLGIMENTI
Il DNA cellulare deve essere estremamente compattato e possedere un livello di organizzazione
molto elevato dal punto di vista strutturale.
Possiamo fare un paragone dello stato
del DNA all’interno delle cellule,
almeno come primo livello di
organizzazione strutturale, comparando
la doppia elica al filo del telefono.
Oltre al normale avvolgimento intorno
a un asse centrale in senso destrorso, il
filo del telefono, come anche il DNA,
può ulteriormente attorcigliarsi su sé
stesso, ovvero può superavvolgersi
(avvolgimento di qualcosa che è già
avvolto).
Ricapitolando, il DNA a doppia elica
ruota attorno al suo asse centrale (avvolgimento). Un’ulteriore torsione o ripiegamento di tale asse
su sé stesso determina un superavvolgimento (struttura terziaria) del DNA.
DUE FORME DI WRITHE (SUPERAVVOLGIMENTO)
In particolare, sono descritte due forme di superavvolgimento (anche chiamate Writhe) del DNA,
sia a livello eucariotico che procariotico.
Questi superavvolgimenti possono
essere di due tipi:
● Interwound o writhe
plectonemico à in questo
caso l’asse longitudinale della
doppia elica è avvolto su sé
stesso
● Superavvolgimento toroide o
a spirale à qui l’asse
longitudinale della doppia
elica è avvolto come attorno a
un cilindro, da cui il nome
toroide.
LINKING NUMBER
Il superavvolgimento è un aspetto intrinseco alla struttura terziaria del DNA.
Per studiare dal punto di vista quantitativo il superavvolgimento ci si è avvalsi di una branca della
matematica chiamata topologia.
Il Linking number è una misura del superavvolgimento del DNA.
● Il numero di legame (Lk, Linking number) è una proprietà topologica del DNA a doppio
filamento, cioè una proprietà che può essere modificata soltanto dalla rottura e riunione
(formazione di legami fosfodiesterici) dell’ossatura di uno o entrambi i filamenti del DNA.
o Chiaramente questo non avviene da solo, ma solo con l’intervento di un particolare
tipo di enzimi, le topoisomerasi.
● Per calcolare l’Lk si usa l’equazione: 𝐿𝑘 = 𝑇𝑤 + 𝑊𝑟
● Tw = Twist (torsione), ovvero il numero di giri della doppia elica rispetto all’asse centrale
(grado di avvitamento (o avvolgimento) della doppia elica) (per sapere il numero di giri
devo conoscere il numero di coppie di basi del DNA o di una regione specifica del DNA à
per sapere il Twist devo dividere il numero di coppie di basi del DNA di interesse per il
numero di coppie di basi per giro, che per il DNA in forma B è di 10,5 coppie di basi per
giro).
● Wr = Writhe (contorsione), ovvero il numero di volte che l’asse centrale della doppia elica si
ripiega su sé stessa formando superavvolgimenti (numero di superavvolgimento).
SUPERAVVOLGIMENTI POSITIVI E NEGATIVI
Normalmente, per spiegare la topologia del DNA, si utilizza il caso più semplice, ovvero quello di
piccoli DNA circolari come i plasmidi.
I DNA circolari chiusi sono normalmente in forma B anch’essi (quindi con 10,5 coppie di basi per
giro della doppia elica)
Nell’immagine a lato
possiamo vedere in alto il
DNA senza
superavvolgimenti (lungo
260 paia di basi in questo
caso), chiamato DNA
rilassato. Non avendo
superavvolgimenti, il DNA
rilassato non avrà il Writhe e
!"#
perciò 𝐿𝑘 = 𝑇𝑤 = $#,& = 25.
Tuttavia, i DNA circolari
chiusi raramente sono
rilassati à questo vale anche
per i DNA eucariotici e
quindi i cromosomi lineari eucariotici; in generale possiamo dire che il DNA all’interno delle
cellule raramente è rilassato e solitamente sottoposto a una tensione tale da indurre dei
superavvolgimenti.
In generale, quindi, il DNA in natura è superavvolto e i superavvolgimenti possibili possono essere:
● Negativi à consistono in una rotazione in senso opposto (sinistrorso) a quello di
avvolgimento del DNA duplex.
o 𝐿𝑘 = 𝑇𝑤 + (−𝑊𝑟) = 25 − 2 (𝑝𝑒𝑟𝑐ℎé 𝑐𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 2 𝑖𝑛𝑐𝑟𝑜𝑐𝑖 𝑖𝑛 𝑓𝑖𝑔𝑢𝑟𝑎) = 23
● Positivi à consistono in una rotazione nella stessa direzione (destrorso) dell’avvolgimento
del duplex.
o 𝐿𝑘 = 𝑇𝑤 + 𝑊𝑟 = 25 + 2 = 27
Per capire graficamente quando ho un superavvolgimento positivo o negativo, bisogna guardare il
segmento superiore del DNA ripiegato:
● Nei superavvolgimenti negativi il segmento di DNA che sta davanti incrocia il segmento che
sta dietro da destra verso sinistra (partendo dall’alto)
● Viceversa, nel superavvolgimento positivo il segmento davanti incrocia il segmento dietro
da sinistra verso destra.
● Il DNA nelle cellule (sia DNA circolari procariotici che DNA dei cromosomi eucariotici) è
normalmente superavvolto negativamente.
● Dal punto di vista biologico i superavvolgimenti negativi possono essere considerati come
un meccanismo di immagazzinamento dell’energia libera (tensione) che aiuta quei processi
che richiedono una separazione dei due filamenti della doppia elica come la replicazione o la
trascrizione (proprio grazie a questa tensione immagazzinata, cosa che non si ha nel DNA
rilassato).
● Le regioni di DNA superavvolto negativamente hanno la tendenza a disavvolgersi
localmente (come quando si avvolge un’altalena e che, appena rilasciata, comincia a
srotolarsi in maniera naturale), per cui la separazione dei due filamenti è più favorita nel
DNA superavvolto negativamente piuttosto che nel DNA rilassato.
I NUCLEOSOMI INTRODUCONO SUPERAVVOLGIMENTI NEGATIVI NEL DNA
DEGLI EUCARIOTI
Il DNA negli eucarioti è attorcigliato attorno alle
proteine istoniche per formare i nucleosomi (di
cui parleremo più avanti), così si vengono a
presentare dei superavvolgimenti negativi à i
nucleosomi, infatti, rappresentano un classico
esempio di superavvolgimenti negativi (che sono
infatti tipici del DNA nelle cellule).
Inoltre, i nucleosomi sono superavvolgimenti di
tipo toroide.
NB: il superavvolgimento toroidale è tipico del
DNA eucariotico, di grandi dimensioni,
impacchettato all’interno del nucleo.
STRUTTURA DEL CROMOSOMA
MITOTICO
Andando a vedere la struttura del cromosoma
mitotico, il DNA è organizzato in vere e proprie
anse di cromatina, le cui estremità sono fissate a
una struttura proteica (impalcatura proteica) e in
queste anse ci sono i nucleosomi à ogni ansa
avrà un certo grado di superavvolgimento (una
certa topologia) che possiamo analizzare con il
Linking number.
DOMINI DEL DNA SUPERAVVOLTO NEL CROMOSOMA DI E. coli
Anche il cromosoma circolare di E. coli è
organizzato in maniera simile a quello
eucariotico à anch’esso non è mai rilassato; il
DNA forma delle anse tenute ferme da proteine
strutturali e ogni ansa ha una certa topologia
(che può essere DNA rilassato ma il più delle
volte sarà con superavvolgimenti plectonemici o
toroidali, quest’ultimi attorno a delle proteine
non indicate in figura).
Si presenta anche del DNA curvato (dato da
sequenze ripetute regolarmente di coppie di basi
uguali).
Ricorda: ogni ansa, sia nei procarioti che negli
eucarioti, in virtù di questi superavvolgimenti avrà un certo Linking number e quindi un certo grado
di superavvolgimento.
EFFETTI DELLA REPLICAZIONE E DELLA TRASCRIZIONE SUL
SUPERAVVOLGIMENTO DEL DNA
Fino ad ora abbiamo parlato di superavvolgimenti negativi come forma naturale in cui si trova il
DNA nelle cellule, ma si hanno anche superavvolgimenti positivi che si creano per effetto della
replicazione e della trascrizione à per capire questo fenomeno si può immaginare che il DNA sia
rappresentato da due nastri avvolti a creare la doppia elica. Le due estremità sono tenute ferme dalle
mani. Se tengo un’estremità ferma e l’altra la apro, creando tensione, come avviene durante la
replicazione e trascrizione, il DNA subisce questa tensione e, non avendo la possibilità di scaricare
l’energia dell’apertura di un’estremità (poiché l’altra estremità è ferma e quindi non si hanno
estremità libere à le
estremità del DNA sono
ancorate a proteine
strutturali, sia in E. Coli. che
negli eucarioti), si vanno a
formare dei
superavvolgimenti positivi a
valle dell’apertura/bolla di
replicazione o trascrizione (e
quindi si avrà un ulteriore
aggrovigliamento).
Quest’ulteriore
aggrovigliamento non può
però essere risolto da solo
proprio perché il DNA in
questo caso è maggiormente aggrovigliato e il superavvolgimento positivo non ha la tendenza a
separarsi spontaneamente come quello negativo. Questo perché il superavvolgimento positivo è
nello stesso senso dell’avvolgimento della doppia elica e quindi è come se il DNA semplicemente si
attorcigliasse di più.
Per rimuoverlo saranno necessarie le topoisomerasi.
SEPARAZIONE DI TOPOISOMERI MEDIANTE ELETTROFORESI SU GEL DI
AGAROSIO
È possibile studiare questi livelli di superavvolgimenti anche attraverso l’elettroforesi su gel di
agarosio.
In particolare, attraverso questa tecnica, posso separare i topoisomeri, che sono le molecole di DNA
circolari covalentemente chiuse aventi la stessa lunghezza ma Linking number differente (quindi un
diverso grado di superavvolgimenti).
Ricordiamo che il DNA può essere separato all’interno di un gel di agarosio migrando da un polo
negativo a un polo positivo, questo perché il DNA è carico negativamente (a causa delle cariche
negative dei gruppi fosfato dello scheletro) e quindi è attratto dal polo positivo.
Nell’immagine A vediamo le elettroforesi di 3 campioni diversi e che vengono fatti migrare
applicando il campo elettrico.
Nell’immagine possiamo vedere che
è stata caricata la stessa molecola di
DNA plasmidico (identica per
tipologia e dimensioni) ma in forme
diverse:
● Nella linea 1 viene caricata
nella sua forma superavvolta
● Nella linea 2 nella forma
circolare rilassata (ad opera
di topoisomerasi che
rimuovono appunto i
superavvolgimenti)
● Nella linea 3 nella forma
tagliata per opera di una
endonucleasi, la quale ha linearizzato quindi il DNA
1, 2 e 3 sono quindi lo stesso DNA ma trattato in maniera differente e che quindi migra in modo
diverso in base allo stato in cui si trova.
Il fatto che il DNA superavvolto migri più velocemente è dovuto al fatto che esso è più compatto e
quindi riesce a entrare meglio nelle maglie del gel e perciò a migrare più velocemente.
Quello rilassato è ovviamente quello più lento e quello linearizzato è una via di mezzo.
Nell’immagine B vediamo che in questo caso si ha:
● la preparazione di DNA plasmidico nella forma superavvolta nella linea 1 ma che contiene
anche una certa quantità di forma rilassata
● Nelle linee 2 e 3 questa quantità di DNA plasmidico è stata trattata per tempi crescenti con
una topoisomerasi à vediamo infatti molte bande intermedie che non rappresentano altro
che il DNA che contiene un numero di superavvolgimenti diversi e, in particolare,
progressivamente minore. Si vede infatti che via via la banda del rilassato aumenta e questi
intermedi si riportano sempre più verso la forma rilassata.
Queste bande rappresentano quindi tanti topoisomeri.
DNA TOPOISOMERASI
● Lk può essere modificato soltanto dalla rottura e riunione (formazione di legami
fosfodiesterici) dell’ossatura di uno o entrambi i filamenti del DNA grazie all’azione delle
DNA topoisomerasi.
Esistono due classi:
● Topoisomerasi I: permettono di modificare il valore di Lk di una unità alla volta. Esse
determinano la rottura temporanea di un singolo filamento del DNA duplex, consentendo
così al filamento integro di passare attraverso la rottura dell’altro prima che il nick venga
saldato.
o Non richiedono ATP.
● Topoisomerasi II: permettono di modificare il Lk di due unità. Esse determinano una rottura
temporanea dei due filamenti del DNA attraverso la quale fanno passare il duplex integro,
prima che il taglio venga rinsaldato.
o Richiedono l’energia di idrolisi dell’ATP (non tanto per tagliare il DNA ma per
consentire i cambiamenti conformazionali che si vengono a creare tra la
topoisomerasi e il DNA stesso).
NB: Le topoisomerasi tagliano il legame fosfodiesterico dello scheletro zucchero-fosfato, senza
eliminare i nucleotidi (al contrario delle eso - o endonucleasi).
MECCANISMO D’AZIONE DELLA TOPOISOMERASI I
Nell’immagine a fianco è riportato il meccanismo d’azione semplificato della topoisomerasi I,
indicata con una forbice à la topoisomerasi I taglia uno dei due filamenti, rompendo un legame
fosfodiesterico, fa poi passare il filamento integro attraverso la rottura/nick e, una volta passato, la
rottura viene rinsaldata
sempre dalla topoisomerasi.
La topoisomerasi, tra l’altro,
funziona attraverso un
meccanismo chiamato a
ponte, cioè è composta da
diverse subunità che, una
volta tagliato uno dei due
filamenti, vanno ad afferrare
le due estremità della rottura,
in modo da tenerle vicine e
creare uno spazio sufficiente
per far passare il filamento integro.
L’enzima si mette quindi proprio a ponte sulla struttura, a cavallo delle due estremità (un ponte
enzimatico).
Una volta che il passaggio è avvenuto l’enzima ponte fa avvicinare di nuovo le due estremità,
cambiando la sua conformazione, così poi la topoisomerasi rinsalda il legame fosfodiesterico.
MECCANISMO D’AZIONE DELLA TOPOISOMERASI II
Anche le topoisomerasi II nell’immagine vengono indicate con una forbice e tagliano due filamenti
del DNA circolare in figura. Fa poi passare anch’essa la doppia elica integra attraverso il taglio e
poi la rottura viene rinsaldata. Il
meccanismo è quindi molto simile
a quello precedente, anche se qui
vengono tagliati entrambi i
filamenti.
L’enzima, per fare tutti i suoi
cambiamenti conformazionali del
complesso topoisomerasi-DNA,
che consentono di tenere le due
estremità vicine, di far passare la
doppia elica integra e far
riavvicinare le due estremità e
rinsaldarle, viene a utilizzare l’idrolisi dell’ATP, come già detto.
Il modello di questo meccanismo d’azione viene chiamato a doppio cancello, questo perché più
complesso, con due subunità (una per ciascun filamento di DNA).
LE TOPOISOMERASI DECATENANO, DISTRICANO E SNODANO IL DNA
Le due classi di topoisomerasi sono comuni sia per i procarioti che per gli eucarioti e sono in grado
di rimuovere superavvolgimenti presenti sulle molecole di DNA.
Nei procarioti esiste poi una speciale topoisomerasi di classe II che si chiama DNA Girasi e che,
anziché rimuovere superavvolgimenti, introduce superavvolgimenti negativi à questo è molto
importante perché, come già sappiamo, la presenza di superavvolgimenti nel DNA facilita la
denaturazione della doppia elica per replicazione e trascrizione del DNA stesso.
Le topoisomerasi svolgono però anche altre funzioni:
● Le topoisomerasi II possono infatti
concatenare e decatenare DNA circolari
covalentemente chiusi, andando a
introdurre una rottura su una delle due
molecole, sul doppio filamento di una
delle due molecole.
● Stessa cosa la possono fare anche le
topoisomerasi I, purché una delle due
molecole abbia una regione a singolo
filamento
● Le topoisomerasi II possono andare a
separare molecole di DNA molto lunghe
e attorcigliate, cosa che si verifica spesso
durante la replicazione dei cromosomi
eucariotici, che devono venir districati
dalle topoisomerasi.
● Infine, si possono creare delle situazioni
un po' più complesse, in cui i DNA
annodati possono essere snodati sempre per mezzo dell’azione delle topoisomerasi II.
LE TOPOISOMERASI TAGLIANO IL DNA USANDO COME INTERMEDIO UNA
TIROSINA COVALENTEMENTE LEGATA AL DNA
Entrambe le classi di topoisomerasi vengono a tagliare il DNA utilizzando un residuo di tirosina
presente nel loro sito attivo.
Nell’immagine sottostante è riportato l’esempio della topoisomerasi I, ma lo stesso vale anche per
la seconda classe (sebbene siano necessarie due subunità in questo caso, una per ogni filamento di
DNA da tagliare). Ad ogni modo, che io abbia una subunità come nel caso della topoisomerasi I o
due subunità come la classe II, nel sito attivo c’è il residuo di tirosina, grazie al quale la
topoisomerasi interviene nel tagliare e creare poi un intermedio covalente con il DNA.
In particolare, nell’immagine è rappresentato, per semplicità, un singolo filamento di DNA à la
topoisomerasi, con il suo residuo di tirosina, grazie al suo gruppo OH, fa un attacco nucleofilo sul
filamento di DNA a livello del legame fosfodiesterico, rompendolo e creando un nuovo intermedio
covalente tra la tirosina e il gruppo fosfato del DNA.
Nel caso specifico dell’immagine, vediamo come lo scheletro zucchero fosfato è stato interrotto e
l’estremità liberata (in questo caso una 5’) viene a formare un legame covalente con la tirosina,
chiamato legame fosfotirosinico.
La formazione di questo intermedio covalente viene poi dopo ad essere colpito dall’estremità 3’-OH
liberata, la quale fa un attacco nucleofilo su questo legame fosfotirosinico; in questo modo libera
l’enzima che può andare a colpire un altro filamento e la rottura viene rinsaldata. Ovviamente,
questo rinsaldamento avviene solo dopo che attraverso la rottura è stata fatto passare il filamento
intatto.
Struttura dell’RNA
CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELL’RNA
L’RNA ha diverse caratteristiche:
● Rispetto al DNA è costituito da un singolo filamento
● Anche in questo caso
i nucleotidi sono
tenuti assieme da
legami
fosfodiesterici e
perciò anche l’RNA
avrà una
direzionalità
● Lo zucchero è il
ribosio (con un OH
in posizione C2’),
non il deossiribosio
● La timina nell’RNA
è sostituita
dall’uracile che, però, mantiene la stessa capacità di appaiamento con l’adenina, formando
due legami idrogeno
o La differenza tra timina e uracile è semplicemente l’assenza del metile in posizione 5
nell’uracile (quindi è praticamente una timina demetilata)
CARATTERISTICHE DELL’RNA
Ricapitolando le differenze strutturali rispetto al DNA:
1. Ribosio
2. Uracile
3. Singola catena polinucleotidica à grazie a ciò ha la possibilità di formare diversi
appaiamenti intramolecolari e assumere diverse strutture secondarie (anche complesse) e
questo conferisce all’RNA diversi ruoli
Funzioni (ruoli) dell’RNA:
1. Intermediario (mRNA) à consente di copiare l’informazione contenuta nel DNA a RNA,
per poi venir tradotta in proteina
2. Adattatore (tRNA o RNA-transfer) à sono RNA di raccordo tra i codoni presenti
sull’mRNA e gli amminoacidi (una sorta di ponte per l’amminoacido che deve essere
aggiunto alla proteina in base al codone presente sull’mRNA)
3. Strutturale (rRNA) à è uno dei componenti dei ribosomi
4. Regolatore (RNA regolatori) à ne esistono diversi tipi (primo fra tutti i microRNA) e che
hanno la funzione di regolare l’espressione genica di geni bersaglio, colpendo ad esempio
gli stessi mRNA
5. Enzimatica (ribozimi)
TIPI DI RNA
LE CARATTERISTICHE DELLA DOPPIA ELICA DI RNA
Nonostante l’RNA sia a singolo filamento, è comunque in grado di formare delle strutture a doppia
elica, questo perché, essendo a singolo filamento, è una molecola molto flessibile e può creare delle
strutture secondarie con
regioni anche a doppia
elica mediante interazioni
intramolecolari à
ovviamente queste
interazioni non prevedono
che io abbia una struttura a
doppia elica così regolare
come quella del DNA, ma
possiamo avere strutture
già viste come strutture a
forcina o stem-loop,
regioni che creano delle
biforcazioni, anse interne dove le basi non sono appaiate oppure basi che vengono estruse
all’esterno perché non c’è la corrispondente complementare (si parla in questo caso di gemma), o
tratti semplicemente a filamento singolo.
Le strutture secondarie dell’RNA, quindi, sono piuttosto variegate.
APPAIAMENTO DELLE BASI G:U NELL’RNA
Nell’RNA possiamo osservare, oltre alle classiche interazioni GC e AU (ovvero secondo Watson e
Crick), anche degli appaiamenti insoliti
come GU à dove vediamo che si formano
due legami idrogeno tra l’O in posizione C6
della guanina e l’H in posizione N3
dell’uracile e tra l’H in posizione N1 della
guanina e l’O in posizione C2 dell’uracile.
Questo appaiamento insolito non è però così
poco frequente per l’RNA à infatti,
nell’RNA ribosomiale gli accoppiamenti GA
e GU sono i più abbondanti.
Quindi, nell’RNA è facile trovare altri appaiamenti più insoliti oltre a quelli canonici di Watson e
Crick.
PSEUDONODI
Avendo la molecola una certa flessibilità, essendo a singolo filamento, possiamo avere regioni, a
forcina per esempio come
nell’immagine, che hanno nell’ansa
delle basi disponibili, possono andare
ad appaiarsi con sequenze
complementari non contigue, creando
strutture più o meno complesse
chiamate pseudonodi (sono quindi
strutture formate da appaiamento di
basi fra sequenze complementari che
non sono contigue).
LA TRIPLETTA DI BASI U:A:U
Inoltre, è possibile addirittura avere delle triplette di basi, sempre tramite legami a idrogeno, che
coinvolgono appunto 3 basi à è
molto frequente la tripletta UAU,
per esempio, nel tRNA.
Quindi, si vengono a creare delle
vere e proprie strutture terziarie
in virtù del fatto che l’RNA,
essendo più “flessibile” del DNA,
può ripiegarsi e creare delle
strutture anche piuttosto
complesse, in quanto l’RNA ha proprio la possibilità di ruotare molto facilmente attorno ai legami
fosfodiesterici per ripiegarsi. Così ha anche una maggiore capacità rispetto al DNA di formare
interazioni intramolecolari.
NB: Quando l’RNA forma queste regioni a doppia elica, la conformazione è solitamente di tipo A
à infatti, la presenza del ribosio, con il suo OH in più, impedisce a doppie eliche di RNA di
assumere la forma B.
Struttura del genoma, cromatina e nucleosoma
I punti che verranno trattati sono:
● Genomi procariotici ed eucariotici
● Impacchettamento del genoma batterico e del DNA eucariotico
● Nucleosomi e proprietà strutturali e funzionali della cromatina
● Regolazione della cromatina
Genomi procariotici ed eucariotici
Geni e cromosomi
● I geni sono segmenti di DNA che contengono il codice per una proteina specifica e, quindi,
contengono tutte le informazioni per codificare/specificare/produrre una proteina specifica
● I cromosomi sono strutture all’interno delle cellule che contengono i geni di un organismo
● Il cromosoma contiene un numero variabile di geni in base all’organismo
● Il numero di cromosomi può essere differente, ad esempio, ogni cellula umana contiene 23
coppie di cromosomi, per un totale di 46 cromosomi
Il cromosoma può essere circolare o lineare
Il cromosoma può essere circolare o lineare. Nei procarioti, normalmente, il cromosoma è circolare,
anche se vi sono delle eccezioni come l’Agrobacterium, uno dei pochi procarioti che ha anche un
cromosoma lineare.
Quindi, il cromosoma è circolare ed è presente in numero pari a 1 e a singola copia (anche in questo
caso vi sono delle eccezioni, ovvero il numero di cromosomi per alcuni procarioti può essere anche
maggiore di 1).
In generale, ad esempio in E. coli, uno degli organismi più studiati, il numero di cromosomi è
unitario, a singola copia e circolare.
Negli eucarioti il numero di cromosomi è variabile, ma sicuramente maggiore di 1 (ad esempio il
lievito ne ha 16, mentre nell’uomo vi sono 22 cromosomi + i due cromosomi sessuali X e Y).
Normalmente il numero di copie è due, però, come nel lievito, ci sono delle eccezioni. In tutti i casi
i cromosomi sono lineari, perciò sono lunghe catene.
Confronto fra cellula eucariotica e procariotica
La cellula procariotica è una cellula più piccola, con un
diametro medio di 1 micrometro.
La cellula eucariotica è più grande ed ha un diametro pari a
10-100 micrometri.
La cellula
procariotica
presenta un DNA,
non contenuto nel
nucleo, ma
organizzato in una
struttura, chiamata NUCLEOIDE, che è circolare e
comprende anche dei plasmidi.
I plasmidi sono DNA circolari di piccole dimensioni, indipendenti rispetto al cromosoma batterico,
che non sono indispensabili per la crescita della cellula ma sono importanti perché le forniscono
delle proprietà aggiuntive, come la resistenza agli antibiotici.
Nella cellula batterica vi è un solo cromosoma e si parla, quindi, di cellula aploide.
Negli eucarioti, le cellule sono diploidi, quindi si hanno due copie
per ogni cromosoma, una che proviene dalla madre e una dal padre e
si parla quindi di cromosomi OMOLOGHI.
Il DNA è contenuto all’interno del nucleo (= struttura subcellulare,
avente una membrana cellulare che lo separa dal resto del
citoplasma).
Non tutte le cellule eucariotiche sono diploidi ma ci sono delle
cellule eucariotiche aploidi, in cui il DNA, quindi i cromosomi, è a
singola copia e questo è tipico degli spermatozoi e delle uova, quindi
cellule che sono coinvolte nella riproduzione sessuale.
Questa tabella mette a confronto diversi esempi di batteri ed eucarioti, focalizzandosi sulla
grandezza del genoma, il numero approssimativo dei geni e la densità genica:
Quando si parla di grandezza del genoma, si intende la lunghezza del DNA in un assetto
cromosomico aploide. Viene misurata in megabasi (1 megabase = 1 milione di paia di basi).
La grandezza del genoma, nel caso dei procarioti, intesi come batteri, ha delle dimensioni inferiori
alle 10 megabasi.
Negli eucarioti, per quanto riguarda quelli unicellulari, il genoma ha una dimensione inferiore alle
50 megabasi mentre gli organismi eucarioti multicellulari hanno delle dimensioni maggiori fino a
raggiungere anche dimensioni superiori alle 100.000 megabasi, come per il DNA del tulipano.
Quello che sorprende è il fatto che organismi, che dal punto di vista della complessità non sono
similari, abbiano una grandezza del genoma simile.
Ad esempio, il genoma dell’homo sapiens ha una grandezza del genoma di 3200 megabasi, che è
similare a quella del grano turco che è 2200, anche se la complessità dell’organismo è differente.
Questo evidenzia come non sia tanto la grandezza del genoma ad essere correlata alla complessità
dell’organismo, ma piuttosto che ci sia una correlazione più diretta tra la complessità
dell’organismo e il numero di geni, in particolare la densità genica.
Se si vede il numero approssimativo di geni nei procarioti, si nota che è minore rispetto agli
eucarioti.
Organismi più semplici hanno un numero di geni minore rispetto a organismi più complessi.
La densità genica rappresenta il numero di geni che sono all’interno di una megabase di DNA e
viene ottenuta dividendo la grandezza del genoma di quell’organismo per il numero approssimativo
di geni.
Si nota come i batteri hanno una densità genica maggiore rispetto agli eucarioti, soprattutto quelli
più complessi, perché?
La densità genica diminuisce all’aumentare della complessità dell’organismo eucariotico.
Questo è dovuto a 2 fattori:
1) I geni negli eucarioti superiori hanno dimensioni maggiori, a causa della presenza di introni. Un
gene umano ha solo un 5% di
regione che codifica per la proteina,
mentre il 95% è costituito da introni,
sequenze non codificanti.
Nel DNA vi sono regioni codificanti,
gli esoni, che vengono separate dagli
introni.
Quando il DNA viene trascritto a RNA, vengono copiati anche gli introni (trascritto primario) e
l’mRNA che viene utilizzato per la traduzione delle proteine è soggetto a splicing, processo di
maturazione, dove gli introni vengono rimossi e gli esoni vengono saldati gli uni con gli altri.
Nei procarioti, dove vi è una densità
genica pari a 950 geni/Mb, il numero
medio di introni è pari a 0.
Negli eucarioti il numero medio di introni
è più alto come in h. sapiens, che ha una
densità genica pari a 6,25 e un numero
medio di introni pari a 6.
2) Il DNA esistente tra i geni è in quantità
elevata. A livello del DNA vi sono
diverse sequenze intergeniche che non sono strettamente correlate con i geni stessi.
I geni che codificano per RNA funzionale servono per la sintesi delle proteine (rRNa, tRNA,
microRNA, ecc.)
Gli PSEUDOGENI derivano da un effetto collaterale, in
seguito a un'infezione virale; infatti, questi virus per
replicarsi utilizzano una trascrittasi inversa, che serve a
replicare il loro RNA a cDNA (= copie di DNA a doppio
filamento), il quale può reintegrarsi con bassa efficienza
nel genoma, in modo casuale.
Viene definito pseudogene perché, a differenza del gene
funzionale o strutturale, non ha sequenze regolatrici e
quindi sono sequenze che non vengono espresse
Le sequenze a basso numero di copie sono poco ripetute all’interno del genoma e non si conosce
bene la loro funzione.
Gli elementi interspersi sono soprattutto trasposoni, ovvero delle sequenze di DNA che da una
regione si spostano ad un’altra in maniera casuale, lasciando una copia originaria di sè nel punto da
cui si sono spostati.
Le ripetizioni in tandem, ovvero DNA satellite (NB: dire DNA satellite o ripetizioni in tandem è la
stessa cosa) possono essere suddivisi in:
● Minisatelliti (sequenze di 10-15 pb che sono ripetute fino a 1000 volte all’interno del
genoma
● Microsatelliti (segmenti di 2-6 pb presenti fino a 100 volte consecutive)
Sono degli elementi altamente ripetuti all’interno del genoma e contribuiscono a far parte delle
sequenze intergeniche.
La presenza delle sequenze intergeniche va a diminuire la densità genica che si trova a livello del
DNA, perché, accanto ai geni che codificano per le proteine, vi è tanta quantità di DNA non
codificante, che va a determinare una diminuzione della densità genica.
Impacchettamento del genoma batterico e del DNA
eucariotico
Il nucleoide non è piccolo, ma va a riempire
una parte dello spazio intracellulare ed è
organizzato in modo tale che il DNA
circolare si organizzi in circa un centinaio di
anse, le quali hanno una lunghezza di 40
Kbp e che sono ancorate a dei complessi
proteici strutturali, che rendono ogni ansa
indipendente dal punto di vista topologico,
quindi avranno un proprio linking number.
Il DNA in ogni ansa può essere rilassato, avere dei superavvolgimenti plectonemici o toroidali.
CAMBIAMENTI DELLA STRUTTURA DELLA CROMATINA:
Cromatina interfasica e cromosomi mitotici
Nel caso delle cellule eucariotiche, dove il DNA è contenuto nel nucleo, il materiale genetico viene
a costituire, nei nuclei, la CROMATINA, o massa cromatinica.
La cromatina subisce dei cambiamenti molto vistosi durante il ciclo cellulare (la cui fase principale
è l’interfase, costituita da fase G1, S e G2, durante le quali il DNA viene trascritto e duplicato e le
fibre si trovano in uno stato più rilassato).
Durante l’interfase:
Le molecole di DNA delle cellule eucariotiche sono organizzate a formare delle anse di 30-100
Kpb, ancorate alla matrice cellulare (grigio più scuro nell’immagine). Ogni ansa ha ulteriori livelli
di organizzazione strutturale/compattazione che vanno da una fibra da 10nm a una fibra da 30nm.
La fibra di 10 nm è un DNA avvolto
attorno a delle proteine istoniche e
viene chiamata a COLLANA DI
PERLE, poiché ricorda con i
nucleosomi una collana di perle.
Se poi nella fibra da 10nm è presente una proteina H1, la fibra si può ulteriormente complessare, in
quanto l’H1 avvicina i vari nucleosomi. Questa struttura elicoidale, dove i nucleosomi sono più
vicini, viene chiamata SOLENOIDE,
con 6 nucleosomi per giro, e compatta
ulteriormente il DNA. La fibra viene
chiamata di 30 nm, poiché ha un
diametro di 30 nm.
I diversi livelli di organizzazione strutturale sono apprezzabili nelle anse di 30-100 Kpb che si
trovano a livello dell’interfase.
La matrice nucleare è un reticolo insolubile di varie
proteine scheletriche e nel DNA esistono sequenze
specifiche che gli consentono di ancorarsi alla matrice
nucleare durante l'interfase.
Le componenti principali sono proteine scheletriche e
fondamentali per andare ad agire sul DNA che si
ancora ad essa, in particolare le topoisomerasi II
(enzimi che vanno a regolare la topologia, il grado di
superavvolgimento del DNA) e le proteine SMC
(proteine che aiutano a mantenere la struttura del cromosoma, come le condensine, che vanno a
condensare il DNA nelle strutture a livello organizzativo più complesse).
Durante la mitosi:
I cromosomi si compattano ancora di più in quelli che
sono i tipici cromosomi mitotici e anche in questo caso
è mantenuta una struttura di anse cromatiniche, con i
nucleosomi, di 30-100 Kpb, che sono ancorati però a
una vera impalcatura proteica che attraversa l’intero
cromosoma e non a una matrice.
L’impalcatura proteica contiene le topoisomerasi II e le
condensine, che servono a condensare il DNA, e anche in questo caso il DNA contiene le sequenze
specifiche per farlo ancorare a questa impalcatura tipica dei cromosomi mitotici.
La cromatina interfasica ha gradi diversi di condensazione del materiale genetico
In base al fatto che il DNA deve essere replicato o trascritto può essere sotto diverse forme.
Nella maggior parte dello spazio nucleare le fibre cromatiche appaiano disperse (spesso si fa
l’analogia con un piatto di spaghetti) e questo stato di cromatina prende il nome di
EUCROMATINA, sinonimo di un minor livello di organizzazione/compattazione rispetto al
cromosoma mitotico e quindi vi sono alti livelli di espressione genica. Il DNA è impegnato ad
essere trascritto e replicato e non può essere condensato perché se lo fosse non sarebbe più
accessibile agli enzimi che si impegnano a replicare o trascrivere il DNA.
In alcune regioni del nucleo si osservano delle fibre cromatiniche più compatte e condensate e la
cromatina prende il nome di ETEROCROMATINA, ed è sinonimo di una ridotta espressione
genica.
In realtà l’eterocromatina interfasica può essere distinta in due tipi:
COSTITUTIVA: riguarda regioni del genoma che non sono codificanti e quindi ha un ruolo
strutturale à ad esempio i centromeri.
FACOLTATIVA: tale solo in certe situazioni, che riguarda regioni del DNA che codificano per
proteine, come ad esempio una proteina che può essere espressa in un tessuto muscolare e non in un
tessuto adiposo.
Se una proteina viene espressa in un tessuto muscolare, il DNA sarà meno condensato, quindi sotto
forma di eucromatina, mentre quella stessa regione codificante nel tessuto adiposo, dove la proteina
non deve essere espressa, viene condensata.
L’eterocromatina facoltativa riguarda particolari situazioni in cui vi sono regioni che devono essere
espresse in un certo tipo cellulare e in un altro no.
Quando si parla di questo stato, nel nucleo in cui si ha la massa cromatinica, vi sono delle regioni
MISTE, regioni nel nucleo dove vi sono fibre della cromatina sotto forma di eucromatina e altre di
eterocromatina, facoltativa o costitutiva.
Il massimo grado di compattamento sono i cromosomi mitotici
Rap. imp.: rapporto di impacchettamento rispetto al DNA non impacchettato nelle proteine
istoniche.
Quando il DNA è avvolto intorno ai nucleosomi si ha un rapporto di 6 rispetto a una molecola di
DNA non avvolta, fino ad arrivare a un rapporto di 10.000, che è il massimo livello di
compattamento possibile per il DNA.
Cromosoma mitotico
Il cromosoma mitotico contiene due filamenti (indicati in grigio),
chiamati cromatidi fratelli, che si ottengono dopo che il DNA è
stato replicato.
Questi due cromatidi fratelli sono tenuti insieme da una regione che
si chiama centromero.
Ciascun cromatidio contiene due telomeri, un centromero e più
origini di replicazione.
Le origini di replicazione sono siti sul DNA dove si viene ad
assemblare tutto il complesso proteico deputato ad iniziare la
replicazione.
Solitamente, nei cromosomi eucariotici, queste origini di replicazione sono più di una, infatti sono
posizionate ogni 30-40 Kpb e sono molteplici.
Nei cromosomi dei procarioti vi è una sola origine di replicazione, quindi, contengono un solo sito
di inizio della replicazione.
Queste origini di replicazione sono posizionate in regioni del DNA che non sono codificanti.
I centromeri sono utili per tenere insieme i due
cromatidi fratelli ma anche per consentire una
corretta segregazione dei cromosomi omologhi
dopo la replicazione.
I centromeri vengono ad associarsi con un
complesso proteico, chiamato cinetocore.
Il cinetocore è un complesso proteico che viene
ad unirsi con i microtubuli cellulari, consentendo
una corretta separazione dei cromosomi ai due poli della cellula, che si dividerà dando le due cellule
figlie.
Nella maggior parte degli eucarioti superiori i centromeri hanno dimensioni > 40 Kpb e contengono
numerose sequenze ripetute.
Negli eucarioti unicellulari, come il lievito, sono più corti, si è intorno alle 200 pb.
a) È importante che per
ogni cromosoma o
cromatidio fratello si
abbia un solo centromero,
in modo tale che si abbia
un solo cromosoma per
ciascuna cellula figlia.
b) Se i centromeri non ci
sono, si avrà che i
cromosomi non segregano
in maniera corretta e si
avrà una segregazione
casuale. Una cellula figlia
sarà priva di un
cromosoma e l’altra invece ne avrà due.
c) Se si hanno invece due centromeri, che vengono ad associarsi al cinetocore, si possono avere
delle rotture del cromosoma con conseguente perdita del materiale genetico.
Telomeri
I telomeri vengono riconosciuti da
delle proteine, che hanno la
funzione di proteggere queste
estremità da rotture o danni e oltre a
queste proteine, si ha un’altra tipologia di proteina, ovvero le telomerasi (= gli enzimi deputati a
replicare le estremità dei cromosomi). La telomerasi è una particolare DNA polimerasi, diversa da
quella che replica il resto del DNA e anche il meccanismo con cui replica queste estremità è diverso
rispetto a quello utilizzato per il resto del DNA.
Quindi, i telomeri vengono ad associarsi a proteine: sia proteine che li proteggono da eventuali
rotture, sia proteine coinvolte nella loro replicazione.
I telomeri presentano una sequenza ripetuta (quella nel quadrato marroncino). Il telomero non è
tutto a doppia elica perché ha una regione terminale al 3’, lunga, che può comprendere anche
centinaia di basi a singolo filamento.
La barretta sta ad indicare che questa sequenza a singolo filamento è molto lunga, ovvero centinaia
di basi e non può essere riportata nel disegno.
Questa estremità è ricca di 3 G consecutive e il DNA telomerico, può, avendo 3 G consecutive,
organizzarsi in strutture a quartetti di G, ripiegato su sé stesso e le G che si trovano sullo stesso
piano vengono a creare degli appaiamenti di Hoogsten e a creare, appunto, questo tipo di
interazioni, che pare stabilizzino, anche se non si è certi, la struttura del telomero.
Affinché questi cromosomi mitotici vengano a condensarsi durante la mitosi hanno bisogno di una
serie di proteine che fanno parte della famiglia indicata con le lettere SMC (= Structural
Maintenance of Chromosome). Sono proteine che mantengono la struttura del cromosoma.
In particolare, queste proteine servono a mantenere coesi i cromatidi fratelli e a condensare i
cromosomi mitotici.
L’immagine propone un
modello, che spiega come
funzionano COESINA e
CONDENSINA durante la
mitosi (bisogna ricordare
che la mitosi consta di
diverse fasi, riportate nella
parte più a sinistra
dell’immagine).
Nella profase, la cellula si
prepara alla mitosi. La
membrana nucleare comincia a scomparire e i due cromatidi fratelli sono tenuti insieme dalla
coesina.
La coesina è un complesso proteico che lega regioni distanti di due cromatidi. È una specie di anello
che si posiziona avvolgendo i due cromatidi fratelli in regioni abbastanza distanti.
La coesina non è una singola proteina ma un complesso proteico utile per mantenere, connettere i
due cromatidi fratelli al termine della fase S, prima della mitosi.
Quando si entra in mitosi i cromatidi fratelli sono già tenuti insieme mediante coesina.
Passando da profase a metafase, interviene la condensina.
Nella metafase si vede che i cromosomi iniziano a condensarsi e iniziano ad allinearsi a livello della
piastra equatoriale, ovvero al centro della cellula.
Nella metafase avviene la condensazione cromosomica. Questa compattazione è possibile grazie
all’intervento della condensina, la quale è un complesso proteico ad anello che viene a legare
regioni differenti dello stesso cromatidio, compattandolo.
Nell’anafase i cromatidi fratelli iniziano ad essere separati ai due poli, è necessario, quindi, che la
coesina venga tagliata mentre la condensina rimane ancora legata a ciascun cromatidio,
mantenendolo condensato durante l’anafase.
Nella telofase i cromosomi sono meno condensati, si inizia riformare la membrana nucleare intorno
a ciascun pool di cromosomi e successivamente le condensine vengono rilasciate e quando si
formano le due cellule figlie, in seguito a citochinesi, la cromatina è in uno stato meno condensato,
ovvero nello stato tipico dell’interfase.
Nucleosomi e proprietà strutturali e funzionali della
cromatina
Il DNA ha, come primo livello di compattazione/organizzazione, il NUCLEOSOMA (= unità base
di condensazione del DNA, è il mattone della cromatina)
Nel nucleosoma, il DNA è avvolto attorno a un disco proteico, che viene chiamato CORE
ISTONICO.
Il DNA avvolto al core istonico è chiamato DNA CORE o DNA NUCLEOSOMICO ed è lungo 147
pb; Il core istonico è un ottamero istonico, ovvero costituito da otto proteine istoniche, che sono due
copie di H2A, H2B, H3, H4, vi sono quindi quattro proteine istoniche presenti in due copie
ciascuna.
Il DNA core è avvolto 1,65 volte all’ottamero istonico.
I nastri in verde e in grigio rappresentano il DNA che è avvolto attorno all’ottamero istonico, dove
ogni proteina è indicata con un colore diverso: H2A, H2B, H3, H4.
Tra un nucleosoma e l’altro si ha un DNA linker, che ha una lunghezza variabile di 20-60 pb, che
dipende dall’organismo:
Grazie alla formazione dei nucleosomi si ha un compattamento del DNA di circa 6 volte rispetto
alla sua lunghezza.
Quando il DNA è avvolto nel nucleosoma, crea una sorta di nucleosomi in serie, che prende il nome
di FIBRA da 10nm oppure COLLANA DI PERLE.
L’ottamero è costituito dalle 4 proteine
istoniche, che hanno un peso in media
dalle 11 alle 15 KDalton e sono molto
ricche di residui amminoacidici, quali la
lisina e l’arginina e si va dal 20 al 24%.
Gli istoni sono quindi delle proteine
basiche perché grazie alla lisina e arginina contengono degli aa carichi positivamente.
Il DNA è carico negativamente, in virtù dei gruppi fosfato che costituiscono lo scheletro zuccherofosfato esterno e viene favorito nell’interagire con queste proteine istoniche, che hanno una carica
positiva.
Esiste una proteina che è l'istone linker, o H1, più grande delle altre, di quasi 21 KDalton, che ha
una componente di lisina e arginina importante, che non fa parte dell’ottamero istonico ma si lega al
DNA linker.
Bisogna ricordare che la maggior parte del DNA delle cellule eucariotiche è impacchetto nei
nucleosomi, però in tutte le cellule vi sono zone che non sono impegnate a legarsi attorno
all’ottamero istonico, ma sono le regioni coinvolte nel processo di replicazione o ricombinazione.
Anche in questo caso si tratta di DNA, non nudo, ma associato a complessi proteici ed enzimi che
sono parte attiva di eventi di trascrizione o replicazione.
I componenti del core istonico
Tutte le 4 proteine
hanno:
una coda N terminale,
un’estremità
carbossiterminale e una
componente centrale
comune, che viene
denominata dominio
histone-fold, ovvero
dominio di
ripiegamento degli
istoni.
Questo dominio è una regione conservata in tutti i 4 istoni ed è importante per la formazione di
complessi intermedi.
Quando non vi è l’acido nucleico (il DNA), gli istoni formano dei complessi intermedi in soluzione,
che sono riportati nell’immagine b):
● Gli istoni H3 e H4 si organizzano per formare tetrameri
● Gli istoni H2A e H2B si organizzano per formare un dimero
Il core proteico si assembla solo in presenza di DNA.
Da queste rappresentazioni si può osservare che le molecole di ciascun istone interagiscono tra loro
sovrapponendosi le une sulle altre e in particolare incrociando le due alfa-eliche centrali di ogni
dominio histone-fold (il quale è formato da 3 strutture ad alfa elica), quindi la seconda si incrocia
l’una con l’altra, creando un particolare tipo di organizzazione chiamata STRETTA di MANO,
creando questi complessi intermedi.
In presenza di DNA, questi complessi intermedi si vanno ad organizzare in quello che viene detto
nucleosoma, in particolare:
Si formano in maniera indipendente due dimeri
H2A e H2B e un tetramero H3 e H4, poi in
presenza di DNA il primo a legarsi è il tetramero e
in un secondo momento si assemblano i due dimeri
fino a formare il nucleosoma.
Questo processo di assemblaggio non avviene in
maniera autonoma, ma richiede delle proteine che
sono dette CHAPERONINE, ovvero proteine che
controllano questo processo di assemblaggio
proteico tra i diversi intermedi con il DNA.
Il nucleosoma
Se si guarda il nucleosoma
dall’alto, si nota che fuoriescono
da esso le code N terminali degli
istoni, che sporgono verso
l’esterno, andando a formare
delle specie di “tentacoli”.
Queste code N terminali
vengono ad essere molto
importanti perché subiscono
delle possibili modifiche
chimiche, ovvero residui di
queste code come la serina, la lisina e l’arginina, che vengono ad essere modificate chimicamente
aggiungendo un gruppo fosfato o metile, o un acetile, e subiscono quindi fosforilazione, metilazione
o acetilazione a livello di specifici residui amminoacidici.
Queste modifiche sono importanti perché hanno un effetto sulla cromatina, rendendola più o meno
rilassata.
Le code non contribuiscono al legame con il DNA, ma sono importanti perché modificate
chimicamente vengono ad alterare lo stato della cromatina.
Se i nucleosomi vengono trattati con una proteasi, enzima che taglia i legami peptidici a livello di aa
basici ed è in grado di rimuovere le code amminoterminali dal nucleosoma:
Tagliando le code l’ottamero istonico è ancora assemblato attorno al DNA e anche questo dimostra
come le code non siano fondamentali per il legame con il DNA.
Le code istoniche sporgono dal core nucleosomico in specifiche posizioni:
(L’immagine propone una visione del nucleosoma laterale)
● Le code degli istoni H2B e H3 sporgono in mezzo alle due eliche di DNA
● Le code degli istoni H2A e H4 emergono sulla parte superiore o inferiore di entrambe le due
eliche di DNA
L’associazione tra il DNA e le proteine istoniche è mediata da
tantissimi contatti, in particolare da legami H, che vengono ad
essere in numero molto elevato, fornendo la necessaria energia per
aiutare la curvatura del DNA.
Il numero elevato di legami H è riportato a circa 140 dagli studi
sviluppati più recentemente.
Le interazioni sono indipendenti dalla sequenza, non vi è il
riconoscimento di una sequenza specifica conservata, quindi, l'interazione fra il core istonico e
DNA avviene in maniera indipendente dalla sequenza. Non sono necessarie delle sequenze
specifiche che devono essere conservate.
I nucleosomi, dal momento che il DNA deve
curvare attorno all’ottamero istonico, si devono
formare di preferenza sul DNA che si presenta
intrinsecamente curvo. Il DNA può avere
naturalmente una certa curvatura ed è ricco di brevi
ripetizioni di sequenze AT con una tendenza
intrinseca a curvarsi in direzione del solco minore;
quindi, i tratti di DNA che contengono i nucleotidi
AA TT e TA vengono a ripiegarsi verso il solco
minore e pertanto un DNA ricco di questi tratti
favorisce la formazione del nucleosoma esponendo
verso gli istoni il solco minore. Il solco minore è
rivolto all’interno, verso l’ottamero istonico.
Il DNA ricco in GC ha la tendenza opposta, quindi forma nucleosomi mantenendo il solco minore
rivolto verso l’esterno.
Tratti che contengono AT vengono a favorire la formazione di un nucleosoma esponendo il solco
minore all’interno, quindi verso gli istoni stessi. DNA ricco in GC viene ad avere la tendenza
opposta, formando nucleosomi mantenendo il solco minore all’esterno.
Tratti di DNA che alternano sequenze AT a sequenze CG, con una periodicità di circa 5 coppie di
basi, possono essere siti di formazione preferenziale del nucleosoma.
Una volta che i nucleosomi si sono formati, il passaggio successivo prevede delle strutture di ordine
superiore della cromatina.
Strutture di ordine superiore della cromatina
Il PRIMO livello SUPERIORE di impacchettamento della cromatina dopo la
formazione dei nucleosomi è grazie al legame da parte dell’istone H1 al DNA
linker.
H1è una proteina istonica che si viene a legare non solo al DNA linker, ma
anche a una regione centrale del DNA core/nucleosomico, come se avesse due
braccia che prendono due punti del DNA, avvicinandole, andando a portare il
DNA a una maggiore adesione all’ottamero istonico.
Il legame da parte dell’istone H1 determina un ulteriore
impaccamento, nella fibra da 30nm.
In particolare, in questo grado di
impacchettamento, il rapporto di
impacchettamento arriva a 40, quindi il
DNA è impacchettato 40 volte in più
rispetto alla sua lunghezza.
In seguito a questo legame, creando questa fibra, sono stati proposti due modelli per descrivere
questa fibra da 30 nm:
MODELLO a SOLENOIDE: prevede
che il DNA è organizzato in modo tale
che i nucleosomi sono avvolti intorno a
una superelica, che contiene 6
nucleosomi per giro. Questo tipo di
modello è stato ottenuto da studi al microscopio elettronico e anche tramite diffrazione ai raggi X.
Se si osserva il modello dall’alto, la superelica ha un foro centrale, con diametro di 11 nm circa.
Questo foro non è attraversato dal DNA linker, è vuoto, dove il DNA linker è ai bordi del foro.
MODELLO a ZIG ZAG: ottenuto tramite
studi ai raggi X su di una singola
molecola di DNA, si è visto che questa
singola molecola di DNA aveva una
conformazione diversa più simile a una
molla, con i nucleosomi posizionati in maniera alternata, a “zig zag”, da cui prende il nome la
struttura. Se si osserva dall’alto questo modello, il foro centrale è attraversato dal DNA linker, come
mai? Questo tipo di modello richiede dei DNA linker più lunghi, che consentono quindi di
permettere di attraversare il foro centrale e di consentire questa struttura, diversa dal solenoide.
Qual è il modello giusto? Questi due modelli possono essere presenti entrambi nella stessa fibra di
cromatina, oppure l’altra possibilità è che dipenda dall’organismo (bisogna ricordare infatti che il
DNA linker ha lunghezze diverse in base al tipo di organismo).
Quindi quegli organismi che hanno un DNA linker più lungo, quindi sufficientemente lungo per
attraversare il foro centrale della fibra, possono assumere il modello a zig zag.
Quelli che hanno un DNA linker più corto possono assumere il modello a solenoide.
Una possibilità non esclude l’altra.
La fibra da 30 nm è stabilizzata dall’interazione delle code amminoterminali.
In questa immagine si
nota proprio l’interazione
tra H4 e H2A, ovvero tra
la coda amminoterminale
di H4 con il dominio
dell’histone-fold, il
dominio conservato, di
H2A.
L’estremità amminoterminale dell’istone H4, carica positivamente, interagisce con le cariche
negative che si trovano nell’histone-fold.
Questa interazione è tra le più importanti per la stabilizzazione della fibra di 30 nm, tant’è che
questi residui sono altamente conservati nella maggior parte degli organismi eucariotici, a
dimostrazione della loro importanza.
Le code amminonoterminali degli istoni intervengono nella formazione e stabilizzazione della fibra
da 30 nm, con particolare riferimento a questa interazione.
Ma il livello di condensazione non è ancora sufficiente per 1-2 m di DNA in un nucleo di diametro
pari a 10^-5 metri, quindi bisogna condensare ancora di più.
Bisogna passare a livelli di organizzazione
maggiori, come le ANSE di DNA, chiamate
fibre da 100-400 nm, che possono contenere
livelli di organizzazione inferiori, quali la fibra da 10 e 30 nm, che sono ancorate alla matrice
nucleare durante l’interfase e si arriva così ad avere un ulteriore impacchettamento di 1000 volte,
per arrivare a una condensazione massima che corrisponde a 10.000 volte nei cromosomi mitotici.
In tutti i casi, ogni ansa rappresenta un’unità topologica a sé, in cui la fibra si presenta localmente
con livelli di condensazione differenti. All’interno della stessa ansa ci può essere la fibra da 10, la
fibra da 30, regioni di DNA nudo, coinvolto nella trascrizione e replicazione; è difficile che sia
nudo, è un DNA libero riconosciuto da proteine ed enzimi specifici.
Regolazione della cromatina
Questi livelli di organizzazione sono finemente regolati.
Il primo concetto è il fatto che l’interazione del DNA con l’ottamero istonico non è rigida ma è
dinamica, ovvero il DNA attorno all’ottamero istonico non è incollato ma è dinamico. Il DNA viene
ad essere disavvolto, a spostarsi, e quindi non è sempre lo stesso DNA ad essere avvolto
all’ottamero istonico.
L’interazione è dinamica e ad aiutare e supportare il movimento e la posizione dei nucleosomi sono
dei complessi proteici, detti COMPLESSI di RIMODELLAMENTO dei NUCLEOSOMI, che
hanno la funzione di facilitare i cambiamenti di posizione dei nucleosomi e quindi l’interazione poi
tra il DNA e l’ottamero istonico. Per farlo, tutti questi complessi vanno ad utilizzare l’ATP.
L’idrolisi dell’ATP fornisce l’energia necessaria per consentire a questi complessi di spostare e
cambiare la posizione dei nucleosomi e quindi a far spostare il DNA lungo l’ottamero istonico.
Tutti questi complessi (ne esistono di diversi tipi) vengono a catalizzare lo SCIVOLAMENTO,
perché questi complessi hanno 3 possibilità con cui vanno a introdurre dei cambiamenti sulla
posizione dei nucleosomi.
Tutti i complessi di rimodellamento finora conosciuti sono in grado, quindi, di catalizzare lo
scivolamento del nucleosoma.
Nell’immagine più a sinistra si nota che il DNA avvolto nel nucleosoma contiene un sito di legame
della proteina, che potrebbe essere un fattore di trascrizione, però il DNA è avvolto nel
polinucleosoma e difficilmente la posizione sarà facilmente accessibile e occorre liberarla
dall’interazione con l’ottamero istonico.
Una possibilità è l’intervento di questi complessi di rimodellamento di questi nucleosomi che fanno
scivolare il DNA lungo la superficie dell’ottamero istonico e consentono di liberare il DNA
contenente il sito di legame della proteina, rendendolo accessibile alla proteina specifica.
Funzionano come una sorta di mani che prendono il DNA e lo srotolano lungo la superficie dei
nucleosomi.
Un altro meccanismo, che però non è comune a tutti i complessi di rimodellamento dei nucleosomi,
ma lo hanno solo alcuni, è l’espulsione o trasferimento à in questo caso il movimento è più
drastico perché viene espulso un ottamero istonico, liberando così il DNA dall’interazione con le
proteine istoniche.
Viene detto anche trasferimento perché l’ottamero istonico che viene liberato viene in qualche
modo trasferito/riciclato da un’elica all’altra del DNA.
L’ultimo caso, che è un caso specifico, è lo scambio dei dimeri à ci sono dei complessi di
rimodellamento dei nucleosomi che possono sostituire alcuni componenti dell’ottamero istonico con
delle varianti istoniche.
Fino ad ora si è parlato delle 4 proteine istoniche che costituiscono l’ottamero, ma ci sono delle
varianti ed una di queste è H2AX.
H2AX rappresenta una sorta di segnale per il DNA che deve essere riparato.
Ovvero, in questo scambio di dimeri, che si
vede nell’immagine, viene fatto uscire H2A
e H2B e al suo posto viene inserito H2AX e
H2B. H2AX viene fosforilata e in questo
modo richiama delle proteine che sono
coinvolte nel riparare i filamenti di DNA
rotti.
H2AX interviene quando si hanno delle rotture della doppia elica e le rotture della doppia elica sono
uno dei danni peggiori, o meglio il peggiore, che può capitare al DNA e per ripararlo prontamente
l’ottamero istonico viene sostituito con questa variante. La variante viene ad essere fosforilata e
riconosciuta da enzimi che riparano il DNA, praticamente porta gli enzimi sul luogo del danno,
consentendone la riparazione.
Esistono diversi tipi di meccanismi di rimodellamento, tutti ATP-dipendenti:
In questa tabella vengono riportati i diversi tipi di complessi di rimodellamento, con un numero
variabile di subunità e tutti hanno un dominio di legame degli istoni che si distinguono in
cromodominio o bromodominio.
Il bromodominio è un dominio conservato all’interno di questi complessi che serve a riconoscere gli
istoni e legare le code N-terminali istoniche che contengono lisine acetilate.
Il cromodominio serve per legare gli istoni e in particolare le code N-terminali degli istoni a livello
delle lisine metilate.
Questi tipi di complessi di rimodellamento vanno a riconoscere e vanno a legare gli istoni andando
a utilizzare dei domini conservati.
Si ricorda infatti che le code N-terminali sono soggette a delle modifiche chimiche, che servono
anche per consentire il riconoscimento da parte dei complessi di rimodellamento dei nucleosomi.
Tutti questi complessi agiscono per scivolamento, ma solo alcuni per trasferimento (si veda tabella).
I complessi di rimodellamento vengono reclutati a livello del cromosoma sia andando a legarsi a
code N-terminali modificate oppure possono essere reclutati da fattori di trascrizione che hanno
legato il DNA stesso (esempio: si ha il DNA in una forma compatta, a livello di quel DNA vi è una
regione che deve essere trascritta, in parte vi è un sito di legame per un fattore di trascrizione libero,
ecco che questo richiama ulteriormente i complessi di rimodellamento per rilasciare la cromatina e
rendere disponibile il DNA ad essere trascritto).
Quindi, il reclutamento del complesso di rimodellamento nei diversi siti del cromosoma può essere
mediato da fattori di trascrizione oppure da specifiche modifiche delle code amminoterminali degli
istoni.
MODIFICAZIONE DELLE CODE AMMINOTERMINALI ISTONICHE
Nell’immagine sono riportate tutte le diverse
code N-terminali istoniche e i diversi
simboli indicano le diverse modifiche e le
posizioni dei diversi aa.
Un’altra modifica, oltre a fosforilazione,
metilazione e acetilazione, può essere
l’ubiquitinazione, che riguarda non tanto la
estremità N-terminale, ma la C-terminale.
Lo stato della cromatina, quindi, viene
alterato da modifiche chimiche che riguardano in particolare la coda N-terminale.
Una coda può subire modifiche chimiche differenti in posizioni diverse e di tipo chimico diverso, ad
esempio l’istone H2A può essere contemporaneamente acetilato e fosforilato in posti differenti e
questo crea un codice istonico, che ci dice COME e QUANDO il DNA compattato è accessibile.
È una sorta di alfabeto che si traduce in un possibile grado di compattamento del nucleosoma.
Il codice istonico fornisce la posizione e il tipo di modifica chimica che ha la coda istonica e dà
un’idea di come e quando il DNA compattato è accessibile.
Esempio:
1)La metilazione sulla coda istonica di H3 nella posizione della lisina 4 e 36 in contemporanea va
ad essere un sinonimo di espressione genica, in quanto la cromatina è meno compatta
2)Se le lisine sono metilate in posizione 9 e 27 significa repressione genica
3)L’acetilazione delle lisine in posizione 8 e 16 dell’istone H4 è associata ai siti di inizio di
trascrizione dei geni espressi, quindi, anche questo sostiene una espressione genica
4)L’acetilazione delle lisine in posizione 5 e 12 dell’istone H4 neosintetizzate va a segnalare la
formazione di componenti di nuovi nucleosomi.
LE MODIFICHE DEGLI ISTONI INFLUENZANO LA FUNZIONE DEI NUCLEOSOMI:
Quello che si sa è che, se si ha un istone non modificato, l’acetilazione delle code istoniche in
posizioni diverse porta a uno stato di cromatina più aperta e rilassata e si dice ATTIVA, coinvolta in
processi di replicazione e trascrizione.
Lo stato di cromatina chiuso, detta INATTIVA, si ha quando le code istoniche sono metilate in
diverse posizioni, in diverse code, H3 e H4 in particolare.
Acetilazione → apertura della cromatina
Metilazione → repressione genica, inattivazione della cromatina
Tutte queste modifiche alle code N-terminali sono REVERSIBILI e, sia che vengano aggiunte o che
vengano tolte, vengono sempre ad essere realizzate da degli enzimi specifici:
L’acetilazione, comune sulle lisine, avviene sul gruppo Nterminale della lisina, catalizzata da HAT, istone acetiltransferasi. Questa modifica può essere rimossa dalle HDAC,
istone deacetilasi, che rimuove l’acetilazione.
La fosforilazione, invece, avviene solitamente sulla
serina o treonina e in questo caso l’enzima che si occupa
della fosforilazione è l’istone chinasi, mentre l’enzima
che si occupa di togliere il gruppo fosfato aggiunto è
l’istone fosfatasi.
La metilazione avviene sulla lisina e il gruppo
amminico terminale può essere MONO-, DI- o
TRI- metilato e l’enzima è HMT, ovvero istone
metil transferasi e anche in questo caso la
metilazione può avvenire in senso opposto, si può
quindi avere una demetilazione grazie a HCM,
istone demetilasi.
Per ogni tipo di modifica chimica si ha l’enzima corrispondente, che si occupa di aggiungere la
modifica in specifiche posizioni e si ha anche il corrispondente enzima che la rimuove.
Gli enzimi che modificano gli istoni sono
spesso dei complessi proteici e anch’essi
vanno a legare le code istoniche con dei
bromodomini o cromodomini, ovvero gli
stessi domini conservati che sono stati
visti nei complessi di rimodellamento
della cromatina.
Questi enzimi che modificano gli istoni
hanno anche molto spesso degli istoni
bersaglio su cui vanno ad agire.
Bisogna poi dire che la struttura della cromatina può essere modificata localmente mediante una
cooperazione dei complessi di rimodellamento dei nucleosomi e degli enzimi che modificano gli
istoni.
Ricordiamo che quando si modificano le code istoniche questa è una modifica/un evento locale e
così pure anche i complessi di rimodellamento non agiscono su tutto il DNA ma su delle regioni
specifiche, che magari sono interessate ad essere eventualmente trascritte o replicate.
In questa immagine si può
vedere come lavorano
insieme i complessi di
rimodellamento dei
nucleosomi e gli enzimi che
modificano gli istoni,
ovvero come cooperano per
modificare localmente la
struttura della cromatina.
Nel primo disegno, in alto,
vi è una fibra di cromatina da 30 nm, quindi, un livello di compattamento alto e da notare è che il
DNA riportato nel disegno ha 3 siti, distinti da 3 colori, uno in arancio, uno in blu e uno in verde.
La sequenza in blu viene riconosciuta da una proteina di legame che si lega al sito, che recluta per
prima cosa un complesso istone acetil transferasi, enzima che modifica per gli istoni.
In questo caso il sito blu si trova nel DNA linker che è accessibile a differenza dei siti arancio e
verde, che fanno parte del DNA nucleosomico, che non sono accessibili ad eventuali proteine target
quando il DNA è compattato in questa fibra da 30 nm.
L’istone acetiltransferasi è un enzima che acetila le code istoniche dei nucleosomi adiacenti e fa si
che la fibra da 30 nm passi a una fibra di 10 nm e rilassandosi rende accessibile il sito in arancio,
che richiama la proteina “2”.
La proteina 2 recluta il complesso di rimodellamento dei nucleosomi, che viene a far scivolare il
nucleosoma facendo scorrere il DNA attorno ai nucleosomi successivi, tant’è che il sito in verde è
reso accessibile al legame con una terza proteina.
La terza proteina potrebbe essere una proteina coinvolta nella trascrizione, quindi, un fattore di
trascrizione e in quella zona potrebbe iniziare la trascrizione del DNA.
In questo esempio viene prima reclutato l’istone acetil-transferasi e poi i complessi di
rimodellamento, ma può capitare anche l’inverso e gli esiti sono sempre gli stessi e con la stessa
efficienza.
Si può avere anche il reclutamento di enzimi che modificano gli istoni, non acetilando ma metilando
e in questo modo si promuove una compattazione, rendendo la cromatina localmente inaccessibile.
La replicazione del DNA
I punti che verranno trattati sono:
● La replicazione del DNA è semiconservativa
● Origini di replicazione e bidirezionalità della replicazione
● I principi generali della replicazione del DNA (quindi quali sono i substrati utili, il
meccanismo di azione della DNA polimerasi e come è costituita la forcella di replicazione)
● Meccanismo di replicazione del DNA nei procarioti e gli eucarioti
● Replicazione dei telomeri, i quali hanno un meccanismo diverso rispetto al resto del DNA,
nei cromosomi lineari degli eucarioti
La replicazione del DNA è semiconservativa
Nell’immagine è raffigurato il DNA parentale, ovvero quello che funziona da stampo. I due
filamenti della molecola di DNA parentale si separano e creano la forcella di replicazione e
separandosi servono da stampo per la sintesi dei due filamenti complementari (indicati in
arancione).
La forcella di replicazione andrà a propagarsi lungo tutta il DNA non ancora replicato e si sposterà
in modo da separare i due filamenti parentali affinché questi vengano copiati.
Il risultato alla fine saranno due molecole figlie uguali alla molecola parentale di DNA originaria
ma costituite da un filamento parentale (in viola) e da un filamento neosintetizzato (in arancione).
Si dice semiconservativa perché quando il DNA viene replicato/duplicato (NB: duplicazione e
replicazione sono la stessa cosa) si ha che le due molecole di DNA figlie hanno un filamento
parentale, quello originario, utilizzato come stampo e un filamento neosintetizzato, copiato.
Origini di replicazione e bidirezionalità della
replicazione
ORIGINE DI REPLICAZIONE = sito sul DNA che viene riconosciuto dalle proteine coinvolte per
iniziare la replicazione. E’, quindi, una sequenza di DNA da cui parte il processo di replicazione.
L’origine di replicazione viene anche chiamata REPLICATORE.
Nell’immagine viene riportata la differenza tra procarioti ed eucarioti:
Nei procarioti, il replicatore è uno solo ed è indicato in verde, che viene
riconosciuto da un INIZIATORE, ovvero una proteina o un complesso
proteico, che riconosce in maniera specifica questa origine di replicazione,
avviandone la replicazione.
L’immagine mostra bene che quando l’iniziatore riconosce il replicatore,
questo determina una fusione locale del DNA a livello di questa regione
riconosciuta e si va a formare così la bolla di replicazione, denaturando il
DNA e formando quindi un singolo filamento, che può funzionare da
stampo per la sintesi delle nuove molecole di DNA.
Nella maggior parte dei casi, da questa bolla, si creano due forcelle di
replicazione, una a destra e una sinistra, a livello della quale il DNA viene
replicato nelle due direzioni.
Il risultato alla fine è che si ottenga da una molecola di DNA due molecole
di DNA figlie, che hanno un filamento parentale e un filamento
neosintetizzato.
Il replicone, invece, è quella porzione di DNA che viene replicata a partire da un replicatore/origine
di replicazione. Nel caso dei procarioti, dove si ha un solo replicatore, il replicone corrisponde
all’intero cromosoma o all’intero plasmide.
Il fatto che si creino due forcelle di replicazione, dove una va in una direzione e una nell’altra, rende
la replicazione BIDIREZIONALE, sia negli eucarioti, che nei procarioti.
Negli eucarioti, invece, non vi è una sola origine di replicazione ma ve n’è più di una.
Nell’immagine si vede un cromosoma lineare, con molte più origini di replicazioni rispetto ai
procarioti (nell’uomo ve ne sono circa 10.000).
Sono disegnate 5 origini di replicazione o replicatori. Anche in
questo caso i replicatori vengono riconosciuti dagli iniziatori e
il legame tra i due crea delle bolle di replicazione.
Bisogna ricordare però che i cromosomi eucariotici vengono
replicati una sola volta per ogni ciclo cellulare e questo
significa che le origini degli eucarioti si attivino solo una volta
per ciclo cellulare, assicurando così che il cromosoma venga
replicato una sola volta per ciclo cellulare.
Non tutte le origini di replicazione sono utilizzate in
contemporanea ad ogni divisione cellulare, ad esempio
nell’uomo vi sono 10.000 origini di replicazione, ma non
vengono tutte e 10.000 attivate a ogni ciclo cellulare, ma solo
alcune.
La loro accensione è sotto uno stretto controllo temporale
specifico, durante la fase S, dove il DNA si replica.
Anche in questo caso dalle bolle di replicazione parte una replicazione bidirezionale e si creano due
forcelle, dove una va a sinistra e l’altra a destra e via via si vanno ad allargare queste bolle, poi si
fondono le une con le altre, creando una replicazione completa dei cromosomi lineari e permettendo
una sola replicazione per ciclo cellulare.
Anche negli eucarioti la replicazione è bidirezionale, nella maggior parte dei casi.
Esistono delle eccezioni, dove la replicazione è UNIDIREZIONALE, in quanto si ha una forcella
sola che va in una sola direzione.
Come si vede nell’immagine, l’origine di replicazione è
a sinistra, si è creata la bolla, ma si ha una sola forcella
di replicazione, per cui il DNA si separa solo nella
direzione indicata dalla freccia rossa, creando del DNA
parentale a singolo filamento utile come stampo.
Questo si verifica in alcuni casi, ad esempio nei
plasmidi, nei fagi ed in alcuni virus di eucarioti.
I principi generali della replicazione del DNA
SUBSTRATI NECESSARI PER LA SINTESI DEL DNA
La sintesi del DNA richiede, oltre la DNA polimerasi, enzima deputato alla sintesi del DNA, altri
substrati fondamentali:
1) 4 deossiribonucleosidi trifosfato che vengono
indicati con dNTP, dove N può essere, in base
alla base, dATP, dGTP, dCTP o dTTP. È
ovvio che si ha bisogno di tutti e quattro i
nucleotidi, perché se si deve copiare tutto lo
stampo, nello stampo si hanno tutte e 4 le
possibili basi, quindi, è necessario avere tutti e
i 4 deossiribonucleosidi trifosfato.
(Il deossiribonucleoside trifosfato è un deossiribosio, quindi privo del 2’OH sullo zucchero, il quale
è coniugato con una base e al 5’ con i tre gruppi fosfato, alfa, beta e gamma).
Il nucleotide quando è ancora libero e non è ancora incorporato nella catena polinucleotidica di
DNA o RNA, viene ad avere al 5’ tre gruppi fosfato, indicati con le lettere greche, sulla base che
siano vicini o meno al carbonio in 5’. Il primo fosfato che è legato al C in 5’ è detto ALFA, a
seguire beta e gamma.
2) COMPLESSO INNESCO-STAMPO o
PRIMER-TEMPLATE: nell’immagine, in
grigio, vi è il filamento stampo o DNA
parentale.
Per iniziare la sintesi, la DNA polimerasi non
ha bisogno solo dello stampo ma anche di un
primer, un innesco, ovvero una sequenza/tratto
più o meno lunga/o di DNA o RNA che
presenta l’estremità 3’OH libera,
fondamentale perché è in questo punto che
l’enzima, la DNA polimerasi, aggiungerà i nucleotidi complementari con le basi del
filamento stampo.
L’innesco può essere a DNA o RNA. In vivo, quindi all’interno delle cellule, l’innesco è sempre a
RNA. In vitro, quando si fa la PCR (= reazione di polimerizzazione a catena che consente di andare
ad amplificare tante copie di certe regioni di DNA, usando tutti i substrati di cui si sta discutendo in
quel momento), l’innesco è sempre a DNA.
La DNA polimerasi, per funzionare, ha bisogno del complesso innesco-stampo, oltre che dei dNTP.
La RNA polimerasi, enzima dedicato alla sintesi del RNA, usando sempre il DNA come stampo,
riesce a farlo senza inneschi.
MECCANISMO DI SINTESI DELLA DNA POLIMERASI
Lo stampo è in grigio e l’innesco in azzurro, con le basi appaiate per complementarietà con quelle
dello stampo.
In alto vi è il nucleotide da aggiungere, il dNTP. Quindi il nucleotide in entrata si appaia con la sua
base complementare dello stampo e l’estremità 3’OH libera dell’innesco, catalizza, o meglio
esercita un attacco nucleofilo sul fosfato alfa del nucleotide in entrata, il risultato è la formazione di
un nuovo legame fosfodiesterico tra il nucleotide che è stato aggiunto all’estremità 3’ e l’innesco.
Dal punto di vista chimico, la DNA polimerasi catalizza questa reazione, indicata con la freccia
rossa, favorendo, quindi, questo attacco nucleofilo.
Il risultato (immagine più in basso) è che l’innesco, addizionato di un nucleotide, ha ancora una
estremità 3’OH libera, portata dal nucleotide aggiunto, che può essere allungata in una reazione
successiva.
La direzione con cui viene sintetizzato il filamento è 5’→ 3’; tutte le polimerasi sintetizzano in
questa direzione, sia che siano a DNA o RNA.
Nel momento in cui avviene questa reazione di catalisi, dove il 3’OH colpisce il fosfato alfa del
nucleotide, viene rilasciato pirofosfato, in quanto il nucleotide è trifosfato (si rompe il legame tra
fosfato alfa e beta).
Il pirofosfato verrà a sua volta scisso in due molecole di fosfato ad opera della pirofosfatasi.
L’idrolisi del pirofosfato è una reazione che rilascia molta energia, fondamentale per far avvenire la
reazione di catalisi, in quanto la prima reazione di catalisi è una reazione che ha un'energia modesta.
Il vero motore energetico che favorisce la reazione di catalisi è la successiva idrolisi del pirofosfato
dalla pirofosfatasi.
IL MECCANISMO DI AZIONE DELLA DNA POLIMERASI
La DNA polimerasi ha un solo sito attivo per catalizzare la sintesi del DNA. Il 3’ OH libero
dell’innesco servirà per fare l’attacco nucleofilo sul fosfato del nucleotide entrante.
La DNA polimerasi non è in grado di
discriminare dal suo sito attivo il
nucleotide corretto, cioè quello che con
sé porta una base complementare al suo
stampo, rispetto ad un nucleotide non
corretto. Quando il nucleotide entra nel
sito attivo dell’enzima e si appaia
correttamente con la sua base, con la
base dello stampo, a singolo filamento,
il nucleotide si trova a una distanza
ottimale, o meglio il suo fosfato alfa si
trova alla distanza ottimale per subire l’attacco nucleofilo da parte del 3’ OH.
Nel sito attivo, infatti, può entrare un nucleotide errato e questo causa un mancato appaiamento
delle basi e questo fa si che il nucleotide in entrata non sia ad una distanza corretta, ovvero vi sia
una distanza eccessiva tra il 3’OH libero dell’innesco e il fosfato alfa. In questo caso la DNA
polimerasi viene a ridurre notevolmente la sua velocità di polimerizzazione o velocità di
incorporazione. La sua attività catalitica viene a ridursi di 10.000 volte rispetto alla situazione in cui
il nucleotide in entrata è corretto.
La DNA polimerasi favorisce la catalisi e perciò aumenta la velocità di formazione del legame,
quando il nucleotide che entra è quello corretto.
Un’altra funzione della DNA polimerasi è la discriminazione fra
ribonucleosidi e deossiribonucleosidi trifosfato. Nella cellula, la
concentrazione di ribonucleosidi trifosfato è, approssivamente, più alta
di quella dei deossiribonucleosidi. Ciononostante, riesce ad
incorporare il dNTP ad una velocità più elevata rispetto agli rNTP. Gli
rNTP vengono incorporati ad una velocità che è ben 1000 volte più
bassa di quella per incorporare i dNTP.
Il motivo per il quale l’enzima li incorpora molto più lentamente è che,
a livello del sito attivo dell’enzima, avviene la discriminazione sterica;
lo zucchero del nucleotide (dNTP) entrante si colloca in una tasca del
sito attivo, dove sono presenti aminoacidi discriminatori: in genere
sono gli amminoacidi glutammici che formano interazioni deboli con
l’anello dello zucchero (sono forze/interazioni di Van der Waals) e
queste interazioni contribuiscono ad aiutare il fosfato a mantenere una
distanza ottimale dall’estremità 3’OH.
Se nel sito attivo entrassero gli rNTP, gli amminoacidi non potrebbero
legarsi allo zucchero (che è un ribosio) in quanto quest’ultimo
presenterebbe sul C2’ un gruppo OH che causerebbe ingombro sterico,
che gli impedisce di andare a posizionare lo zucchero nella tasca di
legame e di interagire con gli aa discriminatori.
STRUTTURA DELLA DNA POLIMERASI
La struttura della DNA polimerasi viene indicata con una mano, dove i suoi 3 domini sono il palmo,
le dita e il pollice.
Le dita e il pollice sono composti da 𝛼-eliche, il palmo da un foglietto-𝛽. Alloggiata sul palmo si
trova la giunzione innesco-stampo.
Il sito catalitico è posizionato tra le dita e il pollice. Il palmo contiene gli elementi principali del sito
catalitico (siti di legame per gli ioni metallici bivalenti) e inoltre controlla l’appaiamento delle basi
appena polimerizzate, influendo fortemente sull’accuratezza della sintesi del DNA (controllo della
fedeltà replicativa).
Nel palmo si svolge anche un’altra importante attività, oltre al sito attivo, chiamata attività di
correttore di bozze o proofreading. Questo tipo di attività consente di andare a riparare eventuali
errori di sintesi.
Nel sito catalitico ci sono due ioni metallici
bivalenti, che sono Mg2+ e Zn2+, importanti
per la reazione di polimerizzazione perché
funzionano da catalizzatori (velocizzano la
reazione di polimerizzazione).
Uno ione, nell’immagine lo ione metallico
A, interagisce direttamente con l’estremità
3’-OH dell’innesco e va a ridurre l’affinità
dell’ossigeno per l'idrogeno, in modo tale da
generare un 3’O- (rendendolo molto
elettrofilo), diventando particolarmente instabile e si velocizza l’attacco nucleofilo al fosfato alfa
del dNTP . L’altro ione metallico, lo ione metallico B, stabilizza le cariche negative dei gruppi
fosfato del nucleotide entrante (dNTP) , quindi ha una funzione stabilizzatrice; lo fa sia quando il
dNTP è appaiato (ovvero quando sono presenti ancora i 3 fosfati), sia quando verranno rilasciati gli
ioni ortofosfato (gamma e beta).
LE DITA DELLA DNA POLIMERASI SONO IMPORTANTI PER LA CATALISI
Le dita della DNA polimerasi sono costituite da 𝛼 eliche e una di queste, l’ELICA O, ha la capacità
di ruotare. Le dita, con un ripiegamento da 40°, stabilizzano il legame tra il nuovo dNTP e il
filamento stampo: stimolazione della catalisi spostando il dNTP in entrata vicino al sito di cationi
bivalenti nel palmo.
In posizione 5’ del filamento stampo è
presente una cisteina, che deve essere
riconosciuta dalla guanina entrante come
dNTP. Quando G entra nel sito attivo e si
appaia con C dello stampo, l’elica si piega
di 40° e interagisce con il nucleotide in
entrata attraverso 3 aa conservati:
arginina, lisina e tirosina. Quando le dita
interagiscono con il dNTP, lo spingono
ancora di più verso il sito attivo e verso
3’-OH, in modo tale che venga facilmente
attaccato. Anch’esse concorrono, come il
palmo, alla reazione di catalisi.
Le dita entrano in contatto anche con la
regione dello stampo a singolo filamento
e l’interazione delle dita con lo stampo a
singolo filamento fa piegare di 90° il
legame fosfodiesterico tra la prima e la
seconda base dello stampo, che si trovano
subito dopo la giunzione innesco stampo.
In questo modo solo la prima base, subito
dopo l’innesco, che deve ricevere quella
complementare, risulta ben visibile.
IL POLLICE DELLA DNA POLIMERASI
Il pollice non è coinvolto nella catalisi enzimatica. Ha
più una funzione stabilizzatrice, serve a stabilizzare il
complesso tra innesco-stampo e DNA polimerasi,
interagendo in particolare con il DNA neosintetizzato.
Grazie a questa sua funzione di stabilizzazione si
riesce a mantenere ad una corretta posizione a livello
del palmo l’innesco a livello del sito attivo.
FEDELTÀ DI REPLICAZIONE DEL DNA
La replicazione o sintesi del DNA viene ad avere una caratteristica fondamentale, ovvero che ha un
meccanismo fedele. Dire che un processo è fedele vuol dire che è un processo molto accurato, che
fa pochi errori. Durante la sintesi del DNA vi è 1 errore ogni 109/1010 nucleotidi polimerizzati.
Questa alta accuratezza è assicurata da 3 diversi elementi:
1. selettività della DNA polimerasi
2. attività esonucleasica
3. riparazione degli errori
Solo la selettività non basterebbe, perché si riuscirebbe ad assicurare solo una frequenza di errori
che arriva ad un errore ogni 10^5-10^6 nucleotidi polimerizzati. Nel palmo vi è un’attività di
correzione di bozze, attività esonucleasica. Questa attività assicura una maggiore fedeltà della DNA
polimerasi, portandola a 1 errore ogni 10^7 nucleotidi polimerizzati. Si raggiunge poi il massimo
valore di fedeltà di replicazione attraverso i meccanismi di riparazione degli errori.
ATTIVITÀ ESONUCLEASICA O PROOFREADING (= correttore di bozze)
ESONUCLEASI: enzima che stacca i nucleotidi uno alla volta partendo da un'estremità del DNA a
singolo filamento. L’attività dell’esonucleasi, ovvero correttore di bozze, si trova nel palmo e
rimuove la base non correttamente appaiata all’estremità 3’ (direzione 3’→5’).
In questo caso se vi è una C al posto di una T, si parla di
MISMATCH o appaiamento delle basi scorretto, che viene
rimosso attraverso un’attività esonucleasica 3’→ 5’, propria
dell’attività esonucleasica.
Una volta che il nucleotide
errato è stato eliminato, la
DNA polimerasi può
riprendere la sua attività,
usare di nuovo lo stampo, per sintetizzare correttamente il filamento.
Quando c’è un’estremità 3’ male appaiata, gli ultimi nucleotidi
dell’innesco diventano a singolo filamento, si separano dallo stampo
e ciò determina una maggiore affinità per il sito attivo
dell’esonucleasi.
Infatti, la velocità di polimerizzazione diminuisce, mentre aumenta
quella di correzione dell’errore da parte dell’attività esonucleasica,
che rimuove dall’innesco il nucleotide errato (spesso anche un
nucleotide in più). Una volta che il nucleotide errato è stato rimosso,
l’innesco si riappaia con lo stampo e una volta ricreata la doppia
elica, si riporta nel sito attivo e si riparte con l'attività polimerasica.
CONFORMAZIONI TAUTOMERICHE
L’ossigeno della T, U, G, preferisce la forma chetonica al
posto dell’enolica. La forma amminica è preferita
rispetto all’imminica. Gli appaiamenti di Watson e Crick
sono possibili solo tramite forme tautomeriche preferite.
Un altro esempio, l’immina, o meglio la citosina nella
forma imminica, non si appaia con la guanina ma
preferisce appaiarsi con l’adenina.
Quando queste forme tautomeriche particolari, come
l’enol-guanina o la citosina imminica, sono usate dalla
DNA polimerasi come dNTP da polimerizzare, le va ad
appaiare con le basi non corrette e si crea quindi un
appaiamento errato. La presenza di mismatch si verifica
perché la DNA polimerasi incorpora dei nucleotidi, non
nella forma tautomerica più frequente, ma in quella più
rara.
PROCESSIVITÀ DELLA DNA POLIMERASI
Un’altra caratteristica della DNA polimerasi, oltre alla fedeltà, è la processività.
GRADO DI PROCESSIVITÀ: numero medio di nucleotidi polimerizzati dall’enzima ogni volta
che si lega ad una giunzione innesco-stampo.
Il legame della DNA polimerasi con il filamento innesco-stampo è un evento lento nell’ambito della
biologia molecolare (dura circa 1 sec). Una volta che la DNA polimerasi riconosce la giunzione
innesco stampo, e vi si lega, ci ritroviamo di fronte a due possibilità di DNA polimerasi, NON
PROCESSIVA o PROCESSIVA.
Il 1° tipo di DNA polimerasi, ovvero DNA polimerasi NON PROCESSIVA, aggiunge un solo
dNTP all’estremità 3’-OH dell’innesco e successivamente si distacca dalla giunzione innesco
stampo, quindi aggiunge 1 nucleotide al secondo.
La DNA polimerasi di 2° tipo, PROCESSIVA, aggiunge molte dNTP alla volta, arrivando anche a
1000 nucleotidi al secondo; quando gli aggiunge poi si distacca.
L’evento limitante della processività della DNA polimerasi è che essa rimanga associata alla
giunzione innesco-stampo.
A livello della forca replicativa la DNA polimerasi polimerizza da migliaia a milioni di nucleotidi
senza mai lasciare la giunzione innesco-stampo.
Come è possibile? Grazie a delle proteine aggiuntive, le SLIDING CLAMP (= pinza scorrevole)
STRUTTURA E FUNZIONI SLIDING CAMP
E’ un trimero (formato da 3 subunità)
con forma circolare, a forma di
ciambella, dove al centro scorrerebbe
il DNA (filamento stampo + innesco).
Tra il bordo interno della sliding camp
e il DNA abbiamo uno spazio
sufficiente che di solito è occupato da
uno o due strati di molecole d’acqua;
questi strati sono importanti per far scorrere velocemente la sliding camp sulla giunzione innescostampo.
La sliding camp interagisce anche con la DNA polimerasi, impegnata in quella giunzione innescostampo a sintetizzare il DNA.
Le sliding camp velocizzano la processività della DNA polimerasi a livello della forca replicativa.
La DNA polimerasi tenderebbe a distaccarsi dalla giunzione innesco-stampo ogni 20-100 nucleotidi
polimerizzati, però grazie all’interazione con la sliding clamp rimane in loco ed è pronta, quindi, a
riattaccarsi prontamente alla giunzione.
FORCA REPLICATIVA
Entrambi i filamenti di DNA parentale vengono sintetizzati simultaneamente a livello della forca
replicativa, ma in modo asimmetrico. Per forca replicativa si intende il punto in cui il DNA si deve
separare, si disavvolge per essere duplicato (ma una parte rimane momentaneamente a doppia elica
fino a quando non verrà disavvolta anche questa).
I filamenti, essendo antiparalleli, devono essere entrambi usati come stampo e sintetizzare
contemporaneamente → formazione di 2 filamenti (discontinuo e continuo). I due filamenti
neosintetizzati vengono ad essere chiamati in due modi diversi: filamento guida (leading strand) e
filamento discontinuo (lagging strand), perché i due filamenti separati della doppia elica a livello
della forca replicativa vengono replicati in contemporanea, però essendo antiparalleli e essendo che
la DNA polimerasi lavora comunque su entrambi i filamenti stampo in direzione 5’ à 3’, hanno
delle caratteristiche differenti.
Il filamento continuo, guida, non contiene frammenti, in quanto la DNA polimerasi segue la stessa
direzione in cui si muove la forca replicativa, quindi, viene sintetizzato in maniera continua.
Nel caso dell'altro filamento stampo, antiparallelo, la DNA polimerasi si deve muovere in direzione
opposta (3’→ 5’) rispetto al movimento della forca replicativa. Questo comporta che la DNA
polimerasi, nel sintetizzare il filamento discontinuo, non riesce a partire subito e a farlo in maniera
continua, quindi, la sintesi del filamento discontinuo è ritardata, in modo tale che la forca replicativa
possa creare via via una quantità sufficientemente lunga di filamento singolo che funge da stampo.
Quindi una volta che si ha creato il primo filamento (in rosso a sinistra↓), la DNA polimerasi
aspetta che una
porzione sia libera,
così torna indietro,
usa l’altro primer (in
verde a destra) e
sintetizza un
secondo frammento fino a quando non incontra l’estremità 5’del frammento precedentemente
sintetizzato. Nel frattempo, la forca replicativa è andata avanti e si è liberato altro stampo, e quindi
la DNA polimerasi torna indietro ancora e sintetizza sempre in direzione 5’→3’, direzione opposta
alla forca replicativa.
Come si può vedere dall’immagine, il filamento rosso di sintesi non è continuo, ma è formato da
tanti frammenti, ognuno dei quali ha un proprio innesco e vengono chiamati FRAMMENTI DI
OKAZAKI, che hanno delle dimensioni diverse (nei procarioti vanno dai 1000-2000 nucleotidi
mentre negli eucarioti dai 100-400 nucleotidi). Questi frammenti vengono uniti da enzimi per
formare un solo filamento unico e vengono definiti come degli intermedi temporanei, durante la
replicazione del DNA.
DUPLICAZIONE: https://www.youtube.com/watch?v=cIsiJcwwP_0 (si consiglia la visione)
Gli enzimi, che agiscono a livello della forca replicativa, sono diversi:
A livello della forca replicativa agiscono un complesso di numerose proteine, tant’è che si parla di
REPLISOMA. Il replisoma è il complesso di tutte le proteine che operano a livello della forca
replicativa e che concorrono al processo di duplicazione o sintesi del DNA.
Le attività dei vari enzimi sono riportate nella tabella.
RIMOZIONE INNESCHI A RNA: servono a rimuovere i primer a RNA alla fine della sintesi.
RIMOZIONE SUPERAVVOLGIMENTI: serve perché i processi che aprono la doppia elica creano
dei superavvolgmenti positivi a valle della bolla di replicazione e tali superavvolgimenti devono
essere rimossi, perché sennò bloccano la replicazione.
ENZIMI CHE AGISCONO A LIVELLO DELLA FORCA REPLICATIVA
Ricordiamo che il complesso di tutte le proteine che operano a livello della forca replicativa viene
detto REPLISOMA.
Andiamo ora nel dettaglio di ognuna di queste:
La elicasi viene ad essere colei che si occupa di disavvolgere la doppia elica del nostro DNA.
Come vediamo nell'immagine, la sua funzione è, appunto, quella di andare a disavvolgere la doppia
elica andando a circondare uno dei due singoli filamenti vicino alla forca replicativa.
Come possiamo vedere dalla freccia, quella è la direzione attraverso cui si muove la forcella di
replicazione e la nostra DNA elicasi si muove, ovviamente, nella stessa direzione andando
praticamente a promuovere la rottura a livello di questa doppia elica che deve essere ancora
replicata, che deve essere ancora copiata e sintetizzata; rompe e quindi promuove l'apertura di
questa doppia elica rompendo i legami idrogeno e le interazioni idrofobiche fra le basi delle due
catene.
In particolare, in un primo momento la DNA elicasi si associa ad uno dei due filamenti singoli e poi
una volta che lega l’ATP inizia a spostarsi lungo il filamento spostando e aprendo la doppia elica.
Fornisce, perciò, un nuovo stampo a singolo filamento.
È costituita da sei subunità identiche tra loro che qui vediamo colorate con sei colori diversi; viene
chiamata proteina esamerica, con una forma somigliante ad una sorta di ciambella che si avvolge
attorno al singolo filamento; ogni subunità è in grado di legare l’ATP.
In particolare, in E. coli, ognuna delle subunità, in base al momento, lega l’ATP che verrà
consumato e trasformato in ADP staccandosi dall’enzima stesso.
In altre parole, la DNA elicasi si comporta da motore molecolare, capace di scorrere attivamente sul
DNA, consumando ATP.
Ogni monomero (subunità) ha una particolare conformazione se è legato all’ATP; una volta che
idrolizza l’ATP scatta un’altra conformazione, quando poi l’ADP si stacca si promuove ancora un
altro cambiamento conformazionale riportando ciascun monomero ad una sorta di stato iniziale e
ricomincia un nuovo ciclo. Il passaggio coordinato delle sei subunità da una conformazione all’altra
produce il movimento dell’elicasi lungo il singolo filamento. Grazie ai cambiamenti
conformazionali indotti dal legame con l’ATP, con l’ADP o con il rilascio di ADP si determina il
movimento dell’elicasi lungo il filamento. A due a due, le subunità si trovano nello stesso stato
conformazionale. Questo passaggio, quindi, assicura il movimento. Si crea, in questo modo, un
movimento oscillatorio responsabile dello scorrimento dell’elicasi lungo il DNA.
Sono nella stessa conformazione le subunità che legano le stesse molecole in quel determinato
momento.
Le SSB sono proteine monomeriche che si legano al DNA a singolo filamento e consentono di
mantenerlo tale stabilizzando la sua struttura prima che questo venga replicato.
Il legame di queste proteine al singolo filamento è un legame cooperativo, ciò vuol dire che la
presenza di una SSB facilita il legame di un’altra SSB sul tratto di DNA adiacente.
Le SSB vanno a legarsi appena il singolo filamento emerge dall’elicasi, perciò non appena viene
denaturato. Permettono al DNA di avere una forma ben distesa facilitando il ruolo che poi quel
singolo filamento deve avere nelle successive reazioni, cioè di sintesi del DNA o sintesi del primer
a RNA.
L’interazione avviene in maniera sequenza-indipendente (non riconoscono, perciò, sequenze
specifiche) attraverso interazioni elettrostatiche con gruppi fosfato e basi.
RNA PRIMASI
Sono enzimi che catalizzano la creazione del primer a RNA. Ricordiamo, infatti, che in vivo per
creare la giunzione innesco-stampo ho bisogno di un primer a RNA (in vitro primer a DNA).
Senza questo primer non si crea la giunzione e la DNA pol non può partire.
L’RNA primasi può sintetizzare questi corti primer a RNA (5-10 nucleotidi) usando come stampo il
DNA a singolo filamento.
Vedremo che le RNA polimerasi, a differenza delle DNA polimerasi, per copiare un filamento non
hanno bisogno di primer.
La frequenza con cui interviene sui due filamenti di DNA è molto differente (il filamento
discontinuo può ricevere centinaia di frammenti di Okazaki, ciascuno con il suo primer).
Per la sintesi del filamento continuo ho bisogno di un solo primer, mentre per la sintesi del
filamento discontinuo avrò bisogno di più primer a seconda di quanti sono i frammenti di Okazaki.
La sua attività aumenta notevolmente quando è associata alla DNA elicasi a livello della forcella
replicativa.
L’RNA primasi è attiva solo sul DNA a singolo filamento svolto da poco sulla forca replicativa
(stampo di ssDNA associato a proteine SSB).
Ricordiamo che i primer, alla fine della sintesi, devono essere rimossi perché i miei filamenti di
DNA neosintetizzati devono essere tutti a DNA.
La rimozione degli inneschi è assicurata:
-in E. coli dalla ribonucleasi H e dalla DNA polimerasi I;
-negli eucarioti da un’endonucleasi FEN1;
In questa immagine (E. coli) abbiamo in alto il filamento parentale e in basso in verde il primer con
il frammento di Okazaki. Per
rimuovere il primer interviene
una ribonucleasi che elimina i
nucleotidi uno alla volta
andando a lavorare sui
ribonucleotidi; stacca un
ribonucleotide alla volta.
Essa è specifica nell’andare
ad idrolizzare l’RNA quando
è appaiato al DNA.
Rimuove tutto il primer tranne
un ribonucleotide che è legato
ad un deossiribonucleotide
che è quello di inizio del
frammento di Okazaki
successivo. Interviene una
esonucleasi 5’ ad eliminare
questo ultimo ribonucleotide. Ottengo un gap che occorre riparare, interviene, quindi, la DNA
polimerasi I. La DNA polimerasi I riconosce la giunzione innesco-stampo del frammento
neosintetizzato ed inizia a colmare il gap aggiungendo deossiribonucleotidi.
Negli eucarioti interviene FEN1 ed il meccanismo risulta
leggermente differente.
In questo caso la DNA polimerasi che si dedica alla sintesi
del filamento discontinuo si chiama delta. Quando la DNA
polimerasi delta viene a raggiungere l’estremità 5’ (del
frammento di Okazaki precedente) non si ferma ma
continua a sintetizzare spiazzando il filamento a valle ed
andando ad estendere il frammento di Okazaki
neosintetizzato. Spiazzandolo si crea un flap, un tratto che si
stacca dallo stampo e viene sollevato, dove poi interviene
una FEN 1. Il filamento stampo mancante continua ad
essere colmato dalla DNA polimerasi delta che procede con
la sintesi.
Quando la DNA polimerasi è impegnata nella sintesi, in
questo caso del filamento discontinuo, viene ad incontrare il
frammento di Okazaki successivo neosintetizzato, lo spiazza
e questo flap viene tagliato e l’eventuale gap viene colmato
dalla DNA pol delta.
A questo punto, quando arriva a colmare questo gap, il
legame fosfodiesterico mancante viene saldato da una DNA
ligasi.
La DNA ligasi è un enzima che ingaggia un legame fosfodiesterico:
La DNA ligasi, quindi, ripara i nic, cioè il legame fosfodiesterico mancante fra due nucleotidi
adiacenti. In questo caso il legame deve essere instaurato tra l’estremità 5’ P di un nucleotide con
l’estremità 3’OH di quello successivo. Per far ciò occorre attivare questa estremità 5’P con una
molecola di ATP. La DNA ligasi utilizza ATP in quanto trasferisce AMP rilasciando pirofosfato
sull’estremità 5’ così attivata, dal punto di vista energetico, e viene così attaccata dal 3’OH che
esegue un attacco nucleofilo.
RIMOZIONE SUPERAVVOLGIMENTI
In E. Coli abbiamo Girasi e Topoisomerasi IV e negli Eucarioti Topoisomerasi II.
I superavvolgimenti sono introdotti a valle della forcella di replicazione dall’azione della DNA
elicasi che denatura i due filamenti. Questa apertura della doppia elica provoca la comparsa a valle
di superavvolgimenti positivi e perciò con andamento destrorso. Se questi superavvolgimenti non
vengono rimossi possono bloccare la replicazione; è importante quindi che, mentre l’elicasi
disavvolge la doppia elica, la topoisomerasi vada direttamente a rimuovere i superavvolgimenti
positivi. Cioè taglia i due filamenti, fa passare la doppia elica integra e rinsalda l’estremità creando
un superavvolgimento negativo che è quello naturale e spontaneo del DNA.
Meccanismo di replicazione del DNA nei procarioti e
negli eucarioti
Meccanismo di replicazione del DNA nei procarioti:
La replicazione per avere inizio ha bisogno di un’origine di replicazione, chiamata anche
replicatore.
Nell’immagine è riportato il replicatore di E. coli, modello per gli organismi procarioti.
Si presenta con cinque regioni ripetute da 9pb ciascuna (in verde) che rappresentano il sito di
legame al DNA dell’iniziatore. Iniziatore sta ad indicare la proteina che riconosce l’origine di
replicazione e promuove la fusione, separazione delle due doppie eliche, creando poi, di
conseguenza, le due forcelle di replicazione. Questo perché la replicazione è bidirezionale e si basa,
quindi, su due forcelle di replicazione.
In E. coli l’iniziatore prende il nome di DnaA e il replicatore di OriC.
Accanto alle sequenze in verde vediamo in blu tre sequenze ripetute da 13pb ciascuna che sono gli
elementi che promuovono l’apertura della doppia elica.
I Dna A associati all’ATP (più molecole) riconoscono i siti di riconoscimento dell’oriC. Una volta
avvenuto il legame si ha la separazione della doppia elica a livello delle sequenze da 13pb.
Si crea una bolla di replicazione. A livello di questa bolla, su ciascun filamento, vengono
riconosciuti dal Dna B (una DNA elicasi) che, però, per legarsi al filamento necessita di essere
legato ad un aiutante, cioè un caricatore che prende il nome di DnaC.
Questo complesso è costituito da due copie, una si lega al filamento di Dna stampo e l’altra all’altro
filamento. È importante notare che la Dna elicasi fintanto che è associata al suo caricatore è inattiva,
quindi, sotto forma di complesso l’enzima Dna elicasi non funziona.
La fase successiva è il riconoscimento e legame di una primasi. La primasi (indicata in verde) è
l’enzima deputato a sintetizzare l’RNA, o meglio il primer a RNA. Una volta che la Dna elicasi ha
reclutato una molecola di primasi si ha che la primasi sintetizza per ciascun filamento stampo un
primo primer a RNA. Questo determina la dissociazione del caricatore dell’elicasi che rende attiva
l’elicasi e associata alla primasi inizia a separare la doppia elica che deve ancora essere denaturata e
copiata.
Notiamo dall’immagine che abbiamo due direzioni e quindi due forcelle di replicazione per ogni
origine di replicazione, una che va verso destra ed una che va verso sinistra.
Dobbiamo immaginare tutti i protagonisti di questo processo in doppio:
avremo, quindi, due replisomi, un replisoma che si impegna nella forcella di replicazione di destra
ed un altro che si impegna nella forcella di replicazione di sinistra.
Per rendere meglio l’idea possiamo immaginare una linea tratteggiata che, idealmente, divide in due
metà ed abbiamo una forcella da una parte ed una dall’altra. Ogni forcella ha il suo corredo di
proteine coinvolte nella replicazione.
RIASSUMENDO:
L’origine di replicazione viene riconosciuta da più proteine Dna A associate all’ATP. Dna A è
l’iniziatore, cioè comprende quelle proteine che legano l’origine di replicazione, in particolare a
livello delle sequenze ripetute da 9pb ciascuna. Questo determina la separazione della doppia elica
creando una bolla di replicazione partendo da regioni ripetute da 13pb. Una volta disponibili i
filamenti singoli avviene il caricamento della DNA elicasi associata al suo caricatore; quindi, il
caricatore aiuta la DNA elicasi, che è un esamero circolare, ad aprirsi e ricongiungersi attorno a
ciascun filamento. Ma la DNA elicasi quando è ancora associata al caricatore non è attiva. La fase
successiva, infatti, prevede che l’elicasi si leghi, quindi, recluti una primasi e la primasi, nel
momento in cui sintetizza il primer a RNA, determina il rilascio del caricatore con la conseguente
attivazione della DNA elicasi. Nel punto (e) nell’immagine vediamo due frecce che indicano il
movimento, una verso destra ed una verso sinistra creando le forcelle di replicazione e separando il
DNA a doppia elica che deve ancora essere replicato. A questo punto, nel momento in cui lo stampo
è disponibile entrano in gioco le DNA polimerasi rappresentate con una sorta di mano destra. Ce ne
sono tre che lavorano in maniera coordinata grazie ad un anello. Le DNA polimerasi che lavorano
per ciascuna forcella di replicazione sono tre e sono organizzate in un complesso chiamato:
DNA polimerasi III oloenzima.
In E. Coli l’RNA primasi viene chiamata DnaG.
Per semplicità nell’immagine non sono state indicate le SSB, ma nel momento in cui la DNA elicasi
viene a separare le nostre doppie eliche, le SSB vengono immediatamente a ricoprire il filamento
singolo in modo da evitare che si vadano di nuovo ad accoppiare.
Per ogni forcella di replicazione va sintetizzato sia il filamento continuo che quello discontinuo,
quindi, per coordinare l’applicazione su entrambi i filamenti avremo più DNA polimerasi, per la
precisione tre. In E. coli il coordinamento di queste tre polimerasi è coadiuvato dal legame con una
struttura chiamata caricatore della sliding clamp. È costituita da cinque subunità, di cui tre hanno
delle braccia flessibili che si muovono su e giù e vengono chiamate proteine t (tau);
Facciamo chiarezza:
l’enzima che si occupa della sintesi del DNA è chiamato core della Pol III; poi abbiamo il caricatore
della sliding clamp e la sliding clamp; tutto questo complesso è chiamato Dna polimerasi III
oloenzima.
OLOENZIMA: indica un complesso multiproteico in cui ho una proteina (core) che ha l’attività
catalitica ed è associata ad altri elementi, altre proteine che vanno ad aumentare, regolare,
coadiuvare la sua funzione.
Ho tre Pol III core perché una polimerasi sintetizza il filamento guida e le altre due si occupano
della sintesi del filamento discontinuo.
Per spiegare come funziona questo oloenzima a livello della forcella di replicazione è stato proposto
un modello, il modello a trombone, che spiega come è possibile il coordinamento delle due DNA
polimerasi impegnate nella sintesi del filamento discontinuo.
Ricordiamo che modello sta per ipotesi di come queste DNA Pol lavorano e deriva da evidenze
sperimentali.
La doppia elica che vediamo in grigio è la doppia elica che deve essere ancora aperta. Vediamo,
poi, i filamenti che sono stati aperti, sempre in grigio, e che fungeranno da stampo e per ognuno dei
due sono collocate le proteine SSB. In mezzo c’è l’oloenzima con il caricatore, le braccia ed una
DNA polimerasi per ogni braccio. La DNA polimerasi viene posta sul filamento stampo associata
con la nostra ciambella, cioè la sliding clamp che assicura che la DNA polimerasi sia altamente
processiva. Sul filamento continuo non c’è problema perché, abbiamo detto, nella sintesi del
filamento guida (o continuo) la DNA polimerasi si muove verso destra, nella stessa direzione della
forcella di replicazione e non ho nessun’interruzione. Nel disegno non è riportato il primer a RNA,
ma ricordiamo che per il filamento singolo c’è ed è uno solo.
È mostrata la DNA Elicasi (in arancione) che apre la doppia elica e manca la primasi che va a
sintetizzare il primer a RNA. Ricordiamo che per il filamento discontinuo avremo un primer a RNA
per ogni frammento di Okazaki presente. Nella sintesi di questo filamento sono coinvolte due
polimerasi; una prima che sta finendo di sintetizzare un frammento di Okazaki; la seconda che
viene reclutata immediatamente una volta che la DNA elicasi si è spostata di circa 1000 basi,
momento in cui ho sufficiente stampo.
In altre parole, in questo tipo di processo abbiamo una DNA polimerasi impegnata nel processo di
sintesi del filamento continuo e le altre due DNA polimerasi impegnate nel processo di sintesi dei
vari frammenti di Okazaki.
Arrivano sul filamento stampo per la sintesi del filamento discontinuo non contemporaneamente ma
prima una e poi l’altra, perché occorre avere una quantità di stampo sufficientemente lunga per
poter essere copiato. Quando una DNA polimerasi viene a colpire l’estremità 5’ del frammento di
Okazaki e quindi termina la sua sintesi, questa DNA polimerasi si stacca, attende che l’elicasi abbia
separato la doppia elica di circa 1000 basi fornendo uno stampo a singolo filamento sufficiente su
cui viene sintetizzato il primer ad innesco e viene caricata la sliding clamp con questa DNA
polimerasi.
Sul filamento stampo le due sliding clamp su cui non arrivano contemporaneamente possono essere
impegnate nella sintesi contemporanea dei frammenti di Okazaki ma solo se ho sufficiente stampo;
quindi, lavoreranno in maniera ritardata, cioè una delle due è avanti rispetto all’altra.
RICAPITOLANDO:
Sul filamento continuo ho una DNA polimerasi che lavora ininterrottamente fino alla fine.
Sul filamento discontinuo lavorano in contemporanea le due DNA polimerasi ma non saranno mai
entrambe allo stesso punto, perché il requisito fondamentale è che io abbia almeno 1000 basi sul
filamento stampo.
Vediamo le due forcelle, una che lavora verso sinistra ed una verso destra fino a giungere ad un
punto di terminazione, momento in cui queste forcelle vanno ad incontrare sequenze apposite che si
chiamano sequenze ter. La terminazione della replicazione è, perciò, controllata da queste sequenze
ripetute di 23pb che sono esattamente all’opposto (180°) rispetto ad oriC (origine di replicazione).
Le forcelle di replicazione andranno poi, quindi, ad incontrarsi dalla parte opposta rispetto al punto
da cui erano partite. Per impedire che le forcelle di replicazione continuino e vadano oltre queste
sequenze ter, queste legano alcune proteine dette TBP che sta per Ter Binding Protein e creano un
blocco che fa fermare le forcelle.
Alla fine della replicazione ottengo due molecole di DNA replicate con in grigio il filamento
parentale e in arancione quello copiato. Per terminare il tutto bisogna separarle e per separarle
occorre l’intervento di un ulteriore enzima, la Topoisomerasi IV di classe seconda, cioè quelle che
rompono i due filamenti e fanno passare la doppia elica integra attraverso la rottura e rinsaldano la
stessa. Quindi, tra le varie funzioni, le topoisomerasi possono decatenare i prodotti della
replicazione.
MECCANISMO DI REPLICAZIONE DEL DNA NEGLI EUCARIOTI
La forca replicativa è più complessa negli eucarioti ed è anche meno conosciuta.
Anche a livello eucariotico ad ogni attività corrisponde una proteina.
Sono tre le differenze principali tra eucarioti e procarioti:
1. inizio replicazione
2. switching delle polimerasi
3. terminazione replicazione cromosomi lineari
In questa immagine vengono illustrate le attività e le funzioni delle DNA polimerasi in procarioti ed
eucarioti.
Notiamo che nei procarioti (E. coli) le DNA polimerasi sono specializzate in ruoli diversi
all’interno della cellula e sono piuttosto numerose; ne abbiamo più di cinque nei procarioti e negli
eucarioti arriviamo a 15;
NB: molte di queste DNA polimerasi intervengono con altre funzioni (non solo quelle specifiche
per la replicazione) come, ad esempio, nella riparazione del DNA;
Negli Eucarioti abbiamo, in particolare, le polimerasi che sono impegnate a livello della forcella di
replicazione rappresentate dalla Pol alfa (sintesi innesco), Pol delta (sintesi DNA sul filamento
discontinuo) e Pol epsilon (sintesi DNA sul filamento guida);
Pol delta e Pol epsilon sono entrambe coinvolte anche in due meccanismi di riparazione, quello per
escissione delle basi e dei nucleotidi;
Esistono, inoltre, altre DNA pol a livello eucariotico coinvolte in altri meccanismi di riparazione.
Lo switching è una caratteristica peculiare della forcella replicativa degli eucarioti:
In questa immagine troviamo in alto il DNA parentale grigio ed è stato sintetizzato un frammento di
Okazaki, con in verde il primer a RNA ed in grigio il DNA neosintetizzato.
Occorre, ora, andare a sintetizzare un nuovo frammento di Okazaki; per prima cosa, bisogna
sintetizzare il primer a RNA; Ecco che, quindi, lo stampo viene riconosciuto da questa DNA Pol
alfa che è associata ad un’attività primasica; Successivamente la DNA Pol alfa continua ad
allungare questo primer arrivando ad un segmento di DNA di circa 50-100 nucleotidi che
comprende il primer e l’allungamento che è stato realizzato da Pol alfa.
La DNA alfa, come vediamo, però, non è altamente processiva (non è associata a nessuna pinza
scorrevole) ed infatti, dopo, si dissocia insieme alla primasi. Al suo posto interviene la Pol delta
associata alla sliding clamp e provvede a terminare la sintesi del frammento di Okazaki fino ad
incontrare l’estremità 5’ del frammento successivo.
Lo switching, perciò, è dato dallo scambio sullo stampo della DNA Pol alfa primasi con la DNA
Pol delta.
Analoga situazione si presenta sullo stampo per il filamento continuo. In questo caso avremo la
DNA Pol alfa primasi che andrà a sintetizzare quell’unico primer a DNA e lo andrà ad allungare di
50-100 nt. Anche in tal caso la DNA Pol alfa primasi andrà a dissociarsi e al suo posto viene
reclutata sullo stampo la DNA Pol epsilon che è la DNA Pol che si occupa, appunto, della sintesi
del filamento continuo.
Lo switching, in altre parole, avviene tra la DNA Pol alfa primasi che switcha con la DNA Pol delta
se siamo sullo stampo per la sintesi del filamento discontinuo o con la DNA Pol epsilon se siamo
sullo stampo per la sintesi del filamento continuo.
Nell’immagine non sono riportati altri elementi ugualmente importanti come, ad esempio, Mcm2-7
che rappresenta la nostra elicasi e RF-C che è il caricatore della sliding clamp.
VISIONE ATTUALE DELLA FORCA REPLICATIVA NEI CROMOSOMI
EUCARIOTICI:
Come attività è identica a quella dei procarioti, cambiano solo i nomi.
La struttura esamerica che vediamo è l’elicasi che negli eucarioti viene chiamata Mcm2-7.
Abbiamo poi le due polimerasi, tra cui la Pol epsilon associata allo sliding clamp (PCNA).
L’altra sliding clamp è associata con la Pol delta. Abbiamo un caricatore di sliding clamp che si
chiama RFC che interagisce con le sliding clamp.
Vediamo, poi, in giallo, le proteine RPA che sarebbero le SSB che ci assicurano che il filamento
rimanga singolo nel momento in cui il DNA viene denaturato.
ATTENZIONE:
Una novità rispetto ai procarioti è rappresentata dalle GINS e cdc45, importanti molecole che
provvedono ad attivare opportunamente l’elicasi.
Altri attori:
Pol alfa primasi: una volta sintetizzato il primer e allungato il nostro DNA di circa 100nt in totale
(compreso il primer) si dissocia;
FEN1, Ligasi: coinvolta nel rimuovere il primer a RNA.
LA FASE DI INIZIO DELLA REPLICAZIONE NEGLI EUCARIOTI:
Ricordiamo che i replicatori negli eucarioti sono molteplici. Nel cromosoma umano, ad esempio,
arriviamo fino a 10.000 replicatori.
I replicatori vengono ad essere attivati una sola volta per ciclo cellulare (fase S) ma non tutti in
contemporanea, alcuni sì ed altri no.
Ogni origine di replicazione assicura che durante la fase S tutto il DNA della cellula venga replicato
solo una volta.
MECCANISMO:
Nell’immagine in alto vediamo il DNA parentale in grigio con cinque origini di replicazione
riconosciute dall’iniziatore, proteina che provvede a legarsi all’origine di replicazione solo nei punti
3 e 5. In seguito a questo riconoscimento si crea la bolla di replicazione e le forcelle partono a
partire dalla forcella di replicazione 3 e 5. Man mano che queste forcelle si spostano aprendo il
DNA a destra e a sinistra di ciascuna bolla di replicazione abbiamo che praticamente le origini di
replicazioni non attivate adiacenti vengono replicate in maniera passiva. Questo perché vengono
rivestite dalla bolla di replicazione che si apre e viene copiata. Quindi le origini di replicazione che
all’inizio non erano state riconosciute verranno comunque replicate in un secondo momento perché
la bolla apre e investe (motivo per cui parliamo di passiva) quelle non riconosciute.
Ad eccezione dell’origine 1 che si è attivata tramite riconoscimento con un iniziatore.
Le croci in rosso indicano che l’attivazione dei replicatori parentali vengono a bloccare l’attivazione
dei replicatori sulle molecole neosintetizzate (in rosso) fino al ciclo cellulare successivo.
Nel momento in cui vengono attivate le origini di replicazioni sui cromosomi si crea un blocco
nell’attivazione delle stesse origini di replicazione ma sul filamento neosintetizzato. In questo modo
si evita che il DNA venga replicato due volte.
L’origine di replicazione qui riportata è quella del lievito.
ORC come anche la DnaA, per legarsi al replicatore viene ad essere associata ad ATP.
Il replicatore (ORC) è costituito da due regioni conservate (verde) indicate con A e B1, mentre
invece B2 è l’elemento dove viene caricata l’elicasi.
Infatti, una differenza sostanziale con i procarioti è che ORC legato ad ATP si associa ai tratti
conservati A e B1 ma non promuove la separazione dei due filamenti. Quello che fa è coadiuvare il
reclutamento dell’elicasi nel tratto B2.
A differenza del DnaA nei procarioti, che una volta legato il replicatore promuove la separazione
delle regioni indicate in azzurro, ORC si lega alle regioni in verde ma non determina separazione
nella regione adiacente. Piuttosto, in B2 favorisce il caricamento della elicasi.
Il caricamento dell’elicasi e l’attivazione dell’elicasi avvengono in due momenti diversi della fase
del ciclo cellulare.
In particolare, il caricamento dell’elicasi sui replicatori avviene in fase G1 mentre l’attivazione
dell’elicasi e l’assemblaggio del replisoma si avrà in fase S.
Questa differenza temporale fra il caricamento dell’elicasi e l’assemblaggio del replisoma durante il
ciclo cellulare è fondamentale perché assicura che ciascun cromosoma venga replicato soltanto una
volta per ciclo cellulare.
Come avviene il caricamento dell’elicasi?
Abbiamo il replicatore del DNA che viene riconosciuto da ORC (iniziatore) associato ad ATP e
successivamente viene legato da un caricatore di elicasi che si chiama Cdc6 associato anch’esso ad
ATP. Con questo complesso va ad associarsi l’elicasi che negli eucarioti si chiama Mcm2-7 ed ha
una struttura esamerica. Ogni elicasi è associata a sua volta ad un ulteriore caricatore di elicasi che
si chiama Cdt1. A questo punto due copie di elicasi associate a quest’ultimo vengono ad essere
reclutate dal complesso, creato precedentemente sul replicatore da ORC e Cdc6. Quindi a questo
complesso vengono associate due elicasi ciascuna con il proprio caricatore.
In seguito a questo caricamento vediamo che Cdc6 idrolizza l’ATP e viene rilasciato insieme
all’altro caricatore. Questo fa si che le due copie di elicasi vengano, quindi, posizionate sul nostro
DNA (caricamento) a livello dell’origine di replicazione.
Successivamente anche ORC perde il contatto con l’elicasi con contemporanea idrolisi dell’ATP.
RIEPILOGO:
Il caricamento dell’elicasi avviene innanzitutto partendo dal riconoscimento del replicatore da parte
dell’iniziatore (ORC associato ad ATP). Successivamente si ha l’entrata di uno dei due caricatori di
elicasi (Cdc6 con ATP). A questo punto vengono reclutate, a livello del replicatore, due copie di
elicasi ciascuna associata con un altro caricatore (Cdt1). In seguito a questo complesso proteico il
caricatore (Cdc6) viene ad idrolizzare il suo ATP seguito dall’altro caricatore, determinando il
posizionamento sulla doppia elica del DNA delle due elicasi. ORC idrolizza l’ATP e si dissocia
dall’elicasi. Le due elicasi, una volta caricate, creano un contatto fra di loro chiamato contatto testa
a testa. Tutto questo avviene in fase G1, quindi prima della replicazione del DNA. L’attivazione
dell’elicasi avverrà nella fase successiva, ovvero nella fase S.
L’attivazione dell’elicasi avviene in fase S. Le due elicasi caricate vengono attivate da due proteine
che si chiamano Cdk e Ddk, due protein chinasi (aggiunta di gruppo fosfato).
Una volta che in fase S queste due proteine hanno fosforilato le due elicasi la fosforilazione porta il
legame all’elicasi delle proteine Cdc45 e GINS, due attivatori dell’elicasi. Questi due attivatori
stimolano fortemente l’attività elicasica determinando la forma attiva dell’elicasi, chiamata
complesso CMG. C sta per Cdc45, M per Mcm2-7 e G per GINS.
L’attivazione dell’elicasi ha due effetti molto importanti:
-vengono interrotti i contatti testa a testa fra le elicasi;
-ogni elicasi si posiziona su un filamento ed ognuna viene a muoversi creando la direzione di
replicazione della forcella.
Ricordiamo che anche negli eucarioti la replicazione è bidirezionale, quindi a livello dell’origine di
replicazione ho due forcelle che si muovono in contemporanea, una a destra ed una a sinistra.
In fase G1, quindi, vengono selezionate le origini di replicazione che andranno poi ad essere attivate
in fase S. Ricordiamo che in G1 non carico su tutte le origini di replicazione, ma solo su alcune. In
fase S, poi, vengono solo attivate, non c’è nessun nuovo caricamento.
Questo permette di avere la replicazione del DNA una sola volta durante ciascun ciclo cellulare.
In fase G1 i livelli di Cdk sono molto bassi, motivo per il quale l’elicasi non viene attivata.
Nelle fasi successive ho alti livelli di Cdk, perciò le elicasi caricate vengono attivate. In queste fasi,
però, non ho altri caricamenti perché Cdk da una parte fosforila le elicasi promuovendo
l’attivazione ma contemporaneamente fosforilano ORC e il caricatore di elicasi, evitando che questi
carichino nuove elicasi.
La fosforilazione ha, infatti, diversi significati. Per alcune proteine la fosforilazione promuove
l’inibizione dell’attività enzimatica, per altre la promozione dell’attività enzimatica.
Replicazione dei telomeri nei cromosomi lineari
eucariotici
La replicazione dei telomeri nei cromosomi lineari è un problema.
Perché?
Al termine della replicazione avrò il filamento continuo e il filamento discontinuo dove i diversi
primer a RNA dovranno essere rimossi e il gap che si crea verrà colmato sfruttando il fatto che
ciascun frammento di Okazaki avrà un’estremità 3’OH libera che sarà utilizzata come punto in cui
aggiungere i nucleotidi, usando sempre il filamento stampo, per colmare questi gap.
Va tutto bene fino a che non si raggiunge l’ultimo frammento di Okazaki, perché in questo caso non
ho la possibilità di riparare quest’ultimo frammento, in quanto manca dell’estremità 3’OH.
Questo DNA, che risulta non completamente replicato, nelle replicazioni successive creerà un
cromosoma più corto. Il problema è che, via via, in questa situazione si perderebbe sempre del
materiale genetico, producendo cromosomi sempre più corti.
La natura, per deviare questo problema, si è inventata un particolare meccanismo di replicazione
diverso che utilizza la telomerasi.
La telomerasi è formata da una componente proteica (in grigio) e una componente a RNA (in verde)
chiamata TER.
Ricordiamo la struttura del telomero umano:
Il telomero umano è costituito da una regione ripetuta TTAGGG che si presenta con un corto tratto
a doppia elica ma anche un lungo tratto a singolo filamento al 3’. La telomerasi agirà proprio su
questo filamento singolo andandolo ad allungare.
L’RNA telomerasi (TER) ha una sequenza che si appaia con le ultime quattro basi dell’estremità 3’
del DNA a singolo filamento del telomero. Questa estremità viene ad essere riconosciuta dall’RNA
della telomerasi e la componente proteica che ha un’attività di trascrittasi inversa va a copiare
l’RNA a DNA aggiungendo i diversi nt al DNA a singolo filamento del telomero, che quindi viene
allungato.
La telomerasi ora trasloca, shifta, si riappaia con la sua componente a RNA e ricomincia la sintesi.
Ripete questo passaggio fino a raggiungere una lunghezza notevole.
La telomerasi è molto particolare. Possiamo dire che essa sia una DNA polimerasi che per riuscire a
sintetizzare il DNA usa uno stampo non esogeno ma endogeno, cioè la sua stessa componente a
RNA.
In questo modo l’estremità 3’ viene allungata ma creo anche dello stampo per allungare il 5’.
Consente perciò l’allungamento di entrambe le estremità e i geni all’interno del cromosoma
vengono protetti.
Le proteine che legano il telomero vanno ad influenzare l’attività della telomerasi e la lunghezza del
telomero stesso.
Abbiamo proteine che provvedono a legare le regioni a doppia elica promuovendo una regolazione
in senso negativo dell’attività telomerasica, perciò inibendola. Queste proteine sono chiamate Rap1,
Rif1 e Rif2.
L’inibizione viene realizzata in questo modo:
quando i telomeri sono piuttosto corti su di essi abbiamo un numero ridotto di questo tipo di
proteine e quindi la capacità di inibire è trascurabile. La telomerasi continua la sua azione. In questo
modo, infatti, la telomerasi continua ad allungare l’estremità 3’ per andare poi ad allungare anche
l’estremità 5’. Allungando le regioni a doppio filamento si possono unire anche altre proteine che
attraverso un’azione cooperativa producono maggiore inibizione sulla telomerasi creando una sorta
di feedback negativo che si traduce in un’assenza di allungamento.
RIEPILOGANDO:
se il nostro telomero è corto ci sono poche proteine inibitorie quindi la telomerasi continua a
lavorare indisturbata; continuando ad allungare l’estremità 3’ si viene a creare un ulteriore stampo
su cui l’apparato replicativo può lavorare allungando anche l’estremità 5’ e creando un’estensione
del telomero ed una regione a doppia elica. In questa regione a doppia elica si legano altre proteine
inibitorie e la loro azione cooperativa inibisce l’attività di allungamento della telomerasi.
D’altra parte, abbiamo che a promuovere l’attività telomerasica ci sono altre proteine che legano
l’estremità 3’ e si chiamano Cdc13. Esse regolano in maniera positiva l’azione della telomerasi.
Queste proteine, inoltre, hanno un’altra funzione molto importante, cioè quella di proteggere il
telomero dall’azione degli enzimi di riparazione del DNA.
Infatti, all’interno della cellula la presenza dell’estremità 3’ a singolo filamento potrebbe essere
riconosciuta, in maniera errata, come una rottura del DNA a doppio filamento.
Per evitare che ciò accada il telomero non deve essere mai lasciato nudo ma deve essere sempre
associato a delle proteine che impediscono il suo erroneo riconoscimento da parte dei sistemi di
riparazione.
Studi successivi hanno proposto un’ipotesi alternativa su come i telomeri possono difendersi dagli
enzimi di riparazione.
I telomeri umani, in vitro, creano una struttura circolare chiamata T-loop.
Nel T-loop l’estremità 3’ a singolo filamento del nostro telomero, in seguito al ripiegamento
dell’estremità stessa del telomero, va ad appaiarsi con una regione complementare a livello della
doppia elica. In questo modo, questa estremità invade il tratto a doppio filamento del telomero
stesso, scansa uno dei due filamenti e si appaia con quello complementare. Come vediamo
dall’immagine, ora il filamento con l’estremità 3’ non può più essere riconosciuto da eventuali
enzimi di riparazione.
Un’altra possibilità che è stata proposta è quella che questo T-loop, oltre a non essere riconosciuto,
protegga da ulteriore azione della telomerasi, impedendo quindi di aggiungere ulteriormente nt a
questa estremità quando non è più necessario.
Danno al DNA, riparazione e ricombinazione
In questo capitolo andremo a prendere in considerazione:
• gli errori di replicazione e la loro riparazione
• i danni al DNA
• la riparazione e la tolleranza del danno al DNA
• la ricombinazione omologa e non omologa
• la ricombinazione per trasposizione
• la ricombinazione conservativa sito-specifica (CSSR)
Gli errori di replicazione e la loro riparazione
Mutazioni puntiformi: transizioni e transversioni
Le mutazioni sono dei cambiamenti, delle variazioni nella sequenza del DNA e le mutazioni più
semplici sono quelle puntiformi, in cui abbiamo che una base nucleotidica viene modificata, viene
sostituita con un’altra.
Possiamo andare a distinguere queste sostituzioni
nucleotidiche in:
• transizioni à si ha quando una base purinica viene
sostituita con un’altra base purinica (oppure una base
pirimidinica viene sostituita con un’altra base
pirimidinica), per esempio da adenina a guanina o
viceversa
• transversioni à sono determinate dalla sostituzione
di purine con pirimidine o viceversa, per esempio
un’adenina che viene sostituita con una citosina o
timina o una guanina che viene sostituita con una
timina o citosina
Il processo a due passaggi della mutazione puntiforme
Perché la mutazione puntiforme vada a diventare un danno permanente al DNA (e quindi si fissi nel
DNA), occorre un processo a due passaggi à occorrono cioè due successive replicazioni.
In particolare, se prendiamo ad esempio l’immagine sottostante, abbiamo un tratto di DNA e i due
filamenti grigi fungono da
stampo per il primo ciclo
replicativo; in rosso abbiamo i
due filamenti neo-sintetizzati,
copiati sulla base dello
stampo. Vediamo che però
uno dei due filamenti neosintetizzati presenta
un’incorporazione scorretta
(che viene solitamente
disegnata con una punta nel
filamento), si ha infatti che la
A, anziché avere una T, ha una G.
A questo punto, abbiamo che, eventualmente, questo appaiamento scorretto o mismatch può essere
riconosciuto e riparato. Se però la riparazione non avviene, perché non sempre le riparazioni sono
infallibili (possono non riparare correttamente o non accorgersi del mismatch), allora questo
filamento neo-sintetizzato contenente la base errata incorporata, quando viene usato come stampo,
nel secondo ciclo replicativo, porterà a un DNA che presenta in quella posizione, anziché la coppia
corretta AT, una coppia scorretta CG.
In questo modo, quindi, ho una fissazione della mutazione con un danno permanente.
Fedeltà di replicazione del DNA
Sappiamo che la replicazione è un processo fedele e abbiamo visto come questa fedeltà è dovuta
alla cooperazione di 3 elementi importanti:
• la selettività delle polimerasi
• l’attività esonucleasica (l’attività di correttore di bozze 3’-5’ che la DNA-polimerasi
possiede)
• la riparazione degli errori à sta a indicare che esiste quindi un sistema ulteriore dedicato
specifico per riparare i mismatch, cioè gli appaiamenti scorretti à infatti, la DNApolimerasi non è infallibile e per fortuna abbiamo questo sistema di riparazione dei
mismatch, il quale aumenta notevolmente la correttezza della sintesi del DNA, anzi è
persino il principale responsabile della fedeltà della replicazione del DNA stesso
Il sistema di riparazione dei mismatch (MMR) per la correzione degli errori di appaiamento
in E. coli
Il sistema di riparazione dei mismatch rappresenta quindi il principale sistema per correggere
appaiamenti scorretti.
Vediamo ora il suo meccanismo in E. coli, questo perché nei procarioti il meccanismo è più
semplificato, anche se è fondamentalmente analogo anche negli eucarioti, si hanno infatti delle
corrispondenti proteine, le quali cambiano ovviamente nome e solitamente sono anche presenti in
numero maggiore, ma il filo logico del processo è lo stesso a quello che descriviamo ora nei
procarioti come E. coli.
Come avviene quindi questo processo?
Nell’immagine abbiamo in grigio il filamento parentale del DNA e in rosso il filamento neosintetizzato che contiene una base errata, creando un appaiamento errato.
L’appaiamento errato crea sempre una distorsione della doppia elica (che nel disegno viene
indicata, come già detto, dalle punte).
Questo meccanismo di riparazione dei mismatch utilizza, in particolare, 3 proteine, che si chiamano
MutS, MutL e MutH:
1. MutS ha due tenaglie, si lega al DNA e inizia a scorrere su di esso finché non riconosce la
distorsione sul DNA; si associa quindi alla distorsione e tra l’altro, legandosi poi l’ATP, va a
distorcere ancora di più la doppia elica (nel disegno non si vede, ma possiamo vedere come
la conformazione del
dimero MutS viene
modificata in virtù
del fatto che questo
va a distorcere
ancora di più la
doppia elica), per
renderla più evidente
laddove è presente il
mismatch.
2. Dopodiché vediamo
che MutS va a
reclutare due altre
proteine, MutL e
MutH, che si posizionano sulla doppia elica in posizione adiacente a MutS (che si trova
sull’appaiamento errato) à in particolare MutL sul filamento parentale e MutH su quello
neo-sintetizzato.
MutH, tra l’altro, è una proteina che possiede attività endonucleasica à quello che fa infatti,
è andare a rompere un legame fosfodiesterico a livello del filamento neosintetizzato.
In seguito a questo nick (rottura di un legame fosfodiesterico), vengono reclutate una elicasi
(UvrD), che serve per denaturare e aprire la doppia elica, e una esonucleasi che, avendo
questa estremità 5’ libera, ci si attacca e inizia a staccare ad uno ad uno i nucleotidi e lo fa
fino a poco oltre il livello della distorsione, creando alla fine un bel gap. Questo gap deve
essere ovviamente colmato, riparato, per fare ciò abbiamo lo stampo (il filamento parentale)
che è integro e che può essere utilizzato come stampo per riparare il gap.
Inoltre, vediamo che il filamento neo-sintetizzato presenta un’estremità 3’-OH libera ed è
appaiato chiaramente con il filamento parentale, creando una sorta di giunzione innesco
stampo. Ecco che quindi questo gap viene riparato dall’intervento di una DNA-polimerasi,
che non è quella replicativa vista in precedenza, ma una differente coinvolta in questi
meccanismi di riparazione (DNA-polimerasi III) à il suo meccanismo d’azione è analogo a
quello della DNA-polimerasi replicativa, con l’unica differenza che questa è specifica per
questi sistemi di riparazione.
La DNA-pol III andrà quindi ad aggiungere nucleotidi all’estremità 3’, aggiungendo
nucleotidi complementari allo stampo (e correggendo quindi il mismatch iniziale) e, come al
solito, rimarrà un piccolo nick da riparare ad opera di una DNA ligasi (non indicata in
immagine).
Negli eucarioti, come già detto, gli attori sono analoghi, anche se cambia il nome e abbiamo un
numero di proteine maggiore, ma il processo di base è identico.
La metilazione Dam sulla forca replicativa
Come fa MutH a riconoscere qual è il filamento che deve tagliare (quello neo-sintetizzato)?
Per spiegarlo dobbiamo ricordare l’azione di un enzima molto importante in E. coli, che si chiama
Dam metilasi à è un enzima responsabile della metilazione del DNA a livello di una sequenza
ripetuta, palindromica, che è (in direzione 5’-3’) GATC.
Nel genoma di E. coli si ha che questa sequenza palindromica 5’ GATC 3’ viene ad essere metilata
a livello dell’adenina e questo tipo di sequenza palindromica è molto frequente (1 ogni 256 bp).
Quando andiamo a replicare il nostro
DNA, nella forca replicativa, si avrà che
il DNA parentale sarà metilato in questa
sequenza, mentre quello neo-sintetizzato
deve essere ancora metilato dall’enzima
(la metilazione è quindi una modifica
post sintesi del DNA) ed esiste un lasso
di tempo, di pochi minuti, prima che la
Dam metilasi vada a metilare queste
sequenze ripetute anche sul filamento
neo-sintetizzato.
Praticamente, da quando il DNA viene
sintetizzato a quando il filamento neosintetizzato viene metilato, si ha quindi un gap di qualche minuto, nel quale si ha uno stato del DNA
che si chiama emi-metilato, cioè abbiamo che queste sequenze ripetute palindromiche si troveranno
in uno stato di emi-metilazione (metilate sul filamento parentale ma non su quello neo-sintetizzato,
in attesa di venir metilato da Dam metilasi).
Sfruttando questi minuti in cui il DNA è nello stato emi-metilato, il filamento di nuova sintesi
risulta identificabile à la proteina MutH viene a legarsi a questi siti emi-metilati (quindi sul
filamento neo-sintetizzato avremo tante MutH che si associano a livello di questi siti). A questo
punto, la MutH legata a questi siti emi-metilati ha una attività endonucleasica ridotta, latente e si
attiva se e solo se viene in contatto con un’adiacente MutS e MutL ad esso associato che ha
riconosciuto il mismatch.
Le cellule eucariotiche hanno il sistema di riparazione dei mismatch, ma non presentano MutH e
tantomeno, a differenza di E. coli, la possibilità di distinguere il filamento parentale dal filamento
neo-sintetizzato attraverso la presenza di questi siti emi-metilati.
Quindi come può avvenire il riconoscimento della base erroneamente inserita sul filamento neosintetizzato?
Se pensiamo alla sintesi del filamento discontinuo, questo viene sintetizzato tramite i frammenti di
Okazaki, i quali, prima di essere uniti, sono separati tra di loro da un nick, che ricorda proprio
quello creato da MutH in E. coli.
Recentemente, inoltre, si è visto negli esperimenti che l’omologo umano di MutS, che si chiama
MSH, viene a interagire con la pinza scorrevole, che, una volta terminata la replicazione, rimane
associata al DNA (mentre la DNA-polimerasi si stacca) e una delle sue funzioni è quella di reclutare
appunto MSH. In questo modo MSH viene portato sul filamento discontinuo che si sta sintetizzando
e scorre fino a riconoscere la distorsione creata dal mismatch. Successivamente vengono reclutate
altre proteine e in particolare un’esonucleasi, che andrà a tagliare fino ad arrivare alla distorsione o
poco oltre.
Un sistema analogo può avvenire anche sul filamento guida o continuo à anche in questo caso,
l’interazione con la sliding clamp potrebbe consentire il reclutamento delle proteine coinvolte nel
sistema di riparazione dei mismatch, questa volta sull’estremità 3’ crescente del filamento guida
(sappiamo infatti che nel filamento guida non ho frammenti e quindi lavoro direttamente
sull’estremità 3’ in accrescimento, quindi mentre avviene la sintesi del DNA).
Quindi, nel caso degli eucarioti, il ruolo fondamentale è quello della sliding clamp, che serve a
reclutare le proteine coinvolte nei sistemi di riparazione del DNA, tra cui il sistema di mismatch
repair.
I danni al DNA e la riparazione e la tolleranza del
danno al DNA
Naturalmente le mutazioni del DNA possono insorgere non solo per errori di replicazione, quindi
per appaiamenti errati come visto poco fa, ma anche in seguito a danni al DNA, che possono essere
causati da fattori esogeni, ovvero fattori ambientali esterni (es. radiazioni, sostanze mutagene come
composti chimici che possono aumentare la frequenza di insorgenza delle mutazioni) ma anche da
fattori endogeni, come ad esempio l’acqua, che può provocare delle mutazioni spontanee nel DNA,
favorendo meccanismi di idrolisi.
Tipi di danno al DNA
I danni al DNA possono essere a carico delle basi o a carico dello scheletro zucchero-fosfato.
Danni alle basi:
• Errori di replicazione (incorporazione di un nucleotide scorretto, mismatch, di cui abbiamo
già parlato)
• Idrolisi del legame beta-N-glicosidico (idrolisi delle basi) à si va quindi a perdere delle basi
• Ossidazione
• Deamminazione
• Alchilazione
• Fotoriattivazione
Danni allo scheletro zucchero-fosfato:
• Determinano delle rotture a singolo o doppio filamento
Nella tabella sottostante ci viene mostrato quale tipo di meccanismo e quindi sistema di riparazione
del DNA viene messo in atto in base al danno:
La cosa importante da ricordare qui è che per ogni tipo di danno abbiamo uno o più meccanismi di
riparazione dedicati.
Modificazioni di nucleotidi causate da danni endogeni al DNA
Per quanto riguarda le modificazioni di nucleotidi a carico del DNA, in particolare a causa di danni
endogeni, vediamo nell’immagine diversi tipi di modificazioni:
A. Per esempio, le basi puriniche possono essere depurinate à in questo caso l’acqua
promuove un’idrolisi del legame beta-N-glicosidico (quindi tra lo zucchero e la base azotata,
la guanina) e quindi la guanina viene persa e lo zucchero risulta privo della base. Questi siti
vengono anche chiamati siti abasici o apurinici
B. Ancora l’acqua può anche promuovere la rimozione del gruppo amminico sulla citosina,
producendo una
deamminazione e
convertendo la
citosina in uracile, il
quale legherà in
questo caso
l’adenina e quindi
se questo danno non
viene riparato, si
creerà un
appaiamento errato
e di conseguenza la
possibilità di introduzione di una mutazione puntiforme
C. La guanina, inoltre, può essere anche alchilata; una delle posizioni più frequenti è l’ossigeno
sul C6, che viene metilato/viene alchilato à in queste condizioni, la O6-metilguanina non si
appaia più con la citosina, ma con la timina e, quindi, anche in questo caso si possono creare
degli appaiamenti errati e quindi mutazioni puntiformi
D. Anche l’ossidazione delle basi a carico delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) viene
praticamente ad essere un esempio di danno alle basi del DNA; molto spesso una delle
posizioni più frequentemente ossidate è quella sul C8 della guanina, che viene quindi
ossidata a 8-Oxoguanina à la quale può appaiarsi sia con la citosina (appaiamento corretto)
ma anche con l’adenina (appaiamento scorretto) e quindi si può avere una transversione
(perché da GC passo a AT) e di conseguenza si instaura, anche in questo caso, una
mutazione puntiforme
I danni endogeni al DNA sono, tra l’altro, molto frequenti e, in questa tabella, si può vedere la
frequenza di questi danni:
NB: Lesioni al DNA e danni al DNA sono sinonimi
Fortunatamente, per questi danni alle basi abbiamo un meccanismo di riparazione dedicato, che si
chiama riparazione per escissione di basi à l’enzima chiave di questo meccanismo è la DNA
glicosilasi
Riparazione per escissione di basi (BER, Base Excision Repair)
Per semplicità, nell’immagine vediamo solo il filamento in cui c’è stata, in questo caso, una
deaminazione.
La glicosilasi interviene quindi tagliando il legame beta-N-glicosidico tra questa citosina deaminata
(che è diventata quindi un uracile) e lo zucchero à il risultato dell’azione della glicosilasi è la
creazione di un sito abasico (sito AP), in cui rimane solo lo zucchero privato della base danneggiata.
A questo punto interviene la endo/exo nucleasi AP (un complesso costituito da una endonucleasi e
una esonucleasi) à la endonucleasi taglierà sopra il sito abasico, producendo un’estremità 3’-OH
libera, mentre dall’altra parte abbiamo la esonucleasi che taglia fino a subito dopo il sito abasico.
In altre parole, il sito abasico viene rimosso dal taglio di una endonucleasi (che crea un nick) e di
una esonucleasi (che poi rimuove questo zucchero privo di base). Quello che si crea è un piccolo
gap e perciò, nella fase successiva, si avrà l’azione di una DNA-polimerasi I che sfrutterà il 3’-OH
libero per addizionare il nucleotide mancante e per capire qual è questo nucleotide mancante
sfrutterà il filamento stampo integro parentale (qui non illustrato), in modo da addizionare la base
corretta (una citosina in questo caso appunto).
Infine, come al solito, interviene una DNA ligasi per ricreare il legame fosfodiesterico.
Esistono diversi tipi di DNA glicosilasi, di cui le principali (di mammifero) sono riportate in questa
tabella:
Ogni DNA glicosilasi viene identificata con una sigla e un nome specifico, ma la cosa da ricordare è
che le DNA glicosilasi vengono ad essere importanti perché ogni glicosilasi si occupa di
riconoscere una lesione specifica lavorando su un substrato specifico.
Struttura del complesso DNA-glicosilasi
In questa immagine, ottenuta per cristallografia ai raggi X,
vediamo la struttura del complesso DNA-glicosilasi. In
viola abbiamo le due eliche di DNA e in grigio la DNA
glicosilasi. In rosso è indicata la base danneggiata che deve
essere rimossa dalla glicosilasi.
La prima cosa che si può notare è che, grazie a questi studi
di cristallografia ai raggi X, vediamo che la base
danneggiata viene proprio “ribaltata” fuori dal DNA ed è
come se si andasse a posizionare/a sedere nella tasca
enzimatica della glicosilasi.
Questi enzimi di riparazione per escissione di basi, quindi, eliminano le basi danneggiate
“ribaltandole” fuori dal DNA.
Però, è anche vero che diventa piuttosto difficile pensare che la glicosilasi, mentre scorre sul DNA,
vada a ribaltare una base alla volta, alla ricerca della sua anomalia specifica à questo perché
richiederebbe un gran consumo di energia.
Quello che ancora non è conosciuto è proprio il meccanismo specifico con il quale questi enzimi
ricercano le basi danneggiate sul DNA.
Dimeri di pirimidina e loro effetto sulla doppia elica del DNA
Un altro tipo di danno molto frequente a livello del DNA è la formazione di dimeri di pirimidina.
Questo tipo di danno è causato dalla luce ultravioletta à in particolare, le radiazioni che presentano
lunghezze d’onda di circa 260nm sono fortemente assorbite dalle basi (grazie ai loro anelli).
Quello che accade molto spesso, come si può vedere in immagine, tra due timine adiacenti, è una
vera e propria fusione fotochimica che determina
la formazione di un anello ciclobutanico (un anello
a 4 atomi di C tra i carboni 5 e 6 delle due timine
adiacenti).
Naturalmente, queste basi così dimerizzate non
sono in grado di formare legami idrogeno con le
basi complementari e quindi portano la DNA-pol
ad arrestarsi durante la replicazione (è un danno
parecchio ingombrante)
Anche in questo caso abbiamo dei meccanismi dedicati. In realtà, per i dimeri di pirimidina, non
abbiamo un solo meccanismo, ma più di uno à il primo che andiamo a vedere è quello della
fotoriattivazione (una prima possibilità di andare a riparare questo danno) e che viene realizzato ad
opera della DNA fotoliasi.
Fotoriattivazione: riparazione diretta del danno al DNA
La fotoriattivazione rappresenta un esempio di meccanismo di riparazione diretta del danno.
Abbiamo, infatti, che i raggi UV vanno a creare questo dimero di timina fra le due timine adiacenti
e, in assenza di luce, la DNA fotoliasi riconosce questo dimero di timina. La luce visibile, poi,
azionerà l’azione della DNA fotoliasi, che provvederà a rimuovere l’anello ciclobutanico,
ripristinando le due timine.
Quindi, un primo meccanismo è proprio la riparazione diretta del danno tramite la fotoliasi.
Questi dimeri di pirimidina vengono riparati anche da un altro tipo di meccanismo, ovvero la
riparazione per escissione di nucleotidi à agisce non solo sui dimeri di pirimidina ma anche sugli
addotti voluminosi sulle basi. Anche in questo caso ci sono molti enzimi coinvolti nel meccanismo
(ci sono degli enzimi presenti in E. coli e loro corrispondenti nell’uomo).
Ma cosa sono questi addotti voluminosi sulle basi?
Addotti voluminosi o ingombranti sulle basi
Sono l’addizione alle basi di gruppi ingombranti à ad
esempio possiamo vedere nell’immagine il
benzo[a]pirene (una molecola policiclica) che viene ad
essere uno dei componenti del fumo di sigaretta ed è un
forte agente alchilante del DNA.
In particolare, questa molecola viene metabolizzata dai
citocromi epatici e convertita in una forma epossidica à
questo derivato epossidico è particolarmente aggressivo
nei confronti del DNA e, in particolare, è in grado di
legare le basi guaniniche del DNA, creando un addotto
molto ingombrante sulle basi.
Queste basi così ingombranti non sono più in grado poi
di formare degli appaiamenti corretti e possono quindi
portare a mutazioni se non vengono riparate
accuratamente.
Riparazione per escissione di nucleotidi (NER, Nucleotide Excision Repair) in E. coli
Anche in questo caso vediamo il meccanismo in E. coli e prevede l’intervento di proteine UvrA, B,
C e D.
Come si vede nell’immagine, per prima cosa si può vedere in alto la base che è stata, ad esempio,
alchilata e che quindi è stata addizionata a un addotto voluminoso, oppure può essere un dimero di
timina à questi due casi
creano una distorsione nella
doppia elica del DNA.
Arrivano quindi due
proteine UvrA, associate a
due proteine UvrB e, legate
all’ATP, legano il DNA e
questo complesso UvrAB
inizia a scorrere sul DNA
alla ricerca di distorsioni.
Una volta che la distorsione
è stata riconosciuta, le due
subunità di UvrA escono
dal complesso e UvrB promuove la separazione locale del DNA intorno alla distorsione (si vede
come le due subunità di UvrB si posizionano proprio ai lati della distorsione stessa, quindi della
base con l’addotto voluminoso o del dimero di timina).
A questo punto arriva UvrC (sembra un paraorecchie) e una delle due subunità UvrB esce, mentre
l’altra si posiziona centralmente sulla distorsione, mentre UvrC, va a posizionarsi a cavallo di UvrB
e della distorsione stessa.
UvrC viene a produrre delle incisioni alle due estremità, 5’ e 3’ della distorsione e il taglio che fa
non è proprio simmetrico, questo perché UvrC crea una incisione posizionata 5 nucleotidi al 3’ della
lesione, mentre la seconda è posizionata circa 8 nucleotidi al 5’ rispetto alla lesione.
Questi due tagli danno luogo a una regione a singolo filamento di 12-13 nucleotidi che viene
rimossa dall’azione della DNA elicasi UvrD, la quale rimuove gli ultimi appaiamenti e permette il
rilascio di questa regione a singolo filamento contenente la distorsione e anche l’uscita di UvrC (che
ha terminato la sua azione).
Adesso abbiamo quindi un bel gap di 12-13 nucleotidi che deve essere colmato e perciò, anche in
questo caso, interviene una DNA-pol I, quindi diversa da quella replicativa ma che funziona in
maniera analoga ad essa, cioè sfrutta sempre l’estremità 3’-OH di una giunzione innesco-stampo
creata dal DNA non coinvolto nella lesione e usa l’altro filamento non tagliato come stampo.
A questo punto avremo quindi del nuovo DNA sintetizzato per riparare questo gap e, per ultimo,
interviene sempre una DNA ligasi.
Negli eucarioti il meccanismo d’azione è identico, tant’è che nell’uomo sono state identificate delle
proteine analoghe, anche se in numero maggiore.
Riparazione per escissione di nucleotidi accoppiata alla trascrizione sia negli eucarioti che
procarioti
La riparazione per escissione di nucleotidi, inoltre, è accoppiata anche alla trascrizione.
In questo caso, quando la nostra RNA-pol (anch’essa lavora
creando una bolla di trascrizione) viaggia lungo il DNA e
incontra la distorsione, essa si blocca, si ferma e la trascrizione
viene interrotta.
A questo punto l’RNA-pol viene a reclutare nel sito dove c’è
questo danno le proteine della riparazione per escissione di
nucleotidi, che provvederanno a riparare il danno.
In questi casi, come nell’immagine, possiamo vedere che
l’RNA-pol si distacca, intervengono le proteine di riparazione e
poi successivamente l’RNA-pol andrà a ripartire con la sua
trascrizione.
Un’altra possibilità, invece, è che, al posto di distaccarsi,
l’RNA-pol arretri, faccia riparare il danno e poi riparta.
Questo meccanismo è comune sia a livello procariotico che eucariotico.
Un ultimo meccanismo di riparazione dei danni al DNA è la sintesi del DNA per translesione à
non è in realtà un vero meccanismo di riparazione, ma piuttosto è un sistema che si basa sulla
tolleranza del danno ed è molto frequente per superare danni quali dimeri di pirimidina, siti
apurinici o addotti ingombranti sulle basi.
L’enzima chiave di questo sistema è un particolare tipo di DNA-pol che viene chiamato DNA
polimerasi di tipo Y.
Le difese cellulari contro il danno al DNA: sintesi di translesione (TLS)
La sintesi di translesione, come già detto, rappresenta l’ultima possibilità che ha la cellula per
difendersi contro un danno al DNA.
Nell’immagine vediamo il DNA in grigio e
una stella rossa che sta a indicare un danno
al DNA.
In questo caso, il danno può essere riparato
attraverso uno dei meccanismi già descritti,
però ricordiamo che i sistemi di riparazione
non sono sempre del tutto efficienti e
quindi può capitare talvolta, che la DNApol incontri, mentre sta replicando, una
lesione come un dimero di pirimidina o un
sito apurinico che non è stata proprio
riparata. Succede perciò che il filamento di
DNA contenente il danno viene comunque utilizzato come stampo e la replicazione viene portata a
termine ad opera di questa particolare categoria di DNA polimerasi appartenenti alla famiglia Y, le
quali consentono non di riparare il danno, ma di superarlo/tollerarlo per consentire comunque la
replicazione del DNA, anche a livello di questo danno.
Infatti, una caratteristica molto importante di queste DNA polimerasi di tipo Y è che, benché come
tutte le DNA polimerasi hanno bisogno dello stampo per replicare, sono in grado di incorporare
nucleotidi in modo indipendente dall’appaiamento delle basi e questa è una capacità fondamentale
perché, quando arrivano al livello del danno, queste polimerasi sono in grado appunto di
incorporare sul filamento neo-sintetizzato nucleotidi in maniera indipendente dall’appaiamento
delle basi e quindi la sintesi di translesione può introdurre, talvolta, degli errori e, di conseguenza, il
nucleotide che viene incorporato, in questo caso, potrebbe essere non quello corretto.
Ricordiamo però che alcune DNA polimerasi di translesione, in realtà, non incorporano nucleotidi
in maniera casuale, ma sono specializzate nell’incorporare specifici nucleotidi à ad ogni modo il
tutto avviene senza leggere lo stampo e quindi questo sistema di tolleranza al danno ha
effettivamente un certo livello di mutagenesi (è potenzialmente mutageno), ecco perché l’azione
delle DNA-pol di translesione deve essere attentamente controllata.
Per esempio, in E. coli, abbiamo in condizioni normali le DNA-pol di translesione che non vengono
sintetizzate à la loro sintesi è attivata solo in risposta a un danno al DNA. C’è proprio una risposta,
chiamata SOS (una risposta specifica), che è attivata in E. coli solo nel momento in cui c’è un
danno al DNA e ha come conseguenza la sintesi della DNA-pol di translesione.
Nelle cellule di mammifero l’attivazione di questa sintesi di translesione passa attraverso delle
modifiche covalenti alle pinze scorrevoli.
Nell’immagine vediamo il filamento stampo con il sito di DNA danneggiato e la pinza scorrevole
associata alla DNA-pol replicativa e che stanno
scorrendo lungo il DNA.
Nel momento in cui la DNA-pol incontra il DNA
danneggiato, si blocca e questo offre l’occasione per
andare a modificare covalentemente la pinza scorrevole
à una delle più frequenti di queste modifiche covalenti
è sicuramente l’ubiquitinazione, ovvero l’attacco
covalente alla pinza di un piccolo peptide chiamato
ubiquitina. L’ubiquitinazione è una marcatura delle
proteine usata molto spesso a livello degli eucarioti per
indirizzare le proteine verso specifici processi (uno dei
più frequenti è la degradazione); in questo caso
l’ubiquitinazione della pinza scorrevole consente di
attivare la sintesi di translesione, perché nel momento in
cui la pinza scorrevole viene ubiquitinata, la DNA-pol
replicativa viene rilasciata e al suo posto viene reclutata
la DNA polimerasi di translesione, la quale, come già
detto, supera il danno introducendo nuovi nucleotidi in
maniera indipendente dall’appaiamento delle basi.
Una volta superato il danno, le modifiche covalenti sulla sliding clamp vengono rimosse e la nostra
DNA-pol di translesione viene rimossa e al suo posto viene ricaricata la DNA-pol replicativa, che
procederà con la sintesi del DNA.
Accanto a questo modello riguardo alla sintesi di translesione, chiamato modello di scambio delle
polimerasi, è stato proposto un altro modello chiamato di riempimento dell’interruzione à
semplicemente quello che prevede questo modello è che la nostra DNA-pol replicativa, quando
raggiunge il DNA danneggiato, anziché bloccarsi ed essere sostituita, vada a saltare la lesione;
oltrepassa cioè il danno e continua la sintesi del DNA a valle del danno stesso, lasciandosi dietro un
gap chiaramente. Successivamente, poi, le DNA-pol di translesione (una o più di una in base ai
danni) vengono reclutate in un secondo momento a livello delle interruzioni, andando a ripararle.
Specializzazioni della DNA polimerasi
Esistono poi, tra l’altro, diverse DNA-pol di translesione à ad esempio in E. coli ne abbiamo due
coinvolte in questo processo di TLS.
Negli eucarioti ne abbiamo persino 5, tra l’altro alcune specializzate nel riconoscere specifici danni
La ricombinazione omologa e non omologa
Danno al DNA causato da rotture dell’elica durante la replicazione
Il danno più grave che la cellula può subire a livello del DNA è la rottura delle sue eliche, dei suoi
filamenti, in particolare, le rotture a doppio filamento (DSB, double-strand break).
Nell’immagine vediamo in azzurro i due filamenti di DNA stampo a livello della forca replicativa e
in arancio la sintesi del filamento guida e del filamento lento. Se uno dei due filamenti parentali
(che fungono da stampo) subisce una rottura, cioè si rompe il legame fosfodiesterico, quello che
succede è che si ha il collasso della forcella replicativa e quindi, quando la DNA polimerasi
incontra questa rottura su uno (uno solo nel caso dell’immagine (a)) dei due filamenti stampo,
avremo un cromosoma fratello integro, mentre l’altro sarà interrotto a causa del collasso della
forcella di replicazione.
Ma come abbiamo già detto, il danno più grave si ha quando ho la rottura di entrambi i filamenti
stampo (immagine (b)) à anche in questo caso la forcella di replicazione collassa, però entrambe le
molecole di DNA replicate saranno interrotte, cioè entrambi i cromosomi fratelli saranno interrotti e
quindi abbiamo una perdita di materiale genetico (un danno gravissimo).
Se queste rotture non vengono riparate, mancando uno stampo integro, si perde una parte dello
stampo, la forcella di replicazione collassa (quindi si blocca la replicazione) e si ottengono
cromosomi non replicati per intero, cioè ho perso dell’informazione genetica.
I meccanismi di riparazione delle rotture doppie del DNA (DSB, double-strand break)
Di fronte a queste rotture (che sono prodotte da agenti esogeni, come i raggi X o le radiazioni à le
rotture a doppia elica, quindi, sono dovute, dal punto di vista esogeno, a raggi X, radiazioni
ionizzanti, …), la cellula mette in atto due tipologie di sistemi di riparazione:
• Giunzione non omologa delle estremità (NHEJ, nonhomologous end joining)
• Ricombinazione omologa (HR, homologous ricombination)
Giunzione non omologa delle estremità (NHEJ, nonhomologous end joining) in eucarioti
• È un meccanismo che avviene anche nei procarioti, ma è predominante negli eucarioti e
specialmente nei mammiferi (è quindi un meccanismo che le nostre cellule utilizzano molto
frequentemente, in primis, di fronte a una rottura a doppia elica).
• È una riparazione inaccurata/non precisa à perché nel riparare c’è una delezione di alcuni
nucleotidi
• È un meccanismo di emergenza molto veloce (di fronte a un danno così grave è meglio
riparare la doppia elica in modo inaccurato che si blocchi la replicazione e si vada a perdere
molto più materiale genetico à quindi, anche se non è un meccanismo accurato, serve
comunque a evitare il collasso della forca replicativa)
• Non dipende dai cromatidi fratelli (tant’è che si realizza in G1)
• Si attiva in G1 in cellule aploidi e diploidi (prima che il DNA venga replicato à quindi se il
danno avviene prima che il DNA venga replicato e non si hanno cromatidi fratelli integri da
usare come stampo, la cellula usa questo meccanismo)
Come avviene questo tipo di processo?
Come possiamo vedere dall’immagine, abbiamo una doppia elica con una rottura su entrambi i
filamenti. Questa rottura viene riconosciuta da un complesso costituito da due proteine (Ku70/Ku80
à servono per stabilizzare il tutto e legare le estremità), associate a una protein chinasi, la DNA-PK
(PK = protein chinasi) à ho quindi che un complesso di questo tipo riconosce una estremità
interrotta e un altro complesso identico che riconosce l’altra estremità e l’obiettivo di questo
complesso proteico è riconoscere e legare le estremità, avvicinandole.
Quello che succede, in particolare, è che le Ku70/80 riconoscono le estremità e, tramite l’altra
componente del complesso, la DNA PK, si associano con il complesso corrispondente sull’altra
estremità, creando un ponte; quindi, questo è un complesso che serve a riconoscere le estremità
interrotte e tenerle unite/vicine, tramite un’interazione proteina-proteina (cioè tra i due complessi
identici alle due estremità). Questo è il primo step di questo meccanismo.
Poi arriva un altro complesso, chiamato MRN (il nome deriva dalle iniziali delle sue 3 componenti,
MRE11, RAD50 e NBS1 à RAD e NBS
sono delle proteine stabilizzatrici, servono a
stabilizzare il complesso, mentre MRE11 è
una esonucleasi e va quindi a processare le
estremità).
Questo complesso, quindi, viene reclutato da
queste estremità riconosciute e, in particolare,
la sua componente MRE11 va a processare
parzialmente le estremità (rimuove solo 1-2
nucleotidi, massimo 3). Quindi, come
abbiamo appena visto, le estremità non
vengono unite subito, ma vengono prima
processate.
La fase finale è quindi la saldatura, dove intervengono altri enzimi, tra cui la DNA ligasi, che ha la
funzione di riformare il legame fosfodiesterico, e la XRCC4.
Capiamo quindi che questo processo non è accurato, questo perché non usa uno stampo e, tra
l’altro, prima di saldare le estremità si va anche ad avere la perdita di uno o alcuni nucleotidi.
Possiamo perdere anche in questo modo dell’informazione genetica quindi, però, considerando che
la percentuale di DNA genomico che appartiene ai geni è veramente esigua, si spera sempre che
questa rottura non avvenga in questa esigua percentuale di esoni (cioè le regioni che codificano per
le proteine), ma nel resto à ecco perché la cellula tollera una situazione di questo tipo (meglio
rischiare la perdita di qualche nucleotide e sperando che ciò non avvenga negli esoni, che avere il
blocco della replicazione, il che farebbe perdere molta più informazione genetica).
Ricorda: le nucleasi sono enzimi che rimuovono un nucleotide alla volta (vanno a degradare quindi
le nostre catene polinucleotidiche), rompendo i legami fosfodiesterici tra un nucleotide e l’altro, e si
dividono in:
• Endonucleasi à tagliano in mezzo alla nostra catena, non hanno bisogno di estremità libere
• Esonucleasi à partono da delle estremità libere (in altre parole, iniziano a staccare i
nucleotidi riconoscendo un’estremità 5’ o 3’, tant’è che si hanno 5’-esonucleasi e 3’esonucleasi)
La ricombinazione omologa (HR, homologous ricombination) per riparare DSB in eucarioti
• È una riparazione accurata (perché utilizza uno stampo integro)
• Prevale nelle cellule in fase S e G2 (perché ha bisogno di uno stampo integro)
• Usa il cromosoma omologo o cromatidio fratello come stampo
• È un meccanismo di emergenza veloce
Modello di riparazione dei DSB mediante ricombinazione omologa
La ricombinazione omologa non ha solo un ruolo nella meiosi (funzione fisiologica, desiderata, è
fondamentale che ci sia), ma anche un ruolo di riparazione delle rotture a doppia elica dovute ad
agenti esogeni (meccanismo di riparazione del DNA, che mi consente di intervenire quando il DNA
è danneggiato da eventi esogeni à quindi la rottura a doppia elica è un evento avverso che il DNA
subisce, non una cosa fisiologica che la cellula desidera).
Il meccanismo di base è lo stesso (già visto nella meiosi in genetica), ma gli attori sono diversi.
Come possiamo vedere in immagine, quando si parla di ricombinazione omologa, è sempre molto
utile, per capire i prodotti che essa può dare, andare ad allineare le molecole di DNA omologhe a
doppio filamento à abbiamo infatti le due molecole di DNA omologhe (in grigio e blu) allineate a
livello degli stessi loci allelici (perché sono praticamente identiche ma con alleli diversi per lo
stesso gene); inoltre, solo una di queste due molecole a doppia elica ha subito una rottura.
Il primo step è che queste estremità vengono processate da delle nucleasi che vanno a digerire le
estremità 5’, in modo tale da produrre delle estremità 3’ protundenti (cioè a singolo filamento).
Quindi, il primo step, ricapitolando, è processare le estremità interrotte ad opera di queste nucleasi
(che qui lavoreranno in direzione 5’-3’, con il risultato di avere delle estremità 3’ protundenti a
singolo filamento.
Poi le estremità 3’ protundenti vanno a invadere la molecola di DNA integra (che verrà usata come
stampo e quindi deve per forza essere intatta per questo processo), creando una giunzione innescostampo, con una estremità 3’-OH libera pronta per una DNA polimerasi, che provvederà a riparare
la rottura aggiungendo nucleotidi (all’estremità 3’ appunto) usando la molecola di DNA integra.
Chiaramente, mentre una estremità 3’ invade il filamento, si crea una separazione dei due filamenti
integri e così il secondo filamento integro diventa disponibile per appaiarsi con la seconda estremità
3’.
Tra l’altro, si nota che per creare questo appaiamento, il filamento da riparare e quello integro
interagiscono tra di loro creando un incrocio, la cosiddetta giunzione di Holliday.
Nella fase successiva, quindi, la DNA polimerasi ripara il filamento rotto usando come stampo il
filamento integro (in rosso nell’immagine si vede il DNA neo-sintetizzato) e ovviamente durante
questo processo di sintesi la giunzione di Holliday non rimane immobile, ma migra, si sposta,
seguendo la direzione di sintesi, perché durante la sintesi si ha una continua fusione di appaiamenti
e contemporaneamente la formazione di nuovi tra il filamento da riparare e quello integro usato
come stampo à in altre parole, si ha praticamente sempre una lunghezza stabile perché, mentre da
una parte vengono aggiunti nuovi nucleotidi e si formano nuovi appaiamenti, dall’altra il filamento
da riparare si stacca da quello integro (fondendo gli appaiamenti precedenti quindi) continuamente.
Questo fa sì che questo incrocio non sia sempre a livello delle stesse sequenze, ma si abbia una
migrazione (è una struttura “dinamica”).
Alla fine, quando ho riparato le due estremità con questo movimento e quindi si sono riunite alle
estremità opposte (5’), si ottengono due giunzioni di Holliday con, in rosso, le due porzioni di DNA
riparate usando la molecola di DNA integra come stampo.
Queste due giunzioni devono poi essere risolte (cioè devo andare a riformare le due molecole
separate di DNA) e questo è il passaggio più critico della ricombinazione omologa.
Modello di Holliday applicato a rottura a doppio filamento (DSB) sul DNA: la risoluzione
della giunzione di Holliday
In base al tipo di risoluzione di queste giunzioni il risultato/il prodotto che si ottiene di DNA è
differente à si parla infatti dei prodotti del non crossing over e prodotti del crossing over.
Nell’immagine vediamo le nostre due giunzioni di Holliday, indicate per facilità con X e Y à per
risolvere queste giunzioni abbiamo diverse possibilità, cioè i siti di ricombinazione, cioè di taglio
per separare le due molecole, sono indicati con i numeri 1 e 2 in immagine (questo vale per
entrambe le giunzioni); quindi, per riuscire a separare le due molecole di DNA, i tagli a livello di
ciascuna giunzione possono arrivare sulle posizioni 1 (quindi a livello dei filamenti non coinvolti
direttamente nell’incrocio) o nelle posizioni 2 (a livello dei filamenti coinvolti nell’incrocio):
• se entrambe le giunzioni vengono tagliate sullo stesso sito (1 o 2 ma su entrambe), quello
che ottengo sono i prodotti del non crossing over, anche chiamati prodotti patch (rispetto al
sito di taglio, di ricombinazione, si ha che gli alleli non si sono riassortiti), cioè i geni non si
sono riassortiti a livello del sito di ricombinazione.
• se, invece, per le due giunzioni vengono usati due siti di taglio diversi, ovvero che per la
prima giunzione viene utilizzata la posizione 1 e per la seconda giunzione la posizione 2, o
viceversa, ottengo dei prodotti del crossing over à ho cioè che gli alleli si sono riassortiti.
NB: È quindi fondamentale, per capire gli effetti della ricombinazione, allineare le molecole di
DNA omologhe e utilizzare gli alleli (con le lettere maiuscole o minuscole), perché ciò ci aiuta
molto nel capire cosa succede.
Ovviamente, tutti questi passaggi fondamentali vengono catalizzati da una serie di fattori proteici,
che saranno diversi per procarioti ed eucarioti:
In E. coli (classico organismo modello nei procarioti perché è molto facile da coltivare, conosciuto,
caratterizzato, poco costoso, cresce rapidamente) l’appaiamento delle molecole omologhe e
l’invasione del filamento vengono condotti dalla proteina RecA.
Per quanto riguarda l’introduzione delle rotture a doppio filamento (DSB), invece, possiamo vedere
che in E. coli non c’è alcun fattore, questo perché non presenta la meiosi e quindi non ha senso che
ci sia à questa funzione fisiologica (la seconda funzione prima descritta per la ricombinazione
omologa) si ha solo negli eucarioti, dove la ricombinazione omologa va a intervenire su rotture
della doppia elica auto-create dalla cellula durante la meiosi. Quindi, in E. coli, le rotture a doppia
elica non avvengono per fattori endogeni, ma unicamente per fattori esogeni.
Poi abbiamo la funzione di processare le rotture, per creare le estremità 3’ protundenti, che viene
fatta dal complesso RecBCD nei procarioti, con doppia azione elicasi/nucleasi.
Il complesso RuvAB riconosce invece le giunzioni di Holliday e ne aiuta la migrazione, mentre
RuvC va a risolverle (a tagliarle).
Quindi, per ogni funzione ho una corrispondente attività enzimatica, sia nei procarioti che negli
eucarioti.
Negli eucarioti, poi, ci sono alcuni enzimi, come detto poco fa, che agiscono solo nella meiosi e
nella tabella sono indicati con una citazione fra parentesi.
NB: Per certi passaggi, gli enzimi non sono ancora stati identificati negli eucarioti.
La ricombinazione omologa (HR, homologous ricombination) in E. coli (RecBCD e RecA)
Nell’immagine possiamo vedere l’azione del complesso RecBCD, che ha doppia attività
elicasica/nucleasica. In rosa si vede il DNA e per semplicità è riportata solo una delle due estremità
interrotte ma, in pratica, ciascuna estremità viene riconosciuta da questo complesso RecBCD, che la
apre e ha poi un’attività 3’-esonucleasica e inizia a processare l’estremità 3’ appunto. Inizialmente,
quindi, questo complesso agisce partendo dall’estremità 3’ e togliendo un nucleotide alla volta e lo
fa finché non incontra delle determinate sequenze, chiamate Chi à quando arrivano a questa
sequenza Chi (una corta sequenza di 8
nucleotidi, GCTGGTGG), il complesso
inverte la sua attività nucleasica, cioè non
lavora più sul filamento 3’, ma sul 5’,
degradandolo. Il risultato è sempre lo
stesso, cioè creare una estremità 3’ a
singolo filamento pronta per l’invasione.
Poi, il filamento, per essere preparato per la
successiva invasione, viene riconosciuto da
queste singole proteine, RecA (sfere in
rosso nell’immagine), che mantengono il
filamento in questa forma singola e coadiuvano la sua capacità di invadere la molecola di DNA
integra.
RuvAB e RuvC
Il complesso RuvAB è colui che riconosce la giunzione di Holliday e promuove la migrazione delle
nostre giunzioni o chiasmi, mentre RuvC è colui che taglia, cioè promuove la separazione delle due
molecole di DNA, risolvendo le giunzioni di Holliday.
Il complesso RuvAB è costituito da RuvA e
RuvB.
RuvA è una sorta di ciambella, in grado di
riconoscere proprio la giunzione di Holliday,
mentre RuvB, che sono due e sembrano delle
cuffie (sono delle proteine esameriche e ci sono
appunto due subunità) si posizionano una a
destra e una a sinistra di RuvA e sono
responsabili di far migrare le giunzioni di
Holliday.
Quindi, mentre RuvA riconosce la giunzione di Holliday, RuvB, ad essa associata, promuove la
migrazione della giunzione (con quel meccanismo di appaiamento e fusione degli appaiamenti), è
quindi un vero e proprio motore molecolare (come la DNA elicasi).
A questo punto ci manca solo RuvC,
che è responsabile di risolvere le
giunzioni di Holliday (in alcuni testi è
riportato che RuvC faccia sempre parte
del complesso RuvAB e non che sia
qualcosa di separato) à in base a che
filamenti taglia, va a risolvere i diversi
intermedi di ricombinazione. È una
endonucleasi e taglia due dei filamenti
di DNA omologo con la stessa polarità
a livello della giunzione di Holliday à lo fa in maniera preferenziale riconoscendo sequenze del
tipo 5’-A/T-T-T-T-G/C-3’ (dove lo / sta a indicare che può essere o l’una o l’altra, mentre le 3 T
centrali sono conservate).
Parliamo ora di eucarioti à come già detto, negli eucarioti ci sono i corrispondenti delle proteine di
E. coli, ma non sempre, poiché non tutti i complessi sono stati scoperti ad oggi e, inoltre, si hanno
alcune proteine specifiche che intervengono solo nella meiosi (si occupano di intervenire su una
rottura a doppia elica a livello del processo di meiosi) che, come già detto, non è presente nei
procarioti.
Inoltre, esiste il meccanismo chiamato Mating type à particolare meccanismo di ricombinazione
omologa che serve a scambiare delle sequenze di DNA specifiche in specifici punti del DNA
cromosomico (è piuttosto comune e osservato nel lievito) ed ha una funzione, soprattutto, di
regolazione dell’espressione genica.
Crossing over meiotico negli eucarioti
Come già detto, questo è l’altro evento in cui avviene la ricombinazione omologa à qui però la
funzione è fisiologica (non di riparazione).
Prima di entrare nella meiosi I è
fondamentale che avvengano
l’appaiamento dei cromosomi
omologhi e la ricombinazione, step
fondamentali affinché ci sia una
corretta segregazione del materiale
genico nei gameti à se non
avvengono correttamente, i due
cromosomi non saranno separati in
maniera opportuna nei gameti e ciò si
rifletterà in problemi perché il corredo genetico non è corretto (se non sui gameti, si riflette poi con
problemi nella fertilità).
Ricombinazione meiotica negli eucarioti
La ricombinazione omologa (che avviene tra i cromatidi non fratelli) è necessaria per appaiare
questi cromosomi omologhi in preparazione della prima divisione nucleare e può portare anche a
fenomeni di crossing over.
Nell’immagine a lato vediamo due cromosomi omologhi (in blu e rosso), dopo essere stati duplicati
da un ciclo di replicazione e possiamo vedere come i cromatidi non fratelli, appunto, sono oggetto
della ricombinazione
RICOMBINAZIONE MEIOTICA TRA CROMOSOMI OMOLOGHI
Dall’immagine capiamo che:
• ogni struttura rappresenta una molecola di DNA replicata e a doppio
filamento (cromatide)
• ogni coppia è composta da cromatidi fratelli e la ricombinazione
avviene tra le coppie dei non fratelli
Ricombinazione meiotica
Anche nella ricombinazione meiotica è necessaria l’introduzione di una rottura della doppia elica,
qui non causata da fattori
esogeni, ma da proteine
endogene che hanno proprio
questa funzione (tra l’altro,
anche qui abbiamo in
immagine i due cromatidi
non fratelli allineati tra di
loro).
Intervengono quindi Spo11
e MRX à Spo11, in
particolare, introduce una
rottura a doppio filamento
su uno dei due omologhi e,
insieme ad essa, è associata MRX, che provvede degradare il filamento dal 5’ al 3’ per creare le
estremità 3’ protundenti.
Queste estremità sono quindi pronte a invadere l’altra molecola di DNA e per fare ciò vengono
assistite dalle proteine Dmc1 e Rad51, una per estremità 3’ protundente (cioè Dmc1 su una
estremità e Rad51 sull’altra) (queste due proteine svolgono quindi la funzione che RecA svolgeva
nei procarioti).
Le fasi successive sono poi identiche a ciò che abbiamo visto finora (replicazione del DNA,
formazione e risoluzione delle giunzioni, …), anche se, come già detto, per il riconoscimento delle
giunzioni di Holliday e la migrazione del chiasma non sono ancora stati caratterizzati i complessi
proteici coinvolti.
La ricombinazione per trasposizione
Esistono all’interno della cellula altri esempi di ricombinazione oltre a quella omologa, non
correlati con danno al DNA e con lo scopo di riparazione, ma che possono comunque
spostare/ricombinare elementi genici da una posizione all’altra (questi sono la ricombinazione per
trasposizione e quella conservativa sito-specifica).
La trasposizione di un elemento genetico mobile in un nuovo sito nel DNA ospite
La trasposizione è lo spostamento di un elemento genetico (una sequenza di DNA) da un punto a un
altro all’interno del genoma. Questo elemento genico viene chiamato trasposone o elemento
trasponibile.
Ci sono due modalità generali di funzionamento:
• movimento in assenza di duplicazione à il trasposone viene scisso dal sito originario e
trasloca nel nuovo punto, senza lasciare una copia di sé nel punto originario
• movimento con duplicazione à si ha che il trasposone si sposta da un punto all’altro,
lasciando una copia di sé nel sito originario
La trasposizione non avviene utilizzando delle sequenze specifiche, ma in maniera casuale, anche se
è comunque un sistema che viene regolato dalla cellula (andando a controllare il numero di copie di
trasposoni e anche il movimento da una sequenza all’altra) per evitare di creare dei danni quando un
elemento si va a trasferire da un punto all’altro (per esempio con la potenziale capacità di riattivare
un oncogene).
I trasposoni nei genomi: frequenza e distribuzione
I trasposoni nei genomi hanno un’abbondanza diversa à sono, per esempio, molto frequenti nel
genoma del mais e dell’uomo, meno in drosophila, nel lievito e ancor meno in E. coli à quindi la
loro frequenza è differente in base all’organismo.
Le tre classi principali di trasposoni o elementi trasponibili
Esistono tre classi di trasposoni (2 principali, di cui la seconda classe si suddivide ulteriormente in 2
sottoclassi):
• Trasposoni a DNA
• Retrotrasposoni
o Retrotrasposoni LTR (Long Terminal Repeat) o SIMILRETROVIRALI
o Retrotrasposoni NON-LTR o NON RETROVIRALI o retrotrasposoni poli-A
Meccanismo di trasposizione dei trasposoni a DNA (A) e dei Retrotrasposoni (B)
I trasposoni a DNA hanno fondamentalmente un meccanismo principale, chiamato trasposizione
taglia e cuci à vuol dire che il
trasposone viene scisso dal sito
di origine e traslocato in
un’altra posizione, senza
lasciare una copia nel sito
originale.
Invece, i retrotrasposoni (sia
LTR che NON-LTR) vanno a
trasporre utilizzando un
intermedio ad RNA à si ha che
il DNA donatore viene
trascritto da una RNA-pol, producendo un intermedio ad RNA, il quale viene poi trasformato di
nuovo in DNA (o meglio cDNA) da una trascrittasi inversa e poi viene inserito nel nuovo sito
(quindi si ha movimento con duplicazione in questo caso).
Trasposoni a DNA
Nell’immagine a fianco è riportata l’organizzazione genetica dei trasposoni a DNA e, come si può
vedere, in grigio è indicato il DNA fiancheggiante dell’ospite in cui è integrato il trasposone à il
trasposone contiene un elemento
centrale che è il gene che codifica
per la trasposasi, ossia l’enzima
deputato a far avvenire la
reazione di trasposizione. Più in
là del gene per la trasposasi
abbiamo che l’elemento
trasponibile è fiancheggiato da
delle sequenze, indicate in verde,
chiamate sequenze terminali ripetute e invertite, le quali vengono ad avere una lunghezza che varia
dalle 25 fino anche ad alcune centinaia di paia di basi e rappresentano i siti di ricombinazione (cioè
i siti dove l’elemento trasponibile si andrà a tagliare per poi andare a spostarsi).
Accanto a queste sequenze terminali ripetute e invertite abbiamo poi, in blu, le duplicazioni del sito
bersaglio, che sono dei segmenti, che vanno da 2 a 20 paia di basi, che derivano dal processo di
ricombinazione stesso.
Trasposoni a solo DNA: trasposizione taglia e cuci
I trasposoni a DNA, per la maggior parte, lavorano attraverso una trasposizione taglia e cuci, per
cui vengono ad essere tolti da una regione (DNA dell’ospite) e si vanno a integrare nel DNA
bersaglio, senza lasciare una copia di sé nel DNA dell’ospite originario.
Nell’immagine vediamo
che il primo step consiste
nel fatto che il gene
all’interno della trasposasi
venga trascritto e tradotto
à a questo punto, le
trasposasi, vengono a
creare un multimero di
trasposasi (le trasposasi
singole interagiscono cioè
le une con le altre), che
viene a prendere contatto
con le sequenze terminali
invertite e ripetute (i siti
di ricombinazione),
andando a creare una
struttura ad U, chiamato
complesso sinaptico o
traspososoma.
Questo complesso sinaptico, poi, è pronto per essere tagliato su entrambi i filamenti ad opera
sempre della trasposasi à si ottiene quindi che il trasposone viene scisso e avrà per ciascun
filamento un’estremità 5’ e una 3’. A questo punto, sono proprio i 3’-OH che creano un attacco
nucleofilo sui legami fosfodiesterici (uno per ciascun filamento) del DNA bersaglio. Da notare che
il taglio che viene eseguito dai due 3’-OH non avviene sullo stesso punto, ma si ha che il 3’-OH
colpisce il legame fosfodiesterico su ciascun filamento non nella stessa posizione, ma in posizione
sfalsata di diversi nucleotidi à quindi, quando il trasposone poi si integra, avendo rotto e riformato
il legame fosfodiesterico, quello che avviene è che in virtù di questa rottura sfalsata simmetrica,
avremo dei gap da riparare (della lunghezza che dista tra i due punti in cui ciascun 3’-OH ha colpito
sul legame fosfodiesterico del DNA bersaglio).
Questi gap devono quindi essere riparati e abbiamo un 3’-OH libero su un filamento del DNA
bersaglio e uno stampo integro sull’altro filamento e, quindi, questo gap viene riparato da una DNA
polimerasi e le scissioni verranno saldate dalla solita DNA ligasi.
Quindi, alla fine di questo processo di trasposizione, si ha che il trasposone, dal DNA originario si è
trasferito in un DNA bersaglio; per farlo si è portato dietro i siti di ricombinazione e le sequenze
accanto sono state duplicate proprio per il meccanismo con cui questo tipo di trasposone opera il
taglio sul DNA bersaglio (perché i due filamenti bersaglio vengono tagliati in maniera sfalsata e
questo crea dei siti che devono poi essere riparati appunto).
Retrotrasposoni simil retrovirali
Presentano, dal punto di vista strutturale, un gene che codifica per due tipi di enzimi (l’integrasi, un
altro tipo di ricombinasi, che catalizza cioè la reazione di trasposizione, come la trasposasi prima, e
l’RT, ovvero la trascrittasi inversa).
In questo caso, il gene centrale è
poi fiancheggiato dalle sequenze
LTR (Long Terminal repeat), che
sono delle lunghe sequenze
terminali ripetute, molto frequenti
anche nei retrovirus (da cui il nome
simil retrovirali) à queste
sequenze contengono i siti di
ricombinazione (le sequenze
terminali ripetute e invertite) e
anche il promotore, che sarà poi riconosciuto dai fattori di trascrizione per permettere la trascrizione
dell’integrasi e dell’RT.
Anche in questo caso, poi, si vede che il trasposone è fiancheggiato da dei siti che derivano dalla
duplicazione del sito bersaglio, sempre collegati al processo di ricombinazione.
Retrotrasposoni similretrovirali: meccanismo di trasposizione mediante intermedio a RNA
Questi retrotrasposoni usano sempre un intermedio ad RNA e lasciano una copia di sé stessi nel
DNA ospite di partenza.
Sfruttando il promotore contenuto a livello della sequenza LTR, si ha che questo elemento viene
trascritto perciò ad RNA à l’RNA poi, a sua volta, viene retrotrascritto e copiato a cDNA (una
copia di DNA a doppia elica
usando lo stampo ad RNA
appena citato) ad opera della
trascrittasi inversa che, come
già detto, viene prodotta dallo
stesso mRNA à quindi,
l’elemento di RNA viene in
parte retrotrascritto ma in
parte anche tradotto per
produrre l’integrasi e la
trascrittasi inversa.
A questo punto, questo cDNA
così ottenuto (ricordiamo che
l’elemento trasponibile di
partenza rimane integrato nel
DNA ospite di partenza) non è
attivo e, per consentire la sua
integrazione nel DNA bersaglio, le estremità 3’ vengono processate dall’integrasi. Questa proteina
toglie infatti due nucleotidi, creando delle estremità 5’ protundenti, attivando quindi l’attacco
nucleofilo di ciascun 3’-OH del cDNA sul DNA bersaglio, con un meccanismo molto simile a
quello visto per i trasposoni a DNA. Anche in questo caso, ciascun 3’-OH colpisce il DNA
bersaglio su due posizioni sfalsate, tant’è che anche in questo caso, quando il cDNA si va a
integrare, abbiamo un gap che dovrà essere colmato, determinando la duplicazione del sito
bersaglio (tutto questo sempre grazie a una DNA polimerasi e una DNA ligasi).
Alla fine, quindi, si ha una nuova copia del retrotrasposone integrata nel DNA bersaglio,
mantenendo una copia nel sito di origine iniziale.
Retrotrasposoni non retrovirali
L’ultimo tipo di retrotrasposone che prendiamo in considerazione è il retrotrasposone non
retrovirale.
Utilizza sempre un intermedio ad
RNA, ma non presenta le sequenze
LTR, piuttosto presenta le due
regioni 5’ UTR e 3’ UTR (UTR sta
per Untranslated, quindi ricorda
molto la struttura di un mRNA), fiancheggiate dalla solita duplicazione del sito bersaglio.
Inoltre, adiacente alla regione 3’ UTR abbiamo un tratto poli-A (e quindi poli-T nell’altro
filamento), che poi darà una coda poli-A molto simile alla coda degli mRNA (tant’è che questi
retrotrasposoni vengono chiamati anche retrotrasposoni poli-A).
Poi, nel centro, abbiamo due geni, ORF1 e ORF2 à il primo codifica per una proteina che si lega
all’RNA, mentre il secondo codifica per una proteina con attività sia di trascrittasi inversa che
endonucleasica.
Retrotrasposizioni non virali: meccanismo di trasposizione mediante trascrizione inversa
innescata dal sito bersaglio (o splicing inverso)
In questo caso, quindi, il meccanismo di trasposizione avviene sempre attraverso una trascrizione
inversa, innescata però da un sito bersaglio.
Da notare che anche in questo caso il promotore per andare a trascrivere questo trasposone è
contenuto sempre all’interno del trasposone stesso (nella regione 5’ UTR in questo caso).
Nell’uomo questi retrotrasposoni sono molto frequenti e si chiamano DNA LINE (il 20% del
genoma umano ha queste sequenze LINE e tra l’altro alcune di queste sono responsabili di
malattie).
Il nostro retrotrasposone, quindi, viene trascritto grazie al promotore e l’RNA che si ottiene, che
avrà una regione 5’ UTR, una regione 3’ UTR e un tratto poli-A, viene portato nel citoplasma e qui
viene tradotto.
Le proteine
tradotte, ORF1 e
ORF2, si
associano tra di
loro e vanno a
legare l’mRNA
LINE, creando
un complesso che
poi ritrasloca nel
nucleo per
svolgere il
meccanismo di
trasposizione.
Nel nucleo, abbiamo che ORF1, che è legato all’RNA e fa parte del complesso, si lega al DNA
bersaglio; successivamente, il DNA bersaglio viene tagliato ad opera di ORF2 e così si crea un
ibrido tra l’mRNA LINE (in particolare con il suo tratto poli-A) e il DNA derivato dal taglio fatto
da ORF2.
A questo punto, nella fase successiva si crea la solita giunzione innesco stampo e ORF2, che è
anche una trascrittasi inversa, sfruttando il 3’-OH libero del DNA nell’ibrido DNA-RNA, va a
copiare l’RNA, creando un cDNA LINE a singolo filamento.
Successivamente, l’RNA LINE viene degradato (anche se il meccanismo e gli attori alla base di ciò
non sono ancora ben chiari) e viene completata la sintesi del secondo filamento.
Il tutto poi viene ad essere saldato e integrato all’interno del DNA bersaglio (anche se, come già
detto, queste ultime parti del processo non sono ancora state del tutto chiarite).
Quello che ottengo, alla fine, è un nuovo elemento DNA LINE integrato, per l’appunto, nel DNA
bersaglio.
La ricombinazione conservativa sito-specifica (CSSR)
Esempio di ricombinazione sito-specifica (CSSR) e trasposizione a confronto
In questa immagine vengono messe a
confronto la ricombinazione sito-specifica (in
alto nell’immagine) e la trasposizione (in
basso) à si vede come una differenza
sostanziale tra i due elementi è che la
ricombinazione sito-specifica è limitata a
sequenze specifiche di DNA aventi specifici
siti di ricombinazione, mentre la
trasposizione, anche se usa anch’essa dei siti
di ricombinazione, si integra in maniera
casuale a livello del DNA bersaglio (la
trasposizione è infatti spesso regolata in modo
da evitare danni al genoma bersaglio in virtù di questa trasposizione casuale à questo avviene
regolando il numero di trasposoni e regolando i nuovi siti di inserzione con diversi meccanismi).
Esempio di CSSR: integrazione del genoma di batteriofago λ nel cromosoma batterico della
cellula ospite
Questo è un classico esempio di CSSR à in rosso abbiamo il genoma del batteriofago e in blu il
cromosoma batterico e in rosso e blu scuro si
notano i siti di ricombinazione (fagico e
batterico).
Quindi il batteriofago si integra con il suo
genoma all’interno del cromosoma batterico
non in maniera casuale, ma andando a
integrarsi utilizzando dei siti di
ricombinazione specifici sul fago e sul cromosoma batterico. In questo modo, attraverso questa
ricombinazione chiamata integrativa, ottengo quello che viene chiamato profago.
In conclusione, la ricombinazione sito-specifica avviene su specifiche sequenze del DNA bersaglio
e il segmento di DNA che viene spostato porta con sé i siti di ricombinazione.
CSSR
• Può dare origine a tre diversi tipi di riarrangiamento del DNA:
o Inserzione di un segmento di DNA in un sito specifico (es. batteriofago lambda)
o Delezione di un tratto di DNA
o Inversione di un pezzo di doppia elica
•
•
L’organizzazione dei siti di ricombinazione (come sono orientati) determina il tipo di
riarrangiamento
Ogni sito di ricombinazione ha:
o Due sequenze di riconoscimento laterali
della ricombinasi (anche in questo caso
ho un enzima che catalizza la reazione
di ricombinazione quindi)
o Una sequenza centrale: regione dello
scambio o del crossing over (dove
avvengono il taglio e la riunione del DNA; quindi, dove la ricombinasi va a tagliare e
dove vengono riunite le estremità del DNA)
§ Si può notare che la sequenza centrale non è palindromica, perché è un
TAGC, questo conferisce alla sequenza centrale un orientamento intrinseco,
una polarità, che viene indicata con una freccetta à questo determina poi
l’orientamento del nostro sito di ricombinazione à è proprio questo
orientamento, indicato dalle freccette, che va a determinare un diverso tipo di
riarrangiamento.
Le strutture coinvolte nella CSSR
Come possiamo vedere nell’immagine, durante lo svolgimento della CSSR, vengono coinvolti due
siti di ricombinazione (in rosso e in blu) e, ogni metà rispetto alla regione di scambio viene a
combinarsi con quella dell’altro sito.
Sempre nell’immagine, si può vedere come le subunità della ricombinasi legano le sequenze di
riconoscimento à la ricombinazione
quindi prevede che la regione centrale
venga tagliata ad opera della
ricombinasi, in modo tale che
l’estremità rossa a sinistra si ricombini
con le estremità prodotte dalla rottura
del sito blu, prendendo l’estremità blu a
destra e viceversa per le altre due
subunità à si crea quindi un incrocio
del sito in rosso e del sito in blu e dopo
la ricombinazione, avrò in un caso la
parte sinistra in rosso e quella destra in
blu, mentre nell’altro caso la parte
sinistra in blu e quella destra in rosso à
in conclusione, ogni metà va a ricombinarsi con l’altra metà corrispondente dell’altro sito e tutto
questo avviene perché la ricombinasi, con le sue quattro subunità, riconosce le sequenze di
riconoscimento (fiancheggianti la regione centrale di taglio di ciascun sito), andando in questo
modo a ricombinare ciascuna estremità dell’altro sito bersaglio.
I tre tipi di ricombinazione
Come dicevamo, la regione di scambio non è palindroma e quindi determina un’asimmetria nel sito
di ricombinazione à questa asimmetria viene indicata graficamente da un quadratino con una
freccia interna:
• Se i siti di ricombinazione hanno la stessa orientazione (le due freccette indicano la stessa
direzione):
o Sulla stessa molecola di DNA permettono la delezione
o Su molecole di DNA differenti permettono l’inserzione
• Se i siti di ricombinazione hanno orientazione opposta sulla stessa molecola di DNA
producono l’inversione di quella regione genica
Meccanismo dell’intermedio covalente utilizzato dalle serina e tirosina ricombinasi
Naturalmente, la ricombinasi, per riuscire a tagliare la regione di scambio centrale, utilizza un
amminoacido conservato, che può essere la serina o la tirosina à entrambe hanno un gruppo OH
che può colpire il legame fosfodiesterico, a livello delle basi della regione di scambio, e
interrompere in questo modo il filamento (lo scheletro zucchero-fosfato). Per questo motivo
abbiamo per l’appunto serina e tirosina ricombinasi, che agiscono con meccanismi molto similari,
ma entrambe per rompere la regione di scambio utilizzano un amminoacido conservato che può
essere, in base alla tipologia di ricombinasi, o una serina o una tirosina.
In particolare, nell’immagine vediamo all’opera una serina ricombinasi, di cui la serina colpisce il
legame fosfodiesterico, andando a romperlo e creando un intermedio con il gruppo fosfato, un
intermedio covalente
tra la proteina
(indicata con Rec-Ser)
e il DNA.
Poi, l’estremità 3’-OH
interrotta del DNA
sull’altro sito di
ricombinazione andrà
a colpire il gruppo
fosfato, andando a
ricreare il legame fosfodiesterico, creando il prodotto ricombinato e liberando l’enzima, che potrà
colpire nuovamente altri siti.
Ricapitolando, le ricombinasi sito-specifiche tagliano e riuniscono il DNA per mezzo di un
intermedio covalente proteina-DNA.
Esempio di ricombinazione mediata dalla serina ricombinasi
Per capire meglio questo meccanismo, nell’immagine possiamo vedere un esempio di
ricombinazione mediata dalla serina ricombinasi.
Quando arriva la serina ricombinasi, essa è costituita da 4 subunità (R1, R2, R3, R4) e due
riconoscono i siti di
riconoscimento indicati in
blu e le altre due i siti rossi.
Ogni subunità, poi, crea
l’intermedio serina-DNA
citato poco fa, cioè ogni
subunità rompe il filamento
a cui sono legate, creando
una rottura, una estremità
3’-OH libera e un
intermedio proteina-DNA.
Questo avviene per ciascun
filamento (sia in rosso che
in blu).
A questo punto, avviene lo
scambio dei filamenti prima descritto (R2 si posiziona vicino a R3 e viceversa per R1 e R4). In
questo modo i filamenti si sono scambiati e ciascun 3’-OH libero, di ciascuna metà, va a colpire
l’intermedio enzima-DNA per riunire le estremità e andare a liberare l’enzima.
Ricombinazione V(D)J dei geni per le immunoglobuline nei vertebrati
Questo è un classico esempio di ricombinazione genetica
nei vertebrati (specialmente nei mammiferi), tra l’altro
molto simile come meccanismo alla scissione dei trasposoni
a DNA.
Ricordiamoci prima della struttura degli anticorpi à essi
constano di due catene più lunghe, quelle pesanti, e di due
catene più corte, quelle leggere, tenute insieme da dei ponti
disulfuro.
Sia le catene leggere che pesanti hanno alle loro estremità
delle regioni variabili, responsabili di riconoscere l’antigene
specifico.
Meccanismo di ricombinazione V(D)J nei vertebrati per generare una grande varietà di
anticorpi
La grande varietà di anticorpi è possibile perché i segmenti che compongono queste catene leggere
e pesanti subiscono dei meccanismi di ricombinazione (molto simili al meccanismo di scissione dei
trasposoni a DNA).
In particolare, possiamo vedere che la catena leggera viene specificata a livello del DNA della linea
germinale da tutta una serie di segmenti, ossia consta praticamente da circa 300 regioni di tipo V,
che vengono a essere responsabili nel codificare le diverse versioni della regione variabile della
catena leggera e tra queste regioni variabili V e la regione costante C, che è una sola, abbiamo
inoltre 4 segmenti genici chiamati J (che sta per joining).
Ne deriva che, tramite ricombinazione (da cui il nome V(D)J perché vengono ricombinati i
segmenti V, J e poi D nelle catene pesanti e C), con le diverse combinazioni di V, J e C (anche se ce
n’è solo una), si possono ottenere 1200 versioni di catene leggere per anticorpo.
Dall’immagine si può vedere come, dal DNA della linea germinale, si ha un riarrangiamento del
DNA durante il differenziamento delle cellule B. In questo esempio, infatti, nel DNA delle cellule B
possiamo vedere che
si sono riarrangiati
V3 con J3.
Quando questo
DNA poi viene
trascritto, avremo
che verrà trascritto
V3, riarrangiato con
J3, poi J4 e C.
In seguito allo
splicing dell’RNA,
poi, vengono tolti gli
introni e le regioni
in essi contenuti à
nel nostro caso viene deleto J4 e viene ricombinato V3 e J3 insieme all’unica regione C (C4).
Alla fine, ottengo una ricombinazione tra V3 e J3 che poi verrà associata a C4.
Quando poi si avrà la traduzione, si otterrà una particolare catena leggera.
Nella catena pesante il discorso è analogo à in questo caso abbiamo 100 diverse versioni per le
regioni V, 4 regioni J, 12 regioni D (sta per diversity e si trova solo nelle catene pesanti ed è un
segmento anch’esso coinvolto nella generazione di diversi tipi di anticorpo) e 5 regioni C che
differiscono una per ciascuna tipologia di anticorpo à infatti, in base al tipo di regione C della
catena pesante, si avrà una particolare tipologia di anticorpo, che sono 5 à per esempio, Cmu nelle
IgM; Cdelta nelle IgD, Cgamma nelle IgG, Cepsilon nelle IgE, Calfa nelle IgA à di conseguenza,
considerando che ogni tipo di anticorpo avrà una particolare regione C unica, si avranno ben 4800
diverse versioni di catene pesanti per ciascuna delle 5 tipologie di anticorpi disponibili.
La trascrizione
La via dal DNA a proteine
Finora abbiamo visto la replicazione e la riparazione del
DNA e la ricombinazione genetica.
Dal DNA, però, abbiamo la sintesi dell’RNA tramite la
trascrizione, perché il DNA può fungere da stampo anche per
sintetizzare l’RNA (cioè copiare la sua informazione in una
molecola di RNA).
L’RNA così ottenuto (dopo essere stato processato etc.)
servirà poi per tradurre l’informazione in proteine (nella
sintesi proteica o traduzione).
In questo capitolo andremo a prendere in considerazione:
• L’unita di trascrizione e le tre fasi della trascrizione
• Le RNA polimerasi
• La trascrizione nei procarioti e la sua regolazione
• La trascrizione negli eucarioti e la sua regolazione
L’unità di trascrizione e le tre fasi della trascrizione
Unità di trascrizione
L’unità di trascrizione è un tratto di DNA che va dal promotore al terminatore ed è espresso come
una singola molecola di RNA.
In particolare, l’RNA polimerasi, che in
immagine vediamo con una forma a C,
viene a legarsi sul DNA riconoscendo delle
sequenze specifiche sul DNA, chiamate
promotore. Esso si trova all’inizio del gene
e contiene, tra l’altro, anche il nucleotide
da cui parte la sintesi dell’RNA (il sito
d’inizio della trascrizione, anche chiamato
TSS oppure indicato con il numero +1).
La trascrizione, poi, procede lungo lo
stampo di DNA fino a raggiungere delle
sequenze specifiche chiamate terminatore
(almeno nei procarioti, poi vedremo che ci
sono delle differenze tra procarioti ed
eucarioti), definendo in questo modo l’unità di trascrizione.
Nel promotore, poi, oltre al sito d’inizio, indicato con +1, i nucleotidi che stanno prima del sito
d’inizio vengono sempre indicati con un numero negativo e, in particolare, -10 e -35 rappresentano
due sequenze conservate nel promotore.
Tutti i nucleotidi sul DNA successivi al promotore, contenuti cioè nel gene che deve essere
trascritto in RNA, vengono invece indicati con un numero positivo.
Le sequenze che precedono il sito d’inizio della trascrizione, inoltre, vengono anche definite
sequenze Upstream (a monte), mentre le sequenze dopo vengono anche indicate come Downstream
(a valle).
Infine, le sequenze che si trovano vicino al sito d’inizio della trascrizione vengono chiamate regioni
o sequenze prossimali, mentre quelle più lontane distali.
L’RNA polimerasi trascrive uno solo dei due filamenti della doppia elica del DNA
Anche nella trascrizione abbiamo una polimerasi à in questo caso, l’enzima che sintetizza l’RNA
su uno stampo di DNA è per l’appunto la RNA polimerasi.
Anche in questo caso, affinché l’RNA polimerasi trascriva la molecola di DNA, ha bisogno di uno
stampo e utilizza però uno solo dei due filamenti della doppia elica di DNA, al contrario della
replicazione.
Inoltre, anche in questo caso, affinché questo stampo sia accessibile, è necessaria la creazione di
una bolla di trascrizione, cioè occorre una regione del DNA che si vada a denaturare.
In particolare, possiamo identificare, a livello della bolla di trascrizione, il filamento di DNA
codificante (il filamento che non viene utilizzato come stampo) e il filamento di DNA stampo (che
viene utilizzato dalla RNA polimerasi in modo tale da aggiungere i nucleotidi complementari e
produrre l’RNA).
Anche in questo caso, la direzione di sintesi dell’RNA ad opera della RNA polimerasi è sempre in
direzione 5’-3’ (le
polimerasi lavorano
sempre
sintetizzando in
questa direzione) e
si sfrutta sempre
un’estremità 3’-OH
(questa volta sul
filamento di RNA di
sintesi) per
aggiungere il nuovo nucleotide con la sua base complementare a quella del DNA stampo.
Bisogna poi anche osservare che questa bolla di trascrizione fornisce all’enzima il filamento stampo
e la bolla si muove insieme all’enzima e il DNA si apre via via che l’enzima procede e si richiude
dopo il passaggio dell’enzima (a monte), tant’è che in questo processo la bolla di trascrizione
rimane sempre di una lunghezza costante.
Man mano che la trascrizione procede, inoltre, si ha che l’RNA trascritto rimane accoppiato solo
per un breve tratto per poi staccarsi e, tra l’altro, al termine, l’RNA verrà dissociato dallo stampo di
DNA.
Nella tabella sottostante, inoltre, sono riportate le similitudini e le differenze rispetto alla
replicazione.
Tra l’altro, il filamento stampo può essere sia il 3’-5’ ma anche il 5’-3’.
In particolare, l’RNA polimerasi si lega al promotore con un orientamento prefissato, così dallo
stesso promotore viene sempre trascritto lo stesso filamento di DNA.
Per fare un esempio, nell’immagine abbiamo un gene 1 e un gene 2, il nostro RNA e la RNA
polimerasi. Nel gene 1 il filamento stampo è quello con direzionalità 5’-3’ e la RNA polimerasi si
muove sempre sintetizzando l’RNA in
direzione 5’-3’, mentre nel gene 2,
invece, l’RNA polimerasi si
orienta/posiziona sul promotore in modo
opposto al caso precedente, perché
utilizza come filamento stampo quello
3’-5’ e, di conseguenza, l’RNA è sempre
sintetizzato in direzione 5’-3’, ma lo
stampo è quello 3’-5’.
In una bolla di trascrizione, l’RNA
polimerasi ha, in altre parole, una
preferenza per ciascun promotore per
uno dei due filamenti stampo e, in quello
stesso promotore, viene usato come
stampo sempre lo stesso filamento di
DNA à in questo modo l’RNA polimerasi si orienterà in modo da tale da utilizzare o un filamento
oppure l’altro ma, per ciascun promotore, ho fisso l’utilizzo di quello specifico filamento stampo.
Lo vediamo anche nell’immagine superiore, dove abbiamo 3 geni à si vede infatti che per ciascun
gene, in base al filamento stampo che viene utilizzato, se 5’-3’ o 3’-5’, quindi in base a come si
orienta poi la polimerasi, viene usato uno dei due filamenti come stampo (ma la sintesi dell’RNA
avviene sempre in direzione 5’-3’, quello che cambia è l’orientamento della RNA polimerasi sulla
bolla di trascrizione, in modo tale da utilizzare uno dei due filamenti, ma solo uno specifico per
ciascun promotore).
Lo stampo di DNA per la sintesi di RNA
Nell’immagine si vede la sequenza del DNA codificante, quella del DNA stampo e quella dell’RNA
(che utilizza come stampo il filamento
stampo ovviamente).
Viene indicato anche il codone
d’inizio, che è l’ATG.
Per convenzione, il gene, il promotore
e le sequenze di regolazione del DNA
si scrivono come appaiono sul
filamento codificante (anche su
PubMed per esempio), ricordando che
il filamento codificante o DNA nonstampo risulta avere la stessa sequenza dell’RNA trascritto, mentre la sequenza del DNA stampo è
complementare, ovviamente, all’RNA trascritto e al filamento codificante à quindi, in base al
filamento codificante, facilmente possiamo dedurre la sequenza dell’RNA, che sarà praticamente
identica, e quella del DNA stampo, che sarà complementare al filamento codificante e all’RNA
trascritto.
Accoppiamento trascrizione/traduzione nei procarioti
Inoltre, nei procarioti abbiamo anche un accoppiamento tra trascrizione e traduzione à vediamo
infatti che l’RNA, che viene trascritto durante la sintesi dell’RNA stesso, non rimane appaiato per
tutta la lunghezza della trascrizione al
DNA stampo, ma vi rimane solo per un
piccolo tratto, per poi dissociarsi
completamente al termine della
trascrizione. Ma durante la trascrizione
abbiamo che la disponibilità di questo
mRNA permette nei procarioti di far sì
che, appena si ha un mRNA di lunghezza
sufficiente per posizionare i ribosomi, la
traduzione inizia immediatamente.
Quindi, nei procarioti, si ha che
trascrizione e traduzione avvengono
praticamente in contemporanea à mentre si allunga l’mRNA durante la sua sintesi, si ha che questo
viene contemporaneamente tradotto in proteine.
Negli eucarioti questo non è possibile perché l’mRNA messaggero negli eucarioti non è
immediatamente pronto per la traduzione, ma deve subire un processo di maturazione à solo
quando poi è maturo e quindi pronto per essere tradotto, viene traslocato dal nucleo al citoplasma,
dove avverrà la traduzione (quindi anche la presenza di un comparto subcellulare fa sì che
trascrizione e traduzione non siano accoppiate).
Le fasi della trascrizione in
procarioti ed eucarioti
1. Inizio à in realtà,
consta di diversi sottostep
2. Allungamento
3. Fine (o terminazione)
Ricorda: La trascrizione
procede sempre in direzione 5’3’
Inizio
La fase di inizio prevede diversi sotto-step à per prima cosa il promotore deve essere riconosciuto
dalla RNA polimerasi; quindi, nel primo step la RNA polimerasi si lega al promotore, senza
denaturare immediatamente il DNA e formare la bolla di trascrizione, ma creando un legame, ciò
che viene chiamato complesso chiuso.
Una volta che l’RNA-pol si è stabilmente legata al promotore, abbiamo una serie di cambiamenti
conformazionali all’interno della nostra polimerasi che promuovono l’apertura della bolla di
trascrizione (di circa 13 bp) e quindi la formazione di quello che viene chiamato un complesso
aperto. Questa bolla coinvolge la parte finale del promotore, incluso il sito d’inizio della
trascrizione e le sequenze a vallo del sito d’inizio della trascrizione. Questa seconda fase viene
anche
chiamata
melting del
promotore,
proprio
perché c’è
questa
apertura della
doppia elica
che crea la
bolla di
trascrizione.
Infine, in virtù
della nuova
disponibilità
del DNA
stampo, l’RNA-pol inizia a sintetizzare l’RNA à come si può vedere, all’inizio essa sintetizza
RNA senza distaccarsi dal promotore e inizia a fare una sorta di serie di tentativi di sintetizzare un
RNA sufficientemente lungo, che ibridizza quindi con il DNA stampo e deve essere un ibrido
stabile; infatti, questo ultimo step viene chiamato inizio abortivo, cioè l’RNA polimerasi non parte
subito a sintetizzare l’RNA a gran velocità ma, piuttosto, inizia sintetizzare dei frammenti di RNA
(una serie di tentativi), finché non riesce a produrre un RNA di 10 bp, che è una lunghezza
sufficiente per creare un ibrido stabile DNA-RNA e, a questo punto, inizia la sintesi. Tutti i corti
RNA dei tentativi precedenti si dissociano dal DNA (ecco perché inizio abortivo). Questo inizio
abortivo avviene perché l’RNA-pol non utilizza un primer, una giunzione innesco-stampo per
partire con la sintesi dell’RNA e quindi è lei che sintetizza immediatamente l’RNA, con una serie di
tentativi iniziali.
A questo punto, la polimerasi può rilasciare il promotore e proseguire nella fase di allungamento.
Allungamento
L’RNA-pol abbandona, come già detto, il promotore e inizia ad allungare l’RNA.
Tra l’altro, durante la fase di allungamento, l’enzima si muove in modo da sintetizzare sempre in
direzione 5’-3’ l’RNA e, mentre si sposta lungo il DNA, muove con sé anche la bolla di
trascrizione.
Inoltre, il DNA si apre nella direzione di sintesi (nel caso specifico dell’immagine da sinistra verso
destra) e si richiude alle sue spalle, in modo tale da mantenere la bolla di trascrizione di una
lunghezza costante.
L’RNA polimerasi in questa fase ha diverse funzioni, quindi:
• Sintetizza l’RNA
• Separa i due filamenti di DNA a valle e li riavvolge a monte dell’enzima
• Stacca la catena di RNA dallo stampo di DNA (in modo che l’ibrido DNA-RNA mantenga
una lunghezza costante)
• Funziona da correttore di bozze (nel caso in cui venga incorporato un nucleotide non
corretto, può andare a riparare questo nucleotide errato, attraverso proprio questa funzione di
correttore di bozze)
Durante la fase di allungamento vengono introdotti superavvolgimenti
L’azione di apertura della doppia
elica per creare la bolla di
trascrizione viene a generare a
valle dell’RNA-pol dei
superavvolgimenti positivi (come
nella replicazione) e, quindi, per
evitare che la trascrizione si
blocchi a causa di questi
superavvolgimenti positivi,
dovranno intervenire le
topoisomerasi a risolverli e
rimuoverli.
Terminazione
Nella terminazione l’RNA-pol rilascia l’RNA prodotto, si dissocia dal DNA e nei batteri, come
vedremo, esistono delle sequenze specifiche alla fine del gene che sono appunto i terminatori (ne
esistono di diversi tipi), che consentono proprio questa dissociazione della polimerasi.
Le RNA Polimerasi
LE SUBUNITA’ DELLE RNA POLIMERASI
I batteri, come si vede nella tabella, hanno una sola RNA polimerasi, RNAP core, mentre le cellule
eucariotiche ne hanno 3, RNAP I, RNAP II, RNAP III.
Ogni polimerasi negli eucarioti è specifica per la sintesi di determinati RNA:
● La RNA pol I si occupa della sintesi degli rRNAs
● La RNA pol II si occupa della sintesi degli mRNAs, microRNA (= piccoli RNA non
codificanti, con la funzione di regolare l’espressione genica di geni bersaglio) e alcuni RNA
non codificanti
● La RNA pol III si occupa della sintesi di tRNAs, rRNA 5s (uno degli RNA ribosomiali),
snRNA (= small nuclear RNA, ovvero piccoli RNA nucleari)
Recentemente sono state identificate altre due RNA polimerasi, che utilizzano sempre il DNA come
stampo, che sono RNA pol IV e RNA pol V. Queste due polimerasi si trovano solo nelle piante,
dove vanno a trascrivere dei piccoli RNA interferenti, non codificanti, che hanno la funzione di
silenziare la trascrizione di geni bersaglio (hanno sempre una funzione di regolazione
dell’espressione genica, per altri target).
Nella RNA pol batterica, la componente enzimatica è la RNAP core ed è costituita da una serie di
subunità:
● 2 subunità beta
● 2 subunità alfa
● 1 subunità omega
Per ciascuna di queste unità, negli eucarioti vi è la corrispondente componente proteica, come si
vede nella tabella.
Negli eucarioti, la composizione in subunità è più elevata di 5 perchè oltre alle 5 corrispondenti a
quelle batteriche per funzione, si hanno tante altre subunità in più.
Anche in questo caso il core enzimatico è il P core, come già detto, ma quando a questo core si
associa un altro fattore, detto fattore sigma, si parla di oloenzima della RNA polimerasi batterica; è
un oloenzima con una struttura più semplice rispetto a quello che si è visto con la DNA pol
batterica, però anche in questo caso una componente proteica aggiuntiva supporta l’attività
enzimatica dell’RNA P core.
ARCHITETTURA DELLE RNA POLIMERASI
La struttura della RNA pol viene
indicata con una figura che ricorda
una chela di un granchio.
(La DNA pol viene invece paragonata
alla mano destra).
Le pinze corrispondono alle subunità
beta e beta’. Il sito attivo, dove avviene la polimerizzazione, perciò la sintesi e l'aggiunta dei
ribonucleotidi, si trova alla base delle due pinze, quindi tra le due subunità beta e beta’. Questa
regione, in cui si trova il sito attivo, si chiama solco centrale attivo.
In queste due immagini viene paragonata la
struttura della RNA pol batterica con quella della
RNA pol II eucariotica e si nota che la forma a
chela di granchio è mantenuta in entrambe le
strutture e in generale la struttura è molto simile.
Ogni colore corrisponde a una subunità, come si
legge dalla legenda.
IL MECCANISMO DELLA SINTESI DI RNA
La reazione di polimerizzazione è analoga a quella della DNA
polimerasi.
La RNA polimerasi sintetizza il filamento in direzione 5’→ 3’
e in questo caso specifico si ha un filamento stampo di DNA
indicato con gli zuccheri in rosso, mente il filamento con gli
zuccheri in verde è il filamento di RNA nascente.
Anche per la RNA pol l’estremità 3’OH libero del filamento di
RNA nascente va a colpire il fosfato alfa del nuovo
ribonucleotide, che è entrato nel sito dell’enzima e che si è
appaiato con la sua base complementare allo stampo di DNA.
La reazione, come al solito, prevede il rilascio di pirofosfato
con l'addizione del nuovo ribonucleotide alla catena di RNA.
Anche in questo caso l’enzima presenta nel sito attivo due ioni magnesio, che consentono di ridurre
l’affinità dell’idrogeno per l’ossigeno in posizione 3’, in modo da creare un ossigeno carico
negativamente, che va a colpire il fosfato alfa rilasciando pirofosfato. Anche i fosfati beta e gamma,
aventi cariche negative, vengono stabilizzati dagli ioni magnesio.
L’unica differenza, rispetto al meccanismo di sintesi della DNA pol, è che si ha l’utilizzo di un
unico filamento stampo e che si sta sintetizzando un RNA, quindi, entrano nel sito attivo dei
ribonucleotidi e non dei deossiribonucleotidi.
I CANALI DELLA RNA POLIMERASI
La RNApol ha diversi canali, che consentono il passaggio del DNA, RNA e ribonucleotidi verso e
dal solco centrale. A livello del solco centrale ci sono diversi canali:
● Un primo canale permette l’ingresso del DNA, che deve essere denaturato e trascritto
● Un canale consente l’ingresso dei ribonucleotidi
● Dall’altra parte un canale da cui esce l’RNA neosintetizzato
L’RNA viene sempre sintetizzato in direzione 5’→ 3’, quindi all’estremità 3’ viene addizionato il
ribonucleotide, che dovrà essere complementare alla base dello stampo.
RNA pol ha una sorta di perno che consente la separazione dei due filamenti rendendo disponibile il
filamento stampo (in rosso) (in blu il filamento codificante).
All’interno della RNA pol si forma una bolla di denaturazione, dove i due filamenti vengono
separati e a monte vi è il canale d’ingresso e a valle il canale di uscita del DNA, che è di nuovo
riappaiato.
Durante l’allungamento, quindi durante la sintesi, la bolla viene sempre mantenuta di una
dimensione costante, proprio perché per una base che dissocia sul filamento di DNA, se ne riappaia
una successiva. In questo modo la bolla rimane sempre costante.
LA TRASCRIZIONE NEI PROCARIOTI E LA SUA
REGOLAZIONE
Il core enzimatico è l’RNA P core, che viene ad essere associato ad un fattore SIGMA.
Questo fattore nell’immagine riportata in alto a sinistra è la struttura in fucsia, mentre a destra, nella
struttura a chela di granchio, è quello in grigio.
Il fattore sigma crea proprio l’oloenzima, ovvero l’intera RNA pol batterica, dove viene mantenuta
questa attività.
Il fattore sigma è importante, perché la sua presenza assicura alla RNA pol batterica di legarsi con
notevole affinità al promotore (da ricordare infatti che la trascrizione ha inizio con il riconoscimento
del promotore da parte della RNA pol). Il fattore sigma agisce come un fattore di trascrizione a tutti
gli effetti. Nei procarioti si ha quindi un solo fattore di trascrizione.
Quando sigma è legato alla RNA pol si riduce la capacità globale della polimerasi di legare il DNA,
mentre aumenta notevolmente la sua affinità per il promotore.
Ricapitolando, quando c’è il fattore sigma, RNA polimerasi si lega con alta affinità al promotore.
Quando il fattore sigma non c’è, essa si lega al DNA, senza andare a disperdersi nella cellula.
Il fattore sigma deve essere perciò associato alla RNA pol durante la fase di inizio della
trascrizione, in quanto in questa fase RNA pol deve rimanere legata al promotore.
Nella fase di allungamento, dove vi è il disimpegno del promotore, ovvero la RNA pol si sposta dal
promotore, il fattore sigma si stacca.
Il fattore sigma ha dei domini che sono rivolti verso l’esterno e
servono per riconoscere e legare il promotore. Gli altri domini
sono nella regione interna, fra le due parti della pinza e vanno a
occupare parzialmente il canale dove si posiziona il DNA.
Anche questa struttura ci permette di capire la funzione del
fattore sigma, in quanto ci fa capire come la presenza di questo
fattore sigma ci assicuri il fatto che esso si lega al promotore
grazie ai domini esterni però dall’altra parte viene a ridurre
notevolmente l’affinità della RNA polimerasi per il DNA grazie
ai domini interni che vanno a occupare parzialmente il canale
dove passa il DNA.
Esistono diversi fattori
sigma. Il fattore
predominante in E.
coli è il fattore
sigma70. Esistono
anche altri fattori
come il fattore
sigma32, che entra in
gioco quando i batteri
subiscono uno shock
termico, il fattore sigma54 agisce in seguito a una carenza di azoto o il fattore sigma28 che fa parte
del sistema del flagello.
Per ogni fattore si ha una sequenza specifica a -35 e a -10 nel promotore e la distanza che è
interposta tra le due sequenze conservate differisce in base al fattore.
Quello principale è appunto il fattore sigma70 e le sequenze conservate a -35 e a -10 sono
rispettivamente TTGACA e TATAAT.
Questa è la struttura classica
di un promotore riconosciuta
da sigma70.
Nell’immagine si nota che tra
le due sequenze conservate si
ha una distanza di 17-19 pb e
una distanza di 5-9 pb tra la
sequenza a -10 e l’inizio
della trascrizione.
Queste sequenze consenso sono
state ottenute confrontando ben più
di 300 promotori presenti nel
genoma di E. coli, che vengono
riconosciuti dal fattore sigma70.
Confrontando questi promotori si è
potuto produrre le sequenze
consenso a -35 e a -10.
Ogni colore indica una base e sulle
ordinate è indicata la frequenza di
ciascun nucleotide.
Sulla base di queste sequenze consenso, bisogna ricordare che non tutti i promotori contengono
esattamente la sequenza consenso, quella che è riportata è quella predominante, più frequente, come
si vede dalle barre più alte (indicano maggior frequenza) ma ci sono delle piccole variazioni che
sono responsabili della forza di un promotore.
Un promotore che presenta una sequenza a -35 e -10 nel suo promotore, che è identica o quasi a
queste sequenze consenso, è un promotore molto forte, mentre viceversa, quando un promotore si
diversifica da queste sequenze consenso, è molto più debole (tanto più sono diverse, più il
promotore è debole).
I geni costitutivi sono quei geni che la
cellula vuole esprimere ad alti livelli
continuamente, indipendentemente da
stimoli esterni e vengono detti
“housekeeping”, come l’actina o geni
legati al metabolismo del glucosio,
coinvolti nella glicolisi, come una
aldolasi o chinasi.
I geni non costitutivi invece sono quelli
inducibili, regolati da fattori esterni,
come un attacco virale o un'infezione o
infiammazione.
In questa immagine è riportato il
confronto di 3 strutture possibili per il
fattore sigma70 dei promotori da lui
riconosciuti: per il fattore sigma70,
infatti, alcuni promotori possono essere
differenti da quelli riportati in A.
● In A vi è quello classico
● In B vi è un classico promotore che si
trova a monte dei geni che codificano per
rRNA ed è un esempio di promotore
molto forte, perché si ha sempre bisogno
che l’rRNA sia prodotto dalla cellula ad alti livelli. Inoltre, esso contiene, oltre le sequenze a
-35 e a -10, l’elemento UP.
L’elemento UP è un elemento di interazione ulteriore del RNA pol attraverso non il fattore
sigma ma una coda, detta coda C Terminale della subunità alfa o 𝛼CTD
Gli elementi -10 e -35, sono riconosciuti dal
fattore sigma associato alla RNA pol, ma
appunto l’RNA pol ha un’estremità, come si
può vedere dall’immagine, che è la coda C
Terminale della subunità alfa, che interagisce
con l'elemento UP rendendo ancora più stabile
l’interazione della RNA pol con il promotore,
ecco perché è un promotore forte. La coda ha
un ponte flessibile, consentendole di interagire ancora più facilmente con questo elemento, creando
un ulteriore interazione tra l'enzima e il DNA.
● In C invece vi è una variante ancora, dove non c’è né l'elemento -35, né l’elemento UP, ma
c’è solo l’elemento -10, che però è esteso. Anziché essere di 6 pb, è un po’ più lungo,
intorno alle 10. Questo tipo di elemento è molto frequente nel promotore dei geni GAL, che
non contengono la sequenza -35, tanto meno l’elemento UP e per compensare hanno un
elemento -10 esteso.
Il fattore interagisce con il promotore e lo fa mediante delle regioni specifiche. Il fattore sigma
contiene 4 regioni principali o domini,
che vengono indicati con i numeri 1, 2,
3, 4 a partire dall’estremità N-terminale
fino all’estremità C-terminale. Di questi
domini si ha che il dominio 2 interagisce
con la sequenza consenso a -10, mentre
il dominio 4 interagisce con la sequenza
consenso a -35 del promotore.
Se si ha il caso di avere il promotore
esteso, in questo caso saranno coinvolte le regioni 2 e 3.
Tra la regione 3 e 4 si ha un linker che collega queste due regioni, ma se ne parlerà più avanti.
Considerando un promotore classico per sigma70, quindi, i domini coinvolti nell'interazione con il
promotore, sono il 2, con la regione -10 e il 4, con la regione -35.
La regione 4 interagisce con la sequenza consenso -35 sul promotore attraverso una struttura elica
giro elica, quindi, il dominio 4 ha questa struttura. Questa struttura fornisce l’energia di legame per
assicurare la polimerasi sul promotore. Questa interazione tra dominio 4 e la sequenza consenso è
fondamentale per assicurare la polimerasi sul promotore ed avviene grazie al fatto che il dominio 4
sia organizzato in questa struttura elica giro elica.
Il motivo elica giro elica è molto comune
per altre proteine che legano il DNA.
Dall’immagine sono riportate le due
strutture ad 𝛼 elica e si può notare come
una delle due eliche è chiamata R (che sta
per elica di riconoscimento), che si
inserisce nel solco maggiore e interagisce
direttamente con il DNA, mentre l’altra si
posiziona più esternamente e va a
interagire con lo scheletro zucchero-fosfato
del DNA.
Il dominio 2 interagisce con la
regione -10, mediante una
struttura ad alfa elica. Questa
interazione ha un ruolo importante
nella transizione da complesso
chiuso a complesso aperto.
Durante l’inizio della trascrizione,
inizialmente RNA pol si lega al
DNA riconoscendo la regione -35,
però non produce subito una
denaturazione del DNA, ma
rimane legata al promotore e passa
dal complesso chiuso, dove il DNA ancora non è denaturato, al complesso aperto, dove il DNA
viene denaturato (con RNA pol sempre sul promotore, in quanto siamo ancora nella fase di inizio).
L’interazione tra questa regione e la sequenza consenso è fondamentale per consentire la
denaturazione locale che coinvolge questa sequenza consenso a -10 del DNA.
Questa interazione del dominio due del fattore sigma consente di stabilizzare il DNA una volta che
è aperto.
Riepilogando:
● la regione -35 fornisce l’energia necessaria per assicurare l’energia di legame per assicurare
la polimerasi sul promotore
● Sulla regione -10 avviene l’inizio della separazione del DNA durante la transizione dal
complesso chiuso ad aperto e l’interazione con la regione 2 permette di stabilizzare il DNA
aperto
Durante la transizione da complesso chiuso a
complesso aperto, la RNA polimerasi subisce
dei cambiamenti strutturali:
1.
Le pinze beta e beta’ vanno a chiudersi
a valle del sito di inizio della trascrizione,
come se andassero a tenere fermo il DNA, su
cui la RNA pol si è legata
2.
La regione amminoterminale del fattore
sigma si sposta dal solco attivo centrale ad
una posizione più esterna consentendo libero
accesso al filamento stampo nel sito attivo e
dare l’avvio alla sintesi dell’RNA.
INIZIO ABORTIVO
Dal passaggio da complesso chiuso a
complesso aperto vi è l’inizio abortivo,
ovvero l’RNA pol è collocata sul
promotore e tenta di iniziare la sintesi
dell’RNA.
Il promotore è indicato in viola con il
sito di inizio della trascrizione.
Nell’immagine si vede l’RNA pol, che
rimanendo ferma sul promotore cerca di
andare a sintetizzare l’RNA. L’inizio
viene detto abortivo perché fintanto che
la polimerasi non riesce a sintetizzare
un filamento di RNA lungo almeno 10
nucleotidi, non abbandona il promotore e la trascrizione non prosegue. Questo piccolo trascritto di
RNA che non ha 10 nucleotidi (in verde nell’immagine) viene rilasciato e RNA pol riprova a fare
questo ciclo, fino a quando non si arriva ad avere un trascritto di RNA con almeno 10 nucleotidi,
che crea un ibrido stabile con il DNA stampo e in questo modo si può andare a disimpegnare il
promotore, per cui RNA pol abbandona il promotore e inizia a muoversi sul DNA, entrando nella
fase di allungamento.
Il disimpegno del promotore è accompagnato dal fatto che vi è il rilascio del fattore sigma dal
complesso con RNA pol. Quando il fattore sigma viene rilasciato, l’RNA pol rimane però legata al
DNA, basta che non sia però la regione del promotore.
MECCANISMO DI INIZIO DELLA TRASCRIZIONE
Come si muove il sito attivo dell’enzima lungo lo stampo del DNA nei primi cicli abortivi della
trascrizione?
La RNA pol rimane durante la fase di inizio trascrizione ferma sul promotore, ciò nonostante riesce
a sintetizzare un RNA di massimo 10 nucleotidi che le consente di abbandonare il promotore ed
iniziare la fase di allungamento.
Sono stati proposti 3 modelli per spiegare tale fenomeno ma il modello più accreditato dal punto di
vista sperimentale è quello sotto riportato, detto modello di accartocciamento o scrunching.
Dall'immagine si nota
che si è già in un
complesso aperto, dove si
è creata una bolla di
trascrizione che viene a
coinvolgere la regione -10, oltre ovviamente il sito di inizio della trascrizione.
In questo processo, l’RNA pol rimane ferma, legata al promotore e richiama al suo interno un tratto
di DNA, lo trae quindi all’interno. Il DNA, una volta tratto all’interno, si va ad organizzare sotto
forma di protuberanza. L’RNA pol poi provvede a sintetizzare questo primo tratto. Questo processo
viene detto di accartocciamento, perché è come se la RNA pol fosse una mano che trascina il DNA
all’interno di sé e il DNA a singolo filamento, nella bolla, si accartoccia a formare una
protuberanza.
L’ RNA pol inizia a sintetizzare il filamento sulla base delle sequenze disponibili e nel momento in
cui RNA pol raggiunge la lunghezza limite di max 10 pb, si è pronti ad entrare nella fase di
allungamento, abbandonando il promotore.
Quando viene prodotta una molecola di RNA più lunga di 10 nucleotidi, il fattore sigma, che nella
fase iniziale è ancora legato alla RNA pol, viene espulso, o meglio una sua componente, il linker ¾,
che è posizionato solitamente nel canale di uscita della RNA. Quindi il passaggio dall’inizio
abortivo alla fase di allungamento prevede l’espulsione del linker.
L’espulsione consente di liberare il canale di uscita dell’RNA, che viene via via sintetizzato e
l'espulsione di questo linker sembra che sia responsabile di un’associazione più debole del fattore
sigma con RNA polimerasi, che infatti durante la fase di allungamento viene allontanato ed esce dal
complesso con RNA pol.
ALLUNGAMENTO
Durante l’allungamento RNA pol non avendo più il fattore sigma, ha lasciato il promotore e scorre
lungo il filamento e l’allungamento del RNA procede per tutto il DNA stampo, fino alla fine.
Durante questa fase l’RNA pol aggiunge un nucleotide alla volta al trascritto di RNA
neosintetizzato, usando uno dei due filamenti di DNA come stampo.
Come già detto, la bolla di trascrizione viene mantenuta costante nelle sue dimensioni.
Consideriamo che una bolla ha una dimensione di 12-14 pb o nucleotidi, come lunghezza, mentre
l’ibrido che si sta creando tra il DNA stampo e RNA neosintetizzato è intorno agli 8-9 nucleotidi.
Durante tutto il processo di allungamento, la dimensione della bolla rimane costante, perché per
ogni coppia di basi che viene dissociata davanti all’enzima, si riforma un appaiamento dietro
all’enzima stesso.
La freccia rossa rappresenta una posizione fissa all’interno della polimerasi, che è sempre la stessa
in tutte le parti della figura. È un punto di riferimento per far capire il movimento della RNA
polimerasi e della bolla stessa; indica una posizione prestabilita all’interno della polimerasi che è
sempre la stessa per quanto riguarda le diverse figure. Aiuta a capire come si muove la bolla durante
l’allungamento.
A: si è nel punto di partenza, in cui si ha la bolla e
l’RNA è appaiato creando un ibrido, con 9 pb.
B: RNA pol trasloca in avanti di uno e come si vede,
mentre trasloca si porta dietro la bolla di trascrizione
e quando trasloca in avanti, si ha che una coppia di
basi in avanti si dissocia e un’altra dietro all'enzima di
viene ad appaiare. In questo modo la bolla rimane
sempre di 12-14 pb. RNA traslocando ha una base
dissociata che porta verso il canale di uscita, tant’è che
l’ibrido tra DNA e RNA non è più di 9 ma di 8, questo
perché si ha una nuova base sullo stampo che deve
essere letta per aggiungere il nucleotide.
C: Il +1 sta a indicare che in B il nucleotide non è stato
ancora aggiunto sullo stampo mentre in C si sta
aggiungendo. RNA pol è traslocata in avanti di 1. Ecco
perché l’ibrido è tra 8-9, in base al momento in cui
l’enzima trasloca di uno; questo processo viene
ripetuto per l’intero stampo.
L’ibrido tra DNA e RNA ha questa lunghezza di 8-9 nucleotidi e il resto del RNA è dissociato
perché è espulso attraverso il canale di uscita. RNA pol batterica sintetizza RNA a una velocità di
circa 50-90 nucleotidi al secondo.
AUTOCORREZIONE DA PARTE DELLA RNA POLIMERASI
Durante la fase di allungamento, RNA pol fa anche da autocorrezione. Ha una funzione di
correttore di bozze.
Per farlo utilizza due tipologie, due meccanismi d’azione:
1. Autocorrezione cinetica o editing
pirofosforolitico: nell’immagine si vede che
l’ultima base aggiunta all’estremità 3’ OH del
filamento non è corretta, perché la base del
ribonucleotide non è complementare a quella
dello stampo e quindi in questo meccanismo
quello che succede è che RNA pol entra in stallo
dopo aver incorporato questa base mal appaiata
nella catena di RNA nascente. Entrando in stallo,
attiva il suo sito attivo, svolgendo una reazione
inversa che catalizza la rimozione del
ribonucleotide. Il pirofosfato rilasciato durante
l’aggiunta del ribonucleotide va a colpire il legame fosfodiesterico, rompendolo e in questo
modo stacca la base errata e a quel punto RNA pol può riprendere la sintesi dell’RNA.
2. Autocorrezione nucleolitica o editing idrolitico:
RNA pol, nel momento in cui si accorge
dell’errore un po’ in ritardo e quindi dopo di
questo sono inseriti degli appaiamenti corretti,
torna indietro fino alla base errata e con la sua
attività nucleasica va a rompere il legame
fosfodiesterico a monte della base errata,
utilizzando l’acqua e i nucleotidi (sia quello
errato che quelli successivi) vengono eliminati.
Viene proprio eliminata l’intera sequenza
contenente la base errata; a questo punto
l’RNA pol può ripartire e continuare la sua
sintesi di RNA.
RNA pol fa comunque 1 errore ogni 10^4/10^5 nucleotidi incorporati ed è meno accurata della
DNA pol che fa un errore ogni 10^6 nucleotidi incorporati. Questo è anche ovvio perché di DNA ne
abbiamo una sola di molecola, mentre di RNA ne facciamo tante copie.
TERMINAZIONE DELLA TRASCRIZIONE
Nei procarioti la trascrizione termina quando l’RNA pol arriva su delle sequenze specifiche del
DNA, che si chiamano TERMINATORI.
TERMINATORE = sequenza sul DNA che una volta trascritta da una RNA pol consente la fine
della trascrizione con il rilascio dell’enzima dal DNA ed il rilascio dell’RNA neo-sintetizzato.
Nei procarioti esistono due tipi di terminatori:
1. Terminatore RHO-indipendente, detto anche terminatore intrinseco: terminatore che non ha
bisogno di questa proteina RHO.
Quando RNA pol
incontra il terminatore,
l’RNA trascritto
corrispondente ha la
struttura mostrata dalla
figura. Se si osserva tale
struttura si osserva che
questo terminatore
presenta due sequenze
ripetute e invertite,
seguite da una sequenza
poliA e poliT. Quando
il terminatore viene trascritto si forma una struttura a “stem loop”, ovvero a forcina, dove il
trascritto che deriva dalle sequenze ripetute e invertite crea la struttura a forcina che termina,
grazie al tratto poliA e poliT, con una coda poliU.
RNA che termina con questa regione induce il termine della trascrizione.
Come fa l’RNA che termina con questa regione a indurre il termine della trascrizione?
(DNA in grigio e RNA in verde)
Quando l’RNA pol trascrive il terminatore
si forma la struttura a forcina, che rende
l’RNA instabile.
RNA è tenuta insieme nell’ultimo tratto
dal poliU. Il tratto poliAU è un tratto che,
rispetto a un tratto GC, è instabile, in
quanto ha due legami a idrogeno per ogni
coppia AU e quindi è ovvio che se già il
terminatore, ovvero la struttura a forcina,
rende instabile l’RNA ed è solo tenuto
insieme dal tratto poliU, questo
aiuta/assicura la dissociazione dell’RNA
dallo stampo.
(Ancora non è chiarissimo come avviene
il distacco, ma le interazioni deboli che ci sono tra il trascritto e lo stampo sembrano favorire
il distacco in virtù del fatto che il tratto poliU è preceduto dalla struttura a forcina)
2. Terminatore RHO-dipendente: In rosso vi è il prodotto trascritto. Questo terminatore ha una
prima regione, che viene chiamata sequenza RUT, che è una sequenza che una volta
trascritta produce sull’RNA una
sequenza molto ricca in C. La
sequenza RUT può essere
seguita, con una distanza più o
meno grande, da due brevi
sequenze ripetute e invertite, le
quali a loro volta daranno
sull'RNA una struttura a stem
loop, più piccola rispetto a
quella vista nell’altro
terminatore, che si viene a creare nella parte 3’, quindi nella parte terminale dell’RNA
trascritto.
I terminatori prevedono il reclutamento di un fattore che riconosce la sequenza RUT e
questo fattore è RHO.
Nell’immagine vediamo la sequenza CCGCC, che indica che
RNA pol ha trascritto la sequenza RUT, che viene riconosciuta
dall’esamero RHO (in viola nell’immagine), che non è altro che
una elicasi esamerica con attività ATPasica (ricorda molto la
DNA elicasi).
Come motore molecolare riconosce la sequenza e grazie alla sua
attività ATPasica comincia a scorrere lungo l’RNA seguendo il
movimento della polimerasi. Nel frattempo, quando la polimerasi
sintetizza le sequenze al termine del terminatore, ovvero le
sequenze brevi ripetute e invertite, l’RNA assume la struttura a
forcina (nell’immagine non si vede) e assumendo tale struttura,
l’RNA pol rallenta, in quanto la struttura a forcina destabilizza sia
l’RNA che la stessa RNA polimerasi, entrando in stallo.
Rallentando, viene raggiunta da RHO che ne provoca il distacco.
L’attività elicasica di RHO dissocia alla fine l’ibrido DNA-RNA,
portando a termine la trascrizione.
REGOLAZIONE DELLA TRASCRIZIONE NEI
PROCARIOTI
La trascrizione viene finemente regolata. Partiamo con un esempio di procarioti. Le cellule
procariotiche sono sensibili a segnali che si trovano all’esterno della cellula, quindi, ad esempio
molecole presenti nel terreno di coltura entrano poi all’interno della cellula e vengono ad avere una
funzione regolatrice della trascrizione in senso positivo oppure negativo. In particolare, le proteine
che regolano la trascrizione in senso positivo vengono chiamate ATTIVATORI ed esplicano quindi
una regolazione positiva ovvero vengono ad attivare, incrementare la trascrizione del gene
bersaglio. Invece, le proteine regolatrici di tipo negativo hanno la funzione di regolare la
trascrizione in senso negativo e in tal caso questo tipo di proteine si chiamano REPRESSORI e la
loro azione consiste nell’andare a regolare in senso negativo la trascrizione e quindi ad inibirla.
Entrambe le proteine, sia i repressori che gli attivatori trascrizionali, agiscono a livello della fase
iniziale della trascrizione; vedremo in altri processi, non solo la trascrizione ma anche la traduzione,
che le fasi di questi processi che vengono regolate sono proprio quelle iniziali. In genere, come si
vede nell’immagine, abbiamo il DNA, in viola il promotore che viene riconosciuta dalla RNApol.
In assenza di attivatori o repressori
trascrizionali l’RNApol si lega al
DNA promotore in maniera debole
e l’espressione quindi dei geni
controllati da questo promotore è
un’espressione basale, si dice un
LIVELLO DI ESPRESSIONE
COSTITUTIVA BASALE.
Quindi, quando non ho attivatori o
repressori l’RNApol si lega
comunque al promotore ma in
maniera debole stimolando quindi
un livello di trascrizione basale costitutivo dei geni bersaglio. Questa trascrizione poi può essere
completamente inibita dal repressore à il repressore, come detto prima, è una proteina che in
particolare inibisce la trascrizione perché si lega al promotore, in particolare si lega ad una regione
chiamata operatore che è una sequenza sul DNA specifica, e questo operatore può essere
sovrapposto, ovvero inglobato all’interno del promotore (come nell’immagine) oppure adiacente al
promotore a cui si lega l’RNApol. Quando quindi il repressore vi si lega, impedisce l’accesso
dell’RNApol al promotore stesso e l’effetto è un’assenza di trascrizione.
Nel caso invece dell’attivatore, ha due domini di legame, 2 perché un dominio interagisce con
l’RNApol legata al promotore e l’altro dominio lega il DNA in una sequenza sul DNA che è
adiacente al promotore ma non coincide con esso, in questo modo si crea quello che viene chiamato
un LEGAME COOPERATIVO della proteina sul DNA e grazie a questo legame cooperativo si ha
che l’attivatore stimola il passaggio da complesso chiuso a complesso aperto che come sappiamo è
una dei primi passaggi della fase d’inizio della trascrizione (si ricorda infatti che l’RNApol si lega
all’inizio al promotore ma non promuove subito una denaturazione locale a livello del DNA ma si
lega senza promuovere questa denaturazione, si parla quindi di complesso chiuso e solo in un
secondo momento si passa al complesso aperto dove il DNA viene denaturato, l’attivatore favorisce
questo passaggio).
Nel genoma dei procarioti, poi, i geni sono soprattutto organizzati in operoni.
Cos’è un operone?
È un insieme di geni che vengono regolati in modo strettamente coordinato à un operone è formato
da promotore, operatore e i geni chiamati geni strutturali. Quest’ultimi, tutti vicini l’uno all’altro,
vengono trascritti insieme in un'unica molecola di mRNA (in rosso nell’immagine), da cui derivano
una serie di proteine. Questa singola molecola di mRNA che deriva dalla trascrizione di più geni
strutturali adiacenti viene chiamato anche mRNA policistronico. Gli operoni hanno un numero
variabile di geni che possono essere da uno a più di 12 e sono una caratteristica specifica dei
procarioti. In realtà anche negli eucarioti ci sono delle eccezioni che riguardano ad esempio i
nematodi che hanno alcuni geni organizzati in operoni come nei procarioti o anche in mRNA virali
che sono policistronici, in generale però è una prerogativa dei procarioti, questo perché i geni negli
eucarioti non sono organizzati in operoni ma vengono trascritti singolarmente, quindi da ogni gene
deriva un mRNA singolo e si parla di mRNA monocistronico.
Com’è strutturato l’operone?
Contiene i geni strutturali che sono tutti adiacenti, i quali vengono tradotti in una singola molecola
di mRNA che poi verrà tradotta dando le diverse proteine corrispondenti a ciascun gene strutturale.
Queste proteine vengono ad essere funzionalmente correlate, perché sono proteine che sono
coinvolte nella stessa via metabolica. I geni strutturali sono sotto controllo di un promotore (in
verde nell’immagine e indicato con la (P)), il quale contiene l’operatore (indicato nell’immagine
con la O), sequenza che lega il repressore. Il repressore, a sua volta, viene ad essere trascritto da un
gene regolatore che quindi codifica per la proteina regolatrice, gene che non fa parte però
dell’operone, infatti, si può trovare anche in punto lontano del genoma lontano dall’operone stesso.
Il repressore a sua volta può essere attivato o inibito ad opera di metaboliti che si trovano nel
terreno di coltura o che vengono metabolizzati dalle cellule in risposta a dei segnali extracellulari (il
concetto per l’attivatore è lo stesso).
Quindi, l’operone è formato dal promotore con il sito di legame per il repressore (operatore) e i geni
strutturali.
Esempio di regolazione dell’inizio della trascrizione nei procarioti:
Geni coinvolti nel metabolismo del lattosio in E. coli (operone Lac) à operone inducibile a
controllo negativo e positivo.
Ricalca la struttura descritta in precedenza. Contiene quindi una serie di geni strutturali, nello
specifico 3:
● lacZ à gene strutturale che codifica per la β-galattosidasi
● lacYà gene strutturale che codifica per la permeasi del lattosio
● lacA à gene strutturale che codifica per la tiogalattoside transacetilasi
Inoltre, questi geni strutturali sono sotto il controllo del promotore che contiene parzialmente
sovrapposta la sequenza dell’operatore. Adiacente al promotore abbiamo il sito del legame
dell’attivatore che in E. coli viene chiamato CAP (proteina attivatore catabolita) o CRP (proteina
recettore del cAMP)
Ruolo dei 3 enzimi nella via metabolica del lattosio
Il lattosio, come ricordiamo, viene acquisito dalle cellule batteriche come fonte energetica in
assenza di glucosio, la fonte primaria di
energia è il glucosio e la seconda fonte è il
lattosio quando il glucosio è assente.
Nell’immagine viene riportata la cellula con
la membrana plasmatica, lo spazio
extracellulare e il citoplasma. Il lattosio entra
all’interno della cellula grazie ad una
permeasi, una proteina di membrana che si
chiama per l’appunto permeasi del galattoside
o permeasi del lattosio, che è codificata da
lacY.
Il lattosio è un disaccaride e una volta entrato
nella cellula viene scisso in glucosio e
galattosio dalla β-galattosidasi (prodotta dal
gene lacZ), la quale oltre a idrolizzare il
lattosio (reazione principale), può
isomerizzare il lattosio ad allolattosio. Per
ultimo la tiogalattoside transacetilasi è un enzima che ha la funzione di trasferire gruppi acetilici ai
β-galattosidi.
Come viene repressa la trascrizione di questo operone?
Controllo negativo dell’operone LAC
Ricordiamo, questo operone LAC viene attivato in presenza di lattosio e in assenza di glucosio.
Quando invece ho glucosio, quindi, la cellula ha già la sua fonte energetica primaria e questa via
deve essere repressa perché non ha senso che la cellula produca enzimi coinvolti nel metabolismo
del lattosio quando ha già la possibilità di ricavare energia dalla sua fonte primaria. Quindi, quando
sono in assenza di lattosio e in presenza di glucosio, ho l’operone con lacZ, lacY e lacA e i siti di
controllo con il promotore
e l’operatore e il repressore
(indicato in arancio
nell’immagine) e succede
che il gene regolatore che
si chiama lacI viene
trascritto per produrre il
repressore Lac, il quale
andrà a legarsi
sull’operatore bloccando la
trascrizione dei geni
strutturali e quindi
inibendo la trascrizione
dell’operone LAC. Come
dicevamo, infatti, il
repressore viene trascritto da geni che si trovano lontano dall’operone stesso e che appunto indotti
dall’assenza di lattosio e in contemporanea presenza di glucosio vengono ad essere trascritti
producendo il repressore LAC.
Quando, invece, ho il lattosio e quindi sono in contemporanea in assenza di glucosio, questa via
deve essere attivata e per essere attivata occorre che il repressore LAC sia inibito. Quindi interviene
un induttore che si chiama allolattosio, il quale viene a legarsi al repressore modificandolo in
maniera conformazionale e in questo modo gli impedisce di legare la sua sequenza bersaglio sul
DNA. In questo modo, quindi, il repressore ha una conformazione differente che gli impedisce in
questo stato di legarsi all’operatore e l’RNApol ha libero accesso al promotore e la trascrizione
avviene senza nessun problema.
Ma come è possibile che l’allolattosio riesca ad avere questa funzione se la conversione del lattosio
in allolattosio è catalizzata dalla β-galattosidasi che a sua volta è codificata dal gene lacZ
dell’operone LAC?
Ricordiamo che l’RNApol riesce in maniera anche se debole a legarsi al promotore producendo un
livello basale di trascrizione, quindi anche quando i geni lac sono repressi, ogni tanto viene
sintetizzato un trascritto poiché l’RNApol riesce a legarsi al promotore al posto del repressore Lac,
perciò anche in assenza di lattosio, vi sono bassi livelli di β-galattosidasi utili per catalizzare la
conversione del lattosio in allolattosio.
Com’è costituito il repressore LAC?
In figura si può vedere in rosso e arancione il repressore lac, il
quale lega il suo sito di legame sul DNA (arancione e viola
nell’immagine) attraverso un dimero, in rosso un monomero e in
arancio l’altro e ciascun monomero consta di un dominio Nterminale che serve per legare il DNA, un dominio centrale che
ha la funzione di regolazione perché contiene il sito di legame
dell’induttore (allolattosio) e poi un dominio C-terminale che
serve per la oligomerizzazione. I domini N-terminali
(rappresentano una sorta di teste) legano il DNA ciascuna in
sequenze (in alto nell’immagine) che rappresentano le sequenze
dell’operatore lac che vengono riconosciute dal repressore lac.
Questa sequenza è costituita da 2 sequenze palindromiche
(ripetute e invertite) e ogni sequenza viene chiamata emisito.
Ogni emisito viene riconosciuto da una delle 2 teste del repressore lac.
Inoltre, l’interazione di questi domini N-terminali con il DNA avviene mediante un motivo elicagiro-elica.
Quindi questo dominio N-terminale è costituito da 2 α
eliche, dove una si posiziona sul solco maggiore per legarsi
al DNA e viene chiamata elica R o elica di riconoscimento
e l’altra si posiziona più verso l’esterno per interagire con
lo scheletro zucchero fosfato del DNA stesso e
stabilizzando in questo modo l’interazione.
Quando non c’è l’allolattosio il repressore si lega al DNA
utilizzando queste teste Nterminali una per ogni emisito, quando però il nostro repressore lega
l’allolattosio (in verde nell’immagine) subisce un cambiamento
conformazionale (riportato nell’immagine di destra) e le due teste si
vengono ad allontanare impedendo l’interazione con l’operatore, in
particolare in questo modo il repressore non è più in grado di rimanere
legato al suo sito operatore e quindi libera il promotore rendendolo
accessibile al legame con l’RNApol.
Come abbiamo visto il repressore lac viene ad
interagire quindi con 2 monomeri sul DNA, in
realtà però il repressore lac si lega come tetramero
e non come dimero, infatti come possiamo vedere
nell’immagine abbiamo rappresentato il
repressore lac in cui abbiamo un monomero in
arancio e uno in rosso legato per l’appunto ad un
operatore che viene chiamato O1 (operatore
principale) e associato a formare un tetramero
abbiamo l’altro monomero in arancione e l’altro
in rosso che lega un altro operatore. Vediamo
però che ogni operatore è a contatto con soli 2
monomeri del tetramero, quindi, ogni operatore
viene ad interagire con l’estremità N-terminale di
due monomeri alla volta. Questo significa che abbiamo più operatori riconosciuti dal repressore lac,
ovvero c’è un operatore principale che è chiamato O1 e gli altri invece a cui quindi interagiscono
due delle 4 subunità disponibili, ovvero gli altri due monomeri del tetramero vanno a legare uno
degli altri due operatori disponibili che sono O2 ed O3, questi ultimi vengono chiamati operatori
ausiliari che si trovano rispettivamente a 410 paia di basi a valle rispetto a O1 o nel secondo caso a
83 paia di basi a monte dell’O1.
Quindi, riassumendo, in viola abbiamo i siti degli operatori, l’operatore lac principale riconosciuto
dal repressore lac è O1 ed è quello che si sovrappone parzialmente al promotore lac, l’operatore
interagisce con le teste di 2 monomeri ma il repressore lac non si lega come dimero ma come
tetramero infatti gli altri due monomeri interagiscono con le loro teste sempre con la modalità
identica con gli altri due possibili operatori ausiliari che sono O2 e O3 i quali si trovano più distanti,
infatti come si vede nell’immagine il DNA si piega per aiutare l’interazione formando un’ansa.
Come viene attivata la trascrizione di questo operone?
Controllo positivo dell’operone Lac
L’operone inducibile Lac è anche sotto il controllo positivo ad opera di un attivatore che si chiama
CAP (proteina regolatrice), acronimo di attivatrice dei geni catabolici. L’attivatore CAP viene
chiamato anche CRP che sta per
recettrice del cAMP. Il controllo perciò
positivo viene realizzato da questo
attivatore CAP o CRP. Nell’immagine
si vede il ruolo dell’attivatore CAP che
quindi svolge un controllo positivo
sull’operone inducibile Lac. In alto si
trova l’operone con i 3 geni strutturali,
il promotore che contiene in parte
anche l’operatore e accanto al
promotore il sito che viene riconosciuto
dall’attivatore CAP. Come per il
repressore lac visto precedentemente
anche l’attivatore CAP viene trascritto da un gene che si trova anche parecchio lontano rispetto
all’operone lac. Quindi da questo gene CAP lontano rispetto all’operone lac si ottiene l’mRNA (in
rosso nella figura) che viene poi tradotto nell’attivatore CAP (in verde nella figura).
Quando ci troviamo in una situazione in cui abbiamo la presenza di glucosio nel terreno di coltura
dei nostri batteri ovviamente la via del lattosio non è necessario attivarla e quindi l’operone lac deve
essere inattivato. Infatti, in presenza di glucosio, l’attivatore CAP che viene prodotto, da solo non è
in grado di riconoscere il sito che si trova a monte del promotore dell’operone lac e di conseguenza
la sua azione di attivatore non viene esplicata. Quindi CAP da solo non riesce ad attivare l’operone
lac.
In assenza di glucosio e in presenza di lattosio è necessario che l’attivatore lac venga attivato e
perciò viene prodotta come molecola segnale la cAMP che funge da induttore e segnala proprio
l’assenza di glucosio (pallina in rosso nella figura) e si lega alla proteina CAP la quale cambia la
sua conformazione attivandosi e legandosi al sito adiacente al promotore promuovendo la
trascrizione dell’operone lac. Abbiamo visto che gli attivatori funzionano legando il DNA ad un sito
adiacente al promotore e in più interagiscono con l’RNApol favorendo il passaggio chiave della
trascrizione passando da complesso chiuso a complesso aperto.
Perciò l’attivatore CAP per essere funzionale e attivo deve legare la cAMP.
Ricordiamo che l’AMP ciclico viene ad essere prodotto da un enzima che è l’adenilato ciclasi che
converte l’ATP in cAMP ovvero adenosina monofosfato 3’ 5’ ciclico.
Questo avviene nel momento in cui abbiamo dei livelli cellulari di
glucosio molto bassi, i quali attivano l’enzima adenilato ciclasi
andando ad aumentare i livelli di cAMP. Livelli alti di quest’ultimo
quindi vanno a segnalare che abbiamo bassi livelli di glucosio e che
quindi occorre attivare una via alternativa che permetta di attivare la
produzione di glucosio per scissione del lattosio. In questo caso
l’AMP ciclico funziona non solo come segnalatore (segnala bassi
livelli di glucosio) ma funziona anche come induttore perché interagisce con l’attivatore specifico
dell’operone lac, ovvero CAP che si lega sul DNA e interagisce con l’RNApol.
Nell’immagine a lato si può vedere la struttura del
complesso tra l’attivatore CAP, l’RNApol e il DNA. I due
nastri che osserviamo in grigio e in rosa rappresentano la
doppia elica di DNA che interagisce con CAP in azzurro
associato all’induttore AMP ciclico (molecole all’interno in
figura). Inoltre, in viola troviamo l’RNApol e in particolare
troviamo la porzione αCTD (dominio carbossi- terminale
della subunità α della polimerasi) della nostra RNApol che
interagisce con CAP che funge da ponte, in quanto presenta 2 domini, uno che interagisce con
l’RNApol e l’altro per interagire con il DNA. Anche in questo caso, la proteina che interagisce con
il DNA lo fa sempre con il motivo elica – giro – elica.
Come abbiamo già detto, quindi, quando CAP interagisce con l’AMP ciclico subisce un
cambiamento conformazionale tale da assicurargli la configurazione ottimale per legare il DNA ed
inoltre interagisce con l’RNApol attraverso un legame che viene chiamato legame cooperativo
perché stabilizza l’RNApol e favorisce il passaggio da complesso chiuso a complesso aperto.
Questi diversi attori, ovvero il repressore lac, l’attivatore CAP e l’RNApol vengono tutti a lavorare
all’interno del promotore, quindi una regione molto ridotta come dimensioni (circa un centinaio di
paia di basi). Nell’immagine riportata sotto, vediamo i diversi siti di questi attori. Abbiamo il +1
(sito d’inizio della trascrizione), in rosso è indicata la regione del DNA che viene riconosciuta dal
repressore lac (regione che si sovrappone parzialmente al promotore); inoltre possiamo osservare a 35 e a -10 le sequenze consenso conservate tipiche dei promotori procariotici. Infine, a monte del
promotore, all’inizio dell’operone troviamo il sito di legame di CAP.
Quindi, riassumendo, l’attivazione della trascrizione dell’operone lac richiede 2 elementi
fondamentali:
1. La presenza del lattosio (o meglio del suo metabolita allolattosio che lega il repressore Lac
impedendogli il legame all’operatore)
2. L’assenza di glucosio (fonte di energia preferita) nel mezzo di coltura (tale assenza
determina alti livelli dell’induttore cAMP che lega l’attivatore CAP attivandolo così da
legare il suo sito di legame sul DNA e l’RNApol)
Viceversa, l’inibizione della trascrizione dell’operone lac richiede:
1. L’assenza di lattosio e perciò l’assenza dell’induttore allolattosio permette al repressore lac
di legare l’operatore
2. La presenza di glucosio che determina i bassi livelli dell’induttore cAMP, lasciando solo
l’attivatore CAP che non lega così il suo sito di legame sul DNA né l’RNApol
Inoltre, ricordiamo che il controllo negativo dell’operone Lac consiste nell’inibizione della
trascrizione dei geni Lac ad opera del repressore Lac, ma lo stesso repressore Lac subisce una
regolazione negativa attraverso l’induttore allolattosio che lo inibisce.
Invece, il controllo positivo dell’operone Lac consiste nell’attivazione della trascrizione dei geni
Lac ad opera dell’attivatore CAP, ma lo stesso attivatore CAP subisce una regolazione positiva
attraverso l’induttore cAMP che lo attiva.
Secondo esempio di regolazione dell’inizio della trascrizione nei procarioti:
Geni coinvolti nella sintesi del triptofano (operone Trp = operone reprimibile a controllo
negativo)
Innanzitutto, l’operone Trp è costituito da una serie di geni continui che codificano per una serie di
enzimi coinvolti nella sintesi dell’amminoacido triptofano. Come avviene per tutti gli operoni che
sono coinvolti nella produzione di enzimi deputati alla via metabolica di sintesi degli amminoacidi,
come l’operone trp, anche in questo caso gli operoni sono reprimibili, cioè l’espressione di questi
geni viene repressa nel momento in cui nel terreno di coltura è presente l’amminoacido
corrispondente, ovvero in questo caso l’aa triptofano. L’operone a triptofano è soggetto a 2 tipi di
regolazione:
1. Agisce a livello dell’inizio della trascrizione che riguarda il controllo negativo
2. Agisce nella fase di terminazione della trascrizione (meccanismo diverso da quello che
abbiamo visto fino ad ora perché per adesso abbiamo parlato solo di meccanismi che
avvengono all’inizio della trascrizione)
Vediamo nell’immagine a lato, la struttura
dell’operone trp. I geni strutturali sono ben
5: trpE, trpD, trpC, trpB e trpA, ciascuno di
questi geni codifica per un enzima diverso
coinvolto nella sintesi del triptofano (quindi
abbiamo delle sintetasi, delle fosfosintetasi,
delle trasferasi, ...).
A monte di questi geni strutturali troviamo
un ulteriore sequenza che si chiama
sequenza leader, la quale ha un ruolo
fondamentale nel secondo meccanismo di
regolazione.
ON sta indicare il nostro sito d’inizio della
trascrizione e il fatto che stia avvenendo la trascrizione stessa in questo caso e a monte abbiamo il
promotore (in viola nell’immagine) sovrapposto in parte dall’operatore (in arancio nella figura)
riconosciuto dal repressore del trp.
Nel primo meccanismo succede che la regolazione di questo operone è di tipo negativo e quindi
come tale si realizza tramite un repressore, indicato nell’immagine con 2 subunità e si chiama
repressore trp. Quindi praticamente questo repressore trp viene ad essere inattivo quando è da solo e
in assenza di trp e di conseguenza l’operone trp viene trascritto. Quando invece nella cellula
abbiamo la presenza di trp, in rosso nell’immagine, si lega al repressore trp inducendo un
cambiamento conformazionale e portandolo a legare l’operatore inibendo in questo modo la
trascrizione (OFF). Quindi il triptofano stesso funge da co-repressore.
ATTENUAZIONE DELLA TRASCRIZIONE DELL’OPERONE TRP (II meccanismo)
Abbiamo visto come la maggior parte dei meccanismi di controllo di trascrizione nei procarioti
avvenga nella fase iniziale ma è possibile avere un altro tipo di meccanismo che agisce alla fine
della trascrizione, l’operone trp ci fornisce l’opportunità di descrivere questo secondo meccanismo
che si chiama ATTENUAZIONE, in realtà questo meccanismo non è specifico solo per l’operone
trp ma si riscontra anche in altri operoni che producono altri aa, quindi è frequente per operoni che
hanno geni strutturali che codificano gli enzimi per una specifica via metabolica di sintesi per un aa
specifico.
Questo meccanismo interrompe la sintesi prematura del nostro mRNA policistronico in risposta alla
presenza di trp intracellulare, questo perché anche se a bassi livelli è presente del triptofano e quindi
non è necessario sintetizzarne dell’altro.
Per spiegare questo meccanismo occorre conoscere la sequenza leader, che nell’immagine più
avanti è in forma di mRNA, infatti abbiamo visto precedentemente che l’operone trp a monte dei
geni strutturali ha un altro gene trpL o sequenza leader. Questa consta di 161 nt e contiene una
breve sequenza codificante di aa (detta ORF) che contiene tra l’altro 2 codoni che codificano per il
trp (in totale presenta 13 codoni), inoltre contiene 4 sequenze indicate come 1, 2, 3, 4 che
comprendono parzialmente ORF stessa. Queste sequenze (1, 2, 3, e 4) sono in grado di creare degli
appaiamenti intramolecolari consentendo all’mRNA di assumere quella classica struttura a forcina.
In particolare, la regione 3 viene ad appaiarsi con la 2 o con la 4. Quando si appaia con la 2 crea una
struttura a forcina che non dà effetti alla trascrizione, quindi non interrompe la trascrizione. Mentre
quando si appaia con la 4 crea una struttura a forcina che viene a bloccare la trascrizione, questo
perché dopo il 4 abbiamo un tratto poli-U (abbiamo visto infatti in precedenza che nei procarioti la
trascrizione può essere terminata ad opera di terminatori chiamati ϱ-indipendenti, che hanno proprio
la tipica struttura a forcina seguita da una sequenza di 7 U).
In base alla struttura che assume la sequenza leader una volta che è stata tradotta in mRNA, io
posso avere la creazione di una struttura a forcina che funziona da terminatore e che quindi va a
bloccare la trascrizione dei geni strutturali in maniera prematura, impedendo che la trascrizione
dell’intero operone venga conclusa.
Vediamo questo in funzione della concentrazione del trp:
Se il trp all’interno della cellula è presente anche se non a livelli eccessivi ma comunque sufficiente
per le attività metaboliche cellulari e quindi per consentire anche di avere i nostri tRNA carichi del
trp, succede che il nostro mRNA della sequenza leader (nei procarioti l’mRNA viene subito
tradotto) viene riconosciuta dai ribosomi che si occupano della traduzione di questo mRNA,
tramite il tRNA carico dell’aa specifico, riconoscono il codone, se quest’ultimo presenta trp i
ribosomi legano la breve sequenza codificante e iniziano a tradurre producendo il peptide che è
composto da 13 aa (palline in rosso nella figura). Nel fare questo i ribosomi impediscono alla
regione 3 di appaiarsi con la 2 mentre le consentono di far sì che la regione 3 si appai con la 4, in
questo modo si crea un terminatore intrinseco, ottenendo così un mRNA corto chiamato mRNA
attenuato e verrà degradato.
Viceversa nel caso in cui le concentrazioni di trp siano molto basse, quindi insufficienti per le
attività metaboliche, succede che quando il ribosoma arriva a tradurre ORF e arriva dove ci sono i
codoni del trp accade che siamo in carenza di trp, quindi i tRNA carichi con l’aa specifico (trp) non
ci sono e quindi i ribosomi entrano in una fase di stallo e questo consente alla regione 3 di appaiarsi
con la regione 2 che non funziona da terminatore e l’RNA pol può continuare a trascrivere l’intero
operone trp, comprendendo anche i geni strutturali.
ATTENUAZIONE DELLA TRASCRIZIONE DELL’OPERONE Trp
RICAPITOLANDO, è stato visto come la maggior parte dei meccanismi di controllo della
trascrizione nei procarioti avvenga nella fase di inizio della trascrizione.
Però è possibile avere un altro tipo di meccanismo di regolazione che agisce nella fase di
terminazione.
L’operone Trp offre l'opportunità di descrivere questo secondo meccanismo, che si chiama
attenuazione. In realtà il meccanismo di attenuazione non è specifico solo per l’operone trp, perciò
non regola solo questo operone, ma lo si incontra anche per altri operoni che codificano per enzimi
coinvolti nella sintesi di altri aa, cioè è molto frequente per operoni che hanno geni strutturali dai
quali vengono codificati gli enzimi coinvolti in una specifica via metabolica di sintesi di un aa
specifico.
Il fenomeno dell'attenuazione va a interrompere la sintesi prematura dell’mRNA policistronico
dell’operone Trp in risposta alla presenza di triptofano intracellulare. In presenza di triptofano a
livello intracellulare a bassi livelli ma sufficienti per le attività metaboliche cellulari, viene bloccata
prematuramente la sintesi dell’mRNA e quindi l’espressione di tutti gli enzimi coinvolti nella
sintesi di triptofano, perché all’interno della cellula è già presente triptofano e quindi non c’è
bisogno di sintetizzarne dell’altro.
Per spiegare questo fenomeno occorre
spiegare la sequenza leader o trpl, che è
presente in forma di mRNA e si trova a
monte dei geni strutturali dell’operone trp.
La sequenza leader consta di 161 nucleotidi e
contiene una breve sequenza codificante di aa, dove sono presenti due codoni adiacenti che
codificano per il triptofano.
La sequenza leader contiene 4 regioni, che comprendono parzialmente l’ORF, infatti, i codoni
adiacenti si trovano nella regione 1.
Le sequenze/regioni 1, 2, 3, 4 sono in grado di creare degli appaiamenti intramolecolari,
consentendo alla molecola di mRNA di assumere le strutture a forcine.
La regione 3 può appaiarsi con la regione 2 e la regione 4:
● Quando si appaia con la regione 2, la struttura a forcina che creano non ha effetti sulla
trascrizione
● Quando si appaia con la regione 4, la struttura a forcina blocca la trascrizione, perché dopo
la regione 4 c’è una regione poliU. Si ricordi che nei procarioti la trascrizione può essere
terminata ad opera dei terminatori RHO-indipendenti, che hanno proprio la struttura a
forcina seguita da una sequenza di sette U e queste strutture promuovono la terminazione
della trascrizione stessa. Quando l’mRNA assume questa struttura, la trascrizione viene
terminata, l’mRNA si dissocia dallo stampo di DNA e l’RNA pol viene rilasciata.
Ricapitolando in base alla struttura che viene assunta dalla sequenza leader una volta che è stata
trascritta a mRNA, si riesce ad avere la creazione di una struttura a forcina che funziona da
terminatore che va a bloccare la trascrizione dei geni strutturali in maniera prematura, impedendo
che la trascrizione dell’intero operone venga conclusa (questo se il triptofano è presente, a livelli
non eccessivi ma comunque sufficienti per le attività metaboliche cellulari, per consentire ai tRNA
di essere carichi di triptofano).
L’mRNA (che nei procarioti una volta trascritto inizia ad essere subito tradotto), o meglio la
sequenza leader, una volta trascritta viene subito riconosciuta dai ribosomi, i quali si occupano della
traduzione dell’mRNA, che attraverso l’azione di tRNA carichi con l’aa specifico, riconoscono il
codone sul mRNA e portano l’aa specifico.
Se il trp c’è all’interno della cellula, questo può essere associato al tRNA corrispondente che
riconosce i codoni adiacenti trp. Quello che accade è che in presenza di concentrazioni sufficienti di
triptofano e quindi di corrispondenti tRNA carichi con l’aa corrispondente, i ribosomi legano l’ORF
che comprende i due codoni adiacenti e iniziano a tradurre la sequenza, reclutando i tRNA carichi
di triptofano che vanno a legare i codoni.
I ribosomi scorrono quindi lungo la sequenza leader, traducendo il peptide, la breve ORF, che
contiene i due codoni adiacenti, che in parte si sovrappone alla regione 1 e tale sequenza è costituita
da 13 codoni, quindi, il peptide che si ottiene è un filamento di 13 aa tra cui due triptofani adiacenti.
Quindi quello che avviene è che i ribosomi legano l’ORF producendo un piccolo peptide di 13 aa,
che in futuro verrà comunque degradato.
Nel fare questo i ribosomi impediscono alla
regione 3 di appaiarsi con la 2, mentre le
consentono di andarsi ad appaiare con la 4,
andando a creare un terminatore intrinseco.
L’effetto di questo appaiamento è che la
trascrizione viene a terminare prematuramente,
ottenendo un mRNA tronco, non completo,
tant’è che i geni strutturali non sono stati
trascritti e di conseguenza l’mRNA viene detto
attenuato e di conseguenza degradato.
I geni strutturali non vengono trascritti perché
attraverso un blocco prematuro della
trascrizione, l’mRNA non viene completamente trascritto in quanto l’RNA pol si blocca appena
dopo la sequenza leader. Quello che si ottiene è una trascrizione prematura, con un mRNA tronco
che verrà degradato, come il peptide leader corto di 13 aa.
Nel caso inverso in cui le concentrazioni di triptofano sono molto basse, quindi insufficienti per le
attività metaboliche cellulari, il ribosoma arriva a tradurre l’ORF dove ci sono i codoni adiacenti al
triptofano, ma essendo in carenza di trp, i tRNA carichi con il triptofano non ci sono e quindi
quando i ribosomi si trovano su i codoni adiacenti, entrano in stallo, proprio perché non si hanno i
tRNA carichi con il triptofano; la traduzione è bloccata. Lo stallo consente alla regione 3 di
appaiarsi con la regione 2, che non funziona da
terminatore e quindi l’RNA pol può continuare a
trascrivere completando la traduzione dell'intero
operone trp, comprendendo anche i geni
strutturali; questo permetterà di poter andare a
tradurre l’intero operone.
Attraverso questo meccanismo, si viene a creare
una struttura a forcina in cui le regioni 2 e 3 non
vengono ad essere un blocco per la trascrizione,
ma anzi consentono di continuare la sintesi
dell’intero mRNA.
LA TRASCRIZIONE NEGLI EUCARIOTI
La trascrizione negli eucarioti e procarioti presenta un processo identico, quindi, quello che è stato
visto come fase di inizio, allungamento e termine è comune sia nei procarioti che negli eucarioti.
Però negli eucarioti la situazione è più
complessa.
Nella tabella sono mostrate le differenze tra
procarioti ed eucarioti:
Come si vede nella tabella, bisogna fare
una distinzione se si parla di trascrizione:
● in vitro, quindi che avviene usando
come stampo un DNA senza istoni, quindi
un DNA non organizzato nella cromatina.
● in vivo invece vi è un DNA organizzato
in cromatina e che quindi prevede
l’intervento di diversi attori.
Nella tabella sono riportati i nomi delle 3
RNA polimerasi che agiscono nella
trascrizione degli eucarioti, i loro prodotti,
dove sono localizzati e quali sono gli
elementi conservati di ciascun promotore
riconosciuto per ogni specifica polimerasi:
Il nucleolo oltre ad essere la struttura responsabile della sintesi degli RNA ribosomiali, è anche il
luogo dove avviene l’assemblaggio delle diverse subunità dei ribosomi.
La pol II è quella principale, la quale si occupa di sintetizzare gli mRNA, oltre ad altri come si
legge nella tabella.
PROMOTORI DELLA POL II IN EUCARIOTI SUPERIORI
Con CORE o ELEMENTO CENTRALE DEL PROMOTORE si indica il tratto di DNA
indispensabile che viene ad essere riconosciuto dai fattori di trascrizione, ed è fondamentale per far
avviare la trascrizione stessa.
Nell’immagine si trova il DNA e nei vari colori si hanno le sequenze. Nella parte in basso vi è la
sequenza che è riportata come sequenza del filamento codificante della doppia elica e in alcune
posizioni si ha la doppia base, che sta a indicare che in questa posizione si possono trovare
entrambe, è indifferente. Ogni sequenza viene indicata con un nome specifico e nella parte in alto
viene riportata la posizione rispetto al sito di inizio di trascrizione, che viene sempre indicato con il
+1. Nella parte in alto, inoltre, vengono riportati i fattori di trascrizione che vanno a legare le
sequenze.
● Come si può vedere il promotore contiene la sequenza Inr, che sta per iniziatore, da cui parte
la trascrizione, infatti comprende il +1, che solitamente è una adenina.
● Un altro elemento molto importante è la sequenza a -26, che viene chiamata TATA BOX,
che è catalizzata dalla sequenza conservata TATAAA. La sequenza conservata permette di
essere riconosciuta da una proteina specifica, la TBP (“Tata Binding Protein”) che è una
delle componenti delle subunità che costituiscono il fattore di trascrizione TFIID.
● Accanto al TATA BOX si ha frequentemente la sequenza BRE, che permette il legame di un
altro fattore basale, che è il TFIIB.
● A valle del sito di inizio della trascrizione si trovano anche altri elementi, come il DPE, che
è tipico in promotori che non hanno il TATA BOX e viene riconosciuta sempre da TFIID.
● Ci sono infatti dei promotori che vengono detti TATA LEX. Si ricordi che il 50% dei
promotori hanno il TATA BOX.
● Gli elementi DCE possono essere presenti in più copie nei promotori che hanno il TATA
BOX.
● Nei promotori sono presenti delle isole, ovvero delle regioni dinucleotidiche, GC, chiamate
isole CPG, che stanno a indicare questi elementi dinucleotidici GC ripetuti.
Più del 50% dei promotori umani contiene queste sequenze dinucleotidiche GC, che sono
molto importanti perché, se metilate, vanno ad avere un ruolo fondamentale nella
regolazione dell’espressione genica.
➢ Oltre a questo core, l’elemento centrale, che si sta parlando di una regione che va dai 40 ai
60 nucleotidi a monte e a valle del sito di inizio della trascrizione, il promotore contiene
elementi che si trovano fino a 200 pb a monte del sito di inizio della trascrizione e in questo
caso si parla di elementi prossimali.
➢ Si hanno anche elementi a lungo raggio o distali, che stanno molto distanti, anche 10.000
nucleotidi dal sito di inizio della trascrizione e che vengono riconosciuti da altre proteine
che hanno la funzione di regolare la trascrizione stessa e di attivarla. Questi elementi distali
o a lungo raggio, vengono anche detti Enhancer, in quanto potenziano la trascrizione, quindi
la favoriscono.
INIZIO DELLA TRASCRIZIONE DELLA RNA POL II IN VITRO (= non si ha
l'organizzazione con la cromatina)
In alto si può notare la TATA BOX, a -26, che
viene ad essere riconosciuta dalla proteina
TBP, che fa parte del TFIID, un fattore di
trascrizione generale che consta di 12 subunità.
Alla TBP sono associati i TAF (TBP associated
factors, ovvero delle proteine che si associano
alla TBP e che insieme costituiscono il fattore
TFIID).
TFIID, grazie alla subunità TBP, si associa alla
TATA BOX; è il primo fattore di trascrizione
generale che si lega al DNA e al promotore.
Dopo di lui vengono reclutate altre due
proteine, TFIIA (con 3 subunità) e TFIIB (una
sola subunità). TFIIA ha la funzione di
stabilizzare il legame tra TFIIB e TBP. TFIIB
lega la proteina TBP, si associa al complesso e
aiuta a reclutare la RNA pol.
Il complesso TBP-DNA-TATA BOX
TBP è una proteina molto importante perché lega il DNA, avendo una regione a beta-foglietto che
le consente di riconoscere e legare il
TATA BOX e in particolare interagire con
il suo solco minore. Il TATA BOX ha
delle sequenze TA, quindi l'appaiamento
ha solo due legami H, facilmente
separabili. Quando la proteina TBP si
associa al TATA BOX, si inserisce nel
solco minore, lo apre, sfruttando gli
appaiamenti TA e porta a piegare il DNA
di 180°, creando una sorta di superficie
piana di piattaforma che sarà molto utile
per reclutare tutti gli altri fattori di
trascrizione generali.
Il complesso TFIIB/TBP/TATA BOX
Nello step successivo viene
reclutato TFIIB, che interagisce sia
con la TBP ma anche con la RNA
pol, quindi, è importante perché
rappresenta un ponte tra TBP,
associata al TATA BOX e la RNA
pol. Questo è importante perché in
questo modo, grazie all'azione di
TFIIB, l’RNA pol è posizionata
correttamente sul sito di inizio
della trascrizione.
Il legame di TFIIB al complesso TBP-DNA è asimmetrico, perché si posiziona in uno dei due lati e
questa asimmetria è importante per andare a determinare l'unidirezionalità della trascrizione (da
ricordare che la trascrizione va solo in un senso specifico, da +1 in poi e questo è assicurato dal
fatto che TFIIB, riconoscendo TBP, si leghi da un lato riuscendo a dare l’unidirezionalità in quanto
recluta l’RNA pol consentendo di avere una trascrizione in una direzione specifica e posizionando
correttamente RNA pol sul sito di inizio della trascrizione stessa).
Riepilogando, la TATA BOX viene riconosciuta da TBP, che fa parte di TFIID, quindi, è il primo
fattore che si lega al DNA. Successivamente arriva TFIIB che interagisce con TBP e aiuta il
reclutamento della RNA pol.
RNA pol II (in viola) non arriva sul DNA al promotore da sola ma con un aiutante che è TFIIF, che
si associa al TFIIB e viene a far da ponte tra RNA pol e TFIIB e in questo modo la RNA pol è
associata al promotore.
A completare il “complesso del pre-inizio”
vengono reclutate altre due proteine, TFIIE e
TFIIH. TFIIE è sempre un aiutante di TFIIH
nel complesso di preinizio, mentre TFIIH è
un’altra proteina importante perché ha
un’attività elicasica. In particolare, TFIIH
grazie a questa attività consente di aprire il
DNA creando la bolla di trascrizione e quindi
promuovere l’apertura del promotore, ovvero
promuovere il passaggio da complesso chiuso
a complesso aperto.
Riepilogando, RNA pol accompagnata da TFIIF, si associa agli altri fattori di trascrizione, si
posiziona a livello del promotore e viene ad essere reclutata, completando il complesso di preinizio;
si ha poi TFIIH che è associata a TFIIE, la quale aiuta il reclutamento di TFIIH in questo
complesso.
TFIIH ha anche un’altra funzione importante
oltre all’attività elicasica ATP-dipendente,
ovvero va a modificare quella che viene
chiamata coda CTD; questa coda è una
prerogativa specifica della RNA pol II
eucariotica e non è da confondere con l’alfa
CTD (carbossi terminal domain) della RNA
pol procariotica. L’alfa CTD era l’estremità
carbossi terminale della subunità alfa della
RNA pol procariotica. Qui la coda è sempre
una estremità carbossi terminale ed è una
lunga coda costituita da un eptapeptide
ripetuto tante volte.
Le ripetizioni cambiano in base all'organismo,
infatti nel lievito le ripetizioni sono pari a 27
volte, mentre nell’uomo 52 volte.
Il TFIIH ha quindi un’attività chinasica, in
particolare va a fosforilare la coda CTD,
infatti, prima apre il DNA e successivamente fosforila la coda, che inizialmente è associata con i
fattori di trascrizione generali. La fosforilazione ad opera di TFIIH determina come si vede bene
dall’immagine la dissociazione e il distacco della RNA pol II dal promotore e dai fattori di
trascrizione generali, permettendole di abbandonare il promotore e di entrare nella fase successiva,
ovvero quella di allungamento.
La fosforilazione della coda CTD promuove l’evasione del promotore, permettendo non solo
l’inizio della fase di allungamento (reclutando i fattori di allungamento come TFIIS e TFIIF), ma
anche il reclutamento, nella fase di allungamento, degli enzimi coinvolti nella maturazione
dell’mRNA; infatti negli eucarioti l’mRNA non è subito pronto per essere tradotto (bisogna
ricordare che la trascrizione avviene nel nucleo, mentre la traduzione nel citoplasma), quindi prima
di essere tradotto deve essere maturato, ovvero deve subire una serie di modificazioni posttrascrizionali che gli consentono di essere pronto per la traduzione nel citoplasma.
La coda fosforilata consente di reclutare gli enzimi chiave coinvolti nella maturazione dell’mRNA,
che prevede tre modifiche principali: il capping, lo splicing e la poliadenilazione. Tutte queste
modifiche hanno bisogno di enzimi specifici reclutati dalla coda fosforilata. Questo fa capire che la
fase di allungamento, la sua terminazione e maturazione sono eventi collegati tra di loro.
Durante l’allungamento e la terminazione, l’mRNA viene maturato, quindi viene aggiunto un CAP
al 5’, vengono rimossi gli introni attraverso lo splicing e viene aggiunta la coda poliA, attraverso il
processo di poliadenilazione al 3’ dell’mRNA.
IL COMPLESSO DI PRE-INIZIO IN VIVO
In vivo la situazione è più complessa, perché si ha a che fare con la cromatina e di conseguenza
occorre l'intervento di altri fattori, oltre a quelli generali visti precedentemente.
In particolare, intervengono proprio perché il DNA è impacchettato nella cromatina, quindi
reclutare l’RNA pol e il fattore di inizio trascrizione diventa più difficile, perciò, è importante
l’intervento di proteine regolatrici, che sono gli attivatori. Gli attivatori sono anche distanti dal
promotore come si vede dall’immagine, riconoscono delle sequenze specifiche sul DNA e aiutano a
reclutare la polimerasi al promotore e a stabilizzare il legame stesso e questo reclutamento è
mediato da una serie di interazioni tra gli attivatori legati al DNA, a sequenze specifiche e a diversi
attori, come i fattori di modificazione della cromatina, come ad esempio HAT (che sta per istone
acetiltransferasi) che sono quelli enzimi che modificano le code istoniche, andando a promuovere
uno stato di cromatina più rilassata o più compatta. Altro esempio sono i rimodellatori della
cromatina, che lavorano in associazione con gli enzimi che modificano le code istoniche. Tutti
questi attori coinvolti nell’andare a modificare e rimodellare la cromatina interagiscono con gli
attivatori.
Un altro tipo di interazione degli attivatori è con il mediatore, o meglio il complesso del mediatore
che è associato alla coda CTD (in viola), che viene a fare da ponte tra gli attivatori e la RNA pol e i
fattori di trascrizione. Il complesso del mediatore viene definito un coattivatore, che crea un ponte
tra gli attivatori trascrizionali legati al DNA, l’RNA pol e i fattori di trascrizione, facilitando
l’assemblaggio di tutti questi attori sul promotore.
IL COMPLESSO DEL MEDIATORE
Il mediatore è un complesso di più di 20 proteine, non
ancora del tutto caratterizzate.
Nell’immagine è comparato il mediatore del lievito con
quello umano e in azzurro più chiaro ci sono le subunità che
hanno un’omologia di sequenza significativa tra il lievito e
l’uomo.
Il mediatore è un grosso complesso, che interagisce con la
coda CTD della RNA pol e fa da ponte tra l’attivatore e
tutto il complesso del pre-inizio, aiutando l’assemblaggio
del complesso di pre-inizio (è quindi un co-attivatore).
MODELLO DI ALLUNGAMENTO SU SEQUENZE ORGANIZZATE IN NUCLEOSOMI
ASSISTITO DA FACT
Come fa l’RNA pol, durante l'allungamento, a risolvere il problema degli istoni?
In vivo il DNA è organizzato nei nucleosomi, dove intervengono delle proteine, dei complessi
chiamati chaperoni, che reclutano e legano gli istoni dai nucleosomi stessi, smantellandoli,
rendendo così libero il DNA per essere trascritto ad opera della RNA pol II.
In grigio vi è il DNA, con la RNA pol che si muove in direzione della freccia e quello che sta a
valle (sulla destra della RNA pol II) è un DNA che deve essere ancora trascritto, mentre a monte vi
è quello che è già stato trascritto.
Intervengono in questo senso, gli chaperoni, in particolare si ha il FACT, che è uno chaperone
costituito da due proteine, SSRP1 e Spt16. Questo eterodimero smantella i nucleosomi che si
trovano davanti l’RNA pol, in modo da liberare il DNA e renderlo pronto per essere trascritto dalla
RNA pol stessa.
Nell’immagine si vede che al passaggio 1, FACT viene a legare i dimeri H2A e H2B (si ricordi che
i nucleosomi sono costituiti dalle subunità H2A, H2B, H3, H4). FACT si occupa di legare e
smantellare il nucleosoma, legando e staccando il dimero H2A e H2B. Non solo lo smantella ma lo
riassembla, perché il DNA che sta a monte (a sinistra) della RNA pol occorre, una volta trascritto,
che venga riassemblato nei nucleosomi e FACT ha anche questo ruolo, ovvero è capace di andare a
riassemblare nuovamente il DNA in nucleosomi dietro la RNA pol con i dimeri H2A e H2B
(passaggio 2).
Ad H3 e H4 è associato un altro chaperone, che si chiama SPT6.
● H3 e H4 → SPT6
● H2A e H2B → FACT
Questi chaperoni, quindi, hanno la capacità di interagire con le specifiche proteine istoniche, vanno
a smantellare il nucleosoma a valle della RNA pol, in modo da liberare il DNA dal nucleosoma e a
riformare il nucleosoma a monte, dopo che la RNA pol ha trascritto, in modo da ricreare il
complesso DNA-proteine istoniche.
FASE DI ALLUNGAMENTO
Grazie alla fosforilazione della coda CTD della Pol II si entra nella fase di allungamento.
La polimerasi abbandona il promotore e avviene quella che viene chiamata evasione del promotore
e la polimerasi inizia a scorrere lungo il DNA, trascrivendo l’RNA stesso. Grazie a questa
fosforilazione si ha la transizione dall’inizio all’allungamento e vengono reclutati i fattori di
allungamento che aiutano questa fase; sono chiamati sulla coda fosforilata gli enzimi coinvolti nella
maturazione dell’mRNA.
EVENTI DI MATURAZIONE DELL’mRNA EUCARIOTICO
La maturazione dell’mRNA eucariotico avviene attraverso 3 eventi che nell’ordine sono:
1. Capping all’estremità 5’
2. Splicing
3. Poliadenilazione dell’estremità 3’
In base al grado di fosforilazione della coda di RNA pol si ha il reclutamento di diversi attori ed
enzimi coinvolti nella maturazione dell’RNA.
Nell’immagine è mostrata l’RNA pol, è indicato con i numeri 1, 2, 3, lo stato della coda e gli enzimi
che vengono ad essere reclutati nei 3 diversi momenti.
Per capire meglio i 3 diversi momenti si deve guarda lo stato di fosforilazione della coda CTD:
Nell’immagine si vede l’epta-peptide, che bisogna ricordare essere ripetuto in un numero variabile
di volte; nell’immagine è mostrato il grado di fosforilazione dell’eptapeptide, ma bisogna
immaginare che il grado sia ripetuto su tutti gli eptapeptidi, quindi su tutta la lunghezza della coda.
Ogni eptapeptide presenta uno specifico grado di fosforilazione, in base alla fase che si sta
analizzando.
Infatti, in base alla fase di trascrizione si vanno a vedere i fattori che vengono reclutati sulla coda
fosforilata e che sono utili per il processamento o maturazione dell’RNA.
I vari fattori responsabili dei tre processi di maturazione dell’mRNA si trovano legati al CTD solo
nei momenti in cui è richiesta la loro azione:
La prima modifica è il capping e in questo caso la coda è fosforilata in posizione 5, quindi in ogni
eptapeptide ripetuto si ha che la serina in posizione 5 è fosforilata. Questo stato di fosforilazione
coincide con quella che è la fase della trascrizione, in cui si ha il passaggio dall’inizio
all’allungamento, ovvero quando la coda è fosforilata in posizione 5 della serina, questo è il segnale
della RNA pol di evadere il promotore; c’è, perciò, il passaggio dall’inizio alla fase di
allungamento.
In questa fase e su questa coda vengono reclutate gli enzimi che sono coinvolti ad andare a svolgere
e aggiungere il cap all’estremità 5’ dell’mRNA. In particolare, il CAP viene aggiunto nelle
primissime fasi della trascrizione, dopo che il trascritto nascente ha raggiunto una lunghezza di 2040 basi.
Successivamente, durante la fase di allungamento la coda viene fosforilata anche in posizione della
serina 2 e questa doppia fosforilazione si accompagna con reclutamento, quindi in piena fase di
allungamento, dei fattori coinvolti nello splicing.
Man mano che l’allungamento va avanti si osserva una progressiva defosforilazione della serina in
posizione 5, quindi rimane fosforilata solo la serina in posizione 2 e in questo grado di
fosforilazione la coda va a reclutare gli enzimi necessari per la poliadenilazione e il taglio
dell’RNA.
In altre parole, si hanno 3 diversi stati della coda, che coincidono con 3 diversi momenti della
trascrizione e a cui corrispondono in base allo stato di fosforilazione il reclutamento di diversi
fattori coinvolti nei 3 eventi di maturazione dell’mRNA.
Gli enzimi vengono reclutati sulla coda, che ha un certo grado di fosforilazione specifico solo nel
momento in cui è richiesta la loro azione. La realizzazione del CAP si realizza proprio nel momento
in cui l’RNA pol abbandona il promotore e quindi quando l’RNA va a raggiungere una lunghezza di
20-40 basi. In altre parole, si verifica quando l’RNA trascritto esce dal canale di uscita che si trova
nella RNA pol II.
Capping dell’RNA
Sulla coda vengono reclutati gli enzimi che sono coinvolti nella prima modifica a cui è sottoposto
l’RNA, che è il capping. Il capping non è altro che l’aggiunta di una guanina metilata all'estremità
5’ dell’mRNA.
Nell’immagine è mostrato il trascritto nascente, dove al 5’ ha l’adenina con i 3 gruppi fosfato, alfa,
beta e gamma. Il capping è perciò l’aggiunta di una guanina metilata e questo avviene grazie
all’intervento di 3 enzimi
specifici che vengono reclutati
sulla coda al momento opportuno
per poter agire sull’mRNA.
Questi 3 enzimi sono:
● RNA trifosfatasi:
rimuove il fosfato gamma
all’estremità 5’ del
trascritto nascente
● Guaniltransferasi:
trasferisce la guanina
all'estremità 5’ del
trascritto nascente e in particolare catalizza l’attacco nucleofilo del fosfato beta del trascritto
nascente, che va a colpire il fosfato alfa del GTP, in questo modo si viene a creare un
legame fosfato-fosfato e si libera pirofosfato dal GTP iniziale.
Ricapitolando il beta colpisce il fosfato alfa del GTP, rompendo il legame tra fosfato alfa e
beta, dove viene rilasciato il pirofosfato, creando così un legame tra i due gruppi fosfato
insolito, perché è un 5’-5’ fosfato, mentre si è sempre visto un legame 5’-3’.
● Metiltransferasi: modifica la guanosina, in particolare aggiungendo un gruppo metile in
posizione 7
Questi 3 enzimi catalizzano ciascuno uno step utile per ottenere alla fine una guanina attaccata
all’estremità 5’ del trascritto nascente, con il legame insolito 5’-5’ e una guanina metilata in
posizione 7.
Funzioni del CAP:
➢ Protegge il terminale 5’ del pre-mRNA dall’azione delle esonucleasi 5’-3’ (bisogna
ricordare che l’mRNA, una volta trascritto dalla RNA pol II e quando non è ancora
maturato, viene indicato come pre-mRNA. L’mRNA maturo, che ha subito capping, splicing
e poliadenilazione ed è quindi pronto ad andare nel citoplasma dove viene tradotto, viene
detto mRNA).
➢ Aiuta a trasferire l’mRNA maturo nel citoplasma, attraverso l’interazione del CAP con delle
proteine specifiche che sono dette CBC (“Cap Binding Complex”)
➢ Assicura un corretto svolgimento della traduzione, perché nel citoplasma si viene a legare al
CAP un fattore di inizio della traduzione, chiamato eIF4E, che scarta CBC e si lega al CAP.
Questo è importante perché aiuterà il legame dell’mRNA con il ribosoma, proprio nelle
primissime fasi della traduzione stessa.
Splicing
L’mRNA è sottoposto alla rimozione degli introni e questo avviene quando la coda viene fosforilata
anche in posizione della serina 2 ed è in questo momento specifico, dove si è in piena fase di
allungamento, che lo splicing avviene, attraverso il reclutamento sulla coda di fattori che sono
coinvolti in questo processo.
(Questo argomento verrà trattato più approfonditamente in una lezione dedicata)
Poliadenilazione e taglio dell’mRNA
La coda fosforilata solo in posizione della
serina 2 è capace di reclutare i fattori che sono
coinvolti nella poliadenilazione e nel taglio.
È l’ultimo evento di maturazione dell’mRNA e
in questo caso si ha che quando la polimerasi ha
raggiunto l’estremità di un gene, incontra e
trascrive delle sequenze specifiche (in verde
nell’immagine), che sono chiamate segnali di
poliadenilazione o sequenza del segnale di
poliA nel nostro DNA.
Quando questa sequenza viene trascritta, questo
innesca il trasferimento dei fattori che sono
coinvolti nella poliadenilazione dell’mRNA,
dalla coda alla sequenza del segnale di poliA
del segnale stesso. I fattori CstF e CPSF sono
tratteggiati, a indicare che quando l’RNA pol
trascrive il segnale di poliadenilazione
sull’mRNA, questo rappresenta il la affinché
questi fattori vengano trasferiti dalla coda
dell’RNA pol alla sequenza segnale di poliA
sull’mRNA stesso.
Questi due fattori sono importanti perché permettono il taglio dell’mRNA, in particolare CPSF,
stimolata dal CstF, che va a tagliare immediatamente dopo il segnale di poliadenilazione e questo
determina il rilascio di CstF, rimanendo associato alla sequenza il fattore CPSF che aiuterà il
reclutamento di una poliA polimerasi, chiamata con l’acronimo PAP, che riconosce l’estremità 3’
creata dal taglio di CPSF e inizia ad aggiungere tanti residui di adenina, creando all’ estremità 3’
una vera e propria coda poliA di circa 200 adenine.
Contemporaneamente, man mano che la coda viene sintetizzata si legano delle proteine, che
vengono dette poly-A-binding-proteins (= sono delle proteine che si associano alla coda stessa).
Il processo è accompagnato al fatto che nel momento in cui l’mRNA viene tagliato e subisce
l’allungamento, l’mRNA rimasto viene degradato, mediante una nucleasi; questo porterà alla fine
della trascrizione.
Poliadenilazione e terminazione sono due eventi distinti: prima viene tagliato l’mRNA e viene
aggiunta la coda poliA e nel frattempo l’RNA pol continua a correre lungo lo stampo di DNA a
sintetizzare una seconda molecola di RNA, anche lunga (si può parlare di migliaia di nucleotidi).
Funzioni della coda Poli-A
La coda poliA è molto importante in particolare le proteine che la legano hanno diverse funzioni:
● Regolano l’azione delle PAP, ovvero l’enzima che va ad aggiungere le adenine all’estremità
3’, in modo tale che la lunghezza della coda sia sempre intorno ai 200-500 nucleotidi
● Proteggono l’mRNA stesso dall’azione delle esonucleasi 3’-5’ che potrebbero aggredire il
terminale 3’
● Aiutano il passaggio e l’esportazione dell’mRNA dal nucleo al citoplasma
● Sono importanti nella traduzione, in quanto interagiscono con un fattore di inizio eIF4G
MODELLI PER LA TERMINAZIONE DELLA TRASCRIZIONE
Nel momento in cui l’mRNA viene tagliato e viene aggiunta la coda poliA, la RNA pol continua a
trascrivere, non si ferma e produce un secondo messaggero, piuttosto lungo, anche di migliaia di
nucleotidi, che poi viene degradato.
In particolare, per far avvenire questo meccanismo che porta successivamente alla terminazione
della trascrizione, ci sono due modelli:
● Modello a siluro: alla RNA pol è associata un’altra proteina (in rosso), che è una
ribonucleasi 3’-5’, che viene definito il siluro, che ha due nomi diversi, Rat1 (identificata nel
lievito) e Xrn2 (identificato nell’uomo). RNA pol una volta che trascrive la sequenza di
poliA, va a trasferire la coda alla sequenza sull'mRNA, che poi viene tagliata. Questo
determina il
trasferimento della
ribonucleasi dalla
RNA pol
all’estremità 5’ del
secondo
messaggero.
Quello che succede è che l’mRNA privo di CAP viene riconosciuto dalla ribonucleasi che lo
inizia a tagliare. La ribonucleasi viene caricata sul trascritto dalla RNA pol stessa e va a
degradare questo secondo messaggero. Quando la ribonucleasi incontra la polimerasi ne
promuove la dissociazione dallo stampo, portando alla terminazione della trascrizione.
● Modello allosterico: si basa sul fatto che dice che l’RNA pol è altamente processiva lungo
tutto il gene, quando però supera la sequenza poliA diventa meno processiva, rallenta e
questa minore processività potrebbe essere causata da una modifica o da un cambiamento
conformazionale.
Il cambiamento
conformazionale
produce una
terminazione
spontanea molto
veloce, perché in
seguito a questo
cambiamento la RNA pol diventa meno processiva e si dissocia dallo stampo in maniera
spontanea.
Anche in questo caso il secondo mRNA viene degradato da una ribonucleasi 3’-5’.
Secondo questo modello, però, la dissociazione è dovuta dal fatto che la RNA pol, una volta
superata la sequenza del segnale poliA diventi meno processiva e quindi si vada a dissociare
spontaneamente dallo stampo di DNA determinando una terminazione della trascrizione.
A indurre il cambiamento può essere il trasferimento degli enzimi, dalla coda al segnale di
poliadenilazione; sono gli enzimi che si trovano sulla coda, CstF e CPSF, che una volta che
vengono trasferiti dalla coda della RNA polimerasi alla sequenza del segnale poliA
sull’mRNA, potrebbero produrre un cambiamento conformazionale sull’RNA pol
rendendola meno processiva. Un’altra possibilità è il fatto che sulla coda vengano reclutati
altri fattori, non ancora identificati, capaci di indurre questo cambiamento conformazionale.
CONTROLLO TRASCRIZIONALE NEGLI
EUCARIOTI
Promotore della RNA polimerasi II: presenta un core che contiene l’iniziatore con il sito +1 di
inizio trascrizione, vari elementi a valle del sito di inizio trascrizione (Tss), la sequenza TATA e la
sequenza BRE adiacente ad essa. Oltre a questi elementi facenti parte del core, indispensabile per il
riconoscimento da parte dell’RNA polimerasi, abbiamo anche altri elementi importanti a completare
la struttura dei promotori eucariotici. In particolare, questi elementi son suddivisi in elementi del
promotore prossimali ed elementi del promotore distali o a lungo raggio. Gli elementi del
promotore prossimali si trovano a circa 200pb rispetto al sito di inizio della trascrizione. Agli
elementi prossimali si legano i fattori basali di trascrizione, la polimerasi ed anche alcuni attivatori.
Gli elementi distali o a lungo raggio vengono a trovarsi a distanze più lontane che, fino a 100kb di
distanza, hanno la funzione di essere riconosciuti da fattori di regolazione, quindi da attivatori e
repressori trascrizionali. Gli elementi prossimali, poi, vengono riconosciuti anche da alcuni
attivatori o repressori. Essi sono organizzati in modo tale da contenere delle sequenze nucleotidiche
a blocchi, chiamati box. Questi box vengono ad essere riconosciuti da fattori specifici. Ad esempio,
il CAAT box è riconosciuto da un fattore specifico chiamato nfy che serve per influenzare
l’efficienza di un promotore. Un’altra è il GC box, una sequenza ricca in C e G, riconosciuta da un
fattore che si chiama sp1, frequente nei promotori di molti organismi compreso l’uomo. Spesso
troviamo il GC box nei promotori di geni housekeeping, cioè geni espressi a livelli molto elevati in
maniera costitutiva senza essere indotti da stimoli per essere trascritti. Troviamo questa box anche
in promotori di geni coinvolti nella risposta a stimoli ben precisi, come particolari tipi di stress o
esposizione ad inquinanti come, ad esempio, i metalli pesanti.
Gli elementi distali vengono riconosciuti da proteine regolatorie sia attivatori che repressori. Hanno
diverse funzioni. Gli enhancer funzionano da amplificatori e perciò vengono ad avere una funzione
di controllo positivo della trascrizione. Controllo positivo vuol dire che c’è una regolazione positiva
della trascrizione, cioè c’è un incremento dell’attività trascrizionale. Gli enhancer vengono, quindi,
riconosciuti perché son delle sequenze, a -700 o più, riconosciute da proteine che fungono da
attivatori trascrizionali.
Questi enhancer non
vengono riconosciuti da un
singolo attivatore ma da più
di uno. Notiamo che questi
enhancer si possono trovare
anche a -10 o +10 kpb
rispetto al sito di inizio della
trascrizione (E). Vengono
ad avere una lunghezza
intorno alle 500pb e
contengono fino a 10-12 siti
di legame per fattori di
trascrizione differenti.
Il complesso di proteine legato all’enhancer viene chiamato enhanceosoma. L’enhanceosoma può,
poi, interagire con il mediatore facilitando il reclutamento dell’RNA polimerasi sul promotore e di
tutti i vari fattori di trascrizione basali sul promotore stesso.
Gli elementi enhancer vengono anche chiamati elementi che agiscono in cis, cioè sequenze del
DNA che si trovano vicino al gene che deve essere trascritto a mRNA.
Con trans, invece, si indicano fattori di regolazione che vengono prodotti da regioni molto distanti
rispetto al gene su cui essi agiscono controllandone l’espressione.
Con cis elements indichiamo quindi: promotore, enhancer, silencer, insulator ecc.
Con trans, invece, fattori trascrizionali che riconoscono questi elementi che vengono però a loro
volta prodotti da regioni del DNA molto distanti.
Gli enhancer posso essere trovati sia a monte che a valle del gene che controllano. Per esplicare la
loro funzione spesso formano delle anse in modo da avvicinarsi ai co-attivatori con cui devono
agire. Inoltre, funzionano in entrambi gli orientamenti rispetto alla direzione della trascrizione.
Esoni = regioni che codificano per le proteine.
Introni = regioni non codificanti.
Gli enhancer si possono trovare anche a livello degli introni. La controparte degli enhancer sono i
silencer, cioè silenziatori. Funzionano al contrario ma con lo stesso meccanismo. Essi legano dei
repressori in grado di inibire la trascrizione con meccanismi diversi a quelli degli attivatori.
Un altro tipo di elementi sono gli isolatori, detti anche insulator e sono esempi di elementi che
agiscono in cis. Servono ad influenzare l’azione degli enhancer o silencer a loro vicini.
Gli isolatori, quindi, vengono ad impedire l’attivazione o la repressione di un gene da parte di un
enhancer o di un silencer.
Perché possa funzionare, un isolatore deve essere posizionato in mezzo fra un enhancer o silencer
ed il promotore. a) Un enhancer, in assenza di isolatore, può legarsi al promotore ed agire attivando
la trascrizione. b) In presenza di isolatore, invece, esso è impossibilitato a legarsi al promotore,
perciò non potrà attivarlo. Non c’è comunicazione tra enhancer e promotore. La trascrizione si
spegne.
Nel caso c) vediamo che un enhancer controlla sia un promotore a destra che uno a sinistra.
L’isolatore si trova tra il promotore di destra e l’enhancer; perciò, sarà bloccata l’interazione con il
promotore di destra. L’interazione con quello di sinistra, invece, può avvenire perché non vi è
nessun isolatore tra enhancer e promotore di sinistra ad ostacolare il tutto. In d) accade esattamente
il contrario.
Sia nei procarioti che negli eucarioti, queste proteine, sia che siano attivatori o repressori, hanno
sempre un dominio di attivazione ed un dominio di legame al DNA separati.
Mentre i motivi strutturali di dominio di legame al DNA sono stati ben studiati, quelli di attivazione
ancora non sono conosciuti del tutto.
Gli attivatori o repressori trascrizionali sono solitamente dei dimeri. In questa forma dimerica, ogni
monomero ha un dominio di legame al DNA. Il motivo è un motivo a elica-giro-elica, ma non è
l’unico.
Negli eucarioti questi dimeri non sono solo omodimeri, ma possono essere anche eterodimeri o
monomeri.
Abbiamo anche un dominio di dimerizzazione che consente al dimero di andare a dimerizzare.
STRUTTURA DEI DOMINI DI LEGAME AL DNA DEGLI ATTIVATORI E
REPRESSORI TRASCRIZIONALI EUCARIOTICI
Oltre al motivo elica-giro-elica possiamo avere proteine con omeodominio, domini proteici
contenenti atomi di zinco, motivo a cerniera di leucine (leucine zipper), proteine elica-ansa-elica.
Le proteine che legano il DNA mediante
un omeodominio sono costituite da tre alfa
eliche. La 2 e la 3 formano una struttura ad
elica-giro-elica dove la 3 funziona da elica
di riconoscimento.
Infatti, con gli aa sporgenti di ser, arg, asn
si inserisce nel solco maggiore del DNA.
A stabilizzare l’interazione con il DNA,
abbiamo che l’alfa elica 1 presenta una
coda a residuo di Arg che interagisce con il
solco minore del DNA.
In questo caso, abbiamo
l’atomo di Zn coordinato
con due His che
appartengono all’elica di
riconoscimento e con due
Cys che appartengono al
dominio N-terminale a
beta-foglietto. In questi
domini ho un’alfa-elica
all’estremità carbossi
terminale ed un betafoglietto all’N-terminale.
In questo modo, l’elica di
riconoscimento viene ad
essere tenuta in una
posizione opportuna per il
legame con il DNA. La
posizione ottimale per il
legame con il DNA, quindi,
è ottenuta dall’interazione con il beta-foglietto. Questa interazione è possibile grazie allo Zn che
forma legami di coordinazione con due aa dell’elica di riconoscimento e due aa dell’elica a betafoglietto.
In A vediamo la struttura primaria di questi motivi. Notiamo la presenza di residui di leucina
ripetuti ogni 7 aa. Questa disposizione fa in modo che nella struttura secondaria, cioè nel monomero
(B), le leucine siano esposte tutte nello stesso lato. Ogni giro di alfa elica corrisponde a 3 residui e
mezzo di aa; quindi, le leucine si trovano ogni due giri sullo stesso lato. Le leucine sullo stesso lato
rappresentano il dominio di dimerizzazione. In C vediamo che i dimeri dimerizzano grazie alla
regione ricca di L che instaurano tra di loro una serie di legami idrofobici. A seguire, abbiamo un
dominio basico, costituito da aa basici, come Arg, Lys, fondamentali per legare il DNA. Infatti,
come vediamo in D, i dimeri sono uniti a livello delle leucine, mentre a livello degli aa basici si
forma una sorta di motivo a due dita che diviene il sito di interazione con il DNA, in particolare con
il solco maggiore.
Abbiamo due
monomeri costituiti da
un’alfa-elica un po' più
lunga ed una un po' più
corta. La differenza
rispetto al classico
elica-giro-elica è che
ho un’ansa con una
sequenza aa molto più
lunga. Le due alfaeliche più brevi
servono a far
dimerizzare mentre
quelle più lunghe si
mettono a cavallo, una
a destra ed una a
sinistra, del solco del DNA, al fine di interagire con le basi. Le zone che riconoscono il DNA sono
costituite anche qui da aa basici.
GLI ATTIVATORI RECLUTANO ANCHE MODIFICATORI E RIMODELLATORI DEI
NUCLEOSOMI CONSENTENDO AL COMPLESSO TRASCRIZIONALE DI LEGARSI
AL PROMOTORE O INIZIARE LA TRASCRIZIONE.
Gli attivatori vengono ad interagire anche con i complessi di rimodellamento e modificazione della
cromatina. Questi contengono tutti quegli enzimi che modificano chimicamente le code istoniche,
come ad esempio HAT.
In vivo il DNA è avvolto attorno ai nucleosomi, quindi non sempre il promotore è accessibile.
Per cui gli attivatori reclutando questi attori del complesso di rimodellamento della cromatina e gli
enzimi modificatori di code istoniche, riescono a rendere più accessibili i promotori al complesso
trascrizionale rilassando la cromatina.
Si può avere, quindi, un’alterazione locale della cromatina stessa.
In questa immagine vediamo il DNA avvolto intorno ai nucleosomi. In verde abbiamo il sito
riconosciuto dal nostro attivatore, mentre in viola il nostro promotore. In questo caso, essendo il
promotore avvolto intorno al nucleosoma, non può reclutare RNA polimerasi ecc. e la trascrizione
non può partire. Bisogna liberarlo. Per liberarlo, l’attivatore ha diverse possibilità. L’attivatore
potrebbe, ad esempio, reclutare l’istone acetil transferasi, che va ad acetilare le code istoniche sui
nucleosomi adiacenti permettendo alla cromatina di assumere uno stato più rilassato (eucromatina).
In questo stato il promotore si libera ed è accessibile.
Un’altra possibilità è rappresentata dal reclutamento da parte dell’attivatore del complesso di
rimodellamento della cromatina che permette di andare localmente a far scivolare il DNA sulla
superficie del nucleosoma liberando il promotore. È così permessa l’attivazione della trascrizione.
I repressori eucariotici riconoscono i silencer. Si occupano di un controllo negativo della
trascrizione. I repressori possono agire con diversi meccanismi per inibire la trascrizione stessa.
a) Il primo può essere un meccanismo di
competizione con l’attivatore stesso. Il
sito in verde di legame con l’attivatore
viene a sovrapporsi al sito di legame per
il repressore. Quando il repressore si
lega al suo sito impedisce all’attivatore
di legarsi al DNA. C’è una
competizione tra repressore e attivatore
sul DNA stesso proprio perché i loro siti
si sovrappongono parzialmente, e
quindi, quando c’è l’uno non può
esserci l’altro.
b) La seconda possibilità è un’inibizione
dell’attività dell’attivatore stesso. Il
repressore, in questo modo, viene a
mascherare i domini di attivazione
dell’attivatore, inibendo l’attivatore.
c) Il terzo caso è rappresentato da
un’inibizione diretta. Il repressore
agisce direttamente con il mediatore
inibendo e bloccando il complesso sul promotore. Anziché essere gli attivatori, qui è il repressore
che viene ad interagire direttamente con il mediatore inibendone l’azione.
d) Reclutamento degli enzimi che modificano le code istoniche. Esistono delle deacetilasi che fanno
sì che la cromatina assuma una struttura molto più compatta (eterocromatina) e la trascrizione viene
bloccata indirettamente.
SILENZIAMENTO DI UN GENE MEDIANTE METILAZIONE DEL DNA E
MODIFICAZIONE DEGLI ISTONI
Bisogna poi ricordare che per silenziare un gene esiste un’altra importante modifica. Accanto al
reclutamento di complessi di rimodellamento della cromatina e modificatori delle code istoniche,
esiste la possibilità di avere silenziamento genico mediante metilazione. Il DNA viene metilato in
alcune zone soggette a questo, cioè le isole CpG. In particolare, ad essere metilata è la citosina.
Le isole CpG possono essere presenti a livello degli enhancer, a livello del promotore ma anche in
siti distanti dal punto di inizio della trascrizione. Queste regioni, una volta soggette a metilazione,
vengono a reclutare delle proteine che possono funzionare da repressori. A loro volta, queste
proteine possono silenziare ulteriormente il gene reclutando alcuni attori, cioè gli istoni deacetilasi e
i complessi di rimodellamento della cromatina. La cromatina, ora, viene compattata e si ha un
completo silenziamento genico.
Questo pattern di metilazione del DNA può essere mantenuto ed ereditato sul DNA neosintetizzato
grazie a degli enzimi chiamati metilasi di mantenimento. Durante la replicazione la regione CpG
non metilata non viene riconosciuta dagli enzimi di mantenimento che, invece, riconoscono i siti
emimetilati, perché presentano una C metilata sul parentale ed una C non metilata sul
neosintetizzato. Ora la metilasi di mantenimento provvede a metilare la C sul filamento
neosintetizzato. Questi profili di metilazione possono, quindi, essere ereditati.
Questo fa parte dell’epigenetica, che comprende le modifiche al DNA che avvengono dopo la
replicazione e che possono realizzarsi anche durante la vita.
L’epigenetica viene infatti modificata da fattori ambientali come stato di nutrizione della madre in
gravidanza, inquinamento, smog, fumo ed altri fattori.
Questo pattern di metilazione, quindi, può essere alterato da fattori esterni ed essere quindi causa
dell’insorgere di malattie.
LO SPLICING
In questa unità didattica andremo a prendere in considerazione:
• Splicing
o Chimica dello splicing
o Il macchinario dello spliceosoma e le fasi di reazione dello splicing
o Varianti di splicing, splicing alternativo e sua regolazione
• Editing
• Traslocazione nucleo-citoplasmatica degli RNA
SPLICING
Il pre-mRNA negli eucarioti, per diventare mRNA pronto per essere traslocato da nucleo a
citoplasma e nel citoplasma essere sottoposto alla traduzione in proteina, deve subire delle
modifiche, cioè una maturazione.
La maturazione prevede l’aggiunta di un cap al 5’, l’aggiunta della coda poliA al 3’ e lo splicing.
Nel pre-mRNA la trascrizione fa sì che vengano trascritti sia gli esoni che gli introni, capiamo bene
quindi che non è ancora pronto per essere traslocato nel citoplasma. Deve subire un capping, la
rimozione degli introni e la poli-adenilazione. Può subire anche un’ulteriore modifica, non comune
a tutti i pre-mRNA, che consiste nell’editing.
Il risultato della maturazione è un mRNA che al 5’ ha un cap, al 3’ una coda poli A e gli introni
sono stati rimossi.
L’mRNA, così pronto, viene trasportato dal nucleo al citoplasma, dove viene tradotto in proteina.
L’mRNA presenta, inoltre, al 5’ e al 3’ delle regioni UTR, che stanno per regioni untranslated, cioè
non tradotte. Queste regioni fiancheggiano la regione CDS che, invece, rappresenta la regione
codificante, ovvero quella che viene tradotta in proteina.
GENE TIPICO EUCARIOTICO
Subito dopo la trascrizione abbiamo un pre-mRNA che contiene sia gli esoni che gli introni e al 5’ e
3’ regione leader e non codificante. In seguito a splicing gli esoni si avvicinano e al 5’ e al 3’
troveremo le regioni UTR.
Il numero di introni per gene nelle diverse specie eucariotiche è piuttosto variabile.
Nel lievito, ad esempio, il numero di introni è molto scarso. Aumentano notevolmente nel topo e
nell’uomo.
LA CHIMICA DELLO SPLICING
Quali sono le sequenze che troviamo alla fine tra introni ed esoni, fondamentali per la reazione di
splicing?
In bianco e nero sono evidenziate le sequenze conservate a livello delle giunzioni tra esone ed
introne sia a destra che a sinistra. Dove troviamo due lettere sovrapposte sta ad indicare che in
quella zona io posso trovare, in maniera indistinta, una base o l’altra. Y indica una delle possibili
basi pirimidiniche, mentre R una possibile base purinica. N, invece, una qualsiasi base.
Guardando i confini tra esoni ed introni, notiamo che nel pre-mRNA ci sono due siti, chiamati siti
di splicing 5’ e 3’. Il sito di splicing 5’ si trova tra l’estremità 3’ dell’esone e l’estremità 5’
dell’introne. Il sito di splicing 3’ corrisponde all’estremità 3’ dell’introne stesso.
Per far avvenire lo splicing, oltre a questi siti, esiste una terza sequenza presente all’interno
dell’introne. È importante l’A, il cui punto in cui si trova viene detto punto di ramificazione o
branch point site.
Un altro modo per chiamare i siti di splicing è, rispettivamente, sito donatore al 5’ e sito accettore al
3’.
Ci sono, poi, delle sequenze conservate la cui presenza è fondamentale per determinare dove
avviene lo splicing (guardare le box). Sono ultraconservate a livello del sito di splicing 5’ il
nucleotide GU, a livello intronico l’A e a livello del sito di splicing 3’ il nucleotide AG, ed infine il
tratto Y11 formato, appunto, da 11 pirimidine.
LA REAZIONE DI SPLICING
La reazione di splicing, e quindi la rimozione di un introne fra due esoni, prevede due reazioni di
trans-esterificazione à due reazioni successive in cui i legami fosfodiesterici vengono rotti e
riformati di nuovi.
I) La prima reazione prevede il coinvolgimento dell’A del branch point. L’A, infatti, grazie al suo
2’-OH viene a svolgere un attacco nucleofilo al legame fosfodiesterico tra G intronica e G esonica.
Viene così rotto il primo legame fosfodiesterico che c’è al confine tra l’esone e l’introne.
Il risultato è che, rompendo questo primo legame fosfodiesterico, l’esone 1 viene ad avere
un’estremità 3’-OH libera, mentre l’A forma un legame fosfodiesterico con la G intronica formando
una sorta di struttura a cappio.
II) La seconda reazione di splicing prevede un secondo attacco nucleofilo al legame fosfodiesterico
al sito di splicing 3’ tra la G intronica e la G esonica ad opera dell’estremità 3’-OH dell’esone 1.
Il legame si rompe e l’introne viene rilasciato a forma di cappio. I due esoni, intanto, si sono
ricongiunti.
Bisogna, poi, aggiungere che in questa reazione di splicing, in cui ho due legami fosfodiesterici che
vengono rotti e due che vengono riformati, non abbiamo dispendio di energia, proprio perché due se
ne rompono e due se ne riformano. Non è necessario ATP per questo tipo di reazione.
Però, il processo di splicing è un processo altamente energetico in cui viene utilizzato tantissimo
ATP. Questa energia, derivante dall’ATP, è necessaria, quindi, non per le reazioni di splicing ma
per il corretto assemblaggio e funzionamento del macchinario di splicing o meglio spliceosoma.
Il macchinario dello spliceosoma e le fasi di reazione dello splicing
Lo spliceosoma è un enorme macchina molecolare che esegue lo splicing dell’RNA, costituita da
oltre 200 proteine e 5 RNA. Ha dimensioni simili al ribosoma, che sappiamo essere coinvolto nella
traduzione. Le reazioni di splicing, quindi, avvengono tramite questo complesso.
I 5 RNA, in particolare, sono degli small nuclear RNA, piccoli RNA nucleari lunghi intorno ai 100
nucleotidi indicati con l’acronimo snRNA. Questi piccoli small nuclear RNA formano, con le
proteine, dei complessi ribonucleoproteici. I 5 RNA sono U1, U2, U4, U5, U6. Il nome dipende
dall’ordine temporale della loro scoperta. L’U3 manca perché è stato scoperto essere coinvolto nel
processo di maturazione degli RNA ribosomiali, non partecipa quindi allo splicing degli mRNA.
Tali complessi RNA-proteine sono chiamati piccole ribonucleoproteine nucleari, cioè snRNP, small
nuclear ribonuclear proteins, “snurp”, con composizione differente in base ai diversi passaggi della
reazione di splicing. Servono per riconoscere il sito di splicing 5’ e il punto di ramificazione e per
catalizzare o assistere il taglio e la giunzione dell’RNA avvicinando i siti di splicing. La
composizione dello spliceosoma è profondamente dinamica, fattore molto importante per le sue
funzioni.
LE FASI DELLA REAZIONE DI SPLICING MEDIATA DALLO SPLICEOSOMA
L’assemblaggio e il funzionamento dello spliceosoma segue un ordine temporale progressivo e ben
preciso e in questa immagine viene riportato come avviene questo ordine.
Andiamo ad analizzare le varie parti più nel dettaglio:
Il ciclo inizia con il legame della snRNP U1 che viene a riconoscere e legare il sito di splicing al 5’
tramite l’interazione tra RNA ed RNA perché una regione di U1 (l’estremità 5’ di U1) è
complementare con il sito di splicing in 5’.
Il branch point viene ad essere riconosciuto da un’altra proteina che si chiama BBP, acronimo di
branch-point binding protein. BBP non è una snurp, quindi ci sono anche altre componenti
proteiche. Queste sono proteine che non sono complessate con i piccoli RNA nucleari ma sono
proteine da sole che interagiscono con l’introne da tagliare ma che, però, non sono snurp.
Inoltre, vediamo che accanto alla BBP abbiamo un altro fattore proteico costituito da due subunità,
chiamato U2AF. Ogni subunità interagisce con una posizione specifica del nostro introne. Il tratto
U2AF65 interagisce con il tratto polipirimidinico mentre la subunità 35 interagisce con il sito di
splicing 3’.
Accanto ad ogni complesso è indicata una lettera, perché abbiamo detto che la composizione è
variabile e per distinguere la composizione, appunto, indichiamo i complessi con delle lettere.
E sta per early e il complesso indicato con questa lettera ha lo scopo di riconoscere l’introne che
deve essere rimosso.
Interviene, poi, U2 che scarta BBP e viene a legarsi al suo posto sul sito di ramificazione. U2 ha
bisogno di ATP. Una molecola di ATP, quindi, viene consumata per consentire ad U2 di scalzare
BBP. Anche in questo caso, U2 interagisce, tramite la sua piccola componente a RNA, alla regione
complementare che coinvolge il sito di ramificazione. Notiamo bene che, però, l’A non si appaia,
ma protrude. Questa interazione, quindi, non è perfetta perché l’A non si appaia con la sequenza di
RNA di U2. Grazie alla protrusione dell’A, la prepara alla prima reazione di transesterificazione,
che prevede appunto l’attacco nucleofilo ad opera dell’A.
Il complesso ora viene chiamato A.
Non siamo ancora pronti ad andare a realizzare la prima reazione di transesterificazione perché
occorre avvicinare questa A protrudente al sito di splicing 5’. Perché questo avvenga abbiamo
bisogno di altre snurp. Intervengono, quindi, U4, U5, U6 che viene chiamata trisnurp. Questa triade
scalza U2AF con entrambe le subunità e viene ad interagire con U1 ed U2 in modo da creare un
ponte e avvicinare il sito di splicing 5’ all’A. Si induce quindi l’avvicinamento del sito di splicing
5’ al sito di ramificazione.
U4 ed U6 sono tenuti insieme attraverso un appaiamento di basi dei loro piccoli RNA nucleari. La
snurp U5 è legata in maniera più lassa, attraverso un’interazione proteina-proteina.
Vien da sé che ora anche il sito di splicing in 3’ è più vicino alla triade. Questo complesso è
chiamato B, ma è inattivo. Per attivarlo occorre una fase ulteriore.
La fase successiva prevede l’uscita di U1 dal complesso. U1 viene rilasciato ed U6 viene ad
appaiarsi con il sito di splicing 5’. Quando viene scalzato U1, U6 si appaia con la sua piccola
regione di RNA nucleare al sito di splicing 5’. Questa operazione di scambio richiede ATP.
La fase successiva richiede il rilascio di un'altra componente che è U4. Questo consente
l’interazione tra U6 ed U2. È sempre un’interazione RNA-RNA per complementarità. La forma
attuale è la forma attiva dello spliceosoma. Ora può catalizzare la reazione di transesterificazione.
Rimane l’introne a cappio che viene poi staccato grazie alla seconda reazione di transesterificazione
in cui viene utilizzata un’altra molecola di ATP. In questa seconda reazione l’estremità 3’
dell’esone a monte colpisce il sito di splicing 3’. I due esoni vengono di nuovo congiunti.
La fase successiva sarà che le componenti snurp dissoceranno dall’introne ed il complesso dello
spliceosoma verrà disassemblato in modo tale che queste snurp possano essere riciclate in un altro
ciclo. L’introne viene degradato.
RIEPILOGO:
Per prima cosa, abbiamo U1 che riconosce il sito di splicing 5’ tramite un’interazione del suo
piccolo RNA nucleare con una sequenza complementare al sito di splicing 5’ dell’introne stesso
mediante appaiamenti di Watson e Crick.
Il sito di ramificazione, invece, viene riconosciuto da una non snurp, cioè da una semplice proteina
non associata a piccoli RNA nucleari che si lega all’A, base conservata a livello del sito di
ramificazione. Il tratto polipirimidinico viene riconosciuto da un’altra non snurp, U2AF costituita
da due subunità, la 65 e la 35. Anche l’U2AF interagisce con questi siti tramite interazione proteinaRNA perché ricordiamo che U2AF è costituito solo da proteina. La fase successiva è l’uscita di
BBP che viene scalzata da un’altra snurp che è U2. U2 per far ciò consuma ATP. Interagisce
anch’essa con il suo piccolo RNA nucleare ma la complementarità non è perfetta perché l’A del sito
di ramificazione non si appaia con il piccolo RNA nucleare di U2. L’A protrude e ciò consente di
poter avere un’A già pronta per la prima reazione di transesterificazione che, tuttavia, prima di
avvenire ha bisogno di passaggi ulteriori. Il passaggio ulteriore è il reclutamento della triade U4,
U5, U6. Questa triade viene a spiazzare l’altra non snurp, la U2AF e interagendo con U1 ed U2
avvicina il sito di splicing 5’ al sito di ramificazione preparando per la prima reazione di
transesterificazione. Nel far ciò, di conseguenza, avvicina anche il sito di splicing 3’.
La reazione successiva prevede, poi, che U1 venga scalzato da U6 nell’interazione con il sito di
splicing 5’. Anche in questo caso viene consumata una molecola di ATP e la snurp interagisce con
il sito di splicing in 5’ per complementarità. L’ultimo step per arrivare alla forma dello spliceosoma
attivo e quindi con attività catalitica è l’uscita di U4 dal complesso. Ora U6 ed U2 sono fra loro in
contatto e questo rende lo spliceosoma attivo e quindi pronto per andare a catalizzare la prima
reazione di transesterificazione che prevede la liberazione del primo esone che avrà un 3’OH libero
e la formazione del nuovo legame fosfodiesterico creando un introne con la forma a cappio.
Per catalizzare questa reazione lo spliceosoma usa un’altra molecola di ATP. La seconda reazione
di transesterificazione utilizza anche ATP per velocizzare. Il risultato è il rilascio di un mRNA
(maturo) e il rilascio dell’introne a cappio che verrà poi degradato dalle nucleasi.
Qui vedete a confronto la reazione di splicing per i pre-mRNA. Le reazioni di self-splicing del
gruppo II sono, dal punto di vista chimico, identiche a quelle per il pre-mRNA. Quello che cambia è
che la rimozione dell’introne, in questo caso, avviene in maniera autonoma, senza l’ausilio dello
spliceosoma. Infatti, questo introne effettua in maniera autonoma lo splicing. La stessa cosa avviene
per gli introni self-splicing del gruppo I. Anche questi non hanno bisogno dello spliceosoma.
Notiamo che, però, qui al sito di ramificazione non ho una A ma una G libera. La G è associata
all’introne ma non fa parte della sequenza dell’introne. L’introne viene, poi, eliminato non sotto
forma di cappio ma in forma lineare.
Questi introni di gruppo I e gruppo II, quindi, possono effettuare queste reazioni senza spliceosoma,
in vitro.
In vivo, invece, abbiamo visto esserci delle componenti proteiche che hanno la funzione di
stabilizzare la struttura dell’introne sostenendolo nella sua attività di self-splicing. Sono introni che
non lavorano in combinazione con lo spliceosoma ma che utilizzano proteine che gli consentono di
stabilizzare la sua struttura secondaria.
La molecola si ripiega a
creare strutture
secondarie tramite selfannealing. L’A viene
avvicinata al sito di
splicing al 5’ favorendo
la reazione.
Questi introni sono di
dimensioni variabili, dai
400 ai 1000 nucleotidi.
In vitro non hanno
bisogno di proteine. In
vivo hanno bisogno di
proteine.
Nel caso degli introni del gruppo I la reazione è catalizzata da una sorta di tasca, struttura
secondaria conservata, a livello della quale viene legato il nucleotide che servirà per fare la prima
reazione. Tra l’altro, questi introni hanno una sequenza di guida interna che si appaia con il sito di
splicing 5’ consentendo l’attacco nucleofilo della G nel punto desiderato.
POSSIBILI ERRORI COMMESSI NELLA SELEZIONE DEI SITI DI SPLICING
Come lo spliceosoma riesce ad essere accurato nel riconoscere in maniera corretta e specifica i siti
di splicing?
Succede che le snurp e non snurp devono riconoscere e avvicinare i siti in modo tale da consentire il
taglio dell’introne.
Un gene umano contiene in media circa 6-7 introni; quindi, ritroviamo un esone disperso tra 6-7
introni. La lunghezza degli esoni e degli introni è molto diversa, gli esoni hanno una lunghezza di
circa 150 nucleotidi mentre gli introni sono molto più lunghi, dai 3000 agli 800000 nucleotidi.
Gli esoni, perciò, sono dispersi in un mare di introni.
Il riconoscimento dei siti di splicing deve, perciò, essere il più preciso e accurato possibile.
I possibili errori commessi possono essere il salto dell’esone e la selezione di uno pseudo sito di
splicing. Il pre-mRNA è caratterizzato dagli esoni e dagli introni ancora ovviamente mantenuti.
Abbiamo, poi, che in seguito a questo errore nella selezione dei siti di splicing si ha un salto
dell’esone. Ottengo, così, un mRNA non corretto perché incompleto. Si verifica questo errore se i
componenti dello splicing al 5’ vengono a riconoscere e interagire con i componenti al 3’
dell’introne successivo e non dello stesso. La snurp al 5’ interagisce non con i siti al 3’ dello stesso
introne in cui si trova ma con quelli dell’introne successivo, cioè a valle. L’esone presente nel
mezzo, perciò, viene saltato.
L’altro errore è la selezione di uno pseudo sito di splicing, anche chiamato sito criptico. Questi siti
sono molto simili ma non identici ai siti di splicing canonici che vengono confusi dallo spliceosoma
che li riconosce erroneamente.
Lo spliceosoma ha riconosciuto al 3’ come sito di splicing un sito che si trova nell’esone,
commettendo un errore.
Il risultato è che si otterrà l’esone intero ma fuso solo con una parte dell’esone successivo perché lo
splicing si porta via anche metà esone avendo riconosciuto un sito criptico facente parte dell’esone.
Come aumentare l’accuratezza della selezione dei siti di splicing?
La cellula mette in atto due meccanismi fondamentali, uno per ognuno dei potenziali errori:
1. La coda CTD della Pol II trasporta proteine necessarie per la maturazione (per ridurre il possibile
“salto” dell’esone).
2. Riconoscimento dei siti di splicing vicino agli esoni (definizione dell’esone) (per ridurre il
riconoscimento di siti non corretti).
L’RNA Pol II mentre trascrive, quindi durante la fase di allungamento, viene a trasportare diverse
proteine che servono per la
maturazione dell’RNA. In base
allo stato di fosforilazione della
sua coda CTD viene a reclutare
fattori necessari per il
processamento dell’RNA nelle
diverse fasi.
Durante l’allungamento, l’mRNA
viene sottoposto a splicing e ciò è
possibile perché sulla sua coda
vengono reclutati componenti
della fase di splicing che vengono
trasferiti immediatamente
sull’mRNA. Abbiamo infatti
detto che la trascrizione e la
maturazione sono eventi che
avvengono in contemporanea e,
in particolare, durante
l’allungamento abbiamo lo
splicing.
Quando viene trascritto il sito di splicing al 5’ immediatamente dalla coda viene trasferita U1 e
viene a riconoscere e legare il sito di splicing 5’ sulla molecola di RNA neosintetizzata. La snurp
viene, quindi, trasferita immediatamente dalla coda CTD della Pol II al nostro pre-mRNA, al sito di
splicing. Man mano che continua a trascrivere, quando vengono trascritti il punto di ramificazione,
il tratto polipirimidinico e il sito di splicing 3’, ecco che vengono trasferiti dalla coda gli altri fattori,
ossia BBP, U2AF.
Il reclutamento delle componenti nei siti di splicing è perciò sequenziale e i siti di splicing vengono
riconosciuti prima che vengano trascritti gli altri siti competitori a valle, quindi prima che vengano
trascritti gli introni successivi. Questo riduce ulteriormente la possibilità di errore.
In questo caso, abbiamo l’intervento di proteine che si chiamano SR, attivatori dello splicing. Sono
molto importanti perché vanno a legare delle sequenze specifiche che troviamo all’interno degli
esoni.
Nell’immagine vediamo in verde scuro gli esoni ed in verde chiaro gli introni. Le SR riconoscono
sequenze precise situate all’interno degli esoni che sono chiamate sequenze ESE. Le proteine SR
vengono ad interagire con la proteina U2AF nel sito di splicing 3’ a monte dell’esone e con U1 nel
sito di splicing 5’ a valle dell’esone. Quindi i componenti dello spliceosoma sono reclutati attorno
all’esone piuttosto che all’introne da rimuovere. Per riuscire a definire perfettamente gli esoni
riduco la possibilità che siti criptici vengano riconosciuti in maniera errata. Accadrà, poi, che i
componenti vicino ad un esone si appaieranno con quelli dell’esone adiacente per andare ad
eliminare l’introne. Le proteine SR sono delle proteine fondamentali per lo splicing, sono degli
attivatori e regolatori dello splicing in grado di assicurare l’efficienza sia dello splicing canonico ma
anche dello splicing alternativo. Queste proteine hanno due domini, un dominio per l’RNA ed un
dominio per l’interazione con le componenti dello splicing.
Ci sono diversi tipi di SR, questo perché le SR possono essere costitutive e quindi sempre attive
all’interno della cellula o indotte da specifici stimoli fisiologici (inducibili). Abbiamo anche delle
SR che hanno un’espressione cellula-specifica, cioè vengono espresse solo in alcuni tipi cellulari.
Questo accade perché, soprattutto per lo splicing alternativo, ci sarà un controllo cellula-tessuto
specifico.
VARIANTI DI SPLICING, SPLICING ALTERNATIVO E SUA
REGOLAZIONE
Le varianti di splicing si distinguono in:
1. splicing in trans
2. splicing catalizzato dallo spliceosoma minore (AT-AC)
Lo splicing in trans è piuttosto raro, è stato riscontrato nei nematodi, in particolare in Cercnodaptis
Elegans. Prevede che siano congiunti insieme due esoni posizionati su due RNA differenti, cioè su
due molecole di RNA ben distinte. Questi esoni vengono uniti da questo splicing in trans.
Nei nematodi tutti gli RNA subiscono splicing in trans e a seguire molti hanno anche splicing in cis,
cioè quello canonico.
La prima reazione di transesterificazione si realizza, in questo caso, tramite l’A di un RNA che
colpisce il sito di splicing di un altro RNA distinto. Libero così l’esone 1 che ha l’estremità 3’OH
libera e potrà colpire il sito di splicing al 3’ appartenente all’RNA 2 e creare quindi la giunzione
esone 1- esone 2.
In altre parole, vedete che il risultato attraverso questo splicing in trans è identico al risultato di uno
splicing canonico ed anche il macchinario di spliceosoma è il classico, con l’unica eccezione che è
rappresentata dalla mancanza di U1.
L’altra differenza è la forma dell’introne che non è a cappio ma a forma di Y, questo proprio perché
i due attori appartengono a siti di RNA distinti.
All’inizio lavoro con due molecole di RNA distinte e perciò l’azione iniziale viene ad unire due
molecole di RNA anziché creare un’ansa all’interno dell’unica molecola di RNA.
L’altro tipo di splicing coinvolge uno spliceosoma minore.
Gli eucarioti superiori,
come i mammiferi e le
piante, utilizzano lo
spliceosoma con
meccanismo canonico.
Questo spliceosoma viene
anche chiamato maggiore.
In questi organismi, ad
eccezione dei lieviti, per
alcuni pre-mRNA il
processamento è
catalizzato dallo
spliceosoma minore.
Ci sono pochi pre-mRNA
processati con lo
spliceosoma minore ma
non sono poi così rari.
Introni minori vengono rimossi grazie all’azione dello spliceosoma minore.
Anche nello spliceosoma minore ho delle snurp però con delle differenze.
U1 ed U2 sono sostituite dalle snurp U11 ed U12 che riconoscono sequenze diverse. Abbiamo poi
due componenti, U4 ed U6, chiamate in maniera identica a quella dello spliceosoma maggiore.
Benché condividano lo stesso nome sono però delle snurp diverse. L’unica componente
completamente comune è U5.
Lo spliceosoma minore riconosce introni in generale piuttosto rari che hanno sequenze consenso
diverse rispetto a quelle degli introni maggiori.
Notiamo come il sito di splicing al 5’ e il sito di splicing al 3’ abbiano sequenze differenti. Le
sequenze di splicing degli introni canonici, invece, hanno delle sequenze canoniche conservate. Il
sito di splicing 5’ per gli introni minori, anziché avere un GU, ha un AU e il sito di splicing 3’ ha un
AC. Questo è il motivo per il quale lo spliceosoma minore viene chiamato AT-AC.
I siti di taglio riconosciuti sono AU al 5’ ed AC al 3’ che corrispondono, sul DNA, rispettivamente
ad AT ed AC.
Nonostante i siti di taglio siano diversi, il processo e lo spliceosoma sia differente nelle sue
componenti, vediamo che il meccanismo di splicing è lo stesso. Il meccanismo chimico è
sempremcon le due reazioni di transesterificazione, la prima che parte dall’A che colpisce il sito di
splicing al 5’ e la seconda che usa l’estremità 3’OH libera dell’esone liberato sul sito di splicing 3’
sono identiche con la sola differenza che le sequenze ai siti di splicing sono diverse.
U11 riconosce il sito di splicing al 5’, U12 il punto di ramificazione ed anche in questo caso
abbiamo una triade U4, U5, U6 che si associa alle snurp legate al sito di splicing 5’ e al punto di
ramificazione. Avvicinando il sito di splicing 5’ al sito di ramificazione si arriva poi alla forma
attivata dello spliceosoma con l’uscita di U4. La forma attiva ora catalizza le reazioni di
transesterificazione.
SPLICING ALTERNATIVO
Lo splicing alternativo è piuttosto frequente nei geni umani ed offre il vantaggio di avere
l’opportunità che un singolo gene possa dare origine a prodotti diversi. Da un unico pre-mRNA
sottoposto a diversi splicing alternativi ottengo diversi mRNA e prodotti proteici differenti.
Molti geni negli eucarioti superiori codificano RNA che vengono tagliati e processati generando
due o più RNA diversi e quindi più prodotti proteici, chiamati, poi, isoforme.
Generalmente i prodotti alternativi sono due ma si può arrivare anche ad un centinaio. Nella
drosophila vi è un gene che arriva a produrre anche migliaia di prodotti alternativi.
Nella maggior parte dei casi il processo di splicing alternativo è finemente regolato in modo da
produrre prodotti diversi in base ad istotipi cellulari diversi o in base a stimoli differenti.
Questo splicing è accuratamente regolato.
Nella slide vediamo un esempio per il gene della Troponina T. Le troponine sono delle proteine che
troviamo a livello del muscolo scheletrico e cardiaco e sono importanti perché coinvolte nel
meccanismo di contrazione muscolare. Dal gene della troponina vengono ottenute due isoforme,
isoforma alfa ed isoforma beta. Queste due isoforme sono espresse a livelli diversi in base allo
stadio di sviluppo del muscolo scheletrico. La troponina beta la troviamo espressa a livello fetale,
mentre l’alfa viene ad essere prodotta in fase più tardiva di sviluppo.
Grazie a questo meccanismo di splicing alternativo ho che, per quanto riguarda l’mRNA della alfa
troponina T, è stato saltato l’esone 4. L’mRNA processato della troponina T beta ha, invece, gli
esoni 1, 2, 4 e 5 e manca del 3.
Questi mRNA differiscono, seppur entrambi mancanti di un esone, per l’identità dell’esone di cui
ognuno è stato privato.
Lo splicing alternativo può avvenire anche attraverso altri meccanismi:
ATTENZIONE: l’esone saltato nel caso dello splicing alternativo è qualcosa di voluto e non un
errore!!!
Il trascritto primario dell’immagine è formato da tre esoni intervallati da due introni.
1. Posso avere la rimozione di entrambi gli introni secondo un meccanismo di splicing normale.
2. Posso avere un esone saltato. Il sito di splicing al 5’ di un introne si combina con il sito di
splicing di un introne successivo a valle (non è un errore).
3. Esone esteso à esistono siti criptici vantaggiosi che ci permettono di produrre RNA alternativi.
Si ha la combinazione dei tre esoni ma uno di questi è esteso perché comprende anche una porzione
intronica.
4. Introne mantenuto.
5. Esoni alternativamente eliminati, come per la troponina.
Regolazione dello splicing alternativo mediante attivatori o repressori
Sia gli enhancer che i silencer e gli attivatori e repressori che li legano sono importanti per dirigere
il macchinario di splicing su molti esoni, anche quando non c’è splicing alternativo. Quindi, sia lo
splicing canonico che quello alternativo necessitano di essere regolati, mediante attivatori o
repressori di splicing.
Gli attivatori o repressori di splicing sono delle proteine che legano l’RNA riconoscendo dei siti
specifici sull’RNA e andando in questo modo ad attivare o reprimere lo splicing. Gli attivatori di
splicing si legano a siti specifici sull’RNA chiamati enhancer, mentre i repressori sui silencer.
Ricordiamo inoltre che questi siti si possono trovare sia a livello degli esoni che degli introni. I
repressori reprimono quindi lo splicing sui siti di splicing adiacenti, mentre gli enhancer sono
riconosciuti dagli attivatori che vengono, legando componenti dello spliceosoma, a promuovere lo
splicing nei siti di splicing adiacenti (quindi, gli attivatori vanno a dirigere il macchinario di splicing
sui siti di splicing adiacenti agli enhancer, mentre i repressori non vanno a reclutare/dirigere lo
spliceosoma nei siti adiacenti, inibendo in questo modo lo splicing stesso).
In questa immagine ci viene descritto il meccanismo d’azione degli attivatori e dei repressori di
splicing (che è equiparabile sia nella regolazione dello splicing canonico che di quello alternativo).
Il primo caso (a) riguarda il meccanismo di funzionamento di un repressore di splicing (proteina che
riconosce sequenze specifiche sul pre-mRNA e ne va a reprimere lo splicing), mentre il secondo
caso (b) rappresenta il processo di un attivatore di splicing (proteina che permette di reclutare alcuni
componenti dello spliceosoma direttamente presso i siti di splicing). Entrambi i casi sono suddivisi
tra tipo cellulare I, in cui la proteina regolatrice non è presente, e tipo cellulare II, in cui essa è
presente
a. Nel tipo cellulare I abbiamo il
nostro trascritto primario di RNA
e adiacente o parzialmente
sovrapposto al sito di splicing si
trova il sito repressore (silencer).
Non avendo nessun repressore (in
questo tipo cellulare non viene
espressa questa proteina) che
viene prodotto, lo spliceosoma si
può formare in questo sito di
splicing (che, come possiamo
notare, si sovrappone al sito
silencer) e può rimuovere
l’introne. Ottengo quindi un
mRNA che è stato processato
normalmente tramite lo splicing
(lo splicing non è stato inibito
perché non c’è nessun repressore che riconosce il silencer, il quale viene appunto ad essere
sovrapposto ai siti di splicing a livello di questo introne).
Nel tipo cellulare II, invece, il repressore è prodotto (viene espresso). Esso riconosce quindi
il sito repressore (silencer), adiacente o parzialmente sovrapposto al sito di splicing, ci si
lega e, in questo modo, impedisce allo spliceosoma (o alcuni suoi componenti) di venir
reclutato e di riconoscere il suo sito di splicing specifico (questo a causa di un ingombro
sterico). In questo modo, l’RNA a livello di questo sito non è sottoposto a splicing.
Tra l’altro, questi repressori sono delle proteine che hanno dei domini con i quali legano
l’RNA, ma sono privi di domini che legano le componenti del macchinario di splicing.
Quindi, hanno dei domini conservati per legarsi ai silencer dell’RNA, ma non hanno dei
domini per l’interazione con i componenti dello spliceosoma e, quindi, in questo modo, non
favoriscono il reclutamento degli stessi sui siti di splicing. Questi repressori di splicing sono
delle proteine che fanno parte di una famiglia che si chiama hnRNP à sono quindi delle
ribonucleoproteine nucleari eterogenee che hanno la capacità di legare l’RNA con dei
domini conservati, ma non sono in grado di reclutare il macchinario di splicing perché,
appunto, non hanno dei domini per il riconoscimento del macchinario di splicing; tuttavia,
bloccano, come abbiamo detto, i siti di splicing specifici impedendo per ingombro (perché
legano proprio dei siti adiacenti o sovrapposti al sito di splicing di interesse) il loro
riconoscimento.
b. Gli attivatori, invece, funzionano aiutando il reclutamento del macchinario di splicing nei
siti di splicing adiacenti.
Nel tipo cellulare I, ad una certa distanza dal sito di splicing è presente il sito attivatore
(enhancer, in blu nell’immagine). In assenza di attivatore (in questo tipo cellulare non viene
espresso à le proteine SR, infatti, possono essere inducibili, cioè espresse in seguito a dei
segnali oppure in base all’istotipo cellulare), lo spliceosoma non viene reclutato nel sito di
splicing adiacente e, quindi, in questo caso l’RNA non è soggetto a splicing a livello di
questo sito.
Nel tipo cellulare II, d’altro canto, in presenza dell’attivatore, questo riconosce l’enhancer e
aiuta il reclutamento dello spliceosoma, o perlomeno di alcune sue componenti, a livello del
sito di splicing, questo perché l’attivatore, a differenza del repressore, riesce proprio a
interagire con i componenti dello spliceosoma e a portarli nei siti di splicing adiacenti.
In realtà, gli attivatori li abbiamo già incontrati quando abbiamo parlato della definizione dell’esone
come strategia messa in atto per evitare uno dei possibili errori di splicing, ossia il riconoscimento
di siti non corretti, e sono infatti le proteine SR (che riconoscono sequenze all’interno degli esoni e,
una volta legate, richiamano a destra e sinistra dell’esone stesso, presso i siti di splicing laterali, le
nostre snRNP). Queste proteine sono degli attivatori dello splicing e possono essere
costitutivamente espresse, indotte da stimoli oppure prodotte in base all’istotipo cellulare, come già
detto, e sono importanti perché riconoscono gli enhancer, siti a livello esonico che permettono di
attivare lo splicing e stimolarlo. Le proteine SR possiedono due domini (a differenza delle hnRNP):
uno di legame all’RNA (all’enhancer, adiacente al sito di splicing) e uno, all’estremità carbossiterminale, di interazione con alcune componenti proteiche del macchinario di splicing (il sito che
serve a interagire/dirigere con le componenti dello spliceosoma per portarli sui siti di splicing
adiacenti è un sito conservato e si chiama dominio RS, questo perché ricco in arginina e serina),
reclutando, quindi, in questo modo il macchinario di splicing nel sito di splicing adiacente.
Come esempio di repressori, invece, come già detto, abbiamo ribonucleoproteine nucleari
eterogenee (hnRNP), le quali fungono appunto da repressori di splicing. Anche queste proteine
hanno un dominio che lega l’RNA, ma non hanno un dominio con cui possono interagire con le
altre proteine.
Regolazione dello splicing
Sia attivatori che repressori riconoscono, come già detto, specifiche sequenze sull’RNA,
rispettivamente enhancer e silencer. Questi siti si trovano sia a livello degli esoni che a livello degli
introni; quindi, ho, per gli attivatori ESE (Exonic Splicing Enhancer) e ISE (Intronic Splicing
Enhancer), mentre per i repressori ESS (Exonic Splicing Silencer) e ISS (Intronic Splicing
Silencer).
Nell’immagine possiamo vedere in verde gli introni con indicati il sito di ramificazione e di splicing
3’ nell’introne a monte e il sito di splicing 5’ dell’introne a valle e poi abbiamo l’esone in mezzo ai
due introni. In arancione e in viola sono invece indicate rispettivamente le sequenze enhancer e
silencer. Nel caso dell’esone abbiamo un enhancer, che viene riconosciuto dall’attivatore che si
chiama SR, e in viola il silencer che viene riconosciuto dal repressore che si chiama hnRNP.
L’enhancer, quindi, viene riconosciuto dalla proteina SR, la quale, come vediamo dalle frecce,
interagisce con le proteine U2 e U1 rispettivamente al sito di splicing 3’ dell’introne a monte
dell’esone e al sito di splicing 5’ dell’introne a valle dell’esone dove la proteina SR è legata e, in
questo modo, con un meccanismo che abbiamo già visto quando abbiamo parlato della definizione
dell’esone, interagendo tramite il suo dominio RS con queste proteine, aiuta il reclutamento nei siti
di splicing adiacenti.
hnRNP, invece, che interagisce con il suo silencer sull’esone, non è in grado di interagire con U2 e
U1 (ecco perché c’è una barretta al posto della freccia) proprio perché gli manca il dominio per
l’interazione con questi componenti. Quindi, si lega e impedisce a livello esonico il reclutamento di
queste proteine nei siti di splicing adiacenti sugli introni a monte e a valle dell’esone stesso.
Ma, come già detto, questi enhancer e silencer si possono trovare anche sugli introni stessi à
prendiamo ad esempio l’introne a monte, dove troviamo un enhancer e un silencer, i quali vengono
anch’essi riconosciuti dagli stessi attivatori e repressori (SR e hnRNP). Il meccanismo è sempre lo
stesso, cioè il nostro enhancer intronico riconosce la proteina SR, la quale può interagire e aiutare il
reclutamento della snRNP nel sito di splicing adiacente (in questo caso con la U2 nel sito di splicing
3’ adiacente; nell’altro introne andrebbe ad aiutare con il reclutamento di U1 con il sito di splicing
5’). Viceversa, l’hnRNP, come al solito, si lega ma non aiuta con il reclutamento di U2 (nel caso di
questo introne) o di U1 (nel caso dell’introne a valle) a livello dei siti di splicing corrispondenti.
Editing
Un altro meccanismo di modifica dell’RNA è quello che viene chiamato EDITING.
Editing dell’RNA
• È un’alterazione delle sequenze nucleotidiche dei trascritti di RNA una volta che sono stati
sintetizzati mediante deamminazione sito-specifica o inserzione o delezione di uridina
diretta da RNA guida
• Meccanismi di editing dell’mRNA (negli animali, specialmente nei mammiferi)
o Deamminazione dell’adenina a inosina (editing da A a I)
o Deamminazione della citosina a uracile (editing da C a U)
Questi sono i due meccanismi più frequenti, ma sono comunque degli eventi rari
NB: L’altro tipo di editing (inserzione o delezione di uridina diretta da RNA guida) è, invece, molto
comune a livello dei mitocondri di Trypanosoma (è quindi un caso molto specifico, per cui non
andremo a descriverlo)
Deamminazione sito-specifica
Negli animali, quindi, e specialmente nei mammiferi, può avvenire più frequentemente la
deamminazione sito-specifica à questa
deamminazione, come vediamo nell’immagine, può
riguardare le basi della citosina e dell’adenina per
produrre rispettivamente uracile e inosina. In
particolare, nel primo caso (a) si ha che la citosina
viene ad essere deamminata ad opera di un enzima che
si chiama citidina deamminasi, che converte, appunto,
la citosina in uracile (non fa altro che rimuovere il
gruppo amminico della citosina, che diventerà quindi
un uracile).
Nel caso dell’adenina, invece, si ha sempre una
deamminazione e interviene l’enzima ADAR, che
converte l’adenina in inosina (riconosce delle adenine e
viene a rimuovere il gruppo amminico, trasformando perciò l’adenina in una inosina).
Esempio di editing dell’mRNA mediante deamminazione sitospecifica: apolipoproteina
umana
Vediamo un esempio del primo caso, cioè della conversione della citosina in uracile à è un evento
non così frequente negli animali e l’esempio più noto è quello dell’editing dell’mRNA mediante
deamminazione sitospecifica per l’apoliproteina B nei vertebrati (compreso l’uomo).
Qui possiamo osservare il pre-mRNA e viene indicato il codone 2153 (ricordiamo che gli RNA
vengono letti in codoni/triplette durante la traduzione), che si trova all’interno dell’esone 26 à
questo codone contiene la sequenza CAA.
Il pre-mRNA verrà quindi ad essere naturalmente maturato a mRNA, il quale può poi praticamente
avere due possibilità in base al tipo di tessuto di cui stiamo parlando:
• A livello epatico non si ha editing su questa citosina appartenente all’esone 26 e quindi
l’mRNA, quando viene prodotto, produce una proteina full length (cioè intera) di 4563 aa,
dove il codone 2153 con la citosina, che non ha subito fenomeni di editing,
codifica/specifica per la glutammina
• A livello intestinale, invece, dove avviene questo processo di deamminazione, accade che la
citosina viene convertita ad uracile (ad opera della citidina deamminasi) e quindi il CAA si
trasforma in UAA, il quale rappresenta un codone di stop prematuro (prematuro perché non
è alla fine del nostro messaggero, ma sta in mezzo). Quindi, quando il nostro mRNA viene
tradotto, non viene tradotto completamente come avveniva a livello epatico, ma viene ad
essere tradotto fino a questo codone di stop prematuro e questo determina una proteina
molto più corta, di 2153 aa
In questo caso, quindi, il risultato sono due isoforme di apolipoproteina à una full lenght a livello
epatico (dove la citidina deamminasi non è attiva) e una più corta a livello intestinale (dove
l’enzima è invece attivo).
Ricordiamo che l’apolipoproteina
serve per il trasporto dei lipidi e
quindi è coinvolta nel loro
metabolismo à questa diversa
lunghezza ne determina, tra
l’altro, una diversa funzione.
In particolare, l’apolipoproteina
umana a livello epatico serve per
trasportare il colesterolo e i
trigliceridi endogeni a livello
cellulare, mentre, invece, a livello
intestinale, l’apolipoproteina
umana più corta si occupa sempre
di trasportare i lipidi, ma quelli che noi introduciamo con la dieta, ai diversi tessuti.
Meccanismo di editing da A a I nei mammiferi
Un altro tipo di meccanismo, diffuso soprattutto nei pre-mRNA dei mammiferi e soprattutto
dell’uomo, è l’editing da adenina ad inosina (e
questo avviene ad opera dell’enzima ADAR).
In questo caso, l’enzima ADAR viene ad agire su
pre-mRNA nucleari (prima che il loro processamento
sia completato). In particolare, l’enzima lavora su
adenine specifiche che fanno parte di RNA a doppio
filamento che nasce da regioni complementari, in
particolare in questo esempio si ha una regione
esonica (in rosso) e una intronica (in verde), che si
appaiano e questa regione (struttura a stem-loop)
viene poi riconosciuta in maniera specifica dall’enzima ADAR.
Questo editing si può avere anche su regioni ripetute e invertite che si possono appaiare tra di loro.
Uno degli eventi di editing maggiormente conosciuto della tipologia A-I è quello che riguarda il
canale ionico AMPA à in questo caso, l’enzima ADAR viene proprio ad agire su un pre-mRNA
nucleare prima che venga completato il processamento ed agisce su un RNA a doppio filamento
dell’esempio prima descritto (cioè su un RNA a doppia elica creato dall’appaiamento di una regione
esonica complementare ad una intronica) e contenente l’adenina su cui l’enzima deve agire. In
particolare, in questo caso, l’editing riguarda soprattutto il codone CAG (l’adenina si trova
all’interno di questo codone), a carico del quale avviene appunto questo fenomeno di editing da A a
I. CAG codifica per la glutammina e questa deamminazione porta alla conversione da CAG a CIG,
il quale è praticamente “sinonimo” del codone CGG, che codifica per l’arginina. Quindi, alla fine,
questo editing da A a I su questo codone determina una differente sequenza amminoacidica, perché
in quella posizione avrò l’arginina al posto della glutammina.
Questa modifica amminoacidica è molto importante perché va ad alterare la permeabilità che ha
questo canale ionico al calcio, con conseguenze importanti sul funzionamento a carico soprattutto
del cervello. Senza questa tipologia di editing, lo sviluppo del cervello è gravemente compromesso
(una disregolazione di questo editing è alla base di diverse patologie neurologiche umane, come la
depressione, l’epilessia o la schizofrenia), per cui è fondamentale avere questo editing.
Traslocazione nucleo-citoplasmatica degli RNA
Il trasporto dell’mRNA
Il trasporto dell’mRNA avviene dal nucleo al citoplasma una volta che l’mRNA ha concluso il suo
processamento, che vuol dire che si è dotato di un cap, di una coda poli-A e che gli introni sono stati
rimossi (quindi, ha subito in ordine capping, splicing e poli-adenilazione) e quindi è pronto per
essere traslocato/esportato dal nucleo al citoplasma.
L’mRNA pronto ad essere esportato viene ad essere riconosciuto perché è associato a tutta una serie
di proteine che abbiamo già visto in precedenza à in particolare, il cap è associato ad una proteina
che si chiama CBC, la coda poli-A, invece, è riconosciuta dalle proteine specifiche che legano i
tratti poli-A, le poly A binding proteins e, a livello dell’esone, abbiamo le nostre proteine SR,
ovvero i nostri attivatori che rimangono comunque associati agli esoni quando hanno riconosciuto
dei siti di legame a livello esonico.
Inoltre, una novità è data dalle EJC (in viola nell’immagine).
Complesso di giunzione degli esoni
EJC sta per Exon Junction Complex ed è un complesso di quattro proteine responsabile del
controllo della qualità dell’mRNA à sta a indicare che il nostro mRNA viene ad essere maturo e
pronto per l’esportazione (una sorta di marker di qualità dell’mRNA che deve essere esportato dal
nucleo al citoplasma à indica cioè che lo splicing è avvenuto correttamente e che, quindi, l’mRNA
è pronto per la traslocazione appunto).
EJC è depositato sull’mRNA dopo lo splicing, a monte di ogni giunzione esone-esone.
Tra l’altro, queste proteine che abbiamo indicato prima, compreso l’EJC, accompagnano l’mRNA
maturo fuori dal nucleo e nel citoplasma.
Notiamo poi che, ovviamente, il passaggio avviene attraverso la membrana nucleare e, in
particolare, attraverso i pori nucleari.
Ricapitolando, l’mRNA è associato a un corredo di proteine che lo marcano, indicando appunto il
suo destino, cioè che è pronto per essere traslocato dal nucleo al citoplasma perché ha subito il
processo di maturazione completo. Queste proteine, come già detto, non abbandonano l’mRNA nel
passaggio da nucleo a citoplasma, ma vengono cotrasportate insieme ad esso. Il trasporto attraverso
la membrana nucleare avviene mediante una struttura specifica che si chiama complesso del poro
nucleare, il quale permette il passaggio “naturale” passivo (senza alcun aiuto quindi) di molecole
molto piccole, cioè intendiamo proteine o in generale molecole che hanno un peso al di sotto dei 50
kD. In tutti gli altri casi, invece, è necessario un trasporto attivo, quindi con consumo di energia, ed
è quello che avviene anche per gli mRNA associati a tutte queste proteine. Ovviamente, l’mRNA
maturo associato a tutte queste proteine non ha un peso inferiore ai 50 kD, è molto più pesante,
quindi, riesce ad attraversare i pori nucleari attraverso un trasporto attivo, non riesce a trasferirsi in
maniera semplice e senza consumo di energia.
Ricordiamo poi che alcune delle proteine stesse associate all’mRNA contengono delle sequenze
segnale di esportazione nucleare, quindi, sono delle sequenze che indicano alla cellula che
quell’mRNA deve essere traslocato dal nucleo al citoplasma. Quindi, le stesse proteine associate
all’mRNA (non tutte ma alcune di esse) contengono dei segnali di esportazione nucleare che
vengono riconosciuti da dei recettori, chiamati recettori dell’esportazione, che guidano l’mRNA
attraverso il poro stesso, aiutando il passaggio dell’mRNA dal nucleo al citoplasma.
Una volta nel citoplasma, l’mRNA si spoglia di alcune di queste proteine, per esempio alcune SR
vengono riportate dal citoplasma al nucleo, altre proteine, invece, rimangono associate, come la
CBC che rimane associata al cap o le poly A binding proteins e anche le EJC rimangono associate.
Quindi, queste proteine che l’mRNA si porta dal nucleo al citoplasma, in parte vengono a
dissociarsi e vengono, con un meccanismo di trasporto attivo però inverso rispetto a prima, riportate
nel nucleo in modo da essere riciclate per altri mRNA. All’mRNA nel citoplasma rimangono però
associate comunque alcune proteine.
Abbiamo detto che questo trasporto dell’mRNA richiede energia, in particolare, questa esportazione
richiede l’idrolisi del GTP à esiste, in particolare, una GTPasi chiamata Ran, la quale, idrolizzando
il GTP, regola questo trasporto. La proteina Ran, quindi, è una proteina che si trova infatti in due
conformazioni differenti in base al fatto che leghi il GTP o il GDP; in questo modo, in base al tipo
di conformazione, la proteina Ran viene a regolare il trasporto in un senso o nell’altro. In
particolare, quando Ran è legata al GTP, oltre che al nostro cargo ovviamente, essa viene a
rilasciare il suo cargo nel nucleo, quindi, è quello che avviene per le proteine che devono essere
riportate nel nucleo. Quando, invece, Ran è legata al GDP (il GTP è stato idrolizzato), il movimento
attraverso il poro nucleare è inverso, cioè c’è un meccanismo di esportazione (si ha una
conformazione che favorisce/dirige il trasporto dal nucleo al citoplasma) ed è quello che si ha
quando l’mRNA deve essere trasportato fuori dal nucleo.
Un’altra cosa importante riguarda gli hnRNP, che sono i repressori dello splicing à si ritrovano
spesso, ad esempio, negli introni escissi e sono in questo caso un segnale per far sì che quei pezzi di
RNA intronici rimangano nel nucleo per venir degradati.
Quindi, il corredo di proteine associato all’RNA determina il suo trasporto nel citoplasma o la sua
ritenzione a livello nucleare. Perciò, non è tanto una singola proteina a marcare l’RNA e a segnare il
suo destino, ma un corredo di proteine appunto.
LA TRADUZIONE
I punti principali di questo argomento sono:
• Gli attori della traduzione: mRNA, tRNA, ribosomi
• Il codice genetico
• Inizio della traduzione in procarioti e eucarioti
• Allungamento della traduzione
• Terminazione della traduzione
• Regolazione della traduzione
Gli attori della traduzione
RNA messaggero (mRNA)
L’mRNA per gli eucarioti ha un cap 5’, una coda poli(A) che sono prerogative degli eucarioti, e ha
vari esoni giuntati dopo lo splicing per rimozione degli introni.
La regione dell’mRNA che specifica e codifica per la proteina è chiama ORF che sta per Open
Reading Frame, è organizzata in una serie di codoni, cioè una serie di triplette di nt e ogni tripletta è
specifica per un amminoacido e determina quindi l’ordine preciso dei diversi aa che compongono la
nostra proteina.
La traduzione quindi si realizza quando queste triplette vengono lette in successione senza
sovrapposizione, ricordando che ogni codone codifica per uno specifico aa.
L’ORF ha inizio sempre con un codone d’inizio e finisce sempre con un codone di termine, i codoni
d’inizio per i batteri sono 3:
- AUG à codifica per la metionina
- GUG à codifica per la valina
- UUG à codifica per la leucina
Negli eucarioti invece abbiamo un solo codone d’inizio che è AUG, poiché quest’ultimo è sempre il
più comune.
Mentre i codoni di fine che segnano la fine della nostra traduzione sono 3 e sono comuni sia per i
batteri che per gli eucarioti:
- UAG
- UAA
- UGA
Una ORF è quindi segnata da un inizio e da una fine da una di queste triplette d’inizio e da una di
queste triplette di fine.
Ma ORF non coincide con l’inizio e la fine dell’mRNA, poiché vediamo che a monte e a valle
dell’ORF troviamo una regione non tradotta chiamata 5’ UTR ( UTR sta per Untraslated) e una
regione 3’ non tradotta, quindi a monte e a valle dell’ORF ho queste due regioni che fanno da
cuscinetti e che non vengono tradotte, ciò che serve per tradurre l’mRNA è l’ORF che si trova
appunto ad essere in mezzo.
La ORF è anche importante perché le varie triplette vanno lette una di seguito all’altra in maniera
non sovrapposta e questo fa si che un codice di questo tipo permette di avere per un ORF 3 quadri
di lettura che nell’immagine vediamo indicati con 1, 2 , 3. Con la freccia viene indicato l’inizio con
cui si inizia a leggere la ORF. Dunque, quando ci troviamo davanti a un codice di questo tipo, non
sovrapposto come ORF, formato da triplette successive l’una all’altra, io ho 3 potenziali quadri di
lettura che danno esiti differenti e quindi ci mostra come andando ad avere un codone d’inizio ci
permette di determinare la corretta cornice di lettura o reading frame, in base al quale ogni 3 residui
nt inizia un nuovo codone. Nel primo caso si crea una cornice di lettura che permette di avere una
sequenza specifica. Le lettere nell’immagine indicano i diversi amminoacidi che per convenzione
possono essere indicati anche con la singola lettera.
Nel secondo caso la cornice di lettura è cambiata completamente, gli aa sono differenti perché le
triplette in successione, cambiando l’inizio di questa lettura, vengono ad essere modificate, così
anche per il 3. Questo sta a indicare come sia importante avere una corretta cornice di lettura,
trovando la AUG nella ORF che ci dà il la per un reading frame corretto.
Il codice genetico
È universale, è organizzato in codoni (3
nt) che vengono riconosciuti dagli
anticodoni dei tRNA, ricordiamo infatti
che ogni codone per essere tradotto deve
essere riconosciuto dal tRNA e nella
fattispecie da quella porzione di tRNA
che si chiama anticodone e in questo
modo il tRNA in base al codone che
riconosce si porta un aa corrispondente
durante la sintesi della nostra proteina.
Esistono 64 possibili combinazioni per
specificare 20 aa, questo perché
dobbiamo considerare come si vede
nella tabella la prima posizione del
codone al 5’, la seconda e la terza posizione e abbiamo le 4 possibili basi nucleotidiche, facendo
tutte le varie combinazioni del caso, ottengo ben 64 combinazioni possibili come si vede in grigio.
Ma queste 64 combinazioni non specificano per 64 aa diversi, più che altro da questi 64 codoni ho
la possibilità di specificare 20 aa differenti. Questo significa che ho più codoni diversi che
codificano per uno stesso amminoacido, questi codoni che codificano per gli stessi aa sono chiamati
SINONIMI e questo fenomeno viene chiamato DEGENERAZIONE, infatti, quando sentiamo dire
che il codice genetico è degenerato ciò sta a significare proprio questo fenomeno, ovvero che i
codoni che codificano per lo stesso amminoacido sono più di uno. Per esempio, vediamo che per la
serina ne ho ben 4, così come per la prolina, per la leucina ne ho 2 e via dicendo. Da notare che la
AUG codifica per la metionina, mentre invece in rosso sono indicati i 3 codoni di stop.
I codoni sono sempre letti nella direzione 5’-3’, nell’ORF sono in successione e non si
sovrappongono.
Il codone d’inizio, ripetendo, determina il ritmo di lettura ovvero la cornice di lettura.
Sull’mRNA ho il mio codone che viene letto in direzione 5’-3’ ed è riconosciuto dall’anticodone
del tRNA che si appaierà ovviamente con le sue basi complementari al codone in direzione 3’-5’.
Nella parte sotto della figura sono riportati i diversi codoni che specificano per ciascuno
amminoacido, oltre alle triplette di stop e i nomi degli amminoacidi con la lettera che per
convenzione li determina.
Occorre sottolineare che un tRNA per lo stesso amminoacido può
riconoscere diversi codoni utilizzando quello che viene chiamato
appaiamento tentennante al 5’, cioè questa ultima posizione del
codone o la prima dell’anticodone è chiamata posizione tentennante
o appaiamento tentennante delle basi tra codoni e anticodoni. In
questa base ho che nei batteri, ad esempio, quando nell’ultima
posizione del codone ho una U, l’anticodone nella sua prima
posizione in 5’ può avere in maniera differente un A, una G o una I;
oppure se ho una C nell’ultima posizione del codone, questa si può
appaiare con un anticodone che in 5’ ha una G o una I e così via.
Questa possibilità della base tentennante, come si può vedere, ha
più variabili, più combinazioni nei batteri. Negli eucarioti invece ha
meno combinazioni ma comunque sono presenti, ad esempio la U si
può appaiare con l’anticodone A, G o I o la C con una G o una I.
Questa base tentennante è importante perché ci permette di avere
un tRNA che porta lo stesso amminoacido che però è in grado di
riconoscere codoni differenti sfruttando questo accoppiamento
tentennante.
Esempio di accoppiamento tentennante delle basi
Nell’immagine abbiamo gli esempi di accoppiamenti tentennanti tra codone e anticodoneà
inosina-citosina; inosina-uracile; inosina-adenina; guanina-uracile.
In questo caso abbiamo un tRNA che ha un anticodone UCU e riesce ad appaiarsi con dei codoni
diversi che però portano allo stesso amminoacido (questo esempio aiuta a capire il discorso dei
codoni sinonimi) quindi abbiamo un tRNA che con lo stesso amminoacido riconosce con lo stesso
anticodone codoni differenti che però sono sinonimi e quindi specificano per lo stesso
amminoacido.
Nell’esempio abbiamo due codoni differenti che vengono riconosciuti dallo stesso tRNA che porta
allo stesso amminoacido arginina, questo perché AGA e AGG sono due sinonimi per lo stesso
amminoacido e ciò è possibile perché la base è tentennante, data da questa U che può riconoscere
senza problemi ed appaiarsi con l’ultima posizione del codone indipendentemente se questo è A o
G.
Oppure un altro esempio è la glicina che ha 3 codoni sinonimi, i quali differiscono tutti per la terza
posizione poiché in uno c’è una U, nel secondo c’è una C e nel terzo una A e questi codoni sinonimi
vengono riconosciuti tutti dallo stesso tRNA avente lo stesso anticodone che ha nella posizione
tentennante l’inosina. Quest’ultima abbiamo visto che è una base molto variabile perché se
nell’anticodone c’è l’inosina questa si può appaiare con la citosina, con l’uracile, con l’adenina.
Quindi ancora una volta il tentennamento dell’ultima posizione del codone o della prima
dell’anticodone, in base da quale punto di vista lo vogliamo prendere, permette di consentire di
riconoscere tanti codoni diversi che codificano per lo stesso amminoacido.
L’mRNA nei procarioti è chiamato mRNA policistronico perché è costituito da tante ORF una
dietro l’altra, dove tra l’altro ogni ORF traduce per una diversa proteina, molto spesso queste ORF
codificano per proteine che sono coinvolte nella stessa via metabolica (es. operone LAC).
Nell’immagine vediamo riportato l’mRNA procariotico, quindi l’mRNA policistronico ovvero che
ha ORF una dietro l’altra. Ogni ORF è determinata da un codone d’inizio e da un codone di stop.
A monte di ogni ORF c’è una sequenza che viene chiamata RBS, questa sequenza RBS sta per
Ribosome-Binding Site ed è il sito di legame del ribosoma. È una sequenza conservata, che si
posiziona circa 3-9 basi prima rispetto a ciascun codone d’inizio. Questo RBS è molto importante
perché come dice il suo nome serve per legare il ribosoma nella parte iniziale della traduzione. In
particolare come vediamo in alto nell’immagine, questa sequenza RBS ha N che sta ad indicare un
qualsiasi nt, mentre GGAGG è invece la sequenza conservata la quale è importante perché
interagisce con le basi complementari di uno dei componenti del ribosoma, infatti il ribosoma è
costituito da proteine ma anche da RNA ribosomiale (rRNA), in particolare nei procarioti l’rRNA
16S si appaia con questa sequenza RBS conservata, andando praticamente a creare degli
appaiamenti di Watson e Crick e in questo modo si determina l’allineamento del ribosoma con
l’inizio dell’ORF. Quindi è fondamentale questa RBS perché permette di legare il ribosoma e di
allinearlo correttamente sul codone d’inizio. Questa sequenza RBS viene chiamata anche sequenza
di Shine-Dalgarno.
Negli eucarioti non abbiamo l’RBS e l’mRNA viene chiamato monocistronico perché abbiamo una
sola ORF che ha il suo codone d’inizio e il suo codone di stop. Quindi, la prima differenza è che
abbiamo negli eucarioti degli mRNA monocistronici quindi che hanno una solo ORF; un’altra
differenza è che l’mRNA eucariotico ha un cap al 5’ e una coda poli-A e inoltre non c’è il RBS,
infatti per l’mRNA eucariotico il ribosoma riconosce il cap al 5’ e da qui inizia la sua ricerca
dell’AUG d’inizio.
Dunque il cap al 5’ richiama il ribosoma, il quale inizierà a scorrere in direzione 5’-3’ fino ad
incontrare il codone d’inizio AUG. In alcuni mRNA l’AUG d’inizio trova a monte una possibile
base purinica e a valle dopo l’AUG d’inizio una guanina, questa viene chiamata sequenza KOZAK
e non è comune a tutti gli mRNA ma è presente solo in alcuni mRNA eucariotici. La sequenza
KOZAK non ha la funzione dell’RBS ma quando è presente aumenta l’efficienza di traduzione, in
questo caso non perché le sequenze interagiscono con il ribosoma o col suo rRNA ma piuttosto
perché viene ad interagire con il tRNA iniziatore, quest’ultimo è il primo tRNA (porta la
metionina), quello che col suo anticodone si lega all’AUG d’inizio.
RNA transfer (tRNA, RNA di trasferimento)
Servono come adattatori tra mRNA e
amminoacido, infatti nell’immagine abbiamo
l’mRNA stilizzato con le triplette e notiamo che il
tRNA è l’intermediario tra l’amminoacido che lui
porta e l’mRNA, dove il tRNA va a leggere questo
mRNA attraverso il suo anticodone. Questo tRNA
quindi, da una parte lega l’amminoacido, dall’altra
parte invece riconosce con quello che viene
chiamato anticodone l’mRNA stesso, consentendo
quindi di tradurre il messaggio contenuto nei
codoni dell’mRNA in uno specifico amminoacido.
Il tRNA è una molecola di circa 75-95 nt che viene
ad avere una struttura comune a tutti i tRNA che viene rappresentata come un trifoglio. Questo
trifoglio è caratterizzato da delle regioni specifiche, in particolare questo stelo accettore il quale ha
una regione a doppia elica che è così chiamato perché all’estremità 3’ del singolo filamento verrà
legato l’amminoacido. Quindi è chiamato così perché è il sito d’attacco dell’amminoacido. Da
notare che questo stelo accettore in tutti i tRNA ha questa estremità 3’ a singolo filamento che
termina con questa tripletta CCA alla quale verrà legato l’amminoacido specifico.
Le altre regioni sono delle anse o dei stem loop o a forcina, che sono chiamate ansa D o ansa ΨU in
funzione per l’appunto della presenza in queste anse di specifiche basi modificate. Infatti, il tRNA
ha la presenza di numerose basi diverse rispetto a quelle canoniche, ad esempio l’ansa D viene così
chiamata perché al suo interno ci sono numerose basi di diidrouridina, mentre l’ansa ΨU è così
chiamata perché al suo interno ci sono delle basi di pseudouridina.
Cosa sono queste diidrouridina e pseudouridina?
Nell’immagine in alto a
sinistra troviamo l’uridina, la
pseudouridina (comune
nell’immagine all’ansa in
giallo) è un isomero
dell’uridina, perché la
differenza è che la base di
uracile nell’uridina è attaccata
al ribosio grazie al suo N1,
mentre invece nella
pseudouridina invece è
attaccata al ribosio tramite il
C5 dell’anello aromatico.
Quindi, nella pseudouridina si
tratta di isomeri, dove cambia il punto di attacco allo zucchero, nell’uridina è attaccato grazie all’N1
mentre nella pseudouridina grazie al carbonio 5.
L’ansa D si chiama così invece perché presenta diidrouridina che confrontata con l’uridina deriva
da una riduzione enzimatica del doppio legame tra il C5 e il C6.
Oltre a queste basi, nel tRNA, esistono altre basi insolite come ad esempio la ipoxantina, la
metilguanina o la timina che come sappiamo è una base prerogativa del DNA e non dell’RNA.
Ritornando alla struttura del tRNA abbiamo poi un’altra ansa che è l’ansa variabile che si trova tra
l’ansa ΨU e quella che viene chiamata ansa dell’anticodone, ed è chiamata variabile perché ha una
lunghezza variabile che va dai 3 ai 21 nucleotidi. L’ultima ansa che sta opposta all’accettore è
quella dell’anticodone che come dice il nome sta a significare che ha l’anticodone, ovvero i 3 nt,
che sono in grado di appaiarsi con legami di Watson e Crick con il codone sull’mRNA, ed è
importante proprio per lo specifico accoppiamento con il codone sull’mRNA.
Riepilogandoà il tRNA ha una struttura secondaria che viene rappresentata per l’appunto come un
trifoglio, è caratterizzata da uno stelo accettore con un’estremità a singolo filamento di 3 nt
conservati CCA e alla A verrà poi caricato l’amminoacido. Le due anse ΨU e D vengono ad essere
così chiamate perché hanno la presenza rispettivamente di pseudouridina che è un isomero
dell’uridina e di diidrouridina che è una forma ridotta dell’uridina stessa. Si ha poi l’ansa variabile
che è un’ansa dalla lunghezza variabile in base al tRNA e infine un’ansa chiamata dell’anticodone
che è utile perché ha i 3 nt che aiutano il tRNA a riconoscere e quindi ad appaiarsi con le basi del
codone sull’mRNA stesso. Inoltre, abbiamo anche detto che il tRNA contiene anche altri tipi di basi
insolite come la ipoxantina, la metilguanina e la timina. Queste basi insolite non sono fondamentali
per la funzione propria del tRNA però nelle cellule dove non sono presenti queste basi si è visto che
queste cellule crescono più lentamente, quindi, questo ci sta ad indicare che queste basi migliorano
la performance del tRNA anche se non sono fondamentali ma la loro presenza ci permette di
migliorare la funzione del tRNA stesso. Per esempio, la ipoxantina si è visto che viene a svolgere
un ruolo molto importante ad andare a riconoscere alcuni codoni da parte dei tRNA che la
contengono, quindi aiuta in altre parole il tRNA a riconoscere i
codoni.
Se poi andiamo a vedere la struttura terziaria del tRNA, più che
un trifoglio è una struttura che ha la forma ad L, dove appare
chiaramente che lo stelo accettore dove viene caricato
l’amminoacido è a un lato della molecola e dalla parte opposta
della molecola c’è invece lo stelo dell’anticodone dove c’è il
riconoscimento del codone sull’mRNA. Quindi nella realtà il
tRNA non è un trifoglio ma è a forma ad L tridimensionale con
queste due componenti che vanno da parte opposta.
Anche il tRNA negli eucarioti subisce il processamento come abbiamo visto per il pre-mRNA. Il
tRNA negli eucarioti viene trascritto da una polimerasi
ben precisa che si chiama Pol III. Il prodotto del trascritto
primario del tRNA presenta delle regioni che devono
essere rimosse e tagliate, che sono riportate nell’immagine
in giallo, ma il meccanismo di processamento è diverso
rispetto a quello che abbiamo visto per il pre-mRNA. In
particolare, in questo caso, il nostro tRNA viene per prima
cosa processato alle sue estremità 5’-3’ perché queste
regioni in giallo vengono tagliate da delle nucleasi,
rispettivamente la ribonucleasi D che taglia all’estremità
3’ un piccolo filamento e la ribonucleasi P che taglia
invece il frammento più grande all’estremità 5’ nel
trascritto primario del tRNA. L’intermedio che però si
ottiene non è ancora maturo ma viene sottoposto ad uno
splicing che però non prevede l’intervento di uno
spliceosoma ma di endonucleasi che vengono a tagliare
questo introne (in giallo nell’immagine) e poi si ha una
ligasi ATP dipendente che unirà le estremità generate,
riformando il nostro intermedio quasi definitivo. Per cui
nel processamento del tRNA eucariotico non abbiamo
l’intervento di uno spliceosoma come abbiamo visto per il
pre-mRNA e l’unico splicing che avviene non si realizza
attraverso le reazioni di transesterificazione che abbiamo
visto per i pre-mRNA ma avviene piuttosto attraverso una
reazione di taglio ad opera delle endonucleasi che quindi
rimuovono l’introne e una ligasi ATP dipendente che
unisce le estremità che sono state rotte. L’intermedio che si ottiene poi non è ancora maturo e per
diventarlo le basi devono essere modificate, abbiamo infatti detto che il tRNA presenta diverse basi
atipiche e queste quindi vengono modificate dopo che sono state trascritte, inoltre oltre alla
modifica delle basi, all’ estremità 3’ viene aggiunto il trinucleotide CCA che abbiamo visto essere
fondamentale per caricare l’amminoacido, questo viene realizzato ad opera di una nucleotiltransferasi dedicata (tRNA nucleotil-transferasi) che provvede ad aggiungere questa estremità a
singolo filamento CCA al 3’ del tRNA stesso.
Riepilogando à Il tRNA, innanzitutto, viene trascritto da una polimerasi specifica detta Pol III e il
processamento prevede come prima cosa un processamento delle estremità 5’ e 3’, rimuovendo
queste parti del pre-tRNA ad opera della ribonucleasi P e D, poi in un secondo momento l’introne
viene rimosso ad opera di una endonucleasi che realizza questo splicing senza però l’intervento di
spliceosomi e le estremità vengono unite ad opera di una ligasi ATP dipendente. Infine, le basi
vengono modificate chimicamente e viene aggiunto all’estremità 3’ il trinucleotide CCA.
Il tRNA ha la sua estremità 3’ dove viene legato il suo amminoacido specifico, quando il tRNA è
legato all’amminoacido viene chiamato amminoacil-tRNA oppure tRNA carico. Quando invece il
tRNA è privo di amminoacido si parla di tRNA scarico. Spesso si può trovare il tRNA nominato
anche in maniera più specifica, ovvero specificando l’amminoacido con cui è legato, per esempio se
ho un tRNA legato con valina parlerò di valil-tRNA, oppure nel caso di un tRNA che lega la glicina
si parlerà di glicil-tRNA. Quando, quindi, il tRNA è legato all’amminoacido parliamo di tRNA
carico o amminoacil-tRNA e viene rappresentato, come si vede nell’immagine, con questo “pettine”
dove i 3 denti rappresentano le basi del nostro anticodone e dalla parte opposta è legata all’estremità
3’del tRNA l’amminoacido (in rosso nell’immagine). Nello specifico viene ingrandito nella parte
destra dell’immagine la parte dell’estremità 3’ dell’amminoacil-tRNA dove si può notare che
l’amminoacido è legato al tRNA, in particolare all’adenina, formando questo legame tra il gruppo
carbossilico dell’amminoacido e il gruppo ossidrilico dello zucchero dell’adenina (ricorda infatti
che il tRNA termina all’estremità 3’ con l’adenina), in particolare l’amminoacido caricato usa o il
3’-OH dello zucchero dell’adenina oppure il 2’-OH. Quindi l’amminoacido può formare questo
legame, che si chiama legame acilico tra il gruppo carbossilico dell’amminoacido e il gruppo
ossidrilico in posizione 3’ o 2’ dello zucchero dell’adenina appartenente al tRNA. Questo tipo di
legame, inoltre, è altamente energetico ed è un aspetto non banale perché l’idrolisi di questo legame
consentirà l’energia utile per la formazione del legame peptidico tra questo amminoacido posto dal
tRNA e la catena peptidica nascente che si sta sintetizzando durante la traduzione. Quindi il legame
che si crea tra l’amminoacido e l’estremità 3’ del tRNA è un legame altamente energetico che verrà
quindi idrolizzato per consentire di fornire l’energia utile per la formazione del legame peptidico tra
l’amminoacido portato dal tRNA e la catena polipeptidica nascente.
Il tRNA viene caricato col suo amminoacido ad opera di un enzima specifico che si chiama
amminoacil-tRNA sintetasi, quindi, la formazione del tRNA carico è ad opera di un enzima che è
l’amminoacil-tRNA sintetasi. Questo enzima carica il tRNA attraverso due passaggi:
1. Il primo passaggio è una adenililazione
2. Il secondo passaggio è il caricamento del tRNA
Quindi perché io ottenga il tRNA carico con il suo amminoacido specifico ho bisogno
dell’intervento dell’enzima che si chiama amminoacil-tRNA sintetasi, quest’ultimo carica il tRNA
in due passaggi che sono l’adenililazione e il caricamento del tRNA.
Cosa è l’adenililazione?
Abbiamo l’amminoacido e il tRNA da caricare. L’adenililazione non è altro che una sorta di
reazione di attivazione dell’amminoacido andando a legare all’amminoacido la AMP (adenina,
ribosio e fosfato).
Quindi nella reazione di adenililazione, l’amminoacido viene fatto reagire con una molecola di ATP
permettendo il trasferimento di un AMP sull’amminoacido, quest’ultimo diventa un amminoacido
adenililato. Si parla di adenililazione perché trasferisco sull’amminoacido una molecola di AMP
(adenosina monofosfato). Diversa è la adenilazione che invece consiste nel trasferimento di una
adenina, nel caso dell’adenililazione trasferiamo una molecola di AMP all’amminoacido con il
rilascio di una molecola di pirofosfato che verrà poi idrolizzato dalla pirofosfatasi fornendo così
l’energia per la seconda tappa.
Quindi, il primo step è il legame dell’amminoacido con una molecola di AMP, presa ovviamente
dall’ATP e rilasciando in questo modo pirofosfato che verrà poi idrolizzando a fosfato da una
pirofosfatasi (legame ad alta energia).
In cosa consiste il caricamento del tRNA?
Si ha un trasferimento dell’amminoacido legato all’AMP all’estremità del tRNA, in particolare può
essere legato o all’estremità 3’ OH del ribosio del tRNA o al 2’ OH sempre del ribosio del tRNA.
Il risultato è quindi un amminoacido caricato sul tRNA, quindi un amminoacil-tRNA e si ha il
rilascio di AMP.
Quindi, in questo secondo step, l’amminoacido viene trasferito dall’AMP al tRNA, ottenendo
l’amminoacil-tRNA finale e rilasciando l’AMP. Da notare che l’amminoacil-tRNA sintetasi per
realizzare questi due step presenta nella sua struttura 3 siti di legame:
1. Per l’ATP
2. Per l’amminoacido
3. Per il tRNA
Esistono inoltre 2 classi di amminoacil-tRNA sintetasi, che vengono indicate con i numeri romani,
classe I e classe II. Ogni amminoacil-tRNA sintetasi è specifica per uno dei 20 amminoacidi.
Quindi ciascuno dei 20 amminoacidi viene legato ai suoi tRNA da una singola tRNA sintetasi
specifica, tant’è che come si vede nella tabella sottostante, sia quelli della classe II che quelli della
classe I, ognuna sintetasi viene identificata in base al tipo di amminoacido di cui si occupa, ossia
ogni tRNA sintetasi è specifica per un certo amminoacido, quindi abbiamo l’amminoacil-tRNA
sintetasi che è specifica per caricare la gly sui tRNA, quella che invece si occupa dell’alanina ecc.
Che differenza c’è tra quelli di classe I e quelli di classe II?
La differenza sta nel fatto che gli enzimi di classe I vengono solitamente ad essere dei monomeri, ci
sono solo due eccezioni di dimeri, la struttura quaternaria infatti indica per l’appunto che sono dei
monomeri (indicate con la subunità α); inoltre un’altra differenza fondamentale della classe I è che
vengono a legare l’amminoacido al 2’ OH del tRNA.
Viceversa quelli di classe II hanno una struttura quaternaria più complessa, sono infatti dei tetrameri
costituiti da una sola subunità o 2 subunità differenti (α e β) e hanno la capacità di legare
l’amminoacido al 3’ OH del tRNA.
Quindi quelli di classe I si occupano di legare l’amminoacido al 2’ OH del tRNA, quelli di classe II
al 3’ OH del tRNA, i primi sono solitamente monomerici mentre i secondi sono solitamente
dimerici o tetramerici.
Bisogna poi ricordare che per uno stesso amminoacido io ho più codoni diversi e quindi avrò più
tRNA diversi, le amminoacil-tRNA sintetasi caricano l’amminoacido a tutti i tRNA appropriati,
ovvero quelli che vengono chiamati tRNA isoaccettori che sono tRNA che legano lo stesso
amminoacido (hanno caricato lo stesso amminoacido) ma hanno anticodoni diversi, questo perché
sappiamo che per ogni amminoacido ho più codoni diversi per cui ho tRNA differenti che quindi
avranno anticodoni diversi ma che saranno caricati dall’amminoacil-tRNA sintetasi con lo stesso
amminoacido.
Ricapitolando à l’amminoacil-tRNA sintetasi è specifica per ciascun amminoacido e carica
ciascun amminoacido per il quale lei è specializzata a tutti i tRNA appropriati, cioè a tutti quei
tRNA che per esempio per l’arginina hanno anticodoni diversi ma che sono caricati con lo stesso
amminoacido, appunto il tRNA isoaccettore.
Quali sono gli elementi strutturali fondamentali del tRNA che permettono all’amminoacil-tRNA
sintetasi di riconoscerlo?
L’amminoacil-tRNA sintetasi si deve infatti confrontare con due problematiche importanti:
1. Deve innanzitutto riconoscere l’insieme dei tRNA specifici per l’amminoacido
2. Deve caricare questo amminoacido su tutti i tRNA isoaccettori
Quindi deve riuscire a discriminare queste due cose, ovvero identificare l’insieme dei tRNA per uno
specifico amminoacido e caricare lo stesso amminoacido su tutti i tRNA isoaccettori.
Per quanto riguarda il primo punto, cioè riconoscere i tRNA per uno specifico amminoacido,
intervengono degli elementi strutturali che sono fondamentali perché interagiscono per l’appunto
con l’amminoacil-tRNA sintetasi stessa. In particolare gli elementi principali sono lo stelo accettore
che viene praticamente ad interagire e ad
essere la componente specifica che viene
riconosciuta dall’amminoacil-tRNA
sintetasi, in particolare appena dopo lo
stelo accettore, appena inizia il singolo
filamento prima del trinucleotide abbiamo
una base discriminante e in alcuni casi la
variazione di questa singola base viene a
modificare la specificità di un tRNA da
una sintetasi all’altra. Quindi uno degli
elementi strutturali fondamentali è lo
stelo accettore e in particolare per alcuni
una singola base che può fare la differenza nel riconoscimento specifico dell’amminoacil sintetasi
per un tRNA rispetto ad un altro.
Altro elemento importante ma non in tutti è l’ansa dell’anticodone, che è un'altra regione del nostro
tRNA che contribuisce alla specificità di riconoscimento da parte della tRNA sintetasi.
La tRNA sintetasi può fare degli errori, anche perché la sua difficoltà maggiore non è tanto andare a
riconoscere il tRNA sfruttando le parti specifiche di un tRNA ma piuttosto la difficoltà è
selezionare l’amminoacido giusto da caricare sui vari tRNA isoaccettori. Consideriamo che
l’amminoacil-tRNA sintetasi è piuttosto accurata perché fa 1:1000 tRNA caricato con un
amminoacido errato. Questa accuratezza è assicurata dal fatto che l’amminoacil-tRNA sintetasi ha 3
siti, un sito di legame per il tRNA, uno per l’amminoacido e uno
per l’ATP.
Nell’immagine a lato possiamo vedere ad esempio che la
sintetasi per la tirosina ha una tasca che accoglie la tirosina ma
non riesce a legare la fenilalanina, in questo caso infatti la
sintetasi per la tirosina è in grado di distinguerla dalla
fenilalanina perché nella sua tasca forma un legame H molto
forte con il gruppo ossidrile che troviamo nella tirosina ma che è
assente nella fenilalanina. Quindi la possibilità della tasca di
legame della sintetasi per la tirosina di formare questo legame H
che può creare solo con l’ossidrile presente sulla tirosina gli
permette di discriminare la tirosina con la fenilalanina che è
molto simile. Dunque la tirosil-tRNA sintetasi riesce a
discriminare questi due amminoacidi molto simili, in particolare
la tirosina con la fenilalanina, perché con la tirosina forma questo legame H molto forte sfruttando
questo gruppo OH che è d’altronde la differenza che c’è tra questi due amminoacidi.
Così pure vediamo che la isoleucina e la valina differiscono per un metile e quindi in questo caso la
valil-tRNA sintetasi viene ad avere nel suo sito catalitico la tasca molto ridotta e riesce ad
accogliere la valina e non la isoleucina che a causa del metile è molto ingombrante. Quindi le
dimensioni dei siti catalitici possono essere differenti e sono adattate all’amminoacido specifico che
quella sintetasi deve legare.
Quindi l’amminoacil-tRNA sintetasi ha tutte una serie di strategie che le consentono a livello dei
suoi siti di legame per l’amminoacido di discriminare l’amminoacido corretto da quelli similari
strutturalmente.
Inoltre, alcune amminoacil-tRNA sintetasi hanno anche una sorta di sito di correzione che viene
utilizzato sull’amminoacido legato all’AMP per verificare che sia effettivamente l’amminoacido
corretto. Noi infatti sappiamo che l’amminoacil-tRNA sintetasi ha 3 siti di legame e che nella prima
reazione entra nell’enzima l’ATP e l’AMP per
fare avvenire il trasferimento dell’AMP
sull’amminoacido (1° reazione di adenililazione)
e nella reazione successiva entra nel sito attivo il
tRNA e in questo momento l’enzima forza
l’amminoacido legato all’AMP in una tasca di
controllo che è adiacente al sito catalitico e
questa tasca di controllo presenta un’attività
idrolitica, che viene ad idrolizzare il legame tra
l’amminoacido e l’AMP solo e solo se questo
amminoacido non è corretto. Quindi è un
controllo che l’amminoacil-tRNA sintetasi fa
sugli amminoacidi che sono stati adenililati
prima di caricarli sul tRNA. È un controllo che non avviene per tutte le amminoacil-sintetasi ma
solo alcune hanno questa ulteriore capacità, per esempio la isoleucil-sintetasi (ha il gruppo metile) è
una di queste. Immaginiamo che la isoleucil-sintetasi abbia legato come amminoacido la valina
piuttosto che la isoleucina, in questo caso quando arriva il tRNA, questa valina viene forzata nella
tasca di controllo della sintetasi, le cui dimensioni escludono l’accesso all’amminoacido corretto
mentre consentono l’accesso per l’amminoacido correlato ma non corretto cioè per la valina. Quindi
in questo sito idrolitico entra la valina legata erroneamente all’AMP ma non la isoleucina e viene
idrolizzata e in questo modo si riesce attraverso un controllo idrolitico ad aumentare l’accuratezza
di caricamento di circa 40000 volte.
I Ribosomi
Sono costituiti da 2 subunità, la subunità maggiore e la subunità minore.
La subunità maggiore e quella minore sono presenti in entrambi gli organismi, sia eucarioti che
procarioti. Il ribosoma eucariotico è chiamato 80S, mentre quello procariotico è chiamato 70S. Da
notare che il ribosoma eucariotico 80S è costituito da subunità maggiore e minore chiamate
rispettivamente 60S e 40S; mentre quello procariotico viene ad essere costituito dalla subunità
maggiore 50S e dalla subunità minore 30S.
Cosa sta ad indicare S?
Con S si indica la velocità di sedimentazione che viene indicata come Svedberg, quindi S è l’unità
di misura che viene usata per misurare la velocità di sedimentazione.
Tanto più è alto il valore di S tanto più è maggiore è la velocità di sedimentazione e maggiore è la
dimensione della molecola, questo perché il tasso di sedimentazione, quindi la velocità che mi serve
per sedimentare una molecola sottoposta ad ultracentrifugazione, viene calcolato dividendo la
velocità di sedimentazione (costante) per l’accelerazione applicata per far precipitare la particella
d’interesse. Quindi maggiore è l’accelerazione che io applico, come ad esempio nel caso delle
molecole più piccole, minore sarà il tasso di sedimentazione, perché questo tasso è dato dalla
divisione detta precedentemente.
Quindi 40S e 60S non stanno ad indicare il peso molecolare, tant’è che quando noi consideriamo il
ribosoma nella sua interezza non mettiamo 100S ma indichiamo 80S, perché è sempre riferito alla
velocità di sedimentazione necessaria per far precipitare la particella intera oppure le singole
subunità.
Ogni subunità consta di una combinazione di diversi rRNA e di
proteine ribosomiali, per esempio la subunità 60S del ribosoma
eucariotico consta di 3 rRNAà rRNA 5,8S di 160 nt; rRNA 5S di
120 nt ed rRNA 28S di 4700 nt + 49 proteine.
La subunità inferiore invece consta di un altro rRNA che viene detto
18S di 1900 nt + 33 proteine.
Nel caso delle subunità dei procarioti invece, abbiamo la subunità
maggiore che ha come rRNA il 5S di 120 nt e l’rRNA 23S di 2900 nt
+ 34 proteine; mentre la subunità minore ha come rRNA il 16S di
1540 nt + 21 proteine.
Da notare che anche in questo caso i diversi rRNA vengono
identificati mediante la velocità di sedimentazione.
Aspetto molto importante quindi è la composizione del ribosoma che
è costituito da rRNA e da molte proteine, inoltre i primi
contribuiscono sulla massa del ribosoma mentre i secondi
contribuiscono ma in minime percentuali, basti pensare che 2/3 della massa del ribosoma è
costituito da rRNA, questo perché le proteine ribosomiali sono molto piccole e perché un nucleotide
pesa 330 Da e sia negli eucarioti che nei procarioti gli rRNA non sono corti anzi sono molto lunghi,
per cui se noi andiamo a moltiplicare il numero di nt per il peso di un singolo nt, il risultato è che è
molto più pesante quello ribosomiale rispetto a quello proteico.
Infine, le subunità presentano dei centri molto importanti, quello della subunità maggiore viene
chiamato centro peptidil trasnferasico, il centro dove si formano i legami peptidici.
Mentre la subunità minore contiene il centro di decifrazione dove i tRNA carichi legano i codoni
dell’mRNA.
Modificazioni del pre-rRNA eucariotico
Anche l’RNA ribosomiale viene trascritto come pre-RNA, ovviamente sempre a livello eucariotico,
dove esiste una RNA polimerasi, la RNA pol 1, che è specializzata nella trascrizione degli RNA
ribosomiali, o meglio, dei pre-rRNA.
Il pre-rRNA, come vediamo
nell’immagine, viene trascritto come
un lungo precursore, chiamato 45S,
lungo 13.000 nucleotidi. In questo
caso, l’rRNA precursore, poi, per
essere da lui prodotti gli rRNA
maturi, deve innanzitutto subire una
modifica chimica, che qui troviamo
indicata con i triangoli e i pallini. La
modificazione chimica a cui è
soggetto questo rRNA precursore
viene realizzata da delle particolari
ribonucleoproteine, chiamate
snoRNP.
Modificazioni del pre-rRNA da parte degli RNA guida
Queste snoRNP le vediamo in questa immagine e sono praticamente delle piccole
ribonucleoproteine nucleolari (si trovano a livello del nucleolo) e vengono ad essere costituite da
una componente proteica e una componente a
RNA; quest’ultima è molto importante perché
attraverso di essa la nostra snoRNP viene portata su
posizioni specifiche sul nostro pre-rRNA, in cui lo
snoRNA si appaia con le sue basi con quelle del
pre-rRNA. Quindi, si dice che la snoRNA, cioè la
componente a RNA della snoRNP, funziona da
RNA guida, perché porta la nostra
ribonucleoproteina in posizioni precise del prerRNA, appaiandosi con esse.
Una volta che grazie a questi RNA guida lo
snoRNP si è posizionato in punti precisi del prerRNA, la sua componente proteica provvede ad
indurre la modifica chimica (i triangoli e pallini di
prima) à il triangolo sta a indicare simbolicamente la metilazione a livello dell’ossidrile 2’-OH del
ribosio (si produce, quindi, un nucleotide 2’-O-metilato); quindi, abbiamo una snoRNP che si
occupa di introdurre questa modifica.
Invece, l’altra snoRNP indicata in immagine si occupa di produrre una pseudouridina (è un isomero
dell’uridina dove l’uracile è attaccato allo zucchero attraverso il suo C5, anziché a livello
dell’azoto).
Ritornando al nostro pre-rRNA,
quindi, abbiamo capito che questo
precursore 45S subisce delle
modifiche chimiche ad opera di
snoRNP.
Successivamente, le parti introniche
vengono rimosse/degradate ad
opera di una serie di endonucleasi,
che vengono proprio a tagliare
queste componenti, a fare
un’escissione di esse e degradarle.
Rimangono solamente tre parti (in
azzurro nell’immagine) che corrispondono a 3 dei 4 RNA ribosomiali tipici degli eucarioti (rRNA
18S, rRNA 5.8S, rRNA 28S). A completare questi RNA ribosomiali abbiamo anche l’RNA
ribosomiale 5S che però viene prodotto altrove e, tra l’altro, anche da un’altra RNA polimerasi, non
la pol I ma la pol III; inoltre, i suoi geni si trovano in una posizione del genoma diversa rispetto a
quella che codifica per l’RNA ribosomiale precursore 45S.
A questo punto, a livello del nucleolo, questi RNA ribosomiali vengono inglobati/aggregati con le
proteine ribosomiali a creare la subunità minore e maggiore del ribosoma. In particolare, ricordiamo
che nella subunità minore abbiamo rRNA 18S, mentre la subunità maggiore consta di ben 3 rRNA,
cioè tutti gli altri.
Il nucleolo: fabbrica che produce ribosomi
Abbiamo detto che la zona della cellula che produce i ribosomi è il nucleolo à fa parte del nucleo
• Esso è il sito di modificazione degli rRNA e del loro assemblaggio nelle subunità dei
ribosomi
• È un aggregato di macromolecole (appare in
maniera più elettrondensa al microscopio
elettronico):
o geni per rRNA
o pre-rRNA
o rRNA maturi
o enzimi per la modificazione degli
rRNA (es. endonucleasi)
o snoRNP
o fattori di assemblaggio (ATPasi,
GTPasi, proteine chinasi, RNA elicasi)
o proteine ribosomiali
o ribosomi parzialmente assemblati
Eventi della traduzione: il ciclo ribosomiale
Durante la traduzione, poi, abbiamo detto che il ribosoma è costituito da due subunità, quella
minore e quella maggiore appunto. Questo ribosoma non rimane in questa forma assemblata tra
queste due subunità per tutto il processo di traduzione, ma è una struttura dinamica, tant’è che si
parla, durante la traduzione, di un vero e proprio ciclo ribosomiale.
Il punto di partenza di questo ciclo è riportato nell’immagine con il numero (1) à la prima fase,
quindi, è che la subunità minore si associ con il nostro mRNA da tradurre, che verrà riconosciuto a
livello dell’AUG di inizio dal tRNA iniziatore (quel tRNA che con il suo anticodone si lega
all’AUG di inizio).
A questo punto arriverà la subunità ribosomiale maggiore e, una volta in cui si è formato il
ribosoma completo, inizierà la fase di allungamento della traduzione, in cui il ribosoma inizierà a
scorrere lungo l’mRNA, spostandosi di codone in codone e i diversi tRNA carichi, o amminoaciltRNA, andranno a inserirsi uno dopo l’altro nei siti di decifrazione e nel sito peptidil-transferasico
del ribosoma. Ricordiamo, infatti, che l’amminoacil-tRNA deve entrare nel sito di decifrazione
perché è il sito dove il tRNA con il suo anticodone si lega al codone specifico sull’mRNA e, poi,
una volta che è arrivato, il sito peptidil-transferasico (che si trova nella subunità maggiore) permette
di formare il nuovo legame peptidico tra la catena polipeptidica nascente e il nuovo amminoacido
portato dal tRNA carico appena entrato nel sito di decifrazione.
Quindi, questo processo avviene in modo tale che tutti i codoni vengano ad uno ad uno letti e quindi
il ribosoma si sposta in maniera successiva da un codone all’altro e i diversi tRNA carichi vengono
inseriti uno dopo l’altro per poter riconoscere il codone specifico sull’mRNA e recare
l’amminoacido che verrà aggiunto alla catena polipeptidica nascente a livello del sito peptidiltransferasico.
Una volta che il ribosoma arriva a leggere il codone di stop, la traduzione termina, la subunità
maggiore e minore si dissociano e vengono rilasciati la catena polipeptidica neo-sintetizzata, il
tRNA e l’mRNA (che può quindi riprendere il ciclo di traduzione un’altra volta).
È da notare che tutti questi movimenti sono coadiuvati da dei fattori importanti che intervengono
per aiutare e supportare questi eventi sia nella fase iniziale della traduzione, che nell’allungamento e
nella terminazione (lo vedremo più avanti).
Poliribosoma
Inoltre, altro elemento molto importante è il fatto che il ribosoma può sintetizzare un singolo
polipeptide alla volta, ma l’mRNA (o meglio, la sua ORF) può essere simultaneamente tradotto da
più di un ribosoma à tant’è che si parla di un mRNA associato a più ribosomi, chiamato
poliribosoma o polisoma.
In particolare, vediamo che nell’immagine per semplicità viene indicato un mRNA che ha una
singola ORF (quindi è un mRNA eucariotico, ma questo avviene anche sulle diverse ORF nei
procarioti), ovvero la regione che codifica/traduce per una proteina e che ha un AUG di inizio e un
codone di stop.
Come possiamo vedere, nel momento in cui si ha un ribosoma, esso parte, inizia a tradurre e nel
frattempo, essendosi liberato l’AUG di inizio, esso può essere riconosciuto da un secondo ribosoma
e, quindi, in serie, ho vari ribosomi che simultaneamente traducono il mio mRNA.
Questa capacità di più ribosomi di tradurre un solo mRNA, inoltre, ci fa anche capire come mai
nella cellula l’mRNA è effettivamente presente in una quantità limitata (siamo tra l’1 e il 5%
dell’RNA totale circa) à questo ha senso perché un singolo RNA può essere tradotto
contemporaneamente da più ribosomi appunto.
Consideriamo poi che in questo mRNA associato a più ribosomi, o poliribosoma, ho che ogni
ribosoma crea dei contatti con l’mRNA per circa 30 nucleotidi; considerando poi, inoltre, che il
ribosoma non è piccolo ma ha dimensioni piuttosto elevate, questo fa sì che un ribosoma si
posiziona circa ogni 80 nucleotidi. Quindi, ad esempio, una ORF di 1000 basi, che di solto ci
permette di codificare una proteina intorno ai 35 kD, può essere associata a ben più di 10 ribosomi e
quindi portare alla sintesi di più di 10 catene polipeptidiche contemporaneamente.
I tre siti di legame per il tRNA nel ribosoma
Il ribosoma presenta tre siti di legame, quindi, tra la subunità maggiore e minore esistono tre siti di
legame che vengono identificati dalle lettere A, P ed E. Quindi, nel ribosoma ho tre siti di legame
per accogliere il tRNA.
• Nel sito A viene accolto l’amminoacil-tRNA, ossia il tRNA carico, legato all’amminoacido
che deve essere aggiunto alla catena polipeptidica che si sta sintetizzando. Infatti, tra l’altro,
alla base del sito A, abbiamo il
centro di decifrazione.
• Successivamente, abbiamo
che nel sito P, invece, si
posiziona il peptidil-tRNA,
cioè il tRNA che praticamente
reca la catena polipeptidica
nascente che si sta allungando.
• Il sito E, infine, è quello per
legare il tRNA scarico, che
quindi viene rilasciato nel
momento in cui la catena
polipeptidica nascente viene trasferita all’amminoacil-tRNA/al nuovo amminoacido legato
al tRNA.
Struttura tridimensionale del ribosoma 70S con tre tRNA legati
In particolare, in questa immagine possiamo vedere la struttura tridimensionale del ribosoma 70S e
vediamo che vengono indicate le diverse componenti sia proteiche che di rRNA del ribosoma,
nonché i tre tRNA legati ai tre siti del ribosoma.
Da quest’immagine, tra l’altro, riceviamo un’informazione molto importante, cioè che le proteine
ribosomiali sono distribuite verso l’esterno del nostro ribosoma, delle nostre due subunità; invece,
le componenti ad rRNA sono verso l’interno de ribosoma e sono infatti gli rRNA che avvolgono,
che costituiscono il centro peptidiltransferasico, che si trova nella subunità maggiore tra il sito P ed
A e il centro di decifrazione, che si trova nella subunità minore a livello della parte basale del sito P
ed A. in entrambi i casi, quindi, i centri sono costituiti da rRNA e le proteine hanno una
distribuzione verso l’esterno del ribosoma, la loro funzione è più strutturale.
Il canale di uscita della catena polipeptidica nella subunità 50S
Inoltre, il ribosoma presenta
anche dei canali, perché deve
avere un canale di entrata e di
uscita dell’mRNA che deve
essere letto e un canale dove
esce la catena polipeptidica.
Nell’immagine vediamo la
subunità maggiore 50S e quella
minore 30S e in verde e in
rosso sono rappresentati i
canali (in rosso quello di uscita
per la catena polipeptidica che
viene sintetizzata durante la
traduzione).
È da notare che il canale per
l’mRNA scorre nella subunità
minore del ribosoma e che
permette di far entrare e uscire l’mRNA. Viene ad essere un canale che non è molto largo, consente
di far entrare un RNA che non ha strutture secondarie e questo ha un senso perché il nostro
ribosoma quando scorre deve avere un RNA con basi libere e non impegnate in strutture secondarie,
perché deve leggere l’mRNA e i suoi codoni uno ad uno, in quanto i codoni devono essere
riconosciuti dall’anticodone dell’amminoacil-tRNA. Inoltre, vediamo che in questo canale di
passaggio dell’mRNA abbiamo tra il sito A e P una piccola piega, quindi l’mRNA, passando
attraverso questo canale, subisce una piccola piega à essa è molto importante perché consente di
distinguere chiaramente i codoni del sito A da quelli del sito P.
Altra cosa molto importante è che anche il canale di uscita della catena polipeptidica, che si trova,
invece, nella subunità maggiore del ribosoma, è un canale non di dimensioni elevate e che quindi
riduce i possibili ripiegamenti che può fare la catena polipeptidica. In questo canale, infatti, la
catena può, ad esempio, formare la struttura ad alfa-elica, ma non è in grado, per mancanza di
spazio, di assumere strutture secondarie o addirittura terziarie più complesse (per esempio, non
riesce a formare beta-foglietti o interazioni terziarie più complicate che, quindi, vengono a crearsi
solo dopo che la catena polipeptidica è uscita dal canale o addirittura, per le strutture
tridimensionali/terziarie, quando la traduzione è terminata e l’intera proteina è stata neosintetizzata).
Incorporazione di un amminoacido in una proteina: reazione peptidiltransferasica
Un nuovo amminoacido viene incorporato alla catena polipeptidica nascente attraverso quella che
viene chiamata reazione peptidiltransferasica. Affinché avvenga questo nuovo legame peptidico tra
la catena polipetidica nascente e l’amminoacido abbiamo bisogno del ribosoma.
• I nuovi amminoacidi vengono attaccati all’estremità C-terminale della catena polipetidica
nascente (sintesi della proteina dall’ammino-terminale al carbossi-terminale) durante la fase
di allungamento
• I legami peptidici si formano mediante trasferimento della catena polipeptidica nascente da
un tRNA all’altro (la catena polipeptidica nascente viene trasferita dal peptidil-tRNA
all’amminoacil-tRNA in entrata)
Quindi, affinché questa reazione avvenga, sia il polipeptide nascente che il nuovo
amminoacido sono associati a dei tRNA e allocati in uno dei siti fondamentali del nostro
ribosoma à nell’immagine vediamo sia il sito A (con l’amminoacil-tRNA) che il sito P
(con il peptidil-tRNA). Il legame tra il nuovo amminoacido e la catena polipeptidica
nascente prevede quindi un attacco nucleofilo del gruppo amminico del nostro amminoacido
attaccato al tRNA dell’amminoacil-tRNA sul gruppo carbonilico dell’amminoacido legato al
tRNA del peptidil-tRNA (sintesi della proteina dall’ammino-terminale al carbossiterminale). È da notare che, nel momento in cui questo gruppo amminico colpisce questo
gruppo carbonilico all’estremità carbossi-terminale appunto, vediamo che il legame tra la
catena polipeptidica
nascente e il tRNA viene
rotto à questo legame
tra il tRNA e la catena
polipeptica o
l’amminoacido è un
legame acilico e, quindi,
ad alta energia; perciò, la
formazione del legame
peptidico è sostenuta
dalla rottura di questo
legame acilico (nel sito
P). Il risultato è che la catena polipetidica nascente viene praticamente ad addizionarsi
sull’amminoacil-tRNA e perciò sul nuovo amminoacido; quindi, come già detto, i legami
peptidici si formano attraverso un trasferimento della catena polipetidica nascente da un
tRNA all’altro e, in particolare, dal peptidil-tRNA all’amminoacil-tRNA in entrata.
La fase successiva, poi, sarà quella in cui questo peptidil-tRNA con addizionato il nuovo
amminoacido si sposta dal sito A al sito P, mentre il tRNA scarico (quello che prima si
trovava nel sito P) viene forzato e spostato nel sito E, dal quale uscirà.
Questa procedura avviene man mano che il ribosoma si sposta lungo l’mRNA di codone in
codone.
Inoltre, perché si possa realizzare questo tipo di reazione, è importante che le estremità 3’ di
questi due tRNA siano vicine, quindi, che siano avvicinate nel ribosoma e siano posizionate
a livello del centro peptidil-transferasico (dove viene catalizzata la formazione di questo
legame peptidico)
•
Il ribosoma catalizza solo la formazione del legame peptidico e, in particolare, la
componente che catalizza questa reazione è la sua componente a rRNA; questa reazione,
infatti, avviene a livello del centro peptidiltransferasico (nella subunità maggiore ed è
avvolto dall’rRNA appunto)
In questa immagine vediamo che i tRNA, per semplicità, vengono indicati con dei numeri (secondo
l’ordine in cui arrivano) à vediamo che il tRNA 3 è associato alla catena polipeptidica, quindi,
rappresenta il nostro peptidiltRNA che è attaccato
all’estremità carbossi-terminale
della catena polipeptidica
nascente. Arriva quindi il
nuovo amminoacil-tRNA,
indicato con il numero 4, con il
tRNA sempre attaccato
all’estremità carbossi-terminale
dell’amminoacido. Avviene
quindi la reazione prima
descritta (dove si idrolizza il
legame acilico ad alta energia e
si forma il nuovo legame
peptidico) e si arriva ad avere, alla fine, un nuovo peptidil-tRNA (il 4) con addizionato il nuovo
amminoacido appunto (questo peptidil-tRNA si andrà poi a spostare, come già detto, nel sito P,
liberando il sito A per poter far avvenire di nuovo questa reazione).
Questa reazione appena vista ci fa capire ancora meglio come mai il ribosoma ha questi famosi 3
siti à la reazione peptidiltransferasica
richiede che il ribosoma abbia per
l’appunto 3 siti e, in particolare, questi
3 siti mi permettono di legare nel
ribosoma, in contemporanea, i due
attori, cioè i due tRNA.
Successivamente, poi, abbiamo detto
che il tRNA scarico verrà posizionato
nel sito E, dove viene rilasciato il
tRNA in seguito al trasferimento della
catena polipeptidica nascente al nostro
amminoacil-tRNA.
Inizio della traduzione in procarioti ed eucarioti
Schema riassuntivo degli eventi dell’inizio della traduzione
Sia nei procarioti che negli eucarioti abbiamo che perché
l’inizio della traduzione avvenga ha necessità di tre eventi
principali, schematizzati nell’immagine.
Innanzitutto, per iniziare la traduzione, ho bisogno di diversi
attori à ho bisogno dell’mRNA, del ribosoma (dissociato in
subunità minore e maggiore, non ho bisogno del ribosoma già
completo ma che le due subunità siano dissociate), del tRNA
iniziatore legato all’amminoacido che viene specificato
solitamente dall’AUG d’inizio, che è la metionina.
Quali sono però questi 3 eventi che si devono verificare per
avere l’inizio della traduzione?
• Innanzitutto, si ha l’associazione della subunità
minore sull’mRNA, che è il primo step
• Poi occorre che un tRNA carico, il cosiddetto tRNA
iniziatore, deve essere posizionato nel sito P del
ribosoma, dove troverà l’AUG di inizio a cui si
legherà
• Successivamente, il ribosoma deve posizionarsi
esattamente sul codone d’inizio ed associarsi con la
subunità maggiore, completando la struttura del
ribosoma
NB: l’esatto posizionamento del ribosoma sul codone d’inizio
(è fondamentale che l’AUG di inizio venga a trovarsi nel sito P del ribosoma) è cruciale poiché
fissa la fase di lettura per la traduzione dell’mRNA o meglio della sua ORF
Questi 3 eventi avvengono sia nei procarioti che negli eucarioti, ma attraverso l’intervento di
proteine che supportano e anche meccanismi specifici che differiscono tra i due.
Inizio della traduzione nei procarioti
Interazione rRNA 16S con RBS per posizionare l’AUG nel sito P
Come abbiamo detto, l’inizio della traduzione, anche nei procarioti, prevede inizialmente il
reclutamento della subunità minore sull’mRNA à questo avviene attraverso una sequenza, di cui
abbiamo già parlato, che si chiama RBS,
o sito di legame per il ribosoma, che
troviamo sull’mRNA dei procarioti.
Quindi, nell’mRNA dei procarioti, esiste
a circa 3-9 nucleotidi a monte dell’AUG
di inizio una sequenza conservata
(AGGAG) chiamata sequenza RBS (o
anche sequenza di Shine-Dalgarno).
Questa sequenza è molto importante
perché viene ad appaiarsi con la subunità
minore del ribosoma e, in particolare,
attraverso l’rRNA 16S, il quale viene ad
appaiarsi (tramite appaiamenti di Watson
e Crick) con questo sito sull’mRNA.
È da notare che abbiamo diversi mRNA che non hanno una spaziatura adeguata (perché ricordiamo
che per avere un corretto posizionamento del ribosoma sull’mRNA è necessario che questo sito di
legame per il ribosoma si trovi 3-9 nucleotidi a monte dell’AUG di inizio) e che quindi producono
un rallentamento nel processo di traduzione oppure, addirittura, ci sono degli mRNA procariotici
privi di questo RBS e quindi vengono a reclutare il ribosoma con altri meccanismi; però, comunque,
il meccanismo d’inizio della traduzione più frequente nei procarioti è quello con RBS.
Questo appaiamento tra la sequenza RBS e l’rRNA 16S è molto importante sia per reclutare e
portare il ribosoma sull’mRNA, ma anche per posizionare correttamente l’AUG di inizio, perché
vediamo che, attraverso questa interazione, l’AUG di inizio si trova nel sito P à quindi ci permette
di allineare il ribosoma sull’AUG di inizio in maniera corretta per dare poi avvio alla traduzione.
Il primo amminoacil-tRNA deve entrare nel sito P
L’inizio della traduzione è l’unico momento in cui un amminoacil-tRNA (tRNA iniziatore carico)
entra direttamente nel sito P senza passare dal sito A.
tRNA iniziatore carico = un tRNA caricato con una
metionina modificata (fMet à una metionina che
vede addizionata alla sua estremità N-terminale un
gruppo formilico) e si lega direttamente alla
subunità minore del ribosoma procariotico
mediante la regione del sito P à questo tRNA si
associa all’AUG, che è il codone di inizio più
frequente, sia nei procarioti che negli eucarioti (nei
procarioti possiamo avere molto spesso anche GUG, che però specifica per la valina; negli eucarioti
si ha invece solo AUG come codone d’inizio).
Quindi, il tRNA iniziatore viene caricato/addizionato inizialmente con la metionina e poi un altro
enzima, che si chiama metionina-tRNA-transformilasi, aggiunge all’estremità N-terminale della
metionina questo gruppo formilico. Questo tRNA iniziatore verrà poi ad essere addizionato come
primo amminoacido nella traduzione.
C’è però da aggiungere che l’estremità ammino-terminale della mia catena polipeptidica non inizia
con questo amminoacido modificato, perché successivamente la porzione ammino-terminale delle
proteine procariotiche vene modificata à infatti, il gruppo formilico viene proprio rimosso da una
deformilasi, la quale ripristina la metionina iniziale appunto. Questo avviene durante o dopo la
sintesi della catena polipeptidica.
Tra l’altro, ci sono diverse proteine nei procarioti che non iniziano con la metionina, ma, addirittura,
intervengono degli altri enzimi, delle peptidasi, che rimuovono la metionina e in più 1 o 2
amminoacidi diversi.
INIZIO DELLA TRADUZIONE NEI PROCARIOTI
L’inizio della traduzione nei procarioti comincia dalla subunità minore del ribosoma ed è catalizzata
nei suoi step chiave da 3 fattori di inizio della traduzione che vengono ad essere specifici per i
procarioti e che vengono indicati con l’acronimo “IF” (come riportato in tabella, proprio perché
sono dei fattori coinvolti nell’inizio della traduzione).
I tre fattori sono IF-1 IF-2 IF-3.
(Si ricorda che le GTPasi sono enzimi in grado di legare e idrolizzare il GTP)
Per iniziare un nuovo ciclo di traduzione le subunità maggiore e minore devono rimanere dissociate
e questa dissociazione è assicurata grazie al legame di IF-3 alla subunità 30S.
FORMAZIONE DEL COMPLESSO DI INIZIO DEI PROCARIOTI
In questa immagine viene indicato come si forma il complesso di inizio dei procarioti.
TAPPA 1: Tutto parte dalla subunità minore 30S, che deve rimanere dissociata dalla subunità
maggiore 50S.
In particolare, la subunità 30S viene riconosciuta da IF-3 e IF1, che si lega al sito A. Questo legame
è particolarmente importante perché in questo modo la subunità non va ad associarsi alla subunità
maggiore per la presenza di IF3 nel sito E ed il tRNA iniziatore non entra nel sito A, perché è
impegnato nel legame con IF1.
In questa prima tappa quello che avviene è un legame
della subunità ribosomiale 30S a questi primi fattori di
inizio.
Nella fase successiva si lega mRNA, che viene
posizionato a livello del sito P, grazie al fatto che è
presente sull’mRNA la sequenza di Shine Dalgarno o
sequenza RBS, che va a interagire con rRNA 16S, una
delle componenti del ribosoma. Questa interazione tra
basi complementari consente all’mRNA di posizionare
correttamente l’AUG di inizio nel sito P, quindi,
allinea correttamente il ribosoma sull’AUG di inizio,
consentendo di creare quella cornice di lettura utile per
leggere l’ORF correttamente.
Quindi, la sequenza di Shine Dalgarno viene legata al
ribosoma grazie ad un appaiamento con le basi del
rRNA 16S, che si trovano sull’estremità 3’ del rRNA stesso. Questa interazione permette di fare
interagire l’mRNA con il ribosoma e di posizionare e immobilizzare l’AUG nel sito P, quindi di
creare una condizione ottimale per iniziare la traduzione.
TAPPA 2: il secondo step è l’arrivo del tRNA. In
questo caso l’inizio della traduzione è l’unico
momento in cui il tRNA carico entra direttamente
nel sito P, senza passare per A perché il sito A è
occupato da IF1. Questo ha una logica, perché
l’AUG di inizio è posizionato a livello del sito P,
quindi, va da sé che il tRNA iniziatore deve essere
direzionato sull’AUG, che si trova nel sito P. In
questa seconda tappa, a questo complesso costituito
dall’mRNA, dalla subunità minore e da IF1 e IF3
arriva il tRNA carico, con la metionina formilata. Il
tRNA è accompagnato e diretto al sito P dal fattore IF2, che è legato al GTP.
Il complesso va ad addizionare il tRNA, che entra nel sito P e si appaia con il suo anticodone
all’AUG di inizio.
TAPPA 3: questo complesso viene a combinarsi con la subunità maggiore 50S e simultaneamente
IF2 idrolizza il GTP. Nella subunità maggiore esiste un sito di legame per IF2, che va a stimolare
l’attività GTPasica e quando IF2 idrolizza il GTP non ha più affinità per il
complesso e si dissocia.
Quindi l’entrata della subunità ribosomiale 50S, che si lega al complesso,
porta simultaneamente la molecola di GTP, che è legata a IF2, a venire
idrolizzata a GDP, dove a questo punto vengono rilasciati. Entra la
subunità 50S e esce IF2, che ha idrolizzato GTP. Questo perché IF2,
interagendo con la subunità 50S, viene ad essere stimolata la sua attività
GTPasica, quindi idrolizza il GTP, ma IF2- GDP non ha più affinità per il
ribosoma e si dissocia.
A questo punto vengono rilasciati gli altri fattori, quali IF3 e IF1,
consentendo quindi di formare il complesso di inizio totale, formato dalla
subunità 50S, dalla subunità 30S, dall’mRNA e dal tRNA iniziatore
appaiato con l’anticodone al codone AUG di inizio nel sito P.
Il complesso totale che si forma è un ribosoma 70S e il tutto, quello
appena descritto, viene chiamato complesso di inizio. Questo complesso è
pronto per intraprendere la fase di allungamento.
Riepilogando, la subunità 30S si lega ai fattori IF1 e IF3. IF1 occupa il sito A e impedisce al tRNA
iniziatore di entrare in questo sito e IF3 si lega al sito E, impedendo alla subunità maggiore di
legarsi con quella minore in queste primissime fasi dell'inizio della traduzione.
A questo punto arriva l’mRNA, che viene correttamente posizionato sul ribosoma, o meglio sulla
subunità minore, attraverso il posizionamento dell’AUG di inizio, nel sito P, mediante
un'interazione della sequenza di Shine Dalgarno a monte dell’AUG di inizio dell’mRNA con
l’estremità 3’ del rRNA 16S. L’appaiamento tra basi permette all’mRNA di andare ad ancorarsi e
posizionarsi con la sua AUG a livello del sito P. A seguire arriva il tRNA iniziatore carico con la
metionina formilata, associata al fattore IF2, legato al GTP.
Questo complesso è pronto a reclutare la subunità 50S, dove l’arrivo della subunità 50S porta al
rilascio degli altri fattori, quindi IF1e IF3, consentendo alla subunità maggiore di associarsi alla
subunità minore. L’arrivo della subunità 50S promuove l’attività GTPasica di IF2, che idrolizza il
GTP a GDP, ma legando il GDP non ha più affinità per il ribosoma e quindi si dissocia insieme agli
altri fattori. Quello che rimane è il complesso di inizio, costituito dalla subunità maggiore 50S con
la subunità minore 30S, con l’mRNA posizionato nel sito P mediante l’AUG di inizio e il tRNA
iniziatore associato alla metionina formilata.
Il complesso di inizio è ora pronto per iniziare la fase di allungamento.
INIZIO DELLA TRADUZIONE NEGLI EUCARIOTI
Negli eucarioti i fattori proteici che servono per avviare l’inizio della traduzione sono molti di più.
Le cellule eucariotiche hanno almeno 12 fattori di inizio, che catalizzano e supportano i diversi step
della traduzione.
Quindi, la prima differenza tra eucarioti e procarioti è che negli eucarioti l’inizio della traduzione
richiede un numero maggiore di fattori proteici.
Un’altra differenza è che nell’inizio della traduzione degli eucarioti il legame del tRNA iniziatore
alla subunità minore precede sempre il legame all’mRNA. Mentre prima è stato visto che la
subunità minore prima si associa all’mRNA e poi arriva il tRNA iniziatore. In certi testi viene
riportato che nei procarioti può essere anche l’inverso, quindi, che alla subunità minore si associa
prima il tRNA iniziatore e poi l’mRNA.
Nei procarioti l’ordine di chi arriva prima, se il tRNA iniziatore o l’mRNA, al ribosoma non è
rilevante, mentre è molto importante questo aspetto negli eucarioti, dove il tRNA iniziatore si lega
alla subunità minore sempre prima del legame con l’mRNA.
I fattori proteici utili per l'inizio della traduzione degli eucarioti vengono sempre riportati con il
nome IF e con un numero, ma per distinguerli da quelli procariotici vengono indicati con la lettera
“e”. Quindi eIF sta a indicare fattori che agiscono a livello degli eucarioti.
Negli eucarioti le principali differenze sono:
● Si hanno più fattori utili per l’inizio della traduzione, che vengono indicati con l’acronimo
IF, preceduti dalla lettera “e”
● Il legame del tRNA iniziatore alla subunità minore precede SEMPRE il legame con
l’mRNA
L’immagine descrive l’inizio della traduzione negli eucarioti. I diversi step, per aiutarci, sono
indicati con i numeri.
TAPPA 1: I fattori eIF1 e eIF1A si legano alla subunità minore, che anche in
questo caso deve essere dissociata dalla subunità maggiore. eIF1 si associa al
sito E, impedendo così alla subunità maggiore di associarsi e invece eIF1A al
sito A, impedendo al tRNA iniziatore di entrare in questa posizione. Questi
due fattori sono degli omologhi funzionali, quindi hanno la stessa funzione
dei fattori IF1 e IF3 batterici. Dal punto di vista funzionale eIF1 corrisponde a
IF3 e eIF1A a IF1.
eIF3, poi, è un fattore che si lega alla subunità minore e serve a stabilizzare
tutta la struttura.
TAPPA 2: A questo punto il tRNA iniziatore
carico va a essere associato all’eIF2-GTP e
viene scortato da eIF2-GTP al sito P. In questo
complesso si legano alla subunità 40S anche
altre due proteine, ovvero eIF5B-GTP (è una
GTPasi) e eIF5, che però non è riportata
nell’immagine.
Tutto questo pool di proteine, ribosoma e tRNA
viene chiamato complesso di preinizio 43S.
Ricapitolando, nella prima fase alla subunità minore si legano i due corrispondenti funzionali di IF1
e IF3 dei procarioti. A questo punto viene reclutato il tRNA iniziatore associato con la metionina,
che non viene formilata come nei procarioti. Per arrivarci viene scortato dalla GTPasi, che è la IF2GTP procariotica. A completare il tutto intervengono anche altre due proteine, che saranno utili
nelle tappe successive, che sono eIF5B-GTP e eIF5.
TAPPA 3: una volta che si è formato il complesso di preinizio 43S,
questo poi è pronto per reclutare l’mRNA, che però arriva “non
nudo” in quanto è associato al suo CAP con un complesso che si
chiama eIF4F. Questi due attori, ovvero il complesso di preinizio e
l’mRNA associato al complesso eIF4F, formano il complesso 48S.
Da notare che per formare il complesso 48S, l’mRNA si prepara
per il legame con la la subunità minore attraverso il legame con il
complesso.
Il complesso è costituito da 3 componenti, che si chiamano eIF4E,
eIF4A e eIF4G:
● eIF4E è deputata a legare il CAP al 5’, quindi riconosce il
CAP al 5’
● eIF4A è molto importante perché ha un’attività ATPasica ed è una elicasi, infatti provvede,
consumando ATP, a far sì che l’mRNA sia a singolo filamento, quindi rimuove le eventuali
strutture secondarie.
● eIF4G è una proteina che fa da ponte tra la 4A e la E
La struttura di questo complesso è formata come si vede in
figura:
Al 5’ vi è la componente eIF4E che è legata al CAP, poi la
eIF4A, con funzione elicasica, che rimuove le strutture
secondarie al livello del CAP e poi vi è la eIF4G che fa da
ponte tra le due proteine.
TAPPA 4: il complesso scansiona l’mRNA legato,
tenendolo continuamente legato come se fosse una mano
che afferra l’estremità 5’ e inizia a scansionare, come se
tirasse dentro di sé per la lettura a livello del sito P
l’mRNA. Scansiona l’mRNA legato, partendo dal CAP in
5’ fino a che non va a incontrare l’AUG di inizio. Questo
processo di scansione è favorito dall’azione della
componente 4A del complesso eIF4F. La componente 4A
ha un'attività RNA-elicasica e quindi aiuta la scansione,
rimuovendo le strutture secondarie che ci possono essere a livello dell'RNA.
TAPPA 5: Una volta che viene incontrato l’AUG di inizio, la subunità
ribosomiale 60S, quindi quella maggiore, si associa al complesso e la
sua associazione è accompagnata dal rilascio di alcuni fattori di inizio
e infatti tutto questo è coadiuvato dai fattori eIF5B e dal fattore eIF5.
Il rilascio dei fattori di inizio prevede che eIF5 vada a stimolare
l’attività GTPasica di eIF2, quindi, l’attività viene stimolata e si
produce un eIF2-GDP, che ha una ridotta affinità per l’iniziatore e
quindi viene rilasciato. La proteina eIF5B idrolizza il GTP, che è a lei
legato e promuove il rilascio di eIF2-GDP e di tutti gli altri fattori di
inizio, quindi eIF1, eIF1A, eIF3 e la stessa eIF5B-GDP.
In generale questi fattori, quando idrolizzano il GTP a GDP diventano
poco affini per la struttura che legano e si dissociano.
In seguito al rilascio di questi fattori, avviene il legame con la
subunità maggiore e si ottiene il ribosoma completo 80S, che ha,
come nei procarioti, l’mRNA posizionato con l’AUG di inizio nel sito
P, con legato il tRNA iniziatore associato alla metionina e l’mRNA
rimane al 5’ legato al complesso eIF4F, che è importante che rimanga legato all’mRNA stesso.
Riepilogando: questo processo comincia con la subunità 40S, che si lega ai fattori eIF1 e eIF1A,
rispettivamente nel sito E, impedendo il legame con la subunità maggiore, e nel sito A, impedendo
l’entrata del tRNA iniziatore nel sito A. eIF3 ha una funzione stabilizzatrice.
A questo punto entra nel sito P il tRNA iniziatore scortato dal fattore eIF2-GTP, che si inserisce nel
sito P. A completare il complesso del preinizio 43S si ha il reclutamento di altri due fattori eIF5
(non riportato nel disegno) e eIF5B-GTP. Questi due fattori saranno utili nelle tappe successive.
Nel complesso del preinizio, si associa l’mRNA, che arriva ad associarsi a questo complesso non da
solo ma associato alla sua estremità 5’ con un complesso proteico che viene chiamato eIF4F, che è
costituito da 3 componenti, ovvero la componente 4E, devota a legare il CAP 5’, la componente 4A,
che ha un'attività RNA elicasica ATP dipendente e una proteina di collegamento tra queste due, che
è la 4G.
L’entrata dell’mRNA associato a questo complesso crea in totale il complesso 48S, che inizia il
processo di scansione, che tra l’altro è favorito dalla componente 4A, che rimuove le strutture
secondarie e quindi in questo processo di scansione l’mRNA legato viene scansionato alla ricerca
dell’AUG di inizio. Quando l’AUG di inizio arriva nel sito P e si associa al tRNA con il suo codone
si ha che la subunità ribosomiale 60S può entrare nel complesso, ma questo è accompagnato dal
rilascio di diversi fattori che si trovano alla tappa 5. Questo rilascio è coadiuvato dai fattori eIF5 e
eIF5B, in particolare eIF5 stimola l’attività GTPasica di eIF2, che diventa eIF2-GDP che ha una
ridotta affinità per il tRNA iniziatore. La proteina eIF5B GTP idrolizza anche lei il GTP che lega,
promuovendo il rilascio di eIF2-GDP e di altri fattori, quali eIF1, eIF1A, eIF3 e di lei stessa, che
non ha affinità per il complesso, avendo idrolizzato il GTP a GDP. Tutti questi fattori escono ed
entra la subunità maggiore, in quanto il sito E è libero.
Si crea così il complesso di inizio, che è pronto per la fase di allungamento.
Il complesso di inizio è costituito:
● dal ribosoma completo 80S
● dal tRNA iniziatore associato alla metionina legato all’AUG di inizio, a livello del sito P
● dall’mRNA che ha ancora ancorato al 5’ il complesso eIF4F
E’ importante che rimanga legato il
complesso eIF4F a livello del CAP 5’
perché permette all’mRNA eucariotico di
creare una struttura circolare dell’mRNA.
La struttura circolare è importante perché
promuove e facilita l’inizio della
traduzione da parte dei ribosomi. Il
complesso eIF4F è costituito dalle 3
componenti EGA. eIF4G, che è la
proteina di collegamento, non ha solo la
funzione di collegare E con A, ma
interagisce con la coda poliA e con le
proteine legate alla coda poliA, creando un mRNA circolare. Questo è molto importante perché
quando un ribosoma termina di tradurre la ORF, quindi arriva sul codone di stop, la subunità
maggiore e minore si dissociano e, grazie alla circolarizzazione, hanno già vicino l’estremità 5. La
subunità minore può essere prontamente reclutata per formare il complesso di pre-inizio e associarsi
all’estremità 5’ dell’mRNA.
La circolarizzazione ha la funzione che terminando la traduzione al 3’ dell’mRNA, i ribosomi
vengono rilasciati immediatamente in prossimità delle estremità 5’ del messaggero e quindi
vengono subito reclutati per un nuovo ciclo di traduzione.
In altre parole, la circolarizzazione è fondamentale perché in questo modo, attraverso questa
struttura, facilmente i ribosomi vengono rilasciati e reclutati dai fattori di inizio e dalle proteine,
così che poi vengano recuperati a livello dell'mRNA al suo 5’ per iniziare un nuovo ciclo di
traduzione.
FASE DI ALLUNGAMENTO
La fase di allungamento è pressoché identica nei procarioti e negli eucarioti.
La fase di allungamento è costituita da 3 tappe, qui riportate in tabella:
● La prima tappa consiste nel caricamento dell’amminoacil tRNA al sito A.
● La seconda tappa è la formazione del legame peptidico tra l’aa portato dall’amminoacil
tRNA al sito A e la catena polipeptidica che si trova associata al tRNA nel sito P
● La terza tappa consiste nella traslocazione, ovvero nel fatto che il ribosoma si sposta per una
lunghezza pari a 1 codone verso l’estremità 3’ dell’mRNA. Quindi shifta, si sposta di una
tripletta per leggere un nuovo codone, andando a dirigersi verso l’estremità 3’ dell’mRNA
stesso.
Per fare queste tre tappe ci sono degli aiutanti:
Per la prima e la terza tappa ci sono dei fattori di allungamento, che vanno a coadiuvare e
supportare il caricamento dell’amminoacil tRNA al sito A o la traslocazione.
In particolare, questi fattori sono chiamati fattori di allungamento, in modo da distinguerli da quelli
che invece lavorano nella fase iniziale della traduzione. Vengono chiamati EF (E = Elongation) e
questo ci aiuta a distinguerli dagli IF.
I fattori sono per i procarioti le EF-TU, che si occupano della prima tappa e le EF-G che
intervengono nella terza tappa.
Negli eucarioti ci sono gli analoghi funzionali, che si chiamano rispettivamente: eEF1 e eEF2. La
“e” indica che questi fattori sono i fattori corrispondenti a quelli procariotici però a livello
eucariotico.
Tutti questi fattori di allungamento sono in grado di legare il GTP, infatti, sono delle GTPasi e
anche in questo caso la loro attività GTPasica viene attivata dall’interazione di questi fattori con un
sito di legame specifico con la subunità maggiore e a seguito di questa attività vanno a legare il
GTP idrolizzato, quindi il GDP. Quando questi fattori hanno idrolizzato il GTP a GDP vanno a
ridurre la loro affinità per le molecole e per la stessa subunità maggiore a cui sono associati o con la
quale hanno interagito. Il meccanismo è analogo alle altre GTPasi, viste nella fase di inizio della
traduzione.
TAPPA 1: Caricamento dell’amminoacil tRNA al sito A
a) Si è formato il complesso di inizio (nella slide è spiegata la tappa nei procarioti ma negli
eucarioti la situazione è analoga, ma al posto di avere il
fattore EF-TU si avrebbe il fattore eEF1).
Il complesso di inizio è costituito dalla subunità maggiore
(nei procarioti è la 50S) e la subunità minore 30S, che
sono associati all’mRNA, con il codone di inizio AUG,
posizionato nel sito P e riconosciuto dal tRNA iniziatore
carico con la formilmetionina. Nel sito A è già stato
posizionato il codone successivo che deve essere letto dal
nuovo amminoacil tRNA.
La tappa successiva è l’entrata nel sito A dell’amminoacil
tRNA.
L’amminoacil tRNA arriva al sito A non da solo, ma scortato dal fattore di allungamento
EF-TU.
b) Per leggere la parte in B il punto di partenza è
quando TU-GTP lega l’amminoacil tRNA. L’aa
legato a questo secondo tRNA è indicato con AA
II proprio perché è il secondo aminoacido ad
essere addizionato. Il fattore di allungamento TU
legato al GTP lega l'amminoacil tRNA, che deve
entrare nel sito A e quindi si portano insieme nel
sito A.
Nel sito A il TU-GTP interagisce con la subunità
maggiore, in un sito specifico per questi fattori,
che stimolano la loro attività GTPasica e quindi il
TU, entrando, va a interagire con questo sito, la
sua attività GTPasica viene attivata e il GTP
viene idrolizzato a GDP.
Il TU-GDP non è più affine al tRNA e alla
subunità maggiore e viene rilasciato.
Contemporaneamente il tRNA che è entrato, oltre a legarsi, con il suo anticodone, con il
codone che si trova nel sito A, va a spostarsi e avvicinarsi a livello della formilmetionina,
quindi, si posiziona a livello del centro peptidil transferasico e in questo modo i due aa sono
vicini, così che sono pronti per la seconda tappa dell’allungamento, ovvero la formazione
del legame peptidico.
Quando entra l'amminoacil tRNA scortato da TU-GTP, da una parte il TU-GTP interagisce
con il sito di legame nella subunità maggiore a lui dedicato e viene stimolata la sua attività
GTPasica, perciò idrolizza il GTP a GDP. Ma il TU-GDP non ha più affinità né per il tRNA,
né per la subunità maggiore e per questo viene rilasciato.
Nel frattempo, il tRNA caricato si appaia con il suo anticodone con il codone posizionato
nel sito A e la sua estremità 3’, recante l’aa da aggiungere, va a spostarsi e ad avvicinarsi al
centro peptidil transferasico e all’altra estremità 3’ del tRNA iniziatore, in modo tale che
tutto sia pronto per far avvenire la formazione del legame peptidico tra la formilmetionina e
il secondo aa appena portato.
Il TU-GDP che è stato rilasciato per poter essere riutilizzato nella sua forma TU-GTP, in
modo tale che possa legare un altro aminoacil tRNA, deve riassociarsi al GTP. Non riesce a
farlo da solo ma ha bisogno di una moneta di scambio. Questa moneta di scambio è un altro
fattore, TS, il quale scambia il GDP con sé stesso al legame con il TU.
In altre parole, il TU-GDP interagisce con il TS, andando a rilasciare il GDP. Si forma
quindi questo complesso proteico tra il TU e il TS. Successivamente il TS è ancora la
moneta di scambio e questa volta con la molecola di GTP, infatti, arriva GTP che scalza TS
e si associa al TU, ricreando TU-GTP che può essere riutilizzato per un terzo amminoacil
tRNA entrante e ricominciare il ciclo.
Il TS viene ad essere una moneta di scambio tra il legame del TU con il GTP e con il GDP,
in particolare il TS all’inizio serve prima per rilasciare il GDP dal TU e successivamente per
far acquisire al TU il GTP al suo posto.
Alla fine di questa prima tappa si ha che nel sito A vi è il nuovo aminoacil tRNA entrante
già posizionato con l’aa nel centro peptidil transferasico e vicino al tRNA iniziatore con la
formilmetionina.
TAPPA 2: formazione del legame peptidico
(ora viene descritta la formazione del primo legame peptidico e tale reazione descritta si ripete per
tutti gli aa successivi che devono essere addizionati alla catena polipeptidica che si sta posizionando
via via che il ribosoma si sposta sui diversi codoni della ORF sull’mRNA)
Nel ribosoma nel sito P vi è il tRNA iniziatore mentre nel sito A vi è il secondo aa da legare.
Nell’immagine è ingrandita una regione che corrisponde al centro peptidil transferasico:
in viola sono raffigurate le estremità 3’ del tRNA iniziatore e dell'amminoacil tRNA appena
caricato nel sito A.
Nella formazione del legame peptidico il gruppo amminico va a fare un attacco nucleofilo sul
gruppo carbonilico dell’aa formilmetionina. Questo determina la rottura del legame acilico tra la
formilmetionina e l’estremità 3’ del tRNA iniziatore. Il risultato è che il tRNA che si trova nel sito
P si è scaricato, perché la formilmetionina è stata legata al secondo aa.
Si è formato quindi il legame peptidico e, nel momento in cui si forma il legame peptidico, le
estremità 3’ dei due tRNA, presenti nel sito A e nel sito P, vanno a spostarsi verso i siti dove il
tRNA deve andare. L’estremità del tRNA iniziatore scarico, in quanto si è formato il legame
peptidico, va già a spostarsi verso il sito E, mentre l’estremità 3’ del tRNA che ha addizionato l’aa
iniziale con il secondo aa è spostata verso il sito P.
Una volta che si è formato il legame le estremità 3’ già si distribuiscono verso i siti P ed E dove il
tRNA in toto dovrà spostarsi nella tappa successiva. Gli anticodoni rimango ancora in questa fase di
formazione del legame peptidico nel sito P e nel sito A rispettivamente.
TAPPA 3: Traslocazione
In questa fase il ribosoma si sposta per una lunghezza corrispondente
a una tripletta o codone dell’mRNA. Lo fa attraverso una modifica
conformazionale all’interno del ribosoma stesso. Anche in questo
caso si è formato il legame peptidico, quindi la catena peptidica
rimane attaccata al tRNA dell’ultimo aa che è stato inserito e le
estremità 3’ di questi tRNA posizionati nel sito P e nel sito A sono
già spostate verso il sito di legame successivo. L’estremità 3’ del
tRNA nel sito P si trova verso il sito E, mentre l’estremità 3’ del
tRNA nel sito A è spostata verso il sito P.
Occorre che il ribosoma si sposti in toto sul nuovo codone e quindi
che nel sito A arrivi un nuovo codone da leggere. Questo prevede una
modifica conformazionale all’interno del ribosoma, che aiuta lo
spostamento ma anche i tRNA si devono spostare. Per aiutare questa
traslocazione vi è una nuova GTPasi, che si chiama EF-G nei
procarioti, mentre negli eucarioti si chiama eEF2 (il meccanismo tra
le due è identico).
EF-G promuove la traslocazione andando a portarsi nel sito A, quindi
EF-G-GTP entra nel sito A e come si vede dalle frecce forza lo
spostamento e la traslocazione dei tRNA nei siti adiacenti. In
particolare, il tRNA con il peptide dal sito A passa al sito P, perché al
suo posto è entrato EF-G-GTP e il tRNA scarico nel sito P si porta
nel sito E.
Quindi l’entrata delle EF-G-GTP promuove la traslocazione dei diversi tRNA, in particolare il neo
peptidil tRNA dal sito A si porta al sito P e il tRNA scarico passa dal sito P al sito E.
Questa traslocazione prevede che i tRNA mentre traslocano si portino dietro anche l’mRNA perché
rimangono in questa traslocazione associati con il loro anticodone al codone corrispondente. Infatti,
se si confrontano le due immagini, l’AUG di inizio che si trova nel sito P si porta nel sito E e il
codone che era stato letto nel sito A si porta nel sito P.
EF-G-GTP si va ad inserire nel sito A perché ha un mimetismo
molecolare.
Nel box, se si vanno a confrontare le EF-G con le EF-TU
(fattore che va a scortare l’amminoacil tRNA nel sito A), si vede
proprio come hanno la stessa struttura molecolare e questa
familiarità prende il nome di mimetismo molecolare.
EF-G-GTP entra nel sito A perché viene scambiato come una
EF-TU associata a un tRNA proprio grazie a questo motivo,
promuovendo la traslocazione.
Quando EF-G-GTP entra nel sito A interagisce con il sito di
legame specifico per le GTPasi. Il GTP viene idrolizzato e EF-GGDP in questa forma non ha più affinità per il ribosoma e si
dissocia.
Il risultato è che nel sito A vi è un nuovo codone da leggere e
quindi quello che accadrà è che le tre tappe si ripetono tante volte
per ogni codone su cui il ribosoma si viene a spostare fino alla
fine dell’ORF stessa.
Il risultato finale è che dopo la traslocazione, il peptidil-tRNA e
mRNA sono ancora legati al ribosoma ed è tutto pronto per un
altro ciclo di allungamento, che porterà il terzo aa seguendo le tre
tappe.
Queste 3 tappe dell’allungamento si ripetono n volte per ciascun
codone che viene letto sull’mRNA.
La catena polipeptidica rimane sempre attaccata al tRNA
dell’ultimo aa che è stato inserito, quindi questo è un requisito
che avviene ogni volta che la catena polipeptidica sia bene
addizionata di un nuovo aa.
Il ciclo di allungamento negli eucarioti è molto simile anche nei procarioti, con l’unica differenza
che cambiano i nomi dei fattori, ma il processo è identico.
TERMINAZIONE DELLA TRADUZIONE E
RICICLO DEL RIBOSOMA
Nell’immagine più avanti viene riportato un riassunto in procarioti ed eucarioti.
Anche in questo caso, come per la fase di allungamento, la terminazione della traduzione avviene
con modalità analoghe, cambiano solo i fattori che vengono coinvolti.
In particolare, l'allungamento da parte del ribosoma prosegue fino a quando il ribosoma non
raggiunge l’ultimo aa codificato dall’mRNA.
Il segnale di terminazione è dato quando uno dei tre codoni di terminazione dell’mRNA vanno a
finire nel sito A.
(l’immagine si riferisce ai procarioti ma vale la stessa cosa per gli eucarioti)
Nell’immagine si vede la subunità maggiore, la subunità minore,
l’mRNA in verde; nel sito P vi è la catena polipeptidica che si sta
allungando e nel sito A arriva un codone di terminazione a cui non
corrisponde alcun tRNA. Quando il segnale della sintesi proteica o
traduzione è terminata si hanno questi codoni di terminazione o di stop e
nel momento in cui questi vengono ad essere posizionati nel sito A,
questo rappresenta il segnale della terminazione della sintesi proteica. In
particolare, i codoni di terminazione sia per i procarioti che per gli
eucarioti sono 3:
UAA, UAG e UGA. Nel momento in cui nel sito A si posiziona uno di
questi 3, questo rappresenta il segnale di terminazione della traduzione
stessa. A questi codoni non corrisponde un tRNA ma piuttosto quando il
ribosoma arriva su questi codoni di stop, nel sito A va a legarsi quello
che viene chiamato RF (= fattore di rilascio). Il codone di terminazione
non ha un corrispondente tRNA e quando viene a posizionarsi nel sito A,
questo fa sì che nel sito A venga reclutato un fattore di rilascio, che
viene chiamato RF.
I fattori di rilascio sono per i procarioti 2: RF1, che riconosce i codoni di
terminazione UAG e UAA mentre RF2 riconosce i codoni di
terminazione UGA o UAA.
Negli eucarioti vi è un unico fattore di rilascio, eRF1, che entra in gioco per tutti e 3 i codoni di
terminazione.
La funzione di RF è quella di riconoscere il codone di stop nel sito A e innescare la reazione di
idrolisi, quindi di rilascio, della catena polipeptidica dal tRNA posizionato nel sito P.
I fattori di rilascio sono molto importanti perché sono coloro che si inseriscono nel sito A quando
arriva il codone di stop e una volta legati vengono a favorire l’idrolisi, promuovendo l’azione di una
peptidil transferasi che va a idrolizzare il legame tra il tRNA e la catena polipeptidica
neosintetizzata a livello del sito P.
Quello che avviene è che ci si ritrova nel sito P il tRNA scarico e nel sito A vi è il fattore di rilascio
RF. Nel sito E vi è il tRNA scarico che deve essere rilasciato dal ribosoma.
A questo punto bisogna dissociare i vari componenti. Si ha bisogno di un ulteriore fattore che si
chiama RF3 nei procarioti e eRF3 negli eucarioti. È un fattore che lega il GTP e che è importante
perché ha la funzione di favorire e stimolare la dissociazione dei fattori RF precedenti, quindi, RF1
e RF2 o eRF1 (per gli eucarioti) dal ribosoma dopo che la catena è stata rilasciata. Per farlo lega il
GTP.
I fattori di rilascio sono quindi suddivisi in due classi:
● La prima classe (RF1, RF2, eRF1) è formata dai fattori di rilascio che si inseriscono nel sito
A, riconoscendo il codone di terminazione e promuovendo il rilascio della catena
polipeptidica dal tRNA
● La seconda classe (RF3, eRF3) è formata da quelli che promuovono il rilascio dei fattori
precedenti dopo che la catena polipeptidica è stata rilasciata
I fattori RF, RF1 e RF2, hanno dei domini la cui funzione riproduce quella del tRNA, ovvero
funzionano, come quanto visto per le EF-G, con una capacità di riprodurre la struttura del tRNA.
Quindi lavorano tramite un mimetismo molecolare e in virtù di questo mimetismo, consente agli
RF1-2 di essere scambiati per dei tRNA e per questo motivo di andare nel loro posto nel sito A,
quando in esso vi è un codone di stop.
RF3 interagisce direttamente con il ribosoma e promuove il rilascio degli RF precedenti e nel caso
degli eucarioti eRF3 promuove il rilascio di eRF1. Li fa rilasciare dal sito A grazie alla sua attività
GTPasica.
Il ribosoma però è ancora assemblato con l’mRNA e il tRNA, mentre i fattori RF1-2 sono stati
rilasciati grazie a RF3.
Rimane da dissociare la subunità minore, maggiore e l’mRNA e si ha quindi bisogno di altri fattori:
EF-G-GTP e RRF (= fattore di riciclo del ribosoma). Questi due fattori cooperano insieme per poter
consentire la dissociazione di tutto l’apparato coinvolto nella sintesi proteica che è rimasto, ovvero
la subunità maggiore, la subunità minore, l’mRNA e i tRNA che si trovano nel sito P e nel sito E.
L’obiettivo, quindi, è rilasciare tutti i vari componenti e poterli poi riciclare per un nuovo ciclo di
traduzione.
RRF insieme a EF-G-GTP entrano nel sito A che è stato liberato grazie ai fattori di rilascio e grazie
all’intervento di RF3. Una volta entrati, nella subunità maggiore vi è il sito di legame per i fattori
GTPasici, come EF-G. EF-G interagisce con il sito di legame della subunità maggiore e viene
stimolata la sua attività GTPasica, questo fa sì che EF-G-GTP idrolizzi GTP a GDP promuovendo
in questo modo il rilascio dei tRNA dal sito P e dal sito E e che questi vengano sostituiti da IF3, uno
dei fattori di inizio della traduzione, che quando entra nel sito E permette la dissociazione della
subunità maggiore da quella minore e il rilascio del messaggero.
Riepilogando, il sito A è libero dai fattori di rilascio e viene occupato dai fattori EF-G-GTP e RRF.
Una volta entrate le EF-G-GTP, queste attivano la loro attività GTPasica in virtù dell’interazione
con il legame nella subunità maggiore. Le EF-G-GTP diventano EF-G-GDP e questo promuove il
rilascio sia dei tRNA, che si trovano nel sito E e nel sito P che di sé stesso, perché queste molecole
una volta legate al GDP non sono più affini per il fattore a cui erano legate. EF-G-GDP viene
rilasciato insieme a RRF e promuovono il rilascio dei tRNA, che vengono sostituiti, in particolare
nel sito E, da IF3. IF3 promuove la dissociazione della subunità maggiore 50S dalla subunità
minore 30S, oltre a consentire il rilascio dell’mRNA.
Tutti i vari attori sono dissociati ed è possibile quindi ricominciare un nuovo ciclo di traduzione.
Ricapitolando tutto: il ribosoma arriva sul codone di STOP, a questo codone di STOP sul sito A non
corrisponde alcun tRNA carico e quindi al suo posto lega un fattore di rilascio, chiamato RF, che
può essere di un numero diverso in base al fatto se si è nei procarioti o eucarioti.
Il fattore di rilascio, che agisce con un mimetismo molecolare con una struttura simile a quella del
tRNA, entra nel sito A e va a promuovere il rilascio della catena polipeptidica dal tRNA. A questo
punto il fattore che entra nel sito A viene rimosso e la sua dissociazione è stimolata da un fattore
RF3-GTP, che interagisce con il ribosoma, con il sito di legame nella subunità maggiore, idrolizza il
GTP a GDP e promuove il rilascio del fattore RF precedentemente legato al sito P e di sé stesso. A
questo punto il sito A è libero e vuoto e accoglie altri due fattori che sono utili per dissociare tutti
gli altri attori rimasti: le due subunità, l’mRNA e i tRNA scarichi al sito P e al sito E.
A questo punto il sito A è libero, entrano EF-G-GTP e RRF.
EF-G-GTP quando entra, la sua attività GTPasica è sempre stimolata dal sito di legame sulla
subunità maggiore del ribosoma e idrolizza GTP a GDP, promuovendo il rilascio dei tRNA dal sito
E e dal sito P e la sostituzione di sé stesso e di RRF con un fattore che è IF3. IF3 è un fattore che
lega il sito E e promuove la dissociazione della subunità maggiore da quella minore e il rilascio
dell’mRNA.
Tutti questi attori possono essere riciclati per un nuovo ciclo di traduzione.
REGOLAZIONE DELLA TRADUZIONE
REGOLAZIONE DELLA TRADUZIONE NEI PROCARIOTI
La regolazione della traduzione nei procarioti avviene con due particolari meccanismi. Anche in
questo caso è da sottolineare che la regolazione avviene nelle fasi iniziali della traduzione. In
particolare, nei procarioti sono riportati due possibili meccanismi di repressione dell’inizio della
traduzione:
a) Vi è l’mRNA (riportato per semplicità con un solo ORF,
quindi, vi è un solo codone di inizio e un codone di termine.
A monte della ORF vi è la RBS).
L’inizio della traduzione nei procarioti passa attraverso un
riconoscimento, un legame tra l’RBS e la subunità
ribosomiale minore 30S, in particolare con la sua
componente rRNA 16S, che si appaia con le basi di RBS, la
quale si trova a monte della AUG di inizio. Una volta che la
subunità si lega, si avvia la traduzione della ORF portando
alla sintesi della proteina (indicata in giallo nell’immagine).
Questa proteina è una proteina in grado di legare il suo
stesso mRNA da cui è stata codificata; nello specifico, la
proteina va a legarsi in parte all’RBS, coprendo l’AUG di
inizio.
Quando questa proteina interagisce con l’mRNA, va creare
un vero e proprio ingombro sterico, quindi, inibisce fisicamente l'interazione tra la subunità minore
e l’RBS, andando così in questo modo a bloccare la traduzione ulteriore dell’mRNA, da cui lei
stessa è derivata.
Queste proteine non si legano completamente e direttamente con l’RBS ma sono sufficientemente
grandi per coprire in parte l’RBS impedendo l’accesso della subunità all’RBS stesso.
b) Vi è il caso in cui un mRNA si appaia con sé
stesso nascondendo uno o più RBS. In questo
esempio vi è l’mRNA indicato in verde che ha
due ORF: una indicata con il numero 1, dove si
trovano l'RBS 1, codone di inizio e codone di
stop, e la seconda indicata con il numero 2, che
ha la RBS 2, il codone di inizio e stop.
Quello che si vede è che la fase iniziale della
ORF su RBS è libero, ed è la prima ORF ed è
quindi accessibile per il legame con la subunità
minore. La seconda ORF ha il suo RBS
nascosto, perché si è creata la struttura
secondaria in seguito a un appaiamento
intramolecolare dell’mRNA stesso tra una parte
della ORF 1 e dell’ORF2, o meglio l’inizio dell’ORF2.
Quello che succede è che si ha che l’RBS 1 viene riconosciuto dalla subunità minore, quindi, la
prima ORF inizia ad essere tradotta. All’inizio l’RBS 2 non è accessibile, quindi, la seconda ORF
non viene tradotta e quindi nella prima fase viene riconosciuta dalla subunità minore solo l’RBS 1
che è libera mentre l’RBS 2, che è nascosta, non viene ad essere legata dalla subunità minore.
L’RBS 1 riconosciuta può essere coinvolta nella traduzione, infatti si vede che la traduzione della
ORF1 parte ma quello che avviene in particolare è che la struttura secondaria (in rosso) viene
distrutta durante la traduzione della ORF1, quindi, il ribosoma che scorre lungo l’mRNA distrugge
l’appaiamento e va a rimuovere il self annealing, consentendo così la traduzione anche della
seconda ORF.
Quindi, in seguito alla traduzione dell'ORF1, l'appaiamento tra le basi dell’altra ORF viene rimosso,
permettendo a un altro ribosoma il riconoscimento dell’RBS 2, precedentemente bloccata.
In questo caso si ha la regolazione della traduzione, dove un RBS viene riconosciuto, quindi la
prima ORF parte con la traduzione mentre l’altra no. La seconda può essere tradotta in un secondo
momento, in seguito alla traduzione della prima.
La regolazione è più che altro non un’inibizione permanente ma un’inibizione temporanea, in cui
c’è un ORF che parte con la traduzione prima e in seguito alla traduzione della prima, la seconda
viene tradotta successivamente, perché il ribosoma scorrendo sulla prima ORF, rimuove i self
annealing che impegnavano la ORF1 con la ORF2 e permette, quindi, all’RBS di ORF2 di diventare
accessibile alla subunità minore e quindi di essere tradotta in un secondo momento.
Un esempio di questo tipo di regolazione della traduzione è realizzato ad opera degli operoni che si
trovano in E. coli per le proteine ribosomiali.
Nell’immagine vi sono 6
operoni, con cui sono
organizzati gli mRNA che
codificano le proteine
ribosomiali. In viola è indicato
il promotore e tutti i segmenti
colorati sono per le diverse
proteine ribosomiali.
Ad esempio, la L24 indica la
proteina “large” ribosomiale
24, oppure la S7 la “small 7”.
a) Questo è un mRNA che codifica per le proteine
ribosomiali: quindi, questo è un esempio di un
operone di un L11 con le due ORF.
Nell’immagine si vede che si ha un mRNA con un
RBS e un secondo RBS, mentre in verde chiaro il
codone di inizio.
Le proteine ribosomiali, una volta tradotte, si
devono associare con l’rRNA per creare la
subunità maggiore e minore.
Si ha che l’rRNA è libero e quello che succede è
che l’mRNA per le proteine ribosomiali viene
tradotto. Le proteine ribosomiali 1 e 2, le quali
hanno un'alta affinità nel legare l’rRNA libero, si
associano e sono importanti perché aiutano, in
quanto hanno un ruolo strutturale, l’RNA ad
assumere la struttura corretta che gli serve per
creare la struttura del ribosoma stesso.
L’mRNA che codifica, con le due ORF, per le
proteine ribosomiali viene tradotto e in presenza di rRNA libero, queste proteine prontamente si
associano con esso per creare la struttura corretta dell’rRNA per creare il ribosoma. Questo, quindi,
avviene quando si ha rRNA libero.
b) In questo secondo caso l’rRNA libero viene a mancare.
Quello che succede è che le proteine ribosomiali vengono
comunque tradotte, però non c’è dell’rRNA da legare.
Queste proteine adottano il meccanismo di regolazione visto
poco fa, ovvero la proteina 2 interagisce con il suo stesso
mRNA, posizionandosi parzialmente sull’RBS, creando
quell’impedimento fisico che impedisce al ribosoma, alla
subunità minore, di riconoscere l’RBS 1. In questo modo la
proteina 2 ribosomiale si associa al suo stesso mRNA che
l’ha tradotta e impedisce la traduzione della prima ORF,
quindi la proteina ribosomiale 1.
L’mRNA fa inoltre del self annealing, l’ORF della proteina
1 si appaia, infatti, con l’inizio della ORF 2 e perciò
impedisce che la RBS della proteina 2, o meglio l’ORF che
codifica per la proteina 2, sia accessibile.
I due meccanismi, visti poco fa, ovvero quello che usa una
proteina che crea un impedimento sterico sull’RBS e il secondo meccanismo dove si hanno delle
strutture secondarie sull’mRNA che impediscono l’accesso a un RBS, impediscono che l’mRNA
per le proteine ribosomiali venga tradotto, perché non si ha rRNA ribosomiale disponibile e quindi
non ha senso tradurre altre proteine ribosomiali. Quindi, quando manca l’rRNA libero, le proteine
ribosomiali mettono in atto, sul loro stesso mRNA, una serie di meccanismi per consentire
all’rRNA mancante di inibire la traduzione stessa.
La proteina 1 non viene più tradotta perché l’ORF viene ad essere bloccata dalla proteina 2 perché
si lega all’RBS 1 dell’mRNA stesso. Inoltre, l’ORF della proteina 1 si appaia con l’inizio dell’ORF
della proteina 2 e in questo modo si impedisce che la proteina 2 venga tradotta proprio perché
l’ORF specifico non è libero, perché è nascosto dal self annealing. In questo modo, quando la
proteina ribosomiale è in eccesso rispetto all’rRNA bersaglio, si lega al suo stesso mRNA, che può
formare delle strutture di self annealing e attraverso questi due meccanismi di regolazione si
impedisce la traduzione ulteriore dell’mRNA stesso delle proteine ribosomiali.
REGOLAZIONE DELLA TRADUZIONE NEGLI EUCARIOTI
La regolazione viene finemente regolata attraverso diversi meccanismi:
(questi sono alcuni esempi perché la traduzione negli eucarioti prevede il coinvolgimento di molti
più fattori di inizio)
1. Fosforilazione: I fattori di inizio possono essere fosforilati ad opera di protein-chinasi e
fosforilandoli possono risultare negativi, inattivi (es. eIF-2, uno dei tanti fattori di inizio
coinvolti nella fase iniziale).
La fosforilazione reversibile dei fattori di inizio ha un ruolo fondamentale nella regolazione
dell’inizio della traduzione a livello degli eucarioti.
La fosforilazione viene innescata, attivando le protein-chinasi specifiche, da tantissimi
stimoli e condizioni cellulari e varia in base al tipo cellulare e alla funzione. Per esempio,
un'elevata temperatura può essere uno stimolo, o una mancanza di aa, o un'infezione virale.
Quindi, la fosforilazione viene attivata dalle cellule da una varietà di condizioni e stimoli
cellulari che variano in base alla funzione cellulare a all’istotipo cellulare.
Nell'esempio è riportato eIF2, che
è legato al GTP nella fase di
inizio e scorta il tRNA iniziatore
al sito P del ribosoma, legandolo
con sé. eIF2 nel momento in cui
idrolizza il GTP e diventa eIF2GDP, si dissocia dal tRNA
iniziatore.
Affinché eIF2-GDP possa di
nuovo legare un nuovo tRNA
iniziatore, ha bisogno di essere di
nuovo legato al GTP. Come
succedeva anche nei procarioti,
per scambiare il GDP con il GTP
interviene una proteina o “moneta” di scambio, che nel caso specifico si chiama
eIF2B.
eIF2B si associa con eIF2, legato al GDP, promuovendo il rilascio del GDP e questo
dimero permette di reclutare il GTP, per cui entra il GTP e eIF2 ritorna nella sua
forma con il GTP e può legare un nuovo tRNA iniziatore e portarlo al sito P, mentre
eIF2B viene rilasciato.
Questo è il flusso canonico però l’azione di eIF2 può essere bloccata e quindi di
conseguenza il ciclo può essere bloccato se eIF2-GDP viene fosforilato.
Se viene fosforilato, quando è associato a GDP, il legame tra eIF2 e eIF2B è
irreversibile e il GDP non viene spostato. Si deve considerare che all’interno della
cellula vi è meno eIF2B rispetto a eIF2, quindi, è sufficiente una piccola parte di
eIF2 fosforilata per sequestrare tutto eIF2B, inibendo in questo modo la traduzione e
quindi la sintesi proteica.
Quindi, un modo per bloccare eIF2 e il ciclo è quello che eIF2 venga fosforilata
quando è legata al GDP e a eIF2B; in questo modo l’interazione tra eIF2 e eIF2B è
irreversibile e il GDP non viene rilasciato.
Il complesso (GDP-eIF2-eIF2B) è come se fosse congelato.
2. Repressione: Un altro meccanismo di regolazione della traduzione negli eucarioti è
l’intervento di repressori che legano direttamente l’mRNA andando a inibire la traduzione.
In particolare, questi repressori possono legare dei siti specifici che si trovano nella regione
non tradotta al 3’, il così detto 3’ UTR e interagiscono con altri fattori di inizio legati
all’mRNA (ad esempio quelli che si trovano all’estremità 5’), oppure interagiscono con la
subunità minore per impedire l’inizio della traduzione.
3. Il terzo meccanismo coinvolge proteine di legame che impediscono l’interazione tra due
fattori di inizio: eIF4E e eIF4G, che agiscono a livello del CAP 5’.
Queste proteine di legame sono quelle che vengono chiamate 4E-BP.
Infatti, era già stato visto
che le eIF4E fanno parte
insieme al 4G e al 4A di
quel complesso eIF4F, che
si va a legare al CAP 5’.
Questo complesso ha 3
subunità: 4E (lega il CAP
al 5’), la 4A (ha un’attività
di RNA elicasi) e la 4G fa da ponte di collegamento tra la 4E e la 4A, nonché permette la
circolarizzazione dell’mRNA eucariotico, quando interagisce con la coda poliA e le proteine
legate alla coda poliA, rendendo più efficace il processo di inizio della traduzione.
La proteina 4E-BP interagisce con la componente 4E e le impedisce di legare il 4G, in
questo modo si va a limitare la traduzione del messaggero. Se la 4E-BP è fosforilata non può
più funzionare e non riesce a legare la componente 4E e quindi il processo di inibizione
della traduzione viene a saltare.
Se 4E-BP (in arancione) si lega alla componente 4E e impedisce che la componente 4G si
associ, quindi tutto il percorso descritto viene a saltare e di conseguenza l’inizio della
traduzione viene bloccata.
Se 4E-BP viene fosforilata, in particolare da una chinasi specifica, MTOR (attivata da fattori
di crescita), non è in grado di legare 4E, associato al CAP, e può quindi ricominciare il ciclo
e di conseguenza l’inizio della traduzione può essere avviata completamente.
Riepilogando, 4E-BP è una proteina regolatrice che riconosce la proteina 4E e impedisce la
formazione del complesso eIF4F, poiché 4E non si lega a 4G e quindi tutto il percorso viene
inibito e si sa che la formazione del complesso è fondamentale per avviare l’inizio della
traduzione sull’mRNA eucariotico. Se 4E-BP viene fosforilata, in questa forma non riesce
più a legare 4E, che è quindi libera per completare il complesso multiproteico (con 4G e 4A)
e permettere l’avvio dell’inizio della traduzione e riconoscimento da parte delle estremità 5’
del complesso di preinizio 43S e la circolarizzazione dell’mRNA mediata da 4G,
permettendo di rendere molto più efficiente l’inizio della traduzione.
MECCANISMI DI CONTROLLO QUALITA’ DELL’mRNA
Esistono dei meccanismi di controllo di qualità dell’mRNA, infatti si possono avere degli mRNA
difettosi che vanno ad essere rimossi mediante degli opportuni meccanismi di controllo qualità. Gli
mRNA possono contenere dei codoni di STOP prematuri causati dalle mutazioni non senso, che
hanno creato dei codoni di stop all’interno della ORF e non alla fine oppure ci possono essere degli
mRNA privi del tutto di codoni di STOP e quindi in questo caso si parla di mRNA NON STOP. Gli
mRNA NON STOP sono causati da errori di replicazione del DNA o della trascrizione, oppure dal
fatto che l’mRNA viene degradato ad opera di nucleasi e quindi perdono il codone di stop.
Tutti questi mRNA difettosi possono potenzialmente produrre delle proteine, che però sono tronche,
che non funzionano e che delle volte possono anche essere tossiche. Questi mRNA possono
impedire dei meccanismi di traduzione che terminano in maniera efficiente, quindi, non c’è
nemmeno un riciclo efficiente dell’intero sistema dell’apparato coinvolto nella sintesi proteica. In
questi casi intervengono dei meccanismi che provvedono a riconoscere questi mRNA difettosi e a
eliminarli. Aiutano a superare questa problematica.
Questi mRNA, che vengono detti mRNA aberranti, devono essere controllati, identificati ed
eliminati.
Nei procarioti gli mRNA tronchi o non stop, quelli privi di un codone di stop, trovano una soluzione
attraverso una particolare molecola che si chiama tmRNA.
Il tmRNA è un RNA lungo 457 nucleotidi e viene chiamato con il nome SsrA, ed è un ibrido,
ovvero è una molecola batterica (presente nei batteri) che contiene e combina proprietà strutturali e
funzionali dell’mRNA e del tRNA. Quindi ha una parte a tRNA e una parte a mRNA.
a) Vi è il ribosoma con il sito A, P ed E e in verde,
nel canale, vi è un mRNA. Questo mRNA è
tronco o è un mRNA non stop, perché si vede che
ha un'estremità 3’ rotta ed è privo del codone di
stop e per questo motivo viene chiamato mRNA
terminato prematuramente o tronco o mRNA di
non stop. Questi si formano quando la trascrizione del DNA termina in maniera prematura o
quando a causa di una mutazione, l’mRNA è privo di un codone di stop. Le proteine che
derivano da questo mRNA sono tronche e quindi inattive. Quando il ribosoma traduce
questo mRNA, una volta che arriva alla sua estremità 3’ rotta, il ribosoma entra in stallo e
infatti si vede che quando arriva alla fine, nel sito non c’è alcun codone di stop. Quindi il
ribosoma raggiunge l’estremità 3’ ma si blocca perché, mancando il codone di stop o un
altro codone che specifica per un aa, non riesce a reclutare nessun altro aminoacil-tRNA o
fattore di rilascio.
b) Per uscire da questo stallo i batteri utilizzano
un meccanismo di controllo che si basa su questa
molecola ibrida tmRNA (in verde nell’immagine).
L’estremità 5’ di questa molecola imita la struttura
di un tRNA legato all’alanina. Il tmRNA, grazie a
questa sua similitudine, viene caricato con l’alanina
dalla sintetasi specifica. Questo tmRNA ha all’estremità 5’ il tRNA caricato opportunamente
dalla sintetasi specifica con un’alanina e poi il resto, di mRNA, con un codone di stop. Il
tmRNA, caricato con l’alanina, va a finire nel sito A e viene scortato da EF-Tu-GTP, che
quando arriva nel sito A interagisce con il suo sito di legame, si attiva l’attività GTPasica e
in questo modo EF-Tu-GDP viene rilasciato. Nel sito A rimane il tmRNA con l’alanina, che
verrà con una reazione peptidil transferasica addizionata alla catena polipeptidica nascente,
o meglio che si sta sintetizzando.
c) In questa fase avviene la formazione del nuovo
legame peptidico tra l’alanina portata dal tmRNA
nel sito A e la catena polipeptidica che si sta
sintetizzando, associata al tRNA nel sito P
d) La catena viene legata dall’alanina, il tRNA
diventa scarico e quindi esce dal ribosoma e il
tmRNA (con l’alanina attaccata a tutta la catena
polipeptidica) trasloca dal sito A al sito P. Il
meccanismo è quindi quello solito
dell’allungamento, ovvero arriva il tmRNA con
attaccato l’alanina all’estremità 5’ al sito A, si forma
il legame peptidico tra l'alanina e la catena polipeptidica sintetizzata e legata al peptidil
tRNA nel sito P e si completa così con la traslocazione à il tRNA scarico va dal sito P al
sito E, dove poi verrà rilasciato e il tmRNA (con l’alanina e tutta la catena legata) trasloca
dal sito A al sito P.
Nel canale dell’mRNA e quindi nel sito A si ha che la componente a mRNA del tmRNA va
a posizionarsi nel canale stesso e quindi diventa il nuovo messaggero da tradurre. Nel sito A
arriva un nuovo tRNA che leggerà il codone specifico su questa componente. Il tmRNA
prende il posto dell’mRNA, che era troncato e quindi aveva lasciato vuoto il canale.
Traslocando il tmRNA posiziona la sua componente a mRNA all’interno del canale.
e) La componente a mRNA del tmRNA va a
fungere da sostituto e quindi allontana la
molecola di mRNA tronca e dirige su di esso la
sintesi di una sequenza di ben 10 aa. Questo
mRNA sostitutivo, portato dal tmRNA, viene ad
essere letto di codone in codone in modo tale che
la sua lunghezza è tale di essere a 10 codoni,
dove ogni codone specifica per un aa. La
traduzione continua fino a che si arriva al codone
di stop, che permetterà di terminare la traduzione
e di far rilasciare tutto l’apparato coinvolto nella sintesi proteica, quindi il tmRNA verrà
rilasciato, come anche le subunità maggiore e minore, la catena polipeptidica e i vari tRNA.
Il vantaggio di questo tmRNA è quello di far uscire il ribosoma dallo stato di stallo perché
porta, con la sua parte simil-tRNA, un nuovo aa nel sito A, permettendo di allungare, con
l’alanina, la catena polipeptidica e in più, con la sua componente ad mRNA, sostituisce
l’mRNA tronco, si mette al suo posto dove non c’era e a questo punto arrivano i vari tRNA
che leggono i 10 codoni, fino al codone di stop. Al codone di stop la traduzione termina,
tutta la macchina traduzionale viene rilasciata e quindi i ribosomi possono essere riciclati, il
tmRNA può essere riutilizzato, come anche i tRNA scarichi. La proteina può essere quindi
rilasciata. Questa stringa di 11 aa (10 + il primo aa iniziale) che vengono addizionati
all’estremità carbossiterminale della proteina che risultava tronca, costituisce una sequenza
segnale e cellulare che porta la proteina ad essere degradata ad opera delle proteasi.
Gli aa codificati dal tmRNA sono il segnale di una marcatura o etichetta che viene
riconosciuta dalle proteasi cellulari, che provvedono a denaturare e degradare le proteine
bersaglio che hanno questa etichetta.
Negli eucarioti questo meccanismo non può avvenire, infatti, di fronte agli mRNA NON
STOP mettono in atto un meccanismo differente, proprio perché negli eucarioti un mRNA
che ha un'estremità 3’ rotta significa un mRNA privo di coda poliA. Un mRNA privo di
coda poliA non viene proprio tradotto, ma degradato subito dalle nucleasi. Infatti, la coda
poliA serve proprio per proteggere l’mRNA dall'azione delle nucleasi. Quindi, un mRNA
con un'estremità 3’ rotta di questo tipo non ha sopravvivenza.
Esistono però negli eucarioti degli mRNA NON STOP, che però vengono riconosciuti e
rimossi con un meccanismo diverso.
EUCARIOTI: DECADIMENTO DELL’ mRNA NON-STOP
Per quanto riguarda gli eucarioti abbiamo altri tipi di meccanismi per andare a rilevare gli mRNA
difettosi.
Negli eucarioti non è possibile avere un mRNA tronco al 3’ da tradurre perché negli eucarioti un
mRNA privo di coda poli-A viene immediatamente degradato dalle nucleasi. Negli eucarioti, però,
possiamo avere degli mRNA NON-STOP, i quali vengono ad essere caratterizzati da un CAP al 5’
e una coda poli-A ma la parte a mRNA codificante manca di un codone di stop e quindi si parla in
questo caso di mRNA NON-STOP. Di fronte a questi mRNA non-stop, quindi gli mRNA che sono
completi perché hanno l’estremità 5’ CAP e al 3’ la coda poli-A ma che vengono ad essere privi di
un codone di stop, gli eucarioti mettono in atto un meccanismo chiamato DECADIMENTO
DELL’mRNA NON-STOP.
Come si può vedere
nell’immagine, di fronte
all’mRNA non-stop, il
ribosoma lo riconosce, lo
traduce e continua la traduzione
anche della coda poli-A,
formando una serie di residui di
lisina sulla proteina che sta
sintetizzando il ribosoma.
Questo perché la tripletta o
codone a tripla A (AAA) è un
codone che codifica per la
lisina, quindi, il ribosoma viene
praticamente a tradurre questo
mRNA non-stop in tutta la sua
lunghezza, compresa la coda
poli-A, non comprendendo il
codone di stop. Dunque, quello
che otteniamo è una proteina tronca, perché non è presente il codone di stop, a cui è stato aggiunto
questo tratto di polilisina alla sua estremità carbossi-terminale.
A questo punto, una volta che il ribosoma viene a tradurre la coda poli-A in polilisina, il ribosoma si
trova bloccato all’estremità di questo mRNA non-stop e l’mRNA bloccato in questa situazione
recluta una proteina che si chiama Ski7, la quale lega il ribosoma e promuove il decadimento
dell’mRNA non-stop. In particolare, Ski7 promuove la dissociazione della subunità maggiore e
della subunità minore, liberando così l’mRNA che viene degradato grazie al reclutamento di un
complesso che viene detto esosoma. L’esosoma viene quindi a degradare l’mRNA partendo
dall’estremità 3’, gli esosomi infatti sono dei complessi di esonucleasi che lavorano in questa
direzione, 3’-5’.
Ski7 viene ad essere reclutato dal ribosoma che si trova in stallo sull’mRNA non-stop e a questo
punto promuove la dissociazione della subunità maggiore e minore e recluta sull’mRNA rilasciato
un esosoma, cioè un complesso di esonucleasi che lavorano in direzione 3’-5’, quindi iniziano a
degradare dalla coda del messaggero. Il messaggero viene così degradato, anche la proteina viene
degradata perché il tratto di poli-lisine rappresenta una “etichetta” sulla proteina affinché possa
essere riconosciuta dalle proteasi.
Quindi, negli eucarioti, il meccanismo di sorveglianza verso gli mRNA difettosi si esplica in diversi
modi, uno di questi è il decadimento che si realizza sugli mRNA non-stop.
Un altro meccanismo che troviamo negli eucarioti è il DECADIMENTO “NO-GO”.
In questo caso, questo tipo
di decadimento si viene a
realizzare nel momento in
cui il ribosoma si trova in
stallo a causa di strutture
secondarie stabili che si
sono create sul messaggero
a livello della sequenza
codificante, oppure quando
il ribosoma è in stallo
perché siamo di fronte a
tRNA carichi che sono
poco rappresentati, quindi
scarseggiano.
Questo meccanismo di
decadimento NO-GO si
viene a realizzare quando i ribosomi sono in stallo su un mRNA che stiamo già traducendo, quindi
una traduzione in questo caso già avviata e lo stallo del ribosoma può essere dovuto dal fatto che,
come dicevamo precedentemente, l’mRNA abbia prodotto una struttura secondaria stabile che
blocca quindi il percorso del ribosoma e che avviene a livello di una regione codificante oppure
perché c’è una carenza di tRNA carichi in grado di riconoscere i codoni sull’mRNA, quindi tRNA
carichi che dovrebbero codificare per i codoni su cui è posizionato il ribosoma sono scarsi.
Quest’ultimo caso si verifica per quei codoni che vengono chiamati CODONI RARI ovvero codoni
i cui corrispondenti tRNA sono poco concentrati, in quantità ridotta.
Ma perché esistono questi codoni rari?
I diversi aa sono specificati da codoni sinonimi ma i codoni sinonimi non sono utilizzati in maniera
uniforme, infatti, vi è una preferenza nell’uso di certi codoni rispetto ad altri nel codificare un certo
aa. Il fatto, quindi, che io abbia codoni più rari (vengono usati meno frequentemente) fa sì, di
conseguenza, che ci siano meno corrispondenti tRNA carichi (scarseggiano).
In questo modo, perciò, il ribosoma, o perché si tratta di una struttura secondaria nella regione
codificante dell’mRNA o perché si trova a riconoscere nel suo sito A un codone raro per il quale il
tRNA corrispondente scarseggia, entra in stallo ed entra in gioco il meccanismo che si chiama
decadimento no-go. Come vediamo nell’immagine, il ribosoma in stallo viene a reclutare due
proteine: Dom34 e Hbs1-GTP. Quest’ultima è una GTPasi e insieme queste due proteine si
posizionano nel sito A. Nella subunità maggiore del ribosoma abbiamo il sito di legame a cui Hbs1
con il suo GTP interagisce, promuovendo l’idrolisi di GTP a GDP e promuovendo il suo rilascio.
Quindi dopo aver portato Dom34 al ribosoma, Hbs1 va a idrolizzare il GTP a GDP e viene
rilasciata. A questo punto abbiamo che Dom34, insieme a Ril1 (un’ATPasi), vengono a
disassemblare il ribosoma in subunità maggiore e minore, viene anche reclutata una endonucleasi
che provvede a tagliare in mezzo l’mRNA, creando un’estremità 3’ libera e un’estremità 5’ libera
(sappiamo che il CAP al 5’ e la coda poli-A al 3’, finché ci sono, proteggono l’mRNA dall’azione
delle esonucleasi ma non dall’azione delle endonucleasi) che vengono riconosciute rispettivamente
dall’esosoma (complesso di esonucleasi che lavora in direzione 3’-5’) e da una endonucleasi
chiamata Xrn1 che lavora in direzione 5’-3’. In questo modo l’mRNA viene degradato e viene
rilasciata la proteina che sarà tronca e verrà degradata.
Un ultimo meccanismo con cui gli eucarioti si difendono dagli mRNA difettosi è quello che viene
chiamato NMD (NON SENSE MEDIATED mRNA DECAY, o per dirlo in italiano decadimento
dell’mRNA mediato da codoni non senso). I
codoni non senso sono un sinonimo di codoni
di stop prematuri.
L’mRNA, quando viene sottoposto a splicing,
viene legato da dei complessi di giunzione a
degli esoni che si trovano a monte di ciascuna
giunzione esone-esone. Nel momento in cui
l’mRNA viene sottoposto a splicing a monte di
ciascuna giunzione esone-esone viene legato il
complesso di giunzione degli esoni o EJC
costituito da un pool di 4 proteine. EJC
rappresentano un controllo di qualità
dell’mRNA, infatti indicano che l’mRNA è
stato sottoposto a splicing correttamente e che
l’mRNA è pronto per essere trasportato dal
nucleo al citoplasma. L’mRNA nel citoplasma rimane legato a queste EJC, che rappresentano
proprio un controllo di qualità. Ma hanno anche un’altra funzione.
Come si vede nell’immagine in alto, normale sta ad indicare un mRNA che non ha all’interno
dell’ORF dei codoni di non senso, in questo caso l’mRNA ne è privo. Quelle in giallo indicano le
EJC, mentre gli esoni sono indicati in verde scuro e in verde chiaro la AUG d’inizio e in rosso il
codone di stop canonico alla fine della ORF. Questo meccanismo di controllo si realizza quando ho
dei codoni di stop all’interno della regione codificante, quindi codoni di stop prematuri.
L’mRNA normale arriva al citoplasma legato alle EJC pronto per la traduzione, arriva il ribosoma
che riconosce l’mRNA e inizia a tradurre e man mano elimina le EJC.
In condizioni in cui è presente invece un codone di stop prematuro, il ribosoma inizia a tradurre ma
quando arriva e riconosce lo stop prematuro si blocca ed entra in stallo e la EJC a valle non viene
rimossa ma rimane ancorata all’mRNA; questo rappresenta un segnale alla cellula che sta ad
indicare che il ribosoma è entrato in stallo su un codone di stop prematuro e queste EJC a valle sul
ribosoma in stallo sul codone di stop aiutano a reclutare 3 proteine che si chiamano Upf 1, Upf 2 e
Upf3. Queste proteine, che vengono reclutate sul ribosoma, vengono a loro volta a reclutare e ad
attivare due enzimi che aiutano a promuovere la degradazione dell’mRNA. In particolare, queste
proteine Upf, una volta legate, reclutano e attivano un enzima che toglie il CAP al 5’ e un enzima
chiamato deadenilante che rimuove la coda poli-A all’estremità 3’. L’mRNA, a questo punto, è
rimasto senza CAP e senza la coda ed inizia così ad essere degradato dall’esosoma 3’-5’ e dalla
endonucleasi 5’-3’. Inoltre, le Upf promuovono la dissociazione della subunità maggiore e minore
del ribosoma dall’mRNA.
SILENZIAMENTO GENICO MEDIANTE
PICCOLI RNA
Esistono anche delle modalità di silenziamento genico che prevedono l’utilizzo di piccoli RNA. In
natura esistono diverse tipologie di questi piccoli RNA, noi parleremo di 2 di queste tipologie:
1. siRNA (short interfering RNA): possono essere prodotti artificialmente (in esperimenti di
laboratorio) o sintetizzati in vivo, partendo in entrambi i casi da precursori di dsRNA
2. microRNA (miRNA o miR): derivano da precursori a RNA codificati da geni espressi nelle
cellule in cui gli stessi miRNA svolgono specifiche funzioni regolatrici
Quindi, il silenziamento genico e di conseguenza la regolazione dell’espressione genica può
avvenire attraverso diversi meccanismi che utilizzano dei piccoli RNA, i quali possono essere ad
esempio i siRNA o microRNA.
I microRNA
Sono codificati dai genomi eucariotici e agiscono sugli mRNA stessi, andando a produrre quello
che viene chiamato silenziamento genico.
Da dove derivano questi microRNA?
Negli eucarioti superiori sono centinaia e centinaia diversi che vengono ad essere coinvolti nella
regolazione dell’espressione genica in tantissimi mRNA bersaglio.
Come si vede nell’immagine,
questi microRNA vengono ad
essere trascritti dall’RNApol
II, che va a trascrivere
innanzitutto dei trascritti
primari dei miRNA indicati
come pri-miRNA. Quindi i
pri-mRNA derivano
inizialmente dalla trascrizione
di geni del genoma eucariotico
che codificano per questi
lunghi trascritti primari
dell’mRNA chiamati primiRNA. Questi ultimi
vengono ad avere una serie o
più serie di sequenze
complementari al loro interno, che determina la formazione di strutture tipiche a forcina. Sono tra
l’altro dei pri-miRNA con coda poli-A e vengono ad essere lunghi anche parecchie migliaia di nt.
Sempre a livello del nucleo, poi, questi pri-miRNA vengono processati da Drosha, un’endonucleasi
nucleare che, come tale, taglia queste strutture a forcina creando dei precursori di miRNA di
lunghezza inferiore (60-70 nt). Drosha fa parte della famiglia delle ribonucleasi della classe III, che
sono per l’appunto endonucleasi che sono specifiche per l’RNA a doppio filamento, tagliando i primiRNA e creando delle forcine più corte, aventi all’estremità 3’ una sporgenza di due nt (sono a
singolo filamento, non sono appaiati).
Ricapitolando quello che avviene nel nucleo: l’RNApol II trascrive dei geni specifici per i trascritti
primari dei miRNA, i pri-miRNA, che hanno delle sequenze complementari che li consentono di
formare strutture secondarie a forcina e hanno una coda poli-A e sono lunghi parecchie migliaia di
nt. Prima di passare nel citoplasma, questi pri-miRNA vengono ulteriormente processati da Drosha,
una endonucleasi nucleare appartenente alla famiglia delle ribonucleasi di classe III, specifiche per
riconoscere e tagliare RNA a doppio filamento. Drosha quindi taglia queste strutture a forcina,
creando dei precursori dei miRNA o semplicemente pre-miRNA di 60-70 nt, aventi l’estremità 3’
di-nucleotidica sporgente.
A questo punto questi pre-miRNA vengono esportati dal nucleo al citoplasma grazie a dei recettori
specifici, tra cui uno dei più famosi è chiamata esportina 5 (proteina recettoriale), la quale permette
di trasportare questi pre-miRNA attraverso i pori nucleari. Quando il pre-miRNA arriva nel
citoplasma, non rimane da solo ma viene riconosciuto da un complesso che si chiama RISC
(complesso del silenziamento indotto dall’RNA), un complesso di diverse proteine, tra cui troviamo
Dicer. Dicer è un’altra ribonucleasi di classe III, che processa ulteriormente i pre-miRNA,
producendo miRNA a doppia elica. Quindi, quando il pre-miRNA arriva nel citoplasma, viene
caricato su questo complesso di proteine chiamato RISC che contiene tra le varie proteine dicer, un
altro enzima delle ribonucleasi III che va a tagliare ulteriormente i pre-miRNA, producendo una
molecola più corta, detta questa volta miRNA duplex (a doppia elica) di 20-22 nt.
Il RISC contiene anche altre proteine, tra cui una proteina argonauta, anche lei un’endonucleasi ed
interviene nel silenziamento del micro-RNA.
Il miRNA duplex non è ancora nella sua forma matura, occorre che venga denaturato, infatti, c’è un
RNA-elicasi che svolge, quindi separa, i due filamenti e rimane associato sul RISC solo uno dei
due, che viene chiamato RNA guida. L’RNA guida è dunque il filamento che rimane associato a
RISC e che determina la sua specificità verso un certo mRNA bersaglio.
L’altro RNA viene chiamato RNA passeggero e viene generalmente eliminato. Quindi, dopo
l’azione dell’RNA elicasi rimane associato al RISC solo un microRNA di 20-22 nt a singolo
filamento, che sarà poi l’RNA che guiderà RISC sul messaggero che si vuole bloccare.
Quando parliamo di micro-RNA maturi, parliamo di microRNA a singolo filamento di 20-22 nt.
A questo punto RISC associato al microRNA maturo è pronto per essere guidato verso mRNA
specifici; l’interazione del microRNA può essere di 2 tipologie:
● A complementarietà quasi perfetta: le basi del microRNA si appaiano quasi
completamente con quelle dell’mRNA bersaglio. In questo caso abbiamo quindi che RISC
viene a tagliare questo mRNA grazie alla sua componente argonauta. Quindi, quando l’RNA
guida porta il RISC su un mRNA, con il quale questo microRNA guida si va ad appaiare in
maniera quasi perfetta, è attivata la componente endonucleasica, che si chiama argonauta, di
RISC e in questo modo l’mRNA viene tagliato e poi degradato. Questo tipo di
silenziamento, in cui il microRNA è quasi perfettamente complementare all’mRNA
citoplasmatico bersaglio, avviene più spesso nelle piante
● A complementarietà parziale, imperfetta: avviene molto spesso negli animali. In questo
caso il microRNA guida porta RISC sull’mRNA bersaglio ma a questo mRNA si appaia
parzialmente. Si hanno dei loop che corrispondono a delle regioni del microRNA le cui basi
non sono complementari con quelle dell’mRNA bersaglio. Dunque, il silenziamento genico
avviene attraverso una traduzione che viene praticamente bloccata, ovvero il RISC associato
a questo mRNA va a produrre una inibizione della traduzione dell’mRNA legato tramite un
processo che probabilmente impedisce l’inizio della traduzione stessa. Successivamente alla
traduzione repressa, il complesso viene dissociato e l’mRNA viene degradato ad opera delle
varie nucleasi
Quindi, i nostri microRNA maturi che funzionano da guida portano RISC andando ad appaiarsi o in
maniera quasi perfetta o in maniera parziale con l’mRNA bersaglio. Per gli animali l’evento più
frequente è quello in cui c’è una complementarietà parziale, mentre per le piante è l’evento con
complementarietà quasi perfetta.
Nel caso in cui la complementarietà sia quasi perfetta, l’mRNA citoplasmatico viene
immediatamente degradato ad opera di RISC e in particolare dalla sua componente argonauta;
mentre, invece, nel caso della complementarietà parziale, il complesso RISC porta a un blocco della
traduzione, impedendo l'inizio stesso di essa e successivamente tutte le componenti verranno
dissociate e l’mRNA viene degradato.
siRNA
Il secondo meccanismo, invece,
sono i siRNA, i quali derivano da
precursori più lunghi, ossia degli
RNA a doppia elica che devono
essere lunghi almeno 30 nt perché
altrimenti questo meccanismo non
viene attivato. Quindi, il punto di
partenza dei siRNA sono dei
lunghi RNA a doppia filamento
che hanno una lunghezza
superiore ai 30 nt altrimenti il
processo non viene attivato.
Da dove derivano?
O vengono introdotti dal ricercatore sperimentalmente all’interno delle cellule, oppure sono prodotti
dalla cellula in seguito ad una infezione virale.
Questo lungo RNA introdotto nella cellula (siamo nel citoplasma), viene tagliato da Dicer, quindi,
anche lui viene riconosciuto dal complesso RISC, e produce RNA corti di circa 21-27 bp aventi
estremità 3’ di-nucleotidiche sporgenti. I siRNA sono corti RNA costituiti circa da 21-27 paia di
basi e hanno 2 nt sporgenti all’estremità 3’. Anche in questo caso i siRNA vengono riconosciuti da
RISC, vengono legati e viene selezionato il filamento guida mentre l’altro viene eliminato. Il
filamento guida porta RISC sull’mRNA bersaglio, in cui siRNA va ad appaiarsi con una
complementarietà perfetta o una imperfetta. Nel caso dei siRNA è più frequente la
complementarietà perfetta.
I siRNA sono presenti in tutti gli eucarioti eccetto nei lieviti e rappresentano un meccanismo di
difesa dei virus e dei trasposoni. Oppure vengono usati nei laboratori per silenziare gli mRNA
bersaglio, come ad esempio mRNA che possono essere oggetto di proteine difettose o tossiche.
Può essere anche usato se si ha una proteina di cui non si sa la funzione e si vuole bloccare la
traduzione della proteina stessa.
Un altro aspetto molto
importante dei siRNA è
quello che è stato
osservato nei nematodi
dove si è vista
un'amplificazione della
regolazione genica
mediata dai siRNA.
Abbiamo detto che da
lungo RNA a doppio
filamento, Dicer taglia e
crea i siRNA che
vengono riconosciuti da
RISC.
Questi siRNA vengono
poi a denaturarsi in
modo che rimanga unito
a RISC solo il filamento
guida che lo porterà a legare l’mRNA bersaglio. Se notiamo, quando il nostro siRNA a singolo
filamento si appaia con le basi complementari ad una sequenza specifica dell’mRNA bersaglio, crea
a tutti gli effetti una sorta di giunzione innesco-stampo. Quest’ultima che ha un’estremità 3’ libera,
viene infatti riconosciuta da una RNA pol che viene chiamata RdRP ed inizia ad allungare il
filamento, allungandolo e produce un RNA a doppio filamento, il quale viene di nuovo riconosciuto
da Dicer e tagliato in nuovi siRNA, i quali possono essere di nuovo reclutati da RISC e possono
amplificare tutto questo processo.
Introduzione alle tecniche di base di Biologia
Molecolare
ESTRAZIONE DEL DNA
MATERIALE DI PARTENZA
Il DNA lo si può estrarre da:
● cellule animali: hanno membrana e citoscheletro molto deboli, quindi
per l’estrazione del DNA è sufficiente utilizzare delle tecniche di
estrazione blande.
● cellule vegetali: hanno una dimensione maggiore e presentano una
parete spessa, costituita da cellulosa, più l’eventuale presenza di
immina e cere. Per l’estrazione del DNA a partire da cellule vegetali
sono richieste grandi forze meccaniche e quindi sono necessari metodi
di rottura più drastici.
● cellule batteriche: con dimensioni molto più piccole e una parete
spessa, formata da peptidoglicano. Nello specifico nel caso dei
batteri GRAM-, la membrana esterna è costituita da lipoproteine e
lipopolisaccaridi, che permettono al batterio di proteggersi dalla
degradazione. In questo caso, per distruggere la membrana di
questi batteri, viene utilizzato l’EDTA (sostanza chimica chelante,
che va a destabilizzare la membrana; è un metodo di rottura un po’
più drastico).
Nel caso dei batteri GRAM+, per andare a degradare il
peptidoglicano viene utilizzato un enzima, chiamato lisozima, il
quale è un enzima battericida, che si trova comunemente nei fluidi corporei, come la saliva
(ci protegge quindi dall’ingresso dei batteri).
● funghi e lieviti: hanno una parete spessa costituita da polisaccaridi, quindi, anche in questo
caso per l’estrazione sono richieste delle tecniche con elevata forza meccanica, si ha bisogno
di metodi di rottura più drastici.
PASSAGGI
nell’immagine vi è l’esempio di una coltura batterica
1. Raccolta delle cellule: le cellule vengono fatte crescere, queste poi vengono raccolte per
centrifugazione, dove le cellule più pesanti si posizionano in basso, andando a formare
quello che viene chiamato PELLET (= massa biancastra costituita da cellule che si formano
sul fondo della provetta). Nella parte alta si ha il SURNATANTE o SOPRANATANTE, che
è costituito da tutte quelle componenti che sono state secrete dalle cellule.
Quindi, in questa fase vengono separate le cellule da tutto il resto.
2. Lisi delle cellule: si ha bisogno di rompere le cellule per poter avere l’estratto cellulare, che
contiene il DNA (ovvero quello che noi vogliamo ottenere).
Per evitare la degradazione del campione da parte di enzimi presenti fisiologicamente negli
estratti, il materiale o l’estratto cellulare, deve essere o subito utilizzato oppure congelato,
quindi messo in freezer fino all’utilizzo.
3. Purificazione del DNA: l’estratto cellulare contiene varie componenti ma l’obiettivo è
isolare/purificare solo il DNA e quindi vengono rimossi tutti gli altri contaminanti che non
sono altro che gli altri componenti cellulari.
4. Concentrazione del DNA: molto spesso, nel momento in cui il DNA è purificato, proprio
per i metodi che si utilizzano e proprio perché il DNA si trova all’interno di solventi, è
molto diluito e quindi quest’ultima fase serve per aumentare la concentrazione del DNA.
2. LISI DELLE CELLULE
Per poter lisare le cellule si possono utilizzare metodi meccanici e metodi non meccanici, in
presenza di un opportuno tampone o buffer di estrazione.
La scelta tra i due metodi viene effettuata in base alla natura del materiale di partenza e in base a
dove è localizzata la molecola che si vuole estrarre.
● METODI MECCANICI
○ Omogeneizzatore (sono frullatori normali o a immersione): vanno a sfruttare le forze
taglienti di una lama; le cellule vengono tagliate e frullate con il tampone di
estrazione. Le lame vanno
quindi a disgregare e a
rompere le membrane,
proprio perché ruotano ad
altissima velocità. Nello
specifico
l’omogeneizzatore viene
utilizzato per tessuti
animali e vegetali.
○ Frantumazione con
aggiunta di molecole
abrasive: viene fatta una
vera e propria
disgregazione fisica, ad
esempio può essere
utilizzato un mortaio e un pestello dove, all’interno del mortaio, viene inserito il
tampone di estrazione e le cellule che, nella maggior parte dei casi, sono addizionati
a delle particelle abrasive, come la sabbia o l’allumina (= l’ossido dell’alluminio).
Con il pestello vengono frizionate a mano in modo da determinarne la rottura. Per
lisare queste cellule sono necessarie forze frizionarie. Per una riuscita ottimale di
questa metodica è necessario che gli abrasivi abbiano circa la stessa dimensione
cellulare. Possono essere anche utilizzati dei pestelli che vanno a frantumare il DNA
all’interno di provette lunghe di vetro, che sono quelle raffigurate dietro il mortaio e
il pestello (in questo caso il pestello è o in teflon o in vetro e ha un diametro
leggermente più piccolo del tubo di vetro, che contiene la sospensione delle cellule).
Andando a frizionare con il pestello si ha la rottura delle membrane, proprio perché
il pestello esercita delle forze frizionarie contro le pareti del tubo. Nello specifico
viene utilizzata questa tecnica per cellule batteriche e vegetali.
Nel caso delle cellule di lievito, queste sono rotte tramite l’aggiunta di sferette di
vetro, con dimensioni simili alle cellule, in egual volume. Dopo l’aggiunta delle
sferette si effettua una “vortexata” (= mescolata molto vigorosa) e l’azione abrasiva
delle sferette di vetro causa la rottura delle cellule; questo è un metodo molto
drastico, proprio per la difficoltà di rompere le membrane dei lieviti.
● Sonicazione: avviene tramite sonicoltori, che sono degli strumenti che emettono
ultrasuoni ad alta frequenza; le onde d’urto degli ultrasuoni vanno a rompere le
membrane delle cellule proprio per le elevate pressioni locali, che sono indotte dalle
onde. Nella sospensione cellulare, dove sono stati inseriti tampone e cellule, viene
immersa una sonda metallica del sonicatore, che viene acceso e le membrane
vengono disgregate. Il sonicatore ha lo svantaggio di una elevata produzione di
calore, si ha un surriscaldamento che non è positivo per l’estratto di sonicazione,
proprio perché il DNA viene denaturato con le alte temperature. È necessario che il
contenitore, dove vi è l’estratto cellulare, venga inserito all’interno del ghiaccio,
proprio per evitare il surriscaldamento dell'estratto cellulare che si dovrà produrre.
Gli ultrasuoni sono pericolosi per l’operatore e possono dare problemi di udito,
infatti, quando si usa il sonicatore, vengono utilizzate delle cuffie antirumore. La
sonicazione è utilizzata generalmente per tutti i tipi di cellule.
● Presse: ad esempio la “french press” fa sì che la sospensione cellulare, quindi le
cellule, siano poste in una camera di compressione in acciaio inox, la quale è dotata
di un pistone e chiusa da una valvola a spillo. Tramite il pistone, si rimuove tutta
l’aria dalla camera e in questo modo sulla sospensione cellulare viene applicata una
pressione idraulica elevata fino al raggiungimento di 1000 atm, sottoponendo le
cellule a una compressione notevole; poi lentamente si apre la valvola a spillo, così
che le cellule possano fuoriuscire da essa. A causa della repentina variazione dei
valori di pressione, cui sono sottoposte, uscendo dalla valvola, le cellule scoppiano e
si frantumano. Essendo un metodo abbastanza drastico, viene indicato per cellule
batteriche e cellule dei lieviti.
In generale, tutti i metodi meccanici generano calore, quindi è sempre meglio pre-refrigerare il
materiale di partenza e quindi il tampone (all’interno del quale le cellule sono sospese) e anche lo
strumento, in modo tale da evitare il surriscaldamento e far sì che non ci sia degradazione delle
molecole presenti nell’estratto e nel nostro caso specifico la denaturazione del DNA.
● METODI NON MECCANICI
o Enzimi litici: la lisi viene fatta per digestione enzimatica, che avviene grazie
all’utilizzo di enzimi litici, che vanno a danneggiare la membrana e la parete.
Un esempio è rappresentato dal lisozima, come già stato detto. Un altro esempio è
rappresentato dalle zimolasi e liticasi: enzimi che hanno la stessa funzione del
lisozima ma per i funghi, quindi vanno a ledere la parete fungina. Questi enzimi litici
vanno ad essere sciolti e addizionati nel tampone, con cui verranno risospese le
cellule.
o Aggiunta di detergente e proteasi: i detergenti, come ad esempio SDS (Sodio dodecil
solfato), vanno a rimuovere la componente lipidica delle membrane e in questo
modo ne provocano la lisi. Nello specifico, questo non è un metodo drastico e quindi
solitamente viene utilizzato per andare a lisare le cellule animali, che hanno bisogno
di lisi blande. Può essere utilizzato anche EDTA (etilendiamminotetraacetico), che è
un composto chimico chelante che va a rimuovere gli ioni magnesio, essenziali per il
mantenimento dell’involucro esterno dei batteri. L’EDTA ha la stessa funzione dei
detergenti ma per le cellule batteriche.
o Congelamento e scongelamento: metodo abbastanza blando, che prevede il
congelamento della sospensione cellulare e nel momento in cui le cellule vengono
congelate, si formano dei cristalli di ghiaccio, che vanno a danneggiare la membrana
cellulare, con conseguente fuoriuscita di materiale intracellulare. Questa tecnica
viene utilizzata per lisare le cellule animali.
o Shock osmotico: le cellule sono lisate per osmosi. Viene utilizzato prevalentemente
per cellule che non hanno parete, quindi come quelle eucariotiche, soprattutto quelle
molto fragili. Ad esempio, è un metodo molto utilizzato per andare a lisare gli
eritrociti (ossia i globuli rossi). Per andare a lisare gli eritrociti, questi vanno inseriti
o meglio vanno risospesi in acqua distillata. L’acqua distillata è un ambiente
ipotonico rispetto alle cellule e per questo motivo si crea una differenza di pressione
osmotica fra l’ambiente intracellulare e quello extracellulare e per questo motivo
l’acqua entra all’interno del globulo rosso, che si rigonfia fino ad esplodere. In
questo modo viene rilasciato l’estratto cellulare, costituito da tutte le componenti
cellulari. In alternativa, oltre ad utilizzare
direttamente una soluzione ipotonica, si può
aggiungere una soluzione ipertonica (come una
soluzione di saccarosio concentrata al 20%
peso/volume), così che l’acqua tende a fuoriuscire
dalle cellule; le cellule poi sono subito trasferite in
una soluzione ipotonica (quindi in acqua distillata) e
in questo modo l’acqua entra nelle cellule, che
subiscono la lisi.
In generale, come per i metodi meccanici, alla fine si ottiene un estratto cellulare.
TAMPONE DI ESTRAZIONE
Sia che si utilizzino metodi meccanici, che non, il campione con le cellule è risospeso all’interno di
un tampone di estrazione, chiamato anche soluzione tampone.
Questo serve sicuramente da:
● solvente: quindi per risospendere le cellule
● mezzo di raffreddamento: in quanto per evitare il surriscaldamento, sia gli strumenti, che
anche il campione devono essere refrigerati. Questo mezzo nel momento in cui viene
refrigerato, serve per abbassare la T.
● principalmente serve a preservare l’integrità biologica dei componenti cellulari: il tampone
va a sostituire i tamponi intracellulari, che sono fisiologicamente presenti nella cellula, e
impedisce che ci siano variazioni di pH e forza ionica. Mantiene la forza ionica fra 0,1 e 0,2
M e mantiene il pH fra 7-8.
I tamponi sono costituiti da tris o fosfato e da sali inorganici (come KCl o NaCl). Sono in grado di
neutralizzare gli ioni, i quali andrebbero a modificare il pH della soluzione.
DETERGENTI
Quando si va ad estrarre il DNA, a questi tamponi di estrazione sono aggiunti i detergenti, come ad
esempio il triton X-100 e SDS, che vanno a rimuovere la componente lipidica delle membrane,
causando la rottura e il rilascio dei componenti sia di membrana che intracellulari.
Nel caso di cellule animali è sufficiente, nelle condizioni meno drastiche, l’utilizzo di blandi
detergenti.
3. PURIFICAZIONE DEL DNA
Nel momento in cui le cellule sono state lisate, prima di tutto bisogna separare la frazione solubile,
quindi quella costituita da proteine, acidi nucleici, metaboliti cellulari, da quella insolubile,
costituita da frammenti di membrana o di parete cellulare e proteine che precipitano, come corpi di
inclusione/nucleosione.
Per fare questa prima separazione, si può effettuare una
centrifugata, dove la parte insolubile viene portata in basso sotto
forma di pellet, mentre la parte solubile rimane in alto.
Questo però non è sufficiente se si vuole ottenere alla fine solo il
DNA, bisogna rimuovere tutti gli altri componenti che non sono
DNA e che sono presenti nella parte solubile dell’estratto
cellulare, come ad esempio le proteine, perché alcune proteine
potrebbero andare a degradare il DNA, come le DNAsi. Bisogna
eliminare anche tutti gli altri interferenti, che possono andare a
interferire con le procedure successive.
I metodi utilizzati per la purificazione del DNA sono:
● la digestione enzimatica
● estrazione organica
● tecniche cromatografiche
ESTRAZIONE ORGANICA
Prevede l’aggiunta o di fenolo o di una miscela, costituita da fenolo e cloroformio, in rapporto 1:1.
L’estratto cellulare, ottenuto mediante la lisi, viene miscelato con il fenolo o con la miscela; a quel
punto viene fatta una centrifugazione, che permette la separazione delle fasi. Il fenolo e il
cloroformio sono dei solventi organici, che causano la precipitazione delle proteine, che vengono
quindi denaturate e di conseguenza precipitano. In seguito alla centrifugazione e in presenza di
solventi organici si vanno a formare 3 fasi:
1. Fase acquosa: contiene sia il DNA che RNA, quindi gli acidi nucleici
2. L’interfaccia: massa biancastra molto sottile, presente tra le due fasi, che contiene le
proteine precipitate
3. Fenolo: che è stato utilizzato per l’estrazione
➢ Se si utilizza del fenolo equilibrato, con un tampone neutro o basico, nella fase acquosa si
ottiene solo DNA.
➢ Se invece si utilizza fenolo acido, si ha solo RNA nella fase acquosa e il DNA si trova nella
fase organica, ovvero l’interfaccia, mentre le proteine sono insieme al fenolo.
A volte una estrazione fatta in questo modo non è sufficiente a purificare completamente il DNA,
quindi, è possibile fare più estrazioni in sequenza, ma non è consigliato eccedere, perché ripetute
estrazioni potrebbero andare a rompere parte delle molecole di DNA, che è ciò che noi vogliamo
preservare.
METODO DI DIGESTIONE ENZIMATICA
Il trattamento con fenolo è in grado di rimuovere anche molecole di RNA, come mRNA, ma la
maggior parte di RNA rimane nella fase acquosa, insieme al DNA, quindi, per poter andare a
purificare il DNA e quindi eliminare RNA, si può utilizzare una RNAsi, ovvero un enzima che
permette di eliminare, o meglio tagliare e rimuovere l’RNA, che viene aggiunto alla fase acquosa.
Si possono anche utilizzare le proteasi, che sono enzimi che vanno a rimuovere le proteine. Le
proteasi digeriscono le proteine in peptidi più piccoli, che vengono facilmente rimossi. Solitamente
le proteasi vengono aggiunte prima dell’estrazione fenolica e successivamente si procede con
l’estrazione organica per permettere di purificare il DNA.
TECNICHE CROMATOGRAFICHE
Le tecniche cromatografiche permettono di separare la miscela nei suoi vari componenti.
Nel nostro caso, la cromatografia ci aiuta a separare il DNA dagli altri componenti cellulari, come
l’RNA e le proteine. Per purificare il DNA sono usati principalmente due metodi cromatografici,
che sfruttano le differenze di carica elettrica per separare i vari componenti:
● Cromatografia a scambio ionico
● Silica technology
CROMATOGRAFIA = tecnica per separare una miscela di composto nei relativi componenti per
poterli analizzare separatamente. La miscela è nel nostro caso l’estratto cellulare e i vari
componenti sono l’RNA, il DNA e le proteine.
Le tecniche cromatografiche permettono la separazione della miscela perché i suoi diversi
componenti si distribuiscono diversamente tra due fasi immiscibili. La distribuzione è descritta dal
coefficiente di distribuzione, detto anche coefficiente di ripartizione.
Coefficiente di distribuzione (Kd) o coefficiente di ripartizione
Le due fasi vengono rappresentate nei due colori: rosa (A) e
giallo (B).
Il campione, a seconda dell’affinità con le due basi, si
distribuisce in maniera diversa. Il coefficiente di distribuzione
(Kd) è:
Kd rimane costante ad una data temperatura, perché T può variare l’affinità del composto.
Le due fasi immiscibili sono:
● FASE FISSA: quella immobile, detta anche stazionaria, può essere solida o liquida
● FASE MOBILE: che può essere liquida o gassosa, che scorre sopra la fase fissa
Le due fasi immiscibili sono scelte in modo tale che l’affinità dei vari composti da separare sia
diversa. È necessario che i composti da separare abbiano diversa Kd.
L’analita attraversa la fase fissa mediante il flusso della fase mobile, si muove perciò continuamente
fra le due fasi; maggiore è l’affinità per la fase fissa, maggiormente viene trattenuto e di
conseguenza la sua eluizione è ritardata.
Se l’analita ha bassa affinità con la fase fissa, non viene trattenuto e perciò viene eluito in fretta.
Come avviene la separazione/quali sono i passaggi della cromatografia:
1. Preparazione del sistema cromatografico con fase fissa
2. Applicazione del campione, in cui i componenti vanno a interagire con la fase stazionaria
con affinità diverse
3. Applicazione della fase mobile e il movimento
degli analiti, che si distribuiscono in base alla loro
affinità per le due fasi
4. Sviluppo o separazione degli analiti
5. Eluizione degli analiti
Le due principali tecniche cromatografiche per purificare il
DNA sono la cromatografia a scambio ionico e la silica technology
Cromatografia a scambio ionico
Le molecole vengono separate in base ai gruppi funzionali dotati di carica elettrica.
La cromatografia a scambio ionico si basa sulla formazione di un legame IONICO fra la molecola
da purificare e le molecole cariche di segno opposto sulla matrice della fase fissa, associate a
controioni (= ioni di carica opposta).
Nel momento in cui viene ingerito il campione, che presenta la molecola da purificare, si ha
COMPETIZIONE fra la molecola d’interesse e i controioni della fase fissa e l’interazione con i
gruppi carichi elettricamente. A questo punto i controioni vengono scalzati dalla fase fissa e si
legano le molecole di interesse. La separazione avviene quindi in base alla forza di legame con le
particelle di carica opposta.
● Si parla di cromatografia a scambio anionico quando la matrice è carica positivamente e
interagisce con molecole di interesse cariche negativamente
● Si parla di cromatografia a scambio cationico quando la matrice presenta molecole cariche
negativamente e va a interagire con molecole di interesse cariche positivamente
La cromatografia può essere a scambio cationico o anionico, a seconda del segno delle cariche
presenti sulla fase fissa.
La fase fissa, quella stazionaria, è costituita da resine scambiatrici di ioni e questi possono essere:
● scambiatori anionici: resine con gruppi funzionali carichi positivamente che interagiscono
con ioni carichi negativamente (come
nell’esempio gli ioni cloro, che funzionano da
controioni). Inizialmente le resine sono
equilibrate con un tampone in grado di
fornire un controione, che hanno una carica
opposta a quella della resina. Quando i
componenti della miscela vengono eluiti
lungo la colonna, quelli carichi
negativamente spiazzano i controioni e si
legano alla matrice.
● scambiatori cationici: funzionano nello stesso modo ma sono matrici che possiedono gruppi
funzionali carichi negativamente, che vanno a interagire con molecole cariche
positivamente; in questo caso i controioni sono ioni sodio che sono spiazzati da molecole
cariche positivamente.
Un esempio di scambiatore anionico è l’DEAE
(Diethylaminoethyl cellulose): la resina formata da
DEAE è carica positivamente, a cui viene aggiunta
un
estratto costituito da varie molecole che hanno sia
carica positiva che negativa. Quelle con carica
positiva vengono eluite immediatamente, mentre
quelle con carica negativa si vanno a legare con la
DEAE. A questo punto le molecole più affini sono
quelle che vengono eluite alla fine, mentre quelle legate con una forza minore vengono eluite per
prime.
Come applicare la cromatografia a scambio ionico per la purificazione del DNA
Il DNA è carico negativamente, quindi si lega a una resina
carica positivamente. I legami elettrici vengono distrutti
dai sali, quindi la rimozione delle molecole legate più
saldamente richiede concentrazioni più elevate di sali;
aumentando la
concentrazione salina, le
varie molecole si staccano
dalla resina, a seconda della forza di interazione che hanno con la
resina stessa. In condizioni di bassa salinità, tutte le molecole che
non hanno carica negativa, passano attraverso la colonna e vengono
eluite; invece, le molecole cariche negativamente, come il DNA, si
legano alla resina. Aumentando gradualmente la concentrazione dei
sali, vengono prima eluite le proteine cariche negativamente e poi
l’RNA, anch’esso carico negativamente. Il passaggio di una
soluzione a salinità molto alta permette l’eluizione del DNA privo
di RNA e proteine. Il distacco della molecola di interesse dallo
scambiatore avviene modificando la forza ionica del tampone di
eluizione. Si usano quindi ingredienti di forza ionica.
Kit commerciali
Questi kit sono ottimizzati per purificare il DNA. La procedura è basata su
buffer ottimizzati per lisare le cellule, che contengono proteasi. A quel punto il
lisato è legato/caricato sulla colonnina che contiene la resina e il DNA si va a
legare alla resina carica positivamente alle opportune condizioni di basso sale e
pH. L’RNA, le proteine e le impurità a basso peso molecolare sono rimosse
con un lavaggio a medio sale mentre il DNA è eluito in condizioni di alte
concentrazioni di sali e successivamente viene concentrato e desalato (= il sale
viene eluito), grazie alla precipitazione in etanolo, condotta a T ambiente per
minimizzare la co-precipitazione dei sali.
Silica technology
Tecnologia che sfrutta l’utilizzo di particelle di silice. Il DNA si lega alle particelle di silice con
forza in presenza di sali caotropici. Tra questi il più utilizzato a questo scopo è il guanidinio
tiocianato.
Gli agenti caotropici, come il guanidinio tiocianato, sono composti che vanno a interferire con i
legami H, responsabili dell’interazione con l’acqua, permettendo l’interazione del DNA carico
negativamente, con la silice, carica positivamente.
Nel momento in cui la concentrazione dei sali è bassa, l’aggiunta di acqua va a destabilizzare il
legame tra DNA e silice e quindi il DNA viene eluito.
PASSAGGI CHE SI HANNO QUANDO SI UTILIZZA UNA
COLONNINA CON MEMBRANA DI SILICE
L’estratto viene caricato sulla colonnina, la cui matrice è fatta di
particelle di silice e all’estratto viene aggiunto il guanidinio
tiocianato. Polisaccaridi e proteine non si legano alla membrana e
vengono rimossi. Gli acidi nucleici legano la membrana e a quel
punto viene fatto un lavaggio con un buffer contenente alcool per
eliminare i sali; l’RNA è eliminato lavandolo con un buffer
contenente RNAsi (enzima che va a distruggere l’RNA). Il DNA
viene purificato, ovvero viene eluito aggiungendo acqua, la quale
va a destabilizzare le interazioni tra DNA e silice, permettendone
così la dissociazione, eluizione nonché purificazione.
Esistono anche in questo caso dei kit commerciali, che si basano
sulla silica technology; uno di questi kit è quello che verrà
utilizzato durante l’esperienza in laboratorio per purificare il DNA,
che viene chiamato DNAse, della ditta Qiagen.
Il kit va a combinare le proprietà di legame della silice con la
tecnologia micro-spin, ovvero la centrifugazione. Le cellule
vengono lisate, si ottiene un estratto cellulare, al quale viene
aggiunto il guanidino tiocianato e il tutto viene caricato su una
membrana di silice. Tutti i contaminanti vengono eluiti e rimane
legato solo il DNA. Vengono eliminati i sali caotropici con un
buffer su base alcolica e a quel punto per poter eluire il DNA
viene aggiunta acqua.
CONCENTRAZIONE DEL DNA
Come è possibile concentrare il DNA?
Prima di rispondere a questa domanda, ci si deve chiedere come mai è importante concentrare il
DNA. Molto spesso nel momento in cui una soluzione di DNA viene purificata dall’estratto, si
ottiene una soluzione molto diluita. Per gli esperimenti che vengono fatti successivamente alla
purificazione è necessario andare a concentrarlo.
La concentrazione avviene solitamente facendo precipitare il DNA con alcool, che può essere
isopropanolo o etanolo, in presenza di cationi monovalenti. Tutto questo deve avvenire a una T = 20° o inferiore.
In presenza di cationi monovalenti e a una T di -20° o
inferiore, l'alcool, quindi isopropanolo o etanolo, ma
in particolare l’etanolo, è in grado di far precipitare
efficacemente i polimeri di acido nucleico. Se la
soluzione è satura di DNA, l’etanolo viene posto sul
menisco superiore del campione (come si può vedere
nell'immagine di sx, (a)). A questo punto si ha
l’accumulo del DNA precipitato a livello
dell'interfaccia fra le due fasi, quindi etanolo e la
soluzione concentrata di DNA. Un trucco consiste
nell’immergere una asticella di vetro attraverso
l’etanolo, nella soluzione di DNA e quando l’asticella viene estratta, le molecole di DNA
aderiscono all’asticella e nel momento in cui l’asticella viene tirata su si formano proprio dei lunghi
filamenti, che non sono altro che le fibre di DNA. In questo modo è possibile, avendo solo le
molecole o meglio le fibre di DNA, trasferirle in un altro solvente che è presente in minor quantità e
quindi è possibile concentrarlo.
In alternativa miscelando l’etanolo con la soluzione di DNA diluita, questo va a precipitare e quindi
può essere recuperato, sotto forma di pellet, che si ottiene per centrifugazione. Eliminando la parte
del surnatante, il pellet può essere risospeso e si ha un volume di acqua più basso. La precipitazione
in etanolo ha il vantaggio di lasciare gli acidi nucleici a catena corta e le loro componenti
monomeriche in soluzione. Così è possibile eliminare in questa fase i ribonucleotidi generati dal
trattamento con le ribonucleasi.
Dopo che si ha fatto precipitare il DNA, per poterlo concentrare, è necessario rimuovere i cationi
monovalenti, che possono interferire con le successive analisi molecolari. A questo scopo, viene
effettuato un lavaggio con etanolo, concentrato al 70%; in seguito al lavaggio i cationi monovalenti
vengono eliminati. Si può così eliminare anche l’etanolo e risospendere il DNA in acqua, per
utilizzarlo negli esperimenti successivi.
QUANTIFICAZIONE DEL DNA
Quantificare il DNA significa misurare la concentrazione del DNA estratto. Questa informazione è
necessaria per tutti gli esperimenti che verranno fatti a partire dal DNA estratto.
La concentrazione del DNA può essere misurata accuratamente, tramite SPETTROFOTOMETRIA
UV.
SPETTROFOTOMETRIA = tecnica ottica di analisi basata sull’interazione delle radiazioni
elettromagnetiche, come quelle ultraviolette o visibili, con la materia.
Quando la tecnica spettroscopica si basa sull’assorbimento della radiazione elettromagnetica da
parte della materia, si parla di spettroscopia di assorbimento.
Quando le radiazioni, comprese nel visibile e ultravioletto, vengono assorbite dalla materia,
provocano una redistribuzione degli elettroni di valenza, ossia una loro transizione.
Nel momento in cui le molecole assorbono una radiazione di lunghezza d'onda compresa tra 200800 nm, quindi nello spettro del visibile, si verifica la promozione o transizione di un elettrone della
molecola dallo stato fondamentale allo stato eccitato.
Per far avvenire la transizione è necessaria una certa quantità di energia, chiamata energia di
attivazione, fornita dalla radiazione elettromagnetica incidente, che colpisce la materia.
Quando l’elettrone ritorna dallo stato eccitato allo stato fondamentale, la molecola cede energia
sotto forma di radiazioni elettromagnetiche; si parla quindi di luce trasmessa.
Non tutte le molecole assorbono nel visibile, ma solo quelle che hanno degli elettroni delocalizzati,
che in presenza dell’energia di attivazione passano da uno stato a un altro.
Queste molecole sono quelle che hanno:
● Doppi legami
● Doppietti liberi
● Doppi legami coniugati
● Anelli aromatici
Un esempio è la molecola di DNA.
PARAMETRI RELATIVI ALL’ASSORBIMENTO
La trasmittanza e l’assorbanza sono due parametri relativi alla spettrofotometria di assorbimento.
La trasmittanza misura la frazione di luce incidente che viene trasmessa. Quando la luce incidente
(I0), che altro non è che la fonte di energia, passa attraverso un campione, a quel punto questa viene
assorbita e di conseguenza l'intensità della luce diminuisce. L’intensità della luce trasmessa
attraverso il campione (I) è minore di quella incidente (I < I0).
Per misurare la trasmittanza (T): T = I/I0
L’assorbanza misura quanta parte di luce incidente viene assorbita quando passa attraverso il
campione.
L’assorbanza (A) è facilmente misurabile partendo dalla trasmittanza, è quindi:
STRUMENTAZIONE
SPETTROFOTOMETRO
L’assorbanza è possibile misurarla tramite lo SPETTROFOTOMETRO.
Lo spettrofotometro presenta una sorgente di luce rappresentata da una lampada che genera un
fascio di luce.
La lampada è a filamento di tungsteno per il visibile e a deuterio o idrogeno per l’ultravioletto.
Il fascio di luce passa attraverso un filtro monocromatore, che lascia passare solo una determinata
lunghezza d’onda, che sarà poi la luce incidente.
La luce incidente attraversa il campione da analizzare, presente in soluzione, posto all’interno di
una cuvetta (= contenitore dalla forma di un parallelepipedo di lunghezza variabile). La lunghezza
della cuvetta viene chiamata cammino ottico e solitamente misura 1 cm.
La luce trasmessa dal campione raggiunge il rivelatore, chiamato anche detector, che trasforma
l’intensità della radiazione elettromagnetica emessa in un segnale elettrico. Il registratore fornisce il
valore di assorbanza.
Gli spettrofotometri possono essere:
● A singolo raggio: vi è una sola cella
di alloggiamento del campione,
quindi, tutta la luce monocromatica
selezionata attraversa il campione;
essendoci una sola cella, la lettura del
bianco avviene prima della lettura del
campione.
Cos’è il bianco? Come già detto, le molecole da analizzare come il DNA, sono in soluzione,
quindi in un reagente o buffer. Anche il reagente può assorbire la luce monocromatica
incidente e questa assorbanza andrebbe a sommarsi all’assorbanza del campione,
determinando una sovrastima della quantità di molecole di interesse presenti. Per questo
motivo si fa la lettura allo spettrofotometro del bianco, ossia si va a leggere e determinare
l’assorbanza del singolo buffer, privo degli analiti di interesse, e poi tale valore lo si va a
sottrarre all’assorbanza misurata in seguito alla lettura del campione in soluzione. Questa
operazione viene chiamata sottrazione del bianco e generalmente viene fatta in automatico
dallo strumento.
● A doppio raggio: ci sono due celle di alloggiamento, una per il bianco e una per il campione.
Considerando che entrambe le celle devono
essere colpite dalla luce monocromatica
incidente, questa viene sdoppiata, grazie
all’utilizzo di specchi, in due raggi uguali per
intensità e frequenza. Un raggio colpisce il
campione, mentre l’altro il bianco.
Esempi di spettrofotometro a cuvetta
Dopo aver impostato la lunghezza d’onda d’interesse, la cuvetta con il
campione viene posizionata dall’operatore nell’alloggiamento e si procede
con la lettura dell’assorbanza.
Esempio di nanodrop
Esistono degli spettrofotometri che sono in grado di misurare microvolumi di
campioni in GOCCIA, per questo motivo sono chiamati nanodrop. Per questi
spettrofotometri è sufficiente un volume di 0,5-1 uL (microlitri), che è utile
quando si ha poco materiale di partenza. La goccia di campione viene
posizionata con una micropipetta direttamente sulla superficie ottica inferiore
(come si vede nella prima immagine).
Viene poi tirato giù il braccio di leva, in modo che la goccia sia compressa tra
le due superfici.
Un liquido, quando si trova tra due superfici vicine, esercita tensione superficiale; in questo modo si
forma una colonna di liquido tra le due superfici ottiche, che può essere analizzata in modo
semplice e veloce. Anche in questo caso il bianco viene misurato prima di procedere con la
misurazione del campione.
LEGGE DI LAMBERT-BEER
Per ricavare la concentrazione del campione dall’assorbanza, lo si fa grazie all’applicazione della
legge di Lambert-Beer.
𝜖 = assorbanza specifica di una
soluzione a concentrazione
molare unitaria a una data
lunghezza d'onda attraverso una
cella di lunghezza ottica unitaria.
È costante per la stessa
soluzione.
Il cammino ottico è il cammino percorso dalla luce attraverso il campione. In altre parole, è lo
spessore della cuvetta.
Poiché il cammino ottico è pari a un centimetro, per calcolare la concentrazione, sarà sufficiente
dividere il valore di assorbanza per il coefficiente di estinzione molare.
Se ne deduce che l’assorbanza è direttamente proporzionale alla concentrazione della soluzione
analizzata. Maggiore è l’assorbanza misurata, maggiore è la concentrazione della soluzione che è
stata misurata tramite lo spettrofotometro.
Perché si utilizza la spettrofotometria per quantificare il DNA?
Le tecniche spettrofotometriche possono essere applicate a tutte le
molecole in grado di assorbire le radiazioni elettromagnetiche, quindi
ovviamente anche al DNA. Nello specifico, il DNA, data la sua
struttura molecolare, assorbe nell’UV, in quanto in esso sono presenti
sistemi aromatici delle basi azotate che fanno sì che abbia un picco di
assorbimento a una lunghezza di 260 nm.
SPETTRO DI ASSORBIMENTO del DNA
Il grafico in nero rappresenta il tipico assorbimento del DNA:
●
In ascissa viene riportata la lunghezza d’onda
●
In ordinata è riportata l’assorbanza (OD = unità di
densità ottica)
Lo spettro di assorbimento non è altro che un grafico che
mostra come cambia l’assorbanza alle varie lunghezze d’onda.
Come si legge dal grafico il picco di assorbanza del DNA è a
260 nm, come è stato precedentemente detto.
Lo spettro di assorbimento in rosso è relativo invece alle
proteine, composte da aa con sistemi aromatici, che assorbono a
280 nm.
QUANTIFICAZIONE DEL DNA
Quando si misura un campione di DNA allo spettrofotometro, impostando la lunghezza d’onda a
260 nm, si ottiene l’assorbanza di quel campione (in OD). Per il DNA vale la seguente relazione:
(1 OD misurata a 260 nm corrisponde a 50 microgrammi/ml)
Quindi, per calcolare la concentrazione del DNA analizzato, bisogna impostare la seguente
proporzione:
Anche X sarà espressa in microgrammi/ml e la si ottiene risolvendo la proporzione:
Il tutto è stato moltiplicato anche per il fattore di
diluizione, solo che questa operazione deve essere
fatta solo se il DNA è stato diluito in un opportuno
solvente prima di essere analizzato.
COME SI VALUTA LA PUREZZA DEL DNA
Utilizzando lo spettrofotometro è possibile anche misurare la purezza del campione di DNA per
capire se sono o meno presenti dei contaminanti derivati da una non corretta estrazione del DNA.
1. A questo scopo si va a valutare il rapporto tra l'assorbanza misurata a 260 nm e l’assorbanza
misurata a 280 nm.
Se il valore è:
● compreso tra 1.8 e 2: il DNA è puro
● < 1,8 (più piccolo di 1,8): il DNA è contaminato da proteine o da fenolo, i quali non sono
stati correttamente eliminati durante i vari passaggi dell’estrazione del DNA
● > 2 (maggiore di 2): il campione di DNA è contaminato da RNA o altri composti, che
assorbono a 260 nm
2. Il secondo parametro che viene valutato per definire se il DNA estratto è puro, è il rapporto
dell’assorbanza misurata a 260 nm e quella misurata a 230 nm.
Se il rapporto risulta:
● Compreso tra 2-2.2: il DNA è puro
● < 2: il DNA è contaminato con EDTA o fenolo o carboidrati o cloruro di guanidinio, che
sono tutti contaminanti derivati da una non corretta estrazione del DNA
ESERCIZIO 1 (esercizi relativi alla quantificazione del DNA)
Se noi volessimo il risultato in
ng/𝜇l, il risultato sarebbe
comunque 10 ng/𝜇l, perché se
si passa da 𝜇g a ng, si hanno 3
cifre di differenza e stessa cosa
passando da ml a 𝜇l, quindi in
sostanza non cambia dire 10
𝜇g/ml o dire 10 ng/𝜇l.
ESERCIZIO 2
Bisogna ricordare che alcuni campioni di DNA, prima di essere misurati, vengono diluiti in un
opportuno solvente, come nel caso di questo esercizio, infatti, per poter andare a misurare questo
DNA, si prendono 10 𝜇l di DNA e lo si diluisce al solvente (con un volume di 990 𝜇l) per un
volume finale di 1000 𝜇l, quindi 1 ml. Questo 1 ml viene trasferito nella cuvetta.
La concentrazione che è stata ottenuta non è quella del
campione, quindi la concentrazione iniziale, ma la
concentrazione che si ha di DNA all’interno della
cuvetta. È la concentrazione dopo aver diluito il
campione, mentre l’obiettivo è sapere qual è la
concentrazione iniziale del campione non diluito.
Ci sono due metodi per calcolare la concentrazione iniziale del campione:
1. Utilizzo del FATTORE DI DILUIZIONE:
Da quanto è stato ricavato nella prima parte dell’esercizio, sono stati diluiti 10 𝜇l di
campione in un 1 ml finale. 1 ml = 1000 𝜇l, questo vuol dire che il campione è 100 volte in
meno rispetto al volume totale. Il fattore di diluizione è 100, di conseguenza per capire qual
è la concentrazione del DNA, quindi la concentrazione iniziale, bisogna moltiplicare la
concentrazione del DNA, che si ha ottenuto con la proporzione, per il fattore di diluizione,
quindi 100:
Quello che si ottiene è 2000 microgrammi/ml o 2 𝜇g/𝜇l
2. Utilizzo della FORMULA della DILUIZIONE: C1 x V1 = C2 x V2, dove C sta per
concentrazione, mentre V per volume.
Solitamente il C1 è la concentrazione iniziale e il V1 è il volume iniziale. La C2 è la
concentrazione finale mente V2 è il volume finale.
● L’incognita è C1.
● V1 è 10 𝜇l ed è il volume iniziale perchè è il volume del campione che noi
preleviamo per andare a diluirlo.
● C2 è quella misurata nella cuvetta (20 𝜇g/𝜇l)
● V2 = 1 ml
Risolvendo l'equazione si ottiene che C1 = 2 𝜇g/𝜇l.
Come si può vedere, nonostante l’utilizzo di due metodi differenti, il risultato non è
cambiato, quindi, si può decidere quale dei due usare.
ESERCIZIO 3:
Il campione di DNA è concentrato 500 ng/𝜇l.
La domanda è: quanto volume si deve prelevare per avere 1,5 microgrammi?
IMPORTANTE: quando si va a fare una proporzione, è necessario che le unità di misura a destra e
a sinistra siano le stesse. Quindi 1,5 𝜇g diventa 1500 ng.
Per avere quindi una quantità di 1,5 𝜇g, partendo da DNA
concentrato a 500 ng/𝜇l, bisogna prelevare 3 𝜇l.
ELETTROFORESI DEL DNA
ELETTROFORESI = tecnica di separazione che sfrutta la diversa velocità di migrazione di
particelle cariche sotto l’influenza di un campo elettrico.
Per far sì che avvenga la separazione è necessario che le particelle siano cariche, ossia che
possiedano gruppi o residui ionizzabili.
Quando una molecola dotata di una carica elettrica viene posta in un campo elettrico, essa migra
verso l’elettrodo dotato di carica opposta:
➢ Le particelle cariche positivamente migrano verso il polo negativo
➢ Le particelle cariche negativamente, come il DNA, migrano verso il polo positivo
Aa, proteine, nucleotidi e acidi nucleici sono molecole che possono essere separate per elettroforesi.
In figura si vede una schematizzazione dell’elettroforesi. Nelle posizioni 1,
2, 3 e 4 sono presenti 4 campioni costituiti da particelle cariche (in questo
esempio cariche negativamente, come il DNA).
I campioni vengono caricati su un supporto e per far sì che le particelle si
muovano attraverso di esso e si separino è necessario che venga applicato
un campo elettrico.
Nel momento in cui si genera il campo elettrico, le particelle cariche
negativamente, che costituiscono il campione, migrano dal polo negativo
al polo positivo. Durante la migrazione sono costrette ad attraversare il
supporto e in questo modo vengono separate posizionandosi in punti
diversi del supporto. Affinché la corrente venga condotta fra gli elettrodi,
è necessario che il supporto sia immerso in un opportuno tampone.
La corrente viene condotta grazie agli ioni presenti nel tampone, che
viene chiamato tampone di liberazione o corsa e ha la funzione di
mantenere le molecole del campione in uno stato ionizzato, senza legarsi
ai composti da separare.
La concentrazione del tampone oscilla tipicamente tra 0,05 e 0,10 M e il
pH può variare da tampone a tampone e viene scelto in base alle molecole da separare, proprio
perché l’opportuno pH determina, influenza e stabilizza la migrazione della specifica molecola.
Solitamente il tampone di corsa scelto viene utilizzato anche per preparare il supporto di liberazione
SUPPORTO DI LIBERAZIONE
SUPPORTO DI LIBERAZIONE = materiale
poroso, che funge da setaccio molecolare. Quando,
in seguito all’applicazione di corrente, le particelle
che costituiscono il campione vengono forzate a
passare attraverso di esso, queste si posizioneranno
e quindi separeranno principalmente in base alla
loro dimensione:
➢ Le particelle più grandi (in giallo
nell’immagine) fanno più fatica a passare
attraverso i pori del supporto perché
ostacolate, quindi migrano più lentamente.
➢ Le particelle più piccole (in fucsia) attraversano con più facilità i pori del supporto e non
essendo ostacolate, o comunque poco ostacolate, migrano più velocemente e si posizionano
nella parte più bassa del gel.
Caratteristiche di un buon supporto:
● Resistente per poter essere maneggiato
● Idrofilo per impedire interazioni idrofobiche
● Privo di carica propria
● Stabile in un'ampia gamma di pH, forza ionica, temperatura ecc.
● Con porosità definita per controllare l’effetto setaccio, infatti il grado di porosità è scelto
dall’operatore/ricercatore in base alla dimensione delle molecole che si vogliono separare
In generale i materiali utilizzati devono essere relativamente inerti
I principali materiali di supporto sono:
● Cellulosa
● Acetato di cellulosa
● Silice
● Amido
Queste molecole servono a separare piccole molecole (aa, peptidi, carboidrati)
● Agarosio à ha una capacità di risoluzione bassa e separa molecole di DNA lunghe (decinecentinaia Kb)
Per separare molecole di DNA
● Gel di poliacrilammide
Per separare molecole di DNA di ridotte dimensioni (max 1000kb); il gel di poliacrilammide
ha una elevata risoluzione e viene utilizzato per separare le proteine
Quindi per il DNA possono essere utilizzate due matrici:
● AGAROSIO:
Zucchero solubile ottenuto dalle alghe, che forma una matrice attraverso i legami H fra le sue
catene laterali. La dimensione dei pori nel reticolo di agarosio è più grande, per questo ha una
inferiore capacità di risoluzione, infatti viene utilizzato per separare molecole di DNA lunghe
(decine-centinaia Kb)
● POLIACRILAMMIDE:
Si forma dalla polimerizzazione dell’acrilammide e bisacrilammide, con formazione di legami
trasversali che formano il reticolo tridimensionale. In questo caso le dimensioni dei pori sono più
piccole, quindi, la capacità di risoluzione è elevata perché possono essere separate molecole di
dimensioni limitate.
Come già detto, le particelle cariche vengono separate principalmente in base alla loro dimensione
ma non solo; la velocità di migrazione e la separazione dipendono anche da:
● Massa
● Carica
● Forma
Maggiore sarà la massa e la quantità di carica, maggiore sarà la velocità di migrazione. Particelle
uguali per dimensione e quantità di carica migrano diversamente in base alla loro forma.
STRUMENTAZIONE
Per far avvenire un’elettroforesi, nello specifico
un’elettroforesi del DNA, è necessario un
alimentatore, detto anche “power”, che fornisce la
corrente e la tensione adeguata. Questo è collegato ad
un apparato dell’elettroforesi, chiamato cella
elettroforetica. Si tratta di un contenitore di plastica,
che presenta i due elettrodi, positivo e negativo,
all’interno del quale viene messo il tampone per
condurre la corrente.
L’apparato può essere orizzontale, come quello utilizzato per il gel di agarosio, o verticale, come
quello utilizzato per il gel di acrilammide.
GEL DI AGAROSIO
Agarosio
L’agarosio è un polisaccaride lineare, costituito da ripetizioni di unità
del disaccaride agarobiosio.
Una molecola di agaorobiosio è costituita da una molecola di galattosio
e una molecola di 3,6-anidro-galattosio.
L’agarobiosio è il costituente principale dell’agar, ossia una miscela di
polisaccaridi derivati da alcune specie di alghe marine
L’agarosio si presenta come polvere, la quale viene solubilizzata in un tampone acquoso. È solubile
solo a T di ebollizione e diventa solido quando si raffredda.
La formazione dei legami H intra- ed intermolecolari fanno sì che il gel si solidifichi in una matrice
costituita da pori. La dimensione dei pori dipende dalla concentrazione dell‘agarosio (maggiore è la
concentrazione dell’agarosio, più sono fitte le maglie del gel e più piccoli sono i pori; minore è la
concentrazione del gel, più le maglie sono larghe e più lo sono anche i pori. Il range di
concentrazione di agarosio usato va da 0,8 al 3%.
PASSAGGI PER LA PREPARAZIONE DI UN GEL DI AGAROSIO:
1. Preparazione del vassoio con il pettine:
Il vassoio è parte del supporto per far solidificare
il gel dopo averlo sciolto. Il vassoio è chiuso da
due lati, mentre in altri due lati è aperto. Quando
si va a colare il gel, in quanto è liquido, si ha
bisogno di un supporto chiuso da tutte e quattro le
pareti; il vassoio ci serve come contenitore del
gel. Si ha bisogno poi del pettine, che viene
inserito nel vassoio e serve per creare gli
alloggiamenti o pozzetti, dove caricare il
campione. Il campione verrà caricato negli
alloggiamenti che si formeranno in corrispondenza dei dentini del pettine.
In corrispondenza del dentino del pettine non si formerà il gel e quindi ci sarà una piccola
cavità, che servirà da alloggiamento del campione.
2. Pesata dell’agarosio
Dopo aver preparato il supporto, si pesa l’agarosio (l’agarosio è la
polvere bianca che si vede nell’immagine) e si utilizza una
bilancia, dove viene posizionato un becher. Con una spatola viene
prelevato dell’agarosio, che viene posizionato all'interno del
becher e successivamente pesato. Quanto se ne pesa dipende dalla
concentrazione del gel che si vuole ottenere (se ne pesa di più se la
concentrazione è alta e meno se la concentrazione è bassa).
3. Addizione del tampone
All’interno del becher, dove è stato pesato l’agarosio, si va ad
addizionare il tampone, che non è altro che lo stesso tampone di
corsa che è stato utilizzato per riempire la cella elettroforetica, il
quale è un tampone su base acquosa, che viene utilizzato per
sciogliere l’agarosio e formare il gel.
I tamponi maggiormente utilizzati per il gel di agarosio, quindi
tamponi che servono sia per la corsa sia per andare a sciogliere il
gel sono:
● TAE buffer: (in assoluto il più utilizzato) il nome deriva
dalle componenti presenti all’interno, in quanto è presente 0,04 M Tris-Acetato,
0,001 M EDTA. Ha un pH di 8,0.
● TBE buffer: anche in questo caso il nome deriva dalle componenti, infatti è presente
0,089 M Tris base, 0,089 M acido borico e 0,002 M di EDTA. Ha un pH di 8,3
4. Ebollizione
La polvere di agarosio, alla quale è stato aggiunto il tampone,
deve essere sciolta perché, come già detto, l’agarosio si scioglie
solo se portato ad ebollizione, infatti, nel momento in cui viene
aggiunto il tampone alla polvere di agarosio, questo non si
scioglierà, ma rimarrà molto torbido con la polvere di tampone.
Per portare ad ebollizione si mette il becher all’interno di un
microonde o si utilizza una piastra riscaldante (come si vede
nell’immagine).
Quando è pronto il gel, ovvero quando si è sciolto completamente? Il gel è pronto quando
appare completamente trasparente. Nel momento in cui si va a sciogliere il gel non si deve
utilizzare una T troppo alta, perché l’agarosio può degradarsi ma non si deve nemmeno
utilizzare una T troppo bassa, perché anche in questo caso a sciogliersi ci metterebbe molto.
Si deve utilizzare una T intermedia, in modo che l’agarosio si sciolga senza degradarsi ma in
tempi abbastanza brevi.
5. Colatura
Bisogna colare il gel, ovvero lo bisogna posizionare,
ancora liquido, all’interno del supporto per farlo
solidificare. Quello che si vede nell’immagine è il vassoio,
che ha le estremità in alto e in basso libere. Per poter
creare una cameretta chiusa è inserito all’interno un
supporto bianco che serve per creare le due pareti
mancanti e quindi creare una camera chiusa. Nel momento
in cui si cola il gel, i pettini devono essere già posizionati.
6. Solidificazione
Dopo che il gel è stato colato dovrà essere raffreddato e nel momento in cui si è raffreddato
si solidificherà. Per la solidificazione ci vorranno almeno 15 minuti.
7. Rimozione di pettine e cornice di plastica
Dopo che il gel si è solidificato, si va a rimuovere il pettine e,
andandolo a rimuovere, lì dove era presente il pettine non si sarà
formato il gel, ma si saranno formati dei piccoli alloggiamenti per
il campione. Viene rimossa pure la cornice di plastica, ovvero la
parte esterna bianca che serviva per formare la camera chiusa.
8. Si ottiene un gel rigido e solido, all’interno del vassoio, con i
pozzetti, che sono gli alloggiamenti del campione
9. Trasferimento in cella elettroforetica, immerso nel tampone, e caricamento dei campioni,
iniettandoli nei pozzetti
Il gel con tutto il vassoio viene posizionato all'interno
della cella elettroforetica. La cella elettroforetica, come
già detto, è formata dai due poli: il polo negativo è
solitamente rappresentato con il nero, invece, in rosso è
colorato il polo positivo. Nella cella elettroforetica
avverrà l’elettroforesi, ovvero la migrazione dei
campioni.
Viene posizionato il vassoio con il gel in maniera corretta, ovvero i pozzetti devono essere
più vicini al polo negativo, perché il DNA è carico negativamente, quindi, nel momento in
cui verrà applicato il campo elettrico, tenderà a migrare dal polo negativo a quello positivo e
attraverserà così il gel di agarosio. Se viene posizionato in maniera opposta, nel momento in
cui migra dal polo negativo al polo positivo, invece di attraversare il gel, fuoriuscirà
all’interno della cella elettroforetica e non si riesce così a fare la migrazione.
Dopo aver posizionato il vassoio con il gel, si deve ovviamente, per fare in modo che la
corrente passi, riempire la cella elettroforetica di tampone di corsa completamente, fino a
sovrastare di qualche mm il gel, quindi, tutto il gel deve essere immerso e deve andare
all’interno dei pozzetti.
Si è pronti così a caricare il campione, che deve essere caricato all’interno di un pozzetto e a
quel punto si può far partire la corsa elettroforetica.
CAMPIONI
I campioni non possono essere caricati così come vengono estratti ma, prima di essere caricati nel
gel, devono essere preparati, ovvero devono essere addizionati glicerolo o saccarosio, che ne
aumentano la densità. Questo serve perché all’interno dei pozzetti vi è un tampone, quindi è
presente già un liquido. Se si mettesse direttamente il campione, proprio perché si inserisce un
liquido all’interno di un altro liquido, i due si mescolerebbero e il campione tenderebbe ad uscire o
comunque a non essere ben compattato nel pozzetto. Utilizzando il glicerolo o il saccarosio, il DNA
diventa leggermente più pesante, proprio perché il glicerolo o saccarosio sono di una densità
maggiore e quindi il campione viene tirato giù sul fondo del pozzetto, senza disperdersi nel liquido.
Oltre al glicerolo o saccarosio, viene addizionato anche un colorante, che ha due funzioni:
1. Colorare il campione, perché il DNA è trasparente e per questo motivo, per riuscire a capire
se il campione è stato caricato correttamente all’interno del pozzetto e non è fuoriuscito, è
sempre meglio utilizzare il colorante per colorare il campione.
2. È la sua funzione principale, ovvero quella di capire quando fermare la corsa elettroforetica,
perché permette di visualizzare l’andamento della corsa elettroforetica. I coloranti utilizzati
possono essere diversi, ma solitamente si tratta di molecole piccole, che corrono più
velocemente del campione. Quando queste molecole arrivano alla fine del gel, allora si va a
stoppare la corsa elettroforetica.
Uno dei coloranti maggiormente utilizzati è l’orange G, che è di colore arancione ed è una molecola
leggerissima, che quindi corre molto velocemente davanti al campione.
Possono essere utilizzati anche altri coloranti:
● BPB (Blu di bromofenolo), di colore blu
● XC (xilene cianolo), di colore azzurro
● Tartrazina, di colore giallo
Questi coloranti, avendo dimensioni diverse, si posizionano nel gel in posizioni
diverse; ad esempio, lo xilene cianolo essendo il più pesante, corre meno
velocemente e si trova in alto nel gel. Il BPB è una molecola con una dimensione
intermedia e quindi corre più velocemente dello xilene cianolo e si posiziona circa a
metà del gel. L’orange G, con un peso molecolare molto piccolo, migra molto
velocemente e si trova in fondo al gel.
Questo serve a capire come sta migrando il campione ed essendo il DNA trasparente,
questo permette di essere sicuri che il tempo di corsa sia sufficiente per separare le
molecole, ma non eccessivo, perché il DNA, facendolo correre per troppo tempo, potrebbe anche
fuoriuscire dal gel.
Questi coloranti possono essere utilizzati da soli o essere messi in combinazione.
10. Collegamento ad un alimentatore e migrazione elettroforetica
La cella elettroforetica viene chiusa con un coperchio, il quale è collegato agli elettrodi, che
vengono inseriti all’interno del power. A questo punto viene impostata una velocità di 100V, quindi
viene applicato un campo elettrico e la corrente passa
attraverso il campione e il gel di agarosio e le molecole di
DNA migrano dal polo negativo a quello positivo attraverso
il gel.
Si imposta l’alimentatore a 100V perché in realtà non ci deve
essere un'intensità troppo alta, perché solitamente quando
viene applicato il campo elettrico, quindi quando vi è della
corrente, si sprigiona calore per effetto Joule, quindi, nel
momento in cui noi surriscaldiamo troppo il gel, si ritorna
alla situazione in cui il gel è sulla piastra riscaldante, quindi,
lo si va a sciogliere e di conseguenza, proprio perché il gel è
leggermente sciolto, i campioni non migrano in maniera
corretta.
Non deve essere nemmeno a una velocità troppo bassa altrimenti le molecole andranno troppo poco
velocemente e quindi oltre ad allungare i tempi dell’analisi, si rischia che le bande non essendo
forzate a passare più velocemente attraverso il gel, inizino a diffondere, formando così una macchia
allargata.
Nell’immagine sottostante vi è un esempio di quello che si dovrebbe ottenere, cioè quello che si va
a visualizzare alla fine della corsa elettroforetica. Non si vede il DNA, ma quello che noi vediamo
sono i coloranti e in questo caso ne sono stati usati due, ossia lo xilene cianolo e il BPB.
Come è avvenuta la corsa?
I frammenti lineari più piccoli migrano più velocemente di quelli
più grandi.
A parità di peso molecolare, il DNA circolare migra più
velocemente di un DNA lineare, perché il DNA circolare si va a
compattare maggiormente e quindi migra più velocemente rispetto
a quello lineare.
Grazie ai coloranti è possibile valutare in ogni istante l’andamento
della migrazione.
È riportata una rappresentazione che riassume l’elettroforesi
del DNA sul gel di agarosio:
È rappresentata la cameretta, con il catodo che è l’elettrodo
negativo e l’anodo che è l’elettrodo positivo; è stato inserito
il tampone che va a ricoprire di qualche ml il gel di agarosio
e quello che si vede è un pozzetto, dove all’interno sono
presenti dei frammenti di DNA e nel momento in cui viene
applicata corrente elettrica, il DNA fuoriesce dal pozzetto e
attraversa il gel; le molecole più piccole migrano verso
l’anodo più velocemente, mentre quelle più pesanti migrano
meno velocemente e si ritrovano così più vicine al pozzetto.
RIVELAZIONE
Come si fa a rilevare il DNA, come si fa a visualizzare il
campione?
Il DNA, come già detto, è trasparente e quello che si vede
durante la migrazione è il colorante. Per poter visualizzare il
DNA, bisogna posizionare il gel, con il campione, che sono
stati separati durante la migrazione, sopra una lampada UV.
I transilluminatori sono strumenti che presentano
delle lampade UV. Queste lampade vanno a
irradiare il gel e di conseguenza le bande relative
al DNA possono essere visualizzate.
Ovviamente, considerando che vengono
utilizzati degli UV, bisogna fare attenzione agli
occhi, ecco perché nel momento in cui si va ad
accendere la lampada, è necessario proteggersi,
posizionando sul transilluminatore uno schermo
in plexiglass.
L’immagine può essere acquisita sia fotografandola su un film come se fosse una foto, o acquisita
con fotocamere digitali.
Il risultato che si ottiene è quello mostrato in figura:
ci sono delle molecole di DNA diverse, che sono state caricate nei vari pozzetti e all’interno di
ciascun pozzetto, le varie molecole di DNA si posizionano e si separano nel gel, a seconda delle
loro dimensioni.
Come si fa a visualizzare le bande di DNA sotto la luce UV?
Quello che si visualizza non è il DNA, ma un intercalante, ovvero una
molecola fluorescente in grado di intercalare fra le coppie di basi del
DNA e quindi rendere visibile il DNA.
Uno dei coloranti intercalanti, che veniva
utilizzato fino a poco fa, era l’etidio
bromuro. Questa sostanza, essendo
mutagena, è andata in disuso, quindi, nei
laboratori non viene più utilizzata o
comunque nei pochi laboratori in cui viene
ancora usata, bisogna fare particolare attenzione, per non entrare in
contatto con la molecola.
Per questa ragione vengono utilizzate delle sostanze intercalanti non mutagene, che colorano in
rosso, in verde o in blu.
Ad esempio, questo rappresentato viene chiamato GreenGel proprio perché le
bande di DNA che sono visualizzate sono di colore verde; la fluorescenza è
quindi di colore verde.
Le bande più in alto sono a peso molecolare più alto rispetto a quelle più in basso
che lo hanno minore.
Quando si aggiunge il GreenGel? Lo si aggiunge dopo aver sciolto il gel di
agarosio, prima che si solidifichi, quindi subito prima di colarlo.
MARCATORE DI PESO MOLECOLARE
Si possono misurare le dimensioni dei vari frammenti di DNA. Un sistema approssimativo per fare
ciò può essere fatto utilizzando un marcatore di peso molecolare.
MARCATORE DI PESO MOLECOLARE = miscela di frammenti di DNA diversi, che hanno
lunghezza diversa e nota.
Di marcatori di peso molecolare ce ne sono
tanti (nell’immagine ne sono riportati 4) e
ovviamente vengono comprati da delle ditte.
Le differenze tra i vari marcatori sono i vari
range di dimensioni diverse; ad esempio, il
primo ha una banda più in alto di 10.000 pb e
la banda più in basso di 1000, nel secondo vi è
una dimensione più grande e un range più
ampio, proprio perché si va da 15.000 pb,
quindi, la banda più in alto è più grande
rispetto al primo esempio, fino a 100 pb.
A seconda dell’applicazione viene scelto il
rispettivo marcatore di peso molecolare e per applicazione si intende che tipo di DNA dobbiamo
caricare e separare (se si tratta di un DNA a peso molecolare più basso, allora si preferisce l’ultimo
esempio sulla destra nell’immagine; se invece si deve separare un campione di DNA che presenta
tanti frammenti di dimensioni diverse, allora si preferisce il secondo, che ha un range molto ampio,
in quanto va da un peso molecolare molto alto a un peso molecolare molto basso).
A cosa serve:
Il marcatore di peso molecolare viene caricato, insieme ai
campioni, in un pozzetto del gel, solitamente lo si carica
in un pozzetto laterale e i frammenti del marker si
separano in base alle loro dimensioni. I frammenti del
marker sono frammenti che vengono comprati e quindi si
conoscono bene le loro dimensioni, quindi, andando a
confrontare la posizione della banda del DNA incognito
con la banda del marker che si posiziona circa vicina al
DNA incognito, è possibile stimare la dimensione del
frammento presente sul gel. Ad esempio, il frammento
corrispondente al campione numero 3 ha una dimensione
intermedia tra il terzo e quarto frammento del marker e
quindi si sa indicativamente la stima, o meglio facendo
una stima approssimativa, si capisce qual è la dimensione
del frammento che si ha caricato sul gel di agarosio.
Se si vuole determinare la dimensione dei frammenti in maniera più accurata è necessario farlo
graficamente:
Sulla sinistra vi è la stima approssimativa tramite ispezione visiva.
Sulla destra vi è invece il grafico. Lo si riesce a costruire grazie a una formula matematica che
correla la distanza di migrazione in cm con le dimensioni dei frammenti di DNA in kb. In un gel di
agarosio la mobilità relativa di una specie molecolare è proporzionale al logaritmo delle dimensioni
in kb.
Viene così costruita la curva standard di calibrazione, partendo da
un marcatore di peso molecolare:
si carica insieme ai campioni, di cui si vuole conoscere la
dimensione, un marcatore di peso molecolare. Ciascun frammento
del marcatore del peso molecolare, migra in modo diverso e
andando a misurare con un righello la distanza di migrazione in cm
di ciascuna banda e mettendo questa in relazione alle dimensioni di
quel frammento, che risulta noto, viene costruita una curva
standard di calibrazione. A questo punto se si va a misurare con il
righello la distanza di migrazione del campione incognito e per
interpolazione o estrapolazione si riuscirà a capire con precisione
di che dimensione è il frammento.
Si fa appunto così un metodo grafico, che è più preciso.
Esempio:
● DNA genomico
Quello rappresentato è un esempio di migrazione di DNA
genomico. Il DNA genomico è molto grande e quindi si
posiziona in alto nel gel, il che vuol dire che migra molto
lentamente e infatti è poco al di fuori del pozzetto, proprio
perché incontra l’ostacolo dei pori del gel di agarosio e quindi
viene bloccato durante la migrazione.
● Prodotto di PCR
In questa immagine è rappresentato un esempio di gel
di agarosio, nel quale è stato caricato un prodotto di
PCR (= metodo di amplificazione, permette di
amplificare solo una porzione di DNA, solo un
pezzetto di DNA e solitamente un prodotto di PCR
può essere di 600-700 pb o anche più piccolo, ma
comunque più piccolo del DNA genomico e quindi va
a correre più velocemente e si posiziona più avanti nel
gel).
● Nel pozzetto zero, quello non indicato, è presente il marcatore di peso molecolare.
● Nel pozzetto 1 è stato caricato un campione che è la banda corretta, ovvero la banda che si
vuole relativa a quel prodotto di PCR, perché quando si fa la PCR si sa esattamente la
dimensione dell'amplificato, perché siamo stati noi a decidere che porzione del DNA si
vuole andare ad amplificare, questo vuol dire che una volta che lo si va a caricare nel gel, si
riesce a capire se quello che è stato amplificato è esattamente la dimensione attesa o se è
stato amplificato qualcos’altro e quindi automaticamente non si troverà in quella posizione
ma in un’altra. Quella presente è la banda corretta, che si trova tra il quarto e quinto
frammento del marker.
● Nel pozzetto 2 non vi è alcuna banda, questo vuol dire che non si è formato il prodotto di
PCR e quindi non si è formato il duplicato di DNA.
● Nel pozzetto 3 si ha una banda, ma che non è della dimensione corretta, proprio perché non
si trova tra la quarta e la quinta banda del marker ma si trova più in alto e questo significa
che non è stato amplificato quello che si voleva ma qualcosa di diverso e quello non è il
frammento atteso. Ciò vuol dire che in laboratorio non è avvenuto l’esperimento
correttamente.
● Nel pozzetto 4 vi è una miscela, ovvero che oltre alla banda di interesse vi sono altri
frammenti di cui uno ha PM più alto e l’altro ha PM più basso, questo vuol dire che si è
ottenuto l’amplificato di interesse, quindi il prodotto di PCR, ma oltre ad esso è stato
amplificato anche qualcos’altro.
Questi proposti sono quindi degli ipotetici scenari che si possono avere in laboratorio e che si
devono interpretare.
In questa immagine a lato, infine, è
riassunto quanto detto relativamente
all’elettroforesi del DNA su gel di
agarosio.
ENZIMI DI RESTRIZIONE
Le nucleasi sono enzimi che degradano le molecole di DNA rompendo il legame fosfodiesterico che
unisce due nucleotidi adiacenti lungo la catena di DNA.
Esistono due tipi di nucleasi: esonucleasi ed endonucleasi.
Le esonucleasi rimuovono un nucleotide per volta a partire da un’estremità della molecola di DNA.
Le endonucleasi sono in grado di rompere i legami fosfodiesterici tra nucleotidi posizionati
all’interno della molecola di DNA.
Ci sono diverse classi di endonucleasi, tra cui le
endonucleasi di restrizione.
Endonucleasi di restrizione: vanno a riconoscere
brevi sequenze bersaglio di 4-8 pb (siti di
riconoscimento), di solito palindromiche, e
tagliano in posizioni definite all’interno di esse
(sito di riconoscimento a doppio filamento).
Una sequenza palindromica è una sequenza a
doppia elica in cui i due filamenti opposti letti in
direzione 5’-3’ hanno la stessa sequenza di basi.
Questi enzimi sono stati scoperti nei batteri dove
hanno la funzione di tagliare il DNA dei
batteriofagi.
In questa tabella sono mostrati alcuni esempi di
enzimi di restrizione. Per ciascun enzima è indicato
il nome e il sito di riconoscimento su uno solo dei due filamenti. La barra all’interno della sequenza
indica la posizione esatta del sito di taglio. Sono poi indicati il numero di basi che costituiscono il
sito di riconoscimento, le estremità prodotte e l’origine dell’enzima, cioè la specie batterica nella
quale sono stati isolati per la prima volta.
Ad esempio, l’enzima EcoRI è stato isolato in Escherichia coli RY13, il sito di riconoscimento è
costituito da 6 basi ed è palindromo. Questo vuol dire che la sequenza di entrambi i filamenti letta
in direzione 5’-3’ è identica, cioè G/AATTC. L’enzima taglierà entrambi i filamenti dopo aver
riconosciuto il sito di restrizione fra la guanina e l’adenina. Le estremità prodotte dal taglio saranno
5’ coesive.
Quali possono essere le estremità prodotte in seguito al taglio con l’enzima di restrizione?
Estremità piatta o
liscia: quando la
endonucleasi di
restrizione introduce
un semplice taglio a
doppia elica nel mezzo
della sequenza
bersaglio. Ad esempio,
SmaI è un enzima di
restrizione che in
seguito al taglio
produce estremità
piatte.
Estremità coesive 5’o
3’: le due eliche di
DNA non sono tagliate
precisamente nello
stesso punto, ma il
taglio è sfalsato,
solitamente di 2-4
nucleotidi, così che i frammenti di DNA risultanti presentano corte estremità sporgenti a singola
elica, chiamate estremità coesive o appiccicose. Vengono chiamate così perché l’appaiamento fra le
basi complementari di ciascuna estremità è in grado di riattaccare insieme la molecola.
Le estremità coesive possono essere 5’ o 3’ a seconda che le estremità protrudenti a singola elica
siano in 5’ o in 3’.
EcoRI in seguito al taglio produce estremità coesive 5’, invece PstI è un esempio di enzima che in
seguito al taglio origina estremità coesive 3’.
Come si rappresenta un sito di riconoscimento ed un sito di taglio?
Si vanno a scrivere entrambe le sequenze dei due filamenti che costituiscono il sito di
riconoscimento, che sono complementari e invertite.
Ad esempio, il sito di riconoscimento di
EcoRI viene indicato con 5’ GAATTC
3’ e 3’ CTTAAG 5’. Entrambe le
sequenze lette in direzione 5’-3’ sono
costituite dalla sequenza: GAATTC. Il
sito di taglio, convenzionalmente, è
indicato da due frecce, una sul
filamento 5’-3’ e l’altra sul filamento
complementare. In seguito al taglio
alcuni enzimi di restrizione producono
estremità piatte, altri invece estremità
sporgenti e coesive chiamate anche
sticky hands, che letteralmente vuol
dire estremità appiccicose proprio
perché queste possono riunirsi
facilmente tramite l’appaiamento delle basi complementari sulla stessa molecola o su molecole
diverse tagliate con lo stesso enzima. Vedremo che questa è una proprietà importantissima per il
clonaggio del DNA.
Alcuni enzimi, quindi, producono estremità coesive 5’ ed altri estremità coesive 3’.
Frequenza di taglio
È possibile calcolare matematicamente la frequenza di taglio di ciascuna endonucleasi di
restrizione, ossia ogni quante paia di basi l’enzima taglia le molecole di DNA. La frequenza di
taglio è legata alla lunghezza della
sequenza riconosciuta.
Ad esempio, qualsiasi sequenza di 6 nt si
ritrova mediamente ogni 4 kb.
Ciò è dovuto alla possibilità di trovare una
qualsiasi delle 4 basi in ogni posizione di
una sequenza di DNA. Pertanto, la
probabilità di trovare una specifica
sequenza di 6 basi è di (¼)6, cioè 1 volta
ogni 4096 pb.
Allo stesso modo, qualsiasi sequenza di
quattro nucleotidi si trova (¼)4, cioè 1
volta su 256 nucleotidi.
La frequenza si calcola quindi come ¼ elevato alla n, dove n è il numero di coppie di basi nella
sequenza di riconoscimento.
Tuttavia, non è detto che due enzimi di restrizione diversi che riconoscono entrambi una sequenza
esamerica su una molecola di DNA a lunghezza nota determinino lo stesso numero di frammenti.
Questo perché i siti di restrizione non sono generalmente distribuiti con regolarità lungo tutta la
molecola di DNA.
Come facciamo allora a determinare con precisione il numero di frammenti che si ottengono in
seguito alla digestione con un enzima di restrizione e di conseguenza il numero dei siti di taglio
all’interno della molecola di DNA?
Lo si determina sperimentalmente. Il DNA viene
tagliato dall’enzima di restrizione e poi viene sottoposto
ad elettroforesi su gel di agarosio.
La molecola di DNA rappresentata in grigio nella figura
è sottoposta a digestione con l’enzima EcoRI.
Successivamente, i frammenti ottenuti vengono
sottoposti ad elettroforesi su gel. I vari frammenti che
hanno diverse dimensioni che dipendono dalla
distribuzione dei siti di taglio nella sequenza si separano
nel DNA. In questo caso si ottengono 7 frammenti, che
vuol dire che EcoRI taglia in 6 posizioni. Sono quindi
presenti 6 siti di restrizione. Sulla stessa molecola di
DNA, un secondo enzima che riconosce sempre una
sequenza esamerica potrebbe dare origine ad un numero
di frammenti differenti.
Nel calcolo matematico, quindi, posso avere un’idea di quanti siti di restrizione sono presenti ma
solo l’analisi sperimentale ci dà una risposta esatta.
Come eseguire una digestione di una molecola di DNA con un enzima di restrizione in
laboratorio:
in questo esempio consideriamo di voler digerire il DNA plasmidico con l’enzima di restrizione
BglII in una reazione che ha come volume finale 20 microlitri.
Per prima cosa dobbiamo calcolare la quantità in microlitri di DNA da aggiungere alla reazione,
corrispondenti alla quantità di DNA che abbiamo deciso di digerire.
Successivamente aggiungere il tampone per BglII dopo aver calcolato la quantità da aggiungere per
avere una specifica concentrazione.
Si tratta di un buffer che contiene i cofattori necessari ad assicurare all’enzima un’attività ottimale.
Ci deve essere una quantità sufficiente di NaCl che è responsabile del mantenimento della forza
ionica ottimale. La maggior parte degli enzimi di restrizione funzionano al meglio quando il pH è di
7,4. un’altra componente fondamentale è il Mg in quanto è necessario al funzionamento degli
enzimi di restrizione. Il buffer contiene anche un agente riducente come il DTT che stabilizza
l’enzima e ne previene l’inattivazione. L’impiego di condizioni ottimali raggiunte grazie al buffer è
essenziale per la funzionalità e specificità dell’enzima.
Infine, si aggiunge una specifica quantità in microlitri di enzima, un volume calcolato in base alla
concentrazione di enzima necessario a far avvenire la reazione. Si aggiunge, inoltre, dell’acqua q.b.
(quanto basta) per arrivare al volume di 20 microlitri, cioè il volume finale della reazione.
La reazione è allestita all’interno di una provetta e per far avvenire la digestione è necessario
incubare la provetta per 1h a 37°C, poiché a questa temperatura l’enzima di restrizione funziona in
maniera ottimale, fattore importante per ottenere la massima efficienza.
Al termine della reazione di digestione è necessario inattivare l’enzima al fine di evitare che questo
digerisca altre molecole di DNA che possono essere eventualmente aggiunte nei passaggi
successivi, come avviene ad esempio per il clonaggio.
Ci sono svariati modi per inattivare un enzima:
Si può incubare la miscela a 70 °C per 15 min. oppure per enzimi più resistenti è necessario
ricorrere all’aggiunta di fenolo per estrarre direttamente il DNA o all’utilizzo di EDTA.
L’EDTA chela gli ioni Mg bloccando l’azione dell’enzima di restrizione che in assenza di Mg non
funziona.
Vediamo come calcolare le quantità, cioè il volume in microlitri di DNA, tampone ed enzima da
aggiungere alla reazione:
In un volume totale (finale) di reazione di 20 microlitri, aggiungere:
-2 microgrammi di DNA plasmidico (che ha una concentrazione iniziale di 125 microgrammi/mL
determinata sperimentalmente con lo spettrofotometro)
-tampone specifico per l’enzima concentrato 1x a partire da una soluzione concentrata 10x;
(solitamente quando un reagente contiene più componenti e si tratta quindi di una miscela dove ogni
componente ha una concentrazione precisa, per indicare la concentrazione del componente si usa,
convenzionalmente, il x; quindi una concentrazione 10x vuol dire che è concentrata 10 volte più
della concentrazione che noi vogliamo nella miscela, e bisogna diluirla perciò 10 volte per ottenere
una concentrazione 1x)
-2 U (unità) di enzima BglII che ha una concentrazione di 4U/microlitro; (U viene usata per gli
enzimi e vuol dire: “unità di attività”; Essa è per convenzione la quantità di enzima necessaria a
digerire un microgrammo di DNA in 1h a 37°C)
-acqua q.b. (a volume)
All’interno di 1 ml che corrisponde a 1000 microlitri abbiamo 125 microgrammi di DNA
plasmidico.
Per risolvere il quesito impostare una proporzione:
NB: è importante che, nella proporzione, da un lato e dall’altro ci siano le stesse unità di misura;
Concentrazione iniziale: 10x
Concentrazione finale: 1x
Volume finale: 20 microlitri
Volume iniziale: ?
Poteva bastare anche solo dividere 20 per 10 per ottenere la quantità in microlitri, proprio perché
essendo concentrato 10 volte in più per sapere quanti microlitri di tampone servono dovrò diluirlo
10 volte e quindi 2 microlitri.
Ricordiamo innanzitutto che 1 unità di attività (1U) è la quantità di enzima necessaria a digerire 1
microgrammo di DNA in 1h a 37°C.
Nello stock dell’enzima in 1 microlitro abbiamo 4 unità ma ne vogliamo 2 da aggiungere nel nostro
tubo di reazione, quindi impostiamo la proporzione:
Otteniamo, quindi, che per avere 2 unità di enzima dobbiamo aggiungerne 0,5 microlitri.
Solitamente, le ditte che vendono gli enzimi indicano esattamente quant’è la quantità da utilizzare.
In questo caso sappiamo che 1 microgrammo di DNA è digerito in 1h a 37°C con 1 unità.
Considerando che noi vogliamo digerire 2 microgrammi di DNA va da sé che abbiamo bisogno di 2
unità nel tubo di reazione.
Volendo riassumere, i reagenti che dobbiamo aggiungere all’interno del tubo di reazione sono:
NB: per calcolare l’acqua non dobbiamo far altro che sottrarre a 20, che è il volume totale, 16, 2 e
0,5, ottenendo così la restante parte.
PROCEDIMENTO COMPLETO:
CLONAGGIO GENICO
Tecnologia del DNA ricombinante/Ingegneria genetica: insieme delle tecniche di laboratorio che
consentono di tagliare e isolare brevi sequenze di DNA per trascriverle e inserirle nel genoma di
altre cellule in modo da modificare uno o più geni; quindi, in generale, si tratta di tecniche di
manipolazione del DNA.
Le molecole di DNA prodotte dall’unione di due o più frammenti sono chiamate molecole di DNA
ricombinante.
Uno degli scopi della tecnologia del DNA ricombinante è il clonaggio di una sequenza di DNA,
ossia l’amplificazione selettiva, cioè la produzione di molte copie di un particolare gene o di un
segmento di DNA, mediante costruzione di molecole di DNA ricombinante e mantenimento nelle
cellule.
Il clonaggio del DNA avviene in 3 step:
1. inserimento del DNA da clonare in un vettore: DNA RICOMBINANTE
2. trasferimento ad una cellula ospite (di solito un batterio)
3. moltiplicazione nella e/o della cellula ospite (batterio): amplificazione della
sequenza
1. PRODUZIONE DEL DNA RICOMBINANTE
Il DNA bersaglio che si vuole clonare è tagliato in frammenti da
endonucleasi di restrizione in modo tale che il frammento di DNA da
inserire, o meglio, che il frammento di DNA di interesse possa essere
inserito in un vettore, ossia in una seconda molecola di DNA per poi
essere replicato in un organismo ospite. Per far si che il frammento di
DNA di interesse venga inserito nel vettore è necessario che il vettore
sia linearizzato.
Per avere due estremità libere anche il vettore viene tagliato con
enzimi di restrizione. Per unire i due DNA e formare, quindi, il DNA
ricombinante, viene effettuata una ligazione tramite un enzima che
viene chiamato DNA ligasi.
CARATTERISTICHE DEI VETTORI PER DNA:
-origine di replicazione: permette loro di replicarsi indipendentemente dal cromosoma dell’ospite e
quindi propagare il DNA nella cellula ospite;
-marcatore di selezione: permette alla cellula che contiene il vettore ricombinante di essere
facilmente identificata;
-siti unici di taglio: uno o più enzimi di restrizione, permette di inserire i frammenti di DNA in
posizioni definite all’interno del vettore in modo tale che l’inserzione non interferisca con le altre
due funzioni;
I vettori più comunemente utilizzati sono:
plasmidi: sono piccole molecole circolari di circa 3kb che hanno geni che codificano per un
marcatore di selezione e possono propagarsi in un utente dall’ospite. Sono di piccole dimensioni e
possono accogliere inserti per un massimo di 15 kb. Le piccole dimensioni permettono che
l’ingresso nelle cellule e la loro manipolazione sia facilitata.
BAC: cromosoma artificiale batterico che può accogliere inserti da 10 a 30 kb.
YAC: cromosoma artificiale di lievito che può accogliere inserti fino a 2000 kb.
La scelta del vettore è determinata, in primis, dalla grandezza dell’inserto, cioè la sequenza che si
deve inserire all’interno del vettore.
Un esempio di plasmide è il pBR322, grande 4361 bp.
Presenta un’origine di replicazione, un gene che codifica per la
resistenza alla ampicillina ed un gene che codifica per la
resistenza alla tetraciclina. Questi geni che codificano per la
resistenza agli antibiotici fungono da marcatori di selezione
per far sì che le cellule che hanno internalizzato il plasmide
siano facilmente identificate.
Inoltre, il plasmide presenta diversi siti unici di restrizione che
consentono di utilizzare una varietà molto alta di enzimi di
restrizione. In questo caso specifico gli enzimi di restrizione
che possono essere usati sono cinque: si ha un sito per EcoRI,
uno per PstI, uno per BamHI, uno per SalI ed uno per PvuII.
Nell’immagine sottostante è raffigurato un altro plasmide,
ossia il pUC18
bla sta per beta-lattamasi, ossia è un gene che codifica per la resistenza all’ampicillina;
ori sta per origine di replicazione.
Il sito multiplo di clonaggio presente nei plasmidi iberni modificati non è altro che una regione
relativamente piccola che contiene più siti unici di restrizione che consentono di utilizzare una
varietà maggiore di enzimi di restrizione. Il sito multiplo va ad interrompere la sequenza del gene
che codifica per la beta-galattosidasi. Questo è un modo che viene utilizzato nell’ingegneria
genetica per capire se il batterio ha incorporato con successo il plasmide ricombinante.
Il clonaggio richiede che sia il vettore che il gene di
interesse da clonare siano tagliati con enzimi di
restrizione.
È necessario che le molecole di DNA vengano
tagliate in maniera precisa e riproducibile. Ogni
molecola di vettore deve essere tagliata in un’unica
posizione aprendo la molecola circolare per inserire
il nuovo frammento di DNA.
Una molecola tagliata più di una volta risulterà in
più frammenti e non potrà essere utilizzata come
vettore di clonaggio. Inoltre, ogni vettore deve
essere esattamente tagliato nella stessa posizione
per evitare una digestione casuale. Anche il DNA da
clonare deve essere tagliato in primo luogo per
clonare il singolo gene di interesse e in secondo
luogo per ridurre le dimensioni ottenendo
frammenti piccoli che vengono più facilmente
clonati.
I DNA si uniscono per formare il DNA ricombinante grazie ad un enzima chiamato DNA ligasi che
catalizza il processo di ligazione.
Questo enzima svolge un ruolo fondamentale nelle cellule. Va a riparare le discontinuità di un
filamento a doppia elica, ossia quando incontra un nick, cioè un punto in cui il legame
fosfodiesterico tra i due nucleotidi adiacenti è interrotto, lo ripara.
La ligasi è, quindi, sfruttata nel clonaggio per mettere insieme molecole diverse di DNA a doppia
elica ripristinando i legami fosfodiesterici uno per ogni filamento.
La ligasi che si utilizza in ingegneria genetica è di norma purificata da un ceppo di Escherichia coli
infettato con il fago T4.
L’ultima reazione, sebbene sia possibile ottenerla, ha un’efficienza molto bassa in quanto la ligasi
non è in grado di afferrare le due estremità da saldare e deve quindi attendere un evento di
associazione molecolare casuale, attendere cioè che le molecole casualmente si avvicinino.
Per questo motivo la ligazione delle estremità piatte dovrebbe essere eseguita in presenza di elevate
concentrazioni di DNA per aumentare la probabilità che le estremità si avvicinino con il corretto
orientamento, ma non è sempre possibile.
Invece, la ligazione di molecole dotate di estremità coesive complementari è molto più efficiente,
questo poiché le estremità coesive complementari si appaiano tra loro grazie ai legami H tra le basi
complementari formando, in questo modo, una struttura abbastanza stabile che consente l’azione
dell’enzima.
Come dotare di estremità coesive una molecola di DNA con estremità piatte?
A. LINKER
B. ADATTATORI
I linker sono delle corte molecole di DNA a doppia elica di sequenza nota che vengono sintetizzate
in provetta (chimicamente).
Un linker tipico è mostrato nella figura (a).
Ha estremità piatte e contiene un sito di restrizione. In questo caso specifico è un sito di restrizione
per l’enzima BamHI. La DNA ligasi è in grado di attaccare il linker alle estremità piatte di molecole
di DNA più lunghe e l’efficienza di
reazione può essere notevolmente
aumentata ponendo nella reazione elevate
concentrazioni di linker in quanto questi si
possono tranquillamente sintetizzare
chimicamente anche in grandi quantità in
modo tale che nella reazione le molecole
siano in quantità sufficiente da poter
aumentare l’efficienza.
Solitamente, però, più di una molecola
linker si attacca alle estremità piatte.
Tuttavia, la digestione con l’enzima di
restrizione, in questo caso BamHI, taglia il
DNA in corrispondenza di ciascuna
sequenza bersaglio (di riconoscimento)
creando un numero elevato di linker liberi e
lasciando a ciascuna estremità della
molecola di partenza un’estremità visiva
per BamHI, in questo caso. Il frammento,
così modificato, è pronto per essere ligato in un vettore di clonaggio precedentemente digerito
anch’esso con una BamHI. È scontato che la molecola di partenza non deve contenere siti di taglio
per BamHI. Se così fosse, il frammento da clonare verrebbe tagliato anche all’interno.
Quello appena nominato potrebbe quindi essere un possibile problema nell’utilizzo dei linker…
Al fine di evitare questo problema posso utilizzare degli ADATTATORI:
Un adattatore è una corta sequenza di DNA sintetica
(sintetizzata chimicamente) che viene preparata in
modo tale da avere già una estremità coesiva. L’idea è
quella di ligare l’estremità piatta del frammento da
clonare all’adattatore in modo da ottenere una molecola
dotata di estremità coesive. Le estremità coesive di
ciascun adattatore, però, possono appaiarsi formando
dei dimeri con estremità piatte, così anche dopo una
ligazione la molecola di DNA presenta ancora delle
estremità piatte.
La soluzione a questo problema risiede nella struttura
chimica delle estremità delle molecole adattatrici.
Le due estremità di un polinucleotide, che sono
raffigurate nella figura (a), sono chimicamente
differenti. Al 5’ è presente un gruppo fosfato (P) mentre
al 3’ è presente un gruppo idrossile (OH).
Se andiamo a vedere l’immagine (b), nella doppia
elica i due filamenti corrono antiparalleli, ogni
estremità ha, perciò, un 5’ ed un 3’.
La ligazione avviene andando ad unire le estremità
5’P con le estremità 3’OH.
Gli adattatori sono sintetizzati in modo tale che la
estremità piatta presente su un lato abbia il 5’P e il
3’OH, mentre l’estremità coesiva sul lato opposto è
modificata in modo tale che l’estremità in 5’ presenti
un OH come quella in 3’, proprio perché manca del
P.
La DNA ligasi non è in grado di formare un legame
fosfodiesterico dalle terminazioni 5’OH e 3’OH,
perciò, il risultato è che le molecole adattatrici non
vengono ligate insieme. Una volta, però, che gli
adattatori sono attaccati alla molecola da clonare, il
5’ OH viene riconvertito in un gruppo P grazie
all’azione di un enzima chiamato polinucleotide
chinasi. Alla fine, viene generato un frammento con
estremità coesive pronto per essere inserito nel vettore appropriato.
RIASSUMENDO:
l’adattatore possiede le estremità piatte con terminazioni canoniche del DNA, ma le estremità
coesive sono modificate al 5’ con un gruppo -OH. Questo fa sì che gli adattatori non possano legarsi
fra di loro.
VETTORI DI ESPRESSIONE
Alcuni vettori non solo
permettono l’isolamento e la
purificazione di specifici DNA
ma sono anche in grado di
dirigere l’espressione di geni
all’interno del DNA inserito,
quindi nell’inserto. Tali plasmidi
vengono detti vettori di
espressione e possiedono, oltre
alle componenti base di un
plasmide, dei promotori
trascrizionali derivati dalla
cellula ospite e completamente
adiacenti al sito di inserzione.
Solitamente il gene da clonare è
di una specie diversa rispetto a
quella dell’ospite. I vettori di
espressione sono spesso usati per
produrre grandi quantità di
proteine da purificare, quindi per
produrre proteine ricombinanti.
Il promotore, invece, deve essere della stessa specie dell’ospite.
Se la regione codificante di un gene è posizionata nel sito di inserzione
nell’orientamento corretto, il gene inserito verrà trascritto in mRNA e
tradotto in proteina all’interno della cellula ospite.
I segnali di inizio e terminazione della traduzione presenti nel vettore
di espressione verranno incorporati nell’mRNA prodotto dalla
trascrizione dell’ospite affinché questo mRNA possa essere tradotto in
proteina.
2. TRASFERIMENTO DEL VETTORE ALLA CELLULA OSPITE
Il trasferimento avviene mediante trasformazione, processo mediante il
quale un organismo ospite può prendere del DNA dall’ambiente
circostante.
Anche se il meccanismo mediante il quale il DNA viene catturato non è del
tutto noto, è noto che gli ioni Ca schermano le cariche negative del DNA
permettendogli di passare attraverso la membrana cellulare. Si dice che
quelle cellule trattate con Ca diventino competenti per la trasformazione,
cioè che siano maggiormente in grado di internalizzare il DNA che è
presente nell’ambiente circostante.
Per selezionare le cellule trasformate, ossia quelle che hanno incorporato il
vettore, cioè il plasmide ricombinante che abbiamo creato, queste cellule
vengono piastrate su un terreno di coltura contenente l’antibiotico la cui
resistenza è codificata dal plasmide, ad esempio la resistenza per la
tetraciclina. Le cellule che ospitano il plasmide, quindi, sono in grado di
crescere in presenza dell’antibiotico. Le cellule prive di plasmide, invece,
non saranno in grado di crescere in presenza di antibiotico. Le colonie che
sopravvivono alla selezione antibiotica sono dette trasformanti.
Il passaggio della selezione è fondamentale poiché la trasformazione è un
processo inefficiente. Per questo motivo, infatti, solo poche cellule
cattureranno il plasmide. In ogni caso, l’inefficienza della trasformazione
almeno assicura che venga incorporata una sola molecola di DNA in
ciascuna cellula. Questa capacità rende ogni cellula e quindi anche la sua
progenie portatrice di una singola molecola di DNA. Pertanto, la
trasformazione purifica e amplifica una singola molecola di DNA da tutti
gli altri DNA presenti nella miscela di trasformazione.
3. MOLTIPLICAZIONE
La moltiplicazione è l’amplificazione della
sequenza di interesse.
Nel momento in cui la cellula che ha
incorporato il plasmide si divide in due cellule
figlie si ha la propagazione delle cellule
trasformate e la produzione del doppio delle
copie del DNA ricombinante. Generalmente,
l’ospite più utilizzato è E. coli, il quale si divide
circa ogni 20 minuti; quindi, si può ben capire
che in pochissimo tempo si ottengono
moltissime copie del DNA ricombinante.
RICAPITOLANDO I VARI STEP:
In primis un frammento di DNA
contenente un gene da clonare viene
inserito in una molecola di DNA circolare
detta vettore e quello che si origina è una
molecola di DNA detta ricombinante.
Il vettore serve a trasportare il gene
all’interno di una cellula ospite, di solito
batterica. Poi, all’interno della cellula
ospite il vettore si moltiplica producendo
molte copie identiche, non solo di sé
stesso ma anche del gene in esso
contenuto. Quando invece la cellula
ospite si divide le copie del vettore
vengono distribuite alle cellule figlie al
cui interno il vettore si replica
producendo altre copie. Questa non è
altro che la propagazione del DNA
ricombinante. Dopo una serie di divisioni
cellulari si genera una colonia o clone di
cellule identiche. Ogni cellula del clone
contiene una o più copie del DNA
ricombinante. Quindi si dice che il gene
portato dal vettore all’interno della
molecola di DNA ricombinante è stato
clonato.
PCR (Polymerase Chain Reaction)
A cosa serve?
La PCR è una delle tecniche fondamentali di biologia molecolare. Permette di amplificare, ossia
creare molte copie di una specifica sequenza di DNA, una specifica porzione di interesse che in
questa immagine è rappresentata in verde.
È possibile amplificare qualsiasi regione di qualsiasi molecola di DNA se si conoscono le sequenze
che ne delimitano le estremità.
Che cosa occorre?
È una tecnica estremamente semplice alla quale prendono parte due attori fondamentali: i primer e
la DNA polimerasi.
I primer sono due corti oligonucleotidi che vanno a legarsi, quindi ibridizzarsi uno alla porzione
complementare sul filamento 5’-3’ e l’altro sulla porzione complementare sul filamento 3’-5’.
Questi primer sono disegnati e sintetizzati per ibridarsi per complementarità alle regioni
fiancheggianti la porzione della molecola di DNA di interesse. Ecco perché è necessario conoscere
le sequenze che vanno a delimitare le estremità delle molecole di interesse. Questi oligonucleotidi
fungono da innesco per la reazione di sintesi del DNA che viene eseguita dalla DNA polimerasi in
direzione 5’-3’.
PCR: la reazione
Per poter eseguire una reazione di PCR il templato che può essere DNA o cDNA (DNA sintetizzato
a partire da uno stampo) viene miscelato ad una DNA polimerasi termoresistente, a due
oligonucleotidi primer e ad una miscela di quattro dNTPs, ossia deossinucleotiditrifosfato.
Il templato è sufficiente anche in piccole quantità dato che la PCR è una tecnica abbastanza
sensibile.
Il primo step della reazione dopo l’allestimento è la
denaturazione. Questa fase avviene riscaldando la miscela
tra 94-96°C. A questa temperatura il DNA si denatura,
cioè i due filamenti di DNA si separano; accade perché,
ad alte temperature, i legami H che tengono uniti i due
filamenti della doppia elica si spezzano. Al termine di
questo step otteniamo DNA denaturato a singola elica.
È necessario che sia a singola elica perché lo step
successivo prevede l’annealing, ossia il legame,
ibridazione dei primer alle loro sequenze complementari
fiancheggianti la sequenza da amplificare.
La temperatura di annealing va da 50 a 65 °C.
Una volta che i primer si sono legati fungono da innesco
per la DNA polimerasi che nella fase di extension, detta
anche allungamento, catalizza la sintesi del DNA complementare alla regione di interesse,
aggiungendo un nucleotide per volta in direzione 5’-3’. L’allungamento, generalmente, avviene a
72°C, temperatura ottimale per la reazione della DNA polimerasi.
La temperatura di annealing è la più importante perché determina la specificità della reazione. Se la
temperatura è troppo elevata non si ha l’ibridazione e quindi, di conseguenza, non viene amplificata
la porzione di DNA. Se invece è troppo bassa i primer si legano in maniera aspecifica al DNA e
quindi, di conseguenza, vengono amplificati anche frammenti che sono diversi da quello di
interesse.
L’intero ciclo di denaturazione, ibridazione e sintesi viene ripetuto n volte per permettere
l’amplificazione esponenziale della molecola di interesse. Infatti, nel primo ciclo da una molecola a
doppia elica se ne ottengono due, nel secondo ciclo da due molecole se ne ottengono quattro e così
via.
Il risultato è, quindi, un’AMPLIFICAZIONE ESPONENZIALE DELLA MOLECOLA DI
INTERESSE:
I prodotti di PCR ottenuti possono essere analizzati tramite elettroforesi su gel di agarosio o tramite
il sequenziamento del DNA.
Come si esegue?
I vari componenti
della reazione
vengono addizionati
all’interno di provette
a pareti sottili per
permettere il
passaggio di calore
dall’esterno
all’interno delle
provette.
Per far avvenire i vari
cicli termici della
reazione le provette
vengono alloggiate in
strumenti chiamati
termociclatori. Questi
strumenti presentano
un blocco porta
provette che viene
scaldato in maniera
automatizzata.
Essendo una tecnica di amplificazione bisogna fare attenzione alle contaminazioni proprio perché in
presenza di contaminazioni possono essere amplificati degli aspecifici ma possono anche essere
introdotte nella reazione molecole come le DNAsi che vanno a degradare il DNA.
Per questo motivo bisogna lavorare in ambiente pulito e inserire nella reazione dei controlli
negativi. I controlli negativi sono delle reazioni dove manca il templato ma abbiamo tutto il resto.
Ci aspettiamo che in questa reazione non si abbia amplificazione e in caso contrario vuol dire che la
reazione è contaminata.
Inoltre, bisogna prendere qualche precauzione.
Bisogna indossare dei guanti puliti, utilizzare puntali
con il filtro, i quali devono essere DNAsi-free, cioè non
devono contenere delle DNAsi.
Infine, bisogna stare in silenzio perché DNAsi ed
RNAsi sono presenti nel nostro cavo orale.
VANTAGGI:
Velocità e facilità d’uso: in poche ore si possono ottenere milioni di copie della sequenza di DNA
target.
Sensibilità: virtualmente è possibile analizzare il DNA di una singola cellula come templato.
SVANTAGGI:
Solo sequenze note: è necessario conoscere la sequenza del DNA da amplificare per sintetizzare i
primer.
Dimensioni limitate: dimensioni medie dell’amplicone di 0.1-5kb; l’amplicone è il prodotto di PCR,
quindi la regione di interesse tra i due primer; deve avere questa dimensione perché quanto più è
lungo il frammento minore è l’efficienza di amplificazione.
Proofreading: è il processo di correzione di bozze; tutte le DNA polimerasi a volte commettono
degli errori e possono quindi incorporare un nucleotide sbagliato nella catena di DNA nascente.
Molte polimerasi, però, sono in grado di ovviare a questi errori rimuovendo il nucleotide sbagliato e
risintetizzando la sequenza corretta. Questa azione è detta azione esonucleasica, digeriscono quindi
il DNA in direzione 3’-5’ per rimediare all’errore. Ma attenzione, le polimerasi utilizzate in PCR
non hanno questa attività, quindi il DNA sintetizzato può contenere degli errori.
La taq polimerasi manca dell’attività 3’-5’ esonucleasica: 1 errore ogni 9000 nucleotidi, 1 errore
ogni 300 bp dopo 30 cicli di amplificazione.
SEQUENZIAMENTO DEL DNA
Metodo a terminazione di catena di SANGER (1977)
Sequenziare il DNA è possibile da circa 50 anni, da quando Fred Sanger, un chimico britannico, ha
ideato un metodo a terminazione di catena che prende il suo nome. Questo gli ha anche permesso di
vincere un Nobel.
Cosa significa sequenziare il DNA?
Vuol dire determinare la sequenza
nucleotidica del DNA, ossia
determinare l’ordine esatto della
successione delle basi azotate nel
filamento del DNA.
Il sequenziamento si basa sulla possibilità di separare tra loro molecole di DNA a singolo filamento
che differiscono in lunghezza per un singolo nucleotide (tante elettroforesi su gel di
poliacrillammide). Nello specifico, vengono generati frammenti di DNA che differiscono tra loro
per una base, i quali vengono separati per elettroforesi alla quale segue la rilevazione.
Sintesi di nuovi filamenti di DNA, complementari ad uno stampo a singolo filamento
Come la PCR, il sequenziamento richiede:
-uno stampo a singola elica;
-un innesco stampo, cioè primer;
-una DNA polimerasi (elevata processività, bassa attività esonucleasica);
-dNTPs;
Il primer ibridizza, cioè si lega allo stampo a singola elica e la DNA polimerasi, a partire
dall’innesco, sintetizza il filamento complementare aggiungendo dNTPs in direzione 5’-3’.
A differenza della PCR, oltre agli elementi sopra elencati, nella reazione vengono inseriti anche dei
ddNTPs cioè dideossiribonucleotidi.
Che differenza c’è tra i dNTPs e i ddNTPs?
Questi ultimi presentano lo zucchero deossiribosio privo di gruppo -OH in posizione 3’. La
mancanza di questo gruppo comporta che dopo che un ddNTPs è aggiunto alla polimerasi non
possono essere aggiunti ulteriori nucleotidi determinando, quindi, la terminazione della catena.
Ma perché non possono essere aggiunti altri nucleotidi?
Perché nessun legame fosfodiesterico può essere formato.
Il legame fra due nucleotidi avviene attraverso una reazione di condensazione fra il gruppo -P in 5’
del nucleotide da aggiungere e il gruppo -OH in 3’ del nucleotide precedente.
Nel caso dei ddNTPs, in assenza del gruppo -OH
in 3’, il legame fosfodiesterico non si forma. Non
possono, quindi, essere aggiunti ulteriori
nucleotidi con conseguente terminazione della
catena.
I ddNTPs aggiunti alla reazione sono di tipo diverso, ognuno contraddistinto da una base azotata
diversa e sono in bassa percentuale. Ad ogni reazione si aggiungono tanti dNTPs e pochi ddNTPs.
Dato che nella reazione i ddNTPs sono presenti
in basse concentrazioni la sintesi non si ferma
ogni volta in prossimità dell’innesco ma
possono essere aggiunti centinaia di nucleotidi
prima che un ddNTP venga incorporato. Il
risultato è la produzione di una serie di
frammenti di lunghezza differenti interrotti
ciascuno in corrispondenza di un ddNTP. Per
determinare la sequenza del filamento di DNA i
frammenti vengono separati tramite
elettroforesi.
La separazione elettroforetica, per risalire al DNA stampo identificando i ddNTPs affianco a
ciascuna catena terminata, può avvenire in due modi diversi:
a) Sequenziamento MANUALE
Vengono allestite quattro reazioni di
sequenziamento, in ognuna delle quali è
presente un solo tipo di ddNTPs. Sono
quattro perché sono quattro le basi azotate.
I vari frammenti di lunghezza differente di
ciascuna reazione vengono caricati e
separati per elettroforesi su un grande gel
di poliacrillammide. L’elettroforesi è una
tecnica che permettere di separare le
molecole di DNA in base alla loro
dimensione. I frammenti avranno
dimensioni diverse e si posizioneranno nel
gel dispersi a seconda del numero di pb di
cui sono costituiti. In alto nel gel si
avranno i frammenti di lunghezza
maggiore invece in basso i frammenti più
piccoli. Saranno separati in maniera
decrescente, quindi, in alto i più lunghi ed
in basso i più piccoli. In questo modo è
possibile risalire alla sequenza.
RICAPITOLANDO:
Allestiamo quattro reazioni differenti dove in una reazione
aggiungiamo i ddTTP, in una ddCTP, in una ddATP, e
nell’ultima ddGTP. Vengono tutte caricate ognuna in un
singolo pozzetto del gel di poliacrillammide e poi facendo
partire la corsa elettroforetica i vari frammenti terminati con
quattro ddNTPs diversi si separeranno all’interno del gel. In
base alla posizione del frammento si riuscirà a determinare la
sequenza esatta di quel filamento di DNA.
b) Sequenziamento AUTOMATICO
Oltre al metodo originale, è possibile eseguire un sequenziamento automatico. In questo caso si
utilizza un gel capillare. Non vengono fatte
quattro reazioni differenti ma un’unica
reazione.
Ma quindi come è possibile distinguere un
ddNTPs dall’altro?
Nel sequenziamento automatico, i ddNTPs
hanno la caratteristica di essere marcati con un
gruppo fluorescente e ciascuna categoria di
ddNTPs è marcata con un gruppo fluorescente
diverso per poterli distinguere tra loro.
Viene allestita, quindi, un'unica reazione dove
viene aggiunta la miscela dei quattro ddNTPs
marcati diversamente e il tutto viene fatto
correre su di un gel all’interno di un capillare.
Questo metodo ha due vantaggi:
Il primo è che per elettroforesi capillare la
reazione è estremamente più veloce e il
secondo vantaggio è che, appunto, non si fanno quattro reazioni separate ma un’unica e la
rilevazione non è manuale ma avviene tramite un rilevatore. È un rivelatore di fluorescenza che, nel
momento in cui una molecola passa, riesce a distinguere i diversi gruppi, marcatori, attaccati ai
diversi ddNTPs. Ovviamente, il rilevatore darà l’input al software e quest’ultimo ci creerà il file con
la sequenza.
Facciamo una miscela unica con i quattro ddNTPs marcati,
carichiamo il campione sul capillare e all’interno del capillare
avviene una veloce elettroforesi. Il principio è sempre quello
dell’elettroforesi, perciò le molecole più piccoline saranno
quelle che verranno fuori per prime, cioè saranno rilevate dal
software per prime. I frammenti più lunghi, invece,
arriveranno a livello del detector in un secondo momento. In
questo modo, sarà possibile determinare la sequenza del DNA.
Nel momento in cui il frammento passa a livello del detector,
questo va a rilevare la fluorescenza e a seconda della fluorescenza
rilevata si riesce a capire di che ddNTPs si tratta. In questo modo
si riesce poi a risalire direttamente alla base azotata che ha
determinato la terminazione della reazione in quel determinato
filamento.
Nel momento in cui facciamo un sequenziamento automatico,
quindi, non dobbiamo manualmente scrivere e determinare la
sequenza ma è il software che in automatico permette di
determinare la sequenza. Ogni picco è relativo alla base azotata
corrispondente. I picchi in azzurro rappresentano la citosina,
quelli in arancione la guanina, in verde l’adenina e in fucsia la
timina.
Un esempio di grafico che viene fuori: l’ELETTROFEROGRAMMA
Questo metodo è il primo ad essere stato ideato e viene, attualmente, ancora molto utilizzato.
Permette di sequenziare piccole porzioni di geni ma anche porzioni più grandi, ma con un impiego
maggiore di tempo.
Per abbreviare i tempi, è stato ideato un nuovo metodo che prende il nome di “Next Generation
Sequencing” che permette di sequenziare varie molecole in parallelo, risparmiando tempo e denaro.
Finisce qui il programma di questo corso di Biologia Molecolare!
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