Storia 2°Parziale Il dopoguerra: l’età della insicurezza (Cap. 11) Nel 1919 paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia ebbero un’importante fase di crescita, che già l’anno dopo si fermò, con il subentrare della recessione. Gli stabilimenti industriali ridussero la produzione e aumentarono la disoccupazione, il che costrinse molti paesi ad adottare politiche di austerità che aumentarono la caduta. Si era erroneamente pensato che il passaggio da economia bellica ad economia di pace sarebbe stata più rapida, ma così non fu, e si vide come soluzione per la stabilità il ritorno al gold standard. Tutto questo si scoprì poi non funzionare in maniera automatica, l’automatismo teorico tra deficit della bilancia dei pagamenti-deflazione-politiche di austerità si scoprì, infatti, non funzionare più. Erano presenti i sindacati e i partiti socialisti, che frenarono l’aggiustamento automatico dei salari. I governi scelsero di tenere alta l’occupazione e l’espansione economica. Il Gold Standard in realtà non era il generatore di una situazione di certezza e stabilità, ma il contrario, il sistema aureo funzionò proprio grazie alla situazione economica e sociale della belle époque. Al rientro nel Gold Standard le questioni erano, quando e a quale valore rientrare? Il governo inglese nel 1925 scelse di ancorare la sterlina al valore della anteguerra, sopravvalutando la moneta e penalizzando quindi la domanda interna e le esportazioni. L’Inghilterra però non sarà più in grado di gestire il sistema monetario internazionale, creando quindi una mancanza di un perno attorno al quale le economie internazionali avrebbero dovuto ruotare, il governo inglese decise anche di attuare una serie di riduzioni della spesa pubblica, facendo entrare l’economia in recessione. I proprietari programmarono tagli ai salari e aumenti degli orari di lavoro, con trattative che fallirono, generando nuovi scioperi e grosse proteste (Erano gli USA gli unici che potevano prendere il controllo del Sistema monetario, ma scelsero in un primo momento di concentrarsi nelle questioni interne). La Francia decise invece di tornare al regime aureo con una valutazione del franco pari ad 1/5 del valore prebellico, permettendo così di stimolare le esportazioni e di attirare capitali esteri. La Francia veniva da un momento con una inflazione elevata, un forte emissione di titoli di stato e una produzione industriale più competitiva. Un nuovo elemento di fragilità del sistema era la diminuzione delle riserve auree mondiali. Si passò quindi al gold exchange standard, un nuovo sistema monetario internazionale che dava la possibilità di detenere come riserve anche i crediti a breve in dollari o sterline. Questo però mise a rischio la Gran Bretagna, con la bilancia dei pagamenti negativa, scarse riserve auree e passività più elevate. Il problema più importante era la quasi totale mancanza di cooperazione tra i governi e le banche centrali e ad essa si aggiungeva la mancanza di cooperazione internazionale e la dipendenza dell’Europa dai trasferimenti a breve termine degli USA. L’INFLAZIONE TEDESCA Al termine della guerra, il marco tedesco valeva 1/10 di prima. In pieno caos economico la Francia decise di invadere l’area della Ruhr, per forzare la Germania al pagamento delle prime rate delle riparazioni. La repubblica di weimar decise però di finanziare la resistenza passiva dell’area, stampando marchi in modo tale da azzerarne il valore. Nel 1923 si decise di stabilizzare la moneta, lanciando il Rentenmark, con un valore assicurato da attività reali e con una emissione limitata di 2400 miliardi. Nel 1924 venne varato inoltre il piano Dawes, che riconobbe come la Germania non potesse essere in grado di saldare i propri debiti se non fosse stata messa in condizione di farlo. La Germania, quindi, ricevette una riduzione delle rate annuali e un aumento nel tempo del debito. Ricevette infine un prestito con condizioni rigide. Venne istituito il Reichsmark e nel 1925 venne riammessa nel gold standard, firmando in più il trattato di Locarno, migliorando le relazioni con la Francia. Nel 1926, viene ammessa alla Società delle Nazioni. L’UNIONE SOVIETICA Dopo la guerra civile che termino nel 1920, venne istituita l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il 30 dicembre 1922. L’economia russa in quel momento era fragile e completamente disarticolata. La produzione industriale era poco più di un decimo dell’anteguerra, i commerci erano paralizzati e le campagne drammaticamente impoverite dalle requisizioni forzate per alimentare le città. Le imponenti rivolte sorse in campagna e le varie carestie accelerarono la revisione della politica delle requisizioni. Inizio ad essere varata la NEP, Nuova politica Economica, che ripristinò in parte l’economia di mercato. Venne rilanciata la produzione agricola permettendo il commercio privato e sostituendo le requisizioni forzose con una tassa in natura. Lo stato continuò a controllare le grandi imprese e le banche ma autorizzò la ricostruzione delle imprese private, sotto i 20 dipendenti, in cambio del trasferimento di una porzione di produzione allo stato. La NEP costituì un parziale ritorno al capitalismo. Bucharin però disse che questo era solo un passaggio, come premessa dell’industrializzazione e quindi dell’insurrezione proletaria. La NEP fu concepita come tregua dopo gli anni della guerra civile, doveva attrarre borghesi e stimolare il consenso verso il governo e il partito. Il tentativo di conciliare socialismo e mercato non ebbe successo. Nel 1927 la produzione cerealicola era inferiore a quella dell’anteguerra. Nel 1928 Stalin decise di lanciare una nuova politica economica composta da: pianificazione centrale, industrializzazione forzata e collettivizzazione delle campagne. Il primo piano quinquennale ebbe successo e portò a termine gli obiettivi preposti, trainata dall’industria elettrica e dall’industria pesante. Molti occidentali iniziarono a vedere l’URSS come un modello su cui basarsi. La crisi del Capitalismo (Cap. 12) Nei ruggenti anni ‘20 gli USA furono percorsi da un’ondata di prosperità senza precedenti, con i settori più trainanti che furono quelli della seconda RI, come elettricità, automobile, chimica, industria petrolifera e beni di consumo durevoli. La più importante di tutte fu l’industria dell’automobile, capace di trainare con se diverse altre industrie, quelle di ogni componente meccanico e quelle delle infrastrutture. Negli Stati Uniti alla crescita dei prodotti agricoli ed industriali si accompagnò quella dei consumi e si iniziò così a scoprire il tempo libero. Un primo problema del tempo era da intravedere nel sistema bancario, per nulla sano. A differenza dell’Europa esso era infatti composto da molti piccoli istituti non controllati dalla FED che operavano attraverso una gestione inadeguata. Allo stesso tempo, il sistema borsistico era spinto da questi tre fattori: - Speculazioni di alcuni grandi operatori - Politiche di credito facile - Gli Investment trusts, che consistevano nella possibilità dei piccoli risparmiatori privati di fare uso di un operatore professionale e di un portafoglio diversificato. Con il loro aumento esponenziale, vennero meno regolamenti e garanzie, ma furono comunque trainati dalla borsa, generando una bolla. La FED era consapevole della bolla speculativa in atto ma scelse di non agire, lasciando crollare i prezzi e facendo disperdere il panico. La caduta del Dow-Jones innescò una spirale perversa che travolse speculatori e banche, le cui difficolta si rifletterono sulle imprese e sui possessori di un mutuo. La crisi si trasformò in depressione investendo l’economia reale. Il crollo dei prodotti agricoli ne scoraggiava la raccolta, tant’è che gli agricoltori emigrarono in California. Seguì una frenata della produzione industriale e soprattutto dell’industria dell’auto. Crisi dell’industria, disoccupazione, crollo della domanda, caduta dei prezzi non trovarono un argine nella politica di un governo ostinatamente ancorato all’ortodossia finanziaria e preoccupato solo di non aumentare la propria spesa. In quel periodo, le strategie attuate si basavano su politiche deflazionistiche di austerità, con lo scopo di impedire il deflusso di oro e di valute estere, di tagliare le spese e pareggiare il bilancio. La disoccupazione iniziò a salire insieme alla povertà. Due milioni di persone vagabondavano, 1/4 degli scolari era mal nutrito, e i salari medi erano ora 1/5 di quelli pre-1929. Il presidente Hoover non volle mai concepire un vero e proprio piano di aiuti, l’assistenza ai disoccupati fu delegata alla carità privata o ai governi locali. Il presidente Hoover non credeva che toccasse allo Stato intervenire per risollevare l’economia. Nonostante questo, iniziò a ricredersi quando vide la gravita della situazione. Annunciò dapprima sgravi fiscali e chiese di limitare i licenziamenti, sollecitando il pareggio di bilancio. La deflazione non venne inizialmente contrastata per via dell’adesione al regime aureo (si voleva mantenere solido il dollaro). Nel 1931 concesse una moratoria di un anno ai debiti in Europa, e cerco di avviare diverse opere pubbliche. Per quanto riguarda la crisi europea: La recessione colpì duramente la Germania. Con il fallimento del Credit Anstald si generò un effetto domino. Il ritiro dei capitali esteri e il crollo delle esportazioni furono un duro colpo per l’economia tedesca. Per evitare la corsa agli sportelli vennero chiusi gli istituti di credito e ne vennero rilevati più del 60% dell’intero settore da parte dello Stato. Il cancelliere Bruning si impegnò principalmente a raggiungere il pareggio di bilancio e ad attuare politiche deflazionistiche. Nonostante Bruning fosse assolutamente convinto delle sue scelte, i prezzi esteri crollarono e con loro le esportazioni tedesche, le politiche deflazionistiche abbassarono la massa monetaria presente riducendo di conseguenza i salari e la produzione industriale. Così facendo il cancelliere tedesco favorì l’affermazione dei nazionalsocialisti, che divennero il primo partito in Germania nel 1932. Anche in Inghilterra l’insicurezza e la disoccupazione si stavano dilagando, tant’è che pure lì venne istituita la British Union of Fascists, ispirata ai fascisti italiani. In Francia, la produzione industriale era calata drasticamente, così come le esportazioni. Il paese era indebolito dall’instabilità politica e dai continui scandali finanziari. La crisi del capitalismo era ormai irreversibile e si decise quindi di organizzare un grande incontro aperto a tutti i paesi per cercare di ricostruire l’economia, la conferenza di Londra. Qualunque sforzo per cercare di ritrovare una sorta di cooperazione fu infranto dall’iniziale annuncio di Roosevelt sull’uscita degli USA dal Gold Standard e di svalutare il dollaro per rilanciare i prezzi del mercato interno verso l’alto e aumentare le esportazioni. LA RIVOLUZIONE KEYNESIANA La dottrina economica tradizionale non sapeva spiegarsi la crisi e come l’applicazione delle ricette ortodosse non fosse servita. La legge concepita da Say aveva ancora senso nella teoria economica del 1929. Say sosteneva che in regime di libero scambio, l’offerta crea sempre la propria domanda. Keynes cercò invece di trovare una risposta alla situazione attuale e ci riuscì. Secondo Keynes la razionalità in situazioni di incertezza induce il consumatore a esprimere una scelta sul verificarsi di un evento ed è quindi costretto a ragionare in termini probabilistici. Potevano quindi esistere dei cali della domanda a cui non esisteva una risposta automatica. Keynes rovesciò il nesso causale: la domanda determina l’offerta e non il contrario. Secondo Keynes è quindi necessario l’intervento da parte dello Stato, con un aumento della spesa pubblica, per rilanciare la domanda, a cui seguirà un aumento dell’offerta. Lo Stato interventista (Cap. 13) Il collasso del 1929 chiuse un periodo di prosperità, tanto che lo stile di vita americano venne messo in discussione. Nel 1932 Franklin D. Roosevelt venne eletto Presidente degli Stati Uniti, grazie alle sue promesse di far partire un nuovo corso, senza mai specificare però di cosa si trattasse. I tre obiettivi della nuova amministrazione erano: - Rilanciare l’economia - Dare assistenza e lavoro alla popolazione - Ridare fiducia alla nazione Fu proprio per questo che vennero istituite delle novità: - La formazione di un brain trust di professori universitari, giornalisti, e componenti del mondo della finanza - La raccolta di un impressionante mole di dati per potersi muovere su una base empirica - La determinazione a volersi allontanare dall’ortodossia prevalente. Nei primi cento giorni vennero prodotte leggi con una media di 1 ogni 3 giorni. L’obiettivo del New Deal era infatti quello delle 3 R: - Relief: assistenza ai disoccupati e contrasto della povertà - Recovery: interventi per riportare l’economia ai livelli precrisi - Reform: riforma del sistema finanziario ed economico per evitare nuove recessioni. Il New Deal si articolò quindi in due fasi: 1. La prima fase, nel triennio 1933-1935, di stampo economico. 2. La seconda fase, tra il 1935-1938, di maggiore attenzione alle politiche sociali. I primi interventi riguardarono il sistema monetario e creditizio, con l’obiettivo di iniettare liquidita nel sistema. Le banche e la borsa vennero chiuse per una settimana (holiday banking) e vennero sottoposte ad una attenta revisione. Le banche risanabili furono dotate di liquidità e re-immerse nel mercato, le altre vennero chiuse. Contestualmente vennero dati pieni poteri in materia finanziaria al presidente. Nel 1933 venne emanato l’atto più importante per la regolazione del sistema creditizio, il Glass-Steagall Banking Act, che separava le banche commerciali, lasciando loro solo credito a breve termine, da quelle di investimento, specializzate in credito a medio-lungo termine. In più, esso vietò alle banche di possedere, vendere o comprare titoli di imprese private ed istituì un fondo di garanzia federale per depositi fino a 2500 dollari. Venne inoltre istituita nel 1934 la Security and Exchange Commission (SEC), che si sarebbe occupata del controllo delle società quotate in borsa a tutela del pubblico. Per ridare fiato all’economia e dare corso a una politica espansiva occorreva la libertà di manovra della politica monetaria. Per questo nell’aprile 1933 venne annunciata l’uscita dal sistema aureo e la svalutazione del dollaro. L’oro venne ritirato dal mercato e venne istituito l’obbligo di venderlo alla FED. Le riforme economiche più importanti varate durante il New Deal furono: - Agricultural Adjustment Act, 1933: si impegnava a risolvere due obiettivi, il sostengo artificiale ai prezzi interni e la loro separazione da quelli correnti sul mercato mondiale. Esso fu criticato perché generò una contrazione della coltivazione del cotone di circa 1/4, ma raggiunse comunque gli obiettivi prefissati - National Industrial Recovery Act, 1933: introduceva norme volte a regolare i prezzi e la produzione industriale e a garantire il livello dei salari dei lavoratori, assicurando i loro diritti sindacali. Venne inoltre varato un importante piano di opere pubbliche che riuscirono ad occupare circa 1/3 dei disoccupati, si tratta delle opere coordinate dalla Public Work Administration che perseguì due obiettivi: - Assicurare reddito ai disoccupati e stimolare la domanda - Migliorare le infrastrutture. L’esempio più importante fu il progetto della Tennessee Valley Authority, che bonificò ed elettrificò una vastissima area. Nel 1935 e 1936, il NIRA e l’AAA vennero dichiarato incostituzionali dalla corte suprema perché infrangevano la libertà economica, tant’è che il primo venne riscritto e il secondo abbandonato definitivamente. Nel 1935 una serie di misure di welfare e di nuove regolamentazioni del mercato del lavoro aprirono una nuova politica sociale. Venne firmato il Social Security Act, che garantiva la pensione di vecchiaia, una assicurazione in caso di disabilità e di disoccupazione e assegni per le vedove e i loro figli. Nel mercato del lavoro vennero invece firmate delle riforme volte a istituire l’obbligo da parte delle imprese di riconoscere i sindacati e di introdurre la contrattazione salariale collettiva. I risultati del New Deal furono ambigui: Da un lato rivitalizzò lo spirito della nazione e invertì la caduta degli indicatori economici, ma allo stesso tempo i risultati non furono pari all’attesa. L’economia USA crebbe comunque del 8.4% annuo nel periodo 1933-1937, ma dopo una nuova recessione del 1937 i prezzi non erano ancora superiori a quelli precrisi del 1929. L’eredità più significativa fu quella di dimostrare come lo Stato regolatore e la democrazia erano compatibili. LA GERMANIA Dopo le elezioni del 1932 si cercò di scindere il movimento nazionalsocialista in due inserendo nel governo una sola delle due ali, ma non ci si riuscì. Fu così che nel 1933 Adolf Hitler divenne cancelliere, venne proibito successivamente il partito comunista e poco dopo, vennero concessi a Hitler i pieni poteri. Rapidamente vennero banditi sindacati e partiti dell’opposizione, sopprimendo tutte le libertà politiche e di espressione. Il primo obiettivo del regime fu il lavoro. Venne elaborato un programma quadriennale in cui era previsto un massiccio aumento degli investimenti pubblici e un enorme piano di costruzione di opere pubbliche per ridurre la disoccupazione e aumentare la propaganda. Per incrementare il lavoro, molti vennero arruolati nelle SA o SS e venne limitato l’utilizzo dei mezzi meccanici nei lavori pubblici. Altro sostegno ai cittadini furono i prestiti matrimoniali, a patto che la donna si ritirasse dal mondo del lavoro. Dopo la re-istituzione della leva militare e tutti questi aiuti, la disoccupazione calò drasticamente. Ovviamente il fine ultimo era quello di scatenare un nuovo conflitto tanto che nel secondo piano quadriennale venne messo in secondo piano il lavoro pubblico, per fare spazio al riarmo. La spesa militare passo dal 4% nel 1933 al 50% nel 1938. Gli investimenti privilegiarono il settore minerario, le industrie chimiche e quelle produttrici di beni strumentali e armamenti. Anche nella agricoltura, si cercò di raggiungere l’autosufficienza in ottica bellica, ma non ci si riuscì. Era necessario secondo Hitler, uno spazio vitale ad est, con il quale raggiungere l’autosufficienza. Il commercio internazionale fu assoggettato al controllo dello stato e venne in più creata una vasta area commerciale comprendente i paesi dell’Europa centrale e orientale. Va anche detto che il dirigismo del regime non soppiantò il settore privato, esso veniva soltanto supervisionato da apparati regionali. Il governo infatti riuscì a indirizzare le grandi imprese private e le banche a realizzare gli obiettivi di Hitler lasciando intatta la struttura privatistica del capitalismo tedesco. Il programma di investimenti richiese un impegno finanziario eccezionale, con il problema che veniva recuperato soltanto per il 60% dalle entrate fiscali, e per di più, le spese per il riarmo dovevano essere nascoste. Le spese militari vennero quindi così mascherate: venne istituita dallo Stato insieme alle più importanti imprese tedesche la MeFo. Le aziende che dovevano essere pagate dal governo venivano pagate in cambiali di questa società con un tasso di sconto del 4% e garantite dalla Reichsbank, in questo modo le cambiali non risultavano spese del governo, ma spese della MeFo, in generale erano però sempre soldi pubblici. Nonostante avesse preparato la guerra con largo anticipo, la Germania fu in ritardo sul piano della mobilitazione totale, anche a causa della volontà di non inserire le donne nel mondo del lavoro. Fu solo nel corso del conflitto che il paese attuò uno sforzo volto a massimizzare la mobilizzazione delle risorse, con la produzione bellica che raggiunse il suo apice nel 1944. L’ITALIA In Italia lo Stato come fattore sostitutivo dell’industrializzazione italiana, attraverso l’utilizzo del debito pubblico come strumento di ricollocazione del risparmio privato, aveva: - Avviato la costruzione e gestione della ferrovia - Generato commesse pubbliche e sussidi per le imprese private - Salvato diverse imprese o interi settori - Istituito istituti di credito speciali come il CREDIOP e l’ICIPU. - Salvato diverse banche, come la banca italiana di sconto e la banca di Roma. Nel 1922, ricevuta la nomina a primo ministro, Mussolini avviò una politica liberale: - Abolì il monopolio sulle assicurazioni - Diminuì l’imposta patrimoniale - Ridusse i dazi doganali La politica economica cambia però di passo nel 1925 con l’instaurarsi del regime totalitario: - Rialzo dei dazi doganali - Limite agli investimenti esteri - Nel 1926 la banca di Italia ottiene il monopolio sull’emissione monetaria - 1927 viene ripristinato il gold standard (90 lire per sterlina vs il reale cambio di 153 lire per sterlina), per farlo taglia i salari e contrae il credito. - Crollo dell’export e della domanda interna, crollo dei profitti e dell’occupazione. Lo stato decide di rispondere ai disagi economici aumentando il suo intervento: - Battaglia del grano per l’autosufficienza alimentare e lo stimolo di macchinari. - Bonifica delle paludi Nel 1931 viene istituito l’IMI, Istituto Mobiliare Italiano per il finanziamento di medio e lungo periodo dell’industria. L’impatto con la grande crisi fu molto violento. Alla fine del 1932 l’economia italiana era sull’orlo del collasso. Le banche universali registravano una crisi di liquidità e tutti gli indicatori economici precipitavano. La stessa banca di Italia non era in grado di gestire la situazione. Venne quindi istituito nel 1933 l’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), con l’obiettivo di essere un organismo transitorio, che doveva alleggerirsi a mano a mano che la crisi svaniva. Lo Stato lo dotò dei capitali necessari per soccorrere istituti di credito ma allo stesso tempo ne acquisì le azioni e le proprietà industriali. Fu così che le tre più importanti banche vennero nazionalizzate. L’Istituto venne diviso in due sezioni: - La sezione finanziamenti avrebbe valutato la situazione patrimoniale e reddituale delle imprese e le avrebbe liquidate o rilanciate. - La sezione smobilizzi si occupò invece di privatizzarle dopo il risanamento. Dopo la condanna da parte della Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia, Mussolini annunciò che l’obiettivo principale era ora l’autarchia e la propria indipendenza economica, esponendo il proprio “Piano regolatore dell’economia italiana del prossimo tempo fascista”. Il programma autarchico nacque dalla consapevolezza che tutta l’Italia andava preparata a un conflitto imminente. Essa rappresentò allora uno strumento politico per la mobilitazione del paese per 4 ragioni: 1. Accelerò lo sfruttamento delle risorse naturali nazionali e dell’impero 2. Rafforzò l’intervento e il controllo pubblico in ambito economico 3. Inoculò verso le masse l’etica della povertà educando gli italiani ad una vita di sacrifici a beneficio della collettività 4. Mobilitò in modo permanente l’intera comunità nazionale verso l’idea che la guerra fosse il momento più elevato della vita degli stati. Venne sostenuta l’occupazione, venne promosso lo sviluppo di aree industriali arretrate come Napoli, Livorno ecc La Carta del Lavoro del 1926 stava quindi prendono forma, attraverso un disegno organico di riforme che aveva in mente: 1. La pianificazione centralizzata dell’allocazione delle risorse 2. L’utilizzo dell’IRI per rafforzare alcune industrie pesanti chiave e aumentare il controllo pubblico nei settori nevralgici dell’economia. 3. La socializzazione delle imprese e quindi la partecipazione di tecnici e operai alla gestione aziendale, una terza via rispetto a capitalismo e comunismo. Nel 1936 venne emanata la riforma bancaria che separò la banca dall’industria e che avviò la specializzazione del settore creditizio in istituti del credito a breve e a medio/lungo termine (il credito a medio/lungo termine venne riservato a istituti di credito speciali), rafforzando i poteri di vigilanza in capo alla Banca d’Italia, nominata Banca Centrale. Nel 1937 l’IRI diviene ente permanente, una holding che gestiva i titoli detenuti dallo Stato, creando anche delle finanziarie di settore come Finsider e dopo la guerra, Fincantieri. Il 40% di tutto il capitale azionario delle imprese italiana era raccolto sotto l’IRI. La guerra d’Etiopia rilanciò l’economia italiana, stimolando tutti i settori, successivamente venne occupata la Libia e l’Albania, con la ricerca di uno spazio vitale italiano parallelo a quello tedesco. La Seconda Guerra Mondiale (Cap. 14) La Seconda guerra mondiale rappresentò il culmine della trasformazione in senso tecnologico dello scontro bellico. Tutti i paesi belligeranti ne uscirono stremati in termini di risorse. La guerra sovvertì l’ordine politico e favorì la decolonizzazione. Prima di tutto, la guerra pose fine alla lunga stagnazione conseguente alla crisi dei primi anni 30. Economia di guerra: Spinta dalla domanda bellica, la produzione mondiale aumenta del 20% ma non si distribuisce in maniera omogenea. Cresce infatti la spesa militare e diminuisce il consumo di beni durevoli e non durevoli, privati. I paesi si chiudono e il commercio mondiale crolla. La spesa militare aumenta e diventa il traino delle spese nazionali. La guerra comportò anche distorsioni settoriali in relazione a quanto un settore fosse legato all’industria bellica. La guerra è una guerra di massa, di vari volumi, che però non si dimentica la qualità. Gli armamenti sono sempre più sofisticati, sempre migliori in termini di qualità Anche l’organizzazione del lavoro si estese per aumentare i volumi e la capacità produttiva delle aziende anche non automobilistiche. Un altro aspetto è l’innovazione tecnica, in settori nuovi, nascenti o che conoscono un enorme salto di qualità. Complessivamente, quasi ovunque i paesi belligeranti avevano un pil nel 1950 superiore a quello del 1938. La crescita indotta dal conflitto fu quindi sostanzialmente un fenomeno malamente distribuito tra i pochi vincitori che andarono in pari e tra i perdenti, alcuni dei quali versarono in condizioni drammatiche. La guerra ebbe un impatto generalmente depressivo sul commercio internazionale e sugli investimenti esteri anche se gli effetti variarono da paese a paese. Si passo da un volume di 3 miliardi di dollari a un miliardo di dollari, con il commercio che subì lo spostamento della composizione di consumi (più pubblici che privati), la riduzione del potere di acquisto delle famiglie e le sempre più rischiose condizioni di trasporto. A generare un trend positivo fu il piano americano che prevedeva l’invio di beni e derrate alimentari ai paesi alleati. Nonostante questi beni venivano contabilizzati al 10% del loro valore e non prevedevano interessi, furono comunque importanti per sviluppare la posizione di credito degli USA verso l’Europa. Oltre che a subire una frenata, il commercio globale si regionalizzò in blocchi geografici: quello anglosassone, quello europeo continentale e quello orientale. Lo sforzo bellico non risparmiò alcun settore. Il comparto agricolo dovette fronteggiare la diminuzione della forza lavoro e la riduzione della produzione di derrate alimentari. Ad esse, per via della guerra si aggiunsero devastazioni, occupazioni, requisizioni e la mancanza di macchinari per via delle industrie rivolte alla produzione bellica. Va anche sottolineato che questo non avvenne nel Mid-West americano, in Australia e in Argentina, per via della forte domanda da parte degli alleati. Un’altra componente primaria colpita fu il settore delle materie prime, la guerra ne stimolò l’estrazione ma anche la ricerca di alternative. Per quanto riguarda l’industria militare, la guerra la fece espandere esponenzialmente. Lo sforzo produttivo fu ovunque imponente e, fallita l’idea della guerra lampo, la supremazia degli alleati si fece vedere. In generale, questa enorme produzione fu realizzabile solo grazie alle più moderne tecniche di produzione di massa. Furono infatti le grandi imprese già affermate prima del conflitto ad avere un ruolo centrale nei settori di appartenenza e nella riduzione industriale bellica. Uno sforzo produttivo di questa portata, dato un apparato produttivo sufficiente, poteva avvenire solo tramite la regolazione delle allocazioni dei fattori produttivi. Ovunque la guerra portò a prezzi amministrati, razionamenti e controlli per comprimere i consumi privati a favore delle produzioni belliche. Il dirigismo economico era quindi entrato nei governi e dittatori di tutta Europa. Pianificazione e capacità di coordinamento del complesso produttivo pubblico e privato attuate durante lo sforzo bellico costituirono un importante know-how per i governi che negli anni del dopoguerra avviarono politiche economiche interventiste che presero il nome di economie miste. La Seconda guerra mondiale fu caratterizzata da un contenuto tecnologico ancora più elevato della precedente e agì da coagulo di una serie di innovazioni che affollavano i laboratori di ricerca e di sviluppo delle imprese. Tre settori vennero prevalentemente investiti da una serie di innovazioni radicali: - Aeronautica, con il volo ad alta quota, il volo di lunga percorrenza, il volo assistito, il radar, il motore a reazione, la raffinazione per ottenere carburanti ad alto rendimento - - Energetico: chimica dei carburanti (additivi e ricerche di benzine sintetiche) e energia nucleare (nei Los Alamos National Laboratory, sotto la direzione di J.R. Oppenheimer, furono progettate e costruite le prime bombe nucleari americane) Tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ITC): le necessità di calcoli sempre più complesso incoraggiano la progettazione di macchine in grado di svolgere simultaneamente migliaia di operazioni, viene messo a punto uno dei primi grandi elaboratori elettronici ENIAC. Finalmente la prosperità (Cap. 15) La Seconda guerra mondiale è l’evento che chiude la “seconda guerra dei trent’anni” e apre una nuova fase, con la ridefinizione delle regole che governavano l’economia internazionale e l’avvio dei processi di decolonizzazione, con il mondo che va a strutturarsi in due blocchi contrapposti (la guerra fredda). Per l’occidente si apre una stagione irripetibile, i trenta gloriosi (1945-1975). La guerra aveva lasciato l’Europa sotto un enorme cumulo di macerie, le perdite umane furono considerevoli e non solo militari. Dal punto di vista economico, le perdite di capitale umano si sommavano a quelle di risorse, infrastrutture, abitazioni e impianti produttivi. Investimenti fissi industriali erano stati distrutti o resi inutilizzabili. Il commercio internazionale soffriva e lo stesso faceva il settore primario lasciato a sé stesso. Complessivamente era evidente come l‘Europa, l’Unione Sovietica e il Giappone fossero in una condizione pessima. Un’Europa distrutta economicamente non conveniva a nessuno, come dimostrò il “Piano Morgenthau” che prevedeva la deindustrializzazione pressoché totale della Germania e la sua trasformazione in economia “silvopastorale”. Ben presto questa idea venne abbandonata e sostituita con quella di costruire intorno alla ripresa della Germania la ricrescita dell’intera Europa. Tra il 1947 e il 1951 la produzione dei principali paesi europei fece registrare tassi di crescita a 2/3 cifre e alla crescita industriale si affiancò un incremento del commercio con l’estero dei paesi dell’Europa occidentale. In quegli anni anche la produttività del lavoro aumentò. Questi 3 fattori portarono ad un generale miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini europei. La consapevolezza dei governatori europei era che questa ripresa sarebbe dovuta essere essere: - Rapida - Centrata su settori manifatturieri e industriali - Continentale, al fine di evitare altre frammentazioni. L’obiettivo generale aveva però il problema che ogni paese europeo aveva bisogno di importare tutto, ma non aveva la possibilità economica di pagare queste importazioni. Fu così che gli Stati Uniti decisero di attuare un intervento esterno. Tra il 1948-1951 gli USA trasferirono in Europa 13.5 miliardi di dollari. Si trattò di un importante programma di finanziamento finalizzato alla ripresa economica dell’Europa, denominato European Recovery Program o piano Marshall. Il piano prevedeva che i paesi europei presentassero i loro piani quadriennali di sviluppo con la richiesta dei beni necessari, successivamente il governo USA avrebbe acquistato i beni richiesti e li avrebbe consegnati ai paesi europei. I governi europei avrebbero poi venduto i beni sui loro mercati versando il ricavato in un fondo di contropartita che doveva essere utilizzato solo con l’assenso degli USA. Questo fondo venne utilizzato per investimenti produttivi o per ridurre il debito pubblico. L’erogazione dei fondi avveniva principalmente sotto forma di beni di investimento e materie prime necessarie alla produzione industriale e prevedeva uno stretto coordinamento tra le imprese e gli uffici ERP dislocati nei vari paesi. In generale, il piano fu composto: - Per 1/3 da materie prime - Per 1/3 da prodotti alimentari e fertilizzanti - Per un 15% da prodotti energetici - Per un 17% da macchinari e beni di investimento. Ne beneficiarono tutti, ma principalmente GB, Francia, Italia e Germania Ovest. I beni che giungevano erano stati acquistati nel mercato interno degli USA ed erano di un elevato grado tecnologico e ciò permise di accelerare la ripresa delle economie europee. La sostanziale valenza del piano era comunque quella di affermare la leadership economica e politica degli USA e il ristabilimento dei meccanismi dell’economia capitalista di mercato. Al momento della sua conclusione nel 1952 aveva raggiunto traguardi sotto molteplici profili. Nello stesso tempo, nel 1941 era stata firmata la Carta Atlantica, un accordo firmato da GB e USA che prevedeva: - L’autodeterminazione dei popoli - La rinuncia a guadagni territoriali Una cooperazione internazionale Il ritorno al libero scambio Il ripristino del Gold Standard e quindi il sistema dei cambi fissi. La ripresa economica dell’Europa si basò molto sulla ricostituzione della capacità produttive e sul riavvio delle correnti commerciali. La necessità di puntare su un più ampio ambito geografico spinse i paesi europei ad avviare politiche finalizzate a incrementare la cooperazione internazionale. Il Piano Marshall favorì l’inizio dell’integrazione europea e gli Inglesi insieme ai Francesi cercano di assumerne il controllo creando la Commissione per la cooperazione e economica nel 1947. Nel 1948 venne modificata nel Comitato per la Cooperazione Economica Europea (OECE) con l’adesione di 16 stati. All’OECE viene assegnato il compito, dagli USA, di coordinare e suddividere gli aiuti del Piano Marshall. Questa organizzazione doveva diventare l’istituzione però posta ad avviare l’integrazione europea, ma non ricevette mai poteri decisionali tanto che nel 1961, con l’adesione di USA, Canada e Giappone, divenne l’odierna OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Per quanto riguarda una vera e propria integrazione europea, i francesi, richiesero un’Alta autorità che controllasse la Ruhr. Per questo si decise di sottoscrivere un accordo tra Germania e Francia, terminando quest’ultimi la serie di accordi con la GB, ormai troppo rivolta al Commonwealth e agli USA. Nel 1951 nacque quindi la Comunità Economica Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) a cui aderirono Francia, Germania, Benelux e Italia, destinata a lavorare per armonizzare il mercato europeo di queste industrie e ridurre i dazi e pareggiando il livello dei salari. La cooperazione si basava su una importante premessa, la riduzione delle tariffe doganali. A livello internazionale era infatti condivisa la necessità di puntare ad una restaurazione delle condizioni favorevoli in termini di commercio internazionale. Nel 1947 era stata anche firmato, dopo la non rettifica dell’International Trade Organization da parte del congresso USA, l’accordo generale sul commercio internazionale (GATT) che venne a includere buona parte delle economie capitaliste e che si basava su due principi: - Principio del trattamento nazionale, in base al quale i beni e i servizi proveniente da altri paesi membri dovevano essere trattati allo stesso modo dei beni e servizi nazionali - Principio della nazione più favorita, in base al quale il trattamento favorevole riservato ad uno stato membro del GATT doveva essere esteso a tutti gli altri stati membri. Avevano poi preso forma il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale che erogava finanziamenti ai paesi in via di ricostruzione. Il Fondo Monetario internazionale aveva invece il compito di sostenere il regime di cambi fissi e la piena convertibilità delle valute che erano stati decisi nella conferenza di Bretton Woods. In questa conferenza, infatti, si formarono 3 pilastri: - Stabilita monetaria internazionale: cambi fissi e piena convertibilità delle monete - Liberalizzazione del commercio: che si apre dopo il gatt e che ora sono gestiti dal WTO - Ricostruzione dei paesi belligeranti e sviluppo degli investimenti internazionali, tramite la banca mondiale. A Bretton Woods di cerca di raggiungere un grande compromesso fra l’obiettivo di avere tassi di cambio stabili (per promuovere il commercio e gli investimenti) e mantenere allo stesso tempo la possibilità di politiche autonome nazionali. Proprio per questo si decise che: - Il regime dei cambi fissi si sarebbe adottato ma in una maniera modificabile: o Se una nazione ha squilibri può svalutare dopo l’OK del FMI o Se una nazione è in deficit può richiedere fondi al FMI - Si sarebbero attuate delle restrizioni ai capitali, permettendo alle diverse nazioni di perseguire obiettivi di politica economica senza intervenire sul tasso di cambio Basandosi sul famoso trilemma, limitare il flusso di capitali era necessario, per mantenere una politica economica autonoma. Limitare i movimenti di capitale impedisce la speculazione e rende quindi nuovamente possibile la politica monetaria in presenza di tassi di cambio fissi. Quella che si andava a realizzare nel dopo guerra era una ambiziosa opera di rimodellamento del sistema capitalistico internazionale, basato ora sulla cooperazione e sull’azione di vigilanza e intervento di istituti di regolazione. La regionalizzazione del commercio internazionale è verificabile anche dalla nascita di due importanti organizzazioni, prima il Council for Mutual Economic Assistance (Comecon, creato nel 1948 e finalizzato a facilitare gli scambi tra i paesi del blocco comunista) e soprattutto, l’Unione Europea. L’Unione Europea fu la più logica conclusione del piano Marshall. Essa si basò su quattro libertà: - Libertà di scambio di merci - Libertà di scambi dei capitali Libertà di movimento delle persone Libertà di scambio di lavoratori La guerra aveva insegnato ai governi europei quanto fosse importante pianificare e utilizzare un’economia mista. Era dunque ora più naturale l’intervento da parte dei governi a livello economico e politico sia attraverso imprese pubbliche sia attraverso agenzie regolatrici di monopoli, nazionalizzati. Le imprese pubbliche, infatti, abbondavano in tutta Europa soprattutto in quesi settori strategici, ad alta intensità di capitale ad un elevato grado di tecnologia. La presenza pubbliche era tra l’altro funzionale ad uno dei nuovi pilastri della ripresa economica, il welfare, ovvero la creazione di un benessere accessibile pressoché a tutti i cittadini in ambito previdenziale e pensionistico. Tra il 1950 e il 1965 la spesa pubblica di tutti i paesi aumentò a circa il 35% medio, destinata principalmente a programmi di salute e sicurezza sociale. Le economie europee erano quindi ora formate da grandi imprese con un parziale controllo pubblico, un vasto settore privato e una marcata ridistribuzione dei benefici tramite politiche di welfare. Si trattava quindi di un capitalismo di mercato che temperava gli eccessi della ricerca del profitto con l’attenzione ad un vasto complesso sociale, tanto da prendere il nome di economia sociale di mercato. Tra il 1950 e il 1973 il pil crebbe in tutti i paesi europei e in Giappone, insieme alla produttività in tutti i fattori. La componente alimentare della spesa familiare era notevolmente scesa a mostrare come si era passati ad un’epoca detta “del consumismo”, che si diffuse in tutta Europa. Anche il blocco comunista non rimase indietro, prodotto lordo e produttività crescevano addirittura più dell’occidente. La sommatoria dei miracoli economici ridusse sempre di più il divario con gli USA e tutti i paesi verso l’inizio degli anni ’70 erano tornati a buoni livelli di competitività. L’economia mondiale era ancora lontana dai livelli di integrazione che avevano caratterizzato i decenni della prima globalizzazione, ma aveva riavviato, grazie ai diversi accordi internazionali, un lento processo di ricostituzione di uno spazio globale. La decolonizzazione (Cap. 16) Tutte questa serie di miracoli economici non solo riavvicinò i paesi europei e il Giappone agli Stati Uniti, ma generò e ampliò un divario tra le economie industrializzate e quelle che ancora non godevano a pieno degli effetti della ricrescita. Il vasto gruppo dei paesi “poveri” comprendeva realtà molto diverse tra loro, ma erano accomunate da: - La posizione geografica, tutti nell’emisfero meridionale - La situazione coloniale in cui tutti ancora si ritrovavano - Presenza di regimi politici molto instabili. Il sottosviluppo derivava da una serie di fattori, erano, ad esempio, tutti paesi sbilanciati verso il settore primario, con una agricoltura di sussistenza. La dipendenza dal settore agricolo limitò anche lo sviluppo del settore secondario. Al termine della Seconda guerra mondiale molti paesi avevano ancora delle colonie o di dominii su cui ponevano le proprie leggi. La guerra però aveva ormai accelerato il processo di disgregazione che era già avviato da tempo. Molti paesi cacciarono i coloni europei e in nome dei principi di autodeterminazione, gli usa si opposero sempre ad un tentativo di riconquista, proprio sulla base della Carta Atlantica firmata insieme alla Gran Bretagna. Fu la guerra fredda a dare il colpo di grazia agli imperi occidentali, come mostra la crisi di Suez. La crisi del canale di Suez iniziò con la nazionalizzazione della compagnia che gestiva il passaggio del canale da parte degli egiziani, a cui si opponeva Israele, appoggiato da Francia e Inghilterra. Dopo l’annuncio del sostegno sovietico all’Egitto gli USA dovettero intervenire, ritirando le truppe dei propri alleati, segnando la fine del colonialismo europeo in africa e non solo. Il processo di decolonizzazione portò alla nascita di paesi come l’India, la Cambogia, il Sudan in modo pacifico, ma anche a conflitti, come quello tra Francia e Algeria. Il raggiungimento dell’indipendenza da parte delle colonie però, non coincise con l’avvio di una fase di prosperità e di ricchezza. Infatti, le dichiarazioni di indipendenza non cancellarono tutti i problemi strutturali che già erano presenti in tutte le economie coloniali, come la dipendenza dal settore primario, l’arretratezza del settore manifatturiero, l’elevata pressione demografia e i marcati livelli di povertà. A queste problematiche si aggiunse il problema della mancanza di una classe dirigente forte e carismatica. Questi leader, infatti, non si dimostrarono capaci di costruire rapidamente un apparato burocratico e una architettura istituzionale forte e solida. Vi era poi il problema dei due blocchi mondiali, filo-USA e filo-URSS, essi infatti cercarono sempre di attrarre gli stati appena costituiti nei loro blocchi di influenza, subordinando aiuti economici ad allineamenti politici. Nel 1955 si tenne a Bandung una conferenza con l’intervento di 29 paesi afroasiatici, con l’obiettivo di promuovere una politica di pace e cooperazione all’infuori delle sfere di influenza URSS e USA, tanto da portare successivamente alla nascita del movimento dei paesi non allineati. A metà degli anni ’50 india e Cina erano retrocesse agli ultimi posti nelle graduatorie mondiali dello sviluppo. Il loro pil era soltanto 1/5 della media mondiale e 20 volte inferiore a quello degli USA. Essi erano due paesi fortemente dipendenti dall’agricultura e che soffrivano una forte pressione demografica. In Cina, una volta conclusa la guerra civile che portò alla nascita della Repubblica Popolare Cinese e alla fuga dei nazionalisti a Taiwan, il partito comunista aveva progressivamente preso il controllo del sistema economico. Dal 1953 in poi si avviò una serie di collettivizzazioni dei mezzi di produzione e la progressiva nazionalizzazione di terra e imprese, avviando anche il primo piano quinquennale. Insieme all’aiuto dei sovietici, il coordinamento centralizzato diede frutti notevoli, con il raddoppio della produzione industriale. Il secondo piano quinquennale bruciò però tutti i progressi fatti fino ad allora. L’ambizioso programma di crescita si risolse in un insuccesso, vanificando enormi sforzi di investimento e provocando carestie pesanti nelle campagne. Anche in India si attuò un sistema di programmazione, ma meno estremista che in Cina. Il primo piano quinquennale riguardava prevalentemente il settore primario, mantenendo chiara l’idea di privilegiare la proprietà e l’investimento pubblico. Fu dal 1956 che il sistema dell’economia mista venne inserito nel sistema economico, in settori di base come quello elettrico, siderurgico e delle comunicazioni che erano riservati a imprese di proprietà statale. Tuttavia, non tutte le politiche avviate nei paesi ex-coloniali si conclusero in negativo. Corea del Sud e Taiwan, infatti, riuscirono ad avvicinarsi ai livelli occidentali che vantavano infatti un reddito dapprima doppio e poi triplo rispetto a quello di India e Cina. Terzo Mondo, “Terzi Mondi” (Cap. 18) Nella metà degli anni ’70 solo Giappone e Hong Kong avevano un reddito pro capite superiore alla media mondiale. Il successo giapponese non nascondeva però la situazione di sottosviluppo dei paesi dell’Asia. Nel corso degli anni 70 però si videro i primi segni di cambiamento. A Giappone e Hong Kong si aggiunsero Singapore, Corea del Sud e Taiwan. Con riferimento ai processi di sviluppo delle economie di tarda industrializzazione si possono schematicamente individuare tre tipologie di paesi: - Quelli come le “tigri asiatiche” che hanno sperimentato una robusta crescita e una convergenza nei livelli di reddito con i paesi occidentali, con un processo chiamato “Sneaking Up” - Quelli che pur avendo una minima base industriale non sono riusciti a imboccare stabilmente la via della crescita (Pakistan, Filippine), “Staying Behind” - Quelli come l’Argentina che hanno conosciuto un regresso, “Stumbling Back” Gran parte dei paesi del terzo mondo provenivano da un passato coloniale che non aveva quasi mai intaccato la struttura economica del paese, o se lo aveva fatto, lo aveva fatto in un modo tale da lasciare una base instabile su cui costruire un sistema economico solido. In altre situazioni invece si erano creati un set di opportunità tali da riuscire ad avviare all’interno di alcuni stati (sudamericani) una serie di attività imprenditoriali proprie. Tra gli anni ’50 e gli anni ’60 si manifestò una differenza tra chi era in grado di appropriarsi di una base tecnologica e chi non riusciva a staccarsi dalla dipendenza con l’estero. Il ritardo accumulato da questi paesi non era più un vantaggio, e le vecchie ricette dei late comers e dei catching up non funzionarono più. Erano da scartare quei processi di sviluppo basati sul settore primario e anche quelli basati sull’investimento in settori labour intensive. Era anche impossibile instaurare un processo di crescita sulla svalutazione della propria moneta. Nel breve termine si poteva rivelare una mossa astuta per aumentare le esportazioni, ma a lungo termine avrebbe soltanto generato instabilità. Il troppo ampio gap tecnologico da recuperare, il troppo capitale necessario e le troppe conoscenze richieste resero il divario irrecuperabile. Un tratto comune dei percorsi di questi paesi in via di sviluppo fu quello di acquisire e mantenere una leadership su produzioni per cui la tecnologia fosse facilmente reperibile, il capitale umano richiesto non fosse di alta qualità, in quei settori quindi riconducibili ad una tecnologia “media”. Furono quindi la siderurgia, la chimica di base, le produzioni automobilistiche ecc… La precisa specializzazione settoriale diete vita a imprese di larghe dimensioni, capaci di eseguire economia di scala. La struttura dominante, in una serie di imprese specializzate e diversificate fu quella del gruppo di imprese. Imprese diverse, operanti in settori non necessariamente correlati si univano, per via di legami azionari, ad una impresa centrale a controllo familiare e con una gestione manageriale che godeva di ottimi rapporti con il governo. La presenza di gruppi, infatti, era funzionale all’intervento dello Stato come acceleratore dello sviluppo. Il ruolo assunto dagli Stati fu infatti quello di “Development States” che si occuparono da un lato di investire nell’industria, ma anche di definire e orientare l’azione del capitale privato al fine di incrementarne al massimo l’efficienza. Allo stesso tempo le nuove “Development Banks”, controllate direttamente dal governo, offrivano credito a medio e lungo termine a tassi bassissimi se non negativi, con il solo vincolo di rispettare standard tecnologici e di superare le misurazioni di capacità competitiva nei mercati internazionali. Dal Keynesismo al neoliberismo (Cap. 17) Sul finire degli anni ’70, tutte le principali aziende del mondo avevano un fattore comune, erano sotto il controllo dei propri governi nazionali. Fu proprio da qui che il governo conservatore inglese di Margaret Thatcher decise di iniziare ad attuare una serie di privatizzazioni, presto seguita da molti altri paesi. Gli anni ’70 coincisero con un periodo di generale recessione, dove si mescolarono un’elevata inflazione, una stagnazione nel PIL (stagflazione) e un aumento del tasso di disoccupazione. Nei paesi capitalisti si profilava nuovamente la drammatica sensazione di insicurezza e instabilità che aveva caratterizzato gli anni ’30. Due drammatiche crisi petrolifere del 1973 e del 1979 riportarono i cittadini di occidente a ricordare la vita fatta di scarsità durante la guerra. Il tentativo disperato da parte dei governi di recuperare la competitività perduta ebbe come risultato quello di cancellare un altro pilastro che aveva governato il processo di crescita, il regime dei cambi fissi di Bretton Woods. Allo stesso tempo, questo rallentamento mise in dubbio i principi keynesiani che si basavano sulla forza della domanda, ritirando fuori i vecchi principi di ispirazione liberista. Le prime teorie furono riguardo il sistema monetario, con l’idea che un aumento della massa monetaria avrebbe avuto effetti a breve termine sul pil e di lungo termine sul controllo dell’inflazione. Si credeva quindi che una liberalizzazione dal lato dell’offerta, una minore regolamentazione, una attenuazione della pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese, avrebbe generato effetti di stimolo della domanda, di riduzione della disoccupazione e di competizione sui prezzi, per limitare l’inflazione. Il presupposto per queste ricette era quindi un clima di convinto liberismo, che trovò pratica grazie a Margaret Thatcher e Ronald Regan. In occidente il settore pubblico era andato espandendosi senza sosta, essi però non erano esenti da problemi. La crisi dell’edificio keynesiano non risparmiò infatti l’impresa pubblica. Una serie di scandali finanziari e di clientelismo e corruzione fece crescere nei paesi occidentali la crescente ostilità nei confronti dell’idea di Stato imprenditore. A partire quindi dalla fine degli anni ’70 fino a tutti gli anni ’90 si avviò un enorme processo di privatizzazione in tutti i paesi europei a cui si aggiunse lo smantellamento di tutti i paesi dell’ex-URSS e della loro economia centralizzata. Questo grande movimento di privatizzazioni si avviò nel Regno Unito, con l’azione del governo Thatcher, con un ricavo di importo pari al 10% del PIL. Fu poi la volta della Francia, che tra il 1986 e il 1990 privatizzò le maggiori imprese francesi nei settori strategici. L’Italia fu invece il terzo paese europeo a privatizzare, con un importo ricavato pari all’8% del PIL. I governi coinvolti nel processo di privatizzazione basarono le proprie decisioni di vendita su un ventaglio di motivi da presentare ai cittadini: 1. Le imprese privatizzate avrebbero incrementato la loro capacità di generare redditi e profitti, migliorando i servizi offerti agli utenti. 2. Le privatizzazioni avrebbero promosso maggiore trasparenza ed efficienza per via delle richieste del mercato. 3. Le privatizzazioni avrebbero portato nelle casse dello Stato consistenti introiti e avrebbero terminato quella concezione per cui lo Stato non faceva altro che ricoprire, con i soldi dei cittadini, le gestioni inefficienti delle imprese pubbliche. 4. Infine, privatizzare era necessario per ottenere una cittadinanza in Europa, dopo la firma del trattato di Maastricht del 1992. Fu quindi così che le privatizzazioni si susseguirono in modo serrato. Le modalità di privatizzazione erano di vari tipi. Esisteva la privatizzazione inglese, consistente in un’offerta pubblica di vendita. In Francia invece la necessità di preservare la nazionalità degli azionisti di controllo generò la creazione di “noccioli duri” di azionisti stabili e la collocazione delle altre azioni sul mercato. In altri casi il governo scelse di rimanere all’interno dell’azionariato, emettendo gold shares che conferivano particolari diritti come quello di veto. In altri casi ancora, il governo cedette semplicemente le imprese tramite asta o trattativa privata a investitori nazionali ritenuti in grado di ristrutturare e rilanciare i complessi produttivi. Un terzo metodo molto in uso nelle economie una volta pianificate era quello dell’utilizzo di voucher emessi alla popolazione. Questi voucher erano successivamente convertibili in azioni, con l’interesse di generare un vasto azionariato popolare per poter formare poi un mercato finanziario in paesi in cui non erano ancora presenti. Fu così quindi che lo Stato si ritirò dalla gestione delle imprese e si limitò soltanto a tracciare il quadro generale lasciando spazi crescenti di azione e libertà di manovra a imprese e imprenditori privati. La fine di un grande sogno (Cap. 19) Durante la grave crisi che colpì tutte le economie occidentali, la situazione dell’Unione Sovietica pareva al riparo. Nel 1978 infatti, due economisti americani dimostrarono come l’Unione Sovietica non presentasse cicli economici analoghi a quelli occidentali. Tuttavia, dietro questa stabilità si nascondevano criticità molto serie e diffuse. Le riforme degli anni ’60 e ’70 infatti tardavano a mostrare i risultati. Infatti, l’URSS era colpita da bassa produttività, crisi dell’agricoltura e basso livello dei consumi privati. Ci si rese conto di come la pianificazione centralizzata, che negli anni aveva portato l’URSS ad essere una delle economie più industrializzate, mostrasse une certa rigidità. Fu proprio per questo che, lasciando comunque i principi intatti, qualche apertura verso maggiori consumi privati era stata promossa da Kruscev. L’economia pianificata non si rivelò adatta a produrre uno sviluppo intensivo, rivolto a migliorare la qualità sia del capitale fisso che del capitale umano, ma solo uno sviluppo estensivo. Con il passare del tempo, infatti, il livello della burocratizzazione aumentò, anche per colpa del fatto che i vari ministeri dovevano ora interfacciassi con molte più aziende di prima. Un’ulteriore questione di crisi fu la crisi petrolifera. Con il petrolio la Russia aveva ottenuto un importante vantaggio politico, ma divenne l’unico modo per ottenere dollari con cui acquistare la tecnologia necessaria per ridurre il gap industriale con l’occidente. A rendere più grave la situazione sovietica era l’inedita debolezza di ordine demografico, si era infatti evidenziato un calo della natalità. Per la prima volta la popolazione Russa non era più in grado di riprodurre sé stessa. Quando nel 1985 Gorbaciov venne eletto alla testa del PCUS, esistevano ancora delle condizioni rivoluzionarie. Il motivo che portò alla testa di Gorbaciov fu il tentativo di riviere il sogno socialista in una società profondamente cambiata. Era infatti convinto che fosse ancora possibile far riviere un socialismo dal volto umano. In molti però, soprattutto i suoi avversari, ritenevano che il sistema non fosse riformabile. Per attuare la sua idea politica Gorbaciov dovette affidare maggiore responsabilità ai suoi fidati. Fu così che istituì “Super ministeri” e rafforzò i propri poteri. In poco tempo però il segretario del PCUS bruciò tutto il suo capitale politico e tutte le sue promesse di riforme svanirono nel nulla. Dopo una serie di eventi completamente sfavorevoli e la facile vittoria dei nazionalisti nei paesi baltici venne proclamato il Comitato per lo stato d’emergenza che depose il presidente. Il presidente Eltsin sospese il partito comunista e Russia, Ucraina e Bielorussia decretarono la fine dell’Unione Sovietica. Eltsin aveva davanti delle sfide abbastanza difficili: 1. Ricostruire uno stato democratico 2. Creare un mercato 3. Attuare un processo di privatizzazioni 4. Istituire un sistema legale Fu così che Eltsin annunciò le sue riforme nel 1991. Riprendendo la shock therapy del governo polacco, ovvero il rilascio improvviso dei controlli sui prezzi e sulle valute, il ritiro dei sussidi statali e l'immediata liberalizzazione degli scambi all'interno di un paese, il governo russo scelse una politica simile per la transizione verso un’economia di mercato. Nonostante in Polonia le decisioni prese dal governo funzionarono, in Russia questo non avvenne. Lo stesso primo ministro Gajdar dovette ammettere che il paese versava in una condizione dove la teoria era priva di efficacia. La produzione industriale era quindi in caduta libera, il pil crollò del 17% nel ’91 e l’inflazione era stimata al 250%. A livello finanziario e monetario le cose andavano anche peggio. La banca centrale russa era l’unica delle nuove banche centrali che poteva stampare moneta e generò un rialzo dell’inflazione del 25% mensile, per via di tutti i crediti in rubli emessi dalle banche centrali degli altri paesi dell’ex-Unione. Solo nel 1993 la Russia ottenne la fine dell’emissione di questi crediti, così che il nuovo primo ministro Chernomyrdin riuscì a tenere sotto controllo l’inflazione. Partì poi la politica delle privatizzazioni nel 1992, con l’emissione dei voucher. Tutti questi voucher, essendo commerciabili, finirono in mano a russi molto potenti. Il risultato fu quello di preparare le basi per nuovi centri di potere senza vantaggio per lo stato. La più importante serie di privatizzazioni avvenne tra il 1995 al 1998. Le difficolta finanziarie e fiscali del governo lo portarono a chiedere prestiti alle banche private, i cosiddetti loans for shares, ovvero crediti garantiti dalle azioni che deteneva nel settore petrolifero e in altri rami industriali. Nel caso in cui il governo non avesse ripagato il debito, le azioni potevano essere vendute all’asta e così avvenne. Le stesse banche creditrici però erano le uniche autorizzate a gestire queste aste. Lo stato incassò quindi molto meno del valore reale delle aziende russe messe in vendita, creando gigantesche fortune personali. Fu così che questo meccanismo portò ad una nuova oligarchia di potenti uomini d’affari, ex funzionari del partito, manager di qualche impresa e personaggi legati alla criminalità. L’economia venne quindi privatizzata, ma la Russia era diventata una democrazia senza liberalismo. La ripresa coincise con il passaggio dei poteri da Eltsin a Putin. Putin all’inizio fu beneficiario del nuovo sviluppo economico del paese più che l’origine di esso. Il merito di Putin fu quello di ridefinire gli equilibri tra potere di stato e oligarchia, introducendo un sistema fiscale contro la corruzione. Nel febbraio 2000 mise in chiaro come non avrebbe trattato con gli oligarchi in un modo diverso da qualsiasi altro uomo di affari, grande o piccolo. Promise poi di non interferire con gli affari degli oligarchi, chiedendo in cambio che si tenessero lontani dalla politica e che non sfidassero o criticassero il presidente. Si delineò così una nuova forma di autoritarismo del potere politico di una sola persona. Per quanto riguarda il settore industriale, non fu semplice invertire l’obsolescenza dei macchinari. Fu soprattutto il sistema manifatturiero a soffrire della “malattia olandese”: la concorrenza internazionale rendeva impossibile mantenere delle posizioni competitive, tanto che era meglio ridurre drasticamente l’apparato produttivo e tornare ad essere un importatore di beni. A fronte di queste tendenze si manifesta una sempre crescente presenza dello stato nell’economia, che fa parlare di un nuovo “capitalismo di stato”. La spinta sull’economia e sui consumi migliorò grazie al petrolio e a una nuova serie di privatizzazioni per rilanciare l’economia, senza mai rinunciare al ruolo dello Stato come artefice del progetto di trasformazione strutturale del sistema produttivo. Questa spinta non fu sufficiente. Nonostante la crisi del 2008 non avesse toccato fortemente la Russia, la svalutazione del rublo iniziata nel 2014 pesò molto sul debito estero delle varie imprese, sia pubbliche che private. In questo quadro già difficile si aggiunsero le sanzioni europee ed americane vista la situazione ucraina. Queste sanzioni portarono ad una reazione inaspettata. Da un lato i redditi reali e il pil crollarono, ma dall’altro il 78% delle imprese quotate alla borsa di Mosca ebbero redditi maggiori rispetto alle loro concorrenti estere. Possiamo quindi dire che il gap con gli USA si è seriamente ridotto negli anni, ma la modernizzazione non è ancora completata, così come le privatizzazioni e la creazione di un sistema democratico. Una egemonia instabile (Cap. 20) All'inizio degli anni ‘80 la società americana si confrontava con problemi di grande portata. La fine della convertibilità del dollaro unita all'impennata dei prezzi del petrolio e alla guerra del kippur aveva aperto la via a squilibri difficili da correggere. La stagflazione degli anni ‘70 aveva messo in dubbio la validità delle tradizionali ricette per uscire dalla crisi. Queste incertezze furono la base della svolta del nuovo presidente Ronald Reagan eletto nel 1980. Il nuovo presidente americano impostò come parola d'ordine: “meno stato nell'economia”. Intendeva quindi rilanciare l'economia basandosi su un approccio supply-side: meno tasse per i redditi medio alti/alti e per le imprese per rilanciare consumi e investimenti, riduzione della spesa assistenziale e minore intervento pubblico nel mercato del lavoro. Fu così che le spese per il welfare calarono mentre quelle militari salirono. I tagli al welfare furono però attuati in alcuni comparti e non in tutti, più semplice fu sviluppare una deregolamentazione dell'economia. La diminuzione delle entrate fiscali spinse il deficit federale al di sopra del 5% il che comportò un aumento del debito pubblico. Grazie però anche alla severa politica monetaria della Federal Reserve, che aumentò i tassi di interesse, il dollaro si apprezzò, consentendo all'economia americana di sfruttare al meglio la dinamica al ribasso dei prezzi delle materie prime della prima metà degli anni ‘80. La crescita media del PIL durante il decennio era stata inferiore al 3%, più bassa di quella degli anni ’70, e il crollo di Wall Street dell’87 fece riemergere antiche paure tanto da pensare alla possibile fine del “secolo americano”. Uno dei prodotti che negli anni ‘80 si stavano affermando erano i semiconduttori, elemento centrale nello sviluppo dell'industria elettronica. Fino a quel momento gli Stati Uniti ne avevano di fatto controllato il mercato globale, ma stavano incontrando tuttavia crescenti difficoltà soprattutto nel mercato giapponese. Fu proprio questa vicenda a dare inizio ad una vera e propria guerra commerciale tra Stati Uniti e Giappone. Va ricordato che nel decennio tra il 1962 e il 1972 il tasso di crescita del Giappone era tre volte più rapido di quello delle grandi economie occidentali e di come dal 1965 la bilancia commerciale fosse costantemente in positivo, grazie all'elevato numero di esportazioni. L'amministrazione Reagan trasformò la vicenda in una sorta di battaglia utilizzando tutte le armi a disposizione, tale condotta fu coronata da un successo. La firma degli accordi del Plaza sottoscritti da Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, Francia e Germania permise una svalutazione del dollaro rispetto allo yen, che fino a quel momento era accusato di essere sottovalutato per favorire le esportazioni giapponesi. L'effetto immediato fu quindi una leggera contrazione delle esportazioni giapponesi. La risposta della banca centrale giapponese fu una politica espansiva, che garantì risorse per investimenti che migliorarono la competitività permettendo alle imprese di contrastare il lieve calo delle esportazioni. La solidità dell'economia nipponica permise agli investitori giapponesi di conquistare alcuni simboli storici del made in usa, tanto da pensare che il Giappone sarebbe diventato la prima economia mondiale nel XXI secolo. Tokyo divenne in quegli anni uno dei più dinamici mercati finanziari, scalando molto rapidamente le classifiche internazionali. Contemporaneamente si creò un'enorme bolla immobiliare. Il prezzo dei terreni urbani e residenziali conobbe una vera e propria impennata e l'ottimismo dilagante sembrò contagiare anche le autorità politiche, mentre la banca centrale iniziò a preoccuparsi. Il sistema bancario continuò a pompare denaro soprattutto nel comparto immobiliare, a favore di piccoli e grandi operatori, in grado di offrire a garanzia dei loro debiti solo i terreni posseduti o in via di acquisizione immaginando un rialzo dei prezzi. Le decisioni della Banca del Giappone di rialzare i tassi di interesse non fermarono la bolla immobiliare. La borsa cominciò invece un rapido declino e con un anno di ritardo incominciò a sgonfiarsi anche il mercato immobiliare, facendo entrare in crisi una parte del sistema bancario. Iniziarono una serie di bancarotte all'interno di un sistema che pareva essere tra i più solidi e floridi al mondo. Le conseguenze furono dannose per l'intero sistema economico e a farne le spese furono soprattutto le aziende di piccole e medie dimensioni. Le grandi imprese invece iniziarono a concentrarsi sul loro core business eliminando interi settori attraverso una riduzione dell'occupazione. Cominciò quindi il decennio perduto, durante il quale l'economia giapponese entrò in una profonda stagnazione contraddistinta da un tasso di crescita che oscillava attorno allo 0%. Il governo aumentò le imposte sui consumi con l'obiettivo di avere le risorse a disposizione per una spesa sociale crescente e fu solo nella seconda parte del decennio che l'esecutivo avviò politiche più espansive, ma i risultati di questa politica economica furono largamente inferiori alle attese. Dieci anni dopo l'euforia giapponese, anche la società americana sembrò entrare in una condizione psicologica molto simile. L'apparato industriale americano era entrato negli anni ‘90 con una nuova efficienza e una competitività che non aveva eguali tra i paesi più avanzati e dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica gli Stati Uniti parevano avviati verso un secondo “secolo americano”. Mano a mano che la situazione economica si andava consolidando il deficit federale iniziò a ridursi e anche Wall Street sembrava lanciata in una cavalcata senza fine. Il cosiddetto boom della New economy durò poco, dopo i primi sintomi di disagio del sistema economico all’inizio del 2000, il Dow Jones perse circa 3000 punti nell'agosto del 2001. Il 2001 si rivelò essere un anno cruciale, l'attacco terroristico dell’1 Settembre fu un colpo durissimo sul piano psicologico per gli Stati Uniti che mise anche in secondo piano l'entrata della Cina nel WTO. L'economia cinese era stata profondamente riformata dalle trasformazioni avviate nel 1978. Dall'agricoltura all'industria, al mondo bancario, tutto fu profondamente modificato. Dapprima nel settore primario vennero smantellate le comuni agricole e liberalizzati parzialmente i prezzi dei prodotti agricoli. Subito dopo vennero portate alla luce quattro banche statali. Nel 1979 vennero approvate le norme per attirare gli investimenti esteri nelle zone economiche speciali e la norma del figlio unico. Solo un anno dopo la Cina entrò a far parte della Banca Mondiale. Venne annunciato così nel 1992 l’obiettivo di istituire una “Economia socialista di mercato”. A sperimentare per primo il nuovo assetto furono le aziende di Stato. Nel 1993 venne avviata una radicale politica di ristrutturazione che ridusse l'occupazione di queste imprese, mentre si pose mano la legislazione sulle aziende introducendo diverse forme di proprietà. Nel 1997 il Congresso del partito comunista stabilì che la presenza pubblica doveva essere mantenuta unicamente in alcuni settori strategici. Nel 2014 si pensò addirittura che la Cina sarebbe diventata la prima economia mondiale entro l'anno. Da un lato era ormai chiaro come fosse diventata l'officina del mondo visto il suo livello di esportazione di merci all'estero, allo stesso tempo si mettevano in evidenza l'eccesso di investimenti in capitale fisso rispetto ai consumi, l'abbondanza di un investimento immobiliare, un debito pubblico ben superiore a quello effettivamente dichiarato e un'occupazione reale superiore alle cifre ufficiali. Quando il tasso di crescita dell'economia cinese iniziò a scendere sotto 8% nei paesi avanzati aumentarono le preoccupazioni, e si cercò anche di evidenziare una raggiunta normalità della Cina. Nel corso della sessione annuale del Congresso nazionale del popolo del 2015, il premier Li ammise che i problemi profondi dell'economia del paese stavano diventando sempre più evidenti. Le misure di risposta a questi problemi furono la convertibilità della moneta nazionale, tradotta in una svalutazione della moneta, che portarono la borsa di Shanghai a precipitare. Il governo in un primo tempo preferì lasciare agire le forze di mercato, ma in un secondo momento dovette effettuare un robusto intervento a sostegno dei titoli, acquistando azioni per 200 miliardi di dollari. L’Europa alla ricerca di una identità (Cap. 21) Le economie dell’Europa occidentale non si erano mai completamente riprese dalla crisi della metà degli anni 70. I primi effetti derivanti dalla prospettiva di una riunificazione tedesca furono ricompattamento dei principali paesi dell’Europa occidentale, Francia, Gran Bretagna e Italia, tutti convinti che la stabilità in Europa fosse garantita dalla presenza di due Germanie e non da una sola. Visti però tutti gli sforzi finanziari che aspettavano la Germania per un processo di riunificazione vi fu un riorientamento completo delle scelte dei principali partner europei rispetto al processo di costruzione dell'unione economica e monetaria. L'idea di una qualche forma di Unione europea non era del tutto nuova, ma nuovo era il contesto dopo la Seconda guerra mondiale, con motivazioni ideali: assicurare all'Europa pace e prosperità. I precedenti furono: - Le unioni doganali e le aree monetarie ottocentesche. - Il patto internazionale sull'acciaio nel 1926. - Lo spettro del nuovo ordine europeo del Terzo Reich. Fu così che nel 1948 si iniziò a intravedere una qualche forma di Unione europea con l'unione doganale tra Belgio Olanda e Lussemburgo (Benelux). Successivamente, nel 1949 nacque a Strasburgo il Consiglio d'Europa con la partecipazione di Inghilterra, Irlanda, Francia, Italia, Benelux, Svezia, Danimarca e Norvegia. Esso consisteva in un organismo senza un preciso status legale, legislativo o esecutivo ma fu significativo di un’intenzionalità di cooperazione tra i vari paesi. Nel 1950 venne firmata poi una Convenzione europea per i diritti umani e da quel momento il Consiglio d'Europa iniziò ad occuparsi prevalentemente di organizzazione di difesa di questi diritti. L'aspirazione a un'unità europea si scontrò contro lo scoglio tedesco e il timore dei paesi confinanti rispetto alla Germania. Nonostante ciò, prevalse la consapevolezza che senza un coinvolgimento della Germania la ripresa economica europea sarebbe stata difficile e le evoluzioni internazionali, insieme alla guerra fredda, accelerarono i processi di integrazione economica. Come abbiamo già visto, per coordinare gli aiuti del piano Marshall si creò l'Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica Europea (OECE). Fu nel 1950 che il ministro degli Esteri francese Schumann prese l'iniziativa di annunciare un progetto aperto alla partecipazione di altri paesi per porre l'intera produzione Franco-Tedesca di carbone e acciaio sotto la direzione di un'Alta Autorità indipendente dai singoli stati, fu una proposta subito accolta dal governo tedesco. Nacque quindi nel 1951 la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) a cui aderirono Francia, Germania, Italia e Benelux. Essa fu guidata da un’Alta Autorità sovranazionale con il compito di regolare la produzione, i prezzi e gli scambi di questa materia prima. Va sottolineato come i rappresentanti dei tre paesi più importanti, Francia, Germania e l'Italia avessero tutti un passato cristiano democratico e di confine. Questo portò alla necessità di stabilire una comunità europea sopra agli interessi nazionali, di cui erano quasi “spaventati” e di allontanare i paesi nordici. La Francia decise di proporre questo accordo perché pensava di poter raggiungere pacificamente quello che non era riuscito a raggiungere con le armi ovvero una sorta di controllo sull'industria tedesca. La Germania accettò perché finalmente fu chiamata a firmare un trattato da pari a pari. L'Italia accettò per i vantaggi di far parte di un mercato senza dazi per accedere ad una materia prima difficile da reperire. L'Inghilterra rifiutò perché non aveva bisogno di carbone o di acciaio e non aveva intenzione di delegare la propria sovranità ad un ente superiore. Si continuò il processo di integrazione europea con il tentativo di dare vita ad una difesa comune europea, cercando di trattare la spinosa questione del riarmo tedesco e la divisione tra Stati Uniti, favorevoli e Francia, non favorevole. Nel 1952 viene firmato il trattato istitutivo della CED, che prevedeva la creazione di una forza di difesa europea. Il trattato deve essere ratificato dai parlamenti nazionali, ma non venne approvato dall'Assemblea Nazionale Francese. Creare una forza di difesa europea avrebbe unito anche le politiche estere, proprio un punto debole dell'Unione Europea odierna. Nel 1954 vennero comunque firmati i London agreements che definirono la posizione della Germania, autorizzata ad avere un esercito non superiore alle 500.000 unità e inserita all’interno della NATO ponendo fine alla presenza di forze di occupazione nel paese. Il rifiuto degli accordi per la difesa comune europea segnò una battuta d'arresto per l'integrazione politico militare fra i paesi europei. Si ripiegò quindi su un progetto di Unione doganale, ratificando a Messina nel 1957 la definizione di una tariffa esterna comune e la graduale abolizione di tutti i dazi interni ai sei paesi, all’interno di quello che diventerà il Mercato Europeo Comune. Con la firma del trattato di Roma del 1957 venne deciso di creare un'area economica in cui i beni prodotti potessero essere commercializzati liberamente, la Comunità Economica Europea (CEE). L'unione doganale presupponeva l'adozione di misure atte a favorire la crescita delle economie nazionali e la competitività dell'industria europea. Per farlo era necessario l'azzeramento dei dazi doganali e l'adozione di una tariffa doganale comune applicabile a livello europeo. Il programma di abbattimento dei dazi doganali delle tasse e delle restrizioni quantitative si svolse regolarmente e fu realizzato nel 1968. Nel 1967 vengono poi unite insieme la CECA, la CEE e l’EURATOM e viene istituita la Corte di giustizia dell'Aia. La CEE inizio a consolidarsi tramite un compromesso fra politica e interessi che funzionò: - il commercio dei sei paesi membri aumentò. - preso forma una politica di sostegno ai prezzi ed i sussidi al settore agricolo, la pac, che nel 1970 assorbi il 70% del bilancio comunitario. - dopo il fallito tentativo inglese di creare una più vasta area di libero scambio vi fu la richiesta della Gran Bretagna di aderire alla CEE che avvenne nel 1973. Con la fine del sistema di Bretton Woods le oscillazioni del valore delle monete esasperarono la relazione fra i paesi dell'unione. Venne quindi inizialmente fissato un margine di oscillazione delle menti europee nei confronti del dollaro e dopo un breve allentamento nel 1979 nacque il cosiddetto sistema monetario europeo e l’ECU. Nel 1986 per iniziativa Franco-Tedesca si registrò un'accelerazione dell'integrazione economica con la firma dell'Atto Unico Europeo che stabilì: - La libera circolazione entro l'Unione di merci servizi e uomini. - La liberalizzazione dei movimenti di capitali. - La liberalizzazione dei vecchi monopoli naturali e le norme sulla concorrenza. - Un progressivo avvicinamento delle regole che sovrintendono all'esercizio delle professioni, alla tutela dell'ambiente e della salute. Successivamente nel 1989 venne approvato il rapporto Delors che definì il percorso per arrivare ad un'Unione economica e monetaria e alla moneta unica. Si fronteggiarono posizioni diverse, da un lato la banca tedesca ritenne prioritaria una politica di rigore e di lotta all'inflazione, dall'altra si ritenne questa impostazione troppo vincolante e inaccettabile. Fu così che nel 1992 venne firmato il trattato di Maastricht che fissò le tappe di attuazione dell'iter per arrivare alla moneta unica entro il 1999. Venne deciso che potranno aderire alla moneta unica solo i paesi che presenteranno un quadro di stabilità macroeconomica a garanzia dei quali venero fissati alcuni parametri: - Tasso di inflazione non superiore all' 1,5% in più dei tre paesi più virtuosi. - Deficit di bilancio non superiore al 3%. - Tasso di cambio stabile e permanenza nel sistema monetario europeo per almeno due anni. - Debito pubblico non superiore al 60% del PIL o in netta diminuzione continua. - Tassi di interesse stabili. A pochi mesi dalla firma del trattato una crisi economica e finanziaria costringe diversi paesi a svalutare la propria moneta e uscire dal sistema monetario europeo. Il trattato andava comunque ratificato dai parlamenti nazionali ma Francia e Danimarca ha deciso di sottoporlo un referendum. In particolare, in Danimarca il trattato venne bocciato, rallentando la marcia di avvicinamento all'Euro e mostrando come questa volontà di unificazione fosse lontana dalla popolazione. Si decise quindi di interpretare i vincoli con una certa larghezza per arrivare alla moneta unica nei tempi previsti. Nel maggio del 1998 il Consiglio Europeo stabilì che 11 paesi avevano i requisiti per entrare nell'Unione europea monetaria, non entrarono a far parte Grecia, Svezia, Danimarca e Regno unito. Gli aspetti fiscali dell'Unione monetaria furono sottovalutati e ciò minò fin dall'inizio un'autentica stabilità del sistema. Le due debolezze strutturali, assenza di politiche fiscali comuni ed eccesso di prestiti interbancari internazionali, non erano unicamente europee, ma era non particolarmente pericoloso in assenza di un adeguamento delle regole e del tessuto istituzionale su cui si basava l'unione europea. La crisi del 2008 giunse in Europa senza la consapevolezza delle sue dimensioni e inizialmente si pensò che la soluzione spettasse agli americani. Allo stesso tempo, la nascita di un’unica area valutaria fece aumentare l’euforia nei paesi della “periferia” europea. I tassi di interesse Spagnoli e Greci erano superiori a quelli tedeschi, il che aumentò il loro debito. Fu così che tra il 2009 e il 2010 la Grecia mostra i primi segnali di incapacità di saldare i debiti. Nel 2009 era anche aumentato il numero di europei che dubitavano dell’Europa facendo subentrare una spaccatura tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri. La crisi aveva dapprima colpito i paesi come Irlanda, Spagna e Grecia, seguiti da Portogallo e Italia. Quest'ultima sembrò avere rischi sistematici più contenuti, ma la fragilità del sistema politico e la gestione da parte del Presidente Berlusconi rappresentò un elemento di grande sfiducia che metteva in serio pericolo la credibilità del paese. In tutti questi paesi i governi conobbero grandi difficoltà, soprattutto l'Italia che rifiutò l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale e generò una crisi di governo che portò alla nomina di Mario Monti come Presidente del Consiglio. Rimase a lungo dominante la tesi secondo cui l'uscita dalla crisi era possibile senza cadere nella deflazione attraverso severe misure di contenimento della spesa pubblica, il fiscal compact. I numeri però mostravano una realtà diversa che solo una tardiva politica di quantitative easing, aumentando la moneta a debito in circolazione, da parte della BCE ha consentito di cambiare passo.