DIRITTO ED ECONOMIA DELLE SOCIETÀ 3. SOCIETÀ DI PERSONE «Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili». È questo il testo dell’art. 2247, titolato «Contratto di società». Dunque, la società nasce da un atto negoziale proprio dell’autonomia privata. Si fa riferimento a tre elementi principali: a) i conferimenti; b) l’attività economica; c) il lucro. Il nesso fra tali tre elementi è chiaro: tramite i conferimenti si raccolgono risorse economiche, che costituiscono un patrimonio strumentale all’esercizio di un’attività produttiva che deve consentire ai suoi titolari di realizzare e ripartire un profitto. 1.1 CARATTERI GENERALI Sono società di persone, o società personali, la società semplice (s.s.), la società in nome collettivo (s.n.c.) e la società in accomandita semplice (s.a.s.). I tratti fisionomici propri di tutti i tipi personalistici sono: a) Sotto il profilo delle responsabilità: tutte le società di persone devono avere almeno un socio che assuma responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, in solido con la società. b) Sotto il profilo dell’organizzazione: tutte le società di persone possono prescindere da una struttura interna basata su una pluralità di organi. Ampia discrezionalità è lasciata all’esercizio dell’autonomia statutaria, ma in assenza di previsioni che attribuiscano alla società una struttura corporativa il modello organizzativo proprio delle società di persone è tale per cui tutti i poteri sono rimessi ai soci e non a particolari organi. c) Sotto il profilo dell’amministrazione: in tutte le società di persone ai soci con responsabilità illimitata è riconosciuto il diritto di amministrare la società. All’opposto, di regola è richiesto il consenso di tutti i soci per le modificazioni dell’atto costitutivo. d) Sotto il profilo del carattere personalistico del ruolo dei soci: in tutte le società di persone i soci si vedono riconosciuti poteri indipendentemente dall’ammontare del capitale conferito. Non vige, cioè, il principio maggioritario che regola il funzionamento degli organi delle società di capitali. Alla società di persone non è riconosciuta personalità giuridica, ovvero la caratteristica delle sole società di capitali (come stabilito dal codice civile del 1942) che viene riconosciuta in presenza di un certo grado di analogia tra la soggettività degli enti collettivi e la soggettività degli individui; analogia che consente di dire che le persone giuridiche sono soggetti di diritto in senso traslato. Nelle società di persone i singoli soci non possono rivalersi sul patrimonio della società per soddisfare i propri crediti. Finché dura la società possono far valere i loro diritti solo sugli utili spettanti al proprio debitore e compiere atti conservativi sulla quota allo stesso spettante nella liquidazione della società, principio che è ulteriormente temperato nella società semplice, dal momento che al creditore personale del socio è consentito di ottenere la liquidazione della quota del proprio debitore qualora gli altri beni siano insufficienti a soddisfare il suo credito. I creditori della società non possono rivalersi sul patrimonio personale dei soci illimitatamente responsabili. Per meglio dire: non lo possono fare direttamente. È infatti necessario che prima aggrediscano il patrimonio della società e, solo se il tentativo di soddisfacimento del credito non abbia avuto successo (infruttuosa escussione del patrimonio sociale), potranno agire nei confronti dei soci. In ogni caso, per quanto le società di persone non godano di personalità giuridica nei termini netti e inequivocabili che valgono per le società di capitali, tuttavia esse devono essere considerate come centri di imputazione giuridica autonomi e differenti dai soci. 1.2 EVOLUZIONE STORICA La società semplice fa la sua comparsa nell’ordinamento societario italiano con questo nome, oltre che dotata degli attributi giuridici coi quali abbiamo cominciato a prendere confidenza, quando viene introdotta dal legislatore nel codice civile del 1942. Mentre il codice commerciale di fine Ottocento annoverava i tipi personalistici della società in nome collettivo, della società in accomandita semplice e della società anonima, alla stregua di società di persone il codice civile contempla, a fianco di s.n.c. e s.a.s., appunto la società semplice, e a tale inedito assetto si arriva dopo anni di stesure. Dal punto di vista funzionale probabilmente la società semplice fu concepita come vincolo contrattuale fra due o più persone al fine di realizzare una comunione di godimento di beni mobili o immobili, e nulla più di questo; dal punto di vista strutturale, invece, la sua genesi è parsa strumentale precisamente a creare un modello normativo articolato per rinvii successivi, apprezzabile per evidenti motivi di economia regolativa. Se la società semplice presenta questi caratteri funzionali e strutturali, intesi a definire una fattispecie negoziale che produce effetti tra le parti ma non verso i terzi, com’è proprio di ogni contratto dagli effetti obbligatori, ciò accade perché le società di persone contemporanee trovavano il proprio precedente moderno nella società civile, di derivazione napoleonica e annoverata anche dal codice commerciale del 1865. E volendo andare molto più indietro nel tempo arriveremmo a individuare nel contratto di societas romana il prototipo letteralmente originario. Anche in quel caso si trattava di una fattispecie negoziale improduttiva di effetti nei confronti dei terzi. Nel 1942 la prospettiva regolativa è ribaltata e la società semplice viene modellata sulle fattezze non tanto della società civile, quanto delle società personali deputate a svolgere un’attività commerciale. 1.3 FONTE DELLA DISCIPLINA E ASSETTO SISTEMATICO La società semplice costituisce il prototipo delle società di persone nel senso che alla società semplice è destinata dal codice civile una disciplina compiuta, mentre la disciplina della società in nome collettivo e della società in accomandita semplice si ricava per così dire a cascata dalla prima, attraverso un articolato sistema di rinvii approntato dal legislatore del 1942. Alla società in nome collettivo è infatti dedicata una serie di norme specifiche (gli artt. 2291-2312), che regolano gli aspetti per i quali la disciplina della collettiva si distacca da quella della società semplice, mentre sotto ogni altro profilo vale il rinvio alle norme di questa seconda, ossia appunto la società prototipo del tipo personalistico. Ai sensi dell’art. 2293, infatti, «la società in nome collettivo è regolata dalle norme di questo capo e, in quanto queste non dispongano, dalle norme del capo precedente». Analogamente alla società in accomandita semplice si applicano le norme ad essa espressamente rivolte e che qualificano questo tipo societario (artt. 2313-2324), mentre sotto ogni altro profilo vale il rinvio alle disposizioni che regolano la società in nome collettivo. Le norme che regolano l’attività della società semplice rappresentano la disciplina generale della società di persone, che viene quindi a essere costituita dalle norme sulle modificazioni del contratto sociale, sui conferimenti dei soci, sull’uso delle cose sociali, sull’amministrazione della società, sugli utili della società e i modi della loro ripartizione tra i soci, sulla responsabilità del nuovo socio, sull’autonomia del patrimonio sociale, sullo scioglimento e la liquidazione della società, sullo scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio. 2. TIPI SOCIETARI PERSONALISTICI Prototipo delle società di persone è la società semplice, tipo societario individuato in negativo, nel senso che non può esercitare un’attività commerciale; si tratta cioè del tipo societario la cui disciplina si applica quando risulta che le parti non abbiano voluto adottare la forma di una delle società commerciali. La società semplice può dunque essere utilizzata solo per le attività agricole e per l’esercizio in forma associata delle attività libero-professionali (a differenza di s.n.c. e s.a.s.). 2.1 LA SOCIETÀ SEMPLICE Le società di persone si costituiscono, come tutte le società, secondo quanto previsto dalla norma cardine del diritto societario (art. 2247), con il contratto di società. Per la costituzione della società semplice, in particolare, la regola prevede una libertà formale pressoché assoluta: l’art. 2251 recita che «nella società semplice il contratto non è soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla natura dei beni conferiti». Vale, cioè, il principio di libertà delle forme proprio di ogni contratto secondo quanto previsto dall’art. 1325. La costituzione può avvenire stipulando un contratto scritto, ma si può realizzare anche verbalmente, così come l’esistenza della società si può desumere da comportamenti tenuti dai soci. Si parla al proposito di comportamento concludente, e in tal caso si tratta di un contratto non formale, concluso tacitamente, col quale si costituisce una società di fatto. La regola della libertà delle forme subisce però un’importante eccezione. È necessario il ricorso a forme speciali se le medesime siano richieste per la disposizione di dati beni conferiti in società, come accade tipicamente se il conferimento abbia ad oggetto la proprietà di un bene immobile. Secondo l’opinione dominante il mancato rispetto della forma richiesta per il caso concreto non implica l’invalidità del contratto di società. Verrebbe meno, allora, la sola partecipazione del socio in questione, tranne nel caso in cui a quel conferimento debba riconoscersi una funzione essenziale ai fini della costituzione della società. Il principio di libertà attiene poi non solo alla forma, ma anche al contenuto del contratto di società semplice: l’art. 2251 non dispone alcunché relativamente al contenuto minimo dell’atto costitutivo. La conseguenza è che nell’atto costitutivo possono essere rappresentati anche solo i dati essenziali alla costituzione. In via interpretativa si ritiene perlopiù che debbano tuttavia indicarsi la ragione sociale e la sua sede, l’oggetto sociale, i soci. Ma gli altri elementi possono mancare e comunque si ricavano da norme specifiche della disciplina della società semplice: così fa l’art. 2253 quanto ai conferimenti, l’art. 2257 quanto alla titolarità dei poteri di amministrazione, l’art. 2263 quanto alla ripartizione dei guadagni e delle perdite. In particolare, l’art. 2251 non impone di indicare l’ammontare del capitale sociale, istituto che nemmeno trova riferimenti suppletivi in altre disposizioni dedicate alla società semplice. Scelta coerente col fatto che tale società, in quanto esercente attività non commerciale, sia esonerata dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili. Alle società semplici è richiesta l’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese: l’iscrizione non richiede di presentare un atto costitutivo redatto secondo forme speciali e ha funzione di certificazione anagrafica. Si parla in questo caso di pubblicità notizia proprio per significare che essa assolve a una funzione di mera segnalazione e non anche a una funzione giudizialmente dichiarativa. I conferimenti sono necessari, ma non è indispensabile che sia determinato il loro ammontare: l’art. 2253 precisa, infatti, che «se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a conferire, in parti eguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale». L’art. 2253 è importante anche perché implicitamente rievoca e conferma il testo della più volte citata norma fondamentale del diritto societario (art. 2247): da un lato si ribadisce che i conferimenti risultano essenziali per la costituzione di una società, preordinati come sono a garantire lo svolgimento di un’attività comune; dall’altro la norma non pone limiti all’autonomia statutaria, limiti che non compaiono nello stesso art. 2247. Da tutto ciò consegue che possono essere conferiti denaro e crediti, beni e servizi, cioè cose (in proprietà e in godimento) e prestazioni (di fare e di non fare): a) Il conferimento in denaro non pone problemi particolari: non può mai diventare impossibile. b) Il conferimento di beni in proprietà è regolato dal primo comma dell’art. 2254, per cui «la garanzia dovuta dal socio e il passaggio dei rischi sono regolati dalle norme sulla vendita»: ciò significa che il socio è tenuto alla garanzia per evizione e per vizi e su di lui grava il rischio del perimento per caso fortuito della cosa conferita sino al momento in cui la proprietà del bene non sia passata in capo alla società. c) Il conferimento di crediti è disciplinato dall’art. 2255: «il socio che ha conferito un credito risponde della insolvenza del debitore, nei limiti indicati dall’art. 1267 per il caso di assunzione convenzionale della garanzia»: ciò significa che in caso di insolvenza del debitore il socio risponderà nei limiti del valore attribuito al credito trasmesso a titolo di conferimento, e sarà tenuto a rimborsare le spese e corrispondere gli interessi. d) Il conferimento d’opera è quello effettuato da un socio che si obblighi a eseguire una prestazione di lavoro. Tale impegno non fa del socio un lavoratore subordinato: ne consegue che il conferente la prestazione di lavoro non ha diritto a salario e copertura previdenziale, ma viene remunerato nella forma della sua partecipazione ai guadagni della società. 2.2 GLI UTILI E LA RESPONSABILITÀ DEI SOCI Le regole sulla partecipazione agli utili hanno, com’è immaginabile, un rilievo di primo piano per tutti i soci e non solo per chi conferisca la propria opera. Gli artt. 2262-2265 costituiscono la disciplina sulla ripartizione di guadagni e perdite e il primo articolo di questa serie stabilisce nitidamente che, «salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto». Viene dunque riconosciuto un diritto alla distribuzione annuale degli utili realizzati dall’impresa e risultanti dal bilancio della società (a differenza delle società di capitali, in cui è l’assemblea dei soci a decidere a maggioranza se distribuire o meno gli utili e come farlo). La proporzione di tale assegnazione è invece di pertinenza del contratto sociale e i soci, nell’esercizio dell’autonomia statutaria, avranno la possibilità di differenziare il trattamento parametrandolo sull’importanza di ciascuno. L’unico limite posto dall’ordinamento ai termini della ripartizione è costituito dal cosiddetto patto leonino: «è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite» sancisce l’art. 2265, che dunque impedisce a chicchessia di fare la parte del leone escludendo la partecipazione di altri soci agli utili o escludendo la propria partecipazione alle perdite. La nullità del patto non implica la nullità del contratto di società, che in casi del genere risulta però sprovvisto di determinazione della misura di condivisione di utili e perdite da parte dei soci. Soccorre a tale bisogno l’art. 2263, ai sensi del quale «le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti. Se il valore dei conferimenti non è determinato dal contratto, esse si presumono eguali. (...) Se il contratto determina soltanto la parte di ciascun socio nei guadagni, nella stessa misura si presume che debba determinarsi la partecipazione alle perdite». È poi anche contemplata l’ipotesi che la ripartizione sia affidata a un terzo. La natura della responsabilità dei soci è definita dal più volte citato art. 2267: «i creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci». La responsabilità è relativa a ogni obbligazione sociale, sia assunta a titolo contrattuale che extracontrattuale, e «chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all’acquisto della qualità di socio» (così recita l’art. 2269). Ai sensi dell’art. 2268 «il socio richiesto del pagamento di debiti sociali può domandare, anche se la società è in liquidazione, la preventiva escussione del patrimonio sociale, indicando i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi». Art. 2270: «il creditore particolare del socio, finché dura la società, può far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al debitore e compiere atti conservativi sulla quota spettante a quest’ultimo nella liquidazione. Se gli altri beni del debitore sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti, il creditore particolare del socio può inoltre chiedere in ogni tempo la liquidazione della quota del suo debitore». Innanzitutto, il creditore può far valere i diritti sugli utili, ma anche la liquidazione sulla quota. Per quanto riguarda la responsabilità nei confronti dei creditori della società, cioè sulla sorte delle obbligazioni sociali, queste ricadono in primis sul patrimonio sociale, in virtù della regola di preventiva escussione del patrimonio. Perché tale regola operi, occorre che il socio sia in grado di indicare i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi. Si tratta di due oneri al prezzo di uno: il socio deve indicare beni alternativamente escutibili e bisogna che siano beni facilmente liquidabili. Tutti i soci di società semplice sono illimitatamente responsabili; quanto agli altri soci, il contratto può prevedere limitazioni di responsabilità. Sotto il profilo della responsabilità nei confronti dei creditori particolari dei soci, l’autonomia patrimoniale della società semplice è senz’altro ridotta, e purtuttavia sussiste. Anzitutto «non è ammessa compensazione fra il debito che un terzo ha verso la società e il credito che egli ha verso un socio» (così recita l’art. 2271): è evidente, infatti, che se il terzo potesse opporre alla società il credito verso un socio otterrebbe l’effetto di addebitare al patrimonio della società quanto dovuto dal socio. Inoltre, e soprattutto, ex art. 2270 il creditore può chiedere la liquidazione della quota del socio – ma non già aggredire direttamente il patrimonio sociale – se riesca a dimostrare che gli altri suoi beni siano insufficienti a soddisfare il proprio credito. Altrimenti potrà più limitatamente far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al socio, e compiere atti conservativi sulla quota che gli competa in sede di liquidazione. 2.3 AMMINISTRAZIONE E RAPPRESENTANZA L’amministrazione della società semplice è disciplinata da una serie di norme a capo delle quali si colloca l’art. 2257, il cui primo comma afferma che, «salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri». È cioè tipico della società semplice, e di tutte le società di persone, che i poteri di governo della società siano imputati ai proprietari della medesima, aggiungendosi alle prerogative che spettano loro in quanto soci. A meno che non sia pattuito diversamente, al socio è singolarmente imputato il potere di amministrare la società in via ordinaria e straordinaria, purché gli atti concernano l’oggetto sociale, e non deve chiedere il consenso degli altri soci. Per quanto riguarda invece i poteri che spettano ai soci non amministratori, costoro possono opporsi alle operazioni alle quali siano contrari prima della loro realizzazione e il complesso dei soci dovrà pronunciarsi su tale questione; inoltre spettano loro i poteri contemplati all’art. 2261 («i soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali, di consultare i documenti relativi all’amministrazione e di ottenere il rendiconto quando gli affari per cui fu costituita la società sono stati compiuti») e possono chiedere anche individualmente al giudice la revoca per giusta causa di un amministratore, recedere, promuovere l’esclusione di uno degli altri soci, provocare una dichiarazione giudiziale di scioglimento e la messa in liquidazione della società quando sia il caso, opporsi alla modifica dell’atto costitutivo se la deliberazione debba essere unanime. Di default la gestione segue il sistema dell’amministrazione disgiuntiva. Può però essere scelto, all’opposto, un sistema di amministrazione congiuntiva, e in questo caso dovrà altresì prevedersi che le decisioni debbano essere prese all’unanimità o a maggioranza, secondo un ordine di preferenza che è esplicitato dall’art. 2258: «se l’amministrazione spetta congiuntamente a più soci, è necessario il consenso di tutti i soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali. Se è convenuto che per l’amministrazione o per determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza, questa si determina a norma dell’ultimo comma dell’articolo precedente». L’amministrazione disgiuntiva facilita la conclusione degli affari e perciò aumenta l’efficienza gestionale della società, ma può determinare seri problemi di coordinamento tra i soci e quasi inevitabilmente pone un certo numero di soci nella condizione di accettare decisioni che in nessun modo ha contribuito a prendere. L’amministrazione congiuntiva è invece un sistema che non incorre nei problemi di insufficiente e/o inefficiente coordinamento, ma rischia di penalizzare la società per la sua maggiore lentezza e complicazione organizzativa. Essendo dunque questa la fisionomia dei meccanismi decisionali della società semplice, si ritiene che non vi sia spazio per un’assemblea di soci (anche se questi possono decidere di costituirla ugualmente): infatti l’ammissibilità di forme di amministrazione disgiuntiva, premianti la rapidità e la flessibilità nell’assumere provvedimenti di gestione societaria, contrasta radicalmente con i principi sui quali si basa la ragion d’essere dell’assemblea. Le decisioni dei soci possono perciò essere sostanzialmente ricondotte a due tipologie: le decisioni che attengono alla modifica del contratto sociale, espressamente contemplate dall’art. 2252 e che devono essere assunte all’unanimità; e più in generale tutte le decisioni inerenti all’amministrazione della società, relativamente alle quali la volontà sociale, maggioritaria o unanime a seconda di come si sia stabilito, può essere raccolta in una molteplicità di forme libere. Con quali modalità debba essere nominato un amministratore è questione complessa dato che manca una norma che ne espliciti la soluzione. Si ritiene debbano provvedervi i soci all’unanimità, e questa è la regola che vale anche per la loro revoca. Inoltre, sulla base dell’art. 2359 «la revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale non ha effetto se non ricorre una giusta causa. (...) La revoca per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio», giusta causa che consiste tipicamente nella violazione dei doveri di amministrazione. L’art. 2260 spiega anche come giudicare il comportamento dei soci amministratori e come agire contro di loro, per essere risarciti, in caso di mala gestio che abbia causato un danno al patrimonio sociale: «gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale. Tuttavia, la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa». L’azione di responsabilità può essere esperita contro tutti gli amministratori, quand’anche il regime fosse di amministrazione disgiuntiva, e si prescrive in cinque anni. La disciplina dei poteri di rappresentanza è racchiusa nell’art. 2266 così: sappiamo che nella società semplice tutti i soci illimitatamente responsabili sono per ciò stesso anche amministratori, e la regola è che i poteri di rappresentanza spettano a tutti loro. I poteri di rappresentanza spettano cioè a tutti i soci ai quali sia assegnato l’incarico di decidere quali operazioni sociali debbano essere intraprese. In altri termini il regime della rappresentanza segue il sistema di amministrazione prescelto: la rappresentanza è disgiunta se i soci amministrano disgiuntamente, congiunta se ciò fanno congiuntamente, e se tutti i soci sono amministratori la rappresentanza spetta a ciascuno di essi. La rappresentanza può però essere regolata diversamente da così, se solo i soci si avvalgano dei poteri di autonomia statutaria dei quali è ancora l’art. 2266 a legittimare l’esercizio («in mancanza di diversa disposizione del contratto, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore»). Sarà pertanto possibile realizzare assetti dei poteri di rappresentanza della società quali i seguenti: a) attribuire la rappresentanza ad alcuni soltanto dei soci amministratori; b) limitare i poteri di rappresentanza dei singoli soci amministratori, ad esempio separando la rappresentanza relativa agli atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione; c) richiedere che i poteri di rappresentanza debbano dai soci amministratori essere esercitati congiuntamente anziché disgiuntamente. In tutti i casi – e così si chiude l’art. 2266 – «le modificazioni e l’estinzione dei poteri di rappresentanza sono regolate dall’art. 1396», cioè la società sopporta l’onere di portarle a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. 2.4 LE VICENDE DEL CONTRATTO SOCIALE Manca una disciplina dell’invalidità del contratto di società semplice e questo da sempre affatica la dottrina nella ricerca delle soluzioni applicabili per dirimere le questioni connesse, rispettivamente, all’invalidità della singola partecipazione e all’invalidità dell’intero contratto sociale. 1. Il primo profilo risolve nel chiedersi se la partecipazione della cui invalidità si tratta debba considerarsi essenziale o meno per il conseguimento dell’oggetto sociale: se non lo è, la società continua a esistere – posto che i soci residui siano almeno due – e si verifica uno scioglimento unilaterale ex nunc tanto che al socio si riconosce il diritto alla liquidazione della quota ma non anche il diritto alla restituzione del conferimento; se invece lo è, viene travolto l’intero contratto sociale. In questi casi si applica infatti la disciplina generale dei contratti e in specie l’art. 1420 («Nullità del contratto plurilaterale»), secondo il quale «nei contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune, la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa nullità del contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale», nonché l’art. 1446 con analogo riguardo alle ipotesi di annullabilità. 2. Il secondo profilo riguarda a sua volta due possibili frangenti: quello in cui l’attività della società non sia ancora cominciata e quello in cui, all’opposto, siano state già assunte obbligazioni nei confronti dei terzi per via dell’inizio effettivo dell’attività sociale. a. Nel primo caso le parti potranno vedersi restituiti i beni eventualmente conferiti ed evidentemente esse saranno svincolate dal dover effettuare il conferimento se ancora non vi abbiano provveduto. b. Nel secondo caso, cioè qualora l’attività della società abbia avuto inizio, si pongono questioni di maggiore delicatezza, nel segno della necessità di tutelare i diritti dei terzi contraenti con la società, e le alternative interpretative vertono attorno all’applicabilità o meno alla società semplice dell’art. 2332 in materia di nullità della s.p.a. Nel caso di scioglimento della società occorre distinguere tra lo scioglimento del rapporto sociale relativo a un socio (a) e lo scioglimento del contratto sociale complessivamente inteso (b), ossia lo scioglimento della società. Il primo tipo (a) ricorre: 1. Nelle ipotesi di morte, recesso ed esclusione del socio (tutte ipotesi che, appunto, svincolano il socio ma non determinano lo scioglimento della società). In ognuna di queste ipotesi il valore della quota viene determinato sulla base della situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto: il socio non ha diritto alla restituzione di beni in natura che abbia conferito in società e perderà il maggior valore da essi nel frattempo acquisito, a tutto vantaggio dei soci superstiti. La morte del socio fa sorgere un diritto di credito in capo ai suoi eredi; ne consegue che la legge impone agli altri soci di liquidare la quota a loro favore. La conoscenza personale e i legami di natura fiduciaria propri specialmente delle società di persone spiegano perché non sia preferito l’ingresso automatico degli eredi nella compagine sociale. Le eccezioni a tale regola sono costituite da due possibilità alternative: procedere allo scioglimento della società o continuarla con gli eredi stessi. La scelta dev’essere effettuata entro sei mesi dalla morte del socio e nel rispetto di questo stesso termine la quota deve essere sia liquidata sia pagata (art. 2289). La decisione di sciogliere anticipatamente la società implica però che gli eredi del socio defunto perdano questo diritto alla liquidazione della quota sicché, per vedere soddisfatto il proprio credito, essi dovranno attendere la liquidazione della società e partecipare al pari dei soci alla distribuzione dell’attivo che eventualmente residui dopo che siano stati pagati i debiti sociali. Invece la decisione di protrarre l’attività della società condividendola con gli eredi implica che questi diventino soci per atto tra vivi (non iure successionis) e la quota del socio defunto sarà divisa tra loro, salva la possibilità di liquidare la partecipazione agli eredi che non intendano proseguire l’attività sociale e continuarla coi restanti e intenzionati. Emerge perciò che il legislatore manifesta una predilezione per la continuazione della società da parte dei soli soci superstiti, tanto che questa soluzione è impostata in termini di regola. L’art 2284 fa salve contrarie disposizioni del contratto sociale. 2. Il secondo tipo di scioglimento relativamente a un socio è costituito dalle ipotesi nelle quali è ammesso il recesso del socio, ossia l’interruzione del rapporto sociale per la volontà in tal senso del socio medesimo. L’art. 2285 disciplina queste ipotesi prevedendo che «ogni socio può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci. Può inoltre recedere nei casi previsti nel contratto sociale ovvero quando sussiste una giusta causa. Nei casi previsti nel primo comma il recesso deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi». Dunque, se il contratto sociale non ha termine di durata, o la società è contratta per tutta la vita di uno dei soci, ogni socio può recedere liberamente, senza che sia necessario addurre una ragione riconoscibile come legittima dall’ordinamento. Viceversa, se la società è a tempo determinato occorre una giusta causa, ossia una ragione che la giurisprudenza tende a far coincidere con la reazione del socio a un comportamento illegittimo, tenuto dagli altri soci, tale da interrompere il rapporto fiduciario. 3. Il terzo tipo di scioglimento parziale è costituito dalle ipotesi di esclusione del socio. Si riconoscono cause di esclusione obbligatoria (di diritto) e di esclusione facoltativa. a. L’esclusione di diritto è regolata dall’art. 2288, ai sensi del quale «è escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito. Parimenti è escluso di diritto il socio nei cui confronti un suo creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota a norma dell’art. 2270». In entrambe le ipotesi si dà luogo a una rottura irreversibile del rapporto sociale, per via che la quota del socio viene necessariamente distaccata dal patrimonio della società: nel caso di fallimento del socio l’esclusione (che opera dal giorno della sua dichiarazione) si giustifica per evitare ciò che diversamente sarebbe inevitabile, ossia il subentro del curatore fallimentare nella compagine sociale; nel caso della liquidazione della quota (che opera solo dal momento in cui essa sia stata effettivamente realizzata) l’esclusione si giustifica con la perdita da parte del socio della qualità stessa di socio per effetto della liquidazione. b. Per l’esclusione facoltativa, regolata dall’art. 2286, sono contemplate le cause di esclusione per gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge e dal contratto sociale, l’interdizione del socio, la sua inabilitazione o la condanna del medesimo a una pena che comporti l’interdizione anche temporanea dai pubblici uffici (anche qui per evitare che si integrino nella compagine sociale soggetti terzi), e anche le varie forme di sopravvenuta impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile agli amministratori. Il procedimento di esclusione, regolato dall’art. 2287, prevede che «l’esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci, non comprendendosi nel numero di questi il socio da escludere, ed ha effetto decorsi trenta giorni dalla data di comunicazione al socio escluso. Entro questo termine il socio escluso può fare opposizione davanti al tribunale, il quale può sospendere l’esecuzione. Se la società si compone di due soci, l’esclusione di uno di essi è pronunciata dal tribunale, su domanda dell’altro». Lo scioglimento della società di persone (b) si determina in corrispondenza di una serie di ipotesi elencate dall’art. 2272, circostanze in cui lo scioglimento opera di diritto, ossia automaticamente, e non è quindi necessaria una deliberazione sociale che lo accerti: 1) «per il decorso del termine», salvo che sia deliberata la proroga della società o se essa sia tacita, cioè desumibile dal comportamento di soci che continuino «a compiere le operazioni sociali» (ex art. 2273, e in tal caso si tratta addirittura di proroga a tempo indeterminato); 2) «per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo», purché si tratti di impedimenti assoluti e definitivi; 3) «per la volontà di tutti i soci», salvo che l’atto costitutivo preveda la possibilità di deliberare lo scioglimento a maggioranza; 4) «quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita», regola che implicitamente attesta che per sei mesi la società può essere costituita e gestita da un socio solo; 5) «per le altre cause previste dal contratto sociale», ad esempio se ci si accordi affinché si verifichi lo scioglimento della società qualora muoia un singolo socio. La liquidazione del patrimonio della società, ossia il procedimento tramite il quale si provvede al pagamento dei creditori sociali e alla distribuzione fra i soci dell’eventuale attivo residuo, è regolata dagli artt. 2275 ss., con norme in buona parte dispositive e come tali derogabili rispetto agli standard fissati dal codice civile. Lo scioglimento è imperativo, la liquidazione è inevitabile ma il procedimento che, attraverso la liquidazione, conduce dallo scioglimento all’estinzione della società è variamente adattabile ai casi concreti secondo le volontà dei soci. I liquidatori si rendono necessari se i soci non siano già d’accordo sui termini in cui liquidare il patrimonio della società. La loro nomina deve avvenire con voto unanime e potranno assumere tale incarico anche singoli soci, oltre a potervi provvedere gli stessi amministratori. I liquidatori hanno doveri precisi: prendono in consegna i beni e i documenti e insieme agli amministratori redigono l’inventario e provvedono a «compiere gli atti necessari per la liquidazione». Esistono due divieti a loro carico: il divieto di dividere i beni tra i soci, nemmeno parzialmente, fino a che non siano stati pagati i creditori sociali e il divieto di intraprendere operazioni che non siano in rapporto strumentale con l’attività di liquidazione («nuove operazioni»). Fase terminale della liquidazione è la ripartizione dell’attivo. Anzitutto la procedura stabilisce che i soci che abbiano conferito beni in godimento debbano riaverli nelle condizioni in cui essi si trovavano originariamente, diversamente avendo diritto all’essere risarciti. Quindi si passa alla ripartizione vera e propria, che può prevedere la restituzione di beni in natura, seguendo le norme sulla divisione delle cose comuni. 2.5 LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO La società in nome collettivo rappresenta la società commerciale per definizione, ossia il tipo societario che s’intende optato per svolgere un’attività imprenditoriale di natura commerciale. Se la società corrisponde ai caratteri fondamentali indicati nell’art. 2247, e se l’impresa non è agricola, qualora non sia espressa una preferenza per un tipo diverso si tratterà di una società in nome collettivo. L’elemento che contraddistingue una s.n.c. è riferito dalla prima norma che si occupa di questo tipo societario, ossia l’art. 2291: «nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali». La responsabilità solidale e illimitata di tutti i soci per le obbligazioni sociali parrebbe accomunare la società in nome collettivo alla società semplice. Nella società semplice la limitazione della responsabilità è consentita e regolata dal secondo comma dell’art. 2267, mentre nella società in nome collettivo la limitazione della responsabilità è consentita e regolata dal secondo comma dell’art. 2291, ai sensi del quale «il patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi»; ciò significa che il patto limitativo è valido nei rapporti interni, sicché il patrimonio di un socio può essere aggredito dai creditori della società ma il socio è legittimato ad agire in regresso per l’intero nei confronti degli altri soci. Inoltre, l’art. 2304 stabilisce che «i creditori sociali non possono pretendere il pagamento dai singoli soci se non dopo l’esecuzione del patrimonio sociale»: l’onere probatorio si rovescia e, a maggior tutela del patrimonio personale del socio, sarà compito del creditore dimostrare l’assenza di beni della società escutibili e facilmente liquidabili. L’autonomia patrimoniale della s.n.c. differisce da quella della s.s. anche sotto il profilo della responsabilità nei confronti dei creditori personali del socio. L’art. 2305 stabilisce infatti che «il creditore particolare del socio, finché dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore», neppure se prova che gli altri beni del socio siano insufficienti a soddisfare il proprio credito (nella società semplice, invece, il creditore lo può fare, purché dimostri che gli altri beni siano insufficienti). Per quanto riguarda il nome che la s.n.c. deve assumere, l’art 2292 stabilisce che «la società in nome collettivo agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale». Gli arti. 2295 e 2296 stabiliscono i requisiti di sostanza e di forma richiesti per l’atto costitutivo: a) Il cognome e il nome, il luogo e la data di nascita, il domicilio, la cittadinanza dei soci; cioè le generalità dei soci. b) La ragione sociale; cioè il nome della società. c) I soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società; cioè chi le abbia nelle ipotesi in cui esse siano state riservate ad alcuni soci soltanto, derogando alle disposizioni di default (artt. 2257 e 2266). d) La sede della società e le eventuali sedi secondarie; cioè (con riguardo alla prima) la sede amministrativa, ossia il luogo dove si amministra la società, non già la sede legale né il luogo dove sia collocata l’azienda di cui la società si serve per lo svolgimento dell’attività d’impresa. e) L’oggetto sociale; cioè l’attività imprenditoriale che i soci intendono organizzare ed esercitare. f) I conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il modo di valutazione; g) Le prestazioni a cui sono obbligati i soci di opera; cioè di carattere lavorativo. h) Le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite. i) La durata della società; cioè l’indicazione di una scadenza predeterminata. Se nella disciplina delle società di persone non è prestabilito un minimo di capitale sociale necessario per poter dare vita alla società (viene perciò a coincidere col valore dei beni conferiti dai soci e quindi con il patrimonio della società), nelle società di capitali il capitale sociale è statico, cioè una quota fissa, mentre cambia continuamente il livello del patrimonio sociale, espressione dinamica del valore dei beni e dei rapporti giuridici imputabili alla società: aumenta in conseguenza della realizzazione degli utili e diminuisce se la società accusi perdite. Gli art. 2303 (limiti alla distribuzione degli utili) e 2306 (riduzione del capitale) assicurano che, durante la vita della società, il suo patrimonio sia di ammontare pari almeno al capitale sociale. L’art. 2301, dedicato al divieto di concorrenza del socio, tutela contro eventuali rotture del vincolo fiduciario che lega i soci di società di persone. Il divieto riguarda tutti i soci attuali della società, mentre non vincola chi della società non sia più socio in quanto receduto o escluso, e prevede che «il socio non può, senza il consenso degli altri soci, esercitare per conto proprio o altrui un’attività concorrente con quella della società, né partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società commerciale». Le cause di scioglimento della società in nome collettivo sono quelle previste per la società semplice. La s.n.c. si scioglie altresì «per provvedimento dell’autorità governativa nei casi stabiliti dalla legge, e, salvo che abbia per oggetto un’attività non commerciale, per la dichiarazione di fallimento» (così l’art. 2308); fallimento che determina lo scioglimento ma non anche l’estinzione della società, destinata a prodursi alla conclusione della procedura concorsuale. Ciò che anzitutto distingue la fase di liquidazione della società in nome collettivo dalla società semplice è la necessità che la s.n.c., al verificarsi di una causa di scioglimento, passi attraverso un procedimento siffatto, laddove la liquidazione della società semplice è convenzionalmente modellabile; non dimentichiamo che l’art. 2275. si prevede infatti che «dall’iscrizione della nomina dei liquidatori la rappresentanza della società, anche in giudizio, spetta ai liquidatori». Emerge che nelle società di persone con la liquidazione gli amministratori perdono i propri poteri e inizia una fase nuova della vita della società, preordinata a scopi differenti rispetto a quelli ordinari: la società non può più lucrare svolgendo un’attività economica, ma deve realizzare il massimo guadagno possibile liquidando tale attività. In base all’art. 2311 poi «Compiuta la liquidazione, i liquidatori devono redigere il bilancio finale e proporre ai soci il piano di riparto. Il bilancio, sottoscritto dai liquidatori, e il piano di riparto devono essere comunicati mediante raccomandata ai soci, e s’intendono approvati se non sono stati impugnati nel termine di due mesi dalla comunicazione». La liberazione dei liquidatori nei confronti dei soci è la prima conseguenza sostanziale che discende dall’approvazione del bilancio finale di liquidazione. Bilancio e piano di riparto hanno evidentemente funzioni differenti, il primo certificando l’esito delle operazioni di liquidazione, il secondo realizzando la distribuzione di conferimenti e utili sulla base dei diritti spettanti a vario titolo ai soci. E da tale differenza consegue che il bilancio è, sì, precondizione per la cancellazione ma, anche quando essa si sia realizzata, sopravvivono i diritti dei partecipanti sul patrimonio che fu della società. Con la cancellazione, però, la società in quanto tale si estingue, anche se non tutti i creditori siano stati pagati; la cancellazione può anche essere disposta d’ufficio se emergano evidenze dell’assenza di attività sociale. 2.6 SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE La società in accomandita semplice rappresenta una sorta di anello di congiunzione tra le società di persone e di capitali. Storicamente la s.a.s. deriva dalla commenda, funzionale a regolare gli impegni reciproci connessi al credito effettuato da parte di banchieri e altri finanziatori a favore della realizzazione di spedizioni oltreoceano. Società in accomandita e commenda ebbero in comune l’elemento del doppio e diverso ruolo dei soci, seconda che essi appartenessero alla categoria dei finanziatori dell’impresa marittima, quali soci accomandanti che godevano della limitazione della responsabilità per le obbligazioni sociali, o che appartenessero alla categoria dei gestori della medesima, quali soci accomandatari che rispondevano illimitatamente. Dall’art. 2313 emerge che la ratio rimane la stessa: «nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali e i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita». Quindi, in una s.a.s. ai soci accomandatari spetta l’amministrazione della società, mentre i soci accomandanti sono apportatori di capitali. La disciplina della s.a.s. cerca dunque di rispondere contemporaneamente a esigenze economiche diverse ma compatibili: ripartire in modo chiaro le responsabilità gestorie e i compiti di controllo interno di chi, in quanto accomandante, non amministri la società, così come incentivare l’attività d’impresa con la limitazione della responsabilità di taluni soci e garantire altresì un’adeguata protezione dei terzi che contrattino con la società e nutrano legittime aspettative di soddisfazione dei crediti così maturati. Disciplina e atto costitutivo: in base all’ex art. 2315, «alla società in accomandita semplice si applicano le disposizioni relative alla società in nome collettivo», nella misura in cui siano compatibili con quelle dell’accomandita; sino a che non risulti iscritta nel registro delle imprese, la s.a.s. rimane sottoposta alla disciplina della società semplice, in quanto società irregolare. L’atto costitutivo della s.a.s. è regolato dalle norme previste per l’omologo della s.n.c., e analogamente la partecipazione di soggetti incapaci è rimessa alla disciplina ricavabile dall’art. 2294. Anche se in linea di massima i soci accomandanti non possono vedersi attribuiti poteri di gestione e di rappresentanza della società, propri dei soci accomandatari, qualche potere amministrativo è tuttavia riconoscibile ai soci accomandanti, come testimoniano gli artt. 2319 e 2320. A date condizioni, possono: a) nominare e revocare gli amministratori; b) concludere specifici affari; c) prestare la propria opera manuale o intellettuale; d) dare pareri ed effettuare controlli. Ma sotto ogni altro profilo vale la loro estromissione dall’amministrazione della società, sancita da un severo divieto di immistione, valido per ogni atto di amministrazione (anche se non produce effetti nei confronti dei terzi): l’art. 2320, dopo aver affermato che i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, sancisce che «il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell’art. 2286». Se l’accomandante s’inserisce nell’amministrazione ne consegue che risponde illimitatamente e solidamente per tutte le obbligazioni sociali, a qualsiasi titolo, e in caso di fallimento della società può essere dichiarato fallito così come i soci accomandatari; non diventa però accomandatario, ma perde il beneficio della responsabilità limitata nei confronti dei terzi. Il trasferimento delle quote sociali per causa di morte, (l’art. 2322), può avvenire liberamente, senza, cioè, che sia necessario acquisire il consenso dei soci superstiti; diverso è il discorso del trasferimento per causa di morte della quota del socio accomandatario che ai sensi dell’art. 2284, in linea generale è intrasmissibile salvo volontà degli altri soci superstiti di continuare la società con gli eredi. Inter vivos: la quota dell’accomandatario si trasferisce secondo le regole previste per la s.n.c., occorrendo il consenso di tutti gli altri soci (e, in caso di morte, degli eredi). Quanto alla quota dell’accomandante, invece, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo essa può essere ceduta con effetto verso la società con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale. Dunque, lo scioglimento della s.a.s. si produce per le stesse cause previste per la s.n.c., cause alle quali si aggiunge l’ipotesi di sopravvivenza di una sola categoria di soci. Anche la liquidazione e l’estinzione sono regolate dalle norme previste per la società in nome collettivo, con la precisazione espressa che dopo la cancellazione dal registro delle imprese i creditori sociali insoddisfatti possono far valere i loro crediti anche nei confronti degli accomandanti, limitatamente alla quota di liquidazione (art. 2324). 3. SOCIETÀ IRREGOLARE È irregolare la società di persone di natura commerciale che non sia iscritta nel registro delle imprese. La mancata iscrizione nel registro delle imprese non ne determina l’inesistenza ma muta la disciplina ad essa applicabile. Dal momento che l’impianto originario del codice civile non prevedeva l’iscrizione per la società semplice, la condizione di irregolarità può riguardare la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice (e di fatto molte s.n.c. risultano irregolari). La collettiva e l’accomandita vanno iscritte nella sezione ordinaria del registro delle imprese, mentre la semplice è tenuta a iscriversi nella sezione speciale. Quanto alle prime (s.n.c. e s.a.s.), l’iscrizione del contratto di società, redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata, è a cura degli amministratori o del notaio nel termine di trenta giorni dalla conclusione del contratto. Quanto alla seconda (s.s.), l’iscrizione del contratto di società, del quale non è prescritta alcuna forma particolare, è a cura degli amministratori. L’iscrizione di s.n.c. e s.a.s. consente di rendere opponibili ai terzi gli atti e i fatti che sono oggetto di iscrizione. Se invece tali società non vengono iscritte, non solo non si produce questo genere di efficacia ma si realizza l’effetto di assoggettare le menzionate società a una disciplina speciale. In primo luogo, alle s.n.c. e alle s.a.s. irregolari si applicano le norme dettate per la società semplice, con riguardo ai rapporti tra la società e i terzi, e a quelli con i creditori sociali e i creditori particolari dei soci. Ne consegue che il pagamento del debito sociale può essere chiesto dal creditore direttamente al socio che, per non adempiere, deve indicare quali siano i beni sociali sui quali l’attore possa agevolmente soddisfarsi. Così come il creditore personale del socio può ottenere che la società gli liquidi il valore della quota entro tre mesi dalla domanda se dimostra che il suo debitore non dispone di altri beni sufficienti a soddisfarlo. In secondo luogo, sulla base del secondo comma dell’art. 2297 «si presume che ciascun socio che agisce per la società abbia la rappresentanza sociale, anche in giudizio. I patti che attribuiscono la rappresentanza ad alcuno soltanto dei soci o che limitano i poteri di rappresentanza non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza». Ne risulta rafforzata la tutela dei terzi che contrattino con la società dal momento che questa non potrà avvantaggiarsi della mancata iscrizione per giustificare l’inefficace esercizio dei poteri di rappresentanza. Si introduce così una differenza rispetto alla disciplina della società semplice: in questa le limitazioni ai poteri di rappresentanza dei soci sono opponibili ai terzi anche se costoro non ne erano a conoscenza; invece, nelle società irregolari le limitazioni sono inopponibili ai terzi in buona fede. Questo perché la società semplice svolge un’attività non commerciale e ivi prevale l’interesse dei soci, mentre nella s.n.c. e nella s.a.s. la protezione dei terzi è preferita alla tutela degli interessi di più strutturati imprenditori commerciali quali sono i soci della collettiva e dell’accomandita. In terzo e ultimo luogo, alle s.n.c. e alle s.a.s. irregolari non si applica il termine di prescrizione quinquennale bensì quello ordinario e decennale, né si applica loro l’art. 10 della legge fallimentare relativamente alla parte in cui esclude che il fallimento possa essere dichiarato decorso un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese. 4. SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA 1.1 CARATTERI GENERALI La s.r.l., inquadrata dall’art 2247, è innanzitutto una società lucrativa: l’attività economica oggetto della società è esercitata al fine di realizzare utili che vengono divisi tra i soci. Lo scopo di lucro non è derogabile statutariamente e dev’essere ricavabile sulla base di indici oggettivi e formali. È poi una società di capitali, cioè caratterizzata, rispetto alle società personalistiche, dalla ricorrenza di tratti fisionomici di carattere sia strutturale sia funzionale. a) Sotto il profilo delle responsabilità: in una s.r.l., in quanto società con personalità giuridica per le obbligazioni sociali risponde la società col proprio patrimonio. I soci, quindi, rischiano economicamente solo quanto abbiano destinato alla società a titolo di conferimento e non anche il proprio patrimonio personale. b) Sotto il profilo dell’organizzazione: come tutte le società di capitali la s.r.l. ha un’organizzazione di tipo corporativo basata sulla compresenza di una pluralità di organi, ciascuno dei quali dotato di specifiche funzioni e responsabilità. c) Sotto il profilo dell’amministrazione: le società di capitali realizzano tendenzialmente la separazione tra proprietà e controllo, ossia la distinzione dei ruoli dei proprietari del capitale sociale e di coloro che si fanno carico dell’amministrazione della società. d) Sotto il profilo del ruolo dei soci: l’attività degli organi societari avviene in ossequio al principio maggioritario, sulla base del quale il peso di ciascun socio è computato rispetto a quanto costui abbia conferito economicamente in società; in altri termini i voti espressi in assemblea si calcolano per quote, ossia in rapporto alle frazioni del capitale sociale di cui sia proprietario ciascun socio, e non per teste. 1.2 NOZIONE E COSTITUZIONE Oggi, per come è stata riformata nel 2003, rappresenta l’anello di congiunzione tra la classe di società di persone e quella delle società di capitali. Nell’impianto originario del codice civile la s.r.l. rappresentava un modello semplificato e personalizzato di società di capitali, o una sorta di piccola società per azioni. A partire dalla riforma del 2003 la s.r.l. dispone di una disciplina propria e autosufficiente e le disposizioni della s.p.a. alle quali si rinvia non costituiscono più la regola, ma l’eccezione. In questo senso l’ordinamento italiano si è avvicinato ad altri europei. L’art. 2462, titolato «Responsabilità», stabilisce che «nella società a responsabilità limitata per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio». Quindi anche nella s.r.l. i creditori sociali possono soddisfarsi sul patrimonio sociale e non sul patrimonio personale dei soci, e anche il tipo s.r.l. può essere utilizzato per lo svolgimento di attività d’impresa in forma societaria unipersonale. A questi due caratteri, condivisi con la s.p.a., l’art. 2468 aggiunge che «le partecipazioni dei soci non possono essere rappresentate da azioni né costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari». Ciò comporta che la circolazione delle quote di una s.r.l. avviene in modo meno facile e veloce, oltre che l’impossibilità di fare appello al pubblico risparmio per raccogliere capitale di rischio. In altri termini la s.r.l. fu concepita, e tuttora in buona parte può essere considerata, quale mezzo organizzativo per avvalersi del beneficio della responsabilità limitata e grazie ad esso svolgere un’attività economica di dimensioni modeste in forma societaria purtuttavia capitalistica. La s.r.l. può essere costituita con contratto o con atto unilaterale (art. 2463); l’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico e deve indicare: 1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza di ciascun socio; 2) la denominazione, contenente l’indicazione di società a responsabilità limitata, e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie, (non è necessario rappresentare l’indirizzo della società); 3) l’attività che costituisce l’oggetto sociale, voce che richiede di indicare analiticamente l’attività economica che la società ha in programma di svolgere; 4) l’ammontare del capitale, non inferiore a diecimila euro, sottoscritto e di quello versato», voce uguale all’omologa della s.p.a., salvo che per l’ammontare minimo richiesto per la costituzione; 5) i conferimenti di ciascun socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura; 6) la quota di partecipazione di ciascun socio; 7) le norme relative al funzionamento della società, indicando quelle concernenti l’amministrazione, la rappresentanza; 8) le persone cui è affidata l’amministrazione e l’eventuale soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti; 9) l’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della società. Non è più richiesta l’indicazione della durata della società; da ciò consegue che ove tale elemento non sia esplicitato la società si intenderà contratta a tempo indeterminato, e ulteriormente ne deriva che il diritto di recesso dal contratto di società potrà essere esercitato da ogni socio in qualsiasi momento. Tra le norme dedicate alla costituzione della s.r.l. non compaiono riferimenti espressi allo statuto: nella s.r.l. non è contemplata la presenza dello statuto, probabilmente per facilitare la costituzione di questo tipo societario. Con ciò non è impedito, se paia il caso, di scindere le componenti di atto costitutivo e statuto. 1.3 CAPITALE E CONFERIMENTI La distanza che si misura tra il capitale della s.r.l. e quello della s.p.a., attiene al fatto che le quote dei soci di s.r.l. non possono essere rappresentate da azioni (così, infatti, stabilisce l’art. 2468). La conseguenza è che il capitale della società a responsabilità limitata viene suddiviso in rapporto al numero dei soci, e ogni socio dispone di una sola quota di partecipazione. Le quote, a loro volta, non hanno necessariamente un uguale valore unitario, ma possono essere di ammontare differente. Se l’atto costitutivo non dispone diversamente, il loro valore rispecchia in misura proporzionale l’entità del conferimento effettuato da ciascun socio (anche se è rimessa all’autonomia privata l’opzione di assegnare ai soci partecipazioni non proporzionali ai conferimenti). Infine, i diritti sociali sono riconosciuti ai soci in misura proporzionale ai conferimenti (anch’essa norma di default, derogabile). Ai sensi dell’art. 2464 il valore dei conferimenti non può essere inferiore all’ammontare globale del capitale sociale; inoltre possono essere devoluti in società non unicamente denaro, beni in natura o crediti, ma qualsiasi bene il cui valore economico possa essere agevolmente e precisamente calcolato (anche prestazioni d’opera o servizi). Il conferimento di beni in natura richiede che sia effettuata una stima del loro valore da un esperto scelto dal conferente (requisiti nell’art. 2465). In caso di mancata esecuzione dei conferimenti: a) la diffida al socio a eseguire il conferimento entro il termine di trenta giorni dev’essere indirizzata direttamente al socio moroso; b) decorso inutilmente tale termine gli amministratori possono scegliere se promuovere l’azione per l’adempimento o vendere la quota del socio moroso offrendola in primis agli altri soci, in proporzione della loro partecipazione; c) solo in mancanza di offerte, se l’atto costitutivo lo consenta, la quota potrà essere venduta all’incanto; d) se la vendita non può verificarsi gli amministratori escludono il socio trattenendo le somme riscosse. 1.4 MODIFICHE DELL’ATTO COSTITUTIVO, AUMENTO E RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE Le decisioni relative alla modifica dell’atto costitutivo sono riservate dal secondo comma dell’art. 2479 alla competenza dei soci: tali decisioni devono essere adottate mediante deliberazione assembleare. L’assemblea della s.r.l. si riunisce presso la sede sociale, è regolarmente costituita con una presenza di soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale e delibera con questo stesso quorum. Il verbale, trascritto nel libro delle decisioni dei soci, ex art. 2480 deve essere redatto da un notaio che, dopo un controllo di legittimità, sarà tenuto a depositarlo e chiederne l’iscrizione nel registro delle imprese. L’aumento e la riduzione del capitale sociale rappresentano vicende modificative del capitale sociale e sono disciplinate dagli artt. 2481-2482-quater. L’aumento del capitale, che può essere reale o nominale: si produce un aumento reale, o a pagamento, quando l’aumento del capitale sociale e del patrimonio della società deriva dal fatto che sono effettuati nuovi conferimenti ed è un’operazione che viene realizzata quando la società ha bisogno di procurarsi nuove risorse economiche; si produce invece un aumento nominale, o gratuito, quando ci si limita ad alzare la soglia del capitale nominale della società (decisione che spetta ai soci) ma non aumenta anche il patrimonio (art. 2481-ter ad aumento avvenuto, le quote saranno di entità maggiore ma continueranno a rappresentare la medesima frazione del capitale): in tal modo quelle risorse saranno a loro volta assoggettate al vincolo di destinazione che grava sul capitale e con ciò la società ne guadagna nei termini di un aumento della sua solidità patrimoniale. La deliberazione di aumento del capitale sociale si accompagna, a meno che non ne sia prevista l’esclusione nell’atto costitutivo, al riconoscimento del diritto di opzione a favore dei soci, ossia del diritto di sottoscrivere l’aumento di capitale in proporzione alle quote originariamente possedute, così evitandosi il rischio dell’annacquamento della loro partecipazione. Ai soci è però riconosciuto il diritto di recesso dalla società se non abbiano condiviso la decisione di escludere il diritto d’opzione. Anche la riduzione del capitale sociale può essere reale o nominale. La prima è volontaria e ai sensi dell’art. 2482 «può avere luogo mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione di essi dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti»: con essa si realizza una diminuzione patrimoniale, allo scopo di scindere dal capitale e dalla sua rigorosa disciplina parte di risorse economiche non necessarie per le funzioni del capitale medesimo e che possono essere più utilmente sfruttate. La seconda invece si realizza mediante un’operazione contabile tramite la quale si adegua il livello del capitale sociale in conseguenza di perdite che lo abbiano eroso. Infatti, le perdite intaccano anzitutto la parte disponibile del patrimonio e, dopo avere esaurito le riserve, incidono sul capitale. Sono annoverate due serie di ipotesi di riduzione nominale, detta anche riduzione per perdite: le ipotesi in cui la riduzione del capitale è facoltativa e quelle in cui essa è obbligatoria. La distinzione attiene all’entità della perdita subita. La prima serie di ipotesi (riduzione facoltativa) è disciplinata dall’art. 2482-bis e si tratta della procedura che occorre seguire quando si sia verificata una perdita superiore a un terzo, circostanza che può determinarsi in una serie di ipotesi differenti tra loro il cui esito comune è obbligare gli amministratori a coinvolgere l’assemblea. In queste ipotesi la riduzione è facoltativa nel senso che è rimessa alle decisioni dei soci in assemblea, che potranno deliberare immediatamente la riduzione del capitale o rinviare ogni decisione all’esercizio successivo. La seconda serie di ipotesi (riduzione obbligatoria) è disciplinata dal successivo art. 2482-ter e si tratta della procedura che occorre seguire quando il livello del capitale, per effetto delle perdite, scende al di sotto del minimo legale. In queste ipotesi la riduzione è obbligatoria, nel senso che è imposta dalla legge: la società dovrà trasformarsi in un tipo che ammetta un minimo di capitale sociale di livello pari a quello raggiunto, diversamente andrà incontro a scioglimento. È comunque esclusa, in tutte le ipotesi di riduzione del capitale per perdite, ogni modificazione delle quote di partecipazione e dei diritti spettanti ai soci. 1.5 STRUTTURA FINANZIARIA E QUOTE DI PARTECIPAZIONE Le disposizioni sui finanziamenti alla società da parte dei soci sono state introdotte in occasione della riforma del 2003 per fronteggiare la prassi del trasferimento di somme di denaro a titolo di capitale di debito, in alternativa a un più congruo finanziamento per il tramite di capitale di rischio. Il capitale di rischio rappresenta il complesso delle risorse finanziarie destinato alla società a titolo di conferimento, nei confronti del quale i soci non vantano alcun diritto di restituzione: la sua (re)distribuzione ai soci dipende dall’andamento economico della società. Ai sensi dell’art. 2467 «il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito. Ai fini del precedente comma s’intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento». I titoli di debito rappresentano a loro volta uno strumento di finanziamento della s.r.l., introdotto dalla riforma del 2003, la cui disciplina è contenuta nell’art. 2483. Se dunque da un lato, con la norma precedente, si è concretizzata giuridicamente la volontà di disincentivare il ricorso eccessivo o incongruo ai finanziamenti dei soci, d’altro lato è stato introdotto ex novo un mezzo per canalizzare il credito in forme che di fatto non siano ad appannaggio esclusivo dei soci o delle banche. In effetti sono strumenti sostanzialmente assimilabili alle obbligazioni, e possono essere sottoscritti solo da investitori professionali. L’emissione dei titoli dev’essere prevista dall’atto costitutivo e «in tal caso l’atto costitutivo attribuisce la relativa competenza ai soci o agli amministratori determinando gli eventuali limiti, le modalità e le maggioranze necessarie per la decisione». La conseguente decisione dei soci deve determinare le condizioni del prestito e le modalità del suo rimborso, quindi essere iscritta nel registro delle imprese a cura degli amministratori. Essendo concepite in modo unitario, le quote di partecipazione al capitale di una s.r.l. non possono essere rappresentate da titoli di credito; perciò, non possono costituire oggetto di offerta al pubblico; tuttavia, è possibile assegnare un valore alle quote, ricavandolo come frazione del patrimonio rappresentato dalla quota. Inoltre, il fatto che le quote non possano essere rappresentate da titoli di credito non impedisce il loro trasferimento: «le partecipazioni sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo», recita l’art. 2469. Tuttavia, il criterio personalistico riemerge sotto il profilo dei limiti pattizi che possono condizionare il trasferimento. Il trasferimento si realizza per effetto del semplice consenso; non è perciò necessario che l’atto rivesta una forma particolare. Affinché produca effetti nei confronti della società è però necessario che l’atto sia stato iscritto nel registro delle imprese, ciò che deve avvenire entro trenta giorni a cura del notaio autenticante; se la quota è alienata con contratti successivi a più persone prevale quella che per prima ha effettuato in buona fede l’iscrizione nel registro delle imprese. La partecipazione può essere espropriata da parte dei creditori personali del socio, e da tale evento discendono alternativamente la sua vendita forzata o la sua assegnazione al creditore procedente. Il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese. La partecipazione può poi formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro (disciplina vigente per la s.p.a., art. 2352). Inoltre, è sancito il divieto assoluto alla società di compiere operazioni sulle proprie quote. Per quanto riguarda l’esclusione del socio (art. 2473-bis), «l’atto costitutivo può prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del socio», a fronte di una sola causa legale di esclusione (se mancano i conferimenti). Nei casi di esclusione convenzionale per giusta causa si applicano le disposizioni contemplate per le ipotesi di recesso dalla società, con una sola eccezione: qualora non vi siano acquirenti della quota del socio escluso, o se la società non abbia modo di rimborsarla utilizzando riserve disponibili, l’esclusione non può che ritenersi priva di effetto; in più drastica alternativa parte della dottrina ritiene che, nelle ipotesi menzionate, la società si sciolga. Per recesso tecnicamente s’intende l’atto unilaterale recettizio con il quale il socio rende noto il proprio intento di sciogliere il vincolo negoziale che lo lega alla società e fa valere tale suo diritto. Lo scopo del diritto di recesso è, in primo luogo, quello di riequilibrare il potere della maggioranza e le esigenze della minoranza azionaria. Si tratta cioè di uno strumento che tipicamente tutela il socio di minoranza e perciò di modesta forza contrattuale, rispetto agli atti degli altri soci che abbiano introdotto modificazioni dell’atto costitutivo o varato operazioni sulle quali il primo socio si trovi in disaccordo, per un verso, e che per altro verso siano idonee ad alterare significativamente le condizioni di rischio che costui ha accettato entrando nella compagine societaria. In secondo luogo, lo strumento del recesso può rappresentare un correttivo alla durata a tempo indeterminato del rapporto sociale. Infine, il recesso funge da rimedio di cui il socio dispone a fronte di clausole dirette a rendere sostanzialmente intrasferibile la partecipazione sia per atto tra vivi sia a causa di morte. Posto che è l’atto costitutivo a determinare quando il socio è legittimato a recedere, le cause legali di recesso (inderogabili) in buona sostanza corrispondono a queste tre tipologie di esigenze di scioglimento del vincolo sociale. Ai sensi dell’art. 2437, il diritto di recesso compete ai soci che non hanno consentito a un cambiamento significativo della società (come il cambiamento dell’oggetto o del tipo di società, la sua fusione, o scissione ecc.). Nel caso di società a tempo indeterminato il diritto compete al socio in qualunque momento e può essere esercitato con un periodo di almeno 180 gg (salve diverse disposizioni dell’atto costitutivo). I casi annoverati comprendono, oltre le ipotesi dell’art. 2437, anche le ipotesi integrate per effetto della riforma del 2003. È poi il secondo comma dell’art. 2469 che attribuisce al socio il diritto di recedere quando l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle quote o sottoponga la cessione al mero gradimento di organi sociali o di terzi, ed è l’art. 2481-bis che consente il recesso del socio quando, nelle ipotesi di aumento del capitale sociale a pagamento, dissente dalla decisione di offrire a terzi le quote di nuova emissione. Se l’evento che motiva il recesso è una decisione dei soci, la legittimazione spetta ai soci non consenzienti, ossia ad assenti, astenuti e contrari. Mentre spetta a tutti se si tratti di recesso da società a tempo indeterminato, o le cui quote siano dichiarate intrasferibili. Nelle ipotesi di recesso statutario, invece, la legittimazione dipenderà dalle condizioni in relazione alle quali, nel caso concreto, il recesso è ammesso, ossia si tratterà di cause variabili, e non può escludersi che il diritto venga riconosciuto ad alcuni soci e non ad altri. Non è previsto dalla legge il recesso parziale, ossia lo scioglimento per una frazione soltanto del complesso della partecipazione del socio. Per la liquidazione della quota del socio recedente, l’art. 2473 chiarisce che «i soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale. Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso; in caso di disaccordo la determinazione è compiuta tramite relazione giurata di un esperto nominato dal tribunale»; il rimborso deve essere effettuato entro 180 gg dal recesso. 2. ORGANIZZAZIONE E DECISIONE Prima della riforma del 2003 le norme sulla s.p.a. sui poteri degli organi societari si applicavano per analogia alla s.r.l. data l’omogeneità tra queste due forme giuridiche. Con la riforma del diritto delle società molto è cambiato: la fisionomia degli assetti interni della società a responsabilità limitata è stata rivisitata a partire dai modelli di riferimento organizzativo, soprattutto per quanto riguarda l’elasticità del sistema di corporate governance e la possibilità di enfatizzare sotto diversi profili l’attivismo dei soci, sia come gestori sia come controllori interni della società. 2.1 AMMINISTRAZIONE Nella società a responsabilità limitata la nomina degli amministratori è affidata «a uno o più soci» da una regola di default, come tale derogabile. In tutto e per tutto uguale a quella prevista per la s.p.a., e non derogabile, è, invece, la disposizione secondo la quale entro trenta giorni dalla loro nomina gli amministratori devono chiederne l’iscrizione nel registro delle imprese indicando le loro generalità ed a chi sia attribuita la rappresentanza della società, con ciò specificando se lo sia in via congiuntiva o disgiuntiva. Il potere di nomina degli amministratori non può essere conferito a soggetti terzi, come ad esempio gli enti pubblici, che non siano soci. Gli amministratori restano in carica a tempo indeterminato salvo sia diversamente pattuito nell’atto costitutivo o nell’atto di nomina; sono rieleggibili; nulla è detto quanto alla loro revoca, mentre è disciplinata l’ipotesi della revoca giudiziaria che ogni socio può chiedere in caso di gravi irregolarità amministrative. Dalla legge non sono contemplate cause di incompatibilità e ineleggibilità, sicché è eventualmente l’atto costitutivo a dover annoverare clausole che dispongano sotto questo profilo. Riguardo al conflitto di interessi degli amministratori della s.r.l., l’art. 2475-ter distingue due ipotesi: nei casi nei quali l’atto in conflitto di interessi sia stato concluso dall’amministratore rappresentante in conflitto di interesse e non sia stato preceduto da una deliberazione del consiglio di amministrazione, la società potrà annullare il contratto provando che il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo; nei casi nei quali invece tale deliberazione vi sia stata la società potrà annullare la deliberazione se essa sia stata assunta con il voto determinante dell’amministratore in conflitto, causi un danno patrimoniale alla società e sia impugnata entro novanta giorni dagli altri amministratori o se esistenti dall’organo di controllo o dal revisore legale dei conti. La responsabilità degli amministratori della società a responsabilità limitata è una responsabilità solidale verso la società per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società. Solidarietà nella responsabilità significa che ogni amministratore può essere giudizialmente chiamato a rispondere dell’intero danno nei confronti della società, salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri amministratori nella misura e secondo il grado della rispettiva colpa. Gli amministratori sono immuni da colpa, avendo fatto il possibile per impedire il compimento dell’atto o comunque per eliminarne o ridurne gli effetti dannosi. I soci ai quali si riconduca il compimento di determinati atti di amministrazione della società sono solidalmente responsabili con gli amministratori. Perché tale responsabilità sia loro imputabile bisogna che abbiano «intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi» (settimo comma dell’art. 2476). «L’azione di responsabilità contro gli amministratori è promossa da ciascun socio, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi. In tal caso il giudice può subordinare il provvedimento alla prestazione di apposita cauzione». Dunque, ogni singolo socio, diversamente da quanto accade nella s.p.a., può attivare l’azione sociale di responsabilità, a ulteriore conferma del carattere personalistico della s.r.l. post2003. In via interpretativa si ritiene che il socio possa anche proporre domanda di revoca dell’amministratore, nei casi in cui si riscontrino gravi irregolarità nella gestione della società. Infine, l’art. 2476 sul punto prevede che, «salva diversa disposizione dell’atto costitutivo, l’azione di responsabilità contro gli amministratori può essere oggetto di rinuncia o transazione da parte della società, purché vi consenta una maggioranza dei soci rappresentante almeno i due terzi del capitale sociale e purché non si oppongano tanti soci che rappresentano almeno il decimo del capitale sociale. L’approvazione del bilancio da parte dei soci non implica liberazione degli amministratori e dei sindaci per le responsabilità incorse nella gestione sociale». Non è prevista l’azione di responsabilità a favore dei creditori sociali, propria della disciplina della s.p.a. È invece espressamente riconosciuta l’azione di responsabilità a favore di «singoli soci o terzi direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori»: si tratta di un’azione per ottenere il risarcimento del danno che sia stato patito non già come riflesso di un danno societario, bensì come ammanco patrimoniale che il singolo socio o il singolo terzo abbiano subito in conseguenza di un atto o di un comportamento dell’amministratore che li abbiano direttamente ed esclusivamente colpiti. 2.2 DECISIONI DEI SOCI E INVALIDITÀ La società a responsabilità limitata si caratterizza per l’ampia autonomia statutaria riconosciuta ai soci, che possono modellare in termini estremamente discrezionali le proprie competenze. Tale libertà organizzativa intacca la tradizionale ripartizione tra organi tipica delle società capitalistiche (assemblea, organo di amministrazione, organo di controllo), tanto che l’assemblea dei soci può vedere contenuto il suo ruolo al punto di ridursi a organo solo eventuale quando si tratti di prendere date decisioni. Si possono individuare due tipi di decisioni sulla base della natura delle competenze che il codice civile assegna al complesso dei soci. a) In primo luogo, sono regolate le decisioni corrispondenti a competenze attribuite ai soci dall’atto costitutivo (art. 2479). La competenza dei soci si estende a una pluralità indifferenziata di aspetti gestionali, prefigurandosi come una vera e propria competenza generale. b) In secondo luogo, sono regolate le decisioni corrispondenti a competenze inderogabilmente attribuite ai soci dalla legge. Il secondo comma dell’art. 2479 stabilisce: «in ogni caso sono riservate alla competenza dei soci: 1) l’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili; 2) la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori; 3) la nomina nei casi previsti dall’art. 2477 dei sindaci, del presidente del collegio sindacale e del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti; 4) le modificazioni dell’atto costitutivo; 5) la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci». Le decisioni devono essere adottate ricorrendo a una deliberazione assembleare; perciò, decisioni non collegiali sono consentite solo se una clausola dell’atto costitutivo le preveda espressamente. Vi sono però circostanze nelle quali il rispetto della procedura assembleare è necessario: anzitutto quando le materie da deliberare sono costituite da modificazioni dell’atto costitutivo o da operazioni che comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci (art. 2479.4). Inoltre «quando lo richiedono uno o più amministratori o un numero di soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale». Per il procedimento assembleare, l’art. 2479-bis stabilisce che: «L’atto costitutivo determina i modi di convocazione dell’assemblea dei soci, tali comunque da assicurare la tempestiva informazione degli argomenti da trattare. In mancanza la convocazione è effettuata mediante lettera raccomandata spedita ai soci almeno otto giorni prima dell’adunanza nel domicilio risultante dal registro delle imprese». La convocazione di norma spetta agli amministratori, e salvo diverse disposizioni nell’atto costitutivo, il potere di rappresentanza può essere imputato a un secondo o a un terzo socio. L’assemblea si riunisce presso la sede sociale, è regolarmente costituita con la presenza di tanti soci che rappresentano almeno la metà del capitale sociale (quorum costitutivo) e delibera a maggioranza assoluta (quorum deliberativo). L’assemblea è presieduta dalla persona indicata nell’atto costitutivo o, in mancanza, da quella designata dagli intervenuti. Il presidente dell’assemblea verifica la regolarità della costituzione, accerta l’identità e la legittimazione dei presenti, regola il suo svolgimento e accerta i risultati delle votazioni. Le decisioni possono però essere anche prese dai soci in contesti e forme non assembleari (opzione peculiare della s.r.l., art. 2479): emerge sotto questo profilo un assetto regolativo che lascia spazio a soluzioni concrete multiformi, relative sia alla sollecitazione della volontà dei soci sia alla raccolta del loro consenso, tanto alla tempistica di tale raccolta quanto alle scelte da compiersi sui termini ai quali affidarsi per dichiarare chiusa la procedura decisionale e definitivo il risultato del voto. Le categorie di invalidità delle decisioni dei soci sono due ed entrambe regolate dall’art. 2479-ter. Si sforzano di contemperare interessi contrapposti: quello dei soci a rimuovere una decisione viziata da invalidità, per un verso, e quello della società (e dei terzi) alla stabilità del proprio assetto decisionale. La prima categoria, che comprende le decisioni contrarie alla legge o all’atto costitutivo, corrisponde all’insieme delle cause che secondo la disciplina della s.p.a. danno luogo all’annullabilità delle deliberazioni assembleari. «Le decisioni dei soci che non sono prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo possono essere impugnate da soci che non vi hanno consentito» (cioè da soci assenti, dissenzienti o astenuti), «da ciascun amministratore e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci. Nelle stesse forme e modalità citate per prime sono impugnabili anche le decisioni viziate da conflitto di interessi del socio, se siano state prese con suo voto determinante e siano idonee a danneggiare la società. «Le decisioni aventi oggetto illecito o impossibile e quelle prese in assenza assoluta di informazione possono essere impugnate da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla trascrizione indicata nel primo periodo del primo comma», mentre sono imprescrittibili le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite. Quelle rappresentate da ultimo costituiscono evidentemente le ipotesi di maggiore gravità, corrispondenti alle cause di nullità delle deliberazioni della s.p.a. per quanto riguarda il riferimento all’oggetto impossibile o illecito. È invece propria della s.r.l. l’invalidità che si realizza in caso di assenza assoluta di informazione, mentre nella s.p.a. le delibere sono nulle quando manchi la convocazione dell’assemblea o il verbale della sua riunione. Infine, non essendo richiamato l’art. 2379, si dubita che possa darsi luogo alla rilevabilità d’ufficio da parte del giudice della causa di nullità. 2.3 CONTROLLI Nella s.r.l. non è indispensabile la presenza di un organo di controllo: l’art. 2477 lo prevede solo in via eventuale inserito nell’atto costitutivo (che deve prevederne anche competenze e poteri), ed è generalmente monocratico. La nomina dell’organo di controllo o di un revisore è obbligatoria in tre casi: a) quando la società è tenuta alla redazione del bilancio consolidato; b) quando la società controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti; c) quando per due esercizi consecutivi la società ha superato i limiti entro i quali è consentito redigere il bilancio in forma abbreviata. Anche al socio non amministratore sono riconosciute particolari forme di controllo, in particolare hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione. 3. NUOVE FORME DI SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA La società a responsabilità limitata semplificata (s.r.l.s.) è disciplinata dall’art. 2463-bis ed è intesa a favorire l’organizzazione in forma societaria capitalistica di iniziative imprenditoriali che non richiedano in partenza capitali particolarmente elevati. Si ritiene concordemente che non si tratti di un tipo societario autonomo ma riconducibile alla s.r.l. È peculiare della s.r.l.s.: a) che la sua denominazione specifichi che trattasi di s.r.l. semplificata; b) che soci possono esserne solo persone fisiche; c) che il capitale sociale sia compreso tra 1 e 9999 euro; d) che i conferimenti siano effettuati solo in denaro e vengano integralmente liberati al momento della sottoscrizione; e) che l’atto costitutivo sia redatto in conformità del modello organizzativo standard (tipizzato dal d.m. n. 138/2012). Le clausole del modello standard sono inderogabili. Non è perciò possibile modificare o omettere le clausole ivi previste, pena la nullità delle indicazioni con cui sia stato integrato l’atto costitutivo. Per quanto attiene ai profili non regolati dal modello standard si applicano, ove compatibili, le norme che disciplinano la s.r.l. ordinaria, ma sotto la condizione che, ove il codice preveda per questa forma societaria una regola derogabile, dovrà essere applicata questa stessa, ossia appunto la norma di default, e non lasciare spazio all’autoregolazione discrezionale da parte dei soci. I vantaggi derivanti dalla semplificazione e riduzione degli oneri finanziari sono fronteggiati dagli svantaggi connessi al fatto che, data la previsione di un modello prefissato e tendenzialmente rigido, i soci scontano una sensibile privazione nei termini della minore elasticità della quale possono giovarsi nell’esercizio della propria autonomia statutaria. Una s.r.l.s. può essere solo a tempo indeterminato; le decisioni dei soci devono essere assunte in forma assembleare e le deliberazioni dei soci devono attenersi alle materie previste dal codice. Inoltre, le funzioni gestorie devono essere riservate agli amministratori. Altri limiti alla libertà dei soci riguardano il controllo interno della società, l’assegnazione di particolari diritti, l’introduzione di cause di recesso statutarie e di vincoli alla circolazione delle partecipazioni. La start-up innovativa, introdotta nell’ordinamento dal d.l. n. 179/2012, con l’obiettivo di stimolare la crescita e lo sviluppo di nuove imprese, si tratta di una società di ridotte dimensioni in fase di avvio con l’obiettivo di realizzare prodotti o servizi innovativi ad alto sviluppo tecnologico, e che può assumere forme giuridiche molteplici. Tra le forme giuridiche di cui si avvalga una start-up innovativa, quella della s.r.l. sarà la più diffusa, sia ordinaria che semplificata, anche tale da cumulare i vantaggi delle due forme. La struttura societaria e finanziaria di una start-up innovativa presenta, sempre nella prospettiva prima indicata di favorirne la diffusione e lo sviluppo, significative deroghe alla disciplina ordinaria della s.r.l.: a) È data la possibilità di creare categorie di quote fornite di diritti diversi e di determinare liberamente il contenuto delle varie categorie: così sarà possibile incentivare una maggiore raccolta di risorse con la partecipazione di soggetti con interessi differenziati e non necessariamente uguali disponibilità di investimento. b) È data la possibilità di emettere, a fronte del conferimento di opere o servizi da parte di soci o terzi, strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, creando così uno strumento grazie al quale remunerare collaboratori e fornitori in forme alternative e incentivanti. c) È superato il divieto di effettuare operazioni sulle proprie partecipazioni. È riconosciuta la possibilità che le quote siano oggetto di offerta al pubblico: crowdfunding, sistema inteso alla raccolta di risorse finanziarie, di cui nella prassi esistono diverse tipologie (dal donationbased, tipicamente per le iniziative no profit, al reward-based, che prevede una ricompensa spesso corrisposta in natura), all’equity-based, finalizzato alla raccolta di capitale di rischio. Il crowdfunding disciplinato dal nostro ordinamento per le start-up innovative appartiene al tipo equity-based: la società emittente (appunto la start-up innovativa) e un finanziatore si incontrano virtualmente su una piattaforma, che funge da mediatore e che facilita la raccolta del capitale di rischio. La qualità di socio non si acquisisce al momento del pagamento, ma occorrerà attendere il termine finale fissato per il crowdfunding. Le partecipazioni non sono negoziabili su mercati regolamentati, sicché per loro natura non saranno facilmente liquidabili (rischio del contributore di rimanere intrappolato nell’investimento). 5. SOCIETÀ PER AZIONI 1. CARATTERI GENERALI La società per azioni rappresenta il tipo più complesso e sofisticato di società di capitali: la sua origine risale all’inizio del Seicento, come mezzo di iniziative imprenditoriali marinare contraddistinte da ingenti investimenti finanziari. La fortuna di questa forma giuridica è in principio riferibile all’attrattività del beneficio di limitazione della responsabilità dei soci, connessa a una struttura in grado di diversificare la proprietà e il controllo dell’impresa. La società per azioni consente infatti agli imprenditori dotati in partenza di capitali e idee, oltre che dei mezzi per far fruttare entrambi, di creare volumi produttivi e di fatturato massimamente consistenti: stiamo parlando di società potenzialmente multinazionali. La disciplina della società per azioni tratteggiata dal codice civile del 1942 è stata modificata in più circostanze, ma le occasioni principali sono sostanzialmente tre, e coincidono: a) con la riforma del 1974; b) con l’emanazione del Testo unico della finanza del 1998; c) con la riforma del 2003 del diritto delle società non quotate. A tali occasioni può aggiungersi l’emanazione della legge per la tutela del risparmio del 2005. Ai sensi dell’ex art. 2247 la società in genere nasce da contratto (o da atto unilaterale), ed esattamente che «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili». Inoltre, sulla base dell’art. 2325 «nella società per azioni per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio». Le obbligazioni sociali gravano sul patrimonio della società e solo su di esso: i soci godono del beneficio della responsabilità limitata, ossia sono tenuti solo a effettuare i conferimenti promessi, mentre i creditori possono confidare solo sul patrimonio sociale, essendo preclusa l’aggressione ai beni personali dei soci per soddisfare le proprie pretese. Sulla base dell’art. 2346, le partecipazioni sono costituite da azioni che rappresentano frazioni omogenee del capitale sociale, unità di misura di uguale valore e che attribuiscono uguali diritti (si parla di azioni spersonalizzate). L’organizzazione interna della società è articolata in forma corporativa, secondo una ripartizione per organi e uffici ai quali sono assegnate precise mansioni nell’ottica della specializzazione delle loro funzioni e della massimizzazione dell’efficienza della macchina imprenditoriale. Secondo l’art. 2325-bis, sono società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le società con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante. Il legislatore ha realizzato uno statuto speciale per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, ovvero la categoria delle società aperte, costituita a sua volta da due tipologie di società: 1. Le società con azioni quotate sui mercati regolamentati; 2. Le società con azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante. L’esistenza di queste tre tipologie societarie (aperte/emittenti azioni quotate; aperte/emittenti azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante; chiuse) spiega perché nel suo complesso la disciplina della s.p.a. annoveri disposizioni diversamente applicabili. Alle società chiuse si applica la disciplina dettata dal codice civile; alle società quotate si applica la disciplina dettata dal Testo unico della finanza e quella civilistica; alle società emittenti azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante si applicano, a seconda dei casi, la disciplina civilistica, quella finanziaria o quella ricavabile da disposizioni autonome. 1.1 COSTITUZIONE DELLA SOCIETÀ PER AZIONI L’art. 2326 stabilisce l’unica condizione che va rispettata nell’assegnare all’ente la sua denominazione sociale («la denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere l’indicazione di società per azioni»): occorre quindi solo l’indicazione che si tratta di una società per azioni, mentre non deve necessariamente comparire il nome di un socio. Per effetto di quanto disposto dall’art. 2567, la denominazione sociale è tutelata così come lo è la ditta, tanto che una società che abbia successivamente adottato la stessa denominazione di un’altra deve necessariamente modificarla. La costituzione della s.p.a. richiede una certa quantità di capitale il cui ammontare è stato abbassato nell’anno 2014 da 120.000 a 50.000 euro. L’art. 2328 identifica il contenuto dell’atto costitutivo, che deve contenere gli elementi imprescindibili per la costituzione della società: 1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza dei soci e degli eventuali promotori, nonché il numero delle azioni assegnate a ciascuno di essi; voce che evidentemente è funzionale a rappresentare le generalità dei soci fondatori, che possono anche non essere persone fisiche. 2) La denominazione e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie. Sede della società è considerata quella amministrativa, che può essere collocata in luogo differente rispetto a quello della sede produttiva. Secondarie sono le sedi nelle quali siano presenti rappresentanti stabili della società, come tali in grado di svolgere in tutto e per tutto l’attività economica. 3) L’attività che costituisce l’oggetto sociale è sovente rappresentata menzionando una pluralità di attività economiche, tra le quali ne compaiono una di carattere principale e svariate altre connesse. 4) L’ammontare del capitale sottoscritto e versato. 5) Il numero e l’eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteristiche e le modalità di emissione e circolazione: il loro valore si desume dividendo l’ammontare del capitale sociale per il numero delle azioni emesse. 6) La rappresentazione dei beni in natura, comprensiva dell’indicazione di chi li ha conferiti, delle caratteristiche specifiche e della loro misura. 7) Le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti, disposizione che non richiede che le regole sulla distribuzione degli utili siano necessariamente contemplate dall’atto costitutivo. In loro mancanza, infatti, esiste una norma che provvede al proposito, ossia l’art. 2433, secondo il quale la deliberazione sulla distribuzione degli utili è adottata dall’assemblea che approva il bilancio. In altri termini vale la regola di default per cui decide liberamente l’assemblea, ma l’atto costitutivo potrà prevedere specificamente che una prescelta percentuale di utili sia senz’altro distribuita, o all’opposto che non lo sia affatto. 8) I benefici eventualmente accordati ai promotori o ai soci fondatori, ossia, rispettivamente, coloro che abbiano avuto l’iniziativa nella procedura di costituzione per pubblica sottoscrizione, e i soci che abbiano stipulato l’atto costitutivo. 9) Il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori e i loro poteri indicando quali tra essi hanno la rappresentanza della società: è la clausola dell’atto costitutivo nella quale va rappresentata l’opzione che dai soci sia compiuta tra i modelli di governance tradizionale, monistico o dualistico; e se nulla sia precisato in proposito la scelta organizzativa s’intenderà compiuta a favore del primo tra essi. 10) Il numero dei componenti il collegio sindacale, nel rispetto dei parametri disposti dal codice civile e del Testo unico della finanza. 11) La nomina dei primi amministratori e sindaci ovvero dei componenti del consiglio di sorveglianza e, quando previsto, del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti»; amministratori e sindaci che, successivamente, saranno nominati dall’assemblea ordinaria dei soci. Gli amministratori possono essere soci o non soci, purché si tratti di persone fisiche. 12) L’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della società, quali sono tipicamente le spese notarili e quelle di iscrizione. 13) La durata della società o, se la società è costituita a tempo indeterminato, il periodo di tempo, comunque non superiore a un anno, decorso il quale il socio potrà recedere (se la s.p.a. sarà a tempo determinato lo scioglimento avverrà per causa prestabilita, altrimenti per recesso dei soci). Lo statuto (art. 2328) contiene gli elementi fondamentali per il funzionamento della società e costituisce parte integrante dell’atto costitutivo; in caso di contrasto, le norme in esso contenute prevalgono sulle clausole dell’atto costitutivo. Atto costitutivo e statuto sono due documenti che svolgono funzioni diverse, ma se sono redatti entrambi il primo contiene i dati essenziali della s.p.a., ossia le informazioni fondamentali riguardo all’identità della società e ai profili costitutivi che non possono mancare affinché essa venga alla luce e inizi a operare, mentre lo statuto, è il documento in cui in termini più analitici si possono iscrivere le «norme relative al funzionamento della società», ossia il modo in cui si organizza per realizzare l’attività economica secondo gli intendimenti dei propri soci. Atto e statuto possono costituire un atto unico o atti separati, ma, a prescindere da questo, costituiscono un atto sostanzialmente unitario. L’art. 2329 chiarisce quali sono le condizioni minime per la nascita di una s.p.a., precisando che «per procedere alla costituzione della società è necessario: 1) che sia sottoscritto per intero il capitale sociale; 2) che siano rispettate le previsioni degli artt. 2342, 2343 e 2343-ter relative ai conferimenti; 3) che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la costituzione della società, in relazione al suo particolare oggetto». Questo assetto regolativo si spiega tenendo conto di come si tratti esattamente delle condizioni necessarie per poter iscrivere la s.p.a. nel registro delle imprese, affinché questa acquisisca la personalità giuridica (come riporta testualmente l’art. 2331). L’iscrizione viene condizionata all’esistenza dei mezzi che servono alla società per lo svolgimento della propria attività economica. In altri termini l’ordinamento stabilisce come priorità ai fini dell’iscrizione che sia garantito il rispetto del principio di effettività della dotazione strumentale della società. Il capitale sociale dev’essere sottoscritto per intero e, quanto ai conferimenti, si prescrive che la società abbia la disponibilità delle risorse ad essa destinate e che il loro valore corrisponda interamente al valore del capitale sottoscritto. Inoltre, s’impone la presenza delle autorizzazioni eventualmente richieste in relazione alla peculiarità di talune attività specifiche. Non è più richiesta la sottoposizione al giudizio di omologazione da parte del tribunale; è invece prevista come una fase di accertamento di conformità alla legge il controllo di un notaio (art. 2330): il legislatore ha inteso distinguere l’atto materiale di deposito dall’effetto giuridico dell’iscrizione. Ai sensi dell’art. 2331 «con l’iscrizione nel registro la società acquista la personalità giuridica»: è come dire che non può venire ad esistenza una s.p.a. se non si provveda alla sua iscrizione. Per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi tutti coloro che hanno agito in nome della società, compresi «il socio unico fondatore e quelli tra i soci che nell’atto costitutivo o con atto separato hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento dell’operazione». È una disposizione di carattere sanzionatorio, che si sostanzia nell’imputare le conseguenze giuridiche di tali comportamenti non conformi alla legge a chi li abbia tenuti. È vietata l’emissione delle azioni anteriormente all’iscrizione della società nel registro delle imprese, allo scopo di tamponare eventuali operazioni di carattere meramente speculativo. La costituzione della società per azioni per pubblica sottoscrizione è il procedimento tramite il quale la s.p.a. viene creata in modo non istantaneo e statico, ma continuativo e dinamico, a partire dall’iniziativa di soggetti, definiti promotori, i quali rappresentano al pubblico il programma della società. In base all’art. 2340 i promotori «possono riservarsi nell’atto costitutivo, indipendentemente dalla loro qualità di soci, una partecipazione non superiore complessivamente a un decimo degli utili netti risultanti dal bilancio e per un periodo massimo di cinque anni». La norma rileva soprattutto per gli effetti che indirettamente produce nei confronti dei soci fondatori, per i benefici che questi possono riservarsi. 1.2 INVALIDITÀ DELL’ATTO COSTITUTIVO E NULLITÀ DELLA SOCIETÀ PER AZIONI In base all’art. 2332 la nullità della s.p.a. può essere pronunciata solo in tre casi tassativamente indicati (mentre prima del 2003 erano 8): 1) mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico; 2) illiceità dell’oggetto sociale; 3) mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, o i conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale. Tale scelta regolativa premia le esigenze di mantenimento in vita dell’ente societario e di tutela della sicurezza giuridica dei rapporti intrattenuti coi terzi, fattori che a loro volta costituiscono un incentivo affinché si continui a concludere affari. Alla nullità della s.p.a. viene fatto seguire lo scioglimento della società: le cause di nullità dell’atto costitutivo sono trasformate in cause di scioglimento della società, e l’azione di nullità è, a tutti gli effetti, azione di scioglimento. Questo però accade nei casi in cui la s.p.a. sia già iscritta nel registro delle imprese. Prima dell’iscrizione si applicano le regole di diritto comune relative alla nullità e all’annullabilità del contratto (dopo l’iscrizione, invece, si applica lo speciale regime disposto appunto dall’art. 2332): questo perché, prima dell’iscrizione, l’invalidità attiene a un contratto di società i cui effetti giuridici si riflettono solo sui soggetti contraenti. Ulteriori deviazioni da diritto comune per proteggere i terzi: a) «La dichiarazione di nullità non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese»; in altri termini la nullità della società non ha effetto retroattivo, sicché gli effetti degli atti compiuti dopo l’iscrizione non vengono meno. b) «I soci non sono liberati dall’obbligo di conferimento fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali»; in altri termini viene mantenuto l’obbligo di eseguire il conferimento. c) «La nullità non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data pubblicità con iscrizione nel registro delle imprese»; in altri termini con tale norma si deroga al principio di insanabilità del contratto nullo. Della disciplina di diritto comune, in definitiva, restano applicabili due norme in tutto: l’art. 1421, ai sensi del quale la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice; e l’art. 1422, per cui l’azione di nullità è imprescrittibile. 1.3 ATTO COSTITUTIVO, STATUTO E PATTI PARASOCIALI I patti parasociali sono accordi tra i soci, e che solo i soci possono stipulare: veri e propri contratti che i soci stipulano per vincolarsi reciprocamente a esercitare in modo conforme a quanto abbiano ivi predeterminato i diritti che ad essi sono riconosciuti dall’atto costitutivo e dalla legge. I patti parasociali vincolano solo i soggetti che li sottoscrivono, mentre sono privi di effetti nei confronti della società e dei terzi. Sicché la loro violazione non comporta l’invalidità della deliberazione assembleare che sia stata presa in ossequio al loro contenuto, ma solo l’obbligo di risarcire il danno cagionato con tale inadempimento alle altre parti del patto. Il fine perseguito con la sottoscrizione di ogni patto parasociale, come emerge da un inciso dell’art. 2341-bis, è quello di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società. Un accordo tra soci deve assumere le forme espressamente previste dal codice civile: a) sindacati di voto, si tratta degli accordi che prendono forma nel vincolo, a carico dei soci, a consultarsi prima di esercitare il voto in assemblea, o nel vincolo a votare conformemente a quanto sia stato deciso dalla maggioranza dei partecipanti all’accordo medesimo; b) sindacati di blocco, si tratta degli accordi intesi a evitare che della compagine sociale vengano a far parte, quali nuovi azionisti, soggetti non graditi; c) sindacati di gestione, o di controllo, o ancora come patti di concertazione, si tratta degli accordi per mezzo dei quali i soci si accordano, ad esempio, sulla misura delle partecipazioni che rispettivamente intendono acquisire in una data società. I patti parasociali non possono durare più di 5 anni, ma sono rinnovabili alla scadenza. Se il patto non prevede un termine di durata, ciascun contraente ha diritto di recedere con un preavviso di centottanta giorni. Il limite temporale alla validità dei patti parasociali è volto al fine di evitare che la stabilizzazione delle forme di governo, o degli assetti proprietari, finisca per produrre un eccessivo irrigidimento delle posizioni di potere. L’art. 2341-ter si occupa della pubblicità dei patti parasociali, prescrivendo che «nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio i patti parasociali devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea. La dichiarazione dev’essere trascritta nel verbale e questo dev’essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese. 1.4 I CONFERIMENTI Oggetto del conferimento è quanto viene consegnato dal socio alla società per partecipare alla formazione del patrimonio iniziale della società. È in virtù di questo contributo che il soggetto conferente diviene azionista della società. Il valore in denaro di tutti i conferimenti, nella misura in cui tale valore è espresso nell’atto costitutivo, rappresenta il capitale sociale della s.p.a. Il primo comma dell’art. 2342 stabilisce che se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in denaro. Per garantire l’effettività di almeno parte dell’esborso iniziale è previsto che alla sottoscrizione dell’atto costitutivo debba essere versato presso una banca almeno il 25% dei conferimenti in denaro o, nel caso di costituzione con atto unilaterale, il loro intero ammontare. Alla norma è sottesa una duplice ratio: oltre che quella di indurre i soci a mantenere l’impegno che hanno preso con l’esborso iniziale, si rinviene altresì la finalità di consentire agli amministratori di cominciare a operare da subito, potendo disporre immediatamente di un certo ammontare di denaro. Gli amministratori potranno chiedere ai soci il versamento di quanto ancora dovuto in ogni momento. La regola del deposito pari al 25% non vale però per i conferimenti di beni in natura o di crediti: il legislatore ha inteso creare le condizioni affinché la società acquisti la piena e certa disponibilità di quanto ad essa trasmesso dai soci. Occorre cioè la contestuale consegna del bene conferito, che è come dire che in questi casi il conferimento dev’essere effettivo e non può assumere la veste di un più limitato impegno. Peculiare della s.p.a. è la norma che prevede che non possano formare oggetto di conferimento le prestazioni di opera o di servizi. La ratio che oggi si riscontra dietro questo divieto è basata su due considerazioni: 1. si ritiene opportuno evitare che il valore dei conferimenti di opera o di servizi sia imputato a capitale perché detti conferimenti risultano inidonei a tutelare i creditori nei casi di inadempimento. 2. si riconduce al rischio, che vuole essere evitato, che gli amministratori non abbiano il pieno controllo di quei fattori produttivi che sono, appunto, i conferimenti. Con riguardo all’apporto di beni in natura o di crediti l’art. 2343 appronta un procedimento inteso a tutelare l’esigenza di assicurare al massimo grado possibile che il complesso del capitale sociale sia integro. Si tratta del procedimento di stima, utile affinché i conferimenti siano valutati secondo criteri oggettivi, veritieri e conformi ai prezzi di mercato. A tale scopo chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare la relazione giurata di un esperto designato dal tribunale: la relazione dev’essere allegata all’atto costitutivo. L’esperto risponde dei danni causati alla società, ai soci e ai terzi. Fino a quando le valutazioni non siano state controllate le azioni corrispondenti ai conferimenti sono inalienabili e devono restare depositate presso la società. Si ha un’eccezione, cioè non è richiesto il parere di un esperto, quando il valore dei conferimenti venga comprovato da fonti ugualmente attendibili, in circostanze enunciate dall’art. 2343-ter. Gli amministratori sono responsabilizzati in misura particolare con riguardo ai frangenti in cui si verifichino fatti eccezionali o rilevanti che possano incidere sulla valutazione dei conferimenti. Se gli amministratori ritengano che siano intervenuti proprio questi fatti, o che non siano idonei i requisiti di professionalità e indipendenza, dovranno procedere affinché sia compiuta una nuova valutazione. Diversamente dovranno iscrivere nel registro delle imprese una dichiarazione contenente tutte le informazioni fondamentali riguardo ai conferimenti. Si parla usualmente di acquisti potenzialmente pericolosi quando si fa riferimento ai casi in cui ricorre il rischio che la società aggiri le regole sui conferimenti viste sin qui acquistando beni da soggetti quali i promotori, i fondatori, i soci e gli amministratori: la disposizione intesa a impedire questa elusione è l’art. 2343-bis, ai sensi della quale l’acquisto da parte della società di beni o crediti dei promotori, dei fondatori, dei soci o degli amministratori, per un corrispettivo pari o superiore al decimo del capitale sociale, nei due anni dall’iscrizione della società nel registro delle imprese dev’essere autorizzato dall’assemblea ordinaria. Il regime degli acquisti potenzialmente pericolosi si applica se essi: a) avvengano nei primi due anni di vita della società; b) prevedano un corrispettivo pari o superiore al decimo del capitale sociale; c) non avvengano a condizioni normali o comunque tali da non comportare i rischi presi in carico da questa disciplina speciale. Vi sono alcune preclusioni su ciò che può costituire oggetto di conferimento. Queste prestazioni possono però affiancare l’ordinario conferimento di un socio e configurarsi quali prestazioni accessorie: in altri termini esiste un modo per consentire alla società di avvalersi continuativamente di prestazioni che non potrebbero essere altrimenti conferite. Il socio chiamato a prestarle viene vincolato alla società sulla base non di un rapporto contrattuale, bensì di un’obbligazione di natura societaria. A tal fine l’art. 2345 prevede che «oltre l’obbligo dei conferimenti, l’atto costitutivo può stabilire l’obbligo dei soci di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in denaro, determinandone il contenuto, la durata, le modalità e il compenso, e stabilendo particolari sanzioni per il caso di inadempimento». Le azioni alle quali è connesso l’obbligo delle prestazioni anzidette devono essere nominative e non sono trasferibili senza il consenso degli amministratori. Per la modifica degli obblighi inerenti alle prestazioni accessorie si richiede l’unanimità. 1.5 LE AZIONI L’art. 2346 stabilisce che «la partecipazione sociale è rappresentata da azioni». Colui il quale sia titolare della partecipazione sociale è socio della società. Il numero delle azioni determina la misura dei diritti, patrimoniali e amministrativi, spettanti al socio, ma anche dei poteri e dei doveri dei quali il medesimo socio si deve fare carico. Dunque la partecipazione azionaria rappresenta due cose in una: un complesso di situazioni giuridiche soggettive, nonché una frazione del capitale sociale. Salve alcune eccezioni, la circolazione delle azioni avviene nel rispetto delle disposizioni che regolano i titoli di credito. L’azione intesa come titolo azionario ex art. 2354, terzo comma, deve indicare: a) la denominazione e la sede della società; b) la data dell’atto costitutivo e della sua iscrizione e l’ufficio del registro delle imprese dove la società è iscritta; c) il suo valore nominale o, se si tratta di azioni senza valore nominale, il numero complessivo delle azioni emesse, nonché l’ammontare del capitale sociale; d) l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate; e) i diritti e gli obblighi particolari ad essi inerenti. L’art. 2346 al quarto comma sancisce che «a ciascun socio è assegnato un numero di azioni proporzionale alla parte del capitale sociale sottoscritta e per un valore non superiore a quello del suo conferimento», e il secondo comma che «se determinato nello statuto, il valore nominale di ciascuna azione corrisponde ad una frazione del capitale sociale»; il valore di un’azione può fare riferimento a diverse accezioni: a. Il valore nominale, dato dal rapporto tra il valore del capitale sociale e il numero delle azioni emesse «in mancanza di indicazione del valore nominale delle azioni, le disposizioni che ad esso si riferiscono si applicano con riguardo al loro numero in rapporto al totale delle azioni emesse». b. Il valore di emissione è quello al quale le azioni sono offerte in sottoscrizione al momento della costituzione della società o in sede di successivi aumenti del capitale. Può essere superiore a quello nominale e allora le azioni vengono emesse con sovrapprezzo. Il valore complessivo di emissione delle azioni non può essere inferiore all’ammontare del capitale sociale. c. Il valore di bilancio si ricava dividendo il patrimonio netto per il numero delle azioni in circolazione. d. Il valore di mercato rappresenta il prezzo al quale le azioni sono scambiate. L’azione rappresenta l’unità più piccola possibile di partecipazione al capitale sociale. L’indivisibilità delle azioni non impedisce però che la società proceda a operazioni di frazionamento e riduca il valore nominale delle azioni, così com’è possibile realizzare operazioni di raggruppamento (andranno ad esempio in comunione ereditaria). Di per sé il frazionamento non dà luogo a situazioni particolarmente delicate sotto il profilo della tutela dei diritti dei soci, effetto che può invece realizzarsi quando, all’opposto, si proceda a un raggruppamento di azioni. Questa operazione è infatti suscettibile di produrre dei resti, frazioni percentuali di azioni delle quali dev’essere assegnata la titolarità. Per contenere circostanze del genere la giurisprudenza giudica lecito il raggruppamento che consegua a un’operazione necessaria o utile per la società. Avere più azioni significa essere titolari di più partecipazioni che conferiscono all’azionista, in misura proporzionale, i diritti, i doveri e i poteri tipici di ciascun socio. Per autonomia dell’azione s’intende, dunque, il carattere di ogni azione tale per cui ogni frazione standard del capitale sociale formalmente dev’essere considerata come partecipazione unitaria, distinta e autonoma rispetto alle altre azioni che, pure, appartengano al medesimo socio. Lo status dell’azionista è basato sull’uguaglianza di diritti, sulla base dell’art. 2348 (le azioni «conferiscono ai loro possessori uguali diritti»). L’uguaglianza di cui parliamo è dunque senz’altro oggettiva, ma non lo è sempre soggettivamente. Dal punto di vista soggettivo, infatti, la posizione di ogni socio si riassume nella partecipazione intesa come insieme di più azioni, dei cui diritti il socio dispone globalmente, in proporzione al numero delle azioni possedute. L’uguaglianza dei diritti propria di ogni azione è, poi, relativa e non assoluta. Ciò nel senso che, come riporta il secondo comma dell’art. 2348, si possono creare «categorie di azioni fornite di diritti diversi», cioè categorie speciali di azioni. L’uguaglianza dei diritti dovrà però essere garantita, all’interno di ciascuna categoria. Partendo dai diritti patrimoniali, l’art. 2350 attesta che «ogni azione attribuisce il diritto a una parte proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione, salvi i diritti stabiliti a favore di speciali categorie di azioni». L’unico limite espresso alla libera determinazione di questo tipo di diritti azionari riguarda il divieto del patto leonino. Il contenuto dei diritti patrimoniali propri delle azioni di una s.p.a. può assumere forme variegate di remunerazione, quali ad esempio: a) secondo una data proporzione rispetto agli utili conseguiti dalla società; b) subordinatamente ai ricavi conseguiti dalla società in un dato settore della propria attività e in proporzione rispetto a tale andamento. Per quanto riguarda invece i diritti amministrativi, l’art. 2351 stabilisce che «Ogni azione attribuisce il diritto di voto. Salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Il valore di tali azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale. Lo statuto può prevedere che, in relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o disporne scaglionamenti» (un’azione=un voto). Rientrano tra i diritti amministrativi anche il diritto di partecipare all’assemblea e di intervenirvi, il diritto di impugnare le deliberazioni ecc. Sempre secondo l’art. 2351.4 «salvo quanto previsto da leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo (…) fino a un massimo di tre voti». Questa disposizione è stata introdotta nel 2014 con la finalità di favorire quegli azionisti che, in vista della crescita dimensionale delle imprese, intendono ricorrere a capitali esterni senza però perdere il controllo della società. Le azioni correlate, disciplinate dall’art. 2050, sono le «azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore», mentre le azioni di godimento, ai sensi dell’art. 2353, sono azioni che possono essere assegnate a seguito di un’operazione di riduzione reale del capitale sociale, ed esistono appunto per riconoscere ai soci, che abbiano viste le proprie azioni sorteggiate e annullate per effetto di questa operazione, qualche diritto, per quanto limitato. L’art. 2349 disciplina le azioni a favore dei prestatori di lavoro stabilendo la possibilità per l’assemblea straordinaria di deliberare l’assegnazione di utili ai prestatori di lavoro dipendenti dalla società o di società controllate mediante l’emissione di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente ai prestatori di lavoro, con norme particolari riguardo alla forma, al modo di trasferimento ed ai diritti spettanti agli azionisti. Se la società crea speciali categorie di azioni deve necessariamente prevedere la costituzione di assemblee speciali, disciplinate dall’art. 2376, ai sensi del quale «le deliberazioni dell’assemblea, che pregiudicano i diritti di una di esse, devono essere approvate anche dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata. Alle assemblee speciali si applicano le disposizioni relative alle assemblee straordinarie». La disciplina dei vincoli sulle azioni è contenuta nell’art.2352, norma espressamente dedicata al pegno, all’usufrutto e al sequestro delle azioni. Nel caso di pegno o usufrutto sulle azioni il diritto di voto spetta, salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio o all’usufruttuario, mentre in caso di sequestro il diritto di voto è esercitato dal custode. La norma è particolare poiché deroga all’art. 2377 che, quale regola generale, stabilisce che il diritto di impugnazione della deliberazione spetta solo al socio avente diritto di voto. 1.6 LA CIRCOLAZIONE DELLE AZIONI L’art. 2354 stabilisce che «i titoli possono essere nominativi o al portatore, a scelta del socio, se lo statuto o le leggi speciali non stabiliscono diversamente. Finché le azioni non siano interamente liberate, non possono essere emessi titoli al portatore». La nominatività obbligatoria consente di perseguire più agevolmente le istanze di carattere fiscale, e svolge altresì la funzione di facilitare la conoscenza reciproca dei soci e i rapporti tra i medesimi. Mentre i titoli al portatore rappresentano un incentivo all’investimento azionario, dal momento che così si consente al socio di tenere celato il proprio investimento ai creditori e al fisco. La legittimazione a esercitare i diritti contenuti nel titolo azionario e le modalità di circolazione del medesimo coincidono. Il possesso semplice e il possesso qualificato, rispettivamente, costituiscono infatti le forme di circolazione delle azioni previste dall’ordinamento. Il secondo comma dell’art. 2355 stabilisce che «le azioni al portatore si trasferiscono con la consegna del titolo», e il comma successivo che «il trasferimento delle azioni nominative si opera mediante girata autenticata da un notaio o da altro soggetto secondo quanto previsto dalle leggi speciali. Il giratario che si dimostra possessore in base a una serie continua di girate ha diritto di ottenere l’annotazione del trasferimento nel libro dei soci, ed è comunque legittimato ad esercitare i diritti sociali». La circolazione delle azioni nominative avviene legittimamente se si proceda a una doppia intestazione: sul titolo stesso e nel libro dei soci di cui dispone la società. La sola girata, purché ricorra una serie continua, prima ancora dell’annotazione nel libro dei soci e indipendentemente dall’assolvimento di questo onere è sufficiente affinché il socio possa avvalersi di tutti i diritti che gli spettano quale nuovo azionista. In tema di limiti alla circolazione delle azioni va anzitutto tenuto presente come la regola di riferimento sia stata a lungo il divieto di impedirne il trasferimento. L’introduzione dell’art. 2355-bis ha consentito che lo statuto vieti il trasferimento per non oltre cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto. Il secondo comma dell’art. 2355-bis si occupa delle clausole statutarie di mero gradimento. Con tale formula s’intendono le pattuizioni che subordinano il trasferimento delle azioni alla decisione discrezionale di un organo della società. A lungo vietate, le clausole di mero gradimento dal 2003 sono consentite subordinatamente al rispetto delle condizioni tracciate. Un uguale regime viene disposto per tutte le clausole che sottopongono a particolari condizioni il trasferimento delle azioni a causa di morte, salvo che sia previsto il gradimento e questo sia concesso. La ratio della disciplina è chiara: creare le condizioni affinché al socio non risulti impossibile cedere la propria partecipazione. Non sono invece vietate, né sottoposte a una disciplina specifica, le clausole di gradimento non mero, ossia le pattuizioni che prevedano come necessario, per acquistare la qualità di socio, possedere requisiti (di età, sesso, professione, e così via) predeterminati e rappresentati nello statuto. Le clausole di prelazione sono accordi che a loro volta possono essere ricondotti alla fattispecie tratteggiata dal primo comma dell’art. 2355-bis, tramite i quali lo statuto impone al socio che intenda cedere le proprie azioni di offrirle in vendita prima agli altri soci. 1.7 LE OPERAZIONI SULLE AZIONI Le operazioni sulle azioni compiute dalla società sono tradizionalmente guardate con sospetto dal legislatore e ammesse con molte cautele. Procedendo dal generale al particolare si individuano anzitutto le operazioni che la società può compiere sulle azioni altrui, ossia sulle azioni emesse da altra società. La disciplina che le riguarda è contenuta nell’art. 2361, che vieta alla s.p.a. la partecipazione in altre imprese se per la misura e l’oggetto ne risulti sostanzialmente modificato l’oggetto sociale. Tale norma è evidentemente intesa a scongiurare il rischio che gli amministratori surrettiziamente modifichino l’ambito di operatività economica della società senza consultare i soci e ottenere il dovuto avallo da parte dell’assemblea straordinaria. Il secondo comma regola invece l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime; l’operazione è consentita ma viene richiesta l’approvazione da parte dell’assemblea. Tra le operazioni che la società compie sulle proprie azioni, si distinguono le operazioni di sottoscrizione e di acquisto di azioni proprie: tra i vantaggi rilevano la possibilità per la società di investire eccessi di liquidità (nei casi in cui ciò si renda opportuno), la regolarizzazione degli andamenti di borsa che con tali operazioni è talora dato ottenere, la diversificazione del ritorno economico garantito ai soci rispetto alla modalità della distribuzione degli utili; tra i rischi si rinvengono l’accrescimento abnorme del potere dei soci di controllo e/o degli amministratori, la maggiore opacità relativamente alla consistenza patrimoniale della società, il pericolo di veri e propri fenomeni di annacquamento del capitale. Le cautele per disciplinare queste operazioni si spingono fino al divieto di sottoscrizione di azioni proprie, dal momento che detta sottoscrizione si realizzerebbe con un esborso, da parte della società, compiuto con fondi propri. Per la medesima ragione è vietata anche l’omologa operazione che sia effettuata tra due società l’una nei confronti dell’altra: la ratio è evitare una moltiplicazione illusoria della ricchezza. La violazione del divieto di sottoscrizione di azioni proprie non implica però la nullità dell’operazione (art. 2357-quater): se si tratta di sottoscrizione diretta, ossia di sottoscrizione da parte della società, questa verrà invece considerata come se fosse stata effettuata dai promotori e dai soci fondatori o dagli amministratori; se poi la sottoscrizione sia stata effettuata in nome proprio ma per conto della società (sottoscrizione indiretta), l’operazione sarà considerata come se fosse stata posta in essere per conto della stessa persona che l’ha compiuta e le azioni dovranno essere liberate da questa. Per quanto riguarda invece l’acquisto di azioni proprie, l’ammissibilità è sottoposta a 4 condizioni: 1. per evitare fenomeni pregiudizievoli nei confronti del livello del capitale sociale è necessario che l’acquisto avvenga nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato; 2. possono essere acquistate solo azioni interamente liberate; diversamente la società finirebbe per ritrovarsi nella condizione di essere debitrice di sé stessa; 3. per le sole società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio è richiesto che il valore nominale delle azioni proprie, ivi incluse le azioni possedute da società controllate, non ecceda la quinta parte del capitale sociale; 4. trattandosi di un’operazione che impiega utili e riserve altrimenti disponibili per i soci, è necessario che l’acquisto sia autorizzato dall’organo che dei soci esprime la volontà, cioè l’assemblea, che deve fissare le modalità dell’acquisto indicando in particolare il numero massimo di azioni da acquistare, la durata per la quale l’autorizzazione è accordata (non superiore a diciotto mesi) e il corrispettivo massimo. La sanzione prevista in caso di violazione delle regole menzionate è riportata dal quarto comma dell’art. 2357: «le azioni acquistate in violazione dei commi precedenti devono essere alienate secondo modalità da determinarsi dall’assemblea, entro un anno dal loro acquisto. In mancanza, deve procedersi senza indugio al loro annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale. Qualora l’assemblea non provveda, gli amministratori e i sindaci devono chiedere che la riduzione sia disposta dal tribunale». In talune ipotesi detti limiti non si applicano; si tratta dei casi nei quali l’acquisto di azioni proprie avvenga: a) in esecuzione di una deliberazione dell’assemblea di riduzione del capitale, da attuarsi mediante riscatto e annullamento di azioni; b) a titolo gratuito, sempre che si tratti di azioni interamente liberate; c) per effetto di successione universale o di fusione o scissione; d) in occasione di esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito della società. Gli amministratori non possono disporre delle azioni acquistate se non previa autorizzazione dell’assemblea, la quale deve stabilire le relative modalità. Finché le azioni restano in proprietà della società il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni. Il diritto di voto è sospeso ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo della maggioranza e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea. Una riserva indisponibile, pari all’importo delle azioni proprie, dev’essere costituita e mantenuta finché le azioni non siano trasferite o annullate. Altre operazioni che la società può compiere sulle proprie azioni sono le operazioni di prestito o di garanzia per la sottoscrizione o l’acquisto di azioni proprie: oggi, ai sensi dell’art. 2358 la possibilità esiste ma è sottoposta ad alcune condizioni. 1.8 STRUMENTI FINANZIARI E OBBLIGAZIONI Nel 2003 sono stati introdotti nel nostro ordinamento gli strumenti finanziari partecipativi (la cui disciplina si rinviene al sesto comma dell’art. 2346). Mentre le azioni sono emesse in cambio di conferimenti di beni costitutivi del capitale sociale, come tali ivi immobilizzati, gli strumenti finanziari partecipativi sono emessi in cambio di finanziamenti che non vengono imputati a capitale sociale; la differenza che corre tra gli strumenti finanziari partecipativi e le obbligazioni è più sfumata, ma in sostanza attiene al fatto che le obbligazioni sono titoli di massa che attribuiscono il diritto al rimborso di una somma di denaro. Gli strumenti finanziari partecipativi vengono emessi, come abbiamo potuto riscontrare, «a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi». Il termine “apporto” conferma la diversità tipologica rispetto al conferimento, di regola costituito da denaro o beni in natura, ma eventualmente anche di opera o servizi. I diritti patrimoniali potranno consistere in una remunerazione predeterminata e pagata a scadenze fisse, o in una partecipazione agli utili. Nel novero dei diritti amministrativi rientrano il diritto di voto su argomenti specificamente indicati e la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco. Agli strumenti finanziari partecipativi che riconoscono al titolare il diritto al rimborso del capitale si applica anche il regime giuridico delle obbligazioni. Le obbligazioni sono strumenti ai quali la s.p.a. può ricorrere per raccogliere capitale di credito. Più precisamente si tratta di titoli di credito, nominativi o al portatore, che rappresentano frazioni di eguale valore, e dotati degli stessi diritti, di un’unica operazione di finanziamento della società a titolo di mutuo. La differenza che sussiste tra obbligazioni e azioni è della stessa natura di quella che intercorre tra azioni e strumenti finanziari partecipativi: mentre il conferimento è imputato a capitale sociale e costituisce capitale di rischio, l’apporto dell’obbligazionista non è imputato a capitale e costituisce capitale di debito; quindi, la titolarità dell’azione conferisce la qualità di socio della società, laddove la titolarità dell’obbligazione conferisce la qualità di creditore della società. L’apporto obbligazionario è evidentemente meno pericoloso rispetto al conferimento in cambio del quale si ottengono azioni. Emettendo obbligazioni la società si procura risorse finanziarie, per un utilizzo che tipicamente è di medio-lungo periodo, a titolo di mutuo, e s’impegna a restituire le somme così prese a prestito al decorrere di una scadenza predeterminata. Se la legge o lo statuto non dispongono diversamente l’emissione di obbligazioni è deliberata dagli amministratori. I titoli obbligazionari devono indicare: a) la denominazione, l’oggetto e la sede della società, e l’ufficio del registro delle imprese presso il quale la società è iscritta; b) il capitale sociale e le riserve esistenti al momento dell’emissione; c) la data della deliberazione di emissione e della sua iscrizione nel registro; d) l’ammontare complessivo dell’emissione, il valore nominale di ciascun titolo, i diritti con essi attribuiti, il rendimento o i criteri per la sua determinazione e il modo di pagamento e di rimborso, e l’eventuale subordinazione dei diritti degli obbligazionisti a quelli di altri creditori della società; e) le eventuali garanzie da cui sono assistiti; f) la data di rimborso del prestito e gli estremi dell’eventuale prospetto informativo. La società può emettere obbligazioni al portatore o nominative per somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato; tuttavia, il limite può essere superato in alcune ipotesi espressamente contemplate dall’art. 2412. a) Se le obbligazioni emesse in eccedenza sono destinate alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali; b) Se l’emissione di obbligazioni è garantita da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà della società, sino a due terzi del valore degli immobili medesimi. c) Se le obbligazioni sono destinate ad essere quotate in mercati regolamentati o in sistemi multilaterali di negoziazione o se si tratta di obbligazioni che danno il diritto di acquisire o sottoscrivere azioni. d) Se ricorrono particolari ragioni che interessano l’economia nazionale. La società che ha emesso obbligazioni non può ridurre volontariamente il capitale sociale o distribuire riserve se rispetto all’ammontare delle obbligazioni ancora in circolazione tali limiti non risultino più rispettati. L’assemblea degli obbligazionisti è l’organo di categoria deputato a esprimersi ogniqualvolta siano in gioco gli interessi dei titolari; cioè quando si tratti di tutelare il prestito obbligazionario e i diritti spettanti agli obbligazionisti. L’art. 2415 rende espressi i temi sui quali l’assemblea è chiamata a pronunciarsi, prevedendo che essa delibera: a) sulla nomina e sulla revoca del rappresentante comune; b) sulle modificazioni delle condizioni del prestito; c) sulla proposta di amministrazione controllata e di concordato; d) sulla costituzione di un fondo per le spese; e) sugli altri oggetti d’interesse comune degli obbligazionisti. L’assemblea è convocata dal consiglio di amministrazione, dal consiglio di gestione o dal rappresentante degli obbligazionisti o quando ne è fatta richiesta da un numero di obbligazionisti che rappresenti il ventesimo dei titoli emessi e non estinti. Per la validità delle deliberazioni sulle modificazioni delle condizioni del prestito è necessario, anche in seconda convocazione, il voto favorevole degli obbligazionisti che rappresentino la metà delle obbligazioni emesse e non estinte. Gli obbligazionisti dispongono di un proprio rappresentante comune, che può essere scelto al di fuori degli obbligazionisti: se non ci provvede l’assemblea è nominato con decreto dal tribunale su domanda degli obbligazionisti. I poteri riconosciuti al rappresentante non precludono le azioni individuali degli obbligazionisti contro la società. Le obbligazioni convertibili sono un tipo particolare di obbligazioni, tale per cui all’obbligazionista è riconosciuto non solo il diritto al rimborso (con gli interessi) della somma prestata alla società, ma anche il diritto di sottoscrivere azioni della società, a propria discrezione, i cui conferimenti corrispondano all’ammontare del finanziamento. Il regime giuridico delle obbligazioni convertibili prevede cioè il mutamento, in un dato momento nel tempo, della natura del rapporto da obbligazionario ad azionario. La decisione di emettere obbligazioni convertibili, che è consentita solo se il capitale sociale sia stato interamente versato, spetta all’assemblea straordinaria. Essa deve determinare il rapporto di cambio, ossia l’indicazione di quante azioni spetteranno per ciascuna obbligazione, e il periodo e le modalità della conversione. Contestualmente all’emissione la società deve deliberare l’aumento del capitale sociale per un ammontare corrispondente alle azioni da attribuire in cambio. 2. GLI ORGANI DELLA SOCIETÀ PER AZIONI I sistemi di amministrazione e controllo sono tre: 1. Il sistema tradizionale, unico modello contemplato nell’ordinamento prima del 2003 e ancora utilizzato di default se i soci non esprimono un’opzione diversa. Richiede la nomina di tre organi: assemblea dei soci, con funzioni deliberative, l’organo amministrativo, con funzioni gestorie, e il collegio sindacale, che ha funzioni di controllo sull’amministrazione. 2. Il sistema dualistico. 3. Il sistema monistico. 2.1 L’ASSEMBLEA DEI SOCI L’assemblea, convocata nel comune dove ha sede la società è l’organo che riunisce tutti i soci della s.p.a.: infatti ricopre funzioni eminentemente deliberative, anche se progressivamente il suo ruolo è stato depotenziato. Ai sensi dell’art. 2363 l’assemblea è ordinaria o straordinaria: la diversità non attiene alla regolarità o meno della sua convocazione, bensì all’oggetto delle deliberazioni che l’assemblea è titolata a prendere; l’organo rimane lo stesso, ciò che cambia è il regime al quale l’organo è sottoposto sotto il profilo dei quorum costitutivi e deliberativi e delle regole di verbalizzazione. Un’ulteriore distinzione tipologica si ravvisa tra assemblea generale e assemblee speciali, che però sono organi diversi. È generale l’assemblea della s.p.a. che abbia emesso solo azioni ordinarie: in tal caso ricorre un unico organo assembleare al quale hanno diritto di partecipare tutti i soci che dispongano del diritto di voto. Se invece, come riporta l’art. 2376, esistono diverse categorie di azioni o strumenti finanziari che conferiscono diritti amministrativi, le deliberazioni dell’assemblea che pregiudicano i diritti di una di esse devono essere approvate anche dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata. In base all’art. 2364, a seconda che una s.p.a. abbia adottato il sistema di amministrazione e controllo tradizionale o dualistico, l’assemblea ha compiti diversi; mentre l’assemblea straordinaria (art. 2365) delibera sulle modificazioni dello statuto, sulla nomina, sostituzione e sui poteri dei liquidatori e su ogni altra materia espressamente attribuita dalla legge alla sua competenza. La riunione dell’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l’anno, anche se lo statuto può prevedere un maggior termine quando lo richiedano particolari esigenze relative alla struttura e all’oggetto della società. La convocazione è effettuata collegialmente dall’organo amministrativo al quale, in determinati casi, possono sostituirsi i sindaci. Strumento di convocazione è l’avviso (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale) contenente l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo della riunione, e l’elenco delle materie da trattare. Un secondo caso di convocazione è contemplato dall’art. 2367: gli amministratori o il consiglio di gestione devono convocare senza ritardo l’assemblea quando ne sia fatta domanda da tanti soci che rappresentino almeno il ventesimo del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il decimo del capitale sociale nelle altre (o la minore percentuale che sia eventualmente prevista statutariamente), e nella domanda siano indicati gli argomenti da trattare. La convocazione su richiesta di soci non è ammessa per argomenti sui quali l’assemblea delibera a norma di legge su proposta degli amministratori. C’è chi deve partecipare all’assemblea: sono gli amministratori, i membri del consiglio di sorveglianza, i sindaci, i componenti del comitato per il controllo sulla gestione. E c’è chi può: ai sensi dell’art. 2370 si tratta di tutti coloro ai quali spetti il diritto di voto, il rappresentante comune degli obbligazionisti (art. 2418), il rappresentante comune degli azionisti di risparmio (art. 147 t.u.f.) e dei possessori di strumenti finanziari di partecipazione all’affare al quale sia destinato un patrimonio separato (art. 2447-octies). Il diritto di intervento dev’essere riconosciuto anche ai soci il cui diritto di voto sia stato sospeso, come gli azionisti in mora con il versamento dei conferimenti, che dunque contribuiranno soltanto alla formazione del quorum costitutivo dell’assemblea. Per evitare elusioni sostanziali delle regole poste a tutela del corretto procedimento di convocazione e intervento, quali ad esempio possono rivelarsi manovre speculative o alienazioni delle azioni a ridosso dell’assemblea, l’art. 2370 stabilisce che lo statuto può richiedere il preventivo deposito delle azioni presso la sede sociale o presso le banche indicate nell’avviso di convocazione; può consentire inoltre l’intervento all’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione. L’assemblea ordinaria è regolarmente costituita quand’è rappresentata almeno la metà del capitale sociale, escluse dal computo le azioni prive del diritto di voto. In mancanza delle formalità previste per la convocazione l’assemblea si reputa regolarmente costituita se sia rappresentato l’intero capitale sociale e partecipi all’assemblea la maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo. È questa l’ipotesi in cui si riunisce l’assemblea totalitaria, la quale può deliberare su qualsiasi materia. Il quorum costitutivo rappresenta l’ammontare di capitale che dev’essere raggiunto perché l’assemblea possa dirsi regolarmente riunita, mentre il quorum deliberativo rappresenta la parte che occorre raccogliere a favore di una deliberazione affinché essa sia approvata. I quorum differiscono a seconda che si tratti di assemblea ordinaria e straordinaria, rispettivamente di prima e di seconda convocazione (artt. 2368-69). L’assemblea ordinaria delibera a maggioranza assoluta, mentre quella straordinaria delibera con il voto favorevole di più di metà del capitale sociale. Se all’assemblea non è rappresentata la parte di capitale richiesta, può esserci una seconda convocazione (non lo stesso giorno della prima), nella quale si tratteranno gli stessi argomenti oggetto della prima. In prima convocazione – assemblea ordinaria: occorre la presenza di tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale, e la deliberazione è presa a maggioranza assoluta delle azioni che abbiano preso parte alla votazione; assemblea straordinaria: non viene esplicitato il quorum costitutivo sicché esso si desume da quello deliberativo e ne consegue che per approvare una deliberazione occorre il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più della metà del capitale sociale. In seconda convocazione – assemblea ordinaria: non è previsto un quorum costitutivo sicché l’assemblea è regolarmente costituita qualunque sia l’ammontare di capitale rappresentato in assemblea, mentre il quorum deliberativo richiede di raccogliere il voto favorevole della maggioranza delle azioni che abbiano preso parte alla votazione; assemblea straordinaria: il quorum costitutivo è pari a oltre un terzo del capitale sociale, mentre quello deliberativo richiede il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea. Lo statuto può modificare solo in aumento le maggioranze previste per l’assemblea ordinaria di prima convocazione e quelle dell’assemblea straordinaria, oltre a poter disporre norme particolari per la nomina delle cariche sociali. Il conflitto di interessi del socio, che rappresenta una forma significativa di abuso del diritto di voto, è disciplinato dall’art. 2373: che il socio risulti titolare di un doppio interesse, personale e societario, non è decisivo al fine di invalidare la deliberazione, né al socio è impedito di votare (com’era previsto prima del 2003). Occorre infatti: a) che sia raggiunta la prova di resistenza, ossia la prova che il voto del socio in posizione conflittuale sia stato determinante agli effetti del calcolo della maggioranza; b) che si riscontri il danno potenziale, ossia che ricorra la condizione che possa conseguire un pregiudizio a carico della società. Il presidente dell’assemblea viene eletto a maggioranza e assistito da un segretario; non è un ruolo meramente formale, infatti «verifica la regolarità della costituzione, accerta l’identità e la legittimazione dei presenti, regola il suo svolgimento ed accerta i risultati delle votazioni; degli esiti di tali accertamenti deve essere dato conto nel verbale» (ex art. 2371). In tema di rappresentanza dei soci nelle assemblee, è consentito l’uso di una delega per agevolare i soci che non possano partecipare e favorire la funzionalità dell’assemblea: deve essere per iscritto e contenere le istruzioni di voto, è sempre revocabile (nonostante ogni patto contrario) ed esiste il limite quantitativo per cui la stessa persona non può rappresentare in assemblea più di 20 soci. Se una deliberazione assembleare è conforme alla legge e all’atto costitutivo, cioè se si tratta di una deliberazione valida, essa vincola tutti i soci ancorché assenti o dissenzienti: così recita il primo comma dell’art. 2377. Le deliberazioni assembleari invalide, invece, possono essere nulle o annullabili. A differenza di quanto è previsto dal diritto comune, nel diritto societario con una scelta normativa motivata dall’esigenza di garantire la certezza delle deliberazioni e dell’operatività dell’impresa, l’annullabilità, regolata dall’art. 2377, è azione generale, e costituisce la regola, mentre la nullità, regolata dall’art. 2379, è azione speciale, e costituisce l’eccezione. La disciplina dell’annullabilità prevede che le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate solo da alcuni soggetti determinati: si tratta dei soci assenti, dissenzienti o astenuti, degli amministratori, del consiglio di sorveglianza e del collegio sindacale. I soci sono peraltro sottoposti a una limitazione, intesa a contenere i rischi di impugnazioni ostruzionistiche: l’impugnazione da parte di costoro può essere proposta solo quando essi posseggano tante azioni aventi diritto di voto che rappresentino, anche congiuntamente, l’uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il 5% nelle altre; e si prevede altresì che lo statuto può ridurre o escludere questa soglia (il quorum di legittimazione non può essere maggiorato). L’art. 2377 contempla poi tre ipotesi nelle quali la deliberazione non può essere annullata: a) per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che tale partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea; b) per l’invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o l’errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta; c) per l’incompletezza o l’inesattezza del verbale, salvo che esse impediscano l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione. Sono ipotesi introdotte dalla riforma del 2003 per evitare che irregolarità formali, non in grado di condizionare la sostanza di quanto deciso, rendano invalida la deliberazione. L’impugnazione o la domanda di risarcimento del danno sono proposte nel termine di novanta giorni dalla data della deliberazione, o, se questa è soggetta a iscrizione nel registro delle imprese, entro novanta giorni dall’iscrizione. L’annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci e obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione. È ammessa la sostituzione se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto. Il procedimento d’impugnazione, regolato dall’art. 2378, si attiva con atto di citazione. La società viene convenuta in giudizio nella persona degli amministratori sicché se siano costoro a impugnare la deliberazione, non potendo gli amministratori convenire sé stessi, essi dovranno preventivamente chiedere la nomina di un curatore speciale. Con ricorso l’impugnante può chiedere la sospensione dell’esecuzione della deliberazione. In caso di eccezionale e motivata urgenza il presidente del tribunale provvede sull’istanza con decreto motivato; il giudice di merito, sentiti amministratori e sindaci, provvede valutando comparativamente il pregiudizio che subirebbe il ricorrente dall’esecuzione e quello che subirebbe la società dalla sospensione dell’esecuzione della deliberazione. All’udienza il giudice, ove lo ritenga utile, esperisce il tentativo di conciliazione eventualmente suggerendo le modificazioni da apportare alla deliberazione impugnata. Si ha invece nullità delle deliberazioni, ai sensi dell’art. 2379, in tre casi tassativamente indicati: a) Mancata convocazione dell’assemblea, tenendo conto che la convocazione non si considera mancante in caso di irregolarità nell’avviso. b) Mancanza di verbale, che non si considera mancante se contiene la data della deliberazione, il suo oggetto ed è sottoscritto dal presidente dell’assemblea. c) Impossibilità o illiceità dell’oggetto. In tutte le ipotesi la deliberazione può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla sua iscrizione o dal deposito nel registro delle imprese. Non ci sono invece limiti di tempo per le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili. L’invalidità può anche essere ricavata d’ufficio dal giudice. 2.2 L’ORGANO AMMINISTRATIVO NEL SISTEMA TRADIZIONALE L’art. 2380 si premura innanzitutto di precisare che ai soci è data la possibilità di scegliere la soluzione organizzativa prediletta, così come di modificarla in itinere. Sulla base dell’art. 2380-bis emerge la possibile presenza di doppie categorie di soggetti titolari a gestire la società: amministratori soci e non soci, e amministratori ordinari e delegati, generalmente a seconda della dimensione e tipologia della società. Agli amministratori, a cui spetta la gestione dell’impresa in via esclusiva, spettano inoltre una serie di mansioni specifiche che si possono raggruppare in: a) funzioni gestorie, consistenti nel decidere su ogni questione attinente alla vita della società; b) funzioni di rappresentanza, consistenti nel poter assumere obbligazioni in nome e per conto della società; c) funzioni strumentali, a vario titolo consistenti nel dare impulso all’attività dell’assemblea, tenere le scritture contabili e adempiere agli oneri pubblicitari di volta in volta richiesti, e così via; d) funzioni generali di protezione della società e prevenzione dei danni che possono colpirla, eliminandone o attenuandone le conseguenze. La società per azioni può essere gestita da un amministratore unico oppure, se l’amministrazione sia affidata a più persone, da un consiglio di amministrazione. In base all’art. 2383 la nomina degli amministratori spetta all’assemblea, fatta eccezione per i primi amministratori che sono nominati nell’atto costitutivo. Se lo statuto non stabilisce il numero degli amministratori, ma ne indica solo un numero massimo e minimo, la determinazione spetta all’assemblea. Normalmente gli amministratori sono persone fisiche, ma una parte della dottrina non si esclude che la carica amministrativa possa essere assegnata anche a una persona giuridica. Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi e scadono alla data dell’assemblea chiamata ad approvare il bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica. Essi sono rieleggibili, salvo diversa disposizione dello statuto, e sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore a vedersi risarciti i danni se la revoca avvenga senza giusta causa. Per cause di ineleggibilità (o di decadenza qualora la carica sia già stata assenta) si intendono le condizioni personali di taluni soggetti che impediscano loro di assumere la carica di amministratore. Ai sensi dell’art. 2382 non possono assumere tale carica: l’interdetto, l’inabilitato, il fallito e chiunque sia stato condannato a una pena che implichi l’interdizione anche temporanea dai pubblici uffici o l’incapacità a esercitare uffici direttivi. Sono poi previste dall’ordinamento diverse cause di incompatibilità, che determinano l’obbligo di scegliere tra le due cariche. In base a quanto disposto dall’art. 2387 lo statuto può poi subordinare l’assunzione della titolarità della carica di amministratore al possesso di speciali requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza. In materia di compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo l’art. 2389 prevede che essi siano stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea. Possono essere diversamente composti e corrisposti: pagati una tantum o in occasione della partecipazione alle riunioni dell’organo amministrativo, fissi o variabili (es: correlati all’andamento degli utili societari). Se non siano prefissati, e purché gli amministratori non vi abbiano rinunciato, i compensi potranno essere stabiliti dal giudice su ricorso degli amministratori. La remunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche è stabilita dal consiglio di amministrazione sentito il parere del collegio sindacale. Le cause di cessazione degli amministratori anteriori alla scadenza del termine sono quattro: a) La rinuncia da parte dell’amministratore. La rinunzia ha effetto immediato, se rimane in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione, o, in caso contrario, dal momento in cui la maggioranza del consiglio si è ricostituita in seguito all’accettazione dei nuovi amministratori (art. 2385). b) La revoca da parte dell’assemblea, salvo il diritto degli amministratori al risarcimento del danno se non sussista una giusta causa. c) La decadenza dall’ufficio, nelle ipotesi in cui si verifichi una causa di ineleggibilità. d) La morte. La disciplina della sostituzione degli amministratori è prevista in relazione ai casi nei quali non si può dare luogo a prorogatio ed è stabilita dall’art. 2386. Se nel corso dell’esercizio vengono a mancare uno o più amministratori gli altri provvedono a sostituirli con deliberazione approvata dal collegio sindacale, e gli amministratori così nominati restano in carica fino all’assemblea successiva. Se invece viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in carica devono convocare l’assemblea perché provveda alla loro sostituzione. Se, infine, cessano tutti gli amministratori (o l’amministratore unico), il collegio sindacale deve convocare con urgenza l’assemblea per la ricostituzione dell’organo amministrativo. Quando l’organo amministrativo della s.p.a. è pluripersonale risulta costituito il consiglio di amministrazione, e le funzioni che ad esso sono assegnate devono essere intese come attribuite all’organo collegialmente considerato. La ratio della norma risiede nell’esigenza di garantire una riflessione congiunta sugli argomenti oggetto di deliberazione da parte del consiglio. La collegialità come metodo di lavoro del consiglio di amministrazione emerge poi in sede deliberativa; dunque, di default il consiglio si ritiene validamente costituito quando sia soddisfatto il quorum pari alla maggioranza degli amministratori, mentre il quorum deliberativo si considera raggiunto quando siano raccolti i voti favorevoli della maggioranza assoluta dei presenti, voti che dunque sono calcolati per teste. La collegialità del consiglio non implica che non possano esservi mansioni che gli amministratori sono autorizzati a esercitare individualmente. Gli artt. 2380-bis e 2381 disciplinano le competenze del presidente stabilendo che «il consiglio di amministrazione sceglie tra i suoi componenti il presidente, se questi non è nominato dall’assemblea», e che «salvo diversa previsione dello statuto, il presidente convoca il consiglio di amministrazione, ne fissa l’ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri». Nella prassi spesso il presidente del c.d.a. è anche nominato quale presidente dell’assemblea e più in generale della società, e frequentemente gli sono rilasciate deleghe gestorie, di cui il consiglio di amministrazione determina il contenuto, i limiti e le modalità di esercizio. È consentita la delega di mansioni a un comitato esecutivo o a uno o più membri del consiglio di amministrazione (tra i quali spesso è annoverato anche il suo presidente); e non di rado capita che il complesso delle decisioni che attengono all’attività quotidiana della società sia rimesso a costoro. È invece escluso che il c.d.a. possa assegnare al comitato esecutivo o agli amministratori delegati decisioni quali l’emissione di obbligazioni convertibili, la redazione del progetto di bilancio, l’eventuale attribuzione da parte dell’assemblea della facoltà di aumentare il capitale ecc. L’assegnazione di deleghe corrisponde evidentemente all’esigenza di rendere più rapida ed efficiente la fase deliberativa dell’organo amministrativo, e di assegnare la titolarità delle decisioni alle persone che si ritengano più competenti allo scopo specifico, dato il contesto societario di riferimento. La controindicazione è costituita dal prodursi di una concentrazione del potere nelle mani di pochi soggetti. Tutti gli amministratori, delegati e non, devono sottostare al divieto di svolgere attività in concorrenza con quella della società (art. 2390). Per l’inosservanza del divieto l’amministratore può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni. Da un lato merita segnalare che l’assemblea può autorizzare l’attività concorrenziale, valutando i pro e i contro della maggiore libertà così riconosciuta al proprio amministratore. D’altro lato occorre precisare che per potersi dire concorrenziale bisogna che l’attività svolta dall’amministratore a latere rispetto al proprio impegno societario sia in grado di avere un rapporto concreto con questo, e che, se si tratti di attività potenzialmente concorrenziale, sia comunque possibile individuare, un momento di effettiva contestualità con l’attività sociale. Il potere di gestione compete agli amministratori collegialmente, e riguarda l’attività amministrativa interna. Il potere di rappresentanza – cioè il potere di agire non solo per conto ma anche in nome della società: acquistare diritti e contrarre obbligazioni per questa – riguarda invece l’attività amministrativa esterna, spetta agli amministratori individualmente e solo a coloro ai quali tale potere sia attribuito dallo statuto. Ai sensi del quinto comma dell’art. 2383 le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l’adempimento di queste forme pubblicitarie, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza. Si tratta dell’ipotesi della mancanza del potere rappresentativo: l’invalidità della nomina è opponibile solo ai terzi in malafede, cioè coloro che conoscessero la causa di invalidità o la ignorassero per colpa grave. La società è sempre vincolata dagli atti posti in essere dal rappresentante, e non può eccepire che questi non siano pertinenti all’oggetto sociale: il terzo che entra in contatto con la società, e negozia con essa, risulta non protetto, a fronte del rischio di non avere contrattualmente realizzato quanto auspicato, solo nel caso in cui ricorra un suo comportamento doloso; mentre lo è in ogni altra ipotesi. Sicché il terzo non sarà costretto a verificare se l’amministratore, che si qualifica spendendo il nome della società, possegga effettivamente i poteri richiesti per compiere legittimamente l’atto in questione; a tutto vantaggio della certezza del diritto e della sicurezza nella conclusione degli affari. L’invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione è così regolata (ex art. 2388): le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate solo dal collegio sindacale e dagli amministratori assenti o dissenzienti entro novanta giorni dalla data della deliberazione. Si applica la disciplina del procedimento di impugnazione previsto per le deliberazioni assembleari (disposizione introdotta nel 2003). La disciplina degli interessi degli amministratori, modificata nel 2003, riguarda le decisioni nelle quali si intreccino l’interesse della società e gli interessi personali di un amministratore. In base all’art. 2391 l’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata. Perché sia impugnabile una deliberazione su cui incida l’interesse personale di un amministratore occorre che la deliberazione possa produrre un danno a carico della società. Inoltre, occorre che, alternativamente: a) non sia stata data adeguata informazione circa l’interesse personale; b) la trasparenza su questo punto sia stata garantita ma il consiglio di amministrazione o il comitato esecutivo non abbiano fornito motivazioni sulle ragioni o sulla convenienza dell’operazione per la società; c) la deliberazione sia stata assunta col voto determinante dell’amministratore interessato (prova di resistenza). La diligenza richiesta agli amministratori nella gestione della società è quella che si può desumere dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Si tratta della diligenza (che comprende anche prudenza e perizia) ai sensi dell’art. 1172 secondo comma: «nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata». La responsabilità dell’amministratore è contrattuale e discende dalla violazione di un dovere specifico posto a suo carico dalla legge o dallo statuto (responsabilità commissiva), tale per cui sia configurabile: a) un preciso inadempimento; b) un danno della società; c) il nesso di causalità tra inadempimento e danno. Si tratta cioè di una responsabilità per colpa, non di responsabilità oggettiva. Né può essere censurato e quindi imputato un comportamento dell’amministratore per contrarietà a scelte gestionali ritenute preferibili rispetto a quelle operate. La valutazione della diligenza deve infatti prescindere da considerazioni effettuate ex post: nello svolgimento del proprio incarico l’amministratore adempie obbligazioni di mezzi. Quando gli amministratori sono più di uno vale la regola della solidarietà: essi sono responsabili solidalmente, verso la società, dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite a uno o più amministratori. La norma infatti chiarisce che, anche qualora il comportamento dannoso sia imputabile ad amministratori delegati, gli altri amministratori saranno solidalmente responsabili se, appunto, non abbiano saputo prevenire, impedire o attenuare il danno, violando obblighi specifici a proprio carico o essendo comunque a conoscenza di un pregiudizio imminente per la società. Tale responsabilità è da costoro assunta a titolo di culpa in vigilando (responsabilità omissiva); sicché, se pure siano costretti a risarcire il danno; tuttavia, potranno agire in regresso nei confronti degli amministratori delegati. Le azioni di responsabilità sono azioni processuali e possono essere promosse, entro 5 anni dalla cessazione dell’amministratore in carica, in seguito a una deliberazione dell’assemblea. L’azione sociale di responsabilità è esercitata in giudizio dai nuovi amministratori o, se quelli contro i quali si agisce non sono stati revocati, da un curatore speciale nominato dal tribunale, e può essere esperita anche se la società sia stata dichiarata fallita o sottoposta a liquidazione. La deliberazione dell’azione di responsabilità importa la revoca dall’ufficio degli amministratori contro cui è proposta, se sia presa con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale. In questo caso l’assemblea provvede alla sostituzione degli amministratori. L’azione di responsabilità esercitata dai soci, tipo particolare di azione sociale di responsabilità, rappresenta una fattispecie a tutela degli azionisti di minoranza intesa a superare le inefficienze conseguenti al fatto che l’azione sociale contro gli amministratori è fisiologicamente esperibile dalla stessa maggioranza che quegli stessi amministratori ha nominato e che condiziona nel loro operare. Essa può perciò essere attivata da soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto: non è un’azione autonoma, è surrogatoria. L’azione è cioè ad appannaggio di una minoranza di soci, sì, ma non eccessivamente modesta, al fine di scongiurare il rischio di azioni pretestuose. I soci che intendono promuovere l’azione nominano, a maggioranza del capitale posseduto, uno o più rappresentanti comuni per l’esercizio dell’azione e per il compimento degli atti conseguenti. I soci che hanno agito possono rinunciare all’azione o transigerla, e ogni corrispettivo per la rinuncia o la transazione deve andare a vantaggio della società. L’art. 2394 disciplina l’azione di responsabilità verso i creditori sociali stabilendo anzitutto i due presupposti dell’azione: a) gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale; b) l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. Il danno patito dai creditori rappresenta una conseguenza del pregiudizio arrecato al patrimonio della società. Insomma, l’azione è autonoma e non surrogatoria rispetto all’azione sociale. Conseguenza è che i creditori non potranno esercitare la propria azione se sia stata previamente esperita l’azione sociale e, con questa, il patrimonio della società sia stato reintegrato. La transazione invece può essere impugnata dai creditori sociali, ma soltanto con l’azione revocatoria, e quando ne ricorrono gli estremi. L’azione di responsabilità individuale del socio e del terzo, regolata dall’art. 2395, è esperibile, entro cinque anni dal compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo, se costoro siano stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori, cioè da comportamenti che abbiano violato il principio generale del neminem laedere (ex art. 2043): essa non potrà essere esperita al fine di ottenere il risarcimento di un danno che possa dirsi derivativo rispetto a quello subito anzitutto dal patrimonio sociale. Infine, si consideri la disposizione (art. 2396) destinata ai direttori generali, secondo la quale le norme che regolano la responsabilità degli amministratori si applicano anche ai direttori generali nominati dall’assemblea o per disposizione dello statuto, in relazione ai compiti loro affidati, salve le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società. La figura dei dirigenti corrisponde a funzionari gerarchicamente apicali ai quali siano affidate rilevanti mansioni gestionali. I dirigenti, che così interconnettono l’organo amministrativo e gli uffici interni della società, se intrattengano rapporti coi terzi assumono i tratti tipici degli institori e come tali sono soggetti alla disciplina della rappresentanza commerciale. 2.3 I SISTEMI ALTERNATIVI DI AMMINISTRAZIONE DI CONTROLLO I sistemi alternativi di amministrazione e controllo, che possono essere adottati solo tramite un’apposita previsione statutaria sono intesi ad assecondare le esigenze di tipi diversi di società. Il sistema dualistico corrisponde ai caratteri di s.p.a. di grandi dimensioni, con capitale diffuso tra un pubblico di soci ampio e tendenzialmente non omogeneo, nelle quali chi guida la società sia gerarchicamente sovraordinato e distante rispetto alla base azionaria, più autonomo che in altri contesti amministrativi rispetto alle pressioni dei proprietari dell’impresa, e vigilato da un organo ideato e introdotto ad hoc (il consiglio di sorveglianza). Il sistema monistico corrisponde ai caratteri di s.p.a. medio-grandi nelle quali, anche in ragione della maggiore omogeneità di interessi dei proprietari e della conseguente minore conflittualità interna, sia possibile ed efficiente avvalersi di una struttura organizzativa più semplice ed elastica. Nel dualistico la gestione dell’impresa spetta esclusivamente al consiglio di gestione, recita l’art. 2409-novies, il quale compie le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale. La nomina dei consiglieri di gestione spetta al consiglio di sorveglianza (devono essere almeno 2, anche non soci). I componenti del consiglio di gestione sono rieleggibili, salva diversa disposizione dello statuto, e sono revocabili dal consiglio di sorveglianza in qualunque tempo. L’azione di responsabilità contro i consiglieri di gestione è promossa dalla società o dai soci, ma può anche essere proposta con deliberazione del consiglio di sorveglianza. La deliberazione è assunta dalla maggioranza dei membri del consiglio di sorveglianza. La nomina dei membri del consiglio di sorveglianza spetta all’assemblea, devono essere almeno 3 (anche non soci). I componenti del consiglio di sorveglianza sono rieleggibili, salvo diversa disposizione dello statuto, e revocabili dall’assemblea in qualunque tempo anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto al risarcimento dei danni quando la revoca avviene senza giusta causa. È richiesta la nomina di un presidente, eletto dall’assemblea (e non dal consiglio medesimo): fattore che conferisce a tale soggetto un ruolo peculiare per autonomia e stabilità, dal momento che non è il c.d.s. a poterlo rimuovere; ed è lo statuto a determinarne i poteri. Lo statuto può subordinare l’assunzione della carica di consigliere di sorveglianza al possesso di particolari requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza. Non possono essere eletti alla carica di componenti del consiglio di sorveglianza e, se eletti, decadono dall’ufficio (cause di ineleggibilità): a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 2382; b) i membri del consiglio di gestione; c) coloro che siano legati alla società, o alle società da questa controllate o a quelle sottoposte a comune controllo, da un rapporto di lavoro o che comporti un interesse economico tale da comprometterne l’indipendenza. Il consiglio di sorveglianza ha compiti variegati, funzionali allo svolgimento di mansioni sia di controllo, sia di deliberazione: a) nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione e ne determina il compenso; b) approva il bilancio di esercizio e il bilancio consolidato; c) vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile e sul loro concreto funzionamento; d) promuove l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dei componenti del consiglio di gestione; e) presenta la denunzia al tribunale ex art. 2409; f) riferisce per iscritto almeno una volta all’anno all’assemblea sull’attività di vigilanza svolta, sulle omissioni e sui fatti censurabili rilevati. Il sistema monistico invece tipicamente concentra sul consiglio di amministrazione poteri sia di controllo, coniugati con compiti di sorveglianza sugli amministratori investiti di mansioni esecutive. Il consiglio di amministrazione è l’organo esclusivamente deputato alla gestione della società, e dev’essere per un terzo dei propri membri composto da soggetti in possesso dei requisiti di eleggibilità dei sindaci indicati dal primo comma dell’art. 2399. Al consiglio di amministrazione si applicano le disposizioni che fanno riferimento agli amministratori del sistema tradizionale. Inoltre, al c.d.a. spettano alcune funzioni che nel sistema tradizionale sono proprie del collegio sindacale. Le funzioni proprie del comitato sono: a) vigilare sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo e contabile, nonché sulla sua idoneità a rappresentare correttamente i fatti di gestione; b) svolgere gli ulteriori compiti affidatigli dal c.d.a., rispetto al collegio sindacale, il comitato non è sottoposto al dovere di controllare l’osservanza della legge e dello statuto e il rispetto dei principi di corretta amministrazione. La determinazione del numero e la nomina dei membri del comitato spetti al consiglio di amministrazione. Il comitato dev’essere interamente costituito da amministratori dotati dei requisiti di onorabilità e professionalità stabiliti dallo statuto e dei requisiti di indipendenza di cui al su citato art. 2409-septiesdecies; inoltre, almeno uno dei membri del comitato dev’essere scelto tra i revisori legali iscritti nell’apposito registro. 2.4 IL COLLEGIO SINDACALE Il collegio sindacale è l’organo di controllo interno del sistema tradizionale, referente della legalità interna della società (rispetto della legge e dello statuto): un controllo di legalità sostanziale e di efficienza che va inteso in senso ampio, spaziando dalla vigilanza sull’osservanza della legge e dello statuto, al monitoraggio sul comportamento degli amministratori, all’adeguatezza dell’organizzazione societaria. In conseguenza della riforma del 2003 non sono più annoverate tra le funzioni del collegio le attività di controllo contabile, assegnate a un revisore o a una società di revisione dei conti, con la finalità di alleggerire il carico delle mansioni dei sindaci, ma rimane un organo i cui componenti sono eletti dall’assemblea, che nomina gli stessi amministratori. Le norme relative ai requisiti di eleggibilità dei sindaci diminuiscono i rischi di possibili favoreggiamenti. Infatti, l’art. 2399, dopo aver dichiarato ineleggibili: a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 2382, afferma che non possono essere nominati come sindaci, e se eletti decadono dall’ufficio; b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società e delle società da questa controllate (escludendo anche gli amministratori di queste), delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo; c) coloro che sono legati alla società o alle società da questa controllate o alle società che la controllano o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza. La medesima norma consente poi di introdurre statutariamente altre cause di ineleggibilità o decadenza, nonché cause di incompatibilità, e limiti e criteri per il cumulo degli incarichi. L’art. 2397 si occupa della composizione del collegio sindacale, stabilendo che il collegio dev’essere costituito da tre o cinque membri effettivi e che devono essere nominati due supplenti. La professionalità dei sindaci è assicurata dal fatto che almeno un membro effettivo e uno supplente vanno scelti tra i revisori legali dei conti iscritti nell’apposito registro. Il collegio sindacale deve riunirsi almeno ogni 90 giorni e la riunione può svolgersi anche con mezzi di telecomunicazione; il quorum deliberativo è fissato nel raggiungimento della maggioranza assoluta dei voti dei presenti. I sindaci sono nominati per la prima volta nell’atto costitutivo e, successivamente, dall’assemblea, e scadono alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio della carica. Dunque, i sindaci mantengono il proprio ruolo come minimo per tre anni. La nomina dei sindaci e la cessazione dall’ufficio devono essere iscritte nel registro delle imprese nel termine di 30 giorni. Sono causa di cessazione dei sindaci: a) la scadenza del termine, con effetto dal momento in cui il collegio è stato ricostituito; b) la revoca da parte dell’assemblea, che può avvenire solo per giusta causa; c) la rinuncia da parte del sindaco; d) la decadenza, che può darsi quando si verifichi in itinere una causa di ineleggibilità, o qualora il sindaco non partecipi senza giustificato motivo alle assemblee. Per quanto riguarda la revoca, la previsione della giusta causa si spiega con l’intento legislativo di sottoporre a un vaglio di carattere pubblico una decisione che potrebbe essere motivata da ragioni incoerenti con gli obiettivi dei sindaci. Per quanto riguarda la rinuncia e la decadenza in tali casi subentrano i sindaci supplenti in ordine di età; tuttavia, i nuovi sindaci restano in carica fino all’assemblea successiva, che procederà a nominare i sindaci effettivi e supplenti necessari per l’integrazione del collegio. Ai sensi dell’ex art. 2403, per quanto riguarda i doveri del collegio sindacale, «il collegio sindacale vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento». La vigilanza si realizza anzitutto attraverso un controllo di stretta legalità, nel senso che i sindaci devono verificare puntualmente se vi siano stati atti o comportamenti illegittimi in quanto contrastanti con la legge o lo statuto, e in tal caso prendere i provvedimenti opportuni. Non è sufficiente un controllo meramente formale: i sindaci dovranno comunque verificare se tali scelte siano coerenti con i presupposti di correttezza amministrativa, rispettose dei necessari profili procedurali e adottate con adeguati presidi prudenziali. Il collegio sindacale dispone poi di poteri specifici. Alcuni tra questi servono per acquisire le informazioni necessarie o comunque utili per l’esercizio delle proprie mansioni. Tra i poteri ispettivi si segnala, ex art. 2403-bis, che «i sindaci possono in qualsiasi momento procedere, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo. Il collegio sindacale può chiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento a società controllate, sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari». È invece un potere-dovere, regolato dall’art. 2405, quello per cui «i sindaci devono assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione, alle assemblee e alle riunioni del comitato esecutivo». L’art. 2406 disciplina poteri integrativi e di supplenza del collegio sindacale in relazione ad eventuali carenze degli amministratori, mentre l’art. 2408 regola la denuncia del collegio sindacale, che consiste nella sollecitazione da parte dei soci di un intervento ricognitivo del collegio, una sorta di controllo giudiziario preventivo rispetto a quello previsto dall’art. 2409: «ogni socio può denunziare i fatti che ritiene censurabili al collegio sindacale, il quale deve tener conto della denunzia nella relazione all’assemblea. Se la denunzia è fatta da tanti soci che rappresentino un ventesimo del capitale sociale o un cinquantesimo nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il collegio sindacale deve indagare senza ritardo sui fatti denunziati e presentare le sue conclusioni ed eventuali proposte all’assemblea». Con riferimento alle responsabilità dei sindaci per il proprio operato, l’art. 2407 richiede anzitutto, individuando un’obbligazione generica, che i sindaci adempiano ai loro doveri «con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico». Sono poi previsti due doveri specifici: i sindaci, infatti, «sono responsabili della verità delle loro attestazioni e devono conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio». Infine, i sindaci sono dichiarati «responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica». 2.5 IL CONTROLLO GIUDIZIARIO Il controllo giudiziario rappresenta una forma di controllo esterno sulla s.p.a. che il tribunale può effettuare, quando i soci ne facciano richiesta, se ricorrano i presupposti indicati dall’art. 2409. La denuncia al tribunale costituisce uno strumento di autotutela delle minoranze nei confronti di gravi comportamenti illegittimi tenuti dagli amministratori. Lo scopo della procedura consiste nell’accertare le irregolarità denunciate, rimuoverne gli effetti e ripristinare il regolare funzionamento della società. L’art. 2409 dice che se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate, i soci che rappresentano il decimo del capitale sociale possono denunziare i fatti al tribunale con ricorso notificato anche alla società. Il tribunale non può invece procedere d’ufficio. La prima fase del procedimento prevede che il tribunale senta in camera di consiglio gli amministratori e i sindaci. Quindi può ordinare l’ispezione dell’amministrazione della società; l’ispezione può essere evitata, e il tribunale sospende per un periodo determinato il procedimento, se l’assemblea sostituisce gli amministratori e i sindaci con soggetti di adeguata professionalità che si attivino senza indugio per verificare se le violazioni sussistono. La seconda fase del procedimento riguarda i casi più gravi: in tali frangenti il tribunale può revocare gli amministratori della s.p.a. e nominare un amministratore giudiziario, determinandone i poteri e la durata. 3. MODIFICAZIONI STATUTARIE E OPERAZIONI SUL CAPITALE L’art. 2346 regola il procedimento da seguire quando si dia luogo a un cambiamento nel contenuto statutario. Competente a emettere deliberazioni di modifica del genere è l’assemblea straordinaria, ex art. 2365. Ricorrono però circostanze nelle quali tale competenza è spostata in capo a un altro organo. a) I casi nei quali, se lo statuto lo preveda, la decisione può essere assunta dal consiglio di amministrazione (o cds o cdg). b) È inoltre previsto che, ai sensi dell’art. 2420-ter, lo statuto attribuisca agli amministratori la facoltà di emettere in una o più volte obbligazioni convertibili. c) L’art. 2443 individua un’analoga circostanza con riguardo all’aumento del capitale sociale a pagamento. d) Infine l’art. 2446 contempla una competenza eccezionale a deliberare la riduzione obbligatoria del capitale sociale per perdite in capo all’autorità giudiziaria. Originariamente le modifiche statutarie richiedevano l’omologazione da parte del tribunale, che oggi non è più necessaria. Oggi il notaio che ha verbalizzato la deliberazione di modifica statutaria, verificata l’osservanza delle condizioni dettate dalla legge, entro trenta giorni ne chiede l’iscrizione nel registro delle imprese contestualmente al deposito. Se il notaio ritiene non adempiute le condizioni stabilite dalla legge ne deve dare tempestiva comunicazione agli amministratori. 3.1 IL RECESSO Le decisioni assembleari conformi alla legge e all’atto costitutivo vincolano, in base al principio maggioritario, tutti i soci, abbiano essi presenziato o meno alla seduta assembleare e condiviso il voto che ha condotto all’approvazione della deliberazione. Tuttavia, i soci di minoranza sono garantiti con alcune modalità di salvaguardia quando si procede alla modifica dello statuto societario. In primo luogo, tali deliberazioni richiedono il raggiungimento dei quorum rafforzati previsti dalla disciplina dell’assemblea straordinaria. In secondo luogo, ai soci spettano anche diritti dichiarati dalla legge come diritti indisponibili, sicché sarebbe nulla la deliberazione che avesse a oggetto una rinuncia ad essi. Il recesso rappresenta un istituto la cui disciplina è mutata in più circostanze: se nel codice civile del 1942, per evitare che si creassero condizioni di indebolimento personale e patrimoniale della società, il diritto di recesso era riconosciuto in tre soli casi (modifica dell’oggetto dell’attività; trasformazione della forma giuridica; trasferimento all’estero della sede societaria dell’impresa), più recentemente ha prevalso un atteggiamento legislativo di maggiore attenzione nei confronti dell’esigenza dei soci di minoranza di non rimanere prigionieri della società. Il diritto di recesso (anche parziale) viene cioè riconosciuto quando al mutare delle condizioni esterne o interne alla società si renda necessario procedere a modifiche organizzative di entità non ordinaria tali da alterare sensibilmente le condizioni di rischio accettate dai soci al momento della loro entrata in affari comuni. Il primo comma dell’art. 2347 individua le cause inderogabili di recesso, ossia quelle che non possono essere escluse dai soci con apposita previsione statutaria. Hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti: a) la modifica della clausola dell’oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società; b) la trasformazione della società; c) il trasferimento della sede sociale all’estero; d) la revoca dello stato di liquidazione; e) l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal secondo comma o dallo statuto; f) la modifica dei criteri di determinazione del valore dell’azione in caso di recesso; g) le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione. Tutte queste ipotesi sono sottoposte alla regola secondo la quale è nullo il patto volto a rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso. Il secondo comma dell’art. 2347 individua le cause derogabili di recesso, delle quali, cioè, i soci possono statutariamente disporre. Salvo che lo statuto disponga diversamente possono recedere i soci che non abbiano concorso all’approvazione delle deliberazioni riguardanti: a) la proroga del termine; b) l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari. Inoltre, a prescindere dal fatto che il socio non abbia concorso a una determinata deliberazione, se la società è costituita a tempo indeterminato, e le azioni non sono quotate in un mercato regolamentato, il socio può recedere dando un preavviso pari ad almeno centottanta giorni. Il diritto di recesso è esercitato mediante lettera raccomandata; se invece il fatto che legittima il recesso è diverso da una deliberazione, esso è esercitato entro trenta giorni dalla sua conoscenza da parte del socio. Il recesso scaturisce cioè da una dichiarazione unilaterale del socio, che in nessun modo deve trovare accettazione o risposta da parte della società. Il recesso è privo di efficacia se entro novanta giorni la società revochi la deliberazione che lo legittima (sottesa una ratio protettiva del patrimonio della società). Il valore di liquidazione delle azioni è determinato dagli amministratori facendo esclusivo riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione o ricezione dell’avviso di convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso. Il procedimento di liquidazione prevede che gli amministratori offrano in opzione le azioni del socio recedente agli altri soci in proporzione al numero delle azioni possedute. Qualora i soci non acquistino in tutto o in parte le azioni del recedente gli amministratori possono collocarle presso terzi; in caso di mancato collocamento, entro centottanta giorni dalla comunicazione del recesso, le azioni del recedente vengono rimborsate mediante l’acquisto da parte della società, che a tale scopo deve utilizzare riserve disponibili. In assenza di utili si dovrà deliberare per la riduzione del capitale sociale o, se impossibile, per lo scioglimento della società. 3.2 SCIOGLIMENTO DEL CAPITALE SOCIALE L’aumento del capitale sociale può essere reale (o a pagamento) o nominale (o gratuito). L’aumento di capitale reale è funzionale a ottenere nuovi conferimenti e, dunque, quantità di capitale di rischio delle quali precedentemente la società non disponeva e che servono per lo svolgimento della propria attività: l’accrescimento patrimoniale si realizza se viene ottenuto mediante il materiale conferimento di beni da parte di soci preesistenti o nuovi. L’aumento di capitale nominale è invece funzionale ad alzarne il livello per ragioni connesse prevalentemente alla volontà della società di rappresentare ai terzi un ammontare di capitale più consistente e accrescere il proprio prestigio nei termini dell’affidabilità che tale dotazione garantisce. Se l’aumento è nominale non vengono sollecitati nuovi conferimenti: l’aumento è detto gratuito esattamente per questo motivo, e si realizza immobilizzando risorse altrimenti utilizzabili dalla società. L’aumento reale di capitale, che salvo eccezioni è deliberato dall’assemblea straordinaria, non può essere eseguito fino a quando le azioni precedentemente emesse non siano state interamente liberate, per evitare il cumularsi eccessivo di crediti della società nei confronti dei propri azionisti. All’atto della sottoscrizione gli acquirenti delle azioni di nuova emissione devono versare alla società almeno il 25% del valore nominale delle azioni. Lo statuto può infatti attribuire anche agli amministratori la facoltà di aumentare in una o più volte il capitale, purché: a) entro un ammontare predeterminato; b) per il periodo massimo di cinque anni dalla data dell’iscrizione della società nel registro delle imprese. Il verbale della deliberazione degli amministratori di aumentare il capitale dev’essere redatto da un notaio e iscritto nel registro delle imprese. Se l’aumento di capitale si realizza avvalendosi di conferimenti diversi dal denaro gli amministratori dovranno verificarne la valutazione. Il diritto di opzione consiste nel riconoscimento a favore dei soci della possibilità di vedersi offerte prima che ad altri le azioni di nuova emissione, in proporzione al numero delle azioni possedute, per mantenere inalterato il valore in percentuale della propria partecipazione. Coloro che esercitano il diritto di opzione godono inoltre del diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni che siano rimaste non optate. Il diritto di opzione può essere escluso o limitato. a) il diritto di opzione non spetta per le azioni di nuova emissione che, secondo la deliberazione di aumento del capitale, debbano essere liberate mediante conferimenti in natura; b) «quando l’interesse della società lo esige». Da parte di taluni autori l’interesse della società è stato ed è ricondotto a criteri quali l’efficienza gestionale o la massimizzazione delle prospettive di guadagno dei soci; da parte di altri autori si è ritenuto e si ritiene che per poter escludere o limitare il diritto di opzione debba ricorrere un rapporto di necessità tra l’abolizione del diritto di opzione e il miglior perseguimento dell’oggetto sociale. c) può essere escluso il diritto di opzione per le azioni di nuova emissione, se queste sono offerte in sottoscrizione ai dipendenti della società o di società che la controllano o che sono da essa controllate. Qui le aspettative dei soci sono sacrificate a fronte dell’interesse della società a dar vita a forme di azionariato dei propri dipendenti; d) infine, lo statuto può altresì escludere il diritto di opzione nei limiti del 10% del capitale sociale preesistente, a condizione che il prezzo di emissione corrisponda al valore di mercato delle azioni. Le proposte di aumento di capitale sociale che prevedano l’esclusione o la limitazione del diritto di opzione devono essere illustrate dagli amministratori con apposita relazione dalla quale devono risultare le ragioni di tale scelta e i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione. La deliberazione in assemblea poi determina il prezzo di emissione delle azioni in base al valore del patrimonio netto tenendo conto, per le azioni quotate in mercati regolamentati, anche dell’andamento delle quotazioni nell’ultimo semestre. L’aumento nominale di capitale sociale è indicato dall’art. 2442 quale passaggio di riserve a capitale e regolato prevedendosi espressamente che l’assemblea aumenti così il capitale «imputando a capitale le riserve e gli altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili». Il capitale viene cioè aumentato senza fare ricorso a risorse reperibili sul mercato del capitale di rischio e senza realizzare un accrescimento del patrimonio della società. In questo caso le azioni di nuova emissione devono possedere le stesse caratteristiche di quelle in circolazione e ovviamente dovranno essere assegnate gratuitamente agli azionisti in misura proporzionale alle azioni che essi già posseggano. 3.3 RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE La riduzione del capitale sociale può essere, a sua volta, reale o nominale, a seconda che dia luogo o meno al rimborso dei conferimenti ai soci. Sulla base dell’art. 2445 la riduzione reale consiste nella liberazione dei soci dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti o, appunto, nella restituzione ai soci del capitale. L’avviso di convocazione dell’assemblea deve indicare ragioni e modalità della riduzione. La deliberazione potrà essere eseguita soltanto dopo che siano passati novanta giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese purché entro tale termine nessuno tra i creditori sociali abbia fatto opposizione (se la società presta un’idonea garanzia il giudice può disporre ugualmente l’operazione). La riduzione del capitale nominale è un’operazione che riallinea il capitale nominale al capitale reale quando questo sia stato eroso per via di perdite che abbiano intaccato anzitutto gli utili e le riserve, quindi lo stesso capitale. Tale ipotesi si verifica necessariamente se risulti che esso è diminuito di oltre 1/3 del suo ammontare: allora la riduzione è obbligatoria e gli amministratori (o il consiglio di gestione), e in caso di inerzia da parte loro il collegio sindacale (o il consiglio di sorveglianza), devono subito («senza indugio») convocare l’assemblea perché prenda gli opportuni provvedimenti. All’assemblea dev’essere sottoposta una relazione sulla situazione patrimoniale della società corredata dalle osservazioni del collegio sindacale. In caso di perdite di oltre un terzo, peraltro, l’assemblea può decidere di ridurre immediatamente il capitale o di rinviare le perdite all’esercizio successivo. Se poi, essendosi verificata una perdita superiore al terzo del capitale sociale, questo si riduca altresì al di sotto del minimo legale, gli amministratori o il consiglio di gestione, e in caso di loro inerzia il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione a zero del capitale e il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo, o per deliberare la trasformazione della società in altro tipo che ammetta un ammontare del capitale sociale di tale livello. Se non si possa dar luogo a soluzioni alternative la società va incontro a liquidazione e scioglimento. 6. SOCIETÀ COOPERATIVA 1. CARATTERI GENERALI La società cooperativa nasce come tipo societario volto a consentire alle classi economicamente subalterne e svantaggiate di associarsi, per migliorare le proprie condizioni lavorative, facendosi imprenditori di sé stessi. Le prime e principali esperienze in tal senso si registrano in Inghilterra attorno alla metà del XIX secolo, sono animate da valori socialisti e perseguono un obiettivo anticapitalistico. Principi attuali dell’ordinamento italiano: 1. Le cooperative sono società (e in quanto tali ci si applica l’art. 2247) mutualistiche. Per scopo mutualistico s’intende il fornire ai propri soci beni, servizi o occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle offerte dal mercato. Anche le cooperative svolgono attività d’impresa nel rispetto del metodo economico (pareggio del bilancio) e possono intrattenere rapporti economici coi terzi e produrre utili: perseguono perciò il lucro in senso oggettivo, ma non in senso soggettivo, dato che la disciplina delle cooperative contempla una serie di limitazioni per quanto riguarda la distribuzione degli utili. Ciò che ai soci della cooperativa può essere distribuito è, invece, il ristorno, nel quale si concretizza il vantaggio mutualistico: può essere distribuito direttamente (ad es. nella forma di sconto sul prezzo dei beni acquistati dai soci di una cooperativa di consumo) o in modo indiretto (cioè diviso tra i soci alla stregua di somme di denaro corrisposte dalla cooperativa a scadenze periodiche). La differenza rispetto all’utile risiede nel fatto che questo rappresenta la remunerazione del capitale investito, e quindi viene distribuito in proporzione a quanto conferito, mentre il ristorno rappresenta l’equivalente monetario del vantaggio mutualistico. E infatti secondo l’art. 2545-sexies «l’atto costitutivo determina i criteri di ripartizione dei ristorni ai soci proporzionalmente alla quantità e qualità degli scambi mutualistici». 2. Per la cooperativa è previsto un numero minimo di soci. In base all’art. 2522, «per costituire una società cooperativa è necessario che i soci siano almeno nove. (…) Se successivamente alla costituzione il numero dei soci diviene inferiore a quello stabilito, esso deve essere integrato nel termine massimo di un anno, trascorso il quale la società si scioglie e deve essere posta in liquidazione. La legge determina il numero minimo di soci necessario per la costituzione di particolari categorie di cooperative». Il fatto che sia contemplato un numero minimo di soci, e che si aggiungano a tale misura standard molteplici previsioni discendenti dalla legislazione speciale che fissano limiti differenti, permette di capire che la cooperativa vuole essere di tipo societario dalla base proprietaria tendenzialmente estesa e aperta, in grado di associare non singoli soggetti bensì una categoria di persone, in possesso di caratteristiche omogenee. È evidentemente funzionale a raggiungere obiettivi in larga misura coincidenti il principio di variabilità del capitale sociale (art. 2511). Per variabilità del capitale sociale s’intende – ex art. 2524 – che: a) esso non è fissato dalla legge in un ammontare predeterminato; b) l’ingresso di nuovi soci non comporta la necessità di modificare l’atto costitutivo. Si facilita, in sostanza, l’ampliamento della base azionaria semplificando le procedure di ingresso. 3. È previsto un ammontare massimo del valore della partecipazione dei soci (art. 2525), proprio perché si vuole che la cooperativa sia un’organizzazione di massa e che l’apporto richiesto per entrare nella compagine proprietaria dev’essere tendenzialmente uguale per tutti i soci (numerosi ma piccoli). 4. Viene applicato il principio per cui «una testa un voto», ai sensi dell’art. 2538: «qualunque sia il valore della quota o il numero delle azioni possedute». Principio che però può rappresentare un disincentivo alla raccolta di capitale di rischio e un ostacolo al ricambio nella gestione, dal momento che da parte dei soci non può nutrirsi la speranza di raccogliere quote di partecipazione della cooperativa per pesare amministrativamente più di altri in quanto azionisti di maggioranza. Anche per questa ragione sono previsti dei temperamenti. Le eccezioni, oltre alla deroga per le cooperative che realizzino lo scopo mutualistico integrando le rispettive imprese, sono le seguenti: a) la cooperativa può attribuire ai soci cooperatori persone giuridiche più voti, ma non oltre cinque, in relazione all’ammontare della quota o al numero dei loro membri (art. 2538); b) la cooperativa può attribuire il diritto di voto nell’elezione dell’organo di controllo proporzionalmente alle quote o alle azioni possedute o in ragione della partecipazione allo scambio mutualistico (art. 2543). 2. LA STRUTTURA DELLA SOCIETÀ COOPERATIVA La riforma del 2003 ha inciso sulla disciplina cooperativa principalmente per avere reso espressa la distinzione tra cooperativa a mutualità prevalente e cooperativa a mutualità non prevalente. Dal 2003 in avanti perché una società cooperativa possa dirsi a mutualità prevalente occorre che dimostri di operare prevalentemente coi propri soci, attenendosi a parametri del codice civile. Prima d’allora, invece, tale non semplice valutazione era oggetto di interpretazione dottrinale e giurisprudenziale. Solo le cooperative a mutualità prevalente possono avvalersi delle variegate agevolazioni di ordine fiscale che l’ordinamento dispone a loro favore. Ai sensi dell’art. 2512 «sono società cooperative a mutualità prevalente, in ragione del tipo di scambio mutualistico, quelle che: 1) svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi; 2) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci; 3) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci». Affinché la cooperativa possa beneficiare delle agevolazioni fiscali è non solo necessario che sia iscritta in un apposito albo curato dal Ministero dello sviluppo economico, ma anche che l’iscrizione sia contemplata in un’apposita sezione che questa tipologia di cooperative annovera e rappresenta, sezione dalla quale la cooperativa è cancellata ogniqualvolta perda la qualifica della prevalenza; e in caso di omissione o ritardo di questa comunicazione la sanzione consiste nella sospensione di ogni attività della società. L’art. 2513 esplicita i criteri per la definizione della prevalenza prescrivendo che gli amministratori e i sindaci documentino la condizione di prevalenza nella nota integrativa al bilancio, evidenziando contabilmente parametri che attestino che il valore dei rapporti intrattenuti coi soci della cooperativa è superiore al valore dei rapporti avuti con soggetti terzi. Infine, l’art. 2514 stabilisce così i requisiti delle cooperative a mutualità prevalente, necessari affinché la società possa essere iscritta nell’apposita sezione dell’albo delle società cooperative: «le cooperative a mutualità prevalente devono prevedere nei propri statuti: a) il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato; b) il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi; c) il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori; d) l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione». Considerato che la disciplina della società cooperativa non copre ogni profilo regolativo relativo all’attività di tali società, la normativa cooperativa, al netto dell’ampia legislazione speciale dedicata a società mutualistiche appartenenti a tanti e vari settori, riproduce in larga misura la disciplina prevista per la s.p.a. e la s.r.l., ove compatibile (art. 2519-20). L’atto costitutivo, da redigere in forma pubblica, deve contenere l’indicazione specifica dell’oggetto sociale con riferimento ai requisiti e agli interessi dei soci; i requisiti, le condizioni e la procedura per l’ammissione di nuovi soci, e il modo in cui devono essere eseguiti i conferimenti; le condizioni per l’eventuale recesso o per l’esclusione del socio; nonché le regole per la ripartizione degli utili e i criteri per la ripartizione dei ristorni. Del tutto uguale a quella prevista per la s.p.a. è poi la disciplina sui conferimenti, salvo per il fatto che, per i conferimenti in denaro, non è richiesto il versamento iniziale del 25% presso un istituto di credito. Inoltre, dopo la cancellazione nel 2003 della differenza tra cooperative a responsabilità limitata e illimitata, l’art. 2518 può affermare che nelle società cooperative per le obbligazioni sociali risponde solo la società col suo patrimonio. La cooperativa emette azioni o quote a seconda che la disciplina applicabile sia quella del tipo s.p.a. o s.r.l., mentre l’acquisto è sottoposto a regole più permissive. L’ammissione di nuovi soci è condizionata dalla variabilità del capitale sociale. Per quanto viga il principio per cui l’ingresso di nuovi soci non comporta la necessità di modificare l’atto costitutivo, l’entrata di costoro a far parte della compagine proprietaria è filtrata da un giudizio di coerenza con lo scopo mutualistico e l’attività economica svolta dalla cooperativa. È l’atto costitutivo a stabilire i requisiti per l’ammissione dei nuovi soci, nonché la relativa procedura. L’ammissione di un nuovo socio consegue a una deliberazione degli amministratori presa su domanda dell’interessato. Il consiglio di amministrazione, entro sessanta giorni, deve motivare l’eventuale rigetto della domanda comunicandolo all’interessato. L’art. 2530 scandisce con chiarezza le regole sulla trasferibilità della partecipazione sociale, prevedendo che azioni o quote dei soci cooperatori non possano essere cedute con effetto nei confronti della società senza l’autorizzazione degli amministratori. L’eventuale provvedimento di diniego va motivato, e il socio potrà presentare opposizione al tribunale; qualora l’atto costitutivo vieti la cessione della quota o delle azioni il socio può recedere dalla società, con preavviso di novanta giorni, però non prima che siano decorsi due anni dall’ingresso del socio nella società. Il socio cooperatore può recedere dalla società, oltre che in questa ipotesi, nei casi previsti per la s.r.l. e la s.p.a., a seconda della disciplina applicabile. La dichiarazione di recesso dev’essere trasmessa con raccomandata alla società. L’esclusione del socio si verifica in caso di mancato pagamento di azioni o quote, come s’è visto, nonché: a) nei casi previsti dall’atto costitutivo; b) per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico; c) per mancanza o perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla società; d) nei casi previsti per le società di persone. L’esclusione dev’essere deliberata dagli amministratori o dall’assemblea, e contro tale decisione il socio può opporsi entro sessanta giorni. In caso di morte del socio gli eredi hanno diritto alla liquidazione della quota o al rimborso delle azioni, ma l’atto costitutivo può prevedere che gli eredi provvisti dei requisiti per l’ammissione alla società subentrino nella partecipazione del socio deceduto. La liquidazione della quota o il rimborso delle azioni ha luogo, entro 180 giorni dall’approvazione del bilancio, sulla base del bilancio dell’esercizio in cui si sono verificati il recesso, l’esclusione o la morte del socio, secondo i criteri stabiliti nell’atto costitutivo. Il socio che cessi di far parte della società risponde verso di essa per il pagamento dei conferimenti non versati per un anno dal giorno in cui il recesso, l’esclusione o la cessione della quota si sia verificata. Nel 1992 la l. n. 59 introdusse istituti inediti di finanziamento: figura dei soci sovventori e delle azioni di partecipazione cooperativa. A favore di questa categoria di soci possono essere riservate condizioni di favore sotto il profilo della ripartizione degli utili e della liquidazione di azioni o quote; le azioni di partecipazione cooperativa sono privilegiate sotto il profilo patrimoniale, ma prive del diritto di voto. Il privilegio patrimoniale consiste in una partecipazione agli utili maggiorata ex lege del 2% rispetto a quanto pagato ai soci cooperatori, nel diritto di prelazione sul rimborso del capitale e nel fatto che le perdite incidono solo per la parte che eccede il valore nominale complessivo delle altre azioni o quote. Inoltre la l. n. 59/1992 introdusse nel nostro ordinamento i fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione affinché le attività di sostegno economico alla cooperazione fossero protette da una disciplina loro dedicata. Questo principio è stato però superato dalla riforma societaria del 2003, che ha immesso nel sistema un modello cooperativo unitario in cui la funzione sociale della cooperativa si esprime in ogni caso attraverso il perseguimento da parte della società della mutualità quale causa e scopo del contratto sociale: questo consente alla cooperativa di agire sul mercato con un grado di concorrenzialità rispetto alle società lucrative decisamente superiore rispetto a quello di cui godeva nel passato. Anche le cooperative possono emettere obbligazioni, in linea con quanto previsto per le s.p.a. 3. GLI ORGANI DELLA SOCIETÀ COOPERATIVA In base al principio «una testa un voto» le maggioranze richieste per la costituzione delle assemblee e per la validità delle deliberazioni sono determinate dall’atto costitutivo e calcolate secondo il numero dei voti spettanti ai soci. Per quanto riguarda le deleghe, nelle cooperative disciplinate dalle norme sulla società per azioni ciascun socio può rappresentare sino a un massimo di dieci soci; inoltre, il socio imprenditore individuale può farsi rappresentare anche dal coniuge, dai parenti entro il terzo grado e dagli affini entro il secondo che possano dirsi collaboratori dell’impresa. L’atto costitutivo della società cooperativa può prevedere lo svolgimento di assemblee separate anche in rapporto all’esigenza di deliberare su specifiche materie, oltre che per la presenza di particolari categorie di soci. Inoltre, il loro svolgimento dev’essere senz’altro previsto quando la cooperativa abbia più di tremila soci. Le deliberazioni dell’assemblea generale possono essere impugnate (ex art. 2377) anche dai soci assenti/dissenzienti nelle separate, quando senza i voti dei delegati delle assemblee separate irregolarmente tenute verrebbe meno la maggioranza richiesta per la validità della deliberazione. Per quanto riguarda il c.d.a. (art. 2542), la nomina degli amministratori spetta all’assemblea dei soci, fatta eccezione per i primi amministratori che sono nominati nell’atto costitutivo, mentre la maggioranza degli amministratori è scelta tra i soci cooperatori, o tra le persone indicate dai soci cooperatori persone giuridiche, l’atto costitutivo può prevedere che uno o più amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie dei soci, la nomina di uno o più amministratori è attribuita dall’atto costitutivo allo Stato o ad altri enti pubblici, fermo restando che, in ogni caso, la nomina della maggioranza è riservata all’assemblea. La nomina del collegio sindacale è obbligatoria nei casi previsti dal secondo e terzo comma dell’art. 2477 (cioè se la cooperativa abbia un capitale sociale pari o superiore a quello previsto per la s.p.a.; se sia tenuta alla redazione del bilancio consolidato; se controlli una società tenuta alla revisione legale dei conti; se per due esercizi consecutivi superi due dei limiti indicati dall’art. 2435-bis), nonché quando la società emetta strumenti finanziari non partecipativi. Per la nomina dell’organo di controllo l’atto costitutivo può stabilire che i voti spettino proporzionalmente alle azioni o quote possedute o «in ragione della partecipazione allo scambio mutualistico» (deroga al principio una testa=un voto). Tra i poteri dei soci, rientrano delle forme di controllo diretto: una minoranza qualificata può chiedere l’accesso e l’esame di un’ampia documentazione. Quanto al controllo giudiziario si prevede che i fatti pregiudizievoli contemplati dall’art. 2409 possano essere denunciati al tribunale dai soci che siano titolari del decimo del capitale sociale o da un decimo del numero complessivo dei soci. Peculiari delle cooperative è la loro sottoposizione alle autorizzazioni, alla vigilanza e agli altri controlli sulla gestione previsti dalle leggi speciali. Il d.lgs. n. 220/2002 ha devoluto al Ministero dello sviluppo economico la titolarità delle funzioni di vigilanza, che si esplicano attraverso attività di revisione cooperativa e di ispezione straordinaria. Le revisioni cooperative devono avvenire almeno ogni due anni e devono corrispondere a due ordini di obiettivi: a) fornire agli organi di amministrazione «suggerimenti e consigli per migliorare la gestione ed il livello di democrazia interna, al fine di promuovere la reale partecipazione dei soci alla vita sociale»; b) «accertare, anche attraverso una verifica della gestione amministrativo-contabile, la natura mutualistica dell’ente». Le ispezioni straordinarie sono invece disposte dal Ministero sulla base: a) di programmati accertamenti a campione; b) di esigenze di approfondimento delle risultanze della revisione cooperativa; c) ogni qualvolta se ne ravvisi l’opportunità. È invece il codice civile a regolare la gestione commissariale, disponendo che, in caso di irregolare funzionamento della cooperativa l’autorità di vigilanza possa revocare amministratori e sindaci e affidare la gestione della società a un commissario, determinandone i poteri e la durata. Al commissario per determinati atti possono essere conferiti anche i poteri dell’assemblea, ma le relative deliberazioni non sono valide senza che sia ottenuta l’approvazione dell’autorità di vigilanza. Se questa accerta irregolarità nelle procedure di ammissione dei nuovi soci può diffidare la società cooperativa. Inoltre, l’autorità può sciogliere le cooperative che non perseguano lo scopo mutualistico o non siano in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono state costituite. Per quanto riguarda la disciplina delle riserve, queste sono funzionali al perseguimento dello scopo mutualistico sicché la loro protezione ha a che vedere con la tutela dell’identità stessa della cooperativa. Per questo si prevede che qualunque sia l’ammontare del fondo di riserva legale dev’essere a questo destinato almeno il 30% degli utili netti annuali. Sono indivisibili le riserve che per disposizione di legge o dello statuto non possono essere ripartite tra i soci neppure in caso di scioglimento della società (art. 2545-ter). Infatti, le riserve indivisibili possono essere utilizzate, esclusivamente per la copertura di perdite, solo se si siano esaurite le riserve che la società aveva destinato a operazioni di aumento di capitale e quelle che possono essere ripartite tra i soci in caso di scioglimento della società. Ciò conferma la ratio secondo la quale esse assolvono funzioni non solo anti-lucrative ma anche di protezione e promozione del fenomeno cooperativo. Esse, infatti, possono essere utilizzate per le necessità della cooperativa purché in tal modo non si dia luogo a una distribuzione indiretta degli utili ai soci. Quanto alle riserve divisibili, invece, la ripartizione tra i soci è deliberata dall’assemblea e normalmente avviene in denaro, nei casi disciplinati dal codice: a) tramite l’emissione degli strumenti finanziari previsti dall’art. 2526; b) con aumento proporzionale delle quote sottoscritte e versate, o mediante l’emissione di nuove azioni nella misura massima complessiva del 20% del valore originario. Passando agli utili, una quota degli utili netti annuali deve essere corrisposta ai fondi mutualistici. L’assemblea determina la destinazione degli utili non diversamente assegnati, mentre l’atto costitutivo indica le modalità e la percentuale massima di ripartizione dei dividendi tra i soci cooperatori. Le società cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente possono deliberare, con il voto favorevole di almeno la metà dei soci della cooperativa, la trasformazione in un qualunque tipo societario, di capitali o di persone, e persino in un tipo consortile. La deliberazione spetta all’assemblea straordinaria e dev’essere adottata con il voto favorevole di almeno la metà dei soci della cooperativa. All’esito della trasformazione gli strumenti finanziari con diritto di voto sono convertiti in partecipazioni ordinarie, conservando gli eventuali privilegi. La deliberazione di trasformazione devolve ai fondi mutualistici il valore effettivo del patrimonio esistente alla data di trasformazione, dedotti il capitale versato e rivalutato e i dividendi non ancora distribuiti, eventualmente aumentato fino a concorrenza dell’ammontare minimo del capitale della nuova società. Le cause di scioglimento della società cooperativa, individuate per rinvio alla disciplina delle società di capitali (art. 2484) sono: a) decorso del termine; b) conseguimento dell’oggetto sociale o impossibilità di conseguirlo; c) scioglimento di diritto della cooperativa per la mancata reintegrazione del numero minimo dei soci entro un anno da quando questo è sceso al di sotto del minimo legale; d) impossibilità di funzionamento o continuata inattività dell’assemblea; e) deliberazione dell’assemblea; f) altre cause previste dall’atto costitutivo o dallo statuto. La cooperativa si scioglie altresì nei citati casi in cui l’autorità di vigilanza provveda in tal senso. Le società cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento; la dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e, viceversa. 7. ALTRE SOCIETÀ DI CAPITALI 1. SOCIETÀ UNIPERSONALI La s.p.a. unipersonale è stata introdotta nel nostro ordinamento in occasione della riforma societaria del 2003, mentre la legittimità della s.r.l. unipersonale è più risalente (1993, aggiornata nel 2003). La società unipersonale consente di guardare al mezzo societario come a uno strumento per lo svolgimento dell’attività d’impresa del quale la pluralità dei soci rappresenta una componente non indispensabile. Dal punto di vista dell’unico socio invece la società unipersonale assume importanza come strumento per frazionare il proprio patrimonio, destinarlo ad attività differenti diversificando le responsabilità imputabili a ciascuna sua componente. In una società unipersonale manca il concorso di più soggetti, ma ciò accade appunto solo nel momento iniziale. La s.p.a. unipersonale è dunque, come d’altronde l’omologa s.r.l., una società di capitali il cui unico socio può beneficiare del regime di responsabilità limitata. Il socio della s.p.a unipersonale viene privato di tale beneficio se si verificano due circostanze eccezionali e come tali contemplate dal secondo comma dell’art. 2325: l’unico socio di s.p.a. assume responsabilità illimitata in situazioni obiettivamente identificabili ed esattamente: a) quando i conferimenti non siano stati interamente liberati come richiesto dalla norma che espressamente ne disciplina il versamento; b) fino a quando non sia stata realizzata la pubblicità propria della s.p.a. unipersonale regolata dall’art. 2362. Si tratta di una responsabilità sussidiaria del socio, il cui patrimonio personale potrà essere aggredito dai creditori sociali solo dopo che sia stato infruttuosamente escusso il patrimonio della società; l’unico socio è tenuto a rispondere in solido con coloro che hanno agito. Infine, per garantire la massima trasparenza possibile nei rapporti tra società e unico socio (ultimo comma art. 2362) il socio non può considerare personale, in quanto uscito dal patrimonio sociale, un bene acquistato dalla propria società se non sia certa l’anteriorità della vendita rispetto all’azione esecutiva del creditore sociale. Nella s.r.l. unipersonale a tutela dei terzi sono disposti due ordini di cautele: a) quando l’intera partecipazione appartiene a un solo socio o muta la persona dell’unico socio, gli amministratori devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese una dichiarazione contenente le generalità dell’unico socio (art. 2470); b) il capitale sottoscritto dev’essere interamente versato, e se la pluralità dei soci viene meno successivamente i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro novanta giorni da tale evento (art. 2464). Se queste condizioni non sono rispettate il socio risponde personalmente e illimitatamente delle obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui sia stato unico socio. Di fatto gli amministratori delle società di capitali unipersonali coincidono con l’unico socio, che è dunque amministratore unico. Ciò accade in quanto nella prassi le società unipersonali sono utilizzate come strumenti di razionalizzazione degli assetti proprietari all’interno di strutture di gruppo. La definizione dell’assetto di governo incontra però alcuni limiti: non si può parlare di unico azionista quando le azioni siano divise in due classi delle quali l’una sia costituita da azioni prive del diritto di voto, né se si tratti di azioni a voto limitato o condizionato. È invece possibile che il socio unico si circondi di soggetti associati in partecipazione o di soggetti titolari di strumenti finanziari partecipativi il socio unico realizza così forme di collaborazione endosocietaria, si procura capitali e mantiene la propria posizione di primo piano gestorio: non si crea necessariamente una condizione di dominio assoluto del socio unico. Il funzionamento dell’assemblea è tale per cui essa permane quale organo formale, di cui sono, però, senz’altro svilite la collegialità e l’imperatività del procedimento: va concluso che la s.r.l. è il tipo più congruo per applicare un assetto monosocietario. 2. SOCIETÀ IN ACCOMANDITA PER AZIONI Si tratta di una società costituita da soci appartenenti a due categorie differenti: i soci accomandatari, amministratori e illimitatamente responsabili, e i soci accomandanti, responsabili nei limiti di quanto conferito. Differentemente dalla s.a.s., la s.a.p.a. è una società di capitali, «le quote di partecipazione dei [cui] soci sono rappresentate da azioni» (art. 2452). Infine, secondo l’art. 2454, «alla società in accomandita per azioni sono applicabili le norme relative alla società per azioni, in quanto compatibili con le disposizioni seguenti». Le diversità rispetto all’altra accomandita, ossia la s.a.s. attengono, anzitutto, alla natura del tipo societario: mentre l’accomandita semplice è una società di persone della quale fanno parte, per così dire eccezionalmente, soci a responsabilità limitata (gli accomandanti), l’accomandita per azioni è una società di capitali nella quale la peculiarità è costituita dalla presenza di soci a responsabilità illimitata (gli accomandatari) che, proprio perché assumono tale responsabilità, sono di diritto amministratori. Inoltre, del complesso della disciplina giuridica applicabile alla s.a.p.a., il numero decisamente maggiore di disposizioni appartiene al novero regolativo proprio della società per azioni. Anche il regime della responsabilità ad assolvere a funzioni non coincidenti nei due tipi: mentre nella s.a.s. la responsabilità illimitata degli accomandatari svolge eminentemente una funzione garantista nei confronti dei creditori sociali, nella s.a.p.a. la loro responsabilità illimitata è strumentale a garantire le migliori condizioni per una corretta ed efficiente gestione dell’impresa. I poteri di nomina e revoca delle cariche sociali sono sottratti all’alveo delle competenze dell’assemblea ordinaria e imputati all’assemblea straordinaria: tale fattore necessariamente richiede una tendenziale stabilità nelle opinioni dei proprietari, nonché il previo raggiungimento di consenso, e in questo modo le minoranze qualificate godono di poteri di veto non esercitabili altrove. Chi siano i soci accomandatari, ossia i soci che di diritto sono amministratori e vengono assoggettati agli obblighi degli amministratori della società per azioni, è un elemento che deve emergere dall’atto costitutivo, come richiesto dall’art. 2455. Uno tra questi soci deve essere nominato anche altrove dato che «la denominazione della società è costituita da nome di almeno uno dei soci accomandatari, con l’indicazione di società in accomandita per azioni» ci dice l’art. 2453, disposizione che serve ai terzi affinché siano posti nella condizione di identificare con immediatezza a quali soggetti, in quanto gestori dell’impresa, tocca sopportare una responsabilità illimitata idonea a sua volta a garantire il congruo adempimento delle obbligazioni contratte dalla società nei loro confronti. Dagli artt. 2452 e 2455 emerge che accomandanti e accomandatari rappresentano categorie di soci che differiscono per il solo fatto che i secondi sono, oltre che soci, anche amministratori, e che la qualità di socio e di amministratore deve necessariamente coincidere. Inoltre, se nell’accomandita semplice gli amministratori rispondono illimitatamente in ragione di una responsabilizzazione che dipende dalla partecipazione sociale, nell’accomandita per azioni la loro responsabilità non inerisce alla partecipazione dal momento che essa grava sul socio accomandatario solo a partire dalla nomina come amministratore e viene meno se e da quando tale carica venga meno. Rispetto alla disciplina dell’assemblea di società per azioni si notano le seguenti differenze macroscopiche: a) anzitutto vi sono competenze proprie dell’assemblea ordinaria della s.p.a. che nella s.a.p.a. sono ad appannaggio dell’assemblea straordinaria: si pensi alla nomina del sostituto del socio accomandatario cessato, nonché alla revoca degli accomandatari; b) alcune competenze, riferibili all’assemblea della s.p.a. e solo ad essa, viceversa nella s.a.p.a. sono condivise dagli accomandatari, il cui consenso è necessario. Lo scioglimento della s.a.p.a. è regolato dalle disposizioni previste per le società per azioni, ma si aggiunge un’ulteriore causa: il venir meno di tutti gli accomandatari e, in conseguenza, il mancato funzionamento dell’organo amministrativo per sei mesi. Ai sensi dell’art. 2458, infatti, «in caso di cessazione dall’ufficio di tutti gli amministratori, la società si scioglie se nel termine di centottanta giorni non si è provveduto alla loro sostituzione e i sostituti non hanno accettato la carica». In questo periodo l’ordinaria amministrazione è affidata dal collegio sindacale a un amministratore provvisorio, il quale peraltro non diviene socio accomandatario per il fatto di vedersi assegnato l’incarico. 3. SOCIETÀ EUROPEA Per un verso la s.e. è stata concepita per dare un impulso al processo di uniformazione delle regole del diritto dell’impresa di ogni Stato membro dell’Unione europea; per altro verso la disciplina ad essa dedicata è stata condizionata dallo stato di avanzamento del processo di armonizzazione del diritto societario europeo, condotto nel corso di decenni da parte delle istituzioni comunitarie. Le stesure preliminari del progetto, poi confluito nel regolamento CE n. 2157/2001, furono prodotte in un periodo in cui non erano ancora state implementate le misure di armonizzazione che sarebbero state realizzate con molteplici e successive direttive di diritto societario europeo. L’auspicato successo del tipo societario s.e. avrebbe dovuto indurre i legislatori nazionali a porre le condizioni affinché i soci di una s.e. potessero aderire a una data iniziativa imprenditoriale in posizioni di sostanziale uguaglianza rispetto a quelle dei soci appartenenti a ordinamenti dotati di sistemi di diritto societario anche differenti. Sulla base di tali premesse la società europea avrebbe dovuto aiutare a superare le remore alla condivisione di piani cross-border e alla costituzione di società intese a realizzare progetti imprenditoriali sovranazionali. Il legislatore comunitario ha reagito alle condizioni del processo di armonizzazione in un modo che, a sua volta, ha condizionato la stesura della disciplina della società europea. In una prima fase la disciplina della società europea fu contemplata quale trama normativa esaustiva e autosufficiente. Le esigenze di integrazione con il sistema di diritto societario previsto dai vari ordinamenti erano intese a essere escluse o comunque marginalizzate. In una seconda fase la reazione nei confronti del basso grado di uniformazione fu realizzata implementando uno statuto di società europea pensato quale contenitore di alcune almeno tra le best practices di governo societario individuabili dal punto di vista teorico e condivise dalla maggioranza degli Stati membri: perciò manca una disciplina ad hoc di diverse materie. Si è assistito quindi, tra gli anni 70 e 80, a una progressiva riduzione dello spazio di intervento dello statuto di s.e. e, con esso, delle prospettive di effettiva elaborazione di una disciplina materiale di diritto uniforme. Come riporta l’art. 1 del regolamento n. 2157/2001, la società europea è una società di capitali, dotata di personalità giuridica, il cui capitale è diviso in azioni, e i cui soci rispondono solo nei limiti del capitale sottoscritto: la s.e. è trattata in ogni Stato membro come una società per azioni costituita in conformità della legge dello Stato in cui essa ha la sede e la gerarchia delle fonti della sua disciplina, espresse nell’art. 9, contemplano nell’ordine: a) le disposizioni del regolamento; b) le disposizioni dello statuto della s.e., con riguardo alle materie disciplinate dal regolamento; c) per le materie non disciplinate dal regolamento, le disposizioni di legge adottate dagli Stati membri in applicazione di misure comunitarie concernenti specificamente la s.e. e in subordine le disposizioni di legge degli Stati membri che si applicherebbero a una società per azioni costituita in conformità della legge dello Stato membro in cui la s.e. ha la sede sociale. La s.e. si costituisce secondo le modalità particolari di una società di secondo grado, che scaturisce in forma eminentemente aggregativa di enti già operativi sul piano sovranazionale. Modalità che a loro volta confermano la filosofia sottesa a questa forma giuridica, funzionale a realizzare operazioni fusionali cross-border. La costituzione della società europea può dunque avvenire come segue: a) per fusione di più società per azioni o s.e. delle quali almeno due abbiano sede effettiva in Stati membri differenti; b) per trasformazione di una società per azioni avente da almeno due anni un’affiliata (cioè non solo una sede secondaria) in uno Stato membro diverso da quello della sua sede effettiva; c) per costituzione di una s.e. holding da parte di società per azioni, s.e. e società a responsabilità limitata almeno due delle quali abbiano la sede effettiva in Stati membri distinti o abbiano da almeno due anni un’affiliata in uno Stato membro diverso da quello della loro sede effettiva; d) per costituzione di una s.e. affiliata da parte di società (ai sensi dell’art. 48, secondo comma, del Trattato CE), s.e. o altre entità giuridiche di diritto pubblico o privato almeno due delle quali abbiano la sede effettiva in Stati membri distinti. Ai sensi dell’art. 12 la s.e. deve iscriversi in un apposito registro nello Stato membro in cui ha sede: dunque l’iscrizione è oggetto di pubblicità. Per dar luogo all’iscrizione, è necessario aver raggiunto un accordo sulle modalità di coinvolgimento dei lavoratori dipendenti della s.e. Il trasferimento non dà luogo a scioglimento né a costituzione di una nuova persona giuridica, e consente risparmi nei costi amministrativi oltre che vantaggi di ordine fiscale. Anche la struttura organizzativa non subisce alterazioni per il trasferimento di sede, e sono previste misure di protezione anche per gli azionisti che si sono pronunciati contro il trasferimento. Infine, è stabilito che prima che l’autorità competente rilasci il predetto certificato la s.e. debba fare in modo che gli interessi dei creditori e dei titolari di altri diritti nei confronti della s.e. (inclusi quelli di enti pubblici) siano stati adeguatamente tutelati, in ottemperanza a quanto stabilito dallo Stato membro nel quale la s.e. aveva la sede sociale originaria. La pubblicazione dell’avvenuta iscrizione rende la nuova sede sociale opponibile ai terzi. L’assemblea generale delibera nelle materie per le quali le è attribuita una competenza specifica dal regolamento o dalle disposizioni di legge dello Stato membro in cui la s.e. ha la propria sede. Il regolamento demanda all’assemblea la nomina degli amministratori, mentre l’organizzazione, lo svolgimento e le procedure di voto sono perciò sottoposte alle disposizioni nazionali. L’organo amministrativo può essere dualistico o monistico, possibilità che originariamente rendeva la s.e. appetibile sotto il profilo organizzativo interno dato che, sino alla riforma del diritto societario del 2003, tali opzioni non erano disponibili nel nostro ordinamento. Nel sistema dualistico l’organo di direzione gestisce la s.e. sotto la propria responsabilità mentre l’organo di vigilanza controlla la gestione ma non può esercitare esso stesso il potere di gestione della s.e. Il sistema monistico è costituito dal solo organo di amministrazione, che a sua volta gestisce la s.e. Lo statuto può prevedere che una società o altra entità giuridica sia membro di un organo, e in tal caso i poteri dell’organo devono essere esercitati da un rappresentante persona fisica. Le ineleggibilità e incompatibilità dei membri dei diversi organi della s.e. si devono desumere dalla normativa nazionale. Il contesto in cui vige il principio di sussidiarietà, la società europea può oggi rappresentare lo strumento per scegliere l’ordinamento più favorevole per svolgere una data attività economica. L’opzione per il tipo societario s.e. consente, in sostanza, di operare l’arbitraggio normativo per realizzare i propri obiettivi di mobilità transfrontaliera. Si tratta di valutare se le aspirazioni originariamente nutrite nei confronti del tipo s.e. possano essere vanificate dal processo di concorrenza tra ordinamenti giuridici innescato da una serie di importanti sentenze della Corte di giustizia europea (sentenza Centros, 1999; sentenza Uberseerung, 2002; sentenza Inspire Art, 2005) sulla libertà di stabilimento delle società di capitali. Per lungo tempo la libertà di stabilimento societaria fu tutelata semplicemente sulla base del principio di non discriminazione fissato dall’art. 43 del Trattato della Comunità europea (ora art. 49 del Trattato dell’Unione), secondo il quale uno Stato membro non può comportarsi con i cittadini di altri Stati in modo diverso da come si comporta con i propri. Si trattava di una prospettiva meramente nazionale della tutela della libertà di trattamento, non sottoposta ad eccezioni. In una fase successiva però furono introdotte delle restrizioni, nel rispetto di 4 condizioni: se tali provvedimenti a) si applichino in modo non discriminatorio; b) siano giustificati da motivi di interesse pubblico; c) siano idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito; d) non vadano oltre quanto necessario per il raggiungimento dello scopo medesimo. Queste sentenze incidono su uno scenario regolativo che conosce e applica, a seconda degli Stati di riferimento, due teorie differenti. La teoria dello Stato di costituzione, o dell’incorporazione, prevede che, alla società che svolga la propria attività imprenditoriale in almeno due Stati differenti, mediante la costituzione di una sede secondaria, si applichi il diritto dello Stato ove è avvenuta la propria costituzione. La teoria della sede reale prevede che a quella società si applichi, invece, il diritto dell’ordinamento dello Stato in cui essa ha la sua sede amministrativa effettiva, ossia il proprio centro decisionale. La fortuna della teoria dell’incorporazione consegue al fatto che l’Inghilterra per secoli si è profilata come esportatrice di diritto attraverso le sue colonie. Al contrario la teoria della sede reale si sviluppa prevalentemente negli Stati dell’Europa continentale più attenti a impedire che valori giuridici stranieri penetrino nel loro ordinamento. Con il tramonto della teoria della sede reale, segnato dalle citate sentenze, si è sviluppato il processo di competizione tra Stati per modellare ordinamenti appetibili da parte di imprenditori che intendano svolgere attività economiche a livello sovranazionale. Ed è, questo, il noto fenomeno della concorrenza tra ordinamenti giuridici: ciò a sua volta costituisce un incentivo affinché gli Stati rendano il proprio ordinamento quanto più attraente possibile agli occhi degli imprenditori. 8. BILANCIO, REVISIONE LEGALE DEI CONTI, PATRIMONI DESTINATI 1. BILANCIO Il bilancio di esercizio, sottoposto all’approvazione dell’assemblea ordinaria (art. 2364, proprio a tal fine l’assemblea dev’essere convocata almeno una volta l’anno), fotografa la situazione e l’andamento della società. Quindi la sua presentazione in assemblea rappresenta anche il momento cruciale nel quale i soci valutano l’operato della società stessa e di chi l’amministra. È un documento complesso perché, pur valendo il principio di unità del bilancio, esso è costituito da tre documenti: a) lo stato patrimoniale; b) il conto economico; c) la nota integrativa. I primi due documenti hanno natura strettamente contabile, il terzo ha invece una natura illustrativa dei contenuti degli altri. Il bilancio espone le voci che costituiscono il reddito e il capitale della società e le sue funzioni corrispondono esattamente alle proprietà dei due documenti principali che lo compongono: a) rappresentare il valore del patrimonio sociale; b) rappresentare l’ammontare degli utili distribuibili alla chiusura dell’esercizio. Ai sensi dell’art. 2423 «il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio». Fatta salva la clausola generale, il codice esplicita le regole pratiche in materia di redazione del bilancio, ovvero: a) I principi generali: 1. Prudenza, principio che si traduce nel non sovrastimare gli elementi attivi e non sottostimare gli elementi passivi, tenendo conto cautelativamente delle diminuzioni di valore che possono verificarsi, dei costi che potrebbe risultare necessario sostenere, delle spese giudiziali che non è escluso si debbano affrontare, e così via. 2. Continuità dell’attività d’impresa, principio per cui si deve ragionare calcolando che i beni da valutare non saranno distolti dall’attività d’impresa, ma continueranno a essere destinati al processo produttivo in cui essa si realizza. 3. Prevalenza della sostanza (economica) sulla forma (giuridica), ovvero il principio secondo il quale la valutazione delle voci dev’essere effettuata tenendo conto della funzione economica dell’elemento attivo o del passivo considerato. 4. Competenza, che impone di attribuire le attività e le passività agli esercizi di spettanza, indipendentemente dalle entrate e dalle uscite di cassa. Esemplifica bene l’applicazione di questo principio la disciplina dei ratei e dei risconti. 5. Il principio della valutazione separata degli elementi eterogenei delle singole voci. 6. Continuità dei criteri di valutazione, che impone omogeneità nelle tecniche di iscrizione al fine di rendere confrontabili i bilanci di esercizi successivi e consentire così di maturare giudizi corretti sull’andamento di medio-lungo periodo dell’attività d’impresa; eventuali modifiche devono essere adeguatamente illustrate e motivate nella nota integrativa. b) I criteri specifici: lo stato patrimoniale (formato ad es. dal capitale sociale, frazione indisponibile del patrimonio sociale; nonché la riserva legale, costituita da parte degli utili di esercizio, ugualmente indisponibile e non utilizzabile nemmeno per aumenti gratuiti di capitale) può essere pensato come una fotografia statica della situazione patrimoniale e finanziaria della società al momento della chiusura dell’esercizio. La struttura del conto economico (tra cui i ricavi delle vendite, i costi per le materie prime, interessi attivi e passivi…) evoca invece una rappresentazione dinamica e indica i profitti e le perdite di esercizio. A proposito di entrambi l’art. 2423-ter prevede una serie di criteri di redazione specifici da cui si evince che le voci vanno riportate secondo l’ordine indicato e rispettando la scansione per categorie rappresentata dal codice, con la concessione di scostamenti rispetto al modello, da giustificarsi espressamente in nota integrativa, solo a favore della maggiore chiarezza che così il bilancio acquisisca. I principi contabili sono elaborati anche dagli organismi internazionali con l’obiettivo di favorire una maggiore omogeneizzazione e quindi una più facile confrontabilità delle informazioni finanziarie. Il riferimento è in particolare all’International Accounting Standards Board (IASB) che ha approvato gli International Financial Reporting Standards (IFRS), adottati obbligatoriamente dalle società che presentano il bilancio consolidato, dalle società emittenti azioni quotate sui mercati regolamentati e da altre società che svolgano attività particolari (come quella bancaria). Sottolineano l’esigenza di individuare sul piano internazionale standard condivisi che consentano di uniformare le tecniche di redazione dei bilanci e di eliminare i confini (e i poteri) delle giurisdizioni nazionali. Anche la direttiva comunitaria 2013/34/UE, recepita con d.lgs. n. 136/2015, è stata adottata a sua volta per avvicinare i criteri contabili comunitari ai principi elaborati in sede internazionale. Tale direttiva si era posta l’obiettivo di aumentare la chiarezza e la comparabilità dei bilanci, al contempo semplificando gli oneri amministrativi a vantaggio soprattutto delle imprese di dimensioni minori. Significativa è anche l’introduzione di una nuova categoria di soggetti, le microimprese, per le quali vengono ammesse ulteriori semplificazioni nella redazione del bilancio rispetto a quelle già previste dall’ordinamento nazionale. La nota integrativa, che costituisce parte del bilancio, chiarisce e dettaglia un lungo elenco di voci rappresentate nello stato patrimoniale e nel conto economico, illustrando e giustificando i criteri adottati e gli eventuali scostamenti dai medesimi, a cominciare dai criteri applicati nella valutazione delle voci del bilancio e concludendosi con le informazioni relative al valore equo. La relazione sull’andamento della gestione costituisce un allegato esterno al bilancio che funge da resoconto della medesima; ai sensi dell’art. 2428 essa deve rappresentare un’analisi fedele, equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell’andamento e del risultato della gestione, considerati nel loro complesso nonché in relazione ai vari settori nei quali la società abbia operato (anche avvalendosi di società controllate), con particolare riguardo ai costi, ai ricavi e agli investimenti, e deve altresì contenere una descrizione dei principali rischi e fattori di incertezza ai quali la società è esposta. Il dato per cui la relazione costituisce un allegato al bilancio, e non una sua parte costitutiva, dovrebbe rassicurare sul fatto che, in caso di violazione delle norme sulla sua redazione, non si determini la nullità del bilancio; ma non tutta la dottrina è d’accordo con questa conclusione. È consentito redigere il bilancio in forma abbreviata quando ricorrono contestualmente le seguenti due condizioni: a) la società non abbia emesso titoli negoziati nei mercati regolamentati; b) nel primo esercizio o successivamente per due esercizi consecutivi non abbia superato due tra i seguenti limiti: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 4.400.000 euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 8.800.000 euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 50 unità. Gli amministratori sono responsabili per quanto attestato dal bilancio: anche se dev’essere approvato dall’assemblea dei soci (o dal consiglio di sorveglianza delle società che adottino il sistema dualistico), detta approvazione non libera gli amministratori per le responsabilità incorse nella gestione sociale. A essere esatti, dunque, gli amministratori redigono un progetto di bilancio, che diviene ufficialmente tale solo a seguito e in conseguenza dell’approvazione da parte dell’assemblea dei soci. Il collegio sindacale deve riferire all’assemblea sui risultati dell’esercizio sociale e sull’attività svolta nell’adempimento dei propri doveri, e fare le osservazioni e le proposte in ordine al bilancio e alla sua approvazione. Il bilancio deve restare depositato in copia presso la sede della società, assieme alle relazioni degli amministratori, dei sindaci e dell’incaricato della revisione legale dei conti, nei quindici giorni che precedono l’assemblea (e finché sia approvato), in modo che i soci possano prenderne visione. Entro trenta giorni dall’approvazione gli amministratori devono depositare una copia del bilancio presso il registro delle imprese corredato dalle relazioni e dal verbale dell’assemblea (o del c.d.s.). Nelle s.r.l. non è necessaria una riunione assembleare onde approvare il bilancio: è sufficiente che gli amministratori lo predispongano e lo sottopongano ai soci entro il termine stabilito dall’atto costitutivo. La deliberazione assembleare che approva il bilancio è impugnabile secondo le regole ordinarie, ossia per annullabilità (art. 2377) o nullità (art. 2379); tuttavia la legittimazione a impugnare la deliberazione di approvazione del bilancio sul quale il soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti ha emesso un giudizio privo di rilievi spetta a tanti soci che rappresentino almeno il 5% del capitale sociale. Questo per evitare che bilanci sui quali già si è realizzato un controllo esterno, quello del revisore, siano esposti a impugnative con finalità di mero disturbo (per cui è necessaria una quota di soci a garanzia della serietà dell’iniziativa), e garantire la stabilità di una deliberazione così importante per la vita della società, evitando che tale deliberazione rimanga esposta per lungo tempo a rischi di impugnazione. L’approvazione del bilancio rappresenta un frangente cruciale per la vita della società anche perché è solo dopo quel momento che possono assumersi decisioni nel merito della destinazione degli utili. Premesso che dagli utili netti annuali deve essere dedotta una somma corrispondente almeno alla ventesima parte per costituire una riserva, finché questa non abbia raggiunto il quinto del capitale sociale – riserva che dovrà essere reintegrata se diminuisca per qualsiasi ragione – la deliberazione sulla distribuzione degli utili è adottata dall’assemblea che approva il bilancio. Esiste dunque un limite per quanto riguarda la disponibilità degli utili. La parte dell’utile che l’assemblea delibera di distribuire suole chiamarsi dividendo. Il socio non può pretendere di vedersi corrisposta la propria quota parte, cioè non ha un vero diritto in tal senso, né l’assemblea è tenuta a motivare perché non abbia deliberato di distribuire utili (e nemmeno quale debba essere la destinazione degli utili non distribuiti). Pertanto, se l’assemblea proceda in tal senso la minoranza in disaccordo potrà impugnare la deliberazione solo dimostrando che essa sia stata indotta da un intento extrasociale della maggioranza. La distribuzione di acconti sui dividendi è consentita nel rispetto di rigorose condizioni. Possono infatti procedervi solo le società il cui bilancio sia assoggettato per legge a revisione legale dei conti secondo il regime previsto dalle leggi speciali per gli enti di interesse pubblico. La distribuzione di acconti sui dividendi dev’essere prevista dallo statuto ed è deliberata dagli amministratori dopo il rilascio da parte del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti di un giudizio positivo sul bilancio dell’esercizio precedente e dopo la sua approvazione. Inoltre, non è consentita la distribuzione degli acconti quando dall’ultimo bilancio approvato risultino perdite relative all’esercizio o a esercizi precedenti. L’ammontare degli acconti sui dividendi non può poi superare la somma minore tra l’importo degli utili conseguiti dalla chiusura dell’esercizio precedente, diminuito delle quote che dovranno essere destinate a riserva per obbligo legale o statutario, e quello delle riserve disponibili. 2. REVISIONE LEGALE DEI CONTI L’assegnazione della funzione di controllo contabile a un revisore o a una società di revisione fu varata nel 1974 per le sole società quotate ed estesa nel 2003 a tutte le società per azioni. La disciplina dell’esercizio di questi controlli è offerta dal d.lgs. n. 39/2012. Ai sensi dell’art. 2 del decreto l’esercizio della revisione legale è riservato ai soggetti iscritti nel registro, e possono chiedervi l’iscrizione anzitutto le persone fisiche che: a) siano in possesso dei requisiti di onorabilità definiti con regolamento adottato dal Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Consob; b) siano in possesso di una laurea almeno triennale (tra quelle ammesse); c) abbiano svolto il tirocinio; d) abbiano superato l’esame di idoneità professionale. Inoltre, possono chiedere l’iscrizione nel registro le società che soddisfino le seguenti condizioni: a) i componenti del consiglio di amministrazione o del consiglio di gestione siano in possesso dei requisiti di onorabilità (definiti con regolamento); b) la maggioranza dei membri del c.d.a. o del c.d.g. sia costituita da persone fisiche abilitate all’esercizio della revisione legale in uno Stato membro dell’Unione europea; c) nelle società di persone la maggioranza numerica e per quote dei soci sia costituita da soggetti abilitati all’esercizio della revisione legale in uno Stato membro dell’Unione europea; d) nelle società di capitali le azioni siano nominative e non trasferibili mediante girata; e) la maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria spetti a soggetti abilitati all’esercizio della revisione legale in uno Stato membro dell’Unione europea. I soggetti abilitati all’esercizio dell’attività di revisione legale dei conti sono tenuti a rispettare i principi di deontologia professionale, riservatezza e segreto professionale elaborati dalle associazioni e dagli ordini professionali. Essi devono essere indipendenti dalla società, e sono richiesti di essere in nessun modo coinvolti nel processo decisionale della società. In particolare, è vietato a revisore e società di effettuare la revisione dei conti di una società qualora tra questa e il revisore, o la rete alla quale appartenga il revisore, sussista qualsiasi tipo di relazioni d’affari o di lavoro. Il concetto di rete è importante dal momento che corrisponde alla modalità frequentemente praticata dai revisori per organizzare i propri enti e attività; per rete il decreto intende esattamente la struttura, alla quale appartiene il revisore, finalizzata alla cooperazione e che persegue chiaramente la condivisione degli utili o dei costi e che fa capo a una proprietà. Se l’indipendenza rischia semplicemente di essere compromessa, sono gli stessi revisori e società a dover adottare misure volte a ridurre tali rischi. Se invece i rischi siano di tale rilevanza da comprometterne decisamente l’indipendenza, la revisione legale non può essere effettuata. In materia di compenso dei revisori, il corrispettivo non può essere subordinato ad alcuna condizione, non può essere stabilito in funzione dei risultati della revisione, né dipendere dal suo esito, e non può essere connesso alla prestazione di servizi diversi dalla revisione medesima. Determinato «per l’intera durata dell’incarico», ed «in modo da garantire la qualità e l’affidabilità dei lavori», dev’essere parametrato a variabili predefinite: a) la dimensione, la composizione e la rischiosità delle più significative grandezze patrimoniali, economiche e finanziarie del bilancio della società incaricante, nonché i profili di rischio connessi al processo di consolidamento dei dati relativi alle società del gruppo; b) la preparazione tecnica e l’esperienza che il lavoro di revisione richiede; c) la necessità di assicurare, oltre all’esecuzione materiale delle verifiche, «un’adeguata attività di supervisione e di indirizzo». Il revisore è nominato per la prima volta nell’atto costitutivo; successivamente è l’assemblea a conferire l’incarico. L’incarico ha la durata di tre esercizi e scade in corrispondenza della data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio dell’incarico medesimo. È consentita la revoca del revisore, sentito l’organo di controllo, quando ricorra una giusta causa. Revisore e società possono dimettersi dall’incarico ma è fatto salvo il risarcimento del danno e, in ogni caso, le dimissioni devono essere poste in essere in tempi e modi tali da consentire alla società sottoposta a revisione di provvedere altrimenti. In caso di dimissioni o risoluzione consensuale del contratto le funzioni di revisione legale continuano a essere esercitate fino a quando la deliberazione di conferimento del nuovo incarico non sia divenuta efficace. L’attività di revisione, che deve verificare «la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili», va rappresentata in una relazione e sul bilancio deve esprimere un giudizio. La relazione comprende: a) un paragrafo introduttivo che identifica i conti annuali o consolidati sottoposti a revisione legale e il quadro delle regole di redazione applicate dalla società; b) una descrizione della portata della revisione legale svolta con l’indicazione dei principi di revisione osservati; c) un giudizio sul bilancio che indica chiaramente se questo è conforme alle norme che ne disciplinano la redazione e se rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria e il risultato economico dell’esercizio; d) eventuali richiami di informativa che il revisore sottopone all’attenzione dei destinatari del bilancio, senza che essi costituiscano rilievi; e) un giudizio sulla coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio. L’assemblea è comunque libera di approvare o meno il bilancio, quand’anche il giudizio espresso dal revisore sia stato negativo. Revisore e società sono dal decreto indicati come «interamente responsabili dell’espressione del relativo giudizio». A tal fine essi hanno diritto a ottenere dagli amministratori documenti e notizie utili alla propria attività: il limite di esercizio dei poteri informativi e ispettivi è evidentemente dato dalla strumentalità delle informazioni allo svolgimento dell’attività di revisione. Revisore e società inoltre rispondono in solido tra loro e con gli amministratori nei confronti della società conferente l’incarico, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. Tuttavia, nei rapporti interni tra i debitori solidali essi sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno cagionato. Unitamente alla società di revisione rispondono altresì, per danni conseguenti a propri inadempimenti o fatti illeciti, il responsabile della revisione e i dipendenti della società, in solido tra loro e con la società di revisione (l’azione di risarcimento si prescrive in 5 anni). Destinatari di un’attività di revisione speciale, sono gli «enti di interesse pubblico», ossia le società aperte (cioè emittenti azioni o altri strumenti finanziari quotati o diffusi tra il pubblico in misura rilevante), nonché alcune società disciplinate da leggi speciali. Nei confronti di questi soggetti l’incarico di revisione legale ha la durata di nove esercizi, se espletato da società di revisione, e di sette esercizi, se espletato da un revisore persona fisica. Il revisore, il responsabile della revisione e coloro che vi hanno preso parte con funzioni di direzione e supervisione, non possono rivestire cariche sociali negli organi di amministrazione e controllo dell’ente incaricante, né possono prestare lavoro autonomo o subordinato in favore dell’ente medesimo svolgendo funzioni dirigenziali di rilievo, se non sia decorso almeno un biennio dalla conclusione dell’incarico o dal momento in cui abbiano cessato di essere soci, amministratori o dipendenti della società di revisione. Entro tre mesi dalla fine di ogni esercizio sociale revisore e società devono pubblicare sul proprio sito internet una relazione di trasparenza annuale. Infine, è prevista una forma di controllo sui controllori, definito controllo della qualità, che deve essere effettuato almeno ogni sei anni (tre se la revisione riguardi enti di interesse pubblico). Il controllo della qualità è effettuato da persone fisiche in possesso di un’adeguata formazione ed esperienza professionale in materia di revisione dei conti e di informativa finanziaria e di bilancio, nonché di una formazione specifica in materia di controllo della qualità: il controllo include una valutazione della conformità ai principi di revisione e ai requisiti d’indipendenza applicabili, della quantità e qualità delle risorse impiegate, dei corrispettivi per la revisione nonché del sistema interno di controllo della qualità nella società di revisione legale. 3. PATRIMONI DESTINATI A UNO SPECIFICO AFFARE I patrimoni destinati a uno specifico affare sono istituti introdotti dalla riforma societaria del 2003. Ne esistono di due tipi: a. I patrimoni destinati detti operativi, o industriali, o patrimoni separati; consiste nella creazione di un patrimonio separato rispetto al patrimonio della società, pur sempre interno a questa, strumentale allo svolgimento di un’attività specifica ulteriore e differente rispetto alla principale attività dell’ente societario. b. I finanziamenti destinati a uno specifico affare; consiste nel finanziamento di uno specifico affare, che è la società a dover realizzare, da parte di un terzo a favore del quale viene riservato, all’interno della società, un ammontare di denaro quale forma di garanzia della restituzione del finanziamento medesimo. La ratio economica degli istituti è evidente, e risiede nel gestire il rischio d’impresa attraverso soluzioni che consentano di risparmiare su tempi e costi guadagnando in snellezza operativa. Così il codice civile tratteggia le due figure patrimoniali: ai sensi dell’art. 2447-bis la società può: a) «costituire uno o più patrimoni ciascuno dei quali destinato in via esclusiva ad uno specifico affare»; b) «convenire che nel contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare al rimborso totale o parziale del finanziamento medesimo siano destinati i proventi dell’affare stesso, o parte di essi». Il patrimonio separato è costituito con una deliberazione dell’organo amministrativo, con voti favorevoli che devono raggiungere la maggioranza assoluta dei suoi componenti. La deliberazione deve indicare: a) l’affare al quale è destinato il patrimonio; b) i beni e i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio; c) il piano economico-finanziario da cui risulti la congruità del patrimonio rispetto alla realizzazione dell’affare, le modalità e le regole relative al suo impiego, il risultato che si intende perseguire e le eventuali garanzie offerte ai terzi (piano di rilievo cruciale data la molteplicità di funzioni che è chiamato ad assolvere); d) gli eventuali apporti di terzi, le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell’affare; e) la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione all’affare, con la specifica indicazione dei diritti che essi attribuiscono ai loro titolari; f) la nomina di un revisore o di una società di revisione legale dei conti dell’affare, quando la società non vi sia già assoggettata; g) le regole di rendicontazione dello specifico affare. La deliberazione dev’essere verbalizzata da un notaio e depositata per l’iscrizione presso il registro delle imprese. Qualora la deliberazione prevista dall’articolo 2447-ter non disponga diversamente, per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato. Qualora siano emessi strumenti finanziari, la società deve altresì tenere un libro che ne riporti le caratteristiche, l’ammontare di quelli emessi e di quelli estinti, le generalità dei titolari degli strumenti nominativi e i trasferimenti e i vincoli ad essi relativi. Quindi si costituisce un’assemblea speciale e si applica la disciplina propria dell’assemblea degli obbligazionisti. Quando l’affare si realizza, o nel caso opposto in cui sia divenuto impossibile, gli amministratori redigono un rendiconto finale che, accompagnato da una relazione dei sindaci e del revisore dei conti, dev’essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese. Il finanziamento destinato a uno specifico affare, cioè il patrimonio destinato del secondo tipo, è dall’art. 2447-decies definito come il contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare, e deve contenere: a) una descrizione dell’operazione che consenta di individuarne lo specifico oggetto; le modalità e i tempi di realizzazione; i costi previsti e i ricavi attesi; b) il piano finanziario dell’operazione, indicando la parte coperta dal finanziamento e quella a carico della società; c) i beni strumentali necessari alla realizzazione dell’operazione; d) le specifiche garanzie che la società offre in ordine all’obbligo di esecuzione del contratto e di corretta e tempestiva realizzazione dell’operazione; e) i controlli che il finanziatore, o soggetto da lui delegato, può effettuare sull’esecuzione dell’operazione; f) la parte dei proventi destinati al rimborso del finanziamento e le modalità per determinarli; g) le eventuali garanzie che la società presta per il rimborso di parte del finanziamento; h) il tempo massimo di rimborso, decorso il quale nulla più è dovuto al finanziatore. I proventi dell’operazione costituiscono patrimonio separato rispetto a quello della società: sui proventi, i frutti di essi e gli investimenti eventualmente effettuati prima del rimborso, non sono ammesse azioni dei creditori sociali. I creditori della società, sino al rimborso del finanziamento, possono esercitare solo azioni conservative a tutela dei loro diritti. Tuttavia, se il fallimento della società impedisce la realizzazione o la continuazione dell’operazione tali limitazioni cessano e il finanziatore ha diritto di insinuarsi al passivo per il suo credito. 9. TRASFORMAZIONE, FUSIONE, SCISSIONE 1. TRASFORMAZIONE Trasformazione, fusione e scissione societarie sono operazioni straordinarie che comportano una modificazione dell’atto costitutivo: sicché per potervi dare luogo la s.p.a. dovrà raccogliere il consenso espresso dal quorum dell’assemblea straordinaria, la s.r.l. quello dell’assemblea che deliberi a maggioranza rafforzata e proceda alla verbalizzazione notarile, mentre le società di persone, dopo la modifica del 2003, possono deliberare la trasformazione in ossequio al principio maggioritario rapportato a come gli utili sono attribuiti ai soci. Se prima della riforma alla trasformazione societaria erano dedicati solo tre articoli, del cod. civ., ora la disciplina ne conta 11. Il versante sul quale si rinvengono le novità più eclatanti è relativo alla possibilità di procedere a trasformazioni eterogenee. Tali operazioni differiscono sostanzialmente rispetto a quelle omogenee per una ragione sopra tutte: mentre la trasformazione omogenea rientra nell’alveo delle operazioni di modificazione dell’atto costitutivo che comportano una continuità tra tipi societari, la trasformazione eterogenea può implicare un cambiamento dello stesso scopo associativo scelto all’inizio e via via perseguito, nonché e soprattutto la sostituzione alla società originaria di un ente che ben può non essere una società. Nel primo caso si ha dunque un passaggio di stato che non incide sull’identità per così dire ontologica della società, ma solo sul suo assetto organizzativo e sulle regole applicabili per disciplinare il nuovo assetto. Nel secondo caso si va ben oltre: la trasformazione eterogenea consente così a un ente associativo di mutare la propria natura, con sensibile risparmio di tempi e costi burocratici e organizzativi, anziché di ottenere lo stesso risultato procedendo allo scioglimento, all’estinzione del primo e alla sua ricostituzione in altra forma giuridica. La differenza tra omogeneità ed eterogeneità della trasformazione si manifesta anche con riguardo al vigente principio di continuità dei rapporti giuridici, ai quali è dedicata la prima disposizione civilistica in materia di trasformazione. L’art. 2498 recita così: «con la trasformazione l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione». Continuità dei diritti significa prosecuzione dei rapporti giuridici, ciò che a sua volta sottintende soprattutto il mantenimento, dopo la trasformazione, delle obbligazioni assunte in ragione dei contratti stipulati prima di tale operazione straordinaria, idem per i rapporti processuali. Dato l’ambito di maggiore ampiezza entro il quale possono darsi trasformazioni, tali operazioni richiedono l’applicazione delle norme proprie di ciascun tipo coinvolto dall’evento modificativo. È esattamente per questo che l’art. 2500 stabilisce che «la trasformazione in società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata deve risultare da atto pubblico, contenente le indicazioni previste dalla legge per l’atto di costituzione del tipo adottato. L’atto di trasformazione è soggetto alla disciplina prevista per il tipo adottato ed alle forme di pubblicità relative, nonché alla pubblicità richiesta per la cessazione dell’ente che effettua la trasformazione. La trasformazione ha effetto dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari di cui al comma precedente». La trasformazione di società di persone in società di capitali dev’essere deliberata raccogliendo non già l’unanimità dei consensi, bensì il consenso della maggioranza dei soci secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili. In ogni caso al socio che non ha concorso alla decisione spetta il diritto di recesso. Per procedere alla trasformazione occorre poi accertare il valore reale del patrimonio sociale. Ciascun socio ha diritto all’assegnazione di azioni in misura proporzionale alla sua partecipazione, mentre il socio d’opera ha diritto all’assegnazione di un numero di azioni o di una quota in misura corrispondente alla partecipazione che l’atto costitutivo gli riconosceva precedentemente alla trasformazione o, in mancanza, per accordo tra i soci. La trasformazione non libera i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni sociali sorte prima dell’iscrizione della deliberazione di trasformazione, se non risulta che i creditori sociali abbiano dato il loro consenso alla trasformazione (che si considera presunto se, dopo la comunicazione, non viene negato). La maggioranza richiesta per procedere alla trasformazione di una società di capitali in una società di persone è quella prevista per la modificazione dello statuto: gli amministratori devono predisporre una relazione che illustri le motivazioni e gli effetti della trasformazione; ciascun socio ha diritto all’assegnazione di una partecipazione proporzionale al valore della sua quota o delle sue azioni; i soci che assumono responsabilità illimitata rispondono illimitatamente anche per le obbligazioni sociali sorte prima della trasformazione. La disciplina della trasformazione eterogenea è tale solo se la trasformazione proceda da, o risulti in, una società di capitali. Esistono infatti due tipi di trasformazione eterogenea. a. La trasformazione eterogenea da società di capitali consente a questa di mutare il proprio stato e divenire consorzio, società consortile, società cooperativa, comunione di azienda, associazione non riconosciuta o fondazione. La deliberazione in tal senso dev’essere assunta con il voto favorevole dei due terzi degli aventi diritto, e comunque con il consenso dei soci che assumono responsabilità illimitata. b. La trasformazione eterogenea in società di capitali riguarda invece i consorzi, le società consortili, le comunioni d’azienda, le associazioni riconosciute e le fondazioni che intendano trasformarsi in una società di capitali. Per la deliberazione dell’operazione occorre fare riferimento ai quorum della disciplina di ogni ente soggetto a trasformazione. La trasformazione eterogenea ha effetto dopo sessanta giorni dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari previsti, salvo che consti il consenso dei creditori o il pagamento dei creditori che non hanno dato il loro consenso. Entro tale medesimo termine i creditori possono proporre opposizione e questo sospende l’esecuzione della trasformazione, a meno che il tribunale non ritenga infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori o la società abbia prestato idonea garanzia. Disposizioni peculiari per questa operazione sono le seguenti: a. La trasformazione di associazioni in società di capitali può essere esclusa dall’atto costitutivo o, per determinate categorie di associazioni, dalla legge; non è comunque ammessa per le associazioni che abbiano ricevuto contributi pubblici oppure liberalità e oblazioni del pubblico. b. Il capitale sociale della società risultante dalla trasformazione è diviso in parti uguali tra gli associati, salvo diverso accordo dei medesimi. c. La trasformazione di fondazioni in società di capitali è disposta dall’autorità governativa, su proposta dell’organo competente, e le azioni o quote sono assegnate secondo le disposizioni dell’atto di fondazione. 2. FUSIONE La fusione rappresenta l’operazione di concentrazione societaria per eccellenza. Si realizza in due forme diverse. Ai sensi dell’art. 2501 «la fusione di più società può eseguirsi mediante la costituzione di una nuova società, o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre». In altri termini: 1. La fusione in senso stretto ricorre quando due società si aggregano dando vita a una terza società, diversa dalle due società originarie (le quali, per effetto di tale operazione, si estinguono). 2. La fusione per incorporazione ricorre quando una società ingloba un’altra società, e per effetto di tale operazione rimane in vita solo la prima. È detta omogenea la fusione tra società dello stesso tipo giuridico, eterogenea la fusione tra società di tipo differente. La fusione è un’operazione straordinaria di natura evidentemente concentrativa, alla quale si ricorre in frangenti differenti ma pur sempre con l’obiettivo di rafforzare il potere economico e la capacità competitiva della società, fatte salve le ipotesi in cui la fusione assolva a mere funzioni di riorganizzazione aziendale. Se dunque sono ragioni principalmente economiche a motivare la scelta di realizzare un’operazione così complessa, gli effetti della fusione sono anzitutto giuridici: essa è costituita, infatti, dall’unificazione dei soci, dei patrimoni e delle strutture aziendali e organizzative delle società che vi partecipano. Secondo l’art. 2504-bis, «la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione». È previsto che la fusione attuata mediante costituzione di una nuova società di capitali o mediante incorporazione in una società di capitali non liberi i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni delle rispettive società partecipanti alla fusione anteriori all’ultima delle iscrizioni prescritte dalla disciplina del procedimento. Il procedimento di fusione si può dividere in tre fasi successive: 1. L’elaborazione del progetto di fusione; 2. La deliberazione di fusione; 3. La pubblicazione dell’atto di fusione; 4. Progetto di fusione. È l’organo amministrativo di tutte le società partecipanti alla fusione che redige il progetto di fusione, dal quale devono risultare: a) il tipo, la denominazione o ragione sociale, la sede delle società partecipanti alla fusione; b) l’atto costitutivo della nuova società risultante dalla fusione o di quella incorporante, con le eventuali modificazioni derivanti dalla fusione; c) il rapporto di cambio delle azioni o quote, ossia l’indicazione del numero delle azioni (o quote) della nuova società che sono assegnate ai soci, nonché l’eventuale conguaglio in denaro (che non può essere superiore al 10% del valore nominale delle azioni o delle quote assegnate). La definizione del rapporto non avviene automaticamente ma è oggetto di contrattazione tra gli amministratori delle società coinvolte dall’operazione; d) le modalità di assegnazione delle azioni o delle quote della società che risulta dalla fusione o di quella incorporante; e) la data a decorrere dalla quale tali azioni o quote partecipano agli utili; f) la data a decorrere dalla quale le operazioni delle società partecipanti alla fusione sono imputate al bilancio della società che risulta dalla fusione o di quella incorporante; g) il trattamento eventualmente riservato a particolari categorie di soci e ai possessori di titoli diversi dalle azioni; h) i vantaggi particolari eventualmente proposti a favore dei soggetti ai quali compete l’amministrazione delle società partecipanti alla fusione. Il progetto di fusione dev’essere depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese del luogo nel quale hanno sede le società coinvolte dalla fusione o pubblicato sul sito internet della società. Tra l’iscrizione (o la pubblicazione su internet) del progetto e la data fissata per la deliberazione devono intercorrere almeno trenta giorni, salvo che i soci, all’unanimità, rinuncino a tale termine. La relazione dell’organo amministrativo illustra e giustifica il progetto della fusione, sotto il profilo sia giuridico sia economico; l’organo amministrativo deve segnalare ai soci, all’organo amministrativo delle altre società partecipanti all’operazione, le modifiche rilevanti degli elementi dell’attivo e del passivo eventualmente intervenute tra la data in cui il progetto di fusione è depositato presso la sede della società e la data della decisione sulla fusione. La relazione può mancare se vi rinuncino all’unanimità i soci e i possessori di altri strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto di ciascuna delle società partecipanti alla fusione. Uno o più esperti per ciascuna società redigono invece la relazione sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni o delle quote, indicando il metodo seguito ed eventuali difficoltà di valutazione. La deliberazione con la quale si avalla la fusione dev’essere presa dai soci di tutte le società partecipanti mediante approvazione del relativo progetto. Sono però previste modalità divergenti per le società di capitali e per le società di persone; queste ultime, infatti, se lo statuto non preveda altrimenti, approvano il progetto di fusione «con il consenso della maggioranza dei soci determinata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili, salva la facoltà di recesso per il socio che non abbia consentito alla fusione». Invece nelle società di capitali occorre rispettare le norme previste per la modificazione dell’atto costitutivo o dello statuto. La decisione di fusione può apportare al progetto solo le modifiche che non incidono sui diritti dei soci o dei terzi e, se ciò accada, tali modifiche dovranno ovviamente essere approvate da tutte le società coinvolte dalla fusione. La fusione deve risultare da atto pubblico, che dev’essere depositato per l’iscrizione, a cura del notaio o dei soggetti cui compete l’amministrazione della società risultante dalla fusione o di quella incorporante, entro trenta giorni, nell’ufficio del registro delle imprese: la fusione ha effetto quando è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte ed è esattamente da quel momento che si estinguono le società partecipanti diverse dall’incorporante o dalla neonascente e si producono gli effetti di successione universale a favore di queste società. L’iscrizione ha valenza tombale e dopo quel momento la tutela dei soci e dei terzi è affidata solo al risarcimento del danno; scelta regolativa che si spiega agevolmente con l’opportunità di eliminare in radice motivi di incertezza sulla definitività della fusione: ai sensi dell’art. 2504-quater «eseguite le iscrizioni dell’atto di fusione (...) l’invalidità dell’atto di fusione non può essere pronunciata. Resta salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati dalla fusione». Si ha una disciplina semplificata per le operazioni di fusione che, ex artt. 2505 e 2505-bis, riguardino rispettivamente l’incorporazione di società interamente possedute (dove non sono richieste le indicazioni relative a rapporto di cambio, modalità di assegnazione delle azioni e data dalla quale le azioni partecipano agli utili, né risultano necessarie le relazioni degli amministratori e degli esperti) e l’incorporazione di società possedute al 90%. In quest’ultima ipotesi la fusione si connota, più che come operazione straordinaria di rivisitazione degli assetti proprietari e produttivi dell’impresa, come operazione di mera riorganizzazione aziendale. 3. SCISSIONE La scissione è stata introdotta nel nostro ordinamento solo nel 1991: è un’operazione straordinaria che assolve eminentemente a funzioni di riorganizzazione e/o di razionalizzazione proprietaria e aziendale. Anche della scissione non possediamo una definizione giuridica; il codice si limita a indicare le forme nelle quali una scissione può realizzarsi, che, come per la fusione, sono sostanzialmente due: si tratta rispettivamente della scissione integrale (o totale) e della scissione parziale. Con la scissione integrale una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, realizzando una traslazione definitiva dell’attività, sotto ogni profilo giuridico ed economico, e così si estingue. Con la scissione parziale una società assegna parte del proprio patrimonio a una o più società, ma rimane in vita e continua la propria attività, sia pure con una dotazione patrimoniale più contenuta. L’art. 2506 descrive queste forme di scissione in questo modo: «con la scissione una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o quote ai suoi soci. (...) La società scissa può, con la scissione, attuare il proprio scioglimento senza liquidazione, ovvero continuare la propria attività». Il procedimento di scissione è regolato sulla scorta di alcune disposizioni vigenti per la fusione. Anzitutto si prevede che l’organo amministrativo delle società partecipanti alla scissione redige un progetto, dal quale devono risultare i criteri di distribuzione delle azioni o quote delle società beneficiarie. Se la destinazione di un elemento dell’attivo non è desumibile dal progetto, esso, nell’ipotesi di assegnazione dell’intero patrimonio della società scissa, è ripartito in proporzione della quota del patrimonio netto assegnato a ciascuna di esse; degli elementi del passivo, la cui destinazione non sia desumibile dal progetto, rispondono in solido, nel primo caso, le società beneficiarie, nel secondo la società scissa e le società beneficiarie. Com’è previsto anche per la fusione, l’organo amministrativo delle società partecipanti alla scissione redige la situazione patrimoniale e la relazione illustrativa in conformità agli articoli di quella disciplina. La relazione dell’organo amministrativo deve però contenere alcuni elementi aggiuntivi e in specie illustrare i criteri di distribuzione delle azioni o quote e indicare il valore effettivo del patrimonio netto assegnato alle società beneficiarie e di quello che eventualmente rimanga nella società scissa. La relazione non è necessaria quando la scissione avviene mediante la costituzione di una o più nuove società e non siano previsti criteri di attribuzione delle azioni o quote diversi da quello proporzionale. La scissione ha effetto dall’ultima delle iscrizioni dell’atto di scissione nell’ufficio del registro delle imprese in cui sono iscritte le società beneficiarie. In via innovativa si prevede invece che ciascuna società sia solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico. In altri termini tutte le società cointeressate dalla scissione devono garantire in via sussidiaria quella cui il debito è stato trasferito, sia pure entro quei limiti, con una misura a cui è sottesa una ratio evidente di tutela dei creditori. 10. SCIOGLIMENTO, LIQUIDAZIONE, ESTINZIONE Scioglimento, liquidazione ed estinzione sono eventi regolati da disposizioni che valgono per tutte le società di capitali (a partire dalla riforma del 2003). 1. SCIOGLIMENTO Il verificarsi di una causa di scioglimento delle società di capitali non coincide con l’estinzione di tali società. Il ricorrere di un motivo che giustifica lo scioglimento della società apre una fase delicata; durante tale arco temporale la società rimane in vita, mentre prima gli amministratori e poi soggetti specialmente nominati (i liquidatori) si occupano di compiere una serie di operazioni fissate dall’ordinamento esattamente per questa evenienza, a scopi specifici: prima la conservazione del patrimonio sociale, poi il pagamento dei debiti sociali. È solo con la cancellazione della società dal registro delle imprese, atto che chiude la fase di liquidazione, che la società si estingue. Le s.p.a. si sciolgono: a) per il decorso del termine; b) per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo salvo che l’assemblea, convocata senza indugio, non deliberi le opportune modifiche statutarie; c) per l’impossibilità di funzionamento o per la continuata inattività dell’assemblea; d) per la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, salvo che l’assemblea non ne abbia deliberato la riduzione, o abbia deliberato la trasformazione della società; e) nelle ipotesi previste dagli artt. 2437-quater e 2473, ossia per incapacità patrimoniale della società di procedere alla liquidazione della quota al socio recedente; f) per deliberazione dell’assemblea; g) per le altre cause previste dall’atto costitutivo o dallo statuto. Quando siano l’atto costitutivo o lo statuto a prevedere altre cause di scioglimento essi dovranno determinare altresì la competenza a deciderle o accertarle e ad effettuare i richiesti adempimenti pubblicitari. Gli amministratori devono accertare senza indugio il verificarsi di una causa di scioglimento e procedere a far iscrivere la causa di scioglimento nel registro delle imprese: in caso di ritardo o omissione essi sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni subiti dalla società, dai soci, dai creditori sociali e dai terzi. Si può avere un intervento del tribunale in caso di omissione degli amministratori e su istanza di singoli soci o amministratori o dei sindaci. Gli amministratori sono oggetto dei primi effetti dello scioglimento della società: conservano il potere di gestire la società, ma ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, che dovrà essere quindi mantenuto nella sua attuale consistenza. Sono inoltre personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali e ai terzi, per atti o omissioni compiuti in violazione dei doveri loro ascritti. 2. LIQUIDAZIONE Fatti salvi i casi di conseguimento dell’oggetto sociale o di sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, di riduzione del capitale al di sotto del minimo legale e di deliberazione dell’assemblea straordinaria (e tranne nei casi in cui l’atto costitutivo o lo statuto dispongano altrimenti), contestualmente all’accertamento della causa di scioglimento gli amministratori devono convocare l’assemblea dei soci perché deliberi, con le maggioranze previste per le modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto, su cinque importanti questioni: 1. il numero dei liquidatori e le regole di funzionamento del collegio in caso di pluralità di liquidatori; 2. la nomina dei liquidatori, con indicazione di quelli cui spetta la rappresentanza della società; 3. i criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione; 4. i poteri dei liquidatori, con particolare riguardo alla cessione dell’azienda sociale, di rami di essa, o anche di singoli beni o diritti, o blocchi di essi; 5. gli atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, ivi compreso il suo esercizio provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo. L’assemblea può sempre modificare, con le maggioranze richieste per le modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto, le deliberazioni in tal senso, oltre a poter revocare i liquidatori. Inoltre, la società può in ogni momento revocare lo stato di liquidazione con deliberazione assembleare a maggioranza, previa eliminazione della causa di scioglimento. La possibilità di ricondurre la società in condizioni di operatività è dal 2003 ammessa a condizione che siano tutelate le istanze di due categorie di soggetti: a) i soci e il loro interesse alla liquidazione della quota, riconosciuto grazie al fatto che a favore dei non consenzienti è contemplato il diritto di recesso; b) i creditori sociali e il loro interesse alla soddisfazione delle proprie pretese, riconosciuto prevedendo che la revoca ha effetto solo dopo sessanta giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della relativa deliberazione. Gli amministratori cessano dalla loro carica al momento della nomina dei liquidatori e con l’iscrizione della nomina nel registro delle imprese: ne consegue immediatamente che alla denominazione sociale va aggiunta l’indicazione “società in liquidazione” e che gli amministratori devono consegnare ai liquidatori i libri sociali. L’assemblea e il collegio sindacale sopravvivono al passaggio di consegne ma mantengono funzioni compatibili con lo stato di liquidazione; l’organo di controllo interno continuerà a svolgere funzioni di vigilanza e tale mansione potrà e dovrà avere come oggetto il comportamento dei liquidatori, mentre l’assemblea conserva il potere di approvare il bilancio. Al timone salgono però, a tutti gli effetti, i liquidatori, che comunque non godono di discrezionalità assoluta, dato che le modalità della liquidazione sono pur sempre prefissate. I liquidatori devono redigere il bilancio e presentarlo all’assemblea per l’approvazione alle scadenze previste per il bilancio di esercizio della società. Nella relazione i liquidatori devono illustrare l’andamento, le prospettive anche temporali della liquidazione, e i principi e criteri adottati per realizzarla, mentre nella nota integrativa devono indicare, e motivare, i criteri di valutazione adottati. Se i fondi disponibili risultano insufficienti per il pagamento dei debiti sociali i liquidatori possono chiedere ai soci, proporzionalmente, i versamenti ancora dovuti. I liquidatori non possono invece ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione. In tutto ciò i liquidatori sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni cagionati ai creditori sociali violando le regole di liquidazione. Compiuta la liquidazione i liquidatori devono redigere il bilancio finale di liquidazione, indicando la parte spettante a ciascun socio o azione nella divisione dell’attivo: si tratta di un bilancio semplificato, che non dev’essere approvato dall’assemblea ma è depositato presso l’ufficio del registro delle imprese. Decorso il termine di novanta giorni senza che siano stati proposti reclami il bilancio s’intende approvato e i liquidatori sono liberati nei confronti dei soci, salvi i loro obblighi relativi alla distribuzione dell’attivo risultante dal bilancio (approvazione tacita del bilancio finale di liquidazione). Infine, compiuta la liquidazione, i libri della società sono depositati presso l’ufficio del registro delle imprese, ove sono conservati per dieci anni, e chiunque può esaminarli anticipandone le spese. 3. ESTINZIONE Una volta che sia stato approvato il bilancio finale di liquidazione i liquidatori sono tenuti a chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. A lungo si è discusso, prima della riforma del 2003, se la cancellazione desse luogo altresì all’estinzione della società o meno. L’art. 2495 elimina l’incertezza interpretativa affermando il principio dell’efficacia costitutiva della cancellazione della società di capitali «ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi». Perciò risulta chiaro che la cancellazione produce l’estinzione della società e l’impossibilità di qualsiasi forma di reviviscenza della società. Alla cancellazione d’ufficio si perviene qualora per oltre tre anni consecutivi non venga depositato il bilancio sociale. I creditori non soddisfatti possono far valere le proprie ragioni: a) nei confronti dei soci, sia pure limitatamente a quanto i soci abbiano percepito in sede di ripartizione dell’attivo; b) nei confronti dei liquidatori, nella misura in cui i liquidatori possano considerarsi responsabili del mancato soddisfacimento dei creditori.