INTERMEDIARI FINANZIARI – 2° PARZIALE CAPITOLO 22 – MERCATO AZIONARIO Azione = titolo rappresentativo della partecipazione al capitale di una società, è rappresentativa di un contratto di partecipazione. Ne esistono due tipologie: le azioni “normali”, chiamate “ordinarie”, il cui titolare gode di tutti i diritti sia di tipo amministrativo che di tipo economico-patrimoniale previsti dal nostro ordinamento in capo ai soci di una spa, sec, in accomandita, e cooperativa, e le azioni “privilegiate”, cioè appartenenti a speciali categorie. I diritti delle azioni I più importanti diritti di tipo amministrativo sono: - diritto di voto = chi è socio una volta all’anno approva il bilancio di esercizio e sindaci e amministratori - diritti di impugnativa = delle deliberazioni prese dagli organi sociali se non conformi alle leggi o allo statuto della società - diritto di accesso ai libri sociali = ma esercitabile solo se si è soci a una partecipazione sufficientemente alta o se si è abbastanza numerosi da soddisfare la quota minima partecipativa per far valere questo diritto. Il più importante rimane il primo diritto. I principali diritti economico-patrimoniali invece sono: - percepire un dividendo = le spa, le principali emittenti di azioni, remunerano i propri partecipanti (1 volta all’anno in Italia, 4 in Usa), se l’assemblea è d’accordo, attraverso una cedola di dividendi, rappresentativa nelle società del diritto italiano di una quota parte dell’utile dell’anno precedente, che si decide di non reinvestire ma di dare ai soci come remunerazione. Serve ovviamente un utile netto positivo a chiusura di bilancio, benché sia possibile pagare dividendi sugli utili reinvestiti degli anni precedenti, cioè attraverso gli utili che non sono stati redistribuiti ma reinvestiti in precedenza. L’importo dei dividendi che ogni socio incassa dipende dalla quota di possesso, cioè di partecipazione che ha sul capitale sociale, tanto più grande quante più sono le azioni possedute. Il dividendo è quindi un reddito residuale, perché lo si percepisce, dedotti tutti i costi operativi aziendali e pagate le imposte allo Stato, se residua qualcosa. Non c’è nessuna certezza di percepirlo, perché innanzitutto ci deve essere il capitale e poi la volontà di distribuirlo. Normalmente a inizio vita dell’impresa ad esempio si decide di reinvestire gli utili fatti, essendo la forma di finanziamento degli investimenti più ovvia. Quindi, rispetto a un creditore, un socio è meno garantito dal punto di vista della remunerazione perché a differenza sua non ha la certezza di averne una periodica. Il primo prende degli interessi che per quanto piccoli sono certi e periodici. Svantaggio: non c’è un reddito minimo sicuro; Vantaggio: essendo la remunerazione residuale, se le cose vanno bene si può beneficiare di un dividendo anche molto elevato. - quota di liquidazione = nel momento in cui una società chiude (non perché è fallita se no non lo avrei, essendo il patrimonio netto azzeratosi), tutte le sue attività vengono liquidate, cioè vendute sui rispettivi mkt dell’usato, e con i proventi si rimborsano i creditori, cioè si pagano i debiti. Quanto resta viene spartito fra i soci in proporzione al numero di azioni possedute. È un diritto molto meno importante rispetto al primo, essendo il dividendo un evento piuttosto comune a differenza della liquidazione di un’azienda. Vi sono poi diritti di natura mista, perché hanno sia un contenuto di tipo amministrativo, sia uno di tipo economico e patrimoniale. Fra questi c’è il diritto di opzione, che spetta ogni volta che una spa, accomandita o cooperazione decide di aumentare a pagamento il proprio capitale sociale. Quando una società viene costituita ha un proprio capitale sociale composto dalle contribuzioni dei soci, poi rimpolpato dagli utili effettuati. Dopo qualche anno potrebbe presentarsi la necessità di chiedere ai vecchi soci di tornare a contribuire al capitale sociale dell’azienda. Essi vengono chiamati a sottoscrivere delle nuove azioni da emettere, ovviamente non al prezzo di partenza, visto che si è partiti con un piccolo capitale poi accresciutosi, ma al valore corrente delle azioni, che riflette sia il valore di partenza sia tutti gli anni positivi di utili fatti da parte della società. Questo diritto impone che i primi soggetti a cui si chiedono soldi debbano essere i padroni correnti, cioè i vecchi soci, che hanno un diritto di prelazione su queste nuove azioni (la società deve rivolgersi innanzitutto a loro). Possono decidere di rinunciare a questo diritto rinunciando a sottoscriverle tutte, a quel punto possono essere offerte a soci esterni, cioè soggetti non ancora soci della società ma che sarebbero interessati a diventarlo sottoscrivendo le azioni inoptate da parte dei vecchi soci. Le nuove azioni vengono offerte a un prezzo che riflette non solo la condizione della società in regolare funzionamento, quindi a un valore superiore rispetto a quello nominale (cioè iniziale) delle azioni, ma anche il fatto che nel patrimonio netto della società non c’è solo il capitale sociale ma anche riserve di utili reinvestiti da considerare nel computo della ricchezza complessiva della società. Cioè il prezzo riflette gli anni di buona gestione. Allo stesso tempo però, per invogliare a comprare, spesso si fanno degli sconti, anche significativi. Se però queste azioni non venissero offerte in prelazione ai vecchi soci, essi soffrirebbero una perdita: se l’operazione si concludesse infatti, si avrebbero sul mkt due tipi di azioni, quelle vecchie con un certo valore e quelle nuove che invece sono state offerte con uno sconto rispetto al valore delle altre, significa che chi le ha comprate le ha comprate a meno del valore intrinseco. Da qui la necessità di garantire al vecchio socio il diritto di opzione. Il diritto di opzione ha una durata di poche settimane, dopo le quali il socio ha la possibilità di venderle sul mkt ad altri soggetti che vogliono partecipare all’operazione: questo gli consente di recuperare integralmente la perdita delle azioni vecchie che mantiene in portafoglio. Per questo motivo, cioè perché si può vendere, si ritiene un diritto sia di natura amministrativa sia di natura economica. In tal modo è utilizzabile per attutire, se non coprire completamente, la perdita sicura del valore sul mkt del proprio pacchetto azionario a fronte di una nuova emissione a sconto ad un prezzo che non riflette il valore corrente delle azioni. Azioni ordinarie e privilegiate Le azioni che hanno il set completo di diritti sono le azioni ordinarie, cioè normali, full optional. L’azionista ordinario è titolare di tutti i diritti amministrativi, patrimoniali, misti, al 100% delle loro potenzialità (ad esempio il diritto di voto si esercita sia nell’assemblea ordinaria che in quella straordinaria, il dividendo si percepisce nella misura deliberata dai soci). Ci sono poi categorie di azioni chiamate privilegiate, che non sono full optional. Nel nostro ordinamento le azioni privilegiate o “preferenze share”, di matrice anglosassone, non esistono più da alcuni anni. Le società possono emettere azioni ordinarie e poi introdurre nel loro statuto delle altre tipologie di titoli azionari, chiamate azioni appartenenti a speciali categorie, dove la categoria è scelta dall’emittente. Si può lavorare su due fronti: a) compressione o espansione del diritto di voto Un’azione privilegiata americana è del tutto priva del diritto di voto. Nel nostro ordinamento essa viene chiamata azione di risparmio. Sono state introdotte in Italia nel 1974 e prevedevano che a fronte della privazione totale dei diritti di voto l’azionista ricevesse un premio di natura economico patrimoniale: un dividendo privilegiato e inoltre anche superiore, di una certa percentuale fissata dallo statuto, a quello pagato agli azionisti ordinari. Le vecchie azioni privilegiate italiane prevedevano un diritto di voto condizionato alla specifica assemblea straordinaria: quei soci votavano solo nel caso in cui fosse stata convocata quest’ultima. Quindi possiamo avere azioni che non presentano diritto di voto, azioni per cui si vota solo se si verifica un certo evento, ma anche azioni che consentono il voto solo per determinati argomenti. Sono predominanti le azioni ordinarie, pochissime società usano le privilegiate, perché o erano già in circolazione (le vecchie azioni di risparmio), oppure erano in circolo e sono state ritirate dal mercato. Tuttavia, non avendo avuto successo la riforma del 2004, nel 2014 il legislatore italiano è nuovamente intervenuto nell’ambito del diritto al voto. Nel nostro ordinamento, rispetto ad altri, è sempre prevalso il principio che ogni azione comandasse un solo diritto di voto (se ho 1000 azioni ho 1000 diritti di voto). Con questa riforma venne garantita la possibilità, limitata alle società quotate, di introdurre nei loro vecchi statuti, senza dare la possibilità ai soci di dissentire, il diritto all’assegnazione di due diritti di voto agli azionisti che avessero avuto, ad esempio negli ultimi 2 anni, delle azioni continuativamente in loro possesso. È una sorta di premio fedeltà: si premiano i soci stabili, inoltre gli si dà la possibilità di fare operazioni di aumento di capitale futuro senza correre il rischio di essere messi in minoranza. Infatti, in tal modo, le azioni vecchie contano doppio rispetto a quelle nuove quindi il socio vecchio, pur assistendo all’emissione di nuove azioni da parte della società, non perde il suo potere. Alle società non quotate invece, che non fanno ricorso al risparmio privato, il legislatore dà la possibilità di emettere azioni con voto plurimo, che arrivano ad avere anche 3 diritti di voto. Non sono però società quotate in Borsa, non hanno azionisti diffusi, ma possono emettere super-azioni come le suddette. Il problema si pone nel momento in cui una società non quotata che ha emesso azioni con voto plurimo decide di quotarsi in borsa, aprendo il capitale al pubblico indistinto. Queste super-azioni che le società quotate non possono emettere (possono prevedere solo il premio fedeltà) si è stabilito non vengano cancellate, ma la società in questione dovrà così procedere: dovrà emettere azioni ordinarie per effettuare aumenti di capitale, e potrà anche, in deroga al principio generale, emettere azioni con voto plurimo, che però per forza verranno offerte solo a chi già le aveva comprate in passato. b) compressione o espansione dei diritti economico-patrimoniali Si può prevedere un potenziamento o un depotenziamento di questa categoria di diritti, oppure si possono prevedere speciali categorie di azioni chiamate “azioni correlate” o “tracking shares”, normali dal punto di vista del diritto di voto ma che dal punto di vista della remunerazione hanno un dividendo correlato a uno specifico ramo economico di attività svolto dalla società. Es. impresa che fa elettrodomestici che emette azioni correlate al solo andamento della divisione che fanno i frigoriferi: è chiaro che gli utili dipenderanno da quanti prodotti verranno venduti, ma si può stabilire un contributo specifico, in questo caso dei frigoriferi, e quindi costruire la remunerazione di conseguenza. All’estero sono abbastanza diffuse, meno in Italia. IL MERCATO PRIMARIO E SECONDARIO Tradizionalmente, si distinguono i mercati organizzati (multilaterali) e i mercati OTC (Over The Counter). Con lo sviluppo degli scambi elettronici, si sta facendo sempre meno netta la distinzione fra questi due mercati. I soggetti che si occupano del mercato primario di azioni e obbligazioni sono le banche di investimento, che costruiscono dei consorzi che garantiscono l’integrale collocamento dei titoli di nuova emissione. Le emissioni di nuove azioni avvengono in due circostanze, che sono: - la quotazione in borsa, dove l’aumento di capitale serve per creare l’azionariato diffuso che prima generalmente non c’era (prima la società era privata con pochi padroni, che ora diluiscono la loro quota di partecipazione accogliendo nella compagine sociale nuovi azionisti che portano dei soldi). Non si fanno molte nuove quotazioni nel nostro Paese, normalmente si fanno quando la Borsa è in buone condizioni, ma avvengono soprattutto non sul mkt principale (Mercato Telematico Azionario), bensì in un mkt non regolamentato, cioè che non è una borsa valori, un MTF, riservato alle azioni di società di piccole e medie dimensioni, chiamato AIM (Alternative Investment Market). Sono sempre azioni ordinarie, ciò che è alternativo è che l’emittente è normalmente una società poco conosciuta e di limitate dimensioni. - aumenti di capitale in società già quotate, o che se non lo sono presentavano già un azionariato diffuso, a cui chiedono altro capitale. Si chiamano operazioni di season and equity offering. Anche queste non sono molto frequenti da noi e si concentrano quando i prezzi sono alti, cioè quando la Borsa è forte perché chi le emette vuole venderle al prezzo più alto possibile. Poiché però vecchi e nuovi soci sanno il vero valore delle azioni di nuova emissione, guardano con sospetto queste operazioni, pensando che se proprio ora si chiedono soldi in più è probabile che le azioni siano a quel momento sopravvalutate, se no non sarebbe conveniente emetterle per la società. Pertanto ogni volta che una società quotata annuncia una operazione di questo tipo, gli operatori reagiscono negativamente vendendo le azioni vecchie già in circolazione, perché si dà per scontato che le azioni saranno vendute a un prezzo sopravvalutato, quindi automaticamente lo faranno scendere. Perciò il mkt primario è discontinuo e si concentra in momenti di particolare esuberanza delle quotazioni sul mkt azionario. Proprio per questo è molto più importante il mercato secondario, in cui le vecchie azioni vengono scambiate senza il coinvolgimento dell’emittente, dal momento che le ha già emesse. L’unico modo per acquistare azioni, essendo il primario irregolare, è rivolgersi a quello secondario. Ci sono varie sedi di negoziazione, la più importante è quella del mercato organizzato, regolamentato. Nell’ordinamento europeo esistono due tipi di negoziazione in questo ambito: 1. Mercati multilaterali. Da un lato le Borse Valori, la versione più regolamentata in assoluto, mercato nel quale chi vuole che siano iscritti nel listino della Borsa i propri strumenti finanziari (emittente) deve fare una richiesta alla società che gestisce la Borsa. Quindi l’emittente è parte attiva, dovendo fare richiesta. La società d’altra parte richiede che vengano soddisfatti una serie di requisiti oggettivi e soggettivi (in parte vagliati dalla CONSOB, in parte dal gestore degli scambi). Abbiamo poi l’MTF, mercato organizzato di serie B, dove l’emittente non è coinvolto: non fa richiesta affinché le sue azioni ordinarie siano negoziate in quella sede, ma l’iniziativa la prendono i gestori del mercato oppure gli investitori, sono loro a fare richiesta. Ciò che fa la differenza fra la Borsa e l’MTF e tutti gli altri è il fatto che qui l’emittente non è parte attiva, non si differenziano in quanto a regole di scambio. Perché ci sia qualcuno che impone il mkt pubblico a questo emittente bisogna che sia importante. Sull’MTF ci sono strumenti di società non quotate ma che hanno una proprietà diffusa fra il pubblico, oppure delle azioni e obbligazioni già quotate in un mkt ufficiale e che hanno anche questa seconda sede di negoziazione dove si possono scambiare questi strumenti. Gli MTF sono concorrenti importanti ma si dividono una quota del lavoro minoritaria rispetto a quella destinata al mkt principale. Nella revisione delle direttive comunitarie in merito a mkt e strumenti finanziari (MiFID II e MiFIR) si è introdotta una terza specie di mkt multilaterale, con una regolamentazione ancora più leggera sebbene piuttosto importante. Esso è stato chiamato OTF (Organized Trading Facility), un mkt multilaterale ma organizzato in maniera più informale. Ad esempio l’MTF è elettronico, mentre gli OTF possono avere anche negoziazione fisica, e non trattano strumenti di capitale, cioè non trattano le azioni, che quindi possono stare o nel mkt regolamentato o nell’MTF. Qui tanti operatori si incontrano per trovare il prezzo del momento per ogni strumento scambiato in quella sede. 2. Mercati bilaterali. L’alternativa sono i mercati OTC, chiamati Internalizzazione Sistematica di Ordini, dove negozio non con chi non conosco che trovo tramite algoritmi, ma scegliendo una controparte, perché vado da un intermediario finanziario che svolge la funzione di market maker, che afferma di trattare azioni quotate di determinate società proponendo dei prezzi (prezzo denaro = a cui acquista, prezzo lettera = a cui vende, quest’ultimo sempre maggiore del primo se no il dealer non fa profitti). È un mkt di sportello, bilaterale, perché ad esempio mi rivolgo alla mia banca. Per il piccolo investitore, ogni strumento, soprattutto se già diffuso o quotato, può quindi essere comprato o venduto in molte sedi di negoziazione e da molti intermediari finanziari, pertanto diventa complesso prendere una decisione. Se le società sono quotate, si va nel mkt di prima quotazione. Tuttavia, poiché il piccolo investitore non ha possibilità anche in termini di tempo di farsi una buona informazione, il legislatore ha previsto che l’intermediario a cui ci si rivolge si impegni obbligatoriamente a trovare il migliore prezzo: per legge deve garantire la best execution dell’ordine, cioè dimostrare che, limitatamente alle sedi di negoziazione raggiunte, si è impegnato a individuare il prezzo migliore possibile in questo contesto. La banca quindi per ogni azione deve definire una politica di esecuzione dell’ordine, cioè l’intermediario deve contrattualmente chiarire, prima ancora di ricevere l’ordine, qual è la sua policy (ad esempio decidere dove comprare le azioni), in modo che il cliente sappia quali siano le sedi nelle quali il suo ordine potrebbe essere proposto per un’eventuale esecuzione. Per alcune azioni il mkt più liquido non è quello di prima quotazione, i mkt principali, quelli di borsa, comunque, guidano lo sviluppo tecnologico e gli altri seguono. Il mercato principale italiano E’ fatto da tante sedi di regolazione gestite da un unico padrone, che è Borsa Italiana S.P.A. Ci sono mercati azionari, ma anche obbligazionari, e hanno cambiato nome essendo cambiato il padrone. Infatti, la Borsa Italiana era stata comprata dalla Borsa di Londra, ma con la Brexit essa ha dovuto disfarsi di alcune proprietà, fra cui quella italiana, che è stata poi acquisita da un altro grande gruppo che gestisce molte borse europee, chiamato Euronext. Non esiste in realtà quindi una borsa europea, ma molti mkt azionari di altri paesi sono gestiti da un unico proprietario. Un tempo era proprietario anche della Borsa di NY, ma poi qualcun altro ha comprato tutto. Oggi quindi siamo di proprietà di una grande società di gestione di mkt regolamentati europea, che ha delle filiali italiane: questa è la Borsa italiana S.p.a, non più indipendente. Con l’arrivo di questo nuovo padrone sono stati modificati diversi nomi: - EXM = è un mercato telematico, diviso in segmenti, quelli attualmente esistenti si riducono a uno soltanto, che si può chiamare ordinario, e un secondo segmento, che alla fine è l’unico esistente, chiamato “STAR”, che sta per “segmento titoli ad alti requisiti”. Questa sezione del listino delle azioni quotate in Italia è riservata a poco più di una settantina di PMI, che hanno bisogno di una propria vetrina all’interno del listino della Borsa italiana. Per rendersi più appetibili queste società piccole decidono di mettersi in mostra, assoggettandosi al rispetto di requisiti molto più ristretti rispetto a quelli ordinariamente imposti a qualsiasi società che si quota. Ad esempio, comunicano molto di più con il mkt, vedi bilancio bilingue e comunicazioni non annuali ma trimestrali sull’andamento della gestione, in più danno molto spazio agli azionisti di minoranza. Inoltre, essendo piccole e quindi facendo meno scambi di titoli azionari rispetto alle altre, potrebbero avere nell’arco della giornata vuoti di scambi, allora arruolano un intermediario che si chiama specialista, un dealer al servizio della società emittente che vigila tutto il giorno sugli scambi della società star e interviene se si accorge che mancano compratori o venditori, inserendo propri ordini di acquisto e vendita nei casi. - MIV = mercato dedicato agli strumenti emessi dai veicoli di investimento, cioè società che hanno come scopo quello di investire in altre società. Importanti sono anche i mkt di serie B, gli MTF, gestiti sempre dallo stesso padrone. Sono tre: - Borsa Italiana Equity MTF = non è un mercato ufficiale, regolamentato, e ha due segmenti, GEM e After Hours. Qui vengono scambiate azioni di società già quotate: nel primo segmento, sono azioni di società quotate in altri paesi del mondo, cioè società estere. Il motivo per cui è stato introdotto questo segmento è che risponde alla necessità degli investitori di diversificare a livello internazionale i loro investimenti senza sopportare il costo più alto di comprare quegli strumenti nei loro mercati di originaria quotazione, perché possono comprarli direttamente al mercato di Milano ad esempio. Il secondo segmento invece si occupa di negoziazioni a mkt ufficiale chiuso: quando la borsa ufficiale al pomeriggio chiude, dopo poco apre questo mercato “serale”, dove non ci sono tutte le azioni italiane, ma le più importanti negoziate nel mkt italiano. Non saranno mai operazioni importanti perché il grosso degli scambi avviene durante la giornata, ma operazioni di aggiustamento a prezzi ragionevoli. Prima queste operazioni erano appannaggio di grandi investitori istituzionali, non erano accessibili a tutti. Invece ora questa sessione serale è aperta anche a piccoli investitori - EGM = qui ci stanno le pmi del nostro Paese ed è il mkt con più quotazione degli ultimi anni. Sono ammesse a negoziazione in questo mkt società di piccole dimensioni non in grado di soddisfare i requisiti posti dalla borsa italiana per accedere alla quotazione del mkt ufficiale. Essi non sono molto stringenti, ma sono difficili da raggiungere per le pmi (ad esempio in termini di capitalizzazione). Da qui la necessità di introdurre mercati di secondo e terzo livello, rivolti a imprese non in grado di quotarsi in borsa ma comunque desiderose di aprire il proprio capitale a soci di minoranza. È un mercato aperto a tutti - EuroTLX Equity = è un MTF grande con vari segmenti, uno dei quali di tipo azionario. In quest’ultimo si scambiano per lo più titoli azionari di società estere; ha un listino più lungo dell’altro mkt perché Borsa italiana equity ha le principali azioni quotate di paesi industrializzati, mentre qui si trovano azioni di società non di primo piano del paese di riferimento. La Borsa Italiana fa poi anche altre cose: ha un elenco di sedi di negoziazione per le obbligazioni, un mkt per le quote di fondi comuni di investimento e un grande mercato di strumenti derivati. Non c’è nessuno strumento nel suo mkt secondario che sfugga al controllo di questa società, quindi è una sorta di monopolista, perché qualunque cosa si negozi la sede di riferimento più importante è direttamente sotto il suo controllo e indirettamente sotto a quello del gruppo estero a cui appartiene. La Borsa Italiana è sempre stata una delle più efficienti, cioè i cui costi di transazione sono sempre stati fra i più bassi. Perciò, malgrado il monopolio, non c’è mai stato abuso di potere dominante. Gli indici del mercato principale Nel mkt principale ci sono circa 230 società quotate, e il valore del listino che si calcola moltiplicando il prezzo di ogni azione quotata per il numero di azioni in circolazione varia di anno in anno, quando i prezzi scendono scende anch’esso. Attualmente siamo intorno ai 700 miliardi di euro, normalmente la capitalizzazione viene rapportata a una variabile di scala, ad esempio il PIL italiano. Da qui ci si rende conto che è di dimensioni limitate. Guardando non tanto ai segmenti delle società, ma agli indici di borsa più importanti, abbiamo: - l’indice FTSE Mib. Esso raggruppa le prime 40 società per capitalizzazione delle 230 complessive del nostro listino azionario. Sono poche, ma sono le più importanti. Esse vanno a coprire un’ampia maggioranza degli scambi che avvengono quotidianamente (circa l’80%). Significa che gli scambi sono concentrati sulle azioni più importanti - l’indice FTSE Italia Star. Vi sono 76 società, quelle piccole medie e imprese che si vogliono distinguere dalla massa, che hanno il loro indice di investimento. - l’indice FTSE Italia all share. Un indice globale, che considera cioè l’andamento dei prezzi di tutte le società quotate, e ce ne sono alcune che non ne fanno parte perché sono talmente illiquide, cioè scambiate in modo talmente irregolare, da essere rimosse dall’indice. Questi sono gli indici più importanti comunicati dagli investitori. Sono indici che prendono i prezzi di ciascuna società, poi ponderati in funzione dell’importanza, cioè della capitalizzazione di borsa, di ognuna. Perciò le società più grandi, le prime 40, hanno un prezzo che pesa di più sull’indice complessivo rispetto alle altre. Si tiene conto non solo della grandezza della società ma anche della scambiabilità delle azioni. La maggior parte degli indici è oggi calcolata in questo modo ma non il Down Jones, l’indice della NY Stock exchange. È anch’esso un indice parziale ma è un indice di prezzo puro, cioè i prezzi delle azioni componenti l’indice non vengono ponderati in proporzione alla dimensione della società emittente, ma alla dimensione del prezzo. È una media semplice dei prezzi, non ponderata. È un indice quindi molto meno corretto, tuttavia è stato il primo indice di borsa calcolato nella storia, risalente all’800. LE NEGOZIAZIONI NELLA BORSA ITALIANA Tutti i mercati multilaterali in Europa hanno una struttura molto simile: presentano un sistema di negoziazione “misto”, cioè due modalità di abbinamento degli ordini. a) asta a chiamata = è il meccanismo con cui avvengono gli scambi di apertura e chiusura di giornata (quindi 9 del mattino e 17.25 di pomeriggio). Prevede che gli scambi avvengano a un unico istante e a un unico prezzo che massimizzi quantità scambiate. Gli intermediari autorizzati a partecipare agli scambi, in questi due momenti si ritrovano virtualmente nel mkt di Borsa e ricorrendo a un algoritmo individuano il prezzo che a quel momento consente di massimizzare il quantitativo di azioni scambiabili. Qui accade che c’è un periodo più o meno breve in cui gli operatori simulano scambi, cioè mandano ordini di acquisto e vendita, che però non vengono effettivamente eseguiti, il sistema ogni minuto guarda domanda ed offerta e calcola il prezzo che massimizzerebbe il numero di azioni scambiate. Terminata questa fase, gli ordini teorici diventano ordini veri. Dopo aver calcolato innumerevoli prezzi teorici di scambio, sceglie il migliore e capisce il prezzo di apertura e di chiusura. Se è apprezzato dagli operatori essi mantengono l’ordine teorico, se no lo revocano. b) asta continua = è il meccanismo con cui avvengono gli scambi per tutto il resto della giornata. Prevede la possibilità di scambiare in continuità, cioè in qualunque momento, con il sacrificio dell’unicità del prezzo di scambio, dato che ciascuno scambio viene concluso a un prezzo che durante la giornata è destinato a cambiare, proprio perché si assicura la conclusione dell’accordo in qualunque momento. Nell’asta a chiamata il prezzo è ottimo perché c’è tempo di preparazione in entrambi i momenti, ma appunto si scambia solo in due momenti, mentre idealmente vogliamo scambiare a qualunque orario della giornata lavorativa. È quindi un sistema ottimo dal punto di vista macroeconomico ma scomodo dal punto di vista pratico. Il secondo metodo invece privilegia l’immediatezza dello scambio a scapito dell’efficienza del prezzo, dovendo questo cambiare continuamente: in ogni momento posso scambiare azioni ma ovviamente a condizioni sempre diverse, i prezzi fluttuano durante la giornata, a differenza del prezzo uguale per tutti a chiusura e ad apertura. Siccome ognuno paga quindi un prezzo diverso dall’altro, non c’è un prezzo ufficiale: c’è uno e un solo prezzo di chiusura e apertura ma che riguarda piccoli volumi di titoli scambiati, ma il grosso degli scambi avviene a prezzi oscillanti. Si deve trovare quindi il modo di calcolare un prezzo ufficiale che faccia la sintesi di tutti i prezzi degli scambi conclusi durante la giornata, ed esso è la media ponderata di tutti i contratti conclusi in giornata nella fase di asta continua. È chiamato “prezzo ufficiale”. Esiste poi la definizione di “prezzo di riferimento”, appunto di riferimento per convalidare i prezzi dei contratti conclusi durante la giornata e quella successiva. Tutti i mercati prevedono dei vincoli sulla ragionevolezza dei prezzi che vengono conclusioni rispetto a un benchmark di riferimento, cioè si vuole impedire che le azioni facciano segnare aumenti e cali molto marcati rispetto al prezzo di riferimento. Quest’ultimo un tempo era il prezzo dell’ultimo 10% scambiato, mentre ora è il prezzo dell’asta di chiusura. L’ultimo prezzo economicamente significativo di un certo giorno servirà per convalidare il prezzo di apertura della mattina successiva, perché si stabilisce che gli scambi di domani non possano riprendere regolarmente se il prezzo di apertura è troppo diverso dal prezzo di riferimento del giorno precedente. Se un titolo è così poco scambiato che non c’è domanda e/o offerta e quindi non si può calcolare il prezzo di chiusura, si dice che in quel caso il prezzo di riferimento è il prezzo medio registrato dal titolo negli ultimi minuti di scambi durante la negoziazione continua. Faccio una media dei prezzi dei contratti conclusi negli ultimi 10 minuti di asta continua, se non si è tenuta un’asta conclusiva. Una volta che il prezzo di apertura di domani non è troppo distante da quello di chiusura di ieri, il prezzo di riferimento diventa il prezzo di apertura della medesima giornata. Da qui, ogni contratto in corso di conclusione durante la giornata non può superare questo riferimento per più del 5%. Se succede, gli scambi vengono interrotti per quelle azioni che violano questi parametri di controllo. Com’è fatto il mercato gestito da Borse Italiane S.p.a Il mkt secondario di una qualunque azione, o obbligazione, è sintetizzabile in una tabella che prevede nella prima metà (fino a “prezzo di acquisto” compreso) la funzione di domanda, mentre nella seconda metà la funzione di offerta, cioè gli ordini di vendita. Nel mkt non ufficiale (es. MTF, diverso dalla Borsa Valori) sono negoziate azioni già quotate sul mkt regolamentato o azioni non quotate dall’emittente sul mkt principale ma per le quali, essendo diffuse fra il pubblico, gli intermediari, scavalcando l’emittente, hanno richiesto un luogo dove negoziarle. Nel caso italiano, il mkt secondario, l’ufficiale delle azioni, è oggi chiamato EuroNext, un tempo Mercato Telematico Azionario: qui sono trattate le azioni di 240 società, quasi tutte ordinarie tranne quattro o cinque azioni di risparmio. Ogni operatore che decide di negoziare un titolo deve inserire la propria proposta di acquisto o vendita mediante un intermediario abilitato ad accedere al mkt e fornire alcune informazioni imprescindibili: cosa si vuole comprare o vendere e se comprare o vendere. Nel primo caso ci viene chiesto quanti titoli vogliamo acquistare, inserendoci nella colonna “quantità d’acquisto” con un corrispondente “prezzo di acquisto”. Si può indicare un prezzo di riserva, cioè un prezzo massimo d’acquisto: esso serve a predeterminare lo scenario peggiore per l’acquirente (lo indico all’intermediario come a dire “non voglio comprare a più di quel prezzo”). Nel secondo caso dobbiamo specificare quante azioni vogliamo vendere, e eventualmente il prezzo di riserva, in questo caso inteso come prezzo minimo a cui sono disposto a vendere. Se specifico il prezzo di riserva invio un ordine con un limite di prezzo: sto dicendo che questo ordine non va eseguito a meno che non sia possibile abbinarlo con un ordine di segno opposto compatibile con la mia condizione sul prezzo. Se non si aggiunge l’informazione del prezzo di riserva, ci troviamo di fronte a un ordine al prezzo di mkt, nel quale il prezzo limite non c’è. Se ci mettiamo dal punto di vista del compratore, significa che siamo disposti a comprare a qualunque prezzo, dal lato del venditore siamo disposti a vendere a qualunque prezzo. Significa che mi rimetto alle condizioni del lato opposto del mercato. È quindi un ordine che viene eseguito subito, perché non ci sono vincoli. Gli ordini con limite di prezzo si chiamano anche “persistenti” perché se non sono immediatamente eseguibili vengono tenuti in memoria nel sistema. Gli ordini a prezzo di mkt invece non si vedono perché nel momento in cui vengono inviati al sistema telematico vengono immediatamente eseguiti, a meno che non ci sia nessuno dal lato opposto del mkt. Esempio: Telecom Italia Prendiamo Telecom Italia azioni di risparmio (azioni in cui non si vota mai). Telecom, quando si poteva, negli anni ’70, ha introdotto queste azioni di risparmio trovando un certo gradimento tra gli investitori, soprattutto al dettaglio, e per molto tempo sono state scambiate. Ce n’erano molte di più ma gli emittenti le hanno fatte sparire ricomprandole. Qui sono riportati i primi 5 livelli di prezzo: sono ordinati in modo decrescente per l’acquisto, crescente per la vendita. Questa non è l’intera funzione di domanda e di offerta, perché ci sono molto più di 5 combinazioni prezzo-quantità. Il numero di decimali è deciso dalla Borsa e dipende dal prezzo di ogni singola azione. Se l’azione ha prezzo unitario molto piccolo, si hanno molti decimali. Attualmente, il miglior prezzo in acquisto (chiamato “il miglior denaro”, cioè il prezzo dell’acquirente disposto a sborsare di più) per comprare queste azioni arrivava a 0,2842. Invece, il venditore più disponibile a vendere, quindi meno caro, offre 0,2847, che è più grande del migliore prezzo di acquisto, e questo è quello che accade normalmente in un mkt di asta continua, cioè non si può scambiare niente perché il miglior acquirente non arriva mai a soddisfare il miglior venditore. Quindi gli ordini con limiti di prezzo restano esposti in quanto non immediatamente eseguibili. Ci vengono detti quindi i migliori prezzi in vendita, in acquisto e le rispettive quantità, e anche quanti sono i proponenti per ciascun prezzo, sotto la voce “numero proposte”. Vediamo che per questo titolo i quantitativi sono modesti considerato il prezzo ridotto, e così anche il numero di partecipanti. Nella prima colonna vediamo i prezzi degli ultimi cinque contratti conclusi: ora non sta succedendo niente, mentre prima, evidentemente, è stato possibile eseguire ordini ai prezzi lì indicati. Questi ordini probabilmente erano al prezzo di mercato, senza quindi prezzo di riserva. Vediamo che il quinto ordine concluso è stato ultimato con un prezzo uguale al prezzo di vendita (i primi a 0,271 probabilmente erano ordini di vendita, cioè c’era un venditore con fretta di vendere che si è adeguato all’offerta d’acquisto, viceversa quest’ultimo dato). Perché accada qualcosa, devono arrivare dei nuovi ordini compatibili con quelli già in memoria. L’altra possibilità è che arrivino ordini con limiti di prezzo compatibili con l’altro lato del mercato. Probabilmente 0,2845 è il prezzo assegnato a ordini di vendita nuovi abbinati agli ordini d’acquisto già presenti, mentre magari 0,2848 è il prezzo assegnato a ordini di acquisto nuovi abbinati ai migliori prezzi dal lato delle vendite (lo dico perché non ho più questo prezzo sotto “prezzo vendita”). Non può accadere niente finché non cambia qualcosa, così com’è la situazione nessun contratto può essere concluso: affinché succeda, devono arrivare altri ordini al prezzo di mkt o con prezzo limite compatibile con quanto presente sul mercato, oppure gli ordini già presenti devono venire modificati. Qual è il prezzo che prevale se ho due prezzi diversi dai due lati? Ad esempio ho il compratore che è disposto a pagare più di quello che chiede il migliore dei venditori. Siccome quest’ultimo è già sul mercato, cioè è un ordine già presente che per regola ha la precedenza rispetto al nuovo prezzo di acquisto proposto da questo nuovo compratore, il contratto viene concluso al prezzo del venditore. Quindi il compratore viene accontentato al miglior prezzo che il sistema è in grado di offrirgli in quell’istante, compatibilmente con il suo prezzo di riserva. Il venditore non ci rimette né ci guadagna vendendo a es. 0,2715, prende il prezzo minimo da lui indicato. Viceversa, l’acquirente era disposto ad arrivare a 0,2719, ma viene soddisfatto ad un prezzo più basso, quindi ne beneficia. Come si diceva, la Borsa Italiana chiude ufficialmente i suoi scambi alle 17.45 con un’asta di chiusura, ma gli intermediari mobiliari non concludono la loro giornata lavorativa, perché a partire dalle 18 apre l’MTF After Hours, un segmento di uno degli MTF gestiti dalla Borsa. Telecom Italia Risparmio non ha questa estensione serale, la Telecom Ordinaria sì. Le azioni dello stesso emittente quindi continuano ad essere negoziate allo stesso modo anche una volta chiusa Borsa Italia. La differenza è che nella estensione serale gli scambi saranno meno consistenti, ci saranno meno operatori, essendo il mkt non ufficiale comodo solo per eventuali aggiustamenti ma non utilizzato per fare grandi operazioni, che si svolgono durante la giornata. Confronto: azioni e obbligazioni Se cambiassimo titolo e ne prendessimo uno obbligazionario vedremmo la stessa struttura, ma dal lato del quantitativo degli acquisti non vedremmo delle unità. Infatti, nel mkt azionario il minimo negoziabile è appunto “1”, mentre nel mkt obbligazionario i quantitativi scambiabili non sono definiti in base al numero dei titoli ma al loro valore nominale, per un minimo di 1000 euro. Troveremo sempre dei numeri multipli di 1000, infatti. Dal lato dei prezzi, cambierebbe che i corsi secchi sono a prezzi percentuali, non in euro come quelli che troviamo nelle azioni: troviamo quindi numeri sotto la pari, sopra la pari, numeri da applicare al valore nominale che si desidera acquistare o vendere per passare al controvalore. Le caratteristiche ideali di un mercato finanziario • spessore = quando c’è continuità tra domanda ed offerta, cioè sono presenti praticamente tutti i prezzi di mercato possibili. Può capitare di trovare delle discontinuità, cioè che ci siano dei prezzi assenti. Quando ce ne sono tante, si dice che il mkt non è perfetto, perché idealmente vorremmo avere una perfetta continuità. Quando sono modeste, rientriamo in una situazione di normalità. Quando in un mkt di un titolo non attivamente scambiato si registrano dei vuoti, si trova soluzione incaricando un professionista intermediario di colmarli artificialmente, grazie all’immissione di ordini extra. • ampiezza = il mercato è ampio se, non solo al migliore prezzo di acquisto (miglior denaro), non solo al più basso prezzo di vendita (miglior lettera), ma anche a tutti i prezzi intermedi, c’è un sacco di gente disposta a comprare e vendere. È una caratteristica desiderabile perché significa che se anche dovesse arrivare un ordine di importo rilevante, o una serie di ordini consistenti ad esempio dello stesso segno, esso potrebbe essere eseguito senza problemi. • elasticità = condizione di tipo dinamico, a differenza delle precedenti. Un mercato è elastico se attrae rapidamente nuovi compratori o venditori man mano che i prezzi oscillano e quindi si modificano nell’arco della giornata. Per esempio se i prezzi scendono il mercato è elastico se attira velocemente persone compratrici, viceversa, se i prezzi aumentano, se vengono immessi nuovi ordini di vendita. Se guardiamo al BTP, vediamo che lo spessore c’è dal punto di vista delle continuità dei prezzi, ma dal lato del volume degli acquisti, sia ai migliori prezzi sia ai peggiori, non c’è molta affluenza (1, massimo 2 proposte), cioè se c’è una sola proposta addirittura se non ci fosse sparirebbe il prezzo. Ci sono quantitativi al dettaglio, alla portata di piccoli risparmiatori. Se ci spostiamo nel mkt azionario e guardiamo i titoli guida che compongo l’indice più popolare, quello delle 40 società, vedremmo nella colonna “Numero proposte” sempre diverse decine di imprenditori in fila, nella colonna “volumi” numeri elevati: perciò vediamo spessore e ampiezza. Non c’è discontinuità di prezzi e ci sono molti ordini giacenti. Se potessimo poi osservare in modo dinamico gli scambi, vedremmo anche evidenza di elasticità, cioè che nel momento in cui i prezzi strappano al rialzo o al ribasso, soggetti che comprano e vendono, perché le colonne rispettivamente di vendita ed acquisto variano. COME CALCOLARE IL VALORE DELLE AZIONI ORDINARIE Nel campo delle azioni accade che non c’è la stessa certezza sui valori delle variabili che influenzano il prezzo di un’azione che c’è per altri strumenti finanziari. Innanzitutto perché le azioni, dal punto di vista contrattuale, sono rappresentative di un contratto di partecipazione, dove il socio ha diritti economico-patrimoniali e amministrativi molto diversi da quelli del creditore, ha una remunerazione residuale, quindi aleatorietà in ambito remunerativo, ma nello stesso tempo ha una prospettiva di guadagno teoricamente superiormente illimitata se le cose vanno bene per la società emittente. Questa maggiore aleatorietà nel guadagno denota che non abbiamo più dei benchmark invece presenti nei titoli di debito, poiché in quest’ultimo caso il contratto alla base tutela molto dal punto di vista della remunerazione: essa è periodica e ad importo fisso. Anche nel caso delle azioni, il principio base è che hanno un valore riconducibile al valore attuale dei flussi di cassa, cioè dei flussi di dividendi che prima o poi la società pagherà ai propri soci. Bisogna innanzitutto determinare il valore del denominatore di questi valori attuali. Prima sapevamo che la dimensione dell’interesse periodico era costante, era una certezza assoluta dal punto di vista contrattuale, poiché gli interessi erano dati. Nel caso delle azioni questo non è possibile perché non si conosce il flusso di cassa, si sa che è la quota di un utile che si spera di ottenere fra n anni, quindi la dimensione dei flussi da scontare è ignota, di certo non costante, non è quindi dal punto di vista matematico-finanziario una “rendita”. Dal punto di vista degli amministratori di una società quotata, l’obiettivo è di stabilizzare il più possibile questo dividendo: devono individuare la dimensione di un dividendo sostenibile nel tempo. Dobbiamo attualizzare una serie di flussi di cassa di cui non conosciamo il valore, perché sono la quota di un’altra grandezza, l’utile, di cui conosciamo l’ultimo valore approvato ma non i valori futuri. Dobbiamo fare quindi delle previsioni, da un lato della redditività futura dell’azienda, dall’altro di quanto di quell’utile verrà distribuito, previsioni soggette ad un elevato margine di errore, benché da un lato sappia che la politica dei dividendi tenda a stabilizzare. Inoltre, le azioni non hanno una scadenza, siamo di fronte a un titolo irredimibile. Quindi, mentre nel caso dei titoli di debito si ha una rendita e il rimborso di capitale all’anno n, qui non si ha nessuna data n in corrispondenza della quale vengono restituiti i soldi al socio, inoltre questa data dipende dalla possibilità di cederle su un mercato secondario più o meno ampio a qualcuno che sia disposto a tenere queste azioni. Si ha quindi anche il problema della durata dell’investimento. Per calcolare il valore attuale serve un tasso di attualizzazione, cioè un fattore di sconto appropriato. Per le azioni, questo non può essere un semplice tasso di interesse, anche se a lungo termine, perché quello è il rendimento di un’operazione sì di lungo termine, ma relativo ad un investimento in capitale di debito, dove cioè non c’è nessun rischio dal punto di vista contrattuale di essere remunerato. Questa certezza non la abbiamo nel mondo azionario, quindi potremmo decidere di usare ad esempio il rendimento del BTP decennale per le azioni italiane, ma è comunque un rendimento atteso per una operazione di debito, quindi può essere solo una delle componenti del rendimento di un investimento in capitale di rischio. Da qui il mondo dei modelli di rendimento di equilibrio dei titoli a rendimento aleatorio, come appunto le azioni ordinarie, di cui non parleremo. Quello prevalente è il modello CAPM (Capital Asset Pricing Model), poi ce ne sono altri. Questo modello CAPM ci dice che devi aggiungere al rendimento di “breve termine”, di un BOT quindi, privo di rischio, un premio chiamato “premio al rischio”, funzione di due parametri: la quantità di rischio e il prezzo di mercato del rischio. La prima viene misurata da un coefficiente denominato “ß”, che misura per singoli titoli azionari, così come per portafogli di titoli azionari, la quantità di rischio sopportata. Convenzionalmente si dice che il valore spartiacque di questa misura del rischio è 1: da una parte abbiamo le azioni speculative, con beta maggiore di 1, e le azione difensive, che hanno beta più piccolo di 1. Il prezzo del rischio viene misurato in vari modi, il più pratico consiste nell’andare a vedere storicamente in media l’indice di Borsa, andamento medio di tutte le azioni quotate in un certo mercato, ha battuto il tasso privo di rischio, inteso come investimento in un titolo di Stato di durata adeguata all’investimento azionario. La dimensione di questo prezzo varia in ogni mercato, non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Il rendimento che producono i dividendi è superiormente illimitato e soggetto ad alto rischio. Per questo motivo il tasso di attualizzazione che useremo è spesso a due cifre, non realistico guardando ai tassi di interesse attualmente sui mercati. È normale perché non scontiamo più gli interessi ma delle quote di utili, che hanno una natura di reddito residuale. Il problema diventa quello della prevedibilità delle informazioni di cui si necessitano, si necessita di semplificare questo esercizio di previsione, che riguarda il valore dei flussi di cassa che devono essere scontati. Problema della durata: è l’investitore a deciderla, se riesce a vendere il titolo sul mercato. Dal punto di vista della modellistica, ci sono diversi approcci: • modello di valutazione uni periodale = calcolare il rendimento realizzato su una durata stabilita, normalmente di un anno. Risponde alla domanda: “quanto vale un’azione se la compro oggi, la tengo per un periodo, il tempo necessario per incassare il dividendo che gli amministratori decideranno di distribuire per ogni azione?”. Affrontato in questo modo, i flussi di cassa che mi spettano su un orizzonte di un anno sono: un dividendo annuale, di cui non conosco la dimensione e che dovrò prevedere (prevedo il monte dei dividendi e poi la quota che spetta al detentore di una sola azione), e quanto prenderò quando andrò a disinvestire vendendo l’azione a qualcun altro. • modello di valutazione generalizzato = si occupa di riconoscere il fatto che un modello uni periodale non dà risposte se non dire quanto rende investire in un’azione per un anno. Nel generalizzato si dice che il valore dell’azione non dipende da una sola annualità di utili ma da più annualità, numero in teoria superiormente illimitato dal momento che l’azione non ha scadenza. Se passo all’orizzonte multi periodale, spostando in là nel tempo la riposta alla domanda di quanto vale l’azione a una certa data futura, riduco l’importanza di questa risposta, perché so che tanto più lontano è l’orizzonte di tempo che deve passare prima che incassi un certo importo, tanto meno esso varrà in termini di valore corrente. Se quindi il valore dell’azione è dato dalla somma dei valori dei dividendi e il prezzo di rivendita, quest’ultimo non conta in termini di valore attuale perché è talmente lontano che convertito in euro correnti vale zero. • modello di Gordon = questo modello è un prosieguo del precedente e risponde alla domanda “come prevedo i dividendi ad esempio dei prossimi 40 anni?”. La semplificazione usata per rispondere è ipotizzare che il dividendo, il flusso di cassa non costante che devo scontare, cresca in maniera lenta, costante e perpetua secondo una legge matematico finanziaria il più semplice possibile, coerentemente con il comportamento degli amministratori. Normalmente il tasso è indicato con “g”. Dovrà essere un numero molto piccolo, dato che faccio crescere il dividendo per un numero molto grande di anni. La semplificazione imposta è molto forte e poco realistica nel lungo termine. Per alcuni soggetti è ragionevole, si parla di aziende mature che operano in settori tranquilli dove gli utili sono sostanzialmente stabili, che hanno una politica dei dividendi così semplice. Al denominatore non ho solo il tasso di attualizzazione, ma anche il tasso di crescita. • modello dei multipli (Price/Earnings) = si dice che le azioni hanno prezzi molto diversi fra loro e quindi non confrontabili, dipendendo ognuno dal capitale sociale emesso, dal numero di azioni, dal numero di anni di attività della società, ecc. Pertanto, per confrontarli devo relativizzarli, e lo si fa dividendolo per un’altra quantità nella stessa unità di misura. La variabile più comune utilizzata per questo scopo sono gli utili spettanti alla singola azione. Il “multiplo” è proprio il rapporto fra il prezzo e la variabile rispetto alla quale viene relativizzato: esso rappresenta il numero di volte che il prezzo di ciascuna azione sta nell’utile (es. se è 10 ci vogliono 10 anni di utile per rimborsare il prezzo di acquisto). Come vedere se un’azione è sopra o sottovalutata? Devo trovare dei valori di riferimento, e qui si ragiona per settore, cercando di trovare un benchmark per ogni specifico settore merceologico. Posso creare delle medie di prezzi relativi, cioè di rapporti prezzo/utile ad esempio, e per avere valori con significato calcolo delle medie settoriali, per esempio delle banche, dei servizi di pubblica utilità. Per stabilire se ad esempio una banca è sopra o sotto valutata, confronto il valore delle sue azioni con quanto devono valere le azioni di una banca quotanda, il valore medio di quel settore. Se gli utili sono perdite, si relativizza per qualcos’altro: le variabili di standardizzazione possono essere diverse quindi dagli utili di esercizio. Posso usare il valore di libro dell’azione o “book value”, cioè il suo valore contabile. Standardizzo il prezzo di mercato dividendo per il valore dell’azione risultante dalla contabilità aziendale. Qualunque azione, anche non quotata, ha questo valore, facilmente calcolabile prendendo la somma del capitale sociale, riserve di utili ecc. e dividendolo per il numero di azioni emesse. È il valore della medesima azione di cui relativizzo il prezzo misurato non guardando al futuro, ma riflette il valore creato in passato. Si scopre che c’è un valore spartiacque che è 1: quando il rapporto è inferiore ad 1, vuol dire che le nostre azioni in borsa non valgono nemmeno il loro valore contabile, cioè il valore minimo richiesto. Non è un buon segno, vuol dire che il mkt prevede che quella società farà peggio di quanto ha fatto in passato. Se è maggiore di 1, il valore delle azioni in borsa è superiore al valore della contabilità, segno di un giudizio positivo proveniente dal mercato, dato che l’azione vale più del suo valore storico. Ci sono società in cui questo valore contabile è poco importante, come le imprese di servizio, che non hanno grandi investimenti. Sarebbe quindi una misura poco affidabile per relativizzare, si usano quindi altre variabili, ad esempio il fatturato. CALCOLO DEL PREZZO DELLE AZIONI ORDINARIE: PRATICA - Modello uni periodale Prende il titolo azionario e lo considera solo per il primo periodo di vita dell’azienda. Gli anni sono sempre interi, gli esponenti al denominatore anche. Immagino di guardare solo al primo anno di vita futura dell’azienda, mi chiedo quanto valga questo titolo limitatamente a questo periodo, ipotizzando l’azienda eroghi i dividendi. Assumo anche di poter rivendere dopo un anno l’azione al prezzo P1. Quello che incasseremo il prossimo anno, esattamente alla fine di un calendario civile (per semplicità), sono due flussi di cassa: un dividendo al tempo 1 (che potrebbe essere nullo se non è pagato dall’azienda), e un prezzo che oggi non conosco, corrispondente al prezzo dell’azione fra un anno, guadagno che ricavo vendendola sul mercato, dipendente dai dividendi degli anni successivi. Il primo flusso lo ottengo guardando alla storia dell’azienda, guardo ad esempio se paga i dividendi sistematicamente, il secondo devo stimarlo. Questo modello è troppo semplice, tutta l’incertezza si scarica sulla stima del prezzo fra un anno. Il modello però ci dice che un investimento azionario valutato su un tagliando annuale ci dà un rendimento valutabile su due dimensioni, cioè ci sono due componenti che determinano il rendimento uni periodale, da un lato il dividendo, dall’altro il guadagno o la perdita in conto capitale. Le azioni che pagano dividendi hanno minore rischio perché garantiscono un reddito minimo. La variazione del prezzo è molto importante: non c’è la certezza di uscire con un certo prezzo. Esempio: Lo sconto al 12%: è un numero alto rispetto ai numeri usati finora. Non è però irragionevole: quando si investe in strumenti partecipativi si aggiunge un premio al rischio. - Modello di valutazione generalizzato Posso fare le mie verifiche intermedie di profitto, se però adotto un’ottica più realistica rispetto alla natura dell’investimento, quest’ultimo dura un numero elevato di periodi futuri, è multi periodale. Bisogna mettere insieme tutti questi esercizi e farne una somma sensata dal punto di vista matematico finanziario, una somma dei dividendi al loro valore attuale. Ma la durata delle azioni è indeterminata, quindi una generalizzazione del modello uni periodale prevede che sconti un numero molto alto di dividendi attesi in futuro per far sì che arrivati alla fine si abbia l’ultimo flusso di cassa che, essendo così lontano da oggi nel tempo, scontato all’epoca attuale, cioè convertito in moneta corrente, tende a zero. Per far sì che il prezzo finale di conclusione dell’investimento sia irrilevante nella mia valutazione devo spingermi molto in là nel tempo. Dovrei stimare però analiticamente anno per anno gli utili di esercizio e poi risalire al dividendo, ipotizzata una certa politica di distribuzione. Questa attività di previsione è impossibile da realizzare, soprattutto per un orizzonte così lungo. - Il modello di Gordon Per risolvere questi problemi, si è sviluppato il modello di Gordon: egli ha preso Il valore dell’azione è pari al valore di tutti i dividendi che ci si aspetta di incassare da qui ad infinito. Il flusso di cassa da scontare va stimato. Prendendo spunto dal comportamento degli amministratori delle società quotate, che distribuiscono i dividendi quando possono e puntano a farli crescere gradualmente anno per anno, egli introduce l’ipotesi semplificatoria secondo la quale i dividendi crescono a un tasso costante g, quindi fissa una regola automatica di evoluzione del tempo del flusso di cassa da scontare. Se i dividendi cioè non calano mai ma tendono a crescere lentamente, il problema diventa analitico. Si fanno delle medie settoriali, si vede quanto valgono gli utili dei vari settori, e usiamo questi moltiplicatori come numeri per ricavare il prezzo di qualunque azione di società che opera in quel settore, simile. Limitiamoci a coloro che pagano i dividendi: nella pratica, nessuno taglia i dividendi, si cerca di tenerli costanti o di farli crescere limitatamente anno per anno. Nel lungo termine c’è un tasso di crescita costante perpetuo, piccolo ma ragionevole, grazie al quale non mi serve stimare il dividendo di ogni anno, perché è sufficiente che prenda quello del primo anno e gli applichi il tasso di crescita g. Questa legge di crescita del dividendo conduce a scrivere l’equazione di una progressione geometrica, che converge a un valore finito della sua sommatoria di infiniti dividendi: Si scopre che il valore di un’azione che paga i dividendi seguendo questo stile si può trovare, e somiglia molto al valore di una obbligazione irredimibile, cioè di un titolo che paga un interesse fisso per tutta la durata futura. C’è una differenza però, che è la presenza del tasso g al denominatore, perché l’obbligazione irredimibile paga ogni anno un interesse contrattualmente predefinito finché l’emittente non ritira questo titolo, mentre l’azione non è un titolo che paga un interesse costante ogni anno, perché il dividendo cresce a un certo tasso g in modo lento, perpetuo e costante, ed è proprio ciò che sta al denominatore di questa funzione. Se g = 0, ricadiamo proprio nel caso della rendita perpetua. Possibili errori metodologici Ci sono però alcuni rischi di commettere errori di carattere metodologico: - dobbiamo tenere sotto controllo il denominatore di questa stima del prezzo. Affinché abbia senso questo caso speciale del modello generalizzato, devo avere denominatore positivo, mai nullo, quindi k = g non è possibile. Non posso avere un valore delle azioni infinitamente elevato => k ≠ g - vige la responsabilità limitata dei soci: l’azionista non ci rimette il suo patrimonio personale, al massimo perde quanto investito. Quindi il prezzo P0 deve essere sempre positivo, perché le azioni al massimo azzerano il loro valore. Affinché così sia, anche la differenza al denominatore deve esserlo, quindi non posso avere g > ke, che vuol dire che il tasso di attualizzazione deve essere sempre più alto del tasso di crescita dei dividendi => g < ke - non è ragionevole usare un g alto e a due cifre, cioè non posso assumere che la crescita sia troppo alta, perché la sto capitalizzando in un orizzonte temporale molto lungo. Per g esiste un benchmark di mercato, che è il tasso di crescita del Pil del paese in cui quell’azienda opera. Se cerchiamo di valutare la crescita possibile in futuro degli utili di una società italiana da qui alla fine del mondo, il riferimento non può che essere il tasso di crescita dell’economia in cui quella società opera. Se facciamo questo esercizio per l’economia italiana, vediamo che i tassi a due cifre non sono mai stati raggiunti in modo persistente, si parla di un 3-4%, un numero più vicino a 0 che al 10%. Neanche nel caso statunitense si parla di due cifre, al massimo di un 7%. E’ ragionevole prendere questo valore come benchmark perché se proietto la crescita su un orizzonte di tempo infinitamente lungo, se immagino che l’azienda cresca più dello Stato, essa diventerà maggiore del Paese stesso in cui opera e sarebbe un paradosso, perché diventerebbe più grande dell’economia di cui è una piccola parte. Al massimo userò un g troppo basso rispetto a questo benchmark, in tal caso quello che immagino è che pian piano l’azienda finirà per scomparire. Quindi g è sempre un numero piccolo con un limite superiore invalicabile, che dipende dal tipo di attività presa in considerazione. Esempio pratico Non è un modello che si presta per valutare azioni di aziende con andamento erratico nel tempo, va bene per aziende già approdate a una fase di maturità, cioè con molti dividendi alle spalle e stabili ormai nel tempo dal momento che lo sono in primis gli utili. Come si valutano le azioni della prima categoria di aziende, o comunque delle azioni della fase precedente a quella di “stato stazionario”? Ipotesi alla base del modello di Gordon affinché funzioni: a) esiste un g, i dividendi crescano in modo continuo e costante b) g < ke sempre Se vogliamo stimare un valore su un orizzonte di lungo termine, lo stadio conclusivo sarà sempre alla Gordon, ma sarà il valore di una fase dell’azione, definito “valore terminale”, perché è il valore dei dividendi dei periodi più lontani. Gordon mi stima questo valore, vi sono però anche i valori delle fasi precedenti: quella della crescita rapida, o quella dell’assenza dei dividendi a causa dell’assenza di utili. Prendo un’azienda che sperimenta due fasi: nella prima, l’andamento degli utili è fortemente crescente. La crescita è rapida e sostenibile per un certo periodo di anni, non a lungo termine. Segue una fase in cui i prezzi si stabilizzano: l’impresa diventa matura, la crescita è più lenta e stabile. Nell’esempio si immagina che la prima fase duri 4 anni, dopodiché dall’anno 5 fino alla fine del mondo si comporta alla Gordon. Come attribuire un valore alla redditività degli anni futuri? Devo partire dal modello generalizzato dei dividendi, secondo il quale devo stimare i dividendi futuri, attualizzarli, calcolare anche il valore terminale, cioè il valore attuale della crescita lenta. Devo spaccare il P0 che cerco in due parti: gli anni di crescita rapida e quelli di crescita lenta. La prima deve essere affrontata in modo analitico. Possiamo ipotizzare la seconda parte, cioè il valore terminale, stimabile con il modello di Gordon. A questo punto ho il valore della crescita rapida temporanea e quello della maturità. Devo però tenere conto di un problema: il modello di Gordon, se ho D1, mi dà P0. Se voglio sapere il prezzo dell’azione fra 4 anni, mi serve D5, cioè il dividendo dopo 5 esercizi. D4 è un ammontare di euro disponibile fra quattro anni, che non mi restituisce un valore in euro al tempo zero, ma in euro al tempo quattro. Bisogna attualizzare la stima fatta col modello di Gordon di P4, perché è il prezzo fra quattro anni, cioè il valore attuale all’anno 4 dei dividendi dall’anno 5 alla fine del mondo. Lo attualizzo perché è un valore che non uso al tempo zero, ma al tempo quattro. Con i numeri: Devo stimare ora il valore dei dividendi successivi al quinto sapendo che l’anno successivo al quinto si interrompe la crescita rapida ed elevata. In un modello realistico il passaggio è graduale, ci dovrebbe essere una fase intermedia. Per stimare i dividendi del quinto anno devo prendere l’ultimo ad alto potenziale dei dividendi (5,12), e applicargli il nuovo tasso di crescita, che è l’1%. Al numeratore ho il dividendo dell’anno precedente a cui applico il nuovo incremento, mentre al denominatore ho il rendimento richiesto per questo tipo di investimento azionario dato il suo rischio, meno g. Ottengo P4 = 43,09, un valore però espresso in euro disponibili fra quattro anni, va quindi attualizzato al tasso del 13% per poterlo sommare a quanto trovato prima. Inoltre, D4 e P4, quindi 5,12 e 43,09 si possono sommare fra loro, perché sono tutti e due importi che si incasseranno fra quattro anni. Per arrivare al risultato finale uso la calcolatrice finanziaria limitandomi a specificare i numeratori delle ultime due frazioni e dicendo il tasso di attualizzazione. P4 devo calcolarlo io. Ogni calcolatrice consente di attualizzare flussi di cassa futuri di importi variabili. Calcolatrice HP: CF => primo numero che carico è l’uscita o l’entrata al tempo zero. Poiché voglio calcolare il prezzo al tempo zero P0, il primo valore da caricare è zero, perché la calcolatrice somma tutti i valori attuali. Poi scrivo: 0.64 => CF. 1.28 => CF. E così via, poi sommo 43,09 con 5,12, ottenendo 48,21, e ora premo CF. Questo è il flusso di cassa conclusivo: l’ultima cedola di interessi è il rimborso del capitale. A questo punto specifico il tasso di attualizzazione: 13 => “i”. A questo punto spingo freccia arancione => PRC. Il risultato ottenuto è 32,91, il valore stimato dell’azione immaginando che abbia due vite: una prima fase di crescita molto forte e poi una di crescita positiva ma molto piccola. Calcolatrice BA: CF => menù in cui mi appaiono i valori richiesti, a cominciare dal cash flow al tempo zero, che sarà zero perché appunto è quello che voglio stimare. Non considero le variabile F, che sta per frequenza. C01: 0,64 => enter; C02: 1,28 => enter; C03: 2,56 => enter; C04: 43,09 + 5,12 = 48,21 => enter. Ora: 2ND => CPT. Entro in un altro menù dove inserisco il tasso di attualizzazione. NPV => I = 13 => enter. Mi muovo con le frecce nello stesso menù e torno in NPV, premo “CPT” e ottengo 32,91. Versione del modello di Gordon, stima del numeratore: - Stima sintetica: parto dall’ultimo dividendo pagato e lo aumento del tasso g - Stima analitica: stimato da un analista che costruisce il bilancio dell’anno prossima dell’emittente e va a ricavare una stima del dividendo atteso. CAPITOLO 3 - GLI INTERMEDIARI FINANZIARI In tutti i sistemi finanziari si sono sviluppate imprese che, diversamente dalle altre, hanno un bilancio di natura finanziaria, talvolta per impiegare, talvolta per raccogliere fondi. Vogliamo spiegare perché queste istituzioni sono nate spontaneamente in risposta a imperfezioni di mercato: costi di transazioni, incertezza o rischio e asimmetrie informative. • Costi di transazione e rischio: l’attività finanziaria comporta il sostenimento di costi di natura operativa che in larga misura sono fissi. Per avere un costo unitario del prodotto che sia competitivo bisogna diventare sufficientemente grandi => gli intermediari possono beneficiare delle economie di scala e ridurre i costi di transazione attraverso le proprie competenze • Incertezza: anche per il concorso del primo problema, l’investimento diretto di fondi da parte della singola unità economica è inefficiente. È possibile infatti ridurre il rischio in maniera gratuita, diversificando gli investimenti (“non mettendo tutte le uova in un unico paniere”). Per farlo, serve un patrimonio sufficientemente elevato, se no si sostengono i costi di transazione. = gli intermediari sono veicoli che possono fare da cassa comune e mettere a disposizione servizi di pagamento che consentono di usare i propri risparmi, non solo per investire ma anche per regolare i propri pagamenti su base giornaliera. Fungono da trasformatori di rischi • Asimmetria informativa: imperfezioni legate al fatto che non tutti siamo ugualmente informati e formati => gli intermediari sono imprese più attrezzate a valutare le informazioni e ad avere competenze migliori per gestire il risparmio. Perché gli intermediari finanziari esistono e qual è il loro contributo al sistema economico? Si pongono otto domande: 1. Il capitale azionario non è la principale fonte di finanziamento esterno delle imprese. Perché quindi c’è tutta questa attenzione verso questa forma di finanziamento? Il pensiero economico, che si sviluppa soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, pensa al mkt azionario prendendo come esclusivo riferimento il capitale negoziato nei mkt borsistici, mentre sul totale delle imprese esistenti, poche sono quotate. Se guardiamo ai conti finanziari di ogni Paese, dove questi investimenti vengono presi in considerazione, prendendo ad esempio le famiglie, circa la metà del loro investimento in attività finanziarie è in capitale di rischio, che è un investimento fatto nella propria attività di impresa professionale. Quindi, quanto detto è vero se si tiene conto solo dei mercati borsistici, dove infatti le azioni fra il pubblico sono poco importanti, ma se andiamo a vedere l’investimento tutto nel patrimonio netto delle imprese quotate e non il quadro cambia, perché la fonte di finanziamento più importante per una qualunque impresa è sempre l’autofinanziamento, il risparmio d’impresa, gli utili non redistribuiti. 2. L’emissione di valori mobiliari non costituisce la fonte primaria di finanziamento delle aziende. Non ci sono solo le azioni come strumento circolante ma anche i titoli di debito, che possono essere incorporati in titoli circolabili (obbligazioni, cambiali finanziarie… => contratti standardizzati) o in strumenti, come i prestiti delle banche, che non sono scambiabili se non faticosamente nel loro mercato secondario, non essendo standardizzati. Se anche aggiungiamo alle azioni, intese come scambiate sui mkt borsistici, le obbligazioni, il quadro non cambia: le aziende non si finanziano principalmente né emettendo azioni, né emettendo azioni ed obbligazioni. 3. Il circuito indiretto è quello che soddisfa la maggior parte dei bisogni finanziari delle aziende. La maggior parte dei fondi vengono raccolti non sui mkt aperti ma nei mkt a negoziazione bilaterale, quelli degli strumenti non standardizzati offerti dagli intermediari. I motivi sono che ci sono costi fissi da sostenere, bisogna essere grossi per emettere azioni o obbligazioni sul mkt borsistico, inoltre ci sono asimmetrie informative per le imprese di piccole dimensioni. Anche quando consideriamo le immissioni di grandi società, e anche se aggiungiamo quelle dello Stato, e andiamo a vedere chi detiene effettivamente questi strumenti finanziari, la maggior parte non è detenuta direttamente dalle famiglie, bensì dagli intermediari finanziari. Quindi una parte delle emissioni destinate al circuito diretto non è sottoscritta direttamente dalle famiglie: la maggior parte di queste ultime non detiene neanche un’azione perché non sottoscrive questi titoli direttamente, ma lo fa accedendo a fondi comuni di investimento quindi rivolgendosi ad intermediari. Si parla di “istituzionalizzazione del risparmio”. 4. Gli intermediari finanziari più importanti sono le banche . Esse rappresentano per le aziende la principale fonte di approvvigionamento di fondi esterni. Negli anni la loro attività si è trasformata, la loro importanza è diminuita ma continuano a svolgere la loro attività, che consiste in una combinazione di due funzioni svolte congiuntamente: monetaria e di intermediazione (quest’ultima di carattere creditizio perché fanno prestiti). Ci chiediamo come mai le imprese si rivolgano direttamente a questo tipo di intermediario piuttosto che ad altri. E’ l’unico intermediario che emette propri debiti utilizzabili per regolare degli scambi: emettono una propria moneta che integra quella in circolazione. 5. Il sistema finanziario è il settore più rigidamente regolamentato dell’intera economia. Sia il circuito indiretto (intermediari) che quello diretto (borse valori) sono caratterizzati da un livello di regolamentazione molto pervasivo, al punto che molto tempo dei consiglieri di amministrazione di banca è dedicato alle norme da applicare e far rispettare (4/5 del loro tempo). Il principale motivo riguarda i problemi di distribuzione diseguale delle informazioni fra gli operatori di mercato, normalmente l’emittente è il contraente forte ed ha un forte incentivo ad approfittarsi di questo vantaggio sul cliente, il contraente debole. Servono contrappesi a questo problema. Abbiamo norme generiche, generali, poi da applicare a casi concreti richiedendo la produzione di altre norme, dette “secondarie”, fatte di regolamenti, circolari, testi fatti per spiegare alle banche come applicare la norma primaria nel caso concreto. 6. Le imprese che accedono ai mkt mobiliari sono per lo più di grandi dimensioni. La maggior parte delle imprese che fanno ricorso al circuito diretto sono solo le più grandi affermate: la ragione è che la loro notorietà le rende più facilmente valutabili e quindi più affidabili. 7. La maggior parte del finanziamento concesso dal sistema finanziario, fatto soprattutto da debito, è spesso caratterizzato dalla presenza di garanzie, in tutti i paesi del mondo. Esse possono essere di tipo reale o personale. La garanzia reale più comune si chiama ipoteca, normalmente iscritta su un immobile o macchinario. Le garanzie personali consistono in firme, impegni in cui qualcuno che ha la fama di essere un debitore solvibile mette la firma per qualcuno che non ha queste caratteristiche e che quindi necessita di un soggetto con capitale economico e reputazionale maggiore, che possa raccomandarlo, esponendosi patrimonialmente: se infatti non riesce ad onorare i debiti, sarà il garante a farlo. Ci chiediamo il motivo, ed è che le garanzie hanno una doppia valenza: sono un modo per chi non è totalmente affidabile agli occhi delle banche di diventarlo, ma hanno anche una funzione preventiva, sono un modo per disciplinare il comportamento del debitore senza per forza arrivare ad escutere suddetta garanzia, è spesso sufficiente la sola minaccia determinata da essa. 8. I contratti di indebitamento sono molto complessi. Che siano prestiti obbligazionari o bancari, non sono semplici cambiali/ricevute, ma sono invece molto complicati, in essi il comportamento del debitore viene regolamentato in modo preciso mediante clausole. Ci chiediamo perché è necessario redigere contratti così complicati per i prestiti. FENOMENO 1) Il capitale azionario non è la principale fonte di finanziamento esterno delle imprese 2) L’emissione di valori mobiliari non costituisce la fonte primaria di finanziamento delle aziende 3) Il circuito indiretto è quello che soddisfa la maggior parte dei bisogni finanziari delle aziende 4) Gli intermediari finanziari più importanti sono le banche 5) Il sistema finanziario è il settore più rigidamente regolamentato dell’intera economia 6) Le imprese che accedono ai mkt mobiliari sono per lo più di grandi dimensioni 7) La maggior parte del finanziamento concesso dal sistema finanziario, fatto soprattutto da debito, è spesso caratterizzato dalla presenza di garanzie, in tutti i paesi del mondo 8) I contratti di indebitamento sono molto complessi SPIEGAZIONI - selezione avversa - onere del monitoraggio - free riding al monitoraggio lo è in termini di autofinanziamento - selezione avversa - si abbattono i costi di transazione - più investimenti e più informazioni - contrasto all’asimmetria informativa - riducono il free riding al monitoraggio - contratti opachi - asimmetria informativa - più facilmente valutabili e quindi più affidabili - riduce le perdite dovute alla selezione avversa - monitoraggio - clausole restrittive Problemi del mkt finanziario: l’asimmetria informativa L’asimmetria informativa dà luogo a due problemi: - selezione avversa (pre-contrattuale) = i debitori potenzialmente più insolventi sono anche quelli più attivi nella ricerca di prestiti. Per esempio, se i prezzi sono troppo bassi, coloro che emetterebbero titoli migliori si astengono dal farlo perché dovrebbero emetterli a prezzi troppo bassi, mentre coloro che emetterebbero titoli di scarsa qualità sfruttano la situazione. - azzardo morale (post-contrattuale) = il debitore potrebbe intraprendere attività indesiderabili per il creditore. Il debitore può o nascondere informazioni importanti ottenute a operazione iniziata o nascondere informazioni che modificano il rischio dell’operazione. Il primo problema che le banche hanno è quindi quello di capire, fra i richiedenti credito, quali siano i soggetti meritevoli di ricevere finanziamenti. La presenza di garanzie può consentire di aggirare il problema della selezione avversa, perché si rendono finanziabili soggetti che a prima vista non apparirebbero come tali. Per risolvere il problema dell’azzardo morale, le banche non possono disinteressarsi una volta individuata una buona impresa a cui fare credito, devono fare dei controlli. Bisogna da un lato costringere l’imprenditore a non essere reticente, cioè non nascondere informazioni negative per la banca, dall’altro a comportarsi correttamente, cioè a non usare in maniera impropria i soldi ottenuti. Si parla di monitoraggio, mentre la fase di selezione è chiama di “screening”. Questo spiega perché i contratti bancari sono così complicati: è la fase dei controlli a determinarne la complessità, le cose che il debitore può fare, le informazioni che deve rivelare al finanziatore, ecc. Per evitare problemi, spesso i prestiti sono sanciti da contratti finalizzati, cioè in cui viene esplicitato il fine della richiesta del prestito. Si limita in tal modo l’uso dell’ammontare da parte del debitore e quindi il rischio corso dal creditore. Inoltre, il contratto può prevedere una serie di comunicazioni che il debitore deve fare periodicamente, per esempio informazioni riguardanti i clienti, i debitori, il bilancio. Soluzioni: l’attività di screening Il problema è indurre a separarsi fra di loro i soggetti meritevoli di ricevere un finanziamento, a titolo di capitale di rischio o di debito, da quelli che non meritano di essere finanziati se non con accorgimenti particolari, generalmente la prestazione di garanzie. Nel circuito diretto, un primo modo per individuare imprenditori meritevoli è l’elaborazione di informazioni di questi soggetti, per lo più commerciali. Una prima possibilità è lasciar svolgere questa attività a una agenzia di rating (privati): esse, retribuite dai potenziali debitori, attribuiscono loro un giudizio dopo aver studiato il merito di credito del richiedente. Si occupano anche della manutenzione di questo giudizio, aggiornandolo periodicamente al rialzo o al ribasso. Questa informazione deve però essere ritenuta credibile dagli investitori al dettaglio e istituzionali. C’è sempre il rischio che il debitore cerchi di negoziare con l’agenzia di rating, visto che la paga per riceverlo, un giudizio migliore di quello che si meriterebbe; e questo è uno dei motivi per cui spesso si hanno più giudizi. La seconda possibilità è indurre la produzione di informazione attraverso l’imposizione di regole di legge su soggetti che chiedono denaro in prestito. Un esempio è quello di costringere società che vogliono far ricorso al pubblico risparmio di sottoporre a revisione contabile il proprio bilancio: anche questa è un’attività costosa, e anche le agenzie che fanno questa revisione sono esposte al medesimo conflitto di interessi di quelle di rating, inoltre spesso esse fanno consulenza a questi stessi soggetti (altro conflitto di interessi: il cliente è sia monitorato sia compratore di servizi di consulenza). Una terza possibilità è quella dell’intermediazione finanziaria, cioè affidare questa attività di selezione a un terzo soggetto, che diventa interlocutore sia del datore finale, sia del prenditore finale di fondi. Se pensiamo al mkt dei capitali di rischio, un soggetto che svolge questo ruolo con una certa competenza è la società di venture capital, intermediario non di tipo creditizio ma di partecipazione, cioè specializzato nel diventare socio, compartecipante al capitale di rischio di un’impresa. Raramente questi soggetti fanno anche credito, sono quasi esclusivamente fornitori di capitale di rischio, e da un lato hanno dei finanziatori, normalmente altri investitori istituzionali, indirettamente le famiglie o investitori professionali che vogliono destinare i loro risparmi al capitale di rischio di altre società. Questi intermediari prendono soldi in prestito dagli investitori e li investono nelle PMI che, con un’elevata probabilità, secondo la loro valutazione, avranno successo in diversi anni. Per gestire questo portafoglio di azioni illiquide, si occupano di selezionare i potenziali candidati destinatari dei capitali, e per controllare il buon andamento degli investimenti mettono propri esponenti sia nel management sia nel consiglio di amministrazione che nel collegio sindacale (controllano gestione e amministrazione) di suddette imprese. Le banche svolgono la stessa attività di selezione e, dopo aver individuato le imprese meritevoli, controllano anch’esse, non in questo modo invasivo (non sono azioniste), bensì utilizzando le clausole del contratto di finanziamento, chiamate “covenance”, strumenti contrattuali che danno alla banca la possibilità di incentivare comportamenti virtuosi, stimolare il debitore a mantenere le garanzie, e stimolarlo a produrre le informazioni necessarie. Nel caso degli intermediari finanziari, le informazioni che raccolgono, rielaborano e valutano non sono pubblicamente osservabili, non si possono consultare dall’esterno, rimangono riservate. Questo rende sostenibile questo genere di attività, perché c’è sempre il rischio di soffrire della concorrenza di altri soggetti che non sostengono il costo per produrre informazione e approfittano di quella disponibile grazie a qualcuno che invece quel costo lo ha sostenuto. Esempio: quando parliamo di mkt finanziari, le scelte di investimento degli operatori sono pubblicamente osservabili. Posso approfittare dell’attività di screening di qualcun altro (fatta sostenendo costi operativi), semplicemente replicando le sue scelte di investimento. Si pensi all’analisi tecnica, lo studio dell’andamento delle quotazioni e dei volumi dei titoli delle società quotate in borsa. Questa attività di studio dei grafici per capire cosa sta succedendo ai prezzi e ai volumi di una società si fa perché si parte dal presupposto che sul mkt ci siano operatori più informati, quindi più in grado di individuare i titoli sopra e sottovalutati, i primi per comprarli i secondi per venderli. Questi operatori compiono le loro scelte di investimento facendo un minimo di investigazione, ricerca che serve sia per supportare le decisioni di investimento del loro intermediario, sia per incorporarla in report poi venduti alla clientela, con il rischio che si utilizzi questa ricerca per disfarsi di titoli che non si vogliono più tenere. Il soggetto che sostiene i costi di produzione di queste informazioni poi negozia sul mercato, ad esempio comprando insistentemente titoli di una certa società. Questi acquisti sono osservabili non individualmente, si vede l’elenco di tutti gli eseguiti conclusi sul mercato. Potrei anche decidere di speculare sui profitti che faranno determinati agenti che so essere informati, così da avere grossa probabilità di fare profitto senza sostenere costi. Un’altra possibilità è quella delle garanzie, uno strumento che tiene lontani i richiedenti di cattiva qualità, dato che normalmente non possono averle. Inoltre servono per evitare errori di valutazione: posso rivalutare soggetti a cui non attribuirei giudizi positivi se mi forniscono una garanzia. È un modo per indurre all’autoselezione i richiedenti. Un’alternativa è il capitale netto, cioè il grado di incidenza dei mezzi propri, l’investimento fatto dal proprietario dell’azienda che chiede il finanziamento, sul totale delle passività che appaiono sul bilancio di quell’impresa. Se questo investimento è alto, è molto esposto, significa che l’impresa ha pochi debiti e tanto capitale proprio, cioè l’impresa è ben capitalizzata. Questa caratteristica è positiva per la banca creditrice, perché come la garanzia rappresenta qualcosa che puoi perdere, così lo rappresenta il capitale proprio investito nell’azienda: se è consistente, vuol dire che l’imprenditore crede molto nel suo progetto ed è molto probabile che quindi sia buono e profittevole. Il capitale netto è ammortizzatore delle perdite di bilancio. Soluzioni: l’attività di monitoring Una volta che l’operazione è iniziata, si pone il problema di tutelare il valore dell’investimento. Bisogna monitorare il comportamento del debitore. Il problema dell’azzardo morale è trattato attraverso il modello dell’agente-principale, che spiega come i due principali problemi che sorgono in caso di asimmetrie informative possono essere risolti da intermediari, che incorporano i prestiti in contratti opachi più difficili da replicare. Dal punto di vista dell’azionista, il tipico problema dell’agente-principale è quello che sorge nel momento in cui c’è separazione fra proprietà e controllo. Esempio: ci sono azionisti con una piccola esposizione al rischio di impresa ma che la gestiscono, e altri che pur detenendo la maggioranza non sono interessati alla gestione. C’è un principale, azionista di maggioranza, che dedica la gestione a manager che sono pagati con l’aggiunta di una partecipazione agli utili più che simbolica. Si crea un conflitto di interessi: il soggetto che gestisce l’impresa vuole innanzitutto preservare il suo posto di lavoro, quindi evitare investimenti che incrementerebbero il valore dell’investimento del padrone ma che sarebbero troppo rischiosi per sé, perché potrebbero fargli perdere il posto. Allo stesso tempo, poiché non si ritiene adeguatamente remunerato avendo solo una piccola partecipazione agli utili, è portato non solo ad evitare investimenti troppo rischiosi ma anche ad incrementare il proprio potere, facendo investimenti convenienti per sé stesso. Per allineare gli interessi delle due parti, di chi esercita il controllo senza essere padrone e viceversa, serve qualche intervento. Nel caso del mkt azionario, una parte prevalente dello stipendio di questi individui viene resa variabile: il padrone vuole tanti utili ma per averli bisogna rischiare di più, viceversa il manager è più avverso al rischio temendo per il suo posto di lavoro. Con lo stipendio variabile si incentiva il manager a rischiare perché ne beneficia in termini di reddito, ma si pondera anche il padrone. Si pensi anche al rapporto banca, che è il principale, e impresa, che è l’agente che prende in prestito i soldi. Una volta dato il prestito, l’interesse dell’imprenditore/azionista è fare dei soldi ricevuti l’uso più opportuno, ipoteticamente anche non rispettando il contratto se si presentano opportunità migliori di quelle previste o omettendo informazioni rilevanti. Per conciliare le due posizioni, la banca deve agire, e cioè controllare il comportamento del proprio agente, mettendo dei paletti nel contratto di finanziamento (le condizioni contrattuali), non potendo agire direttamente sull’azienda. Problemi di asimmetria informativa: riassunto Abbiamo elencato otto regolarità empiriche: la tabella riassuntiva cerca di spiegare quali sono gli strumenti usati per risolvere i problemi tipici di negoziazione di contratti finanziari, selezione avversa ed azzardo morale, quest’ultimo si presenta sia nel contratto di capitale di rischio che nel contratto di debito. • Selezione avversa: - produzione di informazioni da parte di agenzie private (le agenzie di rating) - intervento del legislatore a stimolare i privati ad essere trasparenti e produrre informazioni (vedi obbligo di certificazione di bilancio) - ricorso all’intermediazione finanziaria: gli intermediari hanno maggiori capacità di selezione a seguito di una maggiore abilità nel raccogliere informazioni, inoltre i loro servizi utilizzano contratti opachi difficilmente osservabili dall’esterno - garanzie e livello di capitalizzazione (se parliamo dell’impresa richiedente): a volte, quando l’intermediario è in dubbio sulla bancabilità del potenziale debitore, gli richiede di evidenziare questa sua buona qualità; anche essere padrone povero di una impresa ricca segnala un’impresa ben capitalizzata e destinata a crescere • Azzardo morale (contratti azionari): il problema principale è fra il manager azionista di minoranza e gli azionisti di maggioranza. Necessario allineare gli incentivi dei due soggetti. - monitoraggio: azione di controllo ancora una volta basata sulla produzione di informazioni; problema di opportunismo, un piccolo azionista non ha interesse a controllare il potere dei manager, sono i grandi azionisti ad avere questa forza. C’è un problema quindi di produzione privata di informazione che non avviene facilmente in caso di azionariato molto frazionato: rischio che chi ha interesse a controllare non ha convenienza economica a farlo - intervento statale: produzione pubblica di informazioni mediante sollecito statale; costringere la società a divulgare informazioni di varia natura, innanzitutto di carattere contabile, con frequenza maggiore a quella tipica delle società non quotate (che sarebbe 1 volta all’anno), ma anche controlli relativi all’assetto proprietario - intermediazione finanziaria: esempio venture capital, che entra in società non quotate finanziandole chiedendo però alti posti nel management e negli organi societari, in modo da evitare comportamenti opportunistici - scegliere il contratto di debito, meno dispendioso dal punto di vista del controllo, perché molto più facilmente controllabile. Mentre nel contratto di partecipazione posso perdere tutto il io capitale e avere remunerazione nulla dal momento che non c’è obbligo di remunerazione nei confronti degli azionisti, in quello di debito si ha una scadenza, una remunerazione minima garantita che è il tasso di interesse, un capitale finale restituito che è il valore nominale. Finché il prenditore di fondi onora i suoi impegni non si pone il problema di azzardo morale, se non adempie ci si rivolge al giudice e i creditori subentrano nella gestione cercando di recuperare il loro capitale, o attraverso una ristrutturazione e successivo rilancio dell’impresa, o mediante liquidazione. Anch’esso presenta dei problemi, perché una volta che un’impresa risulta finanziata, il debitore ha tutto l’interesse ad occultare informazioni negative o ad investire in maniera ottimale per lui e non per il creditore il capitale avuto in prestito. Occorre quindi che la banca continui a controllarlo, e lo fa mediante il livello di capitalizzazione, contratti molto precisi e vincolanti, clausole specifiche. Spesso ricorso ad intermediari finanziari, meglio in grado di controllare il comportamento del debitore anche ex post rispetto alla stipula del prestito, inoltre tendono a sviluppare nel tempo una conoscenza più approfondita dei clienti che finanziano, mediante l’osservazione del comportamento del cliente prolungata e in ambiti diversi • Azzardo morale (contratto di debito): bene o male le stesse I CONFLITTI DI INTERESSI Un comportamento opportunistico che serve per approdare alla questione delle crisi finanziarie è il conflitto di interessi. Il problema agente-principale, dove c’è un mandante che sa più del mandatario e pertanto ha incentivo a farsi più gli affari propri che quelli di quest’ultimo, è da sempre un problema nel caso del conflitto di interessi. Il conflitto di interessi è un fenomeno che non si manifesta quando la banca “fa solo la banca”, cioè è un’impresa mono prodotto che fra credito facendo provviste di fondi, ma che emerge in particolare negli intermediari finanziari moderni, cioè polifunzionali, tuttofare, moderne banche che non si limitano a svolgere la funzione di intermediazione congiuntamente a quella monetaria, ma che svolgono parallelamente attività di natura finanziaria. Fanno quindi molto di più che raccogliere depositi per consegnarli in debito: prestano servizi di natura differente e traggono beneficio dall’essere imprese multi prodotto, perché gli stessi costi di produzione sono spalmati su più prodotti quindi è più facile per loro costruire economie di scala. Il loro problema è che prestano più servizi rispetto ai quali hanno interessi multipli in competizione fra loro, da qui la loro esposizione a problemi di opportunismo. Potrebbero infatti essere spinte a fare il proprio interesse più che quello del cliente o trovarsi a perseguire interessi di clienti fra loro in contrasto. La regolamentazione dei conflitti di interessi è stata soggetta a vari interventi, diverse direttive europee sono state introdotte al riguardo al fine di difendere il contraente debole (il cliente) dall’intermediario e la sua superiorità informativa. La cosa importante che la regolamentazione cerca di fare è farli emergere, cioè costringere intermediari ed emittenti a renderli palesi, in maniera che ciascun attore possa a quel punto prendere in considerazione il rischio di non essere tutelati, partecipando ad una operazione, nei propri diritti. I conflitti emergono in maniera patologica, determinando l’esplosione di crisi finanziarie, in tre casi principali: 1) Conflitto fra l’attività di sottoscrizione di strumenti finanziari per il pubblico e l’attività di ricerca. Questo problema negli Usa era concentrato nelle banche di investimento, perché separate dalle banche commerciali. Le prime aiutano i soggetti che emettono titoli a trovare sottoscrittori, le secondo fanno raccolta di depositi. In Europa invece, dove banca commerciale e di investimento si uniscono, il problema ha riguardato soprattutto le commerciali. In questo conflitto, chi si occupa del collocamento di valori mobiliari compra a fermo i titoli dall’emittente per rivenderli sul mkt agli investitori finali. Per fare promozione a queste vendite al pubblico, questi soggetti effettuano un’attività di analisi economica che contemporaneamente si rivolge sia all’emittente che agli investitori finali. Qui il conflitto si manifesta subito: l’emittente, che vende i titoli alla banca, ha interesse ad avere una ricerca che sia ottimistica sulle prospettive di crescita del valore dei prezzi dei titoli che si vogliono vendere agli investitori finali, quindi vuole una ricerca che si auspica dia solo giudizi positivi e che non sia critica nei suoi confronti. Al contrario, l’interesse degli investitori finali è quello di avere una ricerca il più possibile oggettiva, quindi critica delle operazioni a loro proposte. Fra i due, prevale la clientela corporate, secondo l’evidenza empirica. I consigli per gli acquisiti dati dagli analisti erano sempre positivi, quindi il consiglio positivo era di comprare (“strong buy”), il giudizio più critico dato era quello di “mantenere”, quindi non vendere. Questo contro l’interesse dell’investitore finale, tuttavia la politica generale è quella di evitare di bastonare i propri emittenti. In tal modo questi intermediari facilitano anche la loro attività di collocazione. Quando le banche commerciali operano come banche di investimento soffrono di un altro conflitto. In Europa le banche di investimento sono anche commerciali, quindi conoscono quel cliente magari perché già hanno un’esposizione debitoria come banca commerciale nei suoi confronti perché lo accompagnano sul mkt anche per fare emissioni azionarie e obbligazionarie. Spesso quando una società si quota in borsa, fra le banche che si occupano dell’underwriting, del collocamento, della ricerca, ci sono le “banche di casa”, di fiducia dell’imprenditore. Quindi c’è già una propria esposizione debitoria della banca nei confronti dell’emittente, da qui il rischio della sostituzione del debito con la banca con il debito nuovo fatto sul mkt con il mkt mobiliare. Si pensi a una banca che ha fidato un’impresa, nella quale non crede più come prima, proprio perché stando dentro come finanziatore bancario conosce l’andamento della gestione da tempo e quindi è in grado prima di altri soggetti più esterni di capire come la gestione stia andando. Se per esempio attraverso l’azione di monitoraggio ha notato qualche campanello d’allarme, se vuole ridurre la sua esposizione al rischio dato che le sembra stia aumentando, può spingere il cliente verso l’emissione di valori mobiliari destinati al pubblico (emissione obbligazionaria), partecipare al consorzio che dà vita all’operazione e con i proventi imporre per contratto la restituzione totale o parziale di parte dei crediti che la banca ha concesso. La banca ha una comoda via d’uscita in caso di rischio: fa emettere azioni all’impresa, che quindi compie un aumento di capitale, parte dei proventi verranno girati alla banca così che parte dei debiti nei confronti di quest’ultima vengano estinti, in tal modo la banca sostituisce alla propria esposizione patrimoniale quella di un pubblico di nuovi azionisti che ha sottoscritto suddette azioni in maniera non del tutto consapevole. Le norme in materia di conflitti di interessi spinge le banche che si occupano del collocamento e lo stesso emittente a rivelare l’esistenza di questo conflitto, e ciò viene fatto indicando questo rischio nel documento “prospetto informativo”. Se questo conflitto non viene contenuto si rischia di non avere più quotazioni, di non avere più società disposte ad emettere, perché sorge il motivato dubbio che approdino alla quotazione o all’emissione destinata al pubblico solo coloro che hanno problemi con le banche e quindi si diffida dal comprare. 2) Conflitto fra attività di revisione contabile e l’attività di consulenza. È più tipico del sistema anglosassone, dove a un certo punto le società di certificazione di bilancio di revisione contabile, per aumentare il loro giro di affari, sono entrate nel business della consulenza. Infatti, il servizio di corretta applicazione contabile, era un’attività inizialmente redditizia ma che per via della concorrenza si è via via svalutata. Da qui la necessità di diversificare il loro ptf di servizi spingendosi in nuovi settori, soprattutto quello della consulenza di diverso tipo: fiscale, informatica, revisione contabile… La consulenza è un’attività ad alto valore aggiunto. La prestazione di entrambi i servizi, uno importante dal punto di vista regolamentare, la certificazione e revisione, ma non più così redditizio, e la consulenza, invece molto remunerativo, ha determinato dei conflitti, perché le due quote di utili andavano via via divaricandosi (rispettivamente l’uno rendeva sempre di meno, l’altro sempre di più). Poiché l’attività di consulenza era scarsamente regolamentata, si iniziò ad essere meno fiscali anche nel certificare i conti aziendali, perché spesso chi lo faceva si trovava non solo a dover rivalutare la contabilità tenuta dall’impresa, ma anche le decisioni prese da essa sulla base dell’attività di consulenza prestata dalla stessa società. Quindi i revisori, che dovrebbero essere fiscali e incorruttibili, iniziano ad avere difficoltà perché le stesse società a cui certificano il bilancio si rivolgono alla loro società di revisione per acquistare pareri che poi impiegano nel fare il bilancio che deve essere valutato dal revisore, cioè la stessa persona che dà i consigli per redarlo. È difficile che egli vada contro a consigli dati dalla stessa società per cui lavora, è necessaria una separazione di attività. La commistione delle due ha portato al fallimento di importanti società, fra cui Arthur Andersen, perché l’unico modo per governare questo conflitto è separare le due attività. 3) Conflitto delle agenzie di rating. Le agenzie di rating hanno sempre dato delle valutazioni sul rischio di fallimento degli emittenti. Finché svolgono solo questo servizio, l’unico rischio corso è legato alla possibilità che il valutato corrompa l’agenzia per ricevere un giudizio migliore di quello che si merita. Quando però queste agenzie svolgono anche attività di consulenza e consigliano come strutturare l’emissione al pubblico di titoli obbligazionari, accade che si trovano contemporaneamente a dare un giudizio sul merito creditizio dell’emittente e a valutare la qualità del proprio lavoro come consulente nella strutturazione di quella medesima emissione. Diventano insieme giudice e giudicato. Delle due attività la lucrativa è diventata la consulenza, quindi nel giudicare la qualità di emissioni svolte con la consulenza di queste agenzie, i giudizi sono diventati in fretta tutti positivi. Le operazioni erano quindi tutte tripla A con rischio molto basso a causa di questo conflitto di interessi. Suddetto conflitto ha portato all’innesco della crisi finanziaria del 2008 e le agenzie di rating sono i principali imputati della bolla speculativa. Quando gli interessi poi iniziarono a non venire rimborsati a scadenza o addirittura affatto, il mkt iniziò a rendersi conto che quelle valutazioni erano fittizie. Da qui le agenzie hanno dovuto procedere al declassamento, ricredersi nella valutazione, scatenando un effetto di rivalutazione generalizzato e causando un vero e proprio effetto domino in quest’ambito. Per evitare questi conflitti sono state emanate due direttive, le MiFID, una prima versione del 2004, una seconda del 2014, che contengono una serie di regole per tenere sotto controllo questa serie di rischi, senza le quali potrebbero determinare fallimenti diffusi e in seguito catene di fallimenti. CAPITOLO 5 – LE CRISI FINANZIARIE Le crisi finanziarie sono un problema endogeno delle economie capitaliste, si ripresentano ciclicamente circa ogni qualche decennio. Una crisi finanziaria è innanzitutto una conseguenza di asimmetrie informative, di esplosioni di problemi legati ai conflitti di interessi. Un problema di natura informativa è sempre alla radice della nascita e dell’esplosione delle bolle che accompagnano questi fenomeni. Accade normalmente quando le informazioni non circolano e sono difficilmente credibili, portando un blocco delle negoziazioni. Questo determina conseguenze finanziarie (blocco dei mercati che smettono di funzionare) ma anche reali (vere e proprie recessioni dell’industria). Normalmente gli economisti usano il termine di “frizioni finanziarie” per indicare appunto queste imperfezioni nella produzione e distribuzione delle informazioni che determinano l’incapacità degli operatori di valutare la qualità dei servizi finanziari oggetto di scambio. Questo provoca un aumento degli spread creditizi, cioè della differenza fra i tassi di interesse pagati dai prenditori privi di rischi e quelli molto rischiosi. Quello che accade è che il circuito dell’intermediazione si blocca e quindi il trasferimento di fondi a sua volta, provocando catene di fallimenti nelle imprese, nelle banche, una sorta di fenomeno catartico che determina la scomparsa dal mercato degli anelli più deboli della catena e quindi la successiva ripresa dell’economia. Questo salvo che non emerga la terza fase, quella della deflazione. Le tre fasi di una crisi finanziaria Prima fase Si riscontra un’attività di crescita effervescente del credito bancario concesso dal sistema degli intermediari alle famiglie e imprese. Risulta facile ricevere credito, perché la liquidità è abbondante, è vantaggioso in termini di tassi di interesse, i criteri per riceverlo sono molto generosi fino ad arrivare a una carenza nei controlli tramite screening. Questo accade perché il credito è facile non solo dalle banche alle famiglie, ma perché lo è anche dalla BC alle banche. Se la politica monetaria è espansiva, le banche fanno poca fatica a fare provvista di fondi, il credito per loro costa poco e di conseguenza costerà poco anche per le famiglie. Con questo credito le famiglie normalmente investono prevalentemente in attività reali, in particolare in immobili, da qui si crea la bolla speculativa relativa al prezzo di queste attività, prima delle immobiliari poi anche di quelle finanziarie, perché il credito facile può essere usato anche per investire nei mkt mobiliari. Si fa anche ricorso alla leva finanziaria, investendo non solo i soldi che si possiedono ma anche quelli che non si hanno, si sovrainveste anche quanto si prende a prestito, magari ciò che si compra diventa garanzia reale per ottenere credito dal sistema bancario. Questo meccanismo si autoalimenta: se i mutui ipotecari ad esempio si ottengono facilmente, diventa facile fare debiti per investimenti di natura immobiliare, molti ricorreranno al debito appunto ipotecario per fare questo tipo di investimenti, di conseguenza il prezzo di immobili e terreni aumenterà, con esso il valore delle garanzie da dare, e questo consente di avere crediti di importo sempre maggiore. Credito facile investo nel mkt immobiliar e prezzo immobili aumenta prezzo garanzie che posso dare aumenta il mutuo che posso ottenere aumenta a sua volta A un certo punto qualcuno si rende conto dell’irrazionalità delle quotazioni, che le azioni hanno raggiunto rendimenti non più coerenti con l’andamento aziendale. Quando questo accade, la bolla si sgonfia, perché nessuno è più disponibile a comprare immobili a prezzi senza più collegamento con la realtà, scende così il valore delle garanzie, di conseguenza i mutui non sono più iper garantiti come al momento della loro concessione (“underwater”), perché il valore del prestito non è più commisurato al valore delle garanzie. Il debitore si rende conto di avere un debito con la banca superiore a quello del bene dato a garanzia: non ha nessun incentivo a ripagare il suo debito residuo, ha invece incentivo a consegnare il bene alla banca e chiudere il rapporto, operazione oltretutto legittima in molti stati americani. Quello che rischia di perdere, infatti, vale meno di quello che dovrebbe pagare per estinguere il debito. Il debitore di anno in anno nel 2008 andava avanti a estinguere il debito vecchio aprendone uno nuovo più grande, perché nel frattempo il valore dell’immobile, ossia della garanzia, era aumentato, e quindi la banca rivalutando questo valore era disposta a concedere un mutuo maggiore di quello in corso di rimborso. Questo va avanti finché il valore delle quotazioni aumenta. Infatti, se ho dato in garanzia obbligazioni il cui valore si raddoppia, ho la possibilità di richiedere alla banca altri debiti o comunque di integrare il valore del prestito, perché appunto essa ha in pegno qualcosa che si è rivalutato. Questa cosa non va avanti all’infinito: anziché aumentare infinitamente il valore degli immobili, può succedere che le quotazioni dei mkt inizino a scendere, a quel punto i debitori sono incentivati a dichiarare default perché non gli conviene pagare le rate del mutuo dato che ciò che si perde vale meno di quanto si dovrebbe rimborsare tramite il pagamento del debito. Dal lato istituzionale, le banche hanno ottenuto in garanzia degli immobili di cui hanno via via rivalutato il valore di perizia, cioè di presumibile realizzo in caso di vendita all’asta della garanzia a seguito del default di un loro debitore. La banca si trova ad avere ipoteche, cioè garanzie reali che può escutere, il cui prezzo di realizzo nelle aste non consente di realizzare valori allineati a quelli inizialmente stimati che hanno determinato l’erogazione di un certo mutuo, perché il valore delle garanzie rapidamente scende. Significa che prestiti che sembravano sicuri, nei quali cioè il rimborso del capitale residuo era solo questione di tempo, quello necessario a mettere all’asta l’immobile a garanzia, ora non sono così certi anzi tutt’altro, diventa difficile liquidare il valore di queste garanzie, appunto perché ai prezzi nei quali la banca vuole rientrare (i prezzi di perizia) non c’è nessuno disposto a comprare. Questo costringe le banche a svalutare il valore dei loro crediti, perché la garanzia a presidio del valore non c’è più. Sono prestiti malati (“sofferenze”). Il bilancio delle banche quindi peggiora, le perdite sui crediti vanno spesate in conto economico e quindi gli utili si riducono: se le sofferenze sono molte, queste rettifiche di valore dei prestiti possono diventare così grandi da assorbire tutti gli utili aziendali generati dalle altre aree di attività portando il bilancio complessivo in perdita. Ciò può determinare una riduzione del patrimonio netto delle banche, cioè della ricchezza degli azionisti. Il livello di patrimonializzazione interessa le banche quando danno soldi alle imprese. Uno dei modi per ridurre il rischio di selezione avversa e azzardo morale è che il debitore sia povero e l’impresa ricca. Stesso ragionamento fa l’autorità di vigilanza nei confronti delle banche, che in questo caso sono i debitori. Tutta la regolamentazione moderna degli intermediari finanziari e in particolare delle banche guarda al livello di capitalizzazione. Mentre per le imprese è solo una delle cose a cui le banche guardano per la selezione, nel rapporto vigilanza-banche, quando cioè è la BC che valuta il merito creditizio, il grosso del controllo riguarda questo e ci sono dei livelli minimi da rispettare, i “coefficienti patrimoniali” o “livelli minimi di patrimonializzazione”. I coefficienti di Basilea determinano poi la capacità delle banche di rimanere in attività prima che il patrimonio netto si azzeri. Mentre le imprese chiudono quando il livello è negativo, le banche possono chiudere quando questo livello è ancora positivo ma ritenuto troppo basso. Necessario tenersi sopra a questi livelli minimi. In questi casi, l’autorità di controllo può richiedere una ricapitalizzazione o addirittura una liquidazione, cioè nel timore che la banca diventi insolvente affida a qualcun altro la sua gestione, che deciderà se ricapitalizzare la banca in modo che ritorni sopra i livelli minimi, oppure fare a pezzi il portafogli di attività e cederlo a vari interlocutori. Chi gestisce la banca vuole evitare queste ultime due opzioni, quindi per cercare di rialzare il livello di patrimonializzazione (patrimonio netto/tot attività), deve fare in modo che il denominatore scenda più rapidamente del numeratore che cala a seguito delle perdite, cioè deve ridurre la dimensione dei prestiti. Questo costringe le banche a ridurre i crediti concessi: da un lato devono svalutare i prestiti, dall’altro evitare di concederne di nuovi, oppure devono chiedere alle imprese solvibili di rimborsare anticipatamente. È infatti difficile far aumentare il numeratore (i soci difficilmente mettono altro capitale in questi casi). Seconda fase Nella seconda fase accade che le banche smettono di concedere nuovo credito, in parte perché le garanzie hanno un valore che sta rapidamente diminuendo, in parte per bilanciare il rapporto, quindi il mkt del credito, dopo una fase di boom, affronta una fase di bust. Se prima la bolla si autoalimentava, continua a farlo ma al contrario nella fase di bust: le imprese hanno difficoltà ad accedere a nuovi finanziamenti e addirittura a ottenere conferma di quelli in essere. Se anche il problema è localizzato in una zona specifica del sistema bancario, questo è basato su reti di relazioni creditizie: ogni banca è indebitata con le restanti, quindi se falliscono delle piccole banche anche le altre ne risentono. Il sistema è in grado di mantenersi grazie ai meccanismi di tutela solo se falliscono poche piccole banche. Questo determina il venir meno della fiducia del sistema finanziario complessivamente considerato. Quindi da un lato le banche smettono di avere fiducia le une nelle altre, e questo determina il blocco del mercato del credito interbancario, e automaticamente anche il mercato del credito al dettaglio va in crisi, perché funziona che il credito va dalla BCE alle banche alle famiglie. Ne segue che le banche fanno fatica a finanziarsi per questo motivo, ma fanno fatica a fare raccolta anche perché senza meccanismo di assicurazione i depositanti faticano a fidarsi del sistema bancario. Quindi il meccanismo della crisi arriva dai mercati all’ingrosso a quelli al dettaglio. Può accadere che il debitore si trovi ceduto a un’altra banca finanziatrice più sicura, ma quello che si cede è la operazione, non il patrimonio di conoscenza che ha portato a suggellare il rapporto bancaimpresa, la banca perde con il fallimento tutto il capitale umano che ha accumulato nel tempo anche con impiego di risorse. Il ruolo delle asimmetrie informative diventa sempre più alto. Non tutte le imprese riescono a sostituire i loro creditori con nuove banche finanziatrici, alcune falliscono perché non riescono a ricevere prestiti a causa di un sistema bancario che si sta riducendo di dimensioni. L’attività economica quindi declina. Vengono espulsi gli anelli deboli della catena economica, si ha una fase di ripulitura dell’industria, da qui l’attività economica riprende. Quindi fase di riduzione del sistema bancario ed economico a cui segue una ripresa di entrambi grazie all’espulsione degli anelli deboli. Terza fase Ci può essere però una terza fase, quella che si è manifestata anche nella crisi del 2007-2008. Anziché esserci una ripresa dell’attività economica con moderata inflazione, ci può essere una fase di deflazione, cioè di calo inatteso del livello dei prezzi, oppure una mancata ripresa dell’attività accompagnata da una deflazione. Quest’ultima è molto pericolosa alla fine di una crisi finanziaria, perché determina un aumento del peso in termini reali dell’indebitamento su famiglie ed imprese. In un’economia con inflazione la moneta usata per rimborsare il debito ha valore calante nel tempo. Con la deflazione invece, e in più se il livello di indebitamento è già molto alto, accade il contrario, diventa difficile pagare quel debito perché il calo dei prezzi determina un aumento dell’onere in termini reali. Una deflazione può ammazzare la ripresa economica. Alla base le crisi finanziarie hanno la responsabilità del sistema bancario. Nel caso delle banche italiane, prima degli anni 90 c’era una legge che impediva alle banche di farsi pienamente concorrenza. Si è poi passati a una nuova legge bancaria, il Testo Unico del 1993, che ha liberalizzato invece la loro attività, rendendo più facile la concessione dei crediti. Appena le banche hanno potuto aprire sportelli e fare credito dove volevano, hanno iniziato ad approfittare di questa libertà in maniera irresponsabile, favorendo una bolla creditizia che però non è arrivata ad alimentare una bolla nel mercato delle attività reali e di tipo finanziario. Arrivata la recessione, le banche si sono rese conto di aver concesso troppo credito, perché questa sbornia da liberalizzazione le aveva portate a prendere clienti per importi che erano un multiplo della loro effettiva capacità di sopportazione di suddetto debito. C’è stata una bolla creditizia che le banche sono riuscite a gestire attraverso la leva del coefficiente patrimoniale e del loro livello di patrimonializzazione. Nel caso della crisi del 2008, anche qui c’è stato un effetto legato a una liberalizzazione, quella del caso americano del credito facile ai soggetti con problemi creditizi, i cosiddetti sub prime. L’obiettivo era una maggiore democratizzazione del mercato della proprietà edilizia, che è quello dei crediti ipotecari. C’è stato un tentativo di rendere bancabili soggetti problematici, e il meccanismo si è autoalimentato, coinvolgendo soggetti sempre meno solvibili (soggetti disoccupati ad esempio). CAPITOLO 6 – LE BANCHE Dal punto di vista economico, la banca è un intermediario finanziario che svolge due funzioni congiuntamente, quella creditizia e quella monetaria. Cioè, è abilitato sia a raccogliere risparmi dal pubblico sia a prestare questi ultimi, dopo averli opportunamente trasformati in impieghi, in particolare in prestiti, cioè contratti personalizzati quindi opachi. C’è però anche una definizione data dalla regolamentazione. Nel nostro paese l’ordinamento finanziario è costituito da due grandi testi unici e un terzo dedicato alle assicurazioni, che sono: il Testo Unico delle Banche (TUB), risalente al 1993 e viene aggiornato con cadenza pressoché annuale, il Testo Unico dell’Intermediazione Finanziaria (TUIF), del 1998, anch’esso soggetto a revisione continua, e riguarda quella parte di ordinamento finanziario che si occupa esclusivamente del circuito diretto, infine il Codice delle Assicurazioni Private. La definizione di attività bancaria è contenuta nel TUB, all’art. 10, ed è coerente con quella economico-finanziaria fornita. Esso afferma che: 1. La raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa. La prima attività, quella della raccolta, è inteso essere esercitata attraverso qualsiasi strumento di debito, i depositi ne sono la forma più rilevante. I contratti ammessi sono tutti quelli di indebitamento, tutte quelle forme di raccolta di risparmio che prevedono l’utilizzo di un contratto con obbligo di rimborso del capitale raccolto al creditore, concetto molto più ampio che comprende anche strumenti cartolarizzati per la raccolta. L’altra attività, l’esercizio del credito, si svolge anch’esso usando il contratto di debito come standard. Si afferma poi che le banche sono delle imprese. Inizialmente in realtà, fino alla fine degli anni 80, la gran parte del sistema bancario era pubblico. La maggior parte delle banche erano enti pubblici (fondazioni, associazioni), quindi non imprese ma aziende che non avevano come scopo quello di fare utili, perché non c’erano i soci e gli azionisti, ma quello di diffondere servizi finanziari, da un lato per far risparmiare, dall’altro per favorire l’accesso al canale creditizio anche da parte dei settori della società più svantaggiati (imprese di piccole dimensioni e famiglie). Non si poteva quindi diventare soci, azionisti delle banche. Essendo un sistema pubblico le varie figure di spessore erano elette dai partiti politici, mediante la legge Cencelli (ripartiva le cariche in relazione al peso politico di ciascun partito). Il processo di trasformazione del sistema bancario italiano è iniziato negli anni 90, quando Emiliano Amato, allora ministro del Tesoro, decise di porre fine a questa lottizzazione del sistema finanziario, emettendo la legge Amato che costrinse tutte le banche a privatizzarsi. Culmine di questa fase fu proprio l’articolo 10. Le banche ora hanno padroni, soci a cui dar conto, così come stakeholder, e il loro obiettivo è fare utili per gli azionisti. Nei primi anni di trasformazione, le ex banche pubbliche non sono diventate immediatamente imprese nella pratica, perché l’associazione aveva dovuto scorporare l’attività bancaria svolta dall’ente per conferirla a una nuova spa appositamente costituita, e questo non ha effetti immediati, perché le azioni derivanti da ciò furono conferite all’ente morale che si era appunto privato di questa attività. L’ente morale quindi era di fatto diventato un azionista privato, formalmente un’impresa, ma non aveva ancora degli azionisti veri e propri perché in una prima fase i padroni non erano cambiati. 2. L’esercizio dell’attività bancaria è riservato alle banche. Le due attività, che insieme costituiscono l’attività bancaria non possono essere svolte da nessun altro intermediario finanziario, le banche hanno l’esclusiva su di esse. È ammesso però il loro esercizio disgiunto, infatti ci sono intermediari che non svolgendo congiuntamente queste due funzioni sono comunque regolati dal TUB. Esistono società finanziarie che svolgono solo l’attività creditizia (concedono solo crediti alle imprese) o solo quella monetaria (prestano solo servizi di pagamento). 3. Le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali. Sono salve le riserve di attività previste dalla legge. Le banche non sono più solo banche di deposito, si innestano una serie di altre attività classificabili in due categorie, finanziarie e connesse o strumentali (es. quella informatica). Inoltre, in altri punti del TUB e in altri testi normativi sono elencate alcune attività che la legge riserva ad altre tipologie di intermediari diversi dalla banca. Esempio: attività assicurativa, non svolgibile direttamente dalle banche, ma solo dalle assicurazioni. Questo non significa che le banche non possano proporre polizze di vario tipo, ma devono avvalersi della collaborazione di una società prodotto, anche controllata da esse ma con un proprio consiglio di amministrazione autonomo. Ancora, i fondi comuni di investimento, la banca prende commissioni ogni volta che chiude contratti del genere ma non possono svolgerli direttamente. Il problema delle società-prodotto è di non avere una rete di vendita, non hanno la stessa capacità di rendita degli istituti bancari. L’art. 11 definisce cosa si intende per “raccolta di risparmio”. Non parliamo solo di piazzare depositi a risparmio o a conto corrente presso i clienti delle banca, ma è acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, quindi un debito. Qualsiasi contratto inquadrabile all’interno del contratto di indebitamento è configurabile come raccolta di risparmio. Questo comma ha una serie di deroghe importanti: la raccolta di risparmio è fatta da tutte le società quotate diverse dalla banca perché vendono azioni, sia nuove che vecchie, al pubblico. L’altra eccezione più importante è quella dei titoli di Stato. Aree di attività delle banche Oltre alla raccolta di risparmio e all’esercizio del credito, esistono numerose attività inquadrate nelle attività finanziarie. Questo elenco è stato per la prima volta introdotto nel TUB a seguito di una delle prime modifiche fatte da quest’ultimo, dovuta all’emanazione delle prime due direttive comunitarie in ambito di coordinamento in materia bancaria. Con esse è stato recepito un diverso modello di banca di ispirazione tedesca, quello delle banca tuttofare. Questo tipo di banca svolge oltre all’attività bancaria anche altre attività finanziarie. Le possibili aree sono: • servizi di pagamento = in parte connaturati alla definizione di attività bancaria (il cliente deve accedere ai propri depositi), ma è compresa anche la vendita di servizi di pagamento di altri soggetti. Es. vendere carte collegate a circuiti di altri intermediari, non alla banca di riferimento. • servizi di intermediazione mobiliare = questo tipo di attività, fino alla fine degli anni 80, era riservata alla figura dell’intermediario professionista, l’agente di cambio. Nel 1991 la sua figura è stata abolita e sostituita con un intermediario mobiliare, una società all’epoca chiamato “SIM”. Per un breve periodo, dal 1991 al 1993, tutta questa attività era riservata a questo nuovo intermediario e le banche non potevano comprare e vendere titoli diversi da quelli di Stato per la loro clientela. Con l’arrivo delle direttive, l’attività di intermediazione mobiliare è stata liberalizzata, le banche potevano creare una propria divisione che se ne occupasse. Questo tipo di servizi, attualmente chiamati “di investimento”, consistono nel servizio di negoziazione in conto terzi (consentire al cliente di comprare e vendere titoli già presenti fra il pubblico), negoziazione in conto proprio (la banca direttamente si costituisce come controparte comprando e vendendo), l’underwriting (servizi di sottoscrizione), pressment (collocamento, cioè aiutare gli emittenti a strutturare le proprie emissioni e a venderle sul mercato), la gestione professionale del risparmio, sebbene alle banche sia consentita solo quella individuale, perché la gestione in monti o collettiva (fondi pensione e fondi comuni) è un’attività riservata per legge alle SGR. Infine, gestione di mtf, sedi di negoziazione che non siano mercati regolamentati. • servizi di custodia e amministrazione dei titoli = quando la clientela diventa un investitore in borsa, inizia a detenere obbligazioni, azioni, quote di fondi comuni. È necessario avere qualcuno che si occupi di detenere un archivio dati elettronico in modo da sapere quanti titoli ha ciascun azionista, prendendo nota di eventuali trasferimenti di proprietà. Il servizio di custodia è statico: l’intermediario si limita a custodire i titoli dei propri clienti, la parte dinamica è l’amministrazione. Infatti, chi detiene titoli ha diritti di natura patrimoniale e amministrativa che deve essere messo in condizione di esercitare. L’amministrazione si occupa al posto del cliente di esercitare questi diritti, incassando al posto suo interessi, cedole, accedendo alle assemblee. L’alternativa sarebbe che lo stesso cliente si occupasse di gestire questi aspetti direttamente. • servizio di cassette di sicurezza = servizio di custodia fisica; se si hanno beni preziosi, lingotti d’oro, banconote, si utilizzano queste cassette in banca. • crediti di firma = le banche concedono credito per cassa, cioè fanno prestiti monetari, e questa è l’attività prevalente della funzione creditizia; ma ci sono altri due generi di prestiti, quelli di firma e quelli di titoli. I crediti di firma sono operazioni di prestito in cui la banca non mette a disposizione del debitore del denaro, ma la propria solvibilità, la propria garanzia. Questa la si ottiene mediante la firma di un esponente della banca a prendere impegni per quest’ultima. In tal modo le imprese possono spendere il nome di un soggetto notoriamente solvibile per concludere altri affari. Sono molto importanti nell’attività di import-export. Nei crediti di titoli invece quello che si fa è dare a prestito dei valori mobiliari (azioni o obbligazioni). Se c’è qualcuno che specula al ribasso su un titolo azionario o di Stato, per vendere ora e ricomprare più avanti a un prezzo più basso, serve qualcuno che presti questi titoli (vendita allo scoperto). • consulenza alle imprese = esistono due tipi di consulenze prestabili dagli intermediari. Quella regolamentata e quella agli investimenti, quest’ultima si fa normalmente a investitori individuali nell’investimento dei propri risparmi. La prima è “corporate”, fatta alle imprese, i debitori della banca. La consulenza alle famiglie rientra fra i servizi di investimento, riservata agli intermediari bancari o alle imprese di investimento. La consulenza è regolamentata nel momento in cui il consulente è iscritto all’albo dei consulenti, deve avere una documentata e attestata competenza nell’ambito. La consulenza alle imprese invece è libera, quindi aperta a qualsiasi soggetto sedicente competente. A fianco vi è l’elenco citato comprendente tutte le attività svolgibili dalle banche per legge. Evidenziati in giallo ci sono i servizi di investimento, le attività finanziarie più importanti perché determinano la maggior parte degli utili. Quindi come minimo le banche moderne sono commerciali e di investimento. Se volessimo raggruppare tutte queste attività in quattro aree fondamentali, avremmo: 1) raccolta di risparmio = attraverso depositi e strumenti finanziari, dove la banca raccoglie fondi vendendo propri debiti, ma anche attraverso la raccolta indiretta (vendita di titoli emessi da altri soggetti), che significa che la banca non raccoglie i fondi dai propri clienti ma consente ad altri di farlo, per poi non venire depositati presso la banca ma investiti in titoli emessi da qualcun altro. La raccolta indiretta consente comunque alla banca di tenere il cliente, non lo avrebbe se non offrisse questo servizio. La banca guadagna incassando provvigioni dalla vendita di titoli di qualcun altro. 2) credito = la banca fa credito quasi solo a famiglie e imprese. Può essere nelle forme tipiche del credito bancario o nelle forme delle società prodotto, altri tipi di intermediari specializzati nel fare credito in forme non tradizionali. I due contratti tipici di questo ambito sono il factoring e il leasing. 3) servizi finanziari = tutti gli altri servizi che esulano dai primi due 4) investimenti in partecipazioni = la vecchia regolamentazione che un tempo impediva loro di comprare azioni è stata superata. Il nuovo modello è quello della banca mista, vuol dire che l’intermediario è sia creditizio che di partecipazione, e secondo esso la banca può diventare azionista significativo ma mai di maggioranza nelle imprese a cui fa prestiti. In questi casi è quindi contemporaneamente socio e creditore dei propri clienti. L’esperienza della banca mista in Italia è già avvenuta e fu fallimentare: prima della legge bancaria del 1936, già si prevedeva come modello quello della banca mista. Successe che le grandi banche italiane dell’epoca divennero padrone dei grandi gruppi industriali e commerciali, che a loro volta erano azionisti di controllo nelle medesime banche (“mostruosa fratellanza siamese” – Mattioli). Venne quindi meno la sana separatezza fra banca e clientela. Con l’arrivo della crisi della fine degli anni ‘20, questo rapporto si incrina, perché la crisi riguarda l’industria, ma la banca, essendovi così legata, ne risente anch’essa, vede andare i propri prestiti in malora. Ha quindi incentivo, dal momento che è anche padrona di questo mondo industriale, a fornire altro credito all’impresa per scongiurare il fallimento. Si verificò il doppio fallimento del sistema bancario ed industriale, dato che non vi era separatezza. Da qui si è prevista la totale separatezza, e ritorniamo alla banca che non poteva investire in azioni. Nel 1993 questa separatezza fu nuovamente rimossa, si ritornò all’esperienza della banca mista, regolamentando l’attività di investimenti in partecipazioni delle banche nell’industria, prevedendo che la prima non potesse diventare padrona della seconda. Comprano azioni non con l’ottica dello stabile investimento, ma per fare profitto, utili per rimpinguare quelli fatti con attività tradizionali. Le funzioni delle banche - intermediazione creditizia Le banche svolgono due tipi di attività, la prima è di trasformazione di attività/passività. Sappiamo che il passivo delle banche ha tre caratteristiche: - breve scadenza, perché i datori di fondi prediligono una scadenza non lunga dei loro investimenti - raccolta diretta prevalentemente al dettaglio, cioè fatta nei confronti di un tipico risparmiatore, quindi taglio medio molto ridotto - alta liquidità, che in parte dipende dalla propensione alle breve scadenza, in parte dal fatto che per la componente depositi le banche ricorrono soprattutto ai depositi a vista. L’attivo è invece caratterizzato da: - lunga durata, investimenti a scadenza pluriennale - taglio medio è alto, è un multiplo del taglio medio della operazione tipica di raccolta - bassa liquidità, i contratti sono illiquidi perché innanzitutto i soldi dei risparmiatori non sono investiti in titoli, ma per lo più in prestiti a imprese e famiglie, che oltre a non essere circolabili in quanto contratti non standardizzati, sono contratti a medio-lungo termine. C’è quindi forte asincronia fra attivo e passivo su tutti e tre i punti, da qui la necessità di una trasformazione di scadenze, dimensioni, liquidità della materia prima raccolta sul mercato e che si trasferisce all’economia. Affinché questo processo funzioni, bisogna gestire dei rischi, innanzitutto legati agli impieghi fatti con il risparmio raccolto. Al fine di contenere il rischio di fallimento della banca dovuto all’aver finanziato molti clienti (il rischio di credito), ci sono due operazioni: screening e monitoring, perciò selezione della clientela e in secundis monitoraggio del loro comportamento al fine di contrastare l’azzardo morale. Lo screening. Normalmente le banche effettuano l’istruttoria di fido, attività svolta da personale esperto specializzato nel valutare il merito di credito dei clienti richiedenti prestito. La domanda di affidamento viene fatta per iscritto, il cliente deve compilare dei moduli in cui dichiara una serie di informazioni anagrafiche e inerenti l’attività svolta (informazioni hard), oggettive facilmente verificabili. Ci sono black list in cui sono elencati coloro che sono stati cattivi utilizzatori di strumenti bancari. Dopo di che ci sono centrali che mappano non tanto i cattivi utilizzi passati ma la corrente esposizione nei confronti del sistema bancario di ogni singolo cliente. Sono delle grandi anagrafi dei prestiti bancari in corso, interrogabili dalle banche quando devono informarsi su un nuovo cliente per sapere se ci sono segnalazioni da altri intermediari. Possono dare anche l’ammontare complessivo del credito emesso per il cliente e quello effettivamente utilizzato: in questo modo la nuova banca ha la possibilità di farsi un’idea di quanti soldi fornirgli. Se sta usando già molta parte del credito ottenuto, sarà restia a fornirgliene altro. Per le imprese più grandi si prendono anche informazioni di natura qualitativa, ottenute magari mediante interviste. L’istruttoria moderna si conclude con l’assegnazione del richiedente a una particolare classe di rischi, cioè le banche assegnano un rating, che è però un voto interno, non rivelato al pubblico. Le banche classificano quindi la propria clientela in classi omogenee per rischio di credito percepito, riviste periodicamente. Tutta la struttura dei tassi dei prestiti è funzione di questa graduatoria: il tasso di interesse dipende dal rating assegnato al cliente, e diminuisce man mano che diminuisce il rischio attribuitogli, quindi man mano che il voto aumenta. Quando il rating è troppo basso, la banca è reticente nel fornire il finanziamento. Fino a un certo limite c’è la possibilità di una contrattazione, ricorrendo alle garanzie, preferibilmente di natura reale. A ogni revisione l’impresa deve rispettare i propri requisiti. Se le clausole non sono rispettate, c’è la giusta causa da parte della banca di disdire il rapporto. Ciò non accade molto spesso perché la funzione di queste clausole è favorire il confronto, la rinegoziazione del contratto piuttosto che il suo fallimento, perché rinunciare al cliente significa rinunciare a una fonte di profitto. - funzione monetaria = - funzione di trasmissione della politica monetaria - funzione di riduzione dell’incertezza: svolta attraverso la trasformazione dei rischi (diversificazione) e mediante la gestione dei rischi attraverso strumenti e tecniche per il trasferimento. I rischi sostenuti dalle banche • rischio di credito Ha due dimensioni 1) rischio di insolvenza: rischio di fallimento, di avere delle perdite perché i propri affidati si rivelano non solvibili o non fedeli all’impegno assunto nei tempi stabiliti 2) rischio di migrazione: si intende il passaggio da una classe di rischio a un’altra, può essere sia virtuosa che viziosa; parliamo di downgrading quando il rischio peggiora, upgrading quando il rischio migliora e quindi il voto sale. Il peggioramento non determina perdite immediate perché l’impresa potrebbe riuscire, malgrado le difficoltà, a non venir meno ai propri impegni. Ma se il rischio aumenta e le condizioni contrattuali delle banche non sono rinegoziabili e quindi il tasso non può aumentare a fronte dell’aumentato rischio, succede che la banca guadagna meno di quanto sopporta in termini di rischio, c’è ora sproporzione fra remunerazione e rischio dell’operazione. Un tempo veniva rilevata solo la prima componente, cioè quando una persona non pagava un debito si svalutavano i crediti in portafoglio. I principi contabili moderni sono invece più forward looking: si cerca di guardare al valore atteso di questi prestiti e se il rischio di non pagarli aumenta occorre tenerne conto nella valutazione di essi, anche se non ha già sofferto perdite, tuttavia siccome il valore equo di questi prestiti è più basso di quello iscritto in contabilità, si consente alla banca di svalutare in anticipo queste posizioni. Ciò non toglie la possibilità di una rivalutazione futura. Le banche gestiscono questo rischio mediante tre modalità: - screening = è l’istruttoria di fido, si basa sul giudizio di un analista esperto, non è un modello automatizzato, anche se, per i prestiti di piccolo importo, almeno la prima fase viene affidata anche a modelli automatici di valutazioni del rischio, chiamati modelli di scoring, che hanno favorito il proliferare di mutui subprime nel 2008-2009. Il modello di scoring si basa su tecniche statistiche che servono per individuare le variabili esplicative di un fenomeno da studiare, in questo caso l’inadempienza del debitore. Il modello prende due popolazioni di debitori che differiscono perché una popolazione è fatta di debitori inadempienti. Quindi a ogni soggetto in regolare funzionamento, in bonis, se ne affianca uno simile che non ha più il prestito, non essendo riuscito a rispettare il pagamento rateale e avendo dovuto dichiarare fallimento, disdicendo il suo finanziamento. Di queste due tipologie, si vanno a prendere alcune variabili che si ipotizza possano essere esplicative dell’insolvenza, variabili che siano in grado in anticipo di prevedere quali di questi soggetti con più probabilità dichiareranno fallimento. Una volta individuate queste variabili, si utilizza la funzione anche al di fuori del campione di stima. Sono modelli che funzionano molto bene nei campioni, meno quando vengono applicati fuori, ed è per questo che sono soggetti a una frequente manutenzione e usati con molta cautela, perché possono commettere errori di valutazione (errori di 1° specie, cioè do i soldi a chi non li merita, e di 2° specie, cioè non do soldi a chi li merita, meno grave). Sono di solito usati per fare una prima selezione piuttosto grezza, a cui segue un’analisi più approfondita. Una versione più sofisticata sono i modelli di mercato, utilizzabili solo dove ci sono quotazioni di mkt, cioè quando c’è un altro soggetto oltre al sistema bancario che presta soldi a un altro soggetto. Vanno a vedere cosa pensa la comunità degli investitori di mkt sulla probabilità di fallimento di un soggetto che chiede credito bancario. Nei sistemi dove il mkt obbligazionario è più importante, questo tipo di modellistica può essere utilizzata per avere un punto di vista esterno rispetto a quello interno delle banche. - monitoring = è il controllo in itinere delle posizioni in essere, normalmente annuale. Si effettua una revisione dei finanziamenti e viene eventualmente stabilita una rivalutazione del rating. E’ simile a quella che svolgono le agenzie di rating, che però ne annunciano pubblicamente le conclusioni (ad esempio che hanno messo sotto osservazione un soggetto, e successivamente l’esito di questo). Le banche invece non lo comunicano perché il loro business si basa sulla riservatezza, quantomeno nella gestione del credito: infatti, Fornire queste informazioni avvantaggerebbe le altre banche, consentendogli di non spendere sull’attività di monitoring e di fare free riding, magari rubando i creditori migliori con offerte più accattivanti. Le banche sono avvantaggiate nell’attività di monitoraggio perché hanno rapporti a lungo termine, quindi imparano a conoscere il comportamento del cliente. - diversificazione = Tutta la gestione finanziaria si basa sul principio della ripartizione della ricchezza che si vuole investire in una miriade di operazioni, così da frazionare il rischio da sostenere. Salvo negli ultimi 10-15 anni, le banche hanno seguito dei modelli per realizzare questo obiettivo, seguendo alcune direttrici nel diversificare: a) dimensione: bisogna avere imprese debitrici sia di grandi che di piccole dimensioni. Normalmente c’è una correlazione positiva fra entità del prestito e dimensione dell’impresa. La regola è non prestare molto capitale a pochi grandi clienti, perché se anche solo pochi falliscono, rappresentano una grande quota del portafoglio prestiti, quindi anche la banca rapidamente seguirà lo stesso destino b) settore merceologico di attività: bisogna evitare di dare molto capitale a pochi settori merceologici per lo stesso motivo, se il settore entra in crisi anche la banca automaticamente ci entra. È complesso fare questa diversificazione, soprattutto per le piccole banche c) geografica: la banca deve cercare di aprire qualche succursale anche nelle province limitrofe alla sua, variare rispetto alle aree del suo originario insediamento, così da entrare in contatto con imprenditori diversi; d) forme tecniche: non avere il credito concesso in una sola tipologia di operazione (es. mutuo ipotecario) ma in diverse tipologie, che sono varie e appropriate per imprese diverse. Sono stati creati dei modelli interni che consentono di misurare in modo preciso l’effetto di queste quattro leve di diversificazione, per capire in che modo migliora l’esposizione al rischio. La maggior parte delle banche in Italia sono di piccole-medie dimensioni, quindi difficilmente usa questi modelli, ma le grandi banche lo fanno e con essi guidano il management anche nella politica commerciale, dando indicazioni a chi gestisce il ptf banca su quali siano le forme di prestito da potenziare e non. • rischio di interesse Le banche raccolgono e impiegano fondi, quindi hanno un attivo e passivo tipicamente fatti da contratti di debito, cioè traggono gran parte dei loro profitti da interessi che incassano, i cosiddetti interessi attivi, a cui si contrappongo gli interessi passivi, che devono corrispondere a coloro che gli forniscono denaro in prestito. Usando il debito in entrambi i sensi, le banche sono soggette a un rischio di interesse perché i ricavi sono innanzitutto interessi incassati per interessi pagati. La caratteristica che ha il ptf di impieghi e di passività delle banche è la diversa durata (raccolgono a breve per prestare a lungo). Se i tassi di interesse aumentano, dal lato della raccolta, che scade prima, si avrà un più rapido aumento: i debiti scadono prima, devono essere rinnovati, dunque dovrà farlo a tassi che appunto sono aumentati. Dal lato dell’attivo, il tempo di rinnovo delle condizioni sui tassi attivi avverrà con più lentezza rispetto alla revisione dei tassi, perché almeno 1/3 della raccolta è a vista, cioè depositi in conto corrente dove abbiamo un riprezzamento che avviene quasi in tempo reale, poi un’altra parte della raccolta sarà a breve termine, e i soggetti depositanti lasceranno i depositi se i tassi vengono effettivamente rivisti al rialzo. Dal lato della raccolta, per tenere i soldi depositati dovranno fare qualche concessione. Lo stesso accade dal lato degli impieghi, però con una maggiore lentezza perché hanno concesso crediti con durate più lunghe quindi il momento della rinegoziazione avverrà più tardi. Con il fenomeno del costo del passivo che cresce più rapidamente del rendimento dell’attivo in caso di aumento dei tassi, accade che il margine di interesse (profitto) si riduce, questo è l’effetto reddito di una manifestazione del rischio di interesse. Per evitare di correre questo rischio si dovrebbero riallineare le scadenze, ma a quel punto verrebbe meno la funzione della banca e la sua utilità al sistema. Per tenere sotto controllo questo rischio, si ricorre agli strumenti finanziari derivati, che si occupano proprio di gestire questo differenziale di scadenza. Potremmo avere una banca che impiega a lungo termine e raccoglie a breve, una banca che soffre invece quando gli interessi calano, perché avremo un effetto reddito che funziona al contrario, ci sarebbe un rischio di reinvestimento. Oltre all’effetto reddito, si manifesta anche l’effetto valore di mercato: dove c’è una stima del valore di mkt del capitale di rischio, c’è un effetto che passa anche attraverso il mkt azionario. Se gli impieghi della banca hanno durata pluriennale, mentre il suo passivo ha una durata breve, al valore attuale degli impieghi delle banche a lungo termine, se i tassi aumentano, il valore di mkt degli impeghi delle banche scende, l’attivo si deprezza, il passivo quasi non scende, succede che il profitto della banca diminuisce. Quindi quando i tassi aumentano, il mercato azionario sa che la ricchezza degli azionisti scende perché si depaupera il valore degli impieghi. • rischio di mercato E’ il rischio dovuto all’oscillazione di qualunque prezzo al variare di tassi di interesse, tassi di cambio, ecc. E’ una macro categoria di rischio che riguarda gli investimenti in valori mobiliari, cioè solo gli strumenti finanziari scambiabili in un mkt secondario, e solo quelli tenuti a socio di negoziazione. I principi contabili alla base del bilancio delle banche impongono loro di classificare gli investimenti fatti in valori mobiliari in varie tipologie di portafoglio dal punto di vista della valutazione contabili, e gran parte di questi valori mobiliari è affidata a un portafoglio di negoziazioni. In questo segmento del ptf titoli delle banche, vengono assegnati i titoli di debito, di capitale, che detengono non a scopo di stabile investimento ma a scopo di negoziazione, cioè fatti al fine di rivenderli presto per farci profitto. Proprio perché sono detenuti a scopo di trading, devono essere valutati al fair value, cioè al loro valore di mkt, o che al più possibile si avvicini al prezzo che questi strumenti avrebbero se dovessero essere scambiati fra due operatori professionali. Nel ptf dei titoli stabili la valutazione è fatta invece al prezzo storico, non di mkt, quindi se anche i prezzi scendono la banca non deve contabilizzare una perdita, mentre nel caso dei ptf di mkt la perdita viene contabilizzata ogni anno, qualsiasi svalutazione comporta una rettifica del valore e quindi un addebito degli utili lordi della banca, che la perdita sia realizzata o meno (che abbia venduto in perdita o no). Sono soprattutto gli intermediari creditizi (banche di investimento) ad essere esposti a questo rischio, soprattutto quando il trading sugli strumenti finanziari di proprietà (in particolare se si tratta di strumenti derivati) diventa il core business dell’impresa rispetto all’attività tipica della banca di investimento, che è aiutare le imprese a fare provvista di fondi sul mercato. Su suolo europeo non abbiamo visto fallimenti a causa di questo rischio, in Uk e Usa invece sì, soprattutto nelle banche d’affari, proprio in istituzioni dove la banca diventa un intermediario mobiliare che fa utili solo comprando e vendendo titoli in borsa. Il rischio per esse è rilevante, perché se gran parte dei profitti dipende dal valore di mkt dei titoli in cui ho investito gran parte del capitale degli azionisti, che dipendono dalla valutazione al prezzo di mkt, e quindi in via definitiva se la maggioranza del mio profitto dipende dall’andamento dei mkt borsistici, posso arrivare all’insolvenza. • rischio operativo Unico rischio non finanziario, che riguarda le perdite derivanti da inadeguatezze o disfunzioni di procedure, risorse umane e sistemi interni oppure da eventi esogeni. Riguarda fallimenti d’organizzazione dovuti a una gestione non sicura dei dati per lo più, ma anche perdite dovute a controlli interni inadeguati o frodi perpetuate da manager e dipendenti. I fallimenti delle grandi banche d’affari a livello mondiale sono derivati da una combinazione di questo rischio con quello di mercato. Non si è riuscito a tenere sotto controllo il comportamento opportunistico di figure manageriali e dipendenti, che hanno potuto fare di nascosto con i soldi della banca operazioni fallimentari di speculazione. • rischio di liquidità Le banche offrono servizi di pagamenti, i depositi bancari, che, dal lato dell’attivo, diventano in parte prestiti illiquidi. Si può presentare la possibilità che in massa i depositanti richiedano un rimborso e la banca non riesca a far fronte a questa improvvisa richiesta. La banca deve tenere sempre un’adeguata riserva di liquidità per far fronte a un possibile rischio di fallimento dovuto al rischio di liquidità. Il famoso caso di fallimento per questo rischio è quello della banca inglese Northern Rock. Era specializzata in credito alle famiglie, in particolare per mutui ipotecari, con una buona attività di screening e monitoring. Dal lato del passivo stava il problema: raccoglieva dai propri clienti, poca raccolta al dettaglio, ma tanta raccolta all’ingrosso, quindi il passivo era molto concentrato. La banca è fallita perché con la crisi del 2008-2009, le banche hanno smesso di farsi facilmente credito fra di loro, e quando il mkt interbancario si è bloccato, essa si è trovata senza soldi, perché i pochi creditori interbancari che la finanziavano hanno finito di farlo, da qui ha dovuto dichiarare default. • rischio di cambio Le banche, anche le più piccole, operano in valute, quindi detengono un po’ di valute estere, oppure un po’ di titoli o fanno prestiti denominate in valute estere. Una banca che ha fatto credito in una valuta trae vantaggio da una sua rivalutazione rispetto all’euro, perché quando si chiuderà il bilancio questi prestiti avranno un valore che in euro si è accresciuto. Al contrario, le banche con molta raccolta in valuta, sono felici quando è l’euro a rivalutarsi, perché se l’euro è forte ne servirà meno per comprarci le altre valute, quindi gli interessi su questi debiti costeranno di meno. Un metodo per ridurre questo rischio è in ogni valuta avere una posizione netta pari a zero (ho raccolto tot in dollari, allora investo proprio tot in dollari), a quel punto qualsiasi rivalutazione o svalutazione non ha alcun effetto. Se ho più investimenti che debiti, mi va bene se si rivaluta il dollaro, se invece ho una posizione debitoria netta e quindi più debiti che investimenti in dollari, invece il contrario. CAPITOLO 7 – IL SISTEMA BANCARIO ITALIANO Esiste un ordinamento fatto di due testi unici di riferimento con un terzo marginale, sono il TUB e il TUF. Nel momento in cui si opera come intermediario mobiliare e non creditizio, la regolamentazione dell’attività dipende dalle norme iscritte nel TUF, che è quella parte di ordinamento finanziario che regolamenta l’attività degli intermediari ed emittenti di valori mobiliari. Quando operano come banca di deposito => TUB Quando operano nel settore delle attività finanziarie in senso lato, e in particolare quando prestano servizi di investimento => TUF Le forme giuridiche Le forme giuridiche che le banche possono assumere sono due: società per azioni è società cooperativa a responsabilità limitata, queste ultime possono essere banche popolari o banche di credito cooperativo. La forma giuridica prevalente è la seconda, ma dal punto divista dell’importanza del lavoro svolto, sono largamente prevalenti le prime. Differenze fondamentali: - Il capitale iniziale minimo richiesto a una banca spa è di 10 milioni, mentre alla società cooperativa 5 milioni - Nelle spa ci può essere anche un unico azionista proprietario del 100% delle quote, l’unico limite imposto dalla normativa a questo padrone è che non svolga simultaneamente un’attività di impresa, industriale o commerciale, cioè che abbia anche altri interessi diversi da quello finanziario. Fino al 2011 la separatezza era garantita non solo dall’assenza di conflitti di interessi legati al tipo di attività che svolgeva, ma era anche previsto un limite massimo della partecipazione del socio non banchiere puro del 1%, limite poi eliminato a seguito della recezione di una direttiva comunitaria. Nella cooperativa è invece richiesto dipendentemente un numero minimo di 200 (credito cooperativo) o 500 azionisti (popolari). - Nelle cooperative i soci, indipendentemente dal numero di azioni possedute, hanno un solo diritto di voto, mentre nelle spa si vota in base alle azioni possedute. Quindi nelle prime, nell’assemblea dei soci i grandi investitori contano come l’ultimo degli azionisti: prima delle più recenti riforme, sfruttando questo fatto si era in grado, una volta eletti i consigli di amministrazione, di perpetuare all’infinito il loro incarico, controllando il voto di tutti questi azionisti. Si cercava quindi di evitare di investire in questo tipo di banche, perché era impossibile appunto il ricambio dei vertici aziendali. Ci sono stati casi macroscopici di abuso di questo fenomeno da parte di alcune banche popolari importanti, da qui le riforme sulle banche popolari. Nel 2015, per tutte le banche popolari è stato stabilito che dovessero trasformarsi in modo coatto in banche spa. Il problema si risolve alla radice perché il voto dipende dal numero di azioni possedute. Rimangono quindi in funzione piccole banche popolari, con attivo inferiore agli 8 miliardi, nell’altra forma. Molte banche di credito cooperativo sono molto piccole, hanno pochissimi sportelli, alcune addirittura sono mono sportello. Questo le rende banche più rischiose, più facilmente instabili, perché sono realmente di territorio, hanno una clientela molto concentrata, e dal lato del credito hanno un ptf prestiti molto concentrato e quindi con più facilità potrà portarle al fallimento. Infatti le crisi bancarie del nostro paese riguardano per lo più queste micro banche, da qui anche il fenomeno dei matrimoni fra banche come espediente di salvataggio, normalmente avvengono fra banche simili o dello stesso territorio. Il legislatore comunitario ha riformato tutto il settore del credito cooperativo, e ha preteso che non si ricorresse al matrimonio riparatore in caso di crisi, ma a meccanismi di tutela basati su alleanze fra queste piccole banche in modo al fine di costituire delle reti di tutela preventiva in grado di gestire queste crisi prima che sfocino in vere e proprie insolvenze da parte di alcune banche. Si è imposto alle banche di costruire dei gruppi cooperativi, pena la perdita della licenza ad operare come banca di credito cooperativo. L’incentivo ad aderire a questo sollecito era che le banche di credito cooperativo sono considerate dal punto di vista fiscale a mutualità prevalente, e solo loro hanno un consistente sconto sui redditi societari, che portano alla quasi totale esenzioni. Chi è abituato a pagare pochissime imposte, se si trova improvvisamente a pagarne una percentuale, ha forte incentivo a mantenere la sua condizione privilegiata, che è quella di essere banca a credito cooperativo. Da qui il motivo per cui l’adesione è stata massiccia e si sono creati tre gruppi, due grandi e uno medio. Ciò ha comportato la cessione di una parte dell’autonomia originaria a una capogruppo, la quale è di proprietà delle banche controllate. Non c’è una capogruppo padrona e che comanda, le banche controllate hanno dato luogo a un’alleanza rappresentata da una società capogruppo che loro possiedono ma alla quale, tramite contratto di adesione, hanno donato parte della loro sovranità. Esse vigilano sull’andamento della gestione. - Nelle banche a credito cooperativo i soci non possono fare domanda di iscrizione al libro soci se non risiedono nei comuni dove la banca opera. Inoltre devono destinare la maggior parte del credito che erogano ai loro soci, diversamente non sono a mutualità prevalente e quindi non hanno quelle agevolazioni. Le strategie di organizzazione Sono specializzazione e diversificazione: • Specializzata = fa solo la banca tradizionale, cioè svolge attività di raccolta prevalentemente attraverso depositi finalizzata a concedere credito • Diversificata = può fornire tutti i servizi della banca universale, cioè oltre all’attività tradizionale svolge anche altri servizi finanziari. Possiamo avere due forme: a) quella della banca universale, cioè banca multi divisionaria dove c’è un’unica società che è autorizzata ad operare l’attività bancaria ma anche le altre attività finanziarie, cioè che è simultaneamente controllata non solo dalla Banca d’Italia ma anche dalla CONSOB. Un’unica spa o cooperativa a responsabilità limitata con tante divisioni, ognuna che si occupa di servizi diversi. b) quella del gruppo bancario, dove c’è una capogruppo e una miriade di società controllate, sia banche che altri intermediari, che operano in modo coordinato fra loro avendo ciascuno una propria organizzazione, quindi che operano in modo indipendente. Questa è la veste più comune nel nostro paese e ciò dipende dal fatto che qui prevalevano le banche specializzate (banche a breve termine – credito ordinario, solo prestito a lungo termine – istituti di credito speciale, qualche banca di credito mobiliare – banca d’affari). Sono nati gruppi che negli anni si sono comprati altre banche, compagnie di assicurazione, società di gestione del risparmio, fino a costituire gruppi molto diversificati. Si opera sotto una strategia comune ma lasciando libertà d’azione. È un modello più flessibile rispetto alla banca universale. CAPITOLO 14 – IL BILANCIO DELLE BANCHE Il bilancio delle banche è lo strumento per capire come funziona una banca mentre svolge la sua attività principale, quella bancaria, e solo in parte le attività di tipo finanziario. Infatti, non tutti i servizi finanziari da esse proposti hanno una doppia manifestazione nel bilancio. Quest’ultimo si compone di sei documenti alla normativa vigente, noi ci occupiamo dello stato patrimoniale, conto economico e della nota integrativa, che fornisce informazioni su operazioni e servizi che non si vedono negli altri due documenti, ma ci disinteressiamo del rendiconto finanziario, del prospetto della redditività, del prospetto delle variazioni del patrimonio netto. Non tutti i servizi hanno una manifestazione contabile in questi documenti. L’attività bancaria è quella più facilmente visibile perché si tratta di impieghi e raccolta, quindi facilmente visibile nello stato patrimoniale perché genera l’emersione di debiti nel suo passivo (attraverso la raccolta, emettendo azioni, indebitandosi con altre banche) e dal lato dell’attivo impieghi fruttiferi, prestiti ad altre banche. Così come traccia se ne trova nel conto economico, perché la raccolta comporta pagamento di interessi ai depositanti e gli investimenti in prestiti e titoli comportano l’incasso di interessi. Il conto economico è scalare, non a sezioni sovrapposte, dove le uscite hanno segno meno e ricavi hanno segno più, e spesso si ritrova un risultato di profitto intermedio derivanti dalla sommatoria delle voci stanti sopra suddetto risultato. Ad esempio il margine di interesse è il primo risultato, che si trova facendo il saldo di interessi attivi e passivi. Le attività di tipo finanziario, la più importante quella di intermediazione mobiliare, costituita dalla prestazione di servizi di investimento alla clientela e dall’attività di trading che fa comprando per suo conto titoli, non sono sempre facilmente identificabili, perché solo quando compra in conto proprio ritroveremo fra gli impieghi i titoli di proprietà delle banche che compra e vende e sul conto economico l’attività di negoziazione; possiamo trovare profitti, derivanti dal fatto che la banca ha comprato a un prezzo più basso rispetto a quello a cui ha rivenduto. Quando opera per conto terzi non compra e vende titoli della sua proprietà, e quindi non stanno nel suo stato patrimoniale, appunto perché appartengono a qualcun altro, staranno idealmente nel bilancio della famiglia o imprese. Quando però presta il servizio di negoziazione per conto terzi, la banca applicherà delle commissioni, e quindi nello stato patrimoniale i titoli non ci sono, ma nel conto economico troveremo i proventi di questa attività di servizio sotto forma di commissioni attive. Ci sono poi attività di tipo finanziario, es crediti di firma, difficili da trovare sia in ce che in sp perché non comportano nell’immediato nessuna esposizione patrimoniale della banca, dato che essa si limita tramite una firma a costituirsi garante del proprio cliente. Non presta capitale, per questo non compaiono in questi documenti, ma anche fornendo questo servizio riceve delle commissioni per il rischio assunto, che non è immediato, bensì eventuale nel momento in cui il cliente non sarà in grado di far fronte in prima persona agli impegni presi, momento in cui la banca diventa obbligato principale e perciò sostituendosi a lui in qualità di debitore. Non si capisce fra le commissioni incassate quelle relative a uno specifico servizio che la banca fornisce alla clientela. Nella nota integrativa si tiene conto di tutte le ripartizioni di entrate e uscite a seconda del tipo di servizio LO STATO PATRIMONIALE Questo è lo stato patrimoniale somma delle banche italiane. Quando la banca a capo di un gruppo, redige non solo il suo bilancio individuale, ma anche il bilancio-somma chiamato “bilancio consolidato”. La banca infatti controlla anche altre banche, quindi in quel bilancio consolida tutti i bilanci delle altre controllate, per dare l’idea dell’andamento del gruppo. Guardando sia a passivo che ad attivo vediamo le principali fonti di finanziamento e impiego. Lato delle passività • depositi: la metà della raccolta delle banche è fatta di depositi, quindi di strumenti a breve termine, un 45% di italiani, un 7% di non residenti. Di questo 45% di depositi italiani (fortissima propensione alla liquidità perché parcheggiano gran parte della loro ricchezza in banca famiglie ed imprese) ¾ sono conti correnti, quindi depositi che non hanno una scadenza certa, bensì a vista, che non sono stabili, perché chi è titolare di quel credito può ritirare il capitale quando gli pare. È solo la legge dei grandi numeri che consente alle banche di poter contare in modo stabile su questa raccolta, cioè il fatto che si susseguono accensioni e spegnimenti di conti. Non significa che da un momento all’altro questi depositi non possano venire meno: succede con la corsa agli sportelli. • obbligazioni: la raccolta obbligazionaria, molto importante perché dietro c’è una raccolta di fondi molto stabile, perché ha una durata di qualche anno. È gradita agli intermediari bancari perché la maggior parte dei richiedenti credito bancario vogliono prestiti con durata pluriennale. Le banche quindi desidererebbero avere una quota rilevante della loro raccolta con questa stabilità. Purtroppo non arriva fino al 7%, mentre fino a 10 anni fa era più del doppio. Il motivo per cui i depositanti sono fuggiti dallo strumento obbligazionario è che le banche hanno fatto sottoscrivere loro non solo obbligazioni ordinarie, cioè somiglianti in tutto ai titoli di Stato (tasso indicizzato, tasso fisso…) ma anche complicate, quindi obbligazioni con meccanismi di indicizzazione legati ad esempio a indici di borsa, tassi di cambio, invece che all’EURIBOR. Altri comportamenti opportunistici riguardarono il collocamento di obbligazioni subordinate, che comportavano per l’obbligazionista il non avere un immediato diritto al rimborso del proprio capitale, ma posticipato rispetto ad altri creditori, titolari di obbligazioni appunto non subordinate. Alcune di queste banche a un certo punto hanno avuto difficoltà, sono state sottoposte a operazioni di salvataggio e hanno costretto i propri obbligazionisti a perdite. Le banche hanno dovuto limitare quindi il ricorso allo strumento obbligazionario, avendo abusato della buona fede dei propri clienti. • passività verso IFM: più importante è la raccolta interbancaria: un quinto delle raccolte avviene chiedendo prestiti ad altre banche (21,19%). Dal lato delle attività nella stessa riga vediamo i prestiti concessi ad altre banche e anche alla BC, che sono il 19%. La differenza è negativa, cioè la posizione netta è debitoria. In questo caso parliamo di debiti all’ingrosso, non operazioni al dettaglio come i depositi. Le operazioni sono quindi meno numerose, ma hanno taglio maggiore. Inoltre, sono operazioni a breve termine. Dietro questa voce si nasconde un rischio di liquidità, essendo le controparti poco numerose e la scadenza breve. Si arriva a un 70% di debiti tutti a breve termine che vanno a finanziare un attivo con scadenza a medio-lungo termine. • passività connesse con operazioni di cessioni di crediti: le banche sono solite ricorrere ad operazioni di cartolarizzazione dei prestiti ricevuti. È una voce di scarsa rilevanza anche per significato economico. • capitale e riserve: è il patrimonio netto delle banche italiane, il 9%, che rappresenta la ricchezza messa dagli azionisti. Il 91% è lo sforzo messo invece dai creditori (depositanti, obbligazionisti, altre istituzioni finanziarie). Se questa fosse la situazione di un’impresa, con un rapporto di capitalizzazione così basso molto difficilmente otterrebbe credito, gli servirebbero molte garanzie. Questo fenomeno è invece tollerabile per le banche perché operano facendo debito per fare credito, i loro ricavi e i loro costi sono prevalentemente di tipo finanziario, sono naturalmente sincronizzati, cioè quando gli interessi aumentano, i ricavi e i costi delle banche diminuiscono e viceversa, sebbene non ci sia una perfetta sincronizzazione a causa della trasformazione delle scadenze. In una qualunque impresa industriale invece, questa sincronizzazione di ricavi e costi viene ovviamente meno. Se i tassi di interesse di un imprenditore aumentano, i tassi sui mutui che paga aumentano a loro volta e rapidamente, mentre non è detto che i suoi ricavi salgano allo stesso modo, perché la sua attività tipica non è impiegare i fondi raccolti in prestiti e titoli ma finanziare investimenti che richiedono tempi lunghi per generare un reddito. Se gli oneri aumentano, quasi automaticamente i ricavi diminuiscono. Le imprese tutte hanno dei debiti, e sono esposte a rischio di fallimento, quindi devono per forza avere un maggior livello di capitale netto per assicurare una maggiore stabilità. Nel caso delle banche questo non è così necessario, tendenzialmente perché ricavi e costi sono solo di natura finanziaria, quindi tendono a compensarsi, a muoversi nello stesso modo. Da qui il motivo per cui necessitano livelli meno bassi di capitale netto. C’è però un livello, quello dell’8%, al di sotto del quale questo rapporto non deve mai scendere, è il livello minimo da rispettare, pena l’essere considerate sottocapitalizzate dalla banca centrale, e ciò comporta un automatico intervento da parte delle autorità di vigilanza e la necessità di ricapitalizzare. Lato delle attività • cassa: tutti questi debiti che le banche fanno vengono investiti solo in piccolissima parte in cassa, cioè in riserve di liquidità, visto che la voce è circa lo 0,25%. Le banche tengono sotto forma di moneta una piccolissima percentuale di quanto raccolto, il motivo è che è molto costoso gestire il contante, spostarlo e tenerlo. • titoli: comprese le azioni (che sono soprattutto partecipazioni in altri intermediari). È un impiego fruttifero perché i titoli pagano interessi o dividendi, ma non arriva al 18%. Rimane un investimento importante per due motivi: innanzitutto per fronteggiare il rischio di liquidità, perché suddetti titoli sono soprattutto quotati in mkt regolamentati, cioè hanno un mkt secondario ampio ed elastico, quindi sono rapidamente convertibili in moneta legale, nel caso in cui dall’altro lato di bilancio si faccia massiccio ricorso a prelievi. In secondo luogo, se sono titoli di buona qualità, possono essere utilizzati per ottenere credito sul mkt interbancario o presso la BC. • prestiti: gran parte dei fondi raccolti sono invece impiegati qui, prevalentemente al dettaglio (famiglie e imprese), quindi operazioni ad alto rischio, perché questi piccoli operatori tendono ad avere una probabilità di fallimento molto più alta degli Stati Sovrani o delle istituzioni. Essendo quindi molto più rischiosi dei titoli, rendono molto di più (i tassi imposti saranno più alti), ma c’è la probabilità che il debitore non corrisponda regolarmente questi tassi. Si trasformano in gran parte in prestiti in sofferenza, che non rendono cioè come avrebbero dovuto. Per stabilizzare l’investimento delle banche serve l’investimento in titoli perché è a più basso rischio e quindi aiuta a diversificare il rischio, la componente del portafoglio dei titoli, a meno delle operazioni di cartolarizzazione, di cui si dà conto nella nota integrativa. Quindi la gran parte degli investimenti è in prestiti rischiosi, tipica forma è quella dei mutui ipotecari, per le imprese il credito industriale (a lungo) e quello a breve, che serve per finanziare il loro capitale circolante. • attività verso IFM: a cui corrisponde un 20% circa, è composta da prestiti o verso la BC o verso le altre banche. Questa cospicua mole di finanziamento serve come riserva di liquidità, come scorta di quasi moneta convertibile in moneta legale per fronteggiare emergenze dal lato dei debiti. È un’altra forma di impiego facilmente liquidabile per gestire il rischio di liquidità. • altre attività: qui confluisce tutto ciò che non è un impiego finanziario, come le attività materiali, gli investimenti in capitale fisico. Quello che nelle altre imprese ha percentuali alte, anche del 60%, nel caso delle banche è residuale. Le banche non sono particolarmente esposte a questo tipo di impiego, perché la loro attività non richiede la disponibilità di immobilizzazioni materiali per importi significativi. Un tempo questa voce era costituita da immobili ed era maggiore, perché le banche avevano molte filiali in immobili di proprietà di pregio, che venivano anche periodicamente rivalutati. Ora invece le banche tendono a vendere i propri immobili e tendono ad operare in immobili presi in affitto, non di proprietà. Anche le apparecchiature tendono a prenderle a noleggio o tramite leasing. Come funziona la banca Le banche ottengono i propri profitti dalla vendita di passività caratterizzate da combinazioni differenti di liquidità, rischio, dimensioni e rendimento e impiegano il ricavato nell’acquisto di attività con caratteristiche differenti. Questo processo è chiamato trasformazione delle attività finanziarie in termini di tasso, rischio e scadenza. La banca si indebita a breve e presta a lungo. Il profitto deriva dal gap fra i tassi di interessi su prestiti e depositi. La banca fornisce anche mezzi di pagamento per facilitare le transazioni. Per spiegare come funziona la banca usiamo il mastrino (T-account), una riga dello stato patrimoniale che dà una rappresentazione contabile di una o più operazioni per volta. Partiamo dall’attività di apertura di nuovi conti, di deposito e correnti. Ci serve per mostrare come l’attività delle banche consista innanzitutto in una movimentazione di riserve di liquidità; è quindi importante che sia liquida, affinché sia sempre in condizione di eseguire regolarmente i pagamenti che le vengono ordinati dalla clientela. Il mastrino è fatto di un lato attività (fondi) e un lato passività (impiego di fondi): se si crea un nuovo conto corrente, quanto depositato finisce nella cassa contanti del cassiere e poi nella cassa centrale della banca. La cassa è una delle voci che costituiscono le riserve di liquidità della banca, quindi ogni volta che la banca accoglie nuovi fondi dal mkt aumenta il livello delle riserve. Se invece il versamento avviene mediante moneta bancaria e non legale, per esempio con un assegno, c’è un primo passaggio intermedio che consiste nella lavorazione di questo pagamento. Se è un assegno ci sono tempi più lunghi per convertire questo strumento (che non è moneta legale ma comanda uno spostamento di liquidità fra banche), perché ci sono due banche che devono comunicare fra di loro. Quindi innanzitutto i soldi finiscono nel conto “voci liquide in corso di lavorazione”. In concreto il trasferimento fra le due banche avviene mediante una scrittura contabile elettronica: la banca da cui escono i soldi toglie dal proprio conto di riserva presso la BC l’ammontare, indicando alla BC di spostare questo ammontare alla banca che deve riceverli. Tutto fa capire che il sistema bancario è costituito da una rete di crediti e debiti che si instaura fra le banche. Se quindi una banca è illiquida, risulta inadempiente rispetto ai pagamenti della propria clientela, è un problema perché se i pagamenti non vengono effettuati il fenomeno interessa anche le altre banche e si propaga, perché esse continuamente si scambiano istruzioni di pagamento, e se anche solo una è in difficoltà nel risultare inadempiente, questo può provocare una catena di inadempienze che si riverberano su altre banche che non hanno altra responsabilità se non quella di essere controparti delle operazioni in cui la banca problematica è coinvolta. Una volta fatta raccolta di nuovi fondi, la banca deve corrispondere un certo tasso di interesse al depositante. È una raccolta onerosa. Quindi la prima cosa che fa la banca con gli es. 100 euro raccolti sul mkt è cercare di renderli fruttiferi. Innanzitutto si adempisce all’onere di “riserva obbligatoria”. Una piccola quota deve essere depositata presso il conto corrente con voce “riserve obbligatorie”. Dal punto di vista economico, l’esistenza di questo obbligo comporta che si pagano interessi passivi su 100 euro, e su 10 di questi non si possono ottenere interessi attivi, solo 90 sono liberamente investibili in altre forme di impiego, anche perché il mancato investimento comporta altri interessi passivi (quelli imposti dalla BC sui depositi). I 90 devono rendere abbastanza da recuperare gli interessi pagati sui 100, cioè devono fruttare interessi almeno pari a quelli da pagare al depositante (costi finanziari) a devono anche coprire parte dei costi operativi, diretti e indiretti di tipo amministrativo che l’operazione comporta. Ipotizziamo voglia impiegare tutti i 90 euro in prestiti. Avranno quindi un loro rendimento, più alto di quello riconosciuto sui depositi, sebbene l’ammontare dedicato ai prestiti sia inferiore al deposito iniziale. Si ha quindi un margine positivo perché gli interessi attivi arrivano a compensare quelli passivi. Le quattro aree critiche Per fare in modo che questa attività di intermediazione non abbia problemi, occorre che la banca sia ben amministrata da quattro punti di vista. Ci sono quattro aree critiche che gli amministratori delle banche devono essere bravi a presidiare: 1. Gestione della liquidità Serve una sufficiente incidenza delle forme di investimento facilmente liquidabili in qualunque momento. Servono sufficienti riserve, non solo obbligatorie ma anche libere. Quest’area della gestione è critica. Immaginiamo che lo sp iniziale della Banca sia il seguente: Totale di passività di 110 milioni, con 10 di capitale proprio. È un rapporto in linea con l’attuale livello di capitalizzazione delle banche italiane. La banca ha 100 da investire, tolte le riserve obbligatorie. Inoltre, decide di accantonare altri 10 milioni di riserve libere, per un totale di 20 milioni. Altri 10 li investe in titoli, facilmente smobilizzabili in caso di rischio di liquidità. In totale ne abbiamo investiti 30 in forme facilmente liquidabili, i restanti 80 sono investiti in prestiti, la maggioranza del capitale visto che è l’investimento più redditizio. Immaginiamo un’imprevista propensione al ritiro di depositi da parte dei clienti, per esempio di 10 milioni: se prima aveva 100 milioni di raccolta, ora ne ha solo 90, quindi anche il totale delle attività scende. La banca deve trovare questi 10 milioni nel momento in cui le vengono richiesti, e lo fa accingendo agli investimenti più liquidi, va nelle riserve. I 10 milioni che restano nelle riserve saranno fatti di 9 milioni inutilizzabili (10% dei 90 milioni rimasti a riserve obbligatorie) e 1 milione libero. Gli investimenti fruttiferi, gli 80 milioni in prestiti + 10 milioni in titoli, non sono interessati a questa operazione. Le riserve erano ancora adeguatamente alte, consentendo alla banca di non dover smobilizzare investimenti fruttiferi. La banca potrebbe anche decidere di non incamerare riserve libere: Immaginiamo riceva la medesima richiesta imprevista di prima, e che possa mobilizzare per un giorno la propria riserva obbligatoria, cioè possa utilizzare i 10 milioni disponibili a patto di ripristinarli il giorno seguente. Ond’evitare sanzioni, ha alcune soluzioni per recuperare queste riserve in tempo: - chiedere prestito ad altre banche sul mkt interbancario - vendere alcuni titoli, sostenendo qualche costo di transazione, dovendo remunerare l’operatore che si occupa dell’operazione, e quanto ottenuto viene messo a riserva - chiedere un prestito alla BC, dandole i titoli in cambio della liquidità da mettere a riserva - può revocare o cessare i prestiti in essere, la soluzione meno indicata perché quando si richiede a imprese e famiglie di rimborsare sul breve termine i crediti da loro chiesti, probabilmente potrebbero non essere in grado di accontentare la richiesta. I clienti danno per scontato che una richiesta di rimborso imprevisto sia remota. Quello che la banca deve fare, per essere certa di ottenere il rimborso nei tempi richiesti in via emergenziale, è fare questa richiesta alla cliente più solvibile, quindi più fidata, che sicuramente rimborserà, ma poi cercherà una banca diversa, quindi il prezzo da pagare è la perdita di un cliente e cattiva pubblicità. 2. Gestione delle attività Servono gli impieghi in titoli e in prestiti. L’investimento principale è quello in prestiti, ma bisogna fare in modo che l’attivo renda il più possibile tenendo sotto controllo il rischio. Ad esempio, l’investimento in titoli è meno rischioso ma meno redditizio, viceversa la gestione del credito è più complicata, perché i contratti non prevedono per la banca la stessa libertà che ha con i titoli. Devono essere oculatamente gestiti i prestiti nei confronti della loro clientela, e lo si fa mediante la diversificazione del ptf prestiti (importo, aree geografiche, settori di attività, tipologia di forme tecniche di operazioni). 3. Gestione delle passività Un tempo il personale delle banche stava fermo ad attendere il depositante, il mkt della raccolta era statico, perché segmentato geograficamente, quindi le banche non potevano farsi concorrenza. Poi i mkt sono stati liberalizzati, le banche hanno potuto aggredire anche i mercati contigui, inoltre è stato liberalizzato anche il credito bancario, perciò le banche hanno potuto fare una gestione dinamica della loro raccolta, fare concorrenza alle altre aumentando il tasso garantito ai loro depositanti. Oggi il management delle banche non è vincolato alla raccolta già fatta per finanziare i propri impieghi: se improvvisamente arriva un grande cliente a richiedere un prestito, la banca può non avere la disponibilità immediata di risorse, un tempo avrebbe dovuto rifiutare, mentre ora acconsente perché nello stesso giorno può ottenere la disponibilità di quel capitale mediante un prestito interbancario in brevissimo tempo. 4. Gestione del capitale proprio il capitale proprio/di rischio salva le imprese dai fallimenti. Nelle banche sappiamo essere molto contenuto. Chi copre le perdite di esercizio in qualunque impresa sono gli azionisti, che hanno quindi tutto l’interesse affinché gli amministratori della banca mantengano il livello di capitalizzazione a livelli adeguati ai rischi che la banca assume. C’è però un trade off: da un lato c’è bisogno di stabilità, quindi non si vuole un capitale netto troppo basso, deve essere superiore a un livello minimo, dall’altra parte non deve essere nemmeno troppo elevato, se l’impresa è sovracapitalizzata questo va a sfavore del profitto degli azionisti. C’è una regola che mette in relazione la redditività dell’attivo con il grado di patrimonializzazione e la redditività dal punto di vista degli azionisti. Differenziazione per leva finanziaria: rischio di credito Vediamo ora cosa accade, in caso di crisi dovuta a manifestazione del rischio di credito, guardando sempre allo stato patrimoniale, a due banche che si differenziano per la loro leva finanziaria. Ci riferiamo al reciproco del rapporto di patrimonializzazione: se la banca è poco capitalizzata vuol dire che è molto indebitata e viceversa. Le banche con una elevata incidenza del proprio capitale sul totale delle attività sono ben capitalizzate quindi poco indebitate. Vediamo due banche con stessa dimensione (100 milioni di euro del totale dell’attivo che per la partita doppia è uguale alla passività) e stessa direzione di investimenti: 10 milioni a riserva e 90 milioni all’investimento in prestiti ai clienti ordinari. Si differenziano solo per la composizione del passivo: la Plus ha un rapporto capitale proprio/tot attività del 10%, cioè 10 milioni su 100 di capitale di rischio e 90 su 100 di raccolta ordinaria di debito dalla clientela. La Minus ha raccolto sul mkt 96 milioni di debiti nei confronti dei clienti, fatti di conti correnti, e solo 4 milioni di capitale di rischio, ha quindi un rapporto del 4%. Si immagina che le banche operino nel medesimo territorio, quindi siano esposte allo stesso rischio di credito proveniente dagli stessi settori merceologici, e presentino più o meno gli stessi clienti in termini di tipologia. Supponiamo che subiscano una crisi di mkt dal lato dei prestiti: la banca ad esempio ha eccessiva esposizione al mkt immobiliare, una parte dei mutui va in sofferenza e di conseguenza si svalutano, perché i debitori non sono più solvibili come erano o sembravano al momento della concessione. La banca si trova ad annullare il valore di es. 5 milioni di prestiti, quindi l’attività delle due banche diminuisce di questo valore. A pagare il conto di questa politica dei prestiti rivelatasi problematica in entrambe le banche non sono i titolari dei conti correnti ma gli azionisti, quindi il capitale proprio della banca. Sono loro a subire il rischio di impresa, che in questo caso passa attraverso il rischio di credito: - nel primo caso, la banca è in grado di sopportare questo annullamento poiché il suo capitale di rischio è di 10 milioni. Gli azionisti dovranno rinunciare alla metà del valore di mkt del loro investimento, perché con 5 di quei 10 milioni dovrà essere coperta la perdita affrontata. Quindi post svalutazione il tot delle attività scenderà a 95 milioni, così il totale delle passività, ma questo non interesserà i 90 milioni in prestiti, ma solo i 10 in riserve. La banca potrà continuare a operare malgrado tutto. Sappiamo che il livello di patrimonializzazione minimo desiderato è intorno all’8%, livello non più rispettato, quindi ci aspettiamo che le autorità di controllo solleciteranno gli azionisti a sottoscrivere un aumento del capitale, cioè ricapitalizzare le banca attraverso la sottoscrizione di nuove azioni, per raggiungere questo livello minimo. - nella seconda banca il livello di patrimonializzazione era già sotto i livelli fisiologici, quindi a fronte di questa perdita imprevista accade che il capitale proprio della banca si azzera, diventa addirittura negativo, ovvero la banca diventa insolvente. Essa viene immediatamente posta in liquidazione, si dice “risolta”, e siccome la ricchezza degli azionisti è negativa, c’è il rischio che anche i correntisti debbano perdere parte del loro investimento. Occorre quindi intervenire al fine di ridurre quest’ultimo rischio: c’è un meccanismo di tutela di questi utenti, bisogna che la crisi sia rapidamente affrontata, la banca deve essere immediatamente posta in liquidazione in maniera da recuperare i residui necessari per sventare questa possibilità. Quindi se la leva finanziaria è eccessiva il rischio di fallimento è molto più alto, perché può bastare una crisi significativa ma non drammatica per portare la banca in condizioni pericolose. Per questo sono imposti i livelli minimi di patrimonializzazione. Il patrimonio netto se elevato consente di comprare tempo per trovare soluzioni di mkt senza andare ad intaccare i depositi. Ci si chiede allora come mai ci sia la tendenza a lavorare con un livello di leva finanziaria così elevato da parte delle banche. Esiste una regola per far capire il trade off fra redditività e capitalizzazione: infatti più elevato è il ricorso al K proprio minore è il rendimento della banca. La redditività della banca viene misurata da due indicatori: • ROA = utile netto/totale attivo => return on asset, dove gli asset sono il totale dell’attivo. Il numeratore è un indicatore di profitto e a seconda delle versioni può essere il risultato di gestione o reddito operativo, oppure direttamente l’utile netto, cioè l’ultimo risultato di profitto il più ridotto possibile. Si misura quanto rende ogni euro investito nel totale delle attività della banca al netto di tutti i costi. Questo però non interesse agli azionisti, gli interessa il ROE • ROE = utile netto/capitale proprio => return on equity, stesso numeratore cambia il denominatore, si divide per il capitale proprio invece che per il totale dell’attivo. È tenuto sotto controllo dagli azionisti perché il loro investimento è limitato al capitale proprio, sono coinvolti solo per una piccola parte. Gli interessa quanto rende ogni euro del capitale di rischio che hanno investito nella banca. L’utile netto, oltretutto, è il risultato di profitto di stretta competenza degli azionisti. Il reddito a cui aspira l’azionista infatti è tutto ciò che residua dai ricavi di esercizio tolte le imposte varie. Non tutto l’utile netto viene pagato ai soci sotto forma di dividendo, ma quella è la massima remunerazione che l’azionista può incassare. Tra queste due grandezze, si può trovare una relazione ROE = ROA x EM • EM = totale attivo / capitale proprio => equity multiplier, tanto più alto quanto più minore è il denominatore. Possiamo vederlo come un indicatore di patrimonializzazione se consideriamo il suo reciproco. Tanto più alto è il moltiplicatore, tanto più alto è il rendimento degli azionisti. È una identità contabile. Prendiamo due banche grandi uguali, con la stessa redditività dell’attivo (es. 2%), la più redditizia dal punto di vista degli azionisti è quella dove l’investimento degli azionisti è più piccolo, cioè dove il rapporto di patrimonializzazione è più basso, ovvero dove l’EM è più grande. Dietro c’è un ragionamento: due banche hanno la stessa utile di 1 milione da distribuire agli azionisti, una ha un capitale di rischio alto, quindi EM basso, l’altra il contrario, quindi un EM molto alto. A parità di utile da distribuire, se nella prima hanno investito poco e nell’altra molto, a parità di utili avranno un rendimento maggiore nella seconda. Quindi se ci sono due banche uguali con stessa profittabilità lorda, è più avvantaggiata la banca poco capitalizzata perché a parità di utili se sono in pochi a doverseli distribuire la parte che si porteranno a casa sarà maggiore. Minore è il livello di coinvolgimento degli azionisti per un dato livello di redditività, maggiore sarà il loro guadagno. Questo spiega perché le banche con pochi sportelli operino con molto capitale di rischio: non perché non vogliano dare soddisfazione ai loro azionisti, sanno di poter operare con un EM molto più alto, ma sanno che hanno un rischio di fallimento molto più alto di quello di banche nazionali o addirittura con sedi internazionali, che diversificano meglio il rischio e quindi possono operare a un livello di patrimonializzazione più contenuto. Attività fuori bilancio Dobbiamo ricordare che i soldi si fanno nelle banche non solo attraverso l’attività bancaria, ma anche attraverso altre attività di tipo finanziario, chiamate attività fuori bilancio, che, non comportando per la banca l’accensione immediata di nuovi debiti o crediti, non movimentano il mastrino dello Stato patrimoniale. Ciò non significa che non possano essere pericolose e produrre dei rischi. Le attività che rientrano in questa definizione più popolari sono: • vendita o cessione di prestiti: il modo più moderno per effettuarle è tramite la cartolarizzazione, prima invece si operava tramite cessione del credito a clientele ad altri intermediari finanziari. Le banche vendono i propri prestiti perché può rendersi necessario ristrutturare il proprio ptf prestiti e fare questo è complicato perché i contratti dei prestiti sono opachi e quindi scarsamente liquidi. Non è però impossibile venderli sul mkt. Le banche negli ultimi anni hanno spesso fatto ricorso alla cessione di crediti, sia per vendere buoni prestiti al fine di far raccolta di nuovi fondi e fare nuovi crediti, sia per vendere sofferenze, anche in questo caso per fare provvista di fondi. Nel primo caso la cessione avviene a un valore molto vicino al fair value, nel secondo caso le famiglie hanno smesso di pagare regolarmente i loro prestiti, quindi chi rileva questa operazione sa che subentra nei confronti di soggetti da cui può recuperare solo parte del prestito iniziale. Il compratore svolge in quest’ultimo caso un’attività di recupero crediti, consente alla banca di ripulirsi da questi crediti. Negli ultimi anni l’attività di gestione dei prestiti malati è avvenuto non mediante trattative bilaterali con altri intermediari ma attraverso la cartolarizzazione: la banca prende operazioni tutti uguali (prestiti effettuati ai consumatori, mutui tutti uguali o simili, ecc.) in base a controparte, forma tecnica e scadenza, li scorpora dal loro ptf prestiti e per darli a coloro che acquistano questi prestiti che sono fuori dal controllo delle banche li cede a un veicolo esterno, l’SPV (Special Purpose Veichle). Il veicolo, per riceverli, deve in cambio pagarli alla banca e per farlo emette delle obbligazioni sul mkt, queste vengono sottoscritte da operatori di mkt. L’SPV è una società finanziaria che ha una solo attività finanziaria, cioè il ptf prestiti che la banca vuole cedere, e che si occupa semplicemente di prendere a prestito dagli obbligazionisti e per acquistare i prestiti che la banca gli vuole cedere. È una cassaforte che ha un solo debito dal lato del passivo, costituito da un prestito obbligazionario nei confronti di piccoli investitori. Sono obbligazioni di bassissimo rischio perché garantite dal suo attivo, in cui c’è solo un’attività, il ptf di mutui ipotecari che la banca gli ha ceduto. Egli amministra questi prestiti: i debitori vengono ceduti a lui dalla banca, ma non svolge nessuna attività d’impresa, essi continuano a pagare le rate di mutuo alla banca, questa le incassa e gira i proventi al veicolo, che trattiene una commissione per la sua mansione e gira a sua volta agli obbligazionisti il provento di questi incassi. Semplicemente convoglia gli incassi sui mutui dagli originari mutuatari agli obbligazionisti. I vantaggi: dal lato dell’obbligazionista, egli compra un titolo a basso rischio, diverse tipologie di garanzia. Infatti, il veicolo emette obbligazioni con diverso livello di garanzia (“seniority”), quindi l’obbligazionista può scegliere il suo livello di copertura dal rischio e quindi di rendimento. Dal lato della banca il vantaggio è la possibilità di rendere liquidabile una parte di ptf che è per definizione illiquida, con un minimo sacrificio. Il meccanismo in sé è quindi virtuoso se utilizzato in maniera corretta. Nel caso degli Usa ha sconfinato nella scorrettezza perché nel momento in cui cedo anche sofferenze, allora si può innescare un meccanismo opportunistico tale per cui se i prestiti vengono concessi già sapendo che la banca non dovrà detenerli nel suo ptf prestiti, viene meno l’incentivo a selezionare i ricevitori di questi mutui. Da “Originate to hold” diventarono “Originate to distribute”, non puntavano più a detenersi in ptf prestiti per lungo termine, ma cercavano di disfarsi di queste operazioni, vendendole il più possibile, cioè le volevano cartolarizzare. Se questo passaggio degenera e rapidamente le banche vanno a servire strati di clientela sempre meno qualificati, cartolarizzandoli ma mantenendo alto il loro rating perché certificati dalle società di consulenza, si crea un circolo vizioso. Dalla vendita di questi prestiti le banche intascano delle provvigioni, e poi continuando a seguire, tramite le rate, i diversi debitori, continuano a incassare commissioni per i servizi di pagamento che gli prestano. • servizi = concessi ai propri clienti, legati all’area valutaria, gestione di operazioni ipotecarie, negoziazione di cambi, offerta di linee di credito (es fideiussioni), come la garanzia aggiuntiva fornita alle imprese per emettere obbligazioni • trading = in conto proprio che le banche fanno, da cui sperano di ricavare profitti per integrare quelli già effettati Tutte queste attività possono generare rischi e quindi determinare un aumento del rischio di fallimento, sebbene sia per lo più generato dalla mal gestione dell’attività bancaria. Nella nota integrativa la parte interessante riguarda i prestiti. Nell’SP ho il valore di presumibile realizzo dei prestiti in essere, non c’è indicata la qualità del credito che attualmente la banca sta concedendo ai propri clienti. Per sapere l’importo dei crediti a rischio e quanta parte è scoperta, quindi quale parte del ptf è presumibilmente persa perché non coperta da garanzie e quale invece è recuperabile tramite gestione attiva del credito, mi serve consultare questo terzo documento. IL CONTO ECONOMICO Il Conto Economico delle banche è in forma scalare, infatti ricavi e costi vengono accorpati in un’unica colonna, a volte vengono sommati fra loro per avere risultati intermedi al fine di capire come la banca sta generando utili, se più con l’attività tradizionale o più con quella secondaria, fino ad arrivare all’utile netto. Quello a lato è il conto economico somma di tutte le banche italiane in una versione molto compatta. Esaminiamo le voci: • Margine di interesse = essa è già un saldo tra ricavie e costi di interesse. corrisponde infatti alla differenza fra gli interessi incassati e quelli pagati ai depositanti e in generale a tutti i fornitori di K di debito. Questo saldo è positivo, e questo è fisiologico perchè i prestiti hanno tassi più alti di quelli applicati sui depositi, perché gli interessi pagati sui titoli che le banche acquistano sono superiori a quelli pagati dalle banche sui propri titoli. Il risultato è esposto in percentuale sul totale delle attività, anche detto “fondi intermediati totali”, che è un sinonimo del totale dell’attivo. Si evidenzia una tendenza decrescente dell’importanza di questo primo margine di profitto (sta sotto all’1% anche nel dato di fine 2019), che rappresenta la redditività della banca tradizionale; questo perchè i tassi di interesse negli anni sono calati e molto rapidamente, in più c’è un problema dal lato dei volumi, cioè i prezzi calati sono stati applicati a quantità di impieghi diminuite, sia a causa dei prestiti svalutati, sia perchè anche quelli buoni sono cresciuti poco, addirittura calati sia per la difficoltà a concedere prestiti sia per la bassa domanda di prestiti da parte delle imprese, che tendono ad essere sempre più risparmiatrici. • Altri ricavi netti = pensabili come somma di tutti i ricavi non da interessi, al netto dei costi finanziari non da interessi, es. commissioni attive per servizi di tipo finanziario diversi da quelli tradizionali, che generano ricavi non nell’espressione di un tasso di interesse. Ci sono tre aree di produzione di profitto attraverso le attività finanziarie: 1) negoziazione e valutazione al fair value: con negoziazione intendiamo il cotnributo dell’attività di negoziazione a conto proprio, comprando e vendendo titoli finanziari negoziabili. Con valutazione invece ci si riferisce alla procedura per cui i titoli classificati in ptf per la negoziazione, anche se non vengono movimentati, vengono comunque valutati a inizio e fine esercizio al loro fair value; quindi se anche devono essere negoziati ma non succede, vengo rivalutati, con un profitto se nel frattempo il loro valore di mkt è aumentato. La prima è una espressione di profitti fatti comprando a poco e rivendendo a molto, la seconda invece dipende da un effetto contabile. 2) servizi = dà il contributo maggiore, che è stabile e tendenzialmente crescente. Al primo decennio degli anni 2000 vedremmo un valore per i ricavi netti sui servizi che è sempre positivo e di livello notevole rispetto al margine di interesse. La banca nel tempo è diventata sempre più un rivenditore di servizi, quindi un intermediario che fa utili incassando commissioni più che interessi. 3) dividendi e proventi assimilati = redditività che le banche hanno in altri intermediari La sommatoria di questi tre dati dà come risultato appunto “altri ricavi netti”, e sono sempre valori positivi, in particolare è importante lo sia il primo, perché esprime l’aree dove negli ultimi anni si sono presentati i problemi di scarsità di controllo che hanno determinato numerosi fallimenti di banche d’affari. • Margine di intermediazione = somma del margine di interessi e del margine ottenuto dall’area eterogenea dei servizi. È la somma di due margini di profitto, il primo relativo alla sola gestione del denaro (attività bancaria) e l’altro comprendente gli altri ricavi netti sui servizi. Questa voce è una proxy del fatturato, ci dà una dimensione dell’attività di intermediazione svolta dalle banche. Togliendo al margine i costi operativi, di cui i costi per il personale bancario, la voce più significativa, si vede che l’incidenza del costo del personale è rimasta su livelli abbastanza stabili e guardando agli anni precedenti vedremmo incidenza ancora più alte, visto che questa voce è stata abbassata nei primi anni del 2000, perchè l’incidenza era diventata inadeguata rispetto alla capacità delle banche di produrre profitti tramite la loro attività tradizionale. Appurato il problema, si sono date al trading, hanno trovato appunto attività alternative, e poi hanno tagliato i costi. • Il risultato di gestione = è il più oggettivo profitto lordo nonché il primo che si trova nel CE, infatti dal fatturato abbiamo tolto tutti i costi finanziari e operativi. Negli anni ha avuto un andamento abbastanza oscillante, che secondo dati più recenti ha visto una ripresa. E’ una stima del ROA. Scendendo ci sono una serie di modifiche di questo risultato che risento pesantemente di scelte discrezionali del redattore di bilancio. Tra queste, le rettifiche e le riprese di valore e accantonamenti, di cui la parte più importante è sui crediti, perché la parte che resta fuori relativa ad altri tipi di operazioni finanziarie e non spiega molto poco di questa voce. Sono valutazioni molto soggettive, al punto che a ogni ispezione della Banca d’Italia (sono valori che vengo tolti al valore dei prestiti per allinearli al loro fair value, numeri frutto di scelte discrezionali di chi redige il bilancio), quasi mai trova questi numeri ragionevoli, avrebbe voluto rettifiche di importo superiore (le banche cercano di non svalutare troppo i crediti). • Proventi straordinari = segno oscillante; proventi che possono essere in aggiunta o in detrazione del risultato di gestione, di eventi in quanto straordinari che non si ripeteranno gli anni successivi. Dall’utile al lordo delle imposte, togliendo queste ultime, si arriva all’utile netto. Da diversi anni già il lordo era una perdita. Il CE delle banche ci mostra che l’attività di trasformazione da banca tradizionale a universale, da cui ha preso piede l’attività straordinaria della banc,a non è ancora pienamente completata, perché il margine di interesse al massimo potrà rimanere sui livelli attuali. Poiché la banca è fatta in modo che l’attivo scada più a lungo del passivo, un aumento dei tassi non avrà effetto positivo sui margini di interesse, perché si trasferisce subito sul costo della accolta e con più lentezza sui ricavi. Per rimanere in utile è nell’attività staordinaria che devo fare miglioramenti: l’attività di negoziazione dipende molto dlal’andamento delle borse, è nella parte dei servizi che bisogna lavorare di più. È qui che le banche possono recuperare la tendenziale stagnazione del margine dell’attività denaro. Ci sono margini di miglioramenti anche nell’area dei costi: ogni anno ci saranno uscite di personale che continua ad andare in pensione, si risparmia limitando le nuove assunzioni e assumendo giovani. Man mano che se ne vanno gli anziani, che hanno gli stipendi più alti, l’effetto sul costo del personale sarà benefico. CAPITOLO 11 – LE BANCHE DI INVESTIMENTO Le banche di investimento sono istituzioni finanziarie che nascono in Usa e Uk per favorire il finanziamento di imprese che vogliono raccogliere fondi allo scopo di costruire infrastrutture. Nascono quindi come banche d’affari che aiutano società che vogliono raccogliere capitali mediante il collocamento di titoli sul mkt. Non sono tipiche dei sistemi finanziari europei. Nel nostro ordinamento sono state introdotte per via amministrativa negli anni 80 come “SIF” – Società di Intermediazione Finanziaria, per poi venire rapidamente dismesse in pochi anni. Forniscono poi anche altri tipi di servizi, come la negoziazione in conto proprio e conto terzi, relativi al buon funzionamento delle borse. È un servizio tipico all’estero per altri tipi di istituzioni finanziarie che si specializzano nell’aiutare chi vuole negoziare titoli già in circolazione a comprarli e venderli nei mkt regolamentati e over the counter. Non è un’attività oggetto di grande attenzione nelle banche di investimento, perchè operano sostanzialmente senza sportelli, dato che hanno una clientela fatta di imprese e non di famiglie, non servono agenti promotori o punti di contatto sul territorio. Quando parliamo di borker e dealer nel contesto europeo ci riferiamo alla stessa figura dell’impresa di investimento, perché è l’unico intermediario operante nei mkt mobiliari sia secondari che primari istituiti. Esistono poi i gestori professionali del risparmio, che si distinguono per gestione individuale (personalizzata) o collettiva. La prima è prestata dalla imprese di investimento, la seconda dalle SGR. Le banche di investimento Le banche di investimento quindi non esistono nel nostro sistema, esistono le imprese di investimento, intermediari istituiti per concorrere alle banche nella gestione del risparmio, non nell’impiego di fondi ma nella prestazione di attività di tipo finanziario e in modo specifico tra i servizi di investimento, invece regolamentati dal TUF. Possono prestare o solo servizi di primo tipo (mkt primario), solo o anche l’attività di dealer, solo o anche la gestione del risparmio individuale. Nel nostro ordinamento l’attività tipica delle banche d’affari è prestata o dalle banche, se autorizzate a prestare servizi di invesitmento di primo tipo (emissione titoli), o da imprese di invesitmento. All’estero è invece tipizzata perché regolamentata da specifiche norme di legge e quella d’investimento rappresenta la banca di riferimento, mentre da noi parlando di banche ci riferiamo alla banca commerciale e a quella di deposito. Servizi prestati Le banche di investimento aiutano le società che vogliono emettere titoli sul mkt a farlo. Innanzitutto fanno un’attività di scouting, ovvero un’attività di screening. Scandagliano cioè il mkt delle imprese medio-grandi, quelle quotate o che possono ambire ad esserlo, cercando potenziali clienti per il collocamento (Initial Public Offers, o Offerte Pubbliche di Vendita e Sottoscrizione in modo più formale): chi è già quotata farà un’operazione di aumento di capitale, chi deve essere ancora quotata deve realizzare la sua prima offerta pubblica di sottoscrizione, quindi deve diffondere al pubblico la proprietà delle proprie azioni. Può farlo in due modi: - coloro che detengono il capitale dell’azienda vendono parte delle loro azioni, bisogna però diffondere fra il pubblico almeno il 25% del capitale.Fanno quindi cassa i vecchi soci ma non l’impresa, perchè questa non vende nuove azioni, sono i soci a vendere le proprie già esistenti - offerta non pubblica di vendita ma di sottoscrizione: i vecchi soci si fanno da parte, si lancia un’operazione di aumento di capitale, vengono emesse nuove azioni senza che i soci esercitino il loro diritto di opzione e lasciano che siano esclusivamente nuovi azionisti a comprare. La società emittente fa effettivamente raccolta di nuovi fondi perhcè incassa il controvalore della vendita delle azioni. Le operazioni più comuni sono un mix delle due cose: i vecchi soci vendono una parte delle azioni di lroo posseso così da fare cassa, e una parte delle azioni collocate sono nuove e vendute allo stesso prezzo delle prime. I servizi che prestano queste banche di investimento sono: • Consulenza: la banca aiuta a fissare il prezzo delle azioni che vengono vendute ai clienti. Definire il prezzo dei titoli è l’attività più importante da loro svolta: conoscendo bene il mkt primario sono meglio di altri in grado di fissarlo, cosa difficile soprattutto per i titoli emessi per la prima volta, non avendo un prezzo di riferimento di mercato. Quando l’operazione è mista le azioni hanno già un prezzo di riferimento quindi è più facile individuare il prezzo. • Assistenza nelle pratiche amministrative: normalmente quando si sollecita il pubblico a investire occorre adempiere una serie di passaggi deifniti sia dal TUF che dai regolamenti CONSOB al fine di essere autorizzati a falro. Da noi come in altri paesi europei è previsto l’obbligo di redigere il prospetto informativo, documento che contiene tutte le informazioni relative all’emittente, all’andamento della sua gestione, cosa fa, e una sezione contente le informazioni relative alla struttura dell’offerta dei titoli. Si sono predisposti dei prospetti tipo che devono poi essere personalizzati grazie alla consulenza della banca di investimento, che li adatta all’emittente e all’emissione da realizzare. Chi ha il compito di convalidare il prospetto informativo è l’autorità di controllo, da noi la CONSOB. Non si pronuncia però nel merito, non fa cioè un controllo di veridicità delle dichiarazioni rilasciate dall’emittente, il suo è un controllo formale: verifica che tutte le informazioni richieste siano contenute nel prospetto informativo. Il rischio dell’investimento resta quindi in capo all’investitore. Se la CONSOB non garantisce sulla veridicità, lo fa l’intermediario, controfirmando il prospetto fungono da garanti. Un segnale che il mkt apprezza è che quando il consorzio di collocamento sollecita i propri clienti ad investire nelle azioni promosse, resti socio della società cliente che sta sponsorizzando. Se infatti succedesse il contrario darebbe un segnale di un possibile comportamento opportunistico. • Assistenza nel collocamento delle emissioni: le banche di investimento non hanno una loro rete di vendita autonoma, quindi lavorano con l’emittente individuato come idoneo, lo aiutano a strutturare l’operazione mediante il range di prezzo, ma poi, non avendo gli sportelli, devono istituire dei consorzi di collocamento, quindi devono arruolare altri soggetti, come broker e dealer, che hanno una clientela retail, al fine di vendere questi titoli. Le banche commerciali da questo punto di vista sono avvantaggiate perché invece hanno un punto vendita. Questo primo tipo di attività, quella relativo al collocamento, è la più importante. Non è però l’unica: esse sono di supporto anche in qualità di consulenti per fusioni, per acquisizioni e collocamenti privati. Supportano soggetti che realizzano operazioni di fusione, li aiutano a trovare sul mkt i fondi necessari per realizzare questa operazione. Avendo una buona conoscenza del mkt delle imprese, sono in grado di individuare l’impresa da acquisire o con cui fondersi. Organizzano anche collocamenti di tipo privato: non tutte le imprese che chiedono assistenza nel collocamento di titoli vogliono sollecitare il pubblico ad investire. Essendo privato, non richiede il prospetto informativo e l’iter autorizzativo richiesto nel caso in cui si solleciti il pubblico ad investire. Si parla di privato quando si sollecitano un numero ridotto di soggetti, normalmente intorno ai 200, tutti investitori istituzionali. Sono sufficienti documenti privati e non contraddistinti da una pubblica autorizzazione. Il motivo per cui intervengono anche in queste collocazione è che il normale cliente di un banchiere d’affari non è specialista dei mkt finanziari, quindi anche nel caso in cui volesse collocare un piccolo ammontare, non saprebbe a chi rivolgersi e come fare il prezzo, perché non ne ha le competenze. Il collocamento Il collocamento può essere: - con assunzione di garanzia = il consorzio di collocamento garantisce la vendita integrale delle azioni o obbligazioni offerte al pubblico; si fa quindi carico della quota non venduta, oltre alla quota che ha deciso di non vendere come segnale di affidabilità - sottoscrizione = è sicuro che tutta l’emissione venga sottoscritta perchè il consorzio compra a fermo tutti i titoli dall’emittente per poi venderli agli investitori finali. - semplice = la banca di investimento e il consorzio, in cambio di una provvigione, fanno del loro meglio per vendere sul mkt agli investitori finali i titoli che l’emittente intende collocare senza dare garanzia sul successo integrale dell’operazione; gli eventuali titoli invenduti vengono restituiti all’emittente, che non si vedrà raccogliere tutto il controvalore dell’emissione. Per il buon esito di un’operazione di collocamento è importante che il prezzo fissato dalla banca di investimento sia adeguato. L’emittente si augura di avere un’integrale sottoscrizione dei titoli emessi perchè gli interessa fare provvista di nuovi fondi, ai soci interessa vendere le proprie azioni per fare cassa, e l’operazione va a buon fine perchè il prezzo ha incontrato il favore degli investitori. Se fosse troppo alto non avremmo un’emissione integralmente sottoscritta. Nella realtà quasi mai si ha un perfetto equilibrio fra domanda ed offerta, quindi i casi più comuni sono di sotto e sovrascrizione, in particolare quest’ultima. Da questo punto di vista c’è un interesse in conflitto: al banchiere interessa mostrare al pubblico che è in grado di portare a termine queste operazioni di collocamento con successo, cioè vendendo tutti i titoli. Quello dell’eccesso di domanda è un buon segnale perchè vuol dire che c’è molta richiesta. Inoltre, con un eccesso di domanda ci si attende che la performance dei titoli individuerà un incremento di prezzo nei giorni successivi, perché chi li chiede e non li ha ottenuti dovrà procurarseli nel mkt secondario dove saranno disposti a spendere di più. L’aumento di prezzo è un altro ottimo risultato, perchè significa che i titoli crescono di valore e che chi li ha avuti nella prima sottoscrizione ha già un guadagno in conto capitale, inoltre per chi compra c’è la convinzione di aver acquistato dei titoli che si candidano ad essere un buon investimento nel medio-lungo termine. È un gioco di segnali che si lancia mediante la scelta del prezzo. Questo effetto però si spegne nel medio-lungo termine, spesso si ritorce contro gli investitori: c’è un effetti di ritorno, cioè il prezzo ritorna sui propri passi abbassandosi. Quasi mai quindi si tratta di un buon investimento se c’è eccesso di domanda, nel tempo prevale l’effettiva qualità della società emittente. Questo però interessa relativamente alla banca, che vuole integrale sottoscrizione e garantire nel breve termine una plusvalenza ai sottoscrittori. CAPITOLO 9 – FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO Un fondo comune di investimento (FCI) è una grande cassa comune alimentata dai versamenti effettuati dai partecipanti al fondo, i sottoscrittori di quote. Quando acquisisco un diritto di credito nei confronti della banca, cioè divento un depositante, quel diritto ha un valore fisso, cioè in qualunque momento mi presenti in banca a pretendere la restituzione dell’importo depositato lo riceverò ad un valore certo. Quando conferisco lo stesso ammontare a un FCI o a un FP, acquisisco un diritto che non ha importo certo, perchè l’investimento che faccio non è fatto per acquisire una passività nominale. Esso viene destinato all’investimento in strumenti finanziari, cioè passività prive di valore nominale certo essendo strumenti di mercato. Quindi quando riscatto le quote del fondo comune in cui ho investito, non ho diritto alla restituzione della somma originariamente versata, perché ho sottoscritto una passività al valore di mercato, perciò avrò diritto al rimborso al valore di mercato delle quote che richiedo indietro. Questo può generarmi un profitto o una perdita. Esistono fondi comuni di investimento che ad esempio si specializzano in titoli a breve temrine, o a lungo a tasso indicizzato, la cui volatilità è molto contenuta, in tal modo è possibile limitare l’aleatorietà del rimborso. I vantaggi che il rispamio gestito produce per i propri clienti sono cinque: 1. Intermediazione della liquidità = investo in uno strumento finanziario che mi dà la possibilità di avere in qualunque momento il rimborso dei miei risparmi, rinunciando però alla certezza del valore di riscatto della mia quota. 2. Intermediazione dei tagli = investire direttamente in strumenti di mercato (titoli di debito e di capitale) non è alla portata di qualunque tasca, perchè normalmente ci sono dei tagli minimi o comunque dei costi di transazione che hanno importi minimi prefissati che rendono antieconomico l’acquisto di singole azioni. Gli FCI invece sono disponibili per importi unitari molto popolari, quindi anche un investitore con un modestissimo capitale può investire 3. Diversificazione = per diversificare il rischio bisogna comprare titoli diversi, e ciò non è alla portata del piccolo e medio investitore. Dato che i talgi per investire nei FCI sono bassi, l’investitore al dettaglio può acquistare quote di più fondi comuni di investimento aperti e quindi è in grado senza ricorrere a un professionista di diversificare il proprio investimento. 4. Vantaggi in termini di costi = un investitore all’ingrosso, cioè il FCI, quando va a negoziare sul mkt secondario, una volta individuati i titoli nei quali investe utilizza un’impresa di invesitmento o una banca che presti il servizio di negoziazione per conto terzi al fondo, il quale non essendo una banca non può negoziare direttamente in borsa, ma deve appunto servirsi di un broker. Quando negozia la commissione da corrispondergli, non paga quella che verrebbe richiesta a un rivato, ma è molto di favore, decisamente più piccola di quella che pagherebbe un investitore privato. Questo è un vantaggio significativo in termini di costi. 5. Competenza professionale = i fondi di investimento prestano un servizio di gestione collettiva del risparmio per cui vogliono essere remunerati, per questo quindi addebitano, più spesso sulla base del patrimonio gestito, delle commisisoni, dette oneri indiretti, piuttosto che direttamente sul valore delle quote del singolo cliente. Sul mkt ci vengono proposti almeno due tipi di FCI: - a gestione attiva: la commissione è più costosa perché il gestore del fondo, normalmente una persona fisica professionista, effettua una gestione dinamica al fine di battere il mercato, studiandolo e individuando i titoli che possono dare soddisfazione. Indicato il benchmark, cioè un indice di mercato, si propone di batterlo, cioè di superarlo. Sostanzialmente il benchmark indica il peggio che ci si può aspettare di ottenere affidandosi a lui nella gestione dei risparmi. - a gestione passiva: la commissione è meno costosa perché si propone semplicemente di replicare il benchmark, è un servizio con tutti i vantaggi citati finora ma senza la competenza professionale, c’è uno studio più limitato del mercato. Contengono solo titoli che si trovano in un determinato indice Il gestore attivo, però, molto raramente riesce a cogliere l’obiettivo per il quale è remunerato, cioè difficilmente riesce anche solo a replicare il benchmark. Le maggiori commissioni che i clienti pagano quindi non vengono recuperate in termini di maggior rendimento, di conseguenza è sempre prediletta la gestione passiva. Negli ultimi anni, i fondi comuni di investimento proliferati sono i fondi a gestione passiva, e in particolare la tipologia ETF (Exchange Trade Fund), fondo a gestione passiva le cui quote sono scambiate, alla stregua delle azioni generali, nel mkt telematico borsistico italiano. Per sottoscriverle quindi non devo andare da nessun intermediatore finanziario, perché trovo tutti questi strumenti di risparmio gestito scambiate in un mkt efficiente a cui posso accedere in qualunque momento online. Quindi con un costo di transazione irrisorio posso individualmente comprare quote di portafoglio che replicano indici di tanti diversi tipi, diversificando il mio ptf a livello nazionale e internazionale. Se scelgo una diversificazione internazionale ogni volta investo in una valuta estera, le quote degli ETF giapponesi, americani ecc. sono denominati nella loro valuta, quindi avrò un ptf in valuta estera pericò corro anche un rischio di cambio. I fondi possono essere aperti o chiusi. Quelli chiusi si differenziano dai primi per la mancanza del primo dei vantaggi: il numero delle quote è fisso quindi non c’è la possibilità di riscattarli in qualunque momento, hanno una durata predeterminata di molti anni, per questo spesso le loro quote sono rivendute sul mkt. Normalmente investono in immobili o in società non quotate. Tipologie di fondi comuni di investimento La classificazione più popolare dei fondi aperti è la seguente: azionari, bilanciati, obbligazionari, di liquidità, flessibili. La classificazione assogestioni guarda alla quota minima e massima di investimento più rischioso, cioè di investimento azionario che il fondo è abilitato ad effettuare, da qui individua cinque classi che si differenziano in base alla quantità min e max di azioni che il fondo è abilitato a detenere in ptf. Si possono classificare i fondi anche in base all’area geografica (Italia, Europa, America…), cioè le azioni sono di emittenti italiani, europei, americani, con le rispettive valute. Oppure ancora in base alla specializzazione settoriale degli investimenti, es banche, hi-tech, chimica, alimentare. Chiaramente entrando in un fondo settoriale sosterrò più rischio che investendo in uno europeo: il secondo diversifica di più il rischio perché investe in tanti settori, il primo, ad esempio investendo solo nelle banche, avrà titoli diversi ma con andamenti molto correlati perché l’andamento delle banche sarà generalmente simile appartenendo allo stesso settore. Potrei eliminare questo rischio settoriale proprio investendo in un fondo che investe in tutti i settori industriali. Dipende dalle mie esigenze, se voglio speculare sulle banche è chiaro che mi conviene investire in un fondo settoriale. • fondi azionari Sono i fondi con più titoli azionari. È un fondo che si impegna ad investire non meno del 70% del proprio patrimonio in azioni, il restante può essere tenuto sottoforma di titoli di debito e di liquidità. Tutti i fondi detengono un po’ di depositi in conto corrente presso un istituto bancario e ogni fondo ha una banca di riferimento perchè così è richiesto dalla regolamentazione. La funzione di essa è custodire i titoli che il fondo acquista per i propri partecipanti, verificare la correttezza delle operazioni e del calcolo della quota. Questa banca è detta depositaria, perchè è depositaria da un lato degli strumenti finanziari del fondo, dall’altro della liquidità di quest’ultimo. Il motivo per cui ogni fondo tiene liquidità è che ognuno di essi è soggetto al fisiologico riscatto di liquidità da parte dei propri clienti, diritto che devono soddisfare in brevissimo termine, a cui è più facile far fronte con questa liquidità piuttosto piuttosto che vendendo azioni per procurarsela. • fondi bilanciati Possono avere esposizione al rischio azionario da un minimo del 10% a un massimo del 90%, perché sono fondi con ptf che è ripartito fra azioni e obbligazioni, ma possono esserci i bilanciati obbligazionari, in cui è predominante la quota investita in obbligaizoni, all’opposto i bilanciati azionari. Sono i più eterogenei perché possono avere varie combinazioni. Non hanno alcun senso dal punto di vista della gestione passiva ma di più dalla gestione attiva, perché potendo giocare tra azioni e obbligazioni è importante trovare il momento in cui esporsi di più ad un mkt piuttosto che all’altro e fare profitto. • fondi obbligazionari Non investono in azioni a meno dei fondi obbligazionari misti, che hanno una quota di azioni fino al 20%. Si possono disaggregare e vengono classificati anche rispetto al rischio di credito, ad esempio possono investire solo in titoli investment grade (con rating e buono) o solo in titoli spazzatura (con rating speculativo, i junk bond), in quest’ultimo caso so di avere a che fare con un fondo molto speculativo e quindi rischioso, nel primo caso si investirà per lo più in titoli di Stato o di società con rating importante. Possono essere anche solo di titoli di Sttao, solo obbligazioni corporate. Ancora possono distiguersi in base al rischio di interesse: può investire solo in obbligazioni con bassa duration (12 mesi), intermedia (1-5 anni) o elevata duration (oltre i 5 anni), chiaramente più aumenta la duration più aumenta il rischio di interesse. • fondi di liquidità Detengono solo liquidità e strumenti di mkt monetario. Non è un fondo molto sottoscritto perchè i tassi di mkt monetario sono attualmente negativi o vicini a zero, si investirebbe in strumenti a rendimento negativo. Viene anche detto “fondo comune monetario”. In Italia e in Europa sono puri, non offrono altri tipi di servizi se non la gestione collettiva del risparmio. Quelli americani si sono invece trasformati in quasi banche, nel senso che oltre a investire il risparmio dei propri clienti emettono anche carte e strumenti di pagamento. In tal modo i sottoscrittori possono usare il credito che hanno nei confronti della banca per regolare i propri acquisti. I fondi liquidità possono essere esposti a rischi di cambio. • fondi flessibili Fondi che non hanno un’asset allocation predefinita, non c’è quota minima o massima di investimento predefinita. Quindi chi ne compra le quote firma una delega in bianco al proprio gestore, che è libero di avere un asset location azionario tra 0 e 100%. Se sono fondi armonizzati, cioè conformi alle direttive comunitarie relative ai fondi comuni venduti agli investitori al dettaglio, che sono anche i fondi più trasparenti, regolamentati nella maniera più sicura, sono tutti fondi che non possono fare debiti, cioè che non possono indebitarsi per investire in strumenti finanziari, si dice che non possono operare con leva finanziaria. Non possono investire più del patrimonio raccolto dai loro sottoscrittori. Ci possono essere fondi non armonizzati, che non rispondono cioè ai requisiti di sicurezza, frazionamento e contenimento dei rischi, che il legislatore comunitario ha raffinato negli anni (5 direttive). Un fondo del genere non è pensato per un piccolo risparmiatore, e può riservarsi la possibilità, comunciandola nel prorpio prospetto informativo, di andare anche a debito investendo più del patrimonio raccolto dai propri clienti in strumenti finanziari. È chiaramente molto più rischioso del precedente. Tra questi, abbiamo i fondi speculativi o hedge fund. Essi sono fondi che non sono commercializzati al piccolo investitore perchè non seguono alcuna regola di sana e prudente gestione. Sono appunto speculativi, perché si propongono, facendo anche molto ricorso alla leva finanziaria, di perseguire strategie di investimento che possono rivelarsi anche molto rischiose, al fine di massimizzare il rendimento di coloro che vi partecipano. Normalente la regolamenaizone mondiale prevede dei minimi sottoscrivibili molto elevati (es. 500.000 euro in Italia) per rendere impossibile l’accesso al piccolo imprenditore. Non tutti i fondi hedge sono spericolati, ce ne sono anche con una politica molto prudente: il temrine “hedge” significa copertura, e un rischio coperto lo si pensa come trasferito a qualcun altro. La gran parte sono poco coperti, altri si specializzano nel realizzare operazioni affatto rischiose anzi coperte. CAPITOLO 10 – I FONDI PENSIONE I fondi pensione sono degli accantonamento costituiti da parte delle remuenrazioni del lavoratore proprietario, ottenute durante la sua vita lavorativa. Questi capitali vengono investiti in maniera diversificata, fruttando degli interessi, che si sommerano a quanto versato per costituire un reddito integrativo alla pensione ottenuta di diritto al termine della carriera lavorativa. Questi fondi hanno un direttore degli invesimenti, dipendente della società di gestione del risparmio, perché tutta l’attività di gestione del risparmio nel nostro Paese è delegata a un intermediario professionista che esercita solo quella mansione. Quindi le SGR posson gestire sia fondi comuni di investimento, aperti e chiusi, sia fondi pensionistici, anch’essi aperti o chiusi. Il termine “aperto o “chiuso” ha qui un significato diverso: - aperto = è un fondo aperto a tutti, chiunque può diventare partecipante del fondo pensione; è promosso da intermediari finanziari, non sono coinvolti imprenditori, associazioni di categoria, sono prodotti di mkt che chiunque può sottoscrivere, anche chi non è lavoratore. - chiuso = possono parteciparvi solo specifiche categorie di sottoscrizione bisogna essere lavoratori dipendenti in un certo comparto industriale. Sno istituiti da accordi collettivi stipulati tra associaizoni dei datori di lavororo e organizzaizoni sidnacali. I promotori sono i datori di lavoro e lavoratori. È un ente privato, associazione con propria base sociale e organi sociali, ma, non essendo un intermediario finanziario, può solo promuovere la costituzione di un fondo pensione, che si rivolge alle imprese di quella associazione di categoria, non può gestire direttamente il fondo. Ne demanda la gestione quindi all’unico intermediario abilitato a organizzarla. Il vantaggio del fondo chiuso è che prevede una doppia contribuzione: essendo un fondo che nasce per iniziativa delle imprese e dei loro dipendenti, da un lato il lavoratore risparmiatore destina una parte del proprio stipendio periodicamente al fondo, questa è la sua quota di distribuzione soggetta a benefici fiscali a fine anno, dall’altro si aggiunge la contribuzione del datore di lavoro. Si creerà un valore finale di questi versamenti periodici, il montante, e al momento della pensione l’assicurato percepisce la pensione dell’INPS e in più avrà una rendita integrativa dipendente da quanto ha versato nel fondo e da quanto ha reso l’investimento. Il problema è che ciò che mi viene riconosciuto come pensione integrativa è ignoto fino a quando andrò in pensione, perché la maggior parte di questi fondi lavora sulla base di una contribuzione definita, ciò che è certo è quanto è versato da datore e lavoratore, ciò che è incerto è il rendimento derivante dall’investimento di questi risparmi nei mkt finanziari. Ci sono però anche fondi cosiddetti con prestazione predefinita, che danno certezza della pensione ma non di quanto bisogna accantonare negli anni per accantonare quella pensione integrativa. Ma non può essere proposto ai lavoratori dipendenti ma solo a quelli autonomi. Se un’impresa non è in grado di farsi un fondo chiuso, può fare accordo con i propri dipendenti per aderire al fondo aperto, che è però sottoposto a regolamentazioni di mercato, ma a cui si può aderire collettivamente come se fosse un fondo chiuso. Si mantiene in questo caso la doppia contribuzione. Se non c’è neanche questa possibilità, il lavoratore perde la possibilità della doppia contribuzione e non gli resta che l’adesione a titolo individuale ad un fondo aperto, in cui ci saranno solo i suoi versamenti che non potranno essere integrati dalla contribuzione aggiuntiva del datore di lavoro. Purtroppo lo sviluppo dei fondi privati nel nostro paese è ancora arretrato, per esempio tutto il comparto del pubblico impiego, salvo quello delle scuole, non ha un proprio fondo chiuso di riferimento. La maggior parte delle imprese in Italia sono di piccole dimensioni quindi non c’è possibilità di accordo collettivo per aderire a un fondo aperto e a maggior ragione non può esistere un fondo chiuso. Perciò la copertura è per lo più lasciata ai fondi aperrti, il cui maggior svantaggio è che per arrivare allo stesso montante del chiuso il lavoratore, non potendo far ricorso all’aggiunta del datore di lavoro, dovrà versare di più. Questo porterà ad avere una pensione più piccola di quanto sarebbe necessario ottenere per poter mantenere invariato il proprio tenore di vita. Molti sottovalutano il rischio di non avere una pensione integrativa.