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DIRITTO COMMERCIALE - II libro riassunto-convertito

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DIRITTO ED ECONOMIA DELLE SOCIETÀ
3. SOCIETÀ DI PERSONE
«Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune
di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili». È questo il testo dell’art. 2247, titolato
«Contratto di società». Dunque, la società nasce da un atto negoziale proprio dell’autonomia privata.
Si fa riferimento a tre elementi principali:
a) i conferimenti;
b) l’attività economica;
c) il lucro.
Il nesso fra tali tre elementi è chiaro: tramite i conferimenti si raccolgono risorse economiche, che
costituiscono un patrimonio strumentale all’esercizio di un’attività produttiva che deve consentire ai
suoi titolari di realizzare e ripartire un profitto.
1.1 CARATTERI GENERALI
Sono società di persone, o società personali, la società semplice (s.s.), la società in nome collettivo
(s.n.c.) e la società in accomandita semplice (s.a.s.). I tratti fisionomici propri di tutti i tipi
personalistici sono:
a) Sotto il profilo delle responsabilità: tutte le società di persone devono avere almeno un socio
che assuma responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, in solido con la società.
b) Sotto il profilo dell’organizzazione: tutte le società di persone possono prescindere da una
struttura interna basata su una pluralità di organi. Ampia discrezionalità è lasciata
all’esercizio dell’autonomia statutaria, ma in assenza di previsioni che attribuiscano alla
società una struttura corporativa il modello organizzativo proprio delle società di persone è
tale per cui tutti i poteri sono rimessi ai soci e non a particolari organi.
c) Sotto il profilo dell’amministrazione: in tutte le società di persone ai soci con responsabilità
illimitata è riconosciuto il diritto di amministrare la società. All’opposto, di regola è
richiesto il consenso di tutti i soci per le modificazioni dell’atto costitutivo.
d) Sotto il profilo del carattere personalistico del ruolo dei soci: in tutte le società di persone i
soci si vedono riconosciuti poteri indipendentemente dall’ammontare del capitale conferito.
Non vige, cioè, il principio maggioritario che regola il funzionamento degli organi delle
società di capitali.
Alla società di persone non è riconosciuta personalità giuridica, ovvero la caratteristica delle sole
società di capitali (come stabilito dal codice civile del 1942) che viene riconosciuta in presenza di un
certo grado di analogia tra la soggettività degli enti collettivi e la soggettività degli individui; analogia
che consente di dire che le persone giuridiche sono soggetti di diritto in senso traslato. Nelle società
di persone i singoli soci non possono rivalersi sul patrimonio della società per soddisfare i propri
crediti. Finché dura la società possono far valere i loro diritti solo sugli utili spettanti al proprio
debitore e compiere atti conservativi sulla quota allo stesso spettante nella liquidazione della società,
principio che è ulteriormente temperato nella società semplice, dal momento che al creditore
personale del socio è consentito di ottenere la liquidazione della quota del proprio debitore qualora
gli altri beni siano insufficienti a soddisfare il suo credito. I creditori della società non possono
rivalersi sul patrimonio personale dei soci illimitatamente responsabili. Per meglio dire: non lo
possono fare direttamente. È infatti necessario che prima aggrediscano il patrimonio della società e,
solo se il tentativo di soddisfacimento del credito non abbia avuto successo (infruttuosa escussione
del patrimonio sociale), potranno agire nei confronti dei soci.
In ogni caso, per quanto le società di persone non godano di personalità giuridica nei termini netti e
inequivocabili che valgono per le società di capitali, tuttavia esse devono essere considerate come
centri di imputazione giuridica autonomi e differenti dai soci.
1.2 EVOLUZIONE STORICA
La società semplice fa la sua comparsa nell’ordinamento societario italiano con questo nome, oltre
che dotata degli attributi giuridici coi quali abbiamo cominciato a prendere confidenza, quando viene
introdotta dal legislatore nel codice civile del 1942. Mentre il codice commerciale di fine Ottocento
annoverava i tipi personalistici della società in nome collettivo, della società in accomandita semplice
e della società anonima, alla stregua di società di persone il codice civile contempla, a fianco di s.n.c.
e s.a.s., appunto la società semplice, e a tale inedito assetto si arriva dopo anni di stesure. Dal punto
di vista funzionale probabilmente la società semplice fu concepita come vincolo contrattuale fra due
o più persone al fine di realizzare una comunione di godimento di beni mobili o immobili, e nulla più
di questo; dal punto di vista strutturale, invece, la sua genesi è parsa strumentale precisamente a creare
un modello normativo articolato per rinvii successivi, apprezzabile per evidenti motivi di economia
regolativa. Se la società semplice presenta questi caratteri funzionali e strutturali, intesi a definire una
fattispecie negoziale che produce effetti tra le parti ma non verso i terzi, com’è proprio di ogni
contratto dagli effetti obbligatori, ciò accade perché le società di persone contemporanee trovavano
il proprio precedente moderno nella società civile, di derivazione napoleonica e annoverata anche dal
codice commerciale del 1865. E volendo andare molto più indietro nel tempo arriveremmo a
individuare nel contratto di societas romana il prototipo letteralmente originario.
Anche in quel caso si trattava di una fattispecie negoziale improduttiva di effetti nei confronti dei
terzi.
Nel 1942 la prospettiva regolativa è ribaltata e la società semplice viene modellata sulle fattezze non
tanto della società civile, quanto delle società personali deputate a svolgere un’attività commerciale.
1.3 FONTE DELLA DISCIPLINA E ASSETTO SISTEMATICO
La società semplice costituisce il prototipo delle società di persone nel senso che alla società
semplice è destinata dal codice civile una disciplina compiuta, mentre la disciplina della società in
nome collettivo e della società in accomandita semplice si ricava per così dire a cascata dalla prima,
attraverso un articolato sistema di rinvii approntato dal legislatore del 1942. Alla società in nome
collettivo è infatti dedicata una serie di norme specifiche (gli artt. 2291-2312), che regolano gli aspetti
per i quali la disciplina della collettiva si distacca da quella della società semplice, mentre sotto ogni
altro profilo vale il rinvio alle norme di questa seconda, ossia appunto la società prototipo del tipo
personalistico. Ai sensi dell’art. 2293, infatti, «la società in nome collettivo è regolata dalle norme
di questo capo e, in quanto queste non dispongano, dalle norme del capo precedente». Analogamente
alla società in accomandita semplice si applicano le norme ad essa espressamente rivolte e che
qualificano questo tipo societario (artt. 2313-2324), mentre sotto ogni altro profilo vale il rinvio alle
disposizioni che regolano la società in nome collettivo.
Le norme che regolano l’attività della società semplice rappresentano la disciplina generale della
società di persone, che viene quindi a essere costituita dalle norme sulle modificazioni del contratto
sociale, sui conferimenti dei soci, sull’uso delle cose sociali, sull’amministrazione della società, sugli
utili della società e i modi della loro ripartizione tra i soci, sulla responsabilità del nuovo socio,
sull’autonomia del patrimonio sociale, sullo scioglimento e la liquidazione della società, sullo
scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio.
2. TIPI SOCIETARI PERSONALISTICI
Prototipo delle società di persone è la società semplice, tipo societario individuato in negativo, nel
senso che non può esercitare un’attività commerciale; si tratta cioè del tipo societario la cui disciplina
si applica quando risulta che le parti non abbiano voluto adottare la forma di una delle società
commerciali. La società semplice può dunque essere utilizzata solo per le attività agricole e per
l’esercizio in forma associata delle attività libero-professionali (a differenza di s.n.c. e s.a.s.).
2.1 LA SOCIETÀ SEMPLICE
Le società di persone si costituiscono, come tutte le società, secondo quanto previsto dalla norma
cardine del diritto societario (art. 2247), con il contratto di società. Per la costituzione della società
semplice, in particolare, la regola prevede una libertà formale pressoché assoluta: l’art. 2251 recita
che «nella società semplice il contratto non è soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla
natura dei beni conferiti». Vale, cioè, il principio di libertà delle forme proprio di ogni contratto
secondo quanto previsto dall’art. 1325.
La costituzione può avvenire stipulando un contratto scritto, ma si può realizzare anche verbalmente,
così come l’esistenza della società si può desumere da comportamenti tenuti dai soci. Si parla al
proposito di comportamento concludente, e in tal caso si tratta di un contratto non formale, concluso
tacitamente, col quale si costituisce una società di fatto.
La regola della libertà delle forme subisce però un’importante eccezione. È necessario il ricorso a
forme speciali se le medesime siano richieste per la disposizione di dati beni conferiti in società, come
accade tipicamente se il conferimento abbia ad oggetto la proprietà di un bene immobile. Secondo
l’opinione dominante il mancato rispetto della forma richiesta per il caso concreto non implica
l’invalidità del contratto di società. Verrebbe meno, allora, la sola partecipazione del socio in
questione, tranne nel caso in cui a quel conferimento debba riconoscersi una funzione essenziale ai
fini della costituzione della società.
Il principio di libertà attiene poi non solo alla forma, ma anche al contenuto del contratto di società
semplice: l’art. 2251 non dispone alcunché relativamente al contenuto minimo dell’atto costitutivo.
La conseguenza è che nell’atto costitutivo possono essere rappresentati anche solo i dati
essenziali alla costituzione. In via interpretativa si ritiene perlopiù che debbano tuttavia indicarsi la
ragione sociale e la sua sede, l’oggetto sociale, i soci. Ma gli altri elementi possono mancare e
comunque si ricavano da norme specifiche della disciplina della società semplice: così fa l’art.
2253 quanto ai conferimenti, l’art. 2257 quanto alla titolarità dei poteri di amministrazione, l’art. 2263
quanto alla ripartizione dei guadagni e delle perdite. In particolare, l’art. 2251 non impone di indicare
l’ammontare del capitale sociale, istituto che nemmeno trova riferimenti suppletivi in altre
disposizioni dedicate alla società semplice. Scelta coerente col fatto che tale società, in quanto
esercente attività non commerciale, sia esonerata dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili.
Alle società semplici è richiesta l’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese:
l’iscrizione non richiede di presentare un atto costitutivo redatto secondo forme speciali e ha funzione
di certificazione anagrafica. Si parla in questo caso di pubblicità notizia proprio per significare che
essa assolve a una funzione di mera segnalazione e non anche a una funzione giudizialmente
dichiarativa.
I conferimenti sono necessari, ma non è indispensabile che sia determinato il loro ammontare:
l’art. 2253 precisa, infatti, che «se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano
obbligati a conferire, in parti eguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto
sociale». L’art. 2253 è importante anche perché implicitamente rievoca e conferma il testo della più
volte citata norma fondamentale del diritto societario (art. 2247): da un lato si ribadisce che i
conferimenti risultano essenziali per la costituzione di una società, preordinati come sono a garantire
lo svolgimento di un’attività comune; dall’altro la norma non pone limiti all’autonomia statutaria,
limiti che non compaiono nello stesso art. 2247.
Da tutto ciò consegue che possono essere conferiti denaro e crediti, beni e servizi, cioè cose (in
proprietà e in godimento) e prestazioni (di fare e di non fare):
a) Il conferimento in denaro non pone problemi particolari: non può mai diventare impossibile.
b) Il conferimento di beni in proprietà è regolato dal primo comma dell’art. 2254, per cui «la
garanzia dovuta dal socio e il passaggio dei rischi sono regolati dalle norme sulla vendita»:
ciò significa che il socio è tenuto alla garanzia per evizione e per vizi e su di lui grava il
rischio del perimento per caso fortuito della cosa conferita sino al momento in cui la proprietà
del bene non sia passata in capo alla società.
c) Il conferimento di crediti è disciplinato dall’art. 2255: «il socio che ha conferito un credito
risponde della insolvenza del debitore, nei limiti indicati dall’art. 1267 per il caso di
assunzione convenzionale della garanzia»: ciò significa che in caso di insolvenza del
debitore il socio risponderà nei limiti del valore attribuito al credito trasmesso a titolo di
conferimento, e sarà tenuto a rimborsare le spese e corrispondere gli interessi.
d) Il conferimento d’opera è quello effettuato da un socio che si obblighi a eseguire una
prestazione di lavoro. Tale impegno non fa del socio un lavoratore subordinato: ne consegue
che il conferente la prestazione di lavoro non ha diritto a salario e copertura previdenziale, ma
viene remunerato nella forma della sua partecipazione ai guadagni della società.
2.2 GLI UTILI E LA RESPONSABILITÀ DEI SOCI
Le regole sulla partecipazione agli utili hanno, com’è immaginabile, un rilievo di primo piano per
tutti i soci e non solo per chi conferisca la propria opera. Gli artt. 2262-2265 costituiscono la
disciplina sulla ripartizione di guadagni e perdite e il primo articolo di questa serie stabilisce
nitidamente che, «salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili
dopo l’approvazione del rendiconto». Viene dunque riconosciuto un diritto alla distribuzione
annuale degli utili realizzati dall’impresa e risultanti dal bilancio della società (a differenza delle
società di capitali, in cui è l’assemblea dei soci a decidere a maggioranza se distribuire o meno gli
utili e come farlo). La proporzione di tale assegnazione è invece di pertinenza del contratto sociale e
i soci, nell’esercizio dell’autonomia statutaria, avranno la possibilità di differenziare il trattamento
parametrandolo sull’importanza di ciascuno.
L’unico limite posto dall’ordinamento ai termini della ripartizione è costituito dal cosiddetto patto
leonino: «è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o
alle perdite» sancisce l’art. 2265, che dunque impedisce a chicchessia di fare la parte del leone
escludendo la partecipazione di altri soci agli utili o escludendo la propria partecipazione alle perdite.
La nullità del patto non implica la nullità del contratto di società, che in casi del genere risulta
però sprovvisto di determinazione della misura di condivisione di utili e perdite da parte dei soci.
Soccorre a tale bisogno l’art. 2263, ai sensi del quale «le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle
perdite si presumono proporzionali ai conferimenti. Se il valore dei conferimenti non è determinato
dal contratto, esse si presumono eguali. (...) Se il contratto determina soltanto la parte di ciascun socio
nei guadagni, nella stessa misura si presume che debba determinarsi la partecipazione alle perdite».
È poi anche contemplata l’ipotesi che la ripartizione sia affidata a un terzo.
La natura della responsabilità dei soci è definita dal più volte citato art. 2267: «i creditori della società
possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre
personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto
contrario, gli altri soci». La responsabilità è relativa a ogni obbligazione sociale, sia assunta a titolo
contrattuale che extracontrattuale, e «chi entra a far parte di una società già costituita risponde con
gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all’acquisto della qualità di socio» (così recita l’art.
2269). Ai sensi dell’art. 2268 «il socio richiesto del pagamento di debiti sociali può domandare,
anche se la società è in liquidazione, la preventiva escussione del patrimonio sociale, indicando i beni
sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi». Art. 2270: «il creditore particolare del socio,
finché dura la società, può far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al debitore e compiere atti
conservativi sulla quota spettante a quest’ultimo nella liquidazione. Se gli altri beni del debitore sono
insufficienti a soddisfare i suoi crediti, il creditore particolare del socio può inoltre chiedere in ogni
tempo la liquidazione della quota del suo debitore».
Innanzitutto, il creditore può far valere i diritti sugli utili, ma anche la liquidazione sulla quota.
Per quanto riguarda la responsabilità nei confronti dei creditori della società, cioè sulla sorte delle
obbligazioni sociali, queste ricadono in primis sul patrimonio sociale, in virtù della regola di
preventiva escussione del patrimonio. Perché tale regola operi, occorre che il socio sia in grado di
indicare i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi. Si tratta di due oneri al prezzo
di uno: il socio deve indicare beni alternativamente escutibili e bisogna che siano beni facilmente
liquidabili. Tutti i soci di società semplice sono illimitatamente responsabili; quanto agli altri soci, il
contratto può prevedere limitazioni di responsabilità.
Sotto il profilo della responsabilità nei confronti dei creditori particolari dei soci, l’autonomia
patrimoniale della società semplice è senz’altro ridotta, e purtuttavia sussiste. Anzitutto «non è
ammessa compensazione fra il debito che un terzo ha verso la società e il credito che egli ha verso un
socio» (così recita l’art. 2271): è evidente, infatti, che se il terzo potesse opporre alla società il credito
verso un socio otterrebbe l’effetto di addebitare al patrimonio della società quanto dovuto dal socio.
Inoltre, e soprattutto, ex art. 2270 il creditore può chiedere la liquidazione della quota del socio – ma
non già aggredire direttamente il patrimonio sociale – se riesca a dimostrare che gli altri suoi beni
siano insufficienti a soddisfare il proprio credito. Altrimenti potrà più limitatamente far valere i suoi
diritti sugli utili spettanti al socio, e compiere atti conservativi sulla quota che gli competa in sede di
liquidazione.
2.3 AMMINISTRAZIONE E RAPPRESENTANZA
L’amministrazione della società semplice è disciplinata da una serie di norme a capo delle quali si
colloca l’art. 2257, il cui primo comma afferma che, «salvo diversa pattuizione, l’amministrazione
della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri». È cioè tipico della società
semplice, e di tutte le società di persone, che i poteri di governo della società siano imputati ai
proprietari della medesima, aggiungendosi alle prerogative che spettano loro in quanto soci. A meno
che non sia pattuito diversamente, al socio è singolarmente imputato il potere di amministrare la
società in via ordinaria e straordinaria, purché gli atti concernano l’oggetto sociale, e non deve
chiedere il consenso degli altri soci.
Per quanto riguarda invece i poteri che spettano ai soci non amministratori, costoro possono opporsi
alle operazioni alle quali siano contrari prima della loro realizzazione e il complesso dei soci dovrà
pronunciarsi su tale questione; inoltre spettano loro i poteri contemplati all’art. 2261 («i soci che non
partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizia dello svolgimento
degli affari sociali, di consultare i documenti relativi all’amministrazione e di ottenere il rendiconto
quando gli affari per cui fu costituita la società sono stati compiuti») e possono chiedere anche
individualmente al giudice la revoca per giusta causa di un amministratore, recedere, promuovere
l’esclusione di uno degli altri soci, provocare una dichiarazione giudiziale di scioglimento e la messa
in liquidazione della società quando sia il caso, opporsi alla modifica dell’atto costitutivo se la
deliberazione debba essere unanime.
Di default la gestione segue il sistema dell’amministrazione disgiuntiva. Può però essere scelto,
all’opposto, un sistema di amministrazione congiuntiva, e in questo caso dovrà altresì prevedersi che
le decisioni debbano essere prese all’unanimità o a maggioranza, secondo un ordine di preferenza che
è esplicitato dall’art. 2258: «se l’amministrazione spetta congiuntamente a più soci, è necessario il
consenso di tutti i soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali. Se è convenuto che
per l’amministrazione o per determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza, questa si
determina a norma dell’ultimo comma dell’articolo precedente». L’amministrazione disgiuntiva
facilita la conclusione degli affari e perciò aumenta l’efficienza gestionale della società, ma può
determinare seri problemi di coordinamento tra i soci e quasi inevitabilmente pone un certo
numero di soci nella condizione di accettare decisioni che in nessun modo ha contribuito a prendere.
L’amministrazione congiuntiva è invece un sistema che non incorre nei problemi di insufficiente e/o
inefficiente coordinamento, ma rischia di penalizzare la società per la sua maggiore lentezza e
complicazione organizzativa.
Essendo dunque questa la fisionomia dei meccanismi decisionali della società semplice, si ritiene che
non vi sia spazio per un’assemblea di soci (anche se questi possono decidere di costituirla
ugualmente): infatti l’ammissibilità di forme di amministrazione disgiuntiva, premianti la rapidità e
la flessibilità nell’assumere provvedimenti di gestione societaria, contrasta radicalmente con i principi
sui quali si basa la ragion d’essere dell’assemblea. Le decisioni dei soci possono perciò essere
sostanzialmente ricondotte a due tipologie: le decisioni che attengono alla modifica del contratto
sociale, espressamente contemplate dall’art. 2252 e che devono essere assunte all’unanimità; e più in
generale tutte le decisioni inerenti all’amministrazione della società, relativamente alle quali la
volontà sociale, maggioritaria o unanime a seconda di come si sia stabilito, può essere raccolta in una
molteplicità di forme libere.
Con quali modalità debba essere nominato un amministratore è questione complessa dato che
manca una norma che ne espliciti la soluzione. Si ritiene debbano provvedervi i soci all’unanimità,
e questa è la regola che vale anche per la loro revoca. Inoltre, sulla base dell’art. 2359 «la revoca
dell’amministratore nominato con il contratto sociale non ha effetto se non ricorre una giusta causa.
(...) La revoca per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio»,
giusta causa che consiste tipicamente nella violazione dei doveri di amministrazione.
L’art. 2260 spiega anche come giudicare il comportamento dei soci amministratori e come agire
contro di loro, per essere risarciti, in caso di mala gestio che abbia causato un danno al patrimonio
sociale: «gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli
obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale. Tuttavia, la responsabilità non si estende
a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa».
L’azione di responsabilità può essere esperita contro tutti gli amministratori, quand’anche il regime
fosse di amministrazione disgiuntiva, e si prescrive in cinque anni.
La disciplina dei poteri di rappresentanza è racchiusa nell’art. 2266 così: sappiamo che nella
società semplice tutti i soci illimitatamente responsabili sono per ciò stesso anche amministratori, e
la regola è che i poteri di rappresentanza spettano a tutti loro. I poteri di rappresentanza spettano cioè
a tutti i soci ai quali sia assegnato l’incarico di decidere quali operazioni sociali debbano essere
intraprese. In altri termini il regime della rappresentanza segue il sistema di amministrazione
prescelto: la rappresentanza è disgiunta se i soci amministrano disgiuntamente, congiunta se ciò
fanno congiuntamente, e se tutti i soci sono amministratori la rappresentanza spetta a ciascuno di essi.
La rappresentanza può però essere regolata diversamente da così, se solo i soci si avvalgano dei
poteri di autonomia statutaria dei quali è ancora l’art. 2266 a legittimare l’esercizio («in mancanza di
diversa disposizione del contratto, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore»).
Sarà pertanto possibile realizzare assetti dei poteri di rappresentanza della società quali i seguenti:
a) attribuire la rappresentanza ad alcuni soltanto dei soci amministratori;
b) limitare i poteri di rappresentanza dei singoli soci amministratori, ad esempio separando la
rappresentanza relativa agli atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione;
c) richiedere che i poteri di rappresentanza debbano dai soci amministratori essere esercitati
congiuntamente anziché disgiuntamente.
In tutti i casi – e così si chiude l’art. 2266 – «le modificazioni e l’estinzione dei poteri di
rappresentanza sono regolate dall’art. 1396», cioè la società sopporta l’onere di portarle a conoscenza
dei terzi con mezzi idonei.
2.4 LE VICENDE DEL CONTRATTO SOCIALE
Manca una disciplina dell’invalidità del contratto di società semplice e questo da sempre affatica la
dottrina nella ricerca delle soluzioni applicabili per dirimere le questioni connesse, rispettivamente,
all’invalidità della singola partecipazione e all’invalidità dell’intero contratto sociale.
1. Il primo profilo risolve nel chiedersi se la partecipazione della cui invalidità si tratta debba
considerarsi essenziale o meno per il conseguimento dell’oggetto sociale: se non lo è, la
società continua a esistere – posto che i soci residui siano almeno due – e si verifica uno
scioglimento unilaterale ex nunc tanto che al socio si riconosce il diritto alla liquidazione
della quota ma non anche il diritto alla restituzione del conferimento; se invece lo è, viene
travolto l’intero contratto sociale. In questi casi si applica infatti la disciplina generale dei
contratti e in specie l’art. 1420 («Nullità del contratto plurilaterale»), secondo il quale «nei
contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento
di uno scopo comune, la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa
nullità del contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze,
considerarsi essenziale», nonché l’art. 1446 con analogo riguardo alle ipotesi di annullabilità.
2. Il secondo profilo riguarda a sua volta due possibili frangenti: quello in cui l’attività della
società non sia ancora cominciata e quello in cui, all’opposto, siano state già assunte
obbligazioni nei confronti dei terzi per via dell’inizio effettivo dell’attività sociale.
a. Nel primo caso le parti potranno vedersi restituiti i beni eventualmente conferiti ed
evidentemente esse saranno svincolate dal dover effettuare il conferimento se ancora
non vi abbiano provveduto.
b. Nel secondo caso, cioè qualora l’attività della società abbia avuto inizio, si pongono
questioni di maggiore delicatezza, nel segno della necessità di tutelare i diritti dei terzi
contraenti con la società, e le alternative interpretative vertono attorno all’applicabilità
o meno alla società semplice dell’art. 2332 in materia di nullità della s.p.a.
Nel caso di scioglimento della società occorre distinguere tra lo scioglimento del rapporto sociale
relativo a un socio (a) e lo scioglimento del contratto sociale complessivamente inteso (b), ossia
lo scioglimento della società. Il primo tipo (a) ricorre:
1. Nelle ipotesi di morte, recesso ed esclusione del socio (tutte ipotesi che, appunto, svincolano
il socio ma non determinano lo scioglimento della società). In ognuna di queste ipotesi il
valore della quota viene determinato sulla base della situazione patrimoniale della società nel
giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto: il socio non ha diritto alla restituzione
di beni in natura che abbia conferito in società e perderà il maggior valore da essi nel frattempo
acquisito, a tutto vantaggio dei soci superstiti.
La morte del socio fa sorgere un diritto di credito in capo ai suoi eredi; ne consegue che la
legge impone agli altri soci di liquidare la quota a loro favore. La conoscenza personale e i
legami di natura fiduciaria propri specialmente delle società di persone spiegano perché non
sia preferito l’ingresso automatico degli eredi nella compagine sociale. Le eccezioni a tale
regola sono costituite da due possibilità alternative: procedere allo scioglimento della
società o continuarla con gli eredi stessi. La scelta dev’essere effettuata entro sei mesi dalla
morte del socio e nel rispetto di questo stesso termine la quota deve essere sia liquidata sia
pagata (art. 2289). La decisione di sciogliere anticipatamente la società implica però che gli
eredi del socio defunto perdano questo diritto alla liquidazione della quota sicché, per vedere
soddisfatto il proprio credito, essi dovranno attendere la liquidazione della società e
partecipare al pari dei soci alla distribuzione dell’attivo che eventualmente residui dopo che
siano stati pagati i debiti sociali. Invece la decisione di protrarre l’attività della società
condividendola con gli eredi implica che questi diventino soci per atto tra vivi (non iure
successionis) e la quota del socio defunto sarà divisa tra loro, salva la possibilità di liquidare
la partecipazione agli eredi che non intendano proseguire l’attività sociale e continuarla coi
restanti e intenzionati. Emerge perciò che il legislatore manifesta una predilezione per la
continuazione della società da parte dei soli soci superstiti, tanto che questa soluzione è
impostata in termini di regola. L’art 2284 fa salve contrarie disposizioni del contratto sociale.
2. Il secondo tipo di scioglimento relativamente a un socio è costituito dalle ipotesi nelle quali
è ammesso il recesso del socio, ossia l’interruzione del rapporto sociale per la volontà in tal
senso del socio medesimo. L’art. 2285 disciplina queste ipotesi prevedendo che «ogni socio
può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita
di uno dei soci. Può inoltre recedere nei casi previsti nel contratto sociale ovvero quando
sussiste una giusta causa. Nei casi previsti nel primo comma il recesso deve essere comunicato
agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi». Dunque, se il contratto sociale non ha
termine di durata, o la società è contratta per tutta la vita di uno dei soci, ogni socio può
recedere liberamente, senza che sia necessario addurre una ragione riconoscibile come
legittima dall’ordinamento. Viceversa, se la società è a tempo determinato occorre una giusta
causa, ossia una ragione che la giurisprudenza tende a far coincidere con la reazione del socio
a un comportamento illegittimo, tenuto dagli altri soci, tale da interrompere il rapporto
fiduciario.
3. Il terzo tipo di scioglimento parziale è costituito dalle ipotesi di esclusione del socio. Si
riconoscono cause di esclusione obbligatoria (di diritto) e di esclusione facoltativa.
a. L’esclusione di diritto è regolata dall’art. 2288, ai sensi del quale «è escluso di diritto il socio
che sia dichiarato fallito. Parimenti è escluso di diritto il socio nei cui confronti un suo
creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota a norma dell’art. 2270». In
entrambe le ipotesi si dà luogo a una rottura irreversibile del rapporto sociale, per via che
la quota del socio viene necessariamente distaccata dal patrimonio della società: nel caso di
fallimento del socio l’esclusione (che opera dal giorno della sua dichiarazione) si giustifica
per evitare ciò che diversamente sarebbe inevitabile, ossia il subentro del curatore fallimentare
nella compagine sociale; nel caso della liquidazione della quota (che opera solo dal momento
in cui essa sia stata effettivamente realizzata) l’esclusione si giustifica con la perdita da parte
del socio della qualità stessa di socio per effetto della liquidazione.
b. Per l’esclusione facoltativa, regolata dall’art. 2286, sono contemplate le cause di esclusione
per gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge e dal contratto sociale,
l’interdizione del socio, la sua inabilitazione o la condanna del medesimo a una pena che
comporti l’interdizione anche temporanea dai pubblici uffici (anche qui per evitare che si
integrino nella compagine sociale soggetti terzi), e anche le varie forme di sopravvenuta
impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile agli amministratori.
Il procedimento di esclusione, regolato dall’art. 2287, prevede che «l’esclusione è deliberata
dalla maggioranza dei soci, non comprendendosi nel numero di questi il socio da escludere,
ed ha effetto decorsi trenta giorni dalla data di comunicazione al socio escluso. Entro questo
termine il socio escluso può fare opposizione davanti al tribunale, il quale può sospendere
l’esecuzione. Se la società si compone di due soci, l’esclusione di uno di essi è pronunciata
dal tribunale, su domanda dell’altro».
Lo scioglimento della società di persone (b) si determina in corrispondenza di una serie di ipotesi
elencate dall’art. 2272, circostanze in cui lo scioglimento opera di diritto, ossia automaticamente, e
non è quindi necessaria una deliberazione sociale che lo accerti:
1) «per il decorso del termine», salvo che sia deliberata la proroga della società o se essa sia
tacita, cioè desumibile dal comportamento di soci che continuino «a compiere le operazioni
sociali» (ex art. 2273, e in tal caso si tratta addirittura di proroga a tempo indeterminato);
2) «per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di
conseguirlo», purché si tratti di impedimenti assoluti e definitivi;
3) «per la volontà di tutti i soci», salvo che l’atto costitutivo preveda la possibilità di deliberare
lo scioglimento a maggioranza;
4) «quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è
ricostituita», regola che implicitamente attesta che per sei mesi la società può essere costituita
e gestita da un socio solo;
5) «per le altre cause previste dal contratto sociale», ad esempio se ci si accordi affinché si
verifichi lo scioglimento della società qualora muoia un singolo socio.
La liquidazione del patrimonio della società, ossia il procedimento tramite il quale si provvede al
pagamento dei creditori sociali e alla distribuzione fra i soci dell’eventuale attivo residuo, è regolata
dagli artt. 2275 ss., con norme in buona parte dispositive e come tali derogabili rispetto agli standard
fissati dal codice civile. Lo scioglimento è imperativo, la liquidazione è inevitabile ma il
procedimento che, attraverso la liquidazione, conduce dallo scioglimento all’estinzione della società
è variamente adattabile ai casi concreti secondo le volontà dei soci. I liquidatori si rendono necessari
se i soci non siano già d’accordo sui termini in cui liquidare il patrimonio della società. La loro nomina
deve avvenire con voto unanime e potranno assumere tale incarico anche singoli soci, oltre a potervi
provvedere gli stessi amministratori. I liquidatori hanno doveri precisi: prendono in consegna i beni
e i documenti e insieme agli amministratori redigono l’inventario e provvedono a «compiere gli atti
necessari per la liquidazione». Esistono due divieti a loro carico: il divieto di dividere i beni tra i
soci, nemmeno parzialmente, fino a che non siano stati pagati i creditori sociali e il divieto di
intraprendere operazioni che non siano in rapporto strumentale con l’attività di liquidazione
(«nuove operazioni»). Fase terminale della liquidazione è la ripartizione dell’attivo. Anzitutto la
procedura stabilisce che i soci che abbiano conferito beni in godimento debbano riaverli nelle
condizioni in cui essi si trovavano originariamente, diversamente avendo diritto all’essere risarciti.
Quindi si passa alla ripartizione vera e propria, che può prevedere la restituzione di beni in natura,
seguendo le norme sulla divisione delle cose comuni.
2.5 LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO
La società in nome collettivo rappresenta la società commerciale per definizione, ossia il tipo
societario che s’intende optato per svolgere un’attività imprenditoriale di natura commerciale. Se
la società corrisponde ai caratteri fondamentali indicati nell’art. 2247, e se l’impresa non è agricola,
qualora non sia espressa una preferenza per un tipo diverso si tratterà di una società in nome collettivo.
L’elemento che contraddistingue una s.n.c. è riferito dalla prima norma che si occupa di questo tipo
societario, ossia l’art. 2291: «nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e
illimitatamente per le obbligazioni sociali». La responsabilità solidale e illimitata di tutti i soci per
le obbligazioni sociali parrebbe accomunare la società in nome collettivo alla società semplice. Nella
società semplice la limitazione della responsabilità è consentita e regolata dal secondo comma
dell’art. 2267, mentre nella società in nome collettivo la limitazione della responsabilità è consentita
e regolata dal secondo comma dell’art. 2291, ai sensi del quale «il patto contrario non ha effetto nei
confronti dei terzi»; ciò significa che il patto limitativo è valido nei rapporti interni, sicché il
patrimonio di un socio può essere aggredito dai creditori della società ma il socio è legittimato ad
agire in regresso per l’intero nei confronti degli altri soci.
Inoltre, l’art. 2304 stabilisce che «i creditori sociali non possono pretendere il pagamento dai singoli
soci se non dopo l’esecuzione del patrimonio sociale»: l’onere probatorio si rovescia e, a maggior
tutela del patrimonio personale del socio, sarà compito del creditore dimostrare l’assenza di beni della
società escutibili e facilmente liquidabili.
L’autonomia patrimoniale della s.n.c. differisce da quella della s.s. anche sotto il profilo della
responsabilità nei confronti dei creditori personali del socio. L’art. 2305 stabilisce infatti che «il
creditore particolare del socio, finché dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del
socio debitore», neppure se prova che gli altri beni del socio siano insufficienti a soddisfare il proprio
credito (nella società semplice, invece, il creditore lo può fare, purché dimostri che gli altri beni siano
insufficienti).
Per quanto riguarda il nome che la s.n.c. deve assumere, l’art 2292 stabilisce che «la società in nome
collettivo agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di uno o più soci con l’indicazione del
rapporto sociale». Gli arti. 2295 e 2296 stabiliscono i requisiti di sostanza e di forma richiesti per
l’atto costitutivo:
a) Il cognome e il nome, il luogo e la data di nascita, il domicilio, la cittadinanza dei soci;
cioè le generalità dei soci.
b) La ragione sociale; cioè il nome della società.
c) I soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società; cioè chi le abbia nelle
ipotesi in cui esse siano state riservate ad alcuni soci soltanto, derogando alle disposizioni di
default (artt. 2257 e 2266).
d) La sede della società e le eventuali sedi secondarie; cioè (con riguardo alla prima) la sede
amministrativa, ossia il luogo dove si amministra la società, non già la sede legale né il luogo
dove sia collocata l’azienda di cui la società si serve per lo svolgimento dell’attività d’impresa.
e) L’oggetto sociale; cioè l’attività imprenditoriale che i soci intendono organizzare ed
esercitare.
f) I conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il modo di valutazione;
g) Le prestazioni a cui sono obbligati i soci di opera; cioè di carattere lavorativo.
h) Le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli
utili e nelle perdite.
i) La durata della società; cioè l’indicazione di una scadenza predeterminata.
Se nella disciplina delle società di persone non è prestabilito un minimo di capitale sociale necessario
per poter dare vita alla società (viene perciò a coincidere col valore dei beni conferiti dai soci e quindi
con il patrimonio della società), nelle società di capitali il capitale sociale è statico, cioè una quota
fissa, mentre cambia continuamente il livello del patrimonio sociale, espressione dinamica del
valore dei beni e dei rapporti giuridici imputabili alla società: aumenta in conseguenza della
realizzazione degli utili e diminuisce se la società accusi perdite. Gli art. 2303 (limiti alla distribuzione
degli utili) e 2306 (riduzione del capitale) assicurano che, durante la vita della società, il suo
patrimonio sia di ammontare pari almeno al capitale sociale.
L’art. 2301, dedicato al divieto di concorrenza del socio, tutela contro eventuali rotture del vincolo
fiduciario che lega i soci di società di persone. Il divieto riguarda tutti i soci attuali della società,
mentre non vincola chi della società non sia più socio in quanto receduto o escluso, e prevede che «il
socio non può, senza il consenso degli altri soci, esercitare per conto proprio o altrui un’attività
concorrente con quella della società, né partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra
società commerciale».
Le cause di scioglimento della società in nome collettivo sono quelle previste per la società semplice.
La s.n.c. si scioglie altresì «per provvedimento dell’autorità governativa nei casi stabiliti dalla
legge, e, salvo che abbia per oggetto un’attività non commerciale, per la dichiarazione di fallimento»
(così l’art. 2308); fallimento che determina lo scioglimento ma non anche l’estinzione della società,
destinata a prodursi alla conclusione della procedura concorsuale.
Ciò che anzitutto distingue la fase di liquidazione della società in nome collettivo dalla società
semplice è la necessità che la s.n.c., al verificarsi di una causa di scioglimento, passi attraverso un
procedimento siffatto, laddove la liquidazione della società semplice è convenzionalmente
modellabile; non dimentichiamo che l’art. 2275. si prevede infatti che «dall’iscrizione della nomina
dei liquidatori la rappresentanza della società, anche in giudizio, spetta ai liquidatori». Emerge che
nelle società di persone con la liquidazione gli amministratori perdono i propri poteri e inizia una
fase nuova della vita della società, preordinata a scopi differenti rispetto a quelli ordinari: la società
non può più lucrare svolgendo un’attività economica, ma deve realizzare il massimo guadagno
possibile liquidando tale attività. In base all’art. 2311 poi «Compiuta la liquidazione, i liquidatori
devono redigere il bilancio finale e proporre ai soci il piano di riparto. Il bilancio, sottoscritto dai
liquidatori, e il piano di riparto devono essere comunicati mediante raccomandata ai soci, e
s’intendono approvati se non sono stati impugnati nel termine di due mesi dalla comunicazione». La
liberazione dei liquidatori nei confronti dei soci è la prima conseguenza sostanziale che discende
dall’approvazione del bilancio finale di liquidazione. Bilancio e piano di riparto hanno
evidentemente funzioni differenti, il primo certificando l’esito delle operazioni di liquidazione, il
secondo realizzando la distribuzione di conferimenti e utili sulla base dei diritti spettanti a vario titolo
ai soci. E da tale differenza consegue che il bilancio è, sì, precondizione per la cancellazione ma,
anche quando essa si sia realizzata, sopravvivono i diritti dei partecipanti sul patrimonio che fu della
società. Con la cancellazione, però, la società in quanto tale si estingue, anche se non tutti i creditori
siano stati pagati; la cancellazione può anche essere disposta d’ufficio se emergano evidenze
dell’assenza di attività sociale.
2.6 SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE
La società in accomandita semplice rappresenta una sorta di anello di congiunzione tra le società di
persone e di capitali. Storicamente la s.a.s. deriva dalla commenda, funzionale a regolare gli impegni
reciproci connessi al credito effettuato da parte di banchieri e altri finanziatori a favore della
realizzazione di spedizioni oltreoceano. Società in accomandita e commenda ebbero in comune
l’elemento del doppio e diverso ruolo dei soci, seconda che essi appartenessero alla categoria dei
finanziatori dell’impresa marittima, quali soci accomandanti che godevano della limitazione della
responsabilità per le obbligazioni sociali, o che appartenessero alla categoria dei gestori della
medesima, quali soci accomandatari che rispondevano illimitatamente. Dall’art. 2313 emerge che la
ratio rimane la stessa: «nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono
solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali e i soci accomandanti rispondono
limitatamente alla quota conferita». Quindi, in una s.a.s. ai soci accomandatari spetta
l’amministrazione della società, mentre i soci accomandanti sono apportatori di capitali. La
disciplina della s.a.s. cerca dunque di rispondere contemporaneamente a esigenze economiche diverse
ma compatibili: ripartire in modo chiaro le responsabilità gestorie e i compiti di controllo interno di
chi, in quanto accomandante, non amministri la società, così come incentivare l’attività d’impresa
con la limitazione della responsabilità di taluni soci e garantire altresì un’adeguata protezione dei
terzi che contrattino con la società e nutrano legittime aspettative di soddisfazione dei crediti così
maturati.
Disciplina e atto costitutivo: in base all’ex art. 2315, «alla società in accomandita semplice si
applicano le disposizioni relative alla società in nome collettivo», nella misura in cui siano compatibili
con quelle dell’accomandita; sino a che non risulti iscritta nel registro delle imprese, la s.a.s. rimane
sottoposta alla disciplina della società semplice, in quanto società irregolare. L’atto costitutivo della
s.a.s. è regolato dalle norme previste per l’omologo della s.n.c., e analogamente la partecipazione di
soggetti incapaci è rimessa alla disciplina ricavabile dall’art. 2294.
Anche se in linea di massima i soci accomandanti non possono vedersi attribuiti poteri di gestione e
di rappresentanza della società, propri dei soci accomandatari, qualche potere amministrativo è
tuttavia riconoscibile ai soci accomandanti, come testimoniano gli artt. 2319 e 2320. A date
condizioni, possono:
a) nominare e revocare gli amministratori;
b) concludere specifici affari;
c) prestare la propria opera manuale o intellettuale;
d) dare pareri ed effettuare controlli.
Ma sotto ogni altro profilo vale la loro estromissione dall’amministrazione della società, sancita da
un severo divieto di immistione, valido per ogni atto di amministrazione (anche se non produce effetti
nei confronti dei terzi): l’art. 2320, dopo aver affermato che i soci accomandanti non possono
compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, sancisce che
«il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale
verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell’art. 2286».
Se l’accomandante s’inserisce nell’amministrazione ne consegue che risponde illimitatamente e
solidamente per tutte le obbligazioni sociali, a qualsiasi titolo, e in caso di fallimento della società
può essere dichiarato fallito così come i soci accomandatari; non diventa però accomandatario, ma
perde il beneficio della responsabilità limitata nei confronti dei terzi.
Il trasferimento delle quote sociali per causa di morte, (l’art. 2322), può avvenire liberamente,
senza, cioè, che sia necessario acquisire il consenso dei soci superstiti; diverso è il discorso del
trasferimento per causa di morte della quota del socio accomandatario che ai sensi dell’art. 2284, in
linea generale è intrasmissibile salvo volontà degli altri soci superstiti di continuare la società con gli
eredi. Inter vivos: la quota dell’accomandatario si trasferisce secondo le regole previste per la s.n.c.,
occorrendo il consenso di tutti gli altri soci (e, in caso di morte, degli eredi). Quanto alla quota
dell’accomandante, invece, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo essa può essere ceduta con
effetto verso la società con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale.
Dunque, lo scioglimento della s.a.s. si produce per le stesse cause previste per la s.n.c., cause alle
quali si aggiunge l’ipotesi di sopravvivenza di una sola categoria di soci. Anche la liquidazione
e l’estinzione sono regolate dalle norme previste per la società in nome collettivo, con la precisazione
espressa che dopo la cancellazione dal registro delle imprese i creditori sociali insoddisfatti possono
far valere i loro crediti anche nei confronti degli accomandanti, limitatamente alla quota di
liquidazione (art. 2324).
3. SOCIETÀ IRREGOLARE
È irregolare la società di persone di natura commerciale che non sia iscritta nel registro delle
imprese. La mancata iscrizione nel registro delle imprese non ne determina l’inesistenza ma muta la
disciplina ad essa applicabile. Dal momento che l’impianto originario del codice civile non prevedeva
l’iscrizione per la società semplice, la condizione di irregolarità può riguardare la società in nome
collettivo e la società in accomandita semplice (e di fatto molte s.n.c. risultano irregolari).
La collettiva e l’accomandita vanno iscritte nella sezione ordinaria del registro delle imprese,
mentre la semplice è tenuta a iscriversi nella sezione speciale. Quanto alle prime (s.n.c. e s.a.s.),
l’iscrizione del contratto di società, redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata, è a cura
degli amministratori o del notaio nel termine di trenta giorni dalla conclusione del contratto. Quanto
alla seconda (s.s.), l’iscrizione del contratto di società, del quale non è prescritta alcuna forma
particolare, è a cura degli amministratori. L’iscrizione di s.n.c. e s.a.s. consente di rendere
opponibili ai terzi gli atti e i fatti che sono oggetto di iscrizione. Se invece tali società non vengono
iscritte, non solo non si produce questo genere di efficacia ma si realizza l’effetto di assoggettare le
menzionate società a una disciplina speciale.
In primo luogo, alle s.n.c. e alle s.a.s. irregolari si applicano le norme dettate per la società
semplice, con riguardo ai rapporti tra la società e i terzi, e a quelli con i creditori sociali e i creditori
particolari dei soci. Ne consegue che il pagamento del debito sociale può essere chiesto dal creditore
direttamente al socio che, per non adempiere, deve indicare quali siano i beni sociali sui quali l’attore
possa agevolmente soddisfarsi. Così come il creditore personale del socio può ottenere che la società
gli liquidi il valore della quota entro tre mesi dalla domanda se dimostra che il suo debitore non
dispone di altri beni sufficienti a soddisfarlo.
In secondo luogo, sulla base del secondo comma dell’art. 2297 «si presume che ciascun socio che
agisce per la società abbia la rappresentanza sociale, anche in giudizio. I patti che attribuiscono la
rappresentanza ad alcuno soltanto dei soci o che limitano i poteri di rappresentanza non sono
opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza». Ne risulta rafforzata la
tutela dei terzi che contrattino con la società dal momento che questa non potrà avvantaggiarsi della
mancata iscrizione per giustificare l’inefficace esercizio dei poteri di rappresentanza. Si introduce
così una differenza rispetto alla disciplina della società semplice: in questa le limitazioni ai poteri di
rappresentanza dei soci sono opponibili ai terzi anche se costoro non ne erano a conoscenza; invece,
nelle società irregolari le limitazioni sono inopponibili ai terzi in buona fede. Questo perché la società
semplice svolge un’attività non commerciale e ivi prevale l’interesse dei soci, mentre nella s.n.c. e
nella s.a.s. la protezione dei terzi è preferita alla tutela degli interessi di più strutturati imprenditori
commerciali quali sono i soci della collettiva e dell’accomandita.
In terzo e ultimo luogo, alle s.n.c. e alle s.a.s. irregolari non si applica il termine di prescrizione
quinquennale bensì quello ordinario e decennale, né si applica loro l’art. 10 della legge fallimentare
relativamente alla parte in cui esclude che il fallimento possa essere dichiarato decorso un anno dalla
cancellazione dal registro delle imprese.
4. SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA
1.1 CARATTERI GENERALI
La s.r.l., inquadrata dall’art 2247, è innanzitutto una società lucrativa: l’attività economica oggetto
della società è esercitata al fine di realizzare utili che vengono divisi tra i soci. Lo scopo di lucro non
è derogabile statutariamente e dev’essere ricavabile sulla base di indici oggettivi e formali. È poi
una società di capitali, cioè caratterizzata, rispetto alle società personalistiche, dalla ricorrenza di
tratti fisionomici di carattere sia strutturale sia funzionale.
a) Sotto il profilo delle responsabilità: in una s.r.l., in quanto società con personalità giuridica
per le obbligazioni sociali risponde la società col proprio patrimonio. I soci, quindi, rischiano
economicamente solo quanto abbiano destinato alla società a titolo di conferimento e non
anche il proprio patrimonio personale.
b) Sotto il profilo dell’organizzazione: come tutte le società di capitali la s.r.l. ha
un’organizzazione di tipo corporativo basata sulla compresenza di una pluralità di organi,
ciascuno dei quali dotato di specifiche funzioni e responsabilità.
c) Sotto il profilo dell’amministrazione: le società di capitali realizzano tendenzialmente la
separazione tra proprietà e controllo, ossia la distinzione dei ruoli dei proprietari del capitale
sociale e di coloro che si fanno carico dell’amministrazione della società.
d) Sotto il profilo del ruolo dei soci: l’attività degli organi societari avviene in ossequio al
principio maggioritario, sulla base del quale il peso di ciascun socio è computato rispetto a
quanto costui abbia conferito economicamente in società; in altri termini i voti espressi in
assemblea si calcolano per quote, ossia in rapporto alle frazioni del capitale sociale di cui sia
proprietario ciascun socio, e non per teste.
1.2 NOZIONE E COSTITUZIONE
Oggi, per come è stata riformata nel 2003, rappresenta l’anello di congiunzione tra la classe di società
di persone e quella delle società di capitali. Nell’impianto originario del codice civile la s.r.l.
rappresentava un modello semplificato e personalizzato di società di capitali, o una sorta di piccola
società per azioni. A partire dalla riforma del 2003 la s.r.l. dispone di una disciplina propria e
autosufficiente e le disposizioni della s.p.a. alle quali si rinvia non costituiscono più la regola, ma
l’eccezione. In questo senso l’ordinamento italiano si è avvicinato ad altri europei.
L’art. 2462, titolato «Responsabilità», stabilisce che «nella società a responsabilità limitata per le
obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio». Quindi anche nella s.r.l. i
creditori sociali possono soddisfarsi sul patrimonio sociale e non sul patrimonio personale dei soci,
e anche il tipo s.r.l. può essere utilizzato per lo svolgimento di attività d’impresa in forma societaria
unipersonale. A questi due caratteri, condivisi con la s.p.a., l’art. 2468 aggiunge che «le partecipazioni
dei soci non possono essere rappresentate da azioni né costituire oggetto di offerta al pubblico di
prodotti finanziari». Ciò comporta che la circolazione delle quote di una s.r.l. avviene in modo meno
facile e veloce, oltre che l’impossibilità di fare appello al pubblico risparmio per raccogliere capitale
di rischio. In altri termini la s.r.l. fu concepita, e tuttora in buona parte può essere considerata, quale
mezzo organizzativo per avvalersi del beneficio della responsabilità limitata e grazie ad esso svolgere
un’attività economica di dimensioni modeste in forma societaria purtuttavia capitalistica.
La s.r.l. può essere costituita con contratto o con atto unilaterale (art. 2463); l’atto costitutivo
deve essere redatto per atto pubblico e deve indicare:
1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di costituzione,
il domicilio o la sede, la cittadinanza di ciascun socio;
2) la denominazione, contenente l’indicazione di società a responsabilità limitata, e il comune
ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie, (non è necessario
rappresentare l’indirizzo della società);
3) l’attività che costituisce l’oggetto sociale, voce che richiede di indicare analiticamente
l’attività economica che la società ha in programma di svolgere;
4) l’ammontare del capitale, non inferiore a diecimila euro, sottoscritto e di quello versato», voce
uguale all’omologa della s.p.a., salvo che per l’ammontare minimo richiesto per la
costituzione;
5) i conferimenti di ciascun socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura;
6) la quota di partecipazione di ciascun socio;
7) le norme relative al funzionamento della società, indicando quelle concernenti
l’amministrazione, la rappresentanza;
8) le persone cui è affidata l’amministrazione e l’eventuale soggetto incaricato di effettuare la
revisione legale dei conti;
9) l’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della
società.
Non è più richiesta l’indicazione della durata della società; da ciò consegue che ove tale elemento
non sia esplicitato la società si intenderà contratta a tempo indeterminato, e ulteriormente ne deriva
che il diritto di recesso dal contratto di società potrà essere esercitato da ogni socio in qualsiasi
momento.
Tra le norme dedicate alla costituzione della s.r.l. non compaiono riferimenti espressi allo statuto:
nella s.r.l. non è contemplata la presenza dello statuto, probabilmente per facilitare la costituzione di
questo tipo societario. Con ciò non è impedito, se paia il caso, di scindere le componenti di atto
costitutivo e statuto.
1.3 CAPITALE E CONFERIMENTI
La distanza che si misura tra il capitale della s.r.l. e quello della s.p.a., attiene al fatto che le quote
dei soci di s.r.l. non possono essere rappresentate da azioni (così, infatti, stabilisce l’art. 2468). La
conseguenza è che il capitale della società a responsabilità limitata viene suddiviso in rapporto al
numero dei soci, e ogni socio dispone di una sola quota di partecipazione. Le quote, a loro volta, non
hanno necessariamente un uguale valore unitario, ma possono essere di ammontare differente. Se
l’atto costitutivo non dispone diversamente, il loro valore rispecchia in misura proporzionale
l’entità del conferimento effettuato da ciascun socio (anche se è rimessa all’autonomia privata
l’opzione di assegnare ai soci partecipazioni non proporzionali ai conferimenti). Infine, i diritti sociali
sono riconosciuti ai soci in misura proporzionale ai conferimenti (anch’essa norma di default,
derogabile).
Ai sensi dell’art. 2464 il valore dei conferimenti non può essere inferiore all’ammontare globale del
capitale sociale; inoltre possono essere devoluti in società non unicamente denaro, beni in natura o
crediti, ma qualsiasi bene il cui valore economico possa essere agevolmente e precisamente calcolato
(anche prestazioni d’opera o servizi). Il conferimento di beni in natura richiede che sia effettuata una
stima del loro valore da un esperto scelto dal conferente (requisiti nell’art. 2465). In caso di mancata
esecuzione dei conferimenti:
a) la diffida al socio a eseguire il conferimento entro il termine di trenta giorni dev’essere
indirizzata direttamente al socio moroso;
b) decorso inutilmente tale termine gli amministratori possono scegliere se promuovere l’azione
per l’adempimento o vendere la quota del socio moroso offrendola in primis agli altri soci, in
proporzione della loro partecipazione;
c) solo in mancanza di offerte, se l’atto costitutivo lo consenta, la quota potrà essere venduta
all’incanto;
d) se la vendita non può verificarsi gli amministratori escludono il socio trattenendo le somme
riscosse.
1.4 MODIFICHE DELL’ATTO COSTITUTIVO, AUMENTO E RIDUZIONE DEL
CAPITALE SOCIALE
Le decisioni relative alla modifica dell’atto costitutivo sono riservate dal secondo comma dell’art.
2479 alla competenza dei soci: tali decisioni devono essere adottate mediante deliberazione
assembleare.
L’assemblea della s.r.l. si riunisce presso la sede sociale, è regolarmente costituita con una presenza
di soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale e delibera con questo stesso quorum. Il
verbale, trascritto nel libro delle decisioni dei soci, ex art. 2480 deve essere redatto da un notaio che,
dopo un controllo di legittimità, sarà tenuto a depositarlo e chiederne l’iscrizione nel registro delle
imprese.
L’aumento e la riduzione del capitale sociale rappresentano vicende modificative del capitale sociale
e sono disciplinate dagli artt. 2481-2482-quater. L’aumento del capitale, che può essere reale o
nominale: si produce un aumento reale, o a pagamento, quando l’aumento del capitale sociale e del
patrimonio della società deriva dal fatto che sono effettuati nuovi conferimenti ed è un’operazione
che viene realizzata quando la società ha bisogno di procurarsi nuove risorse economiche; si produce
invece un aumento nominale, o gratuito, quando ci si limita ad alzare la soglia del capitale nominale
della società (decisione che spetta ai soci) ma non aumenta anche il patrimonio (art. 2481-ter ad
aumento avvenuto, le quote saranno di entità maggiore ma continueranno a rappresentare la
medesima frazione del capitale): in tal modo quelle risorse saranno a loro volta assoggettate al vincolo
di destinazione che grava sul capitale e con ciò la società ne guadagna nei termini di un aumento della
sua solidità patrimoniale. La deliberazione di aumento del capitale sociale si accompagna, a meno
che non ne sia prevista l’esclusione nell’atto costitutivo, al riconoscimento del diritto di opzione a
favore dei soci, ossia del diritto di sottoscrivere l’aumento di capitale in proporzione alle quote
originariamente possedute, così evitandosi il rischio dell’annacquamento della loro partecipazione.
Ai soci è però riconosciuto il diritto di recesso dalla società se non abbiano condiviso la decisione
di escludere il diritto d’opzione.
Anche la riduzione del capitale sociale può essere reale o nominale. La prima è volontaria e ai
sensi dell’art. 2482 «può avere luogo mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante
liberazione di essi dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti»: con essa si realizza una diminuzione
patrimoniale, allo scopo di scindere dal capitale e dalla sua rigorosa disciplina parte di risorse
economiche non necessarie per le funzioni del capitale medesimo e che possono essere più utilmente
sfruttate. La seconda invece si realizza mediante un’operazione contabile tramite la quale si adegua
il livello del capitale sociale in conseguenza di perdite che lo abbiano eroso. Infatti, le perdite
intaccano anzitutto la parte disponibile del patrimonio e, dopo avere esaurito le riserve, incidono sul
capitale. Sono annoverate due serie di ipotesi di riduzione nominale, detta anche riduzione per
perdite: le ipotesi in cui la riduzione del capitale è facoltativa e quelle in cui essa è obbligatoria. La
distinzione attiene all’entità della perdita subita. La prima serie di ipotesi (riduzione facoltativa)
è disciplinata dall’art. 2482-bis e si tratta della procedura che occorre seguire quando si sia verificata
una perdita superiore a un terzo, circostanza che può determinarsi in una serie di ipotesi differenti
tra loro il cui esito comune è obbligare gli amministratori a coinvolgere l’assemblea. In queste ipotesi
la riduzione è facoltativa nel senso che è rimessa alle decisioni dei soci in assemblea, che potranno
deliberare immediatamente la riduzione del capitale o rinviare ogni decisione all’esercizio successivo.
La seconda serie di ipotesi (riduzione obbligatoria) è disciplinata dal successivo art. 2482-ter e si
tratta della procedura che occorre seguire quando il livello del capitale, per effetto delle perdite,
scende al di sotto del minimo legale. In queste ipotesi la riduzione è obbligatoria, nel senso che è
imposta dalla legge: la società dovrà trasformarsi in un tipo che ammetta un minimo di capitale sociale
di livello pari a quello raggiunto, diversamente andrà incontro a scioglimento. È comunque esclusa,
in tutte le ipotesi di riduzione del capitale per perdite, ogni modificazione delle quote di
partecipazione e dei diritti spettanti ai soci.
1.5 STRUTTURA FINANZIARIA E QUOTE DI PARTECIPAZIONE
Le disposizioni sui finanziamenti alla società da parte dei soci sono state introdotte in occasione della
riforma del 2003 per fronteggiare la prassi del trasferimento di somme di denaro a titolo di capitale
di debito, in alternativa a un più congruo finanziamento per il tramite di capitale di rischio. Il capitale
di rischio rappresenta il complesso delle risorse finanziarie destinato alla società a titolo di
conferimento, nei confronti del quale i soci non vantano alcun diritto di restituzione: la sua
(re)distribuzione ai soci dipende dall’andamento economico della società.
Ai sensi dell’art. 2467 «il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato
rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di
fallimento della società, deve essere restituito. Ai fini del precedente comma s’intendono
finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati
concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società,
risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione
finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento». I titoli di debito
rappresentano a loro volta uno strumento di finanziamento della s.r.l., introdotto dalla riforma
del 2003, la cui disciplina è contenuta nell’art. 2483. Se dunque da un lato, con la norma precedente,
si è concretizzata giuridicamente la volontà di disincentivare il ricorso eccessivo o incongruo ai
finanziamenti dei soci, d’altro lato è stato introdotto ex novo un mezzo per canalizzare il credito in
forme che di fatto non siano ad appannaggio esclusivo dei soci o delle banche. In effetti sono
strumenti sostanzialmente assimilabili alle obbligazioni, e possono essere sottoscritti solo da
investitori professionali.
L’emissione dei titoli dev’essere prevista dall’atto costitutivo e «in tal caso l’atto costitutivo
attribuisce la relativa competenza ai soci o agli amministratori determinando gli eventuali limiti, le
modalità e le maggioranze necessarie per la decisione». La conseguente decisione dei soci deve
determinare le condizioni del prestito e le modalità del suo rimborso, quindi essere iscritta nel registro
delle imprese a cura degli amministratori.
Essendo concepite in modo unitario, le quote di partecipazione al capitale di una s.r.l. non possono
essere rappresentate da titoli di credito; perciò, non possono costituire oggetto di offerta al
pubblico; tuttavia, è possibile assegnare un valore alle quote, ricavandolo come frazione del
patrimonio rappresentato dalla quota. Inoltre, il fatto che le quote non possano essere rappresentate
da titoli di credito non impedisce il loro trasferimento: «le partecipazioni sono liberamente trasferibili
per atto tra vivi e per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo»,
recita l’art. 2469. Tuttavia, il criterio personalistico riemerge sotto il profilo dei limiti pattizi che
possono condizionare il trasferimento. Il trasferimento si realizza per effetto del semplice consenso;
non è perciò necessario che l’atto rivesta una forma particolare. Affinché produca effetti nei confronti
della società è però necessario che l’atto sia stato iscritto nel registro delle imprese, ciò che deve
avvenire entro trenta giorni a cura del notaio autenticante; se la quota è alienata con contratti
successivi a più persone prevale quella che per prima ha effettuato in buona fede l’iscrizione nel
registro delle imprese. La partecipazione può essere espropriata da parte dei creditori personali
del socio, e da tale evento discendono alternativamente la sua vendita forzata o la sua assegnazione
al creditore procedente. Il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e
successiva iscrizione nel registro delle imprese. La partecipazione può poi formare oggetto di pegno,
usufrutto e sequestro (disciplina vigente per la s.p.a., art. 2352). Inoltre, è sancito il divieto assoluto
alla società di compiere operazioni sulle proprie quote.
Per quanto riguarda l’esclusione del socio (art. 2473-bis), «l’atto costitutivo può prevedere specifiche
ipotesi di esclusione per giusta causa del socio», a fronte di una sola causa legale di esclusione (se
mancano i conferimenti). Nei casi di esclusione convenzionale per giusta causa si applicano le
disposizioni contemplate per le ipotesi di recesso dalla società, con una sola eccezione: qualora non
vi siano acquirenti della quota del socio escluso, o se la società non abbia modo di rimborsarla
utilizzando riserve disponibili, l’esclusione non può che ritenersi priva di effetto; in più drastica
alternativa parte della dottrina ritiene che, nelle ipotesi menzionate, la società si sciolga.
Per recesso tecnicamente s’intende l’atto unilaterale recettizio con il quale il socio rende noto il
proprio intento di sciogliere il vincolo negoziale che lo lega alla società e fa valere tale suo diritto. Lo
scopo del diritto di recesso è, in primo luogo, quello di riequilibrare il potere della maggioranza
e le esigenze della minoranza azionaria. Si tratta cioè di uno strumento che tipicamente tutela il socio
di minoranza e perciò di modesta forza contrattuale, rispetto agli atti degli altri soci che abbiano
introdotto modificazioni dell’atto costitutivo o varato operazioni sulle quali il primo socio si trovi in
disaccordo, per un verso, e che per altro verso siano idonee ad alterare significativamente le
condizioni di rischio che costui ha accettato entrando nella compagine societaria. In secondo luogo,
lo strumento del recesso può rappresentare un correttivo alla durata a tempo indeterminato del
rapporto sociale. Infine, il recesso funge da rimedio di cui il socio dispone a fronte di clausole dirette
a rendere sostanzialmente intrasferibile la partecipazione sia per atto tra vivi sia a causa di morte.
Posto che è l’atto costitutivo a determinare quando il socio è legittimato a recedere, le cause legali di
recesso (inderogabili) in buona sostanza corrispondono a queste tre tipologie di esigenze di
scioglimento del vincolo sociale. Ai sensi dell’art. 2437, il diritto di recesso compete ai soci che non
hanno consentito a un cambiamento significativo della società (come il cambiamento dell’oggetto o
del tipo di società, la sua fusione, o scissione ecc.). Nel caso di società a tempo indeterminato il diritto
compete al socio in qualunque momento e può essere esercitato con un periodo di almeno 180 gg
(salve diverse disposizioni dell’atto costitutivo). I casi annoverati comprendono, oltre le ipotesi
dell’art. 2437, anche le ipotesi integrate per effetto della riforma del 2003. È poi il secondo comma
dell’art. 2469 che attribuisce al socio il diritto di recedere quando l’atto costitutivo preveda
l’intrasferibilità delle quote o sottoponga la cessione al mero gradimento di organi sociali o di terzi,
ed è l’art. 2481-bis che consente il recesso del socio quando, nelle ipotesi di aumento del capitale
sociale a pagamento, dissente dalla decisione di offrire a terzi le quote di nuova emissione. Se l’evento
che motiva il recesso è una decisione dei soci, la legittimazione spetta ai soci non consenzienti, ossia
ad assenti, astenuti e contrari. Mentre spetta a tutti se si tratti di recesso da società a tempo
indeterminato, o le cui quote siano dichiarate intrasferibili. Nelle ipotesi di recesso statutario,
invece, la legittimazione dipenderà dalle condizioni in relazione alle quali, nel caso concreto, il
recesso è ammesso, ossia si tratterà di cause variabili, e non può escludersi che il diritto venga
riconosciuto ad alcuni soci e non ad altri. Non è previsto dalla legge il recesso parziale, ossia lo
scioglimento per una frazione soltanto del complesso della partecipazione del socio.
Per la liquidazione della quota del socio recedente, l’art. 2473 chiarisce che «i soci che recedono
dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del
patrimonio sociale. Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento
della dichiarazione di recesso; in caso di disaccordo la determinazione è compiuta tramite relazione
giurata di un esperto nominato dal tribunale»; il rimborso deve essere effettuato entro 180 gg dal
recesso.
2. ORGANIZZAZIONE E DECISIONE
Prima della riforma del 2003 le norme sulla s.p.a. sui poteri degli organi societari si applicavano per
analogia alla s.r.l. data l’omogeneità tra queste due forme giuridiche. Con la riforma del diritto delle
società molto è cambiato: la fisionomia degli assetti interni della società a responsabilità limitata è
stata rivisitata a partire dai modelli di riferimento organizzativo, soprattutto per quanto riguarda
l’elasticità del sistema di corporate governance e la possibilità di enfatizzare sotto diversi profili
l’attivismo dei soci, sia come gestori sia come controllori interni della società.
2.1 AMMINISTRAZIONE
Nella società a responsabilità limitata la nomina degli amministratori è affidata «a uno o più soci»
da una regola di default, come tale derogabile. In tutto e per tutto uguale a quella prevista per la s.p.a.,
e non derogabile, è, invece, la disposizione secondo la quale entro trenta giorni dalla loro nomina
gli amministratori devono chiederne l’iscrizione nel registro delle imprese indicando le loro generalità
ed a chi sia attribuita la rappresentanza della società, con ciò specificando se lo sia in via congiuntiva
o disgiuntiva. Il potere di nomina degli amministratori non può essere conferito a soggetti terzi,
come ad esempio gli enti pubblici, che non siano soci. Gli amministratori restano in carica a tempo
indeterminato salvo sia diversamente pattuito nell’atto costitutivo o nell’atto di nomina; sono
rieleggibili; nulla è detto quanto alla loro revoca, mentre è disciplinata l’ipotesi della revoca
giudiziaria che ogni socio può chiedere in caso di gravi irregolarità amministrative. Dalla legge non
sono contemplate cause di incompatibilità e ineleggibilità, sicché è eventualmente l’atto
costitutivo a dover annoverare clausole che dispongano sotto questo profilo. Riguardo al conflitto di
interessi degli amministratori della s.r.l., l’art. 2475-ter distingue due ipotesi: nei casi nei quali l’atto
in conflitto di interessi sia stato concluso dall’amministratore rappresentante in conflitto di interesse
e non sia stato preceduto da una deliberazione del consiglio di amministrazione, la società potrà
annullare il contratto provando che il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo; nei casi nei
quali invece tale deliberazione vi sia stata la società potrà annullare la deliberazione se essa sia stata
assunta con il voto determinante dell’amministratore in conflitto, causi un danno patrimoniale alla
società e sia impugnata entro novanta giorni dagli altri amministratori o se esistenti dall’organo di
controllo o dal revisore legale dei conti.
La responsabilità degli amministratori della società a responsabilità limitata è una responsabilità
solidale verso la società per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge
e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società. Solidarietà nella responsabilità significa
che ogni amministratore può essere giudizialmente chiamato a rispondere dell’intero danno nei
confronti della società, salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri amministratori nella misura
e secondo il grado della rispettiva colpa. Gli amministratori sono immuni da colpa, avendo fatto il
possibile per impedire il compimento dell’atto o comunque per eliminarne o ridurne gli effetti
dannosi.
I soci ai quali si riconduca il compimento di determinati atti di amministrazione della società sono
solidalmente responsabili con gli amministratori. Perché tale responsabilità sia loro imputabile
bisogna che abbiano «intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la
società, i soci o i terzi» (settimo comma dell’art. 2476). «L’azione di responsabilità contro gli
amministratori è promossa da ciascun socio, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità
nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori
medesimi. In tal caso il giudice può subordinare il provvedimento alla prestazione di apposita
cauzione». Dunque, ogni singolo socio, diversamente da quanto accade nella s.p.a., può attivare
l’azione sociale di responsabilità, a ulteriore conferma del carattere personalistico della s.r.l. post2003. In via interpretativa si ritiene che il socio possa anche proporre domanda di revoca
dell’amministratore, nei casi in cui si riscontrino gravi irregolarità nella gestione della società.
Infine, l’art. 2476 sul punto prevede che, «salva diversa disposizione dell’atto costitutivo, l’azione di
responsabilità contro gli amministratori può essere oggetto di rinuncia o transazione da parte
della società, purché vi consenta una maggioranza dei soci rappresentante almeno i due terzi del
capitale sociale e purché non si oppongano tanti soci che rappresentano almeno il decimo del capitale
sociale. L’approvazione del bilancio da parte dei soci non implica liberazione degli amministratori e
dei sindaci per le responsabilità incorse nella gestione sociale». Non è prevista l’azione di
responsabilità a favore dei creditori sociali, propria della disciplina della s.p.a. È invece
espressamente riconosciuta l’azione di responsabilità a favore di «singoli soci o terzi direttamente
danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori»: si tratta di un’azione per ottenere il
risarcimento del danno che sia stato patito non già come riflesso di un danno societario, bensì come
ammanco patrimoniale che il singolo socio o il singolo terzo abbiano subito in conseguenza di un atto
o di un comportamento dell’amministratore che li abbiano direttamente ed esclusivamente colpiti.
2.2 DECISIONI DEI SOCI E INVALIDITÀ
La società a responsabilità limitata si caratterizza per l’ampia autonomia statutaria riconosciuta ai
soci, che possono modellare in termini estremamente discrezionali le proprie competenze. Tale libertà
organizzativa intacca la tradizionale ripartizione tra organi tipica delle società capitalistiche
(assemblea, organo di amministrazione, organo di controllo), tanto che l’assemblea dei soci può
vedere contenuto il suo ruolo al punto di ridursi a organo solo eventuale quando si tratti di prendere
date decisioni. Si possono individuare due tipi di decisioni sulla base della natura delle competenze
che il codice civile assegna al complesso dei soci.
a) In primo luogo, sono regolate le decisioni corrispondenti a competenze attribuite ai soci
dall’atto costitutivo (art. 2479). La competenza dei soci si estende a una pluralità
indifferenziata di aspetti gestionali, prefigurandosi come una vera e propria competenza
generale.
b) In secondo luogo, sono regolate le decisioni corrispondenti a competenze inderogabilmente
attribuite ai soci dalla legge. Il secondo comma dell’art. 2479 stabilisce: «in ogni caso sono
riservate alla competenza dei soci:
1) l’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili;
2) la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori;
3) la nomina nei casi previsti dall’art. 2477 dei sindaci, del presidente del collegio
sindacale e del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti;
4) le modificazioni dell’atto costitutivo;
5) la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione
dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei
diritti dei soci».
Le decisioni devono essere adottate ricorrendo a una deliberazione assembleare; perciò, decisioni
non collegiali sono consentite solo se una clausola dell’atto costitutivo le preveda espressamente. Vi
sono però circostanze nelle quali il rispetto della procedura assembleare è necessario: anzitutto
quando le materie da deliberare sono costituite da modificazioni dell’atto costitutivo o da operazioni
che comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo
o una rilevante modificazione dei diritti dei soci (art. 2479.4). Inoltre «quando lo richiedono uno o
più amministratori o un numero di soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale».
Per il procedimento assembleare, l’art. 2479-bis stabilisce che: «L’atto costitutivo determina i modi
di convocazione dell’assemblea dei soci, tali comunque da assicurare la tempestiva informazione
degli argomenti da trattare. In mancanza la convocazione è effettuata mediante lettera raccomandata
spedita ai soci almeno otto giorni prima dell’adunanza nel domicilio risultante dal registro delle
imprese». La convocazione di norma spetta agli amministratori, e salvo diverse disposizioni
nell’atto costitutivo, il potere di rappresentanza può essere imputato a un secondo o a un terzo socio.
L’assemblea si riunisce presso la sede sociale, è regolarmente costituita con la presenza di tanti soci
che rappresentano almeno la metà del capitale sociale (quorum costitutivo) e delibera a maggioranza
assoluta (quorum deliberativo). L’assemblea è presieduta dalla persona indicata nell’atto costitutivo
o, in mancanza, da quella designata dagli intervenuti. Il presidente dell’assemblea verifica la
regolarità della costituzione, accerta l’identità e la legittimazione dei presenti, regola il suo
svolgimento e accerta i risultati delle votazioni. Le decisioni possono però essere anche prese dai soci
in contesti e forme non assembleari (opzione peculiare della s.r.l., art. 2479): emerge sotto questo
profilo un assetto regolativo che lascia spazio a soluzioni concrete multiformi, relative sia alla
sollecitazione della volontà dei soci sia alla raccolta del loro consenso, tanto alla tempistica di tale
raccolta quanto alle scelte da compiersi sui termini ai quali affidarsi per dichiarare chiusa la procedura
decisionale e definitivo il risultato del voto.
Le categorie di invalidità delle decisioni dei soci sono due ed entrambe regolate dall’art. 2479-ter.
Si sforzano di contemperare interessi contrapposti: quello dei soci a rimuovere una decisione viziata
da invalidità, per un verso, e quello della società (e dei terzi) alla stabilità del proprio assetto
decisionale. La prima categoria, che comprende le decisioni contrarie alla legge o all’atto
costitutivo, corrisponde all’insieme delle cause che secondo la disciplina della s.p.a. danno luogo
all’annullabilità delle deliberazioni assembleari. «Le decisioni dei soci che non sono prese in
conformità della legge o dell’atto costitutivo possono essere impugnate da soci che non vi hanno
consentito» (cioè da soci assenti, dissenzienti o astenuti), «da ciascun amministratore e dal collegio
sindacale entro novanta giorni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci. Nelle stesse
forme e modalità citate per prime sono impugnabili anche le decisioni viziate da conflitto di
interessi del socio, se siano state prese con suo voto determinante e siano idonee a danneggiare la
società. «Le decisioni aventi oggetto illecito o impossibile e quelle prese in assenza assoluta di
informazione possono essere impugnate da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla
trascrizione indicata nel primo periodo del primo comma», mentre sono imprescrittibili le
deliberazioni che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite. Quelle
rappresentate da ultimo costituiscono evidentemente le ipotesi di maggiore gravità, corrispondenti
alle cause di nullità delle deliberazioni della s.p.a. per quanto riguarda il riferimento all’oggetto
impossibile o illecito. È invece propria della s.r.l. l’invalidità che si realizza in caso di assenza
assoluta di informazione, mentre nella s.p.a. le delibere sono nulle quando manchi la convocazione
dell’assemblea o il verbale della sua riunione. Infine, non essendo richiamato l’art. 2379, si dubita
che possa darsi luogo alla rilevabilità d’ufficio da parte del giudice della causa di nullità.
2.3 CONTROLLI
Nella s.r.l. non è indispensabile la presenza di un organo di controllo: l’art. 2477 lo prevede solo in
via eventuale inserito nell’atto costitutivo (che deve prevederne anche competenze e poteri), ed è
generalmente monocratico. La nomina dell’organo di controllo o di un revisore è obbligatoria in tre
casi:
a) quando la società è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;
b) quando la società controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;
c) quando per due esercizi consecutivi la società ha superato i limiti entro i quali è consentito
redigere il bilancio in forma abbreviata.
Anche al socio non amministratore sono riconosciute particolari forme di controllo, in
particolare hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e
di consultare, anche tramite professionisti di fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi
all’amministrazione.
3. NUOVE FORME DI SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA
La società a responsabilità limitata semplificata (s.r.l.s.) è disciplinata dall’art. 2463-bis ed è intesa a
favorire l’organizzazione in forma societaria capitalistica di iniziative imprenditoriali che non
richiedano in partenza capitali particolarmente elevati. Si ritiene concordemente che non si tratti di
un tipo societario autonomo ma riconducibile alla s.r.l.
È peculiare della s.r.l.s.:
a) che la sua denominazione specifichi che trattasi di s.r.l. semplificata;
b) che soci possono esserne solo persone fisiche;
c) che il capitale sociale sia compreso tra 1 e 9999 euro;
d) che i conferimenti siano effettuati solo in denaro e vengano integralmente liberati al momento
della sottoscrizione;
e) che l’atto costitutivo sia redatto in conformità del modello organizzativo standard (tipizzato
dal d.m. n. 138/2012).
Le clausole del modello standard sono inderogabili. Non è perciò possibile modificare o omettere le
clausole ivi previste, pena la nullità delle indicazioni con cui sia stato integrato l’atto costitutivo. Per
quanto attiene ai profili non regolati dal modello standard si applicano, ove compatibili, le norme
che disciplinano la s.r.l. ordinaria, ma sotto la condizione che, ove il codice preveda per questa
forma societaria una regola derogabile, dovrà essere applicata questa stessa, ossia appunto la norma
di default, e non lasciare spazio all’autoregolazione discrezionale da parte dei soci. I vantaggi
derivanti dalla semplificazione e riduzione degli oneri finanziari sono fronteggiati dagli svantaggi
connessi al fatto che, data la previsione di un modello prefissato e tendenzialmente rigido, i soci
scontano una sensibile privazione nei termini della minore elasticità della quale possono giovarsi
nell’esercizio della propria autonomia statutaria.
Una s.r.l.s. può essere solo a tempo indeterminato; le decisioni dei soci devono essere assunte in
forma assembleare e le deliberazioni dei soci devono attenersi alle materie previste dal codice. Inoltre,
le funzioni gestorie devono essere riservate agli amministratori. Altri limiti alla libertà dei soci
riguardano il controllo interno della società, l’assegnazione di particolari diritti, l’introduzione di
cause di recesso statutarie e di vincoli alla circolazione delle partecipazioni.
La start-up innovativa, introdotta nell’ordinamento dal d.l. n. 179/2012, con l’obiettivo di stimolare
la crescita e lo sviluppo di nuove imprese, si tratta di una società di ridotte dimensioni in fase di
avvio con l’obiettivo di realizzare prodotti o servizi innovativi ad alto sviluppo tecnologico, e che può
assumere forme giuridiche molteplici. Tra le forme giuridiche di cui si avvalga una start-up
innovativa, quella della s.r.l. sarà la più diffusa, sia ordinaria che semplificata, anche tale da cumulare
i vantaggi delle due forme. La struttura societaria e finanziaria di una start-up innovativa presenta,
sempre nella prospettiva prima indicata di favorirne la diffusione e lo sviluppo, significative deroghe
alla disciplina ordinaria della s.r.l.:
a) È data la possibilità di creare categorie di quote fornite di diritti diversi e di determinare
liberamente il contenuto delle varie categorie: così sarà possibile incentivare una maggiore
raccolta di risorse con la partecipazione di soggetti con interessi differenziati e non
necessariamente uguali disponibilità di investimento.
b) È data la possibilità di emettere, a fronte del conferimento di opere o servizi da parte di soci
o terzi, strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi,
creando così uno strumento grazie al quale remunerare collaboratori e fornitori in forme
alternative e incentivanti.
c) È superato il divieto di effettuare operazioni sulle proprie partecipazioni.
È riconosciuta la possibilità che le quote siano oggetto di offerta al pubblico: crowdfunding, sistema
inteso alla raccolta di risorse finanziarie, di cui nella prassi esistono diverse tipologie (dal donationbased, tipicamente per le iniziative no profit, al reward-based, che prevede una ricompensa spesso
corrisposta in natura), all’equity-based, finalizzato alla raccolta di capitale di rischio. Il crowdfunding
disciplinato dal nostro ordinamento per le start-up innovative appartiene al tipo equity-based: la
società emittente (appunto la start-up innovativa) e un finanziatore si incontrano virtualmente su una
piattaforma, che funge da mediatore e che facilita la raccolta del capitale di rischio. La qualità di socio
non si acquisisce al momento del pagamento, ma occorrerà attendere il termine finale fissato per il
crowdfunding. Le partecipazioni non sono negoziabili su mercati regolamentati, sicché per loro natura
non saranno facilmente liquidabili (rischio del contributore di rimanere intrappolato
nell’investimento).
5. SOCIETÀ PER AZIONI
1. CARATTERI GENERALI
La società per azioni rappresenta il tipo più complesso e sofisticato di società di capitali: la sua origine
risale all’inizio del Seicento, come mezzo di iniziative imprenditoriali marinare contraddistinte da
ingenti investimenti finanziari. La fortuna di questa forma giuridica è in principio riferibile
all’attrattività del beneficio di limitazione della responsabilità dei soci, connessa a una struttura in
grado di diversificare la proprietà e il controllo dell’impresa. La società per azioni consente infatti
agli imprenditori dotati in partenza di capitali e idee, oltre che dei mezzi per far fruttare entrambi, di
creare volumi produttivi e di fatturato massimamente consistenti: stiamo parlando di società
potenzialmente multinazionali.
La disciplina della società per azioni tratteggiata dal codice civile del 1942 è stata modificata in più
circostanze, ma le occasioni principali sono sostanzialmente tre, e coincidono:
a) con la riforma del 1974;
b) con l’emanazione del Testo unico della finanza del 1998;
c) con la riforma del 2003 del diritto delle società non quotate. A tali occasioni può aggiungersi
l’emanazione della legge per la tutela del risparmio del 2005.
Ai sensi dell’ex art. 2247 la società in genere nasce da contratto (o da atto unilaterale), ed
esattamente che «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per
l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili». Inoltre, sulla base
dell’art. 2325 «nella società per azioni per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con
il suo patrimonio». Le obbligazioni sociali gravano sul patrimonio della società e solo su di esso: i
soci godono del beneficio della responsabilità limitata, ossia sono tenuti solo a effettuare i
conferimenti promessi, mentre i creditori possono confidare solo sul patrimonio sociale, essendo
preclusa l’aggressione ai beni personali dei soci per soddisfare le proprie pretese. Sulla base dell’art.
2346, le partecipazioni sono costituite da azioni che rappresentano frazioni omogenee del capitale
sociale, unità di misura di uguale valore e che attribuiscono uguali diritti (si parla di azioni
spersonalizzate). L’organizzazione interna della società è articolata in forma corporativa, secondo
una ripartizione per organi e uffici ai quali sono assegnate precise mansioni nell’ottica della
specializzazione delle loro funzioni e della massimizzazione dell’efficienza della macchina
imprenditoriale.
Secondo l’art. 2325-bis, sono società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le società
con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante. Il legislatore
ha realizzato uno statuto speciale per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio,
ovvero la categoria delle società aperte, costituita a sua volta da due tipologie di società:
1. Le società con azioni quotate sui mercati regolamentati;
2. Le società con azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante.
L’esistenza di queste tre tipologie societarie (aperte/emittenti azioni quotate; aperte/emittenti azioni
diffuse tra il pubblico in misura rilevante; chiuse) spiega perché nel suo complesso la disciplina della
s.p.a. annoveri disposizioni diversamente applicabili. Alle società chiuse si applica la disciplina
dettata dal codice civile; alle società quotate si applica la disciplina dettata dal Testo unico della
finanza e quella civilistica; alle società emittenti azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante si
applicano, a seconda dei casi, la disciplina civilistica, quella finanziaria o quella ricavabile da
disposizioni autonome.
1.1 COSTITUZIONE DELLA SOCIETÀ PER AZIONI
L’art. 2326 stabilisce l’unica condizione che va rispettata nell’assegnare all’ente la sua
denominazione sociale («la denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere
l’indicazione di società per azioni»): occorre quindi solo l’indicazione che si tratta di una società
per azioni, mentre non deve necessariamente comparire il nome di un socio. Per effetto di quanto
disposto dall’art. 2567, la denominazione sociale è tutelata così come lo è la ditta, tanto che una
società che abbia successivamente adottato la stessa denominazione di un’altra deve necessariamente
modificarla.
La costituzione della s.p.a. richiede una certa quantità di capitale il cui ammontare è stato abbassato
nell’anno 2014 da 120.000 a 50.000 euro.
L’art. 2328 identifica il contenuto dell’atto costitutivo, che deve contenere gli elementi
imprescindibili per la costituzione della società:
1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di costituzione,
il domicilio o la sede, la cittadinanza dei soci e degli eventuali promotori, nonché il numero
delle azioni assegnate a ciascuno di essi; voce che evidentemente è funzionale a rappresentare
le generalità dei soci fondatori, che possono anche non essere persone fisiche.
2) La denominazione e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi
secondarie. Sede della società è considerata quella amministrativa, che può essere collocata
in luogo differente rispetto a quello della sede produttiva. Secondarie sono le sedi nelle quali
siano presenti rappresentanti stabili della società, come tali in grado di svolgere in tutto e per
tutto l’attività economica.
3) L’attività che costituisce l’oggetto sociale è sovente rappresentata menzionando una
pluralità di attività economiche, tra le quali ne compaiono una di carattere principale e svariate
altre connesse.
4) L’ammontare del capitale sottoscritto e versato.
5) Il numero e l’eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteristiche e le modalità di
emissione e circolazione: il loro valore si desume dividendo l’ammontare del capitale sociale
per il numero delle azioni emesse.
6) La rappresentazione dei beni in natura, comprensiva dell’indicazione di chi li ha conferiti,
delle caratteristiche specifiche e della loro misura.
7) Le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti, disposizione che non richiede
che le regole sulla distribuzione degli utili siano necessariamente contemplate dall’atto
costitutivo. In loro mancanza, infatti, esiste una norma che provvede al proposito, ossia l’art.
2433, secondo il quale la deliberazione sulla distribuzione degli utili è adottata dall’assemblea
che approva il bilancio. In altri termini vale la regola di default per cui decide liberamente
l’assemblea, ma l’atto costitutivo potrà prevedere specificamente che una prescelta
percentuale di utili sia senz’altro distribuita, o all’opposto che non lo sia affatto.
8) I benefici eventualmente accordati ai promotori o ai soci fondatori, ossia, rispettivamente,
coloro che abbiano avuto l’iniziativa nella procedura di costituzione per pubblica
sottoscrizione, e i soci che abbiano stipulato l’atto costitutivo.
9) Il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori e i loro poteri
indicando quali tra essi hanno la rappresentanza della società: è la clausola dell’atto costitutivo
nella quale va rappresentata l’opzione che dai soci sia compiuta tra i modelli di governance
tradizionale, monistico o dualistico; e se nulla sia precisato in proposito la scelta organizzativa
s’intenderà compiuta a favore del primo tra essi.
10) Il numero dei componenti il collegio sindacale, nel rispetto dei parametri disposti dal codice
civile e del Testo unico della finanza.
11) La nomina dei primi amministratori e sindaci ovvero dei componenti del consiglio di
sorveglianza e, quando previsto, del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei
conti»; amministratori e sindaci che, successivamente, saranno nominati dall’assemblea
ordinaria dei soci. Gli amministratori possono essere soci o non soci, purché si tratti di persone
fisiche.
12) L’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico
della società, quali sono tipicamente le spese notarili e quelle di iscrizione.
13) La durata della società o, se la società è costituita a tempo indeterminato, il periodo di tempo,
comunque non superiore a un anno, decorso il quale il socio potrà recedere (se la s.p.a. sarà a
tempo determinato lo scioglimento avverrà per causa prestabilita, altrimenti per recesso dei
soci).
Lo statuto (art. 2328) contiene gli elementi fondamentali per il funzionamento della società e
costituisce parte integrante dell’atto costitutivo; in caso di contrasto, le norme in esso contenute
prevalgono sulle clausole dell’atto costitutivo. Atto costitutivo e statuto sono due documenti che
svolgono funzioni diverse, ma se sono redatti entrambi il primo contiene i dati essenziali della s.p.a.,
ossia le informazioni fondamentali riguardo all’identità della società e ai profili costitutivi che non
possono mancare affinché essa venga alla luce e inizi a operare, mentre lo statuto, è il documento in
cui in termini più analitici si possono iscrivere le «norme relative al funzionamento della società»,
ossia il modo in cui si organizza per realizzare l’attività economica secondo gli intendimenti dei propri
soci. Atto e statuto possono costituire un atto unico o atti separati, ma, a prescindere da questo,
costituiscono un atto sostanzialmente unitario.
L’art. 2329 chiarisce quali sono le condizioni minime per la nascita di una s.p.a., precisando che
«per procedere alla costituzione della società è necessario:
1) che sia sottoscritto per intero il capitale sociale;
2) che siano rispettate le previsioni degli artt. 2342, 2343 e 2343-ter relative ai conferimenti;
3) che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la
costituzione della società, in relazione al suo particolare oggetto».
Questo assetto regolativo si spiega tenendo conto di come si tratti esattamente delle condizioni
necessarie per poter iscrivere la s.p.a. nel registro delle imprese, affinché questa acquisisca la
personalità giuridica (come riporta testualmente l’art. 2331). L’iscrizione viene condizionata
all’esistenza dei mezzi che servono alla società per lo svolgimento della propria attività economica.
In altri termini l’ordinamento stabilisce come priorità ai fini dell’iscrizione che sia garantito il rispetto
del principio di effettività della dotazione strumentale della società. Il capitale sociale dev’essere
sottoscritto per intero e, quanto ai conferimenti, si prescrive che la società abbia la disponibilità
delle risorse ad essa destinate e che il loro valore corrisponda interamente al valore del capitale
sottoscritto. Inoltre, s’impone la presenza delle autorizzazioni eventualmente richieste in relazione
alla peculiarità di talune attività specifiche. Non è più richiesta la sottoposizione al giudizio di
omologazione da parte del tribunale; è invece prevista come una fase di accertamento di conformità
alla legge il controllo di un notaio (art. 2330): il legislatore ha inteso distinguere l’atto materiale di
deposito dall’effetto giuridico dell’iscrizione.
Ai sensi dell’art. 2331 «con l’iscrizione nel registro la società acquista la personalità giuridica»:
è come dire che non può venire ad esistenza una s.p.a. se non si provveda alla sua iscrizione. Per le
operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente
responsabili verso i terzi tutti coloro che hanno agito in nome della società, compresi «il socio unico
fondatore e quelli tra i soci che nell’atto costitutivo o con atto separato hanno deciso, autorizzato o
consentito il compimento dell’operazione». È una disposizione di carattere sanzionatorio, che si
sostanzia nell’imputare le conseguenze giuridiche di tali comportamenti non conformi alla legge a
chi li abbia tenuti. È vietata l’emissione delle azioni anteriormente all’iscrizione della società nel
registro delle imprese, allo scopo di tamponare eventuali operazioni di carattere meramente
speculativo.
La costituzione della società per azioni per pubblica sottoscrizione è il procedimento tramite il
quale la s.p.a. viene creata in modo non istantaneo e statico, ma continuativo e dinamico, a partire
dall’iniziativa di soggetti, definiti promotori, i quali rappresentano al pubblico il programma della
società. In base all’art. 2340 i promotori «possono riservarsi nell’atto costitutivo, indipendentemente
dalla loro qualità di soci, una partecipazione non superiore complessivamente a un decimo degli utili
netti risultanti dal bilancio e per un periodo massimo di cinque anni». La norma rileva soprattutto per
gli effetti che indirettamente produce nei confronti dei soci fondatori, per i benefici che questi possono
riservarsi.
1.2 INVALIDITÀ DELL’ATTO COSTITUTIVO E NULLITÀ DELLA SOCIETÀ PER
AZIONI
In base all’art. 2332 la nullità della s.p.a. può essere pronunciata solo in tre casi tassativamente
indicati (mentre prima del 2003 erano 8):
1) mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico;
2) illiceità dell’oggetto sociale;
3) mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della
società, o i conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale.
Tale scelta regolativa premia le esigenze di mantenimento in vita dell’ente societario e di tutela
della sicurezza giuridica dei rapporti intrattenuti coi terzi, fattori che a loro volta costituiscono un
incentivo affinché si continui a concludere affari.
Alla nullità della s.p.a. viene fatto seguire lo scioglimento della società: le cause di nullità dell’atto
costitutivo sono trasformate in cause di scioglimento della società, e l’azione di nullità è, a tutti gli
effetti, azione di scioglimento. Questo però accade nei casi in cui la s.p.a. sia già iscritta nel registro
delle imprese. Prima dell’iscrizione si applicano le regole di diritto comune relative alla nullità e
all’annullabilità del contratto (dopo l’iscrizione, invece, si applica lo speciale regime disposto
appunto dall’art. 2332): questo perché, prima dell’iscrizione, l’invalidità attiene a un contratto di
società i cui effetti giuridici si riflettono solo sui soggetti contraenti.
Ulteriori deviazioni da diritto comune per proteggere i terzi:
a) «La dichiarazione di nullità non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società
dopo l’iscrizione nel registro delle imprese»; in altri termini la nullità della società non ha
effetto retroattivo, sicché gli effetti degli atti compiuti dopo l’iscrizione non vengono meno.
b) «I soci non sono liberati dall’obbligo di conferimento fino a quando non sono soddisfatti i
creditori sociali»; in altri termini viene mantenuto l’obbligo di eseguire il conferimento.
c) «La nullità non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata e di tale
eliminazione è stata data pubblicità con iscrizione nel registro delle imprese»; in altri termini
con tale norma si deroga al principio di insanabilità del contratto nullo.
Della disciplina di diritto comune, in definitiva, restano applicabili due norme in tutto: l’art. 1421, ai
sensi del quale la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata
d’ufficio dal giudice; e l’art. 1422, per cui l’azione di nullità è imprescrittibile.
1.3 ATTO COSTITUTIVO, STATUTO E PATTI PARASOCIALI
I patti parasociali sono accordi tra i soci, e che solo i soci possono stipulare: veri e propri contratti
che i soci stipulano per vincolarsi reciprocamente a esercitare in modo conforme a quanto abbiano
ivi predeterminato i diritti che ad essi sono riconosciuti dall’atto costitutivo e dalla legge. I patti
parasociali vincolano solo i soggetti che li sottoscrivono, mentre sono privi di effetti nei confronti
della società e dei terzi. Sicché la loro violazione non comporta l’invalidità della deliberazione
assembleare che sia stata presa in ossequio al loro contenuto, ma solo l’obbligo di risarcire il danno
cagionato con tale inadempimento alle altre parti del patto. Il fine perseguito con la sottoscrizione di
ogni patto parasociale, come emerge da un inciso dell’art. 2341-bis, è quello di stabilizzare gli assetti
proprietari o il governo della società. Un accordo tra soci deve assumere le forme espressamente
previste dal codice civile:
a) sindacati di voto, si tratta degli accordi che prendono forma nel vincolo, a carico dei soci, a
consultarsi prima di esercitare il voto in assemblea, o nel vincolo a votare conformemente a
quanto sia stato deciso dalla maggioranza dei partecipanti all’accordo medesimo;
b) sindacati di blocco, si tratta degli accordi intesi a evitare che della compagine sociale
vengano a far parte, quali nuovi azionisti, soggetti non graditi;
c) sindacati di gestione, o di controllo, o ancora come patti di concertazione, si tratta degli
accordi per mezzo dei quali i soci si accordano, ad esempio, sulla misura delle partecipazioni
che rispettivamente intendono acquisire in una data società.
I patti parasociali non possono durare più di 5 anni, ma sono rinnovabili alla scadenza. Se il patto
non prevede un termine di durata, ciascun contraente ha diritto di recedere con un preavviso di
centottanta giorni. Il limite temporale alla validità dei patti parasociali è volto al fine di evitare che la
stabilizzazione delle forme di governo, o degli assetti proprietari, finisca per produrre un eccessivo
irrigidimento delle posizioni di potere. L’art. 2341-ter si occupa della pubblicità dei patti
parasociali, prescrivendo che «nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio i patti
parasociali devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea. La
dichiarazione dev’essere trascritta nel verbale e questo dev’essere depositato presso l’ufficio del
registro delle imprese.
1.4 I CONFERIMENTI
Oggetto del conferimento è quanto viene consegnato dal socio alla società per partecipare alla
formazione del patrimonio iniziale della società. È in virtù di questo contributo che il soggetto
conferente diviene azionista della società. Il valore in denaro di tutti i conferimenti, nella misura in
cui tale valore è espresso nell’atto costitutivo, rappresenta il capitale sociale della s.p.a.
Il primo comma dell’art. 2342 stabilisce che se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il
conferimento deve farsi in denaro. Per garantire l’effettività di almeno parte dell’esborso iniziale è
previsto che alla sottoscrizione dell’atto costitutivo debba essere versato presso una banca almeno il
25% dei conferimenti in denaro o, nel caso di costituzione con atto unilaterale, il loro intero
ammontare. Alla norma è sottesa una duplice ratio: oltre che quella di indurre i soci a mantenere
l’impegno che hanno preso con l’esborso iniziale, si rinviene altresì la finalità di consentire agli
amministratori di cominciare a operare da subito, potendo disporre immediatamente di un certo
ammontare di denaro. Gli amministratori potranno chiedere ai soci il versamento di quanto ancora
dovuto in ogni momento.
La regola del deposito pari al 25% non vale però per i conferimenti di beni in natura o di crediti: il
legislatore ha inteso creare le condizioni affinché la società acquisti la piena e certa disponibilità di
quanto ad essa trasmesso dai soci. Occorre cioè la contestuale consegna del bene conferito, che è
come dire che in questi casi il conferimento dev’essere effettivo e non può assumere la veste di un
più limitato impegno.
Peculiare della s.p.a. è la norma che prevede che non possano formare oggetto di conferimento le
prestazioni di opera o di servizi. La ratio che oggi si riscontra dietro questo divieto è basata su due
considerazioni:
1. si ritiene opportuno evitare che il valore dei conferimenti di opera o di servizi sia imputato a
capitale perché detti conferimenti risultano inidonei a tutelare i creditori nei casi di
inadempimento.
2. si riconduce al rischio, che vuole essere evitato, che gli amministratori non abbiano il pieno
controllo di quei fattori produttivi che sono, appunto, i conferimenti.
Con riguardo all’apporto di beni in natura o di crediti l’art. 2343 appronta un procedimento inteso a
tutelare l’esigenza di assicurare al massimo grado possibile che il complesso del capitale sociale sia
integro. Si tratta del procedimento di stima, utile affinché i conferimenti siano valutati secondo
criteri oggettivi, veritieri e conformi ai prezzi di mercato. A tale scopo chi conferisce beni in natura
o crediti deve presentare la relazione giurata di un esperto designato dal tribunale: la relazione
dev’essere allegata all’atto costitutivo.
L’esperto risponde dei danni causati alla società, ai soci e ai terzi. Fino a quando le valutazioni non
siano state controllate le azioni corrispondenti ai conferimenti sono inalienabili e devono restare
depositate presso la società. Si ha un’eccezione, cioè non è richiesto il parere di un esperto, quando
il valore dei conferimenti venga comprovato da fonti ugualmente attendibili, in circostanze
enunciate dall’art. 2343-ter.
Gli amministratori sono responsabilizzati in misura particolare con riguardo ai frangenti in cui si
verifichino fatti eccezionali o rilevanti che possano incidere sulla valutazione dei conferimenti. Se
gli amministratori ritengano che siano intervenuti proprio questi fatti, o che non siano idonei i requisiti
di professionalità e indipendenza, dovranno procedere affinché sia compiuta una nuova
valutazione.
Diversamente dovranno iscrivere nel registro delle imprese una dichiarazione contenente tutte le
informazioni fondamentali riguardo ai conferimenti.
Si parla usualmente di acquisti potenzialmente pericolosi quando si fa riferimento ai casi in cui
ricorre il rischio che la società aggiri le regole sui conferimenti viste sin qui acquistando beni da
soggetti quali i promotori, i fondatori, i soci e gli amministratori: la disposizione intesa a impedire
questa elusione è l’art. 2343-bis, ai sensi della quale l’acquisto da parte della società di beni o crediti
dei promotori, dei fondatori, dei soci o degli amministratori, per un corrispettivo pari o superiore al
decimo del capitale sociale, nei due anni dall’iscrizione della società nel registro delle imprese
dev’essere autorizzato dall’assemblea ordinaria. Il regime degli acquisti potenzialmente pericolosi si
applica se essi:
a) avvengano nei primi due anni di vita della società;
b) prevedano un corrispettivo pari o superiore al decimo del capitale sociale;
c) non avvengano a condizioni normali o comunque tali da non comportare i rischi presi in
carico da questa disciplina speciale.
Vi sono alcune preclusioni su ciò che può costituire oggetto di conferimento. Queste prestazioni
possono però affiancare l’ordinario conferimento di un socio e configurarsi quali prestazioni
accessorie: in altri termini esiste un modo per consentire alla società di avvalersi continuativamente
di prestazioni che non potrebbero essere altrimenti conferite. Il socio chiamato a prestarle viene
vincolato alla società sulla base non di un rapporto contrattuale, bensì di un’obbligazione di natura
societaria. A tal fine l’art. 2345 prevede che «oltre l’obbligo dei conferimenti, l’atto costitutivo può
stabilire l’obbligo dei soci di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in denaro,
determinandone il contenuto, la durata, le modalità e il compenso, e stabilendo particolari sanzioni
per il caso di inadempimento». Le azioni alle quali è connesso l’obbligo delle prestazioni anzidette
devono essere nominative e non sono trasferibili senza il consenso degli amministratori. Per la
modifica degli obblighi inerenti alle prestazioni accessorie si richiede l’unanimità.
1.5 LE AZIONI
L’art. 2346 stabilisce che «la partecipazione sociale è rappresentata da azioni». Colui il quale sia
titolare della partecipazione sociale è socio della società. Il numero delle azioni determina la misura
dei diritti, patrimoniali e amministrativi, spettanti al socio, ma anche dei poteri e dei doveri dei quali
il medesimo socio si deve fare carico. Dunque la partecipazione azionaria rappresenta due cose in
una: un complesso di situazioni giuridiche soggettive, nonché una frazione del capitale sociale.
Salve alcune eccezioni, la circolazione delle azioni avviene nel rispetto delle disposizioni che
regolano i titoli di credito. L’azione intesa come titolo azionario ex art. 2354, terzo comma, deve
indicare:
a) la denominazione e la sede della società;
b) la data dell’atto costitutivo e della sua iscrizione e l’ufficio del registro delle imprese dove
la società è iscritta;
c) il suo valore nominale o, se si tratta di azioni senza valore nominale, il numero complessivo
delle azioni emesse, nonché l’ammontare del capitale sociale;
d) l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate;
e) i diritti e gli obblighi particolari ad essi inerenti.
L’art. 2346 al quarto comma sancisce che «a ciascun socio è assegnato un numero di azioni
proporzionale alla parte del capitale sociale sottoscritta e per un valore non superiore a quello del
suo conferimento», e il secondo comma che «se determinato nello statuto, il valore nominale di
ciascuna azione corrisponde ad una frazione del capitale sociale»; il valore di un’azione può fare
riferimento a diverse accezioni:
a. Il valore nominale, dato dal rapporto tra il valore del capitale sociale e il numero delle azioni
emesse «in mancanza di indicazione del valore nominale delle azioni, le disposizioni che ad
esso si riferiscono si applicano con riguardo al loro numero in rapporto al totale delle azioni
emesse».
b. Il valore di emissione è quello al quale le azioni sono offerte in sottoscrizione al momento
della costituzione della società o in sede di successivi aumenti del capitale. Può essere
superiore a quello nominale e allora le azioni vengono emesse con sovrapprezzo. Il valore
complessivo di emissione delle azioni non può essere inferiore all’ammontare del capitale
sociale.
c. Il valore di bilancio si ricava dividendo il patrimonio netto per il numero delle azioni in
circolazione.
d. Il valore di mercato rappresenta il prezzo al quale le azioni sono scambiate.
L’azione rappresenta l’unità più piccola possibile di partecipazione al capitale sociale.
L’indivisibilità delle azioni non impedisce però che la società proceda a operazioni di
frazionamento e riduca il valore nominale delle azioni, così com’è possibile realizzare operazioni di
raggruppamento (andranno ad esempio in comunione ereditaria). Di per sé il frazionamento non dà
luogo a situazioni particolarmente delicate sotto il profilo della tutela dei diritti dei soci, effetto che
può invece realizzarsi quando, all’opposto, si proceda a un raggruppamento di azioni. Questa
operazione è infatti suscettibile di produrre dei resti, frazioni percentuali di azioni delle quali
dev’essere assegnata la titolarità. Per contenere circostanze del genere la giurisprudenza giudica lecito
il raggruppamento che consegua a un’operazione necessaria o utile per la società.
Avere più azioni significa essere titolari di più partecipazioni che conferiscono all’azionista, in misura
proporzionale, i diritti, i doveri e i poteri tipici di ciascun socio. Per autonomia dell’azione s’intende,
dunque, il carattere di ogni azione tale per cui ogni frazione standard del capitale sociale formalmente
dev’essere considerata come partecipazione unitaria, distinta e autonoma rispetto alle altre azioni che,
pure, appartengano al medesimo socio. Lo status dell’azionista è basato sull’uguaglianza di diritti,
sulla base dell’art. 2348 (le azioni «conferiscono ai loro possessori uguali diritti»). L’uguaglianza di
cui parliamo è dunque senz’altro oggettiva, ma non lo è sempre soggettivamente. Dal punto di vista
soggettivo, infatti, la posizione di ogni socio si riassume nella partecipazione intesa come insieme di
più azioni, dei cui diritti il socio dispone globalmente, in proporzione al numero delle azioni
possedute. L’uguaglianza dei diritti propria di ogni azione è, poi, relativa e non assoluta. Ciò nel senso
che, come riporta il secondo comma dell’art. 2348, si possono creare «categorie di azioni fornite di
diritti diversi», cioè categorie speciali di azioni.
L’uguaglianza dei diritti dovrà però essere garantita, all’interno di ciascuna categoria.
Partendo dai diritti patrimoniali, l’art. 2350 attesta che «ogni azione attribuisce il diritto a una parte
proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione, salvi i diritti stabiliti
a favore di speciali categorie di azioni». L’unico limite espresso alla libera determinazione di questo
tipo di diritti azionari riguarda il divieto del patto leonino. Il contenuto dei diritti patrimoniali propri
delle azioni di una s.p.a. può assumere forme variegate di remunerazione, quali ad esempio:
a) secondo una data proporzione rispetto agli utili conseguiti dalla società;
b) subordinatamente ai ricavi conseguiti dalla società in un dato settore della propria attività e in
proporzione rispetto a tale andamento.
Per quanto riguarda invece i diritti amministrativi, l’art. 2351 stabilisce che «Ogni azione attribuisce
il diritto di voto. Salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di
azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto
subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Il valore di tali azioni
non può complessivamente superare la metà del capitale sociale. Lo statuto può prevedere che, in
relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una
misura massima o disporne scaglionamenti» (un’azione=un voto). Rientrano tra i diritti
amministrativi anche il diritto di partecipare all’assemblea e di intervenirvi, il diritto di impugnare le
deliberazioni ecc. Sempre secondo l’art. 2351.4 «salvo quanto previsto da leggi speciali, lo statuto
può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo (…) fino a un massimo di tre voti».
Questa disposizione è stata introdotta nel 2014 con la finalità di favorire quegli azionisti che, in vista
della crescita dimensionale delle imprese, intendono ricorrere a capitali esterni senza però perdere il
controllo della società.
Le azioni correlate, disciplinate dall’art. 2050, sono le «azioni fornite di diritti patrimoniali correlati
ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore», mentre le azioni di godimento, ai sensi
dell’art. 2353, sono azioni che possono essere assegnate a seguito di un’operazione di riduzione reale
del capitale sociale, ed esistono appunto per riconoscere ai soci, che abbiano viste le proprie azioni
sorteggiate e annullate per effetto di questa operazione, qualche diritto, per quanto limitato.
L’art. 2349 disciplina le azioni a favore dei prestatori di lavoro stabilendo la possibilità per
l’assemblea straordinaria di deliberare l’assegnazione di utili ai prestatori di lavoro dipendenti dalla
società o di società controllate mediante l’emissione di speciali categorie di azioni da assegnare
individualmente ai prestatori di lavoro, con norme particolari riguardo alla forma, al modo di
trasferimento ed ai diritti spettanti agli azionisti. Se la società crea speciali categorie di azioni deve
necessariamente prevedere la costituzione di assemblee speciali, disciplinate dall’art. 2376, ai sensi
del quale «le deliberazioni dell’assemblea, che pregiudicano i diritti di una di esse, devono essere
approvate anche dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata. Alle assemblee
speciali si applicano le disposizioni relative alle assemblee straordinarie».
La disciplina dei vincoli sulle azioni è contenuta nell’art.2352, norma espressamente dedicata al
pegno, all’usufrutto e al sequestro delle azioni. Nel caso di pegno o usufrutto sulle azioni il diritto
di voto spetta, salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio o all’usufruttuario, mentre in
caso di sequestro il diritto di voto è esercitato dal custode. La norma è particolare poiché deroga
all’art. 2377 che, quale regola generale, stabilisce che il diritto di impugnazione della deliberazione
spetta solo al socio avente diritto di voto.
1.6 LA CIRCOLAZIONE DELLE AZIONI
L’art. 2354 stabilisce che «i titoli possono essere nominativi o al portatore, a scelta del socio, se
lo statuto o le leggi speciali non stabiliscono diversamente. Finché le azioni non siano interamente
liberate, non possono essere emessi titoli al portatore». La nominatività obbligatoria consente di
perseguire più agevolmente le istanze di carattere fiscale, e svolge altresì la funzione di facilitare la
conoscenza reciproca dei soci e i rapporti tra i medesimi. Mentre i titoli al portatore rappresentano un
incentivo all’investimento azionario, dal momento che così si consente al socio di tenere celato il
proprio investimento ai creditori e al fisco. La legittimazione a esercitare i diritti contenuti nel titolo
azionario e le modalità di circolazione del medesimo coincidono. Il possesso semplice e il possesso
qualificato, rispettivamente, costituiscono infatti le forme di circolazione delle azioni previste
dall’ordinamento. Il secondo comma dell’art. 2355 stabilisce che «le azioni al portatore si
trasferiscono con la consegna del titolo», e il comma successivo che «il trasferimento delle azioni
nominative si opera mediante girata autenticata da un notaio o da altro soggetto secondo quanto
previsto dalle leggi speciali. Il giratario che si dimostra possessore in base a una serie continua di
girate ha diritto di ottenere l’annotazione del trasferimento nel libro dei soci, ed è comunque
legittimato ad esercitare i diritti sociali». La circolazione delle azioni nominative avviene
legittimamente se si proceda a una doppia intestazione: sul titolo stesso e nel libro dei soci di cui
dispone la società. La sola girata, purché ricorra una serie continua, prima ancora dell’annotazione
nel libro dei soci e indipendentemente dall’assolvimento di questo onere è sufficiente affinché il socio
possa avvalersi di tutti i diritti che gli spettano quale nuovo azionista.
In tema di limiti alla circolazione delle azioni va anzitutto tenuto presente come la regola di
riferimento sia stata a lungo il divieto di impedirne il trasferimento. L’introduzione dell’art. 2355-bis
ha consentito che lo statuto vieti il trasferimento per non oltre cinque anni dalla costituzione della
società o dal momento in cui il divieto viene introdotto.
Il secondo comma dell’art. 2355-bis si occupa delle clausole statutarie di mero gradimento. Con
tale formula s’intendono le pattuizioni che subordinano il trasferimento delle azioni alla decisione
discrezionale di un organo della società. A lungo vietate, le clausole di mero gradimento dal 2003
sono consentite subordinatamente al rispetto delle condizioni tracciate. Un uguale regime viene
disposto per tutte le clausole che sottopongono a particolari condizioni il trasferimento delle azioni a
causa di morte, salvo che sia previsto il gradimento e questo sia concesso. La ratio della disciplina
è chiara: creare le condizioni affinché al socio non risulti impossibile cedere la propria partecipazione.
Non sono invece vietate, né sottoposte a una disciplina specifica, le clausole di gradimento non
mero, ossia le pattuizioni che prevedano come necessario, per acquistare la qualità di socio, possedere
requisiti (di età, sesso, professione, e così via) predeterminati e rappresentati nello statuto. Le clausole
di prelazione sono accordi che a loro volta possono essere ricondotti alla fattispecie tratteggiata dal
primo comma dell’art. 2355-bis, tramite i quali lo statuto impone al socio che intenda cedere le proprie
azioni di offrirle in vendita prima agli altri soci.
1.7 LE OPERAZIONI SULLE AZIONI
Le operazioni sulle azioni compiute dalla società sono tradizionalmente guardate con sospetto dal
legislatore e ammesse con molte cautele. Procedendo dal generale al particolare si individuano
anzitutto le operazioni che la società può compiere sulle azioni altrui, ossia sulle azioni emesse da
altra società. La disciplina che le riguarda è contenuta nell’art. 2361, che vieta alla s.p.a. la
partecipazione in altre imprese se per la misura e l’oggetto ne risulti sostanzialmente modificato
l’oggetto sociale. Tale norma è evidentemente intesa a scongiurare il rischio che gli amministratori
surrettiziamente modifichino l’ambito di operatività economica della società senza consultare i soci
e ottenere il dovuto avallo da parte dell’assemblea straordinaria. Il secondo comma regola invece
l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le
obbligazioni delle medesime; l’operazione è consentita ma viene richiesta l’approvazione da parte
dell’assemblea.
Tra le operazioni che la società compie sulle proprie azioni, si distinguono le operazioni di
sottoscrizione e di acquisto di azioni proprie: tra i vantaggi rilevano la possibilità per la società di
investire eccessi di liquidità (nei casi in cui ciò si renda opportuno), la regolarizzazione degli
andamenti di borsa che con tali operazioni è talora dato ottenere, la diversificazione del ritorno
economico garantito ai soci rispetto alla modalità della distribuzione degli utili; tra i rischi si
rinvengono l’accrescimento abnorme del potere dei soci di controllo e/o degli amministratori, la
maggiore opacità relativamente alla consistenza patrimoniale della società, il pericolo di veri e propri
fenomeni di annacquamento del capitale.
Le cautele per disciplinare queste operazioni si spingono fino al divieto di sottoscrizione di azioni
proprie, dal momento che detta sottoscrizione si realizzerebbe con un esborso, da parte della società,
compiuto con fondi propri. Per la medesima ragione è vietata anche l’omologa operazione che sia
effettuata tra due società l’una nei confronti dell’altra: la ratio è evitare una moltiplicazione
illusoria della ricchezza. La violazione del divieto di sottoscrizione di azioni proprie non implica
però la nullità dell’operazione (art. 2357-quater): se si tratta di sottoscrizione diretta, ossia di
sottoscrizione da parte della società, questa verrà invece considerata come se fosse stata effettuata dai
promotori e dai soci fondatori o dagli amministratori; se poi la sottoscrizione sia stata effettuata in
nome proprio ma per conto della società (sottoscrizione indiretta), l’operazione sarà considerata come
se fosse stata posta in essere per conto della stessa persona che l’ha compiuta e le azioni dovranno
essere liberate da questa.
Per quanto riguarda invece l’acquisto di azioni proprie, l’ammissibilità è sottoposta a 4 condizioni:
1. per evitare fenomeni pregiudizievoli nei confronti del livello del capitale sociale è necessario
che l’acquisto avvenga nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti
dall’ultimo bilancio approvato;
2. possono essere acquistate solo azioni interamente liberate; diversamente la società finirebbe
per ritrovarsi nella condizione di essere debitrice di sé stessa;
3. per le sole società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio è richiesto che il
valore nominale delle azioni proprie, ivi incluse le azioni possedute da società controllate,
non ecceda la quinta parte del capitale sociale;
4. trattandosi di un’operazione che impiega utili e riserve altrimenti disponibili per i soci, è
necessario che l’acquisto sia autorizzato dall’organo che dei soci esprime la volontà, cioè
l’assemblea, che deve fissare le modalità dell’acquisto indicando in particolare il numero
massimo di azioni da acquistare, la durata per la quale l’autorizzazione è accordata (non
superiore a diciotto mesi) e il corrispettivo massimo.
La sanzione prevista in caso di violazione delle regole menzionate è riportata dal quarto comma
dell’art. 2357: «le azioni acquistate in violazione dei commi precedenti devono essere alienate
secondo modalità da determinarsi dall’assemblea, entro un anno dal loro acquisto. In mancanza, deve
procedersi senza indugio al loro annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale. Qualora
l’assemblea non provveda, gli amministratori e i sindaci devono chiedere che la riduzione sia disposta
dal tribunale». In talune ipotesi detti limiti non si applicano; si tratta dei casi nei quali l’acquisto di
azioni proprie avvenga:
a) in esecuzione di una deliberazione dell’assemblea di riduzione del capitale, da attuarsi
mediante riscatto e annullamento di azioni;
b) a titolo gratuito, sempre che si tratti di azioni interamente liberate;
c) per effetto di successione universale o di fusione o scissione;
d) in occasione di esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito della società.
Gli amministratori non possono disporre delle azioni acquistate se non previa autorizzazione
dell’assemblea, la quale deve stabilire le relative modalità. Finché le azioni restano in proprietà della
società il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni. Il
diritto di voto è sospeso ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo della
maggioranza e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea. Una
riserva indisponibile, pari all’importo delle azioni proprie, dev’essere costituita e mantenuta finché le
azioni non siano trasferite o annullate. Altre operazioni che la società può compiere sulle proprie
azioni sono le operazioni di prestito o di garanzia per la sottoscrizione o l’acquisto di azioni proprie:
oggi, ai sensi dell’art. 2358 la possibilità esiste ma è sottoposta ad alcune condizioni.
1.8 STRUMENTI FINANZIARI E OBBLIGAZIONI
Nel 2003 sono stati introdotti nel nostro ordinamento gli strumenti finanziari partecipativi (la cui
disciplina si rinviene al sesto comma dell’art. 2346). Mentre le azioni sono emesse in cambio di
conferimenti di beni costitutivi del capitale sociale, come tali ivi immobilizzati, gli strumenti
finanziari partecipativi sono emessi in cambio di finanziamenti che non vengono imputati a
capitale sociale; la differenza che corre tra gli strumenti finanziari partecipativi e le obbligazioni è
più sfumata, ma in sostanza attiene al fatto che le obbligazioni sono titoli di massa che attribuiscono
il diritto al rimborso di una somma di denaro. Gli strumenti finanziari partecipativi vengono emessi,
come abbiamo potuto riscontrare, «a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o
servizi». Il termine “apporto” conferma la diversità tipologica rispetto al conferimento, di regola
costituito da denaro o beni in natura, ma eventualmente anche di opera o servizi. I diritti patrimoniali
potranno consistere in una remunerazione predeterminata e pagata a scadenze fisse, o in una
partecipazione agli utili. Nel novero dei diritti amministrativi rientrano il diritto di voto su
argomenti specificamente indicati e la nomina di un componente indipendente del consiglio di
amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco.
Agli strumenti finanziari partecipativi che riconoscono al titolare il diritto al rimborso del capitale si
applica anche il regime giuridico delle obbligazioni.
Le obbligazioni sono strumenti ai quali la s.p.a. può ricorrere per raccogliere capitale di credito.
Più precisamente si tratta di titoli di credito, nominativi o al portatore, che rappresentano frazioni di
eguale valore, e dotati degli stessi diritti, di un’unica operazione di finanziamento della società a titolo
di mutuo. La differenza che sussiste tra obbligazioni e azioni è della stessa natura di quella che
intercorre tra azioni e strumenti finanziari partecipativi: mentre il conferimento è imputato a capitale
sociale e costituisce capitale di rischio, l’apporto dell’obbligazionista non è imputato a capitale e
costituisce capitale di debito; quindi, la titolarità dell’azione conferisce la qualità di socio della
società, laddove la titolarità dell’obbligazione conferisce la qualità di creditore della società.
L’apporto obbligazionario è evidentemente meno pericoloso rispetto al conferimento in cambio del
quale si ottengono azioni. Emettendo obbligazioni la società si procura risorse finanziarie, per un
utilizzo che tipicamente è di medio-lungo periodo, a titolo di mutuo, e s’impegna a restituire le somme
così prese a prestito al decorrere di una scadenza predeterminata. Se la legge o lo statuto non
dispongono diversamente l’emissione di obbligazioni è deliberata dagli amministratori. I titoli
obbligazionari devono indicare:
a) la denominazione, l’oggetto e la sede della società, e l’ufficio del registro delle imprese presso
il quale la società è iscritta;
b) il capitale sociale e le riserve esistenti al momento dell’emissione;
c) la data della deliberazione di emissione e della sua iscrizione nel registro;
d) l’ammontare complessivo dell’emissione, il valore nominale di ciascun titolo, i diritti con essi
attribuiti, il rendimento o i criteri per la sua determinazione e il modo di pagamento e di
rimborso, e l’eventuale subordinazione dei diritti degli obbligazionisti a quelli di altri creditori
della società;
e) le eventuali garanzie da cui sono assistiti;
f) la data di rimborso del prestito e gli estremi dell’eventuale prospetto informativo.
La società può emettere obbligazioni al portatore o nominative per somma complessivamente non
eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti
dall’ultimo bilancio approvato; tuttavia, il limite può essere superato in alcune ipotesi
espressamente contemplate dall’art. 2412.
a) Se le obbligazioni emesse in eccedenza sono destinate alla sottoscrizione da parte di investitori
professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali;
b) Se l’emissione di obbligazioni è garantita da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà
della società, sino a due terzi del valore degli immobili medesimi.
c) Se le obbligazioni sono destinate ad essere quotate in mercati regolamentati o in sistemi
multilaterali di negoziazione o se si tratta di obbligazioni che danno il diritto di acquisire o
sottoscrivere azioni.
d) Se ricorrono particolari ragioni che interessano l’economia nazionale. La società che ha
emesso obbligazioni non può ridurre volontariamente il capitale sociale o distribuire riserve
se rispetto all’ammontare delle obbligazioni ancora in circolazione tali limiti non risultino più
rispettati.
L’assemblea degli obbligazionisti è l’organo di categoria deputato a esprimersi ogniqualvolta siano
in gioco gli interessi dei titolari; cioè quando si tratti di tutelare il prestito obbligazionario e i diritti
spettanti agli obbligazionisti. L’art. 2415 rende espressi i temi sui quali l’assemblea è chiamata a
pronunciarsi, prevedendo che essa delibera:
a) sulla nomina e sulla revoca del rappresentante comune;
b) sulle modificazioni delle condizioni del prestito;
c) sulla proposta di amministrazione controllata e di concordato;
d) sulla costituzione di un fondo per le spese;
e) sugli altri oggetti d’interesse comune degli obbligazionisti.
L’assemblea è convocata dal consiglio di amministrazione, dal consiglio di gestione o dal
rappresentante degli obbligazionisti o quando ne è fatta richiesta da un numero di obbligazionisti
che rappresenti il ventesimo dei titoli emessi e non estinti. Per la validità delle deliberazioni sulle
modificazioni delle condizioni del prestito è necessario, anche in seconda convocazione, il voto
favorevole degli obbligazionisti che rappresentino la metà delle obbligazioni emesse e non estinte.
Gli obbligazionisti dispongono di un proprio rappresentante comune, che può essere scelto al di
fuori degli obbligazionisti: se non ci provvede l’assemblea è nominato con decreto dal tribunale su
domanda degli obbligazionisti. I poteri riconosciuti al rappresentante non precludono le azioni
individuali degli obbligazionisti contro la società.
Le obbligazioni convertibili sono un tipo particolare di obbligazioni, tale per cui all’obbligazionista
è riconosciuto non solo il diritto al rimborso (con gli interessi) della somma prestata alla società,
ma anche il diritto di sottoscrivere azioni della società, a propria discrezione, i cui conferimenti
corrispondano all’ammontare del finanziamento. Il regime giuridico delle obbligazioni convertibili
prevede cioè il mutamento, in un dato momento nel tempo, della natura del rapporto da
obbligazionario ad azionario. La decisione di emettere obbligazioni convertibili, che è consentita solo
se il capitale sociale sia stato interamente versato, spetta all’assemblea straordinaria. Essa deve
determinare il rapporto di cambio, ossia l’indicazione di quante azioni spetteranno per ciascuna
obbligazione, e il periodo e le modalità della conversione. Contestualmente all’emissione la società
deve deliberare l’aumento del capitale sociale per un ammontare corrispondente alle azioni da
attribuire in cambio.
2. GLI ORGANI DELLA SOCIETÀ PER AZIONI
I sistemi di amministrazione e controllo sono tre:
1. Il sistema tradizionale, unico modello contemplato nell’ordinamento prima del 2003 e
ancora utilizzato di default se i soci non esprimono un’opzione diversa. Richiede la nomina
di tre organi: assemblea dei soci, con funzioni deliberative, l’organo amministrativo, con
funzioni gestorie, e il collegio sindacale, che ha funzioni di controllo sull’amministrazione.
2. Il sistema dualistico.
3. Il sistema monistico.
2.1 L’ASSEMBLEA DEI SOCI
L’assemblea, convocata nel comune dove ha sede la società è l’organo che riunisce tutti i soci della
s.p.a.: infatti ricopre funzioni eminentemente deliberative, anche se progressivamente il suo ruolo
è stato depotenziato. Ai sensi dell’art. 2363 l’assemblea è ordinaria o straordinaria: la diversità non
attiene alla regolarità o meno della sua convocazione, bensì all’oggetto delle deliberazioni che
l’assemblea è titolata a prendere; l’organo rimane lo stesso, ciò che cambia è il regime al quale
l’organo è sottoposto sotto il profilo dei quorum costitutivi e deliberativi e delle regole di
verbalizzazione. Un’ulteriore distinzione tipologica si ravvisa tra assemblea generale e assemblee
speciali, che però sono organi diversi. È generale l’assemblea della s.p.a. che abbia emesso solo
azioni ordinarie: in tal caso ricorre un unico organo assembleare al quale hanno diritto di partecipare
tutti i soci che dispongano del diritto di voto. Se invece, come riporta l’art. 2376, esistono diverse
categorie di azioni o strumenti finanziari che conferiscono diritti amministrativi, le deliberazioni
dell’assemblea che pregiudicano i diritti di una di esse devono essere approvate anche dall’assemblea
speciale degli appartenenti alla categoria interessata.
In base all’art. 2364, a seconda che una s.p.a. abbia adottato il sistema di amministrazione e controllo
tradizionale o dualistico, l’assemblea ha compiti diversi; mentre l’assemblea straordinaria (art.
2365) delibera sulle modificazioni dello statuto, sulla nomina, sostituzione e sui poteri dei liquidatori
e su ogni altra materia espressamente attribuita dalla legge alla sua competenza.
La riunione dell’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l’anno, anche se lo
statuto può prevedere un maggior termine quando lo richiedano particolari esigenze relative alla
struttura e all’oggetto della società. La convocazione è effettuata collegialmente dall’organo
amministrativo al quale, in determinati casi, possono sostituirsi i sindaci. Strumento di convocazione
è l’avviso (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale) contenente l’indicazione del giorno, dell’ora e del
luogo della riunione, e l’elenco delle materie da trattare. Un secondo caso di convocazione è
contemplato dall’art. 2367: gli amministratori o il consiglio di gestione devono convocare senza
ritardo l’assemblea quando ne sia fatta domanda da tanti soci che rappresentino almeno il ventesimo
del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il decimo del
capitale sociale nelle altre (o la minore percentuale che sia eventualmente prevista statutariamente),
e nella domanda siano indicati gli argomenti da trattare. La convocazione su richiesta di soci non è
ammessa per argomenti sui quali l’assemblea delibera a norma di legge su proposta degli
amministratori.
C’è chi deve partecipare all’assemblea: sono gli amministratori, i membri del consiglio di
sorveglianza, i sindaci, i componenti del comitato per il controllo sulla gestione. E c’è chi può: ai
sensi dell’art. 2370 si tratta di tutti coloro ai quali spetti il diritto di voto, il rappresentante comune
degli obbligazionisti (art. 2418), il rappresentante comune degli azionisti di risparmio (art. 147 t.u.f.)
e dei possessori di strumenti finanziari di partecipazione all’affare al quale sia destinato un patrimonio
separato (art. 2447-octies). Il diritto di intervento dev’essere riconosciuto anche ai soci il cui diritto
di voto sia stato sospeso, come gli azionisti in mora con il versamento dei conferimenti, che dunque
contribuiranno soltanto alla formazione del quorum costitutivo dell’assemblea.
Per evitare elusioni sostanziali delle regole poste a tutela del corretto procedimento di convocazione
e intervento, quali ad esempio possono rivelarsi manovre speculative o alienazioni delle azioni a
ridosso dell’assemblea, l’art. 2370 stabilisce che lo statuto può richiedere il preventivo deposito
delle azioni presso la sede sociale o presso le banche indicate nell’avviso di convocazione; può
consentire inoltre l’intervento all’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione. L’assemblea
ordinaria è regolarmente costituita quand’è rappresentata almeno la metà del capitale sociale,
escluse dal computo le azioni prive del diritto di voto. In mancanza delle formalità previste per la
convocazione l’assemblea si reputa regolarmente costituita se sia rappresentato l’intero capitale
sociale e partecipi all’assemblea la maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di
controllo. È questa l’ipotesi in cui si riunisce l’assemblea totalitaria, la quale può deliberare su
qualsiasi materia.
Il quorum costitutivo rappresenta l’ammontare di capitale che dev’essere raggiunto perché
l’assemblea possa dirsi regolarmente riunita, mentre il quorum deliberativo rappresenta la parte che
occorre raccogliere a favore di una deliberazione affinché essa sia approvata. I quorum differiscono
a seconda che si tratti di assemblea ordinaria e straordinaria, rispettivamente di prima e di
seconda convocazione (artt. 2368-69).
L’assemblea ordinaria delibera a maggioranza assoluta, mentre quella straordinaria delibera con il
voto favorevole di più di metà del capitale sociale. Se all’assemblea non è rappresentata la parte di
capitale richiesta, può esserci una seconda convocazione (non lo stesso giorno della prima), nella
quale si tratteranno gli stessi argomenti oggetto della prima. In prima convocazione – assemblea
ordinaria: occorre la presenza di tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale, e
la deliberazione è presa a maggioranza assoluta delle azioni che abbiano preso parte alla votazione;
assemblea straordinaria: non viene esplicitato il quorum costitutivo sicché esso si desume da quello
deliberativo e ne consegue che per approvare una deliberazione occorre il voto favorevole di tanti
soci che rappresentino più della metà del capitale sociale. In seconda convocazione – assemblea
ordinaria: non è previsto un quorum costitutivo sicché l’assemblea è regolarmente costituita
qualunque sia l’ammontare di capitale rappresentato in assemblea, mentre il quorum deliberativo
richiede di raccogliere il voto favorevole della maggioranza delle azioni che abbiano preso parte alla
votazione; assemblea straordinaria: il quorum costitutivo è pari a oltre un terzo del capitale sociale,
mentre quello deliberativo richiede il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato
in assemblea. Lo statuto può modificare solo in aumento le maggioranze previste per l’assemblea
ordinaria di prima convocazione e quelle dell’assemblea straordinaria, oltre a poter disporre norme
particolari per la nomina delle cariche sociali.
Il conflitto di interessi del socio, che rappresenta una forma significativa di abuso del diritto di voto,
è disciplinato dall’art. 2373: che il socio risulti titolare di un doppio interesse, personale e societario,
non è decisivo al fine di invalidare la deliberazione, né al socio è impedito di votare (com’era previsto
prima del 2003). Occorre infatti:
a) che sia raggiunta la prova di resistenza, ossia la prova che il voto del socio in posizione
conflittuale sia stato determinante agli effetti del calcolo della maggioranza;
b) che si riscontri il danno potenziale, ossia che ricorra la condizione che possa conseguire un
pregiudizio a carico della società.
Il presidente dell’assemblea viene eletto a maggioranza e assistito da un segretario; non è un ruolo
meramente formale, infatti «verifica la regolarità della costituzione, accerta l’identità e la
legittimazione dei presenti, regola il suo svolgimento ed accerta i risultati delle votazioni; degli esiti
di tali accertamenti deve essere dato conto nel verbale» (ex art. 2371).
In tema di rappresentanza dei soci nelle assemblee, è consentito l’uso di una delega per agevolare
i soci che non possano partecipare e favorire la funzionalità dell’assemblea: deve essere per iscritto
e contenere le istruzioni di voto, è sempre revocabile (nonostante ogni patto contrario) ed esiste il
limite quantitativo per cui la stessa persona non può rappresentare in assemblea più di 20 soci.
Se una deliberazione assembleare è conforme alla legge e all’atto costitutivo, cioè se si tratta di una
deliberazione valida, essa vincola tutti i soci ancorché assenti o dissenzienti: così recita il primo
comma dell’art. 2377. Le deliberazioni assembleari invalide, invece, possono essere nulle o
annullabili. A differenza di quanto è previsto dal diritto comune, nel diritto societario con una scelta
normativa motivata dall’esigenza di garantire la certezza delle deliberazioni e dell’operatività
dell’impresa, l’annullabilità, regolata dall’art. 2377, è azione generale, e costituisce la regola,
mentre la nullità, regolata dall’art. 2379, è azione speciale, e costituisce l’eccezione. La disciplina
dell’annullabilità prevede che le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello
statuto possono essere impugnate solo da alcuni soggetti determinati: si tratta dei soci assenti,
dissenzienti o astenuti, degli amministratori, del consiglio di sorveglianza e del collegio sindacale. I
soci sono peraltro sottoposti a una limitazione, intesa a contenere i rischi di impugnazioni
ostruzionistiche: l’impugnazione da parte di costoro può essere proposta solo quando essi posseggano
tante azioni aventi diritto di voto che rappresentino, anche congiuntamente, l’uno per mille del
capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il 5% nelle altre; e
si prevede altresì che lo statuto può ridurre o escludere questa soglia (il quorum di legittimazione non
può essere maggiorato). L’art. 2377 contempla poi tre ipotesi nelle quali la deliberazione non può
essere annullata:
a) per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che tale
partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea;
b) per l’invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o
l’errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della maggioranza
richiesta;
c) per l’incompletezza o l’inesattezza del verbale, salvo che esse impediscano l’accertamento
del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione.
Sono ipotesi introdotte dalla riforma del 2003 per evitare che irregolarità formali, non in grado di
condizionare la sostanza di quanto deciso, rendano invalida la deliberazione.
L’impugnazione o la domanda di risarcimento del danno sono proposte nel termine di novanta giorni
dalla data della deliberazione, o, se questa è soggetta a iscrizione nel registro delle imprese, entro
novanta giorni dall’iscrizione. L’annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci e
obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i
conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati
in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione. È ammessa la
sostituzione se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello
statuto. Il procedimento d’impugnazione, regolato dall’art. 2378, si attiva con atto di citazione. La
società viene convenuta in giudizio nella persona degli amministratori sicché se siano costoro a
impugnare la deliberazione, non potendo gli amministratori convenire sé stessi, essi dovranno
preventivamente chiedere la nomina di un curatore speciale. Con ricorso l’impugnante può chiedere
la sospensione dell’esecuzione della deliberazione. In caso di eccezionale e motivata urgenza il
presidente del tribunale provvede sull’istanza con decreto motivato; il giudice di merito, sentiti
amministratori e sindaci, provvede valutando comparativamente il pregiudizio che subirebbe il
ricorrente dall’esecuzione e quello che subirebbe la società dalla sospensione dell’esecuzione della
deliberazione. All’udienza il giudice, ove lo ritenga utile, esperisce il tentativo di conciliazione
eventualmente suggerendo le modificazioni da apportare alla deliberazione impugnata.
Si ha invece nullità delle deliberazioni, ai sensi dell’art. 2379, in tre casi tassativamente indicati:
a) Mancata convocazione dell’assemblea, tenendo conto che la convocazione non si considera
mancante in caso di irregolarità nell’avviso.
b) Mancanza di verbale, che non si considera mancante se contiene la data della deliberazione,
il suo oggetto ed è sottoscritto dal presidente dell’assemblea.
c) Impossibilità o illiceità dell’oggetto.
In tutte le ipotesi la deliberazione può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse entro tre anni
dalla sua iscrizione o dal deposito nel registro delle imprese. Non ci sono invece limiti di tempo per
le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili.
L’invalidità può anche essere ricavata d’ufficio dal giudice.
2.2 L’ORGANO AMMINISTRATIVO NEL SISTEMA TRADIZIONALE
L’art. 2380 si premura innanzitutto di precisare che ai soci è data la possibilità di scegliere la
soluzione organizzativa prediletta, così come di modificarla in itinere. Sulla base dell’art. 2380-bis
emerge la possibile presenza di doppie categorie di soggetti titolari a gestire la società:
amministratori soci e non soci, e amministratori ordinari e delegati, generalmente a seconda della
dimensione e tipologia della società. Agli amministratori, a cui spetta la gestione dell’impresa in via
esclusiva, spettano inoltre una serie di mansioni specifiche che si possono raggruppare in:
a) funzioni gestorie, consistenti nel decidere su ogni questione attinente alla vita della società;
b) funzioni di rappresentanza, consistenti nel poter assumere obbligazioni in nome e per conto
della società;
c) funzioni strumentali, a vario titolo consistenti nel dare impulso all’attività dell’assemblea,
tenere le scritture contabili e adempiere agli oneri pubblicitari di volta in volta richiesti, e così
via;
d) funzioni generali di protezione della società e prevenzione dei danni che possono colpirla,
eliminandone o attenuandone le conseguenze.
La società per azioni può essere gestita da un amministratore unico oppure, se l’amministrazione
sia affidata a più persone, da un consiglio di amministrazione. In base all’art. 2383 la nomina degli
amministratori spetta all’assemblea, fatta eccezione per i primi amministratori che sono nominati
nell’atto costitutivo. Se lo statuto non stabilisce il numero degli amministratori, ma ne indica solo un
numero massimo e minimo, la determinazione spetta all’assemblea. Normalmente gli amministratori
sono persone fisiche, ma una parte della dottrina non si esclude che la carica amministrativa possa
essere assegnata anche a una persona giuridica. Gli amministratori non possono essere nominati per
un periodo superiore a tre esercizi e scadono alla data dell’assemblea chiamata ad approvare il
bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica. Essi sono rieleggibili, salvo diversa
disposizione dello statuto, e sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati
nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore a vedersi risarciti i danni se la revoca avvenga
senza giusta causa.
Per cause di ineleggibilità (o di decadenza qualora la carica sia già stata assenta) si intendono le
condizioni personali di taluni soggetti che impediscano loro di assumere la carica di amministratore.
Ai sensi dell’art. 2382 non possono assumere tale carica: l’interdetto, l’inabilitato, il fallito e
chiunque sia stato condannato a una pena che implichi l’interdizione anche temporanea dai pubblici
uffici o l’incapacità a esercitare uffici direttivi. Sono poi previste dall’ordinamento diverse cause di
incompatibilità, che determinano l’obbligo di scegliere tra le due cariche. In base a quanto disposto
dall’art. 2387 lo statuto può poi subordinare l’assunzione della titolarità della carica di amministratore
al possesso di speciali requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza. In materia di
compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo l’art. 2389
prevede che essi siano stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea. Possono essere diversamente
composti e corrisposti: pagati una tantum o in occasione della partecipazione alle riunioni dell’organo
amministrativo, fissi o variabili (es: correlati all’andamento degli utili societari). Se non siano
prefissati, e purché gli amministratori non vi abbiano rinunciato, i compensi potranno essere stabiliti
dal giudice su ricorso degli amministratori. La remunerazione degli amministratori investiti di
particolari cariche è stabilita dal consiglio di amministrazione sentito il parere del collegio sindacale.
Le cause di cessazione degli amministratori anteriori alla scadenza del termine sono quattro:
a) La rinuncia da parte dell’amministratore. La rinunzia ha effetto immediato, se rimane in
carica la maggioranza del consiglio di amministrazione, o, in caso contrario, dal momento in
cui la maggioranza del consiglio si è ricostituita in seguito all’accettazione dei nuovi
amministratori (art. 2385).
b) La revoca da parte dell’assemblea, salvo il diritto degli amministratori al risarcimento del
danno se non sussista una giusta causa.
c) La decadenza dall’ufficio, nelle ipotesi in cui si verifichi una causa di ineleggibilità.
d) La morte.
La disciplina della sostituzione degli amministratori è prevista in relazione ai casi nei quali non si
può dare luogo a prorogatio ed è stabilita dall’art. 2386. Se nel corso dell’esercizio vengono a
mancare uno o più amministratori gli altri provvedono a sostituirli con deliberazione approvata dal
collegio sindacale, e gli amministratori così nominati restano in carica fino all’assemblea successiva.
Se invece viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in
carica devono convocare l’assemblea perché provveda alla loro sostituzione. Se, infine, cessano tutti
gli amministratori (o l’amministratore unico), il collegio sindacale deve convocare con urgenza
l’assemblea per la ricostituzione dell’organo amministrativo.
Quando l’organo amministrativo della s.p.a. è pluripersonale risulta costituito il consiglio di
amministrazione, e le funzioni che ad esso sono assegnate devono essere intese come attribuite
all’organo collegialmente considerato. La ratio della norma risiede nell’esigenza di garantire una
riflessione congiunta sugli argomenti oggetto di deliberazione da parte del consiglio. La collegialità
come metodo di lavoro del consiglio di amministrazione emerge poi in sede deliberativa; dunque, di
default il consiglio si ritiene validamente costituito quando sia soddisfatto il quorum pari alla
maggioranza degli amministratori, mentre il quorum deliberativo si considera raggiunto quando siano
raccolti i voti favorevoli della maggioranza assoluta dei presenti, voti che dunque sono calcolati per
teste. La collegialità del consiglio non implica che non possano esservi mansioni che gli
amministratori sono autorizzati a esercitare individualmente.
Gli artt. 2380-bis e 2381 disciplinano le competenze del presidente stabilendo che «il consiglio di
amministrazione sceglie tra i suoi componenti il presidente, se questi non è nominato dall’assemblea»,
e che «salvo diversa previsione dello statuto, il presidente convoca il consiglio di amministrazione,
ne fissa l’ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle
materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri». Nella prassi spesso il
presidente del c.d.a. è anche nominato quale presidente dell’assemblea e più in generale della
società, e frequentemente gli sono rilasciate deleghe gestorie, di cui il consiglio di amministrazione
determina il contenuto, i limiti e le modalità di esercizio. È consentita la delega di mansioni a un
comitato esecutivo o a uno o più membri del consiglio di amministrazione (tra i quali spesso è
annoverato anche il suo presidente); e non di rado capita che il complesso delle decisioni che
attengono all’attività quotidiana della società sia rimesso a costoro. È invece escluso che il c.d.a.
possa assegnare al comitato esecutivo o agli amministratori delegati decisioni quali l’emissione di
obbligazioni convertibili, la redazione del progetto di bilancio, l’eventuale attribuzione da parte
dell’assemblea della facoltà di aumentare il capitale ecc. L’assegnazione di deleghe corrisponde
evidentemente all’esigenza di rendere più rapida ed efficiente la fase deliberativa dell’organo
amministrativo, e di assegnare la titolarità delle decisioni alle persone che si ritengano più competenti
allo scopo specifico, dato il contesto societario di riferimento. La controindicazione è costituita dal
prodursi di una concentrazione del potere nelle mani di pochi soggetti.
Tutti gli amministratori, delegati e non, devono sottostare al divieto di svolgere attività in
concorrenza con quella della società (art. 2390). Per l’inosservanza del divieto l’amministratore
può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni. Da un lato merita segnalare che l’assemblea
può autorizzare l’attività concorrenziale, valutando i pro e i contro della maggiore libertà così
riconosciuta al proprio amministratore.
D’altro lato occorre precisare che per potersi dire concorrenziale bisogna che l’attività svolta
dall’amministratore a latere rispetto al proprio impegno societario sia in grado di avere un rapporto
concreto con questo, e che, se si tratti di attività potenzialmente concorrenziale, sia comunque
possibile individuare, un momento di effettiva contestualità con l’attività sociale.
Il potere di gestione compete agli amministratori collegialmente, e riguarda l’attività amministrativa
interna.
Il potere di rappresentanza – cioè il potere di agire non solo per conto ma anche in nome della
società: acquistare diritti e contrarre obbligazioni per questa – riguarda invece l’attività
amministrativa esterna, spetta agli amministratori individualmente e solo a coloro ai quali tale potere
sia attribuito dallo statuto.
Ai sensi del quinto comma dell’art. 2383 le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli
amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo
l’adempimento di queste forme pubblicitarie, salvo che la società provi che i terzi ne erano a
conoscenza. Si tratta dell’ipotesi della mancanza del potere rappresentativo: l’invalidità della
nomina è opponibile solo ai terzi in malafede, cioè coloro che conoscessero la causa di invalidità o la
ignorassero per colpa grave. La società è sempre vincolata dagli atti posti in essere dal
rappresentante, e non può eccepire che questi non siano pertinenti all’oggetto sociale: il terzo che
entra in contatto con la società, e negozia con essa, risulta non protetto, a fronte del rischio di non
avere contrattualmente realizzato quanto auspicato, solo nel caso in cui ricorra un suo comportamento
doloso; mentre lo è in ogni altra ipotesi. Sicché il terzo non sarà costretto a verificare se
l’amministratore, che si qualifica spendendo il nome della società, possegga effettivamente i poteri
richiesti per compiere legittimamente l’atto in questione; a tutto vantaggio della certezza del diritto e
della sicurezza nella conclusione degli affari.
L’invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione è così regolata (ex art. 2388): le
deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate
solo dal collegio sindacale e dagli amministratori assenti o dissenzienti entro novanta giorni dalla data
della deliberazione. Si applica la disciplina del procedimento di impugnazione previsto per le
deliberazioni assembleari (disposizione introdotta nel 2003). La disciplina degli interessi degli
amministratori, modificata nel 2003, riguarda le decisioni nelle quali si intreccino l’interesse della
società e gli interessi personali di un amministratore. In base all’art. 2391 l’amministratore deve dare
notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di
terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e
la portata. Perché sia impugnabile una deliberazione su cui incida l’interesse personale di un
amministratore occorre che la deliberazione possa produrre un danno a carico della società. Inoltre,
occorre che, alternativamente:
a) non sia stata data adeguata informazione circa l’interesse personale;
b) la trasparenza su questo punto sia stata garantita ma il consiglio di amministrazione o il
comitato esecutivo non abbiano fornito motivazioni sulle ragioni o sulla convenienza
dell’operazione per la società;
c) la deliberazione sia stata assunta col voto determinante dell’amministratore interessato (prova
di resistenza).
La diligenza richiesta agli amministratori nella gestione della società è quella che si può desumere
dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Si tratta della diligenza (che comprende
anche prudenza e perizia) ai sensi dell’art. 1172 secondo comma: «nell’adempimento delle
obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo
alla natura dell’attività esercitata».
La responsabilità dell’amministratore è contrattuale e discende dalla violazione di un dovere
specifico posto a suo carico dalla legge o dallo statuto (responsabilità commissiva), tale per cui sia
configurabile:
a) un preciso inadempimento;
b) un danno della società;
c) il nesso di causalità tra inadempimento e danno.
Si tratta cioè di una responsabilità per colpa, non di responsabilità oggettiva. Né può essere censurato
e quindi imputato un comportamento dell’amministratore per contrarietà a scelte gestionali ritenute
preferibili rispetto a quelle operate. La valutazione della diligenza deve infatti prescindere da
considerazioni effettuate ex post: nello svolgimento del proprio incarico l’amministratore adempie
obbligazioni di mezzi.
Quando gli amministratori sono più di uno vale la regola della solidarietà: essi sono responsabili
solidalmente, verso la società, dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti
di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite a uno o più
amministratori. La norma infatti chiarisce che, anche qualora il comportamento dannoso sia
imputabile ad amministratori delegati, gli altri amministratori saranno solidalmente responsabili se,
appunto, non abbiano saputo prevenire, impedire o attenuare il danno, violando obblighi specifici a
proprio carico o essendo comunque a conoscenza di un pregiudizio imminente per la società. Tale
responsabilità è da costoro assunta a titolo di culpa in vigilando (responsabilità omissiva); sicché,
se pure siano costretti a risarcire il danno; tuttavia, potranno agire in regresso nei confronti degli
amministratori delegati. Le azioni di responsabilità sono azioni processuali e possono essere
promosse, entro 5 anni dalla cessazione dell’amministratore in carica, in seguito a una deliberazione
dell’assemblea. L’azione sociale di responsabilità è esercitata in giudizio dai nuovi amministratori o,
se quelli contro i quali si agisce non sono stati revocati, da un curatore speciale nominato dal tribunale,
e può essere esperita anche se la società sia stata dichiarata fallita o sottoposta a liquidazione. La
deliberazione dell’azione di responsabilità importa la revoca dall’ufficio degli amministratori contro
cui è proposta, se sia presa con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale. In questo
caso l’assemblea provvede alla sostituzione degli amministratori.
L’azione di responsabilità esercitata dai soci, tipo particolare di azione sociale di responsabilità,
rappresenta una fattispecie a tutela degli azionisti di minoranza intesa a superare le inefficienze
conseguenti al fatto che l’azione sociale contro gli amministratori è fisiologicamente esperibile dalla
stessa maggioranza che quegli stessi amministratori ha nominato e che condiziona nel loro operare.
Essa può perciò essere attivata da soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la
diversa misura prevista nello statuto: non è un’azione autonoma, è surrogatoria. L’azione è cioè ad
appannaggio di una minoranza di soci, sì, ma non eccessivamente modesta, al fine di scongiurare il
rischio di azioni pretestuose. I soci che intendono promuovere l’azione nominano, a maggioranza del
capitale posseduto, uno o più rappresentanti comuni per l’esercizio dell’azione e per il compimento
degli atti conseguenti. I soci che hanno agito possono rinunciare all’azione o transigerla, e ogni
corrispettivo per la rinuncia o la transazione deve andare a vantaggio della società.
L’art. 2394 disciplina l’azione di responsabilità verso i creditori sociali stabilendo anzitutto i due
presupposti dell’azione:
a) gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi
inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale;
b) l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulti insufficiente
al soddisfacimento dei loro crediti.
Il danno patito dai creditori rappresenta una conseguenza del pregiudizio arrecato al patrimonio della
società.
Insomma, l’azione è autonoma e non surrogatoria rispetto all’azione sociale. Conseguenza è che i
creditori non potranno esercitare la propria azione se sia stata previamente esperita l’azione sociale
e, con questa, il patrimonio della società sia stato reintegrato. La transazione invece può essere
impugnata dai creditori sociali, ma soltanto con l’azione revocatoria, e quando ne ricorrono gli
estremi. L’azione di responsabilità individuale del socio e del terzo, regolata dall’art. 2395, è
esperibile, entro cinque anni dal compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo, se
costoro siano stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori, cioè da
comportamenti che abbiano violato il principio generale del neminem laedere (ex art. 2043): essa
non potrà essere esperita al fine di ottenere il risarcimento di un danno che possa dirsi derivativo
rispetto a quello subito anzitutto dal patrimonio sociale.
Infine, si consideri la disposizione (art. 2396) destinata ai direttori generali, secondo la quale le
norme che regolano la responsabilità degli amministratori si applicano anche ai direttori generali
nominati dall’assemblea o per disposizione dello statuto, in relazione ai compiti loro affidati, salve le
azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società. La figura dei dirigenti corrisponde a
funzionari gerarchicamente apicali ai quali siano affidate rilevanti mansioni gestionali. I dirigenti,
che così interconnettono l’organo amministrativo e gli uffici interni della società, se intrattengano
rapporti coi terzi assumono i tratti tipici degli institori e come tali sono soggetti alla disciplina della
rappresentanza commerciale.
2.3 I SISTEMI ALTERNATIVI DI AMMINISTRAZIONE DI CONTROLLO
I sistemi alternativi di amministrazione e controllo, che possono essere adottati solo tramite
un’apposita previsione statutaria sono intesi ad assecondare le esigenze di tipi diversi di società.
Il sistema dualistico corrisponde ai caratteri di s.p.a. di grandi dimensioni, con capitale diffuso tra
un pubblico di soci ampio e tendenzialmente non omogeneo, nelle quali chi guida la società sia
gerarchicamente sovraordinato e distante rispetto alla base azionaria, più autonomo che in altri
contesti amministrativi rispetto alle pressioni dei proprietari dell’impresa, e vigilato da un organo
ideato e introdotto ad hoc (il consiglio di sorveglianza). Il sistema monistico corrisponde ai caratteri
di s.p.a. medio-grandi nelle quali, anche in ragione della maggiore omogeneità di interessi dei
proprietari e della conseguente minore conflittualità interna, sia possibile ed efficiente avvalersi di
una struttura organizzativa più semplice ed elastica.
Nel dualistico la gestione dell’impresa spetta esclusivamente al consiglio di gestione, recita l’art.
2409-novies, il quale compie le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale. La nomina
dei consiglieri di gestione spetta al consiglio di sorveglianza (devono essere almeno 2, anche non
soci). I componenti del consiglio di gestione sono rieleggibili, salva diversa disposizione dello statuto,
e sono revocabili dal consiglio di sorveglianza in qualunque tempo. L’azione di responsabilità
contro i consiglieri di gestione è promossa dalla società o dai soci, ma può anche essere proposta con
deliberazione del consiglio di sorveglianza. La deliberazione è assunta dalla maggioranza dei membri
del consiglio di sorveglianza. La nomina dei membri del consiglio di sorveglianza spetta
all’assemblea, devono essere almeno 3 (anche non soci). I componenti del consiglio di sorveglianza
sono rieleggibili, salvo diversa disposizione dello statuto, e revocabili dall’assemblea in qualunque
tempo anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto al risarcimento dei danni quando la
revoca avviene senza giusta causa. È richiesta la nomina di un presidente, eletto dall’assemblea (e
non dal consiglio medesimo): fattore che conferisce a tale soggetto un ruolo peculiare per autonomia
e stabilità, dal momento che non è il c.d.s. a poterlo rimuovere; ed è lo statuto a determinarne i poteri.
Lo statuto può subordinare l’assunzione della carica di consigliere di sorveglianza al possesso di
particolari requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza. Non possono essere eletti alla
carica di componenti del consiglio di sorveglianza e, se eletti, decadono dall’ufficio (cause di
ineleggibilità):
a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 2382;
b) i membri del consiglio di gestione;
c) coloro che siano legati alla società, o alle società da questa controllate o a quelle sottoposte a
comune controllo, da un rapporto di lavoro o che comporti un interesse economico tale da
comprometterne l’indipendenza.
Il consiglio di sorveglianza ha compiti variegati, funzionali allo svolgimento di mansioni sia di
controllo, sia di deliberazione:
a) nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione e ne determina il compenso;
b) approva il bilancio di esercizio e il bilancio consolidato;
c) vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta
amministrazione, sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile e sul
loro concreto funzionamento;
d) promuove l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dei componenti del consiglio
di gestione;
e) presenta la denunzia al tribunale ex art. 2409;
f) riferisce per iscritto almeno una volta all’anno all’assemblea sull’attività di vigilanza svolta,
sulle omissioni e sui fatti censurabili rilevati.
Il sistema monistico invece tipicamente concentra sul consiglio di amministrazione poteri sia di
controllo, coniugati con compiti di sorveglianza sugli amministratori investiti di mansioni esecutive.
Il consiglio di amministrazione è l’organo esclusivamente deputato alla gestione della società, e
dev’essere per un terzo dei propri membri composto da soggetti in possesso dei requisiti di eleggibilità
dei sindaci indicati dal primo comma dell’art. 2399. Al consiglio di amministrazione si applicano le
disposizioni che fanno riferimento agli amministratori del sistema tradizionale. Inoltre, al c.d.a.
spettano alcune funzioni che nel sistema tradizionale sono proprie del collegio sindacale. Le
funzioni proprie del comitato sono:
a) vigilare sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo
interno e del sistema amministrativo e contabile, nonché sulla sua idoneità a rappresentare
correttamente i fatti di gestione;
b) svolgere gli ulteriori compiti affidatigli dal c.d.a., rispetto al collegio sindacale, il comitato
non è sottoposto al dovere di controllare l’osservanza della legge e dello statuto e il rispetto
dei principi di corretta amministrazione.
La determinazione del numero e la nomina dei membri del comitato spetti al consiglio di
amministrazione. Il comitato dev’essere interamente costituito da amministratori dotati dei requisiti
di onorabilità e professionalità stabiliti dallo statuto e dei requisiti di indipendenza di cui al su citato
art. 2409-septiesdecies; inoltre, almeno uno dei membri del comitato dev’essere scelto tra i revisori
legali iscritti nell’apposito registro.
2.4 IL COLLEGIO SINDACALE
Il collegio sindacale è l’organo di controllo interno del sistema tradizionale, referente della
legalità interna della società (rispetto della legge e dello statuto): un controllo di legalità sostanziale
e di efficienza che va inteso in senso ampio, spaziando dalla vigilanza sull’osservanza della legge e
dello statuto, al monitoraggio sul comportamento degli amministratori, all’adeguatezza
dell’organizzazione societaria. In conseguenza della riforma del 2003 non sono più annoverate tra le
funzioni del collegio le attività di controllo contabile, assegnate a un revisore o a una società di
revisione dei conti, con la finalità di alleggerire il carico delle mansioni dei sindaci, ma rimane un
organo i cui componenti sono eletti dall’assemblea, che nomina gli stessi amministratori. Le norme
relative ai requisiti di eleggibilità dei sindaci diminuiscono i rischi di possibili favoreggiamenti.
Infatti, l’art. 2399, dopo aver dichiarato ineleggibili:
a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 2382, afferma che non possono essere
nominati come sindaci, e se eletti decadono dall’ufficio;
b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società e
delle società da questa controllate (escludendo anche gli amministratori di queste), delle
società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo;
c) coloro che sono legati alla società o alle società da questa controllate o alle società che la
controllano o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di lavoro o da un rapporto
continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di
natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza.
La medesima norma consente poi di introdurre statutariamente altre cause di ineleggibilità o
decadenza, nonché cause di incompatibilità, e limiti e criteri per il cumulo degli incarichi. L’art. 2397
si occupa della composizione del collegio sindacale, stabilendo che il collegio dev’essere costituito
da tre o cinque membri effettivi e che devono essere nominati due supplenti. La professionalità dei
sindaci è assicurata dal fatto che almeno un membro effettivo e uno supplente vanno scelti tra i
revisori legali dei conti iscritti nell’apposito registro. Il collegio sindacale deve riunirsi almeno ogni
90 giorni e la riunione può svolgersi anche con mezzi di telecomunicazione; il quorum deliberativo
è fissato nel raggiungimento della maggioranza assoluta dei voti dei presenti.
I sindaci sono nominati per la prima volta nell’atto costitutivo e, successivamente, dall’assemblea,
e scadono alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo
esercizio della carica. Dunque, i sindaci mantengono il proprio ruolo come minimo per tre anni. La
nomina dei sindaci e la cessazione dall’ufficio devono essere iscritte nel registro delle imprese nel
termine di 30 giorni. Sono causa di cessazione dei sindaci:
a) la scadenza del termine, con effetto dal momento in cui il collegio è stato ricostituito;
b) la revoca da parte dell’assemblea, che può avvenire solo per giusta causa;
c) la rinuncia da parte del sindaco;
d) la decadenza, che può darsi quando si verifichi in itinere una causa di ineleggibilità, o qualora
il sindaco non partecipi senza giustificato motivo alle assemblee.
Per quanto riguarda la revoca, la previsione della giusta causa si spiega con l’intento legislativo di
sottoporre a un vaglio di carattere pubblico una decisione che potrebbe essere motivata da ragioni
incoerenti con gli obiettivi dei sindaci. Per quanto riguarda la rinuncia e la decadenza in tali casi
subentrano i sindaci supplenti in ordine di età; tuttavia, i nuovi sindaci restano in carica fino
all’assemblea successiva, che procederà a nominare i sindaci effettivi e supplenti necessari per
l’integrazione del collegio.
Ai sensi dell’ex art. 2403, per quanto riguarda i doveri del collegio sindacale, «il collegio sindacale
vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione
ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla
società e sul suo concreto funzionamento». La vigilanza si realizza anzitutto attraverso un controllo
di stretta legalità, nel senso che i sindaci devono verificare puntualmente se vi siano stati atti o
comportamenti illegittimi in quanto contrastanti con la legge o lo statuto, e in tal caso prendere i
provvedimenti opportuni. Non è sufficiente un controllo meramente formale: i sindaci dovranno
comunque verificare se tali scelte siano coerenti con i presupposti di correttezza amministrativa,
rispettose dei necessari profili procedurali e adottate con adeguati presidi prudenziali. Il collegio
sindacale dispone poi di poteri specifici. Alcuni tra questi servono per acquisire le informazioni
necessarie o comunque utili per l’esercizio delle proprie mansioni. Tra i poteri ispettivi si segnala,
ex art. 2403-bis, che «i sindaci possono in qualsiasi momento procedere, anche individualmente, ad
atti di ispezione e di controllo. Il collegio sindacale può chiedere agli amministratori notizie, anche
con riferimento a società controllate, sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari».
È invece un potere-dovere, regolato dall’art. 2405, quello per cui «i sindaci devono assistere alle
adunanze del consiglio di amministrazione, alle assemblee e alle riunioni del comitato esecutivo».
L’art. 2406 disciplina poteri integrativi e di supplenza del collegio sindacale in relazione ad
eventuali carenze degli amministratori, mentre l’art. 2408 regola la denuncia del collegio sindacale,
che consiste nella sollecitazione da parte dei soci di un intervento ricognitivo del collegio, una sorta
di controllo giudiziario preventivo rispetto a quello previsto dall’art. 2409: «ogni socio può
denunziare i fatti che ritiene censurabili al collegio sindacale, il quale deve tener conto della
denunzia nella relazione all’assemblea. Se la denunzia è fatta da tanti soci che rappresentino un
ventesimo del capitale sociale o un cinquantesimo nelle società che fanno ricorso al mercato del
capitale di rischio, il collegio sindacale deve indagare senza ritardo sui fatti denunziati e presentare
le sue conclusioni ed eventuali proposte all’assemblea».
Con riferimento alle responsabilità dei sindaci per il proprio operato, l’art. 2407 richiede anzitutto,
individuando un’obbligazione generica, che i sindaci adempiano ai loro doveri «con la
professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico». Sono poi previsti due doveri
specifici: i sindaci, infatti, «sono responsabili della verità delle loro attestazioni e devono
conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio».
Infine, i sindaci sono dichiarati «responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le
omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità
degli obblighi della loro carica».
2.5 IL CONTROLLO GIUDIZIARIO
Il controllo giudiziario rappresenta una forma di controllo esterno sulla s.p.a. che il tribunale può
effettuare, quando i soci ne facciano richiesta, se ricorrano i presupposti indicati dall’art. 2409. La
denuncia al tribunale costituisce uno strumento di autotutela delle minoranze nei confronti di gravi
comportamenti illegittimi tenuti dagli amministratori. Lo scopo della procedura consiste
nell’accertare le irregolarità denunciate, rimuoverne gli effetti e ripristinare il regolare funzionamento
della società.
L’art. 2409 dice che se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri,
abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o
più società controllate, i soci che rappresentano il decimo del capitale sociale possono denunziare i
fatti al tribunale con ricorso notificato anche alla società. Il tribunale non può invece procedere
d’ufficio.
La prima fase del procedimento prevede che il tribunale senta in camera di consiglio gli
amministratori e i sindaci. Quindi può ordinare l’ispezione dell’amministrazione della società;
l’ispezione può essere evitata, e il tribunale sospende per un periodo determinato il procedimento, se
l’assemblea sostituisce gli amministratori e i sindaci con soggetti di adeguata professionalità che si
attivino senza indugio per verificare se le violazioni sussistono. La seconda fase del procedimento
riguarda i casi più gravi: in tali frangenti il tribunale può revocare gli amministratori della s.p.a. e
nominare un amministratore giudiziario, determinandone i poteri e la durata.
3. MODIFICAZIONI STATUTARIE E OPERAZIONI SUL CAPITALE
L’art. 2346 regola il procedimento da seguire quando si dia luogo a un cambiamento nel contenuto
statutario. Competente a emettere deliberazioni di modifica del genere è l’assemblea straordinaria,
ex art. 2365. Ricorrono però circostanze nelle quali tale competenza è spostata in capo a un altro
organo.
a) I casi nei quali, se lo statuto lo preveda, la decisione può essere assunta dal consiglio di
amministrazione (o cds o cdg).
b) È inoltre previsto che, ai sensi dell’art. 2420-ter, lo statuto attribuisca agli amministratori la
facoltà di emettere in una o più volte obbligazioni convertibili.
c) L’art. 2443 individua un’analoga circostanza con riguardo all’aumento del capitale sociale a
pagamento.
d) Infine l’art. 2446 contempla una competenza eccezionale a deliberare la riduzione
obbligatoria del capitale sociale per perdite in capo all’autorità giudiziaria.
Originariamente le modifiche statutarie richiedevano l’omologazione da parte del tribunale, che oggi
non è più necessaria. Oggi il notaio che ha verbalizzato la deliberazione di modifica statutaria,
verificata l’osservanza delle condizioni dettate dalla legge, entro trenta giorni ne chiede l’iscrizione
nel registro delle imprese contestualmente al deposito. Se il notaio ritiene non adempiute le condizioni
stabilite dalla legge ne deve dare tempestiva comunicazione agli amministratori.
3.1 IL RECESSO
Le decisioni assembleari conformi alla legge e all’atto costitutivo vincolano, in base al principio
maggioritario, tutti i soci, abbiano essi presenziato o meno alla seduta assembleare e condiviso il
voto che ha condotto all’approvazione della deliberazione. Tuttavia, i soci di minoranza sono garantiti
con alcune modalità di salvaguardia quando si procede alla modifica dello statuto societario. In
primo luogo, tali deliberazioni richiedono il raggiungimento dei quorum rafforzati previsti dalla
disciplina dell’assemblea straordinaria. In secondo luogo, ai soci spettano anche diritti dichiarati dalla
legge come diritti indisponibili, sicché sarebbe nulla la deliberazione che avesse a oggetto una
rinuncia ad essi.
Il recesso rappresenta un istituto la cui disciplina è mutata in più circostanze: se nel codice civile del
1942, per evitare che si creassero condizioni di indebolimento personale e patrimoniale della società,
il diritto di recesso era riconosciuto in tre soli casi (modifica dell’oggetto dell’attività; trasformazione
della forma giuridica; trasferimento all’estero della sede societaria dell’impresa), più recentemente
ha prevalso un atteggiamento legislativo di maggiore attenzione nei confronti dell’esigenza dei soci
di minoranza di non rimanere prigionieri della società. Il diritto di recesso (anche parziale) viene
cioè riconosciuto quando al mutare delle condizioni esterne o interne alla società si renda
necessario procedere a modifiche organizzative di entità non ordinaria tali da alterare sensibilmente
le condizioni di rischio accettate dai soci al momento della loro entrata in affari comuni. Il primo
comma dell’art. 2347 individua le cause inderogabili di recesso, ossia quelle che non possono essere
escluse dai soci con apposita previsione statutaria. Hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle
loro azioni, i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti:
a) la modifica della clausola dell’oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo
dell’attività della società;
b) la trasformazione della società;
c) il trasferimento della sede sociale all’estero;
d) la revoca dello stato di liquidazione;
e) l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal secondo comma o dallo statuto;
f) la modifica dei criteri di determinazione del valore dell’azione in caso di recesso;
g) le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione.
Tutte queste ipotesi sono sottoposte alla regola secondo la quale è nullo il patto volto a rendere più
gravoso l’esercizio del diritto di recesso. Il secondo comma dell’art. 2347 individua le cause
derogabili di recesso, delle quali, cioè, i soci possono statutariamente disporre. Salvo che lo statuto
disponga diversamente possono recedere i soci che non abbiano concorso all’approvazione delle
deliberazioni riguardanti:
a) la proroga del termine;
b) l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari.
Inoltre, a prescindere dal fatto che il socio non abbia concorso a una determinata deliberazione, se la
società è costituita a tempo indeterminato, e le azioni non sono quotate in un mercato
regolamentato, il socio può recedere dando un preavviso pari ad almeno centottanta giorni.
Il diritto di recesso è esercitato mediante lettera raccomandata; se invece il fatto che legittima il
recesso è diverso da una deliberazione, esso è esercitato entro trenta giorni dalla sua conoscenza da
parte del socio. Il recesso scaturisce cioè da una dichiarazione unilaterale del socio, che in nessun
modo deve trovare accettazione o risposta da parte della società. Il recesso è privo di efficacia se entro
novanta giorni la società revochi la deliberazione che lo legittima (sottesa una ratio protettiva del
patrimonio della società).
Il valore di liquidazione delle azioni è determinato dagli amministratori facendo esclusivo
riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione
o ricezione dell’avviso di convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso. Il
procedimento di liquidazione prevede che gli amministratori offrano in opzione le azioni del socio
recedente agli altri soci in proporzione al numero delle azioni possedute. Qualora i soci non acquistino
in tutto o in parte le azioni del recedente gli amministratori possono collocarle presso terzi; in caso di
mancato collocamento, entro centottanta giorni dalla comunicazione del recesso, le azioni del
recedente vengono rimborsate mediante l’acquisto da parte della società, che a tale scopo deve
utilizzare riserve disponibili. In assenza di utili si dovrà deliberare per la riduzione del capitale sociale
o, se impossibile, per lo scioglimento della società.
3.2 SCIOGLIMENTO DEL CAPITALE SOCIALE
L’aumento del capitale sociale può essere reale (o a pagamento) o nominale (o gratuito).
L’aumento di capitale reale è funzionale a ottenere nuovi conferimenti e, dunque, quantità di
capitale di rischio delle quali precedentemente la società non disponeva e che servono per lo
svolgimento della propria attività: l’accrescimento patrimoniale si realizza se viene ottenuto mediante
il materiale conferimento di beni da parte di soci preesistenti o nuovi. L’aumento di capitale nominale
è invece funzionale ad alzarne il livello per ragioni connesse prevalentemente alla volontà della
società di rappresentare ai terzi un ammontare di capitale più consistente e accrescere il proprio
prestigio nei termini dell’affidabilità che tale dotazione garantisce. Se l’aumento è nominale non
vengono sollecitati nuovi conferimenti: l’aumento è detto gratuito esattamente per questo motivo, e
si realizza immobilizzando risorse altrimenti utilizzabili dalla società.
L’aumento reale di capitale, che salvo eccezioni è deliberato dall’assemblea straordinaria, non può
essere eseguito fino a quando le azioni precedentemente emesse non siano state interamente liberate,
per evitare il cumularsi eccessivo di crediti della società nei confronti dei propri azionisti. All’atto
della sottoscrizione gli acquirenti delle azioni di nuova emissione devono versare alla società almeno
il 25% del valore nominale delle azioni. Lo statuto può infatti attribuire anche agli amministratori la
facoltà di aumentare in una o più volte il capitale, purché:
a) entro un ammontare predeterminato;
b) per il periodo massimo di cinque anni dalla data dell’iscrizione della società nel registro
delle imprese.
Il verbale della deliberazione degli amministratori di aumentare il capitale dev’essere redatto da un
notaio e iscritto nel registro delle imprese. Se l’aumento di capitale si realizza avvalendosi di
conferimenti diversi dal denaro gli amministratori dovranno verificarne la valutazione.
Il diritto di opzione consiste nel riconoscimento a favore dei soci della possibilità di vedersi offerte
prima che ad altri le azioni di nuova emissione, in proporzione al numero delle azioni possedute,
per mantenere inalterato il valore in percentuale della propria partecipazione. Coloro che esercitano
il diritto di opzione godono inoltre del diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni che siano
rimaste non optate. Il diritto di opzione può essere escluso o limitato.
a) il diritto di opzione non spetta per le azioni di nuova emissione che, secondo la deliberazione
di aumento del capitale, debbano essere liberate mediante conferimenti in natura;
b) «quando l’interesse della società lo esige». Da parte di taluni autori l’interesse della società
è stato ed è ricondotto a criteri quali l’efficienza gestionale o la massimizzazione delle
prospettive di guadagno dei soci; da parte di altri autori si è ritenuto e si ritiene che per poter
escludere o limitare il diritto di opzione debba ricorrere un rapporto di necessità tra
l’abolizione del diritto di opzione e il miglior perseguimento dell’oggetto sociale.
c) può essere escluso il diritto di opzione per le azioni di nuova emissione, se queste sono offerte
in sottoscrizione ai dipendenti della società o di società che la controllano o che sono da
essa controllate. Qui le aspettative dei soci sono sacrificate a fronte dell’interesse della società
a dar vita a forme di azionariato dei propri dipendenti;
d) infine, lo statuto può altresì escludere il diritto di opzione nei limiti del 10% del capitale
sociale preesistente, a condizione che il prezzo di emissione corrisponda al valore di mercato
delle azioni.
Le proposte di aumento di capitale sociale che prevedano l’esclusione o la limitazione del diritto di
opzione devono essere illustrate dagli amministratori con apposita relazione dalla quale devono
risultare le ragioni di tale scelta e i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione. La
deliberazione in assemblea poi determina il prezzo di emissione delle azioni in base al valore del
patrimonio netto tenendo conto, per le azioni quotate in mercati regolamentati, anche dell’andamento
delle quotazioni nell’ultimo semestre.
L’aumento nominale di capitale sociale è indicato dall’art. 2442 quale passaggio di riserve a capitale
e regolato prevedendosi espressamente che l’assemblea aumenti così il capitale «imputando a
capitale le riserve e gli altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili». Il capitale viene cioè
aumentato senza fare ricorso a risorse reperibili sul mercato del capitale di rischio e senza realizzare
un accrescimento del patrimonio della società. In questo caso le azioni di nuova emissione devono
possedere le stesse caratteristiche di quelle in circolazione e ovviamente dovranno essere assegnate
gratuitamente agli azionisti in misura proporzionale alle azioni che essi già posseggano.
3.3 RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE
La riduzione del capitale sociale può essere, a sua volta, reale o nominale, a seconda che dia luogo
o meno al rimborso dei conferimenti ai soci. Sulla base dell’art. 2445 la riduzione reale consiste
nella liberazione dei soci dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti o, appunto, nella restituzione
ai soci del capitale.
L’avviso di convocazione dell’assemblea deve indicare ragioni e modalità della riduzione. La
deliberazione potrà essere eseguita soltanto dopo che siano passati novanta giorni dall’iscrizione nel
registro delle imprese purché entro tale termine nessuno tra i creditori sociali abbia fatto opposizione
(se la società presta un’idonea garanzia il giudice può disporre ugualmente l’operazione).
La riduzione del capitale nominale è un’operazione che riallinea il capitale nominale al capitale
reale quando questo sia stato eroso per via di perdite che abbiano intaccato anzitutto gli utili e le
riserve, quindi lo stesso capitale. Tale ipotesi si verifica necessariamente se risulti che esso è
diminuito di oltre 1/3 del suo ammontare: allora la riduzione è obbligatoria e gli amministratori (o
il consiglio di gestione), e in caso di inerzia da parte loro il collegio sindacale (o il consiglio di
sorveglianza), devono subito («senza indugio») convocare l’assemblea perché prenda gli opportuni
provvedimenti. All’assemblea dev’essere sottoposta una relazione sulla situazione patrimoniale della
società corredata dalle osservazioni del collegio sindacale. In caso di perdite di oltre un terzo, peraltro,
l’assemblea può decidere di ridurre immediatamente il capitale o di rinviare le perdite all’esercizio
successivo. Se poi, essendosi verificata una perdita superiore al terzo del capitale sociale, questo si
riduca altresì al di sotto del minimo legale, gli amministratori o il consiglio di gestione, e in caso
di loro inerzia il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per
deliberare la riduzione a zero del capitale e il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non
inferiore al minimo, o per deliberare la trasformazione della società in altro tipo che ammetta un
ammontare del capitale sociale di tale livello. Se non si possa dar luogo a soluzioni alternative la
società va incontro a liquidazione e scioglimento.
6. SOCIETÀ COOPERATIVA
1. CARATTERI GENERALI
La società cooperativa nasce come tipo societario volto a consentire alle classi economicamente
subalterne e svantaggiate di associarsi, per migliorare le proprie condizioni lavorative, facendosi
imprenditori di sé stessi. Le prime e principali esperienze in tal senso si registrano in Inghilterra
attorno alla metà del XIX secolo, sono animate da valori socialisti e perseguono un obiettivo
anticapitalistico.
Principi attuali dell’ordinamento italiano:
1. Le cooperative sono società (e in quanto tali ci si applica l’art. 2247) mutualistiche. Per scopo
mutualistico s’intende il fornire ai propri soci beni, servizi o occasioni di lavoro a condizioni
più vantaggiose di quelle offerte dal mercato. Anche le cooperative svolgono attività
d’impresa nel rispetto del metodo economico (pareggio del bilancio) e possono intrattenere
rapporti economici coi terzi e produrre utili: perseguono perciò il lucro in senso oggettivo, ma
non in senso soggettivo, dato che la disciplina delle cooperative contempla una serie di
limitazioni per quanto riguarda la distribuzione degli utili. Ciò che ai soci della
cooperativa può essere distribuito è, invece, il ristorno, nel quale si concretizza il vantaggio
mutualistico: può essere distribuito direttamente (ad es. nella forma di sconto sul prezzo dei
beni acquistati dai soci di una cooperativa di consumo) o in modo indiretto (cioè diviso tra i
soci alla stregua di somme di denaro corrisposte dalla cooperativa a scadenze periodiche). La
differenza rispetto all’utile risiede nel fatto che questo rappresenta la remunerazione del
capitale investito, e quindi viene distribuito in proporzione a quanto conferito, mentre il
ristorno rappresenta l’equivalente monetario del vantaggio mutualistico. E infatti secondo
l’art. 2545-sexies «l’atto costitutivo determina i criteri di ripartizione dei ristorni ai soci
proporzionalmente alla quantità e qualità degli scambi mutualistici».
2. Per la cooperativa è previsto un numero minimo di soci. In base all’art. 2522, «per costituire
una società cooperativa è necessario che i soci siano almeno nove. (…) Se successivamente
alla costituzione il numero dei soci diviene inferiore a quello stabilito, esso deve essere
integrato nel termine massimo di un anno, trascorso il quale la società si scioglie e deve essere
posta in liquidazione. La legge determina il numero minimo di soci necessario per la
costituzione di particolari categorie di cooperative». Il fatto che sia contemplato un numero
minimo di soci, e che si aggiungano a tale misura standard molteplici previsioni discendenti
dalla legislazione speciale che fissano limiti differenti, permette di capire che la cooperativa
vuole essere di tipo societario dalla base proprietaria tendenzialmente estesa e aperta, in
grado di associare non singoli soggetti bensì una categoria di persone, in possesso di
caratteristiche omogenee. È evidentemente funzionale a raggiungere obiettivi in larga misura
coincidenti il principio di variabilità del capitale sociale (art. 2511). Per variabilità del
capitale sociale s’intende – ex art. 2524 – che:
a) esso non è fissato dalla legge in un ammontare predeterminato;
b) l’ingresso di nuovi soci non comporta la necessità di modificare l’atto costitutivo.
Si facilita, in sostanza, l’ampliamento della base azionaria semplificando le procedure di
ingresso.
3. È previsto un ammontare massimo del valore della partecipazione dei soci (art. 2525),
proprio perché si vuole che la cooperativa sia un’organizzazione di massa e che l’apporto
richiesto per entrare nella compagine proprietaria dev’essere tendenzialmente uguale per tutti
i soci (numerosi ma piccoli).
4. Viene applicato il principio per cui «una testa un voto», ai sensi dell’art. 2538: «qualunque
sia il valore della quota o il numero delle azioni possedute». Principio che però può
rappresentare un disincentivo alla raccolta di capitale di rischio e un ostacolo al ricambio nella
gestione, dal momento che da parte dei soci non può nutrirsi la speranza di raccogliere quote
di partecipazione della cooperativa per pesare amministrativamente più di altri in quanto
azionisti di maggioranza. Anche per questa ragione sono previsti dei temperamenti. Le
eccezioni, oltre alla deroga per le cooperative che realizzino lo scopo mutualistico integrando
le rispettive imprese, sono le seguenti:
a) la cooperativa può attribuire ai soci cooperatori persone giuridiche più voti, ma non
oltre cinque, in relazione all’ammontare della quota o al numero dei loro membri (art.
2538);
b) la cooperativa può attribuire il diritto di voto nell’elezione dell’organo di controllo
proporzionalmente alle quote o alle azioni possedute o in ragione della partecipazione
allo scambio mutualistico (art. 2543).
2. LA STRUTTURA DELLA SOCIETÀ COOPERATIVA
La riforma del 2003 ha inciso sulla disciplina cooperativa principalmente per avere reso espressa la
distinzione tra cooperativa a mutualità prevalente e cooperativa a mutualità non prevalente.
Dal 2003 in avanti perché una società cooperativa possa dirsi a mutualità prevalente occorre che
dimostri di operare prevalentemente coi propri soci, attenendosi a parametri del codice civile. Prima
d’allora, invece, tale non semplice valutazione era oggetto di interpretazione dottrinale e
giurisprudenziale. Solo le cooperative a mutualità prevalente possono avvalersi delle variegate
agevolazioni di ordine fiscale che l’ordinamento dispone a loro favore.
Ai sensi dell’art. 2512 «sono società cooperative a mutualità prevalente, in ragione del tipo di
scambio mutualistico, quelle che:
1) svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o
servizi;
2) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle prestazioni
lavorative dei soci;
3) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli apporti di beni o
servizi da parte dei soci».
Affinché la cooperativa possa beneficiare delle agevolazioni fiscali è non solo necessario che sia
iscritta in un apposito albo curato dal Ministero dello sviluppo economico, ma anche che l’iscrizione
sia contemplata in un’apposita sezione che questa tipologia di cooperative annovera e rappresenta,
sezione dalla quale la cooperativa è cancellata ogniqualvolta perda la qualifica della prevalenza; e in
caso di omissione o ritardo di questa comunicazione la sanzione consiste nella sospensione di ogni
attività della società. L’art. 2513 esplicita i criteri per la definizione della prevalenza prescrivendo
che gli amministratori e i sindaci documentino la condizione di prevalenza nella nota integrativa al
bilancio, evidenziando contabilmente parametri che attestino che il valore dei rapporti intrattenuti coi
soci della cooperativa è superiore al valore dei rapporti avuti con soggetti terzi.
Infine, l’art. 2514 stabilisce così i requisiti delle cooperative a mutualità prevalente, necessari
affinché la società possa essere iscritta nell’apposita sezione dell’albo delle società cooperative: «le
cooperative a mutualità prevalente devono prevedere nei propri statuti:
a) il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali
fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato;
b) il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in
misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi;
c) il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori;
d) l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale,
dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici
per la promozione e lo sviluppo della cooperazione».
Considerato che la disciplina della società cooperativa non copre ogni profilo regolativo relativo
all’attività di tali società, la normativa cooperativa, al netto dell’ampia legislazione speciale dedicata
a società mutualistiche appartenenti a tanti e vari settori, riproduce in larga misura la disciplina
prevista per la s.p.a. e la s.r.l., ove compatibile (art. 2519-20).
L’atto costitutivo, da redigere in forma pubblica, deve contenere l’indicazione specifica dell’oggetto
sociale con riferimento ai requisiti e agli interessi dei soci; i requisiti, le condizioni e la procedura per
l’ammissione di nuovi soci, e il modo in cui devono essere eseguiti i conferimenti; le condizioni per
l’eventuale recesso o per l’esclusione del socio; nonché le regole per la ripartizione degli utili e i
criteri per la ripartizione dei ristorni. Del tutto uguale a quella prevista per la s.p.a. è poi la disciplina
sui conferimenti, salvo per il fatto che, per i conferimenti in denaro, non è richiesto il versamento
iniziale del 25% presso un istituto di credito.
Inoltre, dopo la cancellazione nel 2003 della differenza tra cooperative a responsabilità limitata e
illimitata, l’art. 2518 può affermare che nelle società cooperative per le obbligazioni sociali risponde
solo la società col suo patrimonio. La cooperativa emette azioni o quote a seconda che la disciplina
applicabile sia quella del tipo s.p.a. o s.r.l., mentre l’acquisto è sottoposto a regole più permissive.
L’ammissione di nuovi soci è condizionata dalla variabilità del capitale sociale. Per quanto viga il
principio per cui l’ingresso di nuovi soci non comporta la necessità di modificare l’atto costitutivo,
l’entrata di costoro a far parte della compagine proprietaria è filtrata da un giudizio di coerenza con
lo scopo mutualistico e l’attività economica svolta dalla cooperativa. È l’atto costitutivo a stabilire i
requisiti per l’ammissione dei nuovi soci, nonché la relativa procedura. L’ammissione di un nuovo
socio consegue a una deliberazione degli amministratori presa su domanda dell’interessato. Il
consiglio di amministrazione, entro sessanta giorni, deve motivare l’eventuale rigetto della
domanda comunicandolo all’interessato.
L’art. 2530 scandisce con chiarezza le regole sulla trasferibilità della partecipazione sociale,
prevedendo che azioni o quote dei soci cooperatori non possano essere cedute con effetto nei confronti
della società senza l’autorizzazione degli amministratori. L’eventuale provvedimento di diniego va
motivato, e il socio potrà presentare opposizione al tribunale; qualora l’atto costitutivo vieti la
cessione della quota o delle azioni il socio può recedere dalla società, con preavviso di novanta giorni,
però non prima che siano decorsi due anni dall’ingresso del socio nella società. Il socio cooperatore
può recedere dalla società, oltre che in questa ipotesi, nei casi previsti per la s.r.l. e la s.p.a., a
seconda della disciplina applicabile. La dichiarazione di recesso dev’essere trasmessa con
raccomandata alla società.
L’esclusione del socio si verifica in caso di mancato pagamento di azioni o quote, come s’è visto,
nonché:
a) nei casi previsti dall’atto costitutivo;
b) per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale,
dal regolamento o dal rapporto mutualistico;
c) per mancanza o perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla società;
d) nei casi previsti per le società di persone.
L’esclusione dev’essere deliberata dagli amministratori o dall’assemblea, e contro tale decisione il
socio può opporsi entro sessanta giorni. In caso di morte del socio gli eredi hanno diritto alla
liquidazione della quota o al rimborso delle azioni, ma l’atto costitutivo può prevedere che gli eredi
provvisti dei requisiti per l’ammissione alla società subentrino nella partecipazione del socio
deceduto. La liquidazione della quota o il rimborso delle azioni ha luogo, entro 180 giorni
dall’approvazione del bilancio, sulla base del bilancio dell’esercizio in cui si sono verificati il recesso,
l’esclusione o la morte del socio, secondo i criteri stabiliti nell’atto costitutivo. Il socio che cessi di
far parte della società risponde verso di essa per il pagamento dei conferimenti non versati per un
anno dal giorno in cui il recesso, l’esclusione o la cessione della quota si sia verificata.
Nel 1992 la l. n. 59 introdusse istituti inediti di finanziamento: figura dei soci sovventori e delle
azioni di partecipazione cooperativa. A favore di questa categoria di soci possono essere riservate
condizioni di favore sotto il profilo della ripartizione degli utili e della liquidazione di azioni o quote;
le azioni di partecipazione cooperativa sono privilegiate sotto il profilo patrimoniale, ma prive del
diritto di voto. Il privilegio patrimoniale consiste in una partecipazione agli utili maggiorata ex lege
del 2% rispetto a quanto pagato ai soci cooperatori, nel diritto di prelazione sul rimborso del capitale
e nel fatto che le perdite incidono solo per la parte che eccede il valore nominale complessivo delle
altre azioni o quote. Inoltre la l. n. 59/1992 introdusse nel nostro ordinamento i fondi mutualistici
per la promozione e lo sviluppo della cooperazione affinché le attività di sostegno economico alla
cooperazione fossero protette da una disciplina loro dedicata. Questo principio è stato però superato
dalla riforma societaria del 2003, che ha immesso nel sistema un modello cooperativo unitario in
cui la funzione sociale della cooperativa si esprime in ogni caso attraverso il perseguimento da parte
della società della mutualità quale causa e scopo del contratto sociale: questo consente alla
cooperativa di agire sul mercato con un grado di concorrenzialità rispetto alle società lucrative
decisamente superiore rispetto a quello di cui godeva nel passato.
Anche le cooperative possono emettere obbligazioni, in linea con quanto previsto per le s.p.a.
3. GLI ORGANI DELLA SOCIETÀ COOPERATIVA
In base al principio «una testa un voto» le maggioranze richieste per la costituzione delle assemblee
e per la validità delle deliberazioni sono determinate dall’atto costitutivo e calcolate secondo il
numero dei voti spettanti ai soci. Per quanto riguarda le deleghe, nelle cooperative disciplinate dalle
norme sulla società per azioni ciascun socio può rappresentare sino a un massimo di dieci soci; inoltre,
il socio imprenditore individuale può farsi rappresentare anche dal coniuge, dai parenti entro il terzo
grado e dagli affini entro il secondo che possano dirsi collaboratori dell’impresa. L’atto costitutivo
della società cooperativa può prevedere lo svolgimento di assemblee separate anche in rapporto
all’esigenza di deliberare su specifiche materie, oltre che per la presenza di particolari categorie di
soci. Inoltre, il loro svolgimento dev’essere senz’altro previsto quando la cooperativa abbia più
di tremila soci. Le deliberazioni dell’assemblea generale possono essere impugnate (ex art. 2377)
anche dai soci assenti/dissenzienti nelle separate, quando senza i voti dei delegati delle assemblee
separate irregolarmente tenute verrebbe meno la maggioranza richiesta per la validità della
deliberazione. Per quanto riguarda il c.d.a. (art. 2542), la nomina degli amministratori spetta
all’assemblea dei soci, fatta eccezione per i primi amministratori che sono nominati nell’atto
costitutivo, mentre la maggioranza degli amministratori è scelta tra i soci cooperatori, o tra le persone
indicate dai soci cooperatori persone giuridiche, l’atto costitutivo può prevedere che uno o più
amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie dei soci, la nomina di uno o più
amministratori è attribuita dall’atto costitutivo allo Stato o ad altri enti pubblici, fermo restando che,
in ogni caso, la nomina della maggioranza è riservata all’assemblea.
La nomina del collegio sindacale è obbligatoria nei casi previsti dal secondo e terzo comma dell’art.
2477 (cioè se la cooperativa abbia un capitale sociale pari o superiore a quello previsto per la s.p.a.;
se sia tenuta alla redazione del bilancio consolidato; se controlli una società tenuta alla revisione
legale dei conti; se per due esercizi consecutivi superi due dei limiti indicati dall’art. 2435-bis),
nonché quando la società emetta strumenti finanziari non partecipativi. Per la nomina dell’organo di
controllo l’atto costitutivo può stabilire che i voti spettino proporzionalmente alle azioni o quote
possedute o «in ragione della partecipazione allo scambio mutualistico» (deroga al principio una
testa=un voto).
Tra i poteri dei soci, rientrano delle forme di controllo diretto: una minoranza qualificata può
chiedere l’accesso e l’esame di un’ampia documentazione. Quanto al controllo giudiziario si prevede
che i fatti pregiudizievoli contemplati dall’art. 2409 possano essere denunciati al tribunale dai soci
che siano titolari del decimo del capitale sociale o da un decimo del numero complessivo dei soci.
Peculiari delle cooperative è la loro sottoposizione alle autorizzazioni, alla vigilanza e agli altri
controlli sulla gestione previsti dalle leggi speciali. Il d.lgs. n. 220/2002 ha devoluto al Ministero
dello sviluppo economico la titolarità delle funzioni di vigilanza, che si esplicano attraverso attività
di revisione cooperativa e di ispezione straordinaria. Le revisioni cooperative devono avvenire
almeno ogni due anni e devono corrispondere a due ordini di obiettivi:
a) fornire agli organi di amministrazione «suggerimenti e consigli per migliorare la gestione
ed il livello di democrazia interna, al fine di promuovere la reale partecipazione dei soci alla
vita sociale»;
b) «accertare, anche attraverso una verifica della gestione amministrativo-contabile, la natura
mutualistica dell’ente».
Le ispezioni straordinarie sono invece disposte dal Ministero sulla base:
a) di programmati accertamenti a campione;
b) di esigenze di approfondimento delle risultanze della revisione cooperativa;
c) ogni qualvolta se ne ravvisi l’opportunità.
È invece il codice civile a regolare la gestione commissariale, disponendo che, in caso di irregolare
funzionamento della cooperativa l’autorità di vigilanza possa revocare amministratori e sindaci
e affidare la gestione della società a un commissario, determinandone i poteri e la durata. Al
commissario per determinati atti possono essere conferiti anche i poteri dell’assemblea, ma le relative
deliberazioni non sono valide senza che sia ottenuta l’approvazione dell’autorità di vigilanza. Se
questa accerta irregolarità nelle procedure di ammissione dei nuovi soci può diffidare la società
cooperativa. Inoltre, l’autorità può sciogliere le cooperative che non perseguano lo scopo
mutualistico o non siano in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono state costituite.
Per quanto riguarda la disciplina delle riserve, queste sono funzionali al perseguimento dello scopo
mutualistico sicché la loro protezione ha a che vedere con la tutela dell’identità stessa della
cooperativa. Per questo si prevede che qualunque sia l’ammontare del fondo di riserva legale
dev’essere a questo destinato almeno il 30% degli utili netti annuali. Sono indivisibili le riserve che
per disposizione di legge o dello statuto non possono essere ripartite tra i soci neppure in caso di
scioglimento della società (art. 2545-ter).
Infatti, le riserve indivisibili possono essere utilizzate, esclusivamente per la copertura di perdite,
solo se si siano esaurite le riserve che la società aveva destinato a operazioni di aumento di capitale e
quelle che possono essere ripartite tra i soci in caso di scioglimento della società. Ciò conferma la
ratio secondo la quale esse assolvono funzioni non solo anti-lucrative ma anche di protezione e
promozione del fenomeno cooperativo. Esse, infatti, possono essere utilizzate per le necessità della
cooperativa purché in tal modo non si dia luogo a una distribuzione indiretta degli utili ai soci. Quanto
alle riserve divisibili, invece, la ripartizione tra i soci è deliberata dall’assemblea e normalmente
avviene in denaro, nei casi disciplinati dal codice:
a) tramite l’emissione degli strumenti finanziari previsti dall’art. 2526;
b) con aumento proporzionale delle quote sottoscritte e versate, o mediante l’emissione di nuove
azioni nella misura massima complessiva del 20% del valore originario.
Passando agli utili, una quota degli utili netti annuali deve essere corrisposta ai fondi mutualistici.
L’assemblea determina la destinazione degli utili non diversamente assegnati, mentre l’atto
costitutivo indica le modalità e la percentuale massima di ripartizione dei dividendi tra i soci
cooperatori.
Le società cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente possono deliberare, con il voto
favorevole di almeno la metà dei soci della cooperativa, la trasformazione in un qualunque tipo
societario, di capitali o di persone, e persino in un tipo consortile. La deliberazione spetta
all’assemblea straordinaria e dev’essere adottata con il voto favorevole di almeno la metà dei soci
della cooperativa. All’esito della trasformazione gli strumenti finanziari con diritto di voto sono
convertiti in partecipazioni ordinarie, conservando gli eventuali privilegi. La deliberazione di
trasformazione devolve ai fondi mutualistici il valore effettivo del patrimonio esistente alla data di
trasformazione, dedotti il capitale versato e rivalutato e i dividendi non ancora distribuiti,
eventualmente aumentato fino a concorrenza dell’ammontare minimo del capitale della nuova
società.
Le cause di scioglimento della società cooperativa, individuate per rinvio alla disciplina delle società
di capitali (art. 2484) sono:
a) decorso del termine;
b) conseguimento dell’oggetto sociale o impossibilità di conseguirlo;
c) scioglimento di diritto della cooperativa per la mancata reintegrazione del numero minimo
dei soci entro un anno da quando questo è sceso al di sotto del minimo legale;
d) impossibilità di funzionamento o continuata inattività dell’assemblea;
e) deliberazione dell’assemblea;
f) altre cause previste dall’atto costitutivo o dallo statuto.
La cooperativa si scioglie altresì nei citati casi in cui l’autorità di vigilanza provveda in tal senso. Le
società cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento; la
dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e, viceversa.
7. ALTRE SOCIETÀ DI CAPITALI
1. SOCIETÀ UNIPERSONALI
La s.p.a. unipersonale è stata introdotta nel nostro ordinamento in occasione della riforma societaria
del 2003, mentre la legittimità della s.r.l. unipersonale è più risalente (1993, aggiornata nel 2003).
La società unipersonale consente di guardare al mezzo societario come a uno strumento per lo
svolgimento dell’attività d’impresa del quale la pluralità dei soci rappresenta una componente non
indispensabile. Dal punto di vista dell’unico socio invece la società unipersonale assume importanza
come strumento per frazionare il proprio patrimonio, destinarlo ad attività differenti
diversificando le responsabilità imputabili a ciascuna sua componente. In una società unipersonale
manca il concorso di più soggetti, ma ciò accade appunto solo nel momento iniziale.
La s.p.a. unipersonale è dunque, come d’altronde l’omologa s.r.l., una società di capitali il cui unico
socio può beneficiare del regime di responsabilità limitata. Il socio della s.p.a unipersonale viene
privato di tale beneficio se si verificano due circostanze eccezionali e come tali contemplate dal
secondo comma dell’art. 2325: l’unico socio di s.p.a. assume responsabilità illimitata in situazioni
obiettivamente identificabili ed esattamente:
a) quando i conferimenti non siano stati interamente liberati come richiesto dalla norma che
espressamente ne disciplina il versamento;
b) fino a quando non sia stata realizzata la pubblicità propria della s.p.a. unipersonale
regolata dall’art. 2362.
Si tratta di una responsabilità sussidiaria del socio, il cui patrimonio personale potrà essere aggredito
dai creditori sociali solo dopo che sia stato infruttuosamente escusso il patrimonio della società;
l’unico socio è tenuto a rispondere in solido con coloro che hanno agito. Infine, per garantire la
massima trasparenza possibile nei rapporti tra società e unico socio (ultimo comma art. 2362) il socio
non può considerare personale, in quanto uscito dal patrimonio sociale, un bene acquistato dalla
propria società se non sia certa l’anteriorità della vendita rispetto all’azione esecutiva del creditore
sociale.
Nella s.r.l. unipersonale a tutela dei terzi sono disposti due ordini di cautele:
a) quando l’intera partecipazione appartiene a un solo socio o muta la persona dell’unico socio,
gli amministratori devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese una
dichiarazione contenente le generalità dell’unico socio (art. 2470);
b) il capitale sottoscritto dev’essere interamente versato, e se la pluralità dei soci viene meno
successivamente i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro novanta giorni da
tale evento (art. 2464).
Se queste condizioni non sono rispettate il socio risponde personalmente e illimitatamente delle
obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui sia stato unico socio.
Di fatto gli amministratori delle società di capitali unipersonali coincidono con l’unico socio, che è
dunque amministratore unico. Ciò accade in quanto nella prassi le società unipersonali sono
utilizzate come strumenti di razionalizzazione degli assetti proprietari all’interno di strutture di
gruppo. La definizione dell’assetto di governo incontra però alcuni limiti: non si può parlare di unico
azionista quando le azioni siano divise in due classi delle quali l’una sia costituita da azioni prive del
diritto di voto, né se si tratti di azioni a voto limitato o condizionato. È invece possibile che il socio
unico si circondi di soggetti associati in partecipazione o di soggetti titolari di strumenti finanziari
partecipativi il socio unico realizza così forme di collaborazione endosocietaria, si procura capitali
e mantiene la propria posizione di primo piano gestorio: non si crea necessariamente una condizione
di dominio assoluto del socio unico.
Il funzionamento dell’assemblea è tale per cui essa permane quale organo formale, di cui sono, però,
senz’altro svilite la collegialità e l’imperatività del procedimento: va concluso che la s.r.l. è il tipo più
congruo per applicare un assetto monosocietario.
2. SOCIETÀ IN ACCOMANDITA PER AZIONI
Si tratta di una società costituita da soci appartenenti a due categorie differenti: i soci
accomandatari, amministratori e illimitatamente responsabili, e i soci accomandanti, responsabili nei
limiti di quanto conferito. Differentemente dalla s.a.s., la s.a.p.a. è una società di capitali, «le quote
di partecipazione dei [cui] soci sono rappresentate da azioni» (art. 2452). Infine, secondo l’art. 2454,
«alla società in accomandita per azioni sono applicabili le norme relative alla società per azioni, in
quanto compatibili con le disposizioni seguenti». Le diversità rispetto all’altra accomandita, ossia la
s.a.s. attengono, anzitutto, alla natura del tipo societario: mentre l’accomandita semplice è una
società di persone della quale fanno parte, per così dire eccezionalmente, soci a responsabilità limitata
(gli accomandanti), l’accomandita per azioni è una società di capitali nella quale la peculiarità è
costituita dalla presenza di soci a responsabilità illimitata (gli accomandatari) che, proprio perché
assumono tale responsabilità, sono di diritto amministratori. Inoltre, del complesso della disciplina
giuridica applicabile alla s.a.p.a., il numero decisamente maggiore di disposizioni appartiene al
novero regolativo proprio della società per azioni. Anche il regime della responsabilità ad assolvere
a funzioni non coincidenti nei due tipi: mentre nella s.a.s. la responsabilità illimitata degli
accomandatari svolge eminentemente una funzione garantista nei confronti dei creditori sociali, nella
s.a.p.a. la loro responsabilità illimitata è strumentale a garantire le migliori condizioni per una
corretta ed efficiente gestione dell’impresa.
I poteri di nomina e revoca delle cariche sociali sono sottratti all’alveo delle competenze
dell’assemblea ordinaria e imputati all’assemblea straordinaria: tale fattore necessariamente
richiede una tendenziale stabilità nelle opinioni dei proprietari, nonché il previo raggiungimento
di consenso, e in questo modo le minoranze qualificate godono di poteri di veto non esercitabili
altrove.
Chi siano i soci accomandatari, ossia i soci che di diritto sono amministratori e vengono assoggettati
agli obblighi degli amministratori della società per azioni, è un elemento che deve emergere dall’atto
costitutivo, come richiesto dall’art. 2455. Uno tra questi soci deve essere nominato anche altrove
dato che «la denominazione della società è costituita da nome di almeno uno dei soci accomandatari,
con l’indicazione di società in accomandita per azioni» ci dice l’art. 2453, disposizione che serve ai
terzi affinché siano posti nella condizione di identificare con immediatezza a quali soggetti, in quanto
gestori dell’impresa, tocca sopportare una responsabilità illimitata idonea a sua volta a garantire il
congruo adempimento delle obbligazioni contratte dalla società nei loro confronti. Dagli artt. 2452
e 2455 emerge che accomandanti e accomandatari rappresentano categorie di soci che differiscono
per il solo fatto che i secondi sono, oltre che soci, anche amministratori, e che la qualità di socio e di
amministratore deve necessariamente coincidere.
Inoltre, se nell’accomandita semplice gli amministratori rispondono illimitatamente in ragione di una
responsabilizzazione che dipende dalla partecipazione sociale, nell’accomandita per azioni la loro
responsabilità non inerisce alla partecipazione dal momento che essa grava sul socio
accomandatario solo a partire dalla nomina come amministratore e viene meno se e da quando
tale carica venga meno.
Rispetto alla disciplina dell’assemblea di società per azioni si notano le seguenti differenze
macroscopiche:
a) anzitutto vi sono competenze proprie dell’assemblea ordinaria della s.p.a. che nella s.a.p.a.
sono ad appannaggio dell’assemblea straordinaria: si pensi alla nomina del sostituto del socio
accomandatario cessato, nonché alla revoca degli accomandatari;
b) alcune competenze, riferibili all’assemblea della s.p.a. e solo ad essa, viceversa nella s.a.p.a.
sono condivise dagli accomandatari, il cui consenso è necessario.
Lo scioglimento della s.a.p.a. è regolato dalle disposizioni previste per le società per azioni, ma si
aggiunge un’ulteriore causa: il venir meno di tutti gli accomandatari e, in conseguenza, il mancato
funzionamento dell’organo amministrativo per sei mesi. Ai sensi dell’art. 2458, infatti, «in caso di
cessazione dall’ufficio di tutti gli amministratori, la società si scioglie se nel termine di centottanta
giorni non si è provveduto alla loro sostituzione e i sostituti non hanno accettato la carica». In questo
periodo l’ordinaria amministrazione è affidata dal collegio sindacale a un amministratore provvisorio,
il quale peraltro non diviene socio accomandatario per il fatto di vedersi assegnato l’incarico.
3. SOCIETÀ EUROPEA
Per un verso la s.e. è stata concepita per dare un impulso al processo di uniformazione delle regole
del diritto dell’impresa di ogni Stato membro dell’Unione europea; per altro verso la disciplina ad
essa dedicata è stata condizionata dallo stato di avanzamento del processo di armonizzazione del
diritto societario europeo, condotto nel corso di decenni da parte delle istituzioni comunitarie. Le
stesure preliminari del progetto, poi confluito nel regolamento CE n. 2157/2001, furono prodotte in
un periodo in cui non erano ancora state implementate le misure di armonizzazione che sarebbero
state realizzate con molteplici e successive direttive di diritto societario europeo. L’auspicato
successo del tipo societario s.e. avrebbe dovuto indurre i legislatori nazionali a porre le condizioni
affinché i soci di una s.e. potessero aderire a una data iniziativa imprenditoriale in posizioni di
sostanziale uguaglianza rispetto a quelle dei soci appartenenti a ordinamenti dotati di sistemi di
diritto societario anche differenti. Sulla base di tali premesse la società europea avrebbe dovuto
aiutare a superare le remore alla condivisione di piani cross-border e alla costituzione di società
intese a realizzare progetti imprenditoriali sovranazionali.
Il legislatore comunitario ha reagito alle condizioni del processo di armonizzazione in un modo che,
a sua volta, ha condizionato la stesura della disciplina della società europea. In una prima fase la
disciplina della società europea fu contemplata quale trama normativa esaustiva e autosufficiente. Le
esigenze di integrazione con il sistema di diritto societario previsto dai vari ordinamenti erano intese
a essere escluse o comunque marginalizzate. In una seconda fase la reazione nei confronti del basso
grado di uniformazione fu realizzata implementando uno statuto di società europea pensato quale
contenitore di alcune almeno tra le best practices di governo societario individuabili dal punto di vista
teorico e condivise dalla maggioranza degli Stati membri: perciò manca una disciplina ad hoc di
diverse materie. Si è assistito quindi, tra gli anni 70 e 80, a una progressiva riduzione dello spazio
di intervento dello statuto di s.e. e, con esso, delle prospettive di effettiva elaborazione di una
disciplina materiale di diritto uniforme.
Come riporta l’art. 1 del regolamento n. 2157/2001, la società europea è una società di capitali,
dotata di personalità giuridica, il cui capitale è diviso in azioni, e i cui soci rispondono solo nei
limiti del capitale sottoscritto: la s.e. è trattata in ogni Stato membro come una società per azioni
costituita in conformità della legge dello Stato in cui essa ha la sede e la gerarchia delle fonti della
sua disciplina, espresse nell’art. 9, contemplano nell’ordine:
a) le disposizioni del regolamento;
b) le disposizioni dello statuto della s.e., con riguardo alle materie disciplinate dal regolamento;
c) per le materie non disciplinate dal regolamento, le disposizioni di legge adottate dagli Stati
membri in applicazione di misure comunitarie concernenti specificamente la s.e. e in
subordine le disposizioni di legge degli Stati membri che si applicherebbero a una società per
azioni costituita in conformità della legge dello Stato membro in cui la s.e. ha la sede sociale.
La s.e. si costituisce secondo le modalità particolari di una società di secondo grado, che scaturisce
in forma eminentemente aggregativa di enti già operativi sul piano sovranazionale. Modalità che a
loro volta confermano la filosofia sottesa a questa forma giuridica, funzionale a realizzare operazioni
fusionali cross-border. La costituzione della società europea può dunque avvenire come segue:
a) per fusione di più società per azioni o s.e. delle quali almeno due abbiano sede effettiva in
Stati membri differenti;
b) per trasformazione di una società per azioni avente da almeno due anni un’affiliata (cioè
non solo una sede secondaria) in uno Stato membro diverso da quello della sua sede effettiva;
c) per costituzione di una s.e. holding da parte di società per azioni, s.e. e società a
responsabilità limitata almeno due delle quali abbiano la sede effettiva in Stati membri distinti
o abbiano da almeno due anni un’affiliata in uno Stato membro diverso da quello della loro
sede effettiva;
d) per costituzione di una s.e. affiliata da parte di società (ai sensi dell’art. 48, secondo
comma, del Trattato CE), s.e. o altre entità giuridiche di diritto pubblico o privato almeno due
delle quali abbiano la sede effettiva in Stati membri distinti.
Ai sensi dell’art. 12 la s.e. deve iscriversi in un apposito registro nello Stato membro in cui ha sede:
dunque l’iscrizione è oggetto di pubblicità. Per dar luogo all’iscrizione, è necessario aver raggiunto
un accordo sulle modalità di coinvolgimento dei lavoratori dipendenti della s.e.
Il trasferimento non dà luogo a scioglimento né a costituzione di una nuova persona giuridica, e
consente risparmi nei costi amministrativi oltre che vantaggi di ordine fiscale. Anche la struttura
organizzativa non subisce alterazioni per il trasferimento di sede, e sono previste misure di protezione
anche per gli azionisti che si sono pronunciati contro il trasferimento. Infine, è stabilito che prima che
l’autorità competente rilasci il predetto certificato la s.e. debba fare in modo che gli interessi dei
creditori e dei titolari di altri diritti nei confronti della s.e. (inclusi quelli di enti pubblici) siano stati
adeguatamente tutelati, in ottemperanza a quanto stabilito dallo Stato membro nel quale la s.e. aveva
la sede sociale originaria. La pubblicazione dell’avvenuta iscrizione rende la nuova sede sociale
opponibile ai terzi.
L’assemblea generale delibera nelle materie per le quali le è attribuita una competenza specifica
dal regolamento o dalle disposizioni di legge dello Stato membro in cui la s.e. ha la propria sede. Il
regolamento demanda all’assemblea la nomina degli amministratori, mentre l’organizzazione, lo
svolgimento e le procedure di voto sono perciò sottoposte alle disposizioni nazionali. L’organo
amministrativo può essere dualistico o monistico, possibilità che originariamente rendeva la s.e.
appetibile sotto il profilo organizzativo interno dato che, sino alla riforma del diritto societario del
2003, tali opzioni non erano disponibili nel nostro ordinamento. Nel sistema dualistico l’organo di
direzione gestisce la s.e. sotto la propria responsabilità mentre l’organo di vigilanza controlla la
gestione ma non può esercitare esso stesso il potere di gestione della s.e. Il sistema monistico è
costituito dal solo organo di amministrazione, che a sua volta gestisce la s.e. Lo statuto può prevedere
che una società o altra entità giuridica sia membro di un organo, e in tal caso i poteri dell’organo
devono essere esercitati da un rappresentante persona fisica. Le ineleggibilità e incompatibilità dei
membri dei diversi organi della s.e. si devono desumere dalla normativa nazionale.
Il contesto in cui vige il principio di sussidiarietà, la società europea può oggi rappresentare lo
strumento per scegliere l’ordinamento più favorevole per svolgere una data attività economica.
L’opzione per il tipo societario s.e. consente, in sostanza, di operare l’arbitraggio normativo per
realizzare i propri obiettivi di mobilità transfrontaliera. Si tratta di valutare se le aspirazioni
originariamente nutrite nei confronti del tipo s.e. possano essere vanificate dal processo di
concorrenza tra ordinamenti giuridici innescato da una serie di importanti sentenze della Corte di
giustizia europea (sentenza Centros, 1999; sentenza Uberseerung, 2002; sentenza Inspire Art, 2005)
sulla libertà di stabilimento delle società di capitali. Per lungo tempo la libertà di stabilimento
societaria fu tutelata semplicemente sulla base del principio di non discriminazione fissato dall’art.
43 del Trattato della Comunità europea (ora art. 49 del Trattato dell’Unione), secondo il quale uno
Stato membro non può comportarsi con i cittadini di altri Stati in modo diverso da come si comporta
con i propri. Si trattava di una prospettiva meramente nazionale della tutela della libertà di
trattamento, non sottoposta ad eccezioni. In una fase successiva però furono introdotte delle
restrizioni, nel rispetto di 4 condizioni: se tali provvedimenti
a) si applichino in modo non discriminatorio;
b) siano giustificati da motivi di interesse pubblico;
c) siano idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito;
d) non vadano oltre quanto necessario per il raggiungimento dello scopo medesimo.
Queste sentenze incidono su uno scenario regolativo che conosce e applica, a seconda degli Stati di
riferimento, due teorie differenti. La teoria dello Stato di costituzione, o dell’incorporazione,
prevede che, alla società che svolga la propria attività imprenditoriale in almeno due Stati differenti,
mediante la costituzione di una sede secondaria, si applichi il diritto dello Stato ove è avvenuta la
propria costituzione. La teoria della sede reale prevede che a quella società si applichi, invece, il
diritto dell’ordinamento dello Stato in cui essa ha la sua sede amministrativa effettiva, ossia il proprio
centro decisionale. La fortuna della teoria dell’incorporazione consegue al fatto che l’Inghilterra per
secoli si è profilata come esportatrice di diritto attraverso le sue colonie. Al contrario la teoria della
sede reale si sviluppa prevalentemente negli Stati dell’Europa continentale più attenti a impedire che
valori giuridici stranieri penetrino nel loro ordinamento.
Con il tramonto della teoria della sede reale, segnato dalle citate sentenze, si è sviluppato il processo
di competizione tra Stati per modellare ordinamenti appetibili da parte di imprenditori che
intendano svolgere attività economiche a livello sovranazionale. Ed è, questo, il noto fenomeno della
concorrenza tra ordinamenti giuridici: ciò a sua volta costituisce un incentivo affinché gli Stati
rendano il proprio ordinamento quanto più attraente possibile agli occhi degli imprenditori.
8. BILANCIO, REVISIONE LEGALE DEI CONTI, PATRIMONI DESTINATI
1. BILANCIO
Il bilancio di esercizio, sottoposto all’approvazione dell’assemblea ordinaria (art. 2364, proprio a tal
fine l’assemblea dev’essere convocata almeno una volta l’anno), fotografa la situazione e
l’andamento della società. Quindi la sua presentazione in assemblea rappresenta anche il momento
cruciale nel quale i soci valutano l’operato della società stessa e di chi l’amministra. È un
documento complesso perché, pur valendo il principio di unità del bilancio, esso è costituito da tre
documenti:
a) lo stato patrimoniale;
b) il conto economico;
c) la nota integrativa.
I primi due documenti hanno natura strettamente contabile, il terzo ha invece una natura illustrativa
dei contenuti degli altri. Il bilancio espone le voci che costituiscono il reddito e il capitale della società
e le sue funzioni corrispondono esattamente alle proprietà dei due documenti principali che lo
compongono:
a) rappresentare il valore del patrimonio sociale;
b) rappresentare l’ammontare degli utili distribuibili alla chiusura dell’esercizio.
Ai sensi dell’art. 2423 «il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo
veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico
dell’esercizio». Fatta salva la clausola generale, il codice esplicita le regole pratiche in materia di
redazione del bilancio, ovvero:
a) I principi generali:
1. Prudenza, principio che si traduce nel non sovrastimare gli elementi attivi e non
sottostimare gli elementi passivi, tenendo conto cautelativamente delle diminuzioni di
valore che possono verificarsi, dei costi che potrebbe risultare necessario sostenere,
delle spese giudiziali che non è escluso si debbano affrontare, e così via.
2. Continuità dell’attività d’impresa, principio per cui si deve ragionare calcolando
che i beni da valutare non saranno distolti dall’attività d’impresa, ma continueranno a
essere destinati al processo produttivo in cui essa si realizza.
3. Prevalenza della sostanza (economica) sulla forma (giuridica), ovvero il principio
secondo il quale la valutazione delle voci dev’essere effettuata tenendo conto della
funzione economica dell’elemento attivo o del passivo considerato.
4. Competenza, che impone di attribuire le attività e le passività agli esercizi di
spettanza, indipendentemente dalle entrate e dalle uscite di cassa. Esemplifica bene
l’applicazione di questo principio la disciplina dei ratei e dei risconti.
5. Il principio della valutazione separata degli elementi eterogenei delle singole voci.
6. Continuità dei criteri di valutazione, che impone omogeneità nelle tecniche di
iscrizione al fine di rendere confrontabili i bilanci di esercizi successivi e consentire
così di maturare giudizi corretti sull’andamento di medio-lungo periodo dell’attività
d’impresa; eventuali modifiche devono essere adeguatamente illustrate e motivate
nella nota integrativa.
b) I criteri specifici: lo stato patrimoniale (formato ad es. dal capitale sociale, frazione
indisponibile del patrimonio sociale; nonché la riserva legale, costituita da parte degli utili di
esercizio, ugualmente indisponibile e non utilizzabile nemmeno per aumenti gratuiti di
capitale) può essere pensato come una fotografia statica della situazione patrimoniale e
finanziaria della società al momento della chiusura dell’esercizio. La struttura del conto
economico (tra cui i ricavi delle vendite, i costi per le materie prime, interessi attivi e
passivi…) evoca invece una rappresentazione dinamica e indica i profitti e le perdite di
esercizio. A proposito di entrambi l’art. 2423-ter prevede una serie di criteri di redazione
specifici da cui si evince che le voci vanno riportate secondo l’ordine indicato e rispettando
la scansione per categorie rappresentata dal codice, con la concessione di scostamenti rispetto
al modello, da giustificarsi espressamente in nota integrativa, solo a favore della maggiore
chiarezza che così il bilancio acquisisca.
I principi contabili sono elaborati anche dagli organismi internazionali con l’obiettivo di favorire
una maggiore omogeneizzazione e quindi una più facile confrontabilità delle informazioni
finanziarie. Il riferimento è in particolare all’International Accounting Standards Board (IASB) che
ha approvato gli International Financial Reporting Standards (IFRS), adottati obbligatoriamente
dalle società che presentano il bilancio consolidato, dalle società emittenti azioni quotate sui mercati
regolamentati e da altre società che svolgano attività particolari (come quella bancaria). Sottolineano
l’esigenza di individuare sul piano internazionale standard condivisi che consentano di uniformare le
tecniche di redazione dei bilanci e di eliminare i confini (e i poteri) delle giurisdizioni nazionali.
Anche la direttiva comunitaria 2013/34/UE, recepita con d.lgs. n. 136/2015, è stata adottata a sua
volta per avvicinare i criteri contabili comunitari ai principi elaborati in sede internazionale. Tale
direttiva si era posta l’obiettivo di aumentare la chiarezza e la comparabilità dei bilanci, al
contempo semplificando gli oneri amministrativi a vantaggio soprattutto delle imprese di dimensioni
minori. Significativa è anche l’introduzione di una nuova categoria di soggetti, le microimprese, per
le quali vengono ammesse ulteriori semplificazioni nella redazione del bilancio rispetto a quelle già
previste dall’ordinamento nazionale.
La nota integrativa, che costituisce parte del bilancio, chiarisce e dettaglia un lungo elenco di voci
rappresentate nello stato patrimoniale e nel conto economico, illustrando e giustificando i criteri
adottati e gli eventuali scostamenti dai medesimi, a cominciare dai criteri applicati nella valutazione
delle voci del bilancio e concludendosi con le informazioni relative al valore equo.
La relazione sull’andamento della gestione costituisce un allegato esterno al bilancio che funge da
resoconto della medesima; ai sensi dell’art. 2428 essa deve rappresentare un’analisi fedele,
equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell’andamento e del risultato della
gestione, considerati nel loro complesso nonché in relazione ai vari settori nei quali la società abbia
operato (anche avvalendosi di società controllate), con particolare riguardo ai costi, ai ricavi e agli
investimenti, e deve altresì contenere una descrizione dei principali rischi e fattori di incertezza ai
quali la società è esposta. Il dato per cui la relazione costituisce un allegato al bilancio, e non una sua
parte costitutiva, dovrebbe rassicurare sul fatto che, in caso di violazione delle norme sulla sua
redazione, non si determini la nullità del bilancio; ma non tutta la dottrina è d’accordo con questa
conclusione. È consentito redigere il bilancio in forma abbreviata quando ricorrono
contestualmente le seguenti due condizioni:
a) la società non abbia emesso titoli negoziati nei mercati regolamentati;
b) nel primo esercizio o successivamente per due esercizi consecutivi non abbia superato due tra
i seguenti limiti:
1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 4.400.000 euro;
2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 8.800.000 euro;
3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 50 unità.
Gli amministratori sono responsabili per quanto attestato dal bilancio: anche se dev’essere
approvato dall’assemblea dei soci (o dal consiglio di sorveglianza delle società che adottino il sistema
dualistico), detta approvazione non libera gli amministratori per le responsabilità incorse nella
gestione sociale. A essere esatti, dunque, gli amministratori redigono un progetto di bilancio, che
diviene ufficialmente tale solo a seguito e in conseguenza dell’approvazione da parte dell’assemblea
dei soci.
Il collegio sindacale deve riferire all’assemblea sui risultati dell’esercizio sociale e sull’attività svolta
nell’adempimento dei propri doveri, e fare le osservazioni e le proposte in ordine al bilancio e alla
sua approvazione. Il bilancio deve restare depositato in copia presso la sede della società, assieme
alle relazioni degli amministratori, dei sindaci e dell’incaricato della revisione legale dei conti, nei
quindici giorni che precedono l’assemblea (e finché sia approvato), in modo che i soci possano
prenderne visione. Entro trenta giorni dall’approvazione gli amministratori devono depositare una
copia del bilancio presso il registro delle imprese corredato dalle relazioni e dal verbale
dell’assemblea (o del c.d.s.). Nelle s.r.l. non è necessaria una riunione assembleare onde approvare
il bilancio: è sufficiente che gli amministratori lo predispongano e lo sottopongano ai soci entro il
termine stabilito dall’atto costitutivo.
La deliberazione assembleare che approva il bilancio è impugnabile secondo le regole ordinarie,
ossia per annullabilità (art. 2377) o nullità (art. 2379); tuttavia la legittimazione a impugnare la
deliberazione di approvazione del bilancio sul quale il soggetto incaricato di effettuare la revisione
legale dei conti ha emesso un giudizio privo di rilievi spetta a tanti soci che rappresentino almeno il
5% del capitale sociale. Questo per evitare che bilanci sui quali già si è realizzato un controllo esterno,
quello del revisore, siano esposti a impugnative con finalità di mero disturbo (per cui è necessaria una
quota di soci a garanzia della serietà dell’iniziativa), e garantire la stabilità di una deliberazione così
importante per la vita della società, evitando che tale deliberazione rimanga esposta per lungo tempo
a rischi di impugnazione.
L’approvazione del bilancio rappresenta un frangente cruciale per la vita della società anche perché
è solo dopo quel momento che possono assumersi decisioni nel merito della destinazione degli utili.
Premesso che dagli utili netti annuali deve essere dedotta una somma corrispondente almeno alla
ventesima parte per costituire una riserva, finché questa non abbia raggiunto il quinto del capitale
sociale – riserva che dovrà essere reintegrata se diminuisca per qualsiasi ragione – la deliberazione
sulla distribuzione degli utili è adottata dall’assemblea che approva il bilancio. Esiste dunque un
limite per quanto riguarda la disponibilità degli utili. La parte dell’utile che l’assemblea delibera di
distribuire suole chiamarsi dividendo.
Il socio non può pretendere di vedersi corrisposta la propria quota parte, cioè non ha un vero diritto
in tal senso, né l’assemblea è tenuta a motivare perché non abbia deliberato di distribuire utili (e
nemmeno quale debba essere la destinazione degli utili non distribuiti). Pertanto, se l’assemblea
proceda in tal senso la minoranza in disaccordo potrà impugnare la deliberazione solo dimostrando
che essa sia stata indotta da un intento extrasociale della maggioranza.
La distribuzione di acconti sui dividendi è consentita nel rispetto di rigorose condizioni. Possono
infatti procedervi solo le società il cui bilancio sia assoggettato per legge a revisione legale dei conti
secondo il regime previsto dalle leggi speciali per gli enti di interesse pubblico. La distribuzione di
acconti sui dividendi dev’essere prevista dallo statuto ed è deliberata dagli amministratori dopo il
rilascio da parte del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti di un giudizio
positivo sul bilancio dell’esercizio precedente e dopo la sua approvazione. Inoltre, non è consentita
la distribuzione degli acconti quando dall’ultimo bilancio approvato risultino perdite relative
all’esercizio o a esercizi precedenti. L’ammontare degli acconti sui dividendi non può poi superare la
somma minore tra l’importo degli utili conseguiti dalla chiusura dell’esercizio precedente, diminuito
delle quote che dovranno essere destinate a riserva per obbligo legale o statutario, e quello delle
riserve disponibili.
2. REVISIONE LEGALE DEI CONTI
L’assegnazione della funzione di controllo contabile a un revisore o a una società di revisione fu
varata nel 1974 per le sole società quotate ed estesa nel 2003 a tutte le società per azioni. La disciplina
dell’esercizio di questi controlli è offerta dal d.lgs. n. 39/2012. Ai sensi dell’art. 2 del decreto
l’esercizio della revisione legale è riservato ai soggetti iscritti nel registro, e possono chiedervi
l’iscrizione anzitutto le persone fisiche che:
a) siano in possesso dei requisiti di onorabilità definiti con regolamento adottato dal Ministro
dell’economia e delle finanze, sentita la Consob;
b) siano in possesso di una laurea almeno triennale (tra quelle ammesse);
c) abbiano svolto il tirocinio;
d) abbiano superato l’esame di idoneità professionale.
Inoltre, possono chiedere l’iscrizione nel registro le società che soddisfino le seguenti condizioni:
a) i componenti del consiglio di amministrazione o del consiglio di gestione siano in possesso
dei requisiti di onorabilità (definiti con regolamento);
b) la maggioranza dei membri del c.d.a. o del c.d.g. sia costituita da persone fisiche abilitate
all’esercizio della revisione legale in uno Stato membro dell’Unione europea;
c) nelle società di persone la maggioranza numerica e per quote dei soci sia costituita da soggetti
abilitati all’esercizio della revisione legale in uno Stato membro dell’Unione europea;
d) nelle società di capitali le azioni siano nominative e non trasferibili mediante girata;
e) la maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria spetti a soggetti abilitati
all’esercizio della revisione legale in uno Stato membro dell’Unione europea.
I soggetti abilitati all’esercizio dell’attività di revisione legale dei conti sono tenuti a rispettare i
principi di deontologia professionale, riservatezza e segreto professionale elaborati dalle
associazioni e dagli ordini professionali. Essi devono essere indipendenti dalla società, e sono richiesti
di essere in nessun modo coinvolti nel processo decisionale della società. In particolare, è vietato a
revisore e società di effettuare la revisione dei conti di una società qualora tra questa e il revisore, o
la rete alla quale appartenga il revisore, sussista qualsiasi tipo di relazioni d’affari o di lavoro. Il
concetto di rete è importante dal momento che corrisponde alla modalità frequentemente praticata
dai revisori per organizzare i propri enti e attività; per rete il decreto intende esattamente la struttura,
alla quale appartiene il revisore, finalizzata alla cooperazione e che persegue chiaramente la
condivisione degli utili o dei costi e che fa capo a una proprietà. Se l’indipendenza rischia
semplicemente di essere compromessa, sono gli stessi revisori e società a dover adottare misure volte
a ridurre tali rischi. Se invece i rischi siano di tale rilevanza da comprometterne decisamente
l’indipendenza, la revisione legale non può essere effettuata.
In materia di compenso dei revisori, il corrispettivo non può essere subordinato ad alcuna
condizione, non può essere stabilito in funzione dei risultati della revisione, né dipendere dal suo
esito, e non può essere connesso alla prestazione di servizi diversi dalla revisione medesima.
Determinato «per l’intera durata dell’incarico», ed «in modo da garantire la qualità e l’affidabilità dei
lavori», dev’essere parametrato a variabili predefinite:
a) la dimensione, la composizione e la rischiosità delle più significative grandezze patrimoniali,
economiche e finanziarie del bilancio della società incaricante, nonché i profili di rischio
connessi al processo di consolidamento dei dati relativi alle società del gruppo;
b) la preparazione tecnica e l’esperienza che il lavoro di revisione richiede;
c) la necessità di assicurare, oltre all’esecuzione materiale delle verifiche, «un’adeguata attività
di supervisione e di indirizzo».
Il revisore è nominato per la prima volta nell’atto costitutivo; successivamente è l’assemblea a
conferire l’incarico. L’incarico ha la durata di tre esercizi e scade in corrispondenza della data
dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio dell’incarico
medesimo. È consentita la revoca del revisore, sentito l’organo di controllo, quando ricorra una
giusta causa. Revisore e società possono dimettersi dall’incarico ma è fatto salvo il risarcimento del
danno e, in ogni caso, le dimissioni devono essere poste in essere in tempi e modi tali da consentire
alla società sottoposta a revisione di provvedere altrimenti. In caso di dimissioni o risoluzione
consensuale del contratto le funzioni di revisione legale continuano a essere esercitate fino a quando
la deliberazione di conferimento del nuovo incarico non sia divenuta efficace.
L’attività di revisione, che deve verificare «la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta
rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili», va rappresentata in una relazione e sul
bilancio deve esprimere un giudizio. La relazione comprende:
a) un paragrafo introduttivo che identifica i conti annuali o consolidati sottoposti a revisione
legale e il quadro delle regole di redazione applicate dalla società;
b) una descrizione della portata della revisione legale svolta con l’indicazione dei principi di
revisione osservati;
c) un giudizio sul bilancio che indica chiaramente se questo è conforme alle norme che ne
disciplinano la redazione e se rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione
patrimoniale e finanziaria e il risultato economico dell’esercizio;
d) eventuali richiami di informativa che il revisore sottopone all’attenzione dei destinatari del
bilancio, senza che essi costituiscano rilievi;
e) un giudizio sulla coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio.
L’assemblea è comunque libera di approvare o meno il bilancio, quand’anche il giudizio espresso dal
revisore sia stato negativo. Revisore e società sono dal decreto indicati come «interamente
responsabili dell’espressione del relativo giudizio». A tal fine essi hanno diritto a ottenere dagli
amministratori documenti e notizie utili alla propria attività: il limite di esercizio dei poteri
informativi e ispettivi è evidentemente dato dalla strumentalità delle informazioni allo svolgimento
dell’attività di revisione. Revisore e società inoltre rispondono in solido tra loro e con gli
amministratori nei confronti della società conferente l’incarico, dei suoi soci e dei terzi per i danni
derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. Tuttavia, nei rapporti interni tra i debitori solidali essi
sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno cagionato. Unitamente alla società di
revisione rispondono altresì, per danni conseguenti a propri inadempimenti o fatti illeciti, il
responsabile della revisione e i dipendenti della società, in solido tra loro e con la società di revisione
(l’azione di risarcimento si prescrive in 5 anni).
Destinatari di un’attività di revisione speciale, sono gli «enti di interesse pubblico», ossia le società
aperte (cioè emittenti azioni o altri strumenti finanziari quotati o diffusi tra il pubblico in misura
rilevante), nonché alcune società disciplinate da leggi speciali. Nei confronti di questi soggetti
l’incarico di revisione legale ha la durata di nove esercizi, se espletato da società di revisione, e di
sette esercizi, se espletato da un revisore persona fisica. Il revisore, il responsabile della revisione
e coloro che vi hanno preso parte con funzioni di direzione e supervisione, non possono rivestire
cariche sociali negli organi di amministrazione e controllo dell’ente incaricante, né possono prestare
lavoro autonomo o subordinato in favore dell’ente medesimo svolgendo funzioni dirigenziali di
rilievo, se non sia decorso almeno un biennio dalla conclusione dell’incarico o dal momento in cui
abbiano cessato di essere soci, amministratori o dipendenti della società di revisione.
Entro tre mesi dalla fine di ogni esercizio sociale revisore e società devono pubblicare sul proprio sito
internet una relazione di trasparenza annuale.
Infine, è prevista una forma di controllo sui controllori, definito controllo della qualità, che deve
essere effettuato almeno ogni sei anni (tre se la revisione riguardi enti di interesse pubblico). Il
controllo della qualità è effettuato da persone fisiche in possesso di un’adeguata formazione ed
esperienza professionale in materia di revisione dei conti e di informativa finanziaria e di bilancio,
nonché di una formazione specifica in materia di controllo della qualità: il controllo include una
valutazione della conformità ai principi di revisione e ai requisiti d’indipendenza applicabili, della
quantità e qualità delle risorse impiegate, dei corrispettivi per la revisione nonché del sistema interno
di controllo della qualità nella società di revisione legale.
3. PATRIMONI DESTINATI A UNO SPECIFICO AFFARE
I patrimoni destinati a uno specifico affare sono istituti introdotti dalla riforma societaria del
2003. Ne esistono di due tipi:
a. I patrimoni destinati detti operativi, o industriali, o patrimoni separati; consiste nella
creazione di un patrimonio separato rispetto al patrimonio della società, pur sempre interno a
questa, strumentale allo svolgimento di un’attività specifica ulteriore e differente rispetto alla
principale attività dell’ente societario.
b. I finanziamenti destinati a uno specifico affare; consiste nel finanziamento di uno specifico
affare, che è la società a dover realizzare, da parte di un terzo a favore del quale viene riservato,
all’interno della società, un ammontare di denaro quale forma di garanzia della restituzione
del finanziamento medesimo.
La ratio economica degli istituti è evidente, e risiede nel gestire il rischio d’impresa attraverso
soluzioni che consentano di risparmiare su tempi e costi guadagnando in snellezza operativa. Così il
codice civile tratteggia le due figure patrimoniali: ai sensi dell’art. 2447-bis la società può:
a) «costituire uno o più patrimoni ciascuno dei quali destinato in via esclusiva ad uno specifico
affare»;
b) «convenire che nel contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare al rimborso
totale o parziale del finanziamento medesimo siano destinati i proventi dell’affare stesso, o
parte di essi».
Il patrimonio separato è costituito con una deliberazione dell’organo amministrativo, con voti
favorevoli che devono raggiungere la maggioranza assoluta dei suoi componenti. La deliberazione
deve indicare:
a) l’affare al quale è destinato il patrimonio;
b) i beni e i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio;
c) il piano economico-finanziario da cui risulti la congruità del patrimonio rispetto alla
realizzazione dell’affare, le modalità e le regole relative al suo impiego, il risultato che si
intende perseguire e le eventuali garanzie offerte ai terzi (piano di rilievo cruciale data la
molteplicità di funzioni che è chiamato ad assolvere);
d) gli eventuali apporti di terzi, le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai
risultati dell’affare;
e) la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione all’affare, con la specifica
indicazione dei diritti che essi attribuiscono ai loro titolari;
f) la nomina di un revisore o di una società di revisione legale dei conti dell’affare, quando
la società non vi sia già assoggettata;
g) le regole di rendicontazione dello specifico affare.
La deliberazione dev’essere verbalizzata da un notaio e depositata per l’iscrizione presso il registro
delle imprese. Qualora la deliberazione prevista dall’articolo 2447-ter non disponga diversamente,
per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del
patrimonio ad esso destinato. Qualora siano emessi strumenti finanziari, la società deve altresì
tenere un libro che ne riporti le caratteristiche, l’ammontare di quelli emessi e di quelli estinti, le
generalità dei titolari degli strumenti nominativi e i trasferimenti e i vincoli ad essi relativi. Quindi si
costituisce un’assemblea speciale e si applica la disciplina propria dell’assemblea degli
obbligazionisti. Quando l’affare si realizza, o nel caso opposto in cui sia divenuto impossibile, gli
amministratori redigono un rendiconto finale che, accompagnato da una relazione dei sindaci e del
revisore dei conti, dev’essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese.
Il finanziamento destinato a uno specifico affare, cioè il patrimonio destinato del secondo tipo, è
dall’art. 2447-decies definito come il contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare, e
deve contenere:
a) una descrizione dell’operazione che consenta di individuarne lo specifico oggetto; le
modalità e i tempi di realizzazione; i costi previsti e i ricavi attesi;
b) il piano finanziario dell’operazione, indicando la parte coperta dal finanziamento e quella a
carico della società;
c) i beni strumentali necessari alla realizzazione dell’operazione;
d) le specifiche garanzie che la società offre in ordine all’obbligo di esecuzione del contratto e
di corretta e tempestiva realizzazione dell’operazione;
e) i controlli che il finanziatore, o soggetto da lui delegato, può effettuare sull’esecuzione
dell’operazione;
f) la parte dei proventi destinati al rimborso del finanziamento e le modalità per determinarli;
g) le eventuali garanzie che la società presta per il rimborso di parte del finanziamento;
h) il tempo massimo di rimborso, decorso il quale nulla più è dovuto al finanziatore.
I proventi dell’operazione costituiscono patrimonio separato rispetto a quello della società: sui
proventi, i frutti di essi e gli investimenti eventualmente effettuati prima del rimborso, non sono
ammesse azioni dei creditori sociali.
I creditori della società, sino al rimborso del finanziamento, possono esercitare solo azioni
conservative a tutela dei loro diritti. Tuttavia, se il fallimento della società impedisce la realizzazione
o la continuazione dell’operazione tali limitazioni cessano e il finanziatore ha diritto di insinuarsi al
passivo per il suo credito.
9. TRASFORMAZIONE, FUSIONE, SCISSIONE
1. TRASFORMAZIONE
Trasformazione, fusione e scissione societarie sono operazioni straordinarie che comportano una
modificazione dell’atto costitutivo: sicché per potervi dare luogo la s.p.a. dovrà raccogliere il
consenso espresso dal quorum dell’assemblea straordinaria, la s.r.l. quello dell’assemblea che
deliberi a maggioranza rafforzata e proceda alla verbalizzazione notarile, mentre le società di
persone, dopo la modifica del 2003, possono deliberare la trasformazione in ossequio al principio
maggioritario rapportato a come gli utili sono attribuiti ai soci. Se prima della riforma alla
trasformazione societaria erano dedicati solo tre articoli, del cod. civ., ora la disciplina ne conta 11.
Il versante sul quale si rinvengono le novità più eclatanti è relativo alla possibilità di procedere a
trasformazioni eterogenee. Tali operazioni differiscono sostanzialmente rispetto a quelle omogenee
per una ragione sopra tutte: mentre la trasformazione omogenea rientra nell’alveo delle operazioni
di modificazione dell’atto costitutivo che comportano una continuità tra tipi societari, la
trasformazione eterogenea può implicare un cambiamento dello stesso scopo associativo scelto
all’inizio e via via perseguito, nonché e soprattutto la sostituzione alla società originaria di un ente
che ben può non essere una società. Nel primo caso si ha dunque un passaggio di stato che non incide
sull’identità per così dire ontologica della società, ma solo sul suo assetto organizzativo e sulle regole
applicabili per disciplinare il nuovo assetto. Nel secondo caso si va ben oltre: la trasformazione
eterogenea consente così a un ente associativo di mutare la propria natura, con sensibile risparmio di
tempi e costi burocratici e organizzativi, anziché di ottenere lo stesso risultato procedendo allo
scioglimento, all’estinzione del primo e alla sua ricostituzione in altra forma giuridica. La differenza
tra omogeneità ed eterogeneità della trasformazione si manifesta anche con riguardo al vigente
principio di continuità dei rapporti giuridici, ai quali è dedicata la prima disposizione civilistica
in materia di trasformazione. L’art. 2498 recita così: «con la trasformazione l’ente trasformato
conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha
effettuato la trasformazione». Continuità dei diritti significa prosecuzione dei rapporti giuridici, ciò
che a sua volta sottintende soprattutto il mantenimento, dopo la trasformazione, delle obbligazioni
assunte in ragione dei contratti stipulati prima di tale operazione straordinaria, idem per i rapporti
processuali.
Dato l’ambito di maggiore ampiezza entro il quale possono darsi trasformazioni, tali operazioni
richiedono l’applicazione delle norme proprie di ciascun tipo coinvolto dall’evento modificativo.
È esattamente per questo che l’art. 2500 stabilisce che «la trasformazione in società per azioni, in
accomandita per azioni o a responsabilità limitata deve risultare da atto pubblico, contenente le
indicazioni previste dalla legge per l’atto di costituzione del tipo adottato. L’atto di trasformazione è
soggetto alla disciplina prevista per il tipo adottato ed alle forme di pubblicità relative, nonché alla
pubblicità richiesta per la cessazione dell’ente che effettua la trasformazione.
La trasformazione ha effetto dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari di cui al comma precedente».
La trasformazione di società di persone in società di capitali dev’essere deliberata raccogliendo
non già l’unanimità dei consensi, bensì il consenso della maggioranza dei soci secondo la parte
attribuita a ciascuno negli utili. In ogni caso al socio che non ha concorso alla decisione spetta il
diritto di recesso. Per procedere alla trasformazione occorre poi accertare il valore reale del
patrimonio sociale. Ciascun socio ha diritto all’assegnazione di azioni in misura proporzionale alla
sua partecipazione, mentre il socio d’opera ha diritto all’assegnazione di un numero di azioni o di una
quota in misura corrispondente alla partecipazione che l’atto costitutivo gli riconosceva
precedentemente alla trasformazione o, in mancanza, per accordo tra i soci.
La trasformazione non libera i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni
sociali sorte prima dell’iscrizione della deliberazione di trasformazione, se non risulta che i creditori
sociali abbiano dato il loro consenso alla trasformazione (che si considera presunto se, dopo la
comunicazione, non viene negato).
La maggioranza richiesta per procedere alla trasformazione di una società di capitali in una società
di persone è quella prevista per la modificazione dello statuto: gli amministratori devono predisporre
una relazione che illustri le motivazioni e gli effetti della trasformazione; ciascun socio ha diritto
all’assegnazione di una partecipazione proporzionale al valore della sua quota o delle sue azioni; i
soci che assumono responsabilità illimitata rispondono illimitatamente anche per le obbligazioni
sociali sorte prima della trasformazione.
La disciplina della trasformazione eterogenea è tale solo se la trasformazione proceda da, o risulti in,
una società di capitali. Esistono infatti due tipi di trasformazione eterogenea.
a. La trasformazione eterogenea da società di capitali consente a questa di mutare il proprio
stato e divenire consorzio, società consortile, società cooperativa, comunione di azienda,
associazione non riconosciuta o fondazione. La deliberazione in tal senso dev’essere assunta
con il voto favorevole dei due terzi degli aventi diritto, e comunque con il consenso dei soci
che assumono responsabilità illimitata.
b. La trasformazione eterogenea in società di capitali riguarda invece i consorzi, le società
consortili, le comunioni d’azienda, le associazioni riconosciute e le fondazioni che intendano
trasformarsi in una società di capitali. Per la deliberazione dell’operazione occorre fare
riferimento ai quorum della disciplina di ogni ente soggetto a trasformazione.
La trasformazione eterogenea ha effetto dopo sessanta giorni dall’ultimo degli adempimenti
pubblicitari previsti, salvo che consti il consenso dei creditori o il pagamento dei creditori che non
hanno dato il loro consenso. Entro tale medesimo termine i creditori possono proporre opposizione e
questo sospende l’esecuzione della trasformazione, a meno che il tribunale non ritenga infondato il
pericolo di pregiudizio per i creditori o la società abbia prestato idonea garanzia.
Disposizioni peculiari per questa operazione sono le seguenti:
a. La trasformazione di associazioni in società di capitali può essere esclusa dall’atto
costitutivo o, per determinate categorie di associazioni, dalla legge; non è comunque
ammessa per le associazioni che abbiano ricevuto contributi pubblici oppure liberalità e
oblazioni del pubblico.
b. Il capitale sociale della società risultante dalla trasformazione è diviso in parti uguali tra gli
associati, salvo diverso accordo dei medesimi.
c. La trasformazione di fondazioni in società di capitali è disposta dall’autorità governativa,
su proposta dell’organo competente, e le azioni o quote sono assegnate secondo le disposizioni
dell’atto di fondazione.
2. FUSIONE
La fusione rappresenta l’operazione di concentrazione societaria per eccellenza. Si realizza in due
forme diverse. Ai sensi dell’art. 2501 «la fusione di più società può eseguirsi mediante la costituzione
di una nuova società, o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre». In altri termini:
1. La fusione in senso stretto ricorre quando due società si aggregano dando vita a una terza
società, diversa dalle due società originarie (le quali, per effetto di tale operazione, si
estinguono).
2. La fusione per incorporazione ricorre quando una società ingloba un’altra società, e per
effetto di tale operazione rimane in vita solo la prima. È detta omogenea la fusione tra società
dello stesso tipo giuridico, eterogenea la fusione tra società di tipo differente.
La fusione è un’operazione straordinaria di natura evidentemente concentrativa, alla quale si ricorre
in frangenti differenti ma pur sempre con l’obiettivo di rafforzare il potere economico e la capacità
competitiva della società, fatte salve le ipotesi in cui la fusione assolva a mere funzioni di
riorganizzazione aziendale. Se dunque sono ragioni principalmente economiche a motivare la scelta
di realizzare un’operazione così complessa, gli effetti della fusione sono anzitutto giuridici: essa è
costituita, infatti, dall’unificazione dei soci, dei patrimoni e delle strutture aziendali e organizzative
delle società che vi partecipano. Secondo l’art. 2504-bis, «la società che risulta dalla fusione o quella
incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in
tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione». È previsto che la fusione attuata
mediante costituzione di una nuova società di capitali o mediante incorporazione in una società di
capitali non liberi i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni delle
rispettive società partecipanti alla fusione anteriori all’ultima delle iscrizioni prescritte dalla disciplina
del procedimento.
Il procedimento di fusione si può dividere in tre fasi successive:
1. L’elaborazione del progetto di fusione;
2. La deliberazione di fusione;
3. La pubblicazione dell’atto di fusione;
4. Progetto di fusione.
È l’organo amministrativo di tutte le società partecipanti alla fusione che redige il progetto di
fusione, dal quale devono risultare:
a) il tipo, la denominazione o ragione sociale, la sede delle società partecipanti alla fusione;
b) l’atto costitutivo della nuova società risultante dalla fusione o di quella incorporante, con le
eventuali modificazioni derivanti dalla fusione;
c) il rapporto di cambio delle azioni o quote, ossia l’indicazione del numero delle azioni (o
quote) della nuova società che sono assegnate ai soci, nonché l’eventuale conguaglio in denaro
(che non può essere superiore al 10% del valore nominale delle azioni o delle quote
assegnate). La definizione del rapporto non avviene automaticamente ma è oggetto di
contrattazione tra gli amministratori delle società coinvolte dall’operazione;
d) le modalità di assegnazione delle azioni o delle quote della società che risulta dalla fusione o
di quella incorporante;
e) la data a decorrere dalla quale tali azioni o quote partecipano agli utili;
f) la data a decorrere dalla quale le operazioni delle società partecipanti alla fusione sono
imputate al bilancio della società che risulta dalla fusione o di quella incorporante;
g) il trattamento eventualmente riservato a particolari categorie di soci e ai possessori di titoli
diversi dalle azioni;
h) i vantaggi particolari eventualmente proposti a favore dei soggetti ai quali compete
l’amministrazione delle società partecipanti alla fusione.
Il progetto di fusione dev’essere depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese del luogo nel
quale hanno sede le società coinvolte dalla fusione o pubblicato sul sito internet della società. Tra
l’iscrizione (o la pubblicazione su internet) del progetto e la data fissata per la deliberazione devono
intercorrere almeno trenta giorni, salvo che i soci, all’unanimità, rinuncino a tale termine. La
relazione dell’organo amministrativo illustra e giustifica il progetto della fusione, sotto il profilo
sia giuridico sia economico; l’organo amministrativo deve segnalare ai soci, all’organo
amministrativo delle altre società partecipanti all’operazione, le modifiche rilevanti degli elementi
dell’attivo e del passivo eventualmente intervenute tra la data in cui il progetto di fusione è depositato
presso la sede della società e la data della decisione sulla fusione. La relazione può mancare se vi
rinuncino all’unanimità i soci e i possessori di altri strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di
voto di ciascuna delle società partecipanti alla fusione. Uno o più esperti per ciascuna società redigono
invece la relazione sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni o delle quote, indicando il
metodo seguito ed eventuali difficoltà di valutazione.
La deliberazione con la quale si avalla la fusione dev’essere presa dai soci di tutte le società
partecipanti mediante approvazione del relativo progetto. Sono però previste modalità divergenti
per le società di capitali e per le società di persone; queste ultime, infatti, se lo statuto non preveda
altrimenti, approvano il progetto di fusione «con il consenso della maggioranza dei soci determinata
secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili, salva la facoltà di recesso per il socio che non abbia
consentito alla fusione». Invece nelle società di capitali occorre rispettare le norme previste per la
modificazione dell’atto costitutivo o dello statuto. La decisione di fusione può apportare al progetto
solo le modifiche che non incidono sui diritti dei soci o dei terzi e, se ciò accada, tali modifiche
dovranno ovviamente essere approvate da tutte le società coinvolte dalla fusione.
La fusione deve risultare da atto pubblico, che dev’essere depositato per l’iscrizione, a cura del
notaio o dei soggetti cui compete l’amministrazione della società risultante dalla fusione o di quella
incorporante, entro trenta giorni, nell’ufficio del registro delle imprese: la fusione ha effetto quando
è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte ed è esattamente da quel momento che si
estinguono le società partecipanti diverse dall’incorporante o dalla neonascente e si producono gli
effetti di successione universale a favore di queste società. L’iscrizione ha valenza tombale e dopo
quel momento la tutela dei soci e dei terzi è affidata solo al risarcimento del danno; scelta regolativa
che si spiega agevolmente con l’opportunità di eliminare in radice motivi di incertezza sulla
definitività della fusione: ai sensi dell’art. 2504-quater «eseguite le iscrizioni dell’atto di fusione (...)
l’invalidità dell’atto di fusione non può essere pronunciata. Resta salvo il diritto al risarcimento del
danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati dalla fusione».
Si ha una disciplina semplificata per le operazioni di fusione che, ex artt. 2505 e 2505-bis, riguardino
rispettivamente l’incorporazione di società interamente possedute (dove non sono richieste le
indicazioni relative a rapporto di cambio, modalità di assegnazione delle azioni e data dalla quale le
azioni partecipano agli utili, né risultano necessarie le relazioni degli amministratori e degli esperti)
e l’incorporazione di società possedute al 90%. In quest’ultima ipotesi la fusione si connota, più
che come operazione straordinaria di rivisitazione degli assetti proprietari e produttivi dell’impresa,
come operazione di mera riorganizzazione aziendale.
3. SCISSIONE
La scissione è stata introdotta nel nostro ordinamento solo nel 1991: è un’operazione straordinaria
che assolve eminentemente a funzioni di riorganizzazione e/o di razionalizzazione proprietaria e
aziendale.
Anche della scissione non possediamo una definizione giuridica; il codice si limita a indicare le forme
nelle quali una scissione può realizzarsi, che, come per la fusione, sono sostanzialmente due: si tratta
rispettivamente della scissione integrale (o totale) e della scissione parziale. Con la scissione
integrale una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova
costituzione, realizzando una traslazione definitiva dell’attività, sotto ogni profilo giuridico ed
economico, e così si estingue. Con la scissione parziale una società assegna parte del proprio
patrimonio a una o più società, ma rimane in vita e continua la propria attività, sia pure con una
dotazione patrimoniale più contenuta. L’art. 2506 descrive queste forme di scissione in questo modo:
«con la scissione una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova
costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o
quote ai suoi soci. (...) La società scissa può, con la scissione, attuare il proprio scioglimento senza
liquidazione, ovvero continuare la propria attività».
Il procedimento di scissione è regolato sulla scorta di alcune disposizioni vigenti per la fusione.
Anzitutto si prevede che l’organo amministrativo delle società partecipanti alla scissione redige un
progetto, dal quale devono risultare i criteri di distribuzione delle azioni o quote delle società
beneficiarie. Se la destinazione di un elemento dell’attivo non è desumibile dal progetto, esso,
nell’ipotesi di assegnazione dell’intero patrimonio della società scissa, è ripartito in proporzione della
quota del patrimonio netto assegnato a ciascuna di esse; degli elementi del passivo, la cui destinazione
non sia desumibile dal progetto, rispondono in solido, nel primo caso, le società beneficiarie, nel
secondo la società scissa e le società beneficiarie.
Com’è previsto anche per la fusione, l’organo amministrativo delle società partecipanti alla
scissione redige la situazione patrimoniale e la relazione illustrativa in conformità agli articoli di
quella disciplina. La relazione dell’organo amministrativo deve però contenere alcuni elementi
aggiuntivi e in specie illustrare i criteri di distribuzione delle azioni o quote e indicare il valore
effettivo del patrimonio netto assegnato alle società beneficiarie e di quello che eventualmente
rimanga nella società scissa. La relazione non è necessaria quando la scissione avviene mediante la
costituzione di una o più nuove società e non siano previsti criteri di attribuzione delle azioni o quote
diversi da quello proporzionale.
La scissione ha effetto dall’ultima delle iscrizioni dell’atto di scissione nell’ufficio del registro delle
imprese in cui sono iscritte le società beneficiarie. In via innovativa si prevede invece che ciascuna
società sia solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa
assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico. In
altri termini tutte le società cointeressate dalla scissione devono garantire in via sussidiaria quella cui
il debito è stato trasferito, sia pure entro quei limiti, con una misura a cui è sottesa una ratio evidente
di tutela dei creditori.
10. SCIOGLIMENTO, LIQUIDAZIONE, ESTINZIONE
Scioglimento, liquidazione ed estinzione sono eventi regolati da disposizioni che valgono per tutte
le società di capitali (a partire dalla riforma del 2003).
1. SCIOGLIMENTO
Il verificarsi di una causa di scioglimento delle società di capitali non coincide con l’estinzione di
tali società. Il ricorrere di un motivo che giustifica lo scioglimento della società apre una fase delicata;
durante tale arco temporale la società rimane in vita, mentre prima gli amministratori e poi soggetti
specialmente nominati (i liquidatori) si occupano di compiere una serie di operazioni fissate
dall’ordinamento esattamente per questa evenienza, a scopi specifici: prima la conservazione del
patrimonio sociale, poi il pagamento dei debiti sociali. È solo con la cancellazione della società dal
registro delle imprese, atto che chiude la fase di liquidazione, che la società si estingue.
Le s.p.a. si sciolgono:
a) per il decorso del termine;
b) per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo
salvo che l’assemblea, convocata senza indugio, non deliberi le opportune modifiche
statutarie;
c) per l’impossibilità di funzionamento o per la continuata inattività dell’assemblea;
d) per la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, salvo che l’assemblea non ne abbia
deliberato la riduzione, o abbia deliberato la trasformazione della società;
e) nelle ipotesi previste dagli artt. 2437-quater e 2473, ossia per incapacità patrimoniale della
società di procedere alla liquidazione della quota al socio recedente;
f) per deliberazione dell’assemblea;
g) per le altre cause previste dall’atto costitutivo o dallo statuto.
Quando siano l’atto costitutivo o lo statuto a prevedere altre cause di scioglimento essi dovranno
determinare altresì la competenza a deciderle o accertarle e ad effettuare i richiesti adempimenti
pubblicitari.
Gli amministratori devono accertare senza indugio il verificarsi di una causa di scioglimento e
procedere a far iscrivere la causa di scioglimento nel registro delle imprese: in caso di ritardo o
omissione essi sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni subiti dalla società, dai
soci, dai creditori sociali e dai terzi. Si può avere un intervento del tribunale in caso di omissione
degli amministratori e su istanza di singoli soci o amministratori o dei sindaci. Gli amministratori
sono oggetto dei primi effetti dello scioglimento della società: conservano il potere di gestire la
società, ma ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, che dovrà
essere quindi mantenuto nella sua attuale consistenza. Sono inoltre personalmente e solidalmente
responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali e ai terzi, per atti o omissioni
compiuti in violazione dei doveri loro ascritti.
2. LIQUIDAZIONE
Fatti salvi i casi di conseguimento dell’oggetto sociale o di sopravvenuta impossibilità di conseguirlo,
di riduzione del capitale al di sotto del minimo legale e di deliberazione dell’assemblea straordinaria
(e tranne nei casi in cui l’atto costitutivo o lo statuto dispongano altrimenti), contestualmente
all’accertamento della causa di scioglimento gli amministratori devono convocare l’assemblea dei
soci perché deliberi, con le maggioranze previste per le modificazioni dell’atto costitutivo o dello
statuto, su cinque importanti questioni:
1. il numero dei liquidatori e le regole di funzionamento del collegio in caso di pluralità di
liquidatori;
2. la nomina dei liquidatori, con indicazione di quelli cui spetta la rappresentanza della società;
3. i criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione;
4. i poteri dei liquidatori, con particolare riguardo alla cessione dell’azienda sociale, di rami di
essa, o anche di singoli beni o diritti, o blocchi di essi;
5. gli atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, ivi compreso il suo esercizio
provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo.
L’assemblea può sempre modificare, con le maggioranze richieste per le modificazioni dell’atto
costitutivo o dello statuto, le deliberazioni in tal senso, oltre a poter revocare i liquidatori. Inoltre, la
società può in ogni momento revocare lo stato di liquidazione con deliberazione assembleare a
maggioranza, previa eliminazione della causa di scioglimento. La possibilità di ricondurre la
società in condizioni di operatività è dal 2003 ammessa a condizione che siano tutelate le istanze
di due categorie di soggetti:
a) i soci e il loro interesse alla liquidazione della quota, riconosciuto grazie al fatto che a favore
dei non consenzienti è contemplato il diritto di recesso;
b) i creditori sociali e il loro interesse alla soddisfazione delle proprie pretese, riconosciuto
prevedendo che la revoca ha effetto solo dopo sessanta giorni dall’iscrizione nel registro delle
imprese della relativa deliberazione.
Gli amministratori cessano dalla loro carica al momento della nomina dei liquidatori e con
l’iscrizione della nomina nel registro delle imprese: ne consegue immediatamente che alla
denominazione sociale va aggiunta l’indicazione “società in liquidazione” e che gli amministratori
devono consegnare ai liquidatori i libri sociali. L’assemblea e il collegio sindacale sopravvivono al
passaggio di consegne ma mantengono funzioni compatibili con lo stato di liquidazione; l’organo di
controllo interno continuerà a svolgere funzioni di vigilanza e tale mansione potrà e dovrà avere come
oggetto il comportamento dei liquidatori, mentre l’assemblea conserva il potere di approvare il
bilancio. Al timone salgono però, a tutti gli effetti, i liquidatori, che comunque non godono di
discrezionalità assoluta, dato che le modalità della liquidazione sono pur sempre prefissate.
I liquidatori devono redigere il bilancio e presentarlo all’assemblea per l’approvazione alle
scadenze previste per il bilancio di esercizio della società. Nella relazione i liquidatori devono
illustrare l’andamento, le prospettive anche temporali della liquidazione, e i principi e criteri adottati
per realizzarla, mentre nella nota integrativa devono indicare, e motivare, i criteri di valutazione
adottati. Se i fondi disponibili risultano insufficienti per il pagamento dei debiti sociali i liquidatori
possono chiedere ai soci, proporzionalmente, i versamenti ancora dovuti. I liquidatori non possono
invece ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione. In tutto ciò i liquidatori sono
personalmente e solidalmente responsabili per i danni cagionati ai creditori sociali violando le
regole di liquidazione. Compiuta la liquidazione i liquidatori devono redigere il bilancio finale di
liquidazione, indicando la parte spettante a ciascun socio o azione nella divisione dell’attivo: si tratta
di un bilancio semplificato, che non dev’essere approvato dall’assemblea ma è depositato presso
l’ufficio del registro delle imprese. Decorso il termine di novanta giorni senza che siano stati proposti
reclami il bilancio s’intende approvato e i liquidatori sono liberati nei confronti dei soci, salvi i loro
obblighi relativi alla distribuzione dell’attivo risultante dal bilancio (approvazione tacita del bilancio
finale di liquidazione). Infine, compiuta la liquidazione, i libri della società sono depositati presso
l’ufficio del registro delle imprese, ove sono conservati per dieci anni, e chiunque può esaminarli
anticipandone le spese.
3. ESTINZIONE
Una volta che sia stato approvato il bilancio finale di liquidazione i liquidatori sono tenuti a chiedere
la cancellazione della società dal registro delle imprese. A lungo si è discusso, prima della riforma
del 2003, se la cancellazione desse luogo altresì all’estinzione della società o meno. L’art. 2495
elimina l’incertezza interpretativa affermando il principio dell’efficacia costitutiva della
cancellazione della società di capitali «ferma restando l’estinzione della società, dopo la
cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci,
fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei
confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi». Perciò risulta chiaro
che la cancellazione produce l’estinzione della società e l’impossibilità di qualsiasi forma di
reviviscenza della società. Alla cancellazione d’ufficio si perviene qualora per oltre tre anni
consecutivi non venga depositato il bilancio sociale. I creditori non soddisfatti possono far valere
le proprie ragioni:
a) nei confronti dei soci, sia pure limitatamente a quanto i soci abbiano percepito in sede di
ripartizione dell’attivo;
b) nei confronti dei liquidatori, nella misura in cui i liquidatori possano considerarsi responsabili
del mancato soddisfacimento dei creditori.
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