Uploaded by Maya Greco

BIOCHIMICA ALIMENTARE

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Corso di
Biochimica
alimentare
Prof.ssa Stefania Iametti
© Laila Pansera - 1
Introduzione
Che cosa differenzia la biochimica alimentare rispetto alla biochimica classica. La biochimica
alimentare si occupa di controllare le interazioni all’interno di un alimento, fra tutti i diversi
componenti dell’alimento. Per esempio:
1. Interazioni tra proteine e ambiente, che in buona parte degli alimenti è acquoso l’ambiente;
queste interazioni sono importanti perché condizionano moltissime trasformazioni a carico degli
alimenti, come la conservazione, oppure la tenerezza del prodotto. Tutte le interazioni proteineambiente sono non covalenti, quindi sono interazioni deboli. Queste interazioni dipendono in
minor parte dalla sequenza degli amminoacidi e in parte maggiore dalla struttura tridimensionale
assunta dalla proteina.
2. Interazioni tra gruppi diversi di proteine, sia covalenti sia non covalenti, che determinano la
struttura del prodotto, per esempio gli impasti.
3. Interazioni tra proteine e l’amido, essenziali perché la pasta tenga la cottura.
4. Interazioni tra proteine e lipidi, che condiziona certe trasformazioni, per esempio nel burro: il
burro salato si differenzia dal burro non salto, dal fatto che ho più acqua e molte più proteine,
quindi una struttura (texture) diversa, e quindi aggiungo il sale per evitare che questa abbondanza
di acqua e proteine non comporti una crescita microbica incontrollata.
5. Interazioni fra amido e lipidi, sono interazioni non covalenti che hanno un ruolo importante
nella definizione della qualità di un pane.
Descrivere le interazioni tra le varie componenti di un alimento serve per 2 motivi:
•
Capire le cause di manifestazioni negative e inconvenienti durante il processo o la conservazione;
•
Utilizzare metodi che cercano di perturbare il meno possibile un alimento, ovvero fare interventi
che non comportino un’alterazione drammatica dell’alimento.
•
Durante il corso vedremo modificazioni:
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L’acqua
È la principale componente negli alimenti in quasi tutti i casi. Anche negli alimenti secchi l’acqua non
è trascurabile. Essa ha 3 funzioni:
•
Funzione di solvente, scioglie e tiene in soluzione all’interno dell’alimento piccole molecole,
come gli ioni, i sali, e questo condiziona tutti gli equilibri osmotici, il pH, tutti i parametri più
importanti in tutte le trasformazioni a cui sottoporrò l’alimento, compresi i cambiamenti di stato.
L’acqua è anche un solvente anche delle macromolecole, come molte proteine; per esempio nel
latte ci sono molte sieroproteine in soluzione, come la betalattoglobulina (BLG), anche nell’albume
ci sono molte proteine. Quindi l’acqua determina anche la solubilità delle molecole.
•
Funzione strutturante, la struttura tridimensionale di una proteina per esempio è la risposta
all’ambiente in cui si trova, per cui una proteina in acqua mantiene all’interno la parte idrofobica.
La struttura delle macromolecole all’interno del solvente, determina poi anche la struttura delle
piccole molecole all’interno dello stesso ambiente; per esempio le vitamine dopo un trattamento
termico si modificano all’interno di un solvente. Tutti questi aspetti del ruolo strutturale del
solvente producono 2 effetti: la biodisponibilità, perché alcuni componenti sono associati non
covalentemente alle proteine, quando cambio la struttura delle proteine essi non sono più
associati, e quando sono associati non sono biodisponibili; l’altro effetto è che se cambio una
struttura, cambio anche il ruolo dell’acqua, e questo modifica molto la holding capacity (capacità
di trattenere acqua) o in generale le sue proprietà, e questo per esempio porta alla separazione
dell’acqua.
•
Mezzo di reazione, certi enzimi o certi microrganismi senza acqua non crescono o non agiscono.
In un alimento troviamo che l’acqua svolge tutte e 3 le funzioni, ovviamente non nello stesso modo,
quindi una prevarrà o meno sulle altre.
L’acqua negli alimenti è raggruppata in 4 tipi, e questo è un aspetto molto importante perché il tipo
di acqua definisce la capacità di trattenere l’acqua (water holding) da parte delle macromolecole.
Un altro parametro è la mobilità dell’acqua all’interno delle macromolecole: un’acqua trattenuta da
una macromolecola ha una certa libertà di muoversi intorno alla macromolecola, è questo dipende
dal tipo di acqua presente.
•
Tipo IV: è quello che importa meno dal punto di vista delle modifiche strutturali, è l’acqua pura,
quella con aw 1.
•
Tipo III: acqua libera, aw 0.8/0.9; essa regola la crescita dei microrganismi, le attività enzimatiche,
le manifestazioni di trattamento termico che prendono il nome di imbrunimento non enzimatico.,
anche le reazioni idrolitiche e ossidative.
•
Tipo II: acqua coordinata, aw 0.8/0.25; essa regola le attività enzimatiche, le reazioni ossidative e
l’imbrunimento non enzimatico.
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•
Tipo I: acqua legata alle macromolecole, aw 0.25/0, questa per esempio non congela mai ed è
fondamentale per la conservazione di un alimento, ed è quella che non si riesce a togliere anche
con l’essicamento, consente la compartimentalizzazione del prodotto, e la sua assenza
provocherebbe diversi danni, come la penetrazione eccessiva dei fenomeni di ossidazione. Questa
acqua per esempio fa sì che i lipidi in un alimento non vado incontro ad autossidazione, impedisce
le reazioni di Fenton (ferro che viene ridotto o ossidato). Quindi quest’acqua non viene mai tolta,
perché è molto difficile da togliere (richiede tempi elevati e temperature elevate) e porta ad un
effetto negativo sul prodotto.
In un alimento ci sono o tuti e 4 i livelli, oppure a scalare, in base alla quantità di acqua nel prodotto.
Di sicuro il tipo I c’è sempre. Quindi il tipo di acqua mi condiziona il prodotto.
Buona parte delle trasformazioni riducono in gran parte l’acqua di tipo III, ovvero annientano la
crescita microbica.
Le proteine
Interazione tra acqua e proteine
La proprietà che condiziona questa interazione è la solubilità della proteina. Una variazione di
solubilità è rappresentata da molte modificazioni. Per esempio se dal latte ottengo lo yogurt,
acidificando diminuisco la solubilità della proteina, e ottengo un coagulo. Nel caso del formaggio
cambio la solubilità del latte e ottengo un coagulo grazie a un agente enzimatico. Un altro esempio è
il tofu: prendo degli isolati di soia, aggiungo un agente, il calcio, che insolubilizza le proteine. La
solubilità di una proteina dipende dall’ambiente in cui si trova; una proteina può cambiare la sua
solubilità in funzione:
•
della forza ionica (presenza di sali), se aumento la forza ionica posso rendere insolubili delle
proteine o solubilizzarne altre;
•
del pH, cambiando il pH del mezzo la proteina può cambiare la sua solubilità;
•
del ruolo dei metalli: posso selettivamente aggiungere alcuni metalli, come lo ione calcio (Ca++)
per provocare la variazione della solubilità delle proteine presenti.
Un altro aspetto importante è il fatto che il cambiamento della solubilità della proteina, indotta da
modifiche dell’ambiente può essere accompagnato o meno dalla modifica della sua struttura
nativa: se una proteina precipita (diventa insolubile) mantenendo la sua struttura nativa, il processo
è reversibile, per cui la proteina può tornare a essere solubile se trovo le cause per cui si è
insolubilizzata e le elimino. Invece se una proteina precipita per un cambiamento che può essere
ambientale, e perde la sua struttura nativa, quindi assume una struttura denaturata, anche se riuscissi
a riportare in soluzione la proteina denaturata precipitata, non è detto che essa svolga la stessa
funzione che aveva in forma nativa.
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Classificazione delle proteine in base alla loro solubilità
La solubilità è un sistema per classificare le proteine, usato soprattutto per classificare le proteine dei
cereali.
•
Le albumine sono proteine solubili in soluzione acquosa (in acqua), come la sieroalbumina o la
lattoalbumina, possiamo trovarle in molti cereali, e le albumine sono anche degli enzimi.
•
Le globuline sono le proteine solubili in soluzioni saline, come le viciline, le legumine, le
immunoglobuline.
•
Le proteine solubili in soluzioni alcoliche (isopropanolo, etanolo) sono le prolamine, nel caso del
frumenti le gliadine.
•
Le gluteline sono solubili in soluzioni debolmente acide o debolmente alcaline, nel frumento sono
le glutenine. Glutenine e gliadine vanno a costituire il complesso del glutine.
•
Le scleroproteine non sono solubili in nessun mezzo, presenti in molti semi.
Variazione di solubilità: la forza ionica
Perché alcune proteine sono solubili in certe condizioni e altre no? Cambia il loro comportamento in
presenza di un sale. Le proteine hanno una loro struttura tridimensionale ben definita, e sulla sua
superficie sono presenti gruppi polari, molti dei quali sono carichi. Una proteina, in dipendenza dal
mezzo che ha, presenta una carica netta ben definita (positiva o negativa). Messa in soluzione, questa
proteina è solubile. Proteine della stessa specie hanno la stessa carica, quindi tendono a respingersi.
Questa condizione viene definita salting in, condizione in cui la proteina in quel mezzo è
perfettamente solubile. In questa condizione aggiungo dei sali: il sale messo in ambiente acquoso si
solubilizza (NaCl si solubilizza per esempio in Na+ e Cl-), ovvero intorno allo ione dissociato si crea
una organizzazione di acqua, che è l’acqua di idratazione. Quindi aggiungendo il sale, esso prende
l’acqua che c’è libera intorno alla proteina, quella di tipo II per esempio. Alla proteina non succede
niente. Aggiungo un’ulteriore quantità di sale fino al punto in cui non si scioglie più. Ottengo 2 effetti:
•
Na+ si avvicina alle cariche negative della proteina, per esempio se ho un glutammato esposto
COO-, l’Na+ si può associare, schermando le cariche superficiali, per cui le proteine non hanno più
una carica netta tale che si respingono, ma tendono ad associarsi;
•
il sale continua a sciogliersi, quindi prende l’acqua che c’è in giro, quindi sottrae acqua alla
proteina.
Questi 2 effetti contemporanei comportano che la proteina tende ad associarsi mediante interazioni
elettrostatiche e idrofobiche. Se tante proteine tendono ad associarsi si forma in polimero proteico,
meno solubile del singolo monomero che lo costituisce, quindi tende a precipitare, quindi a non essere
più solubile. Questo fenomeno per cui la proteina precipita si chiama salting out.
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In tutto questo la forma della proteina non è cambiata, perché si opera in modo tale che la variazione
di solubilità sia tale da togliere l’acqua più esterna, non quella che coordina la struttura della proteina,
ovvero si scherma l’acqua superficiale e non
provoco cambiamento della struttura nativa,
ovvero diminuendo la forza ionica la proteina
ritorna in soluzione con la sua struttura
perfettamente
nativa.
Questo
sistema
è
utilizzato per conservare l’attività di molti
enzimi, perché una proteina libera in soluzione
è più facile che vada incontro a modificazioni
della sua struttura, mentre se si trova in un
polimero, ha meno gradi di libertà e quindi è
più
difficile
che
assuma
una
struttura
denaturata. Per questo molti enzimi industriali
vengono venduti ad alta forza ionica, come soluzioni in cui l’enzima è presente in solfato d’ammonio
2-3 molare, che poi devo diluire.
Quindi con il termine salting in e salting out si intende variazione della solubilità di una proteina in cui
la proteina mantiene la sua struttura nativa.
Questo è uno ione, intorno a cui ho una sfera di idratazione con diverse influenze da parte dello ione
nei confronti dell’acqua. La zona azzurra è la zona in cui l’acqua è fortemente legata ed è importante
che questa zona non venga alterata, pena la modifica della sua strutturazione. I sali vanno a toccare
la zona più esterna a quella azzurra, meno coordinata, questo comporta che la zona azzurra non ha
più intorno molta acqua, che le permette di stare in soluzione, ma tende a interagire con altri ioni e a
precipitare. Questo concetto si applica anche a un sale: quando la soluzione è satura, il sale non può
più solubilizzarsi e precipita.
Rappresentando graficamente quanto una proteina si solubilizza in funzione della forza ionica,
vediamo che ogni gruppo di proteine ha un comportamento diverso. Qui sono rappresentate
albumine e globuline. Le albumine sono solubili in acqua, ovvero
se prendo una forza ionica molto bassa, sono già quasi al
massimo della loro solubilità, aumentando la forza ionica arrivo
a un certo punto in cui l’aggiunta del sale toglie l’acqua di
idratazione e la proteina tende ad associarsi e precipitare (le
proteine non sono più solubili). Aggiungo acqua, diminuisco la
forza ionica (ritorno indietro). Le globuline sono più complicate
dal punto di vista della loro solubilità, perché il massimo della
solubilità lo ottengo dopo che ho aggiunto un po’ di forza ionica, e questo dipende dalla loro struttura,
quindi l’aggiunta del sale facilita la loro completa idratazione nel mezzo in cui si trovano. È un
intervento complicato perché si basa anche sul fato di schermare alcune cariche. La diversa solubilità
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di diverse specie proteiche sta alla base della separazione di 2 frazioni proteiche, per esempio la
separazione degli anticorpi dal siero nel sangue. Prendo il siero, vi aggiungo una determinata quantità
di sale (solfato d’ammonio), in quelle concentrazioni precipitano tutte le globuline del siero
(immunoglobuline), che sono gli anticorpi che mi interessano, e precipitano mantenendo la loro
struttura nativa. Rimangono solubili le albumine del siero, ovvero la sieroalbumina. Per riportare le
proteine a essere solubili abbasso la forza ionica, con una dialisi oppure diluendo.
La stessa concentrazione (per esempio 2 molare) di sali diversi, porta a una diversa solubilità della
proteina, perché la forza ionica è diversa.
In altri casi la proteina ha solubilità diversa in 2 sali, anche se la forza ionica è la stessa. Qui la differenza
sta nello ione che compone il sale, NA è monovalente, Ca è bivalente, ovvero Na ha carica, Ca ne ha
2.
Nel caso del calcio la proteina precipita, perché avendo Ca 2 cariche positive, ogni ione Ca può fare
da ponte, e schermare sulla proteina 2 cariche negative quindi favorire la formazione di polimeri
formati da monomeri uniti da Ca. invece l’Na+ scherma una sola carica, quindi non riesce a fare da
ponte. Questo è il principio per il quale dagli isolati di soia si forma il tofu, in cui si trattano gli isolati
di soia proteici con idrossido di calcio, mentre se li tratto con idrossido di sodio non si forma.
Ci sono alcuni sali che modificano la struttura nativa della proteina, per cui la precipitazione che
si ottiene dall’aggiunta di questi sali è dovuta alle ragioni sopra citate, oltre che a una modificazione
della struttura proteica. Quindi se voglio cambiare la struttura nativa di una proteina mediante
l’aggiunta di sali, devo sapere quali sali scegliere. La classificazione di questi sali si deve a un chimico
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tedesco, Hofmeister, il quale si è accorto ad esempio, che una proteina era insolubile ma salting out
(quindi manteneva la sua struttura e la sua attività) con 1 M di NaCl, mentre con la stessa forza ionica
ma con
1 M di NaClO4 la proteina precipitava, ma non era più funzionale nel momento in cui la
riportavo in soluzione. Partendo da questo, lui ha classificato i sali in:
Sali strutturanti: sali liofilici, cioè che amano l’acqua, ovvero altamente solvatati in soluzione (cioè che
hanno tanta acqua introno) e agiscono schermando debolmente le cariche superficiali delle proteine
e difficilmente possono togliere l’acqua introno alle proteine; sono sali molto grossi.
Sali destrutturanti: sali che non amano l’acqua, definiti lipofilici, sono molto piccoli, che non hanno
una solvatazione elevata; essi possono agire come i precedenti sulle carche superficiali, ma penetrano
anche all’interno della struttura proteica andando a rompere le coppie ioniche che stabilizzano la
struttura proteica, quindi destrutturano la proteina.
Variazione di solubilità: il pH
Ogni proteina è caratterizzata da un punto isoelettrico, che è il pH al quale la proteina non ha carica
netta definita, ma ha carica netta uguale a 0. Una proteina senza carica netta tende ad associarsi a
proteine nella sua stessa condizione. Quindi a livello del punto isoelettrico, tipico di ogni proteina, ho
il minimo di solubilità, mentre al di sopra e al di sotto del punto isoelettrico ho i massimi di solubilità
della proteina nel mezzo. Il problema è che se ho delle variazioni di solubilità legate a una diversa
schermatura delle cariche superficiali delle proteine, vuol dire che ho aggiunto ioni che variano il pH.
Quindi io vado a toccare le cariche superficiali della proteina, quindi dei gruppi molto delicati, quindi
può succedere che queste schermature portino a un cambiamento strutturale della proteina, anche
se in generale la variazione solubilità causata da una variazione di pH non dovrebbe comportare
questo rischio. Tuttavia variare il pH per far variare la solubilità di una proteina on è un metodo molto
usato, appunto per il rischio sopra citato che comporta.
La virazione di solubilità per pH è fatta per quantificare le caseine nel latte: se porto il latte a pH 4.6,
che è il PI delle caseine, esse precipitano, mentre gli altri componenti proteici presenti, sono solubili a
pH 4.6, come la β-lattoglobulina, che ha PI a pH 5.3. Quanto sono native le caseine separate è un
parametro discutibile.
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Applicazione di variazioni della solubilità negli alimenti
Il primo aspetto importante è legato alla classificazione delle proteine. Le proteine presenti in un
alimento (particolarmente in un cereale) sono classificate in:
•
proteine citoplasmatiche, solitamente non amate perché danno fastidio nelle trasformazioni, e
sono le albumine e le globuline.
•
proteine di riserva, che sono quelle interessanti per capire una certa trasformazione, e sono le
prolamine (di cui fanno parte le gliadine) e le gluteline (di cui fanno parte le glutenine).
Un altro aspetto importante è legato al ruolo dei trattamenti. Cosa succede alla solubilità di una
proteina se faccio un trattamento. Un trattamento può comportare una modifica della solubilità,
ovvero una proteina perfettamente solubile, cambia la sua solubilità perché essa assume una nuova
struttura che non è più solubile in certe condizioni. Per esempio come valutare il trattamento a cui è
stato sottoposto un latte? Il metodo è basato sulla determinazione della quantità di sieroproteine (βlattoglobulina e α-lattoalbumina) solubili a pH 4.6. Ci si è accorti che la differenza sostanziale è la
diversità di trattamento. Se il latte è crudo e vado a pH 4.6 le sieroproteine sono tutte perfettamente
solubili. Il trattamento termico causa la denaturazione della struttura delle sieroproteine, e più intenso
è il cambiamento, più le proteine venivano denaturate e meno sono solubili a pH 4.6. Tuttavia a pH
naturale del latte le sieroproteine, benché denaturate, sono perfettamente solubili. Quindi
considerando un latte sterilizzato, portandolo a pH 4.6, ha le sieroproteine perfettamente insolubili.
Definendo la quantità di sieroproteine solubili in dipendenza dal trattamento è stata fatta una legge
prima italiana e poi europea.
La stessa cosa vale per la definizione dei formaggi: il sistema è basato sulla quantificazione delle
sieroproteine solubili a pH 4.6.
Esempi di modificazioni tecnologiche della solubilità delle proteine:
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Alcuni formaggi, caratterizzati da un processo di acidificazione, che comporta una variazione di pH
tramite acido lattico ad opera dei diversi microrganismi, come un caprino bovino. Il bersaglio della
variazione della solubilità sono la caseine.
Un altro esempio di variazione di solubilità in cui l’azione è prevalentemente termica, è rappresentato
dalla ricotta, come dovrebbe essere fatta: essa deriva dal siero, che è un residuo di caseificazione,
quindi una soluzione acquosa in cui le principali proteine sono le sieroproteine, che vengono
denaturate tramite il calore, e assumono una struttura che macroscopicamente assume la struttura di
un gel, un polimero.
Un altro esempio di variazione di solubilità sta nella gelatina, costituita di una variazione di solubilità
del collagene.
Quando passo dall’albume all’uovo sodo cambio lo stato di associazione e quindi la struttura
dell’albumina, oppure anche la meringa, che devo cuocere altrimenti collassa, quindi il calore stabilizza
anche questa struttura.
Un altro esempio in cui ho una variazione di solubilità è il tofu, costituito da isolati di soia,
perfettamente solubili, ai quali si aggiungono degli ioni metallici, e questi formano un gel.
Un ultimo esempio di variazione della solubilità è rappresentato dall’uso di enzimi, che vanno a
modificare la struttura di una proteina in maniera drastica, che possono o facilitare la solubilità di una
proteina, o rendere meno solubili le proteine, come nel caso della birra. Infatti nel prodotto finito, le
proteine tendono ad essere meno solubili perché il mezzo, da soluzione acquosa è diventato soluzione
alcolica. Le proteine residue meno solubili tendono a formare le torbidità quindi si tende ad
idrolizzarle, renderle più piccole per fare in modo che siano più solubili, tramite proteasi. Nel caso
invece del latte, uso un enzima per far sì che le caseine non siano più solubili, quindi tendano a fare il
coagulo, che è alla base della produzione di certi formaggi.
La variazione della solubilità nella matrice alimentare è alla base della produzione dei gels proteici.
Un gel è un sistema solido che ha una grande capacità di trattenere solvente, in questo caso acqua. I
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gels proteici ho una modificazione della struttura tridimensionale delle proteine, che comportano la
formazione di un aggregato ordinato, il quale è caratterizzato dalla capacità di trattenere grandi
quantità di acqua, fondamentale per definire la texture (aspetti sensoriali e reologici) del prodotto. I
gels proteici possono essere classificati in base alle interazioni che prevalentemente caratterizzano le
proteine che costituiscono il gel, e in base alla reversibilità tra gel-proteina.
Gel stabilizzato da interazioni H
Dei gels che consideriamo, uno solo è
reversibile, ed è la gelatina, costituita da un
gel proteico in cui le interazioni che
stabilizzano l’associazione fra le diverse
proteine è costituita da legami idrogeno. La
gelatina è costituita da collagene, che ha una
struttura ad elica, stabilizzata da interazioni
H
e
ogni
tanto
anche
covalenti
(idrossiprolina). Quando fornisco calore, la
proteina si solubilizza, vengono rotte tutte le
interazioni H, ma quelle covalenti no, per cui
la proteina si apre e si idrata, e diventa
perfettamente solubile. Nel momento in cui
raffreddo, succede che le diverse proteine
che si sono aperte, tendono a formare nuove
interazioni H tra di loro e con il solvente. La
libertà che hanno di formare queste interazioni dipende dalla quantità di legami covalenti presenti,
ma sostanzialmente le proteine tenderanno a formare un reticolo regolare, formato dai diversi
componenti delle proteine del collagene formati da interazioni H, in cui viene trattenuta l’acqua e i
componenti presenti, e si forma un gel. Questo gel ha diverse caratteristiche in dipendenza dai gradi
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di mobilità che hanno le proteine presenti: uso la gelatina di pesce, perché essa ha poche interazioni
covalenti, quindi può legarsi meglio con l’acqua rispetto a quella bovina, oppure uso quella di animali
giovani, caratterizzata da pochi legami covalenti. Chiaramente i legami H si formano quando la
proteina non è in agitazione. Questa situazione è reversibile, perché posso tornare alla soluzione di
partenza riscaldando.
Gels stabilizzati da interazioni elettrostatiche
L’unico esempio è rappresentato dalla
soia. Le proteine di soia, isolate, non
hanno texture e non sono mangiabili,
per cui ci si è accorti che la texture di
queste proteine migliora andando a
trattare queste proteine con ioni calcio,
perché queste proteine sono molto
acide, quindi ricche di gruppi carichi
negativamente. Queste cariche negative
(aspartato, glutammato) al pH normale
sono dissociate, quindi abbiamo una
prevalenza di cariche negative. Se io
aggiungo lo ione Ca++, bivalente, esso
fa da ponte tra le diverse catene di proteine, e quindi si forma un reticolo, al cui interno c’è dell’acqua
e i vari composti presenti. Quindi ho trasformato proteine acide immangiabili in un gel mangiabile.
Posso fare la stessa cosa con un altro ione bivalente, come il magnesio, che è però è amaro, per cui
ottengo un gel analogo, ma amaro. Altri ioni bivalenti hanno altri problemi. Questo processo posso
farlo con isolati proteici di altre leguminose, ottenendo lo stesso risultato. Questo gel è irreversibile.
Gels stabilizzati prevalentemente da interazioni idrofobiche
L’esempio è la ricotta. Essa è un gel prodotto a partire dal siero, residuo della caseificazione. Il siero
è costituito da acqua, lipidi residui, lattosio e sieroproteine (α-lattoalbumina e β-lattoglobulina). Il
siero viene acidificato debolmente e scaldato a 90°C. Questo riscaldamento comporta una
denaturazione delle proteine, che diventano insolubili e tendono ad associarsi formando un gel, un
reticolo proteico. Il reticolo è stabilizzato da interazioni elettrostatiche, idrofobiche e idrofiliche
(intendendo legami H). il trattamento di calore comporta una modificazione della struttura
tridimensionale della proteina. La proteina denaturata presenta le zone idrofobiche esposte durante
il trattamento al calore, e contemporaneamente cerca una nuova stabilità per cui le proteine tendono
a associarsi idrofobicamente, e si viene a formare un gel stabilizzato da interazioni idrofobiche sia tra
proteine uguali, che diverse. Un ruolo importante hanno anche le interazione elettrostatiche, perché
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acidificando vado a toccare la protonazione dei gruppi carichi, e quindi posso favorire l’interazione
tra gruppi che prima non potevano interagire. Questo tipo di interazioni è irreversibile.
Gels stabilizzati da interazioni covalenti
I più importanti gels stabilizzati da interazioni prevalentemente covalenti sono le uova sode, oppure
gli impasti. Nel caso dell’albume trattato termicamente, notiamo che l’albume è costituito per l’80%
da acqua e per il 20% da proteine, e di queste proteine l’80% è ovoalbumina, proteina costituita da
un monomero (che quando cristallizza crea delle forme associate, i tetrameri), pesa 45000 Da, e la sua
caratteristica è quella di avere nella sua forma nativa ponti disolfuro intracatena. Quindi nella
ovoabumina in forma nativa sono presenti all’interno della proteina interazioni idrofobiche e ponti
disolfuro, ma all’interno della proteina stessa è presente anche un residuo di cisteina (-SH), siccome i
residui di cisteina della ovoalbumina sono dispari e ne servono 2 alla volta per creare ponti disolfuro.
Questo –SH si trova all’interno della struttura proteica (non esposto) perché è un residuo facilmente
ossidabile, e una volta ossidata la cisteina non è più biodisponibile. Nel momento in cui scaldo l’uovo,
denaturo la proteina, che assume una struttura diversa da quella nativa. Tra le modificazioni che
avvengono, tra i 2 monomeri di ovoalbumina può succedere che il residuo –SH di un monomero
venga esposto e interagisca con un gruppo S-S intracatena. A questo punto avviene il cosiddetto
scambio di disolfuri. Il residuo –SH crea un ponte disolfuro con un S del ponte già esistente, quindi
l’altro S riceve l’H e forma un nuovo residuo –SH. Ho creato quindi un ponte disolfuro intercatena.
Questa reazione non è una redox, è un semplice scambio di posizione. Alla fine dello scambio ho lo
stesso numero di partenza sia di S-S, sia di –SH. Il reticolo che si crea è il gel, che quindi è formato
prevalentemente da interazioni S-S. La proteina per formare un gel di questo tipo deve essere ricca di
residui cisteinici, quindi di ponti disolfuro e soprattutto deve avere numero dispari di residui di cisteina.
Esattamente lo stesso principio è quello che mi permette di ottenere un impasto.
È un processo irreversibile perché è impossibile riformare legami disolfuro intracatena.
Gels stabilizzati da interazioni idrofobiche ed elettrostatiche
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Queste interazioni sono a carico della caseina, la quale può formare gels andando a modificare le
interazioni idrofobiche ed elettrostatiche con 2 diversi agenti e si formano 2 diversi tipi di gel e 2
prodotti diversi. Allo scopo di capire come si formano questi gels occorre esaminare la struttura della
caseina. Normalmente con caseina si intendono 4 famiglie diverse di caseina:
o
β-caseina
o
αs1-caseina
o
αs2-caseina
o
k-caseina
Spesso viene indicata come famiglia anche la γ-caseina, che in realtà è un frammento di β-caseina
(deriva dall’idrolisi della β-caseina).
Ogni famiglia di caseine è caratterizzata da un polimorfismo esteso, ovvero ogni famiglia presenta
diverse variabili di caseina.
La caseina è formata da residui caratteristici, che ogni famiglia possiede in diverse quantità specifiche,
pesa mediamente 20.000 Da, quindi è composta da circa 200 amminoacidi:
•
incidenza molto elevata di prolina (Pro), quindi è poco organizzata strutturalmente, perché molti
residui di Pro non consentono alla proteina di assumere una struttura secondaria, creando dei
punti di rigidità;
•
hanno una distribuzione abbastanza uniforme di residui idrofobici, per cui queste proteine in
ambiente idrofilico, per essere solubili o in sospensione, devono organizzarci in modo tale da non
esporre questi residui;
•
hanno una serie di residui di serina (Ser), che possono andare incontro a fenomeni posttraduzionali, o di glicosidazione o di fosforilazione; in questo caso abbiamo fenomeni di
fosforilazione, ovvero al residuo di serina si lega un gruppo fosfato, e questo fatto fa sì che questa
proteina abbia una serie aggiuntiva di gruppi carichi negativamente; in più la fosforilazione è
enzimaticamente mediata, quindi questi residui di serina possono essere tutti fosforilati, oppure
solo in parte, in dipendenza dal quadro enzimatico del latte.
Sia nelle αs1-caseine che nelle αs2-caseine abbiamo queste caratteristiche.
La β-caseina è particolarmente ricca di residui idrofobici e le zone fosforilate sono ben posizionate in
una piccola porzione. Questa proteina è tra le 4 la più idrofobica.
La k-caseina ha una peculiarità: nella parte c-terminale ha una serie di residui di treonina (Thr), che
tutti o in parte, hanno la peculiarità di essere glicosilati. Quindi questa proteina viene resa più polare,
e quindi che può essere più facilmente esposta all’ambiente acquoso.
Queste proteine, per le loro caratteristiche appena spiegate, se messe
in acqua hanno un’unica alternativa: associarsi tra di loro in una
struttura quaternaria particolare che dà origine alla micella di caseina,
compatibile con l’ambiente acquoso. La micella di caseina è fatta da
tante submicelle associate. La submicella è fatta dall’associazione delle
4 frazioni di caseine, associate idrofobicamente in modo tale che le
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parti più idrofiliche siano esposte verso il solvente. In pratica nella parte più interna della micella
troviamo la β-caseina, poi αs1-caseina e αs2-caseina associate e k-caseina, posizionata in base da
avere la parte glicosilata rivolta verso l’esterno. Esposte ci sono anche le zone idrofiliche appartenenti
alle altre frazioni idrofiliche, ovvero quelle con presenti i residui di serina legati ai gruppi fosfati, carichi
negativamente. Il fosfato può stabilire interazioni elettrostatiche con il calcio, che ha 2 cariche positive,
e può fungere da ponte fra 2 submicelle. In questo modo ottengo la struttura della micella di caseina,
che fa sì che il sistema sia termodinamicamente favorevole all’interno del latte. Le dimensioni di queste
micelle dipendono dalla mutua distribuzione di contenuto nel latte delle diverse frazioni di caseina.
Esistono diversi sistemi per ottenere dei gels che agiscano sulla caseina:
Il sistema più semplice di perturbare questa struttura è acidificare, perché vado a toccare la
dissociazione dei gruppi fosfato, quindi acidificando cambio le interazioni elettrostatiche, il calcio si
lega di meno e la struttura tende a precipitare. Il risultato è lo yogurt.
Posso alterare ulteriormente il legame con il calco, togliendo il calcio o rendendolo meno disponibile
all’interazione all’interno della micella. Questo è il principio con il quale vengono fatti i formaggi fusi.
Si prendono degli agenti che hanno un’affinità verso il calcio, detti agenti di fusione, che altro non
sono che chelanti. Fino a pochi anni fa si utilizzavano i polifosfati, che erano dei composti molto più
affini al calcio dei gruppi fosfato, quindi dopo aver alzato un po’ la temperatura rubavano il calcio e
dissociavano la micella di caseina, inoltre legavano anche tanta acqua. Nel momento in cui raffreddavo
la micella di caseina tendeva a riassociarsi idrofobicamente formando un gel molto lasso, perché c’era
la presenza dei sali di fusione che legava molta acqua, creando il formaggino. La caseina non
ritornava alla struttura nativa perché mancava il calcio, ma non era profondamente destrutturata. I
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polifosfati sono stati poi proibiti perché chelano così bene il calcio, da non renderlo più disponibile.
Ora i polifosfati sono sostituiti dal citrato, che svolge la stessa funzione dei polifosfati. Riconoscere un
formaggio fuso da uno non fuso, è il fatto che diventa marrone se scaldato, perché ha un elevato
contenuto in acqua che favorisce le reazioni di Maillard.
Un terzo modo per alterare la struttura della caseina è intervenire con un enzima e tagliare. Posso
intervenire con enzimi non specifici per ottenere tanti piccoli peptidi. Posso invece fare un intervento
enzimatico mirato e dare origine a un coagulo e quindi a un gel che dà origine ai formaggi. Esiste un
enzima, la chimosina, che, messo a contatto con la micella di caseina, taglia specificatamente in
corrispondenza del residuo 105-106 (Phe-Met) della k-caseina. Questo residuo sta nella zona cterminale, nella regione idrofilica, esposta al solvente. Quindi se idrolizzo con la chimosina, faccio
perdere alla k-caseina la zona idrofilica, per cui la micella espone delle zone idrofobiche e tende a
raggiungere la stabilità associandosi idrofobicamente tramite le nuove parti esposte. Si forma una
rete ordinata formata da micelle di caseina e da tutte le componenti del latte. Macroscopicamente sto
assistendo alla formazione del coagulo. Le interazioni che stabilizzano il coagulo sono quelle
idrofobiche e quelle elettrostatiche, già presenti nella micella di caseina. Questo coagulo che si va
formando tende a compattarsi sempre di più, quindi occorre intervenire con la rottura del coagulo,
altrimenti andrebbero avanti le associazioni idrofobiche che escluderebbero tutte le componenti
all’infuori della caseina. Le caratteristiche di questo gel sono legate al tipo di prodotto che voglio fare,
quindi posso avere un gel più o meno lasso, e posso far intervenire diversi microrganismi in funzione
del prodotto che voglio ottenere, per acidificare più o meno il prodotto, e quindi intervenire sulle
interazioni elettrostatiche.
Per la formazione del coagulo è fondamentale il fatto che la micella sia nativa, ovvero venga trattato
latte crudo o al limite scaldato di poco. Infatti se il latte è UHT la mia micella modifica la sua struttura
quaternaria, e può fare scambio di disolfuri con la β-lattoglobulina, formando ponti disolfuro
intercatena che precludono l’azione dell’enzima, e quindi non si può idrolizzare la k-caseina e non si
forma il coagulo. Ma c’è anche un effetto positivo: se scaldo blandamente in caldaia il latte crudo
prima della caseificazione, mi si formano pochissimi legami con la β-lattoglobulina, quindi mi viene
preclusa l’azione dell’enzima, ma questa caseina ha attaccato covalentemente un po’ di sieroproteine,
e questo è un vantaggio economico perché aumento di poco le rese di caseificazione. Il latte per il
consumo umano non va bene per fare il formaggio, perché viene omogeneizzato, e
l’omogeneizzazione evita la separazione delle fasi, ma va anche ad alterare il la struttura dei globuli
di grasso e delle micelle, che sono idrolizzabili ma non fanno il coagulo.
Interazioni con piccole molecole
Le proteine hanno 2 ruoli nelle interazioni con le piccole molecole:
1. Le proteine, con una struttura ben definita, con zone idrofobiche poste all’interno, con zone
idrofiliche esposte, e zone con idrofobicità superficiale. Queste zone hanno un ruolo molto importante
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perché qui è possibile che si leghino dei composti idrofobici che hanno un ruolo molto importante,
per esempio gli aromi. Essi, oltre a essere sostanze idrofobiche, sono sostanze volatili. Le proteine
hanno il ruolo di fungere da trattenitori degli aromi, e lo fanno tramite legami idrofobici. C’è da
tenere presente che non è un legame che coinvolge un solo residuo idrofobico, ma coinvolge una
zona idrofobica, quindi la struttura della proteina è molto importante, e se la struttura viene alterata
non è detto che l’aroma si leghi. Un aspetto molto importante è che non è necessario che la proteina
sia solubile. L’esempio più importante è la sieroalbumina, che ha una struttura con un solco idrofobico
perché la sua funzione è legare gli acidi grassi nel sangue, quindi si pone a cavallo della fase lipidica
e trattiene anche l’acqua. La stessa cosa funziona con gli aromi. Uso le sieroalbumine del latte e non
le sieroproteine del latte per la BSE. Quindi le proteine servono a legare composti che andrebbero
persi o andrebbero a compartimentare la struttura dell’alimento.
2. Un altro caso che riguarda l’interazione tra proteine e piccole molecole è rappresentato dalla
chiarifica dei prodotti enologici. In questo caso viene sfruttata la proprietà delle proteine di legarsi
attraverso interazioni prevalentemente idrofobiche con dei composti presenti in molti alimenti, i
polifenoli. Essi sono una categoria di composti (di cui i principali sono gli antociani per esempio) che
hanno interessanti proprietà nutrizionali. Ci sono polifenoli importanti per la caratterizzazione del
prodotto perché conferiscono le caratteristiche aromatiche del prodotto, e ci sono delle famiglie di
polifenoli ritenuti responsabili di una serie di fenomeni degradativi a carico dei prodotti, per esempio
della torbidità. La scelta che viene fatta in una fase di preparazione del vino è quella di allontanare i
polifenoli negativi e mantenere i polifenoli responsabili dell’aroma. Il fenomeno di chiarifica quindi,
che ha lo scopo di migliorare le caratteristiche astringenti e quindi eliminare i tannini, aumentare la
stabilità dei vini bianchi controllando l’imbrunimento e la polimerizzazione dei polifenoli e di facilitare
la filtrabilità, sfrutta l’associazione tra polifenoli e proteine. Non tutte le proteine vanno bene per
questo scopo, alcune con una struttura ben precisa vanno meglio. Le proteine migliori sono le
sieroalbumine, quindi fino alla manifestazione della BSE si utilizzava sangue animale, un prodotto a
basso costo e ideale per il processo. Chiaramente ora non viene più utilizzato, per cui si cercano nuove
proteine. Si è fatto uno studio per individuare quale famiglia di proteine è più adatta a questo scopo.
Nella scelta della famiglia adatta delle proteine, esse devono avere una zona di idrofobicità superficiale
che abbia una buona affinità verso i polifenoli. Nei grafici è rappresentata la scelta di 4 diverse proteine
(derivanti da leguminose o cereali), e si è misurata la loro idrofobicità superficiale in funzione della
quantità di 2 categorie di polifenoli che nel vino danno problemi non desiderati. L’idrofobicità viene
misurata andando a vedere che l’interazione tra proteine e polifenoli comporta una diminuzione di
fluorescenza. In assenza di catechine per esempio abbiamo un certo valore di idrofobicità espresso
sulle ordinate da un valore arbitrario di fluorescenza. Se io aggiungo catechina, ed essa si lega,
diminuisce la fluorescenza, vuol dire che il composto si è legato alla proteina. Da qui ricaviamo che
l’affinità (capacita di legare) delle diverse proteine non è uguale, quindi la soia e l’estratto di pisello
(leguminose) hanno una maggior capacità di legare l’estratto di polifenoli, perché notiamo un salto
significativo di fluorescenza dai valori iniziali a quelli finali.
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Quindi una prima scelta può essere quella delle
leguminose. Vediamo se queste indicazioni
funzionano sul vino.
Qui vediamo rappresentata la misura di
torbidità, procedura che viene spesso eseguita
nelle cantine, in cui in un vino poco torbido si
misura la torbidità presente in funzione della
presenza dei 4 estratti proteici aggiunti. Noto
una significativa diminuzione della torbidità
rispetto al campione e ottengo una conferma
del ruolo importante della soia e del glutine su
questo vino., anche se tutti gli estratti proteici
sono efficienti. Da notare che la diminuzione
della torbidità di circa il 50%.
Passando ad un vino più torbido, aggiungo gli
estratti proteici e la torbidità si riduce ben più
della metà in tutti e 4 i casi.
(il primo grafico si riferisce al vino poco torbido,
il secondo al vino molto torbido)
Da questa prova notiamo che tutti e 4 gli estratti proteici funzionano, ovvero abbassano notevolmente
la torbidità, perché si legano ai polifenoli, responsabili delle alterazioni. Quale di questi scelgo? Devo
scegliere delle proteine che elimino i polifenoli responsabili della torbidità, danneggiando il meno
possibile i polifenoli che danno l’aroma al vino.
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Sulle 2 tipologie di vino esaminiamo poi come i composti proteici tolgono la componente aromatica.
Dal grafico vediamo la quantità residua di ciascun componente aromatico dopo essere stato trattato
con tutti i tipi di proteine. I 4 tipi di proteine non funzionano allo stesso modo, per esempio nel vino
A poco torbido la lenticchia danneggia molto la componente aromatica, quindi la elimino come
possibile componente proteica. Le altre 3 componenti proteiche funzionano più o meno
efficientemente.
Esaminando il vino B, molto torbido, per il quale un intervento di chiarifica è più importante, viene
confermata l’inefficienza della lenticchia, mentre il glutine su alcuni componenti ha una rimozione
molto maggiore, vediamo che può essere utilizzata anche la gelatina ma molti preferiscono non usarla
perché è di origine animale. I 2 isolati che funzionano meglio sono la soia e il pisello. Quale dei 2
scelgo? In molte cantine viene prevalentemente usato il pisello, per 2 motivi: la soia è transgenica, e
la soia è un allergene (è uno degli alimenti che può generare allergie).
Queste proteine nella chiarifica vengono aggiunte, utilizzate e poi allontanate, quindi al massimo nel
prodotto può essere presente qualche traccia di proteine. In etichetta va sempre dichiarato se in fase
di produzione è stato utilizzato un qualsiasi alimento o derivato da alimenti potenzialmente fonte di
allergie. Quindi la caratteristica che devono avere queste proteine è una buona idrofobicità
superficiale per essere in grado di legare questi composti. Tuttavia non devono essere in grado di
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legare aspecificatamente i polifenoli, ma devono avere per esempio una maggiore affinità per i tannini
o per tutti i composti che danno torbidità.
Utilizzo di enzimi per diagnostica alimentare
Gli enzimi nelle produzioni alimentari possono essere utilizzati per 2 motivi principali:
1. finalità analitiche
2. per seguire l’effetto di un processo
gli enzimi vengono usati perché rappresentano dei marcatori interni molto comodi o dei mezzi di
reazione per trasformare qualcosa che posso misurare.
Utilizzo di un enzima come analisi di processo
È la misura della concentrazione di un enzima, intesa come attività enzimatica. Io posso misurare
un enzima in 2 modi: o misurandone la sua concentrazione come proteina, ma non è una misura utile,
oppure misuro quanto questo enzima è funzionale, ovvero quanto è in grado di fare la sua funzione
catalitica. Ai fini di un processo l’attività di un enzima è una misura cinetica, ovvero l’attività di un
enzima si esprime in moli di prodotto generato o consumato nel tempo per una quantità. L’attività di
un enzima può essere misurata:
•
a tempi prefissati, che è il metodo più usato, in cui faccio agire un enzima per un certo tempo
e poi vado a determinare o quanto substrato è stato consumato o quanto prodotto è stato
fatto;
•
in continuo, cioè seguo nel tempo la scomparsa del substrato o la formazione del prodotto.
L’analisi dei processi può avere 2 aspetti:
o
aspetto analitico: faccio un certo trattamento e so che se esso è stato efficace o meno andando
a misurare l’attività dell’enzima;
o
aspetto predittivo: costruisco un modello conscendo per esempio la velocità di inattivazione
dell’enzima in determinate condizioni, e poi costruisco le condizioni ottimali che mi interessano.
L’aspetto predittivo è quello è più interessante. In entrambe le condizioni devo misurare l’attività
enzimatica, e quello che misuro è la velocità di una reazione (che dipende, oltre che dalla
concentrazione di substrato, dalla quantità di enzima presente). In base al sistema che ho per
quantificare il prodotto generato, ho diversi saggi ezimatici, che possono essere
▪
Spettrofotometrici, che vengono usati più spesso perché sono i più comodi, in cui misuro la
formazione di un prodotto o la scomparsa di un substrato attraverso una misurazione in
assorbanza; può essere un composto colorato (posso usare un colorimetro) o può essere o in
ultravioletto (devo usare lo spettrofotometro)
▪
Fluorimetrici, ovvero la formazione di un prodotto o la scomparsa del substrato è accompagnata
da una variazione di fluorescenza;
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▪
Calorimetrici, che misura le variazioni di entalpia ed entropia legati ad una variazione di attività
enzimatica;
▪
Mediante pH-stat, in cui misuro una variazione locale di pH: per esempio una lipasi libera da un
trigliceride un acido grasso, quindi ho la presenza di un digliceride e di un acido grasso, e
localmente il pH cambia, perché in presenza di un acido grasso ho localmente una liberazione di
protoni; vale anche per molte proteasi, perché la rottura del legame peptidico porta alla
liberazione di gruppi protonati;
▪
Cromatografici: faccio reagire la mia misura e poi quantifico separando dalla mia misura il
prodotto; il dosaggio di numerosi enzimi del metabolismo, per esempio di quelli deputati alla
formazione del colesterolo, viene fatto con metodi cromatografici.
Per dosare la quantità di un enzima devo tener presente la quantità di substrato che deve essere
presente. Il substrato non deve essere limitante, quindi normalmente la concentrazione di substrato
che deve essere presente in un saggio enzimatico deve essere 10 volte superiore alla KM  [S]>10*KM
(KM è la costante di Michaelis). In questa condizione se noto una diminuzione della mia attività
enzimatica, non è dovuto al fatto che l’enzima ha consumato tutto il substrato, ma che è un enzima
poco efficiente.
I substrati possono essere naturali o sintetici, ovvero posso usare il substrato per dosare l’enzima che
si trova nell’alimento, oppure posso usare un substrato analogo a quello dell’alimento ma molto più
comodo. Spesso la scelta del tipo di substrato influenza anche il tipo di dosaggio, che può essere:
•
Continuo: misuro in continuo il procedere della reazione, ovvero la formazione di prodotto
•
Discontinuo: devo arrestare la reazione per misurare il prodotto che si è formato
Il dosaggio può essere anche:
o
Semplice: misuro direttamente la formazione del prodotto
o
Accoppiato: il prodotto che si è formato dall’enzima che mi interessa non è direttamente
misurabile (per esempio non è colorato o fluorescente, oppure non riesco a separarlo in maniera
decente), quindi viene aggiunto nel saggio un altro enzima che trasforma il prodotto ottenuto
dalla reazione che mi interessava, in qualcosa di misurabile. In questo caso il secondo enzima
(ausiliario) deve trasformare immediatamente tutto quello che ho prodotto in qualcosa di
misurabile.
Un
esempio
di
substrato
naturale
molto
diffuso
è
rappresentato dal fatto che il NAD (vale anche per il NADP) ha
una diversa assorbanza in funzione che il composto sia nella
forma ossidata o nella forma ridotta. Rappresentato nello
spettro di assorbanza vediamo che il NAD ridotto (NADH o
NADPH) assorbe a 340 nanometri, mentre il NAD ossidato non
assorbe (non c’è nessuna assorbanza). Se in un saggio
enzimatico è prevista l’ossidazione o la riduzione del NAD, ho
un sistema, se uso il substrato naturale, per misurare l’attività
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enzimatica. Un esempio: voglio determinare quanto glucosio-6-P è presente nel sangue, quindi devo
fare un saggio sull’attività della glucosio-6-P-deidrogenasi, ho come substrato il glucosio-6-P e il
NADP+. L’enzima trasforma il glu6P in 6-fosfogluconato e il NADP in NADPH. Questo è il substrato
naturale. Se io seguo l’attività dell’enzima per 10 minuti posso misurare la formazione di NADPH
(ridotto), quindi misuro l’assorbanza a 340 nm, ed è un saggio continuo.
In una reazione che porta all’ossidazione del NAD osservo invece la comparsa di assorbanza a 340
nm.
Un esempio di substrato sintetico è stata fatta in laboratorio nel modulo 1 quando abbiamo misurato
la formazione di giallo nel saggio della tripsina. Il substrato era la BAPA, ovvero una arginina legata a
un composto, che era legata al composto tramite un legame simile a quello peptidico, l’enzima
rompeva il composto e si andavano a creare 2 prodotti, di cui uno era giallo. Il vantaggio di questo
substrato è che diventa immediatamente giallo.
Il saggio continuo è quello in cui abbiamo la formazione di prodotto nel tempo, senza arresto della
reazione. La formazione di prodotto a parità di enzima nel tempo, segue un andamento a parabola:
per un certo tempo, che dipende dalla quantità di enzima, la formazione di prodotto è lineare, dopo
curva, cioè la quantità di prodotto nel tempo non è più lineare col tempo stesso. Quindi quando faccio
il saggio enzimatico devo essere in una condizione lineare, ovvero in cui la quantità di prodotto è
lineare nel tempo, quindi devo essere entro pochi minuti, perché se vado oltre questo tempo non ho
più la linearità e posso commettere errori molto superiori al 5%. Lo stesso concetto vale per un
dosaggio discontinuo, che a differenza del saggio continuo, va costruito per punti.
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Per quanto riguarda il saggio semplice, la reazione catalizzata dall’enzima produce direttamente il
prodotto B che posso quantificare.
Invece nel caso della reazione accoppiata, l’enzima produce un composto B, che io non posso
misurare con nessun mezzo, quindi devo trasformare con un enzima ausiliario che trasforma B in un
prodotto C che riesco a misurare. Chiaramente le condizioni in cui lavorano i 2 enzimi sono
completamente diverse, perché l’enzima ausiliario deve semplicemente trasformare immediatamente
e tutto B in C. quindi devo mettere l’enzima ausiliario in forte eccesso, in modo tale da rendere
immediata la trasformazione.
Il
sistema
che
viene
maggiormente
utilizzato
all’interno di un processo è rappresentato da quello
in
cui
va
misurato
l’effetto
sull’enzima.
Parliamo
di
del
trattamento
decadimento
termico,
attraverso una procedura in cui misuro nel tempo a
una
determinata
condizione,
quant’è
l’attività
presente. Si prende un enzima e la si tiene ad una
certa temperatura per un determinato tempo e poi
misuro la sua attività enzimatica. Ottengo le curve di
decadimento.
Il decadimento termico è descritto da una reazione cinetica del primo ordine:
At = attività al tempo t
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A0 = attività iniziale
t = tempo
k’ = costante di velocità apparente della reazione di inattivazione termica
Che in forma frazionale diventa:
La reazione di decadimento termico può essere studiata sperimentalmente trattando termicamente
un enzima ad una data temperatura per diversi tempi. Dai punti sperimentali così trovati viene
determinata la k’ della reazione di inattivazione termica a quella temperatura. Questa ultima
operazione viene facilitata dalla linearizzazione dell’equazione cinetica del primo ordine:
Il valore della k’ viene determinato attraverso una regressione lineare.
Conoscere la k’ di un processo permette di fare studi analitici e/o predittivi sul processo stesso.
Fattori che influenzano la costante di velocità per il decadimento dell’attività enzimatica:
•
temperatura: la k’ cresce al crescere della temperatura
•
tipo di molecola/composto: due proteine differenti possono avere k’ differenti alla medesima
temperatura
•
condizioni sperimentali: pH, forza ionica, cosoluti, ecc…
•
presenza di ligandi: molecole che possono interagire con la proteina in esame stabilizzandola o
destabilizzandola.
Tempo di dimezzamento (t½ )
E’ il tempo nel quale, ad una data temperatura, si denaturano metà delle proteine presenti (es. da 100
iniziali diventano 50). Può essere calcolato se si conosce la k’ della reazione.
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L’Arrhenius plot permette di definire la dipendenza di k’ dalla temperatura:
Ea = energia di attivazione (J mole-1)
R = costante dei gas perfetti (8.314 J mole-1 K-1)
T = temperatura in Kelvin (K)
A = fattore pre-esponenziale
Costruzione del grafico di Arrhenius
Conoscendo almeno 3 valori di k’ determinati a tre differenti temperature (per lo stesso enzima), è
possibile determinare i valori di “Ea” e di “A” costruendo il grafico di Arrhenius. Anche in questo caso
l’equazione viene linearizzata:
La retta di linearità di questo grafico permette di calcolare, a una determinata temperatura, la velocità
con la quale avviene il decadimento che interessa. Un aspetto importante è che nel caso degli enzimi
il grafico non è lineare, ma molto spesso è costituito da una spezzata. Ciò vuol dire che nel caso delle
proteine, ma soprattutto degli enzimi, esiste una temperatura, definita temperatura di transizione, alla
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quale cambia bruscamente la pendenza del grafico di Arrhenius. Quindi devo stare lontano dalla
temperatura di transizione durante il processo, perché se sto vicino alla temperatura di transizione e
devo inattivare un enzima, anche mezzo grado può cambiare significativamente la velocità con cui
inattivo l’enzima. Se sono lontana dalla temperatura di transizione posso prevedere il comportamento
enzimatico, mentre se sono vicina non riesco a controllare bene il processo.
Utilizzo di un enzima per finalità analitiche
In questo caso uso l’enzima per misurare un certo composto, per vedere le concentrazioni di un
determinato analita in un alimento, per esempio voglio sapere quanto glucosio c’è in una scatola di
succo di frutta: uso un enzima, che attraverso una sua reazione, misura quanto glucosio c’è in un
alimento. Quindi l’enzima in un tempo ragionevole mi permette di misurare la concentrazione
dell’analita che voglio misurare. Qui uso l’enzima in condizioni end point, cioè all’equilibrio, in cui
l’enzima funge da catalizzatore per trasformare l’analita in qualcosa che posso misurare.
Siamo nel caso in cui A+B viene trasformato in C+D e questa
trasformazione deve portare a 2 elementi:
•
si deve formare (o consumare) una specie facilmente rilevabile
(cioè che assorbe la luce nel visibile o nell’ultravioletto) e quindi
facilmente quantificabile mediante uno spettrofotometro
•
all’equilibrio deve andare a completamento: l’equilibrio chimico deve essere spostato verso i
prodotti, la quantità residua del substrato da quantificare all’equilibrio deve essere trascurabile.
In una matrice complessa come quella alimentare posso determinare:
•
Un singolo composto, ad esempio il lattosio in un prodotto. Lo posso determinare con
o
una reazione semplice, ovvero trasformo per esempio il lattosio in qualcosa che misuro
o
una reazione accoppiata, per esempio il lattosio viene trasformato in un prodotto B, il quale
a sua volta attraverso un altro enzima viene trasformato in un prodotto C misurabile.
Scelgo quale dei 2 metodi usare perché molte volte c’è solo un’alternativa possibile.
•
Più composti, ad esempio voglio determinare in un alimento il saccarosio, il glucosio e il fruttosio.
Qui devo usare più enzimi in un’opportuna sequenza.
In questi casi l’enorme vantaggio è che devo solo diluire l’alimento, mettere gli enzimi in condizioni
normali e immediatamente determinare un composto.
Alcuni esempi:
Voglio determinare il glutammato in un alimento. Faccio una sospensione e determino il glutammato
utilizzando l’enzima glutammato-deidrogenasi. Questo enzima produce l’α-chetoglutarato (che è il
glutammato senza il gruppo amminico) e l’ammoniaca. È una reazione che avviene anche a livello
metabolico. Chimicamente il glutammato è ridotto, mentre l’α-chetoglutarato è ossidato, quindi la
reazione è redox, quindi se qualcosa si ossida, c’è qualcosa che si riduce. In questo caso a ridursi è il
NAD. Quindi la quantità di NADH che si forma è proporzionale alla quantità di glutammato che è stato
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trasformato in α-chetoglutarato. In un saggio di questo tipi misuro la formazione di NADH, che ha
un’assorbanza a 340 nm. In questo saggio praticamente prendo del dado, faccio una sospensione,
aggiungo una soluzione con dentro NAD+, aggiungo l’enzima, lascio agire per circa 15 minuti e poi
misuro quanto NADH si è formato. Il substrato che deve essere trasformato è il glutammato, quindi
in quel tempo prefissato deve essere tutto trasformato in l’α-chetoglutarato. L’altro substrato è il NAD,
che deve essere aggiunto in forte eccesso, perché non deve essere limitante, e se ne avanza non
comporta problemi al saggio.
Voglio dosare l’ammoniaca in un alimento, e lo faccio nelle uova e nel pesce. Uso lo stesso principio
e
lo
stesso
enzima.
Esso
converte
l’α-chetoglutarato
e
l’ammoniaca
in
glutammato,
contemporaneamente questa è una reazione di riduzione, quindi comporta l’ossidazione del NAD.
Quindi in questo caso misuro la comparsa di NADH, ovvero il decremento di assorbanza a 340 nm.
Qui metterò 2 substrati in eccesso, l’α-chetoglutarato e il NADH, e il loro eccesso non dà problemi
perché quella che comanda il tutto è l’ammoniaca.
Un caso più complicato è quello in cui devo misurare A che viene trasformato in B, che è misurabile,
ma la reazione non trasforma A in B in un tempo ragionevole, perché raggiunge l’equilibrio quando
la quantità di A residua non è affatto trascurabile. In questo caso devo spingere la reazione verso la
conversione in più possibile di A in B. Quindi aggiungo un secondo enzima che trasformi
immediatamente il B in C, in modo da portare la prima reazione lontana dall’equilibrio, e l’enzima
continua a trasformare A in B fino all’esaurimento di A stesso.
Un esempio è il dosaggio dell’etanolo. Esso in condizioni anaerobiche va a formare acetaldeide tramite
l’alcol-deidrogenasi, che contemporaneamente mi porta la riduzione del NAD+ a NADH. Questa
conversione in condizioni fisiologiche difficilmente raggiunge una conversione totale di etanolo in
acetaldeide. Per spostare l’equilibrio a destra ho 2 opzioni:
•
alcalinizzo, però perdo la funzionalità dell’enzima
•
trasformo ulteriormente l’acetaldeide
L’acetaldeide può essere ulteriormente ossidata ad acido acetico, tramite l’aldeide-deidrogenasi. In
questo caso nel saggio utilizzo 2 enzimi, l’alcol-deidrogenasi e l’aldeide-deidrogenasi, in modo da
spostare l’equilibrio verso destra. Un saggio di questo tipo viene utilizzato per dosare l’etanolo in
moltissimi alimenti, perché c’è una forte richiesta di prodotti senza etanolo.
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In questo caso misuro la quantità di NADH prodotto, ma devo ricordare che la quantità di NADH
prodotto è il doppio di quelle di etanolo consumato, perché da 1 molecola di etanolo produco 2
NADH in 2 reazioni redox diverse.
Un altro esempio è il dosaggio del glucosio, utilizzato sia negli alimenti che per le analisi del sangue.
Il glucosio può essere trasformato ad opera della esochinasi in glu-6-P, che può diventare 6fosfogluconato in contemporanea a riduzione del NAD a NADH, misurabile. Io nel tempo misuro
quanto NADH si è formato: tot moli di NADH prodotto, tot moli di glucosio presente.
Questa reazione è una base per molti saggi, ovvero se voglio sapere il dosaggio di glucosio e fruttosio,
accoppio altri enzimi. Per esempio voglio determinare contemporaneamente il glucosio e il fruttosio
presenti in un alimento. Per dosare il glucosio faccio la reazione qui sopra. Una volta dosato il glucosio
procedo con l’aggiunta della esochinasi e trasformo il fruttosio in fru-6-P.
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Denaturazione da processi di proteine alimentari
Essi sono processi che comportano una modifica della struttura tridimensionale della proteina. Una
semplice classificazione dei processi può essere fatta in base all’agente che ne determina la
denaturazione. Abbiamo così la denaturazione fisica, in cui l’agente che ne determina la
modificazione strutturale è fisico, come per esempio un agente meccanico o termico (alte
temperature), oppure una denaturazione chimica, che porta alla formazione di nuovi composti,
ossidazione, isomerizzazione, glicosidazione; infine abbiamo la denaturazione enzimatica, in cui
abbiamo la modifica della struttura terziaria della proteina ad opera di enzimi isolati, oppure ad opera
di microrganismi e in questo caso gli enzimi non sono isolati ma presenti all’interno del
microrganismo. Tutti questi agenti comportano delle modificazioni della struttura tridimensionale
della proteina che possono avere esiti positivi o negativi sulla qualità del prodotto stesso.
In questa tabella sono riassunti alcuni processi. Per
esempio
la
creazione
della
pasta
è
una
denaturazione meccanica (anche termica) a carico
di una specifica frazione di proteine, il glutine,
costituito da gliadine e glutenine, che porta
modificazioni delle interazioni S-S e idrofobiche. Un
altro esempio è il passaggio da latte a formaggio è
una modificazione della componente proteica
principale, che subisce denaturazione enzimatica, in
cui ho un enzima specifico che idrolizza le proteine
su uno specifico residuo. Un altro esempio è la
conservazione di alcuni frutti in diversi modi, alla cui
base c’è sempre un intervento enzimatico che
comporta
delle
modificazioni
strutturali
che
consente al prodotto di essere conservato. Tutti i
processi di sanitizzazione termica hanno lo scopo
principale di ridurre la carica microbica per
aumentarne la shelf life, però accanto a questo ho una serie di modificazioni strutturali a carico delle
proteine dell’alimento. Un altro esempio è rappresentato dall’omogeneizzazione; molti prodotti vanno
incontro a omogeneizzazione, che comporta delle modificazioni strutturali delle macromolecole, in
particolar modo delle proteine (nel caso del latte anche della frazione lipidica). Un altro esempio di
denaturazione è la cottura. Un ultimo esempio è la estrusione, che fa cambiare la struttura dell’amido
e delle proteine.
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Denaturazioni dovute ad agenti fisici
Gli agenti fisici sono i seguenti:
•
temperatura
•
radiazioni
•
sforzi di taglio
•
alte pressioni, al di sopra delle 6000 atm
Accanto a questi ci sono altri agenti fisici che non affrontiamo.
Denaturazione termica
Una denaturazione termica avviene in moltissimi processi: sanitizzazione, cottura, essicamento,
congelamento etc.
I bersagli di un trattamento termico sono principalmente le proteine globulari. L’effetto di un
trattamento termico sulla struttura di una proteina globulare è la rottura dei legami a H,
conseguentemente o in contemporanea essa mi comporta che la proteina espone le regioni
idrofobiche e può avvenire anche lo scambio di disolfuri (ponti che sono intracatena diventano
intercatena). L’effetto macroscopico che osservo in seguito a queste modificazioni è la formazione di
gels (albume formato da interazioni S-S) o la formazione di aggregati insolubili, ovvero polimeri
formati sia da proteine uguali che da proteine diverse, stabilizzati da interazioni idrofobiche e S-S
interproteina. Questi aggregati man mano diventano grossi perdono di solubilità e io posso avere una
precipitazione. Un altro esempio di denaturazione termica è quella che avviene sul collagene, un altro
è quello delle proteine muscolari, che cuocendo cambiano di colore e anche la texture, che a livello
molecolare significa la formazione di un gel. Un altro esempio è la cottura di alcuni prodotti in cui le
proteine hanno una precisa struttura. Si parla di pane e pasta, in cui durante la cottura ho dei
cambiamenti a carico della struttura proteica che caratterizza il prodotto, fondamentali per definirne
la texture, la qualità e la conservabilità del prodotto. Le proteine che si sono modificate sono quelle
del glutine.
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Che effetti ha la temperatura sui diversi componenti di un
alimento. Man mano che aumento la temperatura, ovvero
maggiore è l’intensità del trattamento, maggiori saranno le
componenti che si modificano. All’inizio modifico la struttura
della cellula intera, poi aumentando l’intensità dell’alimento
modifico le piccole molecole, come le vitamine. Aumentando
ancora l’intensità modifico i polimeri strutturati di un alimento,
che sono le proteine e il DNA, e poi i polimeri non strutturati,
ovvero i lipidi e i polisaccaridi. Infine modifico le spore.
Per esempio se voglio eliminare le spore inevitabilmente devo
modificare anche tutti gli altri componenti.
Quello su cui noi andiamo a incentrarci è come influenzo le
proteine, e come questo fatto condiziona le caratteristiche del
prodotto. Occorre sapere alcuni aspetti importanti.
Il trattamento a temperatura comporta in una struttura
proteica la rottura dei legami H, quindi quelli all’interno della proteina, tra le proteine, ma anche nel
solvente. Quindi ciò significa che anche l’acqua intorno alla proteina modifica le sue proprietà di
strutturare la proteina, e comporta anche una serie di modifiche nella struttura nativa delle proteine
che si traduce in un’esposizione delle regioni idrofobiche e in uno scambio S-S. Ovviamente tutto
questo è legato alle condizioni termodinamiche, ovvero a che temperature faccio il trattamento, e agli
aspetti cinetici, ossia per quanto tempo applico il trattamento.
A questo si aggiunge il fatto che nella matrice alimentare non troviamo proteine isolate, ma troviamo
delle famiglie di proteine, e la modificazione che vado a studiare è inevitabilmente condizionata da
tutti gli altri componenti della matrice alimentare.
Anche per le proteine alimentari vale il dogma della denaturazione, ovvero la definizione che dice che
per denaturazione si intende l’acquisizione di una struttura diversa da quella nativa, e quindi una
proteina assume strutture denaturate diverse in dipendenza dal trattamento e dalla mutua interazione
dei diversi componenti. Un altro aspetto è che la denaturazione può essere reversibile o irreversibile.
Se io ho una proteina e la tratto mediante trattamento termico, ho una fase in cui poi raffreddo. In
questa fase la proteina può assumere una struttura diversa da quella nativa, e in questo caso la
denaturazione è irreversibile, oppure la proteina durante il trattamento ha assunto una struttura
denaturata diversa (modificazione transiente), ma quando raffreddo la proteina torna alla sua
struttura, e in questo caso si parla di processo reversibile. La reversibilità o meno dipende dalle
condizioni che io applico al trattamento. La reversibilità o meno del processo dipende dallo scopo del
processo.
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Ruolo delle modificazioni della struttura proteica:
1. Struttura primaria
Struttura primaria: la struttura primaria è la sequenza amminoacidica. Nelle condizioni di trattamento
termico usato per gli alimenti non si rompe il legame peptidico, quindi se nel mio alimento che ha
subito trattamento termico trovo dei peptidi, non è colpa del trattamento, ma vuol dire che all’interno
della matrice sono presenti delle proteasi. Un trattamento termico può modificare i gruppi R degli
amminoacidi, in diversi modi. Per esempio può far sì che alcuni gruppi R reagiscano con dei
componenti presenti nell’alimento, come avviene nella reazione di Maillard, in cui il gruppo amminico
della lisina reagisce con uno zucchero. La conseguenza principale è che l’amminoacido è modificato
e quindi non verrà riconosciuto dalla proteasi, per esempio la pepsina non riconosce più la lisina.
Quindi la nutritional value può diminuire e anche la digeribilità. Un altro amminoacido sensibile al
trattamento termico è quello solforato, come la cisteina o la metionina, in cui il trattamento termico
può facilitare modificazioni del gruppo solfato, e questo causa problemi di sicurezza. Riassumendo: le
modificazioni sulla struttura primaria sono rappresentate da modificazioni dei gruppi R degli
amminoacidi. La digeribilità è quanto la proteina è aggredibile a parità di tempo, dalle proteasi;
guardando soltanto la struttura primaria, la digeribilità viene ad essere modificata sempre in senso
negativo, perché vengono solo modificati i gruppi R degli amminoacidi.
2. Struttura tridimensionale
Struttura tridimensionale (secondaria e terziaria): modificando questa struttura, ottengo diversi effetti.
Per primo può variare la digeribilità della proteina, ovvero l’accessibilità all’enzima dei diversi residui
bersaglio. Per esempio la tripsina agisce sulla lisina e sull’arginina (residui basici), e agisce meglio,
quindi rompe più facilmente la proteina, se la proteina ha una struttura lineare e non compatta, infatti
la tripsina non riesce ad agire sull’albumina, ma se cuocio(sottopongo a trattamento termico) l’uovo
l’albumina assume una struttura reticolare più facilmente aggredibile dalla tripsina. Ecco perché alcune
proteine sono più digeribili dopo denaturazione, come l’albumina o le proteine dei legumi. Invece la
β-lattoglobulina diminuisce la sua digeribilità dopo denaturazione, perché se sottoposta a trattamento
termico tende ad aggregarsi in grossi polimeri, difficilmente accessibili. Il glutine non cambia
digeribilità se denaturato.
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Un altro aspetto importante legato alla modificazione della struttura è rappresentato dalla funzione
che hanno le proteine all’interno degli alimenti, che è spesso legata alla loro struttura. Ne sono un
esempio gli inibitori: ci sono alcune proteine, che si trovano specialmente nei semi, che sono inibitori
di alcuni enzimi (proteasi, amilasi), ovvero la loro struttura fa sì che blocchi l’azione di alcuni enzimi.
Questi inibitori costituiscono i cosiddetti fattori antinutrizionali, perché inibiscono anche i nostri
enzimi, perché anche noi per esempio abbiamo amilasi e proteasi. Queste proteine sono inibitori in
struttura nativa, mentre quando vengono denaturate non svolgono più la loro funzione di inibitori.
Per vedere la strutturazione di una proteina all’interno di una matrice, ovvero se è nativa o denaturata,
ci sono diversi metodi, più o meno costosi e sofisticati. Per scegliere il metodo adatto devo seguire
diversi criteri. Per prima cosa devo scegliere un metodo che non perturbi l’organizzazione all’interno
dell’alimento, in secondo luogo devo usare un metodo che valuti le diverse proteine.
Il primo metodo è la fluorescenza. La fluorescenza è una tecnica spettroscopica (ovvero misura una
emissione di luce) che sfrutta la capacità di alcune specie chimiche, quando colpite dalla luce, di
emettere la radiazione con una certa frequenza che dipende dall’energia che viene assorbita.
Ovviamente non tutta l’energia assorbita viene riemessa, e l’energia riemessa viene misurata
attraverso una costante, moltiplicata per la frequenza. La frequenza è inversamente proporzionale alla
lunghezza d’onda alla quale colpisco. Quindi ho una luce che va a colpire un corpo, e alcuni composti
sono in grado di emettere la luce con una certa frequenza, ovviamente più bassa di quella della luce
che l’ha colpita. La luce che viene emessa (fluorescenza) è caratterizzata da 2 parametri:
1. Intensità di fluorescenza (forza con cui emetto)
2. Lunghezza d’onda con la quale l’energia viene emessa
La fluorescenza viene misurata da un apparecchio che si chiama fluorimetro. Esso è molto simile a uno
spettrofotometro ma è caratterizzato dall’avere una lampada che eccita il campione, che viene definita
monocromatore di eccitazione, ovvero una fessura che sceglie la lunghezza d’onda con la quale
mando la luce al mio campione. La luce arriva, e se nel campione è presente un composto fluorescente,
ovvero in grado di emettere la luce che ha colpito con una certa caratteristica in termini di energia a
frequenza, questa emissione deve essere catturata da un dispositivo, e poi analizzo le caratteristiche
della fluorescenza che viene riemessa.
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Questa è la fluorescenza intrinseca, perché è legata al fatto che siano presenti dei composti
fluorescenti. Questi composti fluorescenti che possono essere presenti nell’alimento sono moltissimi.
Quelli che più ci interessano sono alcuni residui idrofobici, ovvero triptofano, tirosina e fenilalanina.
Quindi questi amminoacidi, quando vengono colpiti con una lunghezza d’onda particolare, possono
dare origine a degli spettri di fluorescenza. Questi spettri di fluorescenza possono essere in emissione,
come viene fatto solitamente, ovvero mando la luce con una certa energia e vedo se sono presenti le
sostanze che dovrebbero essere fluorescenti a quella lunghezza d’onda.
Un amminoacido in una sostanza può essere presente in forma libera, oppure essere parte di una
struttura proteica. La risposta dell’amminoacido è diversa in base al fatto che sia libero o meno, perché
è influenzato dalla presenza di altri amminoacidi. In più in una proteina sono presenti diversi residui,
quindi devo considerare la media. Quindi la risposta alla fluorescenza dipende anche da dove è situato
il residuo all’interno della struttura. Per esempio il triptofano, molto studiato perché poco presente
negli alimenti, di solito nella struttura di una proteina si trova nel core idrofobico, e quando viene
colpito da una certa luce ha una determinata fluorescenza. Se cambia questa fluorescenza, significa
che il triptofano non è più nella stessa posizione, per esempio se denaturo la proteina il triptofano
può essere esposto, e ha trascinato con sé tutti gli altri residui, quindi la proteina ha modificato la sua
struttura tridimensionale. Quindi se analizzo del latte prima e dopo il trattamento e noto un cambio
di fluorescenza, significa che ho denaturato le proteine al suo interno. A complicare il tutto ci sono 2
parametri: l’intensità di fluorescenza e la lunghezza d’onda del massimo di emissione; quale dei 2
considero nello spettro di fluorescenza? Ciò che mi interessa di più è la lunghezza d’onda, perché
l’intensità che misuro può essere stata assorbito smorzata dalla presenza di altri residui che si sono
avvicinati.
Vediamo 2 applicazioni della fluorescenza intrinseca.
ALA (α-lattoalbumina)
L’ALA presenta all’interno della sua
struttura 3 residui di Trp, 2 messi
all’interno e 1 esposto, quindi sulla
superficie. Se un trattamento termico
modifica la struttura proteica a carico dei
residui di triptofano, mi aspetto che la
modificazione strutturale andrà a colpire
i 2 residui interni perché 1 è già esposto.
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Se vado a misurare la fluorescenza, mi aspetto che se ho una modificazione strutturale essa si traduca
in una diversa esposizione dei gruppi. Se la fluorescenza non varia mi aspetto che la proteina abbia
mantenuto la sua struttura. Ma se la proteina è legata a uno ione calcio Ca++ (che si lega con residui
carichi e dona stabilità alla proteina), la sua fluorescenza si modifica. Nello schema qui sotto vediamo
in alto A la fluorescenza intrinseca della proteina in assenza e in presenza di calcio, mentre B è il
massimo di emissione relativo ai Trp in assenza e presenza di calcio.
Se guardassi solo la fluorescenza intrinseca (intensità) non vedrei modificazioni dei Trp
sommariamente, mentre guardando il massimo di emissione (la lunghezza d’onda) del Trp noto una
grande differenza tra presenza e assenza di calcio. Ciò mi dice 2 cose: le proteine hanno un diverso
comportamento in funzione della temperatura. Per esempio in presenza di calcio la proteina fino ai
60° non va incontro a modificazioni strutturali, poi si modifica. In assenza di calcio invece entro i 50°
subisce una serie di modificazioni e dopo questa temperatura la proteina è già denaturata. Per cui in
base a quello che voglio fare scelgo un latte piuttosto che un altro.
BLG (β-lattoglobulina)
Essa è caratterizzata dall’avere 2
residui di Trp, uno nel core idrofobico
e uno sulla superficie.
Scaldando la proteina ottengo il
seguente spettro di fluorescenza:
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Il massimo di emissione non cambia a basse temperature, mentre cambia molto nelle alte
temperature. In questa proteina vengono valutati fluorescenza e massimi di emissione a 3
concentrazioni diverse di sieroproteine. Un aspetto importante è che già la partenza è diversa per le
3 concentrazioni, quindi già in partenza la concentrazione cambia l’esposizione del Trp. Questo
avviene a causa dell’associazione. Quindi un messaggio importante è che indipendentemente dalla
temperatura la proteina si associa con altre grazie alla sua concentrazione.
Un altro sistema per avere modificazioni strutturali nella BLG è rappresentato dal residuo marker di
cisteina. Le cisteine all’interno della proteina sono messe in modo da formare dei ponti S-S, in più la
cisteina può andare incontro a fenomeni di ossidazione. Per questo i residui di cisteina, anche quelli
isolati se sono dispari, sono messi all’interno della proteina. Se il residuo SH viene esposto, significa
che la struttura è stata modificata. Un altro sistema per seguire la modificazione strutturale indotta
sulla proteina è quella di misurare la posizione del residuo all’interno della proteina. Un sistema è
utilizzare marcatori di residui SH, cioè usare composti chimici in grado di interagire con SH e formare
un composto colorato. Questi composti hanno un ingombro sterico abbastanza grande, quindi se il
residuo SH si trova in struttura nativa e quindi all’interno della proteina, non riesce a penetrare per
legarsi con questi composti. Quindi deduciamo, mediante l’utilizzo di questo marcatore esterno, che
se la cisteina si colora, vuol dire che è riuscita a legarsi col marcatore e quindi è denaturata, mentre se
non si colora è nativa.
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Lo schema seguente è una misurazione di
assorbanza di giallo di BLG trattata a diverse
temperature
per
il
tempo.
Si
vede
l’incremento di giallo, che a temperature
intorno ai 50° si misura in minuti, mentre a
temperature superiori si misura in secondi,
ovvero la proteina si colora più velocemente
a temperature elevate perché la proteina si
denatura prima.
Questo metodo mi dice se una reazione è reversibile o meno. Infatti se inserisco il reattivo prima del
trattamento termico, vedo che non ho SH accessibili, così come lo vedo dopo il trattamento, ma se
metto il reattivo durante il trattamento ho 1 SH accessibile. Quindi la proteina dopo il trattamento
torna alla sua struttura iniziale.
Anche le nostre papille gustative percepiscono l’esposizione del gruppo SH della BLG.
Un terzo approccio per vedere le modificazioni strutturali delle proteine in matrici complesse è basato
su una misura delle proprietà di idrofobicità superficiale. Questa misura parte dal presupposto che
normalmente le zone idrofobiche della proteina si trovano all’interno della proteina in struttura nativa,
ma durante il trattamento la proteina va incontro a modificazioni strutturali che comportano
l’esposizione delle zone idrofobiche al solvente, quindi la proteina assume una struttura denaturata.
Questo cambiamento non è compatibile con il solvente, quindi nel tempo la proteina tenderà a
minimizzare l’esposizione delle zone idrofobiche, e può farlo in 2 modi dopo il trattamento:
1. Ritorna alla sua struttura nativa, se è possibile
2. Cerca di assumere una nuova struttura nella quale le zone idrofobiche sono il meno esposte
possibile, o per lo meno hanno una struttura compatibile, dal punto di vista termodinamico, con
l’ambiente idrofilico. La proteina quindi può avere una parziale esposizione di zone idrofobiche,
mentre se siamo in una situazione di totale esposizione, avvengono delle associazioni che portano
alla formazione di aggregati, stabilizzati da interazioni idrofobiche, in cui alcune zone idrofobiche
non sono più esposte al solvente, bensì associate ad altre proteine.
Occorre tenere presente che queste proteine sono solubili. Avere informazioni sulle zone idrofobiche
esposte fa capire per esempio se si sono formati dei polimeri (associazioni), e mi dà informazioni su
eventuali zone idrofobiche esposte e quindi sulla capacità di interagire con altri composti idrofobici
Infine se io monitoro la variazione delle zone idrofobiche ho anche informazioni su come la proteina
ha subito delle modificazioni strutturali.
Il sistema per misurare la localizzazione delle zone idrofobiche sono i marcatori ( o probes)
fluorescenti: essi sono dei composti perfettamente solubili nelle normali soluzioni acquose o nei
sistemi tampone, ma non sono fluorescenti in quanto liberi in soluzione; diventano fluorescenti se
associati a una zona idrofobica. Posso usare questi probes in alimenti solidi o liquidi. Per esempio se
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ho un latte, aggiungo un probe e ottengo una certa fluorescenza, poi scaldo il latte e vedo che
aumenta la fluorescenza. I probes quindi sono sensibili solo alle zone idrofobiche delle proteine; il
grasso per esempio non interagisce con i probes. Ovviamente i probes non funzionano se aggiungo
dei detergenti. I probes sono molti e si differenziano nella loro struttura, intesa come ingombrodimensioni della molecola. Il vantaggio di questo fatto è che si possono valutare le proprietà di
idrofobicità superficiale a strati, ovvero più il probe è grosso, meno facilmente penetra nella molecola,
quindi monitora solo le zone superficiali, mentre un probe più piccolo può penetrare nelle zone più
profonde e andare a monitorare le tasche idrofobiche.
Qui vediamo come una proteina con 2 siti
idrofobici
reagisce
con
il
probe
e
forma
un’interazione idrofobica emettendo fluorescenza.
Più zone idrofobiche ho, più marcatori si legano,
più intensa è la fluorescenza, e attraverso una serie di algoritmi posso capire l’affinità del sito al
marcatore.
Chiaramente questo può essere un metodo per valutare se la proteina in seguito a un processo ha
subito modificazioni strutturali nel complessivo.
In
questo
rappresentati
esempio
il
vediamo
numero
di
siti
idrofobici della BLG scaldata a diverse
temperature,
per
diverse
concentrazioni. Noto dopo una certa
temperatura,
per
esempio
nella
concentrazione 4 mg/ml, un forte
incremento delle regioni idrofobiche.
A 16 mg/ml a tutte le diverse
temperature non ho una grossa
variazione delle zone idrofobiche,
perché in questo caso si accorpano più proteine. Quindi è anche importante la concentrazione.
La misurazione dell’idrofobicità superficiale ha avuto un’applicazione importante nella combinazione
di più parametri. Abbiamo già detto che la quantità di sieroproteine solubili a pH 4.6 è un parametro
per differenziare il latte pastorizzato da quello sterilizzato. Con questo parametro non distinguo se il
latte è stato trattato UHT o sterilizzato. È stato osservato che andando a misurare l’idrofobicità
superficiale (PSH), riesco a distinguere il latte UHT da quello sterilizzato in bottiglia.
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In questo grafico abbiamo 3 campioni di latte commerciale, in cui il gruppo 1 è un latte pastorizzato,
il gruppo 2 sono latti UHT, mentre il gruppo 3 sono latti sterilizzati in bottiglia. Il grafico dice che con
le proprietà di idrofobicità superficiale misurate statisticamente su un gruppo significativo di
campioni, si può distinguere un latte sterilizzato da uno UHT o pastorizzato. Se io combino questo
parametro con quello della solubilità residua a pH 4.6, riesco a classificare un campione di latte in base
al tipo di trattamento termico.
3. Struttura quaternaria
Struttura quaternaria: modificazioni della struttura quaternaria indotte da un trattamento termico
significa aggregazione quindi associazione e formazione di polimeri più o meno grossi o più o meno
solubili. Un’altra modificazione è la formazione di gels.
Un esempio di modificazione di struttura quaternaria indotta dal trattamento nel caso della BLG è la
formazione di polimeri solubili, che hanno delle influenze importanti sulle modificazioni che si vanno
a fare sull’alimento. Infatti se un polimero è solubile non si allontana dalla matrice, ma nonostante il
fatto che rimanga presente, può essere che non interagisca
come faceva prima.
Questo è un tracciato (SDS) in cui sono rappresentati diversi
tracciati in dipendenza dal trattamento a diverse temperature
fatti su BLG e andando a vedere quali sono le forme polimeriche
di BLG presenti. La BLG normalmente viene definita in forma
nativa un dimero in libera associazione, ovvero un dimero da
18000 stabilizzato da interazioni non covalenti. La BLG può
andare incontro a una serie di associazioni stabilizzate da ponti
disolfuro intercatena, se viene trattata termicamente. Il numero
totale di S-S e SH è uguale, cambiano solo le loro posizioni.
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Questa elettroforesi mostra delle grosse macchie a 18000, quando ho la proteina nativa, poi ho delle
macchie a 36000, ovvero a un dimero. Poi ho 54000 (3
molecole), 72000 (tetramero) etc. Noto che già a 20°
ho una BLG legata covalentemente. Questa è una
proteina venduta come nativa, in realtà nativa non lo è,
perché ha subito un trattamento termico. Fino a 60-70°
ho una formazione di dimeri covalenti. Dopo 75/85° ho
un aumento di specie polimeriche stabilizzati da ponti
disolfuro. Più ho pesi molecolari elevati, più questi
polimeri sono insolubili. Questo grafico ha un aspetto
pratico molto importante: nel grafico abbiamo
rappresentato la distribuzione delle diverse forme
polimeriche
all’interno
della
BLG:
un
aspetto
interessante è che gli alti pesi molecolari si formano
dopo i 70° e hanno uno sviluppo quadi lineare: essi
sono insolubili, quindi la loro formazione porta alla
formazione di croste, che sono costituite da proteine.
Sapere a che temperature si formano i diversi intermedi ha un significato, ad esempio se io studio
delle condizioni per cui scaldando formo forme intermedie, posso giocare in modo tale che si formino
meno polimeri e quindi meno precipitati, e tutto questo è legato ai tempi e alle temperature di presosta. Questi passaggi intermedi vengono stabiliti tenendo conto di tanti parametri, dei quali uno dei
principali sono le modificazioni strutturali delle proteine della matrice, in modo tale che venga favorita
la formazione di polimeri solubili, meno reattivi a formare polimeri insolubili.
Denaturazione legata ad alte pressioni
Trattamento fisico sugli alimenti applicando alte pressioni, superiori a 600.000 Pa. Gli alimenti trattati
a pressione sono quelli su cui è impossibile agire con un trattamento termico. Per esempio un succo
lo tratto a pressione altrimenti un trattamento di pastorizzazione termico gli conferirebbe un gusto
amaro. Il trattamento pressorio è molto utilizzato, anche per pastorizzare l’avocado. Gli strumenti che
consentono questo trattamento sono delle grosse presse in altissime pressioni, che derivano dalla
siderurgia. Il principio che regola questo trattamento è che se pongo l’alimento nella camera di
pressione, e in ogni suo punto applico la stessa pressione, l’alimento non si deforma, perché viene
deformato in un punto in cui ho una diversità di pressione. Un altro aspetto è che nella camera,
affinché ci sia una trasmissione di pressione e si abbia un effetto sull’alimento, occorre applicare una
variazione di volume, che può essere trasmessa solo se ho un ambiente acquoso. Quindi se un
alimento è secco (30% di umidità) non ho variazione di volume, e quindi il trattamento non funziona.
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Un vantaggio del trattamento pressorio è che è immediato in ogni punto, quindi non ho una curva di
penetrazione in base alla geometria come nel caso del trattamento termico. Quindi il trattamento a
pressione non dipende nemmeno dalla geometria del prodotto ed è istantaneo. Ho 2 aspetti legati a
questo trattamento:
•
aumentando la pressione, aumento la temperatura, quindi devo pensare a un sistema che raffreddi
il tutto o che mantenga la temperatura desiderata. Gli impianti sono muniti di refrigeranti.
•
la pressione dal punto di vista chimico interviene sulle costanti di dissociazione, e sul pH, e questo
dipende dai gruppi ionici dell’alimento. Ma su questo non posso intervenire. Quindi un aspetto
che devo tenere in considerazione nella definizione del trattamento è il pH, che varia in
dipendenza dalle costanti di dissociazione dei diversi sistemi presenti. Per esempio se tratto un
alimento in presenza di zucchero ho effetti diversi. Quando termino il trattamento il pH mi ritorna
uguale all’inizio.
Il motivo per cui su alcuni alimenti posso fare il trattamento pressorio e su altri no, si può vedere nel
seguente esempio. Il primo effetto che ha un trattamento a pressione è una variazione di volume,
ovvero una variazione del mezzo in cui si trova l’alimento, quindi un cambiamento dell’organizzazione
dell’acqua. Il primo effetto, come nella temperatura, avviene sulle cellule intere, per esempio una
rottura delle membrane o una rottura degli equilibri osmotici. Se parliamo di trattamenti a pressione,
se aumento l’intensità del trattamento e quindi cambio l’organizzazione dell’acqua ulteriormente vado
a danneggiare i polimeri strutturati, quindi proteine e DNA, prima differenza rispetto al trattamento
termico, che ha una distruzione delle piccole molecole, come le vitamine. Dopodiché nei trattamenti
a pressione abbiamo polimeri non strutturati, ovvero carboidrati, e poi le spore e la cellulosa e per
ultimo le piccole molecole. Teniamo conto che alla distruzione delle spore con il solo trattamento
pressorio non si arriva mai. Quindi con il trattamento a pressione ho una distruzione delle cellule
batteriche, una disorganizzazione a livello macromolecolare, ma non ho un effetto sterilizzante. Per
ottenere l’effetto sterilizzante devo combinare il trattamento pressorio con la temperatura. Di fatto
nei trattamenti a pressione le piccole molecole non vengono toccate, e questo è un vantaggio, ecco
perché per esempio il pesto rimane verde,
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I vantaggi del trattamento di pressione quindi sono:
▪
non ho perdita di vitamine, non ho reazioni di Maillard, non ho modificazioni di colore e odore e
nemmeno tutte le modificazioni che seguono ad un trattamento termico, e non ho cambiamenti
della forma e delle dimensioni del prodotto;
▪
non ha effetti in ambienti anidri.
Effetto del trattamento pressorio sulle proteine
Il trattamento pressorio non ha nessun effetto sulla struttura primaria, intesa come rottura del legame
peptidico. Un altro aspetto è che sono assenti le reazioni di Maillard, quindi i gruppi –R non vengono
modificati, oppure vengono modificati in maniera estremamente bassa rispetto a un trattamento
termico di pari efficacia (che porta alla stessa riduzione microbica), quindi nelle mie proteine ho meno
residui modificati, ovviamente il trattamento pressorio disorganizza l’acqua, quindi va a colpire le
interazioni H, importati nella struttura secondaria; questo comporta un cambiamento anche delle
interazioni correlate con la struttura secondaria della proteina, ovvero le interazioni idrofobiche. Ha
anche effetto sulle interazioni idrostatiche, perché comporta una modificazione del pH. Quindi questo
trattamento ha effetto su tutte 3 le interazioni deboli che stabilizzano la struttura secondaria e terziaria
di una proteina. Questo trattamento ha anche effetto sulla struttura quaternaria, perché se ho una
modificazione strutturale, essa si può tradurre in una possibile aggregazione delle proteine, oppure
può portare alla formazione di scambi di disolfuri. Quindi le modificazioni sono le stesse dei
trattamenti termici, anche se qui sono indotte da una modificazione del volume.
Il processo è il seguente: la proteina modifica la sua struttura in maniera reversibile o irreversibile, in
dipendenza dall’intensità del trattamento, proprio come avviene nei trattamenti termici (vedi
immagine pag 32).
Di seguito riporto 3 esempi di trattamento pressorio su 3 alimenti.
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1. Ovolabumina
Studiando le sue modificazioni strutturali indotte da un
trattamento termico, non si hanno grandi soddisfazioni,
perché o si forma un coagulo o precipita. Un trattamento a
pressione
invece
è
più
interessante,
perché
la
pastorizzazione dell’ovalbumina è interessante.
Il primo trattamento interessante è prendere l’ovalbumina e
trattarla a 450 MPa, 600 MPa e 800 MPa (se voglio sapere
l’unità di misura in Atm moltiplico per 10). Esse sono pressioni alla quale abbiamo una riduzione
significativa della potenziale contaminazione dei principali microrganismi presenti nell’uovo,
soprattutto stafilococco, se eseguite per 5/10 minuti. Fino a 450 la proteina è perfettamente solubile,
a 600 è abbastanza solubile, ma a 800 la proteina perde di solubilità e precipita. Il trattamento a 450
non mi interessa perché non ho una riduzione microbiologica interessante.
Mi accorgo che, se in questa soluzione aggiungo un proteggente, un 10% di sale o di saccarosio,
faccio lo stesso trattamento, e noto che la proteina mi rimane perfettamente solubile. Questo è un
aspetto interessante, e significa che la proteina, messa all’interno di una soluzione in presenza di certi
proteggenti, rimane perfettamente solubile.
Quindi posso considerare che l’aggiunta di questi composti o mantiene la proteina perfettamente
solubile perché mantiene la sua struttura nativa, oppure la proteina durante il trattamento assume
una struttura diversa da quella nativa, ma comunque solubile. Per risolvere questo dubbio ho 2 sistemi:
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prendo la proteina dopo il trattamento e ne guardo la sua struttura, con i raggi x ci metto troppo,
oppure attraverso delle misure spettroscopiche, da cui posso avere informazioni sulla struttura
secondaria e terziaria della proteina.
Il primo grafico è uno spettro che misura la presenza di struttura
secondaria. la proteina non trattata è quella dal tratto continuo in basso,
mentre gli altri spettri sono ottenuti dopo che la proteina è stata trattata
a diverse pressioni per diversi tempi. Questo spettro mi dice che la
struttura secondaria ha un andamento simile, ma il fatto che sia meno
intensa dice che ho una diminuzione di questa struttura. Quindi la
struttura secondaria della proteina dopo il trattamento viene ad essere
modificata. La struttura terziaria è rappresentata nel secondo grafico, e la
situazione è più drammatica. Il tratto intero si riferisce alla struttura nativa,
mentre quello più piatto è quella tratta a 800. Per cui ricavo che la
proteina è solubile, ma con una struttura secondaria e soprattutto
terziaria diversa. Rispetto a un coagulo o a un precipitato è meglio così.
Una conferma nel caso dell’ovalbumina del fatto che la struttura è diversa, la si ha anche misurando
la suscettibilità alle proteasi, in particolar modo alla tripsina; infatti l’ovalbumina come tale è
inattaccabile dalla tripsina perché nella sua struttura nativa è un inibitore di molte proteasi. Dopo il
trattamento pressorio invece è aggredibile dalla tripsina.
Tutto quello che ho analizzato sulla proteina in sé, vale anche se estendo il tutto all’alimento o no?
Prendo l’albume e lo porto a pressione e ottengo un gel traslucido, riprova del fatto che l’ovalbumina
come tale ha queste modificazioni. Prendo l’albume ci aggiungo 10% di saccarosio o di NaCl e lo
sottopongo a pressione, e noto che è perfettamente solubile.
Siccome l’ovalbumina non è l’unico componente dell’albume, per
sapere se effettivamente è stata modificata non posso usare lo
spettro. Quindi faccio la prova con la tripsina (suscettibilità alle
proteasi), che trattata a 400 aumenta in maniera uguale sia con
NaCl che con saccarosio, mentre trattata a 600 ha un fortissimo
aumento soprattutto di quella tratta con lo zucchero. Questo mi
dice che ho una proteina solubile (non formo gel) in cui la proteina
ha una struttura diversa da quella nativa. Il fatto che non abbia fatto
il gel mi consente di poterla legare a qualcos’altro.
Un sistema per vedere se all’interno dell’albume è modificata la struttura di ovalbumina è quello di
andare a vedere la formazione di ovalbumina a struttura S. In pratica l’ovalbumina ha una sua struttura
nativa ma invecchiando assume la struttura S. La differenza principale tra forma S e nativa, è che nella
forma S sparisce un’α-elica, e nella scomparsa di questa α-elica un ruolo importante ce l’ha un residuo
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di glutammina, che perde un gruppo amminico diventando glutammato (passo da un residuo non
carico a un residuo carico negativamente). Quindi i parametri per la freschezza di un uovo sono 2:
cercare la forma S e cercare la produzione di ammoniaca, che sono entrambi indici di non freschezza.
La forma S è meno adatta a trasformazioni, per esempio a fare schiuma o emulsioni.
Per vedere se è avvenuta la transizione dell’albumina da nativa a S ho 2 modi:
•
separo le proteine nell’albume
•
mediante il calorimetro trovo le temperature di denaturazione, perché l’ovalbumina S ha una
temperatura di denaturazione diversa.
Questi sono i tracciati se io separo le proteine prima e dopo il trattamento pressorio. Vedo che i picchi
N e S non sono variati nel trattato e nel non trattato, quindi la proteina ha subito dei cambiamenti
strutturali, ma non quelli che trasforma la proteina da nativa a S, che è la forma tipica
dell’invecchiamento o la forma tipica del trattamento termico.
Questo grafico invece mi fa notare che l’albume in base a quali agenti
protettivi utilizzo cambia la viscosità, ma non è grave, anche perché
non ho alternative.
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Il trattamento pressorio è interessante perché mi permette di avere un albume pastorizzato, ma con
delle proprietà molto vicine a un albume nativo.
2. Polifenolossidasi
I trattamenti a pressione sono molto utilizzati per inattivare gli enzimi, soprattutto nei vegetali, che
sono le polifenolossidasi, che sono i responsabili dell’imbrunimento enzimatico. Infatti molti enzimi
sono sensibilissimi alle pressioni, per cui non resistono.
3. β-lattoglobulina
Se faccio un trattamento pressorio alla BLG che sia equivalente dal punto di vista della stabilità
microbiologica a un trattamento termico, la struttura della BLG rimane identica a quella nativa. Ma la
proteina rimane invariata anche durante il trattamento oppure durante il trattamento si modifica e
poi ritorna come prima? Lo vedo facendo il trattamento pressorio in presenza del marcatore. Misuro
il residuo SH prima del trattamento, e misura 0 perché è all’interno della proteina, dopo il trattamento
è la stessa cosa. Ma durante il trattamento vedo il marcatore e misurando vedo che durante il
trattamento ho 1 residuo SH per mole di proteina accessibile, quindi la mia proteina si è aperta, tant’è
vero che il marcatore si è legato al gruppo SH. Questo è un esempio di modificazione perfettamente
reversibile. Il fatto che la proteina si apra e si chiuda è un sistema per incapsulare un composto che
altrimenti non sarebbe fruibile. Questo principio viene fatto per i farmaci, come gli antinfiammatori.
Essi sono sensibili al pH, per cui vengono rivestiti con una capsula, che è abbastanza sensibile al pH
dello stomaco e poi si rompe nell’intestino. In questo caso apro la BLG, gli lego il farmaco e poi la
proteina deve riassumere la struttura precedente, altrimenti il farmaco è esposto e suscettibile al
cambio di pH.
Denaturazione all’interfaccia
Vedremo il ruolo delle proteine in una serie di sistemi in cui coesistono 2 fasi con diversa polarità,
oppure abbiamo l’interazione di 2 fasi, una liquida e una solida per esempio.
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Il primo aspetto della caratterizzazione della stabilizzazione alle interfacce è vedere quali sono le 2 fasi
presenti nel sistema. Abbiamo una fase dispersa e una fase continua.
La tabella seguente riporta le caratteristiche generali dei 3 principali sistemi all’interfaccia.
In tutti questi sistemi la fase dispersa e quella continua sono caratterizzate da una diversa idrofilicità,
altrimenti non avremmo la presenza di interfacce e avremmo delle fasi omogenee.
Ruolo nelle proteine nella stabilizzazione di queste interfacce
1. Emulsione
Ho 2 esempi di emulsione. Quello più semplice è la maionese, in cui ho una fase liquida costituita da
acqua e co-soluti, come l’albume o il tuorlo, e una fase dispersa rappresentata dall’olio. Chi stabilizza
e quindi fa sì che io non abbia una netta separazione tra la fase idrofilica e la fase idrofobica, è la
presenza di lipoproteine. Chiaramente occorre tenere in conto che devo applicare un’azione
meccanica che crea l’emulsione, ma se agisco meccanicamente in modo sbagliato, la maionese
impazzisce. Quindi occorre prestare attenzione agli effetti diversi sulla denaturazione che induco per
azione meccanica sulle lipoproteine.
Per ottenere il burro invece necessito di un’azione meccanica coordinata dalla temperatura. Dalla
panna ottengo il burro, e in questo caso parto da un’emulsione e ne ottengo un’altra, assistendo ad
un’inversione di fase: infatti nel burro la fase continua è costituita dalla componente lipidica, mentre
quella dispersa è costituita dalla componente acquosa. Chi ha compiuto questa inversione di fase è
solo l’azione meccanica fatta a una certa temperatura.
Il ruolo delle proteine nella stabilizzazione delle emulsioni è fondamentale, grazie alla loro struttura.
Una proteina nella sua struttura nativa presenta le zone idrofobiche all’interno del core idrofobico e
la parte idrofilica esposta. Per stabilizzare 2 sistemi che di per sé non starebbero insieme, devo fare
prima di tutto un’azione meccanica, in cui modifico la struttura di una proteina (denaturo). Se mentre
agisco meccanicamente aggiungo una fase idrofobica, questa componente andrà ad interagire con le
regioni idrofobiche momentaneamente esposte durante il trattamento. Si forma dunque
un’associazione fra fase idrofobica e regione idrofobica della proteina, e parte idrofilica con la fase
acquosa, in modo da formare un’emulsione. Tuttavia devo fare in modo che la proteina venga
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denaturata e le zone idrofobiche debbano immediatamente interagire con la fase lipidica. Quindi non
devo aggiungere tutto l’olio insieme, perché andrebbe ad aggregarsi e formare micelle invece che
interagire con le proteine, e quindi ottenere una separazione di fase. Anche la denaturazione deve
essere controllata, in modo tale che ci sia una graduale esposizione delle zone idrofobiche; infatti se
denaturo di colpo le proteine, esse potrebbero associarsi tra di loro invece che con i globuli di grasso,
e quindi formare 2 fasi. E questo non me lo posso permettere, perché le proteine devono porsi
all’interfaccia per la riuscita dell’emulsione, ovvero devono esporre le zone idrofobiche all’ambiente
idrofobico, e quelle idrofiliche all’ambiente idrofilico. Quindi devo avere una proteina con una
composizione bilanciata, come quelle del tuorlo, perché una proteina troppo idrofobica o troppo
idrofilica non va bene. Le lipoproteine sono le ideali, perché hanno una buona componente idrofilica
e un’altrettanto buona componente idrofobica. Inoltre la proteina non deve essere orientata, ovvero
non deve avere un’estremità idrofilica e l’altra idrofobica. Non necessariamente la proteina nelle
emulsioni deve essere solubile.
Le emulsioni sono alla base di molti studi, per esempio nella produzione di prodotti alleggeriti, in cui
i grassi non sono aggredibili perché circondati da proteine.
Un altro effetto in un sistema complesso in cui abbiamo la presenza di 2 sistemi, uno acquoso e uno
lipidico, in cui le proteine hanno un ruolo importante, si ha molto spesso in sistemi vegetali, ricchi
lipidi. Un esempio è la procedura che viene fatta per estrarre l’olio da molti semi, o dalle olive. Quando
si spreme l’olio da un seme o da un frutto, si formano 3 fasi: 1 ricca di olio, 1 fase acquosa, e 1 fase
intermedia, la cosiddetta morchia, costituita da proteine e frazioni polisaccaridiche, presenti
naturalmente nel frutto, che si pone all’interfaccia fra le 2 fasi. Questa fase è ricca di acqua e anche di
olio, e non riesco a disfarla facilmente, perché le proteine stabilizzano bene la zona e crea
un’emulsione. A questo punto occorre valutare se questa emulsione mi interessa da recuperarla,
oppure ho le possibilità di eliminarla. Di solito non si elimina, per cui posso recuperarla in 2 modi:
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•
rompo le proteine, quindi idrolizzo mediante enzimi idrolitici che agiscono sia su proteine che
su polisaccaridi, perdendo la funzione di stabilizzazione;
•
faccio una denaturazione brutale delle proteine aggiungendo un solvente, come l’esano, in cui
la proteina denaturata di colpo non riesce più porsi all’interfaccia: avrò il solvente ricco in olio,
e una fase acquosa con tutte le proteine denaturate.
Il primo sistema è il più interessante, perché poi nel secondo l’olio è ricco di solvente, che devo
eliminare mediante distillazione. Quindi la cosa fondamentale è denaturare le proteine.
Ribadiamo che non possiamo usare una proteina tutta idrofobica per porsi all’interfaccia, come una
proteina di membrana.
2. Schiuma
2 sono gli esempi di questo sistema: l’impasto da panificazione e la meringa. In entrambi le proteine
hanno un ruolo fondamentale nel tenere insieme i 2 sistemi: l’incorporamento di una fase idrofobica
come l’aria all’interno di una fase liquida. Per fare la meringa partiamo dall’albume (che per l’80% è
acqua e per il 20% è proteina) e incorporo l’aria, mediante un’azione meccanica, formando una
schiuma. Le proteine presenti sono in grado di fare da collante fra un sistema idrofobico e uno
idrofilico. Vale la stessa cosa per un impasto da pane: la lievitazione è la produzione di CO2, quindi un
gas, che dà origine a un’alveolatura. Per creare l’alveolatura occorre che la CO2 venga trattenuta nel
sistema, e questo succede grazie alle proteine, che spongono le zone idrofobiche verso la schiuma e
quelle idrofiliche verso il sistema. La cottura serve a stabilizzare questo sistema, perché le interazioni
non sono eterne e la schiuma collassa.
Il ruolo delle proteine nella schiuma è il seguente.
L’immagine raffigura la struttura di una schiuma: al centro ho la bolla d’aria e tutt’intorno la fase
continua, costituita nel caso della meringa dall’albume, fatto da acqua e proteine, l’ovalbumina.
Questa proteina è disposta in modo tale che le parti idrofobiche sono verso l’aria, mentre le zone
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idrofiliche sono all’interno della fase continua acquosa. All’interno della schiuma abbiamo dei punti
nodali, i punti d’incontro tra le diverse bolle d’aria presenti. La schiuma si forma bene solo con certe
proteine perché la struttura che viene generata da questi sistemi è in grado di non far collassare
immediatamente la schiuma. Nel collassamento di una schiuma sono 3 i fattori importanti:
▪
l’aria presente nella bolla evapora o fuoriesce e una schiuma collassa
▪
l’acqua può fuoriuscire ed evaporare
▪
l’acqua presente nel sistema tende a scorrere verso i punti nodali; raggiungendo i punti nodali, fa
collassare la struttura.
Per stabilizzare i primi 2 fattori posso fare molto poco, mentre posso rallentare il terzo parametro. Per
rendere lo scorrimento più lento devo fare in modo che il sistema continuo sia il più viscoso possibile,
in modo da rallentare il fluire dell’acqua. L’albume è un sistema viscoso, anche il glutine è un sistema
viscoso. In molti altri casi si formano delle schiume, che collassano subito. Il sistema deve essere
viscoso, ma solubile. Posso anche aiutare una struttura a essere più viscosa, per esempio aggiungendo
lo zucchero a velo nella meringa. A questo punto devo fissare il sistema con la cottura, in cui denaturo
le proteine e l’aria se ne va, ma la struttura rimane.
Una conferma del ruolo dello zucchero per rendere viscosizzante un sistema è nella diversità di
schiuma persistente che si nota in alcuni vini in dipendenza dal contenuto di zuccheri. La schiuma di
un vino bianco dolce è molto più piccola, regolare e persistente, da una schiuma ottenuta da un vino
secco, che ha una schiuma molto meno regolare e persistente.
Le caratteristiche delle proteine per la stabilizzazione di una schiuma sono:
o
devono avere una composizione bilanciata
o
dopo che sono state denaturate devono essere viscose
o
devono essere solubili nella fase continua (non devono essere presenti in maniera dispersa o in
sospensione)
Come una proteina interagisce con un’interfaccia e come cambia la sua struttura
La prima cosa che devo considerare è se l’interazione fra la fase apolare è un’emulsione (olio e la
proteina) e in questo caso ho una penetrazione (la proteina si apre e ingloba l’olio), oppure se ho un
adsorbimento, ed è il caso in cui vado a interagire fra il sistema acquoso e una fase solida. In questo
caso si ha un’interazione diversa, ovvero la coesione di 2 fasi. Quindi questi 2 sistemi vengono
stabilizzati, ma hanno molecolarmente un effetto diverso.
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Il modello presentato per mostrare la differenza di una stessa proteina nella modificazione
all’interfaccia è l’emulsione confrontata con la proteina che si assorbe su una superficie solida
idrofobica, una nanoparticella di stirene. Lo schema quindi rappresenta la BLG in uno spetto di
fluorescenza intrinseca. I 2 andamenti contrassegnati con native sono gli stessi (cambiano le scale),
mentre a destra abbiamo la BLG legata all’olio nell’emulsione, e a sinistra abbiamo la BLG che ha
interagito con una nanoparticella (fase solida). I 2 spettri dicono che le modificazioni che ha subito la
proteina in seguito all’interazione con in 2 sistemi idrofobici, sono profondamente diverse. Riguardo
il primo grafico per prima cosa vedo che non hanno lo steso spettro della forma nativa, poi noto che
cambia l’intensità, e che anche il massimo di emissione è spostato, indice del fatto che la proteina ha
una struttura diversa. Osservando BLG in emulsione noto che lo spettro anche qui è diverso rispetto
alla nativa, in termini di intensità (350 contro i 250) e anche in termini di massimo di emissione. Quindi
la proteina stabilizzando questo sistema ha modificato la sua struttura.
Per notare che la proteina ha cambiato la sua struttura lo noto con la fluorescenza intrinseca, ma
anche guardando l’accessibilità dei tioli (SH liberi) della cisteina. Notiamo nella tabella che nella BLG
nativa a 25°C gli SH accessibili sono 0, mentre nella BLG associata a NP a 25°C gli SH accessibili sono
tutti. Questo mi dice che la proteina quando stabilizza la NP cambia la sua struttura.
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Da tutti questi dati è stato fatto un modellino per calcolare come la proteina si posiziona nei confronti
della NP (quella sotto in grigio).
Da qui ne deriva che se io presento la mia proteina adsorbita a una NP avrò delle conseguenze nelle
sue funzioni.
Una proteina cambia la sua organizzazione strutturale anche in dipendenza dalle dimensioni della NP
idrofobica che io metto, perché cambiano le dimensioni della superficie idrofobica che devo esporre.
Per esempio nella digestione l’aggredibilità delle proteasi è diversa in dipendenza dal fatto che la
proteina sia libera o assorbita. Nello schema vediamo i vari peptidi generati dall’azione della tripsina;
l’enzima è sempre quello, la proteina anche, e a parità di tempo ho diversi risultati. Quello che è
cambiato è l’accessibilità dei siti. Quella verde è nativa, quella blu è impattata sulla NP, e ha reso più
accessibili i residui bersaglio, che vengono aggrediti più in fretta perché la struttura che si viene a
generare ha esposto le zone idrofobiche verso la NP e tutto ciò fa sì che la proteina sia più facilmente
aggredibile. La differenza tra il tracciato rosso e quello blu sono le dimensioni della particella di stirene
associata alla proteina. Infatti quella rossa è 46 nm mentre quella blu è 200 nm. La proteina adsorbita
sulla NP più piccola è meno aggredibile dalle proteasi, e lo si nota sia da picchi più bassi, che dalla
numerosità di peptidi aggredibili (numero di picchi).
Nel caso dell’emulsione, abbiamo una fase idrofobica liquida e quindi ho una penetrazione (non è
attaccata alla superficie). Per avere più informazioni sulle modificazioni strutturali vado a vedere se la
BLG in presenza di olio (emulsione) ha la stessa suscettibilità alla tripsina rispetto a una proteina nativa
(nera) e rispetto a una NP a 200 nm. La proteina si modifica in maniera diversa sia dalla nativa, che da
quella adsorbita.
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Questi sistemi vengono riconosciuti dalle nostre cellule in maniera diversa. Il seguente è
l’assorbimento da parte di monociti umani (cellule spazzino del nostro sistema immunitario) da parte
della stessa proteina nei 3 sistemi precedenti:
la prima è la proteina emulsionata, l’ultima è la
proteina nativa. Questo vuole dire che la mia
proteina emulsionata viene assorbita molto più
facilmente,
quindi
molecolarmente
le
modificazioni strutturali espongono delle zone che
vengono riconosciute subito. Questa cosa può
essere positiva o negativa: negativa perché se un
allergene è emulsionato entra più facilmente,
mentre positivo se la proteina mi serve per un
intervento mirato in un farmaco, entra più facilmente. Quella in mezzo è la proteina adsorbita.
Le denaturazioni condizionano notevolmente le funzioni delle proteine, perché molte volte la
presenza di emulsioni può causare competizione tra le proteine.
Stabilizzazione di emulsioni da parte delle proteine della soia
Le proteine della soia stabilizzano le emulsioni con il vantaggio che creano meno fase dispersa,
quindi posso usare meno olio e creare per esempio una maionese alleggerita, perché ho messo meno
tuorlo, più soia e mono olio. Faccio l’emulsione con gli isolati di soia e vado a vedere la fluorescenza.
La struttura della proteina è notevolmente cambiata, e lo vedo dall’intensità e dal picco. La proteina
quindi all’interno dell’emulsione assume una struttura diversa da quella nativa. Ma l’aspetto
importante è che aggiungendo un denaturante, come l’urea (che espone le zone idrofobiche), cambia
ancora lo spettro e quindi la proteina assume una struttura consona all’ambiente.
Faccio l’emulsione e vado a vedere separandola quella che è legata all’olio, da quella che non si è
legata all’olio. Posso dire che vedendo la fase legata alla fase lipidica, la struttura dello spettro è diversa
(dal massimo di emissione spostato), invece nella fase acquosa lo spettro è perfettamente uguale.
Questo discorso mi dice che quando faccio un’emulsione la proteina che si modifica è solo quella che
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serve a stabilizzare la fase idrofobica, e se io ne ho messo un eccesso, il resto non si è affatto
modificato, e questo lo devo considerare; infatti se quella emulsionata è più stabile, quella nativa
magari è meno stabile e può precipitare.
Denaturazione meccanica
Sono denaturazioni indotte principalmente (non c’è mai un solo agente) da un agente meccanico. I
seguenti sono 4 tipi di processi in cui c’è denaturazione meccanica.
Affronteremo la formazione dell’impasto e le trasformazioni a carico del latte (omogeneizzazione e
filatura a caldo).
Per azione meccanica si intende un’azione legata a impastatrici, miscelatori, passaggio del prodotto
attraverso un ugello con variazione di pressione, oppure un pompaggio.
Una proteina sottoposta ad azione meccanica subisce una denaturazione con le stesse regole del
trattamento termico, cambia solo l’agente (vedi pag 32). L’entità del fatto che la modificazione sia
reversibile o meno è dipendente dall’intensità e dalla durata del trattamento e anche dall’eventuale
presenza e interazione con altri componenti degli alimenti (proteine, lipidi, trigliceridi, polisaccaridi).
Analogamente l’effetto sulla struttura di un trattamento meccanico ha gli stessi bersagli del
trattamento termico, quindi le interazioni deboli (a idrogeno, elettrostatico, idrofobico) che
stabilizzano la struttura secondaria, terziaria e quaternaria delle proteine. Anche per il trattamento
meccanico si verificano gli scambi di disolfuro.
Modificazioni che si verificano ai principali componenti della matrice alimentare in cui abbiamo
una denaturazione meccanica
L’esempio più importante è la formazione di impasti. Presenteremo l’impasto della pasta e quello del
pane.
Impasto da pasta secca: semola, acqua e azione meccanica. Si parte dalla semola, che è costituita da
una certa quantità di acqua 10/12%, un 10/15% di proteine, e il resto è frazione polisaccaridica
(amido). Le proteine principali presenti nella semola sono il complesso del glutine. Il glutine è fatto
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da gliadine (solubili in soluzioni alcoliche) e glutenine (solubili in soluzioni debolmente acide). Gliadine
e glutenine sono responsabili di 2 parametri importanti dell’impasto: la sua estensibilità e la sua
tenacità. Le altre proteine (circa il 20% della frazione proteica della semola), che sono le albumine e
le globuline, sono interferenti dal punto di vista della formazione dell’impasto, e nel frumento sono
molto basse. Gli impasti senza glutine hanno invece molto alte albumine e globuline.
Nel momento in cui vado a fare l’impasto aggiungo alla semola acqua e svolgo un’azione meccanica
di impastamento. L’amido (se non è stato danneggiato) durante il trattamento si idrata in maniera
molto superficiale e minima; invece le proteine per prima cosa si trovano in un ambiente con molta
più acqua, e quindi cambia la polarità dell’ambiente, e come primo effetto le proteine subiscono un
cambiamento di struttura (denaturazione), alimentato ancor di più dal fatto che è in corso un’azione
meccanica. Questo si traduce in un’esposizione dei siti idrofobici, quindi le proteine tendono ad
associarsi, e si traduce anche in uno scambio di disolfuri se le proteine sono ricche di SH. Gliadine e
glutenine sono ricche di ponti disolfuro (ricche di cisteine) quindi formano ponti disolfuro intercatena.
Tutto questo porta alla formazione di un reticolo proteico, molto ordinato, con delle maglie ben
precise e piccole, al cui interno viene trattenuto il granulo di amido. Per avere un reticolo perfetto la
prima cosa è la qualità delle proteine, in grado di formare legami intercatena. Ovviamente la
formazione del reticolo avviene solo grazie all’azione meccanica.
La fase successiva della preparazione della pasta è la formatura, quindi creo maccheroni etc.
La fase successiva è l’essicazione, in cui viene gradatamente allontanata l’acqua senza rompere il
reticolo proteico. Questa è la fase più costosa e delicata del processo. Un altro aspetto importante è
che la fase di essicamento consolida il reticolo e lo stabilizza. È importante la scelta delle temperature
di essicamento, essicco a temperature più elevate se la semola ha fatto un reticolo poco tenace.
Un reticolo più tenace e più piccolo possibile è importante per la fase di cottura; in questa fase cuocio
in acqua la pasta, e avviene la gelatinizzazione dell’amido: il granulo si rigonfia, gelatinizza e diventa
più solubile. Se il reticolo proteico non riesce a trattenere l’amido che si è gonfiato, la pasta diventa
colla, perché l’amido forma uno strato superficiale e appiccica. Se faccio scottare la pasta delle lasagne
aggiungo dell’olio così forma uno strato sopra la pasta e non permette all’amido di fare uno strato
sulla superficie. In tutti gli impasti senza glutine devo aggiungere degli amidi modificati che mimano
il comportamento dell’amido.
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Per aiutare a formare un reticolo devo aggiungere un agente reticolante. Per esempio il grano tenero
formava un reticolo non così tenace e compatto, quindi si è deciso di aggiungere l’uovo, perché
l’albume è in grado di formare un reticolo con interazioni S-S. L’uovo non è molto usato, ma è fattibile
anche per fare impasti gluten-free. La definizione delle caratteristiche intrinseche del glutine non è
semplice, perché molte semole sono molto simili, ma cambia la loro qualità nel fare l’impasto; quello
che cambia è la posizione dei residui di cisteina all’interno delle gliadine e delle glutenine. Da qui ne
derivano i diversi costi delle semole, in base alla qualità della semola. Ogni pastificio ha una miscela
tipica su cui basa tutta la produzione.
Come posso vedere sulle semole la diversa strutturazione delle proteine che ne influenzano la qualità.
Ci sono una serie di metodi per definire la qualità e le caratteristiche del prodotto:
•
metodi reologici (quanto si estende, quando perde cottura…)
•
metodo basato su come il reticolo è strutturato
•
sistema molto sofisticato basato su una valutazione prima e dopo cottura all’interno della pasta,
della mobilità dell’acqua che rimane nei confronti sia dell’amido che delle proteine.
In una pasta di buona qualità il reticolo è regolare e definito, in una pasta di cattiva qualità il reticolo
non è regolare e ha dimensioni maggiori, e ciò si traduce in un rilascio dell’amido durante la cottura.
Ovviamente per avere un reticolo buono occorre la qualità della semola e si può intervenire in modo
modesto anche durante l’essicamento.
Per capire come sono organizzate le proteine del glutine posso usare diversi metodi:
Posso andare a vedere sia sull’impasto che sulla
pasta
essiccata
da
quali
interazioni
sono
stabilizzate le proteine che partecipano alla
formazione dell’impasto. Quando io vado a fare il
reticolo del glutine, vado ad esporre dei gruppi SH
presenti, un’eventuale esposizione di regioni
idrofobiche che poi si traducono nella creazione
del reticolo interproteico, stabilizzato o da
interazioni idrofobiche, o da interazioni S-S. Se le
interazioni che stabilizzano un buon reticolo sono
uguali a quelle che stabilizzano un cattivo reticolo,
non posso dire che la qualità dell’impasto dipenda
dalle interazioni del reticolo. Se invece noto che le
interazioni sono diverse, posso affermare che il
reticolo è strutturato in maniera diversa.
Come posso andare a vedere la natura delle
interazioni che costituiscono un reticolo proteico.
Il sistema che utilizzo è fare una solubilizzazione
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frazionata del reticolo proteico. Prendo il prodotto, lo macino e lo tratto con un caotropo, come
l’urea 8-molare (condizioni denaturanti). L’urea rompe le interazioni tra proteine associate non
covalentemente, quindi legate da interazioni prevalentemente idrofobiche all’interno di una proteina,
perché disorganizza l’acqua. Quindi non rompe le interazioni S-S. Quindi se solubilizzo il campione in
urea, noto quante proteine si sono solubilizzate (perché il reticolo di per sé non solubilizza), ho un’idea
di quante proteine in questo reticolo formano associazioni prevalentemente idrofobiche. Le proteine
che non si solubilizzano sono associate mediante interazioni S-S. Se voglio sapere quante proteine
sono stabilizzate da interazioni S-S, devo solubilizzare utilizzando un agente che rompe il ponte
disolfuro, ovvero devo aggiungere un riducente, come il DDT (reattivo con un gruppo SH e rompe il
ponte disolfuro, ossidandosi). Posso aggiungere un riducente solo in presenza di urea, perché in
ambiente acquoso non solubilizzo niente. Quindi per sapere quante proteine sono associate mediante
S-S devo fare la differenza.
Un caso pratico è il seguente: abbiamo un’applicazione del metodo di solubilizzazione in cui ho fatto
la pasta con 2 semole: A e B, con caratteristiche diverse. Sono stati fatti 3 spaghetti con ogni semola,
e ogni spaghetto ha subito 3 diverse essicazioni a diverse temperature: bassa temperatura significa
tempi più lunghi, ma reazioni Maillard molto ridotte. Vediamo la solubilizzazione a livello del fosfato,
e con un tampone fosfato solubilizzo fondamentalmente le albumine e le globuline, che è una frazione
che non ci interessa più di tanto. Tuttavia noto che in base alle temperature di essicamento, solubilizzo
una diversa quantità di quelle proteine: la temperatura nera solubilizza la minore quantità, quindi
presuppongo che ci sia la maggior polimerizzazione della frazione albuminica e globulinica; deduco
che le altre 2 temperature abbiano provocato una minore polimerizzazione di queste 2 proteine.
Quello che interessa di più è il ruolo dell’urea: anche in questo caso la quantità di proteine che
solubilizza è maggiore meno è intenso è il trattamento di essiccamento. Applicando l’urea/DDT
raggiungo valori molto alti ma anche qui noto che sono più alti nei trattamenti a basse temperature.
Quindi concludo che i trattamenti ad alte temperature formano un gran numero di polimeri, ma
questo è un aspetto prevedibile. Importanti da vedere sono i salti, che fanno notare quante proteine
sono stabilizzate dai vari tipi di interazioni. Vedo che l’interazione fra legami S-S è maggiore nel
prodotto che è stato trattato ad alta temperatura, mentre nei prodotto trattati a basse temperature
sono inferiori. Le strutture sono altrettanto compatte, ma quelle a basse temperature sono associate
da interazioni prevalentemente idrofobiche. Questo è legato alla velocità di allontanamento
dell’acqua. Tempi di essiccazione più lunghi  semola grossa.
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Un altro parametro utilizzato per avere informazioni sul ruolo degli SH nel reticolo formato è quello
di andare a vedere la posizione degli SH all’interno del network proteico. Questi SH possono essere
più o meno accessibili al marcatore. Se gli SH sono tutti accessibili, il network sarà meno compatto,
perché se il network è compatto i marcatori non riescono a entrare. Poi all’interno del network posso
vedere se gli SH sono accessibili in presenza di tampone fosfato, quindi sono esterni, oppure in
presenza del caotropo (urea) e quindi significa che ho dissociato. Ricordiamo che gli SH ci sono per
forza, perché derivano da uno scambio di disolfuri e quindi non vengono creati o distrutti. Questo
schema mostra l’accessibilità degli SH negli spaghetti di prima in presenza di fosfato e di urea.
Notiamo che gli SH superficiali sono gli stessi, ma aggiungendo l’urea ho un grosso incremento solo
nel caso del network ottenuto con la bassa temperatura. Ciò è coerente con ciò detto
precedentemente, perché se tratto a basse temperature ho molte interazioni idrofobiche, quindi
aggiungendo l’urea le dissocio e ho molti più tioli liberi segnati dal marcatore.
È stato visto che gli scambi di disolfuro sono legati a come sono strutturate le proteine nella materia
prima di partenza.
© Laila Pansera - 60
Un sistema per vedere la struttura del reticolo è la
fluorescenza intrinseca, andando a veder come il
triptofano è posizionato. Devo vedere lo spettro di
fluorescenza, e lo faccio direttamente sul solido. I 2 spettri
rappresentano spaghetti trattati a temperature diverse, e
sono diversi: hanno un massimo e un’intensità diversa,
quindi i triptofani sono strutturati in modo diverso in base
alle temperature di essiccamento. E questa strutturazione
permane anche dopo la cottura.
Posso anche misurare l’idrofobicità superficiale: gli spaghetti trattati a diverse temperature sono
caratterizzati da diverse idrofobicità superficiali.
Tornando indietro, possiamo applicare queste misure anche alla
materia prima. Le proteine presenti hanno una diversa strutturazione.
Questa è la modificazione degli spettri della semola e della farina man
mano che si aggiunge acqua fino alla quantità sufficiente.
Invece il grafico seguente raffigura il massimo di emissione (del
triptofano che viene esposto) in funzione della percentuale di acqua,
sia sulle semole che sulle farine.
Nel caso delle farine osservo aggiungendo acqua uno spostamento
notevole, che significa che le
proteine sono state molto
modificate. Nel caso della semola invece noto che la partenza
è già diversa, quindi ho 3 semole e 3 partenze diverse, quindi
3 organizzazioni diverse. In più noto che aggiungendo acqua
non ho lo stesso salto che noto nella farina, ma è molto
minore, e in più le proteine della semola si sono modificate
molto poco. Quindi quando lavoro le semole ho una
modificazione strutturale molto ridotta, quindi è molto
importante la semola di partenza.
Le diverse modificazioni strutturali si traducono in una diversa
idrofobicità superficiale. Essa è correlabile ad un parametro W, un sistema che dà l’elasticità di un
reticolo, e dice come l’organizzazione strutturale si correla con il parametro di estensibilità della farina.
Da qui decido quale prodotto una farina è più adatta a fare.
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Il pane: nella produzione del pane abbiamo la formazione di un impasto. Ho la farina (o semola) a cui
aggiungo acqua, e si forma un impasto leggermente diverso a quello della pasta. La sua principale
caratteristica è il reticolo proteico stabilizzato dalle stesse interazioni della pasta, ma la differenza
sostanziale è che l’impasto da pane è soggetto a lievitazione, in cui l’agente lievitante produce una
alveolatura all’interno dell’impasto. L’impasto quindi deve sopportare la lievitazione, quindi deve
estendersi, ma non troppo, occorre perciò un compromesso tra tenacità ed estensibilità. Quindi già
la scelta della farina è diversa rispetto alla semola per fare la pasta, e ovviamente si tiene conto anche
della lievitazione che si deve fare. Se io voglio un reticolo non tenace, se voglio fare la pasta frolla,
devo formare un reticolo destrutturato, quindi aggiungo dei grassi (burro), che interferiscono ed
evitano la strutturazione del reticolo. Infatti la pasta frolla richiede un impastamento rapido e si
utilizzano farine a bassa forza, ovvero con del glutine che non tendono a formare un reticolo
compatto.
Nella cottura della pasta abbiamo visto la gelatinizzazione dell’amido, che prende acqua e si ingrossa.
Invece nella cottura del pane avviene comunque la gelatinizzazione dell’amido, ma la cottura non
avviene in acqua, quindi l’unico modo è prendere l’acqua dalle proteine. Quindi quando cuocio il pane
ho una sottrazione di acqua dalle proteine e quindi ottengo una consolidazione del reticolo proteico
formato in fase di impasto e della lievitazione. La migrazione di acqua dalle proteine può essere aiutata
da coadiuvanti tecnologici. La migrazione dell’acqua alle proteine è alla base dell’ultima fase, quella
di raffermimento. Le caratteristiche di un raffermimento di un pane sono 2: il pane diventa molle e poi
diventa sbriciolabile. Infatti l’amido gelatinizzato nel tempo va incontro dal punto di vista
termodinamico a una retrogradazione, ovvero diventa una struttura geometrica più ordinata. Questa
struttura lega meno acqua e quest’acqua torna sulle proteine. Le proteine presenti in questo reticolo
cambiano la struttura, che si traduce in un rammollimento del prodotto. Col tempo quest’acqua
evapora e con il tempo l’alimento diventa duro. Per rallentare l’evaporazione ci sono i vari packaging,
per esempio aggiungo dei lipidi, oppure lo conservo nella carta, oppure faccio il pane integrale, che
ha la fibra che assorbe acqua, oppure aggiungo dei polisaccaridi particolari che sono avidi di acqua.
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Questo gioco dei polisaccaridi del facilitare la ritenzione di acqua, è alla base dell’utilizzo di certi enzimi
termostabili (tipo amilasi) che idrolizzano specificatamente quando sono in fase di gelatinizzazione
dell’amido e rendono più lenta la migrazione dell’acqua. Invece un’accelerazione di questi fenomeni
si ha sul pane precongelato, perché il congelamento porta a una veloce migrazione dell’acqua verso
le proteine e quindi si sbriciola subito.
OMOGENEIZZAZIONE
Perché si omogeneizza? Perché le macrostrutture (nel caso del latte globuli di grasso o micelle di
caseina) che tendono spontaneamente ad associarsi e separarsi dalla matrice acquosa in cui si trovano,
e quindi a formare 2 fasi, aspetto non gradito al consumatore. Con l’omogeneizzazione si è visto che
questo evento fisico spontaneo può essere ritardato facendo sì che tute queste macrostrutture
diventino più piccole e tutte uguali. L’omogeneizzazione avviene facendo passare il prodotto in un
ugello sotto pressione a temperature controllate, e in questo modo ottengo globuli di grasso e micelle
di caseina con dimensioni uguali e molto piccole, che evitano durante il periodo di conservazione
separazioni di fase. Questo trattamento lo posso fare sul latte intero e anche sulla panna, che avendo
più grassi è a più alto rischio di separazione. Questo processo viene fatto normalmente prima del
trattamento termico.
Effetti dell’omogeneizzazione sul globulo di grasso
Il globulo di grasso è costituito da un centro fatto da componente lipidica (idrofobica), e intorno ha
una membrana monostrato, fatta esattamente come una membrana biologica: fosfolipidi on la parte
idrofobica verso l’interno e parte idrofilica verso l’esterno; in più ha delle proteine integre di
membrana, oppure transmembrana, oppure glicoproteine.
Se io ho un globulo di grasso con una certa circonferenza e lo divido in 4 aumento la circonferenza,
eppure questi globuli di grasso sono perfettamente in emulsione con la mia fase acquosa, perché per
azione meccanica e per variazione della pressione a cui viene mandata attraverso l’ugello si formano
4 globuli più piccoli formano una membrana mista costituita da pezzi della membrana e da caseine.
Per questo motivo questi globuli sono perfettamente emulsionati. Ovviamente il processo è aiutato
dalla temperatura, che facilita la formazione della membrana.
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Un esempio è il seguente: è una SDS
(separazione
elettroforetica)
delle
proteine presenti. Il campione 3 è una
panna cruda (né omogeneizzata né
trattata termicamente): noto che ho solo
degli alti pesi molecolari, e ho le proteine
3, 12 e 15, che sono le tipiche proteine
presenti nel globulo di grasso. Noto che
non ci sono né caseine, né sieroproteine,
perché se ci fossero avrebbero la
separazione elettroforetica indicata nel
campione 4 o nel 5. Il campione 4 è la
stessa panna che è stata omogeneizzata.
Rispetto al campione 3 ho ancora le
proteine della membrana dei globuli di
grasso, ma ho anche una quantità
considerevole di caseina. Il campione 5 è il campione 4 che è stato pastorizzato. In più oltre al
campione 4 ci sono delle sieroproteine, perché il trattamento termico ha fatto sì che sulle caseine
presenti sulla membrana del globulo di grasso, potessero associarsi delle proteine, in particolare la
BLG, che fa gli scambi di disolfuro. Ma le sieroproteine sono meno presenti delle caseine, perché
queste ultime rispondono meglio al fatto di proteggere il centro idrofobico dei globuli di grasso. Il
campione 2 è la panna venduta come pastorizzata; essa ha molte caseine e poche sieroproteine,
quindi si può dire che è omogeneizzata. Il campione 3/4/5 è seguito nella sua stoia e quindi più
comprensibile.
Un altro aspetto interessante è che il globulo di grasso è organizzato diversamente e un esempio per
vedere ciò, lo si può vedere studiando la suscettibilità del globulo di grasso agli enzimi che
normalmente agiscono sui globuli di grasso: le lipasi. Per vederlo aggiungo l’enzima e poi misuro la
variazione di pH (derivante dalla liberazione di un acido grasso dovuta all’azione della lipasi). Questo
schema rappresenta la suscettibilità del globulo di grasso a una
quantità fissa di enzima. Entro un certo limite di pressione a cui
agisco non ho una variazione sostanziale, poi ho un aumento,
quindi vuol dire che il globulo di grasso è cambiato nella sua
struttura intrinseca, infatti è più aggredibile dalla lipolisi.
L’effetto pratico che ne deriva è duplice: il cambio della shelf
life e anche durante il processo di omogeneizzazione, in cui se
non tengo perfettamente conto di tutto, può partire la
liberazione di acidi grassi e quindi all’irrancidimento.
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Concludendo si può dire che il globulo di grasso a seguito di una omogeneizzazione è diverso sia da
come è composta la sua membrana, sia da come è organizzato strutturalmente.
Effetti dell’omogeneizzazione sulla micella di caseina
Per azione meccanica le micelle diventano tutte uguali e tutte
più piccole.
In un prodotto omogeneizzato ho una minor distribuzione
delle dimensioni delle micelle.
Se utilizzo il latte omogeneizzato per la caseificazione, esso si
comporta in maniera totalmente differente rispetto a un latte
non omogeneizzato. Lo schema rappresenta la variazione di
luminosità che segue la formazione del coagulo di uno stesso
latte. Il pallino vuoto è latte crudo senza un trattamento di
omogeneizzazione.
Notiamo
un
graduale
aumento
di
luminosità, fino alla presa del coagulo, dove linearizza l’andamento. I pallini neri rappresentano latte
trattato a 50/55°C senza omogeneizzazione. Ha un andamento simile ma meno luminoso, e anche il
punto di coagulazione è uguale. I quadratini trattano latte omogeneizzato, uno a 55°C e uno a 75°C.
l’andamento dei quadratini è diverso, non tanto nel raggiungimento, ma nell’andamento stesso. In
più i tempi di coagulazione sono leggermente spostati. Quindi nel caso della omogeneizzazione non
riesco ad avere un coagulo che diventerà formaggio.
Questo è un altro esempio del latte coagulato, in cui viene
misurata l’idrofobicità superficiale durante il tempo di
coagulazione. I tracciati quadrati hanno un andamento
particolare: arrivano fino alla coagulazione quasi stazionari,
poi hanno un brusco aumento di idrofobicità superficiale.
Invece i pallini sono più lineari. Anche qui notiamo che il
coagulo è molto diverso. E questo si traduce in una diversa
capacità di trattenere i globuli di grasso e un diverso
reticolo, e ho la conferma che il latte omogeneizzato non è
adatto a formare un coagulo che diventerà formaggio.
Ricordiamoci che durante la omogeneizzazione abbiamo
solo assistito a un cambiamento di struttura del grasso e della caseina, non ho aggiunto né tolto
niente.
Un ultimo aspetto è legato a come lo stesso trattamento meccanico fatto su una stessa matrice
variando i parametri operativi, possa produrre un prodotto rispetto ad un altro. Per esempio la panna:
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posso omogeneizzarla o meno, ma di solito la omogeneizzo. Se faccio lo stesso trattamento
meccanico, ma lo faccio a pressione ambiente e a bassa temperatura (4°C), non ottengo la panna
omogeneizzata, ma ottengo il burro. Infatti rompo il globulo di grasso, ed esso espone tutte le sue
zone idrofobiche e tende ad associarsi idrofobicamente con le altre diverse parti idrofobiche, quindi
forma associazioni legate da interazioni idrofobiche. E l’acqua viene confinata, ovvero si forma una
micella inversa, fatta da una fase continua lipidica e una fase inversa, che è l’acqua. Ovviamente per
fare il burro devo partire dalla panna, e non dal latte, perché devo avere molti grassi. Per ottenere il
burro concentrato lo sciolgo e lo riconcentro. Se voglio un burro più ricco d’acqua però devo salarlo,
perché altrimenti avrei troppa acqua libera per la crescita microbica.
Denaturazione enzimatica
Il primo esempio è il ruolo di alcuni enzimi in alcune fasi di trasformazione che portano alla produzione
del formaggio. Il processo tradizionale è la caseificazione, a cui segue la maturazione del formaggio,
poi ho altri interventi tradizionali in cui intervengono i coadiuvanti di processo, altri in cui produco e
rilascio gli aromi e infine la stabilizzazione delle bevande.
Nella produzione del formaggio la prima fase è la caseificazione, ovvero tutte le modificazioni a carico
della micella caseinica che portano alla formazione del coagulo, una rete proteica al cui interno viene
tenuta acqua, sali minerali e la frazione lipidica. Un ruolo fondamentale nella formazione del coagulo
che dà origine al formaggio è svolto dalle proteasi coagulanti, ovvero le proteasi specifiche che
vengono impiegate per idrolizzare specificatamente la caseina. Queste proteasi sono 3 gruppi: la
rennina (di origine naturale o ricombinante), le proteasi da muffe e alcune proteasi vegetali. È
importante che queste proteasi agiscano sul residuo 105-106 del residuo di k-caseina, perché facendo
questa idrolisi parziale crea il presupposto perché la micella caseinica si destabilizzi e formi un reticolo
proteico preciso che forma il coagulo. La rennina ha una alta specificità per questo residuo, per questo
è la prima usata. Se uso un’altra proteasi, per esempio se uso la tripsina, che agisce su tutti i residui
basici, essa agisce in diversi punti e non forma il coagulo, ma diversi peptidi. Le altre proteasi citate
hanno la caratteristica di avere una peculiarità di azione limitata solo su alcuni residui di caseina, e
quindi possono formare il gel desiderato, che se non si forma, ho un’idrolisi molto spinta e non formo
il coagulo. La rennina è famiglia di 2 proteasi, che sono normalmente presenti nello stomaco dei
mammiferi. Esse sono la chimosina (aspartico proteasi) e pepsina (aspartico proteasi). Mentre la
pepsina ha un’azione su tutti i residui di aspartico e ha la stessa affinità sui 3 tipi di caseina, la
chimosina presenta una diversa affinità per le diverse caseine, in particolare ha un’altissima affinità
con la k-caseina, che deriva dalla sua specificità sul residuo 105-106. Quindi solo la chimosina crea i
presupposti per il coagulo, la pepsina no.
La rennina che solitamente viene usata è quella presente nello stomaco dei vitelli e on dei bovini.
Questo perché in un caglio da stomaco di vitello il rapporto tra chimosina e pepsina è ideale, mentre
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con la crescita dell’animale viene selezionata la pepsina e quindi ne abbiamo in quantità maggiori.
Alternativamente, se non voglio prenderla dagli animali, devo usare la rennina ricombinante, ottenuta
da microrganismi. La scelta della rennina dipende dalle caratteristiche del prodotto che voglio
ottenere. Queste diverse affinità fanno sì che questo enzima sia stato pensato per fare tutta la filiera
del formaggio, perché ha una fortissima affinità con la k-caseina, quindi serve per la coagulazione, e
una bassa affinità con le due fasi che rimangono, e questo viene sfruttato per la fase successiva.
In alcune realtà, per produrre soprattutto formaggi tipici, vengono utilizzate delle proteasi sostitutive,
che fanno un coagulo con delle peculiarità caratteristiche, diverse da quelle del coagulo ottenuto con
la chimosina. Qui posso fare 2 scelte: utilizzare le proteasi da muffe, che fanno un coagulo molto simile
a quello fatto dalla chimosina; esse vengono usate quando non viene ritenuto etico utilizzare un
enzima da animali. Ovviamente non creo un prodotto identico, ma che si avvicina a quello che ottengo
con la rennina. Oppure posso utilizzare delle proteasi vegetali, estratte dal cardo o dal carciofo (e
molto meno da ficina e papaina), e con questi si producono formaggi tipici dell’area mediterranea. In
conclusione l’utilizzo sostitutivo della chimosina viene fatto per ragioni di tipicità e per questioni
etiche.
Come posso seguire la formazione del coagulo e perché si forma un coagulo con determinate
caratteristiche
L’azione della chimosina è specifica sulla k-caseina, e solo nella struttura della micella e solo
idrolizzando le zone specifiche mi comportano all’interno della micella una serie di modificazioni della
sua struttura quaternaria che vanno verso la formazione del coagulo. In latti in cui la k-caseina è
assente ma molto poca, l’azione enzimatica può avvenire, ma non porta a tutte le modificazioni a
carico della micella che mi portano alla formazione del coagulo. Un esempio è che i latti dei
monogastrici (che non hanno k-caseina) non sono coagulabili.
Questa è una rappresentazione di quello che avviene durante l’azione della chimosina. Idrolizzando
specificatamente sul residuo 105-106 della k-caseina, ho una destabilizzazione della micella che
favorisce 2 aspetti: l’associazione fra le diverse micelle, e quindi cominciano a formarsi degli aggregati,
che all’inizio sono perfettamente solubili (e quindi macroscopicamente non si vedono, ma si vedono
misurando la luminosità), e poi la gelazione o coagulo, ovvero la formazione di una fase compatta
solida che vedo macroscopicamente. La gelazione è la fase più importante per condizionare tutto il
processo successivo. Durante la gelazione si forma il reticolo, che deve trattenere all’interno tutti gli
altri componenti, soprattutto la fase lipidica e l’acqua. Chiaramene il reticolo deve essere stabilizzato,
perché altrimenti le micelle di caseina continuerebbero ad aggregarsi fra di loro e la rete diventerebbe
sempre più compatta, si creerebbe un’associazione fortissima di caseine che provocherebbe
l’espulsione degli altri componenti (sineresi).
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Quando sono al punto ottimale di gelazione per evitare la sineresi devo fare la rottura della cagliata,
ovvero rompo il reticolo per evitare che diventi più fitto. Poi devo procedere con la formatura etc.
È difficile stabilire con parametri oggettivi il punto di gelazione ottimale, che viene stabilito a occhio
da un esperto.
Chiaramente l’azione dell’enzima e quindi la formazione del coagulo dipende da come è accessibile il
substrato. E abbiamo già visto che la micella di caseina se sottoposta a trattamento termico o di
omogeneizzazione viene modificata, pur essendo perfettamente stabile. Nel caso del trattamento
termico la micella di caseina contiene la k-caseina che è glicosilata e ha un residuo di cisteina, che
può fare scambio di disolfuro con chi ha residui SH, come la BLG, quindi la k-caseina può legare
piccole quantità di BLG. Un altro effetto è che
il
trattamento
termico
prolungato
può
distruggere alcuni residui –R, oppure far
avvenire reazioni di Maillard o glicazione.
In questo grafico già visto è rappresentata la
variazione di luminosità che viene seguita per
vedere l’azione dell’enzima e quindi la
formazione del coagulo (croce). Prima della
formazione del coagulo ho una serie di
variazioni
di
luminosità
che
dimostrano
l’attività dell’enzima, e sono diverse se si parla
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di latte crudo o latte trattato termicamente. In questi 2 casi il tempo di coagulazione è uguale, ma il
tipo di coagulazione è diverso. Un trattamento termico in caldaia è positivo per la formazione del
coagulo, perché dà stabilità al latte e aumenta le rese: infatti le sieroproteine se ne vanno quando si
forma il coagulo, però se esse sono legate alla k-caseina (tipo BLG con S-S con k-caseina), rimangono
nel coagulo. Ovviamente è positivo questo fatto se non è esasperato. Infatti se sterilizzo il latte e creo
troppi legami tra sieroproteine e k-caseina, precludo i siti di azione della chimosina, perché le SH sono
vicine al residuo 105-106, e non formo il coagulo. Nel latte omogeneizzato la formazione del coagulo
ha un andamento molto diverso rispetto a quello osservato nel latte trattato termicamente o nel latte
crudo. Lo si vede nell’andamento della curva. A parte il fatto che la curva è più bassa e che il punto di
coagulazione è più spostato, ciò che fa sì che il coagulo non abbia le caratteristiche ottimali è la prima
fase. Notiamo che prima che avvenga un’associazione deve essere idrolizzata una certa quantità di
caseina, e quindi l’associazione tra micelle che si va a formare è diversa rispetto al latte non
omogeneizzato, e questo fa sì che io non abbia il coagulo che mi serve per i formaggi.
Una conferma della diversità nella prima fase (di
associazione) l’abbiamo anche in questo grafico in
cui sono rapportate le variazioni di idrofobicità
fatte con il metodo di fluorescenza estrinseca nel
tempo
di
coagulazione.
Nei
2
tracciati
omogeneizzati ho un’idrofobicità costante e un
salto al momento della coagulazione. Invece il latte
non omogeneizzato ha una graduale variazione di
idrofobicità, caratteristica della formazione di una specie associativa particolare.
I latti si differenziano per la struttura delle diverse caseine, e quindi ho diverse strutture quaternarie
che mi fanno ottenere diversi coaguli.
Per alcuni formaggi c’è la cosiddetta fase di maturazione, che può avere diverse durate in dipendenza
dai diversi prodotti. Durante la maturazione del formaggio avvengono fondamentalmente eventi
idrolitici, ovvero eventi di idrolisi a carico delle 2 principali frazioni di macromolecole presenti: la
frazione proteica, quindi avrò proteolisi, e la frazione lipidica, quindi avrò lipolisi. Di lattosio ne ho
pochissimo, perché se ne va nel momento in cui rompo il coagulo e tolgo la fase acquosa. I formaggi
a lunga maturazione vanno bene per gli intolleranti al lattosio, non perché esso viene idrolizzato
durante la lavorazione del formaggio, ma perché lo tolgo prima: più un formaggio va in maturazione,
più siero ho tolto e quindi più lattosio ho tolto. Gli eventi idrolitici avvengono a carico della caseina e
dei trigliceridi, che vanno a creare la texture del prodotto. Ovviamente l’idrolisi non deve essere totale,
altrimenti otterrei una sospensione e una eccessiva liberazione di acidi grassi con annessi odori tipici
(es: acido capronico) e irrancidimento.
In una maturazione del formaggio abbiamo 3 fasi:
© Laila Pansera - 69
•
Idrolisi parziale da parte della rennina nei confronti della caseina; infatti abbiamo visto che la
rennina ha un’alta affinità con la k-caseina, e una molto più bassa verso la αs1-caseina e la βcaseina. Il substrato di k-caseina non c’è più, quindi la rennina agisce in maniera limitata sulle altre
caseine, formando peptidi ad alto peso molecolare.
•
Idrolisi dei peptidi da parte delle proteasi presenti nei batteri, che possono essere microrganismi
autoctoni (che si sono selezionati nel latte), oppure batteri starter che si sono aggiunti per facilitare
la maturazione. Posso per esempio aggiungere il pellicillum per ottenere formaggi erborinati.
•
Ulteriore idrolisi fino ad arrivare ai singoli amminoacidi, oppure ai derivati dei singoli amminoacidi
(ammine biogeniche presenti in alcuni formaggi a lunga maturazione).
Questi eventi si verificano interamente se il formaggio è a lunga maturazione, oppure parzialmente in
base alla lunghezza della maturazione.
Qui abbiamo i tracciati elettroforetici relativi a
un taleggio e un quartirolo. Per il taleggio devo
confrontare il 6, l’8 e il 9. Il campione 6 è il
taleggio che entra in maturazione, il campione
8 il taleggio in vita commerciale, il 9 è
supermaturato. Nel 6 la frazione α e β caseina è
presente, sotto abbiamo la massa nera che
sono frammenti peptidici, tra cui la BLG (il
taleggio è stato fatto con latte scaldato in
caldaia). Il campione 8 presenta una α-caseina
quasi sparita, mentre la β c’è ancora. Se avessi un’idrolisi totale delle caseine, come nel 9, avremmo
un prodotto non apprezzato molto dai consumatori, che si disfa. nel 9 noto anche che il macchione
sotto è aumentato, ovvero ho molti composti a basso PM, e si sono formati peptidi molto piccoli che
non si vedono in questa SDS. Il quartirolo: il campione 2 è prima della maturazione, il 3 è a vita
commerciale ottimale, il 4 è overmaturazione. Nel 3 le frazioni caseiniche non sono drammaticamente
cambiate, ma noto un aumento dell’intensità delle bande sotto, per cui ho avuto una proteolisi. A
overmaturazione ho un idrolisi dell’ α-caseina, che è quella che viene sempre idrolizzata
prevalentemente. Tutto questo per dire che l’idrolisi è sempre limitata, ovvero non tuta la caseina
viene idrolizzata (vedi schema qui sotto: αs1 cala, β non cala fino a un certo punto, i peptidi
aumentano).
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Un altro aspetto importante è la variazione dell’idrofobicità superficiale che attesta le modificazioni
strutturali che avvengono nelle proteine del formaggio durante la maturazione. Guardando il PSH
partiamo da 0.5 e poi abbiamo un crollo d idrofobicità superficiale nei primi 7 giorni, poi abbiamo un
aumento e n successivo crollo, questo dimostra che accanto a questi eventi che liberano peptidi
abbiamo modificazioni strutturali. Questo è importante per standardizzare le produzioni e offrire al
consumatore un prodotto sempre uguale.
I seguenti sono peptidi che vengono generati nella maturazione di un Parmigiano Reggiano: molti
derivano dalla β, molti dall’αs1 e molti dall’αs2. Quelli derivanti dalla β sono quelli più lunghi, perché
la β è quella che viene idrolizzata meno.
Questi peptidi vengono cercati per 2 scopi:
o
Standardizzare;
o
se anche solo uno di questi peptidi si formasse durante un tipo di produzione, la presenza di
questo peptide sarebbe il parametro che identifica l’avvenuto processo.
Il problema è che non è un peptide che identifica il formaggio, ma l’insieme di peptidi.
Ora vediamo l’azione di enzimi nel caso di coadiuvanti di processo. Sono sempre enzimi idrolitici,
ma si cambia substrato. Quindi gli enzimi possono essere una miscela di proteasi e enzimi che
agiscono su matrici polisaccaridiche per risolvere ad esempio delle emulsioni. Questo lo abbiamo già
visto: nell’estrazione dell’olio dai semi otteniamo una fase acquosa, una fase lipidica e una fase
all’interfaccia. Per risolvere questa fase o si aggiungono solventi, oppure taglio chi intrappola l’olio.
Un altro esempio dell’utilizzo dei coadiuvanti è per l’estrazione di alcuni componenti dalle matrici
vegetali: spesso i polifenoli sono legati a una frazione proteica o polisaccaridica, quindi se voglio
aggiungere polifenoli a un prodotto devo prima liberarli dalle fasi a cui sono legati, e lo faccio con i
coadiuvanti. Un’ultima applicazione dei coadiuvanti è quella per facilitare la solubilizzazione di
bevande, soprattutto per prodotti che subiscono istantaneizzazione.
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Se voglio ottenere un succo da un frutto, in Italia ottengo succhi torbidi, mentre per esempio in
Germania ho succhi limpidi. Per ottenere un succo limpido devo idrolizzare la parete cellulare del
frutto, in modo tale che quando vado a filtrare ottengo un succo limpido.
Questi sono tutti gli enzimi normalmente impiegati per far sì che nel
momento in cui faccio un succo, venga limpido, perché essi agiscono sulla
fibra/matrice non amido (parete cellulare del frutto). Se non voglio il succo
limpido, non ho bisogno di questi enzimi.
Eventi determinati dalla presenza di alcuni enzimi nell’alimento
Questi possono avvenire naturalmente, ma poi se studiati possono essere pilotati. Questi eventi sono
molteplici ma noi studieremo principalmente quelli a carico delle proteine. Gli eventi sono
fondamentalmente 2 e sono spiegati in questo schema.
Le proteine possono essere attaccate dalle proteasi, che rompono il legame peptidico. Le proteasi
possono essere costitutive dell’alimento, oppure nell’alimento possono essere avvenute
trasformazioni volute o meno ad opera di microrganismi che hanno un patrimonio enzimatico, tra cui
le proteasi. Questo può avere conseguenze positive, come l’aumento della biodisponibilità degli
amminoacidi, che sono immediatamente assorbibili, oppure come la diminuzione dell’allergenicità del
prodotto. Inoltre può aumentare la biodisponibilità dei micronutrienti, e molto spesso comporta la
produzione di biopeptidi, ovvero peptidi con azione funzionale, in questo caso che intervengono nella
regolazione di parecchi metabolismi, oppure facilitano l’assorbimento di alcuni oligoelementi. Ci sono
anche effetti negativi dell’azione proteolitica, come la comparsa di sapore amaro: se ho come cterminale un residuo idrofobico, esso viene percepito come amaro.
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In più ho un’azione sugli amminoacidi, che può essere collegata all’azione precedente. La presenza di
singoli amminoacidi può costituire il substrato per altri enzimi che possono essere presenti
nell’alimento, di cui quelli che ci interessano maggiormente sono gli enzimi con azione di
decarbossilazione. Essi tolgono il gruppo carbossilico dall’amminoacido, ma questo ha la
conseguenza della formazione delle ammine biogeniche, composti usati soprattutto dalle cellule del
sistema nervoso per tradurre un certo segnale. L’assunzione di ammine biogeniche può portare ad
alterazioni del metabolismo, con effetti più o meno gravi. Un altro effetto a cui vanno incontro è
l’imbrunimento enzimatico, che macroscopicamente è uguale a Maillard, ma l’origine è diversa; infatti
nel caso dell’imbrunimento enzimatico abbiamo delle ossidasi che formano dei composti bruni che
dal punto di vista chimico sono polifenoli e hanno una capacità chelante nel confronto dei
micronutrienti. L’imbrunimento enzimatico interessa soprattutto gli alimenti vegetali.
Peptidi bioattivi
Essi si originano dalle proteine per azione proteolitica. La proteasi (enzima):
•
può essere presente nell’alimento come costituente dell’alimento, oppure può essere derivante
dall’azione di microrganismi, oppure può essere stata aggiunta nella trasformazione dell’alimento
(nella coagulazione del formaggio per esempio).
•
Può trovarsi anche nel tratto gastro-intestinale, quindi quando digerisco o assorbo l’alimento
genero peptidi bioattivi.
Questi peptidi hanno molte funzioni:
-
Immunomodulatoria, ovvero intervengono positivamente sulla regolazione del sistema
immunitario, per esempio facilitano la risposta da parte del sistema immunitario nei confronti
di qualcosa considerato avverso.
-
Agonista o antagonista nei confronti di recettori nervosi, ovvero intervengono regolando
la risposta da parte delle cellule nervose.
-
Antimicrobica
-
Veicolante di micronutrienti, ovvero rendono più efficace l’assorbimento di un determinato
micronutriente, perché lo presentano in modo ottimale alle cellule deputate al loro
assorbimento.
Questi peptidi possono agire soli o in sinergia tra di loro.
Non tutte le proteine sono i precursori di proteine bioattive, ovvero perché si generi un peptide
bioattivo è necessario che nella proteina sia presente la sequenza tipica associabile a peptidi bioattivi.
Un secondo aspetto importante è che il peptide bioattivo, perché funzioni, deve essere liberato. La
proteasi deve liberarmi tutto il peptide bioattivo, non metà e non di più di tutto. Una cosa che si è
vista è che molti peptidi bioattivi vengono liberati da proteasi presenti in microrganismi probiotici,
molto importante.
Le principali fonti di peptidi bioattivi sono caseine, sieroproteine, e in minor quantità, il glutine.
Potremmo trovare anche la soia in questo elenco, ma la peculiarità è che lavora non sui peptidi ma
sulle proteine.
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Il seguente è un elenco di peptidi bioattivi identificati nel latte. I fosfopeptidi sono considerati peptidi
bioattivi perché molti fosfopeptidi facilitano l’assorbimento del calcio e di altri metalli (alluminio e
zinco), molto importanti quando devo rigenerare le ossa. Le caseomorfine derivano dalla β-caseina,
sono degli oppiodi agonisti, quindi riducono a livello del sistema nervoso lo stress (aiutano il sonno).
Gli immunopeptidi sono degli immunostimolatori; le caseochine sono ACE-inibitori, ovvero regolano
la pressione sanguigna; infine abbiamo caseoxine e lattorfine.
Notiamo che questi peptidi bioattivi sono molto piccoli.
Questi studi vengono compiuti per capire dove possiamo trovare i peptidi bioattivi. Più un formaggio
è stagionato, più posso avere questi peptidi, oppure li posso avere in un latte fermentato (yogurt).
Non basta la sequenza dei peptidi per la loro funzionalità, occorre che essi presentino una certa
strutturazione, e questa è stata una scoperta recente.
Un primo esempio è legato a uno studio fatto su dei peptidi c-terminali di β-caseina che hanno un
effetto immunostimolante. Il frammento p1 può essere frammentato in pezzettini fino ad arrivare al
frammento e1, formato da 1 residuo di prolina e dagli ultimi 3 amminoacidi (GPF). Si è notato che
anche il frammento e1 ha lo stesso effetto immunostimolante del p1, ma se al gruppo GFP aggiungo
l’amminoacido seguente, ovvero R (arginina), il peptide che si genera non è più immunostimolante.
Se aggiungo anche V (valina), il frammento ritorna a essere immunostimolante, e continua ad esserlo
aggiungendo anche gli altri.
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Perché quando R è n-terminale questo peptide non è più immunostimolante, e se R non è più nterminale il peptide è immunostimolante? Da qui è partita un’osservazione sperimentale. L’ipotesi era
che i diversi peptidi immunostimolanti potevano avere una particolare strutturazione che non era
possibile nel caso in cui R fosse n-terminale. Per prima cosa per vedere se i peptidi hanno una struttura
o no è stato introdotto sul peptide più corto un elemento di rigidità, ovvero una D-prolina, un
amminoacido chirale che impedisce certe rotazioni che alla L-prolina sono consentite.
Questo grafico misura la capacità immunostimolante a 2 dosi fatta su cellule animali. Nella β-caseina
non ho una risposta proporzionale alla dose, quindi non funziona, in e1 e in p1 la risposta è
proporzionale, l’e2 è lo stesso peptide di e1 a cui ho aggiunto la D-prolina: la risposa non è
proporzionale, quindi non è immunostimolante.
Per vedere la struttura possiamo vedere la presenza di
struttura secondaria in questo schema. In particolare se
ho un massimo negativo, ho un’α-elica. In p1 ho l’αelica. In e1 ho un’α-elica, in e2 e in p2 ho una struttura
random. Rimane il dubbio dell’arginina. Abbiamo visto
che e1 ha una struttura ordinata e ripiegata, grazie alla
L-prolina
che fa un
ripiegamento. Se metto la L-prolina, come in e2, essa
impedisce il ripiegamento e creo una struttura non
regolare, quindi la cellula non riconosce questa
strutturazione. Parlando del peptide più lungo se
aggiungo l’arginina R aggiungo 2 cariche positive, e esse
tendono a destabilizzare la struttura. Se invece aggiungo
la valina V, la carica positiva del gruppo amminico
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dell’arginina fa legame peptidico con la valina, quindi è possibile mantenere una struttura ordinata.
In poche parole la cellula non riconosce i gruppi funzionali, ma la struttura complessiva che si forma.
Un altro esempio di come la strutturazione ha un aspetto funzionale è rappresentato dai fosfopeptidi.
Ovvero l’attività di questi peptidi nel veicolare il calcio è strettamente dipendente da come questi
peptidi sono associati fra di loro. Il calcio nella cellula non è libero, poiché la sua presenza libero è
altamente dannosa siccome è poco solubile e tossico. Quindi il calcio è presente nella cellula chelato.
È stato visto che molti casein-fosfopeptidi (CPP, frammenti peptidici derivanti dalla caseina,
fosforilati) hanno la capacità di aumentare l’assorbimento del calcio a livello intestinale, ma non tutti
hanno la stessa funzionalità. Qui di seguito sono riportate delle miscele di fosfopeptidi tra le più usate.
Commercialmente posso trovare anche degli altri fosfopeptidi formati solo da α-caseina o solo da βcaseina, con prezzi diversi. Tutti chelano il calcio alla stessa maniera, ma non sono tutti efficaci
ugualmente quando si presentano all’osteoblasto.
Questo è l’assorbimento di calcio a livello cellulare. La miscela è inefficace, perché assorbe circa il 30%
a fronte di un 179.
Qui vedo l’assorbimento del fosfopeptide con il calcio
da parte di cellule. Sono blu, quando assorbono
diventano verdi, poi è importante che ritornino blu,
perché mi dice che la cellula è ritornata al suo ciclo
vitale di partenza.
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In seguito vediamo le curve di assorbimento del calcio.
Nella prima vediamo quando il fosfopeptide è costituito
solo da frammenti di β-caseina, in mezzo abbiamo la
miscela dei 2 e in fondo abbiamo il fosfopeptide derivante
dall’αs1-caseina. Questo dato mi dice che l’αs1-caseina
non funziona: chela il calcio ma non viene assorbita
dall’osteoblasto. Quindi la miscela è meno efficiente
perché contiene l’αs1-caseina, che non serve a assorbire il
calcio.
Come mai, siccome legano il calcio alla stessa maniera,
alcuni fosfopeptidi vengono riconosciuti dalla cellula e altri
no? La risposta sta nel fatto che la diversità di fornire il
calcio dipende da come questi fosfopeptidi si associano
fra di loro (quindi dalla struttura quaternaria che assumono). In particolare i fosfopeptidi dell’αs1caseina tendono ad associarsi con difficoltà, quindi a non formare dei peptidi associati. L’aggregazione
dipende dalle fosforilazioni.
Quali reazioni più importanti avvengono nei componenti negli alimenti a causa di enzimi, perché
costitutivi dell’alimento derivanti da intervento microbiologico. Vediamo 2 reazioni che possono
avvenire a carico di amminoacidi, presenti nell’alimento quelli dell’altra volta si generano per azioni di
proteasi (fino a singoli amminoacidi).
Le principali reazioni sono di due tipi: reazione di decarbossilazione, quindi privare l aa del gruppo
carbossilico, quindi ottengo le ammine biogeniche, es istamina, triptamina, etc o Composti usati
dalla cellula per trasmettere un segnale o per regolare il processo metabolico.
Un altro tipo di reazione riguarda l’ossidazione di alcuni aa che è alla base dell’imbrunimento
enzimatico, vediamo ora alcuni casi, alcuni composti che sono neurotrasmettitori che derivano da aa
decarbossilati.
Composti neurotrasmettitori
Serotonina derivante dal triptofano, il GABA dal glutammato, l’istamina dall’ istidina, la dopamina dalla
tirosina, l’epinefrina è il precursore dell’adrenalina, sono tutti neurotrasmettitori, agiscono tutti sul
sistema nervoso centrale o su altri tessuti specifici, l’aspetto importante deriva da alcuni aminoacidi,
di questi neurotrasmettitori, sono 3 i più importanti.
C’è una connessione tra questi neurotrasmettitori e gli alimenti che si consumano, o con farmaci.
Questi neurotrasmettitori, derivanti da questi amminoacidi, vengono normalmente prodotti dalla
cellula in risposta, quando ne ha bisogno e vengono degradati quando cessano la loro funzione. Può
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succedere che dopo un’ingestione di certi alimenti magari associati con certi farmaci posso avere una
circolazione elevata di questi neurotrasmettitori o perché quelli endogeni non sono degradati o
perché consumando certi alimenti io aumento la quantità circolante e in alcuni casi ha effetti positivi
altri negativi.
Istamina: istidina che è stata privata del gruppo carbossilico, la istamina viene prodotta in stati
infiammatori, istamina viene prodotta in caso di allergie, allergia ad alimenti, pollini, viene prodotto in
risposta a queste manifestazioni. Alcuni alimenti sono ricchi in istamina son i formaggi a lunga
maturazione, oppure nelle cellule in rapida riproduzione come i lieviti. Se io ho una manifestazione
allergica prendo l’antistaminico, intervengo sui mastociti, blocco la produzione di istamina, il farmaco
lavora contro tutta l’istamina, se consumo alimenti ricchi in istamina l’effetto del farmaco viene ridotto.
Se ho un trattamento antistaminico non ha senso che io consumi questi alimenti. Gli alimenti ricchi in
istamina facilitano l’insorgere di allergie. se devo abbattere la quantità di istamina è ovvio che non
prendo alimenti con cui introduco ancora istamina.
Serotonina: ammina biogenica, derivante dal triptofano. Gli alimenti ricchi di serotonina sono
cioccolato, banane, datteri, sono ricchi o in serotonina o in triptofano libero che può esser
metabolizzato in serotonina. La serotonina, serve per mantenere il buon umore, è una risposta positiva
verso l’ambiente, mantiene il buon umore. La serotonina va in contro a un processo di degradazione,
un enzima chiave sono le MAO, e monoamminoossidasi.
Molti farmaci antidepressivi: bloccano questi enzimi, sono inibitori delle monoammino ossidasi, MAO,
che tengono alti i livelli di serotonina. C’è un problema: le monoammino ossidasi, gli stessi enzimi,
intervengono anche nella degradazione di tutta una serie di altri neurotrasmettitori non derivanti dal
triptofano ma dalla tirosina che sono la tiramina, da cui derivano tanti altri neurotrasmettitori che
servono in tanti processi di regolazione cellulare. La tiramina interviene nella regolazione della
pressione sanguigna, quando la cellula ha bisogno di innescare i processi che regolano la pressione,
produce tiramina a partire da tirosina.
La tiramina viene prodotta per regolare la pressione sanguigna, per elevare la press sanguigna
Se un alimento è ricco di tiramina e ho problemi di pressione devo evitare questo alimento.
Si trova in avocado, cioccolato, caffè, lievito. Un altro aspetto importante è che sono tutti degradati
da mono amminoossidasi. Bisogna stare molto attenti tra il consumo di alimenti ricchi in tiramina e
farmaci antidepressivi. Se ho un consumo di farmaco antidepressivo e contemporaneamente uso un
apporto alimentare ricchi di queste ammine biogeniche il rischio è elevato, io non controllo più la
pressione sanguigna. Ci sono stati casi di morte.
Alcuni alimenti sono stati accusati di essere ricchi di ammine biogeniche, quindi pericolosi per soggetti
o trattati con certi farmaci.
È grave associazione di farmaco antidepressive e alimenti ricchi in tiramina, sono positivi la serotonina.
Le ammine biogeniche sono legate agli alimenti.
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Alterazioni compositive indotte da processi di trasformazione
Enzimi che comportano processi di ossidazione a carico di gruppi OH fenolici, che comportano a lungo
andare al formazione di polimeri bruni che sono alla base dell’imbrunimento enzimatico, questi enzimi
sono detti ossidasi, enzimi che sono attivi su specie dell’ossigeno, hanno come substrato l’ossigeno,
ossigeno come radicale, o come specie radicaliche OH.
Ossidasi: è definita come un enzima che comporta una reazione di ossidazione, quindi un substrato
viene ad essere ossidato e contemporaneamente, si riduce il substrato relativo all’ossigeno. Nella
prima reazione l’ossigeno diventa acqua. in un'altra reazione l’ossigeno diventa acqua ossigenata.
Altra reazione l’ossigeno diventa ione superossido.
Nei vegetali ci sono una serie di enzimi dette laccasi o polifenolo ossidasi che agiscono sui gruppi OH
di alcuni amminoacidi, es sulla tirosina, se lo ossidano fanno una serie di reazioni che si traducono
nella formazione di composti bruni. Ha una serie di passaggi questa reazione. L’enzima è la
polifenolossidasi che ossida.
Questo enzima: il gruppo R, o altri composti incolori viene ossidato a un composto che è marrone, il
chinone può polimerizzare con altri composti simili e forma il composto marrone.
La tirosina lavora di solito con la tirosina idrolasi, che libera tirosina, si ha una reazione di ossidazione
nel gruppo oh della tirosina, alla fine ottengo un composto condensato che è la melanina, se è sulla
mela diventa marrone. Il primo passaggio, ovvero l’ossidazione è la prima reazione di partenza,
quando ottengo il chinone tutto il resto è immediato, se io voglio prevenire la formazione del
composto bruno devo intervenire all’inizio, nella prima reazione di ossidazione.
Come faccio a bloccare il tutto? Devo abbassare il pH, e l’enzima agisce più lentamente. Oppur posso
intervenire usando un altro riducente, es metto acido ascorbico, il dopachinone reagisce con acido
ascorbico, si forma il dopaidrochinone, composto che non può idrolizzare. Il dopachinone è il
composto chiave. Quindi o non lo faccio formare (intervengo sull’enzima e abbasso il pH), oppure
posso usare un chelante del ferro, es acido citrico, o acido ascorbico.
Oppure l’altra strategia è che dal dopachinone non si formino gli altri composti, perché se si formano
tutti gli altri composti ottengo la melanina. Allora metto acido ascorbico che chela i metalli, oppure
forma un composto che non è reattivo e non si forma la polimerizzazione. Lo stesso effetto lo ottengo
con la cisteina, e interrompo la catena all’inizio. ma è molto più comodo l’acido ascorbico che ha
anche la funzione di chelante. Aggiungo succo di limone per ritardare l’imbrunimento enzimatico.
È un effetto diretto su enzima ossidasi, non ha senso di pensare di bloccare questo inattivando
l’enzima. Come inattivo l’enzima? Usando un trattamento termico, l’effetto per bloccare gli enzimi è
abbassando il pH e usando chelanti dei metalli, qualcosa che blocchi la reazione.
Se non voglio abbassare il pH aggiungo acido citrico, anche la cisteina funziona, la cisteina ridotta è
molto meno stabile, oppure per bloccare quello è di usare enzimi.
Questi enzimi sono compartimentati, quando taglio l’alimento, oppure quando ho traumi: mela
perfetta ma ho una macchia scura all’interno, è un imbrunimento termico dovuto a un trattamento
termico, raffreddamento elevato, congelamento elevato, l’enzima è uscito che ha trovato il substrato
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e ha reagito. Ma il frutto è perfetto all’esterno, non ho sentore che ci sia la macchia. È un imbrunimento
enzimatico legato ad alterazioni che sono avvenute a livello cellulare.
Relazione tra ferro e proteine
Relazione tra proteine e alimenti, le proteine svolgono la funzione di legare con microrganismi, con
effetti positivi o negativi. I fosfopeptidi legavano il calcio, hanno effetto positivo, rendevano più
solubili e più assorbibili.
Proteine con effetto negativo: la funzione di queste proteine è svolta solo se le proteine hanno
struttura nativa, se perdono la struttura si denaturano. Devo essere sicura che la proteina sia in grado
di interagire con il microelemento.
Interazione tra ferro e alcune proteine, es il ferro, nella cellula batterica, non è mai libero in
soluzione, i sali di ferro hanno basso prodotto di solubilità, il ferro ha bassa solubilità, inoltre il ferro
libero nella cellula è altamente tossico.
Fenton: reazioni che comportano la produzione di radicali liberi, che sono specie altamente reattive
che reagiscono sui costituenti delle membrane, ovvero sugli acidi insaturi, che costituiscono le
membrane, inoltre reagiscono con alterazioni sulle basi del DNA. La presenza di ferro da ferro 2 che
diventa ferro 3, ferro che facilmente può essere ossidato e comporta la formazione di specie
radicaliche. Infatti il ferro è sempre legato ad una proteina, es all’emoglobina, il ferro 2, se viene
ossidato c’è qualcuno che lo riduce subito e quando viene ossidato si formano i radicali liberi.
un individuo ricicla il 95 % del ferro, si prende il ferro all’inizio della vita e poi se lo porta per tutta la
vita, che gli serve e riciclarlo il più possibile, e deve essere accumulato e mediato da due proteine.
Le due proteine che portano il ferro nei due distretti e quelle in cui viene immagazzinato. Il ferro
presente negli alimenti si trova ossidato, come il ferro 3, il ferro per essere assorbito deve essere
ridotto, noi assorbiamo il ferro come ferro 2, viene ridotto da una ferro-reduttasi che si trova
sull’orletto a spazzola del villo intestinale. Se Iil ferro viene ridotto si ossida l ac ascorbico.
Un alimento in condizioni acide è più facilmente assorbibile, il ferro è assorbito come ferro 2, entra
nel villo intestinale, poi arriva nel circolo sanguigno. C’è qualche proteina che lo chela etc..
Guardiamo le due proteine nel trasporto del ferro nei comparti dove serve, le due proteine principali
sono la transferrina, proteina di trasporto a cui si lega il ferro per esser trasportata in ogni distretto
che serve, sia nel villo intestinale oppure dove serve.
Il ferro mi serve dove c’è una proliferazione cellulare, può essere endogena se devo rigenerare un
tessuto, oppure se c’è un’infezione batterica, le cellule stanno crescendo e hanno bisogno di ferro, la
transferrina è usato come marcatore di infiammazione.
L’altra proteina di trasporto è la ferritina, con struttura ben definita, è una glicoproteina, ha
glicosilazione particolare, legata a stati dell’organismo, è una proteina ricercata dopo che è stata
ritirata la patente, dopo il consumo di alcol la ferritina viene glicosilata in maniera massiccia. Se uno
non consuma più alcool i livelli di ferritina glicosilata diminuiscono.
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È una proteina con 3 lobi, 3 regioni strutturali, 2 a destra, 1 a sinistra, dato che ha questa struttura ben
definita la struttura è importante per il legame del ferro perché ogni lobo lega uno ione di ferro
occorre che come ferro ossidato come ferro 3. Perché il ferro 3 possa essere legato a ogni lobo occorre
che simultaneamente sia presente uno ione bicarbonato, ione sinergico, in questa situazione ogni
lobo di ferritina, ogni molecola di transferrina lega 2 molecole di ferro.
Il terzo lobo serve perché quando arriva la cellula che deve depositare il ferro è il punto di
riconoscimento del recettore da parte della cellula. Ho 2 lobi che legano ognuno una molecola di
ferro mediata da ione bicarbonato e un terzo lobo che serve per il riconoscimento cellulare.
Quando la proteina arriva sulla cellula, che deve essere donato, il ferro, Abbiamo un’interazione con il
recettore, la proteina viene inglobata nella cellula, e se mi serve il ferro.
La proteina viene liberata acidificando leggermente, se acidifico leggermente il bicarbonato non c’è
più e il ferro è rilasciato alla proteina che serve per fare centri ferro zolfo, per fare emoglobina oppure
per essere depositati.
Poi la proteina scarica viene rigenerata. Una proteina simile alla transferrina, nel latte, la lattoferrina
è la transferrina derivante dal siero che si trova nel latte, viene venduta, l’utilizzo è a due scopi, viene
usato come packaging attivo, se io chelo il ferro, la lattoferrina chela il ferro, devo mettere qualcosa
che regoli la crescita microbica, la lattoferrina chela il ferro, quindi la crescita microbica non è facilitata.
Ma rallenta la crescita. Quindi viene usato come packaging attivo. Il significato è quello di ridurre la
crescita microbica, la capacità di legare il ferro dipende dal fatto che la proteina ha 3 lobi, che sia
nativa.
Dato che il ferro lega il ferro, io posso selezionare il tipo di microrganismo che cresce, non tutti i
microrganismi crescono con stesse condizioni, alcuni microrganismi crescono in condizioni in cui c’è
poco ferro , si è visto che usare lattoferrina regola a livello della flora che si sta formando , la selezione
verso un tipo di microflora migliore rispetto ad altri . Viene aggiunta lattoferrina funzionale che leghi
il ferro perché si è visto che così si formano bifido batteri che sono più resistenti all‘infezione, che
facilitano maggiormente lo sviluppo la crescita di individui che nati prematuri hanno problemi di
sviluppo maggiori rispetto ad altri. Nei latti della prima infanzia c’è un aggiunta di lattoferrina,
chelando il ferro, posso modulare il ferro, facilitando un certo tipo di microflora, deve essere
lattoferrina nativa, non denaturata.
Posso modulare il ferro facilitando un certo tipo di microflora.
Chelando il ferro, è un intervento relativo. Dalla lattoferrina deriva la lattoferricina, lattoferrina privata
di un peptide, che è più attiva dal punto di vista molecolare, che chela più fortemente il ferro, ha
attività microbica più elevata. Il ferro circola attraverso la transferrina, lo lega e viene ceduto, se non
serve viene depositato come sale di ferro, come ruggine, all’interno di una proteina, che è la ferritina.
La ferritina è una proteina molto grossa fatta da una serie di subunità, 24 subunità, multimerica,
all’interno di cui c’è il ferro depositato come ferro 3, come ruggine. Ho così il ferro compartimentato,
non disponibile per nessuna reazione, questo ferro deve esser depositato e mobilizzato.
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Il trucco perché il ferro dalla cellula sia depositato o mobilizzato è basato su un cambiamento di stato
redox, il ferro quando viene rilasciato dalla transferrina se non serve vien depositato, e per entrare
nella ferritina deve essere ridotto. Il ferro 2 è depositato come ferro 3 e lasciato nel core. Quando
serve, viene di nuovo ridotto a ferro 2 e esportato dalla proteina. Il ferro è trasportato dalla transferrina
come ferro 3, ridotto, depositato nella ferritina che viene subito riossidato come ferro 3. Quando
serve viene mobilizzato come ferro 2. Sembra che ci sia una attività redox in ogni sub unità che
costituiscono la proteina. La ferritina è la proteina in cui il ferro viene depositato. La supplementazione
di ferro viene fornita come ferritina.
Estrema tossicità del ferro viene neutralizzata completamente, resa inefficace mediante una proteina.
Il legame con il ferro non è univoco, viene legato e quando serve viene mobilizzato e viene ceduto.
Ogni molecola di ferritina può contenere fino a 4000 atomi di ferro. È la proteina che deposita il ferro,
un dosaggio della ferritina da un’idea del dosaggio di ferro. Se ho ferritina bassissima significa che
non ho deposito di ferro.
La quantità di ferro circolante nell’individuo va a intervenire nella regolazione della sintesi della
proteina, è un esempio di nutrigenomica.
Iodio
Interazione tra proteine e microelemento per la funzionalità: proteine e iodio, che serve per la
produzione dell’ormone tiroideo, che è fatto da iodio legato a una tirosina, questo ormone tiroideo
come viene fatto? Prendere una tirosina, modificarla e legarci uno iodio.
La proteina che cattura lo iodio e che forma ormone tiroideo è la tiroglobulina, proteina molto grossa
che si trova nei follicoli della tiroide, questa proteina serve a collegare, cattura le varie tirosine, a far sì
che queste tirosine vengano iodate e poi vengono trasformate in ormone tiroideo.
Pola tiroglobulina cattura lo iodio presente, se io non ho iodio, la tiroglobulina non può catturare lo
iodio da coniugare sulla tirosina, allora l’organismo ha bisogno di ormone tiroideo ma non c’ è perché
non c’è iodio, quindi devo catturare quel poco di iodio, quindi l’organismo a livello della tiroide
sintetizza elevate quantità di tiroglobulina. Deve catturare assolutamente quel poco iodio che c’è.
Il sale arrivava dalle montagne, c’erano carenze di iodio, quindi produco molecole che cattura lo iodio
proteina che abbia l tirosine iodate.
Proteine che legano le vitamine
Avidina: sequestranti di principi attivi, è una proteina glicosilata, formata da 4 subunità ogni sub unità
per 17000, ogni subunità lega una molecola di biotina, il legame avidina biotina che avviene soltanto
quando la proteina è nativa, se denaturo la proteina il legame con la biotina non c’ è più. L’avidina si
trova nell’albume, di solito.
La biotina serve quando si sviluppa il pulcino, è ricco di proteine che chelano, l’avidina che quando è
legata non è biodisponibile e non può essere usata questo legame è molto elevato e specifico, è usato
per scopi analitici, alla biotina lego un anticorpo, poi aggiungo avidina, la biotina è fluorescente. È un
legame molto forte e specifico. L’avidina è termosensibile, se scaldo e denaturo la proteina non ho
più questo legame.
© Laila Pansera - 82
Niacina: è una vitamina del gruppo B, legata a malattie come la pellagra, legata a carenze nutrizionali,
legate alla mancanza di niacina in popolazione con alimenti privi di niacina oppure in popolazioni che
si nutrivano di mais. Il mais è uno degli alimenti più ricchi di niacina. Queste niacine erano legate a
una famiglia di proteine, che legate non erano biodisponibili. Il legame tra queste proteine e la niacina
era legato al fatto che, queste famiglie di proteine erano termosensibili.
Quindi un semplice trattamento termico le denaturava ma non era sufficiente per rilasciare la niacina,
se il trattamento termico era condotto in condizioni alcaline la proteina si denaturava rilasciando la
niacina.
Devo fare un trattamento detto soaking alcalino, trattamento in cui la farina sia trattata in condizioni
basiche, in questo modo denaturo le proteine. Cambia il trattamento alcalino. In molte farine di mais,
sono farine che hanno subito la nixtamalizzazione , è previsto un trattamento alcalino con proteasi ,
per aiutare l’idrolisi di queste proteine e contemporaneamente il rilascio della niacina.
La cottura con la cenere comportava la liberazione della niacina
Le proteine chelano certi composti, ma non è automatico che se
Niacina: le proteine sono termosensibili ma non lo sono se agisco con azioni abbassando il pH.
© Laila Pansera - 83
Il muscolo
Il muscolo è costituito da una serie di unità, definite fibre muscolari (con diametro fino a 0.1 nm e
una lunghezza da 1 a 40 nm). Ogni fibra muscolare è una cellula specializzata. Le cellule muscolari
sono cellule polinucleate, come tutte le cellule hanno una membrana, che però ha una caratteristica
particolare: infatti il sarcolemma (così è definita la membrana cellulare della cellula muscolare) è
particolarmente sensibile alla stimolazione elettrica e quindi è facilmente eccitabile: infatti deve
rispondere all’impulso nervoso. In più ha un
citoplasma chiamato sarcoplasma con delle
caratteristiche
particolari.
All’interno
del
sarcoplasma sono presenti molti filamenti
proteici, chiamati miofibrille. Esse, messe tutte
parallele in fasci lungo l’asse della cellula, sono
avvolte in senso perpendicolare dai tubuli
trasversi. All’interno del sarcoplasma si trova il
reticolo sarcoplasmatico che è simile a quello
endoplasmatico, ma è altamente specializzato,
esteso e messo longitudinalmente rispetto alle
miofibrille, e negli spazi che rimangono si trova
una grande quantità di mitocondri.
All’interno del muscolo abbiamo un 75% di acqua e un 20% di proteine. Di queste proteine:
o
Più del 50% sono proteine miofibrillari, e sono quelle che andranno a definire le caratteristiche del
mio prodotto.
o
Il 30% sono proteine del sarcoplasma sono solubili e servono per l’attività metabolica del muscolo;
buona parte sono proteine della glicolisi, che servono alla cellula.
o
Un 10-15% sono le proteine dello stroma, insolubili in condizioni normali, fondamentalmente
collagene e elastina, e servono ad ancorare il muscolo.
Reticolo sarcoplasmatico
È simile al reticolo endoplasmatico liscio, con alcune differenze. Nel reticolo endoplasmatico liscio di
una cellula standard avvengono le modificazioni post-traduzionali delle proteine (glicosidazione,
fosforilazione etc), mentre in questo reticolo non avviene nessuna di queste funzioni, perché è
esclusivamente una pompa del calcio, ovvero qui si deposita e viene rilasciato il calcio. La
concentrazione del calcio infatti è fondamentale per la funzionalità del muscolo. Pertanto il reticolo
sarcoplasmatico svolge un ruolo fondamentale durante la contrazione muscolare.
© Laila Pansera - 84
Miofibrille
Ogni miofibrilla è formata da una serie di unità ripetitive (anche 20000) definiti come sarcomeri. Ogni
sarcomero è costituito, da una banda A, chiamata anche banda anisotropa (che assorbe la luce) e una
banda I o isotropa, che fa passare la luce. Al microscopio si presenta in questo modo:
la banda I è fatta da un unico tipo di filamento, quello sottile, mentre la banda A è costituita da 2 tipi
di filamenti: gli stessi della banda I, più i filamenti spessi posizionati in modo diverso. In più c’è una
zona costituita solo da filamenti più spessi. Quindi in queste unità ripetitive abbiamo la presenza di 2
tipologie di filamenti: spessi e sottili. Perpendicolarmente a ogni sarcomero abbiamo delle linnee più
scure, la zona H nella banda A e le linee Z nella banda I. La linea Z sono i punti di ancoraggio dei
filamenti sottili, mentre la zona H è costituita oltre che dai filamenti spessi, da una serie di altre
proteine. Queste zone sono importanti perché gli interventi atti all’ottenimento della carne
interesseranno solo queste zone.
Filamenti sottili
È un complesso proteico costituito da 3 tipi di proteine associate fra di loro:
o
Actina
o
Troponina
o
Tropomiosina
© Laila Pansera - 85
L’actina è una proteina filamentosa costituita da 2 filamenti associati fra di loro a doppia elica (elica
proteica diversa da tutte le precedenti viste) con un passo di 6-7 nm e della lunghezza di 35 nm. Ogni
filamento è costituito da monomeri di actina G. Actina G è un monomero, che in presenza di magnesio
(Mg++) polimerizza formando un filamento, il quale si avvolge a doppia elica con un altro filamento
formando l’actina F. Lungo questa doppia elica di actina sono posizionate le 2 altre proteine: la
tropomiosina è un dimero filamentoso, formato da 2 monomeri uguali da 70000 Da, che si avvolge
come un cordone lungo la doppia elica di actina a ogni passo dell’elica, e serve a dare più forza alla
doppia elica di actina. In corrispondenza del passo dell’elica abbiamo anche la troponina, una proteina
globulare costituita da un trimero, quindi ha 3 diverse subunità:
•
TnT lega la tropomiosina, e ancora il complesso sulla tropomiosina
•
TpI inibisce l’interazione tra l’actina e la miosina (del filamento spesso), quindi modula
l’interazione tra i 2 filamenti che costituiscono la fibra muscolare
•
TnC lega il calcio, se c’è.
© Laila Pansera - 86
Filamenti spessi
Sono costituiti da miosina. Essa è una proteina oligomerica costituita da 2 catene pesanti da 200000,
2 catene leggere da 20000 e 2 catene leggere da 16000. È organizzata in maniera particolare: le 2
catene pesanti sono avvolte a partire dalla parte c-terminale, e verso la parte n-terminale si aprono.
All’interno delle 2 teste si trovano le 2 tipologie di catene leggere, una per parte. All’interno della coda
della miosina esiste un punto preciso flessibile, facilmente aggredibile dalla proteasi. Le unità di
miosina si associano coda verso coda, andando a formare il filamento spesso. Esso è formato da
associazioni di miosina coda contro coda, e vedo una zona nuda, costituita dalle code, e da una zona
che ha le teste della miosina.
Nelle zone in cui ci sono entrambi i filamenti (sottile e spesso), è possibile un’interazione tra actina e
miosina, ma occorre tenere presente la presenza dell’inibitore della troponina. Infatti il contatto tra
teste della miosina e actina non è casuale.
La miosina ha 2 attività importanti:
1. Attività ATPasica: idrolizza ATP per liberare energia;
2. Capacità di formare il complesso actina-miosina.
Contrazione muscolare
Come si modifica il sarcomero, quindi come i 2 filamenti scorrono l’uno sull’altro, è alla base della
contrazione muscolare. Il caso 1 è un muscolo perfettamente rilasciato, ed è la struttura appena vista,
il caso 4 è un muscolo perfettamente contratto. La banda che è sparita è la banda I. quindi in un
muscolo rilasciato il sarcomero ha la struttura regolare, mentre nel muscolo contratto i filamenti sottili
(banda I) penetrano all’interno della banda A. La carne che io consumo deve essere costituita da
muscolo in condizioni rilasciate, ma l’animale al momento della morte è alla massima contrazione.
Quindi durante la frollatura devo superare la fase di contrazione.
© Laila Pansera - 87
Tappe della contrazione muscolare
Il primo fenomeno è rappresentato dalla fase nervosa: l’impulso arriva al muscolo perché ci sia una
contrazione. L’effetto immediato è una generazione a livello della membrana della fibra muscolare di
una variazione di potenziale attraverso l’impulso elettrico. Questo impulso elettrico comporta una
depolarizzazione lungo i tubuli trasversi, che comporta che il calcio che si trova all’interno dei tubuli
e del reticolo sarcoplasmatico viene rilasciato. Il salto di concentrazione è significativo. Il calcio si lega
alla troponina, quindi si modifica la struttura della troponina, e i siti di legame della miosina sull’actina
diventano accessibili. A questo punto la testa della miosina si associa con l’actina, e questo legame
rappresenta lo scorrimento del filamento sottile sul filamento pesante, ovvero la contrazione.
Se il muscolo è in fase rigida, il sale penetra molto meno. Per rilasciare il muscolo devo ritornare alle
condizioni di partenza. Il motore del rilasciamento è che il calcio venga riassorbito. La contrazione
muscolare è finita, arriva l’impulso che cambia la polarizzazione della membrana, quindi il reticolo e i
tubuli non sono più permeabili al calcio, ma non basta questo. Occorre il trasporto del calcio contro
gradiente all’interno dei reticoli, quindi mi serve ATP per trasportare il calcio al suo posto. Non
essendoci più il calcio anche la troponina cambia la sua struttura e inibisce il contatto tra actina e
miosina, quindi il filamento sottile torna al suo posto.
Modificazioni post-mortem
Si ferma la circolazione sanguigna, quindi passo da un metabolismo aerobico a un metabolismo
anaerobico. In termini energetici esso è un metabolismo meno vantaggioso. Per superare lo stato di
contrazione devo diminuire la quantità di calcio presente, e lo faccio usando dell’energia, quindi l’ATP
che produco col metabolismo anaerobio. Partendo da presupposto che i mitocondri sono morti, e
quindi non posso produrre ATP da loro, devo cercare di produrlo altrove. Può utilizzare la
fosfocreatina, ma la cosa non aiuta molto più indicata è procedere con la glicolisi. Il substrato di
partenza della glicolisi. Parto dal glicogeno, che è fondamentale che ce ne sia. Qui teniamo presente
un fatto importante: l’animale non deve arrivare affamato o assetato alla macellazione, perché
altrimenti non ha glicogeno depositato. Un passaggio essenziale nella glicolisi è legato alla
disponibilità di NAD, che deve essere rigenerato. Per rigenerare il NAD si produce però l’acido lattico,
che in condizioni di metabolismo aerobico va al fegato e viene rigenerato. In condizioni di morte
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l’acido lattico di accumula, e acidifica l’ambiente, quindi ho un decremento di pH, che ha 2 effetti
importanti: rallenta la glicolisi (perché riduce l’attività degli enzimi glicolitici), denatura in maniera
parziale le proteine presenti e quindi ne comporta delle modificazioni strutturali, che interagiscono
diversamente con le altre proteine e con l’acqua, quindi perdono la capacità di interazione con gli
eventi che arrivano dall’esterno. Ovviamente l’abbassamento del pH ha anche esiti postivi, ovvero
stabilizzo il prodotto dal punto di vista biotecnologico. Tuttavia l’acidificazione non deve essere
immediata, tant’è vero che l’animale appena ucciso viene messo a 4°C, perché abbassando la
temperatura rendo graduale nel tempo l’abbassamento del pH.
Se si abbassa il pH vuol dire che la glicolisi è compiuta, quindi ho prodotto ATP che ha riassorbito il
calcio e è avvenuto il rilasciamento. Può avvenire la frollatura.
Il decremento del pH è molto importante, perché influenza la texture del prodotto, e soprattutto è
specie specifico, interessa soprattutto i suini. Infatti l’abbassamento di pH in alcune specie suine è
tale da far perdere alla carne la capacità di trattenere acqua e rende impossibile per esempio il
trattamento per ottenere il prosciutto.
Accanto a tutti questi eventi glicolitici, abbiamo anche eventi proteolitici, che interessano un’idrolisi
a livello della linea Z e della linea M. i responsabili sono degli enzimi citosolici, le calpaine, che sono
delle proteasi, che hanno bisogno di calcio per attivarsi, e hanno bisogno di pH più acidi rispetto a
quello fisiologico. Questi 2 fattori fanno sì che queste proteasi si attivino dopo la morte. Quindi in un
muscolo a frollatura, se lo si analizza al microscopio, rimane il sarcomero, ma senza le linee nette Z e
M.
Dopo queste modificazioni sia metaboliche che proteolitiche ottengo la carne.
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Un sistema che viene normalmente impiegato per accelerare queste modificazioni, è quello di
aggiungere degli enzimi proteolitici, e il più impiegato è la papaina. Un sistema è quello di spruzzare
in maniera uniforme la papaina sulla carcassa, non in grandi quantità. Oppure vengono vendute delle
miscele per marinare la carne, con la funzione di rendere più tenera la carne.
Un altro caso importante di utilizzo degli enzimi è la transglutaminasi (TG). Esso è un enzima che si
trova normalmente nella cellula e fa un legame isopeptidico (uguale a quello peptidico) che coinvolge
dei gruppi R. Un legame peptidico standard avviene tra il gruppo amminico e il gruppo carbossilico
di due amminoacidi, invece la transglutaminasi utilizza come gruppo carbossilico il residuo R di una
glutammina dopo che ha tolto il gruppo amminico. Il gruppo R della glutammina è CONH2, se tolgo
il gruppo amminico ottengo l’acido glutammico. Il TG lega un residuo di glutammina con un residuo
di lisina, dividendo la reazione in 2 tappe: elimina il gruppo amminico dalla glutammina, che diventa
un acido glutammico, e COH si lega all’NH2 della lisina, formando un legame dal punto di vista chimico
uguale al peptidico, ma isopeptidico, perché i protagonisti sono diversi. Con questo sistema posso
legare trasversalmente le proteine, ma occorrono proteine ricche in glutammina e lisina, come lo sono
le carni.
Il vantaggio è che posso trasformare delle proteine animali legandole fra di loro, in un prodotto che
ha una texture, e questo viene fatto con i surimi, fatti da pezzi piccolissimi, di pesce di diversa origine,
metto la TG, conferisco una texture e ottengo i surimi. Oppure ho dei pezzi di carne, uso la TG e formo
un reticolo e ottengo un prodotto compatto.
Se ho delle proteine con dei legami non naturali, quando degrado quella proteina la proteasi non
riuscirà a degradare il tutto, quindi si fermerà all’ottenimento di un peptide con il legame isopeptidico.
In più questi peptidi non sono naturali, quindi scatenano un metabolismo alternativo.
Modificazioni degli alimenti per fasce di consumatori sensibili
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Parlando di sensibilità agli alimenti o reazioni avverse a un alimento, non si intendono le reazioni
che avvengono nel caso ci sia nell’alimento un componente o un’interazione microbica, ma si intende
una reazione in cui l’ingestione di un determinato alimento comporta solo in fasce di individui
cosiddetti sensibili, delle manifestazioni con conseguenze di diversa entità.
Si parla di allergie a un alimento quando c’è una risposta del sistema immunitario che vede la
produzione di uno specifico gruppo di anticorpi, le IgE, che sono degli anticorpi prodotti solo in
persone sensibili in risposta a alcuni alimenti.
Un’altra manifestazione è rappresentata dall’intolleranza all’alimento, che è diversa dal punto di vista
dei meccanismi molecolari rispetto all’allergia. Un primo aspetto è che non abbiamo una
partecipazione diretta del sistema immunitario e quindi non produciamo IgE; un altro aspetto è che
un ruolo molto importante per determinare la risposta all’intolleranza è svolto dal tipo di microbioma
che ognuno di noi ha, accanto ad alcuni difetti nel funzionamento di enzimi coinvolti nel metabolismo
di alcuni composti. Un altro aspetto è che un allergene alimentare è sempre e solo una proteina (o un
frammento di proteina), mentre nel caso delle intolleranze i composti coinvolti possono essere delle
proteine, ma in molti casi non lo sono, per esempio nelle intolleranze al lattosio.
Profondamente diversa è anche la gestione delle 2 problematiche. Nel caso delle intolleranze esiste
una soglia minima al di sotto della quale non abbiamo manifestazioni, ed è abbastanza uniforme,
quindi è molto più facile stabilire un limite che vada bene a tutti. Nel caso delle allergie abbiamo
invece una grossa variabilità della quantità massima legata alla sensibilità individuale.
La celiachia non è un’allergia perché non presenta i sintomi tipici di una manifestazione allergica, per
cui viene spesso considerata come un’intolleranza delle sequenze presenti delle proteine di alcuni
cereali. Tuttavia rispetto all’intolleranza ha una grossa partecipazione anche del sistema immunitario
di individui predisposti. In questo caso il sistema immunitario reagisce con delle risposte molto diverse
da quelle di un’allergia, e che quindi somigliano molto alle risposte a delle malattie autoimmuni. In
realtà una corretta definizione della celiachia è un’intolleranza autoimmune.
Allergie
Una reazione allergica si manifesta in 2 step. Il primo è l’instaurarsi della risposta allergica: nel
momento in cui ingerisco l’alimento in cui è presente il composto che ne determina l’allergia, le cellule
B dell’individuo, cioè quelle che nel sistema immunitario sono deputate alla risposta esterna positiva
a qualsiasi invasione, in questo caso all’allergia, conoscono la proteina e producono gli anticorpi
contro l’allergene. Di questi anticorpi una parte rimangono attaccati alla cellula e costituiscono la
cellula memoria (per la prossima voltauna seconda manifestazione allergica è sempre più violenta
della prima), altri vengono rilasciati nel circolo sanguigno, vanno ad attaccarsi ai recettori presenti in
altre cellule del nostro sistema immunitario, che sono i mastociti, presenti in tutte le zone di contatto
con l’esterno (bocca, intestino). Questi mastociti sono considerati cellule spazzino, nel caso
dell’allergia il legame tra mastociti e anticorpi, potenziato dalla presenza dell’allergene, comporta una
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modificazione morfologica nel mastocita, definita degranulazione. In pratica all’interno del mastocita
avvengono risposte che si traducono nella produzione di una serie di mediatori: il più comune è
l’istamina, che è un vaso-dilatatore, aumenta la permeabilità capillare, favorisce la contrazione dei
bronchi, infatti uno dei problemi dell’allergia è l’asma, altri mediatori sono le prostaglandine e i
leucotrieni, che producono lacrimazione degli occhi o del naso. Tuti questi mediatori sono dei
vasodilatatori, ovvero se a livello periferico il vaso si dilata, faccio fatica a mandare il sangue. Infatti se
si muore per shock anafilattico è perché scoppia il cuore, perché fa una fatica tremenda a mandare il
sangue.
Teniamo presente che non è l’alimento a generare la reazione, ma la proteina all’interno dell’alimento
che scatena il tutto.
Nella manifestazione iniziale a livello della cellula B si
produce un anticorpo IgE che ha una struttura simile alle
altre classi di anticorpi prodotti dal corpo. Un anticorpo
ha una struttura a Y, è una proteina multimerica, formata
da 4 subunità uguali a 2 a 2, 2 pesanti e 2 leggere. Le
catene pesante costituisce la base e i 2 bracci della Y, e sui
2 bracci, legati mediante legame disolfuro, abbiamo le
catene leggere. Un altro aspetto comune a tutti gli
anticorpi, è il fatto di avere una zona uguale per categoria
di anticorpi, nel caso delle IgE è quella blu. Quindi le varie
IgE si differenziano per la parte rossa.
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Il sistema immunitario di un antigene non riconosce in toto l’allergene, ma riconosce solo delle zone,
e verso quelle zone sono prodotti gli anticorpi. Queste zone sono dette epitopi. All’interno dello
stesso allergene (antigene) esistono diversi epitopi. Essi possono essere:
-
Conformazionali: sono regioni riconoscibili dagli anticorpi legate alla struttura tridimensionale. Il
sistema immunitario fa un anticorpo contro delle strutture, per esempio contro un’α-elica, o un
foglietto. Se quel foglietto per esempio non c’è più, non vengono prodotti anticorpi. Questo ha
un aspetto applicativo molto importante, perché se applico un trattamento fisico a una proteina,
il sistema immunitario reagisce meno: ecco perché certa gente è meno allergica a un cibo cotto.
-
Sequenziali: essi sono delle specifiche sequenze di amminoacidi. Se io voglio eliminare un epitopo
sequenziale devo rompere la sequenza, quindi idrolizzare il legame peptidico.
Nel sistema sanguigno che va a colpire il mastocita ho una famiglia di anticorpi, per cui si parla spesso
di anticorpi policlonati, ovvero che riconoscono tutti lo stesso allergene, ma i diversi epitopi di un
allergene.
Quando devo eliminare l’allergene mi basta modificare gli epitopi. Nei processi che eliminano gli
allergeni ho un’azione combinata di agenti fisici e agenti enzimatici, ma non uso enzimi casuali, ma
enzimi che idrolizzano prevalentemente le sequenze epitopiche.
Ogni individuo risponde in maniera diversa ai vari epitopi, chi è molto sensibile risponde a tutti gli
epitopi, chi lo è meno risponde solo a pochi epitopi, quindi da qui dipendono le quantità necessarie
perché avvenga una manifestazione.
Quindi un allergene:
✓ È una proteina o un peptide
✓ Può essere un componente dell’alimento
✓ Può essere un composto aggiunto come ingrediente
✓ Può essere un contaminante, derivante per esempio da lavorazioni miste (presente in tracce)
In un alimento non tutte le proteine presenti sono degli allergeni, ma solo dei gruppi.
È stata fatta una direttiva CE nel 2000 per vedere quali alimenti sono responsabili dei principali
allergeni presenti nella popolazione europea. Essi sono il frumento, i crostacei, le uova, il pesce, le
arachidi, la soia, il latte, la nocciola, il sedano, la senape e il sesamo. Questa mappa ha definito tutta
la legislazione che ne è derivata, per cui in etichetta bisogna segnare la presenza di questi allergeni.
Gli allergeni, essendo proteine, non sfuggono alle modificazioni strutturali che abbiamo già visto, e
queste modificazioni possono comportare una diversa risposta all’allergene da parte del sistema
immunitario.
Come i diversi processi possono variare la risposata all’allergene da parte del sistema
immunitario
Un processo termico, come la cottura, l’UHT o la pastorizzazione, può diminuire o aumentare
l’allergenicità, oppure lasciarla del tutto indifferente: questo dipende dalle modificazioni che il
trattamento comporta in funzione degli epitopi conformazionali. Un altro aspetto è che il trattamento
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termico porta alla formazione di polimeri: in generale un allergene in forma polimerica è molto più
reattivo nei confronti del sistema immunitario. Se un epitopo sequenziale ha al suo interno un
amminoacido glicosilato, esso è molto più immunoreattivo (viene riconosciuto in maniera molto più
forte da sistema immunitario). Un esempio sono le arachidi: normalmente le arachidi vengono
consumate tostate, e la tostatura è un processo termico, che comporta tra le tante cose la
glicosilazione in alcuni epitopi sequenziali. L’affinità aumenta di 100 volte.
Il nostro sistema immunitario non risponde in maniera quantitativa, perché produce anticorpi anche
per allergeni che non sono presenti in quantità elevate.
Nella risposta da parte del sistema immunitario è importante lo stato fisico in cui si presenta
nell’alimento un allergene. Ad esempio un allergene in emulsione genera una risposta completamente
diversa rispetto allo stesso allergene non in emulsione. Questo perché variano 2 parametri importanti:
nell’emulsione la proteina cambia la sua struttura, quindi cambiano la digeribilità e l’aggredibilità da
parte delle proteasi, e la capacità di valicare le barriere fisiologiche. Vale anche per quanto l’alimento
è stato frammentato, per esempio se applico un trattamento di omogeneizzazione, essa comporta
una variazione dell’organizzazione strutturale, e quindi una diversa risposa del sistema immunitario.
Per complicare le cose occorre tenere a mente che c’è un effetto sinergico: ogni alimento non ha un
solo allergene, in più se ho una contemporanea presenza di una proteina che è un immunostimolatore
del sistema immunitario (qualcosa che determina la risposta del sistema immunitario) come una
proteina batterica, insieme a un allergene, la risposta all’allergene si manifesta in maniera molto più
violenta. Questo regola la produzione di alimenti per la prima infanzia o gli alimenti per
immunodepressi: essi non devono contenere tracce di proteine batteriche.
Strategie per produrre alimenti anallergici
Sono 3:
•
Alterazione biotecnologica
Non piace al consumatore. Intervengo direttamente e faccio in modo che l’alimento (vegetale) non
abbia più le proteine allergeniche. Il problema è che le proteine allergeniche hanno un ruolo
nell’alimento, di solito sono di deposito o di difesa dall’attacco di muffe e parassiti. Ovviamente
togliendo queste proteine la pianta cresce male, ed è più facile preda di muffe etc, oppure ricrea delle
proteine che hanno le stesse funzioni e che sono allergeni più o meno come gli altri.
•
Rimozione fisica
Faccio un trattamento in cui elimino le proteine allergeniche. Viene fatta principalmente in 2 casi, in
cui faccio dei derivati. Voglio uno sciroppo di glucosio anallergico o un olio di soia anallergico. Questi
sono 2 alimenti pericolosi se non sono anallergici. Devo fare dei processi fisici di separazione e di
precipitazione in cui vengono allontanante tutte le proteine, in particolare quelle allergeniche. Oppure
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posso fare dei trattamenti sui frutti ne quali gli allergeni si trovano soltanto sulla buccia. Un esempio
può essere la mela, o la pesca. In questi 2 frutti c’è un allergene nella buccia che è una lipid transfer
protein (LTP), piccola e compatta (pesa 10000 e ha più di 8 ponti disolfuro). Viene fatto un trattamento
in particolari condizioni che mi fanno ottenere un prodotto completamente anallergico.
•
Modificazione enzimatica
Trattamento che comporta la rimozione degli epitopi conformazionali e sequenziali presenti negli
allergeni. La vera fascia di produzione di alimenti anallergici è quella dei prodotti della prima infanzia.
Ho una prima fase in cui avviene l’idrolisi degli epitopi coinvolti, seguita da un trattamento termico,
che viene fatto in 2 fasi, perché le proteine in cui sono presenti gli allergeni sono molto compatte e
quindi difficilmente penetrabili. Per cui di solito si fa un pre-trattamento termico con lo scopo di
denaturare la proteina (modificarne la struttura), in modo da renderla più facilmente aggredibile da
parte della proteasi. Dopo l’idrolisi si fa un altro trattamento termico a temperatura elevata, in modo
da inattivare la proteasi, e in modo da polimerizzare le proteine. Nella fase successiva devo vedere
quali dei peptidi che si sono generati sono immunoreattivi, quindi devo fare una selezione. È stato
visto che i peptidi dotto i 4000/5000 Da sono poco o per niente immunoreattivi. Quindi la miscela
viene filtrata con una membrana che ha un cut-off di 3000/4000 Da: in questo modo tutti i peptidi
che pesano più di 3000 vengono trattenuti, e ottengo una miscela a basso PM, in cui ho solo peptidi,
ed essi sono gli ingredienti base per produrre l’alimento anallergico. Chiaramente essi devono essere
controllati.
Gli aspetti negativi del processo sono legati al primo trattamento termico che devo fare per facilitare
l’idrolisi. Sono la formazione di polimeri solubili o insolubili, che sono più immunoreattivi delle singole
proteine e più resistenti all’azione delle proteasi, quindi devo scegliere un buon compromesso tempotemperatura. Un altro aspetto negativo è che tra gli effetti del trattamento termico abbiamo le reazioni
di glicosilazione (formazione di zuccheri legati a dei residui particolari di amminoacidi), che non sono
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composti naturali e possono essere più o meno dannosi. Un ultimo aspetto negativo è quello che si
potrebbero creare troppi peptidi corti e con residui idrofobici nella parte n-terminale, che
conferiscono il sapore amaro. Ecco perché i prodotti anallergici non sono fatti con le caseine ma con
le sieroproteine.
Metodi per verificare che ho ottenuto prodotti anallergici
Sono 2:
•
metodo analitico in cui verifico se il mio enzima ha agito e ha comportato la produzione di peptidi
•
metodo che descrive le proprietà immunochimiche dei peptidi presenti, ovvero valutano se le
proteine presenti sono ancora in grado di generare una risposta del sistema immunitario.
sono 3 le categorie di metodi impiegati per valutare la presenza di peptidi in una matrice, e sfruttano
le proprietà dei peptidi presenti.
1. Metodo cromatografico
È basato sulla diversa idrofobicità delle proteine e dei peptidi derivanti dalla stessa proteina. Parto dal
presupposto che alla diversa idrofobicità della proteina viene vista esponendo le zone idrofobiche
della proteina, quindi denaturando la proteina cambiando solvente, per esempio metto la miscela in
condizioni acide. Quindi denaturo la proteina e poi espongo questa miscela denaturata a una matrice,
di solito silice, in cui sono attaccate delle catene alifatiche di diversa lunghezza. A questa catena si
attaccano le diverse proteine idrofobicamente, e più la proteina è idrofobica, più fortemente sarà
attaccata. Dopo cambio la polarità del solvente, quindi cambio anche l’idrofobicità, e la proteina si
stacca, secondo il principio che le interazioni idrofobiche meno forti si staccano per prime. I peptidi
derivanti da una proteina sono meno idrofobici rispetto alla proteina che li ha generati, quindi si
slegano prima. Quindi metto l’intera miscela e poi vario al polarità in maniera lineare.
Questo è un tracciato, relativo a un idrolisi fatta con
delle sieroproteine con 4 diverse proteasi. Nel box
rosso dovrebbero venire eluite le proteine se fossero
presenti libere. Tutto quello che viene eluito prima
sono i diversi peptidi generati dall’azione delle
proteasi. Ogni profilo è diverso, ciò significa che le 4
proteasi utilizzate hanno una generazione di peptidi
diversi, in particolare quelli eluiti a 10 minuti sono
meno idrofobici rispetto a quelli eluiti a 30 minuti,
quindi saranno quelli con residui amminoacidici più
polari e quindi carichi.
Una cromatografia di questo tipo mi dice che il mio enzima ha prodotto dei peptidi, e che in queste
condizioni spinte non ci sono più proteine integre. Questo metodo non separa in base alle dimensioni
dei peptidi, ma in base alla loro idrofobicità. Questa è una tecnica puramente analitica, perché i peptidi
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sono denaturati e non posso recuperarli con la loro struttura nativa, in altre parole non userò mai
questa tecnica per separare un enzima, se mi interessa che l’enzima sia funzionale.
2. Elettroforesi o SDS-PAGE
Viene utilizzata in accoppiamento alla prima tecnica. La SDS mi permette di separare proteine e peptidi
in base al loro PM, quindi in base alle dimensioni.
In questa tecnica le proteine vengono separate sfruttando la loro mobilità in un campo elettrico. In
altre parole viene applicato un campo elettrico, le proteine vengono messe su un supporto e separate.
•
Il supporto è costituito da un gel di acrilammide, un polimero solubile che in determinate
condizioni polimerizza formando tante maglie perfettamente regolari, e funge da maglia di
separazione.
•
Nella fase successiva applico sul supporto le proteine, che sono state denaturate in modo da
formare una catena perfettamente lineare. Questo lo ottengo trattando le proteine a caldo in
presenza di un sapone, che è l’SDS (sodio dodecil fosfato), una lunga catena alifatica con una testa
polare (SO3-), ed è la stessa molecola che trovo in qualsiasi detergente. Mettere l’SDS nella miscela
a caldo significa denaturare la proteina per il caldo, e nel frattempo l’SDS si attacca alla proteina,
con la lunga catena alifatica con le zone idrofobiche e la testa polare verso l’ambiente: la mia
proteina diventa una stringa circondata dal detergente, e ogni proteina è con un rapporto
dimensione-SDS costante, quindi cariche negativamente.
•
Carico le mie proteine cariche negativamente al polo negativo, applico il campo elettrico per un
tempo fisso, ed esse migreranno verso il polo positivo. Siccome il rapporto quantità di SDS/
dimensione dei peptidi è costante, migreranno più velocemente i peptidi di minori dimensioni,
quindi ho una separazione in base alle dimensioni. Chiaramente devo trovarmi in condizioni che
la separazione non deve essere influenzata dall’ingombro sterico, ecco perché aggiungo l’SDS in
modo che l’unica discriminante sia la dimensione delle proteine.
•
Se per esempio ho una proteina composta da 2 subunità e voglio vedere se è proprio così, non
basta l’SDS, devo trattarla anche con un riducente; farò 2 corse, una con l’SDS e una con
riducente+SDS e se noto una differenza fra le 2 corse ho 2 subunità. SDS- è in assenza di riducente,
mentre SDS+ è in presenza di riducente.
C=frazione
caseinica
SP=sieropriteine
M=marker (5000
Da)
© Laila Pansera - 97
Qui sopra abbiamo l’SDS di latte che è stato proteolizzato da 2 enzimi.
Da questo tracciato ottengo diverse informazioni:
•
nel latte idrolizzato per molto tempo non c’è più la caseina, ma ci sono ancora le sieroproteine
(anche se la BLG è notevolmente ridotta); a 30 minuti ho già idrolizzato tutte le sieroproteine che
posso
•
si sono formati dei peptidi (macchione enorme)
•
nell’elettroforesi non si riescono a separare peptidi più piccoli di 3000
L’SDS è il sistema più semplice per avere un’idea globale delle proteine.
Questi primi 2 metodi sono fisici e mi danno indicazioni sulle proprietà chimico-fisiche delle proteine.
Valutazione dell’immunoreattività
Una volta controllate le proteine, occorre verificare gli effetti che producono nel sistema immunitario.
posso farlo con test in vitro e test in vivo. Ovviamente parto dai test in vitro.
Test in vitro
Essi fanno parte del gruppo dei test immunochimici, ovvero dei test in cui valuto la presenza di un
determinato composto sfruttando la capacità di un anticorpo di interagire con esso. Ci sono 2 tipi di
test:
•
ELISA
•
Dot Blotting
ELISA
Sono dei test che utilizzano dei supporti di polistirene. Essi sono delle piastre con all’interno dei
pozzetti, e in ogni pozzetto viene messa in soluzione la proteina allergenica (antigene), per esempio
la BLG. La proteina si attacca al polistirene mediante interazioni non covalenti. Prendo la piastra e la
rovescio, e ovviamente la proteina rimane legata al supporto. Dopodiché aggiungo una soluzione
contenente l’anticorpo, ed esso riconosce la proteina formando un complesso antigene-anticorpo.
Per vedere la formazione del complesso ho 2 possibilità:
o
posso avere coniugato all’anticorpo un enzima, che in presenza di un substrato, lo ossida e dà
origine a un composto colorato; se non ho l’antigene non si forma il complesso colorato, se
ne ho poco, si colora poco;
o
quello rosso è un anticorpo secondario specie specifico, a cui attacco un enzima, per cui
riconosce l’anticorpo legato all’antigene. Il vantaggio è che è standardizzato, quindi so che
funziona.
In pratica con il metodo ELISA riconosco la presenza dell’allergene mediante la colorazione.
© Laila Pansera - 98
Qui sopra è rappresentata una variazione di assorbanza in funzione della quantità di caseine e di BLG.
Se ottengo une linea lineare, vuol dire che ho tolto tutti gli epitopi, mentre i puntini neri rappresentano
una variazione in base alla quantità di anticorpo che aggiungo.
Dot Blotting
Funzione esattamente come ELISA, solo che invece del supporto, abbiamo una membrana di
microcellulosa, dove si fanno tante macchioline di proteina e si procede come in precedenza.
Il test viene completato inserendo sieri di persone allergiche.
Test in vivo
Ce ne sono di 2 tipi, e vengono fatti in condizione controllata:
•
test cutanei, in cui l’alimento viene messo sulla cute per vedere se ci sono manifestazioni
•
ingestione sottolinguale dell’alimento
sono l’ultimo aspetto, la valutazione finale.
Gestione del rischio
Come posso essere sicuro che questo alimento non contiene l’allergene o ne contiene in quantità non
in grado di scatenare una reazione allergica.
© Laila Pansera - 99
Per prima cosa secondo la direttiva 2000/13/EC, se l’alimento contiene un allergene di quelli citati a
pag 83, devo dichiararlo in etichetta. Per tutelarsi, i produttori sulle etichette mettevano la scritta può
contenere e aggiungevano tutti gli allergeni possibili. Da lì si è scatenato il dibattito.
Ora si è stabilito che si deve dire quale è la quantità massima di un allergene presente in un alimento,
che è nell’ordine dei microgrammi. In particolare essa è 1-10 ppm di allergene in un alimento, e
questo range copre il 90% degli individui. Chiaramente il limite normalmente dato è 10 volte inferiore,
quindi 0-1 ppm di allergene.
A questo punto devo avere un metodo che cerchi la presenza di proteine allergeniche in una matrice
complessa, nell’ordine di 0-1 ppm. I metodi per questi valori non sono molti. Tra quelli fisici abbiamo
solo la spettrometria di massa, mentre tra i metodi immunologici abbiamo l’ELISA. Tra i 2 sull’alimento
uso solo l’ELISA, perché la spettrometria di massa non riesce a fare queste quantità su una matrice
complessa. La PCR-DNA non viene mai usato perché mi quantifica il DNA, ma non la quantità di
allergene.
Occorre stabilire degli standard affidabili, infatti se un alimento ha più di un allergene, devo fare un
ELISA per ogni allergene oppure devo considerare una miscela rappresentativa? Oppure lavoro sul
prodotto cotto o sul prodotto crudo? Non è semplice gestire questi parametri, per cui ora troviamo
dei kit uguali in cui sono presenti tutte le proteine presenti nell’alimento, perché si ritiene che si abbia
una risposta più completa, ma siamo ancora in ricerca.
Intolleranze
Per intolleranza si intende una reazione avversa, che ha una
partecipazione del sistema immunitario differente rispetto a
quella che esso manifesta nei confronti di un’allergia. In
particolare per intolleranza si intende una reazione avversa in cui
non ho produzione di anticorpi IgE. A differenza delle allergie, nel
caso delle intolleranze possono essere coinvolti anche composti
di natura non proteica, come l’intolleranza al lattosio.
Qui sono rappresentate le principali intolleranze agli alimenti.
Quelle cerchiate sono quelle che creano più confusione. Il latte
per esempio può essere oggetto di allergia e di intolleranza, nel
caso dell’allergia gli allergeni sono le proteine, nel caso
dell’intolleranza il composto responsabile è il lattosio. Lo stesso
discorso vale per il frumento, solo che qui i responsabili di
entrambi i problemi sono le proteine, ma quelle responsabili
delle allergie non sono le stesse delle intolleranze.
© Laila Pansera - 100
Intolleranza al lattosio
È legata a un difetto metabolico, in particolare a un difetto di capacità catalitica dell’enzima (lattasi)
che idrolizza il lattosio in galattosio e glucosio. Questo enzima è inducibile, per cui la sua sintesi, se
uno non consuma lattosio, può essere bassa, e quindi nel momento in cui viene reintrodotto il lattosio
nell’alimentazione, non si è più in grado di produrre lattasi. In un altro caso invece della lattasi viene
prodotto un isoenzima, che non ha le stesse capacità della lattasi e che genera l’intolleranza.
Il lattosio che non viene idrolizzato arriva nel colon e lì alcuni microrganismi lo utilizzano e producono
dei metaboliti che danno manifestazioni negative per il funzionamento dell’organismo.
Esiste uno studio che dimostra come l’isoenzima sia legato all’appartenenza a un gruppo etnico, in
particolar modo popolazioni asiatiche e nere hanno una capacità di produrre la lattasi molto basso,
mentre invece gli europei hanno una maggiore efficienza della lattasi, ecco perché asiatici e neri hanno
un’intolleranza maggiore.
Celiachia
Questa intolleranza ha un’incidenza molto elevata. Si dice che 1:200 sia coinvolto in una
manifestazione di celiachia, in realtà le stime ottimali sono di 1:2000. Tuttavia si sta diffondendo la
convinzione che i cereali contenenti glutine abbiano effetti negativi, quindi ci sono delle persone
intolleranti al glutine. Sembra che esita un’intolleranza al glutine non associabile con la celiachia, ma
si deve ancora capire quanto sia un aspetto psicologico e quanto medico.
La celiachia viene anche definita una malattia autoimmune perché a c’è un intervento del sistema
immunitario, che produce una serie di anticorpi contro le sequenze che determinano l’infiammazione,
ma sono anticorpi diversi da quelli prodotto per le allergie, in particolare sono delle IgA, anticorpi
prodotti contro le cellule dell’intestino.
La celiachia porta alla morte delle cellule intestinali, quindi alla scomparsa dei villi intestinali e ad un
appiattimento della mucosa. Se un individuo non ha più villi, non assorbe più nessun alimento, quindi
la manifestazione ultima della malattia è la malnutrizione. Questo appiattimento dei villi avviene in un
certo periodo in cui assumo glutine, non è immediato, ed è reversibile, quindi se elimino il glutine
(agente che determina la morte delle cellule intestinali), ho un ritorno alla normalità.
Ho 2 aspetti importanti:
•
posso evitare il problema mantenendo una dieta priva di glutine; siccome l’assente non esiste,
devo assumere alimenti con un contenuto tale di glutine che non mi determina nessuna
manifestazione della malattia
•
per diagnosticare se un soggetto è celiaco l’unico test valido è la biopsia intestinale (prelevo un
pezzo del mio intestino tenue e vedo se i villi sono appiattiti).
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Sono stati fatti dei limiti per sapere le quantità massime di glutine che non producono effetti, grazie
a dei volontari che hanno assunto glutine in maniera controllata e sono stati sottoposti
periodicamente a biopsia, per cui su di loro sono state costruite delle curve che hanno permesso di
sapere quale è la quantità che distrugge i villi nel tempo.
2 sono i fattori responsabili della celiachia:
1. il fatto che consumo con la dieta dei cereali che contengono delle proteine tossiche
2. predisposizione genetica
le proteine tossiche sono delle proteine presenti nelle proteine del glutine (gliadine e glutenine), però
è stato osservato che il glutine di alcuni cereali è tossico, mentre quello di altri non lo è.
I cereali coinvolti nella celiachia sono frumento, segale, orzo, kamut, monococco e spelt, mentre
riso, sorgo, mais e tef non sono coinvolti, anche se hanno il glutine.
Ci si è resi conto che non è tanto il fatto che ci sia il glutine, ma all’interno del glutine la presenza di
sequenze
particolari,
come
prolina-glutammina-glutammina-prolina-aa
idrofobico-prolina-
glutammina. Sono sequenze molto ripetitive, presenti nelle gliadine e nelle glutenine dei cereali
coinvolti. Tra l’altro queste sono sequenze che rimangono dopo l’azione degli enzimi gastrointestinali,
perché la prolina impedisce l’azione delle proteolisi.
Queste sequenze sono presenti nel glutine dei cereali coinvolti, perché sono quelle responsabili di
una certa organizzazione strutturale che facilita la formazione del reticolo proteico dell’impasto. Infatti
con mais e riso per esempio non riesco fare un bell’impasto semplicemente aggiungendo acqua,
proprio perché non abbiamo queste sequenze. Questa scoperta è stata fatta nel 2000.
Ci sono poi degli pseudo cereali: amaranto, grano saraceno, quinoa, che non appartengono alla
classe dei cereali, ma non hanno queste sequenze e vengono impiegati per produrre alimenti gluten
free, perché non hanno il glutine.
Con la scoperta della sequenza è stato possibile risolvere un’altra questione scientifica, che riguarda
l’avena, consumata molto nel nord Europa. Non si capiva se fosse tossica, quindi dopo uno studio è
stato visto che contiene una bassissima congruenza di queste sequenze. Il problema dell’avena è
legato alla cross-contaminazione, cioè l’avena viene coltivata vicino al frumento e viene trattata in
mulini come il frumento, quindi viene contaminata. Se essa viene coltivata lontano da contaminazioni,
può essere considerato un alimento per celiaci, ma è molto difficile ottenerla non contaminata.
La predisposizione genetica è legata alla presenza di un tipo particolare di cellule, il complesso di
compatibilità, che nel caso del celiaco è DQ2 e DQ8.
Come determino la quantità di glutine
La determinazione del glutine è abbastanza semplice, però presenta delle problematiche analitiche
importanti legate all’estrazione del glutine, perché l’alimento è solido.
Definizione del limite:
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Quello che si misura quindi è la gliadina, mentre la quantità di glutine è la quantità di gliadina
moltiplicata per 2.
Metodi analitici
Utilizzati per trovare il glutine in una matrice complessa, che può essere un biscotto o una pasta.
Essi possono prevedere una separazione selettiva:
•
HPLC
•
Elettroforesi capillare
Essi non arrivano a quantificare 10 ppm di gliadine.
La spettrometria di massa ha lo stesso problema degli allergeni: determina la presenza delle proteine,
anche in quantità piccolissime, purché esse siano già separate o siano in matrici semplici.
L’unico metodo che rimane è un metodo immunochimico, di nuovo ELISA. Il metodo ELISA è
quantitativo, ma esiste un altro metodo semi-quantitativo, che è come una cartina tornasole, che serve
fondamentalmente a definire se sono sopra o no al limite. È uno stick in cui estraggo il composto
dove penso ci sia del glutine, e compare una colorazione diversa a seconda del fatto che sono sotto
o sopra il limite. Questo viene utilizzato per valutare che le superfici di manipolazione dei prodotti
gluten free siano adeguate.
ELISA è un metodo immunochimico, quindi devo usare un anticorpo. L’anticorpo usato è l’anticorpo
di Mendez, e riconosce la sequenza tossica fatta da 5 amminoacidi: QQPFP.
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Anche qui c’è un metodo alternativo, molto sensibile, la real-time PCR, però determina il DNA, non la
presenza di proteine tossiche, per questo motivo non viene utilizzato.
Posso utilizzare 2 diversi formati di ELISA, utilizzando sempre lo stesso anticorpo, in dipendenza dalla
storia tecnologica che ha avuto l’alimento. Uno costa 10 volte di più dell’altro.
1. Sandwich ELISA
Nel
pozzetto
ho
l’anticorpo
che
riconosce la sequenza, poi aggiungo il
campione
contenente
le
proteine
supposte tossiche. L’anticorpo sotto
riconosce la presenza della sequenza e si
associa, si forma un primo complesso
anticorpo-antigene.
Per
vedere
la
formazione del complesso aggiungo un
altro anticorpo, che è esattamente
uguale al primo, in più ha un enzima
legato covalentemente. Aggiungo un substrato che l’enzima trasforma di colore, quindi noto che ho
l’antigene. Più antigene c’è, più colorazione ho.
Questo metodo è valido perché è stato validato l’anticorpo, e perché ci sono degli standard di gliadina
per tutti. Esiste uno standard di gliadina venduto che è rappresentativo della miscela dei grani usati
all’interno della CEE.
Questo metodo serve per la determinazione del glutine in proteine integre, perché la proteina
sottoposta a questo metodo deve avere almeno 2 sequenze tossiche.
2. Competitive ELISA
Usati per prodotti come la birra,
oppure i lattiero-derivati.
Nel
pozzetto
l’antigene,
in
viene
legato
questo caso
il
peptide che contiene la sequenza
contro la quale è stato prodotto
l’anticorpo.
In
contemporanea
aggiungo nel pozzetto l’anticorpo
che riconosce la sequenza e una
quantità
nota
di
peptide
contenente la sequenza tossica.
Nel pozzetto l’anticorpo presente
si può legare o all’antigene libero
© Laila Pansera - 104
o a quello legato nel pozzetto. Se nel campione messo dopo non ho presenza di antigeni, l’anticorpo
si lega solo al peptide immobilizzato. Se nel campione ho peptidi tossici, l’anticorpo si lega un po’ al
campione libero e un po’ in quello legato. Poi la rilevazione è esattamente uguale a prima (secondo
anticorpo con l’enzima). La mia risposta è inversamente proporzionale alla quantità di antigene
presente nel pozzetto.
Qua non posso usare lo standard che usavo prima, userò uno standard di gliadina idrolizzata.
Perché devo avere 2 ELISA? Il problema è quello che sta a monte sulla natura del campione. Ovvero
devo avere delle condizioni di estrazione. Nel prodotto in cui ho un avuto un trattamento termico, il
glutine viene estratto con denaturante e poi con etanolo, poi questa soluzione viene utilizzata per
ELISA. Ci si è accorti che questo trattamento non è compatibile con un ELISA competitivo, perché
denatura l’anticorpo.
© Laila Pansera - 105
Sommario
Prof.ssa Stefania IamettiIntroduzione ............................................................................................................................. 1
L’acqua ........................................................................................................................................................................................ 3
Le proteine ................................................................................................................................................................................ 4
Interazione tra acqua e proteine ......................................................................................................................4
Classificazione delle proteine in base alla loro solubilità .............................................................................5
Variazione di solubilità: la forza ionica .........................................................................................................5
Variazione di solubilità: il pH ........................................................................................................................8
Applicazione di variazioni della solubilità negli alimenti ..................................................................................9
Interazioni con piccole molecole ................................................................................................................... 16
Utilizzo di enzimi per diagnostica alimentare............................................................................................................ 20
Utilizzo di un enzima per finalità analitiche .................................................................................................. 26
Denaturazione da processi di proteine alimentari ................................................................................................... 31
Denaturazioni dovute ad agenti fisici ............................................................................................................ 32
Denaturazione termica .............................................................................................................................. 32
Denaturazione legata ad alte pressioni ..................................................................................................... 42
Denaturazione all’interfaccia ........................................................................................................................ 48
Ruolo nelle proteine nella stabilizzazione di queste interfacce ................................................................ 49
Denaturazione meccanica ............................................................................................................................. 56
Modificazioni che si verificano ai principali componenti della matrice alimentare in cui abbiamo una
denaturazione meccanica.......................................................................................................................... 56
OMOGENEIZZAZIONE ................................................................................................................................ 63
Denaturazione enzimatica ............................................................................................................................. 66
Eventi determinati dalla presenza di alcuni enzimi nell’alimento................................................................. 72
Il muscolo ................................................................................................................................................................................ 84
Reticolo sarcoplasmatico ............................................................................................................................... 84
Miofibrille ...................................................................................................................................................... 85
Filamenti sottili .............................................................................................................................................. 85
Filamenti spessi ............................................................................................................................................. 87
Contrazione muscolare.................................................................................................................................. 87
Tappe della contrazione muscolare .......................................................................................................... 88
Modificazioni degli alimenti per fasce di consumatori sensibili ......................................................................... 90
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Allergie ........................................................................................................................................................... 91
Gestione del rischio ................................................................................................................................... 99
Intolleranze .................................................................................................................................................. 100
Intolleranza al lattosio ............................................................................................................................. 101
Celiachia....................................................................................................................................................... 101
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