Capitolo I Personaggi: Don Abbondio, i bravi, Perpetua Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia Tempo: 7 novembre 1628, sera Temi: La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Trama: Descrizione dei luoghi del romanzo. Don Abbondio incontra i bravi, che lo minacciano di non celebrare il matrimonio. La giustizia e le gride. Descrizione del curato. Don Abbondio torna a casa e rivela tutto a Perpetua, che gli dà i suoi consigli. Il curato impone alla donna di non riferire nulla di quel che sa. Inizio del romanzo: i luoghi della vicenda Il lago di Como ha due rami e quello che si volge verso sud si stringe fra due catene montuose, acquistando per un breve tratto il corso di un fiume, specie nel punto dove le due rive sono unite dal ponte di Lecco. Poco più a valle il lago torna ad allargarsi e la riva si distende tra il monte di S. Martino e il Resegone, con un profilo rotto in collinette e piccole valli, mentre tutt'intorno vi sono vigne e campi coltivati. Lecco è la città principale di questa regione ed è sede, al tempo della vicenda narrata, di un castello che ospita una guarnigione di soldati spagnoli, spesso intenti a molestare le donne del luogo e a maltrattare i contadini, quando non depredano i raccolti della vendemmia. Tra le alture e la riva del lago, così come tra le varie colline, si snodano strade che talvolta scendono fra due muri infossati nel suolo e in altri casi si alzano su terrapieni, consentendo a chi vi cammina di vedere un ampio tratto di paesaggio: i luoghi da cui si ammira questo spettacolo sono da ammirare a loro volta, in quanto mostrano il profilo variabile delle cime dei monti che tempera e raddolcisce il carattere in parte selvaggio della natura. Don Abbondio incontra i bravi Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa dalla passeggiata don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre il cui nome non è citato dall'anonimo, così come non è specificato il casato del personaggio. Il curato cammina lentamente e con fare svogliato, recitando le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli sulla strada. Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla cui confluenza è posto un tabernacolo, che contiene immagini dipinte di anime del purgatorio: qui, con sua grande sorpresa, vede due uomini che sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul muretto e l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. Entrambi indossano una reticella verde che raccoglie i capelli e hanno un enorme ciuffo che cade loro sul volto; portano lunghi baffi arricciati all'insù e due pistole attaccate a una cintura di cuoio; hanno un corno per la polvere da sparo appeso al collo e un pugnale che emerge dalla tasca dei pantaloni, con una grossa spada dall'elsa d'ottone e lavorata. Don Abbondio li riconosce immediatamente come individui appartenenti alla specie dei bravi. I bravi, le gride, la giustizia Ma chi erano in effetti i bravi? L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583, emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo stesso funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23 maggio 1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed emanato da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi tremendi castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore, quel funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627, quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di anno prima dei fatti narrati; ciò basta all'autore a concludere che, ai tempi di don Abbondio, c'erano ancora molti bravi in Lombardia. I bravi minacciano don Abbondio Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due figuri, atteggiando il volto a un sorriso rassicurante. Uno dei bravi lo apostrofa subito chiedendogli se lui ha intenzione di celebrare l'indomani il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, al che il curato si giustifica balbettando che i due promessi hanno combinato tutto da sé e si sono rivolti a lui come un funzionario comunale. Il bravo ribatte che il matrimonio non dovrà esser celebrato né l'indomani né mai e don Abbondio tenta di accampare delle scuse poco convincenti, finché l'altro figuro interviene con parole ingiuriose e minacciose. Il compagno riprende la parola e si dice convinto che il curato eseguirà l'ordine, facendo poi il nome di don Rodrigo, che riempie don Abbondio di terrore: il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il bravo ribadisce l'ordine impartito e intima al religioso di mantenere il segreto, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno rappresaglie. Don Abbondio pronuncia alcune parole di deferenza e rispetto verso don Rodrigo, quindi i due bravi se ne vanno cantando una canzone volgare, mentre il curato vorrebbe proseguire il colloquio entrando in improbabili trattative. Rimasto solo, dopo qualche attimo di sconcerto don Abbondio prende la strada che conduce alla sua abitazione. Ritratto di don Abbondio Il curato, evidentemente, non è un uomo molto coraggioso e questa è una misera condizione in tempi come quelli in cui gli tocca vivere, in cui la legge e la giustizia non offrono alcuna protezione contro i soprusi. Le leggi non mancano e sono anzi sovrabbondanti, ma non vengono praticamente mai applicate e l’impunità è profondamente radicata nella società: i malfattori trovano asilo nei conventi, sono protetti dai loro padroni e dai privilegi nobiliari, cosicché le gride minacciano pene che non trovano esecuzione e i delitti si moltiplicano. Gli uomini chiamati a far rispettare le leggi sono impotenti, pavidi o spesso conniventi con i criminali che dovrebbero contrastare, per cui accade non di rado che siano gli uomini onesti e tranquilli ad essere perseguitati dalla giustizia. Alcuni si riuniscono in leghe, associazioni e corporazioni, per scopi leciti o illeciti, ma queste non hanno sempre un grande potere e, specie nelle campagne, un signorotto circondato da una masnada di bravi senza scrupoli può esercitare un dominio quasi tirannico sul paese. Don Abbondio non è ricco, né nobile, né coraggioso, quindi ha accettato volentieri in gioventù di diventare prete come volevano i suoi genitori, non per sincera vocazione ma per entrare in una classe agiata e dotata di alcuni privilegi. Non prende mai parte alle contese e, se costretto a prendere posizione, si schiera sempre col più forte; deve ingoiare molti bocconi amari e a volte sfoga il suo malanimo contro gli individui più deboli da cui non ha nulla da temere, criticando sempre aspramente quei religiosi che si battono contro le ingiustizie e le vessazioni. L’incontro coi bravi lo ha sconvolto e ora, mentre torna a casa, pensa come uscire d’impiccio: dovrà dare spiegazioni a Renzo, che sa essere una testa calda, e tra sé inveisce contro lui e Lucia che, a suo dire, hanno il torto di volersi sposare e di metterlo nei pasticci. È irritato anche contro don Rodrigo, che conosce solo di vista e che ha spesso difeso e definito un nobile cavaliere, ma contro il quale ora in cuor suo emette giudizi assai meno lusinghieri. Mentre è immerso nei suoi pensieri, il curato giunge alla sua casa in fondo al paese ed entra richiudendo subito la porta. Don Abbondio e i “pareri” di Perpetua Il curato chiama la sua domestica, Perpetua, che da anni lo accudisce essendo rimasta zitella e sopportando i brontolii dei suo padrone, il quale a sua volta subisce i suoi. Don Abbondio va a sedersi sulla sua sedia in salotto e Perpetua capisce subito che è sconvolto: gli chiede spiegazioni, ma il curato rifiuta di parlare e chiede del vino, che la serva gli dà non senza qualche resistenza. La donna rinnova più volte le sue richieste, così alla fine il curato si decide a rivelare tutto in quanto desidera confidarsi con qualcuno; Perpetua inveisce contro la prepotenza di don Rodrigo, quindi suggerisce al padrone di informare di tutto con una lettera il cardinale Borromeo, che è noto per la sua onestà e la propensione a difendere i religiosi contro i soprusi dei potenti. Don Abbondio rifiuta l’idea adducendo il timore di ricevere una schioppettata nella schiena, benché Perpetua gli ricordi che i bravi spesso minacciano a vuoto e rimproverando il curato di non mostrarsi abbastanza deciso, attirando su di sé le soperchierie di ribaldi e malfattori. Don Abbondio non vuol sentire ragioni, quindi decide di andare a dormire senza neppure cenare: prende il lume e sale le scale, poi, prima di entrare nella sua stanza, si volta verso Perpetua e le rinnova la preghiera di non farsi sfuggire parola dell’accaduto. Capitolo II Personaggi: Renzo, don Abbondio, Perpetua, Lucia, Agnese, Bettina Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia Tempo: 8 novembre 1628, mattina Temi: La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Trama: Don Abbondio trascorre una notte angosciosa. Renzo va dal curato per prendere accordi, ma don Abbondio lo convince con pretesti a rimandare le nozze. Renzo parla con Perpetua, che si lascia sfuggire che dietro la cosa c'è un "prepotente". Renzo costringe il curato a fare il nome di don Rodrigo, quindi si reca a casa di Lucia e Agnese. Breve colloquio fra i due promessi. La notte angosciosa di don Abbondio Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi trascorse una notte di placido sonno, il povero don Abbondione passa una piena di pensieri e tormenti, nell'incertezza di cosa fare il giorno dopo in cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia. Il curato esamina alcune possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude anche di dire la verità a Renzo, come un'improbabile fuga dal paese. Alla fine decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto, confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il "tempo proibito" in cui non si possono celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il curato un periodo di respiro. Don Abbondio si rende conto che Renzo è innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di rimetterci la pelle, pensando alle minacce dei bravi. Verso il mattino riesce a prendere sonno, anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo, da fughe e inseguimenti. Renzo si reca da don Abbondio Al mattino Renzo si reca a casa di don Abbondio, per prendere accordi circa l'ora in cui lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa. Egli è un giovane di vent'anni, rimasto orfano dall'adolescenza, che ora esercita la professione di filatore di seta: nonostante la stagnazione del mercato, Renzo trova tuttavia di che vivere grazie alla sua abilità e anche alla scarsità di operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di lavoro. Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando non è impegnato come filatore, per cui la sua condizione economica si può dire discretamente agiata (specie perché egli amministra le sue sostanze con giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia). Si presenta dal curato vestito di tutto punto, con un cappello ornato di piume variopinte e il manico del pugnale che spunta dal taschino dei pantaloni, che gli conferisce un'aria un po' spavalda che a quei tempi era comune anche agli uomini più pacifici. Il curato accoglie Renzo con fare un po' reticente, il che insospettisce subito Renzo. Il curato convince Renzo a rimandare le nozze Renzo e don Abbondio (ediz. 1840) Renzo chiede a don Abbondio quando lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa, ma il curato finge di cadere dalle nuvole e di non sapere di cosa parla: il giovane gli ricorda delle nozze e don Abbondio ribatte che non può celebrarle, accampando prima motivi di salute e poi impedimenti burocratici che sarebbero di ostacolo al matrimonio. Il curato spiega che avrebbe dovuto eseguire più accurate ricerche per stabilire che nulla vieta ai due promessi di sposarsi, mentre per il suo buon cuore ha affrettato le pratiche: accenna ai superiori cui deve rendere conto e, per confondere le idee a Renzo, inizia a parlare in latino citando il diritto canonico. Il giovane, irritato, gli chiede di parlare in modo comprensibile e il curato ribadisce che si tratta di rimandare le nozze di qualche tempo, proponendo a Renzo una dilazione di quindici giorni. La reazione del giovane è alquanto stizzita, al che don Abbondio gli chiede di pazientare almeno una settimana: invita Renzo a dire alla gente in paese che è stato un suo sbaglio e a gettare la colpa di tutto su di lui, cosa che appaga il giovane solo in parte (Renzo non è molto convinto delle ragioni esposte dal curato). Alla fine Renzo se ne va, ribadendo al curato che aspetterà una settimana e non un giorno di più per sposarsi con Lucia. Renzo parla con Perpetua Renzo si accinge a tornare di malavoglia a casa di Lucia, mentre ripensa al colloquio appena avuto col curato e si convince sempre di più che le ragioni accampate da don Abbondio suonano strane e incomprensibili. Sta quasi per tornare indietro a pretendere spiegazioni, quando vede Perpetua che sta per entrare nella porticina dell'orto, quindi la chiama e le si avvicina. Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del comportamento del suo padrone, e Perpetua accenna subito ai segreti del curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo capisce che c'è qualcosa sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la domestica si lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un prepotente, per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei superiori del curato. Perpetua rifiuta di rispondere ad altre domande ed entra nell'orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza farsi vedere da lei, torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando con fare alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto. Renzo costringe il curato a parlare Renzo chiede subito a un esterrefatto don Abbondio chi è il prepotente che si oppone alle sue nozze: il curato impallidisce e con un balzo tenta di guadagnare la porta, ma il giovane lo precede e chiude l'uscio, mettendosi la chiave in tasca. In seguito Renzo chiede nuovamente al curato il nome di chi lo ha minacciato, mettendo forse inavvertitamente la mano sul manico del pugnale, il che riempie di paura il sacerdote che, non senza esitazioni, fa finalmente il nome di don Rodrigo. La reazione di Renzo è furibonda, ma a questo punto don Abbondio descrive il terribile incontro coi bravi e sfoga la collera che ha in corpo, accusando anche il giovane di avergli esercitato una forma di violenza nella sua casa. Renzo si scusa debolmente e riapre la porta, mentre il curato lo implora di mantenere il segreto per il bene di tutti: gli chiede di giurare, ma Renzo esce e se ne va senza promettere nulla, per cui don Abbondio chiama a gran voce Perpetua. La domestica accorre dall'orto con un cavolo sotto il braccio e segue un breve scambio di battute col padrone che l'accusa di aver parlato e lei che nega di averlo fatto; alla fine il curato si mette a letto con la febbre e ordina alla donna di sprangare l'uscio e di non aprire a nessuno, rispondendo dalla finestra a chi eventualmente chiedesse di lui. Renzo medita di assassinare don Rodrigo Renzo torna infuriato a casa di Agnese e Lucia, sconvolto per l'accaduto e meditando vendetta contro il suo nemico don Rodrigo: egli è un giovane pacifico che non commetterebbe mai violenze, ma in questo momento fantastica di uccidere il signorotto e immagina di correre al suo palazzotto per afferrarlo per il collo. Poi pensa che non potrebbe mai penetrare in quell'edificio, dove il signore è circondato dai suoi bravi, quindi progetta di tendergli un'imboscata e di sparargli col suo schioppo, per poi correre al confine e mettersi in salvo riparando in un altro Stato. Ma Lucia? Il pensiero della sua promessa sposa tronca questi pensieri sanguinosi e lo induce a pensare ai genitori, a Dio, alla Madonna, rallegrandosi di aver solo pensato un'azione così scellerata. Tuttavia il giovane è preoccupato all'idea di dover informare la ragazza dell'accaduto e sospetta che Lucia lo abbia tenuto all'oscuro di qualche cosa, il che lo riempie di dubbi e di sospetti. Renzo passa davanti alla propria casa e raggiunge quella di Lucia, che si trova in fondo al paese; entra nel cortile, cinto da un piccolo muro, sentendo un vociare femminile che proviene dalle stanze del primo piano e immagina che si tratti delle donne venute ad aiutare Lucia a prepararsi per le nozze. Renzo informa Lucia dell'accaduto Una ragazzetta di nome Bettina si fa incontro a Renzo nel cortile, chiamandolo a gran voce, ma il giovane le impone di fare silenzio e le chiede di salire a chiamare Lucia, facendola venire al pian terreno senza che nessuno se ne accorga. La fanciulla sale subito e trova Lucia che sta ultimando di vestirsi: la giovane ha i lunghi capelli bruni raccolti in trecce, con spilli d'argento infilati che formano una specie di aureola sopra la testa (secondo la moda delle contadine milanesi); al collo porta una collana di pietre rosse e bottoni dorati, indossa un busto di broccato a fiori, una gonnella corta di seta di scarsa qualità, calze rosse e due pianelle di seta. Bettina le si accosta e le dice qualcosa all'orecchio, quindi Lucia si congeda dalle donne e scende al pian terreno: qui trova Renzo, che le dice subito cos'è successo e fa il nome di don Rodrigo, al che la giovane è sconvolta dal rossore. Renzo la accusa di essere a conoscenza della cosa, ma Lucia lo prega di pazientare e corre di sopra a licenziare le donne, mentre intanto la madre Agnese è scesa e si è unita a Renzo. Lucia dice alle donne che il curato è ammalato e per questo il matrimonio è rimandato, quindi le sue compagne vanno via e si spargono per il paese, raccontando a tutti l'accaduto. Alcune vanno alla casa di don Abbondio per verificare se sia davvero malato e qui trovano Perpetua, la quale si affaccia dalla finestra e dice loro che il curato ha un febbrone. Le donne, alquanto deluse per non poter spettegolare oltre, si ritirano nelle proprie case. Capitolo III Personaggi: Renzo, Lucia, Agnese, don Rodrigo, il conte Attilio, l'Azzecca-garbugli, la sua serva, fra G Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, Lecco Tempo: 8 novembre 1628, pomeriggio-sera Temi: La giustizia, La carestia, La cultura del Seicento, Nobiltà e potere Trama: Lucia racconta a Renzo e Agnese le molestie di don Rodrigo e la scommessa di questi con consiglia a Renzo di rivolgersi all'avvocato Azzecca-garbugli. Renzo si reca nel suo studio dopo un equivoco viene cacciato in malo modo quando fa il nome del signorotto. Intanto ricevono fra Galdino, che racconta il "miracolo delle noci". Lucia chiede al frate di avvert Cristoforo. Renzo torna a casa sconsolato. Il racconto di Lucia: la "scommessa" di don Rodrigo Lucia torna da Renzo e Agnese e, incalzata dalle loro richieste, racconta tra i singhiozzi cosa è accaduto pochi giorni prima: mentre tornava dalla filanda, era rimasta indietro dalle compagne e aveva incontrato per caso don Rodrigo, in compagnia di un altro nobile (il conte Attilio); il signorotto l'aveva importunata con parole volgari, quindi lei aveva affrettato il passo per raggiungere le compagne, sentendo don Rodrigo che diceva all'altro signore "scommettiamo". Il giorno seguente c'era stato un nuovo incontro, ma stavolta la giovane aveva tenuto gli occhi bassi ed era rimasta in mezzo alle altre ragazze; in seguito Lucia aveva raccontato tutto al padre Cristoforo, in confessione, e giustifica il suo silenzio con la madre dicendo di non aver voluto rattristarla, anche se un'altra ragione era il timore che la donna, alquanto pettegola, rivelasse la cosa in paese. Il padre Cristoforo le aveva consigliato di non uscire e di affrettare le nozze, motivo per cui lei aveva pregato Renzo di accelerare le pratiche (nel dire questo non può evitare di arrossire). Lucia scoppia in lacrime e Renzo inveisce contro don Rodrigo, manifestando propositi bellicosi che però la giovane sopisce subito invitando il giovane a confidare in Dio. Lucia propone addirittura di lasciare il paese, ma Renzo le ricorda che non sono sposati e ciò creerebbe infiniti problemi; quanto a don Abbondio, non c'è da sperare che celebri il matrimonio o li agevoli in questa decisione. Renzo va dall'Azzecca-garbugli I tre restano in silenzio, finché Agnese ha un'idea e consiglia a Renzo di andare a Lecco, per rivolgersi a un dottore in legge che tutti chiamano Azzecca-garbugli e che la donna descrive come un uomo alto, magro, pelato, col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia. Agnese raccomanda a Renzo di non chiamarlo col suo soprannome e gli suggerisce di portargli come offerta i quattro capponi che avrebbe dovuto cucinare per il banchetto nuziale della domenica. Il giovane accetta di buon grado e, presi i capponi, si reca subito nella vicina cittadina di Lecco, camminando di buon passo e dimenando le povere bestie che tiene per le zampe, le quali si beccano tra loro come di solito fanno i compagni di sventura. Giunto a Lecco, Renzo si fa indicare la casa dell'avvocato e qui viene accolto dalla serva in cucina, alla quale consegna i capponi non senza qualche esitazione (il giovane vorrebbe addirittura darli al dottore in persona). Compare poi l'Azzecca-garbugli, che accoglie Renzo nel suo studio dopo che il giovane si è prodotto in un profondo inchino. Colloquio tra Renzo e l'avvocato: l'equivoco Lo studio dell'avvocato è una grande stanza, che su tre pareti mostra i ritratti dei dodici Cesari mentre la quarta è occupata da uno scaffale pieno di libri impolverati; in mezzo c'è un tavolo con sopra gride e documenti accatastati alla rinfusa, circondato da qualche sedia e dalla poltrona dell'avvocato, alquanto consunta dall'uso e dal tempo. Il dottore indossa una toga anch'essa sgualcita dal tempo, che contribuisce a dare all'ambiente un carattere di trascuratezza e disordine. L'Azzecca-garbugli chiede a Renzo quale sia il suo caso e il giovane gli domanda, con qualche esitazione, se chi minaccia un curato perché non celebri un matrimonio può incorrere in una pena. L'avvocato cade in un equivoco e pensa che Renzo sia un bravo, quindi gli dice di aver fatto bene a rivolgersi a lui e si alza, cercando qualcosa tra i documenti sul tavolo. Dopo un po' trova una grida, datata 15 ottobre 1627, e inizia a leggerla invitando Renzo a seguirlo (il giovane dice di saper leggere "un pochino"): la grida commina pene assai severe a coloro che minacciano un curato per non celebrare un matrimonio, al che Renzo si mostra soddisfatto e felice che la legge preveda il caso che lo riguarda. Il dottore, che lo crede un malfattore, è stupito della sua calma e gli dice che ha fatto bene a tagliarsi il ciuffo, cosa che ovviamente Renzo smentisce affermando di non averlo mai portato in vita sua, cioè di non essere un bravo. A questo punto l'Azzecca-garbugli si irrita e, credendo che Renzo voglia farsi beffe di lui, lo invita a dire tutta la verità perché solo in questo modo l'avvocato potrà tirarlo fuori dai guai: gli prospetta poi il modo in cui lo assisterà, ovvero invocando la protezione del signore che lo ha incaricato di eseguire le minacce, comprando testimoni, minacciando a sua volta lo sposo offeso e il curato, facendo cioè capire a Renzo che un abile leguleio è in grado di manipolare la giustizia e farsi beffe della legge, assicurando l'impunità ai colpevoli e negando alle vittime il riconoscimento dei propri diritti. Renzo viene cacciato dall'Azzecca-Garbugli Renzo continua ad ascoltare l'avvocato come inebetito, poi comprende l'equivoco in cui è caduto l'Azzecca-garbugli e svela finalmente la verità, affermando di non essere un colpevole ma la vittima, e di non aver minacciato nessuno in quanto è lui la parte lesa nel mancato matrimonio. Il dottore lo rimprovera per la poca chiarezza, quindi il giovane racconta per sommi capi la sua vicenda (il fidanzamento con Lucia, le nozze rimandate, il modo in cui ha fatto confessare il curato...), ma quando fa il nome di don Rodrigol'avvocato lo interrompe e inizia a storcere la bocca. L'Azzecca-garbugli non vuole sentire altro da Renzo e lo accusa di raccontar fandonie, invitandolo ad andarsene subito dalla sua casa: lo caccia via senza sentir ragioni, ordinando addirittura alla serva di restituirgli i capponi, cosa che la domestica fa guardando il giovane come se avesse combinato qualche grosso guaio. Renzo tenta ancora di difendere le sue ragioni, ma l'avvocato è irremovibile e al giovane non resta che andarsene sconsolato, per tornare al paese dalle due donne. Fra Galdino va a casa di Agnese e Lucia Nel frattempo Agnese e Lucia, dopo essersi tolto l'abito della festa e aver indossato quello da lavoro, stanno pensando al da farsi e Lucia vorrebbe avvertire il padre Cristoforodell'accaduto per avere da lui consiglio e aiuto, ma nessuna delle due sa come contattarlo (il convento di Pescarenico dove il cappuccino si trova è lontano e loro non hanno certo il coraggio di andarci). In quel momento si sente bussare alla porta e si sente qualcuno dire "Deo gratias", per cui Lucia corre ad aprire e compare fra Galdino, un cercatore laico cappuccino che porta al collo la sua bisaccia per la cerca delle noci. Dopo i saluti, Agnese ordina alla figlia di andare a prendere le noci per il convento e la ragazza ubbidisce, non prima però di aver fatto cenno alla madre, senza farsi vedere dal frate, di non dire una sola parola circa quello che è accaduto quel giorno. Fra Galdino racconta il "miracolo delle noci" Fra Galdino chiede spiegazioni ad Agnese circa il matrimonio rimandato e la donna, memore dell'ammonimento della figlia, dice che è stato a causa di una malattia del curato. Il cercatore lamenta poi della scarsità della sua raccolta e dichiara che come rimedio per la carestia c'è solo l'elemosina, come dimostra il "miracolo delle noci" che avvenne molti anni prima in un convento di cappuccini in Romagna: il frate narra che in quel convento c'era un padre santo di nome Macario, che un giorno vide in un campo il proprietario di un noce che ordinava ai suoi contadini di abbattere la pianta; l'uomo disse al padre che il noce non faceva frutti, al che il cappuccino rispose che quell'anno avrebbe dato un raccolto straordinario. L'uomo accettò di risparmiare l'albero e promise che la metà delle noci sarebbe andata al convento. A primavera, in effetti, il noce produsse una quantità incredibile di frutti, ma il proprietario era morto prima di raccoglierle e suo figlio, giovane molto diverso dal padre, si era poi rifiutato di onorare la promessa e di consegnare le noci al convento. Un giorno, però, il giovinastro stava gozzovigliando con amici suoi pari, ridendo dei frati, e li aveva condotti in granaio a vedere le noci: al posto dei frutti trovarono solo i fiori secchi della pianta, per cui la voce del miracolo si sparse in un baleno e il convento ne guadagnò, perché in seguito ricevette tante elemosine da poterle poi ridistribuire tra i poveri, come normalmente avviene. Lucia chiede al frate di chiamare padre Cristoforo. Ritorno di Renzo Poco dopo ritorna Lucia, che porta nel grembiule tante di quelle noci che la madre le lancia un'occhiata di rimprovero: fra Galdino riempie la sua bisaccia e ringrazia di cuore, quindi la giovane lo prega di riferire al padre Cristoforo che lei e la madre hanno bisogno di parlargli e che lo faccia venire alla loro casa quanto prima. Il frate promette di riportare il messaggio e se ne va, mentre Lucia è certa che il padre, un frate di grande autorità e di molto prestigio in quelle contrade, non tarderà a farsi vedere (i frati cappuccini, del resto, godevano a quei tempi di profondo rispetto come di disprezzo, essendo votati all'umiltà, alla carità, al servizio del prossimo). In seguito Agnese rimprovera la figlia della sua generosa elemosina, specie in quell'anno di carestia, ma Lucia si giustifica adducendo il fatto che in tal modo fra Galdino tornerà subito al convento e compirà senz'altro l'ambasciata, mentre se dovesse proseguire la cerca delle noci se ne scorderebbe di certo. Agnese approva la sua decisione, quindi sopraggiunge Renzo che getta i capponi sulla tavola e riferisce l'infelice esito del suo incontro con l'Azzecca-garbugli, lasciando nella costernazione le due donne (Agnese tenta di dire che il giovane non ha saputo spiegarsi con l'avvocato). Renzo torna a manifestare oscuri propositi di vendetta, al che le due donne cercano di calmarlo e Lucia dichiara di sperare molto nell'aiuto del padre Cristoforo, che il giorno dopo verrà certamente a visitarle. È ormai il tramonto e Renzo, sconsolato, lascia la casa della sua promessa continuando a ripetere "a questo mondo c'è giustizia, finalmente". Capitolo IV Personaggi: Padre Cristoforo, Lucia, Agnese (nel flashback: Lodovico, suo padre, il servo Cristoforo, suo fratello) Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, Pescarenico, la città di Lodovico Tempo: 9 novembre 1628, al mattino (nel flashback: un arco di tempo assai ampio, circa trent'ann Temi: La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Trama: Padre Cristoforo lascia il convento e si reca alla casa di Agnese e Lucia. Durante il tragitto della carestia che affligge il paese. Con un flashback, viene raccontata la sua storia: Lodov ricco mercante, uccide in un duello un nobile e si rifugia in un convento, dove matura la d frate. Chiede e ottiene il perdono del fratello dell'ucciso, che gli dona un pezzo di pane co dell'avvenuta riconciliazione. Padre Cristoforo lascia il convento Alle prime luci dell'alba padre Cristoforo lascia il convento di Pescarenico (un piccolo paese sulle rive del lago, non lontano dal ponte di Lecco e abitato per lo più da pescatori) per recarsi alla casa di Agnese e Lucia. Il cielo è sereno e il sole illumina il paesaggio, in cui si vedono le foglie di gelso che cadono a terra e quelle della vite ancora rosseggianti, mentre nei campi biancheggiano le stoppie dopo la mietitura. Lo spettacolo sembra lieto, ma in realtà è rattristato dalla presenza di mendicanti lungo la strada che riveriscono il frate, mentre i contadini spargono i semi nei campi con parsimonia e lavorano svogliatamente con la zappa, e una ragazza conduce al pascolo una vacca macilenta raccogliendo erbe che possono nutrire la sua famiglia (tutto ciò rammenta che è periodo di carestia). Ma per quale motivo il frate cappuccino ha risposto con tanta sollecitudine alla chiamata di Agnese e Lucia? E, soprattutto, chi è padre Cristoforo? Si tratta di un uomo di circa sessant'anni, che conserva ancora un atteggiamento fiero e inquieto nonostante l'abitudine all'umiltà; ha una lunga barba bianca che incornicia un volto scavato dall'astinenza, che per questo ha acquistato gravità, con due occhi che spesso sono chinati a terra ma talvolta si levano con improvvisa vivacità, simili a due cavalli domati dal cocchiere che, a volte, non rinunciano a tentare di ribellarsi ai suoi comandi. Il passato di Cristoforo: Lodovico L'autore apre a questo punto un ampio flashback in cui racconta il passato di padre Cristoforo, che prima di diventare frate si chiamava Lodovico (il nome della città in cui è nato non viene menzionato). Lodovico è figlio di un ricco mercante, che alla fine della sua vita lascia gli affari e inizia a vivere come un nobile, vergognandosi delle proprie origini che tenta in ogni modo di celare: al punto che un giorno, durante un banchetto, un commensale dice senza malizia che fa "orecchio da mercante", il che è sufficiente a fare incupire il padrone di casa e a spegnere l'allegria della brigata (da quel giorno l'incauto ospite non verrà più invitato). Lodovico viene educato come un aristocratico e acquista abitudini signorili, trovandosi assai ricco alla morte del padre, ma quando tenta di mescolarsi agli altri nobili della sua città viene trattato con disprezzo e si allontana da loro indispettito. In seguito tenta di competere con loro in sfarzo e spese futili, attirandosi inimicizie e critiche, per poi diventare una specie di difensore dei deboli e degli oppressi che subiscono angherie proprio da parte di quei nobili con cui ha avuto di che ridire. La sua indole è onesta ma incline alla violenza, per cui Lodovico si circonda di sgherri e bravi ed è spesso costretto a compiere atti moralmente discutibili per amore della giustizia, il che gli provoca rimorsi di coscienza (tanto che, a volte, è tentato dall'idea di abbandonare il mondo e farsi frate). Lodovico uccide un nobile in un duello Un giorno Lodovico cammina per strada insieme a due bravi e un fedele servitore di nome Cristoforo, già dipendente del padre e ora suo maestro di casa, un uomo di cinquant'anni con una numerosa famiglia. Il giovane incontra un nobile della sua città, noto per la sua arroganza, che procede circondato anch'egli da quattro bravi: entrambi camminano rasente un muro, e poiché Lodovico lo sfiora con il fianco destro avrebbe diritto che l'altro gli cedesse il passo, mentre il nobile potrebbe esigere la stessa cosa in quanto aristocratico (dunque entrambi, stando ai codici cavallereschi del tempo, avrebbero ragione). Quando i due si trovano di fronte, il nobile intima imperiosamente a Lodovico di farlo passare e il giovane rifiuta in modo sdegnoso; segue un breve scambio di battute in cui i contendenti si scambiano tipici insulti cavallereschi (il nobile dà a Lodovico del "meccanico" e gli rinfaccia le sue origini borghesi, l'altro lo accusa di viltà), poi nasce un duello cui prendono parte anche i bravi di entrambe le parti. Lo scontro è molto violento e Lodovico viene ferito, quando il suo avversario gli piomba addosso con la spada: il servo Cristoforo protegge il suo padrone e viene colpito a morte, quindi Lodovico uccide a sua volta il nobile trafiggendolo con la sua lama. A questo punto i bravi di entrambi si danno alla fuga, mentre Lodovico rimane steso in strada, malconcio, accanto ai corpi di Cristoforo e del suo rivale. Lodovico si rifugia in convento Attorno ai tre uomini si raccoglie una piccola folla di spettatori, i quali conoscono Lodovico come giovane dabbene e il nobileucciso come un noto prepotente, per cui non vogliono che il primo finisca nelle mani della giustizia o dei parenti del morto: lo conducono allora a un vicino convento di cappuccini, dove potrà essere curato e sarà al riparo da possibili ritorsioni (i luoghi sacri offrono asilo a chi vi si rifugia). Lodovico è rimasto profondamente turbato dalla morte di Cristoforo che si è sacrificato per lui, e soprattutto dalla vista dell'uomo che lui stesso ha assassinato; più tardi un padre del convento gli riferisce che il nobile, prima di spirare, lo ha perdonato e ha chiesto a sua volta perdono per il male commesso, il che accresce il suo scoramento e il rimorso per quanto ha fatto. Frattanto i parenti del nobile ucciso, armati di tutto punto, giungono nei pressi del convento per reclamare la consegna di Lodovico, cosa che non possono ottenere poiché quello è un luogo sacro e inviolabile. Il giovane prega i cappuccini di riferire alla vedova di Cristoforo che provvederà lui alle necessità della famiglia, quindi matura la decisione di indossare la tonaca come espiazione del male commesso: annuncia la sua decisione al padre guardiano, il quale lo ammonisce dal prendere risoluzioni affrettate ma si dichiara disposto ad accoglierlo. Lodovico in seguito fa donazione di tutti i suoi averi alla vedova di Cristoforo, mentre la sua scelta di farsi frate toglie i cappuccini dall'imbarazzo di decidere cosa fare di lui, poiché la famiglia dell'uomo ucciso pretende vendetta e i frati non possono certo consegnar loro Lodovico senza rinunciare ai loro privilegi: tuttavia la monacazione del giovane può sembrare un'espiazione sufficiente per l'omicidio commesso, dunque la cosa potrà soddisfare i parenti del nobile ucciso (che, del resto, non piangono la sua morte ma si sentono offesi nell'onore nobiliare). Lodovico diventa fra Cristoforo Il padre guardiano si reca dal fratello dell'ucciso e gli comunica la decisione di Lodovico, indicando la monacazione del giovane come risarcimento sufficiente per l'onore della famiglia, al che il gentiluomo protesta il proprio sdegno ma, alla fine, pone come unica condizione che il novizio lasci immediatamente la città. Il padre acconsente e lascia credere che si tratti di un gesto d'obbedienza (in realtà ha già preso questa decisione), per cui la questione viene risolta con soddisfazione di tutti, specie di Lodovico che in tal modo potrà iniziare una vita di espiazione e penitenza. Ad appena trent'anni diventa dunque frate e assume il nome di Cristoforo, in modo da ricordarsi sempre del male commesso e accrescere così l'espiazione di quella morte causata indirettamente da lui. Fra Cristoforo dovrà compiere il noviziato in un paese a sessanta miglia di distanza, ma il giovane chiede al padre guardiano di potersi prima recare dal fratello dell'ucciso a implorare il suo perdono per il gesto compiuto. Il padre approva l'intenzione e si reca dal gentiluomo a rivolgere tale richiesta, al che il nobile pensa che questa sarà l'occasione di una pubblica soddisfazione della famiglia e risponde che Cristoforo potrà venire il giorno dopo. Il gentiluomo l'indomani fa raccogliere tutti i parenti nel suo palazzo e attende il novizio circondato da aristocratici in abito da cerimonia e le spade al fianco, in uno scenario di pompa e magnificenza tipica dell'aristocrazia di quei tempi. Fra Cristoforo ottiene il perdono del fratello dell'ucciso Fra Cristoforo giunge al palazzo accompagnato da un altro padre e prova subito un certo imbarazzo al vedere tanti nobili riuniti, ma poi pensa che ciò sarà parte della sua espiazione per il delitto commesso. Attraversa una grande sala piena di gente e si inginocchia ai piedi del fratello del nobile ucciso, che lo guarda dall'alto con aria altera e sdegnata: il frate parla con voce sincera e chiede con contrizione perdono per il male commesso, suscitando un mormorio di approvazione da parte di tutti i presenti. Anche il gentiluomo padrone di casa è toccato e invita Cristoforo ad alzarsi, aggiungendo parole di conforto e riconoscendo i torti del fratello defunto; quindi concede il proprio perdono al frate, che si dice contento di ciò (anche se, ovviamente, ciò non cancella il male compiuto ai danni dell'uomo ucciso). Tutti si felicitano con il novizio, al quale i servitori di casa offrono delicate vivande; il frate rifiuta con cortesia, limitandosi a chiedere solo un pezzo di pane con cui potrà rifocillarsi durante il viaggio che lo attende. Il padrone di casa lo accontenta e un cameriere gli porge su un piatto d'argento un pane, che il novizio mette nella sporta e di cui conserverà un pezzo come ricordo di quel memorabile giorno (il cosiddetto "pane del perdono"). Fra Cristoforo lascia il palazzo riverito da tutti, mentre il fratello del morto è stupito della sua benevolenza e da quel giorno diventa un po' più affabile e meno altero, mentre tutta la sua famiglia ricorderà questa giornata nel segno del perdono e della riconciliazione. Padre Cristoforo giunge a casa di Lucia L'autore non racconta la vita di padre Cristoforo negli anni seguenti, se non dicendo che il cappuccino esegue con obbedienza i doveri che gli sono imposti, cioè di predicare e assistere i moribondi, anche se non rinuncia quando si presenta l'occasione a prendere le difese dei deboli contro le ingiustizie degli oppressori: l'uomo conserva ancora un barlume dell'antica fierezza e dell'indole animosa, per cui il suo contegno, abitualmente umile e posato, può diventare impetuoso e sdegnato quando assiste a qualche intollerabile ingiustizia. Ciò spiega la sua sollecitudine nel rispondere alla chiamata di Lucia, che il padre conosce come una giovane innocente e vittima di un'infame persecuzione da parte di don Rodrigo: in ansia per lei e per quanto può esserle accaduto, giunge infine alla casa della giovane e della madre Agnese, le quali accolgono il cappuccino con una benedizione. Capitolo X Personaggi: Agnese, Lucia, Gertrude, il principe padre di Gertrude, il vicario delle monache, la madre badessa, Egidio, la conversa Luoghi: Monza, Milano Tempo: 11 novembre 1628 (nel flashback: un ampio arco di tempo, molti anni prima) Temi: Nobiltà e potere, Chiesa e religione Trama: Gertrude accetta di prendere il velo e supera l'esame del vicario. La sua vita al monastero, all'incontro fatale con Egidio. L'assassinio della conversa. I dubbi di Lucia e le rassicurazi Il principe convince Gertrude a entrare in monastero L'autore osserva che ci sono momenti in cui l'animo dei giovani è particolarmente vulnerabile e chi intende forzarli ad accettare un'imposizione può approfittarne per ottenere i propri scopi: il principe, leggendo la lettera di Gertrude, capisce che l'occasione è propizia e le ordina di venire da lui, quindi la giovane raggiunge il padre e gli si inginocchia piangente chiedendo perdono. Il principe risponde che il perdono va meritato con le azioni e aggiunge che, se mai avesse avuto intenzione di dare la figlia in sposa a qualcuno, ora il suo comportamento gli ha fatto capire che ciò sarebbe sconveniente, perciò anche la ragazza dovrebbe aver capito che la vita laica è troppo piena di insidie e tentazioni per la sua debole volontà. Gertrude si lascia sfuggire un "sì", che il padre è abile a interpretare come l'accettazione da parte sua a prendere il velo: l'uomo scuote un campanello e chiama subito la madre e il fratello maggiore della giovane, ai quali comunica lietamente che Gertrude è risoluta a entrare in convento. I due si affrettano a felicitarsi con la ragazza, la quale ascolta frastornata mentre il padre preannuncia che lei sarà la prima monaca del convento e che appena avrà l'età necessaria diventerà badessa. Il principe vorrebbe addirittura che Gertrude si recasse al convento di Monza quel giorno stesso, per chiedere alla badessa di essere ammessa nel chiostro, ma la figlia riesce a ottenere che la cosa venga rimandata all'indomani, illudendosi di poter cambiare qualcosa nel frattempo. Il principe si reca poi dal vicario delle monache, per fissare il giorno dell'esame cui Gertrude dovrà essere sottoposta per accertare la sincerità della sua vocazione (l'appuntamento sarà di lì a due giorni). Gertrude si prepara alla visita a Monza Il resto della giornata vede Gertrude impegnata in molteplici occupazioni, che non le lasciano un minuto di tregua e le impediscono di raccogliere i pensieri intorno al passo che sta per compiere in modo irrevocabile: viene condotta nelle stanze della madre per essere pettinata e acconciata, poi va a pranzo ricevendo i complimenti della servitù e di alcuni parenti fatti venire apposta per l'occasione. Tutti la chiamano ormai "sposina", appellativo che viene dato alle giovani monacande, e dopo pranzo la giovane esce in compagnia della madre e due zii per una passeggiata in carrozza, lungo una strada centrale di Milano dove incontrano molti altri nobili. Al ritorno a palazzo, Gertrude deve sostenere la visita di numerosi parenti e amici di famiglia che sono convenuti per congratularsi con lei della sua decisione e ai quali, sia pure a malincuore, la giovane deve rispondere facendo buon viso a cattiva sorte; al termine della serata riceve i complimenti anche del principe padre, lieto del suo comportamento degno del grado e della posizione sociale che ricopre. Dopo la cena, Gertrude pensa di approfittare della benevolenza che sembra essersi conquistata pregando il padre di allontanare da lei la cameriera che le aveva fatto da carceriera, lagnandosi della sua condotta, e il nobile si mostra fin troppo sollecito ad accogliere le sue lamentele e a promettere solenni rimproveri alla domestica. A Gertrude viene quindi assegnata un'altra anziana cameriera e questa non esita a felicitarsi a sua volta con la giovane per la sua decisione di entrare in convento, aggiungendo molte cose circa i vantaggi che a lei verranno dall'appartenere a una delle famiglie più ricche e aristocratiche. La donna parla ancora mentre Gertrude è già andata a letto e ormai dorme, vinta dalla stanchezza della giornata, anche se il sonno è affannoso e turbato da brutti sogni. La visita al convento di Monza Il mattino dopo Gertrude è svegliata assai presto dalla cameriera, che la invita ad affrettarsi poiché la madre è già in piedi e anche suo fratello la attende, impaziente come al solito e secondo il suo carattere. La giovane si alza e si lascia vestire e pettinare, quindi è condotta alla presenza dei familiari in una sala dove le è offerta una tazza di cioccolata, gesto che vuol sottolineare la sua raggiunta maturità (si tratta infatti di una bevanda rara e preziosa). Prima di partire alla volta del convento di Monza, dove la badessa, preavvertita, attende la visita di Gertrude, il principe si rivolge alla figlia e la ammonisce a comportarsi bene e a rivolgere la sua supplica di essere ammessa al convento con fare sicuro, con naturalezza, per non dare adito a dubbi e incertezze (il nobile rammenta alla figlia il "fallo" commesso e ricorda che il segreto resterà tale, mentre lei nel chiostro sarà riverita come una sua pari). In seguito Gertrude parte per Monza in carrozza, accompagnata dai genitori e dal principino suo fratello, e l'ingresso in città è accompagnato da un accorrere di gente che si raduna intorno alla nobile famiglia: Gertrude raggiunge l'ingresso del convento dove l'attende la madre badessa, attorniata da tutte le monache del chiostro, dalle converse e da alcune educande sparse qua e là, quindi la superiora chiede alla giovane cosa sia venuta a chiederle in quel luogo dove, afferma, non le si può negar nulla. Gertrude è colta da un'incertezza ed è sul punto di dire una cosa diversa da quella che tutti si attendono, ma poi lo sguardo severo e impaziente del padre spegne in lei ogni velleità di ribellione e la ragazza rivolge alla badessa la supplica di essere ammessa a vestire l'abito monacale in quel convento. La badessa risponde che la decisione sarà presa di concerto con le altre monache e con i superiori, ma intanto lei e le consorelle possono complimentarsi con la giovane per la decisione assunta. Vengono offerti dei dolci alla "sposina" e ai suoi familiari, quindi la badessa conferisce in privato con il principe e, in modo imbarazzato, gli ricorda che se mai avesse forzato la figlia a quel passo incorrerebbe nella scomunica, dicendosi comunque sicura che ciò non sia avvenuto. Poco dopo la famiglia si congeda dalle suore e lascia il convento per rientrare a palazzo, a Milano. La scelta della "madrina" Durante il viaggio di ritorno Gertrude ripensa alla sua debolezza e alla difficoltà di recedere dal passo che ormai appare inevitabile, specie al pensiero della severità del padre. Il resto della giornata trascorre nelle stesse occupazioni di quella precedente, quindi al termine della cena il principe inizia a parlare della scelta della madrina, ovvero la dama che dovrà accompagnare Gertrude sino al momento della monacazione facendole visitare chiese, monumenti e ville che rappresentano lo splendore del mondo che lei abbandona. Benché la scelta sia normalmente assegnata ai genitori, il principe la rimette alla decisione della figlia fingendo che questa sia una gran concessione: Gertrude indica il nome della dama che, durante la sera, l'ha lodata e vezzeggiata più delle altre, scelta che trova d'accordo tutti i suoi familiari (è a lei che ha già pensato il padre, tanto più che la dama in questione mira a far sposare sua figlia col principino, dunque ha tutto l'interesse a spingere Gertrude in convento). Gertrude ha affrontato questo passo ben sapendo che è un ulteriore progresso verso la sua entrata in convento, pure non ha avuto il coraggio di deludere le aspettative del padre e del resto della famiglia. L'esame del vicario Il giorno dopo Gertrude si sveglia di buon'ora in attesa del vicario delle monache che verrà ad esaminarla e la giovane sta pensando in che modo possa sottrarsi a quel passo decisivo, quando il padre la fa chiamare a sé. Il principe la esorta abilmente a completare l'opera tanto bene intrapresa e a non guastare tutto mostrandosi esitante col vicario o, peggio, facendogli capire che la sua vocazione non è sincera: ciò getterebbe discredito sull'onore della famiglia e del principe stesso, il quale sarebbe costretto a quel punto a rivelare a tutti il "fallo" commesso da Gertrude (la ragazza, al solo sentirne parlare, diventa rossa dall'imbarazzo). L'uomo aggiunge altri suggerimenti e rinnova le promesse di una vita piena di privilegi nel monastero, quindi arriva il vicario e la ragazza viene lasciata sola con lui. Il vicario è già abbastanza convinto delle intenzioni di Gertrude, dal momento che il principe ne ha tanto lodato la vocazione, pure il prete inizia a chiederle se per caso non abbia subìto minacce o lusinghe per essere forzata alla monacazione. Gertrude pensa subito a come stanno realmente le cose e vorrebbe dire la verità al vicario, ma per far questo dovrebbe scendere in dettagli che la imbarazzano troppo, quindi risponde che si fa monaca per sua volontà e senza subire costrizioni. In seguito dice di aver sempre avuto questo desiderio e nega che a spingerla a ciò sia qualche disgusto o delusione passeggera per la vita mondana, senza lasciare trasparire il turbamento che quelle menzogne provocano nel suo animo. Gertrude sa bene che il vicario potrebbe forse impedirle di entrare in convento, ma non potrebbe far nulla per proteggerla dalla collera del padre all'interno di quella casa, dunque continua a mentire e alla fine convince il prete della bontà della sua vocazione. Il vicario, uscendo dalla stanza del colloquio, si imbatte nel principe che sembra passare di lì per caso e si congratula con il nobile per la buona disposizione d'animo in cui ha trovato la figlia. Ciò solleva il principe dall'incertezza in cui era rimasto sino a quel momento, perciò l'uomo si precipita a complimentarsi con Gertrude e a riempirla di lodi e promesse, manifestando una gioia che, paradossalmente, in questo momento è sincera. Gertrude diventa monaca Nei giorni seguenti Gertrude è impegnata in una girandola senza fine di visite, di ricevimenti, di spettacoli che sono per lei occasione di mille ripensamenti e di molta sofferenza, specie al pensiero che a quella vita dovrà rinunciare per sempre andando a rinchiudersi in un freddo e solitario chiostro: tuttavia non ha il coraggio di arrestare la macchina che la conduce a diventar monaca, soprattutto perché non ha la forza di affrontare il padre. Intanto si svolge il capitolo delle monache che devono decidere se accettare Gertrude nel convento e, come previsto, la votazione ha esito positivo. La giovane chiede a quel punto di entrare nel convento prima possibile, per porre fine a quello strazio di feste e divertimenti che sono per lei ragione di sofferenza, e il suo desiderio è presto esaudito: dopo dodici mesi di noviziato giunge il momento di pronunciare solennemente i voti e, dunque, di dire un no più scandaloso che mai, oppure di ripetere un sì già detto tante volte. Gertrude sceglie questa seconda e più facile possibilità, diventando così monaca per sempre. La religione cristiana è tale, spiega l'autore, che ha la facoltà di dare consolazione a chiunque si rivolga ad essa con animo puro, quindi Gertrude potrebbe diventare una monaca santa e devota comunque lo sia diventata, se solo accettasse con rassegnazione e fortezza d'animo la condizione in cui essa si trova. Ma la giovane, una volta indossato il velo, prova avversione e ripulsa per la vita che è costretta a fare, invidiando la sorte di qualunque altra donna che, liberamente, possa godere dei doni della vita; inoltre detesta le consorelle che hanno avuto una parte nel complotto che l'ha condotta al convento, verso le quali usa numerosi dispetti e sgarbi, mentre disprezza le altre che si mostrano amabili verso di lei, ignorando che esse nel capitolo hanno votato contro il suo ingresso nel chiostro. Poca soddisfazione trae infine dall'essere riverita da tutti in monastero e nell'esser chiamata la "Signora", non trovando peraltro neppure grande conforto nella religione da cui il suo orgoglio nobiliare non fa che allontanarla. Gertrude maestra delle educande Poco dopo il suo ingresso in monastero, Gertrude diventa maestra delle educande: la donna pensa con stizza al fatto che molte di loro sono destinate a quella vita nel mondo che a lei è stata negata, perciò le tiranneggia e le tratta duramente, quasi a far loro scontare in anticipo la lieta esistenza che le attenderà un giorno. In altre occasioni la monaca è presa da uno stato d'animo affatto opposto, dettato dall'orrore per il chiostro e per la regola monastica, e in quei momenti eccita la chiassosità delle sue allieve, si mescola ai loro passatempi, ne diventa la confidente e la complice; arriva a imitare la madre badessa come in una commedia, oppure a farsi beffe di altre consorelle, ridendo in modo sguaiato (anche se tutto ciò non le dà molte consolazioni e la lascia paradossalmente più infelice e abbattuta di prima). La relazione con Egidio e l'assassinio della conversa Gertrude trascorre così alcuni anni, non trovando altri diversivi alla vita nel chiostro che lei tanto odia, finché un giorno le si presenta un'occasione ben più insidiosa. La monaca ha il privilegio di alloggiare in un quartiere a parte del convento, che da quel lato è attiguo a una casa laica dove vive Egidio, un giovane scapestrato che si circonda di sgherri e si fa beffe delle leggi e della giustizia grazie alle sue amicizie potenti. Costui da una finestrella che dà sul chiostro un giorno nota Gertrude che passeggia solitaria in un piccolo cortile, avendo l'ardire di rivolgerle il discorso senza provare timore per l'empietà dell'impresa: la sventurata risponde a quel giovane, iniziando in seguito con lui una relazione clandestina. Gertrude prova molta felicità per la sua nuova condizione e molte consorelle notano un cambiamento nei suoi modi, una maggiore tranquillità che invero è solo una forma di ipocrisia per celare la terribile verità (infatti questi modi gentili lasciano ben presto luogo ai soliti comportamenti bisbetici della "Signora", che vengono attribuiti al suo carattere indocile). Un giorno, però, Gertrude ha una violenta discussione con una conversa e la maltratta in modo eccessivo: la donna si lascia sfuggire il fatto che lei è a conoscenza di un segreto sulla monaca, manifestando l'intenzione di svelare tutto al momento opportuno. Gertrude ne è molto turbata e non molto tempo dopo la conversa svanisce nel nulla, finché non viene scoperta una buca nel muro dell'orto che lascia pensare a tutti che la donna sia scappata da lì; le ricerche a Monza e a Meda, donde la conversa è originaria, non approdano a nulla e forse, osserva l'autore, anziché cercare tanto lontano si sarebbe dovuto scavare vicino (la conversa è stata uccisa da Egidio con la complicità di Gertrude e il corpo è stato sepolto nel convento). In seguito si sparge la voce che la conversa è forse fuggita in Olanda e non si parla più di lei, anche se Gertrude è spesso tormentata dal ricordo della donna e preferirebbe trovarsela viva davanti, piuttosto che sentirne la voce nella sua mente che la rimprovera e la minaccia per il delitto commesso, senza lasciarle mai un solo attimo di pace. Agnese e Lucia al convento È trascorso circa un anno da quei terribili avvenimenti, quando Agnese e Lucia sono state presentate a Gertrude: nel suo colloquio privato con Lucia, la "Signora" moltiplica le domande riguardo alla persecuzione di don Rodrigo e trova strano il ribrezzo che la giovane mostra per il signorotto, con un atteggiamento che sembra davvero singolare a Lucia visto che una monaca non dovrebbe avere familiarità con simili argomenti. Appena può parlare con la madre, Lucia le confida l'imbarazzo per quelle domande ed Agnese le spiega che i signori, chi più chi meno, sono tutti un po' matti, per cui la figlia non deve farci troppo caso e pensare che, quando conoscerà il mondo, non tarderà a capire che la cosa non è poi troppo strana. Gertrude in realtà è molto ben disposta verso Lucia ed è davvero intenzionata a proteggerla, perciò lei e la madre vengono alloggiate nelle stanze lasciate libere dalla figlia della fattoressa e adibite al servizio del monastero. Agnese e Lucia sono ben contente di aver trovato questa protezione e vorrebbero che la loro presenza lì rimanesse segreta, ma questo non può avvenire per la caparbia volontà di don Rodrigo di ritrovare Lucia, quindi l'autore torna a mostrarci il signorotto quando, la sera prima, attende al palazzotto l'esito della spedizione che doveva portare al rapimento della giovane. Capitolo XI Personaggi: Don Rodrigo, il Griso, i bravi, il conte Attilio, Tonio, Gervaso, Perpetua, don Abbondio, M il frate portinaio, il popolo di Milano Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, il palazzotto di don Rodrigo, Milano Tempo: Dalla sera del 10 novembre al 12 novembre 1628 Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino, La guerra di Mantova e del Monferrato, potere Trama: Il Griso riferisce a don Rodrigo l'esito infelice della spedizione per rapire Lucia. Colloqui Rodrigo e Attilio. Reazione del paese alla scomparsa di Renzo, Lucia, Agnese. Il Griso sc è a Monza e viene mandato lì dal padrone. Renzo giunge a Milano, nel giorno del tumulto Il Griso e i bravi tornano al palazzo di don Rodrigo Il Griso e i bravi fanno ritorno al palazzotto di don Rodrigo, la notte in cui hanno tentato vanamente di rapire Lucia, simili a un branco di segugi con i musi bassi e la coda tra le zampe. Il signorotto cammina nervosamente in una sala all'ultimo piano, buia, mentre attende con impazienza l'esito della spedizione: rassicura se stesso circa le possibili conseguenze dell'atto scellerato, dicendosi certo che né Renzo, né tanto meno padre Cristoforo o Agnese verranno a cercare Lucia nel suo palazzo e, quanto alla giustizia, egli può contare sull'appoggio del podestà di Lecco. Don Rodrigo già pregusta la soddisfazione di vincere la scommessa sul conte Attilio e pensa alle infami lusinghe che rivolgerà a Lucia prigioniera, quando sente dei passi in strada e, affacciatosi dalla finestra, vede con sorpresa che i bravi sono tutti rientrati senza la bussola. Il Griso va subito a fargli rapporto e il nobile, che lo attende in cima alle scale, lo apostrofa con parole dure e di scherno per il fallimento dell'impresa, al che il Griso riferisce fedelmente al padrone tutto quanto è avvenuto nelle ore precedenti, incluso ovviamente il fatto che Lucia e Agnese non si trovavano in casa. Don Rodrigo sospetta che ci possa essere una spia a palazzo, come del resto pensa anche il bravo, il quale rassicura tuttavia il padrone sul fatto che, come spera, lui e i suoi uomini non sono stati riconosciuti. Il signorotto ordina al Griso di provvedere il mattino dopo a mandare due sgherri a minacciare il console del paese (cosa che l'autore ha già narrato nelle pagine precedenti), di provvedere a portar via la bussola dal casolare vicino alla casa delle due donne, e infine di sguinzagliare altri uomini nel villaggio per scoprire cosa sia accaduto la notte prima. A questo punto sia don Rodrigo sia il Griso vanno a dormire, quest'ultimo (osserva con ironia l'autore) stanco per i rischi corsi e avendo ricevuto ingiusti rimproveri. Colloquio tra don Rodrigo e il conte Attilio Il mattino seguente don Rodrigo cerca il conte Attilio e questi lo prende in giro ricordandogli che è S. Martino e che ormai la scommessa è perduta. Il cugino gli rivela cosa è accaduto la notte scorsa e Attilio, con fare serio, osserva che padre Cristoforo è certamente coinvolto, rimproverando tra l'altro Rodrigo di non aver fatto bastonare il frate quando due giorni prima lo aveva affrontato nel suo palazzo. Il conte promette che penserà lui a punire come si deve il cappuccino, rivolgendosi al conte zio del Consiglio Segreto di Milano dove Attilio si recherà di lì a due giorni, benché l'altro lo preghi di non peggiorare le cose. In seguito i due fanno colazione e il padrone di casa si dice certo di non avere problemi con la giustizia, tanto più che (come ricorda Attilio) il podestà è dalla sua parte, anche se Rodrigo accusa il cugino di provocare di continuo il magistrato mettendo lui in una posizione scomoda. Attilio osserva che don Rodrigo sembra avere un po' di paura, quindi lo rassicura e promette che presto andrà dal podestà a portargli i suoi ossequi e a far sentire il peso del suo potere. Il conte esce poi dal palazzo per andare a caccia, mentre don Rodrigo attende il ritorno del Griso con le informazioni raccolte sulla notte precedente. La reazione del paese alla scomparsa di Renzo, Lucia, Agnese La confusione in paese della notte precedente è stata troppa perché coloro che ne sono informati non si lascino sfuggire qualche dettaglio, a cominciare da Perpetua che rivela a molte persone il fatto che Renzo, Agnese e Lucia hanno tentato il "matrimonio a sorpresa" ai danni di don Abbondio, benché la donna taccia il fatto di essere stata raggirata da Agnese. Anche Gervaso è eccitato all'idea di rivelare ciò a cui ha preso parte e che lo fa sembrare un uomo come gli altri, incurante del fatto che il fratello Tonio lo minacci perché non dica nulla, e del resto Tonio stesso si lascia scappare qualche ammissione con la moglie che a sua volta ne parla in giro. Solo Menico osserva il silenzio, in quanto i suoi genitori, atterriti all'idea che il ragazzo abbia sventato una trama di don Rodrigo, lo tengono chiuso in casa per alcuni giorni, salvo poi essere loro stessi a rivelare ai compaesani dettagli di quella vicenda, incluso quello molto importante che i tre scomparsi si sono rifugiati a Pescarenico. Gli abitanti del villaggio non sanno tuttavia spiegare l'incursione dei bravi nella casa di Agnese e Lucia, né la presenza degli altri all'osteria (il cui padrone è abile a eludere qualsiasi domanda), mentre il pellegrino visto da due paesani confonde le idee a tutti, poiché ovviamente nessuno sospetta che si trattasse del Griso travestito. Quest'ultimo riesce poi a mettere insieme i pezzi della vicenda grazie a tutte queste informazioni raccolte da lui stesso e dai suoi bravi, così all'ora di pranzo raggiunge don Rodrigo al suo palazzo e gli fa una relazione abbastanza precisa dell'accaduto: riferisce lo stratagemma tentato dai due promessi, che spiega l'assenza di Agnese e Lucia smentendo l'ipotesi di una spia, quindi afferma che i tre si sono rifugiati a Pescarenico, dove evidentemente hanno avuto l'assistenza di padre Cristoforo. Il signorotto è furibondo per la fuga dei due giovani e per la parte avuta dal frate, perciò manda subito il Griso a Pescarenico a raccogliere altre più dettagliate informazioni, promettendogli denaro e la sua protezione. Don Rodrigo manda il Griso a Monza L'autore osserva con una certa ironia che l'amicizia è una gran consolazione, specie perché consente di rivelare ad altri dei segreti, ma poiché gli amici non formano coppie come gli sposi è abbastanza ovvio che questi segreti vengano ampiamente diffusi tra un gran numero di persone. Così il conduttore di calesse che ha portato i tre fuggitivi a Monzaconfida la cosa a un amico fidato, e questi fa la stessa cosa ad altri, finché il "segreto", passando di bocca in bocca, giunge all'orecchio del Griso che può rivelare a don Rodrigo, a tarda sera, che Agnese e Lucia si sono rifugiate in un convento a Monza e Renzo ha proseguito per Milano. Il signorotto si rallegra della separazione dei due giovani e il giorno seguente chiama subito il Griso, dandogli il denaro promesso e ordinandogli di recarsi a Monza per raccogliere ulteriori notizie sulle due donne. Il bravo si mostra esitante e chiede al padrone di mandare qualcun altro a Monza, poiché egli ha in quella città una taglia di cento scudi sopra la sua testa e teme quindi di finire nei guai con la giustizia, cosa che ovviamente non rischia in paese in quanto è protetto dal nobile e dal podestà. Don Rodrigo lo rimprovera aspramente della sua vigliaccheria e gli dice che non dovrà certo andare da solo a Monza e che potrà farsi accompagnare dallo Sfregiato e dal Tiradritto (due bravi al suo servizio), dicendosi certo che il suo nome è abbastanza noto anche in quella città per assicurargli una certa protezione. Il Griso parte dunque per la sua missione, non senza una certa vergogna, simile a un lupo affamato che scende dai monti innevati in cerca di preda, mentre annusa l'aria sospettoso (l'autore cita un verso di un poema ancora inedito di Tommaso Grossi, amico di Manzoni che egli loda con bonaria ironia). In seguito don Rodrigo pensa alla maniera per sbarazzarsi di Renzo usando la giustizia, magari inducendo il podestà a farlo arrestare o bandire dallo Stato per il tentativo fatto in casa del curato, ripromettendosi di parlarne al dottor Azzecca-garbugli. Il signorotto, tuttavia, non può immaginare che Renzo nel frattempo si sta comportando in modo tale da mettersi da solo nei guai con la legge, senza bisogno di alcun intervento da parte sua. Digressione dell'autore Manzoni interrompe la narrazione e afferma, non senza una certa ironia, di aver visto più volte un "caro fanciullo" tentare senza successo di radunare i suoi porcellini d'India che ha lasciato correre liberi per il giardino, poiché gli animali gli sfuggivano da ogni parte e non si lasciavano ricondurre al coperto: alla fine il ragazzo finiva per spingere dentro il recinto quelli più vicini all'uscio, andando poi a recuperare gli altri a seconda di dove si trovassero. L'autore dovrà fare qualcosa di simile con i personaggi del romanzo, poiché, dopo aver lasciato Agnese e Lucia per parlare di don Rodrigo, dovrà ora tornare a Renzo che è in cammino verso Milano. Renzo giunge in vista di Milano Renzo percorre la strada che da Monza conduce a Milano, pieno di pensieri cupi e di rabbia verso don Rodrigo che lo ha costretto a lasciare il paese e Lucia, anche se il ricordo della preghiera recitata con padre Cristoforo lo raddolcisce e lo induce a inginocchiarsi in preghiera ogni volta che trova un'immagine votiva (l'autore osserva ironicamente che, durante il viaggio, uccide e resuscita col pensiero il signorotto varie volte). Il giovane percorre una strada infossata tra due rive nel terreno, per poi salire in posizione più elevata grazie a un sentiero a scalini più ripido: da lì scorge a un tratto la sagoma del duomo di Milano, restando meravigliato di fronte a quel monumento di cui ha tanto sentito parlare fin da bambino. In seguito Renzo si volta e vede le sue montagne, tra cui il Resegone che ha dovuto lasciare, quindi prosegue e giunge in prossimità della città, di cui vede ormai case ed edifici. Si avvicina a un distinto viandante e gli chiede con cortesia quale strada conduca al convento di padre Bonaventura: l'uomo, che si allontana di fretta da Milano a causa del tumulto che è in atto, dice con altrettanta cortesia a Renzo che per indirizzarlo dovrebbe sapere di che convento si tratta, al che il giovane gli mostra la lettera avuta da fra Cristoforo. L'uomo legge "Porta Orientale" e mostra a Renzo la via per arrivarci, dicendogli di costeggiare il fossato che circonda il lazzaretto fino ad arrivare alla porta, superata la quale troverà il convento molto facilmente. L'uomo si congeda con grande gentilezza e Renzo rimane stupito dei modi garbati dei Milanesi, non sapendo che in quella giornata tutti i signori si mostrano gentili con i popolani a causa della rivolta. Renzo trova i pani per terra. Il tumulto Renzo segue le indicazioni e giunge presto a Porta Orientale, che all'epoca è costituita da due pilastri sormontati da una tettoia e con accanto la casupola che ospita i gabellieri. La strada che conduce entro le mura della città è tortuosa, con al centro un piccolo fossato che la divide in due e che si perde in una fogna presso la via del Borghetto (lì vicino c'è una grande croce detta di S. Dionigi, posta su di una colonna). Renzo passa attraverso la porta senza che i gabellieri si interessino a lui, cosa che lo stupisce molto ricordando i racconti di chi era stato a Milano e aveva riferito dei controlli minuziosi che aveva dovuto subire. La strada è deserta e la città pare disabitata, salvo il fatto che in lontananza si sente un vocio confuso. Renzo prosegue il cammino e, a un tratto, vede sul terreno delle lunghe strisce bianche che sembrano di neve, cosa impossibile anche per la stagione dell'anno; il giovane osserva con più attenzione e scopre, con enorme sorpresa, che si tratta di farina. Renzo pensa che a Milano debba regnare l'abbondanza, visto che la farina viene sciupata in questo modo, ma poco dopo, giunto vicino alla colonna di S. Dionigi, vede sugli scalini del piedistallo delle cose simili a pagnotte e, incuriosito, ne raccoglie una: si tratta proprio di un pane tondo e soffice, bianchissimo, il che riempie il giovane di meraviglia e lo induce a pensare che questo sia il "paese di cuccagna", visto che il pane viene gettato via così e per di più in tempo di carestia. Renzo riflette sul da farsi e poi decide di raccogliere alcuni pani, dal momento che sono stati buttati per terra, ripromettendosi di pagarli al proprietario se mai lo incontrasse. Ne raccoglie due e ne mangia un terzo, proseguendo il cammino e desideroso di capire cosa stia succedendo in questa città. La famiglia dei rivoltosi Renzo prosegue e dopo un po' vede arrivare gente, a cominciare da una donna, un uomo e un ragazzo: tutti e tre portano un carico pesante, sono infarinati e sembrano pesti, doloranti. L'uomo regge sulle spalle un gran sacco che perde farina, mentre la donna regge i lembi della gonna che contiene anch'essa farina, in quantità tale che ne vola via un po' a ogni passo. Il ragazzo porta sulla testa una cesta di pani e, nel tentativo di tenere il passo dei genitori, fa cadere ogni tanto alcune pagnotte a terra. La madre lo rimprovera aspramente e, muovendosi, fa cadere anche lei un buon quantitativo di farina. Il marito invita ad andare via in fretta, mentre alcuni nuovi arrivati da fuori città chiedono ai tre dove si va a prendere il pane: la donna risponde di andare più avanti e poi osserva con l'uomo che i contadini finiranno per depredare tutti i forni di Milano, mentre il marito la invita a pensare che finalmente c'è abbondanza per tutti. Renzo ha capito che è in corso un tumulto popolare e che i rivoltosi saccheggiano i forni per rubare il pane, cosa che gli fa istintivamente piacere sia per le ingiustizie da lui sofferte, sia per la convinzione (generalmente diffusa) che la carestia sia causata dagli incettatori di pane e che per questo sia giusto, all'occasione, impadronirsi di ciò che viene negato al popolo affamato. Decide comunque, per il momento, di tenersi fuori dalla sommossa e si affretta a raggiungere il convento dove è stato indirizzato. Renzo arriva al convento, poi si avvicina al tumulto Renzo raggiunge il convento dei cappuccini, che sorge in una piazzetta con quattro grandi olmi davanti: mette via il pane che stava mangiando, prepara la lettera di padre Cristoforo e tira il campanello. Si apre uno sportello con una grata e il frate portinaio gli domanda cosa voglia: Renzo dice di dover consegnare al padre Bonaventura una lettera di padre Cristoforo, al che il frate gli domanda di darla a lui. Il giovane rifiuta e afferma di doverla dare in mano a padre Bonaventura, ma il portinaio gli dice che è assente e rifiuta di fare entrare Renzo, consigliandogli di attendere in chiesa il ritorno del padre. Lo sportello si richiude e il giovane, dopo essersi incamminato verso la chiesa, è poi attratto dall'idea di vedere da vicino il tumulto: si dirige pertanto verso il vociare del popolo, incuriosito, mentre sbocconcella la mezza pagnotta che gli è rimasta. L'autore interrompe il racconto per spiegare le cause e le origini di quella sommossa popolare. Capitolo XII Personaggi: Renzo, Antonio Ferrer, don Gonzalo, il capitano di giustizia, il popolo di Milano Luoghi: Milano, il forno delle Grucce Tempo: 11 novembre 1628 (nella digressione: fra l'estate 1627 e l'autunno 1628) Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino, La guerra di Mantova e del Monferrato, potere Trama: Digressione dell'autore sulle cause della carestia e sul calmiere imposto da Ferrer. Lo scop rivolta. Renzo assiste all'assalto al forno delle Grucce. La folla si sposta alla casa del vicar Provvisione. Le ragioni della carestia L'autore apre una digressione storica per spiegare le ragioni della carestia, che ha fatto seguito a un anno di raccolta scarsa (il 1627) in cui le scorte precedenti hanno in parte attenuato la penuria, mentre il 1628 è stato un anno ancora più scarso per colpa del cattivo tempo e dell'azione degli uomini. Tutto è da ricondurre all'insensata guerra di Mantova e del Monferrato accennata in precedenza, a causa della quale sono state imposte tasse troppo alte e si sono sottoposte le terre alle devastazioni delle truppe alloggiate nei paesi (spesso i contadini sono costretti ad abbandonarle e andare a mendicare il pane come miseri accattoni). Lo scarso raccolto dell'annata non è stato ancora riposto nei granai che subito esso è depredato dalle tasse e dalla cupidigia delle soldatesche, il che inasprisce ancor di più la penuria: e, sottolinea l'autore, la conseguenza inevitabile e tuttavia salutare di essa è il rincaro, ovvero l'aumento del prezzo del grano e del pane. Quando però il rincaro è ingente nasce nel popolo (e anche fra i nobili e gli intellettuali) l'idea che la causa di tutto non sia la scarsezza di grano, ma gli accaparratori che ne fanno incetta per rivenderlo a prezzo maggiorato: fornai e proprietari terrieri vengono accusati un po' da tutti di far questo, molti credono di sapere dove siano i magazzini ricolmi di frumento, altri affermano che il grano viene spedito in paesi stranieri. Il popolo di Milano chiede a gran voce ai magistrati dei provvedimenti contro i presunti incettatori e qualcosa viene fatto, come fissare il prezzo massimo di alcune merci, imporre a tutti di vendere, ma questo ovviamente non risolve il problema della carestia e non fa saltare fuori il grano che non c'è. Il popolo reclama altri provvedimenti più incisivi e purtroppo trova un uomo disposto ad assecondare i suoi voleri. Ferrer impone il calmiere sul prezzo del pane Il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, è impegnato nell'assedio di Casale e in sua vece la città è amministrata da Antonio Ferrer, gran cancelliere spagnolo. Egli pensa che sia giusto far sì che il pane abbia un prezzo ribassato, quindi fissa per legge un calmiere (un tetto massimo) sul prezzo del grano, come se questo si vendesse a 33 lire il moggio, mentre in realtà di vende sino a 80 lire: agisce come una donna non più giovane, che spera di ringiovanire alterando la carta d'identità. In altre occasioni un provvedimento così insensato rimarrebbe lettera morta, ma questa volta il popolo affamato ne pretende l'immediata esecuzione e accorre in massa ai forni, per acquistare il pane a prezzo ribassato. I fornai ovviamente protestano, ma le pene minacciate dai magistrati e l'assillo della folla li obbligano a produrre pane in continuazione, anche perché i popolani intuiscono che tale legge è contraria alle dinamiche del mercato e non durerà a lungo. I fornai tentano di far capire ai magistrati che la cosa prima o poi sarà impossibile per la penuria del grano e della farina e chiedono che il calmiere venga revocato, minacciando di smettere di produrre il pane, ma Ferrer (per incompetenza, testardaggine o semplice convinzione di essere nel giusto) non intende acconsentire e il prezzo del pane resta ribassato in forza di legge. I decurioni, magistrati cittadini che si occupano di queste faccende, informano per lettera don Gonzalo e invocano il suo intervento per risolvere la situazione che sta diventando insostenibile. Il calmiere viene revocato. Scoppia la rivolta Il governatore, impegnato più mai negli affari della guerra, nomina una commissione di magistrati alla quale dà il compito di fissare il giusto prezzo al pane: i deputati si riuniscono e, dopo una seduta in cui prevalgono i complimenti e le discussioni oziose, prendono l'unica decisione logica, ovvero rincarare il pane secondo le leggi di mercato. La cosa acquieta i fornai, ma fa imbestialire il popolo, che la sera del 10 novembre 1628, prima dell'arrivo di Renzo, si riversa in strada dove si formano gruppi spontanei, tutti uniti dalla rabbia e dall'avversione per la revoca del calmiere. Molti improvvisati oratori fanno discorsi con cui spingono la folla a fare qualcosa di violento e molti mestatori di popolo ascoltano compiaciuti, decisi a intorbidire le acque quando il tumulto sarà scoppiato. Infatti il giorno seguente (S. Martino, l'11 novembre) le strade si riempiono nuovamente di popolo brulicante e irritato, in cerca di un'occasione per dare inizio alla sommossa. Alle prime luci del giorno i garzoni escono dalle botteghe dei fornai con le gerle di pane sulle spalle, per portarlo nelle case dei nobili, e un ragazzo viene notato dalla folla che subito inveisce contro di lui accusando i fornai di nascondere il pane. Alcuni lo strattonano e tentano di afferrare la gerla, al che il garzone se ne libera e si dà alla fuga, mentre i popolani afferrano le pagnotte ancora fragranti e le distribuiscono ai presenti; quelli a cui non tocca nulla vanno in cerca di altri garzoni, che subiscono lo stesso trattamento. Il bottino è comunque assai misero e sono ancora molti quelli rimasti a bocca asciutta, per cui il popolo in rivolta si muove deciso a dare l'assalto ai forni della città. L'assalto al forno delle Grucce. Il capitano di giustizia Nella strada chiamata Corsia dei Servi c'è un forno che ai tempi dell'autore ha ancora lo stesso nome, ovvero il forno delle Grucce (questo è il nome in toscano, mentre quello in milanese, osserva con ironia Manzoni, è formato da parole dal suono sgradevole). Il popolo in tumulto corre verso questa bottega, dove il garzone è appena tornato privo del suo carico, e ben presto chi è all'interno sente l'urlo orrendo della folla che si avvicina. I proprietari si affrettano a sprangare porte e finestre e qualcuno va a chiedere l'intervento del capitano di giustizia, mentre intanto il popolo urla all'esterno "pane! aprite!" Poco dopo sopraggiunge con una squadra di alabardieri al comando del capitano di giustizia, che tenta invano di disperdere la folla e di indurre i presenti a tornare a casa: l'ufficiale e i soldati si appostano di fronte all'uscio del forno, ma gli inviti del capitano ad avere giudizio e ad andarsene non valgono a nulla, anche perché la folla si ingrossa ogni momento e preme contro la porta della bottega. Il capitano dà ordine di respingere i rivoltosi senza far male a nessuno e intanto picchia alla porta, gridando che aprano e lo facciano entrare; la porta si apre, così lui e gli alabardieri riescono a entrare nella bottega e il capitano sale al piano di sopra, affacciandosi a una finestra. Il forno viene saccheggiato dalla folla Il capitano si rivolge alla folla e tenta di placarla con parole diplomatiche, invitando i rivoltosi a tornare a casa in cambio del perdono giudiziario, ma quelli intanto stanno già sconficcando la porta e togliendo le inferriate dalle finestre. Alcuni di loro lanciano pietre contro il capitano e una lo colpisce alla fronte, per cui l'ufficiale muta d'improvviso il tono del suo discorso e grida improperi alla folla. L'uomo si ritira all'interno e poco dopo i proprietari del forno iniziano a gettare di sotto delle pietre che hanno raccolto in precedenza, colpendo più di un rivoltoso (due ragazzi muoiono nella calca): ciò accresce ulteriormente il furore della folla, che riesce a penetrare nella bottega mentre quelli all'interno si rifugiano in soffitta o escono dagli abbaini sui tetti. I popolani saccheggiano il forno portando via il pane, oppure rubando il denaro dalla cassa, mentre altri afferrano i sacchi di farina spargendone una gran quantità in terra e sciupandola. Nel trambusto generale si solleva in aria una nube bianca di farina e all'esterno della bottega si formano ben presto due processioni di persone, una che esce dal forno col bottino e l'altra che vi entra per saccheggiarlo a sua volta. Renzo assiste all'assalto al forno delle Grucce Mentre la folla in tumulto dà l'assalto al forno delle Grucce, molte altre botteghe a Milano sono bersaglio della rivolta, ma qui le cose vanno diversamente in quanto i proprietari respingono i malintenzionati con l'aiuto di altri uomini, oppure distribuiscono pane ottenendo l'allontanamento dei pochi convenuti, senza contare che i soldati e le forze di polizia si fanno vedere in qualche punto della città. Ciò spinge i popolani che non hanno potuto partecipare alla sommossa a radunarsi al forno delle Grucce, in quanto lì la folla è più numerosa e non incontra resistenza, ed è proprio in questo momento che Renzo arriva sgranocchiando il pane che aveva trovato in terra, al suo ingresso in città. Il giovane osserva incuriosito il tumulto e ascolta vari discorsi della folla, che inveisce contro il governo di Milano accusandolo di nascondere il grano e il pane, mentre altri dicono che tutto è inutile e il pane verrà avvelenato dai nobili per sterminare la povera gente. Un altro rivoltoso si allontana reggendo sulle spalle un enorme sacco di farina e un altro ancora scappa via per prudenza, dicendosi certo che in mezzo alla folla ci sono poliziotti travestiti che prendono nota dei presenti, per arrestarli alla fine della rivolta. Alcuni popolani iniziano anche ad accusare il vicario di Provvisione, ovvero il magistrato che sovrintende all'approvvigionamento della città, affermando che la colpa della scarsezza di grano e della carestia è sua; altri prendono le difese del gran cancelliere Ferrer, considerato al contrario un benefattore del popolo in quanto ha imposto il calmiere sul prezzo del pane. Renzo ascolta questi discorsi e giunge finalmente al forno delle Grucce, che ormai è semidistrutto dal furore della folla: il giovane contadino trova la cosa inopportuna, dal momento che i forni sono l'unico posto dove è possibile produrre il pane, poi vede molti rivoltosi che escono dalla bottega ciascuno con in mano un pezzo del mobilio o una suppellettile, dirigendosi tutti nella stessa direzione. Renzo è curioso e decide di seguirli, quindi vede che vanno tutti lungo la strada che costeggia il duomo e sbocca nella piazza dove altri popolani hanno acceso un gran falò, nel quale ognuno getta ciò che ha in mano per bruciarlo. Tutti i rivoltosi saltano e gridano attorno alle fiamme, inneggiando all'abbondanza e protestando contro la carestia e la Provvisione. La folla si dirige alla casa del vicario di Provvisione L'autore osserva con amara ironia che distruggere i forni non è il mezzo migliore per produrre il pane, ma questo è un pensiero troppo sottile per la folla in tumulto: anche Renzo ovviamente lo pensa, benché si tenga certe idee per sé temendo che i rivoltosi possano reagire in modo violento. Intanto il falò si spegne lentamente e si sparge d'improvviso la voce che nella piazza del Cordusio si dà l'assalto a un altro forno, per cui la massa dei rivoltosi inizia a dirigersi in quella direzione a piccoli gruppi. Renzo pensa dapprima se non sia meglio tornare al convento a cercare il padre Bonaventura, poi prevale la curiosità e il giovane decide di seguire la sommossa per osservare da una certa distanza gli avvenimenti (tira fuori dalla tasca il secondo pane raccolto e inizia a sbocconcellare anche questo). Il gruppo dei rivoltosi ha imboccato la strada di Pescheria Vecchia ed è entrato nella piazza dei Mercanti, dove passa di fronte alla statua che raffigura re Filippo II che ha il braccio teso e l'atteggiamento minaccioso, tanto che i popolani non possono fare a meno di guardarlo (l'autore spiega che quella statua ai suoi tempi non c'è più, essendo stata alterata durante il periodo rivoluzionario e in seguito distrutta). Dalla piazza la folla si dirige per la via dei Fustagnai e sbocca infine al Cordusio, ma qui rimane delusa in quanto il forno è ben chiuso e protetto da gente armata all'interno, per cui i rivoltosi restano per qualche tempo incerti sul da farsi ed esitanti; a un tratto qualcuno propone a gran voce di dirigersi alla casa del vicario di Provvisione, che si trova poco distante, per assediarla e linciare il povero funzionario. Tutti accolgono la proposta come se fosse una decisione già presa in precedenza e la folla si mette subito in cammino. Capitolo XIII Personaggi: Renzo, Antonio Ferrer, il vicario di Provvisione, il vecchio mal vissuto, il popolo di Milan Pedro Luoghi: Milano Tempo: 11 novembre 1628 Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino, Nobiltà e potere Trama: La folla assedia la casa del vicario di Provvisione per linciarlo. Renzo assiste al tumulto e proposito di uccidere il vicario. Arrivo di Ferrer in carrozza. Il gran cancelliere porta in sa promettendo falsamente di condurlo in prigione. La folla assalta la casa del vicario di Provvisione Il vicario di Provvisione è a casa sua, intento a digerire un magro pasto consumato senza pane fresco, quando alcuni cittadini giungono a informarlo che la folla si dirige alla sua abitazione per linciarlo. I servi lo avvertono che i rivoltosi sono in arrivo e la fuga è ormai impossibile, così sprangano porte e finestre mentre si sente l'urlo della sommossa che si avvicina minacciosamente. Il pover'uomo è in preda al terrore e si rifugia in soffitta, da dove si affaccia da un pertugio nella parete e scorge la folla che si avvicina, per poi rannicchiarsi in un angolo appartato e sperare vanamente che i disordini cessino. Intanto i rivoltosi hanno raggiunto la porta della casa iniziando a sconficcarla in tutti i modi e Renzo si trova in mezzo al tumulto, questa volta cacciatosi in mezzo ai disordini per scelta deliberata: il giovane non ha disapprovato il saccheggio dei forni, tuttavia non condivide l'intento della folla di mettere a morte il vicario e, pur essendo convinto che il funzionario sia un affamatore di popolo, è inorridito all'idea di spargere sangue e si è unito alla sommossa col fine di dare una mano a salvare il vicario dal linciaggio. I più esagitati nel frattempo cercano di abbattere la porta colpendola con sassi, o lavorando con scalpelli e attrezzi vari, mentre altri cercano di aprire una breccia nel muro e altri ancora si limitano a incitare a parole, essendo tuttavia di impaccio con la loro sola presenza (per fortuna, osserva con amara ironia l'autore, accade talvolta che i sostenitori più accaniti di un'opera ne siano poi l'impedimento principale). L'arrivo dei soldati I magistrati di Milano che sono stati informati dell'accaduto avvertono a loro volta il comandante della guarnigione del Castello Sforzesco, presso porta Giovia, il quale invia sul posto alcuni soldati: al loro arrivo, tuttavia, essi trovano la casa del vicario cinta d'assedio dai rivoltosi e si fermano a una certa distanza, mentre l'ufficiale che li guida riflette sul da farsi. Sparare sulla folla sarebbe crudele e pericoloso, poiché aizzerebbe i più violenti contro i soldati; del resto anche tentare di disperdere i rivoltosi è rischioso, in quanto i soldati potrebbero non mantenere i ranghi serrati ed essere facilmente sopraffatti da quella massa di esagitati. L'esitazione dell'ufficiale viene interpretata come paura e così i popolani più vicini ai soldati li provocano con grida di scherno e un atteggiamento di noncuranza, mentre quelli più vicini alla casa non si accorgono neppure della loro presenza e proseguono imperterriti la loro opera di scardinamento della porta. Il vecchio mal vissuto Tra gli esagitati si nota un vecchio dall'aspetto trasandato e lo sguardo pieno di odio, il quale agita in aria un martello, una corda e quattro chiodi coi quali dice di voler attaccare il corpo del vicario a un battente della porta, quando il funzionario sarà stato ucciso. Renzo è inorridito da tali parole e, vedendo che altri sembrano condividere la sua disapprovazione, si lascia sfuggire delle esclamazioni con cui incita i rivoltosi a non abbandonarsi ad atti insensati di violenza, contrari alla volontà di Dio. Uno dei rivoltosi vicino a lui sente le sue parole e lo accusa con rabbia di essere un traditore, mentre in men che non si dica si diffonde tra la folla la voce che lì in mezzo c'è una spia del vicario, o un suo servo, o addirittura il vicario che scappa travestito da contadino. Renzo vorrebbe sparire ed è protetto da alcuni che si trovano vicini a lui, quando a un tratto si sente gridare qualcuno che chiede alla folla di fare spazio, il che salva probabilmente il giovane dalla reazione inferocita degli altri popolani. La scala a pioli. Si sparge la voce dell'arrivo di Ferrer Alcuni rivoltosi stanno portando sulle spalle una lunga e pesante scala a pioli, con cui intendono arrampicarsi per entrare nella casa del vicario da una finestra: l'operazione è tuttavia assai difficile, poiché nell'avanzare tra la folla la scala sfugge di mano a chi la trasporta e picchia sulle spalle e le costole degli altri, così essa (paragonata ironicamente dall'autore a una macchina da assedio) si avvicina molto lentamente alla casa. Renzoapprofitta della confusione per sgomitare e allontanarsi dal punto in cui si trova, onde evitare rappresaglie da parte di quelli che lo hanno sentito difendere il vicario. A un tratto si sparge tra la folla la voce che sta arrivando Ferrer in carrozza, notizia che suscita le più varie reazioni e l'iniziale incredulità dei rivoltosi: tutti si voltano a guardare verso il punto indicato (senza tuttavia veder nulla a causa del gran numero di persone) e da quella parte sta proprio arrivando il gran cancelliere per cercare di trarre in salvo il vicario, approfittando della popolarità che ha acquistato con la scriteriata decisione di imporre il calmiere sul prezzo del pane. Ben presto tra la folla si diffonde la convinzione che Ferrer sia venuto per portare il vicario in prigione e un certo numero di rivoltosi sono dunque favorevoli all'arrivo dell'alto funzionario di Stato, mentre altri sono contrari in quanto vorrebbero esser loro a farsi giustizia da sé e linciare il malcapitato vicario di Provvisione. Digressione dell'autore sui tumulti popolari L'autore osserva che nelle rivolte popolari c'è sempre un certo numero di esagitati, che per i motivi più vari (perché eccitati dagli eventi, o per fanatismo, o ancora per scelleratezza o semplice gusto del soqquadro) cercano di tirare le cose al peggio e vogliono rinnovare i disordini non appena questi sembrino acquietarsi: ci sono tuttavia anche coloro che si adoperano con altrettanto impegno per ottenere l'effetto contrario, per vicinanza alle persone minacciate o soltanto per sincero orrore verso qualunque atto di violenza. In ciascuna delle due fazioni si crea subito un comune sentire e un'identità d'intenti, mentre nel grosso della folla ci sono uomini di diverse idee e sentimenti che possono inclinare all'uno o all'altro partito, in quanto bisognosi di credere a qualcosa e facili dunque ad essere persuasi ad appoggiare un'idea o quella opposta. I rivoltosi sono come delle banderuole che si muovono senza volontà propria e possono essere usati per i fini altrui, e poiché hanno una grande forza ci sono sempre nei tumulti degli abili oratori in grado di tirarli dalla loro parte, istigandoli a fare qualcosa di bene o di male, e di suscitare in loro speranze e timori, paure e sentimenti vari. Ferrer è acclamato dalla folla L'arrivo di Ferrer, da solo e senza alcuna scorta né apparato in mezzo a quella folla tumultuante, suscita la viva approvazione di molti che lo acclamano come un benefattore del popolo e ridà forza a coloro che stanno cercando di rabbonire i rivoltosi, perché non commettano atti di violenza. Si diffonde anche la convinzione che egli voglia portare in prigione il vicario di Provvisione, per cui i suoi sostenitori si danno da fare per far passare la carrozza tra la folla e ripetono a tutti le sue parole, ricordando che il gran cancelliere è colui che ha messo il pane a buon mercato. Poco alla volta prevale il partito favorevole a Ferrer e alcuni rivoltosi allontanano con modi bruschi quelli che stanno ancora sconficcando la porta e il muro della casa, dicendo a coloro che stanno all'interno di tenersi pronti a fare uscire il vicario (è chiaro che il vero scopo del cancelliere è condurlo in salvo e la cosa non sfugge ad alcuni dei presenti). Renzo chiede se si tratti di quel Ferrer che"aiuta a far le gride", poiché si rammenta della sua firma che ha visto sotto la grida mostratagli dal dottor Azzecca-garbugli, e dopo che la cosa gli viene confermata si convince che il gran cancelliere è un galantuomo venuto a castigare il vicario, per cui il giovane decide di dare una mano e, a forza di urti e spinte, arriva di fianco alla carrozza dove si adopera per fare stare indietro la folla e consentire al veicolo di passare. La carrozza avanza tra la folla La carrozza avanza con estrema lentezza e spesso deve fermarsi, occasione in cui Ferrer si affaccia dallo sportello e, atteggiandosi all'umiltà e alla benevolenza, con l'espressione che ha tenuto in serbo per l'incontro con re Filippo IV, si rivolge ai rivoltosi cercando di quietarli e dicendo nel chiasso infernale qualche parola. Il gran cancelliere manda baci alla folla, chiede con la mano di fare spazio e silenzio, quindi dice di voler fare "giustizia" e promette pane e abbondanza, un po' intimorito dalla calca tremenda intorno alla sua carrozza. Egli aggiunge di essere venuto a portare il vicario in prigione, anche se precisa in spagnolo "si es culpable" (se è colpevole), poi sollecita il cocchiere Pedro a procedere tra la folla se gli è possibile. Pedro sorride anche lui ai rivoltosi con fare manierato e chiede gentilmente che facciano passare la carrozza, mentre alcuni popolani ricacciano indietro gli altri e fanno un po' di spazio in cui, pur con grande fatica, essa riesce ad avanzare. Tra questi è particolarmente attivo anche Renzo, il quale ha deciso di aiutare Ferrer nella sua opera e non intende andar via finché l'uomo non sarà riuscito a portare con sé il vicario, per cui il giovane si dà un gran da fare con urti e spintoni ed è talmente suggestionato dagli eventi che gli sembra quasi di aver stretto un legame di amicizia col gran cancelliere. Le parole di Ferrer alla folla La carrozza continua a procedere lentamente e a fermarsi di quando in quando, ostacolata dalla folla che ondeggia intorno ad essa come un mare in tempesta e fa sembrare un percorso assai lungo le poche decine di metri che la separano dalla casa del vicario. Ferrer continua a rivolgersi alla folla cercando di capire cosa dicano i rivoltosi e dando le risposte più gradite alle loro orecchie, ripetendo cioè le parole "pane" e "giustizia" e promettendo di portare il vicario in prigione, mentre la folla si tira indietro a fatica e qualche popolano rischia seriamente di essere schiacciato da una delle ruote della carrozza. Finalmente il veicolo giunge vicino alla casa del vicario e qui, proprio di fronte alla porta, si è creato uno spazio vuoto grazie all'opera incessante dei partigiani favorevoli a Ferrer, tra i quali Renzo che si trova in prima fila, in mezzo a una delle due ali di folla che accompagnano la carrozza sino alla porta dell'abitazione. Il gran cancelliere vede la porta mezza scardinata e un po' di spazio libero di fronte ad essa, quindi si affretta ad uscire dalla carrozza e si sofferma per qualche istante sul predellino, acclamato dai presenti a cui rivolge un profondo inchino promettendo "pane e giustizia". Ferrer entra nella casa e ne porta fuori il vicario Ferrer si affretta a scendere dalla carrozza e ad avvicinarsi all'uscio sconficcato della casa, che nel frattempo è stato aperto da coloro che si trovano all'interno: il gran cancelliere sguscia rapidamente in mezzo ai battenti semichiusi, preoccupandosi che la sua toga non venga strappata, quindi scompare alla vista dei rivoltosi (l'autore lo paragona, non senza sarcasmo, a una serpe che si infila in un buco per sfuggire agli inseguitori). All'interno il vicario scende le scale mezzo morto dalla paura e si rianima un poco alla vista di Ferrer, che si affretta a riempire di ringraziamenti: il gran cancelliere lo rassicura e lo invita a seguirlo, informandolo che è sua intenzione condurlo via sulla sua carrozza, quindi lo accompagna verso la porta, invocando tra sé l'aiuto di Dio per affrontare quel passo pericoloso e difficile. I due escono dalla casa, Ferrer per primo e il vicario che lo segue piccino piccino, appiattito dietro alla sua toga, mentre i popolani lì vicino li aiutano a passare e cercano di sottrarre il vicario alla vista della moltitudine: quest'ultimo e il suo salvatore si affrettano a entrare nella carrozza e qui il vicario si nasconde in un angolo, mentre la folla applaude all'indirizzo di Ferrer e impreca contro l'odiato funzionario. La carrozza si allontana dalla casa e questa volta riesce ad avanzare più celermente, sia perché tutti sono abbastanza favorevoli a lasciare andare in prigione il vicario, sia perché si è ormai creato un corridoio in mezzo alla folla che agevola il passaggio del veicolo. La carrozza si allontana dalla folla Ferrer raccomanda al vicario di stare ben nascosto sul fondo della carrozza per non farsi vedere dalla folla, mentre il gran cancelliere si affaccia ora all'uno ora all'altro sportello rivolgendosi ai popolani e cercando di blandirli con parole accorte, promettendo cioè pane e giustizia, nonché di portare il vicario alle prigioni dove sarà castigato. Ogni tanto, tuttavia, si volta verso l'interno e parla in spagnolo al vicario, spiegandogli che dice quelle cose solo per rabbonire i rivoltosi: così facendo riesce a tenere a bada la folla e intanto la carrozza si allontana dal cuore del tumulto, raggiungendo infine i soldati spagnoli che sono rimasti inerti e che rappresentano per il cancelliere una sorta di "soccorso di Pisa". L'uomo politico risponde con ironia al saluto dell'ufficiale in comando, che capisce di essere in torto e si stringe nelle spalle, quindi il cocchiere Pedro si rianima alla vista delle armi dei "micheletti" e sprona a dovere i cavalli, facendo imboccare alla carrozza la strada che conduce al Castello Sforzesco. Ferrer esorta il vicario a rialzarsi, dal momento che il pericolo è cessato, così il funzionario si rianima e inizia a coprire di ringraziamenti il suo salvatore: il gran cancelliere è in realtà preoccupato degli sviluppi della vicenda, nonché delle reazioni del governatore di Milano, don Gonzalo de Cordoba, del primo ministro conte duca di Olivares, del re di Spagna, di fronte allo sconquasso provocato dalla rivolta di quella giornata. Dal canto suo il vicario esprime il proposito di dimettersi dalla sua carica e di ritirarsi in una grotta o sulla cima di una montagna, lontano dalla folla inferocita dei Milanesi, ma il Ferrer gli risponde con tono grave che lui dovrà fare ciò che sarà più conveniente per il servizio al re, benché il vicario non sembri molto convinto di questa affermazione. La carrozza raggiunge il Castello Sforzesco e l'anonimo non dice quale sia poi il destino del vicario di Provvisione. Capitolo XIV Personaggi: Renzo, Ambrogio Fusella, l'oste della Luna Piena, il popolo di Milano Luoghi: Milano, l'osteria della Luna Piena Tempo: 11 novembre 1628, pomeriggio-sera Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino Trama: Renzo arringa la folla in tumulto con un discorso, attirando l'attenzione di un poliziotto tra lo conduce all'osteria della Luna Piena. Renzo si ubriaca e finisce per rivelare il proprio no poliziotto, che poi lo lascia solo. Renzo, completamente ubriaco, diventa lo zimbello degl La folla dei rivoltosi inizia a disperdersi La folla in tumulto inizia a disperdersi e molti tornano alle proprie case, mentre un gruppo di facinorosi più violenti, insoddisfatti della conclusione della rivoltasenza spargimento di sangue, si trattiene presso la porta della casa del vicario di Provvisione per vedere se si possa tentare ancora qualcosa: tuttavia i soldati spagnoli prendono posizione accanto alla casa e i rivoltosi se ne vanno, alcuni con passo più spedito e altri facendo finta di nulla. Lì intorno le strade sono ancora piene di drappelli di popolani, che si formano spontaneamente e dove tutti sembrano avere qualcosa da dire su quella giornata: alcuni sono contenti che la cosa sia finita bene e lodano il comportamento di Ferrer, pronosticando seri guai per il vicario, mentre altri (più astuti) osservano che il gran cancelliere ha preso in giro i rivoltosi e che al vicario non succederà nulla, poiché i signori si proteggono l'un l'altro. Intanto il sole sta tramontando e i popolani, stanchi di tutti gli avvenimenti della giornata, iniziano ad allontanarsi. Renzo arringa la folla con un discorso Renzo nel frattempo si è sottratto alla calca e inizia a sentire il bisogno di sfamarsi e di riposare, ancora agitato per le molte emozioni vissute durante la giornata. Sta cercando un'insegna di osteria dove alloggiare, dal momento che è troppo tardi per tornare al convento, quando si imbatte in un capannello di popolani intenti a discutere e, ancora eccitato per tutto ciò che ha visto in precedenza, decide di dire anche lui la sua opinione, convinto che basti manifestare un proposito di fronte alla folla perché questo venga subito messo in opera. Renzo inizia a dire che, secondo lui, la faccenda del pane a buon mercato non è la sola che meriti l'attenzione del popolo, giacché ci sono dei tiranni che opprimono la povera gente ed esercitano contro di essa degli autentici soprusi: egli è certo che ci siano dei signori prepotenti a Milano come in campagna e una voce gli dà prontamente ragione. Renzo aggiunge che le gride ci sono, stampate in bella evidenza, ma non vengono applicate e non viene fatta giustizia ai poveri, perché c'è una "lega" di birboni che si proteggono l'uno con l'altro, anche se il re e gli altri uomini di governo vorrebbero che i malvagi venissero puniti per i loro delitti. Il giovane propone di recarsi tutti il giorno dopo da Ferrer, che si è dimostrato un galantuomo, per fargli sapere come stanno le cose e invocare il suo aiuto: Renzo rammenta la sua triste esperienza dal dottor Azzecca-garbugli, dove ha visto coi suoi occhi una grida firmata da Ferrer in persona e che riguardava proprio un caso simile al suo, anche se non ha potuto ottenere soddisfazione. Il gran cancelliere non potrà certo andare in giro in carrozza ad arrestare tutti i birboni, ma potrà comandare ai giudici e ai podestà di applicare la legge e dare la giusta punizione a chi sgarra, con l'aiuto dei popolani che saranno pronti a darsi da fare come è accaduto in questa giornata. L'uditorio ha ascoltato con interesse le sue parole e molti alla fine si complimentano e applaudono, anche se alcuni disapprovano e osservano che tutti i montanari vorranno dir la loro e questo, alla lunga, si volgerà in peggio per i poveri. Il poliziotto conduce Renzo all'osteria Renzo chiede a qualcuno della folla di indicargli un'osteria dove ricoverarsi, al che un tale, che ha ascoltato attentamente il suo discorso senza dir nulla, si fa avanti dicendosi pronto ad accompagnarlo in una locanda di cui conosce il padrone e dove il giovane starà benissimo. Renzo accetta volentieri e, dopo aver stretto molte mani di sconosciuti, si incammina con l'estraneo che in realtà non è altri che un poliziotto travestito, che ha intenzione di condurlo al palazzo di giustizia. Infatti l'uomo finge di discorrere alla buona col giovane, chiedendogli da dove viene e osservando che al suo paese deve aver subìto molte angherie, al che Renzo ribatte con naturale prudenza dicendo solo di venire dal territorio di Lecco. Il giovane è molto stanco e non intende camminare oltre, perciò quando vede un'insegna di osteria con sopra il simbolo della Luna Piena decide di entrare lì: l'uomo tenta di convincerlo a seguirlo oltre, adducendo come pretesto che in quella locanda non si troverebbe bene, ma Renzo non sente ragioni ed entra nel locale, seguito dal poliziotto che non intende lasciarlo (Renzo lo invita a bere un bicchiere e l'altro accetta con fare manierato). Il poliziotto, che sembra pratico del luogo, lo guida all'interno dell'osteria attraverso un piccolo cortile, entrando poi in un ampio locale illuminato dalla debole luce di due lumi che pendono dal soffitto e dove c'è una lunga tavola con due panche ai lati, con piatti, fiaschi, carte e dadi dappertutto. Molti avventori sono intenti a giocare e a bare, facendo un gran chiasso, mentre sulla tavola ci sono molte monete che, probabilmente, sono il frutto di ruberie avvenute in quella giornata di tumulto. Renzo mostra il pane gli avventori L'oste siede accanto al camino, attento a tutto quel che succede nel locale, poi si alza e si avvicina ai due nuovi arrivati, riconoscendo il poliziotto e imprecando tra sé poiché gli capita sempre tra i piedi quando meno lo vorrebbe: quanto a Renzo, l'uomo è convinto che sia un altro sbirro o una sua preda e da come il giovane parlerà lo capirà subito. L'oste chiede ai due cosa vogliano e Renzo ordina un fiasco di vino, quindi il giovane si siede su una panca di fronte al poliziotto e, quando l'oste porta il vino, ne beve subito un sorso. Ordina poi dello stufato e l'oste dichiara che non potrà servirgli del pane, al che Renzo tira fuori l'ultima delle pagnotte che aveva trovato vicino alla croce di S. Dionigi, al suo arrivo a Milano, mostrandola agli avventori e dicendo a voce alta che si tratta del pane della Provvidenza. Il giovane dichiara di aver avuto quel pane gratis, ma si affretta a precisare di averlo trovato e non rubato, dicendosi pronto a pagarlo al proprietario qualora lo incontrasse (le sue parole suscitano una risata generale). Renzo spiega al poliziotto che ha davvero trovato quel pane, quindi inizia a mangiarlo e a bere vino, mentre lo sbirro dice all'oste che il giovane ha intenzione di dormire nella locanda. L'oste si avvicina con in mano un foglio di carta e una penna, chiedendo a Renzo di dirgli nome, cognome e città di provenienza, così come prescrive una grida agli osti che diano ricovero a un forestiero nella loro locanda (l'oste nel dir questo guarda fisso in volto il poliziotto). L'oste mostra la grida a Renzo Renzo non intende dire il proprio nome all'oste e, bevendo un altro bicchiere di vino, impreca contro tutte le gride e le leggi scritte: l'oste va a prendere un esemplare della grida di cui ha parlato e la mostra al giovane, che per tutta risposta pronuncia frasi irriguardose all'indirizzo dello stemma del governatore in cui campeggia il volto di un re moro incatenato per la gola. Renzo aggiunge che quella grida non è certo in grado di aiutarlo ad avere giustizia riguardo al suo matrimonio mandato a monte da un prepotente, quindi non ha intenzione di dire il suo nome a qualcuno che non sia un frate cappuccino da cui sia andato a confessarsi. L'oste non sa che fare e chiede indicazioni al poliziotto, il quale gli suggerisce di non insistere oltre, tanto più che Renzo ha attirato l'attenzione di tutti gli avventori che applaudono alle sue parole contro le gride. L'oste si allontana, dopo che Renzo gli ha consegnato il fiasco vuoto e gli ha chiesto di portargliene un altro con lo stesso vino: mentre si allontana, l'oste impreca tra sé contro l'ingenuità di Renzo, che è finito nelle mani della giustizia e si sta mettendo nei guai senza neppure rendersene conto, rischiando di causare fastidi anche a lui. Renzo torna a predicare contro l'abitudine dei potenti di usare sempre la penna e la parola scritta, suscitando la battuta sarcastica di un avventore secondo il quale ciò dipende dal fatto che i signori mangiano oche e si ritrovano dunque con tante penne di cui non sanno che fare. Tutti ridono e Renzo osserva che chi ha parlato è un poeta, cioè un cervello balzano, aggiungendo poi che la parola scritta è un inganno usato dai potenti per esercitare soprusi contro i più deboli, specie quando parlano in latino per confondere le idee a un povero contadino che a malapena capisce il volgare. Il poliziotto estorce a Renzo il suo nome Il poliziotto si trattiene ancora in compagnia di Renzo, ricominciando a un tratto il discorso del pane a buon mercato e dicendo di avere un suo progetto grazie al quale sarebbe possibile assicurare a tutti il giusto quantitativo di pane. Renzo ascolta con attenzione, anche se la sua mente è annebbiata dai fumi dell'alcool, e l'uomo afferma che si dovrebbe imporre un prezzo massimo che vada bene per tutti, badando a distribuire il pane a seconda delle necessità di ogni famiglia. Per ottenere questo bisognerebbe dare a ciascuno un biglietto, con scritto il nome, la professione e il numero di bocche da sfamare, in modo da poter comprare il pane in proporzione adeguata: a lui, per esempio, ne dovrebbero dare uno con scritto "Ambrogio Fusella, professione spadaio, una moglie e quattro figli a carico". L'uomo chiede poi a Renzo cosa ci dovrebbe essere scritto sul suo biglietto e il giovane dice ingenuamente di chiamarsi Lorenzo Tramaglino, non ancora sposato e dunque senza figli, al che il poliziotto sembra soddisfatto e si affretta ad alzarsi, accomiatandosi da Renzo e dicendo che la sua famiglia lo sta aspettando a casa. Renzo, ubriaco, diventa lo zimbello degli avventori Renzo tenta invano di trattenere il poliziotto e di fargli bere un altro bicchiere di vino, ma l'uomo si libera di lui con uno strattone e si affretta a uscire in strada: il giovane fissa il bicchiere che ha riempito e, dopo aver detto alcune frasi sconclusionate al garzone dell'osteria, lo vuota d'un fiato. L'autore osserva che sarà necessario un grande amore per la verità a proseguire nel racconto in cui il protagonista della vicenda non farà una gran figura, anche se a sua parziale scusante va ricordato che Renzo non è avvezzo al bere e quei pochi bicchieri sono stati sufficienti a dargli alla testa, specie in quella giornata in cui ha vissuto forti emozioni. Il giovane tenta ancora di parlare al suo improvvisato uditorio, ma l'alcool gli annebbia il cervello e formulare le frasi diventa via via più difficile, cosa per cui beve ancora dell'altro vino; si abbandona poi a un discorso confuso, in cui accusa ancora l'oste di avergli voluto estorcere il nome per scriverlo su un foglio e gli ricorda che sono i popolani a venire a bere nella sua locanda, non certo i signori come Ferrer che si tengono lontani da certi posti (un vicino ricorda che essi bevono acqua per mantenersi lucidi e poter mentire alla povera gente). Il giovane rievoca ancora in modo confuso gli eventi della giornata e allude, senza fare nomi, alla sua vicenda personale, ricordando il suono delle campane a martello la "notte degli imbrogli", quando non era riuscito a sposare la sua promessa. Così facendo, Renzo diventa lo zimbello di tutti gli avventori dell'osteria, che fanno a gara a prenderlo in giro e a stuzzicarlo con domande canzonatorie, alle quali il giovane montanaro talvolta risponde in modo sconclusionato, senza tuttavia mai fare i nomi delle persone conosciute (la sbornia non gli ha tolto del tutto la naturale prudenza contadina). Per buona sorte, osserva amaramente l'autore, Renzo non fa mai il nome di Lucia, giacché sarebbe un peccato vederlo diventare oggetto di burla da parte di quegli ubriaconi. Capitolo XV Personaggi: Renzo, l'oste della Luna Piena, il notaio criminale, il popolo di Milano Luoghi: Milano, l'osteria della Luna Piena Tempo: dalla sera dell'11 novembre 1628 al mattino del 12 Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino Trama: Renzo, completamente ubriaco, viene messo a letto dall'oste della Luna Piena, che poi va testimonianza di fronte al notaio criminale, al palazzo di giustizia. Il mattino seguente il n arrestare Renzo insieme a due birri. Mentre viene condotto via, Renzo viene liberato dall'i folla e riesce a fuggire. L'oste porta Renzo a dormire L'oste vede che le ciance di Renzo e degli altri avventori durano per le lunghe, quindi si avvicina e prega gli altri clienti di lasciarlo stare, ripetendo al giovane che è il momento di andare a dormire. Renzo riacquista un barlume di lucidità nonostante la sbornia, quindi tenta di alzarsi, barcollando, ed è sorretto dall'oste che lo aiuta a lasciare la tavola, conducendolo verso una scaletta che porta alla camera che gli ha destinato. Il giovane saluta la compagnia facendo gesti sconnessi con la mano, quindi è condotto dall'oste nella camera e, vedendo il letto, manifesta in modo bizzarro la sua contentezza al padrone della locanda. Questi pensa di approfittare del poco di lucidità che è rimasta a Renzo, invitandolo una buona volta a dirgli il suo nome come prescrive la grida, per fare un piacere a lui che vuole solo rispettare la legge: Renzo si irrita e ricomincia a inveire contro l'oste, il quale, per evitare che il giovane attiri l'attenzione degli altri avventori, si affretta a dire di avere scherzato. Renzo sembra soddisfatto e cade bocconi sul letto, completamente stremato. L'oste aiuta Renzo a togliersi il farsetto e lo tasta bene per trovare la borsa col denaro: chiede al giovane di saldare il conto, cosa che avviene non senza fatica e pazienza da parte del locandiere. In seguito aiuta Renzo a finire di spogliarsi e gli rimbocca amorevolmente le coperte, augurandogli la buonanotte quando l'altro già russa. L'oste esce dalla locanda L'oste alza un momento il lume su Renzo addormentato, osservandolo con attenzione come Psiche nell'atto di contemplare il dio Amore, pensando in cuor suo che il giovane si è comportato con grande stupidità e il giorno dopo si pentirà di essere stato tanto ingenuo. A quel punto esce dalla stanza, chiudendone la porta a chiave, poi chiama la moglie per dirle di scendere in cucina a badare all'osteria, mentre lui dovrà uscire a sbrigare una faccenda urgente. L'uomo spiega le sue preoccupazioni relative a Renzo, quindi aggiunge molte raccomandazioni all'ostessa circa il modo in cui dovrà comportarsi con gli avventori (badare cioè che tutti paghino, non contraddire nessuno, non mostrare interesse per le chiacchiere di politica e di sommosse che faranno tra loro, onde evitare guai in avvenire). Sceso in cucina con la moglie, l'oste indossa il mantello e prende un robusto bastone, uscendo dalla locanda dopo aver dato un'occhiata veloce a quanto sta avvenendo nel locale. L'oste pensa fra sé in strada Uscito in strada, l'oste cammina ripensando tra sé alla stupidità mostrata dal povero Renzo: lo accusa di essere un ingenuo montanaro, che venendo alla sua osteria in compagnia di un poliziotto ha rischiato di metterlo nei guai in quella giornata così pericolosa. L'uomo scansa una pattuglia di soldati che gira nelle strade in cui ci sono ancora gruppi di popolani, quindi pensa che Renzo ha dimostrato tutta la sua inesperienza credendo che il chiasso fatto dai rivoltosi durante il giorno sia sufficiente a cambiare le cose, mentre con la sua condotta finirà per mettersi in guai seri, nonostante lui abbia tentato di salvarlo. L'oste pensa che ha voluto, sì, sapere il nome di Renzo, ma non certo per sua curiosità, dal momento che le gride che impongono obblighi agli osti sono applicate e prevedono pene molto severe, ad esempio un'ammenda di trecento scudi che devono essere versati in parte al fisco, in parte a chi abbia denunciato alle autorità l'oste trasgressore (anche lui detesta le gride, ma non è certo così ingenuo da manifestarlo a parole facendo chiasso come ha fatto Renzo nella sua osteria). Alla fine del suo soliloquio l'oste entra nel palazzo di giustizia. L'oste rende testimonianza al notaio criminale Qui c'è un'attività frenetica, poiché gli esponenti dell'autorità pubblica cercano di prevenire ulteriori disordini di piazza il giorno seguente: si dispone una accurata sorveglianza intorno alla casa del vicario di Provvisione, viene ordinato ai fornai di vendere di nuovo il pane a buon mercato (facendone venire appositamente dal contado), e soprattutto si cerca di arrestare qualche popolano accusato di essere fra i capi della sommossa per dare l'esempio alla folla con una condanna esemplare. Il capitano di giustizia, ancora dolorante per la ferita alla testa rimediata quella mattina, è molto interessato alla questione e ha sguinzagliato in città i suoi sbirri per cercare di prendere qualche caporione della rivolta: il sedicente Ambrogio Fusella incontrato da Renzo era appunto uno di questi, che lo aveva notato mentre arringava la folla e aveva deciso di approfittare della sua ingenuità, tentando addirittura di condurlo subito in carcere con la scusa di portarlo in una locanda. Il poliziotto è riuscito comunque a riferire il nome di Renzo, così, quando l'oste va a rendere la sua deposizione a un notaio criminale, questi ne sa già più di lui. L'oste è stupito del fatto che la giustizia sappia il nome del suo avventore, quindi il notaio lo accusa di non dire tutta la verità: gli rammenta che Renzo ha portato nella sua osteria un pane rubato durante i saccheggi e che ha proferito parole ingiuriose nei confronti delle gride e dello stemma del governatore. L'oste ribatte che il suo solo interesse è mandare avanti il suo locale e non ha il tempo di badare a tutte le chiacchiere degli avventori, quindi il notaio gli ricorda che presto i rivoltosi avranno il fatto loro e gli chiede notizie di Renzo: l'oste riferisce che il giovane sta dormendo e il magistrato gli ordina di non lasciarlo scappare, cosa che irrita non poco il padrone della taverna (il quale, tuttavia, non dice né sì né no). Dopo alcune raccomandazioni del notaio, l'oste può finalmente tornare alla sua locanda. Il notaio e i birri vanno ad arrestare Renzo Il mattino dopo Renzo sta ancora dormendo profondamente, quando si sente afferrare per le braccia ed è svegliato da qualcuno che lo chiama col nome di "Lorenzo Tramaglino". Apre gli occhi e vede ai piedi del letto il notaio criminale in cappa nera (lo stesso che la sera prima ha interrogato l'oste) e al suo fianco due birri armati, che gli intimano di alzarsi senza indugio. Renzo, ancora stordito per la sbornia della sera prima, tenta di chiedere spiegazioni e di chiamare l'oste in aiuto, ma il notaio gli ordina di alzarsi e vestirsi, perché dovrà essere condotto dal capitanodi giustizia. Il giovane cerca debolmente di discolparsi dicendo di essere un galantuomo e infine inizia a vestirsi raccogliendo i panni sparsi sul letto, chiedendo al notaio di essere condotto da Ferrer: in altre circostanze il magistrato riderebbe di gusto a una simile domanda, ma si affretta a dire a Renzo che la sua richiesta sarà esaudita e lo invita a vestirsi in fretta. Il notaio ha visto infatti per le strade dei movimenti sospetti, il radunarsi di gruppi di persone che lasciano presagire nuovi tumulti, quindi il suo intento è portar via Renzo senza indurlo a far resistenza ed evitare così che il giovane possa trovare l'aiuto di altri popolani una volta in strada. Per questo il notaio fa cenno ai birri di non fare incollerire Renzo, il quale dal canto suo si veste con lentezza, per prendere tempo e raccogliere le idee nella sua mente, tanto più che dalla strada si sente provenire un ronzio confuso di popolo che si sta radunando. Il giovane si dice pronto a spiegare tutto al notaio, nel quale legge una certa preoccupazione, e il magistrato gli parla con fare manierato, dichiarando che se dipendesse da lui lo rilascerebbe all'istante, ma la legge gli impone di portarlo al palazzo di giustizia (una volta lì, tuttavia, le formalità saranno presto sbrigate e Renzo tornerà subito libero). Il giovane chiede se passeranno per la piazza del duomo, dove aveva preso appuntamento con altri popolani il giorno prima, e il notaio dice che percorreranno la via più breve. Il notaio cerca di blandire Renzo Il notaio maledice la sua sfortuna giacché, in circostanze più favorevoli, approfitterebbe dell'inesperienza di Renzo per indurlo ad ammissioni compromettenti, invece la situazione gli impone di agire in fretta: egli sente un gran chiasso in strada, per cui si affaccia dalla finestra e vede un gruppo di popolani che ignora le intimazioni di una pattuglia di soldati, segno evidente che la giornata promette disordini. Per un attimo pensa di lasciare Renzo coi due birri per tornare a riferire al capitano di giustizia, poi decide di andare fino in fondo per non apparire un incapace. Renzo intanto si è vestito e, tastando nel farsetto che tiene in mano, si accorge che mancano il denaro e la lettera di padre Cristoforo, che reclama a gran voce al notaio: questi tenta debolmente di dirgli che riavrà tutto dopo le formalità, ma Renzo insiste e il magistrato per evitare guai gli restituisce ogni cosa, al che il giovane fa osservazioni poco lusinghiere sulle cattive abitudini che lui e i birri hanno preso dai ladri. Il notaio fa cenno ai birri di non reagire e promette fra sé che Renzo pagherà cara la sua insolenza, quando sarà in suo potere. I birri mettono i "manichini" a Renzo Renzo indossa il farsetto e il cappello, quindi il notaio ordina a uno dei birri di precederlo giù per le scale e poi si avvia dietro all'altro birro e al prigioniero. Una volta giunti in cucina, mentre Renzo ingenuamente cerca l'oste, i birri obbediscono a un cenno del notaio e mettono i "manichini" intorno ai polsi del giovane: si tratta di due cordicelle con nodi che avvolgono i polsi dell'arrestato, con due stanghette di legno alle estremità che vengono tenute tra il medio e l'anulare dei birri, i quali possono, al bisogno, stringere la corda per procurare dolore al prigioniero. Renzo protesta col notaio, il quale però si affretta a dire che è una pura formalità e che se dipendesse da lui ne farebbe a meno, ma è necessario agire in questa maniera. Invita Renzo ad aver pazienza e gli raccomanda, una volta che saranno usciti in strada, di camminare diritto senza guardare in giro, per non mostrare di essere arrestato e non guastare il proprio onore, mentre ai birri intima di trattare Renzo con rispetto, dal momento che è un giovane perbene che sarà presto libero. Renzo naturalmente ha capito che il notaio teme che possa trovare aiuto da parte di qualche popolano in strada, per cui non crede neppure a una parola di quanto detto dal magistrato e si ripromette, una volta uscito dalla locanda, di far tutto il contrario di quanto raccomandatogli. L'autore aggiunge alcune osservazioni ironiche circa il fatto che i furbi di professione, come il notaio che è ben conosciuto dall'anonimo autore del manoscritto, nei momenti di fretta e angustia non sono in grado di usare tutta l'astuzia di cui sono capaci nelle normali circostanze, ed è questo il motivo per il notaio finisce per fare quella figura così meschina e ridicola agli occhi del lettore. La fuga di Renzo Una volta che i quattro sono usciti in strada, dunque, Renzo inizia a voltarsi da una parte e dall'altra, in cerca di un aiuto da parte della folla: non ci sono disordini in atto e molti passanti tirano dritto senza fermarsi, mentre il notaio si affretta a suggerire a Renzo di non dare nell'occhio, di osservare un contegno che non sia per lui disonorevole. A un tratto però Renzo vede arrivare tre popolani che parlano di farina nascosta, di forni, di giustizia, perciò inizia a tossire in modo insistente per attirare la loro attenzione: i tre si fermano e si uniscono a loro altri passanti, mentre il notaio raccomanda vanamente a Renzo di non dare nell'occhio benché il giovane, intanto, faccia di tutto per farsi notare. I birri danno una stretta ai "manichini" e Renzo urla di dolore, attirando infine una piccola folla che circonda con fare minaccioso la comitiva: il notaio dice che si tratta di un ladro colto sul fatto, ma Renzo, che ha visto i birri impallidire, coglie al volo l'occasione e grida che è portato in prigione perché il giorno prima ha gridato "pane e giustizia", chiedendo infine l'aiuto dei popolani. I birri dapprima chiedono alla folla di lasciarli passare, poi però, vista la mala parata, lasciano andare i "manichini" e cercano di allontanarsi, mescolandosi ai rivoltosi. Il notaio cerca di fare lo stesso, ma la cappa nera che indossa gli rende difficile passare inosservato: cerca di fingere indifferenza e di sottrarsi alla calca, finché un popolano lo indica come un "corvaccio" (un magistrato) e aizza la folla contro di lui, anche se il notaio riesce per miracolo a scappare e a evitare il linciaggio. Capitolo XVI Personaggi: Renzo, il popolo di Milano, la vecchia dell'osteria, l'oste di Gorgonzola, gli avventori, il m Milano Luoghi: Milano, Liscate, Gorgonzola, la strada che porta nel Bergamasco Tempo: 12 novembre 1628 Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino Trama: Renzo riesce a evitare l'arresto e a lasciare Milano. Si mette sulla strada per l'Adda, ferma prima osteria e poi in un'altra, a Gorgonzola. Qui ascolta un mercante di Milano che riferi in città e parla della sua fuga. Renzo esce dall'osteria e si rimette in marcia. Renzo si allontana in fuga Renzo approfitta della confusione per allontanarsi, mentre la folla lo incita a rifugiarsi in una chiesa o in un convento nelle vicinanze: il giovane ha invece deciso di lasciare Milano e di uscire addirittura dallo Stato, dal momento che la giustizia è in possesso del suo nome e può quindi arrestarlo in qualunque momento. Renzo progetta di rifugiarsi nel Bergamasco, dove il cugino Bortolo l'ha spesso invitato in passato a trasferirsi, anche se ignora da quale porta della città si esca per dirigersi nella giusta direzione e non sa neppure come arrivarci. Pensa sulle prime di chiedere indicazioni a qualcuno dei suoi liberatori, ma il ricordo del poliziotto travestito che lo ha beffato lo induce a una maggiore prudenza (anche lì potrebbe essercene qualcuno mescolato alla folla), così ringrazia i popolani che l'hanno aiutato e si allontana in tutta fretta, deciso a chiedere lumi a qualcuno che non sappia chi sia e in quale situazione si trovi. Renzo corre via senza sapere dove sta andando, finché, quando gli sembra di essere abbastanza lontano, rallenta il passo per non destare sospetti. Inizia dunque a osservare i visi delle persone che popolano le strade, per decidere a chi sia meglio chiedere indicazioni sulla via da percorrere, incalzato dal pensiero che i birri nel frattempo saranno già sulle sue tracce per arrestarlo di nuovo. Renzo chiede indicazioni a un passante Renzo cerca di capire chi sia la persona più adatta a cui rivolgere la domanda: sulla porta di una bottega c'è il proprietario, un uomo grassoccio con l'aria di un tipo curioso che farebbe molte interrogazioni prima di dare un'indicazione; un passante procede guardando fisso di fronte a sé, mostrando di conoscere a malapena la propria strada; un ragazzo ha l'aria furba e maliziosa e forse si divertirebbe a dare indicazioni sbagliate per sviare un forestiero. Alla fine Renzo vede un passante che cammina alla svelta come pressato da qualche affare urgente, quindi pensa che risponderà senza fare storie: gli si avvicina e gli chiede con cortesia da quale porta di Milano si esca per andare a Bergamo, al che l'altro risponde che si passa per Porta Orientale, aggiungendo poi indicazioni per raggiungere la piazza del duomo. Renzo ringrazia per l'informazione e si rimette in marcia con passo svelto, cosa che induce il passante a pensare che quel giovane ha subìto qualche brutto tiro, o ne ha lui uno in mente. Renzo esce da Porta Orientale Renzo raggiunge in fretta la piazza del duomo, dove vede gli avanzi del falò acceso dai rivoltosi il giorno prima, passa davanti al forno delle Grucce semidistrutto e sorvegliato dai soldati, quindi vede il convento dei cappuccini e la chiesa dove gli era stato consigliato di attendere, e dove ora rimpiange di non essere andato invece di cacciarsi nel tumulto. Arriva finalmente a Porta Orientale, che vede sorvegliata da diversi soldati, e pensa che sarebbe rischioso cercare di attraversarla, mentre potrebbe ottenere asilo nel convento usando la lettera di padre Cristoforo che ha ancora con sé; poi però riflette sul fatto che nessuno lo conosce, che i birri non possono attenderlo a tutte le porte e che, soprattutto, è meglio essere "uccel di bosco" piuttosto che rinchiudersi in un asilo. Si fa coraggio e si avvicina con fare indifferente alla porta, dove i numerosi gabellieri e i soldati spagnoli sono attenti a non fare entrare nessuno dall'esterno, mentre badano poco a quelli che lasciano la città. Renzo esce dalla porta senza dare nell'occhio e senza che nessuno gli dica nulla, quindi, una volta lasciata la città, imbocca una stradina secondaria per evitare quella principale e si mette in cammino, senza voltarsi indietro per parecchio tempo. Renzo giunge all'osteria della vecchia Renzo prosegue il suo cammino e procede per molte ore, passando accanto a cascine e villaggi di cui ignora persino il nome; ogni tanto si guarda indietro per esser certo che nessuno lo segua, mentre i polsi sono ancora indolenziti per i "manichini" messigli dai birri quella mattina. Il giovane ha l'animo ancora turbato per i recenti avvenimenti e ripensa a quanto avvenuto la sera prima, rammentando in modo confuso di aver detto il proprio nome al sedicente Ambrogio Fusella; è quasi certo che questi fosse un poliziotto travestito, mentre non ricorda quasi nulla delle chiacchiere fatte con gli altri avventori, sotto i fumi dell'alcool. È anche incerto e preoccupato dell'avvenire, rispetto al quale è pieno di dolorosi dubbi. Dopo un po' si rende conto che non è in grado di trovare da solo la strada per Bergamo, così, pur riluttante, decide di chiedere un'indicazione a un viandante: questi lo informa che è fuori strada e gli spiega come tornare sulla via maestra, cosa di cui Renzo lo ringrazia ma col proposito di non avvicinarsi troppo alla strada principale, per evitare brutti incontri con soldati o birri. La cosa è in realtà molto difficile e infatti Renzo, camminando a zig-zag per restare su sentieri fuori mano, percorre circa dodici miglia senza allontanarsi da Milano per più di sei, non avvicinandosi in modo significativo al confine col Bergamasco. Alla fine decide che la cosa migliore sia di chiedere indicazioni per raggiungere un paesetto posto vicino al confine, raggiungibile tramite strade secondarie e senza dover chiedere di Bergamo dando l'impressione di essere un fuggiasco. A un tratto vede una frasca fuori da una casupola che la indica come un'osteria, quindi decide di entrare e di ristorarsi, chiedendo al contempo le informazioni che gli servono. Nella casa c'è solo una vecchia intenta a filare, dalla quale Renzo accetta dello stracchino e rifiuta cortesemente il vino, memore della sbornia presa la sera prima. La donna inizia a fargli molte domande su Milano e il tumultodel giorno prima, alle quali Renzo si schermisce per poi chiedere a sua volta indicazioni per raggiungere un paese vicino al confine dei due Stati, di cui finge di non ricordare il nome. La vecchia indica Gorgonzola e Renzo chiede se si possa raggiungere per viottole secondarie, adducendo come pretesto il voler evitare la polvere della via principale. La donna dice di sì e gli spiega come fare, quindi Renzo esce con un pezzo di pane ben diverso da quelli raccolti il giorno prima a Milano, deciso ad arrivare molto presto a Gorgonzola. Renzo all'osteria di Gorgonzola Dopo aver attraversato molti paesi, Renzo giunge a Gorgonzola prima di sera e qui decide di cenare in un'altra osteria, per captare qualche notizia relativa all'Adda e al modo per arrivarvi (fin dalla sua infanzia infatti ha appreso che il fiume per un tratto fa da confine naturale ai due Stati, il ducato di Milano e la Repubblica di Venezia). Il suo intento è attraversare il fiume in qualche modo e, se non potrà arrivarci quel giorno, ci arriverà il mattino seguente dopo aver pernottato alla meglio in qualche posto, purché non in un'osteria. Entrato in paese, vede un'insegna di osteria e vi entra, chiedendo all'oste un boccone con poco vino e pregandolo di fare in fretta, per evitare domande inopportune e non dare l'impressione di volersi fermare a dormire. Il giovane si siede in fondo alla tavola, vicino alla porta, mentre altri avventori del locale discutono dei fatti avvenuti a Milano il giorno prima, lamentandosi di non poter sapere notizie. Uno di loro si avvicina a Renzo e gli chiede se venga da Milano, al che il giovane risponde in modo evasivo dicendo di non sapere molto di quella città e aggiungendo di provenire da Liscate, uno dei paesi attraversati per arrivare fin lì. Renzo tronca in breve la discussione e poco dopo si riavvicina l'oste, al quale il giovane chiede con simulata indifferenza quanto manchi da lì per raggiungere l'Adda: l'oste domanda se l'altro voglia attraversare il fiume nei punti dove di solito affrontano il guado i galantuomini e aggiunge poi che la distanza è di circa sei miglia, cosa che stupisce non poco Renzo. Questi vorrebbe rivolgere altre domande al padrone della locanda, ma temendo che l'uomo diventi troppo curioso decide di non insistere oltre, maledicendo poi tra sé gli osti come portatori di guai; inizia poi a mangiare, simulando il più totale disinteresse per le chiacchiere degli avventori anche se ascolta con grande attenzione le loro parole, per scoprire se tra questi ci sia qualcuno cui chiedere informazioni senza pericolo. L'arrivo del mercante all'osteria Gli avventori dell'osteria discutono del tumulto di Milano, rammaricandosi di non avervi partecipato e augurandosi che i rivoltosi ottengano concessioni anche per le popolazioni rurali, che soffrono la fame tanto quanto quelle di città. Uno di loro inizia a parlare del grano nascosto, quando si sente avvicinarsi un cavallo ed escono tutti dal locale, andando incontro a un uomo che si avvicina alla locanda: è un mercante milanese, che è solito pernottare in quell'osteria quando si reca a Bergamo per i suoi commerci e che pertanto conosce tutti gli avventori abituali. Questi lo salutano con calore e gli chiedono notizie dei fatti di Milano, al che il mercante affida il cavallo a un garzone ed entra nel locale, dicendosi pronto a informare gli altri delle novità intervenute quel giorno. L'uomo ordina all'oste da mangiare e il suo solito letto, quindi si siede attorniato dagli avventori che gli chiedono con insistenza notizie della rivolta a Milano, poiché non è passato nessuno che ne sapesse qualcosa: il mercante beve un sorso di vino, quindi si accinge a raccontare ciò che sa ottenendo l'attenzione di tutti i presenti, incluso Renzo che ascolta ogni cosa simulando indifferenza, mentre continua il suo pasto seduto all'altro capo del tavolo. Il racconto del mercante: l'assalto al forno del Cordusio Il mercante spiega che quel giorno ha rischiato di essere peggiore del precedente, tanto che lui aveva quasi deciso di non lasciare Milano per sorvegliare la sua bottega: infatti i rivoltosi del giorno prima si sono trovati ai posti convenuti, intenzionati a compiere nuovi disordini, quindi si sono diretti alla casa del vicario di Provvisione raccogliendo altri facinorosi lungo la strada, per tentare un nuovo assalto. Il mercante sottolinea l'innocenza del vicario, che lui conosce perché rifornisce di panni la sua casa, dunque spiega che i rivoltosi hanno trovato la strada sbarrata da carri e soldati, per cui hanno deciso di tornare indietro. Poiché tuttavia erano decisi a menare le mani, hanno assaltato il forno del Cordusio cui il giorno prima non si erano potuti avvicinare, arraffando a man bassa il pane che alcuni nobili stavano distribuendo al popolo in ottemperanza a una nuova grida. La folla ha asportato molte suppellettili dal forno e ne ha fatto un gran falò sulla piazza del duomo, quindi alcuni hanno proposto di dare fuoco al forno, cosa che per poco non è avvenuta: fortunatamente, spiega il mercante, un uomo del vicinato si è affacciato da una finestra e ha esposto un crocifisso tra due ceri, inducendo i facinorosi a recedere dai propositi violenti, e poco dopo i monsignori del duomo hanno sfilato in processione, invitando tutti ad andarsene e informando la folla che il pane è di nuovo a buon mercato, come dimostrano le gride affisse sulle cantonate. Infatti il pane costa nuovamente un soldo ogni otto once e gli avventori dell'osteria chiedono se qualche provvedimento sia stato emanato anche per il contado, al che il mercante risponde che ciò che è avvenuto in Milano riguarda la città soltanto. Il racconto del mercante: l'arresto dei capi della sommossa Il mercante aggiunge che i disordini a Milano sono terminati e che la giustizia ha già arrestato molti rivoltosi, i capi dei quali verranno presto impiccati: l'uomo aggiunge che la cosa è giusta, poiché molti popolani avevano preso l'abitudine di rubare impunemente nelle botteghe e la giustizia sommaria è necessaria per ristabilire l'ordine in città, specie per proteggere gli interessi dei commercianti. L'uomo spiega poi che tutto il tumulto è nato dalle trame del cardinal Richelieu, per dar briga al re di Spagna nell'ambito della guerra, e ciò sarebbe dimostrato dal fatto che tra i rivoltosi c'erano molti forestieri che non si erano mai visti in città. Tra questi, prosegue il mercante, ne era stato arrestato uno in un'osteria, che certamente era fra i capi della sommossa: Renzo, che sa bene che si sta parlando di lui, ha un fremito anche se riesce a controllarsi, senza far capire a nessuno che è il protagonista di quel racconto (tutti sono attenti alle parole del mercante). Costui racconta che il fantomatico rivoltoso aveva incitato la folla a uccidere tutti i signori ed era poi stato arrestato dalla giustizia che gli aveva trovato un fascio di lettere, ma il giovane è stato liberato dai suoi compagni ed è riuscito a fuggire senza lasciare traccia di sé. Le lettere, secondo lo scombinato resoconto del mercante, sono ora nelle mani della giustizia e in esse è descritta tutta la trama della sommossa, mentre l'uomo aggiunge che i fornai sono certamente colpevoli di nascondere il grano, ma bisogna impiccarli con processi regolari e tocca comunque al governo della città combattere gli incettatori, mentre le rivolte non possono che portare guai a chi fa il suo lavoro come i bottegai. Renzo lascia l'osteria Renzo ascolta tutto con attenzione ed è tentato all'idea di andarsene subito dal locale, anche se poi si trattiene per non destare sospetti: aspetta che il mercante cambi discorso e infatti poco dopo gli avventori iniziano a rallegrarsi di non essere andati a Milano, anche se prima avevano idee del tutto diverse. Il giovane coglie l'occasione per chiamare l'oste e saldare in fretta il conto, senza troppo discutere anche se i quattrini iniziano a scarseggiare, quindi va dritto alla porta ed esce dal locale, imboccando una strada che conduce nella direzione opposta a quella per cui è arrivato poco prima. Capitolo XVII Personaggi: Renzo, Bortolo, il pescatore, i mendicanti Luoghi: L'Adda, il Bergamasco, il paese di Bortolo Tempo: Dalla sera del 12 alla mattina del 13 novembre 1628 Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino Trama: Renzo si allontana da Gorgonzola e si dirige verso l'Adda. Si addentra nella boscaglia, fin fiume. Pernotta in un capanno, poi al mattino passa il fiume con l'aiuto di un pescatore. Ra paese di Bortolo e incontra il cugino, che gli offre aiuto e lavoro. Renzo si incammina verso l'Adda Sono circa le cinque e mezzo di pomeriggio e Renzo lascia il paese di Gorgonzola, dirigendosi a piedi verso l'Adda: è combattuto tra il desiderio di correre e di star nascosto, poiché le parole del mercante all'osteria lo hanno messo in grande agitazione. Il giovane ora sa che la sua vicenda a Milano ha fatto chiasso e che la giustizia è davvero decisa a catturarlo, anche se si rincuora pensando che nessuno, a parte i due birri che l'hanno arrestato, lo ha visto in faccia e che non ha il suo nome scritto in fronte. Percorre la via maestra, intenzionato a imboccare il primo viottolo fuori mano per non fare brutti incontri, e vuole raggiungere ad ogni costo il fiume, del quale sentirà il forte scroscio (se non potrà attraversarlo subito è deciso a passare la notte in qualche ricovero di fortuna, che sarà sempre meglio che finire in prigione). Imbocca un sentiero sulla sinistra e inizia a pensare tra sé, non incontrando nessuno. Il giovane ripensa alle parole del mercante sul suo conto ed è in collera per le falsità che ha sentito, specie riguardo ai suoi presunti propositi di "ammazzare tutti i signori": ricorda a se stesso di aver solo aiutato Ferrer e il vicario di Provvisione, rischiando oltretutto di essere linciato dalla folla, mentre il "fascio di lettere" che, secondo il mercante, sarebbe nelle mani della giustizia, è in realtà la sola lettera scritta da padre Cristoforo e ancora in possesso di Renzo, e contiene le parole di un religioso che, secondo il giovane, vale assai più del mercante che va in giro a parlare dei fatti altrui senza conoscerli. Renzo si addentra nella boscaglia Renzo prosegue il cammino e a un certo punto arresta il corso dei suoi pensieri: è buio e non ha timore di essere seguito o scoperto, ma la solitudine e la stanchezza iniziano a pesargli e la brezza serale lo infreddolisce, dal momento che indossa vestiti leggeri. Quando passa accanto a case o cascinali vede solo dei lumicini attraverso le finestre chiuse, mentre tende invano l'orecchio per sentire il rumore dell'Adda; dalle case sente il mugolare dei cani, che diventa un abbaiare furioso se si avvicina troppo. Potrebbe bussare a una porta per chiedere asilo, ma teme di suscitare domande curiose o, peggio, di mettere in allarme gli abitanti facendo credere di essere un ladro, per cui decide di continuare a camminare fino a giungere al fiume, per non essere costretto a cercarlo anche alla luce del sole. Il giovane abbandona l'abitato per addentrarsi in una fitta boscaglia, che gli sembra preannunciare la vicinanza del fiume; procede in luoghi selvatici e lontani dalle colture umane, recitando tra sé le preghiere per i morti onde scacciare il timore che sente nascere in cuore, al ricordo di certe storie paurose sentite da bambino. Procede ancora e si accorge di entrare in un vero e proprio bosco, passo che affronta non senza un qualche ribrezzo: la sagoma oscura degli alberi gli sembra spettrale e mostruosa, ogni minimo rumore lo fa sobbalzare, le gambe sembrano non reggere più e, come se non bastasse, la brezza notturna lo rende intirizzito dal freddo. La situazione lo riempie di terrore e sta per smarrirsi del tutto, poi riesce a riaversi e a fare appello a tutto il suo coraggio, ormai sul punto di ritrovare una strada battuta e chiedere ricovero in qualche posto abitato, anche in un'osteria. Si ferma e resta in silenzio per qualche attimo, finché sente un mormorio indistinto che, ascoltando con più attenzione, gli sembra uno scroscio d'acqua: capisce con enorme sollievo che si tratta dell'Adda e, quasi non sentendo più la stanchezza, procede senza paura verso il rumore, certo di essere ormai vicinissimo al fiume. Renzo raggiunge l'Adda Dopo pochi attimi Renzo raggiunge la riva dell'Adda e vede l'acqua del fiume che scorre luccicante in basso: alza lo sguardo e scorge vari paesi sulla riva opposta, compresa una gran macchia biancastra che dev'essere la città di Bergamo. Raggiunge la riva e osserva se per caso ci sia qualche barca nelle vicinanze, o se si senta il battere dei remi, poiché però non vede né sente nulla decide di attendere l'indomani prima di fare qualunque cosa, poiché l'Adda non è fiume di cui si possa tentare il guado a cuor leggero. Il giovane pensa dove sia meglio passare la notte ed esclude di arrampicarsi su un albero, poiché il freddo rischierebbe di farlo congelare, e anche di camminare avanti e indietro, poiché le sue gambe sono troppo stanche per reggere la stanchezza. Si ricorda di aver visto poco prima un capanno di paglia e fango usato dai contadini per custodire il raccolto d'estate e abbandonato d'autunno, per cui decide di passare lì la notte e si rimette in marcia per raggiungerlo. Una volta arrivato al capanno, ne apre facilmente l'uscio e vi entra, trovandovi una specie di amaca sospesa in cui tuttavia non si azzarda a salire; vede in terra poca paglia e decide di stendersi lì per dormire le poche ore che lo separano dal mattino. Renzo passa la notte nel capanno Renzo si inginocchia sulla paglia ringraziando la Provvidenza di avergli fatto trovare quel ricovero, quindi recita le preghiere a differenza della sera prima, quando è andato a letto ubriaco (e forse per questo, pensa, il risveglio è stato tanto spiacevole). Quindi il giovane si copre con la paglia per difendersi dal freddo, che è pungente anche dentro al capanno, e si stende deciso a dormire, anche se la cosa gli riesce difficile in quanto la mente è piena di immagini e pensieri relativi alle recenti esperienze. Renzo vede davanti a sé tutti i personaggi da lui incontrati negli ultimi due giorni (il mercante, il notaio criminale, i birri, il poliziotto, l'oste della Luna Piena, Ferrer, il vicario...), nonché don Abbondio e don Rodrigo, tutta gente con cui ha dei conti in sospeso; vede anche nella sua mente i volti delle persone care, Agnese, Lucia, padre Cristoforo, specie gli ultimi due che sono strettamente associati in lui a ricordi piacevoli. Ma anche questo pensiero ha qualcosa di doloroso, sia per il rammarico di non aver seguito i saggi consigli del frate, sia per i sentimenti che il giovane prova per la sua promessa; quanto ad Agnese, Renzo la ricorda con affetto ma anche col triste pensiero che la donna è stata costretta a lasciare la sua casa, incerta dell'avvenire, tutto a causa di quel matrimonio che lei aveva così felicemente approvato. Tra i pensieri angosciosi e il freddo pungente, Renzo dispera di prender sonno e attende con impazienza la venuta del giorno, misurando il lento scorrere delle ore grazie ai rintocchi del campanile di un paese vicino, probabilmente Trezzo d'Adda. Renzo attraversa il fiume sulla barca del pescatore Quando il campanile batte le cinque del mattino, Renzo decide che è il momento di alzarsi ed esce dal capanno, ancora tutto infreddolito e con le membra intorpidite, guardandosi intorno per sincerarsi che non ci sia nessuno. Imbocca poi il sentiero percorso la notte prima e si dirige al fiume, mentre il cielo promette una giornata serena all'incerto chiarore lunare e l'alba proietta una luce rossastra sull'orizzonte, disegnando un paesaggio assai diverso da quello cui il giovane è abituato tra le sue montagne. Percorre nuovamente la strada della sera prima, ridendo tra sé per il terrore ispiratogli dalle piante che ora gli sembrano innocue, e alla fine raggiunge la riva dell'Adda, dove vede un pescatore che si avvicina alla sponda con la sua barchetta remando controcorrente. Renzo chiama il pescatore e gli fa cenno di approdare, e dopo che l'uomo ha accostato con mille cautele il giovane salta dentro il battello, chiedendo di essere traghettato sull'altra sponda in cambio di una ricompensa. Il pescatore accetta e inizia a muovere la barca verso la riva opposta, mentre Renzo afferra un secondo remo e aiuta a sua volta a fendere le acque, dimostrando al barcaiolo che sa come manovrare un'imbarcazione. Il battello procede a zig-zag, ora fendendo la corrente e ora assecondandola, quindi Renzo chiede al pescatore se il paese dall'altra parte sia Bergamo: l'altro risponde di sì e aggiunge che la riva opposta è terra di S. Marco, al che Renzo si lascia andare a un'esclamazione di gioia. Una volta approdati sull'altra sponda, Renzo dà al pescatore una berlinga e si allontana, mentre l'uomo intasca la moneta e augura al giovane buon viaggio. Il pescatore è solito svolgere un servizio simile ai contrabbandieri e ai banditi che chiedono di essere traghettati sulla sponda veneta del fiume, non tanto per avidità di guadagno quanto per non farsi dei nemici fra quel genere di individui, badando a non incorrere nella giustizia. Renzo in cammino verso il paese di Bortolo Renzo si sofferma un momento sulla riva, guardando la patria che ha appena lasciato e rallegrandosi dello scampato pericolo, anche se è triste al pensiero delle persone care che sono rimaste laggiù. Si incammina poi verso Bergamo, chiedendo lungo la strada con disinvoltura ai viandanti come raggiungere il paese del cugino Bortolo, apprendendo che gli restano da percorrere nove miglia. Si mette in marcia inoltrandosi nel territorio e non tarda a rendersi conto che la carestia è tristemente presente anche qui: attraversando i villaggi vede molti accattoni che non sono soliti esercitare questo mestiere e contadini impoveriti che chiedono l'elemosina insieme alle loro famiglie, per cui si domanda se troverà lavoro a dispetto di tanta penuria. Si consola pensando che Bortolo è un uomo benestante e non lo abbandonerà, confidando anche nell'aiuto della Provvidenza. Mentre cammina si rende conto di essere affamato e pensa che non sarebbe una bella cosa presentarsi al cugino chiedendo un pasto, quindi vuota le tasche per sincerarsi di quanto denaro gli rimanga: non è gran che, ma è sufficiente per un pasto frugale e perciò entra in un'osteria (dopo aver pagato il conto, gli rimane ancora qualche moneta). Renzo spende gli ultimi soldi in elemosina Mentre esce dall'osteria in cui ha mangiato, Renzo vede due donne accasciate in terra, una anziana e l'altra più giovane con un bambino fra le braccia che tenta inutilmente di allattare, mentre in piedi accanto a loro c'è un uomo che un tempo doveva essere robusto e che ora le privazioni hanno reso debole e fiacco. Tutti e tre stendono la mano per chiedere qualcosa e Renzo esclama che c'è la Provvidenza, estraendo dalla tasca le ultime monete e mettendole nella mano più vicina, riprendendo subito dopo il suo cammino. L'opera buona e il pasto consumato hanno rallegrato il giovane, che si è privato degli ultimi soldi ma confida maggiormente nell'avvenire, poiché la Provvidenza ha fatto in modo che lui, forestiero e per giunta fuggiasco, facesse l'elemosina a quelle povere persone, quindi non potrà certo abbandonarlo nel momento del bisogno. Renzo pensa inoltre che la carestia prima o poi finirà, che è abile come lavoratore della seta e che a casa ha un po' di denaro, che provvederà a farsi spedire; fantastica circa il fatto che, una volta tornata l'abbondanza, troverà lavoro in un filatoio e metterà da parte dei risparmi, con cui potrà fare in modo che le due donne lo raggiungano, mentre pensa che anche in quella terra ci sono curati e che potrà sposare Lucia senza troppi problemi. Sogna la loro vita insieme in quei luoghi, dove mostrerà alla promessa sposa e ad Agnese il punto in cui ha attraversato l'Adda, lasciandosi alle spalle il triste passato. Renzo ritrova il cugino Bortolo Renzo arriva finalmente al paese del cugino e vede un edificio alto con più ordini di lunghe finestre, che riconosce subito come un filatoio: entra e chiede se si trova lì Bortolo Castagneri, al che un lavorante gli indica il "signor Bortolo" poco lontano. Sentendo che il cugino è chiamato "signore" Renzo si rincuora, quindi raggiunge il cugino all'interno dello stabilimento: dopo uno scambio di affettuosi saluti Bortolo porta Renzo in una stanza appartata, lontano dalle macchine e dai curiosi, dove lo rimprovera bonariamente di averlo raggiunto solo ora, in un momento critico per la produzione delle seta. Renzo spiega le circostanze in cui ha dovuto compiere quel passo e il cugino lo rassicura dicendogli che, se anche il lavoro è scarso e non c'è grande richiesta di operai, lui farà in modo di aiutarlo grazie al favore che gode presso il padrone del filatoio, di cui è il factotum. Bortolo ricorda poi con piacere Lucia e la povera casetta in cui viveva con Agnese, aggiungendo parole di condanna per don Rodrigo, quindi chiede a Renzo se ha mangiato e quanti denari gli restano. Il giovane dice di aver fatto colazione e di aver finito gli ultimi soldi, ripromettendosi di farsi inviare quelli che ha a casa, quindi Bortolo afferma che sarebbe inutile per lui aver messo da parte del benessere se non lo usasse per aiutare parenti e amici. Chiede inoltre a Renzo ragguagli sulla rivolta avvenuta a Milano e aggiunge che, quanto alla carestia, nel Bergamasco le cose vanno diversamente e la città ha acquistato da un mercante di Venezia del grano proveniente dalla Turchia, per provvedere alla popolazione; le città di Verona e Brescia hanno cercato di imporre dazi doganali, ma un avvocato di nome Lorenzo Torre è andato di persona a Venezia per convincere il doge dell'insensatezza del provvedimento ed esso è stato revocato. In seguito il senato veneziano ha spedito una quantità di miglio nel Bergamasco, per provvedere alle necessità delle popolazioni rurali. Bortolo dà a Renzo alcuni utili consigli Bortolo spiega poi a Renzo che lo presenterà al padrone del filatoio, un uomo generoso al quale lui ha già parlato del cugino e che gli troverà certamente un impiego, quindi informa il giovane che i Milanesi vengono chiamati dai Bergamaschi col titolo non molto onorevole di "baggiani" (sciocchi), sia pure in senso affettuoso. Renzo non accoglie bene la notizia e si mostra irritato da questa bizzarra abitudine, ma Bortolo gli spiega che la cosa è normale in quel territorio e se un Milanese vuol vivere lì ci si deve rassegnare, altrimenti dovrebbe venire alle mani tutto il tempo; può darsi che in futuro questa strana consuetudine verrà meno, ma per il momento le cose stanno così e Renzo si dovrà abituare, specie pensando a ciò che volevano fargli i suoi compatrioti milanesi. Bortolo accompagna poi Renzo dal padrone e fortunatamente riesce a sistemarlo in modo dignitoso, cosa provvidenziale perché il giovane non potrà certo fare assegnamento sui denari lasciati a casa (vedremo presto il motivo). Capitolo XX Personaggi: Lucia, Gertrude, Egidio, don Rodrigo, il Griso, l'innominato, il Nibbio, i bravi, la vecchia Luoghi: Monza, il castello dell'innominato Tempo: Novembre 1628 Temi: La giustizia, Nobiltà e potere Trama: Don Rodrigo si reca al castello dell'innominato e chiede il suo aiuto per rapire Lucia. L'inn benché già preda di dubbi e rimorsi, ottiene la complicità di Egidio, il quale persuade la ri Gertrude a collaborare. La monaca convince Lucia a uscire dal convento. Il Nibbio e altri la giovane e la portano al castello. L'innominato ordina a una vecchia di prendersi cura di Il castello dell'innominato Il castello dell'innominato sorge in una valle posta sul confine dello Stato di Milano e del Bergamasco, in cima a un colle accessibile solo da un lato e che dall'altro presenta dirupi impervi e scoscesi; sulle falde ci sono alcune casupole sparse, mentre in basso scorre un torrente che fa da confine naturale tra i due territori. Nella sua imprendibile fortezza il signore domina dall'alto l'intera valle, poiché l'unica strada percorribile si inerpica a giravolte verso l'alto ed è tale che nessuno può salirvi senza essere visto dal castello, quindi questo è una roccaforte inespugnabile (tanto più che l'innominato vive lì circondato da una guarnigione di bravi). Del resto, precisa l'autore, nessuno che non sia amico o alleato del bandito si azzarda a mettere piede in quel luogo e men che meno i birri, dopo che si sono sparse truci leggende sulla fine fatta dai pochi che hanno tentato una simile impresa. L'anonimo non fornisce alcuna notizia che consenta di identificare con precisione il luogo e don Rodrigoarriva presto ai piedi della valle, all'imbocco del tortuoso sentiero che conduce in alto e dove c'è un'osteria che funge da corpo di guardia, la quale, a dispetto dell'insegna in cui campeggia un sole splendente, viene chiamata la "Malanotte". Don Rodrigo arriva alla Malanotte Non appena il cavallo di don Rodrigo si avvicina alla Malanotte, ne esce un ragazzaccio armato fino ai denti che rientra subito dopo ad avvisare tre bravi, intenti a giocare a carte. Uno di loro si affaccia alla porta dell'osteria e riconosce il signorotto come amico del suo padrone e questi, dopo aver risposto a un cenno di saluto, gli chiede se l'innominato si trovi al castello. Il bravo risponde di sì, quindi don Rodrigo smonta, affida lo schioppo a uno dei suoi sgherri (nessuno può salire al castello armato) e dà alcune berlinghe a un altro bravo, ordinandogli di attenderlo all'osteria; dà alcuni scudi d'oro anche ai bravi dell'innominato, poi si accinge a iniziare l'ascesa in compagnia del Griso, anch'egli disarmato. I due sono ben presto raggiunti da un bravo dell'innominato, che li riconosce e li accompagna alla fortezza, e una volta arrivati lì il Griso rimane alla porta e il signorotto viene introdotto nel castello, condotto attraverso un intrico di corridoi bui. Don Rodrigo vede alle pareti moschetti e sciabole, mentre di guardia ad ogni stanza c'è un bravo, finché è fatto entrare in una sala dove lo attende l'innominato, che non tarda ad andargli incontro e a salutarlo. Colloquio tra don Rodrigo e l'innominato L'innominato guarda il viso e le mani di don Rodrigo, cosa che fa per prudente abitudine con chiunque incontri: si presenta come un uomo alto, calvo, con pochi capelli bianchi, il volto rugoso che dimostra più dei suoi sessant'anni, anche se la durezza dei lineamenti, lo sguardo vivo e la vigoria fisica sarebbero straordinari anche in un giovane. Il signorotto dice di aver bisogno dell'aiuto del potente bandito, poiché si trova in un impegno che il suo onore non gli permette di abbandonare e tuttavia non ha i mezzi per poterla spuntare da solo. L'innominato ascolta con interesse, anche perché nella vicenda è coinvolto padre Cristoforo che egli conosce come nemico dei tiranni e perciò odia a morte: don Rodrigo accentua le difficoltà dell'impresa di rapire Lucia, poiché la ragazza è protetta nel convento di Monza da Gertrude, e a un certo punto l'innominato interrompe bruscamente il colloquio e si dichiara disposto ad assumersi l'onere dell'impresa. Il bandito appunta su un taccuino il nome di Lucia e congeda frettolosamente don Rodrigo, dicendogli che di lì a poco lo avviserà di quel che dovrà fare. L'innominato ha come complice delle sue scelleratezze Egidio, il quale, come narrato in precedenza, abita accanto al monastero di Gertrude ed è questo il motivo per cui il bandito ha dato tanto prontamente la sua parola: tuttavia, appena rimasto solo, egli si sente indispettito, se non proprio pentito di essersi addossato quell'infame incarico. I dubbi dell'innominato FGià da qualche tempo, infatti, l'innominato prova un certo fastidio per le sue malefatte e ripensa spesso ai tanti, troppi delitti commessi in passato, che formano un peso sempre più gravoso nella sua memoria; un certo orrore provato nei primi omicidi, e in seguito assopito nella sua coscienza, torna ora a farsi sentire di nuovo, inasprito dal pensiero della vecchiaia e della morte vicina. Il pericolo della morte non l'ha mai fermato nell'affrontare i nemici a viso aperto, ma ora, nella solitudine del suo castello, il pensiero di essere alla fine della sua vita lo riempie di inquietudine ed essa è aggravata dalla consapevolezza di non poter sfuggire a tale destino quando esso verrà. In passato l'abitudine alla ferocia e alla violenza lo aveva aiutato a placare le voci della coscienza, mentre ora rinasce in lui l'idea di un futuro giudizio individuale, e gli sembra di sentire la voce imperiosa di quel Dio che non si è mai preoccupato di negare o di riconoscere, quel Dio che adesso, invece, inizia a manifestarsi dentro di lui. Da giovane ha sempre respinto ogni legge morale come odiosa, mentre ora inizia a credere che essa prima o poi finirà per adempiersi; non ha rivelato a nessuno questo suo nuovo stato d'animo, ha anzi cercato quanto più possibile di nasconderlo, anche se in fin dei conti ha mentito soprattutto a se stesso. Negli ultimi tempi ha cercato di respingere questi pensieri ritrovando la gagliardia e la spensieratezza di un tempo ed è il motivo che lo ha spinto ad accettare tanto risolutamente la proposta di don Rodrigo, anche se ora è quasi tentato di venir meno alla parola data e rinunciare; per chiudere la questione decide di chiamare il Nibbio, il suo luogotenente cui affida le imprese più rischiose, e lo manda subito a Monza per riferire ad Egidio la trama che si sta delineando e chiedere il suo aiuto. Il coinvolgimento di Egidio. Gertrude tradisce Lucia Il Nibbio torna ben presto da Monza con la risposta di Egidio, il quale riferisce inaspettatamente che l'impresa è facile e sicura, dunque l'innominato deve mandare una carrozza e due o tre bravi travestiti, mentre a tutto il resto penserà il giovinastro. L'innominato, nonostante la sua inquietudine interiore, ordina al Nibbio di disporre tutto secondo le istruzioni di Egidio e il bravo si unisce alla spedizione in compagnia di altri due sgherri. Egidio ovviamente non conta sui mezzi con cui abitualmente compie le sue malefatte, ma sulla presenza al convento della sua amante Gertrude, la quale, anziché costituire un ostacolo all'impresa, rappresenta per lui una preziosa risorsa. Il giovane impone alla "Signora", già coinvolta nel delitto della conversa, di sacrificare Lucia e sulle prime la monaca trova spaventosa una simile proposta, tentando in ogni modo di sottrarsi alla richiesta; tuttavia, poiché la donna non intende ribellarsi al delitto né rinnegare in modo risoluto il suo amante, finisce per obbedire alle richieste di Egidio, anche se le fa orrore il pensiero di separarsi da Lucia (cui si è affezionata) per una simile atroce malvagità. Il giorno stabilito Gertrude si ritira nel parlatorio privato con Lucia, alla quale fa più carezze del solito, come il pastore che accompagna con dolcezza la pecora fuori della stalla per consegnarla al macellaio cui l'ha venduta. La monaca dice a Lucia che ha bisogno di un servizio, ovvero rivolgere una segreta ambasciata al padre guardiano del convento dei cappuccini che l'ha accompagnata lì la prima volta, cosa per la quale non può fidarsi di nessuno tranne che della giovane. Lucia è spaventata a una simile richiesta e l'idea di uscire dal monastero la atterrisce, ma Gertrude si finge indispettita da quelle scuse e afferma che si tratta di fare pochi passi lungo una via conosciuta, in pieno giorno, cosa per cui non c'è davvero grande pericolo. Lucia si lascia convincere e Gertrude la istruisce su cosa dovrà fare, suggerendole anche di non farsi vedere dalla fattoressa nell'uscire dal monastero o, tutt'al più, di dire che sta andando in una chiesa. Benché non del tutto persuasa, Lucia accetta l'incarico e si accinge a uscire dal chiostro, quando Gertrude è presa da un improvviso ripensamento e la richiama alla grata: qui però si limita a rinnovare le sue raccomandazioni alla giovane, la quale, ignara di quanto sta per succederle, esce inosservata dal convento. Il rapimento di Lucia Lucia lascia il convento e ritrova senza difficoltà la porta del borgo, camminando rasente il muro e con gli occhi bassi, finché arriva alla strada maestra e poi a quella che conduce al convento dei cappuccini: essa è ancora ai tempi dell'autore affondata tra due pareti laterali orlate di vegetazione, che formano sopra di essa una specie di volta, cosicché la ragazza inizia a percorrerla non senza provare una certa inquietudine. Dopo pochi passi vede una carrozza da viaggio ferma, con due viaggiatori accanto ad essa che si guardano intorno, intenti a cercare la strada: la giovane si rincuora e si avvicina, quindi uno dei due uomini, con un atteggiamento più gentile di quanto non sia il suo aspetto, finge di chiederle un'indicazione sulla strada per Monza. Lucia inizia a spiegare che se vogliono andare in città devono percorrere la strada in senso inverso, ma mentre si volta per indicare la giusta direzione l'altro uomo (il Nibbio) la afferra per la vita e la solleva da terra, cacciandola poi a forza nella carrozza mentre Lucia emette un urlo disperato. Una volta nella carrozza, un bravo che siede davanti la costringe a sedere di fronte a lui e un altro le mette un fazzoletto alla bocca e la fa tacere, mentre anche il Nibbio monta sul veicolo. La carrozza riparte di gran carriera e il quarto uomo rimasto sulla strada, accertatosi che nessuno sia accorso al grido della ragazza, sparisce rapidamente tra la vegetazione (è uno sgherro d'Egidio, che dalla casa del suo padrone ha visto Lucia uscire dal convento ed è corso ad attenderla sulla strada imboccando una scorciatoia per tendere l'imboscata). Lucia nella carrozza col Nibbio e i bravi Lucia è in preda al terrore e inorridita alla vista del volto minaccioso dei suoi rapitori: cerca di divincolarsi e di buttarsi verso lo sportello della carrozza, anche se le mani dei bravi la trattengono con forza sul fondo e le premono il fazzoletto sulla bocca, per soffocare le sue urla. I tre uomini cercano di calmarla dicendole di non volerle fare del male, ma dopo qualche istante, sopraffatta dall'affanno di quella situazione angosciosa, Lucia perde i sensi e uno dei bravi teme che sia morta, anche se il compare è certo che si tratti di un semplice svenimento e che, per uccidere una donna, ci voglia ben altro. Il Nibbio li richiama al loro dovere e ordina di prendere i fucili, tenendoli però ben nascosti per non mostrarli alla giovane e non intimorirla inutilmente, aggiungendo che, quando rinverrà, sarà lui a parlarle e a tenerla ferma. La carrozza si inoltra in un bosco e poco dopo Lucia rinviene, quindi, dopo essersi resa conto della situazione, tenta di nuovo inutilmente di gettarsi verso lo sportello e poiché caccia un urlo il Nibbio la minaccia di usare ancora il fazzoletto per farla tacere. L'uomo tenta di placarla parlandole con voce calma, anche se la ragazza, terrorizzata, prega i suoi rapitori di lasciarla andare e il Nibbio ribatte che non vogliono ucciderla e che l'hanno rapita perché è stato loro ordinato, anche se ovviamente rifiuta di dire a Lucia chi è il loro mandante. La giovane, tra le lacrime, prega ancora i bravi di lasciarla andare e li esorta a pensare a quanto patirebbero le loro figlie o le loro mogli in una simile situazione, ma gli uomini le dicono che non possono liberarla e non le rivelano il luogo dove la stanno portando, al che la ragazza si rivolge in preghiera a Dio e inizia a sgranare il suo rosario. Lucia alterna in seguito nuovi scongiuri ai suoi rapitori e altri svenimenti, durante il lungo viaggio che dura in tutto più di quattro ore. L'innominato ordina alla vecchia di accogliere Lucia Intanto l'innominato attende con una certa inquietudine il ritorno della carrozza al castello, cosa insolita in lui che, in passato, ha decretato la morte di tanti uomini senza un briciolo di esitazione e ora, di fronte al rapimento di una povera contadina, prova dentro di sé un ribrezzo e un terrore sconosciuti. Da una finestra del suo castello osserva uno sbocco della valle e qui vede a un tratto spuntare la carrozza, che avanza lentamente a causa della stanchezza dei cavalli: sente aumentare la sua ansia e vorrebbe quasi ordinare al Nibbio, tramite uno dei suoi bravi, di voltare il passo e raggiungere subito il palazzo di don Rodrigo. Tuttavia un richiamo interiore lo distoglie da quel proposito e, per non attendere senza far nulla, manda a chiamare una vecchia donna che vive nel castello da quando è nata e che è cresciuta nella concezione del potere e della malvagità del suo padrone, quindi con la volontà assoluta di obbedire i suoi ordini. Avvezza ad accettare tutto ciò che avviene in quel luogo funesto, ha sposato uno degli sgherri dell'innominato che è poi rimasto ucciso in un'azione, lasciandola vedova nel castello ad occuparsi degli altri bravi (la donna rattoppa i loro cenci, prepara da mangiare e cura alla meglio i feriti, ricevendo in cambio insulti e improperi cui lei solitamente risponde in modo ancor più feroce e irridente). Appena la vecchia giunge dal padrone, questi le indica la carrozza che si avvicina al castello e le ordina di allestire subito una portantina e di farsi portare alla Malanotte, badando di arrivare prima della carrozza: in essa c'è (o ci dovrebbe essere) una giovane, quindi la vecchia dovrà ordinare al Nibbio di metterla sulla portantina e di venire subito dall'innominato, mentre la donna dovrà accompagnare la ragazza al castello e condurla nella sua camera. L'uomo raccomanda alla vecchia di non rivelare il suo nome alla giovane e, soprattutto, le ordina di farle coraggio: la vecchia sembra non capire cosa debba dire alla prigioniera, al che l'innominato si irrita e le ingiunge di dire alla ragazza le paroleche lei stessa vorrebbe sentire in un simile frangente, mandandola poi via con impazienza. La vecchia corre ad eseguire gli ordini e l'innominato, rimasto solo, guarda per un po' la carrozza dalla finestra e poi inizia a percorrere la stanza a passi nervosi. Capitolo XXI Personaggi: Lucia, l'innominato, il Nibbio, la vecchia del castello, bravi, Marta Luoghi: Il castello dell'innominato Tempo: Novembre 1628 Temi: La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Trama: La vecchia conduce Lucia nella propria stanza, al castello. Il Nibbio confessa all'innomina ha ispirato compassione. L'innominato va a visitare Lucia e questa lo implora in ginocchio giovane trascorre una notte di disperazione e pronuncia il voto di verginità alla Madonna. preda di angoscia e rimorsi, poi sente uno scampanio e vede i paesani che accorrono dal cardinal Borromeo. La vecchia accoglie Lucia al castello La vecchia corre a eseguire gli ordini dell'innominato e tutti le obbediscono al solo sentire il nome del padrone, poiché nessuno se ne servirebbe in modo falso: la donna giunge con la portantina alla Malanotte poco prima dell'arrivo della carrozza, quindi ferma il cocchiere e sussurra gli ordini del padrone all'orecchio del Nibbio. Lucia si scuote da una specie di torpore e vede il volto della vecchia che si affaccia allo sportello della carrozza e la invita a scendere con voce raddolcita, cosa che induce i bravi a spingere la loro prigioniera a obbedire. La ragazza è spaventata e vorrebbe urlare, ma il Nibbio la minaccia di soffocarle di nuovo il grido col fazzoletto, quindi Lucia viene fatta scendere dalla carrozza e sale sulla portantina, seguita subito dopo dalla vecchia. Il Nibbio inizia a salire velocemente lungo l'erta, con gli altri due bravi che gli vanno dietro, mentre la portantina sale a sua volta verso il castello e Lucia, all'interno, continua a chiedere alla vecchia chi sia e dove la stia conducendo. La donna cerca di consolarla e di "farle coraggio" come il padrone le ha comandato, anche se Lucia non si tranquillizza affatto e la prega più volte di liberarla, invocando anche il santo nome di Maria (al sentirlo la vecchia riceve una strana impressione dentro di sé, come un vecchio cieco che ricordi la luce). L'innominato parla col Nibbio Intanto l'innominato è in piedi alla porta del castello e guarda la portantina avanzare, mentre il Nibbio la precede a passi rapidi e in breve raggiunge il padrone, appartandosi con lui in una sala all'interno della fortezza. Il bravo fa il suo rapporto sull'azione compiuta, sottolineando che tutto si è svolto secondo i piani, anche se, ammette, avrebbe preferito uccidere Lucia anziché vederla in viso e sentirla parlare: l'innominato chiede spiegazioni e il Nibbio afferma che la giovane gli ha ispirato compassione, cosa che stupisce non poco il padrone secondo cui il suo sgherro non dovrebbe sapere di che cosa si tratta. Il Nibbio dichiara che la compassione è come la paura e quando uno ne è preda non è più uomo, come ha sperimentato egli stesso nel lungo viaggio da Monza in cui ha sentito Lucia piangere e disperarsi, e l'ha vista impallidire dal terrore e quasi morire. L'innominato pensa tra sé che non vuole avere nel suo castello quella prigioniera ed è sul punto di ordinare al Nibbio di correre subito al palazzo di don Rodrigo, ma poi qualcosa dentro di lui lo trattiene e si limita a mandare il bravo a riposarsi, in attesa di nuovi ordini che riceverà l'indomani mattina. Rimasto solo, il bandito inizia a rodersi e a chiedersi quale demonio protegga quella ragazza che ha sconvolto a tal punto il suo uomo, ripromettendosi di mandarla via il mattino dopo e pensando che ha servito don Rodrigo perché lo ha promesso e perché questo in fondo è il suo destino, mentre medita di chiedere al signorotto una ricompensa scabrosa a compenso di questa inquietudine che lo tormenta. L'innominato va da Lucia L'innominato continua a pensare alla compassione ispirata da Lucia al Nibbio ed è preso dal desiderio di vederla, perciò si reca a passi rapidi alla camera della vecchia dove la giovane è tenuta prigioniera. Giunge alla porta e bussa con un calcio, al che la vecchia corre ad aprire e il bandito si affaccia sulla soglia, vedendo Lucia rannicchiata a terra in un punto lontano dalla porta: irritato, l'uomo rimprovera la vecchia per aver lasciato la ragazza in quelle condizioni, ma la donna si difende dicendo che Lucia si è messa dove ha voluto e che lei non ha mancato di farle coraggio. L'innominato ordina con voce severa a Lucia di alzarsi, anche se la giovane non si muove e resta tremante con la testa tra le mani, ancor più spaventata dall'arrivo di quell'uomo; egli rinnova l'invito dicendole che non intende farle del male, al che Lucia si scuote e si inginocchia a mani giunte di fronte al bandito, invitandolo a ucciderla. L'innominato torna a dire che non vuol farle del male e Lucia si lamenta del fatto di essere stata rapita e condotta in quel luogo, dove patisce le pene dell'inferno, chiedendo infine pietà al suo sequestratore in nome di Dio. L'uomo è irritato al sentire quella parola e rimprovera Lucia di volergli incutere timore invocando quel Dio che lui non riconosce, ma la giovane torna a supplicare l'innominato di liberarla e di rimandarla da sua madre, che potrebbe non essere lontana da lì poiché lei ha visto le sue montagne durante il viaggio da Monza. Lucia crede di vedere un'ombra di compassione sul volto del suo rapitore e lo invita a dire solo una parola per liberarla, poiché "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia". L'innominato si rammarica del fatto che Lucia non sia figlia di uno dei suoi nemici e la giovane, rincuorata dalla sua esitazione, torna a pregarlo di liberarla, venendo poi consolata dal bandito con un tono talmente raddolcito che la vecchia non crede alle proprie orecchie. L'uomo non promette nulla e si limita a dire "domattina", quindi conforta Lucia dicendo che una donna presto le porterà da mangiare e poi si rivolge alla vecchia, ordinandole con tono imperioso di tenere "allegra" la giovane e di farla mangiare, quindi di metterla a dormire nel suo letto e di passare la notte sul pavimento, se Lucia non la vorrà con sé. L'uomo ammonisce la vecchia a far sì che la giovane non si lamenti del suo operato, quindi esce dalla stanza prima che Lucia possa avere il tempo di trattenerlo. Lucia sola con la vecchia Lucia prega la vecchia di chiudere subito la porta, quindi torna a rannicchiarsi in un cantuccio e chiede alla sua carceriera di dirle il nome di quel signore: la vecchia, irritata dalle domande della prigioniera, rifiuta di rispondere per non avere guai e tra sé maledice le giovani donne, che suscitano la commozione negli uomini e hanno sempre ragione. Poi sente Lucia singhiozzare e cerca di consolarla, dicendole che molti sarebbero felici di sentire le parole che il padrone le ha appena rivolto e ricordandole che tra poco porteranno da mangiare, sicuramente delle pietanze appetitose. Poi Lucia potrà andare a letto e, aggiunge la donna, spera che le lascerà un angolo anche per lei, ma la ragazza ribatte di non voler mangiare né dormire e chiede di essere lasciata in pace, al che la vecchia si siede su una seggiola e lancia occhiate astiose alla prigioniera, stizzita del fatto che forse non potrà stendersi a letto e consolandosi all'idea che potrà godere anche lei della cena. Lucia è come stordita e non prova né fame né freddo, simile a un febbricitante in preda al delirio: a un tratto sente bussare e, atterrita, esorta la vecchia a non fare entrare nessuno, ma la donna dice che è Marta con la cena e, aperta la porta, prende dall'altra donna una cesta che ripone su un tavolo al centro della stanza, dopo aver richiuso l'uscio. La vecchia inizia a mangiare avidamente invitando Lucia a unirsi a lei e lodando la squisitezza dei cibi e del vino, anche se la ragazza non vuol saperne di consumare la cena; la donna termina il suo pasto, quindi invita Lucia a venire a letto, anche se la giovane rifiuta e si limita a chiedere se la porta è ben chiusa, alzandosi e facendo per andare all'uscio a controllare. La vecchia la precede e le mostra il paletto saldo nella serratura, quindi esorta ancora Lucia ad andare a letto e a non voler restare accucciata come un cane per terra, anche se la ragazza rifiuta risolutamente e rimane sul pavimento. La vecchia si stende a letto e si mette sulla sponda, lasciando un po' di spazio a Lucia nel caso cambiasse idea, quindi si mette vestita sotto le coperte e, dopo poco tempo, tutto tace. La notte angosciosa di Lucia: il voto di verginità Lucia rimane immobile nella semi-oscurità, con il volto nascosto tra le mani e raggomitolata su se stessa, in preda a uno stato intermedio tra la veglia e un sonno popolato da torbide immagini e pensieri. Dopo un lungo periodo di angoscia, in cui passa dalla coscienza della sua situazione alla paura per l'incerto avvenire, la ragazza cade a terra stremata e sembra addormentarsi, anche se subito dopo si scuote per riprendere padronanza di sé: tende l'orecchio e sente il russare regolare della vecchia, mentre la luce incerta del lucignolo che sta per spegnersi getta ombre sinistre e confuse sugli oggetti della stanza. Riacquista così piena coscienza della sua terribile situazione e si rammenta di tutto ciò che è successo nella giornata, provando una tale angoscia che desidera di morire; poi però è presa da una nuova volontà di preghiera e, riguadagnando speranza, prende la corona del rosario e inizia a sgranarlo recitando sottovoce le orazioni, mentre poco a poco sente nascere in cuore una nuova, indeterminata fiducia. A un tratto Lucia si rende conto che forse le sue preghiere sarebbero più facilmente accolte se promettesse qualcosa in cambio e poiché si rende conto che ciò che ha o ha avuto di più caro è l'amore per Renzo, decide di fare sacrificio di esso con un voto alla Madonna. Si alza da terra e si inginocchia sul pavimento, con le mani giunte da cui pende la corona del rosario, quindi solleva gli occhi al cielo e chiede a Maria di salvarla da questo pericolo facendola tornare dalla madre, promettendo in cambio di restare vergine e di rinunciare a sposare Renzo, proposito per il quale pronuncia un voto solenne. In seguito la giovane si mette il rosario intorno al collo e si siede a terra, sentendo nascere dentro di sé una nuova e più profonda tranquillità, specie ripensando alle parole dell'innominatoche le ha detto "domattina" e che lei ora interpreta come una promessa di salvezza. Stremata da tante emozioni, alla fine si addormenta quando ormai sta spuntando il giorno e con il nome di Maria tra le labbra. La notte angosciosa dell'innominato: il pensiero del suicidio Anche l'innominato vorrebbe dormire come Lucia, in un'altra stanza del suo castello, tuttavia non vi riuscirà per tutta la notte. Dopo essere quasi scappato dalla camera in cui è prigioniera la ragazza, il bandito ha ordinato di portarle la cena e poi ha fatto il consueto giro a certi posti di guardia della fortezza, chiudendosi infine nella sua stanza come se volesse sfuggire una squadra di nemici. Tuttavia, il pensiero fisso di Lucia tremante e le parole che la giovane gli ha rivolto continuano a tormentarlo ed è chiaro che non riuscirà a prendere sonno: maledice la sua decisione di vedere Lucia, rimproverandosi di essersi lasciato impietosire come una donnicciola e cercando di scuotersi al pensiero che spesso, nella sua vita scellerata, ha sentito donne piangere e talvolta anche uomini. Questi ricordi però non gli ridanno affatto coraggio né lo spingono a terminare l'impresa cominciata, anzi gli inducono nell'animo una specie di oscuro terrore, una sorta di pentimento di cui si rammarica e prova grande vergogna. È tentato dall'idea di liberare Lucia e di vedere il suo volto rasserenato, per provare sollievo dall'inquietudine che sembra divorarlo, anche se subito dopo è quasi atterrito dalla propria debolezza e si dice certo che la cosa passerà, cercando di pensare a qualche altra impresa da progettare per tenere la mente occupata. Non trova tuttavia alcun pensiero che gli rechi conforto e, al contrario, le imprese iniziate lo atterriscono e si pente dei passi compiuti, mentre il tempo futuro gli appare privo di stimoli e la memoria del passato cala pesantemente su di lui, facendogli sembrare intollerabile l'idea di tornare fra i bravi. Medita nuovamente di liberare Lucia, anche se ciò vorrebbe dire mancare alla parola data a don Rodrigo, e inizia poi a pensare come possa essersi impegnato con un simile individuo per far patire una povera innocente, concludendo che l'ha fatto per l'antica abitudine al male che lo pervade da sempre: ciò lo spinge a passare in rassegna tutte le malefatte degli anni precedenti, a pensare a tutti i delitti commessi, pensiero che gli sembra insopportabile e che gli si presenta in tutta la sua mostruosità, portandolo in breve alla disperazione. Afferra una pistola dalla parete accanto al letto ed è sul punto di uccidersi, quando pensa al suo cadavere che verrebbe trovato il giorno dopo e allo scompiglio nel castello, alla gioia dei suoi nemici e di chi gli sopravvivrà; suicidarsi nel buio della notte gli sembra un'azione vile e continua ad alzare e abbassare il cane della pistola, mentre lo assale anche il pensiero angoscioso che, forse, quella vita dopo la morte di cui gli hanno parlato da bambino e che lui ha sempre disprezzato, esiste davvero. L'innominato vede i fedeli accorrere dal cardinal Borromeo Il dubbio getta l'innominato in una nera disperazione, che lo porta a lasciar cadere la pistola e a mettersi le mani nei capelli, tremando dalla paura: a un tratto gli tornano in mente le parole di Lucia ("Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia"), pronunciate tuttavia non con il tono supplichevole con cui le ha udite dalla ragazza ma con un accento autorevole che gli ridona un attimo di speranza, mentre vede Lucia non già come la sua prigioniera, bensì come colei che può dispensargli una grazia. È ansioso che spunti il giorno, per correre a liberarla e ottenere il suo perdono, disposto addirittura a portarla lui stesso dalla madre, quando lo assale però l'incertezza su ciò che potrà fare il giorno dopo, e poi quello seguente e quello dopo ancora; soprattutto lo atterrisce il pensiero che presto la notte calerà di nuovo e tornerà a tormentarlo, per cui passa dal proposito di fuggire in un paese lontano dove nessuno lo conosca a quello di tornare alle antiche malefatte superando una crisi passeggera, mentre teme di farsi vedere così cambiato dai suoi bravi il giorno dopo e allo stesso tempo è ansioso che spunti nuovamente il sole. Infine sul far dell'alba, quando Lucia si è da poco addormentata, l'innominato sente un rumore confuso e festoso giungere dall'esterno e capisce che si tratta di uno scampanio, che sembra echeggiare da punti diversi della valle: curioso di capire di cosa si tratti, l'uomo si alza dal letto e si affaccia a una finestra, vedendo una gran frotta di gente in cammino sul fondo della valle e formata da uomini, donne, fanciulli che aumentano via via di numero e procedono allegramente verso una destinazione sconosciuta al bandito. L'innominato non riesce a spiegarsi le ragioni di quella marcia e, soprattutto, della gioia che traspare dagli atti delle persone e dalle campane a festa, il che accende in lui un fortissimo desiderio di saperne di più: per questo chiama uno dei bravi che dorme in una stanza accanto e lo incarica di informarsi in proposito, mentre il bandito resta alla finestra ad osservare quello spettacolo così insolito per lui. Capitolo XXII Personaggi: Lucia, l'innominato, il cardinal Borromeo, la vecchia del castello, Marta, bravi, il cappella Luoghi: Milano, il castello dell'innominato, il paese vicino Tempo: Novembre 1628 (nel flashback: dal 1564 sino al 1628) Temi: La giustizia, La cultura del Seicento, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Trama: L'innominato decide di fare visita al cardinal Borromeo e lascia il castello dopo essere sta dove Lucia è tenuta prigioniera. Il bandito raggiunge il paese vicino e chiede del cardinale dell'autore sulla biografia del Borromeo. L'innominato decide di recarsi dal cardinal Borromeo Il bravo giunge poco dopo a riferire all'innominato che il giorno prima il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, è arrivato in visita pastorale al paese vicino e che la notizia, sparsasi rapidamente nei villaggi tutt'intorno, ha spinto moltissime persone ad affluire lì nella speranza di vedere il prelato, per cui lo scampanio è piuttosto una manifestazione di gioia collettiva. Rimasto solo, l'innominato torna a guardare dalla finestra e a stupirsi che tanta gente accorra per vedere un solo uomo, poiché è chiaro che non tutti vanno da lui per ricevere qualche donazione di denaro: il bandito decide su due piedi di andare anche lui a parlargli, nella speranza che possa liberarlo dal tormento interiore che lo ha tenuto sveglio tutta la notte. Finisce in fretta di vestirsi, indossa una casacca dal taglio militaresco, prende la pistola rimasta sul letto e un'altra che attacca alla cintura, alla quale mette anche un pugnale, mentre infila ad armacollo una carabina famosa quasi quanto lui. Prende il cappello ed esce dalla sua camera, recandosi a quella della vecchia dove ha lasciato Lucia e alla cui porta bussa, dopo aver posato la carabina a terra. La vecchia corre ad aprire saltando giù dal letto e il bandito entra, vedendo Lucia che dorme rannicchiata a terra e rimproverando aspramente la donna per non aver eseguito i suoi ordini. La vecchia tenta debolmente di giustificarsi, quindi l'innominato le comanda di lasciar dormire la giovane e di non disturbarla, mentre al suo risveglio le dovrà dire che lui se n'è andato ma tornerà presto, disposto a fare tutto quello che lei vorrà. La vecchia resta stupefatta, poi il bandito esce riprendendo la carabina e mandando Marta (la donna della sera prima) in una stanza vicina, mentre un bravo ha l'ordine di fare la guardia e impedire a chiunque altro di entrare nella camera della prigioniera. In seguito l'innominato esce dal castello e scende rapidamente la discesa. L'innominato giunge dal cardinale L'anonimo, osserva l'autore, non dice quale sia la distanza dal castellodell'innominato al paese, ma sembra essere un tragitto piuttosto breve, anche se a quei tempi la gente accorreva a vedere il Borromeo anche da più di venti miglia. Diversi bravi incontrano il loro padrone che scende l'erta e si aspettano che chieda loro di unirsi a lui per qualche spedizione, mentre il bandito si limita a rivolgere delle occhiate che li lasciano pieni di stupore. Quando poi l'innominato arriva sulla pubblica strada, chi lo incontra si meraviglia vedendolo senza alcuna scorta, mentre ciascuno gli cede il passo e gli fa ampi cenni di deferenza: arrivato in paese, trova una gran folla che si apre al suo passaggio, dopo che il suo nome è passato di bocca in bocca. Un passante, alla sua domanda dove si trovi il cardinale, gli indica la casa del curato, al che l'innominato vi si reca ed entra nel cortile, dove sono radunati molti preti, e da qui passa in un salottino dentro l'abitazione, dove sono altri religiosi che lo guardano tutti con stupore e una certa inquietudine. Il bandito posa la carabina a terra e chiede a uno dei preti dove sia il cardinale, domanda alla quale l'altro non sa rispondere perché viene da un paese vicino e perciò chiama il cappellano crocifero. Quest'ultimo si avvicina non senza timore e meraviglia, quindi l'innominato gli chiede di vedere il cardinale e il religioso, sia pure balbettando qualche timida obiezione, va subito a fare di malavoglia la sua ambasciata al prelato. Digressione dell'autore: la storia del Borromeo L'autore osserva che la narrazione a questo punto si è imbattuta in un personaggio storico (il cardinal Borromeo) che è come una piacevole sosta all'ombra di un albero per un viandante stanco e triste, vicino a una fonte d'acqua purissima: si tratta infatti di una figura di eccezionale valore morale e che ispira un'incredibile deferenza, per cui interrompere il racconto delle vicende del romanzo sarà una gradevole digressione, specie dopo aver visto tante immagini di dolore ed esempi perversi di malvagità. Occorre spendere poche parole per introdurre degnamente un personaggio di tale importanza e se il lettore desidera invece riprendere il filo della storia, può saltare direttamente al capitolo successivo. Federigo Borromeo nasce nel 1564 e in tutta la sua vita userà sempre il suo ingegno, la sua fortuna, il suo intento per ricercare ed esercitare i migliori propositi: la sua esistenza è simile a un ruscello che scaturisce limpido dalla fonte e va a gettarsi puro nel fiume, senza ristagnare né intorbidirsi mai. Cresciuto in un'agiata famiglia aristocratica, fin dai primissimi anni bada solo agli insegnamenti della religione che spingono all'umiltà, alla ricerca dei veri beni, all'annullamento dell'orgoglio, trovando queste massime autentiche e incompatibili con quelle opposte (del decoro nobiliare) che pure provengono spesso dalle stesse labbra, dunque inizia prestissimo a pensare a come rendere la sua vita utile al prossimo e santa. L'ingresso nel collegio Borromeo a Pavia Nel 1580 Federigo manifesta il proposito di farsi prete e riceve l'abito dal cugino Carlo Borromeo, già all'epoca considerato da tutti santo: poco dopo entra nel collegio fondato da questo a Pavia e ancor oggi noto col nome di Borromeo, dove decide di insegnare la dottrina cristiana ai popolani più poveri e di assistere i malati e i bisognosi. Coinvolge in questo suo proposito anche i suoi compagni, servendosi dell'autorità di cui gode in quel luogo grazie al nome del suo casato, mentre schiva tutti gli agi e i privilegi che la sua condizione di nascita potrebbe garantirgli, consumando pasti frugali, vestendosi in modo povero e adottando uno stile di vita confacente a queste sue scelte. I parenti si mostrano insoddisfatti di ciò, in quanto a loro dire tale condotta svilisce il decoro del casato, mentre anche i suoi maestri tentano ogni tanto di fargli indossare qualcosa che lo distingua dagli altri allievi del collegio, mossi dal desiderio di ben figurare, oppure da un 'indole naturalmente servile che ricerca lo splendore altrui, oppure ancora dalla volontà di equilibrare in modo interessato le virtù e i difetti. Federigo non solo non accetta queste attenzioni, ma fino all'età giovanile riprende tutti coloro che ne sono protagonisti per buone e cattive ragioni. Dalla morte di S. Carlo all'arcivescovado Finché Carlo Borromeo, di ventisei anni più vecchio di Federigo, rimane in vita, esercita sul cugino una sorta di magistero e gli ispira un altissimo modello di comportamento, specie perché l'allora arcivescovo di Milano richiama con la sua sola presenza un'idea immediata di santità, corroborata dal rispetto che tutti sembrano mostrargli: tuttavia dopo la sua morte, avvenuta quando Federigo ha vent'anni, nessuno si accorge che gli è venuto a mancare un maestro e una guida, il che suona a lode del carattere e della maturità del giovane ecclesiastico. La fama dell'ingegno di Federigo, l'appoggio di molti cardinali potenti, il nome della sua famiglia, la memoria dello stesso cugino Carlo, tutto sembra pronosticare al giovane sacerdote che presto sarà elevato a una dignità ecclesiastica, anche se lui teme gli incarichi di rilievo e cerca di scansarli, non perché rifugga all'idea di servire il prossimo, bensì in quanto non si ritiene all'altezza. Nel 1595, tuttavia, papa Clemente VIII gli propone l'arcivescovado di Milano ed egli, dopo un'iniziale titubanza e un primo rifiuto, è successivamente indotto ad accettare il comando del pontefice. L'autore osserva che tali manifestazioni d'umiltà sono molto facili e possono essere fatte anche da ipocriti e da uomini poco seri, cosa che certamente non è avvenuta nel caso di Federigo Borromeo: la sua vita dimostra l'autenticità delle sue parole, quindi le sue professioni di noncuranza per le cariche ecclesiastiche sono certamente sincere. Federigo arcivescovo: la Biblioteca Ambrosiana Una volta divenuto arcivescovo, Federigo è molto attento a non prendere per sé cure e ricchezze che siano eccessive rispetto allo stretto necessario, anche perché convinto che le rendite ecclesiastiche siano patrimonio dei poveri: fa valutare quale somma serva per il mantenimento suo e della sua servitù, e poiché essa ammonta a seicento scudi dà ordine che tale cifra ogni anno sia versata dalla sua cassa privata a quella ecclesiastica, non volendo vivere sulle spalle di altri essendo lui ricchissimo. Egli vive del resto in modo molto modesto, smettendo un vestito solo quando è davvero logoro e, tuttavia, ha una grande cura della sua pulizia personale, cosa rimarchevole in un'età che mescola sfarzo e sudiciume come il Seicento; assegna gli avanzi della sua mensa frugale ai poveri, disponendo che uno di essi entri ogni giorno nella sua sala da pranzo a raccogliere quel che è rimasto. Tutto ciò potrebbe forse far credere che Federigo abbia un'indole gretta e attenta solo ai bisogni materiali, se non ci fosse la Biblioteca Ambrosiana (da lui progettata e fondata) a testimoniare l'esatto contrario: l'arcivescovo raccoglie molti libri personalmente e spedisce otto uomini tra i più colti del suo tempo a reperirne altri nei principali paesi d'Europa, dall'Italia alla Francia, dalla Spagna alla Germania, sino alle Fiandre, alla Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Alla fine vengono raccolti circa trentamila volumi stampati e quattordicimila manoscritti, mentre Federigo unisce alla Biblioteca un collegio di dottori (nove quando lui è in vita, stipendiati dalle sue rendite, in seguito ridotti a due) il cui compito è coltivare gli studi di teologia, storia, letteratura, lingue orientali e tenuti a pubblicare di quando in quando un lavoro sulle loro attività. Fonda anche un collegio trilingue per lo studio di greco, latino e italiano, nonché un collegio di alunni che vengono istruiti in tutte queste discipline, una stamperia di lingue orientali, una ricca pinacoteca e una galleria d'arte. Grandi sono le difficoltà nel reperire i caratteri tipografici per stampare libri nelle lingue orientali, così come nel trovare i dottori del collegio, otto dei quali provengono dai giovani alunni del seminario (Federigo non ha grande opinione dei dotti del suo tempo, giudizio che la posterità finirà per confermare); egli prescrive poi al bibliotecario di mantenere relazioni con gli uomini più dotti d'Europa e di acquistare i libri più interessanti che vengano pubblicati, disponendo inoltre che a tutti sia consentito il libero accesso alla Biblioteca e la consultazione dei volumi qui conservati. La cosa può sembrare ovvia al giorno d'oggi, osserva l'autore, ma non così avveniva nel Seicento quando, al contrario, i libri di altre illustri biblioteche pubbliche erano nascosti negli armadi e sottratti persino alla vista del pubblico che potesse esservi interessato. La fondazione della Biblioteca Ambrosiana è un'opera meritoria, che influisce positivamente sulla cultura del tempo che, com'è noto, è viziata da ottusità e ignoranza, tanto più che molti si oppongono e obiettano a Federigo che c'è altro a cui pensare e che tanti denari potrebbero essere usati per scopi più utili e redditizi (la costruzione della Biblioteca ha infatti un costo elevato e ammonta a circa centocinquemila scudi, per la maggior parte messi a disposizione dal patrimonio privato dell'arcivescovo). Federigo benefattore del popolo Federigo ritiene del resto che l'elemosina ai poveri sia un dovere precipuo di ogni uomo e soprattutto di chi come lui ne ha i mezzi economici, quindi si dedica a soccorrere i bisognosi in tutta la sua vita e anche in occasione della carestia del 1628-29, come l'autore avrà presto occasione di riferire. Un aneddoto è degno di essere citato, quando cioè il cardinale viene a sapere che un nobile cerca di forzare la figlia a farsi monaca contro la sua volontà e lo manda dunque a chiamare: l'aristocratico dichiara che il vero motivo è il fatto che non ha i quattromila scudi necessari a maritare convenientemente la ragazza, al che Federigo dona tale somma alla dote della giovane (forse, osserva l'autore, quei soldi si potevano usare per una causa più nobile, ma è comunque da elogiare il fatto che Federigo non abbia voluto che una giovane donna diventasse monaca subendo un atto di violenza). L'arcivescovo mostra poi sempre una cordialità gioviale con tutti, specie con quelli che appartengono alle classi sociali più umili, il che non manca di suscitare le rimostranze di chi gli sta intorno: un giorno Federigo è in visita a un paese contadino e si intrattiene nell'educare alcuni bambini, ai quali fa delle carezze, e un membro del suo seguito lo avverte di non avvicinarsi troppo a quei fanciulli dall'aspetto sudicio e malsano, come se il prelato non sapesse rendersene conto da solo. Federigo risponde che sono anime affidate alla sua cura e che, forse, non lo vedranno mai più: può egli esimersi dall'abbracciarli? L'autore osserva con amara ironia che è molto raro che qualcuno riprenda i grandi uomini dei loro difetti, mentre è fin troppo facile che essi vengano trattenuti dal fare del bene. Federigo si mostra sempre umile e con atteggiamenti benevoli, frutto di un'antica abitudine a tenere a freno un'indole vivace e piena di temperamento, e se talvolta si mostra brusco con qualcuno è quando è costretto a riprendere dei sacerdoti che si mostrano avari o che trascurano i loro doveri. Riguardo alla sua gloria personale egli appare sempre lontano da qualunque ambizione, per cui partecipa a diversi conclavi per eleggere un nuovo papa e non solo non mostra mai rammarico di non aver raggiunto quell'altissima dignità, ma in un'occasione rifiuta apertamente l'appoggio di un altro cardinale e della sua "fazione" per ottenere l'elezione. D'altronde Federigo non ama comandare ed è sempre molto attento a non impicciarsi nelle questioni che non lo riguardano direttamente, dimostrando in ogni circostanza una somma discrezione. Federigo e i difetti del suo secolo L'autore osserva che sarebbe impresa ardua elencare tutti i meriti acquisiti da Federigo nella sua lunga vita ed enumerare tutte le sue attività, anche se in esse lo studio ha avuto una parte essenziale e, dunque, il cardinale ha fama di essere stato un uomo dotto. Questo, tuttavia, non toglie che egli abbia abbracciato convinzioni proprie del suo tempo che al giorno d'oggi si sono dimostrate del tutto false, e sarebbe troppo facile scusare Federigo col dire che nel Seicento esse erano assolutamente comuni, dal momento che dire questo significa non dire nulla; l'autore non si sofferma sulle opinioni errate che il cardinale ha sostenuto, limitandosi a dire che non fu perfetto e che dunque egli non ha voluto scrivere un'orazione funebre. Quanto alla sua attività di dotto, Federigo ha lasciato circa un centinaio di opere dedicate a vari argomenti (morale, storia, letteratura, temi sacri...), le quali sono tuttora conservate nella Biblioteca Ambrosiana da lui fondata, anche se di esse non si serba praticamente alcuna memoria e non sembrano aver lasciato traccia nella cultura del nostro paese: il lettore potrebbe chiedersi per quale motivo, specie alla luce dei molti meriti dimostrati da Federigo in vita, e la risposta che l'autore potrebbe dare in merito sarebbe lunga e prolissa, per cui egli pone fine alla sua digressione e torna a narrare le azioni del personaggio sulla scena del romanzo, seguendo il racconto dell'anonimo. Capitolo XXIII Personaggi: Don Abbondio, l'innominato, il cardinal Borromeo, il cappellano crocifero, la moglie del s Luoghi: Il castello dell'innominato, il paese vicino, la Malanotte Tempo: Novembre 1628 Temi: La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Trama: Colloquio tra l'innominato e il cardinale. Pentimento dell'innominato, che rivela al cardina di Lucia. Il cardinale fa chiamare don Abbondio e gli affida il compito di andare a liberare compagnia di una "buona donna" (la moglie del sarto del paese) e dell'innominato. Timori Abbondio durante il tragitto verso il castello del bandito. Il cappellano crocifero introduce l'innominato dal cardinale Il cardinal Borromeo sta leggendo in attesa di recarsi in chiesa per le funzioni, come è solito fare nei rari momenti liberi, quando entra il cappellano crocifero con viso alterato a riferirgli che c'è una visita assai singolare e dicendo che l'innominato (il cui nome pronuncia con tono di deferenza e timore) chiede di essere ricevuto. Il cardinale si mostra entusiasta e ordina di farlo entrare immediatamente, al che il cappellano tenta di obiettare che si tratta di un famoso bandito e che potrebbe aver ricevuto da altri l'incarico di assassinare il prelato: il Borromeo sorride di tanta ingenuità e osserva che è ben singolare che i soldati esortino il generale ad aver paura, quindi (dopo aver ricordato che il cugino S. Carlo sarebbe addirittura andato in cerca di un tale uomo) comanda di farlo entrare senza indugio, poiché ha già aspettato troppo. Il cappellano obbedisce, pensando tra sé che i santi sono tutti ostinati, ed esce per recarsi nella stanza dove l'innominato attende, in compagnia dei curati che lo osservano intimoriti da una parte e parlano tra loro. Il cappellano si rivolge al bandito e, dopo aver rinunciato a chiedergli di deporre le armi che probabilmente porta sotto la veste, lo informa che il cardinale è pronto a riceverlo. L'innominato lo segue e i due passano attraverso quella piccola folla che osserva con grande stupore, mentre il cappellano sembra dire con lo sguardo che il comportamento del cardinale è singolare come al solito. Il cardinale accoglie l'innominato L'innominato entra nella stanza dove si trova il cardinale, il quale lo accoglie con volto sereno e a braccia aperte, per poi comandare al cappellano crocifero di uscire (questi obbedisce immediatamente). Rimasti soli, i due uomini restano qualche attimo in silenzio e come in attesa degli eventi: l'innominato è roso da una smania interiore e da due sentimenti opposti, ovvero il desiderio di trovare sollievo al suo tormento e la vergogna di essere lì, a supplicare un uomo come un miserabile, anche se guardando il cardinale è indotto a provare una certa venerazione per lui e ciò contribuisce ad attenuare l'orgoglio del bandito. Del resto l'aspetto di Federigo ispira superiorità e, al tempo stesso, si fa amare, dal momento che il suo portamento è maestoso e composto, lo sguardo vivace, l'espressione serena e pensosa; i capelli bianchi, il pallore, i segni dell'astinenza, tutto gli conferisce una sorta di virginale freschezza, mentre una bellezza senile ha preso il posto di quella che doveva essere la sua piacevolezza giovanile, anche grazie alla pace interiore, all'amore per il prossimo, alla speranza della futura beatitudine. Colloquio tra il cardinale e l'innominato: la disperazione del bandito Anche il cardinale tiene per un po' lo sguardo sull'innominato, per scrutare qualcuno dei suoi pensieri nascosti, convincendosi infine che forse la sua speranza circa quell'incontro non è del tutto mal riposta. Si rivolge infine al bandito manifestando la sua gioia per quella visita inattesa, anche se, a suo dire, essa giunge come un rimprovero per il prelato: l'altro ne è sorpreso e il Borromeo spiega che sarebbe toccato a lui recarsi dall'innominato e da molto tempo, al che il bandito esprime tutto il suo stupore ricordando al cardinale la sua identità e chiedendogli se il suo nome gli è stato riferito a dovere. In realtà, ribatte Federigo, la consolazione che lui prova nel vederselo davanti e che esprime col suo volto non potrebbe essere causata da uno sconosciuto, in quanto egli ha spesso pregato per l'innominato, che considera come uno dei suoi figli e che avrebbe da tempo voluto abbracciare, anche se Dio è stato più sollecito e ha supplito alla lentezza del suo umile servitore. L'innominato è sbalordito di fronte a tali parole e resta in silenzio, al che il cardinale lo esorta con premura a dargli la "buona novella" che è sicuramente venuto a recargli: il bandito ribatte che ha l'inferno nel cuore e non ha buone notizie da dare al cardinale, ma questi si dice certo che Dio gli ha toccato l'animo e vuole convertirlo. L'innominato protesta col dire che non sa dove si trova questo "Dio" di cui sente parlare, ma Federigo gli ricorda che nessuno può saperlo meglio di lui, che lo sente in cuore, ne è tormentato e stimolato e, al tempo stesso, attratto da Lui, nella speranza di una consolazione purché egli ammetta le sue colpe ne chieda perdono. L'innominato dichiara che, in effetti, c'è qualcosa di terribile che lo opprime, ma, posto che Dio esista, si chiede cosa mai potrebbe fare di lui: il cardinale spiega che Dio lo ha scelto per farne un esempio della Sua gloria, superiore a quella, misera, che gli viene dalle molte voci che nel mondo si levano contro il bandito per biasimarne i tanti delitti e soprusi, voci dettate dalla giustizia ma anche dal timore, dall'invidia per la sua sciagurata potenza che pare invincibile. Ma se l'innominato si ravvedesse e riconoscesse le sue colpe di fronte al mondo, allora questa sarebbe una gloria straordinaria per Dio e non è certo il cardinale, Suo umile servo, che possa dire cosa Dio farà del bandito e della sua eccezionale volontà, una volta che questa sia stata volta al bene e infiammata dal pentimento. L'innominato, prosegue Federigo, si è illuso di compiere grandi imprese al servizio del male, ma esse sono nulla di fronte a quelle che compirà per il bene dopo essersi convertito, mentre lui stesso è pieno della carità che Dio gli infonde e che lo spingerebbe a dare gli ultimi giorni che gli restano da vivere, pur di vedere lo spettacolo straordinario di un simile ravvedimento. Il pianto dell'innominato Il discorso appassionato e vibrante del cardinale commuove profondamente l'innominato, il quale sente salire le lacrime agli occhi che, pure, non sono abituati a piangere sin dalla fanciullezza: alla fine delle parole di Federigo il bandito si copre il volto con le mani e scoppia in un pianto dirotto, che rappresenta la risposta più eloquente alle sollecitazioni del prelato. Il Borromeo ringrazia la bontà divina e alza le mani e gli occhi al cielo, facendo poi per prendere la mano dell'innominato il quale, tuttavia, lo esorta a stare lontano per non contaminare la propria mano pura e benefica con la sua macchiata del sangue di tanti innocenti; il cardinale vuole invece stringerla, certo che in futuro essa riparerà i torti compiuti, solleverà gli afflitti e si stenderà disarmata verso gli antichi nemici. L'innominato esorta ancora Federigo a non trattenersi lì con lui, lasciando il popolo che è venuto in folla a vederlo, ma il cardinale ribatte di volere assistere la pecorella smarrita e afferma che, forse, Dio diffonde tra la gente la gioia per la conversione di cui ancora non sa nulla, aprendo poi le braccia e pregando l'innominato di accettare il suo abbraccio. Il bandito ha un attimo di esitazione, quindi abbraccia il cardinale e appoggia il volto in lacrime sulla spalla del prelato, bagnando la sua porpora mentre Federigo stringe la casacca di quell'uomo che si è macchiato di tanti atroci delitti. L'innominato rivela il rapimento di Lucia L'innominato si stacca dall'abbraccio del cardinale e ringrazia Dio per la grazia ricevuta, affermando di comprendere pienamente tutta l'iniquità delle malefatte commesse e, pure, di provare una gioia e un sollievo indicibili, cosa che Federigo attribuisce alla volontà divina di favorire la sua conversione e spingerlo a riparare almeno in parte al male compiuto. Il bandito dichiara che, purtroppo, potrà solo rimpiangere molti delitti perpetrati, anche se c'è un'impresa scellerata che ha appena intrapreso e che è ancora in tempo per troncare: egli rivela al cardinale il rapimento di Lucia, descrivendo con parole di orrore tutti i patimenti della giovane e aggiungendo che è ancora prigioniera al suo castello. Il Borromeo afferma che questo è un segno del favore divino, poiché l'innominato è in grado di fare subito una buona azione, quindi domanda al bandito quale sia il paese da cui proviene la ragazza. L'innominato glielo indica e Federigo si affretta a chiamare con un campanello il cappellano crocifero, che rientra in ansia e si stupisce vedendo l'innominato con gli occhi rossi di pianto, mentre sul volto del cardinale c'è un'espressione che esprime sollecitudine e contentezza. Borromeo gli chiede se tra i parroci riuniti nella sala accanto vi sia quello del paese di Lucia e il cappellano risponde di sì, al che il prelato gli ordina di farlo venire immediatamente da loro insieme al curato del paese dove si trovano. Il cappellano chiama don Abbondio Il cappellano esce e raggiunge i curati radunati nella sala contigua, dove tutti lo guardano stupiti: egli alza le mani al cielo e afferma che c'è stato un prodigio reso possibile dall'intervento divino, quindi, dopo un attimo di silenzio, chiede che si facciano avanti il curato di quella parrocchia e quello del paese di Lucia, ovvero don Abbondio. Il primo si fa avanti senza esitazioni, mentre il secondo si limita a chiedere stupito se è stato chiamato proprio lui, al che il cappellano gli ribadisce che il cardinalevuole parlargli subito. Don Abbondio si fa avanti con passo incerto e con volto stupito e indispettito, quindi segue insieme all'altro sacerdote il cappellano che mostra una certa impazienza per tante resistenze. I tre rientrano nella sala dove si trovano l'innominato e il Borromeo, il quale si rivolge al parroco della chiesa e gli chiede di indicargli una donna assennata perché vada al castello con una lettiga a prendere Lucia, in grado di consolarla e tranquillizzarla dopo i terrori patiti. Il curato riflette un momento e poi esce, dicendo di aver trovato la persona adatta, quindi il cardinale ordina al cappellano di allestire una lettiga per il trasporto di Lucia e di far sellare due mule, al che l'uomo esce a sua volta. Il cardinale manda don Abbondio al castello dell'innominato Il cardinale si rivolge a don Abbondio, il quale gli si avvicina per deferenza e per timore dell'innominato, manifestando il suo stupore per essere stato chiamato dal prelato. Federigo lo informa che una sua parrocchiana, Lucia Mondella, si trova al castello del bandito e incarica il curato di recarsi lì insieme alla donna che il parroco del paese è andato a chiamare, per liberarla e portarla subito in salvo. Don Abbondio cerca di mascherare il disappunto per quel comando e si inchina profondamente a entrambi i presenti, quindi il Borromeo gli chiede se Lucia abbia dei parenti e il curato risponde che ha solo la madre Agnese, che si trova al loro paese. Il cardinale incarica don Abbondio di provvedere a far portare subito la donna lì con un calesse e il curato ne approfitta per proporre di andare lui stesso al paese, adducendo come pretesto la sensibilità di Agnese che, dice, potrebbe impressionarsi con un estraneo. Il cardinale ribatte che don Abbondio è più utile altrove, ovvero al castello ove dovrà consolare Lucia, anche se non scende in dettagli per non urtare l'animo dell'innominato lì presente: il prelato intuisce facilmente che don Abbondio è spaventato all'idea di viaggiare solo con il bandito, e per evitare di parlare col curato in disparte si rivolge all'innominato per mostrare l'avvenuta conversione, chiedendogli di tornare a trovarlo presto in compagnia dello stesso curato, al che l'altro promette che lo farà senz'altro in quanto bisognoso dell'assistenza spirituale del cardinale. Don Abbondio osserva i due come uno che guardi un cane famoso per la sua ferocia, che il padrone mostra come una bestia del tutto mansueta e al quale non osa avvicinarsi, mentre rimpiange di non essere a casa propria. Il cardinale si appresta a uscire insieme al bandito e si rivolge al curato temendo che si senta trascurato, sottolineando la straordinaria conversione dell'innominato: don Abbondio ostenta la sua approvazione e fa un profondo inchino a entrambi, quindi il cardinale esce e tutti gli sguardi si concentrano su quella incredibile coppia, con Federigo che esprime gioia e compostezza, l'innominato che lascia trasparire il pentimento, la confusione e la sua indole ancora selvaggia. Don Abbondio segue i due con fare modesto, senza che nessuno noti la sua presenza. Don Abbondio e l'innominato lasciano il paese Il primo servitore del cardinale gli si avvicina e lo informa che la lettiga e le mule sono pronte, mentre il curato del paese è in arrivo con la donna che dovrà recarsi al castello con don Abbondio e l'innominato. Federigo si accommiata dal bandito con una stretta di mano e gli dice che lo aspetta di lì a poco, quindi esce per recarsi in chiesa accompagnato da tutti i parroci presenti. Don Abbondio resta solo con l'innominato, che ha il volto corrucciato al pensiero che presto potrà liberare Lucia, anche se la sua espressione riempie di paura il curato: questi si limita a guardarlo e a chiedersi cosa mai possa dirgli senza apparire villano, dubitando in cuor suo della veridicità di quella conversione incredibile. Don Abbondio pensa tra sé che avrebbe potuto evitare di recarsi lì a omaggiare il cardinale e se la prende con Perpetua che quella mattina lo ha spinto ad andare, mentre ora potrebbe essere al sicuro nella sua casa. Finalmente giungono il curato del paese e il servitore del cardinale, che informano che tutto è pronto per la partenza, al che don Abbondio incarica il parroco di provvedere a far venire lì Agnese e poi chiede all'altro di procurargli una mula quieta visto che è un cavaliere inesperto (gli viene detto che è la mula del segretario del prelato, ovvero un intellettuale poco avvezzo a cavalcare). Don Abbondio segue poi a malincuore l'innominato nel cortiletto interno, dove il bandito riprende la sua carabina: questo gesto riempie il curato di terrore, anche se egli è abile a dissimularlo e dunque il bandito non fa nulla per rassicurarlo circa le sue paure. I due raggiungono le due mule e la lettiga, quindi montano in sella (il curato ha bisogno di aiuto per riuscire nell'operazione): la lettiga si muove, portata da due mule e da un conducente, quindi la comitiva inizia ad attraversare il paese. Il viaggio di don Abbondio: incertezza e paura Don Abbondio, l'innominato e la lettiga passano di fronte alla chiesa gremita di folla e attraversano una piazzetta anch'essa piena di gente, che si fa largo per il desiderio di vedere il famoso bandito la cui conversione, frattanto, si è risaputa in paese. L'innominato si toglie il cappello inchinandosi di fronte al popolo, imitato dal curato che si raccomanda al cielo ed è commosso a sentire gli altri parroci che cantano in chiesa, rammaricandosi di non poter essere insieme a loro. Poco dopo la comitiva lascia l'abitato ed entra in aperta campagna, dove il curato è preda di cupi pensieri e rivolge lo sguardo solo al conducente della lettiga, certo che si tratti di un uomo onesto in quanto al servizio del cardinale. Vorrebbe parlare con l'innominato, anche per sincerarsi dell'avvenuto ravvedimento, ma lo vede talmente assorto nei suoi pensieri che non osa aprir bocca e inizia invece a pensare tra sé agli avvenimenti di cui è protagonista. Se la prende coi santi e i malfattori, che vogliono sempre coinvolgere nelle loro imprese le persone quiete come lui, che vorrebbe solo starsene tranquillo senza far male a nessuno; maledice don Rodrigo, che essendo ricco e potente potrebbe vivere senza pensieri e invece cerca solo di molestare le donne, volendo andare all'inferno anziché in paradiso. Guarda di sottecchi l'innominato e si chiede se si sia davvero convertito, accusandolo in cuor suo di aver commesso in passato ogni genere di delitto invece di vivere quietamente, mentre ora ha coinvolto anche lui in questa sorta di penitenza che avrebbe potuto svolgere a casa sua senza tanti schiamazzi. Don Abbondio accusa anche il cardinale di aver subito accolto il bandito a braccia aperte, credendo troppo facilmente al suo pentimento, al punto di affidargli la vita di un povero curato senza alcuna garanzia: sospetta che sia tutto un inganno e non riesce a immaginare in che modo sia coinvolta Lucia, lamentando il fatto che lo abbiano tenuto all'oscuro dei dettagli. Il curato prova pena per la ragazza e si rallegra che possa esser liberata, ma accusa anche lei in cuor suo di essere l'origine di tutti i suoi guai e vorrebbe poter leggere in cuore all'innominato per sapere come stanno realmente le cose, raccomandandosi infine al cielo. L'arrivo alla Malanotte e al castello Intanto sul volto dell'innominato si alternano espressioni affatto opposte, che passano dal pensiero della misericordia divina alla terribile memoria del passato sanguinoso, che lo spinge a pensare quali imprese iniziate sia ancora in tempo a troncare, cosa fare dei suoi complici, quali mezzi usare per riparare i torti commessi. È impaziente all'idea di andare a liberare Lucia, anche se ha ribrezzo pensando che la poverina soffre a causa sua, per cui sollecita il conducente della lettiga ad affrettare il passo e gli indica la strada da percorrere ogni volta che si trovano a un bivio. Di lì a poco entrano nella valle che porta al castello e don Abbondio è assalito dalla paura al ricordo delle terribili storie udite su quel luogo famigerato, specie quando iniziano a incontrare i bravi che si inchinano rispettosi al loro padrone. Il povero curato rimpiange quasi di non aver sposato Renzo e Lucia, quindi la comitiva percorre un sentiero sconnesso lungo un torrente e ben presto passa davanti alla Malanotte, sotto gli sguardi sorpresi dei bravi che non si spiegano cosa sia accaduto e, pure, non osano aprir bocca per timore dell'innominato. Il gruppo raggiunge in breve la cima della salita e, dietro l'innominato che fa da guida, la lettiga e don Abbondio entrano nel castello attraverso due cortili interni, finché arrivano a un uscio e il bandito smonta dalla mula. L'uomo la lega a un'inferriata e comanda a un bravo di non far passare nessun altro, quindi si rivolge alla donna dentro la lettiga esortandola a consolare subito Lucia, facendole capire che sta per essere liberata e consegnata a persone fidate. L'innominato si rivolge poi a don Abbondio con sguardo sereno e lo rassicura accennando all'opera di misericordia che sta per compiere, per poi aiutarlo a smontare dalla mula: il curato torna finalmente a respirare per il sollievo, anche se dissimula il suo stato d'animo e si affretta a complimentarsi con il bandito, per poi seguirlo insieme alla donna dentro il castello. Capitolo XXXI Personaggi: Lodovico Settala, Alessandro Tadino, Ambrogio Spinola, Federigo Borromeo, padre Felice Luoghi: Milano, il territorio di Lecco e altri circostanti Tempo: Dall'autunno 1629 al maggio 1630 Temi: La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere, La peste, Chiesa e religione Trama: Proposito dell'autore di narrare la storia della peste a Milano. L'epidemia si diffonde nei luog passaggio dei Lanzichenecchi. Negligenza e incuria delle pubbliche autorità nel cercare di ar contagio. La peste entra a Milano e si diffonde lentamente in città. La popolazione non crede dell'epidemia e accusa i medici, tra cui Lodovico Settala. Il contagio si diffonde e le autorità affrontare la situazione. Il lazzaretto viene affidato ai padri cappuccini, che si prodigano per Iniziano a circolare a Milano le prime dicerie sugli untori. Il Tribunale di Sanità mostra al po con i cadaveri di un'intera famiglia morta di peste. L'autore si propone di raccontare la peste di Milano Giunto al punto della narrazione in cui l'epidemia di peste si diffonde a Milano e in buona parte d'Italia a causa del passaggio dei lanzichenecchi, l'autore si ripropone di raccontarne per sommi capi la storia, concentrandosi pressoché unicamente sui fatti milanesi in quanto i documenti lombardi dell'epoca trattano solo del morbo in quella città. Manzoni osserva che in nessuno scritto del Seicento sul tema della peste vi è un resoconto dettagliato e ordinato della calamità, ma molte notizie confuse e imprecise, errori ed omissioni, e questo riguarda anche la fonte principale del tempo, ovvero l'opera di Giuseppe Ripamonti sulla peste di Milano del 1630. Nessuno storico dell'epoca successiva ha cercato di mettere ordine in questa materia, perciò lo scrittore è il primo a tentare di ricostruire una storia parziale di quella tragedia, anche se - afferma - il lettore è comunque invitato a farsene un'idea più diretta esaminando le relazioni del sec. XVII, le quali, pur se imprecise e incomplete, conservano una forza viva e immediata quale non può ritrovarsi negli scritti successivi. Il fine di Manzoni sarà solo quello di ricostruire per quanto possibile le ragioni dell'epidemia e le conseguenze che essa ha prodotto nel Milanese, non omettendo di denunciare i molti e gravi errori compiuti dalle pubbliche autorità che hanno facilitato e addirittura alimentato la diffusione del morbo. La peste si diffonde nei luoghi del passaggio dei lanzichenecchi Lungo la striscia di territorio lombardo percorsa dall'esercito dei Lanzichenecchi già nell'autunno del 1629 la peste inizia a diffondersi e a provocare vittime sporadiche, con i malati che manifestano sintomi sconosciuti ai più ma non a quelli che rammentano la cosiddetta "peste di S. Carlo" del 1576, che aveva spopolato buona parte del nord Italia. Il famoso medico Lodovico Settala, ora ottantenne e che in gioventù aveva curato quella peste, il 20 ottobre riferisce al Tribunale di Sanità milanese che il contagio si sta diffondendo nel territorio di Lecco, anche se le autorità non prendono alcun serio provvedimento. Giungono altre notizie simili da altri centri, al che il Tribunale manda un commissario e un medico a visitare i luoghi colpiti, ma questi si lasciano persuadere da un barbiere di Bellano che non si tratta di peste, bensì di febbri dovute alle esalazioni delle paludi, rassicurazioni che tranquillizzano la Sanità. Solo quando arrivano nuove e più preoccupanti segnalazioni da varie zone del Milanese vengono inviati in zona il medico Alessandro Tadino e un magistrato del Tribunale di Sanità, i quali non tardano a rendersi conto che la peste è diffusa in tutto il territorio di Lecco, in Valsassina e sulle coste del lago di Como, dove essi trovano case abbandonate, persone rifugiatesi in campagna e un numero spaventoso di morti. I due informano subito il Tribunale, che il 30 ottobre si prepara a formare un cordone sanitario per impedire ai forestieri di entrare a Milano e impedire così che il contagio penetri in città. L'indifferenza delle pubbliche autorità verso la peste Il 14 novembre Tadino e l'altro inviato del Tribunale di Sanità ricevono l'ordine di presentarsi al governatore di Milano, Ambrogio Spinola, per esporgli la situazione riguardo all'epidemia. Il governatore si dice molto addolorato, tuttavia le preoccupazioni della guerra sono più pressanti e perciò non intende prendere alcun provvedimento. Pochi giorni dopo, il 18 novembre, lo stesso governatore indice pubblici festeggiamenti per la nascita del primogenito di re Filippo IV di Spagna, senza curarsi del fatto che un grande afflusso di gente per le strade potrebbe facilitare la diffusione del contagio, come se i tempi fossero assolutamente normali. L'autore ricorda che lo Spinola aveva sostituito don Gonzalo Fernandez de Cordoba sulla poltrona di governatore e sarebbe morto pochi mesi dopo nel corso della guerra di Mantova, non per le ferite sul campo ma per il dolore delle critiche ricevute durante il suo sfortunato comando militare (gli storici farebbero meglio a sottolineare invece i suoi errori nel fronteggiare l'epidemia). Del resto il governatore non è certo l'unico a sottovalutare il rischio della peste: la popolazione di Milano sembra disinteressata e nessuno crede che le vittime siano da attribuire al terribile morbo, anzi, quelli che parlano di peste sono derisi o additati al pubblico disprezzo; lo stesso vale per i magistrati pubblici e solo il cardinal Borromeoesorta i parroci a vigilare circa la diffusione del morbo, sollecitudine che rende ancor più lodevole il prelato. Persino il Tribunale di Sanità è lento nell'operare come lo era stato nel prendere informazioni e prova ne sia il fatto che la grida che prescrive il cordone sanitario intorno a Milano, decisa il 30 ottobre, viene stilata solo il 23 novembre e pubblicata il 29 dello stesso mese, quando la peste è già entrata in città. La peste si diffonde tra le mura di Milano I cronisti del tempo come il Tadino e il Ripamonti hanno voluto annotare il nome di colui che per primo ha portato la peste dentro Milano, come se ci fosse una speciale curiosità a indicare i nomi delle prime vittime di un'epidemia che ha provocato migliaia e migliaia di morti; entrambi poi discordano sul nome dello sventurato e sulla data del suo ingresso in città, questioni futili che poco interessano Manzoni (la data esatta, comunque, dev'essere ai primi del novembre 1629). Si tratta di un soldato italiano al servizio degli Spagnoli, che entra a Milano con un fagotto di vesti comprate o rubate ai lanzichenecchi e che va ad alloggiare da certi suoi parenti presso Porta Orientale: si ammala di peste e muore dopo pochi giorni, lasciando pochi dubbi sulle cause del decesso. Il Tribunale di Sanità fa segregare in casa la sua famiglia, ordina di bruciare i suoi vestiti e le suppellettili, tuttavia questo non impedisce che altre persone contraggano il morbo, che poi si diffonde lentamente in città anche a causa dell'ingresso dal contado di altre persone infette, per via della lentezza con cui viene allestito il cordone sanitario. L'epidemia cova e serpeggia lentamente tra la fine del 1629 e i primi mesi del 1630, senza destare particolari preoccupazioni data la scarsità di vittime, mentre la generale incuria coinvolge non solo la popolazione minuta, ma anche molti medici che attribuiscono i decessi a cause diverse dalla peste. I malati non vengono del resto denunciati alla Sanità per timore di essere mandati al lazzaretto, il che non fa che diffondere ulteriormente il morbo in città. L'ignoranza del popolo e le accuse ai medici Il Tribunale di Sanità cerca tardivamente di arginare il contagio ordinando di bruciare vestiti e suppellettili di persone infette e mandando intere famiglie al lazzaretto, cosa che inasprisce la popolazione milanese ed eccita un odio generale verso i magistrati. Destino assai simile tocca anche ai medici che si prodigano per combattere la peste, soprattutto il Tadino e Senatore Settala (figlio del protofisico Lodovico), i quali sono additati dalla folla come nemici della patria e assaliti con parolacce quando sono per strada, se non addirittura a sassate. Lo stesso può dirsi anche per Lodovico Settala, medico autorevole e tra i più rinomati studiosi d'Europa (benché partecipe di molti pregiudizi della sua epoca), il quale è vittima dell'animosità del popolo a causa del suo impegno contro la peste: un giorno va a visitare certi ammalati in portantina e si raduna intorno a lui una folla inferocita, che lo insulta e lo accusa di spargere false notizie sulla peste per dar lavoro ai medici; fortunatamente riesce a rifugiarsi in una casa vicina e ciò probabilmente gli salva la vita. L'autore osserva con amaro sarcasmo che in quell'occasione il Settala fu aggredito dal popolo perché cercava di salvarlo dalla peste, mentre quando collaborò a far torturare e bruciare sul rogo una presunta strega (una donna falsamente accusata di aver avvelenato il suo padrone) la folla lo aveva lodato come sapiente. Il contagio infuria in tutta Milano. I cappuccini al lazzaretto Alla fine del marzo 1630 la peste inizia a mietere vittime un po' ovunque in città e non solo più a Porta Orientale, con i malati che manifestano i sintomi inconfondibili della malattia quali bubboni, febbri violente e improvvise, delirio. I medici contrari all'idea della peste danno ora un altro nome al male e parlano di febbri maligne e pestilenziali, il che però è solo un inganno verbale e impedisce di capire che il contagio si propaga ormai per contatto tra le persone. Il Tribunale di Sanità cerca di far fronte alla situazione e chiede continuamente denari ai magistrati della città, come fa pure il Senato per assicurare gli approvvigionamenti di grano e il gran cancelliere Ferrer su ordine del governatore, nel frattempo ripartito per Casale. Frattanto al lazzaretto la situazione diviene ogni giorno più ingovernabile ed è sempre più difficile mantenere l'ordine e le separazioni fra i malati; il Tribunale e i magistrati pensano allora di affidarne la guida ai padri cappuccini e il padre provinciale (subentrato al precedessore, che nel frattempo è morto) propone quale direttore del lazzaretto padre Felice Casati, noto per la vita caritatevole e molto stimato, affiancandogli come aiutante padre Michele Pozzobonelli, più giovane ma altrettanto lodevole. Il 30 marzo il presidente della Sanità li conduce al lazzaretto per prenderne possesso e di lì a poco si uniscono a loro altri frati cappuccini, che in quel luogo di sofferenza iniziano a occuparsi di tutto, dalla cura dei malati, alla cucina, ai lavori più umili come la lavanderia. Padre Felice è instancabile e gira nel lazzaretto giorno e notte, assicurando l'ordine e la disciplina; si ammala di peste e ne guarisce, mentre molti dei suoi confratelli cadono vittime del morbo. Lo scrittore osserva che è cosa strana il fatto che le pubbliche autorità abbiano rinunciato a governare il lazzaretto e ne abbiano ceduto per così dire la giurisdizione ai padri cappuccini, tuttavia ciò è anche indice del potere infinito della carità cristiana ed è bello che i frati abbiano accettato questo gravoso incarico solo perché nessun altro voleva accollarselo, senza altro fine che di servire il prossimo e senza altra speranza che una morte invidiabile in quanto sicuro viatico per la vita eterna. I cappuccini vanno dunque elogiati per l'incredibile sacrificio offerto alla loro città, destinata a più triste destino senza il loro intervento, e in particolare padre Felice Casati merita un encomio particolare per il servizio reso senza pretendere nulla in cambio, cosa che anche secondo il Ripamonti torna in onore suo e della città di Milano. Iniziano a circolare le prime dicerie sugli "untori" Ovviamente il diffondersi della peste e del contagio attraverso il semplice contatto coi malati fa svanire l'incredulità verso la malattia, specie quando essa inizia a colpire non solo tra i poveri della città ma anche tra le classi sociali più agiate: tra le vittime illustri vi sono anche i famigliari di Lodovico Settala, il quale si ammala a sua volta e guarisce insieme a un figlio (sono gli unici superstiti). Tuttavia tra il popolo inizia allora a diffondersi un'altra pericolosa convinzione e cioè che la peste sia in realtà causata da sostanze venefiche sparse volontariamente da imprecisati individui, idea assurda che però trae alimento dalla superstizione e dalla credenza in pratiche magiche allora diffusa in tutta Europa. Inoltre re Filippo IV l'anno precedente aveva inviato un dispaccio al governatore per avvertirlo che quattro francesi, sospettati di spargere unguenti velenosi, erano scappati da Madrid ed erano forse diretti a Milano, fatto che ora sembra confermare i peggiori sospetti. La sera del 17 maggio 1630 si verifica poi un fatto banale, ma che contribuisce ad accrescere e alimentare la paura del popolo: alcuni testimoni credono di vedere delle persone nel duomo di Milano ungere un'asse che fa da parete divisoria tra i fedeli dei due sessi, per cui essa e le panche vicine vengono portate fuori dalla chiesa ed esaminate poi dal presidente della Sanità e alcuni suoi ufficiali, che non rilevano nulla di sospetto. L'asse e le panche per eccesso di cautela vengono lavate accuratamente e tale operazione desta molto allarmismo tra il popolo, che inizia a raccontare storie incredibili sul fatto che tutto nel duomo sia stato "unto" per diffondervi la peste, cosa che viene data per scontata in molti documenti dell'epoca e creduta anche da persone istruite. Le mura di Milano vengono imbrattate e "unte" La mattina del 18 maggio si verifica un nuovo inquietante episodio, che seppure inspiegabile contribuisce ad avvalorare l'ipotesi dell'esistenza degli "untori": un lungo tratto delle mura di Milano appare imbrattato di una strana sostanza giallastra, come se qualcuno l'avesse sparsa appositamente con delle spugne. Il fatto è attestato nei documenti dell'epoca in modo tale da lasciare pochi dubbi sulla realtà dell'episodio, anche se è impossibile stabilire se fu un macabro scherzo o il deliberato tentativo di diffondere il terrore tra i Milanesi; fatto sta che la città ne è sconvolta e molti abitanti bruciano con paglia accesa i luoghi unti, mentre una specie di psicosi si impadronisce delle persone che sospettano di tutti gli stranieri e ne catturano molti per semplici sospetti, conducendoli poi alla giustizia (sulle prime, tuttavia, nessuno viene trovato colpevole). Le inchieste del Tribunale di Sanità sul momento non approdano a nulla, mentre tra le persone comuni si inizia a parlare di "untori" e si favoleggia del fatto che questi individui siano emissari mandati dall'ex-governatore don Gonzalo, per vendicarsi degli insulti ricevuti al momento della partenza da Milano, o dal cardinal Richelieu nell'ambito della guerra di Mantova, o ancora dal Wallenstein o dal Collalto per imprecisati motivi. Alcuni pensano che il fatto sia da attribuire a uno scherzo di cattivo gusto praticato da scolari o ufficiali annoiati, per cui nonostante il generale spavento la cosa viene per ora lasciata cadere e ciò anche perché vi è ancora qualcuno che, assurdamente, non crede che la peste sia davvero presente a Milano. L'orrendo spettacolo del carro con i morti La plebe non è ancora del tutto convinta della peste poiché nel lazzaretto e altrove alcuni malati guariscono, mentre si crede che tutti i colpiti dovrebbero morirne; la cosa è incredibilmente sostenuta anche da alcuni medici, che si ostinano a non credere al contagio. Per fugare ogni dubbio, il Tribunale di Sanità ricorre a un macabro espediente: durante le feste della Pentecoste, quando i cittadini sono soliti recarsi al cimitero di S. Gregorio per pregare per i morti della peste del 1576, nell'ora di maggior afflusso viene condotto un carro con i corpi di un'intera famiglia morta di peste, i cui cadaveri nudi e ricoperti degli orribili segni della malattia creano orrore e ribrezzo in tutti i Milanesi presenti. Da quel giorno la peste viene creduta da tutti, benché da tempo ormai siano pochi quelli che avanzano dubbi, ed è certo che quel macabro spettacolo contribuisce notevolmente a diffonderne il contagio per la concentrazione di persone. Un primo bilancio del narratore Manzoni osserva infine che all'inizio dell'epidemia nessuno voleva credere alla peste ed era proibito anche solo pronunciare la parola; poi si comincia a parlare di febbri pestilenziali e ad ammettere che la malattia esiste, anche se non è proprio una vera peste; infine si ammette senza remore l'esistenza del morbo, anche se ormai si è insinuata tra il popolo l'idea che esso è propagato appositamente tramite unguenti venefici e pratiche criminali. Lo scrittore dichiara che spesso nella storia umana le parole vanno incontro a una simile evoluzione, anche se si potrebbero evitare tristi conseguenze se, prima di parlare senza conoscere i fatti, si utilizzasse il metodo più "scientifico" di osservare e ragionare, benché sotto questo aspetto gli uomini siano piuttosto da compatire. Capitolo XXXII Personaggi: Antonio Ferrer, Ambrogio Spinola, Federigo Borromeo, i monatti Luoghi: Milano, il lazzaretto Tempo: Da maggio ad agosto 1630 Temi: La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere, La peste, Chiesa e religione Trama: I magistrati di Milano chiedono al governatore provvedimenti fiscali per far fronte alla peste successo, quindi si rivolgono al cardinal Borromeo per una processione solenne. Si diffonde contado la paura degli untori. Episodi di linciaggio della folla. Borromeo acconsente alla pro svolge l'11 giugno 1630. La furia del contagio aumenta e la folla ne attribuisce la causa agli apparitori, commissari. I padri cappuccini assicurano il governo del lazzaretto. L'impegno de e del cardinal Borromeo. Le autorità sono impotenti e i monatti diventano i padroni delle stra diffondono le leggende più assurde sugli untori e anche i dotti sostengono teorie fallaci. Opin Borromeo e Muratori sugli untori. I processi a carico dei presunti untori. Preannuncio della S colonna infame. I magistrati chiedono aiuto al governatore contro l'epidemia L'epidemia continua a diffondersi a Milano e il 4 maggio 1630 i magistrati cittadini decidono di rivolgersi al governatore, nel frattempo ripartito a porre l'assedio a Casale. Due emissari lo raggiungono sul campo di battaglia e gli chiedono provvedimenti fiscali urgenti per far fronte all'emergenza, tra cui la sospensione delle imposte governative e la cessazione di nuovi alloggiamenti militari, pregandolo inoltre di informare il re della situazione. Ambrogio Spinola risponde con una lettera in cui manifesta profondo dispiacere e promette alcuni vaghi provvedimenti, di fatto però non assumendo alcuna decisione concreta. Il gran cancelliere Antonio Ferrer gli scrive manifestandogli il disappunto della città, tuttavia il carteggio non sortisce effetti e poco dopo il governatore gli trasferisce ogni potere riguardo alla peste, dal momento che lui deve occuparsi delle questioni militari. Lo scrittore osserva incidentalmente che la guerra finirà con un nulla di fatto, poiché dopo un milione di morti causati principalmente dalla peste, dopo le devastazioni compiute dai soldati tedeschi in Lombardia e il tremendo saccheggio di Mantova, alla fine i belligeranti riconosceranno il duca di Nevers come signore di quella città, mentre altri trattati politici verranno conclusi tra le parti in causa portando a cessioni inconcludenti di territori. Richiesta al cardinal Borromeo di indire una processione. Gli untori I magistrati di Milano prendono anche un'altra decisione, ovvero chiedere al cardinal Borromeo di indire una processione solenne per portare il corpo di S. Carlo per le vie della città, al fine di stornare la minaccia della peste. Federigo sulle prime rifiuta, dal momento che, in caso di insuccesso, la cittadinanza potrebbe perdere la propria fiducia nella protezione del santo, inoltre teme che il radunarsi della folla dia modo ai cosiddetti "untori" di spargere più facilmente le loro sostanze venefiche, ammesso che tali personaggi esistano, mentre in ogni caso l'afflusso di gente per le strade aumenterebbe il rischio di contagio. A Milano infatti il sospetto delle "unzioni" è tornato a diffondersi e molti credono di vedere le mura e gli usci delle case imbrattati da strane sostanze, per cui tali notizie volano di bocca in bocca e ben presto tutti o quasi sono convinti dell'esistenza degli untori, cosa che accresce il furore popolare. Si pensa che gli unguenti venefici siano composti di rospi, serpenti, bava degli appestati, che gli untori si servano di incantesimi e magie; le prime unzioni non avevano dato effetto solo perché gli scellerati non erano ancora esperti, trattandosi delle prime prove. Nessuno osa negare apertamente che esista una sorta di complotto per spargere la peste, chi lo facesse passerebbe per pazzo o, peggio, per complice degli untori. I cittadini iniziano a sospettare di chiunque e, ben presto, si verificano i primi casi di linciaggio e di giustizia sommaria. Due casi di linciaggio contro presunti untori Il Ripamonti cita nella sua storia della peste due fatti che provano il crescente furore popolare contro i presunti untori, non perché tali episodi siano più gravi di altri ma solo perché lo scrittore secentesco vi aveva assistito di persona. Un giorno, nella chiesa di S. Antonio, un vecchio ottantenne prega in ginocchio per qualche tempo e poi, prima di mettersi a sedere, spolvera la panca col proprio mantello. Alcune donne gridano che il vecchio "unge" le panche e gli uomini presenti gli si gettano contro, prendendolo per i capelli e tempestandolo di calci e pugni, per poi trascinarlo fuori dalla chiesa e portarlo al palazzo di giustizia (è improbabile che l'uomo sia sopravvissuto). L'altro caso ha per protagonisti tre giovani francesi presenti a Milano, i quali sono visti mentre si accostano al Duomo e ne toccano le mura, probabilmente solo per curiosità o studio. La folla li riconosce come francesi dal vestiario e ciò è sufficiente a dar loro la taccia di untori: vengono circondanti, malmenati e trascinati al palazzo di giustizia, dove per loro fortuna vengono riconosciuti innocenti e liberati. La caccia agli untori. Il cardinale acconsente alla processione La psicosi degli untori non si sparge solo in città, ma anche nelle campagne intorno a Milano e un po' dappertutto in Lombardia, al punto che chiunque appaia solo sospetto, come il viandante uscito dalla strada principale o il forestiero dall'aspetto bizzarro, viene immediatamente accusato dalla folla e preso a calci e pugni, oppure portato in prigione dove, almeno in un primo tempo, questi sventurati possono trovare la salvezza. In questo stato di cose i magistrati di Milano rinnovano al cardinal Borromeo la loro richiesta relativa alla processione e il prelato alla fine accetta, probabilmente per le pressioni del popolo che chiede a gran voce l'esposizione della salma di S. Carlo o forse per debolezza umana, cosa che è impossibile stabilire con certezza. Il cardinale non solo acconsente alla solenne processione, ma anche al fatto che in seguito le reliquie del santo rimangano esposte per otto giorni in una cassa sull'altare maggiore del Duomo. La processione dell'11 giugno 1630 Il Tribunale di Sanità, pensando al rischio del contagio, non oppone alcuna obiezione alla processione e si limita a prescrivere regole più restrittive per l'ingresso in città dall'esterno e ordina di inchiodare gli usci delle case dei malati di peste, per impedire agli infetti di mescolarsi alla folla. Dopo tre giorni di preparativi, l'11 giugno 1630 la processione si avvia dal duomo alle prime luci dell'alba, preceduta da una lunga schiera di popolani tra cui molte donne; seguono le corporazioni cittadine coi loro gonfaloni, gli ordini monastici, i preti che portano in mano una torcia; in mezzo, portata da quattro canonici, avanza la cassa contenente le spoglie di S. Carlo Borromeo, in cui si intravede il corpo vestito di splendidi abiti e il teschio con la mitra, con alcune fattezze che ancora ricordano l'aspetto del santo quale appare nei dipinti d'epoca. Dietro la reliquia segue il cardinal Federigo e il resto del clero, quindi i magistrati e i nobili, alcuni dei quali vestiti con sfarzo e altri, al contrario, che indossano cappe nere col cappuccio sul viso, in segno di penitenza. Il corteo è chiuso da una coda di popolani e avanza tra le strade parate a festa, con le case abbellite da stemmi, fiori, oggetti variopinti; molti malati sequestrati in casa osservano la processione dalle finestre, mentre le altre vie restano in silenzio, con un'atmosfera quasi spettrale. La processione passa per quasi tutti i quartieri di Milano e compie delle soste nei carrobi (i crocicchi delle strade) per deporre la cassa con la reliquia accanto alle croci erette al tempo della peste del 1576, per cui il corteo ritorna in duomo quando mezzogiorno è passato da un pezzo. La furia del contagio aumenta Fin dal giorno successivo alla processione, che secondo molti dovrebbe aver fatto cessare la peste, al contrario il contagio cresce furiosamente in ogni punto della città e in ogni classe sociale, in modo così repentino che nessuno può dubitare che la causa sia stata la processione medesima. Tuttavia ciò viene attribuito dai più non al concorso di folla che ha moltiplicato le occasioni di contatto e diffusione del morbo, bensì all'azione degli untori che avrebbero approfittato della ressa per spargere con maggiore facilità i loro unguenti malefici; e poiché nessuno ha visto nel corteo macchie di unto sui muri né altrove, si pensa che gli untori abbiano sparso delle polveri venefiche e che queste, attaccatesi ai vestiti e ai piedi scalzi di molti partecipanti al corteo, abbiano contribuito alla diffusione più virulenta e micidiale della peste. Sta di fatto che da questo momento la furia del contagio cresce ogni giorno di più e la peste miete vittime in tutte le case, mentre la popolazione del lazzaretto cresce da duemila a dodicimila persone e la mortalità ai primi di luglio tocca il numero di cinquecento decessi al giorno. Più avanti, quando l'epidemia toccherà il suo apice, i morti giornalieri saranno più di mille e alla fine la popolazione milanese scenderà da da circa duecentocinquantamila abitanti a poco più di sessantamila, anche se - avverte il narratore - queste cifre sono da considerare con grande cautela data la loro poca attendibilità. Monatti, apparitori, commissari. Difficoltà crescenti delle autorità In una situazione simile il compito dei magistrati cittadini è a dir poco arduo, poiché essi debbono senza molti mezzi provvedere alle tante necessità e, ad esempio, sostituire spesso i funzionari che si occupano dell'assistenza ai malati e di altre incombenze inerenti la malattia, tra cui monatti, apparitori, commissari. I primi sono coloro che portano via i cadaveri dalle case per seppellirli, che conducono i malati al lazzaretto e ne bruciano i vestiti infetti, quindi svolgono le attività più pericolose (il loro nome è di origine incerta e forse, secondo l'autore, deriva dal tedesco monathlich, "mensuale", poiché venivano assunti di mese in mese). Gli apparitori invece precedono i carri dei morti e suonano un campanello per avvertire i passanti di star lontano, mentre i commissari sono i funzionari della Sanità che hanno il compito di sovrintendere agli uni e agli altri. Tra le molte necessità vi è quella di rifornire il lazzaretto di medici, di farmaci, di vitto, preparare nuovi spazi per accogliere i malati in numero sempre crescente; a tale scopo vengono erette alla meglio delle capanne nello spiazzo centrale del lazzaretto e se ne costruisce un secondo, circondato da un semplice asse di legno, in grado di ospitare quattromila persone. Si pensa di costruire altri due luoghi simili, ma il progetto viene abbandonato per la mancanza di denaro. La situazione peggiora di giorno in giorno e si arriva al punto che non si è in grado di provvedere a molte necessità, per esempio molti bambini rimasti orfani muoiono perché nessuno è in grado di occuparsene. I magistrati cittadini fanno ciò che possono, ma il loro impegno è sterile anche per la mancanza di mezzi finanziari, dal momento che il governatore, impegnato nell'assedio di Casale, usa tutto il denaro disponibile per le paghe dei soldati e si disinteressa di fatto alle sorti della città sconvolta dalla peste. L'impegno degli ecclesiastici nell'assistenza ai malati Fra i bisogni della città c'è anche quello, penosissimo, di dare sepoltura ai morti: l'unica fossa scavata vicino al lazzaretto rimane colma e i morti restano insepolti in ogni parte della città, per cui i magistrati non sanno a chi rivolgersi per compiere quel triste compito. Il presidente del Tribunale di Sanità chiede allora aiuto ai frati cappuccini che governano il lazzaretto e padre Michele si impegna a provvedere alla necessità nel giro di quattro giorni. Il frate si reca con un confratello e alcuni funzionari della Sanità nel contado e, valendosi dell'autorità del proprio abito, raduna circa duecento contadini disposti a scavare fosse; conclusa questa operazione, i monatti raccolgono i cadaveri e li portano per la sepoltura, cosicché la promessa di padre Michele è mantenuta. In un'altra occasione il lazzaretto si trova senza medici e ne vengono reclutati altri grazie a notevoli offerte di denaro, non senza fatica; quando scarseggiano i viveri, al punto che i malati rischiano di morire di fame, supplisce la carità privata di alcuni cittadini, poiché nelle gravi calamità - osserva il narratore - non mancano mai quelli che mantengono intatto il coraggio e compiono fino in fondo il proprio dovere, oppure assumono incarichi che non gli competono in forza della carità cristiana e dell'amore per il prossimo. Grandissimo è poi l'impegno di tutti gli ecclesiastici, che non cessano mai di assistere i malati, di portar loro i conforti spirituali e materiali, per cui più di sessanta parroci di Milano cadono vittime del contagio e muoiono. L'impegno del cardinal Borromeo Il cardinal Borromeo non rinuncia durante la terribile calamità a dare esempio di sollecitudine e ad incitare tutti a prodigarsi per assistere i bisognosi: benché quasi tutto il personale dell'arcivescovado sia morto di peste e nonostante numerosi inviti a lasciare Milano per non esporsi al contagio, Federigo resta al suo posto e, pur osservando quelle minime cautele per evitare di contrarre il morbo, non si cura troppo del pericolo e si reca spesso in visita ai lazzaretti, porta soccorso agli ammalati, aiuta i sequestrati nelle case e si trattiene presso i loro usci, ascoltando le loro lamentele. Esorta di continuo gli ecclesiastici e i parroci a non venir meno al loro dovere, poiché la morte sarebbe un premio e una consolazione per una vita spesa nel servizio al prossimo. Egli si caccia senza alcun timore nel mezzo della pestilenza e alla fine ne esce illeso, meravigliandosi egli stesso di ciò che può sembrare un miracolo. Impotenza delle autorità. I monatti padroni delle strade Nei disastri pubblici ci sono spesso esempi di carità e benevolenza, ma ce ne sono purtroppo anche molti di segno opposto ed è il caso della peste a Milano: molti criminali approfittano della debolezza delle pubbliche autorità per spadroneggiare e tra questi vi sono gli stessi monatti e gli apparitori, normalmente reclutati tra i peggiori individui che accettano questo tremendo lavoro allettati dalle possibilità di rubare e saccheggiare. Specialmente i monatti, quando la situazione diventa insostenibile per il diffondersi del contagio e i commissari di Sanità non riescono più a controllare il loro operato, diventano i padroni delle strade e approfittano della peste per compiere ogni sorta di abusi, saccheggiando le case dei malati, minacciando di portare i sani al lazzaretto se questi non pagano un riscatto, facendosi pagare a caro prezzo i loro servizi quando, ad esempio, devono portar via i cadaveri putrefatti. I monatti sono sospettati addirittura di lasciar cadere apposta dai carri cenci infetti per spargere la peste e prolungare quell'occasione di guadagno, mentre è certo che alcuni fingono di ricoprire quel ruolo portando un campanello al piede (come è prescritto ai monatti per avvisare che del loro avvicinarsi) e ne approfittano per entrare nelle case e farla da padroni. Le abitazioni vuote o abitate da malati vengono saccheggiate dai ladri e, spesso, la stessa cosa viene fatta anche dai "birri" conniventi con i peggiori criminali. La paura degli untori alimenta il sospetto Insieme alla malvagità aumenta anche la follia, specie il terrore degli untori che non accenna a placarsi e, anzi, alimenta nuove paure e nuovi vaneggiamenti tra la popolazione milanese. Il Ripamonti osserva nella sua storia della peste che la paura degli untori fa vivere tutti nel sospetto reciproco e si comincia a diffidare degli amici, dei parenti stretti, persino del proprio padre o figlio, persino del coniuge. Se al principio si credeva che gli untori agissero per denaro o dietro la promessa di onori, adesso si è convinti che essi siano spinti da una volontà diabolica, per incarico dello stesso demonio; i vaneggiamenti degli ammalati, che nel delirio accusano se stessi di aver fatto ciò che temevano facessero gli altri, i loro gesti inconsulti, tutto alimenta la certezza che gli untori esistano, non diversamente dai processi per stregoneria in cui, non di rado, gli accusati confessano crimini mai commessi in modo spontaneo e senza subire la tortura, semplicemente perché la superstizione li ha convinti che certi atti siano possibili a tutti, quindi anche a loro stessi. Leggende e assurde invenzioni sugli untori Tra le leggende che la paura degli untori diffonde a Milano ce n'è una che merita di essere ricordata, se non altro per la rinomanza che acquista all'epoca: si racconta che un tale, passando sulla piazza del Duomo, vede arrivare una carrozza trainata da sei cavalli, con all'interno un uomo dal volto acceso, i capelli dritti e il viso minaccioso. La carrozza si ferma e il cocchiere invita a salire il passante, il quale è soggiogato e non può rifiutare. Viene condotto in un palazzo che mostra all'interno deserti e giardini, caverne e sale, nonché spettri e fantasmi; gli vengono mostrate casse piene di denaro e viene invitato a prenderne quanto ne vuole, a patto però che accetti un vasetto di unguento e che si impegni a imbrattare con esso i muri della città. L'uomo rifiuta e, prodigiosamente, si ritrova subito nel luogo dove era stato prelevato. Questa assurda favola circola non solo a Milano ma in tutta Italia e anche all'estero; in Germania si realizza una stampa che raffigura la vicenda e l'elettore arcivescovo di Magonza scrive addirittura al cardinal Borromeo per chiedergli se c'è qualcosa di vero in quel racconto, ricevendo come risposta che ovviamente sono tutte assurdità. Vaneggiamenti dei dotti sulla peste Non solo il popolo farnetica a proposito della peste e degli untori, ma vaneggiamenti simili circolano anche fra i dotti e provocano danni ancora peggiori: molti studiosi infatti credono che l'epidemia sia stata causata da una cometa apparsa nel 1628 e da una congiunzione astrale di pianeti, foriera di terribili calamità, mentre un'altra cometa, apparsa nello stesso 1630, sembra confermare l'infausta previsione. Scrittori antichi e moderni vengono citati a sostegno di varie teorie, inclusa quella sugli untori, e fra questi specialmente gli autori di libri e trattati di magia nera, nel Seicento tanto di moda tra i dotti; tra essi spicca Martino Delrio, autore di Disquisizioni magiche divenute poi il testo più autorevole in fatto di pratiche magiche, fonte di torture e processi per stregoneria ai tempi dell'Inquisizione (il narratore osserva che l'opera funesta di Delrio è costata la vita a moltissime persone e se la fama di uno scrittore si dovesse misurare col bene o col male prodotto, egli sarebbe tra i più celebri). Persino i medici avvalorano l'ipotesi dell'esistenza degli untori e fra questi il Tadino, che pure era stato tra i primi a mettere in guardia sul rischio del contagio e che ora, invece, sostiene la veridicità delle unzioni prendendo come prova le farneticazioni dei malati nel delirio, come l'assurda storia di un appestato che aveva visto in camera un'apparizione diabolica e gli era stata promessa la guarigione e danari, se avesse accettato di ungere le case (al suo rifiuto, erano apparsi un lupo e tre gatti, animali diabolici). Del resto il Tadino, uno degli studiosi più rinomati del suo tempo, non è l'unico a ragionare in tal modo e si può concludere che la follia degli untori coinvolge ormai l'intera popolazione milanese, dai più umili ai più assennati. Opinioni illustri sugli untori: Borromeo e Muratori Secondo alcuni, il cardinal Borromeo avrebbe dubitato della realtà degli untori: Manzoni vorrebbe poter dire che Federigo, in questa come in altre cose, si distingueva dai contemporanei, invece purtroppo è costretto ad ammettere che il prelato subiva la forza del pregiudizio e se anche riteneva che ci fosse molto di esagerato nella paura degli untori, pure ammetteva che il fatto avesse un fondo di verità (ciò è dimostrato da un'operetta da lui scritta sulla peste e tuttora conservata alla Biblioteca Ambrosiana di Milano). Molti all'epoca ritenevano che la storia delle unzioni non fosse reale, tuttavia non osarono mai dirlo apertamente e noi conosciamo la loro opinione grazie a quegli autori che la deridono o a quelli che citano tali posizioni in quanto riportate dalla tradizione: tra questi Ludovico Antonio Muratori in uno scritto sulla peste del 1714, lo stesso in cui pure accenna all'opinione in merito del Borromeo. Il buon senso, conclude Manzoni, c'era ancora in molte persone, ma stava nascosto per timore del senso comune, del pregiudizio che ormai dominava incontrastato nelle menti della maggioranza. I processi contro gli untori e la "Colonna infame" I magistrati, man mano che il contagio cresce e miete sempre più vittime, iniziano a usare le poche energie residue per dare la caccia agli untori e in alcuni casi si crede di averne individuato alcuni: tra i documenti del tempo della peste c'è una lettera inviata dal gran cancelliere Ferrer al governatore, in cui lo informa di aver saputo che in una casa di campagna di due nobili fratelli milanesi si produce il mortale unguento e di voler prendere tutti i dovuti provvedimenti per assicurare gli autori del fatto alla giustizia (fortunatamente la cosa non sortisce poi alcun effetto). In altri casi, invece, si istruiscono dei processi a carico di presunti untori ed essi sono solo gli ultimi di una lunga serie di procedimenti simili, celebrati già nel XVI sec. in varie parti d'Italia e conclusisi per lo più con l'esecuzione degli accusati a mezzo di atroci supplizi. I processi che si sono svolti a Milano sono tuttavia i più noti e anche quelli più facili da studiare data la presenza di documenti, come dimostra il trattato Osservazioni sulla tortura di cui è autore Pietro Verri: nonostante quell'opera tratti ampiamente il caso, sia pure al fine di argomentare contro la pratica criminale della tortura, Manzoni ritiene che ci sia materiale sufficiente per scrivere un nuovo trattato, che ovviamente non può trovare spazio nel romanzo e che sarà perciò pubblicato a parte, con l'estensione che merita. Per il momento il narratore intende tornare alle vicende dei protagonisti, col proposito di non abbandonarle più sino alla fine.