ABBREVIAZIONI CEDU c.c. c.p. c.p.c. cod. ambiente cod. assic. cod. cons. cod. nav. cod. privacy cod. strada cod. tur. Cost. c.p.i. L. ass. L. aut. L. camb. L.F. T.U.B. T.U.F. TFUE TUE Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali codice civile (R.D. 16 marzo 1942, n. 262) codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) codice di procedura civile (R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443) codice dell’ambiente (D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152) codice delle assicurazioni private (D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209) codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) codice della navigazione (R.D. 30 marzo 1942, n. 327) codice della privacy (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196) codice della strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285) codice del turismo (D.Lgs. 23 maggio 2011, n. 79) Costituzione della Repubblica italiana 27 dicembre 1947 codice della proprietà industriale (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) legge sull’assegno bancario e sull’assegno circolare (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736) legge sul diritto d’autore (L. 22 aprile 1941, n. 633) legge sulla cambiale e sul vaglia cambiario (R.D. 14 dicembre 1933, n. 1669) legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267) testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea Trattato sull’Unione Europea PREFAZIONE ALLA VENTIQUATTRESIMA EDIZIONE Il Manuale si ripresenta ai lettori rispettando la cadenza di aggiornamento biennale inaugurata da qualche tempo. La impongono la continua evoluzione normativa e l’abbondanza della produzione giurisprudenziale. In particolare a quest’ultima si è scelto di dedicare crescente attenzione nell’intento, da un lato, di offrire agli studenti una rappresentazione vivente del diritto privato, consentendo loro di cogliere già nella fase dell’iniziazione allo studio del diritto la problematicità sottesa ai testi normativi con i quali spesso per la prima volta si confrontano e, da altro lato, di fornire ai lettori più esperti un materiale informativo utile per studi più avanzati e personali approfondimenti. Le novità normative hanno interessato, come sempre, tutti i settori dell’estesa materia privatistica; in particolare si segnala la nuova disciplina del “terzo settore”, la cui riforma si è dipanata nel tempo con l’emanazione del Codice del Terzo Settore (D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117) e con i successivi provvedimenti attuativi e correttivi (D.Lgs. 3 agosto 2018, n. 105) e che ancora richiederà attenzione in futuro. Le altre importanti riforme degli anni recenti — si pensi in particolare a quelle che hanno interessato il diritto familiare, con la riforma della filiazione e la disciplina delle unioni civili e delle convivenze, già illustrate nelle precedenti edizioni — sono ora alla prova dell’esperienza applicativa e dell’elaborazione giurisprudenziale. La presente edizione è segnata anche da una ponderata, seppur sofferta, rinuncia: quella alle indicazioni bibliografiche poste in chiusura dei singoli capitoli. L’espansione continua della produzione della letteratura giuridica ha reso difficilmente dominabile la ricchezza delle fonti, che avrebbe imposto — anche per evidenti esigenze di spazio — scelte selettive impossibili da operare con la necessaria accuratezza. Auspico che, comunque, il Manuale si confermi anche in questa edizione uno strumento utile per quanti — studenti e professionisti VI Manuale di diritto privato — vorranno avvalersene per la loro preparazione negli studi giuridici e come fonte di consultazione nella loro quotidiana attività. PIERO SCHLESINGER INDICE SOMMARIO (*) NOZIONI PRELIMINARI CAPITOLO I L’ORDINAMENTO GIURIDICO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. L’ordinamento giuridico........................................................................ L’ordinamento giuridico dello Stato e la pluralità degli ordinamenti giuridici. ................................................................................................ Gli ordinamenti sovranazionali. L’Unione Europea.............................. La norma giuridica................................................................................ Diritto positivo e diritto naturale. ........................................................ La struttura della norma. La fattispecie. ............................................. La sanzione. .......................................................................................... Caratteri della norma giuridica. Generalità e astrattezza. Il principio costituzionale di eguaglianza................................................................. L’equità................................................................................................. 3 4 6 9 11 12 14 16 18 CAPITOLO II IL DIRITTO PRIVATO E LE SUE FONTI 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. Diritto pubblico e diritto privato.......................................................... Distinzione tra norme cogenti e norme derogabili. ............................... Fonti delle norme giuridiche. ................................................................ a) La Costituzione e le leggi di rango costituzionale............................. b) Le leggi dello Stato e le leggi regionali. ............................................ c) I regolamenti..................................................................................... d) Le fonti comunitarie. ........................................................................ e) La consuetudine. ............................................................................... Il codice civile. ...................................................................................... 20 22 23 25 27 29 30 33 35 CAPITOLO III L’EFFICACIA TEMPORALE DELLE LEGGI 19. Entrata in vigore della legge................................................................. (*) I capitoli I-VI, IX, XXV-L, LXV-LXXXI sono curati da Franco Anelli. I capitoli VII-VIII, X-XXIV, LI-LXIV sono stati curati da Carlo Granelli. 40 VIII Manuale di diritto privato 20. 21. 22. Abrogazione della legge......................................................................... Irretroattività della legge...................................................................... Successione di leggi. .............................................................................. 40 42 43 CAPITOLO IV L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE 23. 24. 25. 26. L’applicazione della legge. .................................................................... L’interpretazione della legge. Il precedente giurisprudenziale.............. Le regole dell’interpretazione................................................................ L’analogia. ............................................................................................ 45 45 50 52 CAPITOLO V I CONFLITTI DI LEGGI NELLO SPAZIO 27. 28. 29. 30. 31. 32. Il diritto internazionale privato. ........................................................... Qualificazione del rapporto e momenti di collegamento. ...................... I vari momenti di collegamento............................................................ Il rinvio ad altra legge. Il limite dell’ordine pubblico. Le norme di applicazione necessaria.......................................................................... La conoscenza della legge straniera. ..................................................... La condizione dello straniero. ............................................................... 55 57 58 64 65 66 L’ATTIVITÀ GIURIDICA E LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI CAPITOLO VI LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. Il rapporto giuridico.............................................................................. Situazioni soggettive attive (diritto soggettivo, potestà, facoltà, aspettativa, status). ....................................................................................... L’esercizio del diritto soggettivo. .......................................................... Categorie di diritti soggettivi. ............................................................... Gli interessi legittimi............................................................................. Situazioni di fatto. ................................................................................ Situazioni soggettive passive (dovere, obbligo, soggezione, onere). ...... Vicende del rapporto giuridico.............................................................. 71 72 74 76 79 83 83 84 CAPITOLO VII IL SOGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO 41. Soggetto e persona. ............................................................................... 87 Indice sommario IX A) LA PERSONA FISICA 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. La capacità giuridica della persona fisica. ............................................ La nascita e la morte. ........................................................................... Le incapacità speciali............................................................................ Il concepito. .......................................................................................... La capacità di agire. ............................................................................. La minore età........................................................................................ L’interdizione giudiziale........................................................................ L’interdizione legale.............................................................................. L’inabilitazione. .................................................................................... L’emancipazione. .................................................................................. L’amministrazione di sostegno.............................................................. L’incapacità naturale. ........................................................................... Incapacità legale e incapacità naturale................................................. La legittimazione. ................................................................................. La sede della persona............................................................................ La cittadinanza. .................................................................................... La posizione della persona nella famiglia.............................................. Scomparsa, assenza e morte presunta................................................... Gli atti dello stato civile. ...................................................................... 88 90 92 93 95 97 100 103 104 106 106 110 112 113 114 116 118 119 121 B) I DIRITTI DELLA PERSONALITÀ 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. Nozione e caratteri................................................................................ Diritto alla vita..................................................................................... Diritto alla salute.................................................................................. Diritto al nome. .................................................................................... Diritto all’integrità morale.................................................................... Diritto all’immagine.............................................................................. Dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali. ............ Diritto all’identità personale................................................................. 122 125 130 136 139 141 143 148 C) GLI ENTI 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. Gli enti: soggettività giuridica e personalità giuridica. ......................... Classificazione degli enti........................................................................ Il fenomeno associativo......................................................................... Associazione e società. .......................................................................... L’associazione riconosciuta. .................................................................. L’associazione non riconosciuta. ........................................................... La fondazione........................................................................................ Il comitato. ........................................................................................... Le altre istituzioni di carattere privato. ............................................... Il terzo settore. ..................................................................................... I diritti della personalità degli enti....................................................... 149 151 154 157 159 163 167 171 173 175 179 X Manuale di diritto privato CAPITOLO VIII L’OGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. Il bene. .................................................................................................. Categorie di beni: materiali e immateriali............................................. Beni mobili e immobili.......................................................................... I beni registrati. .................................................................................... I prodotti finanziari. ............................................................................. Beni fungibili e infungibili. ................................................................... Beni consumabili e inconsumabili......................................................... Beni divisibili e indivisibili. .................................................................. Beni presenti e futuri............................................................................ I frutti................................................................................................... Combinazione di beni............................................................................ Le pertinenze. ....................................................................................... Le universalità patrimoniali.................................................................. L’azienda............................................................................................... Il patrimonio......................................................................................... Beni pubblici, beni comuni, beni collettivi. Beni degli enti ecclesiastici.. 180 181 183 184 184 185 187 188 189 189 190 191 194 195 197 199 CAPITOLO IX IL FATTO, L’ATTO ED IL NEGOZIO GIURIDICO 96. 97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. I fatti giuridici. ..................................................................................... Classificazione degli atti giuridici. ......................................................... Il negozio giuridico................................................................................ Classificazioni dei negozi giuridici: a) in relazione alla struttura soggettiva.............................................................................................. Classificazioni dei negozi giuridici: b) in relazione alla funzione. .......... Negozi a titolo gratuito e negozi a titolo oneroso. ................................ La rinunzia............................................................................................ Elementi del negozio giuridico. ............................................................. La dichiarazione.................................................................................... La forma. .............................................................................................. Il bollo e la registrazione....................................................................... La pubblicità: fini e natura................................................................... 205 206 207 209 210 211 212 213 214 216 217 218 CAPITOLO X L’INFLUENZA DEL TEMPO SULLE VICENDE GIURIDICHE A) NOZIONI GENERALI 108. Computo del tempo............................................................................... 109. Influenza del tempo sull’acquisto e sull’estinzione dei diritti soggettivi.. 220 221 B) LA PRESCRIZIONE ESTINTIVA 110. Nozione e fondamento. ......................................................................... 221 111. 112. 113. 114. 115. 116. Indice sommario XI Operatività della prescrizione. .............................................................. Oggetto della prescrizione. .................................................................... Inizio della prescrizione. ....................................................................... Sospensione ed interruzione della prescrizione...................................... Durata della prescrizione. ..................................................................... Le prescrizioni presuntive. .................................................................... 222 223 224 225 228 229 C) LA DECADENZA 117. Nozione e fondamento. ......................................................................... 231 CAPITOLO XI LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI 118. 119. 120. 121. Premessa. .............................................................................................. Cenni sui tipi di azione. ........................................................................ La cosa giudicata. ................................................................................. Il processo esecutivo. ............................................................................ 234 235 238 239 CAPITOLO XII LA PROVA DEI FATTI GIURIDICI 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130. Nozioni generali. ................................................................................... L’onere della prova. .............................................................................. I mezzi di prova.................................................................................... La prova documentale. ......................................................................... La prova testimoniale. .......................................................................... Forma ad substantiam e forma ad probationem. .................................... Le presunzioni....................................................................................... La confessione. ...................................................................................... Il giuramento. ....................................................................................... 242 243 246 247 253 255 257 259 260 I DIRITTI REALI CAPITOLO XIII I DIRITTI REALI IN GENERALE E LA PROPRIETÀ A) I DIRITTI REALI 131. Caratteri e categorie dei diritti reali. .................................................... 267 B) LA PROPRIETÀ 132. Il contenuto del diritto. ........................................................................ 133. Espropriazione e indennizzo. ................................................................ 269 274 XII Manuale di diritto privato 134. La proprietà dei beni culturali.............................................................. 135. La proprietà edilizia.............................................................................. 136. La proprietà fondiaria........................................................................... 137. I rapporti di vicinato. ........................................................................... 138. Gli atti emulativi. ................................................................................. 139. Le immissioni. ....................................................................................... 140. Le distanze legali. ................................................................................. 141. Le luci e le vedute. ............................................................................... 142. Modi di acquisto della proprietà. .......................................................... 142-bis. Perdita della proprietà. ..................................................................... 143. Azioni a difesa della proprietà. ............................................................. 278 279 281 282 283 284 287 290 291 295 295 CAPITOLO XIV I DIRITTI REALI DI GODIMENTO 144. Generalità.............................................................................................. 301 A) LA SUPERFICIE 145. Nozione e disciplina. ............................................................................. 302 B) L’ENFITEUSI 146. Nozione e disciplina. ............................................................................. 304 C) L’USUFRUTTO, L’USO E L’ABITAZIONE 147. 148. 149. 150. 151. 152. 153. L’usufrutto: nozione.............................................................................. L’oggetto dell’usufrutto. Il quasi usufrutto. ......................................... Modi di acquisto dell’usufrutto. ............................................................ Diritti dell’usufruttuario. ...................................................................... Obblighi dell’usufruttuario.................................................................... Estinzione dell’usufrutto....................................................................... Uso ed abitazione.................................................................................. 305 307 307 308 310 311 311 D) LE SERVITÙ 154. 155. 156. 157. 158. 159. 160. 161. Nozione. ................................................................................................ Principi generali. ................................................................................... Costituzione........................................................................................... Le servitù coattive o legali. .................................................................. Le servitù volontarie............................................................................. Esercizio della servitù. .......................................................................... Estinzione della servitù......................................................................... Tutela della servitù. .............................................................................. 312 314 316 316 319 321 322 324 Indice sommario XIII CAPITOLO XV LA COMUNIONE E IL CONDOMINIO A) LA COMUNIONE 162. 163. 164. 165. 166. 167. 168. Nozione. ................................................................................................ Comunione e società.............................................................................. Costituzione........................................................................................... Disciplina: profili generali. .................................................................... I poteri di godimento e di disposizione................................................. L’amministrazione della cosa comune................................................... Scioglimento della comunione. .............................................................. 325 326 327 327 328 329 331 B) IL CONDOMINIO 169. 170. 171. 172. Il condominio negli edifici..................................................................... L’assemblea e l’amministratore del condominio. .................................. Il regolamento condominiale................................................................. Il supercondominio. .............................................................................. 332 334 338 340 C) LA MULTIPROPRIETÀ 173. La multiproprietà.................................................................................. 341 CAPITOLO XVI IL POSSESSO 174. 175. 176. 177. 178. 179. 180. 181. 182. 183. 184. 185. 186. 187. 188. Le situazioni possessorie. ...................................................................... Le distinte situazioni possessorie. ......................................................... Possesso e detenzione............................................................................ Le qualificazioni del possesso e della detenzione. ................................. Il possesso di diritti reali minori. .......................................................... L’acquisto e la perdita del possesso. ..................................................... Successione nel possesso ed accessione del possesso.............................. Effetti del possesso. .............................................................................. L’acquisto dei frutti ed il rimborso delle spese. .................................... L’acquisto della proprietà in forza del possesso: a) la regola « possesso vale titolo »............................................................................................ L’acquisto della proprietà in forza del possesso: b) l’usucapione. ......... La tutela delle situazioni possessorie. ................................................... L’azione di reintegrazione (o spoglio). .................................................. L’azione di manutenzione. .................................................................... Le azioni di nuova opera e di danno temuto. ....................................... 344 345 347 349 351 352 354 355 355 356 360 364 366 368 370 I DIRITTI DI CREDITO CAPITOLO XVII IL RAPPORTO OBBLIGATORIO 189. Nozione. ................................................................................................ 375 XIV Manuale di diritto privato 190. Fonti delle obbligazioni......................................................................... 191. L’obbligazione naturale......................................................................... 377 379 CAPITOLO XVIII GLI ELEMENTI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO 192. 193. 194. 195. 196. 197. 198. 199. 200. I soggetti. .............................................................................................. Le obbligazioni plurisoggettive. ............................................................ Le obbligazioni solidali. ........................................................................ Divisibilità e indivisibilità dell’obbligazione. ........................................ La prestazione....................................................................................... L’oggetto............................................................................................... Obbligazioni semplici, alternative e facoltative. ................................... Le obbligazioni pecuniarie. ................................................................... Gli interessi. .......................................................................................... 381 381 383 385 386 389 390 391 395 CAPITOLO XIX MODIFICAZIONE DEI SOGGETTI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO 201. Successione nel debito e nel credito. ..................................................... 400 A) MODIFICAZIONI NEL LATO ATTIVO DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO 202. Le singole ipotesi di modificazione nel lato attivo del rapporto obbligatorio. .......................................................................................... 203. La cessione del credito. ......................................................................... 204. Effetti della cessione. ............................................................................ 205. Rapporti tra cedente e cessionario........................................................ 206. La cessione dei crediti di impresa ed il factoring ................................. 207. La cartolarizzazione dei crediti. ............................................................ 208. La delegazione attiva............................................................................ 400 401 402 404 405 407 408 B) MODIFICAZIONI NEL LATO PASSIVO DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO 209. Le singole ipotesi di modificazione nel lato passivo del rapporto obbligatorio. .......................................................................................... 210. La delegazione passiva.......................................................................... 211. L’espromissione. .................................................................................... 212. L’accollo. ............................................................................................... 409 410 412 413 CAPITOLO XX L’ESTINZIONE DELL’OBBLIGAZIONE 213. I modi di estinzione. ............................................................................. 416 I. L’ADEMPIMENTO 214. L’esatto adempimento. ......................................................................... 416 215. 216. 217. 218. 219. 220. 221. 222. 223. Indice sommario XV Il destinatario dell’adempimento. ......................................................... Il luogo dell’adempimento. ................................................................... Il tempo dell’adempimento. .................................................................. Limitazioni all’uso del contante............................................................ Adempimento del terzo......................................................................... Imputazione del pagamento. ................................................................ Il pagamento con surrogazione. ............................................................ La prestazione in luogo di adempimento (c.d. « datio in solutum »). ..... La cooperazione del creditore nell’adempimento e la mora credendi . 419 420 421 424 424 426 427 428 430 II. I MODI DI ESTINZIONE DIVERSI DALL’ADEMPIMENTO 224. 225. 226. 227. 228. La compensazione. ................................................................................ La confusione. ....................................................................................... La novazione......................................................................................... La remissione. ....................................................................................... L’impossibilità sopravvenuta. ............................................................... 433 435 435 437 438 CAPITOLO XXI L’INADEMPIMENTO E LA MORA 229. L’inadempimento. ................................................................................. 230. La responsabilità contrattuale. ............................................................. 231. Il danno risarcibile. ............................................................................... 231-bis. Inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di valuta e danno risarcibile............................................................................................... 232. La mora del debitore. ........................................................................... 233. Effetti del ritardo ed effetti della mora debendi ................................... 234. Differenza di effetti tra mora debendi e mora credendi ....................... 442 443 449 453 456 458 459 CAPITOLO XXII LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DEL DEBITORE 235. Nozione. ................................................................................................ 236. Concorso di creditori e cause legittime di prelazione. ........................... 236-bis. Procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. ......... 460 461 462 CAPITOLO XXIII LE CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE A) IL PRIVILEGIO 237. Il privilegio. .......................................................................................... 468 B) PEGNO ED IPOTECA: CARATTERI GENERALI E COMUNI 238. Nozione. ................................................................................................ 239. Pegno ed ipoteca: differenze. ................................................................ 470 471 XVI Manuale di diritto privato 240. Il patto commissorio. ............................................................................ 472 C) IL PEGNO 241. Nozione. ................................................................................................ 242. Costituzione........................................................................................... 243. Effetti. .................................................................................................. 244. Pegno mobiliare non possessorio. .......................................................... 244-bis. Pegno irregolare................................................................................. 475 476 478 479 481 D) L’IPOTECA 245. Nozione. ................................................................................................ 246. Oggetto dell’ipoteca. ............................................................................. 247. Ipoteca legale. ....................................................................................... 248. Ipoteca giudiziale. ................................................................................. 249. Ipoteca volontaria................................................................................. 250. La pubblicità ipotecaria........................................................................ 251. L’iscrizione. ........................................................................................... 252. L’annotazione........................................................................................ 253. La rinnovazione. ................................................................................... 254. La cancellazione. ................................................................................... 254-bis. Esecuzione sui beni ipotecati............................................................. 255. Il terzo acquirente del bene ipotecato. ................................................. 256. Il terzo datore d’ipoteca. ...................................................................... 257. Estinzione dell’ipoteca. ......................................................................... 482 484 485 486 487 488 490 491 491 492 493 494 495 495 CAPITOLO XXIV I MEZZI DI CONSERVAZIONE DELLA GARANZIA PATRIMONIALE 258. Premessa. .............................................................................................. 259. L’azione surrogatoria. ........................................................................... 260. L’azione revocatoria.............................................................................. 261. Effetti dell’azione revocatoria............................................................... 261-bis. La c.d. « azione revocatoria sommaria » di atti a titolo gratuito ..... 262. Il sequestro conservativo. ..................................................................... 263. Il diritto di ritenzione. .......................................................................... 497 497 500 503 504 505 506 I CONTRATTI IN GENERALE CAPITOLO XXV IL CONTRATTO 264. Nozioni introduttive. Il contratto come atto di autonomia dei privati.. 265. Centralità sistematica della disciplina legale del contratto................... 266. Elementi essenziali del contratto. ......................................................... 511 514 517 Indice sommario 267. Classificazione dei contratti................................................................... XVII 518 CAPITOLO XXVI LE TRATTATIVE E LA CONCLUSIONE DEL CONTRATTO 268. 269. 270. 271. 272. 273. 274. La formazione del contratto. La proposta e l’accettazione. ................. La revoca della proposta e dell’accettazione. ....................................... L’offerta al pubblico. ............................................................................ Il contratto aperto all’adesione............................................................. Le trattative. Il dovere di buona fede. ................................................. La responsabilità precontrattuale (culpa in contrahendo). .................... Le condizioni generali di contratto (contratti « standard » o per adesione). I contratti del consumatore: rinvio................................................ 521 525 528 529 529 532 534 CAPITOLO XXVII I VIZI DELLA VOLONTÀ A) IL PROBLEMA IN GENERALE 275. Problemi del consenso negoziale. Incapacità di agire e vizi della volontà. ................................................................................................. 276. Volontà e dichiarazione. La teoria dell’affidamento. ............................ 538 538 B) ERRORE 277. 278. 279. 280. Errore ostativo ed errore-vizio.............................................................. Condizioni di rilevanza dell’errore. ....................................................... Essenzialità dell’errore. ......................................................................... Riconoscibilità dell’errore. .................................................................... 541 542 542 545 C) DOLO 281. Dolo determinante ed incidente. Gli obblighi di informazione. ............ 282. Rapporti tra il dolo vizio della volontà e la nozione generale di dolo. . 546 550 D) VIOLENZA 283. Nozione. Violenza psichica e violenza fisica.......................................... 284. Violenza e stato di pericolo................................................................... 285. Requisiti della violenza......................................................................... 550 552 552 CAPITOLO XXVIII LA FORMA DEL CONTRATTO 286. La forma del contratto. ........................................................................ 287. Le forme convenzionali. ........................................................................ 554 559 XVIII Manuale di diritto privato CAPITOLO XXIX LA RAPPRESENTANZA 288. 289. 290. 291. 292. 293. 294. 295. 296. 297. Nozione. ................................................................................................ Rappresentanza diretta e indiretta....................................................... Negozi per i quali è esclusa la rappresentanza. .................................... Fonti della rappresentanza. .................................................................. La procura. ........................................................................................... Vizi della volontà e stati soggettivi nel negozio rappresentativo. ........ Il conflitto d’interessi tra rappresentante e rappresentato. .................. Rappresentanza senza potere................................................................ La gestione di affari altrui. ................................................................... Il contratto per persona da nominare................................................... 561 562 563 563 564 567 568 570 572 573 CAPITOLO XXX IL CONTRATTO PRELIMINARE ED I VINCOLI A CONTRARRE 298. 299. 300. 301. 302. Il contratto preliminare. ....................................................................... La trascrivibilità del contratto preliminare. Rinvio. ............................ La tutela degli acquirenti di immobili da costruire. ............................. L’opzione............................................................................................... La prelazione......................................................................................... 576 580 582 583 584 CAPITOLO XXXI L’OGGETTO DEL CONTRATTO 303. I requisiti dell’oggetto. Oggetto e contenuto. ....................................... 304. La determinazione dell’oggetto ad opera di un terzo. .......................... 587 589 CAPITOLO XXXII LA CAUSA DEL CONTRATTO 305. 306. 307. 308. 309. 310. Nozione. ................................................................................................ Negozi astratti. ..................................................................................... Mancanza della causa............................................................................ L’illiceità della causa............................................................................. I motivi. ................................................................................................ Il contratto in frode alla legge. ............................................................. 591 595 596 597 599 600 CAPITOLO XXXIII L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO 311. Le regole legislative di ermeneutica...................................................... 602 CAPITOLO XXXIV GLI EFFETTI DEL CONTRATTO 312. La forza vincolante del contratto. Lo scioglimento convenzionale e il recesso. .................................................................................................. 605 313. 314. 315. 316. 317. 318. 319. Indice sommario XIX Gli effetti tra le parti. L’integrazione. .................................................. I contratti ad effetti reali e ad effetti obbligatori................................. Conflitti tra acquirenti di diritti sullo stesso oggetto............................ La clausola penale e la caparra............................................................. Effetti del contratto rispetto ai terzi. ................................................... Il contratto a favore di terzi................................................................. La cessione del contratto. ..................................................................... 605 608 610 611 614 615 617 CAPITOLO XXXV GLI ELEMENTI ACCIDENTALI DEL CONTRATTO A) NOZIONI GENERALI 320. Gli elementi accidentali......................................................................... 620 B) LA CONDIZIONE 321. 322. 323. 324. Definizione. ........................................................................................... Illiceità e impossibilità della condizione. .............................................. Pendenza della condizione. ................................................................... Avveramento della condizione. ............................................................. 620 622 624 625 C) IL TERMINE 325. Natura................................................................................................... 326. Effetti del termine. ............................................................................... 627 628 D) IL MODO 327. Natura................................................................................................... 328. Modo impossibile o illecito. ................................................................... 329. Adempimento del modo. ....................................................................... 629 631 631 CAPITOLO XXXVI LA MANCANZA DI VOLONTÀ E LA SIMULAZIONE 330. Il problema in generale. Dichiarazioni a scopo rappresentativo o didattico; scherzo; riserva mentale; violenza fisica........................................ 331. La simulazione. Nozione. ...................................................................... 332. Simulazione assoluta e relativa. ............................................................ 333. Effetti della simulazione tra le parti..................................................... 334. Effetti della simulazione rispetto ai terzi.............................................. 335. Effetti della simulazione nei confronti dei creditori. ............................ 336. La prova della simulazione. .................................................................. 337. Negozio indiretto e negozio fiduciario. Il trust ..................................... 633 634 635 637 639 641 643 645 XX Manuale di diritto privato CAPITOLO XXXVII INVALIDITÀ ED INEFFICACIA DEL CONTRATTO A) IL PROBLEMA GENERALE 338. Invalidità ed inefficacia. ....................................................................... 650 B) LA NULLITÀ 339. 340. 341. 342. 343. 344. La categoria della nullità. ..................................................................... Le cause di nullità del contratto........................................................... Nullità parziale e sostituzione di clausole. ............................................ L’azione di nullità. ................................................................................ La conversione del contratto nullo. ...................................................... Conseguenze della nullità. ..................................................................... 652 653 655 656 659 661 C) L’ANNULLABILITÀ 345. Le cause e la disciplina dell’annullabilità. ............................................ 346. Effetti dell’annullamento. ..................................................................... 347. La convalida. ........................................................................................ 662 665 666 CAPITOLO XXXVIII LA RESCISSIONE E LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO 348. 349. 350. 351. 352. 353. 354. 355. 356. 357. Rescissione del contratto concluso in istato di pericolo........................ L’azione generale di rescissione per lesione........................................... L’azione di risoluzione per inadempimento. ......................................... La risoluzione di diritto. ....................................................................... Eccezione di inadempimento. ............................................................... Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti. ..................... La clausola solve et repete. ..................................................................... La risoluzione per impossibilità sopravvenuta...................................... La risoluzione per eccessiva onerosità................................................... La presupposizione................................................................................ 668 669 671 675 678 679 679 680 682 684 I SINGOLI CONTRATTI CAPITOLO XXXIX DAI CONTRATTI DEL CONSUMATORE AL DIRITTO DEL CONSUMATORE 358. Premessa. La genesi e le ragioni del diritto dei consumatori................ 359. I soggetti: il « consumatore » ed il « professionista ». La tutela del contraente debole nei rapporti fra imprenditori. .................................. 691 694 Indice sommario 360. L’« educazione del consumatore »; gli obblighi di informazione, la comunicazione pubblicitaria e la promozione commerciale...................... 361. I contratti del consumatore e le clausole vessatorie. ............................ 361-bis. L’informazione precontrattuale nella novella del 2014. .................... 362. I contratti negoziati fuori dai locali commerciali e i contratti a distanza. Il « commercio elettronico ». La commercializzazione a distanza di servizi finanziari. ................................................................................... 363. Singoli contratti del consumatore: multiproprietà e prestazione di servizi turistici. ..................................................................................... 363-bis. Il credito al consumo......................................................................... 364. Tutele speciali: azioni inibitorie e azione collettiva risarcitoria. ........... XXI 696 698 702 704 708 709 711 CAPITOLO XL CONTRATTI TIPICI E ATIPICI 365. I singoli contratti e la relativa disciplina.............................................. 366. Classificazioni dei singoli contratti. ....................................................... 715 716 CAPITOLO XLI LA COMPRAVENDITA 367. 368. 369. 370. 371. 372. 373. 374. 375. 376. 377. 378. Definizione. ........................................................................................... Vendita ad effetti reali e vendita obbligatoria...................................... Forma e pubblicità della vendita.......................................................... Obbligazioni del venditore. ................................................................... La garanzia per evizione. ...................................................................... La garanzia per i vizi. ........................................................................... Le obbligazioni del compratore............................................................. La vendita con patto di riscatto. .......................................................... Vendita di cose mobili. ......................................................................... La vendita di beni di consumo. ............................................................ La vendita con riserva di proprietà. ..................................................... Vendita immobiliare. ............................................................................ 717 718 719 720 721 723 726 727 728 730 734 735 CAPITOLO XLII GLI ALTRI CONTRATTI DI SCAMBIO CHE REALIZZANO UN DO UT DES 379. La permuta. .......................................................................................... 380. I contratti di borsa e l’intermediazione finanziaria. La vendita a termine di titoli di credito. ................................................................... 381. Il riporto. .............................................................................................. 382. Il contratto estimatorio......................................................................... 383. La somministrazione. ............................................................................ 738 738 744 744 746 CAPITOLO XLIII I CONTRATTI DI SCAMBIO CHE REALIZZANO UN DO UT FACIAS 384. La locazione e l’affitto. ......................................................................... 748 XXII Manuale di diritto privato 385. La locazione di immobili urbani. .......................................................... 386. Il leasing e i contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili (c.d. rent to buy) .............................................. 387. L’appalto............................................................................................... 387-bis. Il contratto d’opera. La prestazione d’opera intellettuale. I contratti di scambio che realizzano un do ut facias ............................................ 388. La subfornitura. .................................................................................... 389. Il contratto di trasporto. ...................................................................... 751 756 761 767 770 772 CAPITOLO XLIV I CONTRATTI DI COOPERAZIONE NELL’ALTRUI ATTIVITÀ GIURIDICA 390. 391. 392. 393. 394. 395. 396. Il mandato. ........................................................................................... La commissione..................................................................................... Il contratto di spedizione...................................................................... Il contratto di agenzia. ......................................................................... Il contratto di affiliazione commerciale (franchising). .......................... La mediazione. ...................................................................................... Le « vendite piramidali ». ...................................................................... 777 781 782 783 787 789 791 CAPITOLO XLV I PRINCIPALI CONTRATTI REALI 397. 398. 399. 400. 401. Il deposito regolare. .............................................................................. Il deposito irregolare. ............................................................................ Il deposito nei magazzini generali......................................................... Il comodato........................................................................................... Il mutuo................................................................................................ 793 795 795 796 798 CAPITOLO XLVI I CONTRATTI BANCARI 402. 403. 404. 405. 406. 407. Le operazioni di banca. Le regole generali sui contratti bancari.......... Il conto corrente e le operazioni bancarie in conto corrente. ............... Il deposito bancario. ............................................................................. I prestiti alla clientela........................................................................... Il contratto di sconto. ........................................................................... Cassette di sicurezza. ............................................................................ 803 805 807 808 809 810 CAPITOLO XLVII I CONTRATTI ALEATORI A) LA RENDITA 408. La nozione di rendita............................................................................ 409. La rendita perpetua. ............................................................................. 410. La rendita vitalizia. .............................................................................. 812 812 813 Indice sommario XXIII B) LE ASSICURAZIONI 411. 412. 413. 414. Il contratto e l’impresa di assicurazione. .............................................. La conclusione del contratto................................................................. L’assicurazione contro i danni. ............................................................. L’assicurazione della responsabilità civile. Le assicurazioni obbligatorie ......................................................................................................... 415. L’assicurazione sulla vita. ..................................................................... 416. La riassicurazione.................................................................................. 814 816 817 818 821 822 C) GIUOCO E SCOMMESSA 417. Natura................................................................................................... 822 CAPITOLO XLVIII I CONTRATTI DIRETTI A COSTITUIRE UNA GARANZIA 418. 419. 420. 421. La fideiussione. Il mandato di credito. Le « lettere di patronage ». ....... La fideiussione omnibus. La fideiussione per obbligazione futura......... La c.d. garanzia « a prima richiesta ». ................................................... L’anticresi. ............................................................................................ 824 827 828 830 CAPITOLO XLIX I CONTRATTI DIRETTI A DIRIMERE UNA CONTROVERSIA 422. La transazione....................................................................................... 423. La cessione dei beni ai creditori............................................................ 831 833 CAPITOLO L I CONTRATTI AGRARI 424. L’affitto di fondi rustici. ....................................................................... 425. I contratti soggetti a conversione in affitto: la mezzadria; la colonìa parziaria; la soccida............................................................................... 835 837 LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DA ATTI UNILATERALI CAPITOLO LI LE PROMESSE UNILATERALI A) TIPICITÀ DELLE PROMESSE UNILATERALI 426. Nozioni generali. ................................................................................... 841 XXIV Manuale di diritto privato B) PROMESSA DI PAGAMENTO E RICOGNIZIONE DI DEBITO 427. Nozione e disciplina. ............................................................................. 842 C) PROMESSA AL PUBBLICO 428. Nozione e disciplina. ............................................................................. 845 D) I TITOLI DI CREDITO 429. 430. 431. 432. 433. 434. 435. Nozione. ................................................................................................ Titoli al portatore, all’ordine e nominativi. .......................................... Gestione accentrata e dematerializzazione dei titoli di credito............. Titoli rappresentativi, titoli di partecipazione. ..................................... Caratteristiche del titolo di credito. ...................................................... Eccezioni opponibili dal debitore.......................................................... L’ammortamento dei titoli di credito all’ordine e nominativi. ............. 846 848 849 850 851 852 853 CAPITOLO LII LA CAMBIALE 436. 437. 438. 439. 440. 441. 442. 443. 444. 445. 446. Nozione. ................................................................................................ Caratteristiche del rapporto cambiario. ................................................ Requisiti del negozio cambiario. ........................................................... Capacità e rappresentanza nel negozio cambiario................................. La cambiale in bianco........................................................................... L’accettazione della tratta. ................................................................... La girata. .............................................................................................. L’avallo. ................................................................................................ Il pagamento......................................................................................... L’azione cambiaria. ............................................................................... Eccezioni cambiarie. ............................................................................. 855 856 858 859 860 861 862 864 865 866 869 CAPITOLO LIII GLI ASSEGNI 447. Caratteristiche generali. ........................................................................ 448. L’assegno bancario. ............................................................................... 449. L’assegno circolare. ............................................................................... 871 872 874 LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE CAPITOLO LIV OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE 450. Premessa. .............................................................................................. 879 Indice sommario 451. La gestione di affari. ............................................................................. 452. La ripetizione di indebito...................................................................... 453. L’ingiustificato arricchimento. .............................................................. XXV 879 880 883 LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DA ATTO ILLECITO CAPITOLO LV LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE 454. Nozione. ................................................................................................ 455. Il fatto................................................................................................... 456. L’illiceità del fatto. ............................................................................... 457. Le cause di giustificazione..................................................................... 458. L’imputabilità del fatto. ....................................................................... 459. Il dolo e la colpa. .................................................................................. 460. La responsabilità oggettiva................................................................... 461. Tra responsabilità « aggravata » e responsabilità oggettiva. ................. 462. Il nesso di causalità............................................................................... 463. Il danno cagionato da più soggetti. ...................................................... 464. Il concorso del fatto colposo del danneggiato. ...................................... 465. La responsabilità per fatto altrui.......................................................... 466. Il danno. ............................................................................................... 467. Il danno patrimoniale. .......................................................................... 468. Il danno non patrimoniale. ................................................................... 469. Risarcimento per equivalente e risarcimento in forma specifica........... 470. La prescrizione. ..................................................................................... 471. La responsabilità per danno ambientale. .............................................. 472. La responsabilità per danno da prodotto difettoso............................... 472-bis. La responsabilità medica................................................................... 473. Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale. .......... 474. Il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. .......... 887 888 889 895 900 902 904 907 915 917 919 920 927 934 936 944 945 947 949 952 957 960 L’IMPRESA CAPITOLO LVI L’IMPRESA E L’AZIENDA 475. 476. 477. 478. 479. L’iniziativa economica privata. ............................................................ L’imprenditore. ..................................................................................... Imprenditore, lavoratore autonomo, professionista intellettuale.......... Tipologie di imprenditori. ..................................................................... Imprenditore agricolo e imprenditore commerciale. ............................. 965 967 969 970 971 XXVI Manuale di diritto privato 480. Il piccolo imprenditore.......................................................................... 480-bis. Le piccole, medie e micro-imprese..................................................... 481. Impresa individuale e impresa collettiva. ............................................. 482. L’impresa sociale................................................................................... 483. L’impresa pubblica. .............................................................................. 974 975 976 977 979 CAPITOLO LVII LO STATUTO GENERALE DELL’IMPRENDITORE 484. 485. 486. 487. 488. 489. 490. 491. 492. 493. Il registro delle imprese. ....................................................................... 982 Vicende dell’azienda.............................................................................. 984 I segni distintivi.................................................................................... 987 Le invenzioni industriali. ...................................................................... 993 Le opere dell’ingegno. ........................................................................... 999 La tutela della libertà di concorrenza................................................... 1001 La concorrenza sleale. ........................................................................... 1005 La pubblicità commerciale.................................................................... 1006 I consorzi e le società consortili. ........................................................... 1008 Il Gruppo europeo di interesse economico. ........................................... 1011 CAPITOLO LVIII LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE 494. La capacità necessaria per l’esercizio dell’impresa commerciale........... 1014 495. Figure tipiche di rappresentanti. .......................................................... 1015 496. Le scritture contabili. ........................................................................... 1016 CAPITOLO LIX IL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO 497. 498. 499. 500. 501. 502. 503. Lavoro subordinato e lavoro autonomo................................................ 1019 I sindacati e la contrattazione collettiva. ............................................. 1021 Lo sciopero............................................................................................ 1024 Lo Statuto dei lavoratori. ..................................................................... 1026 Diritti ed obblighi delle parti................................................................ 1028 Durata ed estinzione del rapporto di lavoro. ........................................ 1031 Indisponibilità dei diritti dei lavoratori................................................ 1035 CAPITOLO LX L’IMPRESA COLLETTIVA 504. La società.............................................................................................. 1037 505. La c.d. responsabilità amministrativa della società. ............................. 1040 506. L’associazione in partecipazione. .......................................................... 1042 507. Accordi di joint venture. Raggruppamento temporaneo di imprese. ..... 1043 507-bis. Contratto di rete................................................................................ 1044 508. I fondi comuni di investimento e le altre figure di gestione collettiva del risparmio. .............................................................................................. 1046 Indice sommario XXVII 509. Categorie di società. .............................................................................. 1048 510. Capacità e partecipazione a società. ..................................................... 1051 511. Nazionalità delle società. ...................................................................... 1051 CAPITOLO LXI LE SOCIETÀ DI PERSONE A) LA SOCIETÀ SEMPLICE 512. Principi fondamentali. .......................................................................... 1053 513. Scioglimento e liquidazione................................................................... 1055 514. Società di fatto, società apparente, società occulta. ............................. 1058 B) LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO 515. Principi fondamentali. .......................................................................... 1059 C) LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE 516. La società in accomandita: principi fondamentali. ............................... 1061 517. La società in accomandita semplice...................................................... 1062 CAPITOLO LXII LE SOCIETÀ DI CAPITALI A) LA SOCIETÀ PER AZIONI 518. 519. 520. 521. 522. 523. 524. 525. 526. 527. 528. 529. 530. 531. 532. 533. 534. 535. 536. 537. 538. L’autonomia patrimoniale..................................................................... 1064 I diversi modelli normativi di società per azioni. ................................. 1066 La costituzione...................................................................................... 1067 La nullità delle società. ......................................................................... 1069 I patti parasociali.................................................................................. 1071 Le azioni. .............................................................................................. 1073 La circolazione della partecipazione azionaria...................................... 1075 Recesso del socio. .................................................................................. 1077 Modelli organizzativi. ............................................................................ 1078 Il « sistema tradizionale ». ..................................................................... 1078 L’assemblea nel « sistema tradizionale ». ............................................... 1079 L’invalidità delle deliberazioni assembleari. ......................................... 1081 Gli amministratori nel « sistema tradizionale »...................................... 1082 La responsabilità degli amministratori. ................................................ 1085 Il collegio sindacale nel « sistema tradizionale ». ................................... 1087 Il revisore legale dei conti nel « sistema tradizionale ». ......................... 1088 Il « sistema dualistico ». ......................................................................... 1090 Il « sistema monistico ». ......................................................................... 1091 I patrimoni destinati ad uno specifico affare. ....................................... 1092 Le obbligazioni...................................................................................... 1093 Gli strumenti finanziari partecipativi. .................................................. 1095 XXVIII Manuale di diritto privato 539. Il bilancio d’esercizio. ........................................................................... 1096 540. Il bilancio consolidato. .......................................................................... 1100 B) LA SOCIETÀ EUROPEA 541. Nozione e disciplina. ............................................................................. 1102 C) LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA PER AZIONI 542. Nozione e disciplina. ............................................................................. 1104 D) LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA 543. L’autonomia patrimoniale..................................................................... 1104 544. La costituzione...................................................................................... 1105 545. Le quote di partecipazione. .................................................................. 1106 546. I titoli di debito. ................................................................................... 1108 547. L’organizzazione. .................................................................................. 1109 548. Le decisioni dei soci. ............................................................................. 1109 549. L’amministrazione. ............................................................................... 1111 550. I controlli. ............................................................................................. 1113 550-bis. La società a responsabilità limitata « semplificata ». ......................... 1113 E) DIREZIONE E COORDINAMENTO DI SOCIETÀ 551. Nozione e disciplina. ............................................................................. 1114 F) TRASFORMAZIONE, FUSIONE E SCISSIONE 552. La trasformazione. ................................................................................ 1117 553. La fusione. ............................................................................................ 1119 554. La scissione. .......................................................................................... 1121 G) SCIOGLIMENTO E LIQUIDAZIONE 555. L’estinzione della società. ..................................................................... 1121 CAPITOLO LXIII LA SOCIETÀ COOPERATIVA 556. Nozione e disciplina. ............................................................................. 1125 CAPITOLO LXIV LE PROCEDURE CONCORSUALI 557. Caratteristiche generali. ........................................................................ 1129 A) IL FALLIMENTO 558. Gli imprenditori soggetti a fallimento................................................... 1131 Indice sommario XXIX 559. Presupposti oggettivi del fallimento. .................................................... 1132 560. Fasi ed organi della procedura.............................................................. 1133 561. Effetti della dichiarazione di fallimento: a) effetti per il debitore fallito..................................................................................................... 1135 562. Effetti della dichiarazione di fallimento: b) effetti per i creditori......... 1138 563. La revocatoria fallimentare................................................................... 1139 564. Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti. ...................... 1145 565. Il fallimento delle società commerciali.................................................. 1147 566. Chiusura del fallimento. ........................................................................ 1149 567. Chiusura del fallimento per concordato. ............................................... 1150 568. Approvazione ed omologazione del concordato. ................................... 1152 569. Efficacia del concordato omologato. ..................................................... 1152 B) IL CONCORDATO PREVENTIVO 570. 571. 572. 573. Presupposti soggettivi ed oggettivi....................................................... 1153 La domanda di concordato preventivo. ................................................ 1153 Approvazione ed omologazione del concordato preventivo. ................. 1156 Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. ............................................. 1158 C) LA LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA 574. Presupposti e disciplina. ....................................................................... 1159 D) L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA DELLE GRANDI IMPRESE IN STATO DI INSOLVENZA 575. Presupposti e disciplina. ....................................................................... 1160 E) LA RISTRUTTURAZIONE INDUSTRIALE DI GRANDI IMPRESE IN STATO DI INSOLVENZA 576. Presupposti e disciplina. ....................................................................... 1164 I RAPPORTI DI FAMIGLIA CAPITOLO LXV TRASFORMAZIONI SOCIALI E DIRITTO DI FAMIGLIA 577. La famiglia e il diritto........................................................................... 1171 578. Famiglia « legittima » e famiglia « di fatto »........................................... 1174 CAPITOLO LXVI MATRIMONIO: LA FORMAZIONE DEL VINCOLO A) IL MATRIMONIO CIVILE 579. Nozioni generali. ................................................................................... 1176 XXX 580. 581. 582. 583. 584. Manuale di diritto privato La promessa di matrimonio. ................................................................. 1177 Capacità e impedimenti. ....................................................................... 1179 Pubblicazione e celebrazione................................................................. 1181 Invalidità del matrimonio..................................................................... 1183 Il matrimonio putativo. ........................................................................ 1189 B) IL MATRIMONIO CONCORDATARIO E IL MATRIMONIO CELEBRATO DAVANTI A MINISTRI DI ALTRI CULTI 585. Nozioni generali. ................................................................................... 1191 586. Le modalità per il riconoscimento dell’efficacia civile del matrimonio canonico. ............................................................................................... 1192 587. La trascrizione del matrimonio canonico. ............................................. 1193 588. La giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale......................... 1195 589. Il matrimonio celebrato davanti a ministro di un culto acattolico. ..... 1199 CAPITOLO LXVII IL MATRIMONIO: IL REGIME DEL VINCOLO 590. Diritti e doveri personali dei coniugi. ................................................... 1201 591. La crisi della coppia. La separazione personale dei coniugi. Le convenzioni di negoziazione assistita e la separazione innanzi all’ufficiale dello stato civile............................................................................................. 1205 592. Lo scioglimento del matrimonio. Il divorzio......................................... 1211 593. I provvedimenti riguardo ai figli nella crisi della coppia (separazione, divorzio, cessazione della convivenza, invalidità del matrimonio). L’affidamento condiviso. ............................................................................. 1216 CAPITOLO LXVIII IL REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA 594. Princìpi generali. ................................................................................... 1222 595. L’obbligo di contribuzione per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia. ................................................................................................ 1223 596. Regime patrimoniale legale. Le convenzioni matrimoniali. .................. 1224 597. La comunione legale. ............................................................................ 1226 598. Scioglimento della comunione. .............................................................. 1231 599. Comunione convenzionale. .................................................................... 1233 600. La separazione dei beni......................................................................... 1234 601. Il fondo patrimoniale. ........................................................................... 1235 602. L’impresa familiare. .............................................................................. 1237 603. La dote.................................................................................................. 1239 CAPITOLO LXIX LA FILIAZIONE 604. La filiazione. L’unicità dello status di figlio dopo la Legge 10 dicembre 2012, n. 219. .......................................................................................... 1240 Indice sommario XXXI 605. I figli nati nel matrimonio. ................................................................... 1243 606. La prova della filiazione........................................................................ 1244 607. L’azione di disconoscimento della paternità del figlio nato nel matrimonio. Le azioni di reclamo e di contestazione dello stato di figlio. .... 1246 608. Il riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio. ........................... 1249 609. La dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità. .............. 1254 610. I figli nati da genitori legati tra loro da relazione di parentela o affinità.. 1256 611. La condizione giuridica dei figli nati fuori del matrimonio: l’esercizio delle funzioni genitoriali, il cognome del figlio e il suo inserimento nella famiglia del genitore.............................................................................. 1259 612. La procreazione medicalmente assistita................................................ 1261 CAPITOLO LXX LA RESPONSABILITÀ GENITORIALE E LA TUTELA DEI MINORI 613. Rapporti tra genitori e figli. La responsabilità genitoriale e i diritti e doveri del figlio. .................................................................................... 1267 614. La tutela dei minori. ............................................................................. 1271 CAPITOLO LXXI L’ADOZIONE 615. 616. 617. 618. 619. L’adozione. Premesse. ........................................................................... 1273 L’adozione dei minori. .......................................................................... 1274 L’adozione internazionale. .................................................................... 1279 L’affidamento di minori. ....................................................................... 1281 L’adozione di persone maggiori di età. ................................................. 1283 CAPITOLO LXXII L’OBBLIGAZIONE DEGLI ALIMENTI 620. Fondamento e natura. .......................................................................... 1286 621. Ordine tra gli obbligati. ........................................................................ 1287 622. L’obbligazione volontaria degli alimenti............................................... 1288 CAPITOLO LXXII-BIS LE UNIONI CIVILI E LE CONVIVENZE 622-bis. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso.................................... 1290 622-ter. La disciplina legale delle convivenze................................................. 1296 XXXII Manuale di diritto privato LA SUCCESSIONE PER CAUSA DI MORTE CAPITOLO LXXIII PRINCIPI GENERALI 623. 624. 625. 626. 627. 628. 629. 630. 631. 632. Premesse. .............................................................................................. 1305 Eredità e legato..................................................................................... 1308 Apertura della successione. ................................................................... 1312 Vocazione e delazione ereditaria. I patti successori.............................. 1313 Giacenza dell’eredità. ............................................................................ 1315 La capacità di succedere. ...................................................................... 1317 L’indegnità............................................................................................ 1318 La rappresentazione.............................................................................. 1321 L’accrescimento. ................................................................................... 1323 Le sostituzioni....................................................................................... 1325 CAPITOLO LXXIV L’ACQUISTO DELL’EREDITÀ E LA RINUNCIA 633. L’accettazione dell’eredità. La trasmissione del diritto di accettare l’eredità. La vendita di eredità. ............................................................ 1328 634. Accettazione con beneficio d’inventario................................................ 1335 635. La separazione del patrimonio del defunto........................................... 1338 636. L’azione di petizione ereditaria............................................................. 1340 637. Gli acquisti dall’erede apparente. ......................................................... 1342 638. La rinuncia all’eredità........................................................................... 1343 CAPITOLO LXXV LA SUCCESSIONE LEGITTIMA 639. Fondamento e presupposto................................................................... 1346 640. Le categorie di successibili. ................................................................... 1346 641. La successione dello Stato..................................................................... 1350 CAPITOLO LXXVI LA SUCCESSIONE NECESSARIA 642. 643. 644. 645. 646. 647. 648. Fondamento e natura. .......................................................................... 1352 Categorie di legittimari. ........................................................................ 1352 La quota legittima. ............................................................................... 1354 La riunione fittizia. ............................................................................... 1357 L’azione di riduzione............................................................................. 1359 L’azione di restituzione contro gli aventi causa dai donatari. .............. 1362 Il patto di famiglia................................................................................ 1365 Indice sommario XXXIII CAPITOLO LXXVII LA SUCCESSIONE TESTAMENTARIA 649. 650. 651. 652. 653. 654. 655. 656. 657. 658. 659. 660. 661. 662. Il testamento......................................................................................... 1369 Il testamento come negozio giuridico. .................................................. 1370 Gli elementi accidentali del testamento. ............................................... 1375 Forme del testamento. .......................................................................... 1377 Il testamento olografo........................................................................... 1377 Il testamento pubblico.......................................................................... 1380 Il testamento segreto. ........................................................................... 1381 Il testamento « internazionale ». ............................................................ 1383 Testamenti speciali. .............................................................................. 1384 Invalidità del testamento per vizio di forma. ....................................... 1384 Sanatoria del testamento nullo. ............................................................ 1385 La revoca del testamento...................................................................... 1385 La pubblicazione del testamento. ......................................................... 1387 L’esecuzione del testamento. ................................................................ 1388 CAPITOLO LXXVIII IL LEGATO 663. Nozione. ................................................................................................ 1390 664. Acquisto del legato................................................................................ 1392 665. Tipi particolari di legati. ....................................................................... 1392 CAPITOLO LXXIX LA DIVISIONE DELL’EREDITÀ 666. 667. 668. 669. 670. 671. 672. 673. 674. La comunione ereditaria. Il retratto successorio. ................................. 1395 La divisione........................................................................................... 1396 Natura della divisione........................................................................... 1397 La divisione contrattuale. ..................................................................... 1398 La divisione giudiziale. ......................................................................... 1399 Divisione fatta dal testatore. ................................................................ 1400 I debiti e i crediti ereditari. .................................................................. 1401 La garanzia per evizione. ...................................................................... 1402 La collazione. ........................................................................................ 1402 CAPITOLO LXXX LA DONAZIONE 675. 676. 677. 678. 679. 680. Il contratto di donazione. ..................................................................... 1406 Donazione, negozi gratuiti, liberalità non donative.............................. 1408 La donazione indiretta.......................................................................... 1409 Requisiti e disciplina............................................................................. 1412 Invalidità della donazione..................................................................... 1417 La revoca della donazione..................................................................... 1418 XXXIV Manuale di diritto privato LA PUBBLICITÀ IMMOBILIARE CAPITOLO LXXXI LA TRASCRIZIONE 681. Premessa. .............................................................................................. 1423 682. La funzione della trascrizione e il principio del consenso traslativo..... 1423 683. La natura dichiarativa della trascrizione. Altri profili di efficacia della trascrizione............................................................................................ 1427 684. La nozione di « terzo » nel sistema della trascrizione. ........................... 1430 685. L’impostazione dei registri immobiliari nel codice civile. ..................... 1430 686. Il principio della continuità delle trascrizioni. ...................................... 1432 687. Atti soggetti a trascrizione.................................................................... 1433 688. Trascrizione degli acquisti mortis causa ............................................... 1435 689. Altre funzioni della trascrizione. ........................................................... 1436 690. La trascrizione degli « atti di destinazione » e degli atti costitutivi di vincoli pubblici...................................................................................... 1437 691. La trascrizione delle domande giudiziali............................................... 1441 691-bis. La trascrizione del contratto preliminare. L’effetto prenotativo. ..... 1444 692. L’annotazione........................................................................................ 1446 693. Modalità per eseguire la trascrizione. La trascrizione relativa a beni mobili registrati..................................................................................... 1447 Indice analitico-alfabetico ................................................................................ 1449 NOZIONI PRELIMINARI CAPITOLO I L’ORDINAMENTO GIURIDICO § 1. L’ordinamento giuridico. Ogni società, ogni comunità umana stabile non può vivere senza un complesso di regole che disciplinino i rapporti tra gli individui (ubi societas, ibi ius) e senza apparati che s’incarichino di farle osservare. L’uomo è per sua natura portato a cercare l’aiuto e la collabo- Socialità del razione dei suoi simili. La cooperazione tra gli uomini rende realiz- diritto zabili risultati che sarebbero irraggiungibili per il singolo e assicura il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi. Non qualsiasi forma di aggregazione umana, però, dà luogo ad Organizzazione una « societas »; fenomeno che implica la costituzione di un gruppo sociale organizzato. A tal fine occorrono tre condizioni: a) che l’agire dei consociati sia disciplinato da regole di condotta, che governino il comportamento che ogni membro del gruppo deve osservare (o da cui deve astenersi) per assicurare un’ordinata e pacifica convivenza, risolvere i conflitti e facilitare la collaborazione tra i consociati nel perseguimento di scopi comuni; b) che queste regole siano stabilite e attuate da appositi organi, ai quali tale compito sia affidato in base a precise regole di struttura o di competenza o organizzative; c) che tanto le regole di condotta quanto quelle di struttura vengano effettivamente osservate (« principio di effettività »). Questo non implica che sempre e tutte le regole che compongono il sistema organizzativo del gruppo siano da tutti e in ogni situazione osservate: è inevitabile che talune regole vengano trasgredite da singoli individui, altre cadano in desuetudine, altre ancora vengano modificate o diversamente interpretate col passar del tempo. Ma il principio di effettività segna il limite entro il quale può dirsi che un dato complesso di regole (ordinamento) disciplina un gruppo: se ad un certo momento (ad es. in seguito ad una rivoluzione) l’organizzazione non è più in grado di funzionare e di far rispettare le norme che stanno alla sua base, deve concludersi o che la collettività si è sciolta, ovvero Nozioni preliminari 4 [§ 2] che alla sua vita presiede non più la precedente organizzazione, ma un nuovo sistema di regole. Un ordinamento giuridico è tale, quindi, in quanto esista una autorità capace di attuarlo, di farne rispettare le regole; la legittimazione di quell’autorità, e dunque anche dell’insieme di norme che essa esprime e realizza, nei sistemi democratici deriva dal consenso dei consociati. Il sistema di regole mediante le quali è organizzata una deterOrdinamento giuridico minata collettività e viene disciplinato e diretto (il termine « diritto » deriva appunto dal latino directus) lo svolgimento della vita sociale costituisce l’« ordinamento giuridico ». La scelta di questa denominazione tende a porre subito in luce la finalità del fenomeno giuridico, che è quella di « ordinare » la realtà sociale. L’ordinamento di una collettività costituisce dunque il suo diritto in senso oggettivo, quale sistema delle regole che organizzano la vita sociale; altro è, come diremo, il concetto di diritto soggettivo, da intendersi quale situazione giuridica appartenente ad un determinato individuo (es. il diritto di proprietà di un soggetto su un certo bene). § 2. Società politica L’ordinamento giuridico dello Stato e la pluralità degli ordinamenti giuridici. Gli uomini danno vita a organizzazioni di vario tipo, per il perseguimento di fini specifici di differente natura: si pensi ai partiti politici, ai sindacati o alle organizzazioni culturali, sportive o ricreative, alle confessioni religiose, e via dicendo. Tra tutte le forme di collettività, importanza preminente assume la società politica: quella, cioè, che si propone finalità di ordine generale, essendo volta « alla soddisfazione non già di uno o dell’altro dei vari bisogni dei consociati, bensì di quello che tutti li precede condizionandone il conseguimento, e che consiste nell’assicurare i presupposti necessari affinché le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi in modo ordinato e pacifico » (Mortati). L’organizzazione politica, per poter assolvere i propri molteplici e complessi compiti, finisce necessariamente per assumere una struttura articolata. In epoca moderna si è verificato un imponente fenomeno di espansione dei compiti pubblici, che non sono più limitati a garantire l’ordinato svolgimento della vita sociale, l’applicazione delle leggi, la sicurezza contro le minacce esterne e la realizzazione di infrastrutture [§ 2] L’ordinamento giuridico 5 e servizi essenziali, ma si orientano a creare le condizioni per « il pieno sviluppo della persona » (come recita l’art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana), promuovendo lo sviluppo sociale ed erogando servizi (il c.d. stato sociale) e, per altro verso, intervenendo sotto vari profili nella vita economica, non soltanto disciplinando l’iniziativa dei privati — la quale, precisa la Costituzione, « non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana » (art. 42, comma 2, Cost.) — ma anche assumendo direttamente o indirettamente la gestione di determinate attività. Le società politiche hanno assunto forme diversissime nella Lo Stato storia: dalle comunità primitive alle tribù nomadi, dalla polis agli imperi, dalla società feudale ai regni, ai comuni, alle signorie e via dicendo. Oggi è centrale la nozione di Stato, che s’identifica con una certa comunità di individui (i cittadini di quello Stato, che come tali si qualificano in base alle regole concernenti l’acquisto e la perdita della cittadinanza), stanziata in un certo territorio, sul quale si dispiega la sovranità dello Stato, ed organizzata in base ad un certo sistema di regole, ossia un ordinamento giuridico. Oggetto di studio, in questa sede, è essenzialmente il diritto Stato e vigente nella Repubblica Italiana, ossia il sistema di regole che riceve diritto forza e attuazione nel territorio italiano o comunque attraverso l’autorità dello Stato italiano; il diritto, in altri termini, che è vigente in Italia (anche se le singole regole non nascono necessariamente da atti degli organi dello Stato, coesistendo plurime fonti del diritto, non tutte riconducibili all’attività degli apparati dello Stato). Un ordinamento giuridico si dice originario quando superiorem Sovranità non recognoscit, ossia quando la sua organizzazione non è soggetta a dello Stato un controllo di validità da parte di un’altra entità: tale è il caso, oltre che dei singoli Stati, delle organizzazioni internazionali, della Chiesa cattolica, della Comunità europea. Nella prospettiva della pluralità degli ordinamenti giuridici va Pluralità valutata la soggezione — talvolta volontaria, frutto di una adesione degli ordinamenti spontanea del singolo (come nel caso degli ordinamenti sportivi), talaltra necessaria ed indeclinabile — di ciascun individuo alle regole di uno od anche di più ordinamenti (si pensi al cittadino di uno Stato straniero che si trovi in Italia e viceversa; ovvero al cittadino di religione cattolica, sottoposto, in quanto cittadino, alle leggi della Repubblica Italiana, e in quanto fedele, all’ordinamento canonico). Nozioni preliminari 6 § 3. [§ 3] Gli ordinamenti sovranazionali. L’Unione Europea. Sotto altro profilo, interessa la teoria dell’ordinamento giuridico anche la partecipazione dell’Italia alla comunità internazionale, soprattutto alla luce dell’assetto dei rapporti internazionali succeduto alla seconda guerra mondiale, ispirato ad una più intensa collaborazione fra gli Stati per il mantenimento della pace e la diffusione dello sviluppo economico. L’art. 10 della Costituzione enuncia il principio per cui « l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute ». Il diritto internazionale, quale insieme di regole che disciplinano i rapporti fra gli Stati — che, come si è detto, per loro natura si proclamano « sovrani » e non riconoscono superiori autorità — è un diritto che ha fonte essenzialmente consuetudinaria, vale a dire trae origine dalla prassi delle relazioni tra gli Stati, o pattizia, ossia nasce da appositi accordi di carattere bilaterale o plurilaterale che ciascuno Stato stringe con altri e che si impegna a rispettare (i trattati internazionali vincolano lo Stato soltanto se sono ratificati; la ratifica deve essere autorizzata con apposita legge: art. 80 Cost.). Attraverso il richiamo operato dall’art. 10, comma 1, Cost. anche le norme del diritto internazionale consuetudinario fanno parte dell’ordinamento giuridico dello Stato. La Repubblica Italiana è anche parte di organizzazioni interOrganizzazioni nazionali. L’art. 11 della Costituzione stabilisce che l’Italia « coninternazionali sente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo ». Il principio è di particolare importanza, in quanto rende ammissibile la sottoposizione dello Stato alle regole di un’organizzazione sovranazionale, le cui norme e provvedimenti vincolano l’operatività degli organi dello Stato stesso, con una conseguente limitazione della « sovranità » dello Stato (che la Costituzione ammette se necessaria a favorire la pace e purché gli altri Stati aderenti all’ordinamento sovranazionale si sottopongano ad identiche limitazioni della propria sovranità). La norma costituzionale era pensata in particolare in vista della L’Unione Europea partecipazione dell’Italia all’Organizzazione delle Nazioni Unite; peraltro ha avuto un’importanza decisiva ai fini del contributo dell’Italia al processo di unificazione dell’Europa. Infatti l’adesione dell’Italia alle Comunità Europee, a partire dalla stipulazione del Trattato di Roma del 1957, che ha dato vita alla Comunità Economica Europea, ha implicato l’accettazione di L’ordinamento internazionale [§ 3] L’ordinamento giuridico 7 limiti alla sovranità dello Stato, che si è sottoposto, in un numero di materie via via crescente, alla volontà della maggioranza degli altri Stati membri o degli organi dell’Unione. Trattando delle fonti del diritto (§ 16) si avrà modo di verificare come l’adesione al processo di integrazione europea abbia inciso su di una dimensione particolarmente rilevante della sovranità dello Stato, quale il potere legislativo, poiché gli atti delle istituzioni europee hanno valore di fonte del diritto nell’ordinamento interno dei singoli Stati. Il processo di « integrazione europea » è stato lungo e difficoltoso Il processo di e oggi attraversa una fase estremamente delicata. Partendo dai tre integrazione iniziali Trattati istitutivi di organismi — la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio — CECA (nel 1951), la Comunità Economica Europea — CEE e la Comunità Europea per l’Energia Atomica — Euratom (queste ultime nel 1957) — volti principalmente a definire un’area di libera circolazione delle merci e a coordinare alcune attività economiche, si è proceduto verso un progressivo allargamento del numero degli Stati aderenti e, soprattutto, verso una sempre più accentuata prevalenza delle decisioni assunte dagli organi comunitari sulle determinazioni dei singoli Stati ed una costante dilatazione delle competenze delle istituzioni comunitarie. Si devono rammentare, sintetizzando le tappe di una vicenda Il Trattato di del complessa, oltre al già ricordato Trattato di Roma del 25 marzo 1957 Roma 1957 e le (Convenzione istitutiva della Comunità Economica Europea), il successive Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992. Quest’ultimo, entrato in modificazioni vigore il 1° novembre 1993, oltre a modificare l’originario trattato istitutivo della CEE, ora denominata Comunità Europea (non più soltanto « economica »), contiene il Trattato sull’Unione Europea, con il quale si fissano le regole politiche e i parametri economici richiesti per l’adesione all’Unione dei vari stati. Il Trattato di Maastricht, tra l’altro, ha introdotto il concetto di Cittadinanza dell’Unione europea e posto le basi per l’unione economica e monetaria dell’Unione europea. L’estensione delle politiche comuni ben oltre l’originario ambito della Comunità Europea creò incertezza circa la ratifica da parte di taluni Paesi membri, per superare la quale si ammise la clausola di opt-out, grazie alla quale il singolo paese membro avrebbe potuto negoziare e ottenere la permanenza nell’Unione pur non sottomettendosi a talune regole o vincoli dell’Unione stessa. Grazie a tale meccanismo, che crea l’idea dell’Europa « a più velocità », taluni paesi membri, come il Regno Unito, non hanno aderito all’Euro quale moneta unica. È a tutti noto che di recente il Regno Unito ha deliberato di recedere dal Trattato e avviato i conseguenti negoziati con le autorità dell’Unione. 8 Nozioni preliminari [§ 3] Ulteriori modificazioni sono state introdotte dal Trattato di Amsterdam, del 2 ottobre 1997 (entrato in vigore il 1o maggio 1999) e dal Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001 (entrato in vigore il 1o febbraio 2003). In occasione del Trattato di Nizza il Consiglio europeo aveva Il Trattato e la Carta di anche solennemente proclamato la Carta dei diritti fondamentali Nizza dell’Unione Europea (Carta di Nizza), che però non era entrata a far parte del Trattato. Essa era confluita successivamente nel progetto di trattato costituzionale europeo, costituendone la seconda parte. Senonché il Trattato istitutivo di una costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004 non è mai entrato in vigore a motivo della mancata ratifica da parte di tutti gli stati membri entro la data stabilita del 1o novembre 2006. Successivamente il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre Il Trattato di Lisbona. I 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, ha prodotto ulteriori “Trattati UE” importanti modifiche, incidendo sia sul Trattato sull’Unione Europea (TUE) sia sul Trattato istitutivo della Comunità Europea, che ha assunto il nome di Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). In tale occasione si è anche attribuito valore vincolante per le istituzioni europee e per gli stati membri alla Carta di Nizza, che ora costituisce la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Essa enuncia i principi fondamentali che devono essere rispettati dall’Unione in sede di applicazione del diritto comunitario. La suddetta parte del Trattato di Lisbona è generalmente vincolante anche per i singoli paesi membri; tuttavia alcuni stati (Regno Unito, Polonia e Repubblica Ceca) hanno ottenuto l’opt-out dalla Carta. La Carta di Nizza non va confusa con la CEDU (Convenzione La CEDU europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), che è un trattato internazionale — firmato nel 1950 dai paesi aderenti al Consiglio d’Europa — il quale predispone un sistema di tutela internazionale dei diritti dell’uomo, offrendo ai singoli soggetti la facoltà di invocare il controllo giudiziario sul rispetto dei loro diritti (rivolgendosi alla Corte europea dei diritti dell’uomo). L’Unione Europea non aveva aderito formalmente alla CEDU, sebbene tutti gli stati membri vi facessero parte, insieme agli altri stati aderenti al Consiglio d’Europa, come Russia e Turchia. La ragione di tale anomalia stava nel difetto di legittimazione dell’Unione Europea, sulla base dei trattati, a essere parte di una convenzione internazionale concernente i diritti dell’uomo. Ciò non aveva impedito una recezione sostanziale dei principi contenuti nella Carta: da una parte già il Trattato di Amsterdam ribadiva in alcuni punti il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU; [§ 4] L’ordinamento giuridico 9 dall’altra la giurisprudenza della Corte di giustizia europea ha considerato i principi della CEDU quali componenti dell’ordinamento comunitario. Con il Trattato di Lisbona il processo di adesione ha guadagnato anche una base di carattere normativo, giacché all’art. 6 n. 3 TFUE si afferma che i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione e “risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Ciò consente, tra l’altro, di interpretare la legislazione dell’UE alla luce della CEDU. § 4. La norma giuridica. L’ordinamento di una collettività è costituito, come abbiamo visto, da un sistema di regole che concorrono a disciplinare la vita organizzata della comunità. Ciascuna di queste regole si chiama norma; e poiché il sistema di regole da cui è assicurato l’ordine di una società rappresenta il « diritto », in senso oggettivo, di quella società, ciascuna di tali norme si dice giuridica (in quanto appartenente allo ius). La giuridicità di una norma non è la conseguenza di qualche Giuridicità carattere peculiare inerente al suo contenuto, a quanto, cioè, con essa della norma si dispone, ma dipende dal fatto che vada considerata, in base a criteri fissati da ciascun ordinamento, dotata di « autorità », in quanto inserita nel sistema giuridico e suscettibile di essere resa vincolante nei confronti di tutti i consociati. Ciò avviene quando una certa regola trovi origine in un « atto » o, più latamente, in un « fenomeno normativo », ossia in un fenomeno che, secondo le regole di quel determinato ordinamento, sia idoneo a porsi come « fonte » (v. infra § 12) di norme giuridiche (e che potrà consistere in una varia tipologia di atti o di fatti: una legge di un’assembla parlamentare, un editto di un sovrano, una consuetudine normativa, una sentenza e via dicendo). La norma giuridica si distingue dalla norma morale, anche Norma e quando l’una e l’altra abbiano identico contenuto. Difatti, mentre giuridica norma morale ciascuna regola morale è assoluta, nel senso che trova solo nel suo contenuto la propria validità e quindi obbliga solamente l’individuo che, riconoscendone il valore, decide di adeguarvisi, ed è perciò altresì autonoma, nel senso che funge da imperativo solo in quanto la coscienza del singolo spontaneamente ne accetti il comando, la regola giuridica deriva la propria forza vincolante dal fatto di essere prevista da un atto dotato di autorità nell’ambito dell’organizzazione di 10 Nozioni preliminari [§ 4] una collettività, cosicché anche quando disciplina l’azione del singolo (c.d. norme « di condotta ») essa si presenta come eteronoma, cioè imposta al singolo da altri, da una autorità a lui esterna capace di coercizione. Il diritto, pur da essa distinto, non prescinde del tutto dalla morale sociale, ma rispecchia in regole coercibili, ossia criteri imperativi di orientamento della condotta individuale e di decisione delle controversie, i principi morali cui si ispira una determinata collettività. I fatti produttivi di norme giuridiche si chiamano « fonti » (v. § Il testo e il precetto 12). Di solito — salva l’ipotesi della consuetudine (§ 17) — la norma normativo è espressione della volontà di un organo investito del potere di elaborare regole destinate ad entrare a far parte dell’ordinamento giuridico (ossia è il risultato di un « atto normativo ») e viene consacrata in un documento normativo (una carta costituzionale, una legge, un regolamento ecc.). In tal caso occorre non confondere la formulazione concreta dell’atto di esercizio del potere normativo, ossia il testo, nel caso di una disposizione normativa scritta, con il « precetto », ossia il significato di quel testo; l’individuazione del significato del testo normativo, e dunque del precetto, della regola che esso pone, è il risultato di un’operazione di interpretazione del testo medesimo (§ 24). Non bisogna neppure confondere il concetto di « norma giuriNorma e legge dica » con quello di « legge ». Per un verso, infatti, la legge, nel senso tecnico definito dalla Carta costituzionale e dall’art. 2 delle Disposizioni sulla legge in generale, poste in premessa al codice civile, è un certo e definito tipo di « atto » normativo scritto, che nel nostro ordinamento è elaborato da organi a ciò competenti secondo le procedure stabilite dalla Carta costituzionale (artt. 70 ss. Cost.); per altro verso ogni ordinamento conosce regole giuridiche frutto di atti o fenomeni normativi diversi da quelli che tecnicamente si definiscono « leggi » (fonti che possono essere di vario tipo: regolamenti, ordinanze, sentenze, contratti, consuetudini ecc.) e dunque deve affrontare il problema del rapporto tra le varie fonti, per evitare antinomie e incertezze; per altro verso ancora, una certa « legge » può contenere, e di regola contiene, molte norme (basti pensare al codice civile), ma una norma può anche risultare soltanto dal « combinato disposto » di più disposizioni legislative, ciascuna delle quali può regolare anche un solo aspetto di un fenomeno complesso. L’ordinamento giuridico [§ 5] § 5. 11 Diritto positivo e diritto naturale. Il complesso delle norme da cui è costituito ciascun ordina- Diritto mento giuridico — ossia l’insieme delle regole scaturenti dalle « fonti » positivo che quell’ordinamento riconosce come tali — rappresenta il « diritto positivo » (ius in civitate positum) di quella società. In tutto il corso della storia dell’uomo, peraltro, è sempre stata Diritto presente, sebbene in misura e con modalità diverse, l’idea che esista naturale un « diritto naturale »: talvolta inteso come matrice dei singoli diritti positivi, talaltra come criterio di valutazione critica dei concreti ordinamenti; talvolta raffigurato come un complesso di princìpi eterni ed universali, talaltra considerato anch’esso storicamente condizionato e quindi mutevole; talvolta legato a concezioni religiose circa la « natura » dell’uomo, talaltra ricollegato esclusivamente alla ragione umana, o addirittura alla « natura delle cose », ossia alla realtà esterna, in cui ogni legislatore troverebbe un limite invalicabile. Il richiamo al diritto naturale cerca di soddisfare l’aspirazione ad ancorare il diritto positivo — che è frutto degli atti concreti degli organi dotati di potere legislativo in un certo contesto storico e politico — ad un fondamento valoriale obiettivo, universale e stabile, che elimini il rischio di arbitrarietà insito nella possibilità di elevare al rango di norma giuridica qualsiasi contenuto approvato da chi detiene il potere (quod principi placuit legis habet vigorem). Non per nulla le concezioni del diritto naturale tendono ad acquistare maggior rilievo nei momenti storici in cui l’organizzazione della società viene a trovarsi in conflitto con i sentimenti diffusi nella collettività (si pensi ai regimi totalitari, che stabiliscono regole volte a comprimere i valori fondamentali di libertà e dignità della persona), cosicché il diritto positivo viene ad essere subìto dai consociati come un’imposizione, realizzata per mezzo della forza, ma senza un’intima giustificazione morale e sociale. D’altra parte a sua volta il diritto naturale non riesce a trovare un fondamento obiettivo ed univoco. La storia dimostra che, nel corso dei secoli, il contenuto stesso del diritto « di natura », che pure si assume universale ed invariabile, è andato mutando: nelle società antiche, per esempio, era ritenuta naturale, in quanto conforme ad un ordine intrinseco dei rapporti umani, la condizione di schiavitù di alcuni uomini. Tuttavia la configurazione di un diritto sovraordinato a quello positivo costituisce un costante vincolo al legislatore, perché tenga conto della cultura e dei valori fondamentali della collettività e dei Nozioni preliminari 12 [§ 6] singoli ai quali indirizza i suoi comandi e soprattutto costituisce lo strumento per assicurare, in certi contesti, la tutela di beni e interessi essenziali riferibili alla persona umana. Oggi infatti, come si dirà (§ 61), sono molti gli atti della comunità internazionale che solennemente enunciano l’esistenza di diritti umani spettanti originariamente ed inalienabilmente a ciascun individuo, senza necessità che una specifica norma positiva li attribuisca, e che anzi nessun legislatore ha il potere di ledere o sacrificare. Il concetto di diritto evoca quello di « giustizia » (ius-iustitia). E Diritto e giustizia del resto l’apparato di uffici preposto all’esercizio del potere giurisdizionale è appunto definito « Ministero della Giustizia ». Senonché appare constatazione indiscutibile che in nessun ordinamento, frutto dell’attività degli apparati nei quali si organizza una società politica, si realizza davvero un sistema di rapporti riconosciuto unanimemente come « giusto ». Per di più la definizione stessa di giustizia e la determinazione, nei singoli casi, di quanto occorrerebbe per conseguire soluzioni non soltanto « legali » (cioè conformi al dettato normativo), ma anche « giuste », incontra insuperabili difficoltà. Difatti l’individuazione di ciò che è « obiettivamente » giusto presupporrebbe la capacità del singolo di spogliarsi delle sue passioni, dei suoi egoismi, delle sue concezioni necessariamente « soggettive ». Ed anche le « ideologie », in cui gruppi più o meno numerosi di individui teorizzano i propri ideali di giustizia, sono sempre inevitabilmente « parziali », esprimendo determinati punti di vista, concrete aspirazioni ed esigenze, specifiche rivendicazioni, storicamente condizionate. Ciò non toglie che sul piano morale appare indubbiamente biasimevole la rinuncia ad una valutazione critica dell’ordinamento nel quale si vive, alla luce di un sistema di valori concepiti come criteri guida per realizzare una società che sia la migliore possibile in relazione alle concrete situazioni storiche in cui l’organizzazione deve muoversi. § 6. Struttura della norma giuridica La struttura della norma. La fattispecie. Una norma è un enunciato prescrittivo che si articola nella formulazione di una ipotesi di fatto, al cui verificarsi la norma ricollega una determinata conseguenza o effetto giuridico, che può consistere, esemplificando, nell’acquisto di un diritto (chi possiede una cosa per venti anni ne acquista la proprietà per effetto di usucapione: art. 1158 c.c.; § 184), nell’insorgenza di un’obbligazione [§ 6] L’ordinamento giuridico 13 (« Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno »: art. 2043 c.c.), nella estinzione o modificazione di un diritto (« La dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione... »: art. 1236 c.c.), nell’applicazione di una conseguenza afflittiva (« Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno » art. 575 c.p.). La norma, dunque, si struttura come un periodo ipotetico: si compone della previsione di un accadimento futuro ed eventuale e dell’affermazione di una conseguenza giuridica che deriva dal concreto verificarsi dell’evento prefigurato dall’enunciato normativo. La parte della norma che descrive l’evento che intende regolare, facendone discendere determinati effetti giuridici, si definisce fattispecie (dal latino: species facti). Si parla di fattispecie astratta e di fattispecie concreta. Per Fattispecie e fattispecie « astratta » si intende il fatto (o talora un complesso di astratta concreta fatti), descritto ipoteticamente da una norma ad indicare quanto deve verificarsi affinché si produca una data conseguenza giuridica. Ad es. ogni descrizione di un reato indica tutte le circostanze che devono concorrere affinché il responsabile divenga punibile, ogni descrizione di un contratto elenca gli elementi essenziali da cui dipende la rilevanza giuridica dell’accordo tra le parti contraenti. Per fattispecie « concreta », invece, si intende non più « un modello » di evento configurato ipoteticamente, ma un determinato fatto o complesso di fatti realmente verificatisi, rispetto ai quali la norma descrive gli effetti giuridici che ne derivano. La ricostruzione di tutti gli elementi rilevanti ai fini, da un lato, della delineazione della fattispecie (astratta), e, dall’altro lato, dell’individuazione degli effetti che ne conseguono, richiede spesso una lettura coordinata di una pluralità di disposizioni normative, in quanto la descrizione di un fatto giuridicamente rilevante può scaturire dalla combinazione di molteplici enunciati normativi, ciascuno dei quali descrive un profilo o una componente della fattispecie, la quale soltanto se considerata nella sua integrità risulta idonea a produrre gli effetti giuridici contemplati dalla legge (per esempio, il furto è descritto come il comportamento di chi si appropria della « cosa mobile altrui », e dunque la conoscenza della fattispecie implica quella della nozione giuridica di « cosa mobile » e del concetto di « altruità » della stessa). Occorre ancora precisare che mentre l’individuazione della fattispecie astratta si risolve in una pura operazione intellettuale, di interpretazione del testo normativo, volta ad individuare i presup- 14 Nozioni preliminari [§ 7] posti materiali dell’applicazione di determinate regole, l’indagine sulla fattispecie concreta consiste nell’accertamento — che nell’ambito del processo avviene attraverso gli strumenti di istruzione probatoria — del fatto storico, quale materialmente verificatosi, onde porre a confronto tale fenomeno con l’ipotesi astratta prevista e regolata dalla legge. La fattispecie può consistere in un unico fatto (per es., morte di Fattispecie semplice e una persona, da cui deriva l’apertura della sua successione ereditacomplessa ria), e si chiama allora fattispecie semplice. Se, invece, la fattispecie è costituita da una pluralità di fatti giuridici (per es., per alienare i beni di un incapace occorrono l’autorizzazione del giudice e il consenso del rappresentante legale; per il matrimonio è necessario il consenso dei nubendi e la dichiarazione dell’ufficiale dello stato civile), essa si dice complessa. L’effetto ricollegato dalla norma alla fattispecie complessa non si verifica se non quando si siano realizzati tutti i fatti « giuridici » (in quanto giuridicamente rilevanti, ossia tali da produrre, secondo la predisposizione normativa, effetti per il diritto) da cui essa è costituita. In alcuni casi, se la fattispecie si compone di una serie di fatti Fattispecie a formazione che si succedono nel tempo, si possono verificare effetti prodromici o progressiva preliminari, prima che l’intera serie sia completata. Un esempio tipico è offerto dal contratto sottoposto a condizione sospensiva: gli effetti definitivi non si producono se non quando la condizione si sia verificata, ma prima di questo momento il soggetto è titolare di un’aspettativa che, come vedremo (§ 323), riceve una certa protezione dall’ordinamento giuridico. Altra ipotesi di effetti prodromici o preliminari è quella costituita dal negozio su cosa futura: esso non può attuare il passaggio della proprietà, perché la cosa non è ancora venuta ad esistenza: tuttavia, esso vincola sul piano obbligatorio il venditore (§ 368). § 7. Funzione dissuasiva della sanzione La sanzione. Secondo un’antica concezione le norme giuridiche si caratterizzerebbero per il fatto di essere suscettibili di attuazione forzata (coercizione) o sarebbero comunque garantite dalla predisposizione, per l’ipotesi di trasgressione, della comminatoria di una conseguenza in danno del trasgressore, di una « sanzione », la cui minaccia favorirebbe l’osservanza spontanea della norma, attraverso una forma di [§ 7] L’ordinamento giuridico 15 coazione psicologica volta a dissuadere dal tenere comportamenti antigiuridici. Effettivamente spesso, accanto a norme « di condotta » (dette primarie), il legislatore prevede una « risposta » o « reazione » dell’ordinamento (c.d. norme sanzionatorie o secondarie). Peraltro la difesa dell’ordinamento non viene perseguita soltanto attraverso misure repressive o restaurative di una situazione preesistente illegittimamente violata, ma anche mediante misure preventive, di vigilanza e di dissuasione, e perfino con l’ausilio di norme che si limitano ad affermazioni di principio (« Il figlio deve rispettare i genitori »: art. 315-bis c.c.), che svolgono una funzione « esemplare », indipendentemente dalla previsione di qualsiasi sanzione. Sussistono poi norme che stabiliscono « incentivi » a favore dei Norme soggetti che si vengano a trovare in particolari situazioni (ad es., a promozionali o incentivanti favore delle imprese che intraprendono nuove attività in zone considerate depresse o sottosviluppate). Se la sanzione non può considerarsi tratto essenziale di tutte le Applicazione norme giuridiche, deve peraltro riconoscersi che l’ordinamento di della sanzione una società politica prevede sempre l’allestimento di un apparato coercitivo, tendente ad assicurare, occorrendo anche con l’uso della forza, la salvaguardia della collettività e degli interessi e valori da questa condivisi contro minacce esterne o interne e l’applicazione, in concreto, delle conseguenze sanzionatorie previste in astratto da singole norme per il caso di loro violazione. Anzi lo stato moderno rivendica per sé il monopolio dell’uso Monopolio della forza, riservandone l’esercizio ai suoi apparati e consentendolo statale dell’uso della ai privati soltanto in determinate circostanze (es.: legittima difesa o forza adozione di specifiche misure di autotutela previste dalla legge). La sanzione può operare in modo diretto, realizzando il risultato materiale che la legge prescrive (per es. viene distrutto a spese dell’obbligato ciò che è stato fatto in violazione di un obbligo, art. 2933 c.c.) o in modo indiretto: in questo caso l’ordinamento si avvale di altri mezzi per ottenere l’osservanza della norma o per reagire alla sua violazione. Per esempio, se il cantante che ho scritturato per un concerto rifiuta di esibirsi, è chiaro che non è possibile costringerlo materialmente a farlo (nemo ad factum cogi potest): ciò che io posso ottenere dal giudice è che l’obbligato inadempiente sia condannato a risarcirmi i danni che ho subìto per effetto della sua inadempienza. Nozioni preliminari 16 § 8. [§ 8] Caratteri della norma giuridica. Generalità e astrattezza. Il principio costituzionale di eguaglianza. Tradizionalmente si insegna che caratteri essenziali della norma giuridica sono la generalità e la astrattezza dei relativi precetti. Con il carattere della generalità si intende che la legge non deve Generalità essere dettata per singoli individui, ossia formulata in modo da essere applicata ad una sola persona o ad una schiera predeterminata di soggetti individualmente identificati (c.d. leggi-fotografia o ad personam), bensì o per tutti i consociati o per classi generiche di soggetti (i commercianti, i proprietari di beni immobili, gli studenti universitari, ecc.). Con il carattere della astrattezza si intende che la legge non deve Astrattezza essere dettata per specifiche situazioni concrete, bensì, come si è detto, per fattispecie astratte, ossia per situazioni descritte ipoteticamente. La norma ha lo scopo di regolare una serie indeterminata di casi futuri ed eventuali e si presta ad applicarsi a chiunque si verrà a trovare nella situazione prefigurata dalla norma. Peraltro si riconosce anche l’ammissibilità di leggi in senso formale (ossia di atti degli organi legislativi, emanati secondo le procedure stabilite dalla Costituzione per la formazione delle leggi: artt. 70 ss.) che non dettino norme generali ed astratte ma contengano la disciplina di una certa situazione individualmente determinata (c.d. leggi-provvedimento: per es. costituzione o modificazione di un certo ente pubblico). Particolarmente importante nella formulazione della norma Principio di eguaglianza giuridica è l’esigenza del rispetto del c.d. « principio di eguaglianza », che è solennemente proclamato da una tra le più importanti disposizioni della nostra Carta costituzionale (art. 3). Dal principio di eguaglianza va tenuto distinto il principio per Principio di imparzialità cui i pubblici uffici devono rispettare nell’esercizio delle loro funzioni il criterio della imparzialità (art. 97 Cost.), ossia l’obbligo di applicare le leggi in modo eguale, senza arbitrarie differenziazioni di trattamento a favore o a danno dei singoli interessati (a questo significato va riportata la solenne affermazione che si legge nelle aule dei Tribunali: « La legge è uguale per tutti »). Nell’art. 3 Cost. è solennemente enunciato il principio di eguaglianza, che ha peraltro due profili: Eguaglianza a) il primo è di carattere formale (art. 3, comma 1) ed importa formale che « tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ». La norma fa [§ 8] L’ordinamento giuridico 17 esplicito riferimento ai soli « cittadini »; la Corte costituzionale ha però precisato che il principio di eguaglianza deve essere rispettato anche nei confronti degli stranieri, quanto meno per quanto riguarda i diritti fondamentali della persona. Si tratta di un vincolo rivolto anzitutto al legislatore ordinario, ed opera non già nel senso che tutte le norme di legge debbano sempre indirizzarsi in modo identico a tutti i cittadini (ne risulterebbe l’impossibilità di disciplinare in modo differenziato le variabili situazioni di fatto che si presentano nell’esperienza), bensì nel senso che l’individuazione delle « categorie » di soggetti cui ciascuna norma è destinata deve avvenire in modo non arbitrario, con criteri che evitino di trattare situazioni omogenee in modo differenziato, ovvero situazioni disomogenee in modo eguale. A parità di condizioni deve corrispondere un trattamento eguale ed a condizioni diverse un trattamento differenziato. Il controllo del rispetto del principio di eguaglianza è affidato alla Corte costituzionale (v. § 13), la quale può dichiarare l’illegittimità di una norma di legge quando ravvisi un’irragionevole o arbitraria differenziazione normativa di situazioni che, in realtà, siano omogenee, ovvero un’assimilazione di trattamento nei confronti di situazioni tra loro diverse. Il giudizio della Corte deve mantenersi su un piano di valutazione della legittimità delle soluzioni normative sottoposte al suo esame alla stregua del criterio della eguaglianza di trattamento (ad es.: è ammissibile concedere un diritto di recesso incondizionato al lavoratore subordinato e negarlo al datore di lavoro? È ammissibile trattare diversamente l’adulterio della moglie e quello del marito?), senza sconfinare in un sindacato dei criteri di politica legislativa con cui il legislatore ordinario decide discrezionalmente le soluzioni da dare ai vari problemi sui quali intende intervenire, essendo tali scelte rimesse, appunto, al potere legislativo; b) il secondo è di carattere sostanziale (art. 3, comma 2) ed Eguaglianza impegna la Repubblica a « rimuovere gli ostacoli di ordine economico sostanziale e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ». Si tratta di un’indicazione programmatica rivolta agli organi dello Stato, sollecitati ad assumere misure — normative, ma anche amministrative e di politica economica e sociale — idonee ad attenuare le differenze di fatto, economiche e sociali, che in concreto discriminano le condizioni di vita dei singoli. Quest’ultima norma ha valore fondamentale in quanto riassume i fondamentali obiettivi di promozione della società e dell’individuo 18 Nozioni preliminari [§ 9] ai quali la comunità deve dedicarsi attraverso l’azione degli organi di rappresentanza politica e di governo. § 9. L’equità. Abbiamo visto che la norma giuridica contiene, in genere, la previsione astratta di una situazione-tipo. Quando occorre risolvere una concreta controversia il giudice è tenuto a decidere applicando la norma precostituita che egli identifica come riferibile alla situazione sottoposta al suo esame (l’operazione di riconduzione del caso concreto a quello generale previsto da una norma giuridica si chiama sussunzione). In qualche ipotesi al giudicante è consentito decidere senza fare applicazione di una specifica norma oggettiva, bensì sulla base di criteri fondati sul contemperamento degli interessi contrapposti e sulla realizzazione di valori di giustizia condivisi dalla collettività sociale, che appaiano più adatti a regolare il caso concreto. Infatti può accadere che l’applicazione della norma legale ad un certo caso concreto dia luogo a conseguenze che urtano contro il sentimento di giustizia (si pensi a norme che impongono requisiti formali rigorosi, o il rispetto di termini di decadenza, e che in tal modo conducano ad un difetto di tutela delle ragioni di una delle parti). L’equità è stata, pertanto, sinteticamente definita come la Nozione di equità giustizia del caso singolo. Il ricorso all’equità quale criterio decisionale è però consentito solo in casi eccezionali. L’ordinamento giuridico sacrifica spesso la giustizia del caso singolo all’esigenza della certezza del diritto, in quanto ritiene pericoloso affidarsi alla valutazione soggettiva del giudice e preferisce che i singoli possano prevedere esattamente quali saranno le conseguenze dei loro comportamenti. Conseguentemente, la legge stabilisce che il giudice, nel decidere le controversie, « deve seguire le norme del diritto » (ossia quelle dell’ordinamento giuridico dello Stato), e può discostarsene soltanto nel caso in cui la stessa « legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità » (art. 113 c.p.c.), il che avviene nelle cause di minor valore, attribuite alla competenza del Giudice di Pace, ovvero qualora siano state le parti della controversia ad attribuire concordemente al giudice il potere di decidere secondo equità (art. 114 c.p.c.). In quest’ultimo caso l’autorizzazione delle parti è possibile se i diritti fatti valere si possano qualificare come “disponibili”. [§ 9] L’ordinamento giuridico 19 In tutte le altre ipotesi la norma dev’essere rigorosamente applicata, anche se conduca ad un risultato avvertito come “iniquo” (« summum ius, summa iniuria »). Anche nell’ipotesi eccezionale in cui è ammesso il ricorso all’equità, il giudice non può far prevalere le sue concezioni personali (cosiddetta equità cerebrina), ma deve ispirarsi a quelle accolte dall’ordinamento vigente e ricercare, pertanto, come si sarebbe comportato il legislatore se avesse potuto prevedere il caso. La Corte costituzionale ha precisato che anche il Giudice di Pace — in ossequio al principio di legalità — deve comunque fare riferimento nel motivare la propria decisione ai principi informatori della materia (Corte cost. 6 luglio 2004, n. 206), tra i quali sono senz’altro da considerare le norme di rango costituzionale e quelle di derivazione comunitaria (Cass., sez. un., 15 ottobre 1999, n. 716). Dall’equità come criterio decisorio va distinta l’equità cd. « in- Equità tegrativa », espressione che si riferisce ai casi in cui la legge prevede integrativa che il giudice provveda ad integrare o determinare « secondo equità » gli elementi di una fattispecie (per esempio nel caso di liquidazione « equitativa » di un danno difficile da quantificare nel suo esatto ammontare), o anche di un regolamento contrattuale predisposto dalle parti (cfr. artt. 1371 e 1374 c.c.). CAPITOLO II IL DIRITTO PRIVATO E LE SUE FONTI § 10. Diritto pubblico e diritto privato. Una distinzione tradizionale è quella tra diritto pubblico e diritto privato. Il diritto pubblico disciplina l’organizzazione dello Stato e degli Diritto pubblico altri enti pubblici, regola la loro azione nell’interesse della collettività ed impone ai singoli il comportamento cui sono tenuti per rispettare la vita associata. Esso attiene in gran parte all’esplicazione di pubblici poteri: individua gli organi competenti ad esercitarli, le modalità del loro esercizio, la posizione e le tutele dei privati di fronte ad atti di esercizio di poteri pubblici, e si articola nelle varie branche del diritto costituzionale, amministrativo (che regola organizzazione, attività e procedimenti della Pubblica Amministrazione), penale, tributario, ecc. Il diritto privato, invece, disciplina le relazioni interindividuali, Diritto privato sia dei singoli che degli enti privati (es. le associazioni o le società commerciali), lasciando alla iniziativa personale anche l’attuazione delle singole norme e l’esercizio dei diritti attribuiti agli individui. Anche il diritto privato è innanzi tutto diritto, cioè parte dell’ordinamento, complesso di norme dettate cercando di avere presenti gli interessi di tutta la società, che vengono realizzati attraverso una certa disciplina dei rapporti tra i privati; ma si tratta di disposizioni in base alle quali il singolo, individuo o ente, non si viene a trovare in situazioni di soggezione di fronte ad un potere pubblico, dotato di strumenti di supremazia, bensì opera su un piano di eguaglianza con gli altri individui. La linea di demarcazione tra diritto pubblico e diritto privato è Un confine incerto però variabile: lo Stato può avocare a sé la realizzazione di funzioni un tempo lasciate ai privati (ad es. la scuola, gli ospedali), e viceversa; può sanzionare penalmente comportamenti un tempo considerati di mero interesse privato (ad es. ponendo taluni nuovi limiti all’azione delle imprese o dettando norme per la protezione dei lavoratori) e viceversa; ovvero può rinunciare ad organizzare in [§ 10] Il diritto privato e le sue fonti 21 forma pubblica determinati tipi di attività, restituendoli all’iniziativa privata, preferendosi, anche in settori un tempo ritenuti « strategici », promuovere e regolare le imprese private, piuttosto che far svolgere tali attività da soggetti pubblici (si pensi alle recenti « privatizzazioni » in materia di telecomunicazioni o di produzione e distribuzione dell’energia). Ma la contrapposizione, oltre che variabile, è anche per larga misura incerta: enti pubblici (ad es. talune banche e compagnie di assicurazioni) possono svolgere, e soprattutto fino a tempi recenti svolgevano largamente, attività di diritto privato in concorrenza con aziende private (fenomeno che, da ultimo, si tende a far cessare); per altro verso soggetti privati possono essere concessionari di servizi pubblici (ad es. ferrovie o trasporti stradali) ed essere perciò dotati di taluni poteri pubblicistici; lo Stato o altri enti pubblici possono avere il controllo di società di diritto privato in qualità di azionisti di maggioranza. Non tutto ciò che riguarda soggetti pubblici, beni pubblici, Attività di attività pubbliche, dunque, appartiene per ciò solo al diritto pub- diritto privato degli blico: infatti i soggetti pubblici possono operare anche iure privato- enti pubblici rum (ad es. una Università statale stipula un contratto di locazione di diritto privato per assicurarsi la disponibilità di maggiori spazi); sui beni pubblici possono talvolta costituirsi rapporti di diritto privato (un Comune può concedere a privati l’uso saltuario o continuativo di una propria sala); gli enti pubblici talora perseguono finalità o svolgono servizi di pubblico interesse (per es.: trasporti, erogazione di energia, raccolta dei rifiuti) per il tramite di società per azioni di diritto privato, sia con la partecipazione di altri enti pubblici, sia unitamente a soggetti privati (c.d. società « miste »). Si aggiunga che, spesso, un medesimo fatto è disciplinato sia da norme di diritto privato che da norme di diritto pubblico: l’investimento di un pedone da parte di un automobilista fa scattare sia la sanzione penale per lesioni colpose (art. 590 c.p.), sia quella amministrativa (es.: sospensione della patente di guida), sia la sanzione civile del risarcimento del danno (art. 2043 c.c.); la costruzione illegittima di un fabbricato può violare sia il piano regolatore comunale che il diritto del singolo frontista all’osservanza delle distanze legali (artt. 872 e 873 c.c.); il mancato pagamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro a favore del singolo prestatore d’opera viola tanto la disciplina privatistica del rapporto di lavoro quanto un obbligo di carattere pubblicistico, e via dicendo. Di fronte a questa situazione la tradizionale bipartizione (publicum ius est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad Nozioni preliminari 22 [§ 11] singulorum utilitatem) appare evanescente e va conservata soprattutto in via orientativa e quale criterio di massima, mentre assume sempre più rilievo un diverso modo di considerazione della realtà giuridica, che pone quale canone per distinzione tra i vari tipi di norme la rilevanza degli interessi in gioco. § 11. Norme derogabili, inderogabili, suppletive Distinzione tra norme cogenti e norme derogabili. Le norme di diritto privato si distinguono in derogabili (o dispositive) e inderogabili (o cogenti): si dicono inderogabili o cogenti quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli; derogabili o dispositive le norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati. Si usa poi individuare un’ulteriore categoria di norme, quelle suppletive, le quali sono destinate a trovare applicazione solo quando i soggetti privati non abbiano provveduto a disciplinare un determinato aspetto dei rapporti tra loro: una lacuna cui la legge sopperisce intervenendo a disciplinare ciò che i privati hanno lasciato privo di regolamentazione. Così, ad esempio, l’art. 1193, comma 1, c.c. attribuisce al debitore, che abbia più debiti nei confronti del creditore, la facoltà di dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare. Qualora ciò non faccia, interviene in via suppletiva la legge, che con l’art. 1193, comma 2, dispone a quale dei debiti deve essere imputato il pagamento eseguito dal debitore (altri esempi di norme suppletive possono ravvisarsi, fra i molti, negli artt. 1100, 1182, 1183, 1271, 1272 c.c.). Naturalmente anche l’osservanza delle norme privatistiche inderogabili richiede, in caso di violazione, l’iniziativa del singolo il cui diritto soggettivo sia stato leso, non essendo compito degli organi pubblici far rispettare norme di diritto privato realizzando gli interessi dei singoli: così, ad es., qualora un lavoratore subordinato abbia previamente rinunciato all’aumento di retribuzione per le ore di lavoro straordinario, la rinuncia non è valida, poiché tale aumento gli è dovuto in forza di norma cogente (art. 2108 c.c.); tuttavia soltanto l’interessato resta arbitro di decidere se denunciare l’invalidità dell’accordo e pretendere la maggior retribuzione che gli è garantita dalla legge, ovvero se accontentarsi di quanto pattuito: ed in questa scelta nessun organo pubblico può intervenire sostituendosi al privato nell’esercizio dei suoi diritti. Altra questione, invece, è l’eventuale azione dell’ente pubblico previdenziale per il pagamento di contributi evasi dal datore di lavoro. [§ 12] Il diritto privato e le sue fonti 23 Con la norma dispositiva il legislatore, ai fini della certezza del Funzione norme diritto, pone un criterio di disciplina nel caso in cui la volontà dei delle dispositive singoli non si è manifestata, ossia enuncia una regola corrispondente ad un modello abituale di regolamentazione di quel tipo di operazione economica, che tuttavia le parti possono, con una loro espressa manifestazione di volontà, rendere inoperante rispetto alla disciplina del loro rapporto (per esempio, l’art. 1815 c.c. stabilisce che, se le parti non hanno convenuto diversamente, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante: infatti è corrispondente al normale atteggiarsi degli interessi delle parti di un rapporto di mutuo il fatto che colui che riceve il prestito lo remuneri, pagando degli interessi, ma le parti possono escludere, con un contrario atto di volontà, l’operatività di tale regola e pattuire un mutuo gratuito). Il carattere cogente di una norma risulta spesso direttamente Individuaziodelle dalla sua formulazione (es. art. 147 c.c.: « il matrimonio impone ad ne norme ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere cogenti moralmente i figli »), oppure dalla previsione della nullità dell’atto compiuto in violazione di una norma (es. l’art. 1350 c.c. impone a pena di nullità che gli atti di trasferimento della proprietà di beni immobili siano fatti per iscritto) o in contrasto con specifici limiti alla libertà dei privati di regolare i loro rapporti (es. art. 1229 c.c.: « è nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave »). Correlativamente, indici testuali del carattere derogabile possono essere le espressioni « salvo diversa volontà delle parti » (art. 1815 c.c.), « salvo che il titolo disponga altrimenti » (art. 957 c.c.), e simili. Non sempre soccorrono elementi letterali sufficientemente precisi, e allora per stabilire se una norma sia imperativa o dispositiva bisogna indagare quale sia lo spirito della norma o, come anche si dice, la volontà del legislatore, secondo le regole che saranno esaminate allorché si tratterà dell’interpretazione della legge (v. § 24). § 12. Fonti delle norme giuridiche. Per « fonti » legali di « produzione » delle norme giuridiche si Fonti di e intendono gli atti e i fatti idonei a produrre diritto. Consistono in atti produzione fonti di quelle fonti che si manifestano in esplicazioni dell’attività di un cognizione determinato organo o autorità muniti del potere di produrre norme (es.: una legge del parlamento; un decreto di un sovrano assoluto ecc.); ma la norma può anche nascere da un semplice fatto, come per 24 Nozioni preliminari [§ 12] esempio una consuetudine affermatasi nel tempo come regola giuridica di condotta nell’ambito di una determinata comunità (§ 17). Dalle fonti di produzione si distinguono le fonti di « cognizione », ossia i documenti e le pubblicazioni ufficiali da cui si può prendere conoscenza (quando si tratti di fonti che consistono in « atti ») del testo di un atto normativo (ad es. Gazzetta Ufficiale). Rispetto a ciascuna fonte, quando si tratti di un « atto », si può individuare: a) l’organo investito del potere di emanarlo (il Parlamento, il Governo); b) il procedimento formativo dell’atto (ad es. il procedimento di emanazione di una legge costituzionale, ovvero ordinaria statale, ovvero regionale); c) il documento normativo (la legge, considerata nel suo testo); d) i precetti ricavabili dal documento (determinando, tramite « l’interpretazione » del testo, il suo « significato »). È chiaro che ogni ordinamento deve anzitutto stabilire le norme Individuazione delle fonti sulla produzione giuridica, ossia a quali autorità, a quali organi, e con e gerarchia quali procedure sia affidato il potere di emanare norme giuridiche, e con quali valori gerarchici. Spesso, infatti, un ordinamento contempla una pluralità di fonti generatrici di norme giuridiche; pertanto si rende indispensabile regolarne il rapporto gerarchico, ossia precisare, nel caso in cui due o più fonti diverse stabiliscano regole tra loro contrastanti, quale debba prevalere. La gerarchia delle fonti esprime perciò una regola sulla produzione giuridica che identifica la norma applicabile in caso di contrasto tra norme provenienti da fonti diverse. Nel nostro Paese la gerarchia delle fonti è stata interessata, a partire dalla metà del ’900, da profondi mutamenti, connotati negli anni più recenti soprattutto dall’affermarsi di fonti di produzione del diritto non statali: gli organi sovranazionali delle istituzioni europee, da un lato, ed enti infrastatuali, come le regioni, dall’altro lato. Conviene, per ordine, ricordare anzitutto il regime delineato dal L’evoluzione della codice civile. L’art. 1 delle « Disposizioni sulla legge in generale » o gerarchia delle fonti « preleggi », anteposte al codice civile (emanato nel 1942: § 18), ordinava le fonti ponendo al primo posto la legge, al secondo i regolamenti, al terzo le norme corporative, e all’ultimo gli usi. Con la caduta del fascismo le norme corporative hanno perduto efficacia; le altre fonti enumerate dall’art. 1 disp. prel. c.c. hanno invece conservato il loro valore secondo l’ordine gerarchico dettato dalla citata disposizione; ma a quell’elenco nel dopoguerra si sono aggiunte altre importanti fonti del diritto: prima fra tutte la Costituzione, entrata in vigore nel 1948 (la Costituzione venne approvata da un’Assemblea costituente, eletta successivamente al referendum celebrato subito Il diritto privato e le sue fonti [§ 13] 25 dopo la fine della seconda guerra mondiale, che assegnò allo Stato la forma repubblicana in luogo di quella monarchica). Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana la gerarchia delle fonti « interne » è risultata così ricostruita: a) alla sommità della scala si collocano princìpi definiti « supremi » o « fondamentali », da cui discendono diritti « inviolabili » (v. art. 2 Cost.), cosicché queste norme appaiono secondo una diffusa concezione insuscettibili di modifica o revisione (la modificazione dei principi fondamentali implicherebbe l’istituzione di un ordinamento diverso, di una nuova organizzazione della società secondo diversi valori); b) seguono le disposizioni della Carta costituzionale e delle leggi di rango costituzionale; c) vengono poi le leggi statali ordinarie e le altre fonti di cui all’art. 1 delle preleggi. Nella descritta scala gerarchica si sono poi inserite, determinandone ulteriori articolazioni, le leggi regionali (il cui ruolo è stato di recente ulteriormente accentuato, per effetto di un intervento di revisione della Costituzione) e le norme di matrice comunitaria. La complessità raggiunta dal sistema delle fonti impone una sua illustrazione analitica. § 13. a) La Costituzione e le leggi di rango costituzionale. In questa sede interessa trattare della Costituzione soltanto sotto il profilo della sua rilevanza nel sistema delle fonti del diritto. Anzitutto la Costituzione assolve la funzione di fondamentale La norma sulla produzione giuridica. Essa stabilisce, regolando il proce- Costituzione come norma dimento di formazione delle leggi, la disciplina degli atti normativi. sulla Le disposizioni costituzionali si integrano, poi, con l’art. 1 disp. prel. produzione giuridica c.c., già ricordato, che pone la gerarchia delle ulteriori fonti (regolamenti e consuetudini), e con l’art. 2 disp. prel. c.c., il quale precisa che la formazione delle leggi e degli atti del Governo aventi forza di legge « sono disciplinate da leggi di carattere costituzionale »; disposizioni che non sono state abrogate con l’entrata in vigore della Costituzione, anche se l’art. 1 citato ha perduto la funzione fondamentale di regola esclusiva sulla gerarchia delle fonti che rivestiva nel sistema vigente fino al 1948. La Costituzione italiana non disciplina soltanto il procedimento I princìpi di elaborazione delle leggi, ma pone altresì regole e princìpi che si costituzionali atteggiano a limiti sostanziali all’attività del legislatore. Si vedano per esempio, oltre al già ricordato principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) (§ 8) le norme che prevedono i fondamentali diritti e doveri dei 26 Nozioni preliminari [§ 13] cittadini (sancendo per esempio l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio; la libertà di circolazione, di associazione, di professione della fede religiosa, di manifestazione del pensiero; il diritto di agire in giudizio; la tutela della proprietà e della libertà di iniziativa economica; la tutela della famiglia e dei figli e via dicendo): una legge ordinaria che violasse questi diritti sarebbe illegittima. Si ritiene anzi, come accennato in precedenza, che i « princìpi supremi » enunciati dalla Costituzione costituiscano limiti allo stesso potere del legislatore costituzionale, in quanto non sarebbero suscettibili di revisione (un divieto espresso di revisione è invece previsto soltanto per la « forma repubblicana » dello Stato: art. 139 Cost.). Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali — che hanno lo stesso valore gerarchico della Costituzione e sono perciò sovraordinate alle altre fonti — devono essere approvate con un’apposita procedura, più complessa di quella prevista per le leggi ordinarie, regolata dall’art. 138 Cost. La Costituzione italiana è rigida, in quanto una legge ordinaria La Corte cost. dello Stato non può né modificare la Costituzione o altra legge di rango costituzionale, né contenere disposizioni in qualsiasi modo in contrasto con norme costituzionali. A presidio di questa rigidità della nostra Carta costituzionale (a differenza dello Statuto albertino del 1848, che era una costituzione flessibile) è stato istituito un apposito organo, la Corte costituzionale, cui è affidato il compito di stabilire se disposizioni di una legge ordinaria (o di altri atti « aventi forza di legge ») siano in conflitto con norme costituzionali (art. 134 Cost.). Il controllo di legittimità costituzionale delle leggi è previsto nella forma del controllo « incidentale »: se un giudice, chiamato a decidere una specifica controversia, ritiene di dover applicare ai fini della decisione una determinata norma di legge, e quella norma gli appare di sospetta incostituzionalità, deve rimettere gli atti del processo alla Corte costituzionale, affinché decida al riguardo. È anche previsto un giudizio di costituzionalità in via « principale », che può essere promosso dal Governo, contro le leggi regionali che eccedano la competenza legislativa delle Regioni, o da una Regione contro le leggi dello Stato o di un’altra Regione che ledano la sua sfera di competenza (art. 127 Cost., come modificato dalla L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3). Non è invece consentito a singoli privati rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale per denunziare l’illegittimità di una legge. Se la Corte ritiene illegittima la norma sottoposta al suo esame, dichiara con sentenza l’incostituzionalità della o delle disposizioni viziate, che cessano « di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione » (art. 136 Cost.). Il diritto privato e le sue fonti [§ 14] 27 Alle fonti di rango costituzionale appartengono anche le norme Il ruolo del del diritto internazionale consuetudinario, il cui fondamento risiede diritto internazionell’art. 10 Cost., ove è stabilito che “l’ordinamento giuridico italiano nale si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Da tale disposizione discende che le norme di ambito internazionale formatesi in seguito ad uno ossequio spontaneo da parte delle Nazioni non solo entrano a far parte dell’ordinamento senza la necessità di una legge di ratifica da parte del Parlamento, ma altresì godono della medesima forza vincolante della Carta costituzionale, onde non possono essere modificate o contraddette da una legge ordinaria. Così, ad esempio, costituisce un principio internazionale generalmente riconosciuto quello secondo cui uno Stato estero non può essere convenuto in giudizio innanzi all’autorità giudiziaria dello Stato ospitante per motivi inerenti agli scopi istituzionali, a meno che non venga in rilievo la lesione di un diritto inviolabile della persona umana, come può essere la commissione di crimini internazionali (Cass., sez. un., Ord., 29 maggio 2008, n. 14201). Vi è da precisare tuttavia che la stessa posizione gerarchica nel quadro delle fonti non è riconosciuta al diritto internazionale convenzionale. Quest’ultimo ha la propria base nella legge che autorizza alla ratifica, la quale ha la medesima forza vincolante di tutte le altri leggi ordinarie. § 14. b) Le leggi dello Stato e le leggi regionali. Le leggi statali ordinarie sono approvate dal Parlamento con una procedura dettagliatamente disciplinata dalla Carta costituzionale (artt. 70 ss.: approvazione di un identico testo da parte di entrambe le Camere, promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale). La legge ordinaria può modificare o abrogare qualsiasi norma La legge non avente valore di legge, mentre non può essere modificata o ordinaria abrogata se non da una legge successiva (art. 15 disp. prel. c.c.). Vi sono materie (ad es. art. 25, comma 2, Cost.) che non possono essere regolate se non mediante leggi (c.d. « riserva di legge »), e dunque non possono essere disciplinate da fonti normative di rango inferiore (come per esempio i regolamenti, su cui infra). Alle leggi statali sono equiparati i decreti legislativi delegati e i decreti legge di urgenza. Si tratta di provvedimenti aventi forza di legge emanati dal Governo e non dal Parlamento: ciò può avvenire o in virtù di una legge di delega del Parlamento, che deve specificare l’oggetto della delega e i principi e criteri direttivi ai quali il Governo 28 Nozioni preliminari [§ 14] deve attenersi (art. 76 Cost.; in tale ipotesi si impone il rispetto dei limiti della delega, altrimenti il decreto legislativo risulta incostituzionale per c.d. « eccesso di delega »); oppure in presenza di « casi straordinari di necessità e urgenza », ma è in tal caso necessario che il decreto-legge del Governo venga convertito in legge dal Parlamento entro sessanta giorni, altrimenti perde efficacia sin dall’inizio (art. 77 Cost.). La legge ordinaria può essere abrogata con referendum popolare (art. 75 Cost.). Il ruolo delle leggi regionali e il rapporto di queste con quelle La legislazione statali sono stati, come si è anticipato, di recente profondamente regionale innovati. L’art. 117 della Carta costituzionale approvata nel 1948 conferiva alle regioni un potere legislativo nell’ambito di un insieme determinato di materie e, comunque, ponendo il diritto di fonte regionale in posizione sottordinata rispetto a quello dello Stato. La L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, ha modificato l’intero Titolo V Il nuovo rapporto tra Cost. (dedicato a « Le Regioni, le Provincie, i Comuni »). In particolegislazione statale e lare, per quanto interessa in questa sede, il vigente testo dell’art. 117 regionale regola i rapporti tra leggi dello Stato e leggi regionali anzitutto definendo le rispettive competenze: lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in un insieme di materie enumerate dall’art. 117 (tra le quali, è interessante osservare, rientrano: « giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa », ancorché non sia fino in fondo chiaro il significato dell’espressione « ordinamento civile » e dunque quale sia l’estensione dell’àmbito di competenza riservata allo Stato in materia di diritto civile; la L. cost. 20 aprile 2012, n. 1 ha aggiunto a tali materie la competenza concernente o finalizzata alla «l’armonizzazione dei bilanci pubblici»); esistono poi « materie di legislazione concorrente » tra Stato e regione (elencate dall’art. 117, comma 3, Cost.): in tali materie la potestà legislativa spetta alle Regioni, compete però alla legislazione dello Stato la determinazione dei « princìpi fondamentali »; infine, è attribuita alle Regioni la potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Dunque oggi il criterio fondamentale cui si ispirano i rapporti tra legge statale e regionale non è più quello della gerarchia, bensì quello della competenza, in quanto sono stabiliti distinti àmbiti di operatività, rispettivamente, della legislazione statale e regionale; il principio di gerarchia torna ad operare nelle materie di legislazione concorrente, poiché in tal caso allo Stato spetta la funzione di stabilire i « princìpi fondamentali », ai quali, dunque la legge regionale si deve attenere. [§ 15] Il diritto privato e le sue fonti § 15. 29 c) I regolamenti. Subordinate alle leggi vi sono altre fonti di diritto: l’art. 1 delle preleggi menziona « i regolamenti », « le norme corporative » (oggi non più attuali, dopo la dissoluzione del sistema corporativo fascista) e « gli usi » (o consuetudini: v. infra, § 17). I regolamenti sono fonti « secondarie », sottordinate alla legge, e possono essere emanate dal Governo, dai ministri e da altre autorità amministrative, anche non statali, come le c.d. « autorità indipendenti » (ormai numerose: si pensi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, alla Consob, all’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas e via dicendo), nell’ambito di apposite prescrizioni di legge (art. 3 disp. prel. c.c.). Essi hanno contenuto normativo, in quanto pongono norme generali ed astratte — ma provengono dall’autorità amministrativa, non dal potere legislativo — e possono riguardare le materie più varie. I regolamenti, per esempio, disciplinano l’organizzazione e il funzionamento dei pubblici uffici, o anche degli organi costituzionali (per es. i regolamenti parlamentari, i quali peraltro hanno rango di norme primarie), ovvero regolano specifiche materie in forza di una « delega » o « autorizzazione » contenuta in una legge, che può fare rinvio, per completare la disciplina, a successivi regolamenti (nell’ambito del diritto privato assumono rilievo i regolamenti della Consob in materia di disciplina dei mercati finanziari o quelli della Banca d’Italia in materia di attività bancaria e creditizia). Come ribadito espressamente dall’art. 4, co. 1 delle preleggi, « i Disapplicae regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni zione annullamento di legge ». Qualora dunque un giudice rilevi l’esistenza di un contra- del sto tra norma regolamentare e norma di legge, egli è tenuto a regolamento disapplicare la prima: vale a dire che non ne terrà conto per decidere la controversia sottoposta al suo esame, la quale sarà risolta in base alla norma contenuta nella legge. Per questa ragione la Corte costituzionale ha escluso il proprio controllo di legittimità sui regolamenti, potendo riguardare quest’ultimo soltanto la legge e gli atti aventi forza di legge. Quando un regolamento sia impugnato davanti ad un giudice amministrativo (ossia ad un organo giurisdizionale che ha il potere di decidere della legittimità degli atti della Pubblica Amministrazione: Tribunale Amministrativo Regionale — TAR o Consiglio di Stato), quest’ultimo, a differenza del giudice civile, ha il potere di provvedere con sentenza all’annullamento del regolamento contrario alla legge. La differenza tra l’annullamento e la disapplicazione consiste in questo: se il regolamento è annullato la sua efficacia viene rimossa, ed esso non è più applicabile neppure rispetto a casi 30 Nozioni preliminari [§ 16] concreti diversi da quello che ha dato origine all’impugnazione; invece la disapplicazione opera solo nell’ambito di quello specifico processo, ma il regolamento rimane in vigore, e potrebbe essere applicato in altri casi, se per esempio un altro giudice, interpretando diversamente il regolamento e la legge, non ravvisasse un’incompatibilità tra le due fonti. § 16. d) Le fonti comunitarie. Fin qui si è illustrato il nuovo ordine delle fonti « interne ». Peraltro ha acquistato valore prevalente rispetto alle stesse leggi ordinarie statali tutta la normativa comunitaria. Come già messo in evidenza (v. § 3) l’ingresso dell’Italia prima Fondamento costituzionale nelle Comunità Europee e poi nell’Unione Europea è avvenuta dell’efficacia delle norme mediante l’adesione a trattati internazionali, che attualmente si comunitarie identificano con il Trattato sull’Unione Europea, il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza). In riferimento all’ordinamento europeo essi costituiscono le cc.dd. fonti originarie del diritto comunitario, nelle quali sono contenute anche le “norme di produzione” concernenti le fonti derivate. È opportuno precisare che sebbene i trattati originari e le versioni successive (sino al Trattato di Lisbona) siano state recepite nell’ordinamento interno non con leggi costituzionali, bensì con leggi ordinarie di autorizzazione alla ratifica, la valenza costituzionale dei Trattati viene affermata sulla base del disposto dell’art. 11 Cost., alla stregua del quale sono ammissibili limitazioni della sovranità nazionale per consentire la partecipazione del nostro paese ad organizzazioni internazionali. È sulla base di tale principio che è possibile affermare, da una parte, l’equiparazione dei Trattati alla Carta costituzionale — fatti salvi il rispetto dei principi supremi e dei diritti inviolabili stabiliti dalla Costituzione (Corte cost. 21 aprile 1989, n. 232) — dall’altra la “prevalenza” di tutto il diritto comunitario (e non solo dei Trattati) sulle fonti interne di rango ordinario. Il principio è ora più esplicitamente affermato dall’art. 117, comma 1, Cost., come modificato dalla L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, a norma del quale « La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali ». [§ 16] Il diritto privato e le sue fonti 31 Di recente, la CGUE ha ribadito che gli organi nazionali di ultima istanza sono chiamati a fare « tutto il necessario » non solo affinché venga applicato il diritto di fonte comunitaria (nel caso disapplicando anche il diritto di rango nazionale), ma anche affinché venga applicata l’interpretazione che di tale diritto viene fornita dalla Corte di Giustizia (CGUE, 5 aprile 2016, c-689/13). Le fonti derivate di matrice comunitaria sono i regolamenti, le direttive e le decisioni: a) i regolamenti (art. 288, comma 2, del Trattato sul funziona- Regolamenti mento dell’Unione Europea, detto anche per brevità TFUE) sono atti di portata generale e obbligatori in tutti i loro elementi. Essi contengono norme applicabili dai giudici dei singoli Stati membri, come se fossero leggi dello Stato, senza bisogno di recepimento. Prima la Corte di giustizia e poi la nostra Corte costituzionale (sent. 18 giugno 1984, n. 170) hanno chiarito che, nel caso di contrasto tra un regolamento e una legge interna, il giudice italiano deve « disapplicare » la norma interna e applicare, con prevalenza, la norma regolamentare (e ciò anche se la norma interna sia posteriore a quella regolamentare, il che pone quest’ultima in posizione gerarchica superiore a quella della legge ordinaria dello Stato); b) le direttive (art. 288, comma 3, del TFUE) si rivolgono agli Direttive organi legislativi degli Stati membri ed hanno lo scopo di armonizzare le legislazioni interne dei singoli Paesi; a differenza dei regolamenti, le direttive non sono immediatamente efficaci nell’ordinamento dei singoli Stati, ma devono essere « attuate » mediante l’emanazione di apposite leggi dei rispettivi Parlamenti (leggi di « recepimento » della direttiva). Per esempio la disciplina « Dei contratti del consumatore » venne introdotta nel nostro ordinamento in attuazione della Direttiva 93/13/CE, il cui scopo era appunto quello di far sì che tutti gli Stati membri assicurassero un omogeneo livello di protezione dei consumatori contro le clausole contrattuali « vessatorie » o « abusive » (v. § 358). Uno Stato che si renda inadempiente all’obbligo di attuare una direttiva entro il termine previsto dalla stessa può essere sanzionato dagli organi comunitari. Inoltre, benché una direttiva, se ancora non attuata, non possa Efficacia fondare diritti tra privati e non possa pertanto essere applicata da un della direttiva non Giudice italiano per risolvere una controversia tra singoli individui, si attuata ritiene che, qualora le norme della direttiva siano sufficientemente specifiche e sia scaduto il termine per la sua attuazione, gli organi della Pubblica Amministrazione vi si debbano uniformare, anche in assenza di un’apposita legge di recepimento. Pertanto i privati possono pretendere che gli apparati pubblici orientino la loro con- 32 Nozioni preliminari [§ 16] dotta in modo coerente con le disposizioni della direttiva, in quanto la stessa è vincolante per lo Stato. Infine un cittadino che abbia subito un danno a causa del mancato o tardivo recepimento della direttiva — ciò che può avvenire quando la direttiva sia volta ad attribuire specifici diritti al privato, che tuttavia in concreto non li ha acquisiti a causa appunto dell’omesso recepimento nell’ordinamento interno — può chiedere il risarcimento allo Stato (C. Giust., 19 novembre 1991, C-6/90 e C9/90; Cass., sez. un., 17 aprile 2009, n. 9147); c) le decisioni (art. 288, comma 4, del Trattato FUE) discipliLe decisioni nano normalmente situazioni ben definite, e sono vincolanti soltanto per i soggetti destinatari specificamente individuati: persone fisiche o giuridiche, oppure Stati membri. Questo tipo di atto è adottato frequentemente dalla Commissione nell’ambito della concorrenza. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le decisioni possono essere anche di portata generale, come accade per quelle decisioni di carattere organizzativo e per quelle in materia di politica estera e sicurezza comune. La Corte di giustizia dell’Unione europea (alla quale è affiancato La Corte di giustizia anche un Tribunale), ha competenza, ai sensi dell’art. 267 TFUE, in tema di interpretazione dei trattati, nonché di validità e interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione. Infatti, qualora un giudice nazionale ritenga che la questione su cui debba decidere comporti l’applicazione di una norma comunitaria, il cui significato sia dubbio, può sospendere il giudizio e chiedere alla Corte di giustizia in via pregiudiziale un’interpretazione della norma. Le sentenze interpretative così emesse dalla Corte sono vincolanti, nel senso che prevalgono pure sulle norme di legge incompatibili, determinandone la disapplicazione. Per consentire una tempestiva attuazione delle direttive è stato La « legge comunitaria » elaborato lo strumento della « legge comunitaria », ossia una legge generale, approvata anno per anno, con la quale il Parlamento delega al Governo l’emanazione dei decreti legislativi di attuazione di un insieme di direttive, delle quali sia in scadenza il termine di attuazione. Ciò permette di dare attuazione alle direttive senza passare attraverso il complesso iter parlamentare di approvazione delle leggi. Il procedimento è stato più analiticamente regolato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 234, recante « Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea », la quale prevede che entro il 28 febbraio di ogni anno il Governo presenti una « legge di delegazione europea », alla quale ne può seguire un’altra, entro il 31 luglio, relativa al [§ 17] Il diritto privato e le sue fonti 33 secondo semestre dell’anno. Inoltre è previsto un ulteriore strumento, la « legge europea », per dare attuazione agli atti europei e ai trattati internazionali stipulati nell’ambito delle relazioni esterne dell’Unione. § 17. e) La consuetudine. La nostra tradizione giuridica è dominata dalla distinzione fra due modi tipici di produzione del diritto: la consuetudine e la legge; non vi è società organizzata in cui questi due momenti della produzione giuridica non siano, in misura maggiore o minore, presenti. Il diritto consuetudinario di regola riceve scarsa attenzione. Fonti formali fonte Questo atteggiamento è parzialmente giustificato dall’importanza econsuetudel tutto secondaria e residuale che la consuetudine riveste nell’am- dinaria bito degli ordinamenti contemporanei, i quali, per ragioni di certezza del diritto e per la crescente complessità del sistema normativo, privilegiano senz’altro le fonti scritte. Tuttavia, a parte l’indiscussa importanza storica della fonte consuetudinaria, anche nel diritto contemporaneo vi sono settori nei quali la consuetudine ha mantenuto un ruolo di rilievo. Si ritiene che una consuetudine (nel linguaggio del codice civile Elementi ciò che in dottrina si usa chiamare « consuetudine » assume il nome di dell’uso normativo « uso ») sussista quando ricorrono: 1) la ripetizione, generale e costante in un determinato ambiente (tutti i commercianti, tutti i locatori, ecc.), per un tempo adeguatamente protratto, di un certo comportamento osservabile come regola di condotta tra i privati (è questo l’elemento c.d. materiale o oggettivo della consuetudine, comunemente denominato usus); 2) un atteggiamento di osservanza di quel comportamento in quanto ritenuto, nell’ambiente sociale considerato, doveroso (c.d. opinio iuris ac (seu) necessitatis) e non semplicemente conforme a prassi. Quest’ultimo profilo esprime appunto la concezione di « giuridicità » della consuetudine, in quanto l’uso viene recepito all’interno di una determinata collettività di individui come fonte di regole giuridiche, come tali coercitive. In ciò consiste la differenza rispetto alle abitudini o ai costumi meramente sociali, che si traducono in regole sociali dell’agire individuale, le quali però non costituiscono fonte di diritti in capo a taluni soggetti nei confronti di altri e la cui inosservanza non concreta violazione di precetti giuridicamente sanzionati. 34 Nozioni preliminari [§ 17] L’uso normativo, invece, è norma giuridica che costituisce fonte di diritti tra i privati, sicché il singolo che lamenti la lesione di un proprio diritto, derivante da una fonte consuetudinaria, potrà rivolgersi al giudice per ottenere gli opportuni provvedimenti di tutela di quel diritto. Valore della La consuetudine non è prevista e disciplinata dalla Costituconsuetudine zione. Essa costituisce fonte del diritto in virtù dell’art. 1 disp. prel. c.c.: dunque in virtù di una disposizione di rango legislativo. Ne segue che la consuetudine è fonte strutturalmente subordinata alla legge e può operare solo nei limiti in cui la legge lo consente. InammissibiCiò vale di per sé ad escludere l’ammissibilità della consuetudine lità della cosiddetta contra legem, come pure della desuetudine. Se ne trova consuetudine contra legem conferma nell’art. 15 disp. prel. c.c., il quale dispone che « le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori ». Sicché è escluso, in linea di principio, che una legge possa essere abrogata mediante desuetudine, ossia in forza di una consuetudine in contrasto con la legge stessa. Consuetudine L’art. 8, comma 1, disp. prel. c.c. stabilisce che « nelle materie secundum regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in legem quanto sono da essi richiamati ». Si dicono perciò consuetudini secundum legem quelle che operano « in accordo » con la legge in quanto ad esse la legge fa rinvio (sono infatti numerose le norme del codice che, per la regolamentazione di determinati rapporti, rimandano espressamente agli usi eventualmente esistenti in materia: con riferimento alla vendita, per esempio, si vedano gli artt. 1492, 1497, 1510, 1512, 1517, 1520, 1521, 1522, 1527, 1528, 1535 c.c.). Talora gli usi sono richiamati quali fonti di norme derogatorie rispetto alla disciplina codicistica: in quest’ultima ipotesi la legge reca una norma dispositiva, applicabile « salvo uso contrario » (es.: art. 1187 c.c.). Per ciò che concerne le (rare) materie o fattispecie non discipliConsuetudine praeter legem nate in alcun modo da fonti scritte — le materie cioè per le quali il diritto scritto è totalmente lacunoso — nulla è espressamente disposto. Argomentando a contrario dalla disposizione in esame (art. 8 disp. prel. c.c.), i più ritengono che in queste materie sia consentito ricorrere alla consuetudine onde colmare le lacune del diritto. La consuetudine non richiamata da fonti scritte, ma potenzialmente rilevante come fonte integrativa della disciplina posta dalle fonti scritte, è comunemente detta « consuetudine praeter legem ». D’altro canto si deve osservare che l’art. 12, comma 2, disp. prel. c.c. prevede espressamente, quali tecniche di integrazione del diritto lacunoso, l’analogia e il ricorso ai princìpi generali del diritto (§ 26), non menzionando affatto la consuetudine. Sicché il ruolo della [§ 18] Il diritto privato e le sue fonti 35 consuetudine praeter legem non può che essere estremamente ridotto. Sulla base della disposizione menzionata, si può sostenere che il ricorso a norme consuetudinarie sia consentito solo quando il caso in esame non possa essere deciso mediante analogia, e neppure ricada sotto alcun principio generale. Il diritto consuetudinario, in quanto non scritto e perciò non Conoscenza documentato dalle fonti ufficiali di cognizione, solleva delicati pro- della consuetudine blemi di accertamento del suo contenuto. Da un lato, vale anche per la consuetudine il principio iura novit curia (ossia il principio per cui l’esistenza di una norma non deve essere provata dalla parte che ne chiede l’applicazione, in quanto l’ordinamento giuridico dello Stato è per definizione noto ai giudici dello Stato): pertanto, il giudice deve applicare la consuetudine di cui sia a conoscenza. Dall’altro lato è di fatto possibile che l’esistenza di una norma consuetudinaria di cui una parte pretenda l’applicazione sia controversa e debba essere obiettivamente accertata. In simili circostanze è la parte interessata all’applicazione della una norma consuetudinaria ad avere l’onere di provarne l’esistenza, collaborando con il giudice in tal senso. Tale attività probatoria non è soggetta a forme legali. La prova può essere fornita facendo ricorso ad ogni mezzo consentito per l’accertamento di fatti: documenti, testimonianze, precedenti applicazioni. Esistono raccolte ufficiali di usi (per esempio quelle curate dalle Camere di Commercio, che raccolgono gli usi commerciali praticati su una certa « piazza »), che non hanno ovviamente alcun valore di fonte normativa, ma determinano una presunzione semplice (§ 128) circa l’esistenza degli usi da esse documentati (art. 9 disp. prel. c.c.). L’uso che abbia gli elementi su indicati si chiama uso normativo Usi negoziali e si distingue dagli usi negoziali (o contrattuali o convenzionali) che einterpretativi valgono solo per l’integrazione degli effetti del contratto (artt. 1340 e 1374 c.c.), sia dagli usi interpretativi, che assolvono ad una funzione appunto interpretativa del contratto (art. 1368 c.c.). § 18. Il codice civile. Speciale rilievo tra tutte le leggi ordinarie dello Stato va riconosciuto a quel particolare tipo di leggi che vengono definite « codici » (abbiamo così il codice civile, il codice penale, il codice di procedura civile, il codice di procedura penale e il codice della navigazione). Il termine codice — che in origine indicava genericamente un Polisemia del libro cucito sul dorso (codex) — ha molteplici significati. Nel linguag- termine « codice » gio giuridico inizialmente per codice si intendeva una raccolta di 36 Nozioni preliminari [§ 18] materiali normativi come è appunto accaduto per il Codex inserito nel Corpus iuris civilis di Giustiniano, che raccoglieva un insieme di Constitutiones imperiali. La successiva evoluzione della teoria giuridica e dei sistemi normativi ha portato ad individuare come Codice non più una « raccolta » di leggi precedenti (compilatio), bensì una legge del tutto nuova, che si caratterizzi per le note della organicità (trattandosi di uno strumento normativo volto a disciplinare complessivamente un intero settore dell’esperienza giuridica), della sistematicità (che si esprime nel coordinamento logico del materiale normativo e delle singole regole, definizioni, istituti), della universalità ed eguaglianza (in quanto la disciplina del codice si rivolge in egual modo a tutti i consociati, svolgendo una funzione unificatrice degli statuti giuridici delle diverse classi sociali). Per la sua funzione innovatrice e uniformatrice il codice implica l’abrogazione di tutto il diritto precedente vigente nella materia codificata, e l’accentramento della disciplina nell’intero territorio contemplato, onde favorire l’univocità delle soluzioni e la facilità nel reperimento e nella consultazione del materiale normativo, accentrato in un unico strumento. Qualificare una legge come « codice » di un intero settore postula che il legislatore intenda dare a quella materia un assetto organico e non precario, ma tendenzialmente di lungo periodo, sostenuto da soluzioni tecniche da inserire in un saldo reticolato sistematico di princìpi e regole costanti, chiare e coerenti. Nella storia giuridica moderna — a partire dal XVII e XVIII La nozione di « codice » secolo — ha assunto importanza rilevante il movimento per la nel pensiero giuridico codificazione, sia in campo costituzionale (si pensi alle « Dichiarazioni dei diritti dell’uomo » approvate in Francia nel periodo della Rivoluzione, oppure alla Costituzione federale americana del 1787, alle lotte politiche negli Stati italiani preunitari per la concessione di una costituzione o « Statuto »), sia nel campo del diritto privato. In questo specifico terreno il Medioevo aveva lasciato una situazione di estrema complessità, con una molteplicità di fonti normative intersecantisi (diritto romano, diritto canonico, diritti locali, legislazione del potere centrale) cui corrispondeva una spesso disordinata pluralità di giurisdizioni, ossia di organismi investiti del potere di applicare le leggi (ius dicere); il tutto con la conseguenza di favorire l’incertezza e l’arbitrio. Si chiedeva, perciò, di spazzar via il vecchio, pletorico e confuso materiale, sostituendolo con leggi organiche, caratterizzate da semplicità, chiarezza, uniformità, certezza, razionalità. Un tale intento era spinto dall’aspirazione ad introdurre norme da considerare addirittura universali ed eterne, perché dettate dalla, e conformi alla, « ragione »: non a caso l’idea di codice è storicamente un pro- [§ 18] Il diritto privato e le sue fonti 37 dotto dell’Illuminismo, e dunque della fiducia nella capacità dell’uomo di costruire un sistema normativo organico e logicamente ordinato, e perciò privo di contraddizioni e lacune. Tuttora nei Paesi di « diritto scritto », come sono quelli dell’Europa continentale, il codice civile, sebbene abbia perduto molto del suo valore ideologico, riveste un ruolo di centralità nel sistema del diritto privato: regolando i soggetti (sia le persone fisiche che quelle giuridiche, con identità di trattamento per tutti ed abolizione di ogni privilegio individuale), i beni e i diritti sulle cose (e quindi, in particolare, la proprietà), l’attività (e quindi, in particolare, il contratto), nonché i princìpi fondamentali sulla responsabilità civile, il codice, sebbene non abbia pretese esaustive della disciplina dei rapporti tra privati, si pone come necessario elemento di integrazione e supporto di qualsiasi altra legge (che, proprio per questo, si dice, rispetto al codice, « speciale », ossia « di specie », perché solo il codice è l’unica legge a carattere generale). Il primo grande codice di diritto privato dell’età moderna è Il codice stato il « Codice civile dei francesi » (detto anche « codice Napoleone ») Napoleone emanato nel 1804, che, sorto nel clima culturale della Rivoluzione francese, favorì efficacemente la diffusione dei princìpi dell’eguaglianza tra i cittadini (parità di trattamento a parità di condizioni), l’idea del primato del diritto di proprietà (si consideri che nel preesistente sistema feudale la proprietà terriera era gravata da diritti del sovrano e dei ceti nobiliari, che si esprimevano attraverso l’imposizione di oneri economici e rendite, che dovevano essere pagate da chi effettivamente lavorava il fondo e che ponevano ostacoli di varia natura alla libera circolazione della proprietà delle terre), il principio della libertà dei commerci e delle attività economiche tra i privati. Il codice Napoleone, sia per l’avanzato modello della società che rispecchiava, sia per il grado di raffinatezza tecnica e di rigore logico, ha avuto molto successo, tanto da essere stato pressoché integralmente adottato in numerosi altri Paesi e da essere tuttora vigente in Francia, sia pure attraverso, ovviamente, numerosi adattamenti. Nel nostro Paese la vita dei codici, compreso il codice civile, è I codici stata particolarmente travagliata. Tralasciando i codici degli Stati italiani post-unitari preunitari (per lo più non autentici « codici », nel senso sopra illustrato, ma semplici raccolte di legislazione preesistente), dopo l’unificazione del Regno d’Italia fu emanato il codice civile del 1865 (per larga parte ispirato al codice francese), insieme ad un separato codice di commercio. Quest’ultimo fu sostituito nel 1882 da un nuovo codice di commercio. Ma già nel 1938 cominciarono ad essere emanati singoli libri di un nuovo codice civile, promulgato per intero nel 1942, e nel 38 Nozioni preliminari [§ 18] quale fu — all’ultimo momento, con insufficiente lavoro di coordinamento — assorbito anche il codice di commercio, per la cui sostituzione i lavori preparatori erano stati invece condotti separatamente. La scelta di emanare un nuovo codice nel corso di una grande Il codice civile del guerra — e pertanto alla vigilia di inevitabili profondi mutamenti 1942 sociali — non fu certo felice. E difatti nel dopoguerra sono stati numerosi i settori in cui sono state emanate leggi che hanno profondamente modificato il tessuto originario del codice (basti pensare alla riforma del diritto di famiglia, alle rilevanti modifiche in tema di lavoro subordinato, locazioni, società commerciali, ecc.). Va tuttavia sottolineato che l’ideologia imperante al momento dell’emanazione del codice civile (la dittatura fascista era ancora al potere, anche se si era alla vigilia della sua caduta) non ha lasciato tracce significative nel codice, maturato ad opera di giuristi formatisi nel precedente clima liberal-borghese, e perciò sostanzialmente indifferenti alle concezioni ufficiali del fascismo. Si può così spiegare « la tenuta » del codice, che appare ancora idoneo a svolgere la sua funzione di documento centrale e fondamentale nel regolamento dei rapporti inter-privati. Peraltro il codice non esaurisce il sistema del diritto civile. Da Il codice civile e la un lato occorre tener presenti anche i princìpi dettati con la Carta Costituzione costituzionale del 1948, che, sebbene successiva al codice di soli pochi anni, si dimostra ben più sensibile alle esigenze di perequazione sociale, di elevazione dei ceti meno abbienti, di partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2, Cost.); dall’altro è venuta costantemente crescendo di importanza la legislazione speciale, che lungi dal rappresentare, come un tempo, una sorta di « completamento » del codice, oggi costituisce — sia quantitativamente che qualitativamente — un mondo estremamente variegato e complesso, tale da non consentire più di considerare necessariamente i princìpi codicistici (benché sempre gli unici, come si è visto, a carattere « generale ») come i più importanti. È dunque compito dell’interprete quello di sforzarsi di restituire ai frammenti sparsi dell’ordinamento sistematicità e coerenza. Naturalmente anche i codici — essendo approvati con leggi ordinarie — sono soggetti al controllo di legittimità della Corte costituzionale e possono essere sempre modificati (o addirittura, in tutto o in parte, abrogati) da leggi ordinarie successive; spesso le modifiche vengono apportate con la tecnica della « Novella », ossia sostituendo direttamente il testo di un articolo, ferma la numera- [§ 18] Il diritto privato e le sue fonti 39 zione originaria (si vedano, ad es., gli artt. 143-145, il cui testo attuale, profondamente diverso da quello originario, è stato introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975), ovvero aggiungendo articoli nuovi. CAPITOLO III L’EFFICACIA TEMPORALE DELLE LEGGI § 19. Entrata in vigore della legge. Per l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi si richiede, oltre all’approvazione da parte delle due Camere: a) la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica (art. 73 Cost.); b) la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (art. 73, ult. comma, Cost.); c) il decorso di un periodo di tempo, detto vacatio legis, che va dalla pubblicazione all’entrata in vigore della legge, e che di regola è di quindici giorni (art. 73 Cost. e art. 10 disp. prel. c.c.), salvo che la legge stessa stabilisca un termine diverso, più lungo o più breve, fino al limite dell’entrata in vigore immediata al momento della pubblicazione. La disciplina costituzionale è integrata dal Testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull’emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092. Con la pubblicazione la legge si reputa conosciuta e diventa obbligatoria per tutti, anche per chi, in realtà, non ne abbia conoscenza. Vale, infatti, il principio tradizionale per cui ignorantia iuris non excusat, cosicché nessuno può invocare a propria giustificazione, per evitare una sanzione o comunque sottrarsi agli effetti della norma, di aver ignorato l’esistenza di una disposizione di legge (art. 5 c.p.). La Corte costituzionale (sent. n. 364/1988) ha tuttavia stabilito che l’ignoranza della legge è scusabile quando l’errore di un soggetto in ordine all’esistenza o al significato di una legge penale sia stato inevitabile. § 20. Abrogazione della legge. Una disposizione di legge — come di qualsiasi altro atto normativo — viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessi [§ 20] L’efficacia temporale delle leggi 41 l’efficacia (anche se una disposizione abrogata può continuare ad essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente all’abrogazione, e può anche essere previsto un apposito regime transitorio; in proposito v. il § 22). Per abrogare una disposizione occorre sempre l’intervento di una disposizione nuova di pari valore gerarchico: e così una legge non può essere abrogata che da una legge posteriore (art. 15 disp. prel. c.c.). L’abrogazione può essere espressa o tacita. Si ha abrogazione Abrogazione espressa quando la legge posteriore dichiara esplicitamente abrogata espressa una legge anteriore, o suoi singoli articoli. Si ha abrogazione tacita se, in assenza di una dichiarazione Abrogazione esplicita volta a sancire l’abrogazione di disposizioni previgenti, le tacita norme posteriori: a) sono incompatibili con una o più disposizioni antecedenti (sussiste incompatibilità quando fra le disposizioni successive e quelle precedenti vi sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione); b) introducono una nuova regolamentazione dell’intera materia già regolata dalla legge precedente, la quale, pertanto, deve ritenersi assorbita e sostituita integralmente dalle disposizioni più recenti anche in assenza di una vera e propria incompatibilità tra la vecchia e la nuova disciplina. Fenomeno diverso dall’abrogazione (parziale) di una norma è la Deroga deroga, che si ha quando una nuova norma pone, ma solo per specifici casi, una disciplina diversa da quella prevista dalla norma precedente, la quale continua però ad essere applicabile a tutti gli altri casi (lex specialis posterior derogat generali). Un’altra figura di abrogazione espressa può essere realizzata Referendum mediante un referendum popolare, quando ne facciano richiesta almeno cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali; la proposta di abrogazione si considera approvata se alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi diritto e la proposta di abrogazione consegua la maggioranza dei voti espressi (art. 75 Cost.). Anche la dichiarazione d’incostituzionalità di una legge (o di un Illegittimità solo articolo di una legge, o di un comma o di una qualsiasi sua parte) costituzionale ne fa cessare l’efficacia. Ma mentre l’abrogazione ha effetto solo per l’avvenire, ex nunc (e pertanto la legge, benché abrogata, può essere ancora applicata ai fatti verificatisi quando era in vigore), la dichiarazione di incostituzionalità annulla la disposizione illegittima ex tunc, come se non fosse mai stata emanata, cosicché non può più essere applicata neppure nei giudizi ancora in corso e neppure a fatti già verificatisi in precedenza. Restano salvi soltanto i rapporti definiti con sentenza passata in giudicato (art. 136 Cost.), ossia una Nozioni preliminari 42 [§ 21] sentenza contro la quale non siano più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione previsti dal codice di procedura civile. L’abrogazione di una norma che, a sua volta, aveva abrogato una norma precedente non fa rivivere quest’ultima, salvo che sia espressamente disposto: in tal caso la norma si chiama ripristinatoria. § 21. Irretroattività della legge. Una norma giuridica ricollega al verificarsi di una data fattispecie (ossia di un fatto o di una serie di fatti) una certa conseguenza giuridica (quale, ad es., l’acquisto o la perdita di un diritto, il sorgere o l’estinguersi di un obbligo, la soggezione ad una sanzione, ecc.). La fattispecie, descritta in astratto dalla norma, determina la conseguenza giuridica ivi prevista quando si verificano in concreto i fatti astrattamente previsti da quella norma. È logico, quindi, che, quanto meno di regola, la norma si applichi alla fattispecie in essa descritta (in astratto) che si verifica (in concreto) successivamente all’entrata in vigore della norma stessa. E difatti l’art. 11, comma 1, delle preleggi stabilisce che « La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo ». Si dice, invece, retroattiva una norma la quale attribuisca conseguenze giuridiche a fattispecie (concrete) verificatesi in momenti anteriori alla sua entrata in vigore. Irretroattività La irretroattività della legge deve considerarsi principio di della norma civiltà giuridica, in quanto posto a presidio della certezza del diritto penale e a garanzia dei consociati, la cui condotta non può essere valutata in base a regole introdotte ex post facto. Tuttavia nel nostro ordinamento soltanto la norma incriminatrice penale non può in alcun caso essere retroattiva: « nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato » (art. 2 c.p., principio elevato a rango di disposizione costituzionale dall’art. 25, comma 2, Cost.; lo stesso principio è affermato in materia di sanzioni amministrative dall’art. 1 della L. 24 novembre 1981, n. 689). La retroattività delle leggi di ambito privatistico non è invece in assoluto preclusa; al riguardo si è espressa in più occasioni la Corte costituzionale, ritenendo giustificata l’efficacia retroattiva della norma solo se motivata dall’esigenza di tutelare diritti e beni di rilievo costituzionale o tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Corte cost. 28 novembre 2012, n. 264), e purché non abbia l’effetto di produrre ingiustificate disparità di trattamento o la [§ 22] L’efficacia temporale delle leggi 43 lesione di legittimi affidamenti (Corte cost. 5 aprile 2012, n. 78; Corte cost. 26 gennaio 2012, n. 15). Efficacia retroattiva hanno, poi, le cosiddette « leggi interpretative », ossia le leggi emanate per chiarire il significato di norme antecedenti e che, quindi, si applicano a tutti i fatti regolati da queste ultime, quand’anche anteriori alla emanazione della legge interpretativa. Sulla distinzione, peraltro, tra legge effettivamente interpretativa, e perciò retroattiva, ovvero in realtà novativa, e quindi irretroattiva, si veda infra al § 24. Se la norma ha efficacia retroattiva, essa si applica anche alla risoluzione delle controversie che siano ancora pendenti al momento della sua entrata in vigore (al riguardo si usa l’espressione ius superveniens). Vengono invece, salva diversa disposizione legislativa, rispettati gli effetti delle sentenze già passate in giudicato. § 22. Successione di leggi. La soluzione dei problemi posti dal succedersi delle leggi non è sempre agevole, quando si tratti di fattispecie verificatesi anteriormente all’entrata in vigore della modificazione normativa, ma i cui effetti perdurano nel tempo. In alcuni casi il legislatore ha cura di regolare il passaggio tra la Norme legge vecchia e quella nuova con specifiche norme, che si chiamano transitorie disposizioni transitorie. Per esempio con la riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151) il legislatore ha introdotto come regime generale dei rapporti patrimoniali tra i coniugi quello della comunione legale dei beni e ne ha previsto l’applicazione anche alle coppie che si fossero sposate prima dell’entrata in vigore della nuova legge, ma ha anche stabilito un periodo transitorio durante il quale ciascuno dei coniugi, con una propria dichiarazione unilaterale, poteva impedire l’applicazione del regime di comunione, sicché la coppia restava assoggettata al regime della separazione dei beni. Ma può avvenire che manchi una specifica regola di disciplina intertemporale. Ed allora sorgono delicate questioni che genericamente vengono designate come questioni di diritto transitorio, o di successione di leggi nel tempo. Due teorie sono state a questo proposito sostenute: a) la legge nuova non può colpire i « diritti quesiti », che, cioè, sono già entrati nel patrimonio di un soggetto (teoria del diritto quesito); b) la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezio- 44 Nozioni preliminari [§ 22] nati sotto il vigore della legge precedente, ancorché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti (teoria del fatto compiuto). Teoria dei La prima teoria viene in genere criticata in base al rilievo per cui diritti quesiti non sempre è agevole la distinzione che essa introduce tra diritto quesito, ossia già maturato nel patrimonio di un soggetto, e la semplice aspettativa dell’acquisto di un diritto, che si verifica quando la sequenza che ne determina l’insorgere non sia ancora integralmente compiuta. Teoria del La teoria del fatto compiuto comporta che la legge — se non ne fatto sia disposta la retroattività — non si applica alle fattispecie realizcompiuto zatesi anteriormente alla sua entrata in vigore. La legge non si applica neppure ai rapporti “esauriti” al tempo della sua entrata in vigore. Ad es., dovrebbe ritenersi estinto un diritto, una volta decorso il termine fissato per la sua prescrizione estintiva, anche se una nuova norma, entrata in vigore successivamente al momento in cui la prescrizione di quel diritto è già maturata, disponesse un nuovo termine prescrizionale più lungo del precedente. Anche la teoria dei fatti compiuti, tuttavia, non offre che criteri meramente indicativi, e soprattutto lascia aperti i problemi di soluzione dei rapporti « pendenti » o comunque di tutte quelle situazioni in cui una fattispecie verificatasi nell’imperio della legge previgente non abbia esaurito tutti i propri effetti giuridici; effetti che, però, la nuova disciplina connota diversamente rispetto a quella vigente all’epoca del compimento del fatto. In definitiva, occorre sempre risalire alla volontà del legislatore e domandarsi se, in vista di nuove esigenze sociali, egli intenda con la nuova norma attribuire efficacia immediata al regolamento disposto ed estenderlo, pertanto, ai fatti compiuti sotto il vigore di quella preesistente (ma i cui effetti non si siano esauriti), oppure limitarne l’applicazione alle sole vicende materiali verificatesi sotto l’impero della nuova disciplina. Si parla, invece, di ultrattività allorquando una disposizione di legge, derogando al principio tempus regit actum, stabilisce che atti o rapporti, compiuti o svolgentisi nel vigore di una nuova normativa, continuano ad essere regolati dalla legge anteriore. CAPITOLO IV L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE § 23. L’applicazione della legge. Per applicazione della legge s’intende la concreta realizzazione, nella vita della collettività, di quanto è ordinato dalle regole che compongono l’ordinamento giuridico. Pertanto, se si tratta di norme di organizzazione o di struttura, la loro applicazione consiste nella effettiva creazione degli organi previsti e nel loro funzionamento. Se si tratta di norme di condotta, la loro applicazione consiste nel non fare ciò che è proibito e nel fare ciò che è doveroso. In particolare il diritto privato regola l’agire degli individui nei rapporti tra loro. Tenere un comportamento coerente con le regole poste dall’ordinamento, prestare ad esse spontanea osservanza, è il primo modo di dare attuazione alle norme (es.: pagare un debito; rispettare la proprietà altrui ecc.). Qualora la tutela del diritto individuale, di fronte alla sua lesione da parte di un altro soggetto, renda indispensabile il ricorso all’Autorità giurisdizionale, è il giudice ad applicare la legge, pronunciando i provvedimenti (sentenza, ordinanza, decreto) previsti dal diritto processuale al fine di dare tutela al diritto sostanziale della parte istante. § 24. L’interpretazione della legge. Il precedente giurisprudenziale. L’interpretazione è attività tipica del giurista, che deve confrontarsi con il testo normativo per comprenderne il valore precettivo, ossia la regola affermata dall’enunciato legislativo. Interpretare, si legge in Cicerone, consiste nel trarre un significato da segni oscuri (obscura explanare interpretando). Interpretare un testo, e in particolare un testo normativo, I plurimi di dunque, non vuol dire « accertare » (conoscere) un significato univoco significati un testo che il testo in sé già esprimerebbe, bensì attribuire un senso, decidere (scegliere) che cosa si ritiene che il testo effettivamente significhi tra 46 Nozioni preliminari [§ 24] le plurime letture che spesso un testo consente (§ 4) e, conseguentemente, come vadano risolti i conflitti che possono insorgere nella sua applicazione. Insufficienza L’attività di interpretazione non può mai, dunque, esaurirsi nel del dato mero esame dei dati testuali. In primo luogo, infatti, non tutti i testuale vocaboli contenuti nelle leggi possono essere definiti nelle leggi stesse: pertanto il significato che viene loro attribuito in ciascun contesto va ricavato da elementi extra-testuali. E difatti lo stesso legislatore (art. 12 disp. prel.) — dopo aver prescritto di attribuire alle parole il loro « significato proprio » (ma quasi nessun vocabolo ha un significato univoco, e quindi già la scelta del significato « proprio » di ciascuna parola, nel singolo contesto, è opera dell’interprete) — impone di tener conto altresì della « intenzione del legislatore », concetto che, come vedremo (§ 25), l’interprete non può ricostruire se non avvalendosi di elementi extra-testuali. Fattispecie In secondo luogo, gli enunciati normativi si riferiscono a situaastratta e zioni ipotetiche e definite in via generale ed astratta: spetterà all’incaso concreto terprete, di fronte a singoli casi concreti, decidere se considerarli inclusi nella disciplina dettata dalla singola norma, oppure no, ed a tal fine l’interprete dovrà impiegare particolari tecniche di « estensione » o di « integrazione » delle disposizioni della legge, attingendo a criteri di decisione extra-testuali o meta-testuali. Conflitti tra In terzo luogo, le formulazioni delle leggi appaiono non di rado fonti in conflitto fra loro: conflitti che si superano ricorrendo a criteri di normative gerarchia tra le fonti (ad es. le norme costituzionali prevalgono su quelle ordinarie), a criteri cronologici (la norma posteriore prevale su quella anteriore), a criteri di specialità (lex specialis derogat legi generali; lex posterior generalis non derogat legi priori speciali). Interpretazione In quarto luogo, di fronte a ciascun caso singolo difficilmente si sistematica può applicare un’unica norma, ma occorre utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni, opportunamente ritagliate e ricomposte per adattarle al caso: operazione complessa che si avvale di ricostruzioni sistematiche (ossia sulla base dell’intero sistema dell’ordinamento). ... e Sotto questo profilo assume un ruolo di grande importanza costituzionall’ancoraggio dell’attività ermeneutica ai principi e ai valori fondamente orientata mentali contenuti nella Costituzione, poiché come ha ribadito la stessa Corte costituzionale in più occasioni, tra più significati possibili che si possono attribuire a una norma deve essere preferito quello conforme alla Costituzione (Corte cost. 7 gennaio 2000, n. 1). Ed anzi una norma può essere dichiarata incostituzionale soltanto quando non sia possibile darne un’interpretazione conforme a costituzione (Corte cost. 22 ottobre 1996, n. 356; Corte cost. 16 maggio 2008, n. [§ 24] L’applicazione e l’interpretazione della legge 47 147) Si parla a tal proposito di interpretazione costituzionalmente orientata. Si è inoltre ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione l’orientamento secondo cui i principi fondamentali della Costituzione — come, ad esempio, il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. — non solo vincolano l’opera del legislatore (che deve normare nel rispetto di tali principi) ma « entrano direttamente nel contratto » e nei rapporti tra privati, i quali pure sono dunque immediatamente vincolati dal loro contenuto (Corte cost. 26 marzo 2014, n. 77; Cass., sez. un., 6 maggio 2016, n. 9140). L’attribuzione a un documento legislativo del senso più imme- Ogni testo di diato e intuitivo viene detta interpretazione « dichiarativa ». Il ca- richiede essere none metodologico in claris non fit interpretatio prescrive di attenersi, interpretato ovunque sia possibile, se la lettera della legge non è oscura, ad una interpretazione dichiarativa (tale modalità di approccio al testo normativo si rispecchia nella regola di cui alla prima parte dell’art. 12, comma 1, disp. prel. c.c.). Quando invece il processo interpretativo attribuisce ad una disposizione un significato diverso da quello che apparirebbe, a prima vista, esserle « proprio », e cioè attribuisce alla legge una portata diversa da quella che il suo tenore letterale potrebbe suggerire, si parla di interpretazione « correttiva », nelle due forme della interpretazione « estensiva » e della interpretazione « restrittiva » (che può giungere fino al limite della interpretazione « abrogante »): espressioni tutte che implicitamente si ispirano alla credenza che il discorso legislativo abbia un significato proprio, che precede ed è indipendente dall’attività dell’interprete, occultando il fatto che il documento è muto senza l’interprete, essendo il suo significato il risultato e non il presupposto dell’attività interpretativa. Talvolta nell’uso si contrappone alla « interpretazione della Interpretae legge » la « integrazione della legge », per distinguere tra l’attribuzione zione integrazione di significato ad un determinato documento normativo e l’individuazione di una regola che il documento normativo non consentirebbe ad una sua prima ed immediata lettura, ma che si ritiene possa egualmente esserne ricavata con un più accurato esame: contrapposizione, quindi, che non va accettata, rientrando anche « l’integrazione della legge » nella attività di interpretazione. Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpre- I soggetti tativa si suole distinguere tra interpretazione giudiziale, interpreta- dell’attività interprezione dottrinale e interpretazione autentica. tativa L’attività interpretativa si traduce in provvedimenti dotati di La giuriefficacia vincolante quando sia compiuta dai giudici dello Stato sprudenza 48 Nozioni preliminari [§ 24] nell’esercizio della funzione giurisdizionale (c.d. interpretazione giudiziale). Però si deve chiarire che l’interpretazione della disposizione, attraverso cui il giudice giunge alla decisione del caso sottoposto al suo esame, svolge il suo ruolo autoritativo nei confronti delle sole parti del giudizio, che sono le uniche destinatarie del provvedimento del giudice. Una sentenza è però idonea ad assumere anche valore di precedente nei confronti di altri casi simili, in quanto l’interpretazione di una disposizione normativa sottesa alla sentenza e le argomentazioni logico-giuridiche che ne costituiscono la motivazione possono essere assunte a modello da parte di altri giudici a fini della soluzione di casi analoghi. In termini tecnici con l’espressione giurisprudenza si definisce l’orientamento applicativo espresso dalla costante, o tendenzialmente stabile, prassi dei giudici (così si dice, per esempio, che la giurisprudenza della Corte di Cassazione è orientata ad interpretare abitualmente una certa disposizione attribuendole un determinato significato). Il valore di un precedente, nel nostro ordinamento, è però limiIl valore del precedente tato alla persuasività logica ed argomentativa del criterio di decisione espresso dalla sentenza, poiché, di regola, non è attribuita ai precedenti giurisprudenziali forza vincolante ai fini della risoluzione di successivi casi analoghi (diversamente avviene negli ordinamenti anglosassoni in cui le pronunce delle Corti concorrono alla creazione del diritto oggettivo); pertanto ciascun giudice è libero di adottare l’interpretazione che ritenga preferibile, anche eventualmente in contrasto con pronunce della Corte di Cassazione. Tuttavia l’interpretazione giudiziale ha di fatto sempre avuto una notevole autorità, a causa della tendenza degli orientamenti della giurisprudenza a consolidarsi (anche in ragione del carattere professionale della magistratura, istituzionalizzata come corpo dell’apparato dello Stato, dotato di autonomia e indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato). Recenti leggi, nel tentativo di accrescere l’uniformità delle prassi interpretative e dunque la prevedibilità delle decisioni (e quindi la certezza del diritto), hanno rafforzato il valore del precedente. L’art. 360-bis c.p.c. prevede l’inammissibilità del ricorso alla Corte di cassazione quando il provvedimento che si vuole impugnare (es.: una sentenza di un organo giurisdizionale di grado inferiore, Corte d’appello o Tribunale) abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme al pregresso orientamento della Corte Suprema in argomento, e i motivi di ricorso non offrano elementi per modificare quell’orientamento. [§ 24] L’applicazione e l’interpretazione della legge 49 Ancora, nell’ambito del processo civile, è conferita una sorta di vincolatività alle sentenze della Cassazione a sezioni unite; infatti, mentre i giudici di merito, in conformità ai principi generali, restano liberi di emanare decisioni difformi, non così invece le sezioni semplici della medesima Corte di Cassazione, in relazione alle quali l’art. 374, comma 3, c.p.c. prevede che se « la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso ». Si è già detto, infine, come siano dotate di vincolatività le sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’Unione europea (v. § 16). Del tutto peculiare è il ruolo attribuito alle sentenze emanate dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo (che ha sede a Strasburgo), la cui vincolatività nei confronti dei giudici nazionali è anche di tipo ermeneutico, nel senso che i giudici nazionali devono far riferimento senz’altro alle norme della Cedu, così come intese dalla Corte Europea, nell’applicare le norme dell’ordinamento italiano e di quello comunitario. Su un altro piano si pone l’interpretazione dottrinale, che è La dottrina costituita dagli apporti di studio dei cultori delle materie giuridiche, i quali, senza alcun’altra autorità diversa da quella che può eventualmente derivare dal prestigio personale dell’autore, si preoccupano di raccogliere il materiale utile all’interpretazione delle varie disposizioni, di illustrarne i possibili significati, di sottolineare le implicazioni e le conseguenze delle varie soluzioni interpretative, con uno sforzo di grande importanza pratica, in difetto del quale quanti operano nella concreta esperienza quotidiana (giudici, avvocati, funzionari pubblici, comuni cittadini, ecc.) sarebbero privati di un appoggio fondamentale nelle scelte che sono di continuo chiamati ad effettuare con rapidità, e che escludono la possibilità di dedicarsi ad analisi spesso ardue del materiale normativo. Non costituisce, infine, vera attività interpretativa la c.d. inter- L’interpretapretazione autentica, ossia quella che proviene dallo stesso legislatore, zione autentica che emana talvolta apposite disposizioni per chiarire il significato di altre preesistenti. La norma interpretativa, come ogni altra norma giuridica, ha carattere vincolante: ossia il legislatore vuole che chi deve applicare la norma precedente le attribuisca il senso voluto dalla nuova disposizione. Questa ha, perciò, efficacia retroattiva: infatti essa chiarisce anche per il passato il valore da attribuire alla legge precedente. Nozioni preliminari 50 [§ 25] Appunto in vista dell’efficacia retroattiva della norma interpretativa è assai importante distinguerla da quella novativa che ha efficacia solo per i fatti compiuti successivamente alla sua entrata in vigore (ex nunc). Talora la natura interpretativa di una norma è esplicitamente dichiarata (es. quando la nuova legge dispone che una certa norma preesistente « si interpreta nel senso che ... »), in altri casi deve essere dedotta in via interpretativa, con le intuibili difficoltà e incertezze. Non si può, peraltro, considerare davvero interpretativa la legge che, sebbene dichiarata espressamente tale, in realtà non sia diretta affatto a sciogliere un dubbio interpretativo creato dalla norma precedente, bensì a modificarla. Giova tener presente che la retroattività della legge interpretativa non incide, salva contraria disposizione, sul giudicato formatosi sotto l’impero della legge precedente. § 25. Le regole dell’interpretazione. Abbiamo già detto che l’indagine dell’interprete non può limitarsi alla lettera della legge (soprattutto quando questa utilizza, come di frequente accade, le c.d. clausole generali: buona fede, buon costume, equità, forza maggiore, diligenza, giusta causa, e via dicendo; espressioni che obbligano non tanto ad un’operazione di astratta determinazione del loro significato, quanto ad una valutazione di specifica riferibilità al singolo caso, che nella sua concretezza e dinamicità è refrattario a lasciarsi inquadrare nelle rigide e aprioristiche descrizioni delle fattispecie legali). L’interpretaGià i Romani sottolineavano che scire leges non est verba earum zione tenere sed vim ac potestatem; e l’art. 12, comma 1, disp. prel. c.c. teleologica espressamente impone di valutare non soltanto il « significato proprio delle parole secondo la connessione di esse » (c.d. interpretazione letterale), ma anche la « intenzione del legislatore ». Quest’ultimo concetto rimanda non tanto ai concreti propositi (soggettivi) di un inesistente legislatore (posto che nei sistemi moderni l’attività legislativa non è svolta da un individuo, ma da organi collegiali ed è spesso frutto di compromessi e mediazioni tra le posizioni delle diverse forze politiche presenti nelle assemblee parlamentari), bensì alla funzione che la norma persegue come strumento di disciplina della vita associata, la c.d. ratio legis (criterio di interpretazione teleologico). Si tratta quindi di indagare la finalità obiettiva della norma, alla luce della materia regolata, dei risultati perseguiti [§ 25] L’applicazione e l’interpretazione della legge 51 dalla legge (es.: tutelare determinati soggetti, disincentivare determinati comportamenti), dei valori del sistema giuridico. A questo scopo si possono utilizzare anche elementi tratti dall’attività di elaborazione delle leggi, i « lavori preparatori » (quali le discussioni delle assemblee legislative, le relazioni i pareri che accompagnano i singoli disegni di legge), i quali però offrono soltanto indicazioni di massima, di per sé non decisive. Soprattutto va detto che l’individuazione dello scopo della legge (della sua ratio,) più che la premessa della interpretazione ne rappresenta già un risultato, che tuttavia aiuta a discernere tra i plurimi possibili significati del testo, facendo preferire quello che appare più coerente con la funzione che la norma persegue. Vi sono peraltro numerosi altri criteri cui l’interprete si rivolge, Gli strumenti dell’ermee che possono, con qualche semplificazione, così schematizzarsi: neutica a) il criterio logico, attraverso l’argumentum a contrario (volto giuridica ad escludere dalla norma quanto non vi appare espressamente compreso: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit), l’argumentum a simili (volto ad estendere la norma per comprendervi anche fenomeni simili a quelli risultanti dal contenuto letterale della disposizione, assumendo tale simiglianza come determinante per una identità di disciplina: lex minus dixit quam voluit), l’argumentum a fortiori (volto ad estendere la norma in modo da includervi fenomeni che a maggior ragione meritano il trattamento riservato a quello risultante dal contenuto letterale della disposizione), l’argumentum ad absurdum (volto ad escludere quella interpretazione che dia luogo ad una norma « assurda »); b) il criterio storico: nessuna disposizione spunta all’improvviso in un ordinamento; l’analisi delle motivazioni con cui un istituto è stato introdotto in un sistema giuridico precedente (dal diritto romano fino alla legislazione moderna), delle modifiche che esso ha via via subito, del modo con cui è stato interpretato ed applicato, è sempre di grande utilità per cogliere la portata che ad una disposizione va attribuita nel momento attuale; c) il criterio sistematico. Già Celso (D. 1, 3, 24) sosteneva che incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita iudicare vel respondere. Per determinare, infatti, il significato e la portata di una disposizione è indispensabile collocarla nel quadro complessivo dell’ordinamento in cui va inserita, onde evitare contraddizioni e ripetizioni, istituire opportuni coordinamenti, e via dicendo; d) il criterio sociologico: la conoscenza degli aspetti economicosociali dei rapporti regolati è spesso illuminante per pervenire ad una 52 Nozioni preliminari [§ 26] interpretazione congruente con la realtà disciplinata e su cui quelle regole sono destinate ad avere rilievo; e) il criterio equitativo: volto ad evitare interpretazioni che contrastino col senso di giustizia della comunità, favorendo invece soluzioni equilibrate degli interessi confliggenti e che l’interprete deve sempre valutare comparativamente. § 26. L’analogia. È impossibile che il legislatore riesca a disciplinare l’intero àmbito dell’esperienza umana, per quanto possa essere attento e minuzioso. È inevitabile, infatti, che si presentino casi che nessuna norma di legge ha espressamente previsto e regolato (le c.d. lacune dell’ordinamento). Il problema delle lacune non può essere risolto da uno sforzo previsione casistica: anzi una tecnica normativa esasperatamente analitica finisce per aggravare il rischio di incontrare casi non contemplati, rispetto ai quali rimane incerta la disciplina da applicare proprio perché il fenomeno materiale da regolare non rientra nella casistica predefinita. Inoltre l’evoluzione scientifica, tecnica, sociale, economica crea di continuo situazioni materiali nuove, che nessuna norma ha potuto prevedere. Il giudice si trova, perciò, di frequente e inevitabilmente di fronte a fattispecie concrete che nessuna norma positiva prevede e disciplina. Non potrebbe, tuttavia, rifiutarsi di decidere, sotto pena di rendersi responsabile di denegata giustizia, omettendo un atto del proprio ufficio. L’applicazione Perciò l’art. 12, comma 2, delle preleggi dispone che il giudice — analogica di quando non sia riuscito a risolvere il caso su cui deve pronunciarsi, né norme applicando una norma che lo contempli direttamente, né applicando una norma che pur non contemplandolo direttamente possa essere interpretata estensivamente fino ad abbracciarlo — deve procedere applicando « per analogia » le « disposizioni che regolino casi simili o materie analoghe », e qualora il caso rimanga ancora dubbio, applicando « i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato ». Dunque il procedimento analogico consiste nell’applicare ad un caso non regolato (in quanto per esso non si è trovata nessuna norma che lo contempli, neppure ricorrendo ad una interpretazione estensiva Le lacune e la necessità della decisione [§ 26] L’applicazione e l’interpretazione della legge 53 della portata della norma che regoli la fattispecie più prossima a quella da decidere) una norma non scritta desunta da una norma scritta, la quale, però, è dettata per regolare un caso diverso, sebbene « simile » a quello da decidere. Ma cosa significa individuare tra due fattispecie diverse — una regolata ed un’altra non regolata — un rapporto di « somiglianza »? Di due entità può dirsi che sono simili se hanno qualche elemento in comune; il che pone il problema di comprendere che cosa debba intercorrere di comune tra le due fattispecie messe a confronto, quella oggetto della norma scritta presa in considerazione e l’altra, oggetto della lite, priva di specifica disciplina, per consentirci di concludere che tra i due casi sussiste una « somiglianza » o, appunto, analogia tale da consentire di applicare alla seconda fattispecie la regola dettata dal legislatore per la prima. Ora, quell’elemento di contatto, unificante, deve consistere proprio nella fondamentale giustificazione della disciplina del caso: l’identità di quell’elemento ci fa concludere che pure il caso non regolato merita di essere assoggettato al regime previsto per quello espressamente considerato dalla legge. Così, ad es., se una disposizione è dettata per i « lavoratori dipendenti », ove la sua giustificazione vada rintracciata nella circostanza che si applica a dei « dipendenti » non potrà invocarsene un’applicazione analogica a lavoratori « autonomi »; ove, invece, la sua giustificazione vada rintracciata nella circostanza che essa è stata dettata per dei « lavoratori », quale che sia il tipo di contratto in forza del quale prestano la loro opera, ecco che si apre lo spazio per un’applicazione analogica anche ad altri « lavoratori » sebbene autonomi. Si spiega, dunque, il tradizionale insegnamento secondo cui l’analogia si fonda su un’identità di ratio, ossia sul riconoscimento di una finalità della norma positiva che ne giustifica l’operare anche nel caso (simile, ma) non contemplato dalla legge. L’art. 12 cpv. delle preleggi autorizza non solo il ricorso alla La « analogia analogia legis, ossia alla applicazione in via analogica ad un caso non iuris » regolato di singole disposizioni ritenute adatte a regolare quella fattispecie (sebbene dettate con riferimento ad ipotesi diverse, ma, appunto, « analoghe »), ma pure, se il caso rimane ancora dubbio perché non si rinviene nell’ordinamento una norma analogicamente ad esso applicabile, il ricorso alla analogia iuris, ossia ai « princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato ». In tal caso il caso viene deciso ricavando una norma (non scritta) non già da specifiche disposizioni che, pur dettate per differenti casi, vengono applicate a quello in esame, bensì addirittura estrapolando la regola solutoria del caso « dubbio » dai generali orientamenti del sistema legislativo. Si 54 Nozioni preliminari [§ 26] tratta, quindi, di un’operazione ontologicamente diversa dall’applicazione analogica di una specifica norma. Il ricorso all’analogia è sottoposto a limiti: l’analogia non è consentita né per « le leggi penali », né per « quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi » (art. 14 disp. prel.). I divieti di Il divieto si giustifica, in relazione alle norme penali, per il analogia: le principio di stretta legalità che caratterizza le norme incriminatrici: norme penali... nullum crimen sine praevia lege penali (« nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto compiuto »: art. 25, comma 2, Cost.). Il divieto di applicazione analogica riguarda le sole norme incriminatrici o, comunque, in malam partem, ossia volte a stabilire un trattamento deteriore per il reo. ... le norme In relazione alle norme che abbiano carattere di eccezione, ossia eccezionali di deroga, a precetti di ordine generale (norme eccezionali), il divieto di analogia si giustifica con la necessità logica di non ampliare le deroghe, privilegiando, di fronte ai casi non regolati, la disciplina normale e non quella eccezionale. Il divieto dell’analogia nell’applicazione delle leggi penali ed eccezionali non vale per l’interpretazione estensiva, con la quale, secondo l’insegnamento corrente, ci si limita ad adeguare la portata letterale della norma all’effettiva volontà legislativa. In effetti, tuttavia, la distinzione, nel singolo caso, tra una interpretazione estensiva di una norma eccezionale (consentita) e una applicazione per analogia (vietata) appare quanto mai ardua; così come non è, in molti casi, agevole la stessa determinazione della natura eccezionale di una norma, che la rende insuscettibile di interpretazione analogica. CAPITOLO V I CONFLITTI DI LEGGI NELLO SPAZIO § 27. Il diritto internazionale privato. Gli ordinamenti primitivi sono caratterizzati da una rigorosa aderenza al principio di « territorialità »: il diritto vigente in ciascun ordinamento si applica a tutti, cittadini e stranieri, coloro i quali si trovino nel territorio sul quale l’autorità politica dalla quale l’ordinamento promana estende la propria sovranità. Questo principio vige ancora, in genere, per il diritto pubblico ed in particolare per le norme di polizia e di diritto penale, ma non per il diritto privato. Nell’ambito dei rapporti di diritto privato può accadere che la Le fattispecie elementi fattispecie concreta presenti qualche elemento « di estraneità » ri- con di estraneità spetto al sistema giuridico italiano: un cittadino sposa una francese, uno straniero acquista beni in Italia, una coppia italiana adotta un bambino straniero, due inglesi stipulano un contratto a Roma o un italiano e un tedesco concludono un accordo in Germania. In simili casi si pone il dubbio di quale debba essere l’ordinamento competente a regolarli. Tutto sarebbe semplice se al mondo esistesse un solo diritto uniforme, cioè eguale dappertutto; ma il diritto uniforme è raro e poco esteso. In alcuni casi regole uniformi sono stabilite da convenzioni internazionali: tuttavia neppure le convenzioni offrono una risposta sufficiente, perché vincolano solo gli Stati che vi aderiscono e si occupano soltanto di specifiche materie (es.: la vendita internazionale di beni; i trasporti internazionali). In ciascun Paese, pertanto, vengono elaborate norme di « diritto internazionale privato »: si tratta di regole che stabiliscono quale tra varie leggi nazionali, che siano tutte astrattamente applicabili ad un rapporto che presenta elementi di collegamento con ciascuna di esse, vada applicata in ogni singola ipotesi. In realtà la definizione « diritto internazionale privato », pur Natura e del recepita nel lessico legislativo, è per più aspetti imprecisa e fuor- funzione d.i.p. viante. Al riguardo occorre chiarire: 56 Nozioni preliminari [§ 27] a) che il c.d. « diritto internazionale privato », sebbene venga tradizionalmente denominato così, non è davvero un diritto « internazionale »: tale è il c.d. diritto internazionale « pubblico », ossia il diritto che regola rapporti tra Stati o soggetti internazionali (es. le organizzazioni internazionali, come l’ONU ecc.) e che ha fonte nella consuetudine dei rapporti internazionali o in specifici accordi tra Stati; invece il diritto internazionale privato è diritto interno e ha fonte in atti normativi propri dei singoli ordinamenti. Pertanto ciascun Paese, salvi i vincoli derivanti da convenzioni internazionali cui abbia aderito, è arbitro del proprio diritto internazionale privato, le cui disposizioni possono non coincidere con quelle adottate da altri ordinamenti; b) che il c.d. « diritto internazionale privato » non abbraccia, in effetti, solo norme relative a rapporti giuridici tra privati, ma disciplina anche altri fenomeni; per esempio contiene regole di tipo processuale (ad es. il diritto internazionale « privato » italiano stabilisce quando sussista la giurisdizione italiana rispetto ad uno straniero, quando una sentenza straniera possa produrre effetti in Italia, e via dicendo); c) che il c.d. « diritto internazionale privato » è costituito non da norme materiali, ossia che disciplinano la sostanza di taluni rapporti, bensì da regole strumentali, che si limitano cioè ad individuare, rispetto a ciascun rapporto contemplato (ad es. tra coniugi o tra contraenti, ecc.), a quale ordinamento debba farsi capo (alla legge italiana o a quella francese o tedesca, ecc.) per giungere poi, applicando l’ordinamento così individuato, a stabilire come quel rapporto vada disciplinato. Si comprende, dunque, perché le norme in esame si definiscano norme di conflitto, perché risolvono un conflitto tra le leggi potenzialmente applicabili ad una fattispecie transnazionale. In sostanza il diritto internazionale privato è l’insieme delle norme di diritto interno che il giudice italiano deve applicare — nel caso in cui debba decidere una controversia relativa ad una fattispecie che presenti elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento giuridico — per individuare la legge regolatrice della fattispecie, ossia l’ordinamento giuridico in base al quale deve essere decisa la controversia. In tal modo può accadere che il giudice italiano debba decidere una controversia facendo applicazione di un ordinamento giuridico straniero. Il diritto internazionale privato opera secondo una tecnica di rinvio, in quanto individua la legge che il giudice deve applicare, che potrà essere la legge dello Stato cui il giudice appartiene, ovvero quella di un altro Stato, alla quale la norma di diritto internazionale [§ 28] I conflitti di leggi nello spazio 57 privato faccia, appunto, « rinvio » quale fonte regolatrice del rapporto concreto. L’importanza del diritto internazionale privato è notevolmente cresciuta nel tempo, per effetto dell’intensificarsi della circolazione delle persone e degli scambi transnazionali. Il diritto internazionale privato italiano era contenuto preva- Le fonti del lentemente negli artt. 17/31 delle disposizioni preliminari al codice d.i.p. italiano civile del 1942 (c.d. « preleggi »), ma nel tempo è risultato progressivamente inadeguato. Si è così giunti all’approvazione di una legge di riforma globale della materia (L. 31 maggio 1995, n. 218), di ben 74 articoli, che ha disposto, tra l’altro, l’abrogazione degli articoli dal 17 al 31 delle preleggi. Peraltro la disciplina del d.i.p. non è contenuta nella sola, pur centrale, L. n. 218/1995; infatti, parallelamente al processo di aggiornamento dei singoli regimi interni, si è imposto un movimento di uniformazione a livello sovranazionale del diritto internazionale privato, che ha portato all’elaborazione di numerose convenzioni di diritto internazionale privato uniforme, volte, cioè, a porre regole comuni di soluzione dei conflitti di leggi nello spazio, applicate da tutti gli Stati aderenti alle convenzioni, a beneficio della certezza nell’individuazione delle norme applicabili ai rapporti transnazionali. Un ruolo particolare hanno le fonti europee, ed in particolare i vari regolamenti volti a disciplinare specifici fenomeni di rilevanza transnazionale nell’ambito dei rapporti tra gli Stati membri. Tali regolamenti trattano sia aspetti di diritto sostanziale (p. es. la legge applicabile ai contratti o alle obbligazioni extracontrattuali: v. il § 29), sia aspetti di diritto processuale (quali il riconoscimento dell’efficacia delle sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali, la notificazione degli atti giudiziari, ecc.). § 28. Qualificazione del rapporto e momenti di collegamento. Per comprendere come operino le norme di diritto internazionale privato è opportuno tenere distinte le varie fasi attraverso le quali occorre procedere per scegliere l’ordinamento competente a disciplinare un rapporto nei cui confronti si profilino elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano (si pensi a un contratto concluso tra un italiano ed un francese, ai rapporti tra coniugi di diversa nazionalità, alla lite tra due italiani sulla proprietà di un appartamento sito in Germania, ecc.). Nozioni preliminari 58 [§ 29] Orbene, per stabilire quale sia l’ordinamento da applicare occorre in primo luogo procedere alla qualificazione del rapporto in questione, evidenziandone la natura: così, ad es., un certo rapporto giuridico può classificarsi come coniugale, ovvero come di successione a causa di morte, di obbligazione contrattuale ovvero extracontrattuale, e via enumerando. Peraltro può accadere che i singoli ordinamenti non seguano identici criteri nel classificare i rapporti giuridici; ecco allora porsi un quesito preliminare: in base a quale ordinamento deve procedersi alla qualificazione di ciascun rapporto, ossia alla determinazione della sua natura? La soluzione generalmente accolta indica la legge del luogo in cui si procede alla disciplina del rapporto, ossia nel quale pende la controversia (lex fori). Compiuta la qualificazione del rapporto, si deve procedere ad Il momento di un’ulteriore operazione, ossia alla individuazione della legge che lo collegamento deve regolare. A tale scopo la norma di diritto internazionale privato assume un elemento del rapporto per elevarlo a momento di collegamento, ossia ad elemento della fattispecie decisivo per la scelta dell’ordinamento competente a regolare il rapporto in oggetto, in quanto ordinamento più « vicino » al caso concreto ed appropriato per disciplinarlo. Per comprendere meglio la nozione occorre svolgere una rassegna dei principali momenti di collegamento rilevanti in base al diritto vigente. La qualificazione del rapporto § 29. I vari momenti di collegamento. Dopo le premesse di ordine generale, possiamo procedere all’esame delle principali disposizioni di diritto internazionale privato (italiano), quali risultano dalla Legge n. 218/1995. Per quanto riguarda la « capacità giuridica delle persone fisiCapacità giuridica che » (art. 20) si applica la c.d. lex originis, ossia la legge nazionale della persona. Se questa « ha più cittadinanze, si applica la legge di quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto. Se tra le cittadinanze vi è quella italiana, questa « prevale » (art. 19, comma 2). La « capacità di agire delle persone fisiche » è pure regolata Capacità di agire « dalla loro legge nazionale » (art. 23, comma 1). Tuttavia, se per un dato atto si deve applicare un diverso ordinamento, il quale « prescrive condizioni speciali di capacità di agire », deve applicarsi quest’ultima legge. [§ 29] I conflitti di leggi nello spazio 59 Gli enti — società, associazioni, fondazioni — « sono disciplinati Enti dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione » (art. 25, comma 1). Tuttavia si applica la legge italiana « se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti ». Per quanto riguarda il matrimonio, si distinguono diversi pro- Matrimonio e rapporti tra fili: coniugi a) la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio, « sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio » (art. 27); b) la « forma del matrimonio » (art. 28), è retta dalla « legge del luogo di celebrazione », ma può applicarsi pure « la legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione » o « la legge dello Stato di comune residenza » in quel momento; c) ai « rapporti personali tra coniugi » si applica la legge nazionale se hanno eguale cittadinanza ovvero, se hanno diversa cittadinanza o più cittadinanze comuni, « la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata » (art. 29); d) i « rapporti patrimoniali tra coniugi » sono regolati dalla legge applicabile ai rapporti personali, a meno che i coniugi abbiano convenuto per iscritto l’applicabilità della « legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede » (art. 30, comma 1); e) alla « separazione personale » e allo « scioglimento del matrimonio » si doveva applicare, ai sensi dell’art. 31, comma 1, della Legge n. 218/1995, « la legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o di scioglimento del matrimonio » e, in mancanza di legge comune, quella dello Stato « nel quale la vita matrimoniale risulta prevalentemente localizzata » (art. 31, comma 1). In argomento è intervenuto il Regolamento n. 1259/ 2010/UE (Regolamento Roma III), applicabile nel suo complesso a partire dal 21 giugno 2012. Si tratta di un regolamento di applicazione universale (art. 4), ossia la legge che lo stesso individua come applicabile si applica anche se non sia la legge di uno Stato membro dell’Unione. Esso stabilisce, introducendo un’importante novità, che siano i coniugi a poter designare di comune accordo, per iscritto, la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale (artt. 6 e 7). Per evitare, però, scelte di comodo (c.d. law shopping) deve trattarsi della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi, ovvero dello Stato di cittadinanza di uno di essi ovvero della lex fori. In caso di mancata scelta si applica la legge di residenza abituale attuale, ovvero quella di cittadinanza o la lex fori (art. 8) Peraltro è impor- 60 Nozioni preliminari [§ 29] tante segnalare che il Regolamento non obbliga i giudici di uno Stato membro, la cui legislazione non preveda il divorzio o non consideri valido il matrimonio cui il procedimento si riferisce, ad emettere una decisione di divorzio in virtù del Regolamento stesso (art. 13); f) quanto alla giurisdizione, per i giudizi di nullità, annullamento, separazione personale e divorzio si può sempre adire il giudice italiano se « uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia » (art. 32 Legge n. 218/1995). Le norme di conflitto in materia di filiazione sono state modiFiliazione ficate per effetto dell’entrata in vigore del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, emanato in attuazione della Legge 10 dicembre 2012, n. 219, che ha innovato la disciplina della filiazione (v. i §§ 604 e ss.). Lo stato di figlio « è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita » (art. 33, comma 1); la stessa legge regola l’accertamento e la contestazione dello stato di figlio. Le condizioni per il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio (v. infra § 615) « sono regolate dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita o, se più favorevole, dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene » (art. 35, comma 1); la forma del riconoscimento « è regolata dalla legge dello Stato in cui esso è fatto o da quella che ne disciplina la sostanza » (art. 35, comma 3). I rapporti personali e patrimoniali tra genitori e figli « sono regolati dalla legge nazionale del figlio » (art. 36). Come si vedrà, la riforma della filiazione è imperniata sul principio della unicità dello status di figlio, superando la distinzione tra figli nati nel matrimonio o al di fuori di esso (detti un tempo « figli naturali »): e difatti l’art. 33, comma 4, L. n. 218/1995 sancisce che « Sono di applicazione necessaria le norme del diritto italiano che sanciscono l’unicità dello stato di figlio » (sulla nozione di legge di applicazione necessaria v. infra § 30). Nella stessa logica l’art. 36-bis L. n. 218/1995 stabilisce che, nonostante il richiamo ad altra legge, si applicano in ogni caso le norme del diritto italiano che: a) attribuiscono ad entrambi i genitori la responsabilità genitoriale; b) stabiliscono il dovere di entrambi i genitori di provvedere al mantenimento del figlio; c) attribuiscono al giudice il potere di adottare provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale in presenza di condotte pregiudizievoli per il figlio. Si vuole, in sostanza, che, quale che sia la legge regolatrice del rapporto di filiazione, il Giudice italiano possa in ogni caso applicare [§ 29] I conflitti di leggi nello spazio 61 le regole fondamentali che il nostro ordinamento reputa in ogni caso inderogabili. Come si dirà (§ 622-bis), la L. 20 maggio 2016, n. 76, ha Unioni civili persone introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile tra tra dello stesso persone dello stesso sesso, la cui disciplina è in larga parte mutuata sesso da quella del matrimonio, il quale però rimane istituto riservato alle coppie eterosessuali. Con il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 7, il legislatore ha integrato la L. n. 218/1995, disciplinando il trattamento delle unioni civili caratterizzate da elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano. In base alla nuova disciplina, il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti non già del matrimonio, bensì dell’unione civile regolata dalla legge italiana (così il nuovo art. 32-bis L. n. 218/1995). Le regole di conflitto che disciplinano l’unione civile tra persone di diversa nazionalità sono modellate, dal nuovo art. 32-ter, su quelle previste per il matrimonio: la capacità e le altre condizioni per costituire unione civile sono regolate dalla legge nazionale di ciascuna parte al momento della costituzione dell’unione civile, disponendo inoltre che se la legge applicabile non ammette l’unione civile tra persone maggiorenni dello stesso sesso, si applica la legge italiana; quanto alla forma, l’unione civile è valida se è considerata tale dalla legge del luogo di costituzione o dalla legge nazionale di almeno una delle parti o dalla legge dello Stato di comune residenza al momento della costituzione; infine, i rapporti personali e patrimoniali tra le parti sono regolati dalla legge dello Stato davanti alle cui autorità l’unione è stata costituita, potendo comunque il giudice applicare, a richiesta anche di una sola delle parti, la legge dello Stato nel quale la vita comune è prevalentemente localizzata. Le parti possono in ogni caso convenire per iscritto che i loro rapporti patrimoniali siano regolati dalla legge dello Stato di cui almeno una di esse è cittadina o nel quale almeno una di esse risiede. Quanto allo scioglimento dell’unione, esso è regolato dalla legge applicabile al divorzio in conformità al Regolamento Roma III, sopra citato. L’adozione è regolata « dal diritto nazionale dell’adottato o degli Adozione adottanti se comune o, in mancanza, dal diritto dello Stato nel quale gli adottanti sono entrambi residenti, ovvero da quello dello Stato nel quale la loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, al momento dell’adozione » (art. 38, comma 1); tuttavia, precisa la norma, quando viene richiesta al giudice italiano l’adozione di un 62 Nozioni preliminari [§ 29] minore, idonea ad attribuirgli lo stato di figlio, si applica il diritto italiano. La successione mortis causa « è regolata dalla legge nazionale del Successioni mortis causa soggetto della cui eredità si tratta, al momento della morte » (art. 46, comma 1, L. n. 218/1995). La forma del testamento deve rispettare o « la legge dello Stato nel quale il testatore ha disposto » o « la legge dello Stato di cui il testatore, al momento del testamento o della morte, era cittadino » o « la legge dello Stato in cui aveva il domicilio o la residenza » (art. 48 L. n. 218/1995). Peraltro anche in materia successoria è intervenuta una recente normativa europea, recata dal Regolamento n. 650/2012/UE del 4 luglio 2012, che riguarda molteplici aspetti: la competenza giurisdizionale a decidere le controversie successorie, la legge applicabile, il riconoscimento e l’esecuzione di decisioni in materia successoria e l’istituzione di un certificato successorio europeo. Il Regolamento innova il criterio fondamentale di individuazione della legge regolatrice della successione, che è quella dello Stato in cui il defunto aveva la propria residenza abituale al momento del decesso (art. 20 del Regolamento) e soprattutto introduce un elemento volontaristico: una persona può infatti scegliere come legge regolatrice della propria successione quella dello Stato del quale è cittadino al momento della scelta o al momento della morte (art. 22 del Regolamento): la scelta deve essere espressa e deve rivestire la forma prevista per un atto di disposizione a causa di morte (testamento). Il Regolamento, come accennato, istituisce un certificato successorio europeo, che può essere rilasciato dalle autorità di uno Stato membro per essere utilizzato dagli eredi, legatari, esecutori testamentari o amministratori dell’eredità allo scopo di far valere tale loro qualità o poteri in un altro Stato membro (artt. 62 ss. del Regolamento). Il Regolamento si applica alle successioni delle persone decedute a partire dal 17 agosto 2015. La proprietà, gli altri diritti reali e il possesso dei immobili e Diritti reali e possesso mobili sono regolati dalla legge del luogo nel quale i beni si trovano (lex rei sitae; art. 51, comma 1, L. n. 218/1995), che disciplina anche il modo di acquisto e perdita di tali diritti. Per i beni « immateriali » si applica « la legge dello Stato di utilizzazione » (art. 54). Obbligazioni In materia di obbligazioni il diritto internazionale privato itacontrattuali liano è stato di recente interessato da importanti modificazioni per effetto di convenzioni internazionali e di regolamenti comunitari. Per le obbligazioni contrattuali l’art. 57 della L. n. 218/1995 fa rinvio alla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni [§ 29] I conflitti di leggi nello spazio 63 contrattuali del 19 giugno 1980 (entrata in vigore il 1o aprile 1991). La Convenzione ha introdotto un diritto internazionale privato uniforme: ciò significa che tutti gli Stati aderenti si vincolano ad utilizzare identici criteri per individuare la legge regolatrice di un rapporto contrattuale con elementi di estraneità. Successivamente è entrato in vigore (dal 17 dicembre 2009) il Regolamento n. 593/2008/CE, del 17 giugno 2008, « Sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) », che sostituisce la Convenzione di Roma (art. 24 del Regolamento Roma I), sicché ogni rinvio fatto alla Convenzione deve intendersi riferito al Regolamento. Il regolamento è di applicazione universale (art. 2). La disciplina, oltre a porre una serie di regole di dettaglio relative alla legge applicabile a specifici contratti e a confermare l’attenzione alla tutela del consumatore (art. 6), conferma le scelte operate dalla Convenzione, attribuendo prioritaria valenza alla scelta delle parti in ordine alla legge applicabile al contratto tra loro stipulato (art. 3): si applica dunque anzitutto la legge richiamata da apposita clausola contrattuale (c.d. lex voluntatis), ovvero, in difetto di una scelta espressa, la legge dello Stato con il quale il contratto « presenta il collegamento più stretto »; collegamento che si presume sussista nei confronti del Paese in cui la parte che deve fornire « la prestazione caratteristica » (fornitura, opera, ecc.) ha, al momento della conclusione del contratto, la propria residenza abituale o la propria amministrazione centrale (art. 4). Per quanto riguarda le obbligazioni avente fonte non contrattuale Obbligazioni si deve fare riferimento al Regolamento n. 864/2007/CE dell’11 luglio non contrattuali 2007 (« Roma II »). Si tratta anche in questo caso di un regolamento di applicazione universale (art. 3). I criteri principali stabiliti dal Regolamento sono i seguenti: le obbligazioni derivanti da un fatto illecito (§ 454 ss.) sono regolate dalla legge del paese nel quale il danno si è verificato (art. 4); le obbligazioni nascenti da arricchimento senza causa (§ 453), quelle relative alla restituzione di un pagamento ricevuto indebitamente (ripetizione dell’indebito: § 452) o derivanti da gestione di affari altrui (§ 451) sono disciplinate, se l’obbligazione si ricolleghi ad una preesistente relazione tra le parti, dalla legge che disciplina quel rapporto (artt. 10 e 11), altrimenti dalla legge della (eventuale) residenza comune delle parti o da quella del luogo in cui è avvenuto il fatto. Nozioni preliminari 64 § 30. [§ 30] Il rinvio ad altra legge. Il limite dell’ordine pubblico. Le norme di applicazione necessaria Come si è accennato, la funzione del diritto internazionale privato sostanziale è quella di individuare l’ordinamento che il giudice italiano deve applicare per regolare una certa fattispecie con elementi di estraneità. Senonché l’eventuale rinvio operato dal nostro diritto internazionale privato ad un ordinamento straniero pone problemi delicati. Anzitutto, quid iuris nell’ipotesi in cui quell’ordinamento a sua L’ulteriore rinvio volta, nella stessa situazione, rinvii ad un altro ordinamento? Ad es. il nostro diritto internazionale privato rinvia, per i rapporti tra genitori e figli, come abbiamo appena visto, alla legge nazionale « del figlio »; ma quest’ultima potrebbe a sua volta, per un determinato caso, rinviare alla legge nazionale « del padre », ovvero alla legge « del domicilio del figlio ». In precedenza l’abrogato art. 30 delle preleggi, proprio per evitare il rischio di una serie successiva di rinvii da un ordinamento all’altro, stabiliva che, quando si doveva applicare una legge straniera, non si tenesse conto « del rinvio da essa fatto ad altra legge ». Viceversa ora l’art. 13, comma 1, della L. n. 218 stabilisce che « si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato straniero alla legge di un altro Stato: a) se il diritto di tale Stato accetta il rinvio; b) se si tratta di rinvio alla legge italiana ». Peraltro i commi successivi dello stesso articolo restringono in modo rilevante i casi in cui è ammesso il rinvio successivo. Il « rinvio » alle norme di un altro ordinamento pone l’ulteriore, Il limite dell’ordine e particolarmente delicato, problema della compatibilità delle dispopubblico sizioni sostanziali di un ordinamento estraneo, reso applicabile per effetto della norma di conflitto, con i princìpi fondamentali del nostro ordinamento. L’art. 31 delle « preleggi » disponeva perciò che « in nessun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti di qualunque istituzione o ente o le private disposizioni e convenzioni possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume ». Oggi la materia è regolata dall’art. 16, comma 1, L. n. 218/1995, il quale ribadisce che la legge straniera non può essere applicata « se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico ». La nuova disposizione non considera più rilevante, in materia, « il buon costume »; soprattutto va segnalato che la valutazione non riguarda la norma straniera nella sua astratta formulazione, bensì i risultati concreti cui potrebbe condurre la sua applicazione nel caso specifico. I conflitti di leggi nello spazio [§ 31] 65 L’ordine pubblico di cui è qui questione, non è il c.d. « ordine pubblico interno » (costituito da tutte le disposizioni che non possono essere derogate dai privati, v. infra § 308), bensì quello « internazionale », che abbraccia (solo) i fondamentali princìpi cui l’ordinamento giuridico italiano è ispirato: così, ad es., non si potrebbe consentire l’applicazione di una norma straniera che ammettesse la schiavitù o la poligamia, ovvero che consentisse lo scioglimento del matrimonio per « ripudio » unilaterale di un coniuge da parte dell’altro (sulla progressiva assimilazione tra ordine pubblico interno e ordine pubblico internazionale v. Cass. 16 maggio 2016, n. 9978). Il secondo comma del medesimo art. 16 opportunamente aggiunge che — nel caso operi il ricordato limite della contrarietà all’ordine pubblico — si deve tentare ugualmente di applicare la legge richiamata « mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa ». Solo ove manchi tale possibilità « si applica la legge italiana ». Il richiamo all’ordine pubblico opera con funzione esclusiva- Le norme di mente negativa: esso preclude l’applicazione di norme ritenute in- applicazione necessaria compatibili con il nostro ordinamento. Ma non offre risposta ad un altro problema: quello di assicurare in ogni caso l’applicazione, anche ai rapporti regolati dalla legge straniera di regole che esprimano principi fondamentali e non derogabili dell’ordinamento italiano. A questo provvede l’art. 17 della L. n. 218/1995, che ha introdotto una regola non presente nelle preleggi, in forza della quale è sempre fatta salva la prevalenza delle norme italiane « che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera ». Abbiamo già incontrato esempi di norme di applicazione necessaria in materia di filiazione: il principio di unità dello status di figlio, o quello per cui entrambi i genitori condividono la responsabilità genitoriale e l’obbligo di mantenimento, si impongono anche nel caso in cui la legge straniera regolatrice del rapporto disponga diversamente. § 31. La conoscenza della legge straniera. Un’altra importante novità introdotta dalla legge di riforma del 1995 riguarda la conoscenza della legge straniera che, in base all’applicazione delle norme di conflitto, dovesse risultare applicabile. La disciplina delle « preleggi » non prevedeva regole specifiche sulle modalità di accertamento della legge straniera; la giurisprudenza pertanto tendeva, in prevalenza, a ritenere che fosse onere della Nozioni preliminari 66 [§ 32] parte, che pretendeva di far valere un qualche diritto fondato su norme dell’ordinamento straniero richiamato, provare al giudice l’esistenza delle norme invocate a proprio favore (con la conseguenza di veder respinta la propria domanda nel caso in cui non fosse riuscita a fornire la prova richiesta); un tale onere della prova poteva essere tutt’altro che agevole da assolvere, quando si trattasse di ordinamenti il cui contenuto fosse difficilmente conoscibile (per es. a causa della situazione politica del Paese al quale l’ordinamento apparteneva, ovvero della peculiarità delle fonti di quell’ordinamento). La nuova disciplina (art. 14) stabilisce invece che spetti al giudice accertare il contenuto della legge straniera applicabile, anche interpellando il Ministero della Giustizia o istituzioni specializzate ed eventualmente con la collaborazione delle parti. Nel caso in cui comunque non risulti possibile accertare le disposizioni della legge straniera richiamata, il giudice deciderà in base alla legge italiana. § 32. La condizione dello straniero. Quanto al trattamento giuridico degli stranieri si pone una fondamentale distinzione tra i « cittadini comunitari » e quelli « extracomunitari ». La Il Trattato di Maastricht ha introdotto la « Cittadinanza del« cittadinanza l’Unione » (oggi disciplinata dall’art. 9 TUE e dall’art. 20 TFUE): dell’Unione » essa è attribuita a « chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro » e costituisce un « complemento » della cittadinanza nazionale, alla quale si aggiunge senza sostituirla. Ai cittadini comunitari non solo va riconosciuto, senza possibilità di discriminazioni, pieno diritto di circolazione e soggiorno in tutti gli Stati membri e il godimento degli stessi diritti civili attribuiti al cittadino nazionale (regole particolari riguardano l’esercizio di attività professionali e imprenditoriali), ma spettano perfino alcuni limitati diritti politici, quali il voto nelle elezioni comunali nello Stato mebro nel quale risiedono (art. 22 TFUE). Sono destinatari di un trattamento di favore i cittadini di Paesi terzi che siano familiari di un cittadino dell’Unione. Gli stranieri Per gli extracomunitari la disciplina è stata affannosamente più extravolte modificata negli ultimi anni, sotto la spinta di un massiccio comunitari fenomeno migratorio. La relativa normativa è stata inserita nel « Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero » (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, successivamente ripetutamente modificato). La materia è in [§ 32] I conflitti di leggi nello spazio 67 così frenetica, e non sempre coerente, evoluzione che non è possibile in questa sede cercare di inseguirne i percorsi. Si deve invece ricordare che ai cittadini extracomunitari è comunque applicabile sia il « diritto d’asilo », previsto in generale dall’art. 10, comma 3, Cost. per qualsiasi straniero « al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana », sia l’inammissibilità della estradizione « per reati politici » (art. 10, comma 4, Cost.). Inoltre « allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti » (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 286/1998). All’extracomunitario « regolarmente soggiornante » in Italia è altresì assicurato il godimento « dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano », a meno che « le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente » (art. 2, comma 2). Le specifiche disposizioni attinenti alla disciplina dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel Paese, alla protezione internazionale, all’esercizio di attività lavorativa, all’eventuale allontanamento di soggetti entrati illegalmente nel territorio dello Stato o che abbiano commesso reati, appartengono alla legislazione speciale e non interessano in questa sede. Attiene, invece, ai rapporti di diritto privato la c.d. condizione La di « reciprocità » (art. 16 disp. prel. c.c.), ossia la previsione per cui un «dicondizione determinato diritto può essere riconosciuto in capo allo straniero a reciprocità » condizione che nella medesima fattispecie ad un italiano, nel Paese di cui quello straniero è cittadino, quel diritto sarebbe parimenti riconosciuto, non essendo ivi stabilite delle discriminazioni. Il principio di reciprocità, frutto di un modo di intendere i rapporti tra gli Stati ormai palesemente superato, è però sopravvissuto sia alla Costituzione (un orientamento di dottrina aveva sostenuto l’abrogazione implicita della norma, in quanto incompatibile con i valori costituzionali) sia alla riforma del diritto internazionale privato (la L. n. 218/1995 non contiene infatti alcuna abrogazione espressa, né detta una nuova disciplina incompatibile con l’art. 16 disp. prel.); ne è risultato, però, fortemente ridimensionato, proprio in ragione del fatto che la Costituzione, le convenzioni internazionali e, le norme comunitarie riconoscono in modo assoluto la tutela dei diritti della persona (Corte cost. 30 luglio 2008, n. 306; Cass. 2 febbraio 2012, n. 1493). 68 Nozioni preliminari [§ 32] Anzitutto esso, ovviamente, non si applica ai cittadini comunitari; inoltre il T.U. n. 286/1998 ha ulteriormente eroso l’ambito di applicazione del criterio di reciprocità, poiché, come sopra ricordato, ha riconosciuto il godimento dei diritti civili a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato (art. 2, comma 2, cit.), ma al tempo stesso fa salva l’ipotesi in cui il T.U. medesimo o le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità. La regola, dunque, è ridotta ad un àmbito di applicazione residuale, ma non può dirsi né abrogata in toto, né in assoluto incompatibile con i princìpi dell’ordinamento giuridico italiano. A tutti i lavoratori stranieri, infine, è garantita « parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani » (art. 2, comma 3, T.U. n. 286/1998). L’ATTIVITÀ GIURIDICA E LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI CAPITOLO VI LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE § 33. Il rapporto giuridico. Le relazioni umane possono essere di vario genere, ma non tutte sono rilevanti per il diritto. Il rapporto giuridico è per l’appunto la relazione tra due soggetti Il rapporto giuridico regolata dall’ordinamento giuridico. Una relazione di amicizia, per esempio, si colloca sul piano dei rapporti sociali, ma è giuridicamente irrilevante. Una relazione sentimentale tra due persone è in sé priva di significato per il diritto; se però queste decidono di contrarre matrimonio il rapporto che ne deriva è disciplinato dal diritto e sorgono una serie di effetti giuridici (quali i reciproci diritti e doveri dei coniugi; i diritti successori ecc.). Il rapporto tra il creditore e il debitore, per fare ancora un esempio, è essenzialmente una relazione giuridica. Un breve cenno, anzitutto, sui soggetti protagonisti del rap- Le parti del porto giuridico. Soggetto attivo è colui al quale l’ordinamento giuridico rapporto giuridico attribuisce un potere (o diritto soggettivo) (per es.: di pretendere un pagamento). Soggetto passivo è colui a carico del quale sussiste un dovere (p. es.: di pagare). Quando si vuole alludere alle persone tra le quali intercorre un rapporto giuridico si usa l’espressione « parti ». Contrapposto al concetto di parte è quello di terzo, che è appunto colui il quale sia estraneo ad un determinato rapporto giuridico, intercorrente tra altri soggetti (questa denominazione deriva dal fatto che negli esempi scolastici le parti venivano designate con i numeri ordinali « Primus » e « Secundus »; la persona estranea al rapporto veniva, perciò, chiamata « Tertius »). Regola generale è che il rapporto giuridico, in linea di principio e salvo esplicite eccezioni, non produce effetti né a favore né a danno del terzo (res inter alios acta tertio neque prodest, neque nocet). Tuttavia non di rado la legge si deve preoccupare di regolare la posizione dei terzi rispetto a un determinato rapporto, in quanto anche gli interessi degli estranei possono esserne indirettamente toccati dalle vicende 72 L’attività giuridica [§ 34] del rapporto stesso (es.: se Tizio vende un bene a Caio e quest’ultimo lo rivende a Sempronio, l’invalidità della prima vendita può incidere sulla posizione giuridica del subacquirente Sempronio). Il rapporto giuridico non è che una figura (la più importante) di una categoria più ampia: la situazione giuridica. La norma giuridica prevede fattispecie a cui annette determinate conseguenze giuridiche (ricevimento di una somma a prestito da cui scaturisce l’obbligo di restituzione; raggiungimento degli anni diciotto da cui deriva la capacità di agire, ecc.). Quando la fattispecie si è realizzata, un mutamento si è prodotto nel mondo dei fenomeni giuridici: allo stato di cose preesistente si è sostituito, secondo la valutazione compiuta dall’ordinamento giuridico, uno stato diverso, una situazione giuridica nuova. Questa situazione può consistere in un rapporto giuridico o nella qualificazione di persone (capacità, incapacità, qualità di coniuge, ecc.) o di cose (demanialità, ecc.). § 34. Situazioni soggettive attive (diritto soggettivo, potestà, facoltà, aspettativa, status). Il soggetto attivo del rapporto giuridico si connota quale titolare di un diritto soggettivo. Esaminiamo più da vicino questa figura fondamentale. Si è già visto che la norma è un precetto (diritto oggettivo, norma agendi) che opera non solo mediante la comminatoria di sanzioni ma anche — e questo è particolarmente importante nel diritto privato — mediante l’attribuzione di prerogative e tutele giuridiche in capo ai singoli: per esempio il proprietario ha diritto di godere e disporre della cosa che gli appartiene; il divieto di arrecare danni ad altri (neminem laedere) si traduce nella regola per cui, se taluno mi arreca un danno, ho diritto al risarcimento (art. 2043 c.c.). Con l’attribuzione del diritto soggettivo si realizza quindi la protezione giuridica di un certo interesse del singolo al quale, al tempo stesso, si riconosce una situazione di libertà (diritto soggettivo, ius est facultas agendi), in quanto, di regola, il titolare di un diritto è libero di decidere se esercitarlo o meno, e di reagire oppure no nel caso di lesione del diritto da parte di altri. Si può perciò intendere la definizione tradizionale: il diritto Diritto soggettivo soggettivo è il potere di agire (agere licere) per il soddisfacimento di un proprio interesse individuale, protetto dall’ordinamento giuridico. L’aspetto della tutela è essenziale nel qualificare una situazione di interesse personale come contenuto di un diritto del soggetto. Esi- [§ 34] Le situazioni giuridiche soggettive 73 stono, infatti, molteplici interessi individuali giuridicamente irrilevanti, ai quali l’ordinamento non concede alcuna protezione (si pensi all’aspettativa di ciascuno al rispetto, da parte degli altri, di regole di cortesia); viceversa, in tanto esiste un diritto soggettivo in quanto l’ordinamento tuteli, mediante la propria autorità e l’attivazione degli strumenti di coercizione di cui è dotato, la soddisfazione dell’interesse del singolo. La concezione tradizionale del diritto soggettivo, ora descritta, è ovviamente stata nel corso del tempo sottoposta a precisazioni, revisioni e critiche, talora anche radicali. Essa comunque costituisce tuttora un punto di riferimento del sistema e uno strumento operativo fondamentale. In alcuni casi il potere di agire per l’ottenimento di un certo Potestà e risultato pratico non è attribuito al singolo nel suo proprio interesse, uffici bensì per realizzare un interesse altrui. Per esempio ai genitori è attribuito un complesso di poteri concessi nell’interesse dei figli (§ 608). Queste figure di poteri che al tempo stesso sono doveri si chiamano potestà o uffici (è un ufficio quello del tutore di una persona incapace). Mentre, come si è detto, l’esercizio del diritto soggettivo è libero, in quanto il titolare può perseguire i fini che ritiene più opportuni, l’esercizio della potestà deve sempre ispirarsi alla cura dell’interesse altrui. Le facoltà (o diritti facoltativi) sono, invece, manifestazioni del Facoltà diritto soggettivo che non hanno carattere autonomo, ma sono in esso comprese. Così, costituisce una delle estrinsecazioni del diritto di proprietà la facoltà che ha il proprietario di chiudere il fondo in qualunque tempo (art. 841 c.c.) o di farvi apporre i confini. Dalla mancanza di autonomia delle facoltà deriva che esse si estinguono soltanto se viene meno il diritto del quale sono espressione: ciò che si traduce con la formula latina in facultativis non datur praescriptio, non è ammessa, cioè, la prescrizione estintiva delle sole facoltà, ancorché il titolare del diritto non le abbia esercitate per lungo tempo. Soltanto la prescrizione del diritto determina necessariamente l’estinzione delle inerenti facoltà. Può avvenire che l’acquisto di un diritto derivi dal concorso di Aspettativa più elementi successivi. Se soltanto di questi alcuni si siano verificati si ha la figura dell’aspettativa. Si pensi all’ipotesi di un’eredità lasciata a taluno subordinatamene alla condizione (condizione sospensiva) che consegua la laurea. Egli non acquisterà il diritto all’eredità se non quando si sarà laureato: intanto si trova in una posizione di attesa che viene tutelata dall’ordinamento (infatti, egli può compiere atti conservativi o cautelari del suo diritto: per impedire che qualcuno L’attività giuridica 74 [§ 35] disperda i beni lasciati, può ottenerne il sequestro) (§ 323). L’aspettativa è perciò un interesse individuale tutelato in via provvisoria e strumentale, ossia quale mezzo al fine di assicurare la possibilità del sorgere di un diritto. La figura del diritto soggettivo che si viene realizzando attraverso stadi successivi viene considerata, oltre che dal lato del soggetto (la cui situazione psicologica è di attesa: perciò, aspettativa), anche sotto il punto di vista oggettivo della fattispecie. Si parla, infatti, di fattispecie a formazione progressiva per dire che il risultato si realizza per gradi, progressivamente (prima l’aspettativa, poi il diritto) e l’aspettativa attribuita al singolo costituisce un effetto preliminare o prodromico della fattispecie. A volte alcuni diritti e alcuni doveri si ricollegano alla qualità di Status una persona, la quale deriva dalla sua posizione in un gruppo sociale (Stato, famiglia, ecc.). Status è, pertanto, una qualità giuridica che si ricollega alla posizione dell’individuo in una collettività. Lo status può essere di diritto pubblico (esempio, stato di cittadino) o di diritto privato (stato di figlio, di coniuge). Alcuni ampliano il concetto di status fino a parlare di status di erede, di socio, ecc., ma è preferibile usare, per designare queste situazioni, l’espressione generica « qualità giuridica ». § 35. L’esercizio del diritto soggettivo. L’esercizio del diritto soggettivo da parte di chi ne è titolare consiste nell’esplicazione dei poteri di cui il diritto soggettivo consta. Il proprietario, per esempio, esercita il diritto soggettivo di proprietà utilizzando la cosa, percependone i frutti, apponendo i confini, ecc. L’esercizio del diritto soggettivo deve essere distinto dalla sua realizzazione, che consiste nella soddisfazione materiale dell’interesse protetto, sebbene spesso i due fenomeni possono coincidere (il proprietario che raccoglie i frutti del bene esercita il potere giuridico di godimento del bene e al tempo stesso realizza, soddisfa il suo interesse materiale; il creditore, richiedendo al debitore la prestazione che gli è dovuta, esercita il suo diritto, tuttavia in tal caso il suo interesse non è soddisfatto se non quando il debitore adempie). La realizzazione dell’interesse può essere spontanea o coattiva: quest’ultima si verifica quando occorre far ricorso ai mezzi che l’ordinamento predispone per la tutela del diritto soggettivo (il debitore non adempie e il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, fa espropriare i beni del debitore) (art. 2910 c.c.). [§ 35] Le situazioni giuridiche soggettive 75 Si comprende agevolmente che chi esercita un diritto sogget- L’abuso del tivo, ancorché ciò possa essere causa della frustrazione o della lesione diritto degli interessi di altri soggetti, non è tenuto a compensare costoro per gli eventuali pregiudizi che il corretto esercizio di tale diritto possa aver eventualmente provocato (qui iure suo utitur neminem laedit). Alcune disposizioni legislative (artt. 833, 844, 1175 c.c. ecc.) vietano, peraltro, l’abuso del diritto soggettivo, ossia l’esercizio anomalo delle prerogative concesse dalla legge al titolare del diritto. Si ha abuso quando il titolare del diritto si avvale delle facoltà e dei poteri che gli sono concessi non già per perseguire l’interesse che propriamente forma oggetto del diritto soggettivo — e che come tale l’ordinamento riconosce come meritevole di tutela — bensì per realizzare finalità ulteriori, eccedenti l’ambito dell’interesse che la legge ha inteso tutelare. Da tempo si discute se questo principio abbia carattere generale oppure debba applicarsi soltanto nei casi espressamente previsti. La legge infatti è intervenuta, nelle ipotesi di maggior rilievo, con il divieto degli atti di emulazione e delle immissioni (artt. 833, 844 c.c.; §§ 138 e 139), a temperare con criteri di socialità e di solidarietà l’esercizio del diritto di proprietà e, per quanto riguarda il diritto di credito, ha stabilito (art. 1175 c.c.) che il debitore ed il creditore debbono comportarsi secondo le regole della correttezza. Là dove il legislatore nulla ha disposto, invece, potrebbe apparire pericoloso affidare al giudice poteri discrezionali nella individuazione caso per caso di variabili confini di liceità nell’uso « normale » del diritto, in quanto verrebbe posta in discussione l’esigenza di certezza che — come abbiamo visto (§ 9) — è fondamentale nell’ordinamento giuridico. Ciò ha indotto parte della dottrina a ritenere inoperante lo strumento dell’abuso del diritto in ipotesi diverse da quelle in cui il medesimo è considerato e represso dalla legge; altri interpreti, ed è la posizione che oggi si sta affermando, anche nell’applicazione giurisprudenziale, ne ammettono un più largo impiego, fondandosi sul carattere generale dei principi di solidarietà e di correttezza e buona fede, ma sempre richiamando l’esigenza di un impiego accuratamente sorvegliato di tale strumento (in ambito tributario si vanno affermando approcci che qualificano “abusivi” i comportamenti volti ad eludere l’applicazione delle imposte; cfr. Cass. 27 gennaio 2017, n. 2054; la materia peraltro risente delle specifiche norme dettate al riguardo). Pertanto, mentre, in forza dell’art. 833 c.c., il proprietario non può piantare alberi, se ciò non gli arreca alcuna utilità, ma è fatto al solo scopo di togliere al vicino una veduta panoramica (§ 138), il L’attività giuridica 76 [§ 36] creditore può richiedere il pagamento del suo credito e, in caso d’inadempimento, domandare il fallimento del debitore (qualora si tratti di un imprenditore commerciale), anche se non ha bisogno del danaro dovutogli, non potendosi tale condotta reputare abusiva (nell’accezione sopra illustrata), benché il creditore sia consapevole delle gravi conseguenze della sua iniziativa. Un argine all’esercizio abusivo del diritto è ravvisato nell’excepL’exceptio doli generalis tio doli generalis seu preasentis. Si tratta di un istituto ripreso dal diritto romano e adottato dalla nostra giurisprudenza come rimedio generale volto a precludere l’esercizio fraudolento o sleale di diritti attribuiti dall’ordinamento: in taluni casi la pretesa del titolare del diritto può essere paralizzata, e la relativa domanda rigettata dal giudice, quando appunto la pretesa, pur corrispondente al contenuto di un diritto, appaia proposta in modo contrario a correttezza, o in contrasto con pregresse condotte del titolare (venire contra factum proprium), o comunque in mala fede. Talune norme, poi, prendono in considerazione e reprimono Altre figure di abuso specifiche ipotesi di abuso (non già di uno specifico diritto soggettivo, bensì) di particolari situazioni materiali di vantaggio nelle quali un soggetto possa venire a trovarsi: si parla, per esempio, di abuso, da parte di un contraente, della situazione di dipendenza economica nella quale l’altro si trovi rispetto al primo (L. 18 giugno 1998, n. 192, regolante la subfornitura nelle attività produttive: § 388), oppure di abuso di posizione dominante, come condotta vietata dalle norme a tutela della concorrenza (art. 3 L. 10 ottobre 1990, n. 287, c.d. « legge antitrust »). La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) enuncia, all’art. 54, un divieto dell’abuso di diritto, sancendo che nessuna disposizione della Carta « deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciuti nella presente Carta o a imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta ». § 36. Diritti assoluti e relativi Categorie di diritti soggettivi. Se io sono proprietario di un bene, ho evidentemente il potere di escludere tutti gli altri dalla facoltà di godimento e di disposizione del bene stesso (ius excludendi alios; art. 832 c.c.). Il mio diritto soggettivo non consiste in tal caso in una pretesa verso un soggetto determinato ad un certo comportamento da parte sua (cioè ad una [§ 36] Le situazioni giuridiche soggettive 77 prestazione a mio vantaggio), ma è in generale rivolto verso tutti gli altri consociati, che sono tenuti a non interferire con il godimento della cosa che mi appartiene. Se invece ho dato in prestito una somma ad una persona, il mio diritto alla restituzione della somma non può rivolgersi che verso quella persona: essa sola è tenuta a ridarmi il danaro. Inoltre, mentre posso esercitare il mio diritto di proprietà senza bisogno di alcuna cooperazione di altri (posso passeggiare nel mio fondo, cogliere i frutti, utilizzare la mia automobile, senza che vi sia bisogno di un’attività di terzi: mi basta che questi non mi ostacolino o impediscano di compiere tali attività), invece per realizzare il diritto di credito è necessaria la cooperazione del debitore: dipende dal comportamento di quest’ultimo se l’obbligazione sarà adempiuta. Questi esempi valgono a chiarire la prima distinzione dei diritti soggettivi in diritti assoluti, che garantiscono al titolare un potere che egli può far valere verso tutti (erga omnes) e diritti relativi, che gli assicurano un potere che egli può far valere solo nei confronti di una o più persone determinate. Tipici diritti assoluti sono i diritti reali (iura in re) e cioè diritti Diritti reali su una cosa (res). Essi attribuiscono al titolare una signoria, piena (proprietà) o limitata (diritti reali su cosa altrui), su un bene. Campeggia in primo piano la relazione immediata tra il soggetto e la cosa. Gli altri consociati debbono solo astenersi dall’impedire il pacifico svolgimento di quella signoria. Ciò perché l’interesse del proprietario è quello di conservare la disponibilità di un bene che gli appartiene e di poterne in tal modo trarre la conseguente utilità, senza essere turbato nell’esercizio del godimento esclusivo della res. È stato efficacemente detto che nei diritti reali l’ordinamento risolve un problema di attribuzione di beni, nei rapporti di obbligazione un problema di cooperazione. La categoria dei diritti assoluti non comprende solo i diritti reali ma anche i cosiddetti diritti della personalità (diritto all’integrità fisica, al nome, all’immagine, ecc.) che sono tutelati in capo al singolo nei confronti di chiunque. La concezione tradizionale del diritto reale è stata sottoposta a critica: un rapporto giuridico del titolare del diritto con tutti i consociati — si è detto — è inconcepibile, si tratterebbe di una finzione del tutto astratta. Per sfuggire a questa critica, si è precisato che soggetti passivi del diritto reale non sono « tutti », ma solo quelli che possono venire, di fatto, a contatto con la cosa, che abbiano, cioè, concretamente la possibilità di interferire con la posizione del titolare del diritto. E così, nel momento in cui un estraneo si sia impossessato 78 L’attività giuridica [§ 36] della cosa, o l’abbia danneggiata o distrutta, si verifica una lesione del diritto del proprietario, che comporta la reazione dell’ordinamento, che mette a disposizione opportuni strumenti di tutela per far conseguire al proprietario stesso la restituzione del bene o il risarcimento del danno arrecato. Nel rapporto obbligatorio (o di credito), invece, è determinante per la realizzazione dell’interesse del titolare del diritto il comportamento di un altro soggetto, il quale (soggetto passivo) è tenuto a una determinata condotta (prestazione: che può consistere in un dare, fare, non fare; p. es. restituire la somma ricevuta in prestito, realizzare un’opera) verso il creditore (soggetto attivo). Quest’ultimo ha interesse a conseguire un bene o una prestazione da altri: ha quindi bisogno della cooperazione altrui. Ciò spiega perché, mentre è sufficiente l’esercizio del diritto reale per la realizzazione dell’interesse tutelato, è invece necessaria la cooperazione di un altro soggetto (di solito il debitore) (v. anche § 219) perché si verifichi la realizzazione spontanea dell’interesse del creditore (per la distinzione tra esercizio e realizzazione del diritto soggettivo v. § 35). Diritti La categoria dei diritti relativi si riferisce perciò a quei diritti relativi che attribuiscono al titolare una pretesa, o comunque una situazione giuridica attiva, nei confronti non della generalità dei consociati, ma esclusivamente di soggetti individuati. Essa comprende in primo luogo i diritti di credito, che vengono anche chiamati personali in contrapposto ai diritti reali perché hanno appunto come termine di riferimento non una res, ma una persona, tenuta ad un determinato comportamento nei confronti del titolare del diritto. Il dovere Il rovescio, sia del diritto di credito che del diritto reale, è costituito dal dovere: a fronte del diritto reale si pone, in capo a qualsiasi consociato, un generico dovere negativo, di astensione dal compiere qualsiasi atto volto ad impedire o limitare il godimento del bene da parte del proprietario; a fronte del diritto di credito si pone il dovere (che più precisamente si chiama obbligo) di una o più persone determinate, specificamente tenute ad eseguire una determinata prestazione o tenere un certo comportamento, funzionale alla soddisfazione dell’interesse del creditore. Vi sono, ancora, ipotesi nelle quali al potere di una persona non I diritti potestativi e corrisponde alcun dovere, ma solo uno stato di soggezione. Cerchiamo la soggezione di spiegare il concetto con un esempio. Nel caso di beni indivisi appartenenti a più soggetti (comunione) ciascuno dei comproprietari può chiedere la divisione (art. 1111 c.c.): gli altri comproprietari nulla possono fare di fronte a questa iniziativa. Queste considerazioni [§ 37] Le situazioni giuridiche soggettive 79 permettono di individuare un’ulteriore categoria di diritti soggettivi diffusamente accolta: la categoria dei diritti potestativi. Essi consistono nel potere di operare il mutamento della situazione giuridica di un altro soggetto: così, ad es., il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione forzosa (art. 874 c.c.), ovvero il contraente che abbia pattuito una caparra penitenziale può liberamente recedere dal contratto (art. 1386 c.c.). Il soggetto passivo si trova in questo caso in una situazione di soggezione: basta l’iniziativa del titolare perché si abbia la realizzazione dell’interesse tutelato; il comportamento del soggetto passivo è irrilevante. È disputato se i diritti personali di godimento (che consistono Diritti di nella situazione in un cui un soggetto si è obbligato a far godere di un personali godimento proprio bene un altro soggetto: per es. nella locazione o nel comodato; §§ 384 e 400) abbiano una duplice natura. Secondo l’opinione ancora oggi prevalente (v. anche § 384), il diritto che, per esempio, spetta all’inquilino di un appartamento non è che un diritto di credito verso colui che gli ha dato in locazione l’appartamento e che, secondo l’art. 1571 c.c., si obbliga a fargli godere la cosa locata. Tuttavia un’opinione sostiene che i diritti personali di godimento hanno una duplice natura: relativa verso chi ha concesso il godimento, assoluta verso tutti i consociati i quali sono tutti tenuti ad astenersi dal turbare tale godimento. § 37. Gli interessi legittimi. Per interesse si intende qualsiasi vantaggio o utilità, che costituisce l’obiettivo o il movente dell’agire di un soggetto. L’interesse si dice pubblico o privato, a seconda di chi ne sia portatore. Un interesse privato si dice « semplice » o « di fatto » quando non fruisce di alcuna particolare protezione giuridica (ho interesse, come chiunque, a che vi siano strutture sanitarie e medici capillarmente diffusi sul territorio, in modo da poter essere assistito subito in caso di necessità, ma non ho alcun diritto, in senso tecnico, di pretenderlo; non ho, cioè, alcun potere di promuovere un procedimento giudiziario nei confronti di un qualche soggetto o ente per poter ottenere la soddisfazione di quell’interesse, per esempio costruendo un ospedale in una certa località). Quando, invece, come si è detto, il mio personale interesse riceve piena tutela giuridica, sicché mi è concesso di sollecitare la tutela attraverso gli strumenti di coercizione messi a disposizione dall’ordi- 80 L’attività giuridica [§ 37] namento per ottenerne la soddisfazione (es.: se il debitore non mi paga posso agire in giudizio per ottenere la condanna al pagamento e promuovere un’azione volta ad espropriare i beni del debitore per farli vendere e soddisfare il mio credito con il ricavato), allora sono titolare di un diritto soggettivo. Ancora, se il mio vicino taglia un albero del mio giardino posso agire nei suoi confronti per ottenere il risarcimento del danno; invece se l’amministrazione comunale taglia gli alberi di un parco per realizzare un parcheggio, posso dissentire, ma non posso lamentare la lesione di un mio diritto soggettivo individuale. Si parla di interesse legittimo nell’ambito dei rapporti tra il Gli interessi legittimi privato e i pubblici poteri. Tale situazione comporta il potere del singolo di sollecitare un controllo giudiziario in ordine al comportamento tenuto, correttamente o meno, dalla pubblica amministrazione. Talora, invero, anche il rapporto fra il cittadino ed una Pubblica Amministrazione si configura connotato da una correlazione e reciprocità di veri e propri diritti soggettivi e di obblighi. Si parla, in tal caso, di norme « di relazione », in quanto disciplinano uno specifico rapporto interindividuale tra il privato e l’ente pubblico (ad es.: il pubblico impiegato ha un diritto soggettivo perfetto al pagamento della retribuzione). Diverse sono le norme « di azione », che regolano, cioè, il funzionamento — l’azione, appunto — delle pubbliche amministrazioni (ad es. regole sui concorsi pubblici). Da queste norme non derivano, in capo ai privati interessati alla loro osservanza, diritti soggettivi pieni, perché quelle norme non sono destinate a tutelare specifici interessi individuali, ma soltanto a disciplinare l’attività pubblica. In taluni casi però l’esercizio dei pubblici poteri incide direttamente sulla sfera di determinati soggetti, non genericamente in quanto cittadini interessati al bene collettivo, bensì specificamente come portatori di specifici interessi individuali coinvolti dall’azione pubblica: ad es. il candidato ad un concorso, l’imprenditore che partecipa ad una gara per l’assegnazione di un appalto, il proprietario di un fondo sottoposto alla procedura dell’espropriazione, ecc. In questi casi al privato viene riconosciuto uno specifico potere di controllo della regolarità dell’azione pubblica ed un potere di impugnativa degli atti eventualmente viziati (art. 113 Cost.). L’esercizio dei poteri pubblici, infatti, nello Stato moderno non è abbandonato all’arbitrio dell’autorità titolare del potere, ma è regolato da norme giuridiche (si parla perciò di Stato « di diritto »). [§ 37] Le situazioni giuridiche soggettive 81 La situazione giuridica dei portatori di tali interessi qualificati viene definita come « interesse legittimo » e si traduce non già nella tutela dell’interesse del singolo a veder concretamente soddisfatto un proprio bisogno o aspirazione, ma in una tutela soltanto mediata o strumentale, ossia nel controllo del corretto esercizio delle pubbliche funzioni (il candidato ad un concorso non ha diritto di vincerlo, ma ha un interesse legittimo al regolare svolgimento della procedura, alla corretta ed imparziale valutazione dei candidati, e può quindi chiedere l’annullamento di tutti gli atti che siano illegittimi, compiuti cioè in violazione delle norme « di azione » dettate per disciplinare l’attività dell’amministrazione che ha bandito il concorso; il proprietario può reagire contro i privati che ledano il suo diritto di proprietà, esercitando il proprio diritto soggettivo, se invece subisce un’espropriazione per pubblico interesse, deve soggiacere al provvedimento dell’autorità, ma può far valere un interesse legittimo al corretto esercizio del potere di espropriazione e chiedere l’annullamento degli atti eventualmente illegittimi). Gli artt. 24, comma 1, e 113 della Carta costituzionale garantiscono la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi, e l’art. 103 Cost. specifica gli organi ai quali è affidata tale tutela. Il tipico strumento di tutela dell’interesse legittimo consiste, L’impugnazione atti come si è anticipato, nell’impugnazione dell’atto amministrativo ille- degli amministrativi gittimo, al fine di ottenerne l’annullamento. Infatti l’esercizio dei pubblici poteri, da parte degli organi amministrativi, deve avvenire nel rispetto della legge e secondo criteri di razionalità. Pertanto il privato, portatore di un interesse legittimo in relazione ad un determinato provvedimento della Pubblica Amministrazione, può contestarne la validità, rivolgendosi agli organi giudiziari competenti (a tal fine sono stati costituiti i Tribunali Amministrativi Regionali, T.A.R.) e deducendo il relativo vizio, che può essere un vizio di incompetenza (un organo amministrativo ha compiuto un atto non rientrante nei suoi poteri), di violazione di legge (il provvedimento si pone in contrasto con le norme di legge che ne definiscono, per es., i presupposti o i contenuti), o di eccesso di potere (l’atto risulta viziato da illogicità e contraddittorietà, concretando uno « straripamento » di potere, ossia un non corretto uso del potere da parte dell’organo che ha compiuto l’atto). L’accoglimento dell’impugnativa del privato conduce all’annullamento dell’atto amministrativo ritenuto illegittimo. Un problema dibattuto per decenni riguardava la sussistenza o Lesione di meno di un diritto del privato, che sia leso da un atto amministrativo interessi legittimi e illegittimo, di ottenere il risarcimento del danno subìto per effetto di risarcimento tale atto (non ho un diritto al rilascio di un provvedimento che mi del danno 82 L’attività giuridica [§ 37] consenta di costruire sul terreno di mia proprietà, ma se il provvedimento mi viene illegittimamente negato, subisco, ovviamente, un danno). La risposta è stata a lungo negativa; si riteneva che l’aspettativa del privato alla corretta esplicazione dei poteri pubblici potesse ricevere tutela soltanto mediante la rimozione degli atti illegittimi, ma non anche attraverso lo strumento del risarcimento del danno, perché, si diceva, quest’ultimo presuppone la sussistenza di un diritto soggettivo (ossia di una forma giuridica di protezione assoluta dell’interesse individuale), mentre di fronte all’azione della P.A. il privato è titolare, appunto, esclusivamente di un interesse (legittimo) alla corretta esplicazione dei pubblici poteri, ma l’ordinamento non assicura al singolo il diritto di ottenere in ogni caso la soddisfazione del proprio interesse sostanziale. Sul tema è intervenuta un’importante decisione della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (la sentenza 22 luglio 1999, n. 500), la quale ha affermato il principio per cui anche la lesione di un interesse individuale costituente oggetto di un interesse legittimo può costituire fonte di danno risarcibile: pertanto il privato, che abbia subìto una perdita a causa di un atto amministrativo illegittimo (e in quanto tale annullato), ha diritto di ottenere il risarcimento del danno patito. Oggi l’art. 7 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo) attribuisce espressamente alla competenza del Giudice amministrativo le controversie relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi. Secondo talune tesi la figura dell’interesse legittimo, oltre che Interessi legittimi nel nel diritto amministrativo, sarebbe rintracciabile anche nel diritto diritto privato privato: ad es. le norme che regolano il funzionamento delle assemblee di una società per azioni sono stabilite nell’interesse della società, ma il singolo socio che si ritenga leso da una deliberazione può chiedere al giudice di annullarla, se sia stata adottata violando le norme suddette (v. § 529), impugnativa che sarebbe quindi concessa a tutela di un interesse legittimo dei soci. Altri richiamano casi in cui l’ordinamento conferisce a soggetti privati poteri da esercitarsi in forma discrezionale per la cura di interessi altrui (ad es. poteri familiari dei genitori o del tutore). La tendenza a fare dell’interesse legittimo una figura applicabile anche nell’ambito del diritto privato suscita peraltro perplessità, data la sua peculiare natura di figura tipica del diritto amministrativo. [§ 39] Le situazioni giuridiche soggettive § 38. 83 Situazioni di fatto. Quelle che abbiamo esaminato sono le situazioni giuridiche legittime, ossia le situazioni conformi alle previsioni dell’ordinamento e alle regole da esso stabilite. Ma l’ordinamento stesso protegge provvisoriamente contro i comportamenti lesivi altrui anche la situazione di fatto in cui il soggetto può trovarsi rispetto ad un bene ed attribuisce anche ad essa alcuni effetti (indipendentemente della sua conformità o meno ad una situazione di diritto). Si hanno allora le due figure del possesso e della detenzione, delle quali si parlerà più diffusamente al § 177. Le situazioni di fatto possono essere altresì rilevanti in tema di società (per le società « di fatto » v. il § 514), di « pre-uso » di un marchio (v. § 486), di famiglia (v. § 578), di rapporti di lavoro (art. 2126 c.c.), ecc.: ce ne occuperemo volta a volta nell’ambito della trattazione dedicata ai singoli istituti. § 39. Situazioni soggettive passive (dovere, obbligo, soggezione, onere). Dopo quanto abbiamo detto a proposito delle categorie dei Dovere, diritti soggettivi, poco ci resta da esporre circa la posizione del obbligo, soggezione soggetto passivo. Ripetendo, per ragioni sistematiche e di chiarezza, cose in parte già dette, distingueremo la figura del dovere generico di astensione che incombe su tutti i consociati a fronte di un diritto assoluto: ossia dovere di astenersi dal ledere il diritto assoluto (proprietà, integrità fisica) di un’altra persona (neminem laedere); quella dell’obbligo cui è tenuto il soggetto passivo di un rapporto obbligatorio, a cui fa riscontro nel soggetto attivo la pretesa, ossia il potere di esigere uno specifico comportamento (una prestazione) da un altro individuo (pagare una somma di denaro; eseguire un servizio), volto a soddisfare un interesse sostanziale del titolare del diritto; e quella della soggezione che corrisponde al diritto potestativo. Dalle situazioni passive innanzi considerate si deve distinguere Onere la figura dell’onere. Questa figura ricorre quando ad un soggetto è attribuito un potere, ma l’esercizio di tale potere è condizionato a un previo comportamento (che però, essendo previsto nell’interesse dello stesso soggetto, non è obbligatorio e quindi non prevede sanzioni per l’ipotesi che resti inattuato): ad es., il compratore che intenda avvalersi della garanzia per i vizi della cosa vendutagli (v. § 372) ha l’onere di denunciare i vizi della cosa entro otto giorni dal momento in cui li L’attività giuridica 84 [§ 40] ha scoperti (art. 1495 c.c.), altrimenti perde il diritto di far valere la garanzia. Non costituisce un vero « onere », nel senso appena illustrato, il Onere della prova c.d. « onere della prova » (art. 2697 c.c.), che, come meglio vedremo a suo luogo (cfr. § 123), rappresenta, più che un onere, un rischio per il soggetto che ne è gravato, in quanto il giudice di fronte ad un fatto (rimasto) incerto nel giudizio, deve accogliere come vera la versione offerta dalla parte che non aveva l’onere di provare quel fatto. Il termine « onere » viene inoltre adoperato anche in un altro Onere o modus significato completamente diverso dai precedenti, e cioè quale sinonimo di « modo », nell’ambito dei c.d. elementi « accidentali » del negozio (v. § 327). § 40. Vicende del rapporto giuridico. Il rapporto giuridico nasce o, come è più preciso dire, si costituisce allorché il soggetto attivo acquista il diritto soggettivo. L’acquisto indica il fenomeno del collegarsi di un diritto con una Acquisto titolo persona che ne diventa il titolare: in sostanza, un diritto soggettivo originario e derivativo entra a far parte della complessiva situazione giuridica facente capo ad una persona. L’acquisto può essere di due specie: a titolo originario, quando il diritto soggettivo sorge a favore di una persona, senza esserle trasmesso da nessuno; a titolo derivativo, quando il diritto si trasmette da una persona ad un’altra. Per esempio, il pescatore che fa propri i pesci caduti nella rete compie un acquisto a titolo originario (art. 923, comma 2, c.c.): il pesce era, infatti, prima che egli se ne appropriasse, cosa di nessuno (res nullius). Si ha acquisto a titolo originario anche se la cosa ha già formato oggetto di altro rapporto, ma il soggetto non subentra in tale rapporto, perché la cosa non gli viene trasmessa dal precedente titolare. È, quindi, a titolo originario l’acquisto per occupazione delle cose abbandonate (res derelictae) ovvero l’acquisto per usucapione di un bene altrui. Se, invece, compro un immobile da chi è proprietario, compio un acquisto a titolo derivativo (derivativo perché deriva dal diritto del precedente titolare). Titolo d’acquisto o, come anche si dice, causa adquirendi è l’atto Titolo dell’acquisto o il fatto giuridico che giustifica l’acquisto. Com’è chiaro, nell’acquisto a titolo derivativo si verifica il Successione passaggio di un diritto (assoluto o relativo) dal patrimonio giuridico di una persona a quello di un’altra. Questo fenomeno si chiama [§ 40] Le situazioni giuridiche soggettive 85 successione. Esso indica il mutamento del soggetto di un rapporto giuridico (o di un complesso di più rapporti giuridici): colui che per effetto della successione perde il diritto si chiama autore o dante causa; chi lo acquista successore o avente causa. È chiaro che una successione non si verifica nel caso di acquisto a titolo originario; coincidono, invece, i due fenomeni (acquisto e successione) nell’acquisto a titolo derivativo, in cui appunto una persona subentra all’altra nella titolarità di un diritto soggettivo. Può verificarsi non soltanto il mutamento del soggetto attivo del rapporto (successione nel lato attivo), ma anche quello del soggetto passivo (successione nel lato passivo: per es., l’erede succede, come vedremo, nell’obbligo di pagare i debiti del defunto). L’acquisto a titolo derivativo può essere di due specie: si può trasmettere proprio lo stesso diritto che aveva il precedente titolare (acquisto derivativo-traslativo) o può attribuirsi al nuovo titolare un diritto differente che, peraltro, scaturisce dal diritto del precedente titolare (acquisto derivativo-costitutivo o successione a titolo derivativocostitutivo), in quanto lo suppone e ne assorbe il contenuto, o, in parte, lo limita. Così il contenuto del diritto di proprietà comprende il godimento e la disposizione della cosa (art. 832 c.c.); se il proprietario attribuisce ad un’altra persona il diritto di godere della cosa (usufrutto: art. 981 c.c.), l’acquisto che l’usufruttuario compie è a titolo derivativo-costitutivo. Nelle due forme di acquisto a titolo derivativo (o nella successione, espressione, che — come abbiamo visto — indica lo stesso fenomeno) il nuovo soggetto consegue lo stesso diritto che aveva il precedente titolare ovvero un diritto da esso derivante (nemo plus iuris quam ipse habet transferre potest). Ciò giustifica le regole seguenti: 1) il nuovo titolare non può vantare un diritto di portata più ampia di quello che spettava al precedente titolare; 2) l’acquisto del diritto del nuovo titolare dipende, di regola, dalla effettiva esistenza del diritto del precedente titolare. Se, per esempio, ho ereditato da una persona un bene e risulta che il mio dante causa non è proprietario del bene, anche il mio diritto cade (resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis). Come vedremo il principio non è, tuttavia, senza deroghe. Se il fenomeno dell’acquisto a titolo derivativo è considerato non con riferimento alla persona a cui favore si verifica, ma avendo riguardo alla persona che trasferisce il diritto, si ha il concetto di alienazione (alienum facere). Tizio vende una cosa a Caio: Tizio fa un’alienazione, Caio un acquisto. 86 L’attività giuridica [§ 40] La successione è di due specie: a titolo universale, quando una persona subentra in tutti i rapporti di un’altra persona, e, cioè, sia nella posizione attiva (es., diritti di proprietà, crediti ecc.) sia in quella passiva (debiti) (successio in universum ius); a titolo particolare, quando una persona subentra solo in un determinato diritto o rapporto (o in più rapporti determinati). Nell’ordinamento giuridico italiano la successione a titolo universale si verifica nel caso di morte di una persona (successione a causa di morte) o nel caso di fusione tra società (v. § 553). Come vedremo, si distingue a questo proposito l’erede, che subentra nella titolarità dei rapporti attivi e passivi che facevano capo al defunto (successione a titolo universale), dal legatario, che subentra solo in rapporti determinati (successione a titolo particolare). Estinzione La vicenda finale del rapporto è la sua estinzione. Il rapporto si estingue quando il titolare perde il diritto senza che questo sia trasmesso ad altri. Ciò si verifica, ad es., nel caso di derelictio di cosa mobile (v. art. 827 c.c.), o nel caso dell’estinzione del rapporto obbligatorio (es.: per rimessione del debito o impossibilità di esecuzione della prestazione). Non tutti i diritti soggettivi sono rimessi all’arbitrio del titolare. Diritti disponibili e Accanto alla categoria, certamente ampia nel diritto privato, dei indisponibili diritti disponibili (dei quali il titolare può appunto disporre, alienandoli o rinunziandovi) v’è quella dei diritti indisponibili che è presa varie volte in considerazione dal codice (es., nullità della transazione su diritti indisponibili: art. 1966 c.c.). Indisponibili sono in genere i rapporti che servono a soddisfare un interesse superiore: tali le potestà e i diritti familiari. Successione a titolo universale e particolare CAPITOLO VII IL SOGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO § 41. Soggetto e persona. Le situazioni giuridiche soggettive (ad es., i diritti, gli obblighi, Il soggetto di i doveri, gli oneri, ecc.) fanno capo a quelli che vengono definiti come diritto « soggetti ». L’idoneità ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive La capacità — l’idoneità, cioè, ad essere « soggetti » — viene definita come « ca- giuridica pacità giuridica ». La capacità giuridica, nel nostro ordinamento, compete non solo La persona alle persone fisiche (v. §§ 42 ss.), ma anche agli enti (ad es., associa- fisica zioni, fondazioni, comitati, società, consorzi, enti pubblici, ecc.) (v. §§ 69 ss.) e — secondo un’opinione non marginale — addirittura ad altre strutture organizzate che la legge tratta, almeno a certi fini, come autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive: ad es., la “rete” iscritta nella sezione ordinaria del registro delle imprese (art. 3, comma 4-quater, D.L. 10 febbraio 2009, n. 5), ovvero il condominio (v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12501; sulla scia di Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19663; v. però anche Cass. 15 novembre 2017, n. 27101). All’interno degli enti, occorre poi distinguere fra enti che sono Persona ed « persone giuridiche » (ad es., associazioni riconosciute, società di giuridica enti non capitali, enti pubblici) ed « enti non dotati di personalità » (ad es., dotati di associazioni non riconosciute, società di persone, ecc.) (v. § 70). personalità Entrambi sono « soggetti » di diritto. I primi hanno, però, autonomia patrimoniale perfetta (ossia, delle obbligazioni dell’ente risponde solo l’ente stesso con il proprio patrimonio), che difetta invece ai secondi. I concetti di « soggetto » e di « persona », dunque, non coincidono. Soggetto e Le « persone » — « fisiche » e « giuridiche » — sono « soggetti », ma non persona esauriscono quest’ultima categoria, che comprende anche gli enti non dotati di personalità e gli altri centri autonomi di imputazione giuridica. L’attività giuridica 88 [§ 42] A) LA PERSONA FISICA § 42. La capacità giuridica della persona fisica. L’uomo — per il solo fatto della nascita (art. 1, comma 1, c.c.) — acquista la capacità giuridica e, conseguentemente, diviene soggetto di diritto. E la Costituzione repubblicana — all’art. 22 — enuncia solennemente il principio secondo cui « nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica ». La capacità giuridica, dunque, compete indifferentemente a tutti Capacità giuridica e gli uomini (per tali ovviamente intendendosi gli esseri umani, a principio di eguaglianza prescindere da distinzioni di sesso). ... Siffatto principio — che può sembrare ovvio, essendo ormai stabilmente acquisito al nostro patrimonio culturale — costituisce, in realtà, una conquista relativamente recente della civiltà giuridica occidentale. Senza necessità di risalire all’epoca romana (quando, ad es., lo schiavo non era « soggetto » di diritto, ma « oggetto » di proprietà da parte del dominus), sarà sufficiente ricordare che ancora nel periodo immediatamente precedente la rivoluzione francese il diritto distingueva — diversamente conformando diritti e capacità di ciascuno (relativamente, ad es., alle libertà personali; alla giurisdizione applicabile; al regime matrimoniale, familiare e successorio; alla possibilità di accedere a professioni, arti, mestieri e commerci; alla possibilità di essere proprietari di determinate categorie di beni, di assumere determinati uffici; ecc.) — tra soggetti di religione cattolica, soggetti di religione protestante e, soprattutto, ebrei; tra soggetti nobili, soggetti borghesi, soggetti appartenenti al clero, soggetti servi; tra soggetti maschi e soggetti femmine: finendo con il delineare, per ciascuno, uno status giuridico differenziato. È solo con la caduta dell’ancien régime che si afferma il « rivo... formale luzionario » principio — di derivazione giusnaturalista ed illuminista — secondo cui « gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti » (come si legge, testualmente, all’art. 1 della francese « Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino » del 26 agosto 1789). Proprio nel solco della tradizione così inaugurata, l’art. 3 della nostra Costituzione repubblicana proclama oggi solennemente che « tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ». Capacità giuridica [§ 42] Il soggetto del rapporto giuridico 89 E, in ossequio a detto principio, il legislatore è reiteratamente intervenuto per eliminare quelle limitazioni formali alla capacità dei cittadini che erano state, in passato, introdotte nel nostro ordinamento sulla base della razza (v. R.D.L. 20 gennaio 1944, n. 25, che ha abrogato le sciagurate leggi razziali del periodo 1938-1942), del sesso (v. i provvedimenti — tra cui la L. 9 febbraio 1963, n. 66 — abolitivi dei divieti di accesso della donna a talune carriere pubbliche, in particolare alla magistratura ordinaria ed amministrativa), delle condizioni personali (v. le incapacità speciali ampiamente previste dal testo originario del codice civile in danno dei figli nati fuori del matrimonio, prima non di rado incorse nei fulmini della Corte costituzionale, poi sistematicamente eliminate dalla riforma organica del diritto di famiglia del 1975), ecc. Peraltro, sempre più avvertita anche nella coscienza sociale è ... sostanziale l’idea che il superamento delle limitazioni formali della capacità dei cittadini è condizione necessaria, ma non sufficiente per la completa attuazione del principio di eguaglianza. In quest’ottica, l’art. 3, comma 2, Cost. prevede testualmente che « è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ». Ed è innegabile che il legislatore ordinario si sia mosso nella Il « codice pari direzione indicata dalla Carta costituzionale. Ad es., ha varato il delle opportunità » « Codice delle pari opportunità tra uomo e donna » (D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, ora ampiamente novellato — in attuazione della direttiva 2006/54/CE — con D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5), che non si limita a vietare atti discriminatori in ragione del sesso, ma prevede altresì « azioni positive » (art. 42, comma 1, D.Lgs. n. 198/2006) « volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo » (art.1, comma 1, D.lgs. n. 198/2006). Capacità giuridica di diritto privato compete non solo al citta- Capacità dino, ma anche allo straniero: peraltro — dispone l’art. 16 disp. prel. giuridica dello al c.c. — con il limite del rispetto del c.d. « principio di reciprocità » (lo straniero straniero è, cioè, ammesso a godere in Italia dei diritti civili, se e nella misura in cui il cittadino italiano è ammesso al godimento di detti diritti nel Paese di cui lo straniero ha la cittadinanza). L’applicazione del « principio di reciprocità » può risolversi — è evidente — in forme 90 L’attività giuridica [§ 43] di limitazione, anche pesanti, della capacità dello straniero, non cittadino di Stati membri dell’Unione europea, di godere dei diritti civili in Italia (v. Cass. 30 giugno 2014, n. 14811). Ora, però, il riferimento al « principio di reciprocità » non comPrincipio di reciprocità e pare più nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, laddove prevede che « allo diritti fondamentali straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato della persona sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti » (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 286/1998). E la giurisprudenza afferma che un’interpretazione dell’art. 16 disp. prel. c.c., condotta alla luce dei principi di cui agli artt. 2, 3 e 10 Cost. (c.d. interpretazione costituzionalmente orientata), induce alla conclusione che i diritti inviolabili della persona umana sono riconosciuti dal nostro ordinamento in favore di chiunque, cittadino o straniero (anche extracomunitario), indipendentemente dal riconoscimento di un egual diritto in favore del cittadino italiano nello Stato cui appartiene lo straniero (v. Cass. 7 giugno 2015, n. 13923; Cass. 13 novembre 2014, n. 24201; Cass. 4 novembre 2014, n. 23432). § 43. La nascita e la morte. La persona fisica acquista la capacità giuridica con la nascita (art. 1, comma 1, c.c.) e la perde con la morte (come si arguisce non solo dall’art. 4 c.c., ma soprattutto dall’art. 456 c.c.). Si ha nascita — secondo la scienza medico-legale, cui occorre far La nascita riferimento nel silenzio del codice — con l’acquisizione della piena indipendenza dal corpo materno che si realizza con l’inizio della respirazione polmonare (mentre le funzioni circolatoria e nervosa preesistono). Conseguentemente, nel dubbio se il feto sia nato morto o se la morte sia sopravvenuta dopo la nascita, sarà necessario accertare se i polmoni hanno respirato o meno (facendo ricorso ai criteri medico-legali della c.d. docimasia polmonare). La nascita è condizione necessaria, ma anche — almeno di regola (v. § 44) — sufficiente per l’acquisto della capacità giuridica. In particolare, non occorre la vitalità (ossia, l’idoneità fisica alla sopravvivenza). Se il neonato è morto subito dopo la nascita, ha comunque acquisito — sia pure per qualche momento soltanto — la capacità giuridica, con quel che ne consegue (ad es., è chiamato alla successione del padre che sia premorto: art. 462 c.c.). Acquisto e perdita della capacità giuridica [§ 43] Il soggetto del rapporto giuridico 91 Entro dieci giorni, l’evento della nascita deve essere — « da uno L’atto di dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dall’oste- nascita trica o da altra persona che ha assistito al parto » (art. 30, comma 1, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396) — dichiarato all’ufficiale dello stato civile per la formazione dell’atto di nascita (artt. 29 ss. D.P.R. n. 396/ 2000). Se la nascita avviene in un ospedale o in una casa di cura, la dichiarazione può essere resa — entro tre giorni — presso la relativa direzione sanitaria, che provvederà alla sua trasmissione all’ufficiale dello stato civile (art. 30, comma 4, D.P.R. n. 396/2000). Si ha morte « con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni La morte dell’encefalo » (art. 1 L. 29 dicembre 1993, n. 578). Tale ultima previsione normativa, estranea al codice, si è resa necessaria (anche per fissare l’esatto momento a partire dal quale è possibile procedere al prelievo di organi e tessuti a fini di trapianto terapeutico: art. 1 L. 1o aprile 1999, n. 91) per la sempre più accentuata labilità del confine tra la vita e la morte — tradizionalmente fatto coincidere con l’esalazione dell’ultimo respiro e la cessazione del battito cardiaco — in conseguenza dell’evolversi delle tecniche di rianimazione, che consentono di sostenere artificialmente, e per lungo tempo, l’attività respiratoria e circolatoria dell’organismo. L’accertamento della cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo avviene con le modalità via via definite — tenendo conto delle sempre nuove acquisizioni della scienza medica — con decreto del Ministro della Salute (attualmente, D.M. 11 aprile 2008). Entro le ventiquattro ore dal decesso, la morte è — « da uno dei L’atto di congiunti o da una persona convivente con il defunto o da un loro morte delegato o, in mancanza, da persona informata del decesso » (art. 72, comma 2, D.P.R. n. 396/2000); ovvero, se la morte è avvenuta in un ospedale, casa di cura o riposo, ecc., dal relativo direttore (art. 72, comma 3, D.P.R. n. 396/2000) — dichiarata all’ufficiale di stato civile per la formazione dell’atto di morte (artt. 71 ss. D.P.R. n. 396/2000). Allorquando vi sia incertezza in ordine alla sopravvivenza di Presunzione una persona rispetto ad un’altra — in genere, perché le stesse sono di commorienza perite in un unico contesto (ad es., sinistro stradale, crollo di una casa, incendio, terremoto, ecc.) — la legge presume, fino a prova contraria (che può essere fornita con qualunque mezzo), che le stesse siano morte contestualmente; cioè, che nessuna sia sopravvissuta all’altra (art. 4 c.c.): c.d. presunzione di commorienza. Con la morte, alcuni rapporti facenti capo al defunto si estin- Sorte di e guono (ad es., il matrimonio: art. 149, comma 1, c.c.; l’unione civile diritti rapporti alla tra persone dello stesso sesso: art. 1, comma 22, L. 20 maggio 2016, n. morte del 76; il contratto di convivenza: art. 1, comma 59 lett. d, L. n. 76/2016; titolare 92 L’attività giuridica [§ 44] v. anche artt. 448, 1722, comma 1 n. 4, 2118, comma 3, e 2534, comma 1, c.c.; art. 134, n. 3, L. aut.); altri possono essere sciolti ad iniziativa degli eredi del defunto e/o ad iniziativa dell’altra parte (v., ad es., artt. 1614, 1627, 1674, 1811 e 1833 c.c.). I diritti patrimoniali si trasmettono, di norma, secondo le regole dal codice dettate per la successione a causa di morte (artt. 456 ss. c.c.; v. §§ 623 ss.). La tutela degli interessi non patrimoniali (ad es., quelli legati alle spoglie mortali, all’integrità morale, al nome, all’immagine, alla riservatezza, all’identità personale: v. §§ 64 ss.) è invece affidata, di regola, al coniuge superstite e/o ai prossimi congiunti (v., ad es., artt. 246, 267 e 270, comma 2, c.c.; artt. 23, comma 1, 93, comma 2, e 96, comma 2, L. aut.; art. 79 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285: « Approvazione del regolamento di polizia mortuaria »; art. 2-terdecies, comma 1, cod. privacy; artt. 8, comma 1, 62 e 110 c.p.i.). § 44. Le incapacità speciali. La nascita — lo si è appena evidenziato — è condizione sufficiente per far acquisire alla persona fisica la capacità giuridica generale: ossia, la capacità di essere titolare di tendenzialmente tutte le situazioni giuridiche soggettive connesse alla tutela dei propri interessi. Incapacità Peraltro, per l’accesso a taluni rapporti, non è sufficiente la speciali nascita, ma è richiesto il concorso di altri presupposti (così, ad es., la capacità matrimoniale si acquista al momento del compimento del sedicesimo anno di età: art. 84, comma 2, c.c.; la capacità di testare si acquista con il compimento del diciottesimo anno di età: art. 591, comma 2 n. 1, c.c.): se detti presupposti non sussistono, il soggetto non può essere parte di quel determinato rapporto. Dette incapacità si distinguono, tradizionalmente, in: a) assolute, se al soggetto è precluso quel dato tipo di rapporto ... assolute o di atto (oltre agli esempi appena menzionati, si ricordi che il rapporto di lavoro subordinato è precluso a chi non abbia compiuto il sedicesimo anno di età: art. 1, comma 622, L. 27 dicembre 2006, n. 296; ecc.); e b) relative, se al soggetto è precluso quel dato tipo di rapporto o ... relative di atto, ma solo con determinate persone (ad es., è preclusa al tutore, che non sia ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge, la capacità di succedere per testamento alla persona sottoposta alla sua tutela: art. 596, commi 1 e 2, c.c.; ecc.) o solo in determinate circostanze (ad es., al pubblico ufficiale è precluso di rendersi acquiCapacità giuridica generale [§ 45] Il soggetto del rapporto giuridico 93 rente di beni venduti con il concorso della propria opera: art. 1471, comma 1 n. 2, c.c.). In tutti questi casi, tradizionalmente, si ravvisa una limitazione della capacità giuridica — c.d. incapacità speciali — in quanto, da un lato, il rapporto non è accessibile al soggetto neppure attraverso l’intervento di un rappresentante e, da altro lato, l’atto eventualmente compiuto in violazione del divieto è nullo e non già semplicemente annullabile (come dovrebbe invece essere, se si trattasse di incapacità d’agire: v. §§ 47, 48 e 53). Ad ipotesi di « incapacità » fa oggi sempre più ampio ricorso il Incapacità pena legislatore penale, a titolo di « pena accessoria » per chi si sia mac- quale accessoria a chiato di determinati reati. Si pensi alla « interdizione temporanea seguito di dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese » (che condanna penale « priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore ») comminata a chi sia stato condannato « alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazioni dei doveri inerenti all’ufficio » (art. 32-bis c.p.); alla « incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione » (che « importa il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio ») comminata a chi sia stato condannato per uno dei delitti di cui all’art. 32-quater c.p. (art. 32-ter c.p.); ecc. (v. anche artt. 30, 31, 448, comma 2, c.p.). § 45. Il concepito. La nascita — lo si è già avvertito — è condizione necessaria per far acquisire alla persona fisica la capacità giuridica generale. Peraltro, indiscussa e indiscutibile è la rilevanza, nel nostro Il concepito ordinamento, anche di chi, seppur non ancora nato, sia però concepito ... (v., da ultimo, Cass. 8 agosto 2014, n. 17811). Al riguardo, si può utilmente ricordare che la L. 19 febbraio ... nella 2004, n. 40 (« Norme in materia di procreazione medicalmente assi- legislazione extracodicistita »), enuncia testualmente — al suo art. 1, comma 1 — il principio stica secondo cui vengono assicurati « i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito »; che la L. 22 maggio 1978, n. 194 (« Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza ») statuisce testualmente — al suo art. 1, comma 1 — che 94 L’attività giuridica [§ 45] « lo Stato (...) tutela la vita umana dal suo inizio », cioè fin dal momento del concepimento; che la L. 29 luglio 1975, 405 (« Istituzione dei consultori familiari ») — al suo art. 1 lett. c) — indica, tra gli scopi dei consultori familiari, quello della « tutela della salute (...) del prodotto del concepimento ». ... nel codice Peraltro, già lo stesso codice civile attribuisce al concepito: civile: a) la capacità di succedere per causa di morte, sia per legge che per a) capacità testamento (così, ad es., se il padre muore dopo il concepimento, ma di succedere prima della nascita del figlio, l’eredità si devolve anche a favore di mortis causa quest’ultimo, seppure non ancora nato all’epoca dell’apertura della successione) (art. 462, comma 1, c.c.); b) capacità b) la capacità di ricevere per donazione (così, ad es., il nonno può ricevere per effettuare una donazione a favore del nipote, quando ancora è nel donazione ventre materno) (art. 784, comma 1, c.c.). ... nella giuriDal canto suo, la giurisprudenza afferma la risarcibilità del sprudenza danno conseguente a condotte poste in essere, in suo pregiudizio, quando il concepito ancora nato non era (v. Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767); in particolare, afferma: i) la risarcibilità del danno alla salute ed all’integrità fisica eventualmente cagionato al nascituro (ad es., dalla condotta imperita dell’ostetrico) prima o durante il parto (v. Cass. 15 maggio 2018, n. 11750; Cass. 12 aprile 2018, n. 9048); ii) la risarcibilità del danno sofferto a seguito dell’uccisione del padre ad opera di un terzo (ad es., in un incidente stradale causato dall’imprudenza di quest’ultimo), quando ancora la gestazione era in corso (v. Cass. 10 marzo 2014, n. 5509). Da ultimo, la Suprema Corte ha affermato che la presenza di nascituri concepiti — non diversamente dalla presenza di figli minori (art. 171, comma 2, c.c.; v. § 601) — osta alla cessazione del « fondo patrimoniale » (v. Cass. 8 agosto 2014, n. 17811). Ovviamente, « i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita » (art. 1, comma 2, c.c.): potranno, cioè, essere fatti valere solo se e quando avvenga la nascita; altrimenti dovranno considerarsi come mai entrati nella sua sfera giuridica. Alla luce di ciò, si discute se il concepito abbia una propria capacità giuridica, sia pure parziale e condizionata (c.d. capacità giuridica prenatale) — o, comunque, una sua autonoma soggettività giuridica (v. Cass. 11 maggio 2009, n. 10741) — ovvero se lo stesso sia semplicemente oggetto di tutela (in tal senso v. ora Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767). [§ 46] Il soggetto del rapporto giuridico 95 La capacità di succedere per testamento e di ricevere per Capacità del ancora donazione è riconosciuta anche a chi non sia stato neppure ancora non concepito concepito, ma sia figlio di una determinata persona fisica vivente al momento dell’apertura della successione del testatore (art. 462, comma 3, c.c.) ovvero al momento della donazione (art. 784, comma 1, c.c.) (v. §§ 628 e 678). § 46. La capacità di agire. Con la nascita la persona fisica acquista — come si è detto — la capacità giuridica generale (ossia, l’idoneità ad essere titolare di diritti, doveri, ecc.). Siffatta idoneità si « concretizza » immediatamente, sempre al- L’acquisto l’atto della nascita, con l’acquisto — automatico e necessario — dei dei diritti c.d. diritti della personalità (ad es., i diritti alla vita, all’integrità fisica, all’integrità morale, ecc.; v. §§ 61 ss.). Solo eventuale è invece l’acquisto, con la nascita, dei diritti patrimoniali (ad es., per successione mortis causa in ipotesi di decesso del padre durante il periodo di gestazione del figlio). Peraltro, non sempre la persona fisica è in grado — per giovane La capacità età (si pensi, ad es., al bambino), per malattia (si pensi, ad es., a chi è di agire affetto da una grave forma della sindrome di Down), per decadimento delle facoltà intellettive e/o volitive in conseguenza dell’età (si pensi, ad es., all’anziano), ecc. — di gestire in prima persona le situazioni giuridiche che alla stessa pur fanno capo (così, ad es., un bimbo di tre anni non è materialmente in grado di rivolgersi ad un giudice per reagire alla pubblicazione abusiva della propria immagine nell’ambito di una campagna pubblicitaria di prodotti per la prima infanzia). Ecco perché la legge richiede, affinché possa compiere personalmente ed autonomamente atti di amministrazione dei propri interessi, che il soggetto abbia — oltre che la « capacità giuridica » — anche la c.d. « capacità d’agire »: per tale intendendosi l’idoneità a porre in essere in proprio atti negoziali destinati a produrre effetti nella sua sfera giuridica (c.d. capacità negoziale). La capacità d’agire presuppone la capacità giuridica, ma non si Capacità e confonde con essa: anche quando difetta di capacità d’agire (ad es., giuridica capacità perché minore d’età; v. § 47), il soggetto è pur sempre dotato di d’agire capacità giuridica. La capacità d’agire si acquista — come regola generale — al La maggiore raggiungimento della maggiore età: cioè, al compimento del diciot- età tesimo anno (art. 2, comma 1, c.c.). 96 L’attività giuridica [§ 46] Può peraltro accadere che, nonostante la maggiore età, la persona fisica si ritrovi — per le ragioni più varie (ad es., malattia fisica o mentale, situazioni di disagio psichico, ubriachezza, assunzione di sostanze stupefacenti, ecc.) — a non avere quella capacità di discernimento che è invece normale attendersi in un individuo adulto e maturo. Di qui la necessità di apprestare — a protezione di detti soggetti — strumenti di salvaguardia contro il rischio che gli stessi possano porre in essere atti negoziali destinati ad incidere negativamente sui loro interessi (ad es., svendere la propria casa, fare acquisti sconsiderati, prestare denaro senza garanzie, ecc.). Istituti a A « protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonoprotezione mia » (come recita, oggi, la rubrica del titolo XII del suo libro primo), delle persone prive di il codice civile prevede gli istituti: autonomia a) della minore età; b) dell’interdizione giudiziale; c) dell’inabilitazione; d) dell’emancipazione; e) dell’amministrazione di sostegno; f) dell’incapacità di intendere o di volere (c.d. incapacità naturale). Ad una logica non già di protezione, bensì ad una logica sanzionatoria risponde invece l’istituto dell’interdizione legale (v. § 49). Capacità Da non confondere con la capacità negoziale — cui si è fin qui negoziale e ... fatto cenno — sono: capacità ⇒ da un lato, la capacità extracontrattuale: mentre la prima extra riguarda l’idoneità del soggetto a compiere personalmente atti di contrattuale autonomia negoziale (ad es., vendere, comprare, dare in locazione, prendere o dare a mutuo, ecc.), la seconda riguarda l’idoneità del soggetto a rispondere delle conseguenze dannose degli atti dallo stesso posti in essere (ad es., delle lesioni cagionate a terzi investiti sulle strisce pedonali); Capacità di ⇒ da altro lato, la capacità di porre in essere (o ricevere) atti porre in giuridici in senso stretto (ad es., la richiesta di risarcimento dal essere atti giuridici in danneggiato rivolta al danneggiante; v. § 97), che — secondo la senso stretto giurisprudenza di legittimità (v. Cass. 13 ottobre 2017, n. 24077) — possono essere validamente compiuti anche dall’incapace, sempre che dagli stessi non possano derivargli effetti sfavorevoli (ad es., la perdita di un diritto o l’assunzione di un obbligo): si pensi — per riprendere l’esempio appena fatto — alla richiesta di riparazione del danno sofferto, che varrà ad interrompere la prescrizione del diritto risarcitorio dell’incapace (v. § 114). [§ 47] Il soggetto del rapporto giuridico 97 Ora ci occuperemo delle incapacità negoziali. Della capacità extracontrattuale parleremo, invece, quando affronteremo il tema della responsabilità civile (v. § 458). § 47. La minore età. La capacità d’agire presuppone — come abbiamo visto — che il Acquisto capacità soggetto sia in grado di curare autonomamente i propri interessi e della d’agire che, a tal fine, abbia raggiunto la necessaria maturità. Sarebbe peraltro fonte di infinite incertezze e contestazioni se si dovesse andare a verificare, caso per caso, a quale età il singolo è concretamente pervenuto ad un grado di avvedutezza sufficiente per gestire direttamente i propri affari. La legge fissa perciò, con criterio generale, un’età, eguale per tutti, al cui raggiungimento reputa che la persona fisica abbia acquisito la capacità e l’esperienza necessarie per assumere validamente ogni decisione che la riguarda: « la maggiore età — statuisce infatti l’art. 2 c.c. — è fissata al compimento del diciottesimo anno ». Prima di quel momento, il soggetto è legalmente incapace, quand’anche dovesse aver acquisito un elevato grado di maturità; dopo quel momento, il soggetto è legalmente capace, quand’anche, per una qualsiasi ragione (ad es., per una malattia mentale), dovesse non aver raggiunto i livelli di maturità normali per la sua età. Con la maggiore età, la persona acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia richiesta un’età diversa (art. 2, comma 1, c.c.). A quest’ultimo proposito, si ricordi — ad es. — che il minore ultrasedicenne è ammesso a stipulare in proprio il contratto di lavoro ed « è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono » da detto contratto (art. 2, comma 2, c.c.); il minore ultrasedicenne, giudizialmente ammesso al matrimonio, è chiamato a prestare in prima persona il consenso alle nozze (art. 84, comma 2, c.c.); il minore ultrasedicenne — e, se autorizzato dal giudice, anche prima del compimento dei sedici anni — effettua direttamente il riconoscimento del figlio naturale (art. 250, comma 5, c.c.); il minore ultraquattordicenne può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione (art. 2-quinquies, comma 1, cod. privacy); ecc. Di regola, il minore non può stipulare direttamente gli atti Condizione del negoziali destinati ad incidere sulla propria sfera giuridica, ma nep- giuridica minore pure decidere il loro compimento. 98 Atti posti in essere dal minore L’attività giuridica [§ 47] Gli atti eventualmente posti in essere dal minore sono annullabili (art. 1425, comma 1, c.c.; v. § 345). Non importa se, nel caso concreto, il minore abbia raggiunto una maturità che gli consenta di apprezzare utilità e rischi dell’atto: esso è comunque annullabile per il solo fatto di essere stipulato da un minore, salvo che quest’ultimo non abbia, con raggiri idonei a trarre in inganno il terzo (ad es., alterando il proprio documento d’identità), occultato la propria minore età (art. 1426 c.c.). L’atto posto in essere dal minore può essere impugnato entro cinque anni dal raggiungimento, da parte del minore stesso, della maggiore età (art. 1442, comma 2, c.c.). L’impugnativa può, però, essere proposta solo dal rappresentante legale del minore ovvero direttamente da quest’ultimo, una volta divenuto maggiorenne; non dalla controparte (art. 1441, comma 1, c.c.): si parla, al riguardo, di « negozi claudicanti ». Ciò, in quanto la legge intende tutelare il minore contro i rischi di un atto improvvidamente assunto, non chi — maggiorenne, e quindi dalla legge ritenuto legalmente capace — abbia stipulato con il minore. La scelta di mantenere o meno in vita l’atto stipulato dal minore è, quindi, rimessa ad una valutazione di convenienza fatta, prima, dal legale rappresentante del minore, poi, dal minore stesso. Se l’atto è annullato per sua incapacità legale, il minore ha diritto alla restituzione di quanto prestato in esecuzione di esso, mentre è tenuto a restituire la prestazione ricevuta solo nei limiti in cui la stessa è stata rivolta a suo vantaggio (art. 1443 c.c.; v. Cass. 7 luglio 2017, n. 16888). L’art. 1425, comma 1, c.c. statuisce — senza operare distinzioni di sorta — che « il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare » (nel caso di specie, perché minore). Peraltro, nella quotidianità i minori vengono normalmente ammessi a stipulare tutta una serie di contratti (ad es., acquistano giornali, libri, biglietti dell’autobus, del treno, del cinema, del teatro, del concerto, della discoteca; comprano cibi, bevande, carburante per il motorino, capi di abbigliamento; fanno riparare la bicicletta, il telefonino, ecc.), senza che nessuno si sogni di impugnare detti atti. In realtà — essendo l’istituto della minore età funzionale alla protezione del minore contro il rischio che lo stesso ponga in essere atti pregiudizievoli alla propria persona o al proprio patrimonio — devono ritenersi a quest’ultimo accessibili tutti quegli atti che siano (come si esprime ora l’art. 409, comma 2, c.c.) « necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana » in relazione all’età raggiunta (così, ad es., un ragazzo di diciassette anni ben potrà valida- [§ 47] Il soggetto del rapporto giuridico 99 mente acquistare da solo un libro, un giornale, ecc., senza dover ricorrere ai genitori): diversamente, l’istituto della minore età finirebbe con il trasformarsi da istituto di protezione in strumento di emarginazione del minore dal consorzio sociale. La gestione del patrimonio del minore (c.d. potere di ammini- Rappresened strazione) ed il compimento di ogni atto relativo (c.d. potere di tanza amministrarappresentanza) competono, in via esclusiva, ai genitori: zione del a) disgiuntamente, per quanto riguarda gli atti di ordinaria patrimonio del minore amministrazione (per tali intendendosi quelli che non comportano rischi per l’integrità del patrimonio: ad es., la riscossione del canone di locazione dell’appartamento di cui il minore è proprietario); b) congiuntamente — « di comune accordo » (come si esprime l’art. 316, comma 1, c.c.) — per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione (per tali intendendosi quelli suscettibili di incidere in termini significativi sulla struttura e/o sulla consistenza del patrimonio: ad es., la vendita dell’appartamento di cui il minore è proprietario), nonché gli atti con cui si concedono o si acquistano diritti personali di godimento (ad es., la concessione in locazione dell’appartamento di proprietà del minore) (art. 320, comma 1, c.c.). Peraltro — al fine di controllare preventivamente che gli atti Autorizzadel maggiormente rischiosi per il patrimonio del minore siano effettiva- zione giudice mente funzionali ai suoi interessi — la legge richiede che, per il tutelare compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (e, tra questi, l’alienazione di beni di proprietà del minore, la costituzione di pegno o ipoteca su beni del minore, l’accettazione di eredità o legati, l’accettazione di donazioni, la stipula di locazioni ultranovennali, ecc.), i genitori si muniscano della preventiva autorizzazione del giudice tutelare (art. 320, comma 3 e 4, c.c.). Gli atti posti in essere dai genitori in assenza della richiesta autorizzazione sono annullabili, su istanza dei genitori stessi o del figlio, una volta divenuto maggiorenne (art. 322 c.c.; v. Cass. 29 maggio 2014, n. 12177). Se uno dei genitori è morto o impossibilitato (per lontananza, incapacità o altro impedimento) ad esercitare la responsabilità genitoriale sul figlio, l’amministrazione del suo patrimonio e la relativa rappresentanza competono, in via esclusiva, all’altro genitore (artt. 317, comma 1, e 320, comma 1, c.c.). Se entrambi i genitori sono morti o per altra causa non possono La tutela dei esercitare la responsabilità genitoriale, la gestione del patrimonio del minori minore e la relativa rappresentanza competono ad un tutore (artt. 343, comma 1, e 346 c.c.) nominato dal giudice tutelare (nella persona designata dal genitore che per ultimo ha esercitato la responsabilità L’attività giuridica 100 [§ 48] genitoriale ovvero, in mancanza di siffatta designazione, scegliendolo preferibilmente tra gli ascendenti o tra gli altri prossimi parenti od affini del minore: art. 348 c.c.). Offrendo il tutore minori garanzie, rispetto ai genitori, in ordine Autorizzazione del all’esclusivo perseguimento degli interessi del minore, la legge rigiudice tutelare e del chiede che lo stesso debba munirsi della preventiva autorizzazione del tribunale giudice tutelare per il compimento degli atti indicati dall’art. 374 c.c. e — addirittura — della preventiva autorizzazione del tribunale per il compimento degli atti di cui all’art. 375 c.c. In sintonia con indicazioni in tal senso provenienti da fonti Diritto di ascolto extrastatuali — v., per tutti, art. 12 « Convenzione sui diritti del fanciullo », sottoscritta a New York il 20 novembre 1989 e dall’Italia ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176; e art. 24 « Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea » — con sempre maggiore frequenza il legislatore nazionale espressamente prevede che, ove capace di discernimento, il minore abbia diritto di essere ascoltato nell’ambito dei procedimenti (giudiziari ed amministrativi), nei quali debbono essere adottati provvedimenti che lo riguardano (v., ad es., artt. 252, comma 5, 262, comma 4, 315-bis, comma 3, 316, comma 3, 336, comma 2, 336-bis, 337-octies, comma 1, 348, comma 3, 371, comma 1 n. 1, c.c.; art. 4, comma 5-quater, L. 4 maggio 1983, n. 184: « Diritto del minore ad una famiglia »; art. 4, comma 8, L. 1 dicembre 1970, n. 898: « Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio »): c.d. diritto di ascolto ( v. Cass. 24 maggio 2018, n. 12957; Cass. 7 marzo 2017, n. 5676). § 48. Presupposti L’interdizione giudiziale. L’interdizione è pronunciata con sentenza dal tribunale (donde l’appellativo di « giudiziale »), allorquando ricorrono — congiuntamente — i seguenti presupposti (art. 414 c.c.): a) infermità di mente, per tale intendendosi una malattia che mini profondamente il soggetto nella sua sfera intellettiva e/o volitiva, sì da non consentirgli di esprimere una volontà liberamente e consapevolmente maturata (non essendo sufficiente, ad es., una sua scarsa propensione ovvero una mera inettitudine agli affari); b) abitualità di detta infermità, per tale intendendosi un’infermità non transitoria (non sarebbe quindi sufficiente, ad es., un esaurimento nervoso destinato a risolversi in breve arco di tempo); non si richiede, tuttavia, né che la malattia sia irreversibile e/o [§ 48] Il soggetto del rapporto giuridico 101 incurabile, né che privi continuativamente il soggetto della capacità di intendere e di volere, senza lasciargli « lucidi intervalli »; c) incapacità del soggetto, a causa di detta infermità, di provvedere ai propri interessi: poiché, ai fini dell’interdizione, l’infermità di mente rileva non già in sé, ma per il fatto che la stessa incide sull’attitudine del soggetto a gestire autonomamente i propri affari, una medesima malattia può giustificare l’interdizione di chi abbia cospicui e complessi interessi (si pensi, ad es., all’imprenditore individuale che ha necessità di stipulare quotidianamente decine di contratti per la propria attività) e non invece l’interdizione di chi non abbia interessi che richiedano significativi atti di gestione (si pensi, ad es., alla persona che vive della pensione sociale); si tenga peraltro presente che gli « interessi » rilevanti ai fini dell’interdizione sono non solo quelli economici, ma anche quelli extrapatrimoniali (ad es., quelli alla cura della propria salute: sicché potrà procedersi all’interdizione del soggetto che, pur non avendo interessi patrimoniali di una qualche rilevanza, si opponga, a causa della malattia mentale che lo colpisce, ai trattamenti medici richiesti dal suo stato) (v. Cass. 6 giugno 2018, n. 14669); d) necessità di assicurare al soggetto un’adeguata protezione: sicché si potrà procedere all’interdizione solo allorquando risultino non idonei e/o non sufficienti gli altri strumenti di protezione dell’incapace (ad es., l’amministrazione di sostegno) pur previsti dall’ordinamento: c.d. carattere residuale della misura dell’interdizione (v. Cass. 11 settembre 2015, n. 17962; ma già Corte cost. 9 dicembre 2005, n. 440). L’interdizione può essere pronunciata solo a carico del maggiore Procedimento di età (art. 414 c.c.), essendo il minorenne già legalmente incapace — e, quindi, tutelato dall’ordinamento — in quanto tale. Peraltro, onde evitare soluzioni di continuità nella protezione, il soggetto può essere interdetto nell’ultimo anno della sua minore età, seppure l’interdizione sia comunque destinata ad avere effetto solo dal giorno in cui il minore raggiunge l’età maggiore (art. 416 c.c.). Il procedimento di interdizione può essere promosso, di regola, dallo stesso interdicendo, dal coniuge, dal partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 15, L. 20 maggio 2016, n. 76; v. § 622-bis), dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, ovvero dal pubblico ministero (art. 417, comma 1, c.c.; ma cfr. anche il comma 2). Fase centrale del procedimento d’interdizione è l’esame diretto dell’interdicendo da parte del giudice (art. 419, comma 1, c.c.), che 102 L’attività giuridica [§ 48] peraltro può farsi assistere da un consulente tecnico (art. 419, comma 2, c.c.). Dopo detto esame, il giudice può nominare, ove lo ritenga Tutore provvisorio opportuno, un tutore provvisorio dell’interdicendo (art. 419, comma 3, c.c.). In quest’ultimo caso, nelle more del giudizio di interdizione, l’interdicendo è legalmente rappresentato dal tutore provvisorio e, in caso di successiva interdizione, gli atti eventualmente compiuti in prima persona dall’interdicendo dopo la nomina del tutore provvisorio sono annullabili (art. 427, comma 2, c.c.; v. Cass. 24 giugno 2009, n. 14781). Gli effetti dell’interdizione decorrono dal momento della pubPubblicità blicazione della sentenza di primo grado, ancorché non passata in giudicato, che pronuncia l’interdizione stessa (art. 421 c.c.; v. Cass. 31 marzo 2011, n. 7477). La sentenza viene annotata dal cancelliere nel registro delle tutele (art. 48 disp. att. c.c.) e comunicata, entro dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile per essere annotata a margine dell’atto di nascita (art. 423 c.c.). L’interdetto si trova in una condizione per molti versi non Condizione giuridica dissimile da quella in cui si trova il minore (art. 424, comma 1, c.c.): dell’interdetto non può compiere direttamente alcun atto negoziale, se non quelli « necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana »; se compie atti negoziali, gli stessi sono annullabili (ex artt. 427, comma 2, e 1425, comma 1, c.c.) ed il relativo procedimento può essere promosso — dal tutore ovvero dallo stesso interdetto, una volta revocata l’interdizione — entro cinque anni dalla cessazione dello stato di interdizione (art. 1442, comma 2, c.c.). La gestione del patrimonio dell’interdetto e gli atti negoziali ad esso relativi sono compiuti, nell’interesse ed in vece dello stesso interdetto, da un tutore nominato dal giudice tutelare, ferma restando l’esigenza dell’autorizzazione da parte del giudice tutelare o del tribunale per il compimento degli atti di cui, rispettivamente, agli artt. 374 e 375 c.c. Il tutore può altresì compiere — in nome e per conto dell’interdetto, e sempre che ne sia accertata la necessità per un’adeguata protezione degli interessi di quest’ultimo — anche gli atti personalissimi (ad es., la proposizione della domanda di separazione personale o di divorzio: v. Cass. 6 giugno 2018, n. 14669; v. anche artt. 119, comma 1, e 273, comma 3, c.c.; art. 13 L. 22 maggio 1978, n. 194, « Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione della gravidanza »), che non siano espressamente preclusi all’interdetto. Peraltro, il giudice — con la sentenza che pronuncia l’interdizione o con un successivo autonomo provvedimento — può prevedere che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere [§ 49] Il soggetto del rapporto giuridico 103 compiuti autonomamente dall’interdetto, ovvero da quest’ultimo con l’assistenza del tutore: cioè, con una manifestazione congiunta di volontà dell’uno e dell’altro (art. 427, comma 1, c.c.). In ogni caso, l’interdizione preclude al soggetto il matrimonio (art. 85, comma 1, c.c.), l’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 4 lett. b, L. 20 maggio 2016, n. 76), l’amministrazione dei cespiti oggetto di comunione legale tra coniugi o uniti civilmente (art. 183, comma 3, c.c.), il riconoscimento dei figli naturali (art. 266 c.c.), la possibilità di fare testamento (art. 591, comma 2 n. 2, c.c.), l’assunzione della carica di amministratore o di sindaco di società per azioni (artt. 2382 e 2399, comma 1 lett. a, c.c.). Legittima la richiesta, in danno dell’interdetto, della separazione giudiziale dei beni, estintiva del regime di comunione legale tra coniugi o uniti civilmente (art. 193, comma 1, c.c.), così come la richiesta di esclusione dalle società di persone (art. 2286, comma 1, c.c.) e dalla società cooperativa (art. 2533, comma 1 n. 4, c.c.). Le eredità devolute all’interdetto non si possono accettare, se non con il beneficio d’inventario (art. 471 c.c.). Il contratto d’affitto si scioglie per interdizione dell’affittuario (art. 1626 c.c.); il contratto di mandato si scioglie per interdizione del mandante o del mandatario (art. 1722 c.c.). Se e quando dovessero venir meno i presupposti che hanno Revoca condotto all’interdizione, quest’ultima può essere revocata — su istanza del coniuge, del partner di un’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 15, L. 20 maggio 2016, n. 76), dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado, del tutore o del pubblico ministero — con sentenza del tribunale (art. 429 c.c.). Detta sentenza produce i suoi effetti solo con il passaggio in giudicato (art. 431 c.c.). Il tribunale, in sede di revoca dell’interdizione, può — ove ne ricorrano i presupposti — dichiarare il soggetto inabilitato (art. 432, comma 1, c.c.; v. § 50), ovvero trasmettere gli atti al giudice tutelare perché apra una procedura di amministrazione di sostegno (art. 429, comma 3, c.c.; v. § 52). § 49. L’interdizione legale. Il codice penale prevede — come pena accessoria ad una con- Presupposti danna definitiva all’ergastolo ovvero alla reclusione, per reati non colposi, per un tempo non inferiore a cinque anni — la c.d. interdizione legale (art. 32 c.p.). 104 L’attività giuridica [§ 50] L’istituto ha, dunque, funzione sanzionatoria (tant’è che viene a colpire soggetti perfettamente in grado di intendere e di volere). Si discute se la liberazione condizionale abbia o meno efficacia sospensiva anche della pena accessoria dell’interdizione legale (in senso negativo, v. Corte cost. 14 luglio 1986, n. 183). Condizione Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, l’interdetto legale si giuridica trova, durante la pena, nella medesima condizione in cui si trova dell’interdetto legale: l’interdetto giudiziale: non potrà, perciò, compiere atti dispositivi del rapporti proprio patrimonio; gli atti che avesse a compiere sarebbero annulpatrimoniali ... labili; l’amministrazione del suo patrimonio e la rappresentanza per il compimento dei relativi atti competeranno ad un tutore, ecc. (art. 32, comma 4, c.p.). Con una differenza, però: l’annullabilità degli atti compiuti dall’interdetto legale può essere fatta valere non solo dall’interdetto stesso e/o dal suo tutore, bensì da chiunque vi abbia interesse (art. 1441, comma 2, c.c.): c.d. annullabilità assoluta. La diversità della regola si giustifica per il fatto che — mentre l’annullabilità (relativa) degli atti dell’incapace è dal legislatare preordinata a tutela dell’incapace stesso, onde evitare che quest’ultimo possa trovarsi vincolato da negozi che non ha posto in essere con la necessaria lucidità e consapevolezza — l’annullabilità (assoluta) degli atti dell’interdetto legale è prevista come sanzione, a tutela di un interesse generale: conseguentemente, può essere fatta valere da chiunque (v. Cass. 24 agosto 1993, n. 8918). ... rapporti a Per quanto riguarda, invece, gli atti a carattere personale (ad es., carattere matrimonio, testamento, riconoscimento di figlio naturale, ecc.), personale nessuna incapacità consegue all’interdizione legale. § 50. Presupposti L’inabilitazione. L’inabilitazione è pronunciata con sentenza dal tribunale, allorquando ricorra — alternativamente — uno dei seguenti presupposti: a) infermità di mente non talmente grave da far luogo all’interdizione (per tale intendendosi quella che incide negativamente sulla capacità del soggetto di attendere personalmente ai propri affari, senza però privarlo completamente della capacità di intendere o di volere) (art. 415, comma 1, c.c.); b) prodigalità (per tale intendendosi un impulso patologico che incide negativamente sulla capacità del soggetto di valutare la rilevanza economica dei propri atti, sì da spingerlo allo sperpero), sempre che lo induca ad esporre sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi economici (art. 415, comma 2, c.c.); ovviamente non [§ 50] Il soggetto del rapporto giuridico 105 rileva, ai fini dell’inabilitazione, una consapevole e matura scelta di vita che comporti il distacco dai beni terreni, così come una ponderata volontà di procedere alla distribuzione in vita di parte dei propri averi a persone vicine e/o a cui si deve gratitudine (v. Cass. 13 gennaio 2017, n. 786); c) abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, sempre che induca il soggetto ad esporre sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi economici (art. 415, comma 2, c.c.); d) sordità o cecità dalla nascita o dalla prima infanzia, sempre che il soggetto non abbia ricevuto — ipotesi, fortunatamente, sempre meno frequente — un’educazione sufficiente a fargli acquisire la capacità necessaria per attendere personalmente ai propri affari (art. 415, comma 3, c.c.). Il procedimento di inabilitazione ricalca — quanto ai soggetti Procedimento legittimati a promuoverlo, alla fase istruttoria, alla nomina del curatore provvisorio, alla decorrenza degli effetti della sentenza di inabilitazione, alla pubblicità di essa, ecc. — quello di interdizione. Del pari, il procedimento di revoca dell’inabilitazione ricalca quello di revoca dell’interdizione. L’inabilitato può autonomamente compiere gli atti di ordinaria Condizione amministrazione (art. 424, comma 1, che rinvia all’art. 394, comma 1, giuridica dell’inabilic.c.). Per gli atti di straordinaria amministrazione, necessita invece tato dell’assistenza del curatore nominato dal giudice tutelare: deve, cioè, compiere l’atto unitamente al curatore. Il curatore non si sostituisce — come accade invece per i genitori, in caso di minore età, e per il tutore, in caso di interdizione — all’incapace (v. Cass. 30 gennaio 2015, n. 1773), ma integra la volontà di quest’ultimo, previo ottenimento dell’autorizzazione giudiziale (sicché, ad es., per la vendita di un bene di proprietà dell’inabilitato, occorrerà il consenso sia dell’inabilitato stesso che del suo curatore, previa autorizzazione giudiziale) (art. 394, comma 3, c.c.). L’assistenza del curatore è altresì sempre necessaria perché Capacità l’inabilitato possa stare in giudizio (comb. disp. artt. 394, comma 2, processuale e 424, comma 1, c.c.; v. Cass. 19 aprile 2010, n. 9217). Peraltro, il giudice — con la sentenza che pronuncia l’inabilitazione o con un successivo provvedimento — può prevedere che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere autonomamente compiuti dall’inabilitato, senza l’assistenza del curatore (art. 427, comma 1, c.c.). L’attività giuridica 106 § 51. [§ 51] L’emancipazione. Il minore ultrasedicenne, autorizzato dal tribunale a contrarre matrimonio (art. 84, comma 2, c.c.), con le nozze acquista automaticamente l’emancipazione (art. 390 c.c.), così sottraendosi alla disciplina della minore età. L’istituto dell’emancipazione ha oggi un’applicazione pratica del tutto marginale, posto che i tribunali adottano una linea progressivamente sempre più restrittiva in ordine all’ammissione al matrimonio dell’infradiciottenne. Condizione La condizione giuridica dell’emancipato è analoga a quella giuridica dell’inabilitato: può compiere autonomamente gli atti di ordinaria dell’emancipato amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione necessita dell’assistenza di un curatore, munito di previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria (art. 394 c.c.). Gli atti di straordinaria amministrazione eventualmente compiuti dall’emancipato senza l’assistenza del curatore sono annullabili. Se l’emancipato è sposato con persona maggiore di età, quest’ultima ne è il curatore; se è invece sposato con persona anch’essa minore di età, il giudice tutelare può nominare ad entrambi un unico curatore, scelto preferibilmente tra i genitori (art. 392, commi 1 e 2, c.c.). L’annullamento del matrimonio per causa diversa dal difetto di età, così come l’eventuale scioglimento del matrimonio, non fa venir meno l’emancipazione (art. 392, comma 3, c.c.). Lo stato di emancipazione cessa — ovviamente — con il raggiungimento della maggiore età. Presupposti § 52. L’amministrazione di sostegno. L’amministrazione di sostegno si apre con decreto motivato del giudice tutelare, allorquando ricorrano — congiuntamente — i seguenti presupposti (art. 404 c.c.): ... oggettivo a) infermità o menomazione fisica o psichica della persona (v. Cass. 28 febbraio 2018, n. 4709): presupposto oggettivo; ... soggettivo b) impossibilità per il soggetto, a causa di detta infermità o menomazione, di provvedere ai propri interessi: presupposto soggettivo. Analogamente a quanto si è visto con riferimento all’interdizione, l’infermità o menomazione psichica o fisica rilevano, ai fini dell’apertura dell’amministrazione di sostegno, non già in sé, ma per il fatto che si traducano, per il soggetto, nell’impossibilità, anche solo Presupposti ... [§ 52] Il soggetto del rapporto giuridico 107 parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, anche non patrimoniali (v. Cass. 26 luglio 2018, n. 19866; Cass. 7 giugno 2017, n. 14158). Ciò comporta, ad es., che una medesima infermità psichica — che può legittimare l’interdizione di chi abbia vasti e complessi interessi — può giustificare invece solo l’amministrazione di sostegno del soggetto cui facciano capo interessi semplici e circoscritti (ad es., la gestione ordinaria del reddito da pensione). Occorre osservare che — rispetto ai presupposti per la pronun- Differenza di cia di interdizione — ai fini dell’apertura della procedura di ammi- presupposti con nistrazione di sostegno: l’interdizione — rileva non solo una infermità di mente, ma anche una semplice menomazione psichica (per tale intendendosi quella situazione di disagio che non si traduce in una vera e propria malattia: si pensi, ad es., all’anziano non affetto da demenza senile, ma che veda però affievolite le proprie facoltà intellettive o la memoria) (v. Cass. 2 ottobre 2012, n. 16770); — rileva non solo una infermità o menomazione psichica, ma anche un’infermità o menomazione fisica (per tale intendendosi quella che, pur senza colpire la sfera intellettiva o volitiva, preclude però al soggetto, in tutto od anche solo in parte, « l’autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana »: art. 1 L. 9 gennaio 2004, n. 6) (si pensi, ad es., al soggetto che, seppure psichicamente capace, sia portatore di handicap) (v. Cass. 27 settembre 2017, n. 22602; Cass. 2 agosto 2012, n. 13917); — rileva non solo un’infermità o menomazione abituale, ma anche un’infermità o menomazione temporanea: tant’è che l’amministratore di sostegno può essere nominato a tempo determinato (art. 405, comma 5 n. 2, c.c.); — rileva non solo un’infermità o menomazione che coinvolga integralmente la sfera psichica o fisica del soggetto, sì da privarlo della complessiva capacità di gestire i propri interessi, ma anche un’infermità o menomazione che incida su taluni profili soltanto della sua personalità (si pensi, ad es., al soggetto che, pur dotato di una capacità di gestire i propri affari superiore alla media, sia però irresistibilmente schiavo del demone del gioco d’azzardo); — rileva — esattamente come per l’interdizione — anche « l’abituale infermità di mente », con l’avvertenza però che, di fronte ad una patologia che legittimerebbe sia una pronuncia di interdizione sia l’apertura di un’amministrazione di sostegno, la prima alternativa è praticabile solo allorquando lo strumento di protezione costituito dall’amministrazione di sostegno risulti inidoneo ad assicurare ade- 108 L’attività giuridica [§ 52] guata protezione agli interessi dell’incapace: c.d. carattere residuale dell’interdizione (v. § 48; Cass. 26 ottobre 2011, n. 22332). L’amministrazione di sostegno può essere aperta, di regola, solo Procedimento nei confronti del maggiore di età, essendo il minorenne già tutelato in quanto tale. Peraltro, onde evitare soluzioni di continuità con tale ultima misura di protezione, il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno può essere emesso nell’ultimo anno della minore età dell’interessato, pur divenendo esecutivo solo nel momento in cui lo stesso compia il diciottesimo anno (art. 405, comma 2, c.c.). Il procedimento di amministrazione di sostegno può essere promosso dallo stesso beneficiario (anche se minore, interdetto o inabilitato), dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o dal curatore, dal pubblico ministero (art. 406, comma 1, c.c.), nonché dai responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura della persona (art. 406, comma 3, c.c.). Fase centrale del procedimento di amministrazione di sostegno è l’audizione personale dell’interessato da parte del giudice, che a tal fine deve recarsi, ove occorra, nel luogo in cui questo si trova (art. 407, comma 2, c.c.): la legge stabilisce infatti che, nel definire il contenuto del proprio provvedimento, il giudice deve tener conto — compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona — non solo dei bisogni, ma anche delle richieste di questa (art. 407, comma 2, c.c.). In ogni caso — ove necessario — il giudice tutelare adotta, anche d’ufficio, i provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e/o per la conservazione e l’amministrazione del suo patrimonio (ad es., procedendo alla nomina di un amministratore di sostegno provvisorio, con l’indicazione degli atti che quest’ultimo è autorizzato a compiere) (art. 405, comma 4, c.c.). Pubblicità Gli effetti dell’amministrazione di sostegno decorrono dal deposito del relativo decreto di apertura, emesso dal giudice tutelare (art. 405, comma 1, c.c.). Tale ultimo provvedimento è immediatamente annotato dal cancelliere nel registro delle amministrazioni di sostegno (art. 49-bis disp. att. c.c.) e comunicato, entro dieci giorni, all’ufficiale di stato civile per essere annotato in margine all’atto di nascita (art. 405, comma 7, c.c.). Condizione Mentre gli effetti dell’interdizione e dell’inabilitazione sono giuridica del sostanzialmente predeterminati dalla legge e, quindi, standardizzati soggetto amministrato (salvo quanto previsto dall’art. 427, comma 1, c.c.), gli effetti dell’amministrazione di sostegno sono determinati volta a volta dal provvedimento del giudice tutelare (art. 405, comma 5, c.c.); che, per [§ 52] Il soggetto del rapporto giuridico 109 di più, può, in ogni momento, modificare od integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte (art. 407, comma 4, c.c.): c.d. flessibilità o duttilità dell’amministrazione di sostegno. Il giudice tutelare nomina all’interessato un amministratore di sostegno nella persona eventualmente designata — mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata (v. § 125) — dallo stesso interessato, in previsione della propria possibile futura incapacità (v. Cass. 20 dicembre 2012, n. 23707); ovvero, in mancanza di tale designazione od in presenza di gravi motivi, scegliendolo preferibilmente nella persona del coniuge non legalmente separato, del partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 15, L. 20 maggio 2016, n. 76), della persona stabilmente convivente, del padre, della madre, del figlio, del fratello, della sorella, dei parenti entro il quarto grado, ecc.: tenendo peraltro conto che, in ogni caso, la scelta dell’amministratore di sostegno deve avvenire con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario (art. 408, comma 1, c.c.; v. Cass. 26 settembre 2011, n. 19596). Il giudice tutelare, all’atto della nomina dell’amministratore di sostegno, indica, in relazione alla specificità della situazione ed alle esigenze del singolo soggetto amministrato: a) gli atti che l’amministratore di sostegno ha — non diversamente da quel che accade per la figura del « tutore » — il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario, che correlativamente perde la capacità di porli in essere personalmente (art. 405, comma 5 n. 3, c.c.), con conseguente annullabilità degli atti che quest’ultimo avesse eventualmente a compiere (art. 412, comma 2, c.c.); b) gli atti cui l’amministratore di sostegno — non diversamente da quel che accade per la figura del « curatore » dell’inabilitato, relativamente agli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione — deve dare il proprio assenso, prestando così assistenza al beneficiario, che correlativamente perde la capacità di porli in essere da solo (art. 405, comma 5 n. 4, c.c.), con conseguente annullabilità di quelli che lo stesso avesse a compiere autonomamente (art. 412, comma 2, c.c.). Il giudice tutelare può altresì disporre che determinati effetti che conseguono ex lege di interdizione od all’inabilitazione (ad es., la perdita della capacità di donare o di testare: v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12460) si estendano anche al beneficiario dell’amministrazione di sostegno (art. 411, comma 4, c.c.). Relativamente agli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana (art. 409, comma 2, c.c.), nonché relativamente a tutti gli altri atti che il giudice non abbia espressamente indicato debbano essere posti in essere dall’amministratore di soste- 110 L’attività giuridica [§ 53] gno, ovvero con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, il beneficiario conserva integra la propria capacità di agire (art. 409, comma 1, c.c.): c.d. principio della generale capacità del soggetto amministrato, salve le limitazioni espressamente previste. Nel determinare gli atti per cui è richiesta la rappresentanza o l’assistenza dell’amministratore di sostegno o che non possono essere compiuti — e, di riflesso, gli atti che il beneficiario può compiere, da solo, in prima persona — il giudice deve perseguire l’obiettivo della « minore limitazione possibile della capacità di agire » dell’interessato (art. 1 L. n. 6/2004): principio della massima salvaguardia dell’autodeterminazione del soggetto amministrato. Gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge o in eccesso rispetto ai poteri conferitigli dal giudice sono annullabili, su istanza dello stesso amministratore di sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi o aventi causa (art. 412, comma 1, c.c.). L’istituto dell’amministrazione di sostegno — introdotto nel L’irresistibile ascesa nostro ordinamento solo nel 2004 (con L. 9 gennaio 2004, n. 6) per dell’istituto dell’ammini- affiancarsi a quelli codicistici dell’interdizione e dell’inabilitazione — strazione di ha fatto registrare, negli anni, una crescente diffusione, cui ha fatto da sostegno contraltare una drastica riduzione del ricorso a quello dell’interdizione ed un sostanziale abbandono di quello dell’inabilitazione. Tant’è che si è autorevolmente sollecitato un intervento normativo volto, da un lato, a potenziare il primo e, da altro lato, ad abrogare i secondi. § 53. L’incapacità naturale. In tutte le ipotesi di incapacità fin qui esaminate, gli atti autonomamente posti in essere dall’incapace oltre i limiti allo stesso consentiti (ad es., oltre i limiti dell’ordinaria amministrazione per l’inabilitato e l’emancipato) sono sempre annullabili (quand’anche dovesse risultare, in ipotesi, che il soggetto era perfettamente in grado di rendersi conto di quanto stava facendo): sicché del tutto irrilevante risulta verificare se, nel momento in cui ha compiuto l’atto, il soggetto era o meno in grado di comprenderne la portata. Incapacità di Peraltro può accadere che un soggetto — pur legalmente capace fatto di compiere un determinato atto — in concreto si trovi, nel momento in cui lo pone in essere, in una situazione di incapacità di volere e/o di intendere, per qualsivoglia causa: Incapacità di diritto [§ 53] Il soggetto del rapporto giuridico 111 (i) permanente (si pensi, ad es., al soggetto che, pur essendo affetto dalla sindrome di Down ovvero da una grave forma di demenza senile, non sia assoggettato ad alcuna misura di protezione); o (ii) transitoria (si pensi, ad es., al soggetto che, normalmente di singolare avvedutezza, abbia ecceduto nell’uso dell’alcool o sia sotto shock perché coinvolto in un pauroso incidente stradale). Perché si abbia « incapacità di volere e/o di intendere » — c.d. incapacità naturale — non è sufficiente una qualsiasi anomalia o alterazione delle facoltà psichiche e/o intellettive, occorrendo che il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento del compimento del negozio, della capacità di autodeterminarsi ovvero della coscienza dei propri atti (v. Cass. 6 novembre 2013, n. 24881) o, quantomeno, che le stesse siano a tal punto menomate da impedire la formazione di una volontà cosciente (v. Cass. 30 giugno 2017, n. 13659; Cass. 8 giugno 2011, n. 12532). In ipotesi di tal fatta, la legge non può — solo perché si tratta di persona legalmente capace di compiere quel determinato atto — disinteressarsi della protezione dei suoi interessi: nell’ipotesi in esame, si verifica infatti uno scollamento tra situazione giuridica (di capacità legale) e situazione di fatto (di incapacità naturale). Ecco perché il soggetto — legalmente capace di compiere un Prova determinato atto — è comunque ammesso ad impugnarlo, se prova dell’incapacità naturale che, nel momento in cui l’ha compiuto, versava in uno stato di incapacità di intendere e/o di volere. Prova, evidentemente, abbastanza agevole se il soggetto è affetto da una malattia che offusca stabilmente la sua sfera intellettiva e/o volitiva (v. Cass. 4 marzo 2016, n. 4316); ben più difficile nell’ipotesi in cui l’obnubilamento dipenda da una causa transitoria (ad es., ubriachezza), di cui non sempre è facile dimostrare ex post l’esistenza e l’impatto sulla sfera psichica della persona (v. Cass. 30 maggio 2017, n. 13659; Cass. 30 agosto 2013, n. 19958). La controparte non è invece legittimata a proporre domanda di annullamento dell’atto stipulato dall’incapace naturale (v. Cass. 20 febbraio 2015, n. 3456). Quanto alla sorte degli atti posti in essere dall’incapace natu- Atti compiuti dall’incapace rale, occorre distinguere: naturale a) il matrimonio (art. 120, comma 1, c.c.; v. Cass. 30 giugno 2014, n. 14794), l’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 5, L. 20 maggio 2016, n. 76), il testamento (art. 591, comma 2 n. 3, c.c.) e la donazione (art. 775, comma 1, c.c.) sono impugnabili sol che si dimostri che il soggetto era incapace di volere e/o di intendere nel momento in cui ha compiuto l’atto; L’attività giuridica 112 [§ 54] b) gli atti unilaterali (ad es., la rinuncia ad un credito; il conferimento di una procura) sono annullabili, se si dimostra — da un lato — che il soggetto era incapace di volere e/o di intendere nel momento in cui li ha posti in essere e — da altro lato — che da detti atti è derivato un grave pregiudizio per l’incapace stesso (art. 428, comma 1, c.c.; v. Cass. 31 gennaio 2017, n. 2550); c) i contratti (ad es., la compravendita, il mutuo, ecc.) sono annullabili, se si dimostra — da un lato — che il soggetto era incapace di volere e/o di intendere nel momento in cui li ha posti in essere e — da altro lato — che l’altro contraente era in malafede: ossia, si rendeva conto o avrebbe dovuto rendersi conto, usando l’ordinaria diligenza, che stava contraendo con un soggetto incapace (art. 428, comma 2, c.c.; v. Cass. 29 settembre 2016, n. 19270). Non è richiesto che il contratto rechi pregiudizio all’incapace (sicché quest’ultimo ben potrebbe, ad es., chiedere l’annullamento del contratto di compravendita della propria casa, quand’anche posto in essere al prezzo di mercato): l’eventuale squilibrio delle prestazioni contrattuali in danno dell’incapace può solo costituire elemento sintomatico da cui desumere la malafede della controparte (art. 428, comma 2, c.c.; v. Cass. 30 settembre 2015, n. 19458). L’annullamento degli atti unilaterali e dei contratti posti in essere dall’incapace naturale può essere richiesto da quest’ultimo, una volta riacquistata la capacità naturale, entro cinque anni dal loro compimento (art. 428, comma 3, c.c.; v. Cass. 20 febbraio 2015, n. 3456). § 54. Incapacità di diritto ed incapacità di fatto Incapacità legale e incapacità naturale. Quanto sin qui esposto ci consente di comprendere l’insegnamento tradizionale secondo cui, all’interno delle ipotesi di incapacità d’agire, occorre distinguere tra: a) minore età, interdizione giudiziale, interdizione legale, inabilitazione, emancipazione, amministrazione di sostegno, che importano, per il soggetto, una incapacità legale, in cui rileva non già il fatto che il soggetto sia concretamente incapace di intendere e di volere nel momento in cui pone in essere l’atto negoziale, bensì solo ed esclusivamente il fatto che lo stesso si trovi in una determinata situazione (minore età, interdizione, emancipazione, ecc.); e b) incapacità di intendere o di volere, che importa, invece, una incapacità naturale, in cui rileva solo ed esclusivamente il fatto che il soggetto — seppur legalmente capace — si trovi concretamente, nel [§ 55] Il soggetto del rapporto giuridico 113 momento in cui compie l’atto negoziale, in una situazione di menomazione della propria sfera intellettiva e/o volitiva. Non meno tradizionale — seppure oggi approssimativa, come Incapacità e abbiamo avuto modo di vedere (cfr. art. 427, comma 1, c.c.) — è assoluta relativa l’osservazione che, tra gli istituti che importano incapacità legale, occorrerebbe poi distinguere tra: (i) minore età ed interdizione giudiziale, che importano una incapacità « assoluta », in quanto precludono al soggetto il compimento di qualsiasi atto negoziale; e (ii) inabilitazione, emancipazione ed amministrazione di sostegno, che importano invece una incapacità « relativa », in quanto lasciano permanere, in capo al soggetto, una più o meno ampia capacità negoziale. § 55. La legittimazione. Una nozione che, sviluppatasi nel campo del diritto processuale, Nozione è penetrata anche nel campo del diritto privato sostanziale è quella di « legittimazione »: per tale intendendosi, l’idoneità del soggetto ad esercitare e/o a disporre di un determinato diritto. Invero, per compiere validamente un determinato atto (ad es., vendere un dato bene), il soggetto deve trovarsi nella situazione giuridica richiesta dalla legge (deve, per rimanere al nostro esempio, essere proprietario del bene; v. Cass., sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951). Non sempre la legittimazione coincide con la titolarità del diritto Legittimae soggettivo: così, ad es., il mandatario (v. § 390) può, in caso di zione titolarità del urgenza, vendere le cose detenute per conto del mandante (art. 1718, diritto comma 2, c.c.); l’amministratore del condominio, non i singoli condómini, può agire per il pagamento degli oneri condominiali (v. Cass. 18 gennaio 2017, n. 1208); ecc. (v. Cass. 6 luglio 2018, n. 17727; Cass. 29 maggio 2018, n. 13377; Cass. 2 febbraio 2018, n. 2575). Peraltro, non sempre il difetto di legittimazione produce l’inva- L’apparenza lidità dell’atto: talora, infatti, l’ordinamento si accontenta dell’apparenza. Così, ad es., il pagamento effettuato allo sportello dell’ufficio postale è validamente eseguito — e, quindi, ha efficacia solutoria — anche se l’impiegato non è legittimato a riceverlo per conto dell’ufficio stesso (art. 1189, comma 1, c.c.; v. § 215; v. Cass. 25 gennaio 2018, n. 1869); se compro un bene mobile (ad es., un orologio, un libro, un vestito, ecc.) da chi non ne è proprietario, ne acquisto 114 L’attività giuridica [§ 56] egualmente la proprietà, se ne ricevo la consegna, ignorando — senza mia colpa — che il bene non apparteneva al venditore (art. 1153, comma 1, c.c.; v. § 183); ecc. La giurisprudenza è incline ad applicare estensivamente il principio dell’apparenza, subordinandolo però al ricorso di tre distinti presupposti: a) una situazione di fatto non corrispondente alla situazione di diritto; b) il convincimento dei terzi — derivante da errore scusabile (e, come tale, immune da loro colpa) — che la situazione di fatto rispecchi la situazione di diritto; c) un comportamento colposo del soggetto effettivamente legittimato, che abbia consentito il crearsi della situazione di apparenza (v. Cass. 13 luglio 2018, n. 18519, e Cass. 19 aprile 2018, n. 9758, in tema di « rappresentanza apparente »: v. § 295; Cass. 4 novembre 2014, n. 23448, in tema di apparenza del rapporto di preposizione e del nesso di « occasionalità necessaria » in materia di responsabilità civile indiretta: v. § 465; Cass. 27 agosto 2014, n. 18307, in tema di apparenza del contratto di assicurazione; Cass. 5 luglio 2013, n. 16829, in tema di « società apparente »: v. § 514; ecc.). Peraltro, non sembra che nel nostro ordinamento sussista un principio generale in virtù del quale l’apparenza sia in ogni caso tutelata, pur essendo a tale protezione informati vari specifici istituti (v. Cass. 25 ottobre 2018, n. 27162). § 56. Rilevanza pratica La sede della persona. Il luogo in cui la persona fisica vive e svolge la propria attività ha, per l’ordinamento giuridico, rilievo da diversi punti di vista: specie in ambito processuale (ad es., per la determinazione della competenza territoriale del giudice: art. 18 c.p.c.; del luogo di notificazione: artt. 139 ss. c.p.c.; ecc.), ma anche in ambito sostanziale (ad es., l’art. 456 c.c. statuisce che la successione si apre nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto; l’art. 1182, comma 3, c.c. statuisce che l’obbligazione avente per oggetto una somma di danaro deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza; l’art. 1182, comma 4, c.c. statuisce che negli altri casi l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza; ecc.). Al riguardo, la legge distingue (art. 43 c.c.) tra: [§ 56] Il soggetto del rapporto giuridico 115 — domicilio, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha Domicilio stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi (non solo patrimoniali, ma anche morali, sociali e familiari); — dimora, per tale intendendosi il luogo in cui la persona Dimora attualmente abita; — residenza, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha Residenza volontaria ed abituale dimora. Sovente domicilio, dimora e residenza, in concreto, si concentrano in un medesimo luogo. Domicilio Il « domicilio » si distingue in: a) legale, se fissato direttamente dalla legge (così, ad es., l’art. ... legale e 45, comma 2, c.c. stabilisce che il minore ha il domicilio nel luogo di volontario residenza della famiglia o del tutore; l’art. 45, comma 3, c.c. stabilisce che l’interdetto ha il domicilio del tutore; ecc.); e b) volontario, se concretamente eletto dall’interessato a centro della propria vita di relazione. Per lo più, il domicilio coincide con la residenza, cioè con il luogo ... generale e in cui il soggetto ha fissato stabilmente l’abitazione sua e della speciale famiglia, poiché è proprio in tale luogo che lo stesso intrattiene principalmente i propri rapporti economici e personali. Ciò non esclude, tuttavia, che in molti casi — secondo quella che è la comune valutazione sociale — il domicilio sia distinto dalla residenza (così, ad es., l’avvocato si intenderà aver domicilio presso il proprio studio professionale; l’imprenditore presso la propria azienda; ecc.). Se il soggetto ha una pluralità di luoghi in cui svolge la propria vita personale o professionale (ad es., l’avvocato che ha studio sia a Milano sia a Roma), il domicilio coincide con il luogo in cui si intrattiene l’attività principale. Peraltro, non è neppure necessaria la presenza fisica della persona presso il proprio domicilio; è sufficiente che la stessa abbia in quel luogo la sede principale dei suoi affari (così, ad es., il cittadino americano che ha interessi in una determinata città italiana, avrà il domicilio in quella città, anche se fa curare i propri affari da un terzo, senza mai mettere piede nel nostro Paese). Il domicilio generale — inteso, appunto, come sede principale degli affari e degli interessi della persona — è unico (v. Cass. 15 ottobre 2011, n. 21370). Peraltro, la legge consente al soggetto di eleggere un domicilio speciale per determinati atti o affari (ad es., ai fini di un determinato procedimento giudiziale, posso, per comodità, eleggere domicilio presso lo studio del mio avvocato; in un contratto posso stabilire che tutte le comunicazioni siano effettuate in un determinato luogo; ecc.). Anzi, talora è la stessa legge a prevedere l’onere dell’elezione di 116 L’attività giuridica [§ 57] un domicilio speciale (v., ad es., artt. 103, 2839, comma 2 n. 2, 2842, 2843, comma 2, 2890, comma 3, c.c.). L’elezione del domicilio speciale deve essere fatta per iscritto e L’elezione di domicilio con dichiarazione espressa (art. 47, comma 2, c.c.; v. Cass. 23 ottobre 2008, n. 25647). L’elezione di domicilio non ha, in difetto di un’espressa e chiara volontà in senso contrario, carattere esclusivo (v. Cass. 22 dicembre 2015, n. 25731). La residenza dipende (i) dall’elemento oggettivo della permanenza Residenza: presupposti abituale del soggetto in un determinato luogo e (ii) dall’elemento oggettivo e soggettivo soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali (art. 43, comma 2, c.c.; art. 3, comma 1, D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223; v. Cass. 1° dicembre 2011, n. 25726). L’interessato deve dichiarare all’anagrafe del comune in cui intende fissare la dimora abituale il trasferimento della propria residenza (art. 31 disp. att. c.c.; art. 13, comma 1 lett. a, D.P.R. n. 223/1989; v. Cass. 9 maggio 2014, n. 10183). Le risultanze anagrafiche hanno valore di presunzione semplice (v. § 128) circa la rispondenza della situazione di fatto a quella risultante dall’iscrizione anagrafica: presunzione superabile con qualsiasi mezzo di prova idoneo a dimostrare la volontaria ed abituale dimora del soggetto in un luogo diverso (v. Cass. 3 agosto 2017, n. 19387). § 57. La cittadinanza. La cittadinanza è la situazione di appartenenza di una persona fisica ad un determinato Stato: più rilevante, in genere, nell’ambito del diritto pubblico che in quello del diritto privato. Essa è attualmente regolata dalla L. 5 febbraio 1992, n. 91, e dal relativo regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572. La cittadinanza italiana si acquista: Acquisto a) iure sanguinis: sono, infatti, cittadini italiani tutti i figli nati da cittadino italiano, indipendentemente dal luogo di nascita; è sufficiente che italiano sia anche solo uno dei genitori (art. 1, comma 1 lett. a, L. n. 91/1992). Ai figli di sangue sono parificati i figli adottivi (v. § 616), che, se stranieri, acquistano automaticamente la cittadinanza italiana, ove almeno uno degli adottanti sia cittadino italiano (art. 3, comma 1, L. n. 91/1992); o Nozione [§ 57] Il soggetto del rapporto giuridico 117 b) iure soli: sono, infatti, cittadini italiani tutti coloro che nascono nel territorio della Repubblica, qualora entrambi i genitori siano ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non acquisisce la cittadinanza dei genitori in base alla legge dello Stato di appartenenza di questi ultimi (art. 1, comma 1 lett. b, L. n. 91/1992); o c) per iuris communicatio: invero, in forza di provvedimento dell’Autorità amministrativa, emesso ad istanza dell’interessato (art. 7 L. n. 91/1992), acquista la cittadinanza italiana il coniuge od il partner di un’unione civile fra persone dello stesso sesso, straniero o apolide, di cittadino italiano, allorché, dopo il matrimonio o la costituzione dell’unione civile, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio o dalla costituzione dell’unione civile, se residente all’estero, sempre che non vi sia stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio stesso e non sia intervenuta separazione personale dei coniugi (art. 5 L. n. 91/1992; v. Cass. 17 gennaio 2017, n. 969), ovvero non vi sia stato scioglimento dell’unione civile; o d) per naturalizzazione: invero, in forza di decreto del Presidente della Repubblica, può — sulla base di una valutazione discrezionale di opportunità — essere concessa la cittadinanza italiana a chi si trovi nelle condizioni previste dall’art. 9 L. n. 91/1992 (ad es., al cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea che risieda legalmente nel territorio della Repubblica da almeno quattro anni; all’apolide che risieda legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni; allo straniero che risieda legalmente nel territorio della Repubblica da almeno dieci anni; ecc.). Nelle ipotesi di cui supra sub c) e sub d), la concessione della cittadinanza italiana è subordinata al possesso, da parte dell’interessato, di un’adeguata conoscenza della lingua italiana (art. 9.1 L. n. 91/1992). È consentito (art. 11 L. n. 91/1992) che un cittadino italiano Doppia possa avere, contemporaneamente, un’altra cittadinanza: c.d. doppia cittadinanza cittadinanza. La perdita della cittadinanza si verifica nei casi previsti dagli Perdita artt. 10-bis, 11 e 12 L. n. 91/1992 (ma v. anche l’art. 11 L. n. 91/1992). L’art. 22 Cost. statuisce che nessuno può essere privato della cittadinanza per motivi politici. Come già accennato (v. § 32), l’art. 20 TFUE prevede che « è La istituita una cittadinanza dell’Unione » europea (c.d. « cittadinanza cittadinanza europea europea »), con la precisazione che « è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro » e che « la cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostitui- L’attività giuridica 118 [§ 58] sce »: « i cittadini dell’Unione — recita il par. 2 dell’art. 20 TFUE — godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati ». La maggior parte dei diritti attribuiti al cittadino europeo incide sul suo rapporto con gli Stati membri diversi dal suo, e solo in minima parte sulla posizione dell’individuo nei confronti dell’Unione e delle sue istituzioni (v. artt. 21-24 TFUE). Non risultano invece specificati i doveri che dalla cittadinanza europea discendono. § 58. La posizione della persona nella famiglia. Il rapporto che lega le persone appartenenti ad una medesima famiglia dà luogo ad una serie di diritti e di doveri (c.d. status familiae), che saranno esaminati a suo tempo (v. §§ 577 ss.). Peraltro, giova qui soffermarsi su alcune nozioni di carattere generale, inerenti appunto alla posizione della persona nella famiglia. La « parentela » è il vincolo che unisce i soggetti che discendono La parentela dalla stessa persona — o, come dice il codice, dallo stesso « stipite » — non importa se nati all’interno del matrimonio o fuori da esso, ovvero se adottivi (ma non se adottati ex artt. 291 ss. c.c.: v. § 604) (art. 74 c.c.). Linee e gradi Ai fini della determinazione dell’intensità del vincolo di parentela, occorre considerare le linee ed i gradi: a) la linea retta unisce le persone di cui l’una discende dall’altra (ad es., padre e figlio, nonno e nipote, ecc.) (art. 75 c.c.); b) la linea collaterale unisce le persone che, pur avendo uno stipite comune, non discendono l’una dall’altra (ad es., fratello e sorella, zio e nipote, ecc.) (art. 75 c.c.); c) i gradi si contano calcolando le persone e togliendo lo stipite: così, ad es., tra padre e figlio v’è parentela di primo grado; tra fratelli v’è parentela di secondo grado (figlio, padre, figlio = 3; 3 – 1 = 2); tra nonno e nipote, parentela di secondo grado (nonno, padre, figlio = 3; 3 – 1 = 2); tra cugini, parentela di quarto grado; e così via (art. 76 c.c.). Di regola, la legge riconosce effetti alla parentela soltanto fino al sesto grado (art. 77 c.c.). L’affinità L’« affinità » è il vincolo che unisce un coniuge ed i parenti dell’altro coniuge (art. 78 c.c.): sono affini, perciò, il marito e la cognata (sorella della moglie), la suocera e la nuora, ecc. Per stabilire il grado di affinità, si tiene conto del grado di parentela con cui l’affine è legato al coniuge (art. 78, comma 2, c.c.): Il soggetto del rapporto giuridico [§ 59] 119 così, ad es., la suocera e la nuora sono affini in primo grado; il marito e la sorella della moglie sono affini in secondo grado, ecc. In ogni caso, adfines inter se non sunt adfines: gli affini di un coniuge non sono affini dell’altro coniuge (ad es., il marito della sorella di mia moglie non è mio affine). Di regola, la morte di uno dei coniugi, anche se non vi sia prole, non estingue l’affinità (art. 78, comma 3, c.c.). Questa cessa, invece, se il matrimonio è dichiarato nullo (art. 78, comma 3, c.c.): rimane in ogni caso fermo il divieto di matrimonio tra gli affini in linea retta (art. 87, comma 1 n. 4, c.c.). Il rapporto di affinità rileva, ad es., ai fini del disposto degli artt. Rilevanza del di 87, 251, 417, 429, 433, 434, 1916, 2122, 2399 c.c.; e degli artt. 28, 127 rapporto affinità e 177 L. fall. Tra coniugi non v’è rapporto né di parentela né di affinità: la Il rapporto di coniugio relazione tra essi esistente si chiama « coniugio ». § 59. Scomparsa, assenza e morte presunta. Non solo in occasione di cataclismi (ad es., inondazioni, terremoti, ecc.), ma anche nella quotidianità non è raro che di una persona si perdano le tracce (la nota trasmissione televisiva « Chi l’ha visto? » offre uno spaccato significativo di questa realtà). Per la disciplina dei rapporti facenti capo a detti soggetti, sono previsti gli istituti: — della scomparsa (art. 48 c.c.); — dell’assenza (artt. 49 ss. c.c.); — della morte presunta (artt. 58 ss. c.c.). La « scomparsa » è dichiarata con decreto dal tribunale (art. 721 La scomparsa: c.p.c.), allorquando concorrono i seguenti presupposti: presupposti a) allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza; b) mancanza di sue notizie oltre il lasso di tempo che può essere giustificato dagli ordinari allontanamenti della persona per ragioni di lavoro, svago, ecc. (art. 48 c.c.). Avendo l’istituto finalità essenzialmente conservative del patrimo- ... effetti nio dello scomparso, il tribunale può dare i provvedimenti a ciò necessari (ad es., nominare un curatore che rappresenti la persona in giudizio, compia gli atti di amministrazione dei suoi beni, gestisca l’impresa a lui facente capo, ecc.) (v. Cass. 20 febbraio 2014, n. 4081). Se la persona ritorna, gli effetti della dichiarazione di scomparsa cessano, senza necessità di una nuova pronuncia giudiziale. 120 L’attività giuridica [§ 59] L’« assenza » è dichiarata con sentenza dal tribunale (art. 724 c.p.c.), allorquando concorrono i seguenti presupposti: a) allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza; b) mancanza di sue notizie da oltre due anni (art. 49 c.c.). Il tribunale, se richiesto, ordina l’apertura degli eventuali te... effetti stamenti dell’assente (art. 50, comma 1, c.c.). Coloro che sarebbero stati eredi testamentari o legittimi dell’assente, se lo stesso fosse morto nel giorno a cui risale l’ultima sua notizia, possono domandare l’immissione temporanea nel possesso dei beni di lui (art. 50, comma 2, c.c.). Peraltro, chi è immesso nel possesso temporaneo di detti beni non può disporne (ad es., alienarli, sottoporli a pegno o ipoteca, ecc.), se non per necessità o utilità evidente riconosciuta dal tribunale (art. 54, comma 1, c.c.). Ne ha però l’amministrazione (art. 52, comma 2, c.c.) ed il godimento, con diritto di far propri frutti e rendite (artt. 52, comma 2, e 53 c.c.). La dichiarazione di assenza non scioglie il matrimonio, né l’unione civile (art. 1, comma 6, L. 20 maggio 2016, n. 76) dell’interessato (cfr. però art. 117, comma 3, c.c.), ma determina lo scioglimento della comunione legale (art. 191, comma 1, c.c.; v. § 598). Gli effetti della dichiarazione di assenza cessano — senza necessità di una nuova pronuncia giudiziale — se l’assente ritorna o, comunque, ne è provata l’esistenza (art. 56, comma 1, c.c.). L’assente ha diritto alla restituzione dei suoi beni, pur rimanendo fermi gli atti di gestione e quelli di disposizione, se debitamente autorizzati, compiuti da chi era nel loro legittimo possesso (art. 56, comma 2, c.c.). La morte La « morte presunta » è dichiarata con sentenza dal tribunale, presunta: allorquando concorrono i seguenti presupposti: presupposti a) allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza; b) mancanza di sue notizie da dieci anni (art. 58, comma 1, c.c.). Nei confronti di chi è scomparso per un infortunio, è sufficiente che non si abbiano più notizie da due anni (art. 60, comma 1 n. 3, c.c.; per gli scomparsi in occasione di eventi bellici, v. art. 60, comma 1 nn. 1 e 2, c.c.). ... effetti Gli effetti della pronuncia di morte presunta sono quelli che la legge normalmente ricollega alla morte: così, coloro che sarebbero stati suoi eredi testamentari o legittimi, se il soggetto fosse morto nel giorno a cui risale l’ultima notizia di lui, conseguono la piena titolarità e disponibilità dei suoi beni e diritti, secondo le regole della successione a causa di morte (artt. 63 e 64 c.c.), con la particolarità che è obbligatorio l’inventario dei beni (art. 72 c.c.); la comunione L’assenza: presupposti [§ 60] Il soggetto del rapporto giuridico 121 legale si scioglie (art. 191, comma 1, c.c.); il coniuge può passare a nuove nozze (art. 65 c.c.); l’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso può passare ad una nuova unione civile ovvero a nozze (art. 1, comma 22, L. 20 maggio 2016, n. 76); ecc. Detti effetti cessano retroattivamente in forza di sentenza che accerta il ritorno o, quantomeno, l’esistenza in vita della persona di cui è stata dichiarata la morte presunta. Quest’ultima recupera i propri beni, fermi restando gli atti di gestione e di disposizione fin qui compiuti. Il nuovo matrimonio contratto dal coniuge è nullo, salvo gli effetti del c.d. matrimonio putativo (artt. 68, comma 2, e 128 c.c.: v. § 584); l’unione civile eventualmente costituita dall’altro partner è nulla (ex art. 1, comma 5, L. 20 maggio 2016, n. 76). § 60. Gli atti dello stato civile. Le vicende più importanti della persona fisica sono documen- Archivi dello tate negli archivi dello stato civile, tenuti presso ogni comune (artt. stato civile 449 ss. c.c.). In ciascun ufficio dello stato civile sono registrati e conservati in un unico archivio informatico tutti gli atti formati nel comune, o comunque relativi a soggetti ivi residenti, riguardanti: a) la cittadinanza; b) la nascita; c) i matrimoni; d) le unioni civili; e) la morte (art. 10, comma 1, D.P.R. 30 novembre 2000, n. 396). In via di prima approssimazione, si può dire che negli archivi Iscrizione di dello stato civile si iscrivono le dichiarazioni che i privati rendono dichiarazioni all’ufficiale di stato civile in ordine a cittadinanza, nascita, matrimoni, unioni civili, morte di una determinata persona. Ciò che viene dai comparenti dichiarato all’ufficiale di stato civile si presume, fino a prova contraria, rispondente a verità (art. 451, comma 2, c.c.). Gli atti dello stato civile sono atti pubblici (artt. 2699 ss. c.c.; v. § 125): con la conseguenza che fanno prova, fino a querela di falso, di ciò che l’ufficiale di stato civile attesta essere avvenuto in sua presenza o da lui compiuto (art. 451, comma 1, c.c.). Da ciò deriva che gli atti dello stato civile svolgono, innanzitutto, funzione probatoria in ordine a cittadinanza, nascita, matrimonio, unione civile e morte della persona fisica. 122 L’attività giuridica [§ 61] Negli archivi dello stato civile si trascrivono altresì provvedimenti di autorità amministrative e giudiziarie, italiane e straniere, sempre relativi a cittadinanza, nascita, matrimoni, unioni civili e morte della persona fisica. La rettificazione di un atto dello stato civile inficiato da errori, Rettificazione omissioni od irregolarità, la ricostruzione di un atto andato distrutto o smarrito, la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato possono avvenire soltanto in forza di decreto motivato del tribunale (artt. 95 ss. D.P.R. n. 396/2000; v. Cass. 6 novembre 2018, n. 28277). Gli atti dello stato civile sono pubblici (art. 450 c.c.): nel senso Funzione di pubblicità che chiunque può consultarli e chiederne estratti e certificati (artt. notizia 106 ss. D.P.R. n. 396/2000). I registri dello stato civile adempiono, dunque, anche ad una funzione di pubblicità-notizia (v. § 107) delle principali vicende della persona fisica. Trascrizione di provvedimenti B) I DIRITTI DELLA PERSONALITÀ § 61. Nozione e caratteri. L’art. 2 Cost. proclama solennemente che « la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ». La formula della norma costituzionale riecheggia l’idea, di oriTutela nei gine giusnaturalistica, secondo cui la persona umana sarebbe portaconfronti trice di diritti « innati », che l’ordinamento giuridico non attribuisce, dello Stato bensì « riconosce »; e che, in quanto tali, sono « inviolabili » da parte dello Stato, nell’esercizio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Una conferma di siffatta interpretazione viene dal fatto che — allorquando contempla singolarmente tali diritti (art. 13: libertà personale; art. 14: inviolabilità del domicilio; art. 15: libertà e segretezza delle comunicazioni; art. 16: libertà di circolazione; art. 17: libertà di riunione; art. 18: libertà di associazione; art. 19: libertà di religione; art. 21: libertà di manifestazione del pensiero e libertà di stampa; art. 24: diritto di accesso alla giustizia ed alla difesa in giudizio) — la nostra Costituzione mira chiaramente a garantire il cittadino, in primo luogo, contro gli abusi e l’arbitrio dei pubblici poteri: in altri termini, mira ad assicurare a quest’ultimo una sfera intangibile di libertà nei confronti dello Stato. I diritti inviolabili costituzionalmente garantiti [§ 61] Il soggetto del rapporto giuridico 123 Peraltro, la tutela costituzionale dei diritti inviolabili non si ... e dei esaurisce in questa direzione: i diritti inviolabili della persona sono consociati tali anche nei confronti degli altri consociati. Proprio in questa seconda prospettiva, il codice penale sanziona i « delitti contro la persona » (artt. 575 ss. c.p.), distinguendoli in « delitti contro la vita e l’incolumità individuale » (artt. 575 ss. c.p.: omicidio, percosse, lesione personale, ecc.), « delitti contro l’onore » (artt. 595 ss. c.p.: diffamazione), « delitti contro la libertà individuale » (artt. 600 ss. c.p.: riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, impiego di minori nell’accattonaggio, organizzazione dell’accattonaggio, tratta delle persone, sequestro di persona, violenza sessuale, violenza privata, tortura, violazione di domicilio, violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza, ecc.). Dal canto suo, il codice civile detta norme specifiche a tutela dell’integrità fisica (art. 5 c.c.), del nome (artt. 6-9 c.c.) e dell’immagine (art. 10 c.c.). Peraltro, è ormai pacifico che — allorquando proclama che « la L’« elenco » dei Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo » — aperto diritti l’art. 2 Cost. intende far riferimento non solo a quelli specificamente inviolabili tipizzati in altre norme della stessa Costituzione (artt. 13 ss. Cost.), bensì anche a quelli che la coscienza sociale, in un determinato momento storico, ritiene essenziali per la tutela della persona umana. L’elenco dei diritti inviolabili è dunque — da un lato — aperto (v. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455; Cass. 20 luglio 2015, n. 15138), essendo ammissibili diritti della personalità per così dire « atipici » (come sono stati, almeno all’origine, il diritto alla riservatezza e quello all’identità personale; v. §§ 67 e 68) e — da altro lato — storicamente condizionato (ad es., mentre l’art. 29 dello Statuto albertino dichiarava testualmente « inviolabile » il diritto di proprietà, la vigente Costituzione repubblicana disciplina tale diritto tra i « Rapporti economici »: artt. 42 ss. Cost.; v. § 132). Da segnalare che, negli ultimi anni, la nostra giurisprudenza ha mostrato una progressiva propensione ad ampliare il novero dei diritti « inviolabili » della persona: così, ad es., è giunta ad affermare che dovrebbe ritenersi « diritto inviolabile » quello ad una ragionevole durata del processo (v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12515; Cass. 31 ottobre 2017, n. 25855); quello all’autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari (v. Cass. 22 agosto 2018, n. 20885); quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche (v. Cass. 9 marzo 2017, n. 6129); quello al riconoscimento di uno status filiale corrispondente a verità (v. Cass. 29 novembre 2016, n. 24292); quello al cambiamento di sesso ed all’autodeterminazione in ordine 124 L’attività giuridica [§ 61] alla propria identità di genere (v. Cass. 20 luglio 2015, n. 15138); quello alla libera espressione della propria identità sessuale (v. Cass. 22 gennaio 2015, n. 1126); quello del figlio all’adempimento dei doveri facenti capo al genitore naturale (v. Cass. 14 aprile 2012, n. 5652); quello di due persone del medesimo sesso, conviventi in stabile relazione di fatto, di vivere liberamente una condizione di coppia (v. Cass. 15 marzo 2012, n. 4184); quello ai rapporti parentali-familiari (v. Cass. 11 gennaio 2011, n. 450); ecc. Ai fini dell’individuazione dei diritti che nel nostro ordinamento I diritti « inviolabili » devono considerarsi « inviolabili », un ruolo decisivo svolgono — oltre nelle norme di che, ovviamente, le disposizioni del diritto interno — anche norme di derivazione derivazione extrastatuale. extrastatuale In proposito, meritano segnalazione: a) la « Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo », approvata con risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in data 10 dicembre 1948; b) la « Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali » (« CEDU »), firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848. Dal 1o dicembre 2009, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, « i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali » (art. 6, par. 3, TUE); c) il « Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali culturali » ed il « Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici », adottati a New York il 16 dicembre 1966, cui è stata data esecuzione in Italia con L. 25 ottobre 1977, n. 881; d) la « Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea » — proclamata ufficialmente dalle istituzioni comunitarie (Parlamento, Consiglio e Commissione) una prima volta a Nizza, in occasione del Consiglio europeo, in data 7 dicembre 2000 (c.d. Carta di Nizza), e una seconda volta, in versione modificata, a Strasburgo il 12 dicembre 2007 — che dal 1o dicembre 2009, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, ha « lo stesso valore giuridico dei trattati » dell’Unione europea (art. 6, par. 1, TUE). Tradizionalmente si afferma che i diritti della persona sono Caratteri dei diritti della connotati dai caratteri: persona: a) della necessarietà, in quanto competono a tutte le persone necessarietà fisiche, che li acquistano al momento della nascita e li perdono solo con la morte; [§ 62] Il soggetto del rapporto giuridico 125 b) della imprescrittibilità (v. §§ 110 ss.), in quanto il non uso ... imprescritprolungato non ne determina l’estinzione (ad es., se per anni non ho tibilità reagito contro l’utilizzo abusivo della mia immagine, non per questo perdo il diritto di farlo in futuro); c) della assolutezza, in quanto — da un lato — implicano, in ... assolutezza capo a tutti i consociati, un generale dovere di astensione dal ledere l’interesse presidiato da detti diritti e — da altro lato — sono tutelabili erga omnes, cioè nei confronti di chiunque li contesti o li pregiudichi; d) della non patrimonialità, in quanto tutelano valori della ... non patrimopersona non suscettibili di valutazione economica; nialità e) della indisponibilità, in quanto non sono rinunziabili, sep- ... indispopure si ammetta con sempre maggiore larghezza la possibilità di nibilità consentirne l’uso ad altri, a titolo gratuito od anche oneroso (si pensi, ad es., al testimonial che concede, a fini di lucro o di solidarietà, l’uso della propria immagine per una campagna pubblicitaria). In ogni caso, devono ritenersi invalidi quegli atti dispositivi che, alla stregua della coscienza sociale, risultino incompatibili con i valori fondamentali della persona (ad es., nullo deve ritenersi l’accordo in forza del quale un aspirante cantante si impegni, nei confronti della propria casa discografica, ad assumere definitivamente una determinata « personalità », ritenuta idonea a far presa sul pubblico, rinunciando al proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, affettivo, sentimentale, ecc.). Si discute se esista un unico diritto della personalità avente ad Teoria e oggetto la tutela della persona vista nella sua unitarietà ed indivisi- monistica teoria bilità (c.d. teoria monistica; v. Cass. 25 agosto 2014, n. 18174; Cass. 14 pluralistica ottobre 2008, n. 25157) ovvero tanti diritti distinti volti a tutelare, singolarmente, i diversi interessi di cui la stessa è portatrice (c.d. teoria pluralistica). § 62. Diritto alla vita. Seppur non testualmente previsto dalla nostra Carta costituzio- Fonte e nale — mentre trova espressa proclamazione, ad es., nella Dichiara- contenuto zione universale dei diritti umani (art. 3), nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (art. 6), nella CEDU (art. 2), nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 2) — il « diritto alla vita », dalla nostra Corte costituzionale definito come il « primo dei diritti inviolabili dell’uomo » (Corte cost. 27 giugno 1996, 126 L’attività giuridica [§ 62] n. 223), è posto a presidio del fondamentale interesse della persona umana alla propria esistenza fisica. Tale diritto impone a tutti i consociati l’obbligo di astenersi dall’attentare alla vita altrui: obbligo presidiato anche da sanzioni penali (artt. 575, 578, 584, 588, comma 2, 589, 589-bis, 591, comma 3, 593, comma 3, 593-ter, comma 4, c.p.). Problema delicato è quello di stabilire il momento in cui si Acquisto acquista il diritto alla vita. Come già anticipato (v. § 45), è pacifico che la non ancora intervenuta acquisizione della capacità giuridica non impedisce al nascituro di essere titolare di interessi giuridicamente tutelati (v. Corte cost. 6 febbraio 1975, n. 26): tant’è che l’art. 1, comma 1, L. 22 maggio 1978, n. 194 (« Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza ») statuisce che « lo Stato (...) tutela la vita umana dal suo inizio », cioè dal momento del concepimento; ed ora l’art. 1, comma 1, L. 19 febbraio 2004, n. 40 (« Norme in materia di procreazione medicalmente assistita ») espressamente dichiara di tutelare anche i diritti del concepito. Il diritto a nascere trova tutela piena ed immediata nei confronti Il « diritto a nascere » dei soggetti diversi dalla madre: è infatti penalmente sanzionata la condotta di chiunque cagioni l’interruzione della gravidanza, senza il consenso della donna manifestato secondo le modalità previste dalla legge (artt. 17, 18, 19 e 20 L. n. 194/1978). Nei confronti della madre occorre invece distinguere: Interruzione volontaria a) l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi 90 della gravidanza giorni dal concepimento è sostanzialmente rimessa alla sua libera determinazione: prevede infatti la legge che « la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o le circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico (...) o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia » (art. 4 L. n. 194/1978); « quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza » (art. 5, comma 3, L. n. 194/1978); di contro, « se non viene riscontrato il caso di urgenza », « il medico del consultorio o della struttura socio- [§ 62] Il soggetto del rapporto giuridico 127 sanitaria o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza », « le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole » (art. 5, comma 4, L. n. 194/1978): e, cioè, quand’anche la sua richiesta dovesse risultare fondata su motivi futili o capricciosi; b) l’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi 90 giorni può invece essere praticata unicamente quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, ovvero quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6 L. n. 194/1978; v. Cass. 11 aprile 2017, n. 9251): in quest’ultimo caso, dunque, il diritto del nascituro può essere sacrificato solo di fronte al preminente interesse della madre alla vita ed alla integrità psico-fisica. Se è tutelato nei confronti dei terzi, il diritto alla vita non lo è, Il suicidio in concreto, nei confronti del diretto interessato: nessuna sanzione consegue, infatti, al suicidio (così come al tentato suicidio). Costituiscono tuttavia reato (art. 580 c.p.) — ed integrano gli estremi dell’illecito civile, con conseguente obbligo risarcitorio (ex artt. 2043 ss. c.c.; v. §§ 454 ss.) — le condotte di chi determini altri al suicidio, ovvero ne rafforzi i propositi suicidi, ovvero ancora agevoli in qualunque modo l’esecuzione di detti propositi: c.d. istigazione o aiuto al suicidio. Peraltro, con ordinanza in data 16 novembre 2018, n. 207, la L’aiuto al Corte costituzionale ha rinviato all’udienza del 24 settembre 2019 suicidio l’esame della questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., sollevata nell’ambito del procedimento penale aperto nei confronti del sig. Marco Cappato per l’ausilio da quest’ultimo prestato al suicidio assistito, presso una clinica svizzera, del sig. Fabiano Antoniani, più noto come Dj Fabo: e ciò, al fine di « consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa ». La Corte costituzionale ha infatti evidenziato come l’indiscriminata incriminazione dell’aiuto al suicidio ponga problemi di compatibilità con interessi costituzionalmente protetti, specie con riferimento all’ipotesi — come quella che ha visto protagonista proprio Dj Fabo — « in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo 128 L’attività giuridica [§ 62] di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli » in ordine ad interventi, che lo stesso non è però in grado di porre in essere autonomamente, atti a determinarne la morte. Costituisce reato (art. 579 c.p.) — e, conseguentemente, illecito L’omicidio del civile — anche la condotta di chi cagioni ad altri la morte, seppure consenziente con il di lui consenso: c.d. omicidio del consenziente. Si ritiene pertanto illecita anche la condotta di chi, per motivi di L’eutanasia attiva pietà e con il suo consenso (o, addirittura, su sua sollecitazione), provochi la morte dell’infermo, affetto da malattia probabilmente o certamente incurabile, attraverso un diretto intervento acceleratore (ad es., mediante un’iniezione letale), volto ad anticiparne il decesso allo scopo di evitargli le sofferenze del processo patologico terminale: c.d. eutanasia attiva. Diverso è il caso in cui l’interessato — lungi dal richiedere un Principio di autodeterintervento che ne causi positivamente, accelerandola, la morte — minazione e rifiuto dei rifiuti il trattamento terapeutico necessario per salvargli la vita o trattamenti decida di interromperlo. Il generale principio — di cui parleremo al salvavita successivo § 63 — secondo cui i trattamenti sanitari possono essere praticati solo con il consenso dell’avente diritto (c.d. principio di autodeterminazione: artt. 1 e 2 L. 22 dicembre 2017, n. 219) vale anche con riferimento ai c.d. trattamenti salvavita: con riferimento, cioè, a quegli interventi — fra i quali devono ricomprendersi anche la nutrizione e l’idratazione artificiali (art. 1, comma 5, L. n. 219/2017) — che la scienza medica indica come idonei a scongiurare o, quantomeno, ad allontanare il rischio di morte dell’infermo. Il diritto alla salute, costituzionalmente garantito (v. § 63), implica infatti — come da tempo affermato dalla nostra Suprema Corte (v. Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748) — anche il suo risvolto negativo: cioè, il « diritto di non curarsi » e, persino, il « diritto di lasciarsi morire » (di lasciare, in altre parole, che la malattia segua il suo corso naturale fino all’exitus finale). Di fronte al rifiuto del trattamento medico consapevolmente espresso dall’assistito, così come di fronte alla sua richiesta di interruzione del trattamento già in atto, il dovere del medico di curarlo, proprio perché fondato sul consenso del malato, viene meno; anzi, egli è obbligato a rispettare la volontà dell’assistito contraria alle cure (art. 1, comma 6, L. n. 219/2017). Tutto ciò, ovviamente, presuppone che l’interessato — nonostante il turbamento che inevitabilmente gli deriva dal trovarsi in pericolo di vita — sia in grado di manifestare consapevolmente e [§ 62] Il soggetto del rapporto giuridico 129 liberamente il proprio intendimento in ordine al trattamento medico propostogli (art. 1, comma 5, L. n. 219/2017). Allorquando invece il soggetto non sia in grado, a causa dello Principio di stato di incapacità in cui versa, di manifestare il proprio consenso/ autodeterminazione ed dissenso al riguardo, il medico — nelle situazioni di emergenza o di incapacità del urgenza — deve senz’altro praticare le cure necessarie (art. 1, comma paziente 7, L. n. 219/2017). Superata l’urgenza, la decisione in ordine al consenso/rifiuto di un determinato trattamento terapeutico da praticare all’incapace spetta al suo rappresentante legale (ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale, al tutore, all’amministratore di sostegno) (art. 3 L. n. 219/2017). Nel caso in cui il rappresentante rifiuti le cure proposte che il medico ritenga invece appropriate e necessarie, la decisione è demandata al giudice tutelare (art. 3, comma 5, L. n. 219/2017). In ogni caso, di fronte a paziente con prognosi infausta a breve Il divieto di termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni accanimento terapeutico ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati; ricorrendo piuttosto, in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, alla sedazione palliativa profonda continua, in associazione con la terapia del dolore (art. 2, comma 2, L. n. 219/2017). Al fine di evitare la rimessione al rappresentante legale (ed Le eventualmente al giudice tutelare) di scelte così delicate e dramma- disposizioni anticipate di tiche come quelle di fine vita, la recente L. 22 dicembre 2017, n. 219, trattamento consente al maggiorenne capace di intendere e di volere di redigere — nella forma dell’atto pubblico, della scrittura privata autenticata o della scrittura privata consegnata personalmente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza ovvero presso le strutture sanitarie abilitate (art. 4, comma 6, L. n. 219/2017) — le proprie « disposizioni anticipate di trattamento » (« DAT »), attraverso cui manifestare ora per allora le proprie volontà in tema di accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e/o trattamenti sanitari, per il caso in cui, in futuro, dovesse venirsi a trovare in uno stato di incapacità di esprimere il proprio consapevole consenso/rifiuto al riguardo (art. 4 L. n. 219/2017). Il disponente può altresì indicare il nominativo di persona di propria fiducia — c.d. « fiduciario » — che, sempre nell’ipotesi in cui lo stesso disponente dovesse venirsi a trovare in uno stato di incapacità di esprimere la propria volontà in tema di trattamenti sanitari, lo rappresenti nelle relazioni con il medico e le strutture sanitarie (art. 4, commi 1, 2 e 4, L. n. 219/2017). Le direttive espresse nelle DAT sono vincolanti per il medico, che può disattenderle, in tutto o in parte, solo — in accordo con il 130 L’attività giuridica [§ 63] fiduciario — qualora le stesse dovessero apparire palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente, ovvero per essere nel frattempo divenute disponibili terapie, non prevedibili all’atto della sottoscrizione delle stesse DAT, capaci di offrire al paziente concrete possibilità di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Nel caso di conflitto fra fiduciario e medico, la decisione è rimessa al giudice tutelare (art. 4, comma 5, L. n. 219/2017). Le DAT — così come l’indicazione del fiduciario — possono essere, in qualunque momento, revocate o modificate dal disponente nelle forme richieste per la loro formulazione (art. 4, commi 3 e 6, L. n. 219/2017). Diversa modalità di manifestazione anticipata del volere del La pianificazione paziente per l’ipotesi in cui lo stesso dovesse, in futuro, venirsi a condivisa delle cure trovare in una situazione di impossibilità di manifestare le proprie volontà in tema di trattamenti sanitari è quella della c.d. « pianificazione condivisa delle cure »: in presenza di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, il paziente può concordare, per iscritto, con il medico una pianificazione delle cure, alla quale il medico stesso e la sua équipe saranno, un domani, tenuti ad attenersi, quand’anche l’assistito dovesse venirsi a trovare in una condizione di incapacità. La pianificazione condivisa delle cure può, in ogni momento, essere aggiornata — su richiesta del paziente o su suggerimento del medico — al progressivo evolversi della malattia (art. 5 L. n. 219/2017). In ogni caso, al paziente dev’essere consentito l’accesso alle c.d. Cure palliative e cure palliative (per tali intendendosi « l’insieme degli interventi teraterapia del dolore peutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici ») ed alla terapia del dolore (per tale intendendosi « l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnosticoterapeutici per la soppressione e il controllo del dolore »), disciplinate dalla L. 15 marzo 2010, n. 38. § 63. Fonti e contenuto Diritto alla salute. L’art. 32, comma 1, Cost. definisce quello alla « salute » come « fondamentale diritto dell’individuo ». L’art. 3, comma 1, della Carta [§ 63] Il soggetto del rapporto giuridico 131 dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclama oggi che « ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica » (v. anche art. 25 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo). Tale diritto implica, per tutti i consociati, l’obbligo di astensione da condotte che possano cagionare ad altri malattie, infermità o menomazioni: obbligo presidiato — oltre che da sanzioni penali (artt. 581, 582, 583, 583-bis, 583-quater, 590, 590-bis c.p.) — anche sul piano risarcitorio (v. §§ 229 ss. e 454 ss.). L’interesse alla salute ed all’integrità psico-fisica è tutelato Il diritto di anche a favore del nascituro: tant’è che si ammette la risarcibilità del nascere sano danno conseguente a lesioni subite dal feto nel periodo prenatale a causa di condotte imperite del medico; sicché il soggetto che, con la nascita, abbia acquistato la capacità giuridica ben potrà far valere la responsabilità per lesioni o malattie procurategli quando ancora nato non era (v. § 45). Si ritiene che non trovi invece cittadinanza, nel nostro ordina- Il preteso a non mento, il c.d. diritto di non nascere se non sano. Con la conseguenza diritto nascere se che chi sia nato affetto da una grave patologia (ad es., dalla sindrome non sano di Down) non potrà vantare un diritto risarcitorio (per impossibilità di un’esistenza sana e dignitosa) né nei confronti della madre che, benché correttamente informata dell’anomalia del feto, non si sia avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza, né nei confronti del medico che, non avendola correttamente informata di tale anomalia, le ha, di fatto, impedito di valutare l’opportunità di una scelta abortiva (v. Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767; e, più di recente, Cass. 11 aprile 2017, n. 9251). Ovviamente, il medico risponderà, nei confronti della madre, dei danni — da c.d. « nascita indesiderata » — da quest’ultima sofferti in conseguenza della mancata segnalazione di anomalie del feto, ove risultasse che, se correttamente informata, la stessa avrebbe optato per l’interruzione della gravidanza (v. Cass. 11 aprile 2017, n. 9251; Cass. 28 febbraio 2017, n. 5004). Il diritto alla salute ed all’integrità psico-fisica — se trova tutela Principio di nei confronti dei terzi — è invece rimesso, in linea di principio, autodeterminazione all’autodeterminazione del suo titolare. « Nessuno — dispone infatti l’art. 32, comma 1, Cost. — può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge ». La legge può prevedere l’obbligo di un determinato accerta- Trattamenti mento o trattamento sanitario solo — come più volte ribadito dalla sanitari obbligatori Corte costituzionale (v., da ultimo, Corte cost. 14 dicembre 2017, n. 268) — quando ciò sia giustificato non tanto dal vantaggio che potrà 132 L’attività giuridica [§ 63] derivarne per il soggetto cui esso è imposto, quanto dalla necessità di tutelare l’interesse superiore alla protezione della sanità pubblica (v. il tanto contestato — dal movimento no-vax — D.L. 7 giugno 2017, n. 73, che rende obbligatorie le vaccinazioni contro poliomielite, difterite, tetano, epatite B, pertosse, Haemophilus influenzale tipo B, morbillo, rosolia, parotite e varicella). Coerentemente, il legislatore ha previsto un « indennizzo » da parte dello Stato a favore di « chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie (...), lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica » (art. 1, comma 1, L. 25 febbraio 1992, n. 210; v., anche, art. 1, comma 1, L. 29 ottobre 2005, n. 229); « indennizzo » che la Corte costituzionale parrebbe orientata a ritenere dovuto, in caso di patologie irreversibili derivanti da vaccinazioni, non solo nell’ipotesi (legislativamente prevista) in cui queste ultime siano obbligatorie, ma anche quando le stesse siano semplicemente raccomandate a mezzo di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore del trattamento vaccinale, tali da giustificare nei cittadini un particolare affidamento in quanto consigliato dall’Autorità: nell’uno come nell’altro caso — rileva la Corte — l’obiettivo perseguito è sempre quello « di garantire e tutelare la salute (anche) collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale », sicché sarebbe « ingiusto (...) che siano i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio anche collettivo » (così Corte cost. 14 dicembre 2017, n. 268). In ogni caso — in attuazione del dettato dell’art. 32, comma 2, Cost. — accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori possono essere disposti solo « nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura » (art. 1, comma 2, L. 13 maggio 1978, n. 180: « Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori »; e art. 33, comma 2, L. 23 dicembre 1978, n. 833: « Istituzione del servizio sanitario nazionale »). Rivoluzionaria, in quanto particolarmente all’avanguardia in questa direzione, apparve, all’epoca della sua entrata in vigore, la disciplina degli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori delle persone affette da malattie mentali (artt. 2 ss. L. n. 180/1978). Al di fuori dei casi — eccezionali — in cui risultino imposti per Il principio di autolegge, « gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari » (art. determinazione 1, comma 1, L. n. 180/1978; v. anche art. 33, comma 1, L. n. 833/1978; ed ora, da ultimo, art. 1, comma 1, L. 22 dicembre 2017, n. 219): c.d. principio di auto-determinazione. [§ 63] Il soggetto del rapporto giuridico 133 Essi richiedono, cioè, il consenso dell’avente diritto, che, se in stato di capacità legale e naturale di agire, ben potrebbe legittimamente opporre un rifiuto alle cure (ad es., per motivi religiosi: si pensi al diniego di ricevere trasfusioni di sangue opposto dal testimone di Geova) (art. 1, commi 5 e 6, L. n. 219/2017). Senza il consenso del paziente, il medico non può sottoporlo ad accertamenti sanitari, cure mediche, interventi chirurgici, neppure — come si è visto — quando il trattamento dovesse risultare necessario per salvargli la vita (art. 1, comma 6, L. n. 219/2017). Peraltro, affinché possa prestare un valido consenso, è necessa- Il consenso rio che l’assistito venga prima correttamente, chiaramente ed esausti- informato vamente informato in ordine, da un lato, alle proprie condizioni di salute, da altro lato, alle relative diagnosi e prognosi e, da altro lato ancora, alle diverse alternative diagnostiche e terapeutiche disponibili, nonché a natura ed esiti possibili, benefici e rischi di ciascuna, ecc.: c.d. consenso informato (art. 1, comma 3, L. n. 219/2017). L’eventuale inadempimento, da parte del medico, all’obbligo Violazione del informativo sullo stesso gravante lede il diritto all’auto- diritto all’auto-deterdeterminazione che compete all’assistito, con la conseguenza che il minazione sanitario potrà essere chiamato a rispondere, quand’anche il trattamento sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per il solo fatto che il paziente non è stato posto in condizione di validamente prestare il proprio consenso (v. Cass. 15 maggio 2018, n. 11749; Cass. 5 luglio 2017, n. 16503). In ogni caso, il consenso al trattamento medico (ad es., a Revocabilità sottoporsi a trapianto cardiaco) non obbliga chi lo ha prestato, che del consenso può efficacemente revocarlo in qualsiasi momento, fin quando l’atto medico non sia stato posto in essere (art. 1, comma 5, L. n. 219/2017). Nell’ipotesi in cui il paziente legalmente capace si trovi in stato di Paziente incoscienza e ricorra un caso di urgenza, il medico — stante l’impos- legalmente capace, ma sibilità di raccoglierne il volere — deve comunque assicurargli le cure non cosciente necessarie (art. 1, comma 7, L. n. 219/2017). Nell’ipotesi in cui il paziente sia invece incapace legale, il con- Paziente senso deve, di regola, essere espresso dal suo rappresentante legale: in legalmente incapace caso di minore età, dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore; in caso di interdizione, dal tutore; in caso di amministrazione di sostegno, dall’amministratore la cui nomina ne preveda la « rappresentanza esclusiva » in ambito sanitario. In caso di inabilitazione, il consenso informato deve essere invece espresso dalla stessa persona inabilitata; in caso di amministrazione di sostegno, dallo stesso soggetto sottoposto alla procedura, « assistito » dall’am- 134 L’attività giuridica [§ 63] ministratore la cui nomina ne preveda la semplice « assistenza » in ordine alle decisioni sanitarie. In ogni caso, l’incapace legale deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute, in modo consono alle sue capacità, per essere messo in condizione di esprimere il proprio volere al riguardo, che il soggetto deputato ad esprimere in sua vece il consenso informato deve tenere nel debito conto (art. 3, commi 1, 2, 3 e 4, L. n. 219/2017). Nell’ipotesi in cui il rappresentante legale dell’incapace rifiuti le cure proposte ed il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare (art. 3, comma 5, L. n. 219/2017). Il consenso informato — ovvero la sua revoca — deve essere Forma del consenso documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni, ovvero, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare (art. 1, commi 4 e 5, L. n. 219/2017). Il diritto alla salute ed all’integrità psico-fisica non è, tuttavia, Limiti al principio di integralmente rimesso all’autodeterminazione del suo titolare. autodeterGli atti dispositivi del proprio corpo sono, di regola, consentiti a minazione due condizioni: a) che non siano contrari alla legge (si pensi, ad es., all’art. 3 L. 21 ottobre 2005, n. 219, che vieta, se non a titolo gratuito, il prelievo di sangue o di emocomponenti, così come il prelievo di cellule staminali emopoietiche; o all’art. 583-bis c.p., che punisce le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili), all’ordine pubblico ed al buon costume (si pensi, ad es., al contratto di meretricio); b) che non cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica del soggetto (art. 5 c.c.): sicché — mentre dovrà ritenersi legittimo, se consentito dall’avente diritto, il prelievo di sangue, lembi di pelle, frammenti ossei, segmenti vascolari, midollo osseo, tessuti in genere, ecc., nella misura in cui l’intervento non incida stabilmente sulla sua integrità — dovranno ritenersi, di contro, vietati, quand’anche vi sia il consenso dell’interessato, l’espianto di organi (ad es., la cornea) così come ogni altro intervento che su tale integrità sia invece destinato ad incidere negativamente. Peraltro, quand’anche riconducibili ad interventi menomativi dell’integrità fisica del soggetto, la legge — in deroga al disposto dell’art. 5 c.c. — consente: i) l’espianto da vivente del rene (L. 26 giugno 1967, n. 458), di parti del fegato (L. 16 dicembre 1999, n. 483), ovvero di parti di polmone, pancreas ed intestino (L. 19 settembre 2012, n. 167), seppure solo a titolo gratuito e con il consenso informato dell’inte- [§ 63] Il soggetto del rapporto giuridico 135 ressato, nonché l’autorizzazione del tribunale: ciò, al fine di favorire la pratica dei trapianti d’organo, eliminando ostacoli all’esercizio del dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost.; ii) interventi di modificazione dei caratteri sessuali (art. 1 L. 14 aprile 1982, n. 164; art. 31 D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150): ciò, al fine di consentire l’eliminazione degli irriducibili conflitti esistenti in coloro che, pur appartenendo fisicamente ad un determinato sesso, avvertono a livello psicologico e per pulsioni sessuali la propria appartenenza al sesso opposto. Peraltro, da segnalare che — secondo la più recente giurisprudenza — la rettificazione anagrafica di sesso (da maschile a femminile o viceversa) non richiede necessariamente la preventiva modifica per via chirurgica dei caratteri sessuali anatomici primari, potendo, in concreto, risultare al riguardo sufficiente il ricorso a presidi medici (ad es., terapie ormonali, trattamenti estetici, interventi additivi quali quelli relativi al seno, ecc.) ed a sostegni psico-terapeutici se atti a realizzare il mutamento, tendenzialmente immutabile, di sesso sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico-somatici ed ormonali (v. Corte cost. 13 luglio 2017, n. 180; Corte cost. 5 novembre 2015, n. 221; Cass. 20 luglio 2015, n. 15138). Dal canto suo, la giurisprudenza — dopo che la L. 22 maggio 1978, n. 194, ha abrogato il reato di « procurata impotenza alla procreazione » — ammette pacificamente, sempre che vi sia il consenso informato dell’avente diritto, la liceità della sterilizzazione volontaria sia maschile (ad es., mediante vasectomia) che femminile (ad es., mediante incollaggio delle tube) (v. Cass. 24 ottobre 2013, n. 24109). Gli interventi chirurgici ed i trattamenti medici devono ritenersi sottratti ai limiti al potere di autodeterminazione dell’interessato fissati dall’art. 5 c.c. Conseguentemente, il paziente può legittimamente consentire anche interventi chirurgici o trattamenti medici destinati a comportare menomazioni gravi e definitive alla propria integrità fisica (ad es., l’amputazione di una gamba). Invero, i limiti al potere di autodeterminazione in ordine agli atti dispositivi del proprio corpo sono dalla legge posti a tutela e nell’interesse dell’avente diritto: non possono certo fungere — in contrasto con la propria funzione — da impedimento a trattamenti medico-chirurgici necessari a preservarne la salute o, addirittura, la vita (v., già, Corte cost. 24 maggio 1985, n. 161). Le parti legittimamente staccate dal corpo (ad es., capelli, Le parti dal denti, unghie, ecc.) sono beni autonomi (v. § 80) di spettanza (v. § staccate corpo 132) del soggetto al cui corpo appartenevano (v. Cass. 5 agosto 2008, 136 L’attività giuridica [§ 64] n. 21128). Conseguentemente, possono essere oggetto di atti di disposizione (ad es., posso vendere i capelli che ho tagliato, perché vengano utilizzati per la confezione di extensions). Ovviamente, i limiti al potere di autodeterminazione dell’avente diritto, previsti dall’art. 5 c.c., valgono fino a che il soggetto è in vita. Atti Per il momento successivo alla propria morte, la persona può dispositivi disporre in ordine alla collocazione della propria salma (c.d. ius del cadavere eligendi sepulchrum); ovvero — per testamento o più semplicemente, per gli iscritti ad associazioni riconosciute che abbiano tra i propri fini statutari quello della cremazione dei cadaveri dei propri associati, in forza di una dichiarazione in carta libera — in ordine alla cremazione del proprio corpo ed all’eventuale dispersione delle ceneri (L. 30 marzo 2001, n. 130; art. 79 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285); nonché in ordine al prelievo di organi e tessuti — esclusi gonadi ed encefalo — a scopo di trapianto (L. 1o aprile 1999, n. 91): anzi, la legge prevede che « i cittadini sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte » e che « la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione » (art. 4, comma 1 e 4 lett. b, L. n. 91/1999; peraltro — ad oltre vent’anni di distanza — il regime attualmente applicabile è ancora quello previsto, in via transitoria, dagli artt. 23 e 28, comma 2, L. n. 91/1999). § 64. Diritto al nome. Il « nome » — costituito da prenome (cioè, dal nome di battesimo) e cognome (art. 6, comma 2, c.c.) — svolge funzione di identificazione sociale della persona e viene ricondotto nell’alveo dei valori fondamentali della persona, in particolare, nella prospettiva della protezione della sua identità, intesa anche come proiezione della sua personalità (artt. 2 e 30 Cost.; art. 8 CEDU; art. 24 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). Il cognome Il figlio nato nel matrimonio (v. § 605) — secondo l’opinione del figlio assolutamente prevalente che, in assenza di una puntuale espressa nato nel matrimonio previsione di legge al riguardo, deduce la regola dal disposto degli ... artt. 237, 262 e 299 c.c., nonché degli artt. 33 e 34 D.P.R. n. 396/2000 — assume il cognome del padre ed il prenome attribuitogli all’atto della dichiarazione di nascita all’ufficiale di stato civile (artt. 29, comma 2, e 34 ss. D.P.R. n. 396/2000; v. Cass. 20 novembre 2012, n. Contenuto del diritto [§ 64] Il soggetto del rapporto giuridico 137 20385). Se il dichiarante non dà un prenome al bambino, vi supplisce l’ufficiale di stato civile (art. 29, comma 4, D.P.R. n. 396/2000). Peraltro, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo — con sentenza del 7 gennaio 2014, ric. n. 77/07 — ha ritenuto che la regola, secondo cui il figlio legittimo acquista automaticamente il cognome paterno, senza possibilità di assumere (in aggiunta o in sostituzione) quello della madre, contrasti con le previsioni dettate dagli artt. 8 e 14 CEDU; con la conseguenza che lo Stato italiano è ora obbligato (ex art. 46 CEDU) ad adeguare la normativa interna a quanto statuito dalla Corte di Strasburgo. All’inerzia del legislatore ha peraltro supplito, almeno parzialmente, la Corte costituzionale, la quale è intervenuta dichiarando illegittima — perché in contrasto con il disposto degli artt. 2, 3 e 29, comma 2, Cost. — la regola, che vuole che al figlio nato nel matrimonio sia attribuito il cognome paterno, « nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno » (Corte cost. 21 dicembre 2016, n. 286). Il figlio nato fuori del matrimonio (v. §§ 608 e 611) assume il ... del figlio fuori dal cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il ricono- nato matrimonio scimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, assume il cognome del padre (art. 262, comma 1, c.c.), sempre che i genitori, di comune accordo, non richiedano di trasmettere al figlio anche il cognome materno (v. Corte cost. 21 dicembre 2016, n. 286). Se il riconoscimento del padre avviene successivamente a quello della madre, il figlio può assumere il cognome del padre, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre (art. 262, comma 2, c.c.). Nel caso di minore età del figlio, è il giudice a dover decidere — avendo quale unico criterio di riferimento l’interesse del minore stesso — se quest’ultimo debba sostituire il cognome paterno a quello materno, ovvero premetterlo od aggiungerlo ad esso (art. 262, comma 4, c.c.; v. Cass. 18 giugno 2015, n. 12640). I bambini non riconosciuti da alcuno dei genitori assumono il ... del figlio cognome ed il prenome loro imposto dall’ufficiale di stato civile (art. non riconosciuto 29, comma 5, D.P.R. n. 396/2000; v. anche art. 262, comma 3, c.c.). Il figlio adottivo (v. §§ 616 ss.) assume il cognome degli adottanti ... del figlio (art. 27, comma 1, L. 4 maggio 1983, n. 184; ma v. anche il comma 2). adottivo Per l’ipotesi di adozione del maggiorenne (v. § 619) dispone l’art. 299 c.c. (ma v. ora Corte cost. 21 dicembre 2016, n. 286). A seguito del matrimonio, la moglie aggiunge al proprio co- ... della gnome quello del marito (art. 143-bis c.c.); e lo conserva anche moglie 138 L’attività giuridica [§ 64] durante la separazione personale (v. §§ 591 s.), salvo quanto disposto dall’art. 156-bis c.c. Con lo scioglimento del matrimonio (v. § 592) per morte del ... delle parti di un’unione marito, la moglie, durante la vedovanza, ne conserva il cognome, fino civile fra persone dello a che passi a nuove nozze (art. 143-bis c.c.). stesso sesso La donna divorziata perde invece il cognome maritale (art. 5, comma 2, L. 1o dicembre 1970, n. 898); ma può chiedere al giudice di essere autorizzata a conservarlo, in aggiunta al proprio, quando sussista un interesse suo (ad es., perché ormai nota nell’ambiente lavorativo o nelle relazioni sociali con il cognome del marito) o dei figli meritevole di tutela (art. 5, comma 3, L. n. 898/1970; v. Cass. 26 ottobre 2015, n. 21706). Le parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso — se non intendono mantenere i rispettivi cognomi — possono, mediante dichiarazione all’ufficiale dello stato civile, assumere, per la durata dell’unione, un cognome comune, scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso (art. 1, comma 10, L. 20 maggio 2016, n. 76; v. Corte cost. 22 novembre 2018, n. 212). Il nome è tendenzialmente immodificabile. Il mutamento di Mutamento del nome nome e/o cognome (ad es., perché ridicolo o vergognoso) ovvero l’aggiunta al proprio di altro nome e/o cognome (ad es., quello della famiglia materna, priva di discendenti maschi) possono essere concessi con decreto del Prefetto della provincia del luogo di residenza del richiedente, ovvero della provincia nella cui circoscrizione è situato l’ufficio dello stato civile ove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce (artt. 84 ss. D.P.R. n. 396/2000). In considerazione della sua funzione di identificazione sociale Violazioni del diritto: della persona, il nome viene tutelato contro: a) la contestazione (art. 7, comma 1, c.c.), che si ha allorquando contestazione un terzo compie atti volti a precludere od ostacolare al soggetto l’utilizzo del nome legalmente attribuitogli (ad es., il marito separato tenta di impedire alla moglie l’uso del cognome maritale, senza ricorrere al procedimento di cui all’art. 156-bis c.c.); b) l’usurpazione (art. 7, comma 1, c.c.), che si ha allorquando un ... usurpazione terzo, cui sia stato attribuito un nome diverso, utilizza il nome altrui per identificare la propria persona (ad es., per accreditarsi nella « buona società » o nel mondo degli affari, utilizza il cognome di una nobile e nota casata): peraltro, l’uso indebito dell’altrui cognome è vietato solo allorquando possa arrecare pregiudizio al suo legittimo titolare (ad es., perché concretamente idoneo a creare confusione sull’identità della persona; v. Cass. 16 luglio 2003, n. 11129); [§ 65] Il soggetto del rapporto giuridico 139 c) l’utilizzazione abusiva (art. 7, comma 1, c.c.), che si ha allor- ... quando un terzo utilizzi il nome altrui per identificare un personaggio utilizzazione abusiva di fantasia (ad es., il protagonista di un romanzo o di un film) o un prodotto commerciale (ad es., il nome della più nota e nobile famiglia del luogo viene impiegato per identificare un liquore di produzione locale), ovvero lo apponga in calce ad un appello o ad una « lettera aperta » di contenuto politico: anche in questo caso, l’utilizzo abusivo dell’altrui nome è vietato solo se idoneo ad arrecare pregiudizio al suo titolare (ad es., perché il personaggio del romanzo cui è attribuito il mio nome può suggerire, nella misura in cui svolge la mia stessa attività e vive nei miei stessi ambienti, un collegamento con la mia persona). La vittima di contestazione, usurpazione od utilizzo abusivo del Le tutele proprio nome — così come chiunque, pur non portando il nome contestato o indebitamente usato, abbia alla tutela del nome un interesse fondato su ragioni familiari degne di essere protette (art. 8 c.c.) — può chiedere la cessazione del fatto lesivo ed il risarcimento del danno, oltre che la pubblicazione su uno o più giornali della sentenza che accerta l’illecito (art. 7, comma 1 e 2, c.c.). Tutela analoga a quella prevista per il nome assiste lo pseudo- Lo nimo: ovvero il nome, diverso da quello attribuitogli per legge, con pseudonimo cui il soggetto è conosciuto in determinati ambienti (si pensi, ad es., al c.d. « nome d’arte »: Jovanotti, per identificare il sig. Lorenzo Cherubini; Checco Zalone, per identificare il sig. Luca Pasquale Medici). L’avente diritto può concedere a terzi, anche a titolo oneroso, il Atti del diritto di utilizzare il proprio nome (celebre) a fini commerciali (ad dispositivi nome es., per contraddistinguere un prodotto). § 65. Diritto all’integrità morale. L’art. 1 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea Onore, enuncia il principio secondo cui « la dignità umana è inviolabile. Essa decoro, reputazione deve essere rispettata e tutelata » (ma v. già l’art. 12 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; e l’art. 17 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici). La legge nazionale tutela — anche con sanzioni penali: art. 595 (« Diffamazione ») c.p. — l’interesse di ciascuno all’« onore » (per tale intendendosi il valore sociale di un determinato soggetto, dato dall’insieme delle sue doti morali), al « decoro » (per tale intendendosi il valore sociale di un determinato soggetto, dato dall’insieme delle sue 140 L’attività giuridica [§ 65] doti intellettuali, fisiche e delle altre qualità che concorrono a determinarne il pregio nell’ambiente in cui vive), alla « reputazione » (per tale intendendosi l’opinione che gli altri hanno dell’onore e del decoro di un determinato soggetto: cioè, la stima di cui lo stesso gode nel suo ambiente sociale; v. Cass. 21 giugno 2016, n. 12813). Esiste un onore ed un decoro minimo che compete ad ogni persona per il solo fatto di essere uomo. Al di sopra di detto minimo, onore e decoro vanno valutati in relazione alla personalità dell’interessato, stante la naturale relatività di detti concetti in riferimento a variabili quali l’ambiente sociale (così, ad es., tra commilitoni risultano tollerabili espressioni altrimenti difficilmente accettabili), il momento storico (ad es., oggi risultano di uso corrente espressioni che, in altri tempi, sarebbero suonate pesantemente offensive), le circostanze del caso concreto (ad es., dire che un magistrato « tifa per una delle parti » non è lesivo del suo onore se l’affermazione riguarda una partita di calcio, mentre lo diviene se riferita ad un giudizio sul quale è chiamato a decidere), ecc. Illegittima risulta qualsiasi espressione di mancato rispetto delViolazioni del diritto l’integrità morale della persona, manifestata (anche implicitamente: ad es., con allusioni) — attraverso parole, scritti, disegni, caricature, gesti, suoni, ecc. — direttamente all’interessato od anche solo a terzi (ad es., attraverso una denuncia presentata all’Autorità giudiziaria: Cass. 30 novembre 2018, n. 30988; un’intervista giornalistica: v. Cass. 17 giugno 2013, n. 15112; un’illegittima levata di protesto: v. Cass. 31 ottobre 2017, n. 25872; ma v. anche Cass. 28 marzo 2018, n. 7594; ecc.). L’illiceità dell’offesa non viene meno, se il fatto attribuito alla L’exceptio veritatis persona (ad es., bollare come « strozzino » chi effettivamente presti denaro ad usura) od il giudizio espresso sul suo conto (ad es., apostrofare come « cornuto » il marito tradito) rispondono a verità o sono di pubblico dominio: c.d. efficacia non scriminante dell’exceptio veritatis (art. 596, comma 1, c.p.; ma v. Cass. pen. 16 giugno 2016, n. 41414). In una società dell’informazione, il diritto all’onore, al decoro ed Diritti di cronaca e alla reputazione è inevitabilmente destinato a venire sempre più critica giornalistica spesso in conflitto con i diritti — costituzionalmente garantiti (art. 21 Cost.) — di cronaca e critica giornalistica (ad es., in relazione ad un’indagine per corruzione avviata dalla magistratura nei confronti del sindaco, quest’ultimo ha interesse a che la relativa notizia non venga divulgata, mentre la cittadinanza, suo corpo elettorale, ha l’interesse esattamente opposto). In tal caso, il diritto all’integrità morale del singolo cede di fronte al diritto all’informazione — e la [§ 66] Il soggetto del rapporto giuridico 141 notizia potrà, quindi, essere legittimamente pubblicata, quand’anche lesiva dell’altrui reputazione (v. Corte europea dei Diritti dell’Uomo, 24 settembre 2013, ric. n. 43610/10) — qualora concorrano tre distinti presupposti (v., da ultimo, Cass. 31 gennaio 2018, n. 2357): a) quello della verità della notizia (vi sia, cioè, esatta corrispondenza, almeno nel suo nucleo essenziale, tra i fatti accaduti ed i fatti narrati, senza omissioni che ne alterino il significato); b) quello dell’utilità sociale dell’informazione; c) quello della c.d. continenza espositiva (vengano, cioè, utilizzate modalità espressive dei fatti e/o della loro valutazione non eccedenti rispetto allo scopo informativo da conseguire ed improntate a leale chiarezza, senza ricorso a toni sproporzionatamente scandalizzati o sdegnati, insinuazioni, sottintesi od accostamenti suggestionanti, ecc.). Ovviamente, notizie lesive dell’altrui integrità morale possono Consenso essere pubblicate anche in assenza dei presupposti appena indicati, se dell’avente diritto vi è l’assenso dell’avente diritto. L’illegittima lesione dell’altrui diritto all’integrità morale ob- Le tutele bliga il suo autore al risarcimento del danno — anche non patrimoniale (v. Cass. 15 giugno 2018, n. 15742) — sofferto dalla persona offesa (artt. 2043 ss. c.c.; v. §§ 454 ss.). Il giudice, se ritiene che ciò possa contribuire a riparare il danno, può ordinare la pubblicazione della sentenza su uno o più giornali (art. 120 c.p.c.). Nel caso di diffamazione a mezzo stampa, la persona offesa può chiedere — oltre al risarcimento del danno — una somma a titolo di riparazione, da commisurarsi alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato (art. 12 L. 8 febbraio 1948, n. 47; v. Cass. 12 dicembre 2017, n. 29640; v. § 466). § 66. Diritto all’immagine. A tutela del riserbo della persona, il « diritto all’immagine » Contenuto importa il divieto, per i terzi, di esporre, pubblicare, mettere in del diritto commercio il ritratto altrui — per tale intendendosi qualsiasi rappresentazione delle sue sembianze — senza il consenso, anche solo implicito, dell’interessato (art. 10 c.c.; art. 96, comma 1, L. aut.). La giurisprudenza tende ad allargare l’ambito di applicabilità della tutela dell’immagine fino a ricomprendervi anche la c.d. « maschera scenica » (cioè, la rappresentazione della persona attraverso l’interpretazione di un attore), la figura del sosia (ad es., è vietato l’uso del sosia di un noto attore per pubblicizzare un prodotto 142 L’attività giuridica [§ 66] commerciale), la rappresentazione di oggetti notoriamente usati da un personaggio per caratterizzare la sua personalità (ad es., il copricapo a zucchetto di lana e gli occhialetti a binocolo usati da Lucio Dalla). Il consenso dell’effigiato vale — ovviamente — solo a favore di Consenso dell’effigiato colui cui è stato prestato, per i fini e con le modalità indicate dal consenziente, per il tempo da questi stabilito (così, ad es., è vietata la pubblicazione su una rivista per soli uomini di immagini di nudo di un’attrice, tratte dalle foto di scena di un suo film: v. Cass. 27 luglio 2015, n. 15769; Cass. 1 settembre 2008, n. 21995). La giurisprudenza ritiene che il consenso alla pubblicazione della propria immagine costituisca negozio unilaterale, avente ad oggetto non il diritto, personalissimo ed inalienabile, all’immagine, ma soltanto il suo esercizio; con la conseguenza che esso è revocabile in ogni tempo, anche se formalmente inserito in un contratto e concesso a fronte di un compenso, salvo, in quest’ultimo caso, il diritto dell’altra parte al risarcimento del danno (v. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748). È, in ogni caso, consentita la diffusione dell’altrui immagine — Non necessità del anche senza il consenso dell’interessato — quando la stessa è giusticonsenso ficata: a) dalla notorietà o dall’ufficio pubblico ricoperto dalla persona ritratta (si pensi, ad es., alla diffusione dell’immagine del Presidente della Repubblica mentre riceve un capo di Stato straniero); ovvero b) da necessità di giustizia o di polizia (si pensi, ad es., alla diffusione dell’immagine della persona scomparsa o ricercata); ovvero c) da scopi scientifici, didattici o culturali; ovvero d) dal collegamento a fatti, avvenimenti o cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico (art. 97, comma 1, L. aut.). In ogni caso, la pubblicazione dell’altrui immagine senza il consenso dell’interessato deve essere giustificata da esigenze di pubblica informazione, seppure intese in senso lato (v. Cass. 19 luglio 2018, n. 19311). Sicché le immagini della persona nota potranno essere divulgate solo se correlate alle ragioni della sua notorietà (ad es., è vietata, senza il suo consenso, la pubblicazione di fotografie di un noto uomo politico ritratto nell’intimità familiare) e mai a fini di sfruttamento economico (ad es., è vietato, senza il suo consenso, l’utilizzo dell’immagine di un noto attore, cantante, calciatore per pubblicizzare un prodotto commerciale; v. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748; Cass. 27 novembre 2015, n. 24221). Del pari, la diffusione dell’immagine di una persona in relazione a fatti svoltisi in pubblico è ammessa solo in presenza di circostanze che rivestano un apprez- [§ 67] Il soggetto del rapporto giuridico 143 zabile rilievo per la pubblica opinione (ad es., è vietata, senza il loro consenso, la pubblicazione della fotografia di due privati cittadini che escono in barca, seppure il fatto si sia svolto in pubblico; v. Cass. 11 maggio 2010, n. 11353). In ogni caso, la pubblicazione dell’altrui immagine senza il consenso dell’interessato è vietata, ove rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od al decoro della persona ritratta (art. 97, comma 2, L. aut.; v. Cass. 27 agosto 2015, n. 17211; Cass. 27 luglio 2015, n. 15763): divieto che, peraltro, cede di fronte al legittimo esercizio dei diritti — costituzionalmente garantiti (art. 21 Cost.) — di cronaca e critica giornalistica, a condizione che sussista uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica dell’essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza dell’informazione fornita (v. Cass. 9 luglio 2018, n. 18006). È pacificamente ammesso che il titolare possa consentire a terzi Atti l’uso della propria immagine non solo a titolo gratuito (si pensi, ad dispositivi es., al noto cantante che si presta altruisticamente come testimonial di una campagna per la prevenzione dell’AIDS), ma anche a titolo oneroso (si pensi, ad es., all’attore che presta la propria immagine per la realizzazione di un film o di uno spot pubblicitario). In ogni caso, i contratti aventi ad oggetto il diritto dell’utilizzazione dell’altrui immagine richiedono la forma scritta ad probationem (v. § 127) ai sensi dell’art. 110 L. aut. (v. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748). La lesione del diritto all’immagine obbliga il suo autore al Le tutele risarcimento del danno — patrimoniale (v. Cass. 23 gennaio 2019, n. 1875) e non patrimoniale (v. Cass. 11 maggio 2010, n. 11353) — sofferto dalla persona ritratta (artt. 2043 ss. c.c.). Il giudice può altresì disporre qualsiasi provvedimento idoneo ad impedire la prosecuzione od il ripetersi dell’illecito (art. 10 c.c.). La tutela apprestata (dall’art. 10 c.c. e dagli artt. 96 e 97 L. Diritto aut.) per l’immagine riguarda solo l’esposizione e la pubblicazione all’immagine e diritto alla dell’altrui ritratto, non anche l’atto in sé del ritrarre — con la riservatezza fotografia, il disegno, la pittura, ecc. — le sembianze di una persona. In quest’ultimo caso viene in gioco il diritto alla riservatezza (v. § 67), non quello all’immagine (v. Cass. 22 luglio 2014, n. 16647). § 67. Dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali. Pur in assenza di un’espressa previsione normativa, la giuri- Il diritto alla sprudenza — intravedendo nelle previsioni dettate dagli artt. 13, 14 riservatezza 144 L’attività giuridica [§ 67] e 15 Cost., nonché dagli artt. 10 c.c., 96 e 97 L. aut. (v. § 66), 615-bis c.p. (che sanziona il comportamento di « chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentisi nei luoghi » di privata dimora o nelle appartenenze di essi), ecc., altrettante espressioni particolari di un più generale diritto alla tutela dell’intimità della sfera privata — aveva ritenuto che, tra i « diritti inviolabili dell’uomo » riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., fosse da annoverare anche il c.d. « diritto alla riservatezza »; da intendersi quale potere dell’interessato di vietare comportamenti di terzi volti a conoscere od a far conoscere situazioni o vicende della propria vita personale o familiare, anche se svoltesi al di fuori del recinto domestico, che non avessero un interesse socialmente apprezzabile. L’intromissione nell’altrui sfera privata, senza il consenso dell’interessato, avrebbe perciò dovuto ritenersi legittima solo in presenza di un interesse pubblico attuale che la giustifichi (non diversamente da quanto accade per la possibilità di divulgare l’altrui immagine in assenza del consenso del ritrattato: art. 97 L. aut.). Peraltro, già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 12), il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (art. 17) e la CEDU (art. 8) avevano espressamente ricondotto quello all’intimità tra i diritti fondamentali della persona. La Ora, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea protezione enuncia testualmente — all’art. 8 — il principio per cui « ogni dei dati personali: la persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che tutela a la riguardano » (v. anche art. 16, par. 1, TFUE), con il corollario che livello sovranazionale « tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica ». La materia è oggi disciplinata dal Reg. (CE) 27 aprile 2016, n. GDPR e codice 2016/679/UE (c.d. « GDPR », acronimo di General Data Protection privacy Regulation), e dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. « codice privacy »). La relativa regolamentazione — ampiamente articolata, minuziosamente dettagliata, esasperatamente complessa (il solo GDPR consta di ben 99 articoli!) — è dichiaratamente volta a far sì che il « trattamento » dei « dati personali » abbia a svolgersi « nel rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona » interessata (art. 1 cod. privacy; v. anche art. 1, par. 2, GDPR). [§ 67] Il soggetto del rapporto giuridico 145 Per « dato personale » si intende qualsiasi informazione — non Le nozioni di dato solo quelle relative alla vita privata, ma anche quelle relative all’at- «personale » tività professionale, economica, ecc. — che riguardi una persona fisica identificata o identificabile, direttamente o indirettamente (art. 4, par. 1 n. 1, GDPR). Per « interessato » si intende la persona fisica, cui i dati personali ... di si riferiscono (art. 4, par. 1 n. 1, GDPR). La normativa in esame non « interessato » trova, quindi, applicazione ai dati relativi ad enti, non importa se pubblici o privati, se dotati o meno di personalità giuridica, ecc. Per « trattamento » si intende qualsiasi operazione o insieme di ... di « trattaoperazioni — non importa se compiute o meno con l’ausilio di mento » processi automatizzati — concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione ad uno o più soggetti determinati, la diffusione a favore di soggetti indeterminati o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione di dati personali (art. 4, par. 1 n. 2, GDPR). Peraltro, la normativa in discussione non si applica ai trattamenti effettuati da persone fisiche per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale e domestico (si pensi, ad es., alla tenuta di un’agendina telefonica) (art. 2, par. 2 lett. c, GDPR). In questa sede non ci si può che limitare ad un’esposizione sintetica e selettiva dei principi informatori della disciplina comunitaria e nazionale in tema, tralasciando le infinite eccezioni, varianti, puntualizzazioni in essa contemplate. Regole In via generale, è previsto che: a) l’interessato (non importa se i dati che lo riguardano siano generali: raccolti presso di lui o presso terzi) venga previamente informato — l’informativa in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, all’interessato con un linguaggio semplice e chiaro, preferibilmente per iscritto — circa (tra l’altro) le finalità del trattamento cui i dati sono destinati (artt. 12, par. 1, 13 e 14 GDPR): c.d. « informativa all’interessato »; b) il trattamento dei dati personali avvenga solo se vi è il ... il consenso consenso espresso dell’interessato, che si ritiene validamente prestato al trattamento solo se: i) a quest’ultimo sia stata previamente resa l’informativa cui dei dati si è appena fatto cenno; ii) sia manifestato liberamente, inequivocabilmente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, anche nelle finalità (artt. 4, par. 1 n. 11, 6, par. 1 lett. a, e 7 GDPR): c.d. « consenso al trattamento dati »; 146 L’attività giuridica [§ 67] c) l’interessato abbia diritto di ottenere da chiunque conferma se lo stesso abbia o meno in corso un trattamento di dati personali che lo riguardano e, in caso affermativo, di aver accesso e copia di detti dati, con indicazione delle finalità del trattamento, delle categorie di dati personali oggetto di trattamento, dei destinatari cui i dati personali sono stati o saranno comunicati, la fonte da cui gli stessi sono stati raccolti, ecc. (art. 15 GDPR): c.d. « diritto di accesso »; ... il diritto d) l’interessato abbia diritto di ottenere, senza ingiustificato di rettifica ritardo, la rettifica dei dati personali inesatti che lo riguardano, così come l’integrazione dei dati personali incompleti, anche fornendo una dichiarazione integrativa (art. 16 GDPR): c.d. « diritto di rettifica »; ... il diritto e) l’interessato abbia diritto di ottenere, senza ingiustificato all’oblio ritardo, la cancellazione dei dati personali che lo riguardano, (tra l’altro) quando non più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati, ovvero quando il consenso che legittima il trattamento venga revocato, sempre che non sussista altro fondamento giuridico per lo stesso, ecc. (art. 17 GDPR): c.d. « diritto all’oblio »; ... le f) i dati personali debbano essere: (i) trattati in modo lecito, modalità del corretto e trasparente (cc.dd. « liceità, correttezza e trasparenza »); (ii) trattamento raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo non incompatibile con tali finalità (c.d. « limitazione della finalità »); (iii) adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati (c.d. « minimizzazione dei dati »); (iv) esatti e, se necessario, aggiornati (c.d. « esattezza »); (v) conservati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati (c.d. « limitazione della conservazione »); (vi) trattati in maniera da garantire un’adeguata sicurezza dei dati personali, compresa la protezione, mediante misure tecniche e organizzative adeguate, da trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentali (c.d. « integrità e riservatezza ») (art. 5 GDPR). Per una miglior definizione dei limiti di liceità del trattamento dei dati personali nei singoli settori, dev’essere incoraggiata l’elaborazione di appositi « codici di condotta » (artt. 40 ss. GDPR; art. 2-quater cod. privacy): il rispetto delle disposizioni in essi contenute costituisce condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali (art. 2-quater, comma 4, cod. privacy); g) particolari cautele circondino il trattamento di categorie ... i c.d. « dati sensibili » particolari di dati personali; in particolare: (i) quelli che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni reli... il diritto di accesso [§ 67] Il soggetto del rapporto giuridico 147 giose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale; (ii) dei dati genetici (per tali intendendosi quelli relativi alle caratteristiche genetiche ereditarie o acquisite di una persona fisica che forniscono informazioni univoche sulla fisiologia o sulla salute di detta persona fisica, e che risultano in particolare dall’analisi di un campione biologico della persona fisica in questione); (iii) dei dati biometrici (per tali intendendosi quelli ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica, che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici); (iv) dei dati relativi alla salute (per tali intendendosi quelli attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute) o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona (art. 9 GDPR; artt. 2-sexies e 2-septies cod. privacy); (v) dei dati personali relativi alle condanne penali e ai reati o a connesse misure di sicurezza (art. 10 GDPR; art. 2-octies cod. privacy); h) siano messe in atto — tenendo conto dello stato dell’arte e ... la sicurezza dei costi di attuazione, nonché della natura, dell’oggetto, del contesto dei dati e delle finalità del trattamento, come anche del rischio di varia probabilità e gravità per i diritti e le libertà delle persone fisiche — misure tecniche ed organizzative adeguate per garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio (art. 32 GDPR): c.d. « diritto alla sicurezza dei dati personali ». Disposizioni particolari vengono poi dettate in relazione a trat- Regimi tamenti effettuati in settori specifici (ad es., in ambito sanitario: artt. particolari 75 ss. cod. privacy; nell’ambito del rapporto di lavoro: artt. 111 ss. cod. privacy; in ambito giornalistico: artt. 136 ss. cod. privacy; ecc.), ovvero per determinate finalità (ad es., a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici: artt. 97 ss. cod. privacy), ovvero ancora facendo ricorso a strumenti elettronici (ad es., trattamenti connessi alla fornitura di servizi di comunicazione elettronica: artt. 121 ss. cod. privacy); ecc. Con ampi poteri di controllo, regolamentazione, denuncia e L’Autorità sanzione in ordine al trattamento dei dati personali, è istituita garante un’apposita « Autorità Garante per la protezione dei dati personali », (artt. 51 ss. GDPR e artt. 153 ss. cod. privacy). Chi si ritenga vittima di un illecito trattamento dei propri dati Le tutele personali può, per ottenere tutela, rivolgersi — in via alternativa (art. 140-bis cod. privacy) — o al Garante (artt. 77 ss. DGPR; artt. 141 ss. cod. privacy) o all’Autorità giudiziaria ordinaria (art. 152 cod. L’attività giuridica 148 [§ 68] privacy). A quest’ultima può altresì richiedere la condanna dell’autore dell’illecito al risarcimento del danno, anche non patrimoniale (art. 82 GDPR). Il rispetto delle regole relative al trattamento dei dati personali è, inoltre, presidiato da sanzioni penali (artt. 167 ss. cod. privacy) e da sanzioni amministrative pecuniarie, che possono raggiungere anche livelli molto elevati (art. 83 GDPR; art. 166 cod. privacy). § 68. Diritto all’identità personale. La giurisprudenza annovera tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost. anche il « diritto all’identità personale » (v. Cass. 9 luglio 2018, n. 18006; Cass., sez. un., 25 gennaio 2017, n. 1946): il diritto, cioè, di ciascuno a vedersi rappresentato con i propri reali caratteri, senza travisamenti della propria storia, delle proprie idee, della propria condotta, del proprio stile di vita, del proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale, ecc. (ad es., illegittimo è attribuire ad un soggetto orientamenti politici diversi da quelli effettivamente condivisi). Identità Il diritto all’identità personale si distingue dal diritto alla riserpersonale e vatezza: quest’ultimo è il diritto a non vedere rappresentati alriservatezza: differenze l’esterno profili della propria personalità e della propria vita privata; quello all’identità personale è il diritto a che i profili della propria personalità e della propria vita — nella misura in cui possono essere legittimamente rappresentati all’esterno — lo siano nel rispetto del principio della verità, evitando false prospettazioni. Identità Il diritto all’identità personale si distingue, altresì, dal diritto personale ed all’integrità morale: quest’ultimo è il diritto a non vedersi attribuiti integrità morale: fatti ed a non essere oggetto di valutazioni suscettibili di creare differenze attorno alla persona un giudizio di disvalore; quello all’identità personale è il diritto a che i profili della propria personalità — anche non lesivi dell’onore, della reputazione, del decoro — vengano divulgati solo nel rispetto del principio di verità. L’esigenza di tutela dell’identità personale non viene meno, perciò, neppure nell’ipotesi in cui il travisamento dell’altrui personalità risulti per così dire « migliorativo », conferendo all’individuo — contrariamente al vero — tratti e caratteri generalmente considerati espressione di valori positivi. Fonti e contenuto [§ 69] Il soggetto del rapporto giuridico 149 C) GLI ENTI § 69. Gli enti: soggettività giuridica e personalità giuridica. Come già si è detto, nel nostro ordinamento « soggetti » di diritto Gli enti (cioè, titolari di situazioni giuridiche soggettive) sono — oltre che le « persone fisiche » — anche gli « enti ». Ciò significa che un bene (ad es., un appartamento) può far capo direttamente all’ente in quanto tale (v., ad es., gli artt. 822 ss. c.c., secondo cui i beni possono appartenere allo Stato, alle province, ai comuni); che la responsabilità per un atto illecito (ad es., per il ferimento di un passante travolto sulle strisce pedonali) può far capo direttamente all’ente in quanto tale (v., ad es., l’art. 28 Cost., secondo cui la responsabilità civile dei propri funzionari e dipendenti si estende allo Stato: sicché, se un’auto dei carabinieri investe un pedone sulle strisce pedonali, dei relativi danni sarà chiamato a rispondere lo Stato); che un contratto può intercorrere direttamente con l’ente in quanto tale (v., ad es., i contratti bancari, che vedono come parte una banca; o i contratti di assicurazione, che vedono come parte una compagnia di assicurazione); ecc. È dunque dotata di soggettività giuridica quell’organizzazione Soggettività cui l’ordinamento attribuisce la capacità — c.d. capacità giuridica — giuridica di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive (ad es., la proprietà, il credito, il debito, la responsabilità patrimoniale, ecc.) di contenuto sostanzialmente analogo rispetto a quello delle situazioni giuridiche accessibili alla persona fisica. È ben vero che in rerum natura gli interessi sostanziali non possono far capo che agli uomini, alle persone fisiche (così, ad es., quando si dice che è stata offesa la reputazione di un’associazione, si vuol in realtà dire che è stata lesa la reputazione dei suoi membri in quanto tali, e non come singoli). Non è men vero tuttavia che la legge talora tutela detti interessi come se gli stessi facessero capo non già agli individui uti singuli, ma al gruppo (così, per restare al nostro esempio, quando viene offesa la reputazione dei membri di un’associazione in quanto tali, la reazione giudiziaria è consentita non già al singolo, bensì al gruppo cui, appunto, l’ordinamento attribuisce soggettività giuridica). Peraltro, l’attribuzione agli enti di detta soggettività finisce con il farli divenire delle entità che operano nel contesto sociale con un’identità ed un ruolo distinti da quelli dei loro componenti (si pensi, ad es., allo Stato, ai comuni, ai partiti, ai sindacati, alle grandi società per azioni, ecc.): al punto che l’interesse dei singoli non 150 L’attività giuridica [§ 69] sempre coincide con quello del gruppo (così, ad es., mentre il socio investitore ha interesse ad un’immediata distribuzione di alti dividendi, la società ha interesse ad autofinanziarsi mediante la non distribuzione degli utili conseguiti). Non deve confondersi con quella di « ente giuridico » — di ente, Personalità giuridica cioè, dotato di soggettività giuridica — la nozione di « persona giuridica ». Così come non deve confondersi con quella di « soggettività giuridica » la nozione di « personalità giuridica ». Le nozioni di « persona » e di « personalità giuridica » sono, infatti, più ristrette rispetto a quelle, rispettivamente, di « ente giuridico » e di « soggettività giuridica ». Si dicono, infatti, dotati di personalità giuridica solo quegli enti che godono di autonomia patrimoniale perfetta: quegli enti, cioè, che — non solo hanno, come tutti, un loro patrimonio — ma, al pari della persona fisica, rispondono delle loro obbligazioni solo con detto patrimonio (si pensi, ad es., alle società di capitali in contrapposizione alle società di persone: v. §§ 512 ss. e 518 ss.; alle associazioni riconosciute in contrapposizione alle associazioni non riconosciute: v. §§ 73 e 74). Gli enti, ovviamente, non possono agire — ad es., decidere se Gli organi acquistare o meno un determinato bene; una volta deciso l’acquisto, stipulare il relativo contratto; ecc. — che attraverso persone fisiche, che fanno parte della loro struttura organizzativa: dette persone — che, proprio per questo, si dicono « organi » dell’ente — esercitano, in buona sostanza, la stessa funzione che il cervello, la bocca, ecc., esercitano nella formazione e nella manifestazione del pensiero dell’uomo singolo. Seppure i loro interessi vengano, in concreto, gestiti da altri Capacità d’agire degli soggetti — non diversamente da quel che abbiamo visto accadere per enti le persone fisiche incapaci (ad es., per il minore, i cui interessi sono gestiti dai genitori o dal tutore) — si ritiene che gli enti non siano privi di capacità d’agire. Invero — così come l’organo intellettivo e volitivo, o l’organo fonetico non si distinguono dall’uomo, ma sono parte di lui — del pari gli organi dell’ente sono parte di esso. In quest’ottica, deve escludersi che gli enti siano incapaci d’agire; anzi, essi non incontrano neppure quelle limitazioni alla capacità d’agire che, con riferimento alla persona fisica, dipendono — come abbiamo visto — dall’età ovvero da infermità psichiche: fenomeni, ovviamente, inconcepibili con riferimento agli enti. Organi Gli organi dell’ente si distinguono in esterni ed interni, a seconda esterni ed che abbiano o meno il potere di rappresentanza dell’ente: il potere, organi interni cioè, di assumere impegni con terzi (ad es., contrarre un mutuo, assumere un dipendente; ecc.) in nome e per conto dell’ente stesso. [§ 70] Il soggetto del rapporto giuridico 151 Al riguardo, occorre aver ben chiara la distinzione tra poteri di Gestione e gestione (interna) e poteri di rappresentanza (esterna): il potere di ge- rappresentanza stione è il potere di decidere una determinata operazione (ad es., se acquistare o meno un macchinario); il potere di rappresentanza è il potere di porre in essere, in nome e per conto dell’ente, l’operazione decisa (ad es., stipulare con il venditore il contratto di acquisto del macchinario). Non sempre detti poteri sono attribuiti al medesimo organo: così, ad es., nella società per azioni il potere di gestione compete in via esclusiva, di regola, al consiglio di amministrazione, mentre il potere di rappresentanza compete a quei soli amministratori (ad es., il presidente e/o l’amministratore delegato) cui tale potere sia espressamente conferito (artt. 2380-bis e 2384 c.c.; v. § 530). § 70. Classificazione degli enti. All’interno della categoria degli enti, occorre innanzitutto distinguere tra « enti pubblici » — o, come si esprime la rubrica dell’art. 11 c.c., « persone giuridiche pubbliche » — ed « enti privati ». Tra i primi rientrano non solo lo Stato e gli altri enti territoriali Enti pubblici (regioni, città metropolitane, province e comuni) (art. 114, comma 1 e 2, Cost.), ma anche tutta una serie di altri enti — ad es., Comunità montane, aziende sanitarie locali (ASL), Banca d’Italia, INPS, INAIL, ACI, ISTAT, CONI, Camere di commercio, industria, agricoltura ed artigianato (C.C.I.A.A.), Agenzia delle Entrate, Agenzia del demanio, Ordini e Collegi professionali, Università statali, ecc. — con finalità varie e strutture differenti. Dopo un lungo periodo in cui si è assistito alla moltiplicazione Il fenomeno privadegli enti pubblici, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso la delle tizzazioni tendenza si è invertita: fenomeno delle c.d. « privatizzazioni ». Molti enti pubblici sono stati trasformati in società per azioni (si pensi, ad es., a Ferrovie dello Stato Italiane s.p.a., il cui socio unico è il Ministero dell’Economia e delle Finanze; ad ANAS s.p.a., il cui socio unico è Ferrovie dello Stato Italiane s.p.a.), talora in previsione della collocazione delle relative partecipazioni azionarie presso il pubblico dei risparmiatori (si pensi, ad es., ad ENI s.p.a., ad ENEL s.p.a., a Poste Italiane s.p.a., che — oggi — sono società quotate in borsa). Da sempre discussi sono i criteri in forza dei quali distinguere un Enti pubblici ed enti ente pubblico da un ente privato. privati: criteri Al riguardo, la giurisprudenza aveva elaborato tutta una serie distintivi di « indici di riconoscibilità » della natura pubblica di un ente: istituzione per legge; istituzione da parte dello Stato o di altro ente 152 L’attività giuridica [§ 70] pubblico; esistenza di un potere di indirizzo in capo allo Stato o ad altro ente pubblico; assoggettamento al controllo o all’ingerenza (ad es., per quel che riguarda la nomina o la revoca degli organi di vertice) da parte dello Stato o di altro ente pubblico; attribuzione di poteri autoritativi; partecipazione dello Stato e di altro ente pubblico alle spese di gestione; fruizione di agevolazioni o privilegi tipici della P.A.; ecc. (v. Cons. Stato 28 giugno 2012, n. 3820). In realtà, anche l’applicazione di detti indici non sempre porta a risultati pienamente soddisfacenti, specie oggi, di fronte alla tendenza ad attribuire compiti di natura pubblicistica a soggetti aventi formalmente natura privatistica (v. Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283; Cons. Stato 24 maggio 2013, n. 2829, che si è pronunciato per la natura pubblica di ANAS s.p.a.). Ciò induce la più recente giurisprudenza — anche in ragione dell’influenza del diritto comunitario — a ritenere che « la nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non possa ritenersi fissa ed immutevole. Non può ritenersi, in altri termini, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione. Al contrario, l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico. Si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica » (così, testualmente, Cons. Stato 26 maggio 2015, n. 2660; e, da ultimo, Cons. Stato 11 luglio 2016, n. 3043; Cons. Stato 1 giugno 2016, n. 2326). Il diritto Gli enti pubblici — se, almeno di regola, possono operare privato degli attraverso l’esercizio di poteri pubblicistici (ad es., il comune può, enti pubblici anche contro la volontà del suo attuale proprietario, autoritativamente espropriare un’area da destinare alla realizzazione di una piscina pubblica: v. § 133) — possono tuttavia avvalersi, come qualsiasi cittadino, di strumenti privatistici (ad es., il comune, al fine di acquisire la proprietà dell’area per la realizzazione della piscina, può stipulare un contratto di compravendita con il suo attuale proprietario). Invero, le norme di diritto privato trovano applicazione anche nei confronti degli enti pubblici, salvo che non sia diversamente previsto (così, ad es., ai contratti di appalto stipulati dalla P.A. si applicano le norme di cui agli artt. 1655 ss. c.c., ove non derogate dalle norme speciali in tema di pubblici appalti), ovvero vi sia [§ 70] Il soggetto del rapporto giuridico 153 incompatibilità con la natura peculiare del soggetto pubblico (così, ad es. — mentre per i contratti fra privati vale, di regola, il principio per cui non è richiesta alcuna forma particolare: v. § 105 — per i contratti di cui è parte una P.A. vale, di regola, l’opposto principio della necessità della forma scritta; e ciò, in ossequio alle prevalenti esigenze di certezza e pubblicità cui deve essere improntata l’azione amministrativa: v. Cass., sez. un., 22 marzo 2010, n. 6827; e, da ultimo, Cass. 30 gennaio 2018, n. 1549; ma v. ora Cass., Sez. un., 9 agosto 2018, n. 20684). Venendo ora agli enti privati, occorre innanzitutto rilevare che, Enti privati al loro interno, è opportuno distinguere tra: a) enti registrati (ad es., associazioni riconosciute, fondazioni, ... registrati e ecc. iscritte nel registro delle persone giuridiche tenuto presso cia- non scuna prefettura ex art. 3 D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; società iscritte nel registro delle imprese tenuto presso ciascuna camera di commercio ex art. 7 D.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581: v. § 484) ed enti non registrati (ad es., associazioni non riconosciute, società di fatto, società irregolari, ecc.): le vicende relative ai primi risultano, a differenza di quelle relative ai secondi, da un pubblico registro, accessibile a chiunque ne faccia richiesta; b) enti dotati di personalità giuridica (ad es., associazioni ricono- ... con e senza sciute, fondazioni, società di capitali, ecc.) ed enti privi di personalità personalità giuridica giuridica (ad es., associazioni non riconosciute, comitati non riconosciuti, società di persone, ecc.): i primi godono — come si è detto — di autonomia patrimoniale perfetta, che difetta invece ai secondi; c) enti a struttura associativa (ad es., associazioni, comitati, ... a struttura ed società non unipersonali, consorzi, ecc.) ed enti a struttura istituzio- associativa a struttura nale (ad es., fondazioni): i primi danno vita ad un’organizzazione istituzionale stabile di più soggetti per l’esercizio di un’attività volta al perseguimento di uno scopo comune (si pensi, ad es., ad un partito politico, i cui iscritti mirano ad affermare, attraverso un’azione congiunta, una determinata linea programmatica; ad una società, i cui soci mirano alla realizzazione, attraverso l’esercizio di un’attività economica in comune, di utili da distribuire al loro interno); i secondi danno vita ad un’organizzazione stabile per la gestione di un patrimonio, finalizzata al perseguimento di scopi altruistici (si pensi, ad es., alla fondazione istituita con il compito di amministrare un patrimonio, le cui rendite sono destinate a finanziare borse di studio per studenti di non agiate condizioni economiche); d) enti con finalità economiche, per tali intendendosi quelli ... con e senza aventi come scopo la ripartizione tra i partecipanti degli utili conse- finalità economiche guiti attraverso l’attività svolta dall’ente stesso (ad es., le società L’attività giuridica 154 [§ 71] lucrative: v. §§ 512 ss.), ovvero la fruizione di altri vantaggi economici connessi all’attività dell’ente (ad es., le società cooperative: v. § 556); ed enti senza finalità economiche, per tali intendendosi quelli in cui è statutariamente esclusa la ripartizione tra i partecipanti di utili o di altri vantaggi economici eventualmente conseguiti attraverso l’attività dell’ente (ad es., le associazioni e le fondazioni). Gli enti con finalità economiche sono dal nostro codice civile disciplinati nel libro quinto (artt. 13 e 2247 ss. c.c.), in quanto, di regola, svolgono attività d’impresa (art. 2082 c.c.: v. §§ 475 ss.). Gli enti senza finalità economiche sono, invece, dal nostro codice civile disciplinati nel libro primo (artt. 14 ss. c.c.). Seguendo l’impostazione codicistica, dei primi tratteremo allorquando affronteremo il tema dell’impresa (v. §§ 504 ss.); dei secondi parleremo subito. Enti senza Tra gli enti privati senza finalità economiche, la legge annovera finalità espressamente: economiche a) le associazioni, riconosciute (artt. 14 ss. c.c.) e non (artt. 36 ss. c.c.); b) le fondazioni (artt. 14 ss. c.c.); c) i comitati, riconosciuti e non (artt. 39 ss. c.c.); d) le altre istituzioni di carattere privato (art. 1, comma 1, D.P.R. n. 361/2000; v. anche art. 4, comma 1, D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117: c.d. « codice del Terzo settore »). L’art. 42-bis c.c. prevede ora espressamente che — al pari di quanto consentito alle società (v. §§ 552, 553 e 554) — anche le associazioni riconosciute e non riconosciute e le fondazioni possano « operare reciproche trasformazioni, fusioni e scissioni ». § 71. Il fenomeno associativo ... Il fenomeno associativo. La tradizione liberal-ottocentesca guardava con generalizzata diffidenza al fenomeno degli enti senza finalità economiche: da un lato, i c.d. « corpi intermedi » — con la loro tendenza a porsi come centri di aggregazione di interessi ideali, religiosi, politici, sindacali, ecc. — venivano considerati come un ostacolo a quel rapporto diretto tra cittadino e Stato che costituiva uno dei capisaldi della filosofia politica liberale; da altro lato, diffuso era il timore che l’accumulo di patrimoni, specie immobiliari, nelle mani di organizzazioni operanti secondo logiche diverse da quella tipicamente lucrativa potesse risolversi in un loro inefficiente utilizzo, con conseguenze negative sul piano del benessere collettivo e dello sviluppo economico. [§ 71] Il soggetto del rapporto giuridico 155 Il clima autoritario nel quale venne concepita la vigente codi- ... nel codice ficazione spiega il permanere di un disegno politico complessivo volto civile a contenere e controllare il fenomeno associativo. Per quest’ultimo, il codice veniva a predisporre due distinti modelli organizzativi: quello dell’« associazione riconosciuta » (artt. 14 ss. c.c.) e quello dell’« associazione non riconosciuta » (artt. 36 ss. c.c.). Il riconoscimento — sostanzialmente rimesso, nell’originaria impostazione codicistica, ad una valutazione discrezionale dell’autorità governativa — avrebbe fatto acquisire all’ente una posizione giuridica ben più favorevole rispetto a quella riservata agli organismi che detto riconoscimento non avessero richiesto od ottenuto. Invero: a) alle associazioni non riconosciute erano preclusi sia gli acquisti mortis causa (art. 600 c.c., oggi abrogato), sia quelli a titolo di donazione (art. 786 c.c., oggi abrogato), sia — si riteneva — quelli immobiliari, quand’anche a titolo oneroso; acquisti accessibili, invece, alle associazioni riconosciute, seppure subordinatamente all’ottenimento di apposita autorizzazione governativa (art. 17 c.c., oggi abrogato); b) nelle associazioni non riconosciute, l’ordinamento interno ed i rapporti tra associazione ed associati venivano rimessi integralmente agli « accordi degli associati » (art. 36, comma 1, c.c.); mentre nelle associazioni riconosciute i medesimi profili venivano fatti oggetto di specifica regolamentazione normativa (artt. 18 ss. c.c.), in buona misura inderogabile, anche a tutela dell’associato all’interno del gruppo (v. art. 24 c.c.). L’obiettivo era quello di consentire all’autorità governativa di selezionare — tramite la concessione o il diniego del riconoscimento — gli enti collettivi volta a volta ritenuti meritevoli di tutela. Questi ultimi avrebbero potuto sì assumere dimensioni di una certa rilevanza sia economica che sociale, ma — in compenso — sarebbero stati assoggettati al controllo pubblico. Gli altri enti collettivi — si pensava — avrebbero avuto una posizione marginale: nella categoria degli enti non riconosciuti si ipotizzava sarebbero confluite quelle realtà talmente modeste da non necessitare di particolari controlli da parte del regime. Scenario del tutto diverso è quello delineato dalla Costituzione ... nella Costituzione repubblicana del 1948. repubblicana Innanzitutto, l’art. 18, comma 1, Cost. proclama solennemente che « I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione ». Principio ribadito dall’art. 19 Cost., con riferimento alle associazioni religiose; dall’art. 39, comma 1, Cost., con riferimento alle associazioni sindacali; dall’art. 49 Cost., con riferimento ai partiti. 156 L’attività giuridica [§ 71] In secondo luogo — nel tracciare il disegno di una società pluralista — la Carta costituzionale individua proprio negli enti associativi lo strumento privilegiato per la partecipazione dei cittadini alla vita politica (art. 49 Cost.) e sindacale (art. 39 Cost.), per la professione del proprio credo religioso (art. 19 Cost.), per la realizzazione delle rispettive inclinazioni e la crescita della personalità di ciascuno (art. 2 Cost.). In terzo luogo — senza distinguere tra associazioni riconosciute e non riconosciute — la Costituzione affida alla Repubblica l’impegno di riconoscere e garantire « i diritti inviolabili dell’uomo », anche all’interno delle « formazioni sociali » (art. 2 Cost.): per tali intendendosi tutte quelle organizzazioni collettive (ad es., anche la famiglia) cui l’individuo può trovarsi ad appartenere; e, tra queste, anche le associazioni. Evidente è, rispetto all’impostazione codicistica, il ribaltamento di prospettiva: le organizzazioni collettive vengono viste non più come fenomeni da controllare o emarginare, bensì come realtà non solo da tutelare, ma anche da promuovere, costituendo esse strumento di sviluppo della personalità dei singoli e di partecipazione degli stessi alla vita politica e sociale del Paese. Tale ribaltamento di prospettiva non è stato — come vedremo tra poco — senza conseguenze anche sul piano della stessa interpretazione e applicazione della disciplina dal codice dettata in tema di associazione non riconosciuta. Dal canto suo, la realtà sociale si è incaricata di smentire Fenomeno associativo e clamorosamente le aspettative del legislatore del 1942. realtà sociale Invero, tra le due forme giuridiche — quella dell’« associazione riconosciuta » e quella dell’« associazione non riconosciuta » — apprestate per il fenomeno associativo, quest’ultimo ha decisamente optato per la seconda: veste di associazione non riconosciuta hanno, infatti, assunto non solo organizzazioni marginali o destinate ad operare in ambito locale (ad es., circoli ricreativi, centri sportivi, ecc.), ma anche le maggiori organizzazioni collettive del Paese (ad es., partiti, sindacati, organizzazioni di categoria, ecc.), destinate a giocare un ruolo centrale nella vita pubblica. Determinante, in questa scelta, è stata — almeno all’origine — la volontà di evitare il rischio di intrusioni, da parte dello Stato, nella vita interna dell’ente: a tal fine, ci si è avvalsi proprio della previsione codicistica che, con riferimento alle associazioni non riconosciute, rimette integralmente all’autonomia degli associati la regolamentazione dell’organizzazione interna e dei rapporti c.d. endoassociativi (art. 36, comma 1, c.c.). [§ 72] Il soggetto del rapporto giuridico 157 Emblematica, al riguardo, è la vicenda dei sindacati, che — pur di sottrarsi a quel controllo in punto di « democraticità » del proprio ordinamento interno, previsto dall’art. 39, comma 3, Cost. — hanno rinunciato alla « registrazione » e, con essa, alla possibilità di stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce, secondo il meccanismo contemplato dallo stesso art. 39 Cost. § 72. Associazione e società. L’associazione — come già anticipato — è un’organizzazione L’associazione ente collettiva che ha come scopo il perseguimento di finalità non econo- quale non profit miche: essa costituisce, quindi, tipico ente c.d. « non profit ». Proprio in ciò, l’associazione si distingue dalla società (v. §§ 504 Associazione ss.). Quest’ultima — pur essendo, al pari dell’associazione, una e società organizzazione collettiva con comunione di scopo (in cui, cioè, i membri mirano alla realizzazione di uno scopo comune) — è infatti caratterizzata o da uno scopo lucrativo, cioè dallo scopo di dividere tra i partecipanti gli utili conseguiti attraverso l’esercizio in comune di un’attività economica (c.d. società lucrativa: art. 2247 c.c.; v. § 509); ovvero da uno scopo mutualistico, cioè dallo scopo di attribuire ai partecipanti vantaggi pur sempre di natura economica (c.d. società cooperativa: art. 2511 c.c.; v. § 556). Nell’associazione, invece, sono precluse sia la ripartizione tra gli Esclusione, associati degli utili eventualmente realizzati attraverso l’esercizio nelle associazioni, dell’attività dell’ente, sia l’attribuzione agli stessi di vantaggi atti a del lucro soddisfare un loro interesse di natura economica: esclusione del c.d. soggettivo « lucro soggettivo » (v. Cass. 8 marzo 2013, n. 5836). Non è tuttavia escluso che gli associati possano trarre, seppure solo indirettamente, vantaggi economici dall’agire dell’associazione (si pensi, ad es., ai lavoratori che beneficiano delle conquiste salariali del sindacato, ma non in quanto iscritti, bensì in forza dei contratti individuali di lavoro da ciascuno stipulati con il proprio datore); così come non è escluso che gli associati possano fruire, tramite l’associazione, di servizi suscettibili di valutazione economica (si pensi, ad es., agli iscritti al circolo del tennis, ammessi a fruire dei campi di gioco, della club house, degli insegnamenti dei maestri, ecc.), sempre che detti servizi risultino funzionali al soddisfacimento di un loro interesse ideale (nel nostro esempio, l’interesse all’esercizio di un’attività sportiva ed all’utilizzo del tempo libero). 158 L’attività giuridica [§ 72] Da segnalare che il D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 112 — nel disciplinare ex novo la c.d. « impresa sociale » (v. §§ 78 e 482), per tale intendendosi quella che « esercita in via stabile e principale una o più attività d’impresa di interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale » (art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 112/2017) nell’ambito di settori specifici indicati dallo stesso legislatore (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 112/2017; ma v. anche il successivo comma 2) — consente che la stessa possa essere gestita « senza scopo di lucro », quand’anche esercitata « nelle forme di cui al libro V del codice civile »: cioè, in forma di società lucrativa o mutualistica (v. § 509). Con la conseguenza che tali ultime società sono ammesse — al pari degli enti di cui al libro I del codice civile — a gestire attività d’impresa « senza scopo di lucro » soggettivo. Da ultimo — inserendo un ulteriore tassello al più ampio Società benefit mosaico di interventi normativi volti a favorire e promuovere la c.d. « responsabilità sociale dell’impresa » (v., ad es., art. 25, comma 4, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, in tema di « start-up a vocazione sociale »; L. 18 maggio 2015, n. 141, in tema di « agricoltura sociale ») — la L. 28 dicembre 2015, n. 208, ha dischiuso alle società disciplinate nel libro V del codice civile la possibilità di perseguire, oltre allo scopo (lucrativo o mutualistico) loro proprio, anche « finalità di beneficio comune », operando « in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti delle persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse » (per tali intendendosi, ad es., lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile) (art. 1, comma 376 e 378 lett b, L. n. 208/2015): c.d. « società benefit » (SB), che — come è facile intendere — vengono così a collocarsi in un’area intermedia fra quella del profit e quella del non profit. Un’ultima osservazione: non deve confondersi lo scopo perseScopo ed attività guito dall’ente con l’attività dallo stesso svolta per realizzarlo. Per quanto riguarda le associazioni, è ormai pacificamente Associazione ed attività acquisito che le stesse, al pari delle società, possono svolgere attività d’impresa economica di produzione o scambio di beni o di servizi: cioè, attività di impresa (art. 2082 c.c.; v. § 476). E possono svolgerla non solo in via secondaria, al fine di procurarsi entrate da destinare al perseguimento del loro scopo ideale (si pensi, ad es., all’associazione sportiva che, per finanziare la propria attività, commercializzi gadgets legati ai colori della propria squadra); ma anche in via principale o, addirittura, esclusiva (si pensi, ad es., all’associazione concertistica che, al fine di diffondere la cultura musicale, organizzi spettacoli, a pagamento, aperti al pubblico). Essenziale è solo che sia statutariamente escluso L’impresa sociale [§ 73] Il soggetto del rapporto giuridico 159 il c.d. « lucro soggettivo »: cioè, che gli utili, eventualmente conseguiti tramite l’esercizio di dette attività, possano essere distribuiti tra gli associati (v. Cass. 8 marzo 2013, n. 5836; Cass. 24 marzo 2011, n. 6853). § 73. L’associazione riconosciuta. L’« associazione riconosciuta » prende vita in forza di un atto di Atto autonomia — un vero e proprio contratto, secondo l’opinione preva- costitutivo lente (v. Cass. 26 luglio 2007, n. 16600) — tra i fondatori (c.d. atto costitutivo), che deve rivestire la forma dell’atto pubblico (art. 14, comma 1, c.c.) (v. § 125), normalmente notarile. L’atto costitutivo — oltre alla manifestazione della volontà dei Statuto fondatori di dar vita all’associazione — deve contenere le seguenti indicazioni: denominazione dell’ente; scopo, patrimonio e sede; norme sull’ordinamento e sull’amministrazione; diritti ed obblighi degli associati; condizioni di ammissione all’associazione (art. 16, comma 1, c.c.). Tali previsioni possono essere contenute in un documento separato, rispetto all’atto costitutivo, detto « statuto ». Atto costitutivo e statuto devono essere presentati alla prefettura nella cui provincia è stabilita la sede dell’ente, unitamente alla richiesta di riconoscimento dell’associazione come persona giuridica (art. 1, comma 2, D.P.R. n. 361/2000). RiconosciAl fine del riconoscimento, la prefettura deve verificare: a) che siano state soddisfatte le condizioni previste da norme di mento legge o di regolamento per la costituzione dell’ente (ad es., che l’atto costitutivo sia redatto nella forma dell’atto pubblico; che rechi le indicazioni richieste dall’art. 16, comma 1, c.c.; ecc.); b) che lo scopo sia possibile e lecito (ad es., che l’attività, che l’associazione si prefigge di svolgere, non sia penalmente illecita); c) che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo (ciò, in quanto — come vedremo — per le obbligazioni dell’associazione riconosciuta risponde solo ed esclusivamente quest’ultima, con il proprio patrimonio, che conseguentemente non può essere irrisorio per non mettere a rischio i crediti dai terzi vantati nei confronti dell’associazione) (art. 1, comma 3, D.P.R. n. 361/2000). Nessun controllo è consentito alla prefettura in ordine alla meritevolezza dello scopo che l’associazione si prefigge, così come in ordine all’opportunità che venga costituita un’associazione per perseguirlo: al prefetto è, infatti, demandato un mero controllo di legittimità. 160 L’attività giuridica [§ 73] In ipotesi di esito positivo di tale controllo, il prefetto provvede all’iscrizione dell’associazione nel registro delle persone giuridiche tenuto presso la stessa prefettura (art. 1, comma 5, D.P.R. n. 361/ 2000): con l’iscrizione, l’associazione acquista la personalità giuridica (art. 1, comma 1, D.P.R. n. 361/2000). Per le associazioni che operano nelle materie di cui all’art. 17 D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (ad es., assistenza sanitaria ed ospedaliera, istruzione artigiana e professionale, assistenza scolastica, ecc.) e le cui finalità statutarie si esauriscono nell’ambito territoriale di una sola regione, la domanda di riconoscimento va presentata alla regione stessa e l’acquisto della personalità giuridica si determina con l’iscrizione dell’associazione nel registro delle persone giuridiche istituito presso la medesima regione (art. 7 D.P.R. n. 361/2000). Nel lasso di tempo fra la stipula dell’atto costitutivo e l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, l’associazione già esiste e può operare, ma come associazione non riconosciuta (con conseguente applicazione della relativa disciplina: v. § 74). Organi L’ordinamento interno dell’associazione riconosciuta deve prevedere almeno due organi: l’assemblea degli associati e gli amministratori. Altri organi (ad es., il collegio dei probiviri, il collegio di revisori, ecc.) possono essere contemplati dallo statuto. Assemblea L’assemblea ha competenza per le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto (art. 21, comma 2, c.c.), per l’approvazione del bilancio (artt. 20, comma 1, e 21, comma 1, c.c.), per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (artt. 21, comma 1, e 22 c.c.), per l’esclusione dell’associato per gravi motivi (art. 24, comma 3, c.c.), per lo scioglimento dell’associazione e la devoluzione del patrimonio (art. 21, comma 3, c.c.), nonché per tutte le materie che siano alla stessa demandate dallo statuto. Di regola, l’assemblea delibera a maggioranza dei voti, in prima convocazione, con la presenza di almeno la metà degli associati; in seconda convocazione, qualunque sia il numero degli intervenuti (art. 21, comma 1, c.c.). Maggioranze qualificate sono richieste per le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto, nonché per lo scioglimento dell’associazione (art. 21, comma 2 e 3, c.c.). AmministraGli amministratori hanno competenza per la gestione dell’attitori vità associativa e rappresentano l’associazione nei confronti dei terzi (così, ad es., se l’associazione necessita di un locale da destinare a sede associativa, sarà l’amministratore sia a decidere di prendere in locazione una determinata unità immobiliare da adibire allo scopo, sia a sottoscrivere il relativo contratto, a nome dell’associazione). Iscrizione [§ 73] Il soggetto del rapporto giuridico 161 L’associazione ha un suo patrimonio, costituito dai cespiti ori- Patrimonio ginariamente conferiti dai fondatori, dalle quote di ammissione e/o di iscrizione eventualmente versate dagli associati, dai proventi dell’attività svolta dall’associazione, da apporti di privati (ad es., di uno sponsor), da finanziamenti pubblici, da acquisti effettuati dall’associazione, ecc. A tale ultimo proposito, va segnalato che sono ormai venuti meno tutti i condizionamenti che tradizionalmente circondavano la possibilità, per le associazioni riconosciute, di effettuare acquisti immobiliari, ovvero acquisti a titolo gratuito o mortis causa (v. l’abrogato art. 17 c.c.): oggi, l’associazione riconosciuta può effettuare liberamente qualsiasi tipo di acquisto, senza necessità di autorizzazione alcuna. Gli associati non hanno alcun diritto sul patrimonio dell’associazione, che è distinto dal loro patrimonio personale. Tant’è che, allorquando cessa (per recesso, esclusione, morte, ecc.) di far parte dell’associazione, l’associato non può pretendere che gli venga attribuita una quota-parte del patrimonio associativo (art. 24, comma 4, c.c.). Da ciò discende — da un lato — che, per le obbligazioni del Responsabiper le singolo associato, non risponde l’associazione con il suo patrimonio lità obbligazioni (così, ad es., il padrone di casa dell’associato non potrà rivolgersi all’associazione per richiedere il versamento del canone di locazione dovutogli) e — da altro lato — che, per le obbligazioni dell’associazione, non risponde l’associato con il suo patrimonio (così, ad es., il dipendente dell’associazione non potrà rivolgersi all’associato per chiedere la corresponsione degli stipendi dovutigli): e ciò, quand’anche il patrimonio dell’associazione dovesse risultare insufficiente per far fronte alle obbligazioni associative. Delle obbligazioni dell’associazione riconosciuta risponde, infatti, solo ed esclusivamente quest’ultima con il suo patrimonio: c.d. autonomia patrimoniale perfetta. All’accordo associativo si può aderire o all’atto della costitu- Adesione di zione dell’associazione, oppure in un momento successivo. Si dice, nuovi associati perciò, che l’accordo associativo è aperto all’adesione di terzi (art. 1332 c.c.): c.d. struttura aperta dell’associazione. Peraltro, quand’anche possegga i requisiti statutariamente previsti per l’ammissione all’associazione, l’aspirante non ha diritto di entrarvi: l’accoglimento della sua domanda è, in ogni caso, subordinato alla valutazione degli organi statutariamente competenti. Di contro, una volta entrato a far parte della compagine asso- Esclusione ciativa, l’associato ha diritto di rimanervi: non può esserne escluso, se dell’associato non per gravi motivi (ad es., inosservanza degli obblighi imposti dallo 162 L’attività giuridica [§ 73] statuto, mancato pagamento dei contributi associativi, perdita dei requisiti richiesti per l’ammissione all’associazione, ecc.) ed in forza di una delibera motivata dell’assemblea (art. 24, comma 2, c.c.). Avverso detta delibera, l’associato espulso può ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui la stessa gli è stata notificata (art. 24, comma 3, c.c.; v. Cass. 29 luglio 2016, n. 15784; Cass. 10 aprile 2014, n. 8456). L’autorità giudiziaria dovrà procedere all’annullamento del provvedimento impugnato, qualora non fossero state rispettate le regole procedurali per la sua adozione (ad es., il provvedimento è stato adottato da un organo incompetente; non è stato congruamente motivato; non è stato garantito il contraddittorio; ecc.), così come — nell’ipotesi in cui l’atto costitutivo contenesse una ben specifica indicazione dei motivi ritenuti così gravi da giustificare l’esclusione dell’associato (ad es., il mancato pagamento della quota associativa) — qualora accertasse l’insussistenza della condotta contestata; ovvero — nell’ipotesi in cui lo statuto si limitasse, invece, a formule generiche ed elastiche (ad es., condotte lesive degli interessi o del buon nome dell’associazione) — qualora ritenesse, con un giudizio di merito, che la condotta dell’associato non sia talmente grave da impedirne l’ulteriore permanenza nella compagine sociale (v. Cass. 9 aprile 2004, n. 17907). Un’esigenza di tutela della libertà individuale — costituente un Recesso dell’associato aspetto della tutela della stessa libertà di associazione, che importa anche la libertà di non associarsi — spiega perché all’associato sia riconosciuto il diritto di recedere dall’associazione, in qualsiasi momento, sia pure con effetto allo scadere dell’anno in corso, purché esercitato almeno tre mesi prima (art. 24, comma 2, c.c.). Nell’ipotesi in cui avesse assunto l’obbligo di far parte dell’associazione per un tempo determinato, l’associato potrà recedere anticipatamente solo ove ricorra una giusta causa (ad es., modifica dell’oggetto dell’associazione, limitazione dei diritti statutariamente attribuiti all’associato, ecc.). L’associazione si estingue — oltre che per le cause eventualEstinzione mente previste nell’atto costitutivo o nello statuto (ad es., scadenza del termine: art. 16, comma 2, c.c.), ovvero per deliberazione assembleare (art. 21, comma 3, c.c.) — per raggiungimento dello scopo, impossibilità della sua realizzazione, venir meno di tutti gli associati (art. 27 c.c.). Il verificarsi di una delle cause di estinzione dell’associazione — se l’assemblea non ne delibera lo scioglimento — viene accertato dal prefetto, su istanza di qualunque interessato o anche d’ufficio (art. 6, comma 1, D.P.R. n. 361/2000; v. Cass. 19 luglio 2018, n. 19309). [§ 74] Il soggetto del rapporto giuridico 163 Una volta dichiarata l’estinzione dell’associazione, si procede Liquidazione alla liquidazione del suo patrimonio, con il pagamento dei debiti dell’associazione stessa (artt. 30 c.c. e 11 ss. disp. att.). I beni che eventualmente residuino sono devoluti in conformità con quanto previsto nell’atto costitutivo o nello statuto; ovvero, in mancanza, secondo quanto stabilito dall’assemblea che ha deliberato lo scioglimento; ovvero, quando manca anche qualsiasi statuizione assembleare al riguardo, secondo quanto stabilito dall’autorità governativa, « attribuendo i beni ad altri enti che hanno fini analoghi » (art. 31 c.c.). Chiusa la procedura di liquidazione, si procede alla cancellazione Cancellazione dell’ente dal registro delle persone giuridiche (art. 6, comma 2, D.P.R. n. 361/2000: v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12528). § 74. L’associazione non riconosciuta. L’« associazione non riconosciuta » prende vita — non diversa- Costituzione mente da quanto accade per l’associazione riconosciuta — in forza di un atto di autonomia (un vero e proprio contratto, secondo l’orientamento prevalente) tra i fondatori. Peraltro — diversamente da quanto previsto per l’associazione riconosciuta — non sono richiesti né requisiti di forma (così, ad es., l’accordo associativo potrebbe essere stipulato anche per scrittura privata o, addirittura, oralmente), né di contenuto (v. Cass. 15 gennaio 2010, n. 410). L’iter formativo dell’associazione non riconosciuta non richiede altro, esaurendosi con il perfezionarsi dell’accordo tra i fondatori. L’associazione non riconosciuta non acquista, quindi, persona- Soggettività lità giuridica, seppure goda di una sua soggettività (v. Cass. 16 della associazione novembre 2015, n. 23401): tant’è che è titolare del fondo comune non (art. 37 c.c.), risponde in proprio delle obbligazioni assunte in suo riconosciuta nome e per suo conto (art. 38 c.c.), può stare in giudizio nella persona di coloro ai quali è conferita la presidenza o la direzione (art. 36, comma 2, c.c.). L’ordinamento interno e l’amministrazione dell’associazione non Ordinamento riconosciuta, nonché la disciplina dei rapporti tra associati e associa- interno zione sono — dall’art. 36, comma 1, c.c. — integralmente rimessi agli « accordi degli associati ». La previsione è espressione della volontà del legislatore del 1942 di disinteressarsi dei rapporti interni all’associazione, per limitare la disciplina legale ai soli rapporti tra associazione e terzi (artt. 36, comma 2, 37 e 38 c.c.); e ciò, a tutela di questi ultimi. 164 L’attività giuridica [§ 74] Peraltro — in un ordinamento costituzionale che, come già si è ricordato, annovera tra i propri « principi fondamentali » quello del riconoscimento e della garanzia dei « diritti inviolabili dell’uomo (...) nelle formazioni sociali » (art. 2 Cost.) — non è oggi più possibile affermare l’assoluta discrezionalità degli accordi associativi nel disciplinare ordinamento e rapporti interni all’associazione. Innanzitutto — laddove non derogati dall’atto costitutivo o dallo statuto — dovranno ritenersi applicabili anche all’associazione non riconosciuta tutti quei principi dal codice dettati in tema di associazione riconosciuta che non presuppongano l’avvenuto riconoscimento: così, ad es., laddove lo statuto dell’associazione non riconosciuta nulla prevedesse in tema di ordinamento interno, troveranno applicazione gli artt. 18 ss. c.c. (v. Cass. 23 gennaio 2007, n. 1476); mentre, nel silenzio dello statuto, non troveranno applicazione le norme dettate per lo scioglimento delle associazioni riconosciute (v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12528; Cass. 10 marzo 2009, n. 5738). Laddove si discostino, invece, dalle previsioni codicistiche in tema di associazione riconosciuta, atto costitutivo e statuto non potranno adottare soluzioni che si risolvano in un sostanziale disconoscimento dei diritti dell’associato a partecipare alla vita associativa. Così, ad es. — se potranno prevedere che gli associati esprimano la loro volontà non già in sede assembleare, come voluto dall’art. 20 c.c., bensì attraverso una consultazione a mezzo posta — non potranno, però, sottrarre loro qualsiasi scelta associativa, demandandola, ad es., al presidente o ad un gruppo ristretto di associati (v. Cass. 8 novembre 2013, n. 25210). Analogamente — se potranno prevedere che l’esclusione dell’asEsclusione dell’associato sociato sia rimessa alla competenza non già dell’assemblea, come voluto dall’art. 24, comma 3, c.c., bensì a quella, ad es., del collegio dei probiviri — gli « accordi degli associati » non potranno invece prevedere che detta esclusione sia demandata al potere discrezionale ed insindacabile di un organo associativo, da esercitarsi attraverso una deliberazione immotivata e non impugnabile: e ciò, per contrasto con l’art. 2 Cost., nella misura in cui una siffatta previsione finirebbe, in buona sostanza, con il rimettere all’altrui arbitrio il diritto del socio a permanere nella compagine associativa. Una clausola di esclusione dell’associato che violasse siffatto diritto dovrebbe ritenersi nulla, con conseguente applicazione del disposto dell’art. 24 c.c., seppur quest’ultima sia dettata con specifico riferimento all’associazione riconosciuta (v. Cass. 9 settembre 2004, n. 18186). L’associazione non riconosciuta ha un suo fondo comune, diFondo comune stinto dal patrimonio dei singoli associati (v. Cass. 8 novembre 2013, [§ 74] Il soggetto del rapporto giuridico 165 n. 25210), che non possono, pertanto, chiederne la divisione per tutta la durata dell’associazione, né pretenderne una quota-parte in caso di recesso (art. 37 c.c.). Anche per quanto riguarda l’associazione non riconosciuta sono venuti meno tutti gli impedimenti ed i condizionamenti che tradizionalmente circondavano la possibilità di effettuare acquisti immobiliari, ovvero acquisti mortis causa o a titolo gratuito (v. gli abrogati artt. 600 e 786 c.c.): sicché — oggi — anche l’associazione non riconosciuta può effettuare liberamente qualsiasi tipo di acquisto. La distinzione tra fondo comune dell’associazione e patrimonio Responsabilità le dei singoli associati importa — da un lato — che, per le obbligazioni per obbligazioni del singolo associato, non risponde l’associazione con il suo fondo; e ... — da altro lato — che, per le obbligazioni dell’associazione, non risponde l’associato con il suo patrimonio, quand’anche abbia approvato l’assunzione di detta obbligazione: sicché mai l’associato in quanto tale rischia il suo patrimonio per debiti dell’associazione (così, ad es., l’iscritto ad un partito non risponde degli ingenti debiti che l’organizzazione abbia contratto con il sistema bancario, in occasione dell’ultima campagna elettorale). Peraltro, per le obbligazioni contrattuali dell’associazione non ... negoziali riconosciuta rispondono — oltre che il fondo comune — anche, personalmente e solidalmente, con il loro patrimonio personale, coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione, quand’anche non membri della stessa (art. 38 c.c.; v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25650; Cass. 25 agosto 2014, n. 18188). Così, ad es., a fronte di una bolletta non pagata, l’ente erogatore di energia elettrica potrà rivolgersi, alternativamente, o al fondo comune dell’associazione ovvero a colui o coloro (ad es., il direttore dell’associazione) che hanno stipulato il relativo contratto di somministrazione (v. Cass. 4 aprile 2017, n. 8752): c.d. autonomia patrimoniale imperfetta. Da notare che — sebbene il debito sia, a rigore, dell’associazione — il creditore può rivolgersi immediatamente a chi ha agito in nome e per conto dell’associazione, senza dover preventivamente escutere il fondo comune: quella del soggetto che agisce in nome e per conto dell’associazione costituirebbe — secondo la giurisprudenza — una sorta di garanzia ex lege, assimilabile alla fideiussione (v. Cass. 17 giugno 2015, n. 12508; v. § 418). Per quel che riguarda, invece, i debiti dell’associazione a fonte ... non non negoziale — si pensi, ad es., ai debiti tributari — si ritiene che ne negoziali rispondano il fondo comune (v. Cass. 13 luglio 2011, n. 15394), nonché, in solido, i soggetti che, in forza del ruolo rivestito, abbiano diretto la complessiva gestione associativa nel periodo in considera- 166 L’attività giuridica [§ 74] zione (v. Cass. 22 gennaio 2019, n. 1602; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25650). Una deroga all’ordinario regime della responsabilità per le obbligazioni delle associazioni non riconosciute è dettata, con riferimento ai movimenti ed ai partiti politici partecipanti ad elezioni per il Parlamento nazionale, per quelle europee o per i consigli regionali, dall’art. 6-bis L. 3 giugno 1999, n. 157, il quale esonera dalla responsabilità solidale per i debiti dell’associazione chi sia istituzionalmente investito, ai sensi dell’atto costitutivo o dello statuto, di cariche amministrative e non abbia agito con dolo o colpa grave (v. Cass. 1° aprile 2014, n. 7521). Sempre per quanto riguarda i partiti (o movimenti) politici che La disciplina speciale civilisticamente assumano la veste di associazioni non riconosciute, prevista per i partiti occorre ricordare che il D.L. 28 dicembre 2013, n. 149 — nell’abolire politici il c.d. « finanziamento pubblico » a loro favore — ha però previsto che gli stessi possano, nel concorso di altri presupposti, accedere a forme di erogazioni liberali in denaro, da parte di persone fisiche, assistite da agevolazioni fiscali, così come vedersi assegnato il 2‰ dell’imposta sul reddito delle persone fisiche che, in sede di dichiarazione annuale dei redditi, li abbiano indicati come destinatari di tale beneficio (artt. 10, 11 e 12 D.L. n. 149/2013; v. ora anche art. 1, commi 11 ss., L. 9 gennaio 2019, n. 3), a condizione che gli stessi si iscrivano nel “registro nazionale dei partiti politici”, tenuto dalla « Commissione di garanzia degli statuti per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici » istituita presso la Camera dei deputati (art. 4, comma 7, D.Lgs. n. 149/2013). Condizione per l’iscrizione nel registro è che il partito (o movimento) politico: (i) si doti di uno statuto, redatto nella forma dell’atto pubblico e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, che contenga le indicazioni minime di cui all’art. 3, commi 1 e 2, D.L. n. 149/2013; (ii) si assoggetti ad una serie di controlli — invero non particolarmente pregnanti — volti a garantirne la trasparenza (con particolare riferimento al proprio assetto statutario, agli organi associativi, al funzionamento interno, ai finanziamenti/contributi ricevuti, ai bilanci, compresi i relativi rendiconti, ecc.), la correttezza della gestione contabile-finanziaria, la parità tra i sessi negli organismi collegiali e nell’accesso alle cariche elettive, ecc. (artt. 5 ss. D.Lgs. n. 149/2013). Laddove non richiedano l’iscrizione nel registro, i partiti non potranno fruire dei benefici economici appena ricordati, ma, in compenso, potranno giovarsi della più ampia autonomia organizzativa e della quasi totale assenza di controlli dal codice civile contemplate con riferimento alle associazioni non riconosciute in generale. [§ 75] Il soggetto del rapporto giuridico 167 La già citata L. n. 3/2019 ha delegato il Governo ad adottare, Legge delega testo entro un anno dalla sua entrata in vigore, un decreto legislativo un unico in recante un testo unico, nel quale siano riunite le disposizioni in materia di materia di contributi ai candidati alle elezioni ed ai partiti ed ai trasparenza e democraticità movimenti politici, nonché in materia di trasparenza, democraticità dei partiti, e dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contri- di loro finanziamento buzione indiretta a loro favore (art. 1, comma 26, L. n. 3/2019). § 75. La fondazione. La « fondazione » è un’organizzazione stabile che si avvale di un Atto di fondazione patrimonio per il perseguimento di uno scopo non economico. Anche la fondazione — come l’associazione — trae vita da un ... struttura atto di autonomia, che però — a differenza di quel che accade per l’associazione — non è un contratto, bensì un atto unilaterale (v. Cass. 4 luglio 2017, n. 16409): il c.d. atto di fondazione. Quest’ultimo può essere: a) un atto « inter vivos », nel qual caso deve rivestire la forma ... inter vivos dell’atto pubblico (art. 14, comma 1, c.c.), di regola notarile; ed è revocabile dal fondatore fino a quando non sia intervenuto il riconoscimento, ovvero, se anteriore, fino al momento della morte del fondatore, ovvero ancora fino al momento in cui quest’ultimo abbia eventualmente fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta (art. 15 c.c.); o b) contenuto in un testamento (art. 14, comma 2, c.c.), nel qual ... mortis caso l’atto di fondazione — al pari di ogni altra disposizione testa- causa mentaria — diverrà efficace solo al momento dell’apertura della successione e fino a quel momento potrà essere revocato dal testatore. L’atto di fondazione — oltre alla manifestazione di volontà del Statuto fondatore di dar vita ad un’organizzazione mirante al perseguimento di una finalità non economica — deve contenere le seguenti indicazioni: denominazione dell’ente; scopo, patrimonio e sede; norme sull’ordinamento e sull’amministrazione; criteri e modalità di erogazione delle rendite (art. 16, comma 1, c.c.). Analogamente a quanto accade per le associazioni, tali previsioni possono essere contenute in un documento separato rispetto all’atto di fondazione: lo statuto. Essenziale, per la fondazione, è che la stessa sia dotata di un Atto di patrimonio, destinato a consentirle la realizzazione delle proprie dotazione finalità. È quindi necessario che il fondatore — od anche terzi — pongano in essere un atto, in forza del quale si spogliano gratuita- 168 L’attività giuridica [§ 75] mente, in modo definitivo ed irrevocabile, della proprietà di beni a favore della fondazione, con il vincolo di destinazione degli stessi al perseguimento dello scopo indicato dal fondatore: c.d. atto di dotazione (v. Cass. 4 luglio 2017, n. 16409). RiconosciPer il riconoscimento e l’acquisto della personalità giuridica, mento valgono le medesime regole che abbiamo visto con riferimento alle associazioni riconosciute: a) presentazione di atto di fondazione, statuto ed atto di dotazione alla prefettura nella cui provincia è stabilita la sede della fondazione, accompagnata dalla relativa domanda di riconoscimento; b) controllo, da parte della prefettura, del rispetto delle condizioni previste per la costituzione dell’ente, della possibilità e liceità dello scopo, dell’adeguatezza del patrimonio alla sua realizzazione; c) iscrizione nel registro delle persone giuridiche, che determina l’acquisizione della personalità giuridica (art. 1 D.P.R. n. 361/2000; v. anche art. 7 D.P.R. n. 361/2000). Fondazioni In mancanza di riconoscimento — a differenza delle associanon zioni, che possono operare come associazioni non riconosciute (artt. riconosciute 36 ss. c.c.) — le fondazioni, secondo l’opinione tradizionale, non possono operare come fondazioni non riconosciute: ciò, in quanto non sarebbe dato all’autonomia delle parti creare patrimoni separati, « se non nei casi stabiliti dalla legge » (art. 2740, comma 2, c.c.), imprimendo ai relativi beni un vincolo perpetuo di destinazione (v. § 94). Scopo Quanto allo scopo della fondazione, si discute se — oltre che non economico (nel senso già indicato: v. § 70) — lo stesso debba essere anche di pubblica utilità. In senso negativo, sembra deporre il disposto dell’art. 28, comma 3, c.c., che ammette le c.d. fondazioni di famiglia: fondazioni, cioè, « destinate a vantaggio soltanto di una o più famiglie determinate ». Lo scopo — che, una volta che la fondazione abbia ottenuto il riconoscimento, non può essere modificato né dal fondatore, né dall’organo amministrativo (artt. 28, comma 1, e 32 c.c.) — può essere statutariamente definito con una certa precisione (ad es., fondazione destinata a gestire un asilo o una scuola per i bimbi del paese; fondazione per l’assegnazione di borse di studio a studenti iscritti ad una determinata università; ecc.); con l’inevitabile rischio di una sua più o meno rapida obsolescenza (si pensi, ad es., ad una fondazione originariamente destinata a gestire l’asilo di un piccolo paese, in cui il calo demografico degli ultimi decenni abbia fatto diventare anacronistico il mantenimento di una siffatta struttura). Sicché, negli ultimi tempi, si è assistito al proliferare di fondazioni in cui lo scopo è statutariamente indicato in termini ampi e generici (si pensi, ad es., ad una fondazione avente ad oggetto attività di bene- [§ 75] Il soggetto del rapporto giuridico 169 ficenza, ovvero di ricerca medica, ecc.): con la conseguenza che, in pratica, competerà all’organo di gestione scegliere, nel tempo, l’attività da svolgere concretamente e gli interessi volta a volta da perseguire. Per il raggiungimento dello scopo, la fondazione svolge un’atti- Attività vità, che tradizionalmente si limitava alla mera gestione del suo patrimonio, al fine di devolverne le rendite alle finalità statutariamente previste: c.d. fondazioni di erogazione (a questa fattispecie fa riferimento l’art. 16, comma 1, c.c., laddove prevede che lo statuto contempli criteri e modalità di erogazione delle rendite). Oggi è pacificamente ammesso (v. Cass., sez. un., 15 marzo 2016, Attività n. 5069) che la fondazione possa svolgere anche un’attività di impresa, d’impresa organizzata per la produzione e lo scambio di beni o servizi (v. § 476): (i) o per ricavarne utili da destinare allo scopo non lucrativo proprio della fondazione (si pensi, ad es., alla fondazione museale che svolga un’attività di produzione e/o vendita di libri d’arte per finanziare manutenzione ed arricchimento delle proprie collezioni): c.d. attività d’impresa svolta in via secondaria; (ii) o per realizzare immediatamente il proprio scopo istituzionale (si pensi, ad es., alla fondazione per la diffusione della cultura del teatro di prosa, che organizzi spettacoli a pagamento): c.d. attività d’impresa svolta in via esclusiva o principale. La fondazione è gestita da un organo amministrativo, secondo le Organo amministrativo previsioni che devono essere contemplate dallo statuto. Gli amministratori sono i veri arbitri della vita della fondazione: il fondatore in quanto tale non può ingerirsi in alcun modo in essa; la fondazione non ha, di regola, assemblea; il controllo dell’autorità governativa è solo un controllo di legittimità sugli atti di gestione, con l’esclusione di qualsiasi sindacato in ordine all’opportunità delle scelte operate dagli amministratori. La fondazione ha un suo patrimonio — distinto da quello del Patrimonio fondatore — costituito dai cespiti oggetto dell’atto di dotazione, da donazioni, lasciti, contributi pubblici, utili derivanti dall’attività svolta, beni acquistati, ecc. Anche per le fondazioni sono ormai caduti i limiti che tradizionalmente circondavano la possibilità di effettuare acquisti immobiliari, ovvero acquisti a titolo gratuito o mortis causa (cfr. l’abrogato art. 17 c.c.). Delle obbligazioni della fondazione risponde solo quest’ultima Responsabilità per le con il proprio patrimonio: c.d. autonomia patrimoniale perfetta. obbligazioni La vita delle fondazioni è assoggettata al controllo dell’autorità amministrativa, che può procedere all’annullamento delle delibera- Controllo zioni dell’organo amministrativo contrarie a norme imperative, al- dell’autorità amministral’atto di fondazione, all’ordine pubblico, al buon costume; può scio- tiva 170 L’attività giuridica [§ 75] gliere l’organo amministrativo e nominare un commissario straordinario, qualora gli amministratori non agiscano in conformità dello statuto, dello scopo della fondazione e della legge; autorizza le azioni contro gli amministratori per fatti riguardanti la loro responsabilità; può provvedere alla nomina ed alla sostituzione degli amministratori, quando le disposizioni contenute nell’atto di fondazione non possono attuarsi (art. 25 c.c.). Allorquando si verifica una causa di scioglimento (esaurimento, Scioglimento impossibilità o scarsa utilità dello scopo; insufficienza del patrimonio; ecc.), la fondazione — anziché estinguersi — modifica il suo scopo, attraverso un provvedimento dell’autorità governativa, che individua le nuove finalità dell’ente, « allontanandosi il meno possibile dalla volontà del fondatore » (art. 28, comma 1, c.c.). Peraltro, il fondatore può prevedere che, verificandosi una causa di scioglimento della fondazione, questa si estingua ed i beni vengano devoluti a terze persone (art. 28, comma 2, c.c.); in mancanza di tale ultima previsione, provvede l’autorità governativa, attribuendo i beni ad altri enti che hanno fini analoghi (art. 31, comma 2, c.c.). Fino a tempi relativamente recenti la fondazione ha avuto Le fondazioni importanza marginale nella nostra realtà socio-economica, essendo nel momento attuale strumento principalmente utilizzato per realizzare l’intento di soggetti con non trascurabili disponibilità economiche di perpetuare il proprio nome, ancorandolo ad un’organizzazione con finalità di pubblico interesse, destinata a sopravvivere loro. A far tempo dall’ultimo quarto del secolo scorso, il panorama è radicalmente mutato. Innanzitutto, la rinata disponibilità — a fronte della crisi del welfare state — di cittadini ed imprese a destinare risorse finanziarie a fini di utilità sociale, senza la mediazione del potere politico, ha trovato proprio nella fondazione uno strumento sufficientemente duttile ed efficiente (si pensi, ad es., alla « Fondazione Giovanni Agnelli », alla « Fondazione Adriano Olivetti », alla « Fondazione Pirelli », alla « Fondazione Vodafone Italia », alla « Fondazione Fondo per l’Ambiente Italiano - FAI », alla « Fondazione Telethon », alla « Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro - AIRC », alla « Fondazione Umberto Veronesi », alla « Fondazione per la ricerca sulla fibrosi cistica - FFC », alla « Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori »; alla « Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli »; ecc.). [§ 76] Il soggetto del rapporto giuridico 171 In secondo luogo, la legge — nell’ambito del c.d. fenomeno delle privatizzazioni — ha imposto la trasformazione in fondazioni di diritto privato: (i) di singoli enti pubblici (si pensi, ad es., alla trasformazione del « Centro sperimentale di cinematografia » nella « Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia - C.S.C. », contemplata dal D.Lgs. 18 novembre 1997, n. 426; alla trasformazione dell’ente autonomo « La Triennale di Milano » nell’omonima fondazione, contemplata dal D.Lgs. 20 luglio 1999, n. 273; ecc.); ovvero (ii) di intere categorie di enti pubblici (si pensi, ad es., alla trasformazione degli enti lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate in fondazioni lirico-sinfoniche — ad es., la « Fondazione Teatro alla Scala di Milano », la « Fondazione Teatro La Fenice di Venezia », ecc. — contemplata dal D.Lgs. 29 giugno 1996, n. 367, e dal D.L. 24 novembre 2000, n. 345; alla trasformazione delle ex Casse di Risparmio, delle Banche del Monte e degli Istituti di credito di diritto pubblico, previo conferimento in s.p.a. della relativa azienda bancaria, in fondazioni bancarie, contemplata dalla L. 23 dicembre 1998, n. 461, e dal D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153). A ciò si aggiunga che la legge prevede che possano assumere la veste di fondazione anche i c.d. fondi pensione (art. 4, comma 1 lett. b, D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252), le casse di previdenza ed assistenza di liberi professionisti (art. 1 D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509; tale è, ad es., la « Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense »), le ex Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza - IPAB (art. 16 D.Lgs. 4 maggio 2001, n. 207); ecc. Il D.P.R. 24 maggio 2001, n. 254, consente ora che le università statali costituiscano, singolarmente od in forma associata, fondazioni di diritto privato al fine di realizzare l’acquisizione di beni e servizi alle migliori condizioni di mercato e/o al fine dello svolgimento delle attività strumentali e di supporto alla didattica ed alla ricerca: c.d. fondazioni universitarie. Siffatte fondazioni — c.d. « di diritto speciale » — costituiscono strumento per consentire e stimolare forme di collaborazione tra il settore pubblico e quello privato. § 76. Il comitato. Il « comitato » è un’organizzazione di più persone che — di regola, Nozione attraverso raccolta pubblica di fondi — costituisce un patrimonio con il quale realizzare finalità di natura altruistica. 172 L’attività giuridica [§ 76] Il comitato — al pari dell’associazione — nasce da un accordo di tipo associativo, in forza del quale più soggetti (c.d. promotori) si vincolano all’esercizio in comune di un’attività di raccolta, tra il pubblico, dei mezzi con cui successivamente realizzare il « programma » enunciato ai fini della sollecitazione delle oblazioni (v. Cass. 23 giugno 1994, n. 6032). In altre parole, l’attività del comitato si articola — di norma (v. Attività Cass. 22 giugno 2006, n. 14453) — in due fasi, logicamente distinte: a) i promotori annunciano al pubblico — mediante l’elaborazione di un « programma » — la volontà di perseguire un determinato scopo (ad es., soccorrere i terremotati; organizzare la festa patronale; dar vita ad una mostra; ecc.), invitando gli interessati (c.d. sottoscrittori) ad effettuare offerte in danaro o in altri beni (ad es., coperte o medicinali per i terremotati) (c.d. oblazioni); b) gli stessi promotori — ovvero altri soggetti (c.d. organizzatori), normalmente indicati nel programma (ad es., una testata giornalistica si fa promotrice di una raccolta di somme di denaro destinate alle vittime di un’inondazione, con la precisazione che le stesse saranno gestite, sia pure con quello specifico fine, dalla Croce Rossa) — gestiscono i fondi raccolti, onde realizzare lo scopo annunciato ai sottoscrittori. Il patrimonio del comitato è, di regola, costituito dai fondi Patrimonio e vincolo di pubblicamente raccolti, con i quali ben potrebbero essere acquistati scopo beni, mobili ed anche immobili (v. Cass. 22 giugno 2006, n. 14453). Con una precisazione, però: su detti fondi grava — diversamente da quel che accade nell’associazione e conformemente a quel che accade, invece, nella fondazione — un vincolo di destinazione allo scopo programmato (sicché né i promotori, né gli organizzatori potranno distrarli da tale destinazione). Solo l’autorità governativa è legittimata — qualora i fondi raccolti fossero insufficienti allo scopo, o questo non fosse più attuabile, o fosse raggiunto — a dare loro una diversa destinazione, sempre che non sia diversamente stabilito nel programma presentato ai sottoscrittori per sollecitarne le oblazioni (art. 42 c.c.). La distrazione dei fondi raccolti dalla destinazione programmata comporta la responsabilità di promotori ed organizzatori nei confronti del comitato, degli oblatori e dei terzi designati come beneficiari delle erogazioni (art. 40 c.c.). Scopo Dalle esemplificazioni contenute nel disposto dell’art. 39 c.c. si deduce che lo scopo del comitato deve essere di pubblico interesse o, comunque, altruistico. Non è invece necessario — anche se, in concreto, è abbastanza frequente — che sia di durata limitata nel tempo Costituzione Il soggetto del rapporto giuridico [§ 77] 173 (scopi transeunti avranno, ad es., i comitati sorti per far fronte alle esigenze delle vittime di una calamità naturale; scopi durevoli avranno, invece, i comitati per l’organizzazione di feste patronali ovvero di manifestazioni culturali o sportive, destinate a ripetersi periodicamente nel tempo). Il codice civile prevede che il comitato possa vivere o come ente Comitato e non riconosciuto, dotato di semplice soggettività (v. Cass. 8 maggio riconosciuto non 2003, n. 6985), ovvero — una volta raccolti fondi sufficienti al perseguimento dello scopo annunciato — richiedere ed ottenere il riconoscimento e, con esso, la personalità giuridica (art. 41, comma 1, c.c.). In questa seconda ipotesi l’atto costitutivo dovrà essere redatto in forma pubblica. Il procedimento e le condizioni per il riconoscimento saranno i medesimi previsti per il riconoscimento di associazioni e fondazioni (art. 1 D.P.R. n. 361/2000). Per le obbligazioni del comitato « riconosciuto » risponde solo Responsabiper le quest’ultimo con il suo patrimonio: c.d. autonomia patrimoniale per- lità obbligazioni fetta. Ai sottoscrittori può essere richiesto esclusivamente di effettuare le oblazioni promesse. Per le obbligazioni del comitato privo di riconoscimento — sia che si tratti di obbligazioni assunte dai promotori nell’esercizio dell’attività di raccolta di fondi, sia che si tratti di obbligazioni assunte dagli organizzatori nell’esercizio dell’attività di gestione di fondi raccolti e di realizzazione del fine programmato, sia che si tratti di obbligazioni nate da fatto illecito — rispondono personalmente, in solido con il patrimonio dell’ente, anche tutti i componenti il comitato (art. 41, comma 1, c.c.) (v. Cass. 12 gennaio 1982, n. 134). Ai sottoscrittori non può essere richiesto che di effettuare le oblazioni promesse. § 77. Le altre istituzioni di carattere privato. Ai sensi della L. 20 maggio 1985, n. 222, personalità giuridica Enti « agli effetti civili » è attribuita agli « enti ecclesiastici civilmente ecclesiastici riconosciuti » appartenenti alla Chiesa Cattolica (si pensi, ad es., alla conferenza episcopale italiana, agli istituti per il sostentamento del clero, alle diocesi, alle parrocchie, agli istituti religiosi, ai seminari, ecc.), per i quali è conseguentemente prevista l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche (art. 5, comma 1, L. n. 222/1985; v. Cass. 4 giugno 2018, n. 14247). Peraltro, si discute se detti enti abbiano natura privatistica, 174 L’attività giuridica [§ 77] ovvero costituiscano una sorta di tertium genus non riconducibile né agli enti privati, né agli enti pubblici. Discorso sostanzialmente analogo può ripetersi con riferimento Enti delle altre agli enti delle Chiese rappresentate dalla Tavola valdese (art. 12 L. 11 confessioni religiose agosto 1984, n. 449), agli enti delle Chiese cristiane avventiste (artt. 19 ss. L. 22 novembre 1988, n. 516), agli enti delle Assemblee di Dio in Italia (artt. 13 ss. L. 22 novembre 1988, n. 517), agli enti ebraici (artt. 18 ss. L. 8 marzo 1989, n. 101), agli enti della Chiesa Cristiana Evangelica Battista (artt. 11 ss. L. 12 aprile 1995, n. 116), agli enti della Chiesa Evangelica Luterana (artt. 17 ss. L. 29 novembre 1995, n. 520), agli enti della Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia (artt. 14 ss. L. 30 luglio 2012, n. 126), agli enti della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni (artt. 17 ss. L. 30 luglio 2012, n. 127), agli enti della Chiesa Apostolica in Italia (artt. 15 ss. L. 30 luglio 2012, n. 128), agli enti dell’Unione Buddhista Italiana (artt. 11 ss. L. 31 dicembre 2012, n. 245), agli enti dell’Unione Induista Italiana (artt. 12 ss. L. 31 dicembre 2012, n. 246), agli enti dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai (art. 11 ss. L. 28 giugno 2016, n. 130). Poiché la legge testualmente annovera tra gli enti privati — Altre istituzioni di accanto alle « associazioni » ed alle « fondazioni » — anche le « altre diritto privato istituzioni di carattere privato » (art. 1, comma 1, D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; cfr. anche art. 12 c.c., oggi abrogato; e art. 4, comma 1, D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117), l’opinione prevalente sembra ammettere la possibilità della costituzione di enti caratterizzati dalla combinazione dei modelli organizzativi tipici (associazione e fondazione) o, addirittura, di enti atipici. Mentre la dottrina si interroga sui limiti entro cui è consentito Le c.d. fondazioni di all’autonomia privata di operare in questa direzione, la prassi ci conpartecipazione segna il sempre più frequente ricorso alla figura della c.d. « fondazione di partecipazione »: una fondazione, cioè, in cui a determinati soggetti, che contribuiscano non saltuariamente alla realizzazione degli scopi dell’ente mediante versamenti in denaro o prestazione di servizi, è riconosciuta la qualifica di « partecipanti » (che si può perdere per recesso od esclusione), alla cui assemblea è riservato il diritto di nominare un determinato numero di componenti dell’organo amministrativo, oltre che una funzione consultiva su attività, programmi ed obiettivi della fondazione, nonché sui bilanci consuntivi e preventivi. Evidente è, in questo caso, la « contaminazione » del modello organizzativo tipico della fondazione con quello proprio dell’associazione. Del fenomeno sembra aver ora preso atto anche il recente D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. « codice del Terzo settore »), laddove — agli artt. 23, comma 4, e 24, comma 6 — fa testuale riferimento a [§ 78] Il soggetto del rapporto giuridico 175 « fondazioni (...) il cui statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato ». § 78. Il terzo settore. Il declino della famiglia patriarcale, tradizionale luogo di pro- L’emergere terzo duzione di tutta una serie di servizi alla persona (si pensi, ad es., alla del settore cura degli anziani o dei disabili), l’emergere nel tessuto sociale di tutta una serie di nuovi bisogni da soddisfare (si pensi, ad es., alle esigenze di assistenza ai tossicodipendenti, agli immigrati, agli anziani, ecc.), la crisi del welfare state indotta dalle necessità di contenimento della spesa pubblica hanno determinato, a partire dalla fine degli anni ’70, la progressiva espansione del c.d. « terzo settore »: cioè, della realizzazione di attività di utilità sociale — nei settori dell’assistenza, della formazione, della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, della promozione della cultura e dell’arte, della tutela dei diritti civili, della ricerca scientifica, della valorizzazione del patrimonio culturale, ecc. — ad opera di enti senza fini di lucro (c.d. enti non profit), espressione della c.d. società civile. Dall’inizio degli anni ’90, si è assistito al proliferare, spesso La scoordinato e disorganico, di interventi normativi volti — attraverso promozione del terzo la previsione di benefici fiscali, di contributi pubblici e/o comunitari, settore della possibilità di stipulare convenzioni con la Pubblica Amministrazione per la gestione di servizi di pubblico interesse, ecc. — a promuovere e sostenere gli enti operanti nel terzo settore. La materia è stata, da ultimo, oggetto di una « revisione Il « codice del organica » (come si esprime il suo art. 1) ad opera del D.lgs. 3 luglio terzo settore » 2017, n. 117: c.d. « codice del terzo settore ». Innanzitutto, viene per la prima volta fornita una definizione Gli ETS: normativa di « ente del terzo settore » (di seguito, « ETS »), per tale presupposti dovendosi intendere (art. 4, comma 1, D.lgs. n. 117/2017) (i) quell’ente di carattere privato che, (ii) senza scopo di lucro (artt. 8 e 9 D.lgs. n. 117/2017), (iii) persegue « finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale » in uno dei settori tassativamente indicati nell’art. 5 D.lgs. n. 117/2017 ed (iv) è iscritto nel registro unico nazionale del terzo settore, (che verrà) istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e gestito, con modalità informatiche, su base regionale attraverso gli « Uffici regionali del Registro unico nazionale del Terzo settore » (artt. 45 ss. D.lgs. n. 117/2017). 176 L’attività giuridica [§ 78] La qualifica di ETS è peraltro espressamente preclusa alle fondazioni bancarie (art. 3, comma 3, D.lgs. n. 117/2017), alle formazioni ed alle associazioni politiche, ai sindacati, alle associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, alle associazioni di datori di lavoro, nonché agli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati da detti enti (art. 4, comma 2, D.lgs. n. 117/2017). ETS e Agli ETS è, di regola, consentito svolgere attività d’impresa (v. § attività 476): a) sia in via esclusiva o, quantomeno, principale (artt. 11, comma 2, d’impresa e 13, comma 4, D.lgs. n. 117/2017); b) sia in via secondaria e strumentale rispetto a quella di interesse generale, esercitata in via principale (artt. 6 e 13, comma 6, D.lgs. n. 117/2017). Nel primo caso, sarà proprio attraverso l’esercizio dell’attività d’impresa che l’ente realizzerà i propri fini istituzionali; nel secondo, l’esercizio dell’attività d’impresa sarà invece finalizzato a supportare (ad es., attraverso il perseguimento di profitti) l’attività di interesse generale dall’ente svolta in via principale. Se esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma d’impresa, gli ETS sono soggetti all’obbligo di iscrizione — oltre che nel registro unico nazionale del terzo settore — anche nel registro delle imprese (v. § 484) (art. 11, comma 2, D.lgs. n. 117/2017). ETS e fine di Quel che conta è che agli ETS — anche laddove esercitino lucro attività d’impresa e, conseguentemente, perseguano il c.d. « lucro oggettivo » — è comunque precluso il c.d. « lucro soggettivo », essendo loro « vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominate a favore di fondatori, associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali », sia nel corso della vita dell’ente, sia in ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo (ad es., per recesso od esclusione), sia in caso di estinzione o scioglimento dell’ETS, il cui patrimonio residuo dovrà essere devoluto ad altro ente del terzo settore (artt. 8 e 9 D.lgs. n. 117/2017). Gli ETS debbono redigere il bilancio di esercizio (artt. 13, commi Disciplina 1, 2 e 3, e 14 D.lgs. n. 117/2017), depositandolo presso il registro unico nazionale del terzo settore (art. 13, comma 7, D.lgs. n. 117/2017). Se esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma d’impresa commerciale, gli ETS debbono tenere le stesse scritture contabili dal codice civile imposte alle imprese commerciali (v. § 496) e redigere il bilancio di esercizio, depositandolo presso il registro delle imprese, secondo modalità e contenuti previsti per le società di capitali (v. § 539) (art. 13, commi 4 e 5, D.lgs. n. 117/2017). Essendo loro precluso lo « scopo di lucro » (soggettivo), gli ETS ETS in forma di appaiono destinati ad assumere, di regola, una delle forme giuridiche associazione e fondazione contemplate nel libro I del codice civile: quelle, cioè, dell’associazione [§ 78] Il soggetto del rapporto giuridico 177 (non importa se riconosciuta o meno), della fondazione o degli « altri enti di carattere privato diversi dalle società » (art. 4, comma 1, D.lgs. n. 117/2017). Peraltro, la disciplina dettata dal codice civile — e ripercorsa ai precedenti §§ 73, 74 e 75 — trova applicazione agli ETS costituiti in forma di associazione o di fondazione solo ove non derogata dal codice del terzo settore (art. 3, comma 2, D.lgs. n. 117/2017). Quest’ultimo prevede, ad es., che gli ETS costituiti in forma di associazione (anche non riconosciuta) o di fondazione inseriscano nel proprio atto costitutivo o nello statuto le indicazioni contemplate all’art. 21 D.lgs. n. 117/2017; che acquisiscano personalità giuridica (non già attraverso l’ordinario procedimento di cui al D.P.R. n. 361/2000, che si conclude con l’iscrizione dell’ente nel registro delle persone giuridiche, bensì) mediante l’iscrizione nel registro unico nazionale del terzo settore, previo controllo di legittimità del relativo atto costitutivo ad opera del notaio che lo ha ricevuto (art. 22, commi 1 e 2, D.lgs. n. 117/2017); che possano acquistare personalità giuridica solo qualora il loro patrimonio sia non inferiore ad E 15.000,00, se associazioni, ovvero ad E 30.000,00, se fondazioni (art. 22., comma 4, D.lgs. n. 117/2017); ecc. Quanto poi agli ETS costituiti in veste di associazione, anche non riconosciuta, il codice del terzo settore prevede che i relativi statuti contemplino una struttura organizzativa articolata in tre organi distinti: l’assemblea, in cui a ciascun socio compete inderogabilmente un voto e le cui competenze sono fissate dall’art. 25, commi 1 e 2, D.lgs. n. 117/2017; l’organo amministrativo, nominato dall’assemblea, ai cui componenti trovano applicazione, in materia di conflitto di interessi, di responsabilità, di controllo giudiziale, le norme dal codice civile dettate con riferimento agli amministratori di società per azioni (v. §§ 530 e 531); e, nelle associazioni che raggiungono una maggiore dimensione, un organo di controllo, deputato a vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto e sull’osservanza dei principi di corretta amministrazione, sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, ed eventualmente alla revisione legale dei conti (artt. 24 ss. D.lgs. n. 117/2017). Nell’evidente intento di non mortificare la multiforme eteroge- ... le neità delle istituzioni che avevano fin qui operato nell’ambito del terzo organizzazioni di settore, il D.lgs. n. 117/2017 ha tratteggiato — accanto alla figura ge- volontariato nerale — tutta una serie di figure « tipiche » di ETS, con riferimento a Figure tipiche di ETS: ciascuna delle quali ha poi dettato una disciplina particolare: a) le organizzazioni di volontariato — che possono assumere solo la forma giuridica dell’associazione, riconosciuta o non — caratteriz- 178 L’attività giuridica [§ 78] zate dal fatto di svolgere una o più delle attività di interesse generale di cui all’art. 5 D.lgs. n. 117/2017, prevalentemente a favore di terzi estranei all’associazione, principalmente avvalendosi dell’attività di volontariato svolta, a titolo gratuito, dai propri associati (artt. 32 ss. D.lgs. n. 117/2017); b) le associazioni di promozione sociale — che pure possono ... le associazioni costituirsi solo in veste di associazione, riconosciuta o non — caratdi promozione terizzate dal fatto di svolgere una o più delle attività di interesse sociale generale di cui al citato art. 5 D.lgs. n. 117/2017 in favore dei propri associati, di loro familiari o di terzi, avvalendosi in modo prevalente dell’attività svolta, a titolo gratuito, dai propri associati (artt. 35 s. D.lgs. n. 117/2017); c) gli enti filantropici — che possono costituirsi solo in forma di ... gli enti filantropici: associazione riconosciuta o di fondazione — caratterizzati dal fatto di svolgere attività di erogazione di denaro, beni o servizi, anche di investimento, a sostegno di categorie di persone svantaggiate o di attività di interesse generale (artt. 37 ss. D.lgs. n. 117/2017); d) le imprese sociali — che possono adottare, in alternativa ri... le imprese sociali spetto agli schemi organizzativi delineati nel libro I, anche le « forme di cui al libro V del codice civile »: cioè, uno dei tipi di società (lucrativa o mutualistica) previsti dallo stesso codice (v. § 509) — la cui disciplina è oggi riscritta dal D.lgs. 3 luglio 2017, n. 112 (art. 40, comma 1, D.lgs. n. 117/2017), e che sono caratterizzate dal fatto di esercitare, in via stabile e principale, un’attività d’impresa nei settori d’attività indicati all’art. 2 D.lgs. n. 112/2017: di esse tratteremo al successivo § 482; e) le cooperative sociali — che possono assumere solo ed esclusi... le cooperative vamente la veste giuridica della società cooperativa (v. § 556) — la sociali cui disciplina è affidata alla L. 8 novembre 1991, n. 381 (art. 40, comma 2, D.lgs. n. 117/2017), caratterizzate dal fatto di acquisire « di diritto la qualifica di imprese sociali » (art. 1, comma 4, D.lgs. n. 112/2017), e di operare nel settore dei servizi socio-sanitari ed educativi e delle attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (art. 1, comma 1, L. n. 381/1991); f) le reti associative — che possono costituirsi solo in forma di ... le reti associative associazione, riconosciuta o non riconosciuta — e caratterizzate dal fatto di svolgere principalmente attività di coordinamento, tutela, rappresentanza, promozione o supporto degli enti del terzo settore loro associati e delle loro attività di interesse generale (art. 41 D.lgs. n. 117/2017); g) le società di mutuo soccorso — cui è accessibile solo la forma ... le società di mutuo giuridica della società lucrativa di capitali (v. § 509), sebbene non possoccorso sano svolgere attività d’impresa — ancor oggi regolamentate dalla L. [§ 79] Il soggetto del rapporto giuridico 179 15 aprile 1886, n. 3818 (art. 42 D.lgs. n. 117/2017), e caratterizzate dal fatto di svolgere solo attività di erogazione di contributi, sussidi e servizi in favore dei soci e dei loro famigliari conviventi. Il codice del terzo settore — « riconosciuto il valore e la funzione Misure di e sociale degli enti del Terzo settore, dell’associazionismo, dell’attività promozione sostegno di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo » (come si legge all’art. 2 D.lgs. n. 117/2017) — predispone, a favore degli ETS, tutta una serie, ampia ed articolata, di misure (fiscali: artt. 79 ss. D.lgs. n. 117/2017; e non solo: artt. 55 ss D.lgs. n. 117/2017) di promozione e sostegno. Peraltro, la disciplina dettata per gli ETS potrà andare pienamente « a regime » solo quando saranno emanati i relativi decreti attuativi — il D.Lgs. n. 117/2017 ne prevede 26; il D.Lgs. n. 112/2017 ne prevede 12 — molti dei quali mancano ancora all’appello. Va, per finire, ricordato che la riforma del Titolo V Cost. ha Il c.d. principio di solennemente enunciato la regola per cui i pubblici poteri « favori- «sussidiarietà » scono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà » (art. 118, comma 4, Cost.): sulla base, cioè, del principio per cui il potere pubblico è legittimato ad intervenire direttamente nel settore solo allorquando nessun privato sia disponibile ad operare, ovvero allorquando, nonostante gli aiuti pubblici, il livello dei servizi offerti dal privato sia inferiore a quello ritenuto minimo essenziale (c.d. carattere residuale dell’intervento pubblico). § 79. I diritti della personalità degli enti. Se taluni diritti della personalità (in particolare, il diritto alla Principi vita ed il diritto alla salute) — essendo indissolubilmente legati alla generali corporeità della persona fisica — non possono spettare che ad essa, altri diritti della personalità (in particolare, il diritto al nome, all’integrità morale, all’identità personale) si ritiene competano, invece, anche agli enti, non importa se dotati o meno di personalità giuridica (v. Cass. 26 gennaio 2018, n. 2039; Cass. 10 maggio 2017, n. 11446). Si discute se ai soggetti diversi dalla persona fisica competa il Il diritto diritto all’immagine: la risposta è ovviamente negativa, se si ritiene che all’immagine degli enti quest’ultimo abbia ad oggetto solo le sembianze esteriori della persona; di segno contrario, se si ritiene che esso possa avere ad oggetto qualunque elemento visibile (ad es., uno stemma, un emblema, un logo, un bene, ecc.) atto a richiamare alla mente un determinato soggetto (in tal senso v., ora, Cass. 11 agosto 2009, n. 18218). CAPITOLO VIII L’OGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO § 80. Il bene. I concetti di « bene » e di « cosa » sono spesso confusi o adoperati come sinonimi. In realtà, si tratta di concetti ben diversi. « Cose » che « Cosa » è una parte di materia (non importa se allo stato solido, sono « beni » liquido o gassoso). Peraltro non ogni cosa è un « bene »: tale è solo la cosa che possa essere fonte di utilità e oggetto di appropriazione. « Cose » che Quindi non sono « beni »: non sono a) né le cose dalle quali non si è in grado, allo stato, di trarre « beni » vantaggio alcuno (ad es., le stelle, i giacimenti su altri pianeti o in fondo al mare, fino a quando non siano raggiungibili e sfruttabili; ecc.); b) né le c.d. res communes omnium, ossia le cose di cui tutti possono fruire, senza impedirne una pari fruizione da parte degli altri consociati (ad es., la luce del sole, i venti, le acque degli oceani; v. Cass., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2735), a meno che non ne venga assicurato un separato godimento (ad es., l’aria compressa in bombole). È a questo concetto di « bene » che si riferisce l’art. 810 c.c. allorquando precisa che « sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti »: quelle, cioè, suscettibili di appropriazione e di utilizzo e che, perciò, possono avere un valore. Si tratta della stessa nozione che ritroviamo nell’art. 2082 c.c. (v. § 476), ove l’attività di impresa viene riassunta nella classica formula della produzione o scambio « di beni o di servizi ». Nel significato ristretto fatto proprio dall’art. 810 c.c., i « beni » sono una species all’interno del più ampio genus delle « cose ». Peraltro — se in senso economico « bene » è la « cosa » che « Beni » che non sono presenta un valore (di uso e/o di scambio) — in senso giuridico « cose » « bene » è non tanto la res come tale, quanto il « diritto » sulla res, perché è questo che ha un valore in funzione della sua negoziabilità, tant’è che sulla medesima res possono concorrere più diritti (si pensi, « Cosa » e « bene » L’oggetto del rapporto giuridico [§ 81] 181 ad es., alla nuda proprietà, all’usufrutto, all’ipoteca che possono concorrere su uno stesso fondo: v. § 131). È lo stesso legislatore codicistico ad impiegare la locuzione « bene » come sinonimo di « diritto ». Ad es., quando — art. 2740, comma 1, c.c. — enuncia il principio secondo cui « il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri »; ovvero quando — art. 320, comma 1, c.c. — statuisce che « i genitori... rappresentano i figli... e ne amministrano i beni ». Qui — per di più — il termine « bene » è impiegato per indicare tutti i diritti (patrimoniali), facenti capo al debitore o ai figli, suscettibili di negoziazione, e non soltanto i diritti sulle « cose ». Anzi, proprio quest’ultima è l’eccezione nella quale l’espressione « bene » è più frequentemente impiegata dal codice (v., ad es., artt. 553, 588, 2247, 2905 c.c.). In questo significato, il termine « bene » finisce con il designare un genus assai ampio, che ricomprende, oltre ai diritti sulle res, anche altri diritti (ad es., i crediti; v. § 189) che hanno ad oggetto elementi patrimoniali che « cose » non sono. § 81. Categorie di beni: materiali e immateriali. Le « cose » che possono essere oggetto di diritti reali si caratte- Beni rizzano — oltre che per la loro suscettibilità di valutazione economica materiali — per la loro corporeità o, quanto meno, per la loro idoneità ad essere percepite con i sensi o con strumenti materiali: venendo così a costituire i c.d. « beni materiali » (o « corporali »). Il legislatore ricomprende tra i beni (mobili materiali) anche le Le energie energie naturali (ad es., l’energia elettrica), purché abbiano « valore naturali economico » (art. 814 c.c.). Molto più delicata è l’analisi relativa all’ammissibilità — ed alla Beni stessa utilità pratica — della categoria dei c.d. « beni immateriali ». immateriali Tali vengono innanzitutto considerati gli stessi diritti quando ... i diritti possono formare oggetto di negoziazione: ad es., il « credito », che può essere oggetto di cessione, magari a fronte di un adeguato corrispettivo (art. 1260 c.c.; v. §§ 203 ss.); la « quota » di una società a responsabilità limitata (v. § 545; v. Cass. 21 ottobre 2009, n. 22361), ecc. Alla categoria dei « beni immateriali » potrebbero ricondursi, ... gli oggi, anche i c.d. « strumenti finanziari » (v. § 84) destinati alla nego- strumenti finanziari ziazione sui c.d. « mercati regolamentati » (borsa, IDEM, MTS, ecc.) (artt. 1, comma 1 lett. w-ter, T.U.F.), per i quali la legge (artt. 4 e 11 182 L’attività giuridica [§ 81] D.P.R. 30 dicembre 2003, n. 398) impone la c.d. « dematerializzazione » (v. § 431): impone, cioè, che la relativa emissione e circolazione avvengano tramite mere scritturazioni contabili, escludendo che gli stessi possano — come avveniva, invece, in passato — essere incorporati in un supporto cartaceo (res) (artt. 12 ss. D.P.R. n. 398/2003). ... i dati Altrettanto potrebbe dirsi per i c.d. dati personali, relativapersonali mente ai quali — come si è visto (v. § 67) — la normativa (europea ed interna) attribuisce all’« interessato » (cioè, al soggetto cui i dati si riferiscono) penetranti ed articolati poteri di controllo in ordine al loro « trattamento ». ... le banche Il discorso potrebbe ripetersi, più in generale, con riferimento al dati contenuto delle banche-dati, che — ove non diversamente tutelato (ad es., attraverso il diritto d’autore, il segreto industriale o professionale, l’appena ricordato diritto al controllo sui c.d. « dati personali », ecc.) — risulta protetto (ma solo se, per la costituzione della bancadati, sono occorsi investimenti rilevanti di mezzi finanziari, tempo o lavoro: ad es., la banca-dati che contenga la motivazione di tutte le sentenze della Cassazione civile dal 1986 ad oggi) attraverso — da un lato — l’attribuzione al suo titolare del diritto di opporsi all’estrazione, così come al reimpiego, della totalità o di una parte sostanziale di esso (art. 102-bis, comma 3, L. aut.) e — da altro lato — l’imposizione al legittimo utilizzatore del divieto di « eseguire operazioni che siano in contrasto con la normale gestione della banca-dati o che arrechino un ingiustificato pregiudizio al costitutore della banca di dati » stessa (art. 102-ter, comma 2, L. aut.). Vengono spesso configurati come « beni immateriali » le c.d. ... le opere dell’ingegno opere dell’ingegno (artt. 1 ss. L. aut.; v. § 488): cioè, le opere letterarie, scientifiche, didattiche; le opere e le composizioni musicali; le opere coreografiche; le opere della scultura, della pittura, dell’arte del disegno; i disegni e le opere dell’architettura; le opere della cinematografia; le opere fotografiche; i programmi per elaboratori (c.d. software); le banche-dati, sempre che (per la scelta o la disposizione del materiale) costituiscano una creazione intellettuale dell’autore. Peraltro, soprattutto nel caso delle arti figurative, l’opera dell’ingegno si esprime attraverso un sostrato materiale indispensabile (c.d. corpus mechanicum) e, pertanto, si pone il problema del rapporto tra il diritto dell’autore (pittore, scultore, architetto) sul risultato della sua attività creativa ed il diritto reale sull’oggetto che costituisce il supporto fisico dell’idea. Il secondo spetta a chiunque sia proprietario dell’oggetto, della res (tela, scultura, edificio, ecc.), il quale può disporre del bene in base al suo diritto di proprietà (ad es., vendendolo, donandolo, concedendolo in comodato e via dicendo); il [§ 82] L’oggetto del rapporto giuridico 183 primo spetta sempre e comunque all’autore. Quest’ultimo, per esempio, dopo aver venduto il quadro da lui dipinto, non sarà più proprietario della tela, ma avrà sempre il diritto di impedire che altri se ne assuma la paternità, così come il diritto di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possa essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione (art. 2577, comma 2, c.c.; art. 20 L. aut.). Beni (immateriali) sono poi considerati la ditta, l’insegna, il La proprietà marchio (v. § 486), le invenzioni e gli altri possibili oggetti di « pro- industriale prietà industriale » (v. § 487). Peraltro, qualsiasi idea — anche se non coperta da privative — Know-how può, a certe condizioni, diventare un « bene »: tipico è il caso del know-how, per tale intendendosi quel patrimonio di conoscenze, informazioni, notizie utili, competenze specifiche, capacità tecniche necessarie per attuare un processo produttivo, per acquisire un vantaggio competitivo sul piano organizzativo o commerciale, ecc. (v. § 487; Cass. 19 marzo 2010, n. 6726). Ancora: la giurisprudenza riconduce fra i beni immateriali la testata giornalistica (v. Cass. 17 gennaio 2013, n. 1102), le radiofrequenze (v. Cass. 23 settembre 2011, n. 19545), le quote di produzione di prodotti agricoli (v. Cass. 4 aprile 2014, n. 7606), la prestazione d’opera intellettuale (v. Cass. 22 giugno 2015, n. 12871), i diritti televisivi, sportivi e cinematografici (v. Cass. 14 dicembre 2018, n. 32417), ecc. § 82. Beni mobili e immobili. I beni si distinguono in: a) « immobili », per tali intendendosi il suolo (ivi compresi le sor- Beni genti ed i corsi d’acqua) e tutto ciò che naturalmente (per es., alberi) immobili o artificialmente (per es., edifici, lampioni per l’illuminazione stradale, tralicci dell’alta tensione, ecc.) è incorporato al suolo stesso; forma, cioè, un corpo unico con il suolo, in modo tale da perdere la propria autonomia fisica e da rendere impossibile una sua separazione senza la contemporanea dissoluzione o la sostanziale alterazione del tutto (art. 812, comma 1, c.c.; v. Cass. 10 maggio 2018, n. 11294; Cass. 5 gennaio 2017, n. 152). Immobili — per determinazione di legge — sono altresì considerati (art. 812, comma 2, c.c.) alcuni altri beni non incorporati al suolo: i mulini, i bagni e gli edifici galleggianti, quando siano saldamente ancorati alla riva o all’alveo per destinazione permanente; e b) « mobili », per tali intendendosi tutti gli altri beni (art. 812, ... e mobili 184 L’attività giuridica [§ 83] comma 3, c.c.; v. Cass. 9 aprile 2014, n. 8291; Cass. 7 settembre 2009, n. 19283), comprese — come si è visto — le energie (art. 814 c.c.). Differenze di Le due categorie di beni sono sottoposte — come vedremo — ad regime un regime giuridico sotto vari aspetti diverso: ad es., in tema di forma giuridico dei relativi negozi costitutivi, traslativi e modificativi (art. 1350 c.c.: v. § 105); di acquisto in virtù del possesso (artt. 1153 e 1158 ss. c.c.; v. §§ 183, 184); di titolarità nell’ipotesi in cui non siano di proprietà di alcuno (artt. 827 e 923 ss. c.c.; v. § 142); ecc. § 83. I beni registrati. Secondo quanto verrà meglio chiarito ai successivi §§ 681 ss., talune vicende (ad es., il trasferimento di proprietà; la costituzione o il trasferimento del diritto di usufrutto, di superficie, di servitù; la costituzione di ipoteca; ecc.) relative ad alcune categorie di beni — c.d. « beni registrati » — sono oggetto di iscrizione in registri pubblici, che chiunque può liberamente consultare (art. 2673 c.c.). I pubblici Nel nostro ordinamento sono istituiti: registri a) il « registro immobiliare », tenuto presso gli uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate, in cui sono pubblicizzate le vicende relative ai beni immobili (v. § 685); b) il « pubblico registro automobilistico » (P.R.A.), tenuto presso ogni sede provinciale dell’Automobile Club d’Italia (A.C.I.), in cui sono pubblicizzate le vicende relative agli autoveicoli (artt. 11 ss. R.D.L. 15 marzo 1927, n. 436; R.D. 29 luglio 1927, n. 1814); c) i registri indicati dall’art. 146 cod. nav., in cui sono pubblicizzate le vicende relative alle navi ed ai galleggianti (artt. 146 ss. cod. nav.); mentre per le unità da diporto dispongono gli artt. 17 ss. D.Lgs. 18 luglio 2005, n. 171; d) il « registro aeronautico nazionale » (R.A.N.), tenuto presso l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (E.N.A.C.), in cui sono pubblicizzate le vicende relative agli aeromobili (artt. 749 ss. cod. nav.). Quanto alla rilevanza sul piano privatistico della pubblicità effettuata tramite i detti registri v. §§ 682 ss. Nozione § 84. Nozione I prodotti finanziari. In tempi relativamente recenti, il legislatore ha individuato una particolare categoria di beni — i c.d. « prodotti finanziari » — al fine di assoggettarli ad una specifica disciplina a tutela degli investitori, a sua volta strumentale al buon funzionamento del mercato dei [§ 85] L’oggetto del rapporto giuridico 185 capitali (talora sviluppatosi in modi scarsamente prudenti, quando non addirittura fraudolenti, con gravi danni per i risparmiatori). Per « prodotti finanziari » si intendono tutte le forme di investimento di natura finanziaria, esclusi i depositi bancari e postali non rappresentati da strumenti finanziari (art. 1, comma 1 lett. u, T.U.F.). Tra i « prodotti finanziari » una posizione di particolare rilievo Gli strumenti occupano i c.d. « strumenti finanziari » — azioni, obbligazioni ed altri finanziari titoli di debito emessi da società di capitali, buoni del tesoro, quote di organismi di investimento collettivo, strumenti finanziari c.d. derivati (ad es., options; futures; swaps), ecc. (art. 1, comma 2, e all. I sez. C T.U.F.) — il cui tratto comune è quello della loro idoneità a formare oggetto di negoziazione sul mercato dei capitali. Basti qui ricordare che — al fine di assicurare al risparmiatore Il prospetto un sufficiente grado di informazione in ordine ad una tipologia di informativo beni relativamente ai quali lo stesso non ha, di norma, conoscenze adeguate — la legge impone a chiunque intenda effettuare una « offerta al pubblico » di prodotti finanziari l’obbligo di predisporre un « prospetto informativo » (c.d. « prospetto d’offerta »), contenente, « in una forma facilmente analizzabile e comprensibile, tutte le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dell’emittente e dei prodotti finanziari offerti, sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti » (art. 94, comma 2, T.U.F.). Detto prospetto — di regola, previamente sottoposto al controllo della Consob — deve essere reso conoscibile al pubblico attraverso la sua pubblicazione. A maggior tutela del risparmiatore, la legge riserva inoltre l’eser- I servizi di cizio professionale nei confronti del pubblico dei « servizi e attività di investimento investimento » — per tali intendendosi la negoziazione ed il collocamento di strumenti finanziari, la gestione individuale di portafogli di investimento per conto terzi, la consulenza in tema di investimenti, ecc. (art. 1, comma 5, e all. I sez. A T.U.F.) — a banche, « S.I.M-Società di intermediazione mobiliare » e « imprese di investimento » appositamente autorizzate, ecc. (art. 18, comma 1, T.U.F.). § 85. Beni fungibili e infungibili. I beni possono altresì distinguersi in: a) « fungibili » (o « di genere » o « generici »), per tali intenden- Beni fungibili dosi quelli che sono individuati con esclusivo riferimento alla loro 186 L’attività giuridica [§ 85] appartenenza ad un determinato genere (ad es., denaro, titoli di Stato, ecc.): essi possono essere sostituiti indifferentemente con altri, in quanto non interessa, secondo la comune valutazione, avere proprio quel bene (ad es., una determinata banconota da E 100), ma una data quantità di beni di quel genere (ad es., banconote per un valore complessivo di E 100: nessuno si preoccupa infatti, quando riceve una determinata somma di danaro, che gli venga data questa o quella banconota; ognuno sta, invece, bene attento a che gli venga data la dovuta quantità di danaro: v. Cass. 9 ottobre 2012, n. 17178); e Beni b) « infungibili », per tali intendendosi quelli individuati nella infungibili loro specifica identità (ad es., un’opera d’arte); tali sono, di regola, i beni immobili (ad es., l’immobile di via Verdi, n. 3; ecc.). La fungibilità o infungibilità dipende, anzitutto, dalla natura dei beni: il quadro di un celebre autore è certamente infungibile, mentre il danaro è eminentemente fungibile. La fungibilità o infungibilità può, peraltro, derivare anche dalla volontà delle parti, le quali possono attribuire carattere infungibile ad un oggetto che, secondo la comune valutazione, dovrebbe essere considerato fungibile (così, ad es., per me può avere interesse acquistare una determinata copia di un certo libro perché appartenuta ad una persona cara: un altro esemplare mi lascerebbe indifferente). Anche la distinzione fra beni fungibili e beni infungibili è Differenze di regime importante, perché le due categorie sono sottoposte ad una disciplina giuridico parzialmente diversificata. Così, ad es. — mentre per trasmettere all’acquirente la proprietà di un bene infungibile è sufficiente che le parti raggiungano un accordo al riguardo (art. 1376 c.c.), senza necessità di ulteriori adempimenti (ad es., consegna del bene, registrazione dell’atto, ecc.; v. § 314) — per il trasferimento della proprietà di una determinata quantità di beni fungibili, non basta che sia intervenuto, al riguardo, un accordo fra venditore ed acquirente; occorre altresì la separazione (o specificazione), la quale consiste nella numerazione, nella pesatura o nella misura della parte dovuta (art. 1378 c.c.). Perciò, se compro un metro di stoffa, fino a quando il commerciante non ha misurato e tagliato la stoffa che corrisponde ad un metro, non acquisto la proprietà della stoffa: anche se ho pagato, ho soltanto il diritto — diritto di credito — di ottenere che il commerciante tagli un metro di stoffa e me ne faccia diventare proprietario (v. § 314). Ancora: un vecchio aforisma giuridico avverte che « genus numquam perit ». Esso esprime una verità indiscutibile: potrà perire la quantità di grano che si trova nel mio granaio (ad es., per incendio, per umidità o per qualsivoglia altra causa); ma mai potrà perire tutto [§ 86] L’oggetto del rapporto giuridico 187 il genus, ossia il grano. Se pure sarà bruciato il mio grano, grano vi sarà sempre nel granaio del vicino, nei magazzini, ecc. Orbene, a questa che sembra una verità lapalissiana si connettono conseguenze giuridiche importanti. Se mi sono obbligato a dare una certa quantità di beni fungibili (ad es., un litro di vino di una certa qualità), e il mio vino va perduto per una causa qualsiasi, io non mi libero dall’obbligazione, perché non v’è una impossibilità assoluta: tutto si riduce, per me, nell’obbligo di procurarmi dell’altro vino di quella stessa qualità, anche se ciò mi costringe a sborsare del danaro per acquistarlo. Sia pure con questo maggiore mio sacrificio, potrò — e dovrò — consegnare il vino al mio creditore (v. § 230). La distinzione tra cose fungibili ed infungibili serve altresì a distinguere il « mutuo » (art. 1813 c.c.) dal « comodato » (art. 1803 c.c.) (v. § 401). § 86. Beni consumabili e inconsumabili. I beni si distinguono anche in: a) « consumabili », per tali intendendosi quelli che non possono Beni arrecare utilità all’uomo senza perdere la loro individualità (per es., il consumabili cibo, una bevanda, il carburante per auto, ecc.), ovvero senza che il soggetto se ne privi (per es., il danaro); e b) « inconsumabili », per tali intendendosi quelli che sono suscet- Beni tibili di plurime utilizzazioni senza essere distrutti nella loro consistenza inconsumabili (e beni (ad es., un fondo rustico, un edificio, ecc.), ancorché, sovente, si deteriorabili) deteriorino con l’uso (ad es., un vestito, un’autovettura, ecc.) (c.d. « beni deteriorabili »). A scolpire la distinzione sarà opportuno ricordare che i beni consumabili — siccome capaci di una sola utilizzazione — sono anche detti beni ad utilità semplice ovvero a fecondità semplice; i beni inconsumabili — in quanto suscettibili di una serie di utilizzazioni — sono anche detti beni ad utilità permanente ovvero a fecondità ripetuta. Anche la distinzione tra beni consumabili e beni inconsumabili Differenze di ha notevole importanza pratica, in quanto talune regole o taluni regime giuridico istituti trovano applicazione agli uni e non agli altri e viceversa. Così, ad es., l’« usufrutto » — che, come vedremo meglio in seguito (v. §§ 147 ss.), è un diritto reale con il quale si attribuisce il godimento di uno o più beni a persona diversa dal proprietario, con l’obbligo di rispettarne la destinazione economica (ius utendi fruendi, salva rerum substantia) e di restituire lo stesso o gli stessi beni ricevuti L’attività giuridica 188 [§ 87] — non è concepibile rispetto ai beni consumabili. Rispetto a tali beni è, invece, configurabile un rapporto diverso: il « quasi-usufrutto » (art. 995 c.c.: il quasi-usufruttuario ha diritto di servirsi dei beni e deve restituirne il valore al termine dell’usufrutto) (v. § 148). Invece, per i beni deteriorabili — che, come già si è detto, rientrano nella categoria dei beni inconsumabili — rimane la disciplina propria dell’usufrutto: l’usufruttuario è tenuto a restituirli nello stato in cui si trovano (art. 996 c.c.: v. § 148). Altro aspetto della distinzione tra beni consumabili ed inconsumabili si ravvisa nella distinzione tra « comodato » e « mutuo ». Il comodato — come vedremo (v. § 400) — è un contratto con il quale si consegna ad una persona una cosa a titolo gratuito, perché se ne serva con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta (art. 1803 c.c.) (per es., presto un libro ad un amico che vuol leggerlo, con l’obbligo di restituirmelo). Esso non è concepibile rispetto ai beni consumabili. A questi si addice la figura del mutuo (art. 1813 c.c.), in cui si ha l’obbligo di restituire non già la stessa cosa, ma la stessa quantità di beni dello stesso genere (tantundem eiusdem generis) (v. § 401). Eccezionalmente, peraltro, si può avere anche la figura del comodato di beni consumabili, quando questi siano stati consegnati non perché se ne tragga l’utilità che è loro propria, ma per farne mostra, per ostentazione (per es., presto del danaro all’amico, perché possa mostrare un portafoglio rigonfio alla persona sulla quale vuole far colpo) (v. § 400). § 87. Beni divisibili e indivisibili. I beni si distinguono, ancora, in: Beni a) « divisibili », per tali intendendosi quelli suscettibili di essere divisibili ridotti in parti omogenee senza che se ne alteri la destinazione economica (ad es., almeno di regola, un appezzamento di terreno, una quota sociale, una forma di formaggio, ecc.); e Beni b) « indivisibili », per tali intendendosi quelli che non risponindivisibili dono a tale caratteristica (ad es., un animale vivo, un quadro, un’autovettura, ecc.). Differenze di La nozione di bene divisibile assume rilievo in caso di contitoregime larità di diritti sul bene. Difatti — mentre, se il bene è divisibile, si giuridico può sempre ottenere lo scioglimento della comunione, mercé assegnazione di sue parti in natura — se il bene è indivisibile, lo scioglimento della comunione può aver luogo soltanto o con l’attribuzione dell’intero nella porzione di quello (o di quelli) tra i condividenti che ne facciano (congiuntamente) richiesta, con addebito [§ 89] L’oggetto del rapporto giuridico 189 dell’eccedenza a beneficio degli esclusi (art. 720 c.c., richiamato dall’art. 1116 c.c.; v. Cass. 9 ottobre 2018, n. 24832); ovvero con la vendita del bene all’incanto e successiva ripartizione del ricavato tra gli aventi diritto (v. § 670; v. Cass. 19 luglio 2016, n. 14756). § 88. Beni presenti e futuri. Altra distinzione è quella tra: a) « beni presenti », per tali intendendosi quelli già esistenti in Beni presenti natura: solo questi possono formare oggetto di proprietà o di diritti reali (v. §§ 131 ss.); e b) « beni futuri », per tali intendendosi quelli non ancora pre- Beni futuri senti in natura (ad es., una casa progettata dall’architetto, ma non ancora costruita; i frutti che verranno prodotti da un albero; ecc.): essi possono formare oggetto solo di rapporti obbligatori (art. 1348 c.c.; v. §§ 189 ss.), salvo i rari casi in cui ciò sia vietato dalla legge (art. 771 c.c.: divieto di donazione di beni futuri; v. § 678). A proposito dei negozi aventi per oggetto un bene futuro, bisogna tener ben distinte due situazioni diverse fra loro. Può darsi che chi acquista un bene futuro non voglia assumere alcun rischio: è perciò stabilito che, se esso non viene ad esistenza, il contratto non produce effetto e nessun corrispettivo è dovuto dall’altra parte (così, ad es., il compratore dei frutti di un fondo nulla deve pagare a titolo di prezzo, se i frutti non sono prodotti) (art. 1472, comma 2, c.c.): c.d. « emptio rei speratae » (v. Cass. 30 giugno 2011, n. 14461). Del tutto diversa è, invece, l’ipotesi seguente. Le parti si affidano alla sorte (e perciò il contratto è detto aleatorio): comprano ciò che si ricaverà dal getto della rete, e quindi lo stesso prezzo sarà dovuto sia nel caso in cui la rete esca dal mare piena di pesci, sia in quello in cui risulti vuota: c.d. « emptio spei ». § 89. I frutti. I « frutti » si distinguono in due categorie: a) « frutti naturali », che sono prodotti direttamente da altro bene, Frutti vi concorra o meno l’opera dell’uomo (ad es., i prodotti agricoli, la naturali legna, i parti degli animali, i prodotti di miniere, cave e torbiere, ecc.) (art. 820, comma 1, c.c.). Perché si possa parlare di frutti, occorre che la produzione abbia carattere periodico e non incida né sulla sostanza né sulla destinazione economica della cosa madre: così, ad es., il taglio (periodico) di alberi di un bosco di alto fusto, destinato alla produzione di legna, costituisce frutto dell’immobile (terreno). 190 L’attività giuridica [§ 90] Finché non avviene la separazione dal bene che li produce, i frutti naturali si dicono « pendenti »: essi formano parte della « cosamadre » (c.d. cosa fruttifera) e non hanno ancora esistenza autonoma. Sono considerati come beni futuri e possono, quindi, formare oggetto unicamente di rapporti obbligatori (art. 820, comma 2, c.c.). Solo con la separazione i frutti naturali acquistano una loro distinta individualità (c.d. frutti « separati ») e divengono oggetto di un autonomo diritto di proprietà: che spetta al proprietario della « cosa-madre », salvo che questi non ne abbia già disposto a favore di altri (ad es., abbia venduto i frutti ad un terzo, quando ancora essi erano sulla pianta). Se le spese per la produzione e/o il raccolto dei frutti sono sostenute da persona diversa da quella cui spetta la proprietà dei frutti stessi, quest’ultima è tenuta al relativo rimborso, sempre che tali spese non superino il valore dei frutti; altrimenti, il rimborso spetta fino al limite di tale valore (art. 821, comma 2, c.c.; v. Cass. 11 agosto 2015, n. 16700): si suole dire, in proposito, che fructus non intelleguntur nisi deductis impensis; Frutti civili b) « frutti civili », che — secondo la definizione fornita dall’art. 820, comma 3, c.c. — sono quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Se io concedo il mio appartamento in locazione ad altri e questi mi paga un corrispettivo (il c.d. canone di locazione), io ricavo dalla mia cosa un quid che non è naturalmente prodotto da essa, ma sostituisce le utilità che avrei ricavato dalla cosa: e, perciò, si chiama « frutto civile » (v. Cass. 28 settembre 2016, n. 19215). Tali sono anche gli interessi dei capitali, i dividendi azionari, le rendite vitalizie, ecc. (v. Cass. 24 aprile 2018, n. 10116; Cass. 16 marzo 2018, n. 6664). I frutti civili — al pari di quelli naturali — debbono presentare il requisito della periodicità. Perciò, tali non sono i premi che vengono sorteggiati a favore di possessori di titoli di Stato, di azioni, di obbligazioni, che non abbiano carattere di periodicità, ma rappresentino un aumento del valore del bene che dipende dal caso. Acquisto dei I frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione della frutti civili durata del diritto: così, ad es., se viene venduta la cosa locata, il canone in corso di maturazione (salvo diversa pattuizione tra le parti) va diviso tra alienante ed acquirente in proporzione della durata dei rispettivi diritti. Acquisto dei frutti naturali § 90. Combinazione di beni. I beni possono essere impiegati dall’uomo o separatamente o — [§ 91] L’oggetto del rapporto giuridico 191 come più spesso avviene — insieme o collegati ad altri, in guisa da accrescerne l’utilità. Di qui una serie di distinzioni. Anzitutto, quella tra: a) « bene semplice », per tale intendendosi quello i cui elementi Bene sono talmente compenetrati tra di loro che non possono staccarsi semplice senza distruggere o alterare la fisionomia del tutto (ad es., un animale, una pianta, un fiore, ecc.); b) « bene composto », per tale intendendosi quello risultante Bene dalla connessione, materiale o fisica, di più cose, ciascuna delle quali composto potrebbe essere staccata dal tutto ed avere autonoma rilevanza giuridica ed economica (ad es., un’autovettura, che è composta dalla carrozzeria, dal motore, dalle ruote, ecc.). Se vendo un bene composto (ad es., un’automobile), la vendita Il regime dei abbraccia tutti gli elementi (carrozzeria, motore, ruote, ecc.) di cui singoli componenti consta. Ciò non esclude che l’individualità dei singoli elementi — che della cosa si trova, per così dire, allo stato latente o potenziale — possa composta riaffiorare (ad es., se il proprietario intende vendere soltanto il motore o le ruote). Nell’ipotesi in cui singoli elementi appartengano a persone diverse dal proprietario del tutto, bisogna distinguere: se il tutto è una cosa mobile (per es., un’automobile) il proprietario di un singolo elemento (per es., delle gomme) può rivendicarlo, se esso può separarsi senza notevole deterioramento; diversamente, la proprietà diventa comune in proporzione del valore delle cose spettanti a ciascuno (art. 939, comma 1, c.c.), salvo quanto previsto dal successivo comma 2 (v. § 142); se il tutto è invece un immobile, gioca il principio dell’accessione (di cui si parlerà al § 142): i singoli elementi diventano di proprietà del titolare dell’immobile, salvo indennizzo o risarcimento (artt. 935 ss. c.c.). È importante distinguere — ai fini della disciplina applicabile — Cosa e la « cosa composta » dall’« universalità di fatto », di cui parleremo al § composta universalità 92: infatti, ad es., alla cosa composta si applica il principio « possesso di fatto vale titolo », che non vige invece per le universalità di mobili (art. 1156 c.c.; v. § 183). § 91. Le pertinenze. Nella « cosa composta » gli elementi che la costituiscono diven- Nozione tano parti di un tutto, il quale non può sussistere senza di essi (non 192 L’attività giuridica [§ 91] è concepibile, ad es., un’automobile senza motore) (v. Cass. 23 ottobre 2014, n. 22579). Se, invece, una cosa è posta a servizio o ad ornamento di Il vincolo pertinenziale un’altra, senza costituirne parte integrante e senza rappresentare elemento indispensabile per la sua esistenza, ma in guisa da accrescerne l’utilità o il pregio, si ha la figura della « pertinenza » (art. 817 c.c.; v. Cass. 2 febbraio 2017, n. 2804). Per la costituzione del rapporto pertinenziale debbono concorPresupposti rere: a) sia un elemento oggettivo: cioè, il rapporto di servizio o ornamento tra cosa accessoria e cosa principale: la prima deve arrecare un’utilità alla seconda (v. Cass. 16 maggio 2018, n. 11970; Cass. 2 febbraio 2017, n. 2804); b) sia un elemento soggettivo: cioè, la volontà — espressa od anche solo tacita — di effettuare la destinazione dell’una cosa a servizio od ornamento dell’altra (v. Cass. 2 agosto 2011, n. 16914). Elemento Il vincolo di pertinenza può intercorrere fra immobile ed immooggettivo bile (ad es., il box, il posto auto, la cantina, il solaio, destinati al servizio di una casa d’abitazione; il giardino destinato ad ornamento di una unità immobiliare; un pozzo od una presa d’acqua per l’irrigazione di un fondo; le dipendenze di una villa; ecc.), fra mobile ed immobile (ad es., le scorte vive — bestiame — e morte — strumenti, utensili — di un fondo: artt. 1640, 1641 c.c.; la caldaia dell’impianto di riscaldamento di una casa; il climatizzatore di un appartamento; ecc.), fra mobile e mobile (ad es., le scialuppe e gli arredi di una nave; l’autoradio di un’autovettura; ecc.). ... La destinazione di una cosa al servizio o all’ornamento dell’altra accessorietà fa sì che l’una cosa abbia carattere accessorio rispetto all’altra, che assume posizione principale. Se manca il vincolo di accessorietà, non v’è figura della pertinenza (v. Cass. 26 settembre 2006, n. 20815). ... non Il vincolo che sussiste tra le due cose dev’essere durevole, ossia occasionalità non occasionale (come può, invece, avvenire in occasione di fiere, mostre, ecc.) (v. Cass. 16 maggio 2018, n. 11970). Elemento Detto vincolo dev’essere posto in essere da chi è proprietario soggettivo della cosa principale ovvero da chi ha un diritto reale su di essa (art. 817, comma 2, c.c.). Titolarità La giurisprudenza enuncia il principio secondo cui, per potersi delle cose configurare un rapporto pertinenziale, sarebbe necessario che la cosa principale e accessoria accessoria appartenga al proprietario della cosa principale (v. Cass. 16 maggio 2018, n. 11970) o, quanto meno, che quest’ultimo ne abbia la disponibilità in forza di un rapporto obbligatorio (v. Cass. 30 ottobre 2018, n. 27636). [§ 91] L’oggetto del rapporto giuridico 193 In ogni caso, il vincolo, che si crea tra le due cose, non pregiudica i diritti che i terzi abbiano sulla cosa destinata alla funzione pertinenziale; questi possono rivendicare la propria cosa, ancorché sia stata posta al servizio di un’altra (art. 819 c.c.). Tuttavia, il vincolo pertinenziale può creare nei terzi la convinzione che — come normalmente avviene — le pertinenze appartengano al proprietario della cosa principale. La legge tutela perciò, entro certi limiti, la buona fede di questi terzi in riferimento sia alla costituzione che alla cessazione della qualità di pertinenza: a) costituzione: i terzi proprietari delle pertinenze — come si è detto — possono rivendicarle contro il proprietario della cosa principale. Se, tuttavia, costui ha alienato la cosa principale, senza esclusione della pertinenza, l’art. 819 c.c. protegge i terzi acquirenti, sempre che ignorassero, senza loro colpa (c.d. buona fede), che la pertinenza non apparteneva al proprietario della cosa principale: — se la cosa principale è un bene immobile o un mobile registrato, ai terzi in buona fede non si può opporre l’esistenza di diritti altrui sulle pertinenze, se essi non risultano da scrittura avente data certa (art. 2704 c.c.) anteriore all’atto di acquisto da parte del terzo; — se la cosa principale è un mobile non registrato, il terzo acquirente in buona fede è protetto in base al principio « possesso vale titolo », al quale abbiamo già più volte accennato (art. 1153 c.c.; v. § 183); b) cessazione: la cessazione della qualità di pertinenza non è opponibile ai terzi che abbiano anteriormente acquistato diritti sulla cosa principale. Così, per es., se la cosa principale è stata venduta dal proprietario a Tizio senza esclusione delle pertinenze e queste vengono poi vendute a Caio, questa seconda vendita non può essere opposta a Tizio (art. 818, comma 3, c.c.; v. Cass. 5 agosto 2013, n. 18651). Le pertinenze seguono, di regola, lo stesso destino della cosa Gli atti principale, a meno che non sia diversamente disposto (art. 818 c.c.; v. dispositivi Cass. 26 settembre 2017, n. 22353): se io vendo, dono, permuto un bene, l’atto ha ad oggetto anche le pertinenze, pur se di queste non si faccia cenno e — naturalmente — sempre che le parti non manifestino una diversa volontà (v. Cass. 28 dicembre 2011, n. 29468). Peraltro, sono perfettamente ammissibili contratti che riguardino in via autonoma la sola pertinenza (vendita o locazione di un box, comodato di una soffitta, ecc.; v. Cass. 10 aprile 2015, n. 7183). L’attività giuridica 194 § 92. [§ 92] Le universalità patrimoniali. L’art. 816 c.c. definisce « universalità » la pluralità di cose mobili che: (i) appartengono alla stessa persona; e (ii) hanno una destinazione unitaria (ad es., i libri di una biblioteca, i quadri di una pinacoteca, i francobolli di una collezione, le pecore di un gregge, ecc.). L’« universalità di mobili » si distingue: Universalità, cosa — dalla « cosa composta », perché non v’è coesione fisica tra le composta, complesso varie cose; pertinenziale — dal « complesso pertinenziale », in quanto le cose non si trovano l’una rispetto all’altra in rapporto di subordinazione: l’una non è posta a servizio o ad ornamento dell’altra, ma tutte insieme costituiscono una entità nuova dal punto di vista economico-sociale (ad es., la biblioteca, la pinacoteca, la collezione di francobolli, il gregge, ecc.). I beni che formano l’universalità possono essere considerati a volte separatamente (art. 816, comma 2, c.c.), a volte come un tutt’uno. Ciò dipende dalla volontà delle parti (ad es., posso vendere il libro singolo o l’intera biblioteca) ed assume particolare importanza nell’usufrutto: se questo è stabilito su una mandria o un gregge, gli animali che nascono non sono considerati come frutti e non appartengono perciò, come tali, all’usufruttuario, come avverrebbe invece se l’usufrutto fosse costituito su ciascun animale; l’usufruttuario è infatti tenuto a surrogare gli animali periti con i nati (art. 994 c.c.). Sotto vari aspetti l’ordinamento giuridico stabilisce per l’uniDifferenze di regime fra versitas un regime proprio e diverso da quello che disciplina i singoli universitas e singoli beni beni mobili. mobili Ad es., il principio « possesso vale titolo » non si applica all’universalità di mobili (art. 1156 c.c.; v. § 183): così, se acquisto in buona fede un’universalità di mobili da chi non ne è proprietario, in forza di un titolo idoneo, non divento subito proprietario per effetto della trasmissione del possesso, come avviene per le cose mobili (art. 1153 c.c.), ma occorre che io abbia il possesso dell’universalità per dieci anni (usucapione: art. 1160, comma 2, c.c.; v. § 184). Inoltre, il possesso di un’universalità di mobili può essere tutelato con l’azione di manutenzione (art. 1170 c.c.), che non è concessa, invece, per i singoli beni mobili (v. § 187). Il codice non conosce che la figura generica dell’universalità di mobili (art. 816 c.c.). La dottrina distingue, peraltro, tra: Universitas facti e — « universalità di fatto » (o « universitas facti » o « universitas universitas iuris rerum ») — di cui abbiamo appena parlato — che è costituita da più beni mobili unitariamente considerati; e Nozione [§ 93] L’oggetto del rapporto giuridico 195 — « universalità di diritto » (o « universitas iuris »), che è costituita da più beni — ma anche rapporti giuridici — in cui la riduzione ad unità è operata dalla legge che, almeno sotto taluni profili, considera e regola unitariamente l’insieme di detti beni e rapporti (ad es., l’eredità: v. § 624; v. Cass. 10 febbraio 2017, n. 3655; il fondo patrimoniale: v. § 601). Vi è peraltro da dubitare della validità teorica — e della stessa utilità pratica — della riconduzione dell’universalità di fatto e dell’universalità di diritto ad una figura unitaria. § 93. L’azienda. Un posto particolare tra le combinazioni di cose spetta Nozione all’« azienda », che il codice (art. 2555 c.c.) definisce come il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa: ossia, per la produzione di beni (ad es., azienda agricola, azienda manifatturiera, ecc.) o di servizi (ad es., azienda di credito, compagnia di assicurazioni, società di trasporti, ecc.), ovvero per lo scambio di beni (ad es., azienda per la rivendita di frutta e verdura, di automobili, ecc.) o di servizi (ad es., agenzia di assicurazioni, ecc.) (v. § 476). L’azienda è, dunque, costituita da un insieme di beni collegati tra loro da un nesso di dipendenza reciproca, in guisa da servire al fine produttivo comune. Disputata è la natura giuridica dell’azienda. L’opinione tradi- Azienda e zionale — peraltro ancora di recente riproposta dalla nostra Cassa- universitas facti zione (v. Cass. 26 settembre 2007, n. 20191; Cass. 15 gennaio 2003, n. 502) — la considera come un’universitas facti. Ma — come si è visto — il concetto di universalità esige, da un lato, che di essa facciano parte solo beni mobili, mentre l’azienda ben può comprendere anche beni immobili (ad es., il capannone in cui viene svolta l’attività) e, da altro lato, che le cose appartengano ad uno stesso proprietario, mentre questo non è richiesto nell’azienda (ad es., assai spesso i locali in cui l’attività viene esercitata sono in locazione, i macchinari sono presi in leasing, le merci appartengono ad altri, ecc.). E, comunque, è titolare dell’azienda anche chi (ad es., l’affittuario) non sia proprietario del complesso organizzato o dei singoli elementi costitutivi di essa, purché organizzi e diriga ad un determinato fine produttivo o di scambio l’attività economica dell’azienda, assumendone il rischio. Non manca, perciò, chi ricorre ad una figura di universalità diversa da quella prevista nell’art. 816 c.c. 196 L’attività giuridica [§ 93] Così — secondo altri — l’azienda sarebbe una cosa composta funzionale, in cui le singole cose sono collegate non materialmente, ma funzionalmente, in virtù del loro impiego, della loro destinazione comune. È stato, peraltro, obiettato che la concezione tradizionale della cosa composta implica l’idea della coesione materiale tra gli elementi che la costituiscono. Alle teorie materialistiche — che più o meno, come si è visto, Azienda e bene fanno ricorso alle figure tradizionali del bene composto o dell’univerimmateriale salità — si contrappongono le teorie immaterialistiche, che considerano l’azienda come un bene immateriale. L’azienda — si dice — consiste tutta nell’organizzazione dei vari beni. Vi è chi dà rilievo al concetto di organizzazione e chi considera Azienda e universitas l’azienda come « universitas iuris o iurium » (in quest’ultimo senso, v. iuris Cass. 19 luglio 2000, n. 9460). Da ultimo, la Suprema Corte — sulla base della considerazione Azienda quale bene che l’azienda in quanto tale, come bene distinto dai suoi singoli unitario componenti, ben può essere oggetto di negozi giuridici (v. artt. 2112, 2555, 2558, 2559 e 2560 c.c., in tema di alienazione d’azienda; art. 2562 c.c., in tema di affitto d’azienda), di diritti reali (v. art. 2561 c.c., in tema di usufrutto d’azienda), di provvedimenti giudiziali (v. art. 670 n. 1 c.p.c., in tema di sequestro giudiziale d’azienda) — è giunta a ritenere che essa debba essere riguardata come bene unitario, a composizione variabile nel tempo e qualitativamente mista, il cui elemento unificatore, dal legislatore testualmente indicato nell’organizzazione per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.), è ancorato ad un’attività (l’organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l’esercizio dell’impresa). Da ciò la S.C. ha dedotto che l’azienda può essere oggetto anche di « possesso » (v. §§ 174 ss.) e, nel concorso degli altri presupposti richiesti dalla legge, di « usucapione » (v. § 184) (v. Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 5087). Tra gli elementi che formano l’azienda particolare importanza L’avviamento ha l’« avviamento ». L’espressione è nata dal linguaggio comune: si dice che un complesso aziendale è ben « avviato » per affermare che fa molti affari. Sinteticamente si può definire l’avviamento come la capacità di profitto dell’azienda. Disputata è la natura dell’avviamento: alcuni lo identificano con la clientela, ma questa è piuttosto l’effetto dell’avviamento e si distingue, perciò, da esso; altri lo considerano come un bene immateriale, un prodotto dell’ingegno, basandosi sulla considerazione che il successo di un’impresa dipende dall’iniziativa, dalla genialità, dall’intraprendenza dell’imprenditore; altri, infine, negano che si Azienda e cosa composta [§ 94] L’oggetto del rapporto giuridico 197 tratti di un bene e considerano l’avviamento come una qualità dell’azienda. Secondo la Cassazione (v. Cass. 8 marzo 2013, n. 5845; ed ora Cass. 19 novembre 2018, n. 29742), l’avviamento è una qualità immateriale dell’azienda, che può anche mancare (come accade nel caso di un’azienda di nuova formazione che non sia ancora entrata in attività, ma sia suscettibile di iniziarla; o di azienda già in esercizio che abbia cessato temporaneamente di funzionare). Uno dei fattori che contribuiscono a costituire l’avviamento — ossia, la sede ove si svolge l’attività aziendale — risulta oggi tutelato dalla L. 27 luglio 1978, n. 392 (sulla « Disciplina delle locazioni di immobili urbani »), che ha previsto, a favore dell’imprenditore che gestisce un’azienda in locali altrui, il diritto a conseguire una indennità qualora venga a cessare la locazione dell’immobile, purché non a seguito di sua inadempienza o recesso (art. 34 L. n. 392/1978). Ha dato luogo a dispute anche il rapporto tra le nozioni di Azienda e impresa « impresa » e di « azienda ». Il codice non dà la definizione di impresa, ma quella di « imprenditore »: l’imprenditore — secondo l’art. 2082 c.c. — è chi esercita professionalmente (cioè, non occasionalmente) un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (v. § 476). La nozione dell’imprenditore è tratta dalle scienze economiche: l’imprenditore è il soggetto principale della produzione, colui che ne assume l’iniziativa ed il rischio. Secondo l’opinione prevalente, l’azienda è lo strumento indispensabile per l’attività dell’imprenditore. D’altro canto, l’azienda rientra nella categoria degli « oggetti », l’imprenditore in quella dei « soggetti ». L’« impresa », dunque, è l’attività economica svolta dall’imprenditore; l’« azienda » è, invece, il complesso dei beni di cui l’imprenditore si avvale per svolgere l’attività stessa. § 94. Il patrimonio. In senso giuridico, si chiama « patrimonio » il complesso dei Nozione rapporti attivi e passivi, suscettibili di valutazione economica, facenti capo ad un soggetto. Come si vede, questo concetto è diverso da quello comune di patrimonio, secondo cui solo chi ha beni possiede un patrimonio. Invece, qualunque soggetto ha un patrimonio, intesa l’espressione in 198 L’attività giuridica [§ 94] senso giuridico, anche se ha soltanto o prevalentemente debiti, perché è, quanto meno, soggetto passivo di rapporti giuridici. Il patrimonio non è considerato come un bene unico e, quindi, esso non è una universitas. La regola tradizionale è che ogni soggetto ha un patrimonio ed La regola dell’unicità un patrimonio solo, con il quale risponde dei propri debiti (art. 2740, del patrimonio comma 1, c.c.; v. § 235). Non è, di massima, concesso al singolo di staccare dei beni o dei rapporti giuridici dal proprio patrimonio per riservarli ad alcuni creditori, escludendo gli altri. Ciò può avvenire soltanto nei casi previsti dalla legge (art. 2740, comma 2, c.c.). Peraltro, specie in anni recenti, sono venute moltiplicandosi le I patrimoni separati ipotesi in cui la legge prevede o consente la « separazione » di taluni cespiti o categorie di cespiti dal restante patrimonio di un medesimo soggetto. Su detti cespiti (c.d. « patrimonio separato ») possono agire in via esecutiva non già — come sarebbe la regola (v. §§ 235 ss.) — tutti i creditori del titolare, bensì solo alcuni di essi (così sottratti al concorso degli altri, in funzione dell’interesse che la legge intende tutelare). Si pensi, ad es., ai beni costituiti in fondo patrimoniale (v. § 601), sui quali non può far valere le proprie ragioni chi sapeva che il suo credito era stato dal debitore assunto per scopi estranei ai bisogni della famiglia (art. 170 c.c.); al patrimonio di chi ha accettato l’eredità con beneficio di inventario (v. § 634), sul quale non possono far valere le proprie ragioni i creditori del defunto ed i legatari (art. 490, comma 2 n. 2, c.c.); ai fondi speciali per la previdenza e l’assistenza, costituiti dall’imprenditore ai sensi dell’art. 2117 c.c., che « non possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell’imprenditore o del prestatore di lavoro »; ai « patrimoni destinati ad uno specifico affare » (v. § 536), di regola sottratti all’esecuzione da parte dei « normali » creditori sociali (art. 2447quinquies e 2447-decies c.c.; v. ora anche art. 10 L. 3 luglio 2017, n. 117: c.d. « codice del Terzo settore »); ai beni destinati ad uno scopo ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. (v. § 690), di regola sottratti all’esecuzione per crediti estranei alla finalità loro impressa; ai crediti ceduti, nell’ambito di un’operazione di « cartolarizzazione », alla c.d. « società veicolo » (v. § 207), che costituiscono « patrimonio separato » sia rispetto a quello della stessa società veicolo, sia rispetto a quello relativo ad altre operazioni di cartolarizzazione eventualmente realizzate dalla medesima società veicolo (art. 3, comma 2, L. 30 aprile 1999, n. 130); ai beni immobili trasferiti alle società costituite per la realizzazione di operazioni di cartolarizzazione di immobili pubblici (v. § 95), che costituiscono « patrimonio separato » sia rispetto a L’oggetto del rapporto giuridico [§ 95] 199 quello della società, sia rispetto a quello relativo ad altre operazioni di cartolarizzazione da quest’ultima realizzate (art. 2, comma 2, D.L. 25 settembre 2001, n. 351); alle somme che i notai e gli altri pubblici ufficiali sono tenuti — ai sensi dell’art. 1, comma 63, L. 27 dicembre 2013, n. 147 — a versare su appositi conti correnti dedicati, per le quali è previsto, da un lato, che le stesse siano escluse dalla successione del notaio o del pubblico ufficiale, così come dal suo regime patrimoniale di famiglia e, da altro lato, che siano assolutamente impignorabili (art. 1, comma 65, L. n. 147/2013); ai beni costituiti in trust, istituto di matrice anglosassone in cui alcuni cespiti patrimoniali vengono trasferiti da un settlor ad un trustee per una determinata finalità, e vengono a costituire un patrimonio separato rispetto agli altri rapporti facenti capo al trustee medesimo (cfr. L. 16 ottobre 1989, n. 364, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja del 1o luglio 1985: v. § 337); ecc. V. anche gli artt. 22, comma 1, 35-bis, comma 6, e 36, comma 4, T.U.F., sui quali si tornerà al successivo § 508; nonché l’art. 42, comma 2, cod. assic. Diverso dal « patrimonio separato » è il « patrimonio autonomo »: Patrimonio il primo termine allude al fenomeno del distacco di una parte del autonomo patrimonio, che continua ad appartenere allo stesso soggetto; il patrimonio autonomo è, invece, quello che viene attribuito ad un nuovo soggetto, mediante la creazione di una persona giuridica (ad es., società di capitali, associazione riconosciuta, ecc.), od anche solo di un ente che, sebbene sprovvisto di personalità, sia dotato di autonomia patrimoniale, ancorché imperfetta (ad es., società di persone, associazione non riconosciuta, comitato, ecc.) (v. § 69). § 95. Beni pubblici, beni comuni, beni collettivi. Beni degli enti ecclesiastici. Nozione Di « beni pubblici » si parla in due sensi: a) beni appartenenti ad un ente pubblico: c.d. « beni pubblici in senso soggettivo »; b) beni assoggettati ad un regime speciale, diverso dalla proprietà privata, per favorire il raggiungimento dei fini pubblici cui quei cespiti sono destinati: c.d. « beni pubblici in senso oggettivo » (v. Cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665). Sono pubblici in senso oggettivo i « beni demaniali » ed i « beni del patrimonio indisponibile ». Tradizionalmente, i beni « demaniali » — tassativamente indi- Beni demaniali cati dalla legge — si distinguevano, a loro volta, in: 200 L’attività giuridica [§ 95] a) beni — immobili — del « demanio necessario », in quanto appartenevano necessariamente allo Stato (demanio marittimo: lido del mare, spiagge, rade, porti, lagune, foci dei fiumi, bacini comunicanti liberamente con il mare e relative pertinenze; demanio idrico: fiumi, torrenti, laghi, acque superficiali e sotterranee ex art. 144 D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ghiacciai, terreni abbandonati dalle acque correnti ex art. 942 c.c., alvei abbandonati ex art. 946 c.c., isole che si formano nel letto di fiumi e torrenti ex art. 945 c.c.; demanio militare: opere destinate alla difesa nazionale, ossia fortificazioni, piazzeforti, linee fortificate, impianti ed infrastrutture militari, aeroporti militari, opere permanenti di difesa antiaerea, ecc., oggi indicate dagli artt. 231 e 236 D.Lgs. 16 marzo 2010, n. 66) (art. 822, comma 1, c.c.); b) beni — immobili ed universalità di mobili — del « demanio ... demanio accidentale accidentale », che possono appartenere anche a privati e che sono « demaniali » solo se appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico territoriale (demanio stradale: strade destinate all’uso pubblico, autostrade e relative pertinenze; demanio aeronautico civile: aerodromi non militari; acquedotti; demanio culturale ex art. 53 D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42: immobili di interesse storico, archeologico e artistico, raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25690) (artt. 822, comma 2, e 824, comma 1, c.c.). Rientrano nel « demanio comunale » anche i cimiteri ed i mercati comunali, sempre che appartengano ai Comuni (art. 824, comma 2, c.c.). I beni demaniali — in quanto direttamente preordinati al Il regime dei beni soddisfacimento di interessi imputati alla collettività rappresentata demaniali dagli enti territoriali — sono assoggettati ad un regime particolare: non possono, di regola, formare oggetto di negozi di diritto privato (c.d. incommerciabilità dei beni demaniali: art. 823 c.c.); non possono formare oggetto di possesso (art. 1145 c.c.); conseguentemente, non possono essere acquistati per usucapione da privati (v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25690); non sono assoggettabili ad esecuzione forzata (v. Cass. 30 maggio 2018, n. 13618); non possono essere espropriati per pubblica utilità; ecc. A tutela dei beni demaniali, la P.A. può — oltre che ricorrere agli ordinari rimedi giurisdizionali che l’ordinamento prevede a tutela della proprietà e del possesso (v. §§ 143, 161, 185 ss.) — procedere in via amministrativa (c.d. « autotutela »), irrogando sanzioni (ad es., pecuniarie) e/o esercitando poteri di polizia demaniale (ad es., tramite ordini di sgombero, rimozioni forzate, ecc.) (art. 823, comma 2, c.c.). ... demanio necessario [§ 95] L’oggetto del rapporto giuridico 201 Siffatti profili sono disciplinati dal diritto pubblico. Si rinvia, in proposito, alle trattazioni di questa materia. Quello sin qui descritto è il sistema tradizionale dei beni demaniali. Peraltro, la disciplina del c.d. federalismo demaniale (art. 19 L. 5 maggio 2009, n. 42; D.Lgs. 28 maggio 2010, n. 85) — di cui parleremo fra un momento — prevede che il regime dei beni demaniali continui ad applicarsi, in via generale, soltanto al demanio marittimo, al demanio idrico, al demanio aeroportuale, così come, almeno di regola, alle miniere (art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 85/2010); e che gli altri beni, se ed in quanto oggetto di trasferimento a comuni, province, città metropolitane e regioni, entrino a far parte, di regola, del loro « patrimonio disponibile » (art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 85/ 2010). I beni « non demaniali » appartenenti ad un ente pubblico — Beni anche non territoriale — si definiscono « beni patrimoniali »; e, a loro patrimoniali volta, si distinguono in: a) beni — immobili e mobili — del « patrimonio indisponibile » (ad es., foreste; miniere, cave e torbiere; cose mobili di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico ed artistico, da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo; caserme, armamenti, aeromobili militari e navi da guerra; edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi; nonché — ex art. 1, comma 1, L. 11 febbraio 1992, n. 157 — la fauna selvatica) (art. 826, comma 3, c.c.; v. Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 6019), che non possono essere sottratti alle rispettive destinazioni se non con le modalità previste dalle norme del diritto pubblico (art. 828, comma 2, c.c.; v. Cass. 14 giugno 2018, n. 15621): quindi, non possono essere oggetto di usucapione (v. Cass. 23 febbraio 2009, n. 4388) e — pur potendo, di regola, formare oggetto di negozi traslativi di diritto privato — sono comunque gravati da uno specifico vincolo di destinazione all’uso pubblico (v. Cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 9665); e b) beni del « patrimonio disponibile », che non sono destinati direttamente ed immediatamente al perseguimento di fini pubblici (v. Cass. 25 gennaio 2018, n. 1868) e, conseguentemente, sono soggetti — salvo deroghe contenute in leggi speciali — alle norme del codice civile (ad es., possono essere alienati o, più in generale, fatti oggetto di atti dispositivi; sono usucapibili; sono soggetti ad esecuzione forzata; sono assoggettabili ad espropriazione per pubblica utilità; ecc.). Il quadro normativo delineato dal codice civile — e fin qui descritto nei suoi tratti essenziali — era già stato ampiamente inciso dalla legislazione di settore (ad es., per quanto riguarda le strade 202 L’attività giuridica [§ 95] ferrate già appartenenti all’Azienda autonoma Ferrovie dello Stato, la rete stradale ed autostradale nazionale, gli aeroporti, ecc.). Ma una modifica ben più radicale dovrebbe conseguire all’atIl c.d. federalismo tuazione del c.d. federalismo demaniale, quale delineato dall’art. 19 L. demaniale 5 maggio 2009, n. 42, e dal D.Lgs. 28 maggio 2010, n. 85. Due le linee di fondo, cui si ispira il nuovo sistema: a) contrazione del patrimonio pubblico dello Stato, mediante attribuzione — a titolo non oneroso — di molti beni immobili statali del demanio ed anche del patrimonio indisponibile (ad es., spiagge, rade, porti, lagune, aeroporti di interesse regionale o locale, miniere, ecc.) agli enti territoriali non statali (comuni, province, città metropolitane e regioni), che saranno però tenuti a favorirne la massima valorizzazione funzionale, a vantaggio diretto o indiretto della collettività territoriale rappresentata (artt. 1, 2, 3, 4, comma 3, e 5 D.Lgs. n. 85/2010); b) contrazione del numero complessivo dei « beni pubblici » in senso oggettivo, mediante attribuzione dei beni così trasferiti agli enti locali, di regola, al loro patrimonio disponibile (art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 85/2010); con la conseguenza che detti beni potranno essere alienati, seppure previa loro valorizzazione attraverso idonee varianti agli strumenti urbanistici (art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 85/2010). Faranno eccezione — come già anticipato — i beni appartenenti al demanio marittimo, al demanio idrico ed al demanio aeroportuale, così come, almeno di regola, le miniere, che, seppur trasferiti agli enti locali, resteranno assoggettati al regime demaniale delineato dal codice civile (art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 85/2010). Va, tuttavia, segnalato il ritardo che continua a caratterizzare le procedure di attuazione di siffatto disegno riformatore (tant’è che, al riguardo, è dovuto nuovamente intervenire il legislatore — con D.L. 21 giugno 2013, n. 69 — nel tentativo di semplificare i relativi procedimenti). Peraltro, dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso — nell’ambito Privatizzazione del delle misure di risanamento finanziario — è stato avviato un processo patrimonio immobiliare di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico (al riguardo v., da pubblico ultimo, art. 1, commi 422-433, L. 30 dicembre 2018, n. 145). Il tema appartiene al diritto pubblico. Purtuttavia può essere utilmente segnalato che lo Stato (art. 2, La c.d. cartolarizzacomma 1, D.L. 25 settembre 2001, n. 351), nonché le regioni, le zione del patrimonio province, i comuni e gli altri enti locali (art. 84 L. 27 dicembre 2002, immobiliare n. 289) sono abilitati a costituire società a responsabilità limitata pubblico (c.d. « S.C.I.P.-Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici »), cui trasferire — a titolo oneroso — beni facenti parte del patrimonio [§ 95] L’oggetto del rapporto giuridico 203 immobiliare pubblico, affinché queste ultime procedano alla loro alienazione sul mercato. Per il pagamento del corrispettivo dovuto per l’acquisto di detti beni, le « S.C.I.P. » devono procurarsi la provvista necessaria mediante una o più operazioni di « cartolarizzazione » (v. § 207): cioè, mediante l’emissione di titoli o l’assunzione di finanziamenti garantiti proprio ed esclusivamente dai beni pubblici oggetto di ciascuna operazione (beni sui quali potranno far valere il loro credito solo i portatori di detti titoli ed i concedenti detti finanziamenti, non gli altri creditori della società: beni che, conseguentemente, costituiscono un « patrimonio separato » sia rispetto a quello della società stessa, sia rispetto a quelli relativi ad eventuali altre operazioni di cartolarizzazione realizzate dalla medesima società: art. 2, comma 2, D.L. n. 351/ 2001). I titolari dei titoli ed i concedenti i finanziamenti finalizzati alla singola operazione di cartolarizzazione debbono essere rimborsati con il ricavato dalla alienazione degli immobili. Peraltro le operazioni di cartolarizzazione di immobili pubblici, avviate nei primi anni 2000, hanno sortito esiti non all’altezza delle aspettative. Il principio costituzionale della tutela della personalità umana Beni anche nell’ambiente in cui essa si svolge (artt. 2, 9 e 42 Cost.) — ha « comuni » di recente ricordato la nostra Suprema Corte (v. Cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665) — impone una peculiare considerazione non solo per i « beni pubblici » in senso oggettivo (relativamente ai quali, come si è detto, è previsto un regime peculiare proprio perché, di regola, funzionali al soddisfacimento di interessi della collettività), ma anche per i c.d. « beni comuni », per tali intendendosi quei beni che — indipendentemente dall’essere di proprietà privata o pubblica — per loro intrinseca natura o finalizzazione risultano funzionali al perseguimento ed alla realizzazione di interessi della collettività e per i quali, proprio per questo, viene variamente assicurato un uso diretto da parte della collettività stessa (si pensi, ad es., alle c.d. « strade vicinali », di proprietà privata, ma soggette al pubblico transito; agli « usi civici » su terreni appartenenti a comunità locali, i cui abitanti possono goderne collettivamente: v. Corte cost. 31 maggio 2018, n. 113; alle c.d. « aree protette » ex L. 6 dicembre 1991, n. 394, sulle quali sono imposti vincoli finalizzati alla tutela del paesaggio e della salute dei consociati; ecc.). Proprio « in attuazione degli artt. 2, 9, 42, secondo comma, e 43 Beni della Costituzione », la recente L. 20 novembre 2017, n. 168, ha ora « collettivi » tipizzato la categoria dei « beni collettivi » — per tali intendendosi le terre di originaria proprietà collettiva della generalità degli abitanti del territorio di un comune o di una frazione; le terre, con le 204 L’attività giuridica [§ 95] costruzioni di pertinenza, assegnate in proprietà collettiva agli abitanti di un comune o di una frazione, a seguito della liquidazione dei diritti di uso civico; le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati; i corpi idrici sui quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici; ecc. (art. 3, comma 1, L. n. 168/2017) — il cui regime giuridico (artt. 3, comma 3, e 2, comma 4, L. n. 168/2017) è caratterizzato: (i) dall’inalienabilità; (ii) dall’indivisibilità; (iii) dall’inusucapibilità; (iv) dalla perpetua destinazione agro-silvo-pastorale; (v) dall’affidamento della relativa amministrazione ad enti esponenziali delle collettività titolari, cui è riconosciuta personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria (art. 1, comma 2, L. n. 168/2017). I beni degli Ai beni degli enti ecclesiastici trovano applicazione le norme del enti codice civile, ove non diversamente previsto dalle leggi speciali (di ecclesiastici norma attuative delle intese concluse dallo Stato Italiano con le varie confessioni religiose). Le chiese Per quanto riguarda, poi, il regime giuridico delle chiese destidestinate al nate all’esercizio pubblico del culto cattolico, va ricordato che esse culto cattolico possono appartenere anche a privati; nel qual caso sono soggette alla disciplina del diritto privato (possono quindi essere alienate, usucapite, ecc.), ma, finché non siano sconsacrate secondo le regole del diritto canonico, non possono essere sottratte alla loro destinazione e al culto (art. 831, comma 2, c.c.). In altre parole, la destinazione all’esercizio pubblico del culto importa una limitazione del diritto di proprietà spettante al loro titolare, che — fin quando detta destinazione permane — potrà goderne solo nella misura in cui ciò non ostacoli le esigenze del culto (v. Cass. 22 giugno 2017, n. 15504). CAPITOLO IX IL FATTO, L’ATTO ED IL NEGOZIO GIURIDICO § 96. I fatti giuridici. Per fatto giuridico si intende qualsiasi avvenimento cui l’ordinamento ricolleghi conseguenze giuridiche. Si distinguono fatti materiali (quando si verifica un mutamento della situazione preesistente in rerum natura, nel mondo esterno, fisico o sensibile, percepibile dall’uomo con i sensi: l’abbattimento di un albero, la distruzione di un documento) e fatti in senso ampio, comprensivi sia di omissioni (ad es.: mancato esercizio di un diritto che, se l’inerzia si protrae per il tempo determinato dalla legge, conduce alla estinzione del diritto per prescrizione: art. 2934 c.c.), sia di c.d. fatti interni o psicologici (ad es.: affinché sia ammissibile l’azione revocatoria di un atto di disposizione posto in essere da un debitore occorre « che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore », art. 2901, comma 1, n. 1 c.c.). Si parla di fatti giuridici in senso stretto o naturali quando Fatti in senso determinate conseguenze giuridiche sono poste in relazione ad un stretto certo evento senza che assuma rilievo se a causarlo sia intervenuto o meno l’uomo (ad es.: « Sono frutti naturali quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no l’opera dell’uomo, come i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i prodotti delle miniere, cave e torbiere », art. 820, comma 1, c.c.). Si pensi alla morte di una persona, che provoca la « apertura della successione » mortis causa del defunto (art. 456 c.c.), o a un’inondazione o a un terremoto, che possono provocare perdite di proprietà, estinzioni o modificazioni di diritti, ecc. (ad es., se un fiume si costituisce un nuovo letto, abbandonando l’antico, « il terreno abbandonato rimane assoggettato al regime proprio del demanio pubblico », art. 946 c.c.) Si parla, invece, di atti giuridici se l’evento causativo di conse- Atti giuridici guenze giuridiche consiste in un’azione umana (così è, ad es., per tutti i reati, i contratti, oppure per l’occupazione di una res nullius, art. 923 c.c., o per la « specificazione », art. 940 c.c., ecc.). L’attività giuridica 206 [§ 97] La giuridicità di un fatto, dunque, non dipende mai da caratteristiche intrinseche di quell’avvenimento, bensì soltanto dalla circostanza che da quell’evento derivi, in forza di una norma giuridica che lo disponga, un certo effetto giuridico. § 97. Classificazione degli atti giuridici. Gli atti giuridici (e, cioè, gli atti umani consapevoli e volontari rilevanti per il diritto) si distinguono, sul piano della valutazione giuridica, in due grandi categorie: atti conformi alle prescrizioni dell’ordinamento (atti leciti) e atti compiuti in violazione di doveri giuridici e che producono la lesione del diritto soggettivo altrui (atti illeciti, che dal codice sono denominati « fatti illeciti »: artt. 2043 ss. c.c.). Di questi ultimi ci occuperemo a suo luogo (§§ 454 e ss.). Operazioni e Gli atti leciti si suddistinguono in operazioni (o anche atti reali o dichiarazioni materiali ovvero comportamenti) che consistono in modificazioni del mondo esterno (per es. la presa di possesso di una cosa, la costruzione di un edificio), e dichiarazioni, che sono atti diretti a comunicare ad altri il proprio pensiero, la propria opinione o il proprio stato d’animo o la propria volontà (sono, dunque, fatti di linguaggio). Negozi Tra le dichiarazioni, la maggiore importanza va attribuita ai giuridici negozi giuridici (v. § 98), ossia alle dichiarazioni con le quali i privati, nell’ambito dell’autonomia a loro riconosciuta dall’ordinamento, esprimono la volontà di regolare in un determinato modo i propri interessi, mediante la produzione di effetti giuridici (es. assumendo un’obbligazione, rinunciando ad un diritto o trasferendolo ad altri, recedendo da un contratto, istituendo una persona come proprio erede ecc.). Dichiarazioni Si dicono invece dichiarazioni di scienza quelle con le quali non di scienza si esprime una propria volontà, tendente a produrre un qualche effetto giuridico, ma si comunica ad altri di essere a conoscenza di un atto o di una situazione del passato, della quale il dichiarante afferma di essere a diretta conoscenza (come, ad es., nella confessione, v. § 129, ma anche in casi di attestazioni, riconoscimenti, certificati), ovvero si descrivono i termini di una situazione che il dichiarante afferma di aver preso in esame (come nel caso di inventari, rendiconti, bilanci, perizie). Atti giuridici Tutti gli atti umani consapevoli e volontari, che non siano in senso negozi giuridici, sono denominati atti giuridici in senso stretto (o atti stretto non negoziali). I loro effetti giuridici non dipendono dalla volontà Atti leciti ed atti illeciti [§ 98] Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico 207 dell’agente, ma sono disposti dall’ordinamento senza riguardo all’intenzione di colui che li pone in essere. Per esempio, se una persona intima per iscritto al debitore di adempiere, questi è costituito in mora (art. 1219 c.c.), con tutte le relative conseguenze (v. § 232), anche se il creditore non aveva nessuna intenzione di provocare quegli effetti con la sua iniziativa. Secondo un’autorevole dottrina per la validità di questi atti, salva diversa disposizione legislativa, non è richiesta la capacità legale di agire (§ 46), ma è sufficiente lo stesso grado di capacità che si esige per l’imputabilità degli atti illeciti: la capacità d’intendere e di volere al momento dell’atto (art. 2046 c.c.). Una particolare categoria di atti è costituita dagli atti dovuti, o satisfattivi, che consistono nell’adempimento di un obbligo: per es. il pagamento. Anch’essi si distinguono dai negozi giuridici perché, appunto in quanto presuppongono un obbligo, non costituiscono esplicazione di autonomia privata (che è sostanzialmente libertà). § 98. Il negozio giuridico. Frutto di elaborazione teorica, la figura del negozio giuridico è stata delineata dalla dottrina tedesca del XIX secolo (ed in particolare dalla scuola pandettistica, così denominata perché fondata sulla rielaborazione della tradizione romanistica, nota attraverso le Pandette giustinianee) mediante un processo di astrazione rispetto ai più frequenti ed importanti tipi di atti: si è rilevato, infatti, che istituti quali il contratto, il testamento, il matrimonio, presentano tutti il tratto comune per cui dei privati enunciano in una loro dichiarazione (unilaterale, bilaterale o plurilaterale a seconda dei casi) gli effetti giuridici che intendono conseguire (l’acquisto della proprietà di una cosa in corrispettivo di un prezzo o il licenziamento di un dipendente o l’attribuzione di propri beni ad un congiunto post mortem, ecc.). In tutti questi casi la volontà manifestata produce effetti giuridici, creando, modificando o estinguendo situazioni giuridiche soggettive; ossia, per utilizzare la formula impiegata dal nostro codice per il contratto, la regola dettata dalla volontà privata « ha forza di legge tra le parti » (art. 1372 c.c.). È agevole, perciò, intendere la definizione del negozio giuridico Nozione data dalla dottrina tradizionale: una « dichiarazione di volontà » con la quale vengono enunciati gli effetti perseguiti (il c.d. « intento empirico ») ed alla quale l’ordinamento giuridico — se la finalità dell’atto è meritevole di tutela e se esso risponde ai requisiti fissati 208 L’attività giuridica [§ 98] dalla legge per le singole figure negoziali — ricollega effetti giuridici conformi al risultato voluto dal o dai dichiaranti (effetti che come si è accennato possono essere i più vari: il trasferimento della proprietà di un bene; la costituzione di obblighi reciproci di prestazione tra i contraenti; l’estinzione di un preesistente diritto di una delle parti verso l’altra; la nomina di un erede o l’attribuzione di un legato). Il fenomeno negoziale corrisponde alla necessità di ritagliare una sfera di « autonomia », entro la quale i privati possano decidere da sé come regolare i propri interessi, ottenendo dalla legge che gli atti posti in essere siano resi vincolanti ed impegnativi: in tal modo l’ordinamento attribuisce ai privati il potere di creare una regola giuridica dei loro rapporti e di produrre modificazioni della situazione giuridica preesistente (per es. il trasferimento del diritto di proprietà), sia pure nei limiti e con le forme prescritte dalla legge e con efficacia circoscritta (salvo talune eccezioni) alle parti del negozio. Assenza di Nonostante la grande importanza che il concetto di negozio una giuridico riveste, il nostro codice civile non gli dedica un’apposita disciplina universale disciplina: nel codice sono regolati, per esempio, il contratto (artt. del negozio 1321-1469 c.c.), il testamento (artt. 587-712 c.c.), il matrimonio (artt. giuridico 84-142) e numerose altre singole figure negoziali, ma non il negozio giuridico in generale. La disciplina Peraltro al contratto il codice civile dedica una disciplina orgadel contratto nica ed articolata: l’intero titolo II del libro IV del codice regola, con in generale numerose norme, la « parte generale » del contratto; inoltre l’art. 1324 c.c. dispone che « salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale »: ciò rende la disciplina dei contratti tendenzialmente applicabile a tutti gli altri negozi giuridici inter vivos e a contenuto patrimoniale, sicché quella disciplina costituisce altresì il paradigma della disciplina dei fenomeni negoziali. Non sarebbe però corretto dedurne una sicura ed immediata applicabilità, in via diretta o analogica, di quella disciplina ad ogni altro tipo di negozio, diverso dal contratto, essendo evidente, per esempio, che i negozi aventi carattere non patrimoniale, come il matrimonio e in generale gli atti relativi a rapporti di diritto familiare, presentano profili eterogenei rispetto alla logica della disciplina del contratto, il quale attiene a rapporti di carattere patrimoniale. Dunque la possibilità di fare riferimento, nell’ambito dei negozi diversi dal contratto, alla disciplina di quest’ultimo deve essere vagliata caso per caso. Benché il negozio giuridico non costituisca una figura normativa, essa ha un ruolo centrale nella storia della cultura giuridica e [§ 99] Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico 209 mantiene anche oggi rilevanza come strumento concettuale utilizzato dagli interpreti; pertanto è senz’altro utile illustrare le classificazioni dei negozi giuridici tradizionalmente operate. § 99. Classificazioni dei negozi giuridici: a) in relazione alla struttura soggettiva. Se il negozio giuridico è perfezionato con la dichiarazione di una Negozio sola parte si dice unilaterale (per es. il testamento, o l’atto costitutivo unilaterale di una fondazione). Non si deve peraltro confondere la nozione di parte con quella di individuo: per parte s’intende un « centro d’interessi ». Perciò si può avere una parte composta da una pluralità di persone (parte « soggettivamente complessa »). È, per es., unilaterale il negozio con il quale più persone conferiscono tutte insieme una procura a vendere un bene di cui siano comproprietarie. Se le dichiarazioni di volontà sono dirette a formare la volontà Atto di un organo pluripersonale di una persona giuridica o di una collet- collegiale tività organizzata di individui (es.: deliberazione dell’assemblea di una società per azioni e di un condomino), si ha l’atto collegiale. Nell’atto collegiale si applica il principio di maggioranza: la deliberazione è valida ed efficace anche se è approvata dalla maggioranza e non da tutti coloro che hanno diritto di partecipare alla formazione della volontà della persona giuridica. Dalle figure finora esaminate si distingue quella dell’atto com- Atto plesso. Anche l’atto complesso consta di più volontà tendenti ad un complesso fine comune, ma, a differenza di quanto avviene nell’atto collegiale, queste volontà si fondono in modo da formarne una sola. Per esempio la dichiarazione dell’inabilitato e del suo curatore. Il valore pratico della distinzione è il seguente: quando le dichiarazioni si fondono in una sola, il vizio di una di esse inficia senza rimedio la dichiarazione complessa (per esempio se il curatore di un inabilitato è stato costretto da violenza a consentire all’alienazione di un bene di quest’ultimo, il vizio si riflette interamente sulla validità della dichiarazione della « parte » venditrice — ossia l’inabilitato assistito dal curatore — non potendo attribuirsi autonoma valenza alla dichiarazione del solo inabilitato). Invece, se la dichiarazione di voto di un partecipante ad un’assemblea è viziata, ciò non travolge automaticamente la deliberazione collegiale: si deve vedere se il voto invalido era determinante ai fini della formazione della maggioranza; qualora la maggioranza sussista ugualmente la deliberazione dell’organo collegiale rimane valida (c.d. prova di resistenza). L’attività giuridica 210 [§ 100] I negozi giuridici unilaterali si distinguono in recettizi, se, per produrre effetto, la dichiarazione negoziale deve pervenire a conoscenza di una determinata persona, alla quale, pertanto, deve essere comunicata o notificata (art. 1334 c.c.: per es. la disdetta, la proposta di concludere un contratto); e non recettizi, se producono effetto indipendentemente dalla comunicazione ad uno specifico destinatario (ad es., riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio, accettazione di un’eredità). Negozio Si distinguono, sotto il profilo della disciplina, negozi unilaterali, bilaterale e bilaterali o plurilaterali. plurilaterale Il negozio plurilaterale presuppone la partecipazione di (almeno) tre parti, ciascuna delle quali si rende portatrice di un’autonoma posizione di interesse (es.: contratto di società; divisione di una comunione), e non deve essere confuso con il caso, già considerato, in cui una delle parti di un contratto bilaterale abbia struttura plurisoggettiva: per esempio se due coniugi acquistano insieme un appartamento da destinare ad abitazione comune, il contratto di compravendita rimane comunque bilaterale, pur essendo la parte acquirente composta da due soggetti. Negozi recettizi § 100. Classificazioni dei negozi giuridici: b) in relazione alla funzione. Ulteriori distinzioni del negozio giuridico si ricollegano alla sua funzione (o causa) (§§ 305 ss.). Si distinguono così i negozi mortis causa (il testamento), i cui Negozi mortis causa effetti presuppongono la morte di una persona, dai negozi inter vivos e inter vivos (per es., vendita ecc.). Secondo che si riferiscano ad interessi economici o meno si Negozi patrimoniali distinguono i negozi patrimoniali o a contenuto patrimoniale (il contratto è appunto definito dall’art. 1321 c.c. come negozio che incide su un rapporto giuridico patrimoniale tra le parti) dai negozi apatrimoniali (es.: i negozi di diritto familiare o in generale i negozi personali). Nell’ambito dei negozi patrimoniali si collocano i negozi di attribuzione patrimoniale, che tendono ad uno spostamento di diritti patrimoniali da un soggetto ad un altro (es. vendita, donazione). I negozi di attribuzione patrimoniale si distinguono in negozi di disposizione, che importano un’immediata diminuzione del patrimonio mediante alienazione (§ 40), o mediante rinunzia, e negozi di obbligazione, che danno luogo soltanto alla nascita di un’obbligazione, ancorché possa essere diretta al trasferimento di un diritto (per Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico [§ 101] 211 es., vendita di cosa altrui, nella quale il venditore si obbliga ad acquistare la cosa dal proprietario, in guisa che il compratore possa, di conseguenza, diventarne a sua volta automaticamente proprietario: art. 1478, comma 2, c.c.). I negozi di disposizione si distinguono in negozi traslativi (se attuano il trasferimento del diritto a favore di altri), traslativocostitutivi (se costituiscono un diritto reale limitato su di un bene del disponente), e abdicativi. Possono però anche darsi negozi che si propongono soltanto di Negozi di eliminare controversie e dubbi sulla situazione giuridica esistente: accertamento sono i negozi di accertamento. Questa figura ha dato luogo a molte discussioni. La sua ammissibilità è stata, soprattutto in passato, contestata da una parte della dottrina, la quale riteneva che la funzione di accertamento di situazioni giuridiche dovrebbe considerarsi prerogativa degli organi giudiziari, sicché i privati non avrebbero alcun potere di « accertare » la situazione di diritto. Tuttavia simili resistenze sono superate ed ora si ammette che le parti possano validamente chiarire, con un atto di autonomia negoziale, una situazione giuridica incerta (con la conseguenza che, per il futuro, esse si atterranno nei rapporti tra loro alla situazione giuridica convenzionalmente accertata). Si è d’accordo nel ritenere che il negozio di accertamento ha effetto retroattivo: lo stato d’incertezza viene eliminato ab origine, come se non fosse mai esistito. Un caso particolare è quello della divisione della comunione (che, secondo un’autorevole opinione, rientra nella categoria esaminata), il cui effetto retroattivo (o dichiarativo) è scolpito dall’art. 757 c.c. § 101. Negozi a titolo gratuito e negozi a titolo oneroso. I negozi patrimoniali si possono distinguere in negozi a titolo gratuito e negozi a titolo oneroso. Il codice non definisce le nozioni di gratuità ed onerosità: vi è tuttavia accordo in dottrina per qualificare un negozio « a titolo oneroso » quando un soggetto, per acquistare qualsiasi tipo di diritto, beneficio o vantaggio, accetta un correlativo sacrificio, mentre si dice « a titolo gratuito » il negozio per effetto del quale un soggetto acquisisce un vantaggio senza alcun correlativo sacrificio. Di alcuni negozi la legge presume la gratuità (es.: il deposito; art. 1767 c.c.), di altri presume l’onerosità (es.: il mutuo e il mandato; artt. 1815 e 1709 c.c.) Taluni contratti, poi, sono essenzialmente 212 L’attività giuridica [§ 102] gratuiti, come la donazione (art. 769 c.c.) o il comodato (art. 1803, comma 2, c.c.): la previsione di un corrispettivo snaturerebbe il contratto. In genere l’acquirente a titolo gratuito è protetto meno intensamente dell’acquirente a titolo oneroso: ad es. il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi (artt. 1490-1496), mentre il donante, se non è in dolo, non risponde dei vizi della cosa donata (art. 798); l’acquirente a titolo oneroso, purché sia in buona fede, non è pregiudicato dall’annullamento dell’atto d’acquisto del suo dante causa (art. 1445) o dalla revoca di quell’atto (art. 2901), mentre l’acquirente a titolo gratuito non ha eguale protezione, quand’anche sia in buona fede. In tema d’interpretazione del contratto il legislatore stabilisce che, in caso di dubbi, il contratto deve essere inteso, se è a titolo gratuito, « nel senso meno gravoso per l’obbligato » (art. 1371). La gratuità non coincide con la liberalità, che rappresenta la Gratuità e liberalità causa della donazione e si connota per l’intento di arricchire il beneficiario di un’attribuzione patrimoniale (donatario); la gratuità è categoria più ampia, perché comprende tutti i casi di attribuzioni patrimoniali o di prestazioni a fronte delle quali non si ponga una specifica controprestazione da parte del destinatario, che però possono essere sorrette da un intento non liberale del disponente (per es.: un imprenditore organizza un servizio gratuito di trasporto dei propri dipendenti, o dei potenziali clienti per consentire loro di accedere ai locali commerciali). Della figura del negozio misto di gratuità ed onerosità (negotium mixtum cum donatione) si parlerà a proposito della donazione (v. § 675). § 102. La rinunzia La rinunzia. Negozio abdicativo è la rinunzia, che è la dichiarazione unilaterale del titolare di un diritto soggettivo, diretta a dismettere il diritto stesso senza trasferirlo ad altri. Non si esclude che altri possa avvantaggiarsi della rinunzia, ma questo vantaggio può derivare solo occasionalmente e indirettamente dalla perdita del diritto da parte del suo titolare. La rinunzia, per es., al diritto di usufrutto importa la consolidazione dell’usufrutto con la nuda proprietà (art. 1014 c.c.), per effetto della quale il potere di godere la cosa ritorna al proprietario; tuttavia tale conseguenza non costituisce effetto diretto della rinunzia, che in sé e per sé produce soltanto l’estinzione del diritto di [§ 103] Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico 213 usufrutto: essa, invece, deriva dal principio della elasticità del dominio, in virtù del quale la proprietà, prima compressa, riprende automaticamente la sua espansione originaria, non appena il diritto che la limitava viene meno. Ciò spiega come la rinuncia, pur avvantaggiando indirettamente il nudo proprietario, non debba farsi con la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione (art. 782 c.c.). Lo stesso discorso vale per la rinuncia ad un credito (c.d. « remissione del debito », art. 1236 c.c.). S’intende che non ricorre la figura della rinunzia se la dismissione del diritto è fatta verso un corrispettivo. Manca, invero, in quest’ipotesi l’elemento della unilateralità, caratteristico — come abbiamo visto — della rinunzia (da segnalare che, in materia successoria, l’art. 478 stabilisce che la rinuncia ad un’eredità compiuta verso corrispettivo determina, in realtà, l’accettazione dell’eredità stessa). Secondo un orientamento, la rinunzia va tenuta distinta dal Il rifiuto rifiuto, il quale si caratterizza per il fatto che o il diritto non è ancora presente nella sfera del dichiarante, e dunque in realtà il soggetto impedisce che vi faccia ingresso (rifiuto impeditivo); oppure il diritto dismesso, pur presente nella sfera del dichiarante, non è ancora pienamente stabile, ossia è suscettibile di essere rimosso con effetto retroattivo (rifiuto eliminativo). Così, il soggetto chiamato a divenire erede, che rinunci all’eredità, in realtà impedisce un acquisto al proprio patrimonio: infatti, i beni ereditari non sono mai stati nella titolarità del chiamato, avendo quest’ultimo soltanto il diritto di accettare o meno l’eredità. Nel caso invece in cui un soggetto sia beneficiato dal testatore con un legato, l’acquisto della titolarità del bene legato è immediato (non è richiesta accettazione); e tuttavia il beneficiato può eliminare retroattivamente tale bene dalla propria sfera giuridica con la rinuncia al legato. § 103. Elementi del negozio giuridico. Gli elementi o requisiti del negozio giuridico si distinguono in elementi essenziali, senza i quali il negozio è nullo (essentialia negotii), ed elementi accidentali (accidentalia negotii), che le parti sono libere di apporre o meno. In relazione al contratto, gli elementi essenziali sono elencati Elementi dall’art. 1325 c.c., che li definisce « requisiti »; la mancanza o il vizio essenziali dei requisiti del contratto ne comporta la nullità (art. 1418 c.c.). Gli elementi essenziali si dicono generali, se si riferiscono ad ogni tipo di 214 L’attività giuridica [§ 104] contratto (tali la volontà, la dichiarazione, la causa); particolari, se si riferiscono a quel particolare tipo considerato. Così, elemento essenziale particolare della vendita è il prezzo. Una parte della dottrina distingue dagli elementi essenziali i presupposti del negozio, che sono circostanze estrinseche al negozio, indispensabili perché il negozio sia valido. Tali sono per esempio la capacità della persona che pone in essere il negozio e la sua legittimazione a disporre del rapporto che forma oggetto del negozio. Elementi accidentali sono la condizione, il termine, il modo: non Elementi accidentali appartengono alla struttura necessari del negozio, ai fini della sua validità, ma se vengono apposti, essi incidono sull’efficacia del negozio (§§ 320 ss.). La dottrina meno recente soleva aggiungere un’altra categoria Elementi naturali di elementi: i cosiddetti elementi naturali (naturalia negotii). In realtà si tratta di effetti naturali del negozio, ossia di effetti che la legge considera connaturati al negozio posto in essere dalle parti stesse: essi si producono senza bisogno di previsione delle parti, in forza della disciplina legislativa che è stabilita per il tipo di negozio prescelto, salva contraria volontà manifestata dalle parti. Così, l’ordinamento giuridico ritiene che chi acquista un bene mediante corrispettivo intende essere garantito nell’ipotesi che il bene stesso non risulti di proprietà del venditore, ma di altra persona. Perciò, anche se il contratto di vendita non contiene alcuna clausola in proposito, il venditore è sempre tenuto alla garanzia di cui si parla (garanzia per evizione: art. 1476, n. 3, c.c.; v. infra § 371). L’ordinamento giuridico non impone, peraltro, inderogabilmente questa garanzia: libere le parti di regolare i propri interessi, e quindi libero il compratore di acquistare a suo rischio e pericolo (art. 1487 c.c.). Perciò, purché non si sorpassino i limiti che a suo tempo esamineremo, le parti possono anche escludere la garanzia per evizione e, in genere, gli effetti naturali del contratto (si tratta dunque di norme dispositive, § 11). § 104. La dichiarazione. La volontà del soggetto diretta a produrre effetti giuridici dev’essere dichiarata, esternata: deve uscire dalla sfera del soggetto, perché gli altri possano percepirla e averne conoscenza. I modi con cui questa estrinsecazione della volontà avviene corrispondono in sostanza a quelli con cui nella vita di relazione rendiamo noti ad altri le nostre intenzioni o il nostro pensiero. Non è, pertanto, difficile [§ 104] Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico 215 rendersi conto delle distinzioni, correnti nella scienza giuridica, con cui si classificano le modalità di manifestazione della volontà. A seconda dei modi con cui la dichiarazione avviene, essa si Dichiarazione e distingue, dunque, in dichiarazione espressa (se fatta con parole, espressa tacita cenni, alfabeto Morse, linguaggio dei segni, segnali di bandiere tra navi, insomma con qualsiasi mezzo idoneo a far palese ad altri il nostro pensiero) e dichiarazione tacita (consistente in un comportamento che, secondo il comune modo di pensare e di agire, risulti incompatibile con la volontà contraria), detta anche perciò dichiarazione indiretta o comportamento concludente. Così, se, senza parlare, restituisco al mio debitore il titolo originale del credito, manifesto tacitamente la volontà di liberarlo (art. 1237 c.c.); se, essendo caduto in prescrizione un debito, chiedo una dilazione per poter pagare, rinunzio tacitamente alla prescrizione (art. 2937 c.c.). In alcuni casi l’ordinamento giuridico, per evitare incertezze, non si accontenta di una manifestazione tacita dell’intento, ma richiede la dichiarazione espressa della volontà della parte (per es.: prestazione di una fideiussione, art. 1937 c.c.). Vecchia questione è se il silenzio possa valere come dichiara- Il silenzio zione tacita di volontà. La dottrina prevalente e la stessa giurisprudenza negano valore al detto volgare « chi tace acconsente ». Il silenzio può avere valore di dichiarazione tacita di volontà soltanto in concorso di determinate circostanze, che conferiscano al semplice silenzio un preciso valore espressivo: ciò avviene se la parte aveva l’onere, per legge, per consuetudine o per contratto, di formulare una dichiarazione; oppure se, in base alle regole della correttezza e della buona fede, il silenzio, dati i rapporti tra le parti, ha il valore di consenso (v. Cass. 4 dicembre 2007 n. 25290). È il caso regolato dall’art. 1712, comma 2, c.c.: il silenzio del mandante, al quale sia stata comunicata l’esecuzione del mandato, implica approvazione dell’operato del mandatario, anche se questi si è discostato dalle istruzioni ricevute. Quest’indirizzo si riassume, in sostanza, nell’adagio: qui tacet consentire videtur, si loqui debuisset ac potuisset. Per esempio, se un libraio manda da tempo ad un cliente le nuove pubblicazioni e il cliente ha l’abitudine di comperare le copie non restituite entro un certo termine, la mancata restituzione del libro ne importa l’acquisto (e l’obbligo d pagare il prezzo). Se, invece, un editore, con il quale non ho nessun rapporto, mi manda un periodico, anche se vi aggiunge l’avvertenza che chi non restituisce la copia sarà considerato abbonato, la mancata restituzione non potrà significare accettazione della proposta di abbonamento. 216 L’attività giuridica [§ 105] L’evoluzione degli strumenti di comunicazione ha posto nuovi problemi ai giuristi, in particolare con riferimento alla rilevanza giuridica delle manifestazioni di volontà negoziale trasmesse attraverso le nuove tecnologie, come il telefax e, più di recente, la comunicazione telematica. Di questi argomenti si tratterà, più diffusamente, illustrando la disciplina della forma del contratto (§ 286). Altra questione attiene alla rilevanza del silenzio della P.A. di fronte a specifiche istanze o sollecitazioni del privato; in questo caso le conseguenze sono regolate dalle norme di settore, che attribuiscono volta a volta effetti determinati all’inerzia dell’Autorità: silenziorifiuto, silenzio-assenso, silenzio-inadempimento. § 105. La forma. Come si è già accennato, qualsiasi volizione del soggetto deve essere esternata e, in linea di principio, ciascuno sceglie le modalità di manifestazione delle proprie volontà come meglio preferisce. Vale a dire che l’ordinamento, di regola, non impone rigidi formalismi per riconoscere effetti giuridici agli atti dei privati (c.d. principio della « libertà della forma »). Peraltro talvolta il legislatore avverte la necessità di prescrivere che un determinato atto sia compiuto secondo determinate forme solenni. Le prescrizioni di forma trovano giustificazione in varie esigenze: di certezza, di conoscibilità, di ponderazione dell’atto. La forma può essere prescritta in considerazione del tipo di atto: si pensi al matrimonio (v. infra, § 582), del quale la legge regola le particolari modalità di celebrazione (art. 106 c.c.), o agli atti di diritto successorio (testamento, accettazione e rinunzia all’eredità) (v. infra §§ 652 ss.). Nel caso del contratto non esiste un regime formale generale e uniforme, in quanto specifici vincoli di forma risultano imposti in relazione all’oggetto del contratto (per gli atti relativi a diritti reali su beni immobili si richiede la forma scritta), ovvero in relazione al tipo di contratto (il contratto di donazione deve essere perfezionato, se non abbia ad oggetto una prestazione « di modico valore », mediante atto pubblico e alla presenza di due testimoni), o ai connotati di una certa categoria di contratti (per esempio i contratti relativi alle operazioni e ai servizi delle banche e quelli relativi alla prestazione di servizi di investimento — definizioni che comprendono ciascuna plurime figure contrattuali — devono essere stipulati per iscritto: v. [§ 106] Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico 217 art. 117 D.Lgs. 1o settembre 1993, n. 385; art. 23 D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58). In questi casi — definiti a forma « vincolata » — si dice che la Forma ad forma è richiesta ad substantiam actus, in quanto l’atto compiuto in substantiam forma diversa da quella legale è invalido (nullo). In altre ipotesi il requisito di forma è richiesto solo a fini Forma ad processuali, in quanto l’atto, in caso di divergenza tra le parti circa la probationem sua effettiva stipulazione, può essere provato soltanto mediante l’esibizione in giudizio del relativo documento (forma ad probationem tantum); per l’approfondimento della nozione si fa rinvio alla trattazione in tema di prova (v. § 127). Dal caso in cui un requisito di forma di un atto sia imposto dalla Forme legge va tenuto distinto quello in cui un requisito di forma sia invece convenzionali imposto dagli stessi privati (c.d. formalismo convenzionale: art. 1352 c.c.), come ad esempio avviene allorché in un contratto si inserisce una clausola (particolarmente frequente) secondo cui ogni eventuale dichiarazione di disdetta o recesso (ovvero, più ampiamente, ogni eventuale dichiarazione relativa alla fase di esecuzione del contratto o volta a modificare successivamente il regolamento contrattuale) non potrà avere effetto alcuno se non in quanto sia comunicata per iscritto, oppure addirittura, più specificamente, se non in quanto sia comunicata con determinate modalità (ad es. mediante lettera raccomandata). § 106. Il bollo e la registrazione. Non sono requisiti di forma né il bollo né la registrazione di un atto. Per molti negozi lo Stato, per ragioni fiscali, impone la « bollatura » degli atti: acquistando le marche da bollo, e applicandole sulla carta utilizzata per la redazione delle scritture, le parti versano all’Erario l’importo dei valori bollati acquistati. L’inosservanza delle prescrizioni in materia di bollo non dà luogo, tuttavia, alla nullità del negozio, ma ad una sanzione pecuniaria. Solo la cambiale e l’assegno bancario, se non sono stati regolarmente bollati al momento dell’emissione, pur essendo validi a tutti gli altri effetti, non hanno efficacia di titolo esecutivo. Anche la registrazione, che consiste nel deposito del documento presso l’ufficio del registro, serve prevalentemente a scopi fiscali, in quanto le parti devono pagare un’imposta, di regola proporzionale al valore economico dell’affare risultante dal negozio sottoposto a regi- L’attività giuridica 218 [§ 107] strazione. La registrazione, peraltro, ha importanza anche nell’ottica del diritto privato, in quanto costituisce strumento per render « certa », mediante l’attestazione dell’ufficio stesso sul documento, la data di una scrittura privata di fronte ai terzi (art. 2704 c.c., v. infra, § 125). § 107. La pubblicità: fini e natura. Le vicende giuridiche non interessano soltanto le parti che ne sono direttamente coinvolte, ma anche i terzi, i quali possono avere interesse a conoscere determinati atti e situazioni giuridiche vicende per regolare, in base a tali informazioni, il loro comportamento. In molti casi, pertanto, la legge impone l’iscrizione dell’atto in registri tenuti dalla pubblica amministrazione, che chiunque può consultare, o in giornali ufficiali, bollettini, ecc. La pubblicità serve a dare ai terzi la possibilità di conoscere l’esistenza ed il contenuto di un negozio giuridico, o, anche, lo stato delle persone fisiche (§ 42) e le vicende delle persone giuridiche (§ 69). Ci limiteremo qui a pochi cenni di carattere generale sulla pubblicità, riservandoci di integrare le nozioni, che ora esporremo, allorché tratteremo nella parte speciale delle varie figure di pubblicità. La pubblicità non si confonde con la dichiarazione negoziale: essa, invece, presuppone la dichiarazione negoziale e costituisce soltanto un mezzo perché il negozio (o in generale un altro atto giuridicamente rilevante: per esempio una sentenza) possa essere conosciuto dai terzi. Tipi di Si distinguono tre tipi di pubblicità. pubblicità A) La pubblicità-notizia. Assolve semplicemente la funzione di rendere conoscibile un atto, del quale il legislatore ritiene appunto opportuno sia data notorietà. L’omissione di tale formalità dà luogo ad una sanzione pecuniaria, ma è irrilevante per la validità e l’efficacia dell’atto, il quale rimane operante tra le parti ed anche opponibile ai terzi indipendentemente dalla mancata attuazione dello strumento pubblicitario. La pubblicità-notizia costituisce, pertanto, contenuto di un obbligo, non di un onere. Esempio di pubblicitànotizia è la pubblicazione matrimoniale (art. 93 c.c.) che serve a rendere noto l’imminente matrimonio, onde consentire a chi sia a ciò legittimato di proporre eventuale opposizione, facendo valere eventuali ragioni ostative alla celebrazione. L’attuazione della pubblicità non influisce in alcun modo sulla validità ed efficacia dell’atto; è prevista, infatti, soltanto una sanzione amministrativa pecuniaria La pubblicità dei fatti giuridici [§ 107] Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico 219 per gli sposi e l’ufficiale dello stato civile che abbiano celebrato il matrimonio senza che la celebrazione sia stata preceduta dalla prescritta pubblicazione, ma il matrimonio è indubbiamente valido (art. 134 c.c.). B) La pubblicità dichiarativa. Serve a rendere opponibile il negozio ai terzi (come si vedrà meglio in tema di efficacia della trascrizione nei registri immobiliari e dell’iscrizione nel registro delle imprese). L’omissione della pubblicità dichiarativa non determina l’invalidità dell’atto, che produce egualmente i suoi effetti tra le parti del negozio. È rispetto ai terzi che gioca la mancata attuazione di questa figura di pubblicità. Si immagini che Primus abbia venduto lo stesso immobile (rectius: il diritto di proprietà sull’immobile) prima a Secundus e poi a Tertius, ma che quest’ultimo trascriva per primo il suo titolo di acquisto nei registri immobiliari. Il conflitto tra Secundus e Tertius sarà risolto a favore di quest’ultimo, nonostante che Tertius abbia acquistato dopo Secundus (art. 2644 c.c.): e ciò perché la vendita da Primus a Secundus, non essendo stata trascritta, non è opponibile a Tertius (cfr. infra § 682), il cui acquisto, pertanto, non risente degli effetti della precedente vendita a Secundus. Ciò non toglie, tuttavia, che la vendita da Primus a Secundus, pur non essendo stata trascritta, è in sé valida ed efficace, tanto è vero che Secundus, ove rimanga soccombente di fronte a Tertius, potrà pretendere da Primus, che con la seconda vendita lo ha danneggiato, sia la restituzione del prezzo eventualmente già pagato, sia il risarcimento dei danni subiti. Inoltre, se il contratto stipulato da Tertius venisse in seguito dichiarato nullo, annullato o risolto, l’acquisto di Secundus risulterebbe pienamente efficace ed opponibile erga omnes. C) La pubblicità costitutiva. In questo tipo la pubblicità è elemento costitutivo della fattispecie: senza la pubblicità il negozio non soltanto non si può opporre ai terzi, ma non produce effetti nemmeno tra le parti. Esempio tipico di pubblicità costitutiva è la pubblicità ipotecaria: l’ipoteca, infatti, come dispone l’art. 2808, comma 2, c.c., viene ad esistenza mediante l’iscrizione nei registri immobiliari (v. § 250). Altro esempio è offerto dall’acquisto della personalità giuridica della società per azioni (art. 2331 c.c.): la società acquista la personalità giuridica con l’iscrizione nel registro delle imprese (v. § 491). CAPITOLO X L’INFLUENZA DEL TEMPO SULLE VICENDE GIURIDICHE A) NOZIONI GENERALI § 108. Computo del tempo. Il tempo — che è un fattore così importante nelle vicende umane — è preso in considerazione dall’ordinamento giuridico sotto vari aspetti. Assai spesso le attività giuridiche si devono compiere entro Calcolo dei termini periodi di tempo determinati. Da qui la necessità di regole che stabiliscano come i termini devono essere calcolati. Naturalmente ci si avvale del calendario comune (calendario gregoriano). Ciò non basta, tuttavia, per eliminare le incertezze e dettare principi sicuri, uguali per tutti e in tutti i casi (se, ad es., è fissato un termine di cinque giorni da oggi per il compimento di un atto giuridico, la giornata di oggi deve essere compresa nel calcolo oppure no?). Soccorre, in proposito, l’art. 2963 c.c. Secondo tale disposizione: a) non si conta il giorno iniziale: dies a quo non computatur in termino (v. Cass. 26 maggio 2017, n. 13406); b) si computa quello finale: dies ad quem computatur in termino; c) il termine scadente il giorno festivo è prorogato al giorno seguente non festivo; d) se il termine è a mese o ad anno, si segue il criterio ex nominatione e non ex numeratione dierum: il termine scade, cioè, nel giorno corrispondente a quello del mese iniziale (così, ad es., un termine di un mese a decorrere dal 2 ottobre scade il 2 novembre e non il 1o novembre, come sarebbe se si calcolassero trenta giorni dal 2 ottobre; v. Cass. 26 maggio 2017, n. 13406; Cass. 31 agosto 2015, n. 17313); e) se nel mese di scadenza manca il giorno corrispondente, il termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese (così, ad es., Il tempo [§ 110] L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche 221 il termine di un mese che abbia inizio il 31 gennaio scade il 28 febbraio, se l’anno non è bisestile). § 109. Influenza del tempo sull’acquisto e sull’estinzione dei diritti soggettivi. Il decorso di un determinato periodo di tempo, nel concorso di Acquisto o di altri presupposti, può dar luogo all’acquisto ovvero all’estinzione di un estinzione diritti per il diritto soggettivo: ciò in quanto, se una situazione di fatto si protrae decorrere del a lungo nel tempo, l’ordinamento tende a far coincidere la situazione tempo di diritto con quella di fatto. Il tempo costituisce, in queste ipotesi, presupposto di alcune Usucapione, e fattispecie fondamentali nel diritto privato, che, pur presentando prescrizione decadenza questo carattere comune, sono ben distinte tra loro. Se il decorso del tempo serve a far acquistare un diritto soggettivo, l’istituto che viene in considerazione è quello dell’« usucapione » o, come anche si dice, della « prescrizione acquisitiva »; invece, l’estinzione del diritto soggettivo per decorso del tempo forma oggetto di due altri istituti, che pur si distinguono tra loro: la « prescrizione estintiva » e la « decadenza ». Dell’usucapione — che è modo di acquisto soltanto dei diritti reali (e non di tutti, come vedremo) — ci occuperemo a suo luogo (v. § 184). Qui soffermeremo l’attenzione sulla prescrizione estintiva e sulla decadenza, che hanno carattere generale. B) LA PRESCRIZIONE ESTINTIVA § 110. Nozione e fondamento. La « prescrizione estintiva » produce l’estinzione del diritto sog- L’inerzia gettivo per effetto dell’inerzia del titolare del diritto stesso, che non lo esercita (art. 2934 c.c.) o non ne usa (artt. 954, ult. comma, 970, 1014, 1073 c.c.) per un arco di tempo determinato dalla legge. La ragione per cui l’ordinamento giuridico riconnette all’inerzia Fondamento del titolare, protratta nel tempo, l’estinzione del diritto soggettivo dell’istituto consiste nell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici. Invero, il fatto che un diritto soggettivo non venga esercitato induce nella generalità delle persone la convinzione che esso non esista o sia stato abbandonato. D’altro canto, sorgendo contestazioni, riesce difficile, quando L’attività giuridica 222 [§ 111] sia decorso un notevole lasso di tempo, la dimostrazione della nascita e correlativamente dell’estinzione di un rapporto giuridico: chi conserva più, a distanza di tempo, le ricevute per provare che un pagamento è stato effettuato? § 111. Operatività della prescrizione. Essendo — come abbiamo visto — stabilita per ragioni d’interesse generale, la prescrizione estintiva è un istituto di ordine pubblico: quindi, le norme che stabiliscono l’estinzione del diritto ed il tempo necessario perché ciò si verifichi sono inderogabili (art. 2936 c.c.). Di conseguenza, le parti non possono rinunziare preventivaRinuncia preventiva mente alla prescrizione (art. 2937, comma 2, c.c.), né prolungare o abbreviare i termini stabiliti dalla legge (art. 2936 c.c.). Si rifletta, del resto, che — se fosse consentito alle parti di rinunziare preventivamente alla prescrizione — una tale rinunzia diverrebbe una clausola di stile: verrebbe, cioè, apposta in tutti i contratti; e le disposizioni sulla prescrizione rimarrebbero, almeno per i diritti derivanti da fonte contrattuale, lettera morta. Per analoghe ragioni non è consentita nemmeno la rinuncia ... in pendenza del fatta mentre il termine prescrizionale è in corso (art. 2937, comma 2, termine c.c.): essa, tuttavia, vale come riconoscimento del diritto soggetto a prescrizione e produce — come vedremo tra poco — l’interruzione della prescrizione, ossia l’irrilevanza del tempo prescrizionale decorso fino a quel momento. Diversa è, invece, la rilevanza della rinunzia successiva al de... successiva corso del termine di prescrizione. Una volta verificatasi — con il decorso del termine previsto — la prescrizione, è ormai interesse esclusivo del soggetto che ne risulta avvantaggiato farla valere o meno. Si aggiunga che il servirsi della prescrizione estintiva non sempre può risultare conforme all’etica: in certi casi la prescrizione può apparire, dal punto di vista morale, un impium remedium (ad es., se il compratore ha ricevuto a suo tempo della merce, egli ricava un profitto non giustificato sotto l’aspetto morale, se si avvale della prescrizione del credito relativo al pagamento del prezzo). Perciò la legge si rimette alla valutazione dell’interessato: l’art. 2937, comma 2, c.c. consente la rinuncia successiva alla prescrizione; la rinuncia effettuata, cioè, dopo che la prescrizione si è compiuta. Peraltro, l’intervenuta rinuncia può essere rilevata d’ufficio dal giudice, se risultante dagli atti di causa (v. Cass. 25 novembre 2015, n. 24113). Inderogabilità della disciplina [§ 112] L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche 223 Come ogni manifestazione di volontà, la rinunzia alla prescri- ... espressa o zione può essere tanto espressa quanto tacita: è « tacita » se risulta da tacita un fatto (per es., il riconoscimento inequivocabile del credito, la richiesta di una dilazione di pagamento, ecc.) incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione (art. 2937, comma 3, c.c.; v. Cass. 19 maggio 2014, n. 10955; Cass. 1 agosto 2013, n. 18425). Per la stessa ragione — e, cioè, perché è rimesso alla volontà Non dell’interessato avvalersi o meno della prescrizione già compiuta — il rilevabilità d’ufficio giudice non può rilevarla d’ufficio: la prescrizione deve essere eccepita dalla parte che vi ha interesse (art. 2938 c.c.; v. Cass. 18 giugno 2018, n. 15991). Peraltro — in base al principio generale secondo cui i creditori Rilevabilità via possono esercitare i diritti spettanti al proprio debitore (c.d. « azione in surrogatoria surrogatoria »: art. 2900 c.c.; v. § 259) — i creditori possono sostituirsi all’interessato e far valere la prescrizione, anche se la parte vi abbia rinunziato (art. 2939 c.c.). Sempre in virtù del principio per cui la prescrizione non opera Pagamento debito automaticamente, ma solo in quanto opposta, il debitore che, dopo il del prescritto maturarsi della prescrizione, abbia pagato spontaneamente — senza, cioè, esservi costretto per effetto di domanda giudiziale — non può farsi restituire quanto versato, senza che rilevi se sapeva o meno che il debito era prescritto (art. 2940 c.c.; v. Cass. 18 settembre 2014, n. 19654): si verifica qui — secondo la giurisprudenza e la prevalente dottrina — un’ipotesi di obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), figura della quale ci occuperemo più ampiamente a suo tempo (v. § 191). § 112. Oggetto della prescrizione. La regola è che tutti i diritti sono soggetti a prescrizione estin- Ambito di tiva. applicazione Ne sono esclusi i diritti indisponibili, come quelli derivanti dagli Diritti imstatus personali (v. § 61; v. Cass. 28 marzo 2017, n. 7963, in tema di prescrittibili status di socio), i diritti della personalità (v. §§ 61 s.) — ma non le pretese risarcitorie derivanti dalla loro violazione — la responsabilità genitoriale (v. § 613), il diritto alla cittadinanza (v. § 57; v. Cass. 8 marzo 2017, n. 19428; Cass. 3 novembre 2016, n. 22271), ecc. (art. 2934, comma 2, c.c.): c.d. diritti imprescrittibili. Anche il diritto di proprietà non è soggetto a prescrizione estin- La proprietà tiva (art. 948, comma 3, c.c.), perché anche il non uso è espressione della libertà riconosciuta al proprietario: inoltre la prescrizione ha sempre come finalità il soddisfacimento di un interesse, laddove L’attività giuridica 224 [§ 113] l’estinzione del diritto di proprietà per non uso non avvantaggerebbe nessuno, facendo solo diventare nullius la res. Anche il proprietario, peraltro, può perdere il suo diritto qualora un terzo usucapisca la proprietà del bene (art. 948, comma 3, e artt. 1158 ss. c.c.; v. § 184). Sono inoltre imprescrittibili l’azione di disconoscimento della paternità, se promossa dal figlio (art. 244, comma 5, c.c.; v. § 607), l’azione di contestazione dello stato di figlio (art. 248, comma 2, c.c.; v. § 607), l’azione di reclamo dello stato di figlio (art. 249, comma 2, c.c.; v. § 607), l’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, se promossa dal figlio stesso (art. 263, comma 2, c.c.; v. § 608), l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, se promossa dal figlio stesso (art. 270, comma 1, c.c.; v. § 609), l’azione di petizione d’eredità (art. 533, comma 2, c.c.; v. § 636), l’azione per far dichiarare la nullità di un negozio giuridico (art. 1422 c.c.; v. § 342) e, in generale, le azioni di mero accertamento (§ 119; v. Cass. 19 marzo 2012, n. 4366). Non sono prescrittibili nemmeno le singole facoltà (o diritti Le facoltà facoltativi), che formano il contenuto di un diritto soggettivo (v. Cass. 15 aprile 2014, n. 8743). Esse si estinguono se ed in quanto si estingua il diritto soggettivo o il potere di cui costituiscono manifestazione (così, ad es., il proprietario non perde mai la facoltà di chiudere il proprio fondo: art. 841 c.c.): in facultativis non datur praescriptio. Prescrizione La vecchia questione se la prescrizione estingua il diritto o del diritto e l’azione — che, come vedremo, si distingue dal diritto soggettivo prescrizione dell’azione sostanziale (v. § 119) — è stata risolta testualmente dal legislatore nel primo senso: l’art. 2934 c.c. dice, infatti, che « ogni diritto si estingue per prescrizione ». Peraltro sono soggette a prescrizione pure talune azioni giudiziali (v. art. 1442 c.c.: prescrizione dell’azione di annullamento; art. 1449 c.c.: prescrizione dell’azione di rescissione; art. 1495, comma 3, c.c.: prescrizione dell’azione per far valere i vizi del bene acquistato; ecc.). § 113. Il dies a quo Inizio della prescrizione. Come abbiamo premesso, presupposto della prescrizione estintiva è l’inerzia del titolare del diritto soggettivo. Poiché non si può parlare di inerzia quando il diritto non può essere fatto valere, la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto avrebbe potuto essere esercitato: actio nondum nata non praescribitur (art. 2935 c.c.). Così, ad es., se il diritto deriva da un contratto sottoposto [§ 114] L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche 225 a condizione sospensiva o a termine iniziale (v. §§ 321 e 325), la prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata o il termine è scaduto (perciò, se acquisto una casa in Roma a condizione — condizione che, come vedremo, si chiama sospensiva — che io venga trasferito entro un anno a Roma, il venditore non potrà agire per il pagamento del prezzo se non quando la condizione, cui è subordinata l’efficacia del contratto, si sia verificata; di conseguenza, la prescrizione del credito relativo al pagamento del prezzo comincerà a decorrere soltanto da tale momento: v. Cass. 25 gennaio 2018, n. 1947). Del pari, se il coniuge separato ha diritto ad un assegno mensile di mantenimento a carico dell’altro, il termine prescrizionale del suo credito decorrerà dalla scadenza di ciascuna singola rata di pagamento (v. Cass. 4 aprile 2014, n. 7981; v. anche Cass. 13 settembre 2018, n. 22362; Cass. 15 marzo 2018, n. 6386). L’impossibilità di esercitare il diritto, cui l’art. 2935 c.c. ricollega la non decorrenza del termine prescrizionale, è peraltro solo quella che deriva da cause giuridiche (nei nostri esempi, la pendenza della condizione sospensiva, la pendenza del termine di pagamento), e non comprende anche gli impedimenti soggettivi e gli ostacoli di mero fatto (ad es., l’ignoranza, da parte del titolare, dell’esistenza del suo diritto; la necessità di tempo per il suo accertamento; ecc.) (v. Cass. 11 settembre 2018, n. 22072; Cass. 19 luglio 2018, n. 19193). Sul problema dell’inizio del decorso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno extracontrattuale ci soffermeremo al successivo § 470. § 114. Sospensione ed interruzione della prescrizione. La prescrizione — come si è visto — presuppone l’inerzia ingiustificata del titolare del diritto: essa, quindi, non opera, allorché sopraggiunga una causa che giustifichi l’inerzia stessa (contra non valentem agere non currit praescriptio), così come nel caso in cui l’inerzia stessa venga meno. Entrano qui in gioco i due — distinti — istituti della « sospensione » e della « interruzione » della prescrizione. La « sospensione » è determinata: Sospensione: a) o da particolari rapporti intercorrenti fra le parti (art. 2941 cause c.c.): così, ad es., la prescrizione rimane sospesa tra i coniugi, se non legalmente separati (v., da ultimo, Cass. 4 ottobre 2018, n. 24160); tra le parti di un’unione civile (art. 1, comma 18, L. 20 maggio 2016, n. 76; v. § 622-bis); tra chi esercita la responsabilità genitoriale (ad es., 226 L’attività giuridica [§ 114] i genitori) e chi vi è sottoposto (ad es., il figlio minore) (v. § 613); tra tutore ed interdetto o minore (v. § 614); tra la società ed i suoi amministratori (v. Corte cost. 11 dicembre 2015, n. 262); b) o dalla condizione del titolare (art. 2942 c.c.): così, ad es., la prescrizione rimane sospesa nei confronti dei minori non emancipati e degli interdetti per infermità di mente, se privi di rappresentante legale (v. Cass. 8 maggio 2018, n. 11004); nei confronti dei militari in servizio attivo in tempo di guerra; ecc. (ma v. anche art. 2952, comma 4, c.c.; e, sul tema, v. Cass. 4 luglio 2018, n. 17543). Prescrizione Per quanto riguarda i crediti retributivi dei prestatori di lavoro, la dei crediti giurisprudenza ritiene che il decorso della prescrizione venga sospeso retributivi dei prestatori per tutta la durata del rapporto (v. Corte cost. 10 giugno 1966, n. 63), di lavoro quantomeno nell’ipotesi in cui la sua stabilità non sia presidiata dall’origine da « tutela reale » (v. § 502) (Corte cost. 20 novembre 1969, n. 143; Corte cost. 29 aprile 1971, n. 86; ecc.): e ciò, in quanto, in tale ultimo caso, l’inerzia del lavoratore ad azionare i propri diritti potrebbe essere determinata dal timore di un licenziamento (v. Cass. 25 luglio 2018, n. 19729; Cass. 7 giugno 2018, n. 14827). Impedimenti Le cause di sospensione della prescrizione indicate dalla legge di fatto sono tassative (v. Cass. 8 maggio 2018, n. 11004; Cass. 18 aprile 2018, n. 9589). Cosicché i semplici impedimenti di fatto (per es., uno sciopero che mi renda impossibile la notificazione di un atto di citazione) non valgono a sospendere il decorso della prescrizione. Del resto, quando l’impedimento assume carattere generale, intervengono — di regola — provvedimenti legislativi ad hoc. Interruzione: L’« interruzione » ha invece luogo: cause a) o perché il titolare (ad es., attraverso la notifica di una domanda giudiziale o arbitrale; v. Cass. 15 febbraio 2017, n. 4034) avvia un procedimento — non importa se giudiziale o arbitrale; se di cognizione o conservativo o esecutivo (v. § 119) — volto all’esercizio del proprio diritto (art. 2943 c.c.; v. Cass. 12 luglio 2018, n. 18485; Cass. 25 maggio 2018, n. 13070); con la precisazione che, in ipotesi di instaurazione di un giudizio di cognizione, l’interruzione della prescrizione perdura fino al passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce (v. Cass. 28 luglio 2015, n. 15839). Oggi, la prescrizione è altresì interrotta: (i) dall’avvio di una procedura di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili o commerciali (art. 5, comma 6, D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28; v. Cass., sez. un., 22 luglio 2013, n. 17781); (ii) dalla sottoscrizione (o anche solo dall’invito alla stipula) di una convenzione di negoziazione assistita (art. 8 D.L. 12 settembre 2014, n. 132); (iii) dalla domanda presentata per avviare una procedura di risoluzione extra- [§ 114] L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche 227 giudiziale delle controversie previste dagli artt. 141 ss. cod. cons. (art. 141-quinquies cod. cons.); b) o perché — quando si tratti di diritti di credito (e non, quindi, di diritti reali: v. Cass. 5 luglio 2013, n. 16861; o di diritti potestativi: v. Cass. 18 gennaio 2018, n. 1159) — il titolare pone in essere un qualsiasi atto stragiudiziale idoneo a costituire in mora il debitore (art. 2943, comma 4, c.c.; v. § 232; v. Cass. 26 ottobre 2018, n. 27218; Cass. 14 giugno 2018, n. 15714); c) o perché il soggetto passivo effettua il riconoscimento dell’altrui diritto (ad es., si riconosce debitore nei miei confronti, promettendo di pagarmi appena possibile) (art. 2944 c.c.; v. Cass. 15 giugno 2018, n. 15893); riconoscimento che può anche risultare da un semplice comportamento, purché univoco ed incompatibile con la volontà di negare il diritto stesso: c.d. riconoscimento tacito (v. Cass. 27 marzo 2017, n. 7820). L’interruzione e la sospensione della prescrizione — insegna la ... rilevabilità giurisprudenza (v. Cass. 7 giugno 2018, n. 14755) — possono essere d’ufficio rilevate d’ufficio dal giudice, sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti, senza necessità di domanda di parte. Il fondamento dei due istituti della sospensione e dell’interru- Fondamento zione è diverso: nella sospensione l’inerzia del titolare del diritto degli istituti continua a durare, ma è giustificata; nell’interruzione è l’inerzia stessa che viene meno, o perché il diritto è stato esercitato, o perché — e ciò, agli effetti giuridici, è equivalente — esso è stato riconosciuto dall’altra parte. Questa differenza si riverbera sugli effetti della sospensione e dell’interruzione, che sono ben diversi. La sospensione spiega i suoi effetti per tutto il periodo per il Effetti della quale gioca la causa giustificativa dell’inerzia (ad es., finché dura il sospensione matrimonio, senza che intervenga separazione legale), ma non toglie valore al periodo eventualmente trascorso in precedenza (nel nostro esempio, prima del matrimonio). Perciò essa può paragonarsi ad una parentesi. Nella sospensione il tempo anteriore al verificarsi della causa che la determina non perde la sua rilevanza, ma si somma con il periodo successivo alla cessazione dell’operatività dell’evento sospensivo. Invece l’interruzione, facendo venir meno l’inerzia, toglie ogni Effetti della valore al tempo anteriormente trascorso: dal verificarsi del fatto interruzione interruttivo, perciò, comincia a decorrere, per intero, un nuovo periodo di prescrizione (art. 2945 c.c.). L’attività giuridica 228 § 115. [§ 115] Durata della prescrizione. Rispetto alla durata, si distinguono la « prescrizione ordinaria » e le « prescrizioni brevi ». La prescrizione ordinaria trova applicazione in tutti i casi in cui Prescrizione ordinaria la legge non disponga diversamente: essa matura in dieci anni (art. 2946 c.c.). Un periodo più lungo — venti anni — è peraltro richiesto, in Prescrizione dei diritti armonia con il termine per l’usucapione (art. 1158 c.c.; v. § 184), per reali l’estinzione dei diritti reali su cosa altrui (artt. 954, 970, 1014, 1026, 1073 c.c.; v. §§ 144 ss.). Prescrizioni Termini più brevi — giustificati dalle peculiarità dei relativi casi brevi: — sono previsti per altre categorie di rapporti (artt. 2947 ss. c.c.). il diritto al Tra i casi più significativi vanno menzionati il diritto al risarrisarcimento cimento del danno conseguente ad un illecito extracontrattuale (v. §§ dei danni extracon- 454 ss.), che si prescrive in cinque anni (art. 2947 c.c.), che si riducono trattuali a due nel caso di danni derivanti da circolazione di veicoli (art. 2947, comma 2, c.c.). Nel caso, però, in cui il fatto dannoso costituisca reato, per il quale sia previsto un termine di prescrizione più lungo, quest’ultimo si applica anche all’azione civile di risarcimento del danno (art. 2947, comma 3, c.c.); se poi il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione, ovvero è intervenuta una sentenza definitiva, il termine di prescrizione dell’azione civile risarcitoria ritorna a decorrere, per la durata stabilita dai primi due comma dell’art. 2947, a far tempo dalla data di estinzione del reato o dal momento in cui la sentenza penale diviene irrevocabile. Sul punto torneremo ancora quando tratteremo specificamente della responsabilità extracontrattuale (v. § 470). ... il diritto a In cinque anni si prescrivono altresì i diritti a prestazioni prestazioni periodiche (ad es., le annualità di rendite e pensioni alimentari, i periodiche e i diritti che canoni di affitto e di locazione, gli interessi, ecc: art. 2948 c.c.; v. Cass. derivano da 20 dicembre 2017, n. 30546), quelli derivanti da rapporti societari rapporti societari (art. 2949 c.c.; v. Cass. 5 luglio 2016, n. 13686), nonché i crediti di lavoro (art. 2948, nn. 4 e 5, c.c.; v. Cass. 19 giugno 2018, n. 16139). Del pari si prescrivono in cinque anni le azioni di annullamento del contratto (art. 1442, comma 1, c.c.; v. §§ 345 ss.), l’azione revocatoria ordinaria (art. 2903 c.c.; v. §§ 260 s.) e le azioni relative alla tutela ed all’amministrazione di sostegno (artt. 387, 424, 411 c.c.). ... i diritti Ancora più breve — di regola, annuale — è la prescrizione dei derivanti da diritti derivanti da taluni rapporti commerciali (ad es., mediazione, taluni rapporti spedizione, trasporto: artt. 2950-2951 c.c.). Il diritto al pagamento commerciali delle rate di premio dovute in forza di un contratto di assicurazione [§ 116] L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche 229 si prescrive in un anno dalle singole scadenze (art. 2952, comma 1, c.c.); mentre gli altri diritti derivanti dal contratto di assicurazione si prescrivono in due anni dal giorno in cui si è verificato il fatto su cui il diritto si fonda, ad esclusione del contratto di assicurazione sulla vita, i cui diritti si prescrivono nel termine ordinario di dieci anni (art. 2952, comma 2, c.c.; v. Cass. 15 luglio 2016, n. 14420). Deve peraltro avvertirsi che — se il titolare del diritto abbia Effetto del proposto azione nel termine di prescrizione breve previsto dalla legge giudicato sulle e sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato (art. 324 prescrizioni c.p.c.) — l’azione diretta all’esecuzione del giudicato (actio iudicati) è brevi soggetta al termine di dieci anni previsto per la prescrizione ordinaria (art. 2953 c.c.). Invero, ormai, al rapporto giuridico originario, sottoposto a prescrizione breve, si è sostituito il diritto nascente dalla sentenza; e, rispetto a tale diritto, non valgono le ragioni che giustificano, secondo il legislatore, un periodo prescrizionale più breve (v. Cass. 26 gennaio 2017, n. 2003). § 116. Le prescrizioni presuntive. Le « prescrizioni presuntive » hanno fondamento, natura e disci- Fondamento plina radicalmente differenti rispetto alla « prescrizione estintiva ». dell’istituto Quest’ultima — come si è detto — è una vicenda estintiva del diritto, che consegue al mancato esercizio del diritto stesso per un determinato periodo di tempo. Le prescrizioni presuntive, invece, si fondano sulla presunzione (v. § 128) che un determinato credito sia stato pagato, o che si sia comunque estinto per effetto di qualche altra causa. Dunque — mentre la prescrizione estintiva è essa stessa causa di estinzione del diritto — nella prescrizione presuntiva la legge semplicemente presume che si sia verificata una causa estintiva di esso (v. Cass. 18 gennaio 2017, n. 1203). Da qui l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui la parte, che solleva in giudizio l’eccezione di prescrizione, ha l’onere di puntualizzare se intende avvalersi di quella estintiva ovvero di quella presuntiva, trattandosi di eccezioni diverse e non fungibili (v. Cass. 5 luglio 2017, n. 16486; Cass. 18 gennaio 2017, n. 1203). L’istituto della prescrizione presuntiva si basa sulla considerazione che vi sono rapporti della vita quotidiana nei quali l’estinzione del debito avviene, di regola, contestualmente all’esecuzione della prestazione e senza che il debitore abbia cura di richiedere e, soprattutto, di conservare una quietanza (v. § 214) che gli garantisca la 230 L’attività giuridica [§ 116] possibilità di provare, anche a distanza di tempo, di aver già provveduto ad estinguere il debito. Si pensi al corrispettivo della cena consumata al ristorante (art. 2954 c.c.), al compenso delle lezioni private impartite dall’insegnante ad un allievo, al prezzo delle merci vendute al dettaglio o dei medicinali venduti dai farmacisti (art. 2955 c.c.). Perciò la legge — trascorso un breve periodo: sei mesi, un anno o tre anni, a seconda dei casi (artt. 2954, 2955, 2956 c.c.) — presume che il debito relativo al compenso di dette prestazioni sia stato estinto. Si noti bene: non è che il debito si estingua, ma si presume che Presunzione di estinzione si sia estinto (v. Cass. 14 dicembre 2017, n. 30058). In altre parole, il debitore — se intende rifiutare l’adempimento che dovesse essergli richiesto una volta decorso il termine in cui si matura la prescrizione presuntiva — è esonerato dall’onere di fornire in giudizio la prova dell’avvenuta estinzione del credito azionato, come altrimenti dovrebbe fare (ad es., esibendo la quietanza del pagamento) in base alla regola generale (art. 2697, comma 2, c.c.; v. § 123): spetterà al creditore offrire la prova che la prestazione non è stata eseguita. Le prescrizioni presuntive non operano, perciò, sul terreno del diritto sostanziale come la prescrizione estintiva. Esse riguardano, invece, la prova e s’inquadrano nell’istituto generale delle presunzioni (v. § 128). Come vedremo (v. § 128), le presunzioni sono di due specie: presunzioni iuris tantum (che ammettono la prova contraria) e presunzioni iuris et de iure (che non l’ammettono) (art. 2728 c.c.). La presunzione che nasce, a favore del debitore, dalla prescrizione presuntiva appartiene alla prima categoria. Tuttavia, contro la presunzione di estinzione non è ammesso La prova contraria qualsiasi mezzo di prova. Il creditore, il quale abbia imprudentemente lasciato trascorrere l’intero periodo prescrizionale prima di pretendere il pagamento, ove la prescrizione presuntiva gli venga opposta in giudizio, può vincerla soltanto (v. Cass. 15 aprile 2014, n. 8753): a) ottenendo dal debitore l’ammissione che l’obbligazione è tuttora esistente (art. 2959 c.c.); ovvero b) deferendo alla parte debitrice giuramento decisorio (art. 2736 c.c.; v. § 130): ossia, invitandola a confermare sotto giuramento che l’obbligazione si è davvero estinta (art. 2960 c.c.). Il vantaggio che il debitore riceve opponendo la prescrizione presuntiva è chiaro: egli — come si è detto — è esonerato dall’onere di provare il fatto che avrebbe determinato l’estinzione del debito; ed il giudice deve rigettare la domanda di pagamento, senza bisogno che egli dimostri di avere effettivamente già pagato, ovvero che si è davvero verificata qualche altra causa di estinzione del debito. Per [§ 117] L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche 231 sfuggire a questa conseguenza, il creditore può deferirgli il giuramento decisorio. Ma il giuramento è un espediente pericoloso: se il debitore non è una persona corretta, basta che egli affermi di aver pagato perché la lite sia decisa a suo favore. Vero è, tuttavia, che il creditore — qualora abbia elementi da cui risulti la falsità del giuramento — può denunciarlo per il reato di falso giuramento (art. 371 c.p.), come vedremo parlando del giuramento (v. § 130). È bene rimarcare che, nella fattispecie in esame, il legislatore Oggetto della presume non già — specificamente — che il debitore abbia pagato il presunzione debito, bensì — genericamente — che l’obbligazione si sia estinta per effetto di uno qualsiasi dei vari modi di estinzione del debito previsti dalla legge (artt. 1230 ss. c.c.; §§ 224 ss.). Così, ad es., la presunzione opera anche se il debitore, pur riconoscendo di non aver pagato, affermi che il debito gli è stato rimesso (art. 1236 c.c.; v. Cass. 1° ottobre 2018, n. 23751). Se si ha presente il fondamento della prescrizione presuntiva, risulta chiaro come questa non possa operare quando chi oppone la prescrizione abbia comunque ammesso — in giudizio (v. Cass. 8 maggio 2014, n. 9930) — che l’obbligazione non è stata estinta (art. 2959 c.c.). Così, ad es., se il debitore, convenuto in giudizio per l’adempimento dell’obbligazione, sostenga che il debito non è sorto e, comunque, ne eccepisca la prescrizione, l’eccezione dovrà essere rigettata, perché chi oppone che il debito non è sorto, necessariamente ammette che il debito stesso non è stato nemmeno pagato, né si è altrimenti estinto (v. Cass. 14 dicembre 2017, n. 30058; v. anche Cass. 31 gennaio 2019, n. 2970). La giurisprudenza ritiene che le prescrizioni presuntive — tro- Prescrizione e vando ragione unicamente nei rapporti che si svolgono senza forma- presuntiva crediti lità, dove il pagamento suole avvenire senza dilazione — non operino nascenti da se il credito trae origine da un contratto stipulato in forma scritta (v. contratti stipulati per Cass. 30 aprile 2018, n. 10379). iscritto C) LA DECADENZA § 117. Nozione e fondamento. Il fondamento della prescrizione è — come abbiamo visto — Fondamento l’inerzia del titolare: il trascorrere del tempo determina l’estinzione del diritto che il titolare, trascurando di esercitarlo, ha in certo modo « abbandonato ». Invece, alla base della decadenza, sta esclusiva- 232 L’attività giuridica [§ 117] mente la fissazione — da parte del legislatore o in forza di una specifica clausola contrattuale — di un termine perentorio entro il quale il titolare del diritto deve compiere una determinata attività (v. Cass. 14 febbraio 2017, n. 3851), in difetto della quale l’esercizio del diritto è definitivamente precluso, senza che abbiano rilevanza le circostanze subiettive che hanno determinato l’inutile decorso del termine. Così, ad es., la legge concede alla parte soccombente in un giudizio il potere di impugnare la sentenza; ma l’impugnazione dev’essere proposta in un breve termine (art. 325 c.p.c.), trascorso il quale — senza che possa rilevare alcun impedimento — inesorabilmente l’impugnazione diventa inammissibile: si decade, cioè, dal diritto di proporre l’impugnativa (v. Cass. 14 marzo 2018, n. 6230). Perciò, la decadenza produce l’estinzione del diritto in virtù del fatto oggettivo del decorso del tempo. La decadenza implica, quindi, l’onere di esercitare il diritto entro il tempo prescritto dalla legge. Da questa differenza di fondamento tra i due istituti della Disciplina prescrizione e della decadenza discende la disciplina specifica della decadenza, divergente da quella della prescrizione: ad essa non si applicano le norme relative all’interruzione e, salvo che sia disposto altrimenti, neppure quelle relative alla sospensione (art. 2964 c.c.). La decadenza può, quindi, essere impedita solo dall’esercizio del diritto mediante il compimento dell’atto previsto (per tornare al nostro esempio, il passaggio in giudicato della sentenza può essere impedito solo con l’impugnazione proposta entro il termine dalla legge fissato a pena di decadenza) (art. 2966 c.c.). Con l’esercizio del diritto viene meno, infatti, la stessa ragione d’essere della decadenza: l’onere, a cui era condizionato l’esercizio del diritto, è ormai soddisfatto. A differenza della prescrizione — che, come abbiamo visto, è prevista dalla legge solamente nell’interesse generale — la decadenza può essere prevista anche nell’interesse di uno dei soggetti del rapporto; perciò, può anche essere prevista in un contratto (c.d. decadenza convenzionale). Decadenza La decadenza « legale » costituisce sempre un istituto eccezionale, legale in quanto deroga al principio generale, secondo cui l’esercizio dei diritti soggettivi non è sottoposto a limiti ed il titolare può esercitarli quando, come e dove gli pare opportuno. Quindi, le norme che stabiliscono decadenze sono di stretta applicazione (v. Cass. 15 giugno 2018, n. 15780) e non sono suscettibili di applicazione analogica (v. § 26). [§ 117] L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche 233 La decadenza legale può essere stabilita così nell’interesse generale come in quello individuale di una delle parti. Se la decadenza legale è stabilita nell’interesse generale — e, cioè, ... stabilita in relazione a diritti indisponibili (ad es., in tema di rapporti fami- nell’interesse generale liari) — le parti non possono né modificare il regime previsto dalla legge, né rinunziare alla decadenza (art. 2968 c.c.); ed il giudice — a differenza di quanto abbiamo visto in tema di prescrizione — deve rilevarla d’ufficio (art. 2969 c.c.; v. Cass. 9 novembre 2018, n. 28639). Se la decadenza legale è, invece, stabilita a tutela di un interesse ... stabilita a di un individuale (si pensi, ad es., al termine entro il quale il compratore tutela interesse deve denunciare al venditore i vizi occulti, da cui la cosa venduta è individuale affetta: art. 1495 c.c.; al termine entro il quale il committente deve denunciare all’appaltatore vizi e difformità dell’opera: artt. 1667, comma 2, e 1669, comma 1, c.c.), non può essere rilevata ex officio dal giudice, ma deve essere invocata dalla parte interessata (v. Cass. 3 ottobre 2018, n. 24074). Di più, trattandosi di diritti disponibili, le parti possono modificare il regime legale della decadenza e possono anche rinunziarvi (si arg. a contrario ex art. 2968 c.c.). La stessa disciplina dell’impedimento della decadenza è meno rigorosa, in quanto è attribuito valore anche al riconoscimento del diritto proveniente dalla persona contro la quale si deve far valere il diritto soggetto a decadenza (art. 2966 c.c.). Questi stessi principi — dalla legge previsti per la decadenza Decadenza legale stabilita a tutela di un interesse individuale — valgono natu- convenzionale ralmente anche per la decadenza « negoziale » (o convenzionale), che è quella stabilita dalle parti. La possibilità di stabilire decadenze in un contratto — o, in genere, in un negozio giuridico — presuppone che si versi in tema di diritti disponibili. In ogni caso, ad evitare la sopraffazione di una delle parti ai danni dell’altra, è posto un limite alla libertà contrattuale: è necessario che il termine stabilito non renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (art. 2965 c.c.). CAPITOLO XI LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI § 118. Premessa. Se il diritto soggettivo non viene spontaneamente rispettato, solo in casi eccezionali il suo titolare può provvedere direttamente — in prima persona — alla sua tutela: c.d. « autotutela ». Di regola, il soggetto che vuol far valere un proprio diritto deve rivolgersi al giudice (art. 2907 c.c.): se il privato si fa arbitrariamente ragione da sé con violenza sulle cose ovvero con violenza o minaccia alle persone, incorre nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.). Ipotesi di Eccezionalmente (v. Cass. 16 gennaio 2014, n. 820), il codice autotutela consente talune forme di autotutela. consentite Si pensi, ad es.: dalla legge (i) al diritto di ritenzione (ad es., ex art. 1152 c.c.; v. §§ 182 e 263; Cass. 19 aprile 2010, n. 9267); (ii) alla difesa del possesso finché la violenza dell’aggressore è in atto (vim vi repellere licet) (v. § 185; Cass. 9 giugno 2009, n. 13270); (iii) alla facoltà del contraente di recedere dal contratto, incamerando la caparra confirmatoria ricevuta, in caso di inadempimento dell’altra parte (art. 1385, comma 2, c.c.; v. § 316; Cass. 15 novembre 2011, n. 3728); (iv) alla facoltà del contraente di intimare diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.; v. § 351; Cass. 13 giugno 2006, n. 5407); (v) alla facoltà del contraente di risolvere il contratto in forza di clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.; v. § 351; Cass. 31 agosto 2009, n. 18920); (vi) alla facoltà di opporre l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.; v. § 352; v. Cass. 15 dicembre 2016, n. 25894); (vii) alla facoltà del contraente di sospendere l’esecuzione della prestazione dovuta, nell’ipotesi in cui le condizioni patrimoniali dell’altro contraente siano divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione (art. 1461 c.c.; v. § 353; Cass. 9 febbraio 2011, n. 3173;); L’autotutela [§ 119] La tutela giurisdizionale dei diritti 235 (viii) alla facoltà dell’acquirente di sospendere il pagamento del prezzo in caso di pericolo di rivendica (art. 1481 c.c.; v. § 371; Cass. 21 febbraio 2013, n. 4426); (ix) alla facoltà del venditore, a fronte del mancato pagamento del prezzo da parte dell’acquirente, di far vendere senza ritardo le cose mobili compravendute, per conto e a spese di lui (art. 1515 c.c.; v. § 375; v. Cass. 4 dicembre 2018, n. 31038); (x) alla legittima difesa (v. § 457), ecc. Di tali figure tratteremo via via che le incontreremo nello svolgimento del nostro discorso. Lo studio delle regole che disciplinano l’attività del giudice e delle parti per risolvere le controversie insorte fra queste ultime appartiene al diritto processuale civile. Qui ci limiteremo a brevissimi cenni su istituti la cui regolamentazione è contenuta nel codice civile (artt. 2907 ss.) e la cui comprensione presenta utilità anche per la conoscenza del diritto privato. § 119. Cenni sui tipi di azione. Poiché lo Stato, come si è visto, ha avocato a sé il potere — che L’azione è, al tempo stesso, un dovere — di rendere giustizia, ai consociati è correlativamente riconosciuto il diritto di rivolgersi agli organi all’uopo istituiti per ottenere quella giustizia che non possono farsi da sé: questo diritto — cioè, il diritto di agire in giudizio — si chiama « azione ». Chi esercita l’azione, proponendo la domanda giudiziale, si Attore e chiama « attore » (perché agisce); colui contro il quale l’azione è convenuto proposta si chiama « convenuto » (perché è invitato nel suo interesse, se lo crede, a presentarsi — a convenire — in giudizio per esporre le proprie ragioni). Il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi è oggetto di una specifica garanzia costituzionale (art. 24 Cost.) e, quindi, non può essere soppresso o limitato nei confronti di nessuno e per nessuna ragione. Del pari, costituisce diritto inviolabile dei cittadini la possibilità di difendersi in giudizio (art. 24, comma 2, Cost.). La Costituzione prevede altresì che ai non abbienti siano assicurati mezzi idonei per difendersi adeguatamente davanti a qualsiasi giudice (art. 24, comma 3, Cost.). Preme — specialmente perché si tratta di distinzioni che hanno I tipi di importanza ai fini della conoscenza del diritto sostanziale — richia- azione 236 L’attività giuridica [§ 119] mare l’attenzione sui vari tipi di azione (e, correlativamente, di processo civile) conosciuti dal nostro ordinamento. Se tra Tizio e Caio sorge controversia in ordine alla sussistenza Processo di cognizione: ovvero al modo di essere di un determinato diritto soggettivo (ad es., se la proprietà di un certo fondo spetta a Tizio ovvero a Caio; se il corrispettivo da Caio dovuto a Tizio è di 100 ovvero di 200; ecc.), s’instaura tra i due un processo c.d. « di cognizione », in esito al quale il giudice individua la regola applicabile al caso concreto (così — per restare ai nostri esempi — accerta se la proprietà del fondo appartiene a Tizio o a Caio; a quanto ammonta il corrispettivo da Caio dovuto a Tizio; ecc.). L’azione di cognizione può tendere ad una di queste tre finalità: a) al mero accertamento dell’esistenza/inesistenza e/o del modo ... sentenza di di essere di un rapporto giuridico controverso (per restare ai nostri accertamento esempi, se la proprietà del fondo spetta a Tizio o a Caio; quale è l’importo da Caio dovuto a Tizio) (c.d. azione e, correlativamente, « sentenza di mero accertamento »); b) all’emanazione di un comando, che il giudice rivolgerà alla ... sentenza di condanna parte soccombente, di tenere la condotta che lo stesso giudice riconosca come dovuta (così — sempre per rimanere ai nostri esempi — il giudice condannerà Caio al rilascio del fondo che accerti essere da quest’ultimo occupato illegittimamente; al pagamento della somma riconosciuta come dovuta a Tizio; ecc.) (c.d. azione e, correlativamente, « sentenza di condanna »). Con lo stesso provvedimento di condanna, se avente ad oggetto l’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, il giudice, su richiesta della parte interessata, potrà — al fine di incentivarne l’adempimento spontaneo — prevedere che, in caso di violazione o inosservanza del proprio provvedimento o di ritardo nella sua esecuzione, il condannato debba corrispondere all’altra parte una somma di denaro, dal giudice predeterminata tenendo conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile (art. 614-bis c.p.c.); c) alla costituzione, modificazione o estinzione di rapporti giuri... sentenza costitutiva dici (art. 2908 c.c.). In questa ipotesi — in realtà — la sentenza non si limita ad accertare la situazione giuridica preesistente o ad esprimere un comando concreto che, in via astratta e generale, poteva ritenersi già esistente in applicazione della norma di legge, ma modifica la situazione fino a quel momento vigente (c.d. azione e, correlativamente, « sentenza costitutiva »). Un esempio è quello offerto dalla pronunzia di separazione personale fra coniugi: questi ultimi prima erano reciprocamente tenuti alla fedeltà, all’assistenza morale [§ 119] La tutela giurisdizionale dei diritti 237 e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia, alla coabitazione (art. 143, comma 2, c.c.); per effetto della sentenza di separazione questi obblighi cessano o si modificano (v. § 591). Altri esempi sono la sentenza che accoglie la domanda di costituzione di una servitù coattiva (art. 1032 c.c.; v. § 157; v. Cass. 18 aprile 2018, n. 9543); la sentenza che pronuncia l’annullamento di un contratto (v. § 346), la sua risoluzione giudiziale per inadempimento (v. § 350; v. Cass. 4 giugno 2018, n. 14289) o eccessiva onerosità (v. § 356), ovvero la sua rescissione (v. §§ 348 s.; v. Cass. 20 marzo 2009, n. 6891); la sentenza che produce gli effetti del contratto che la parte aveva l’obbligo di concludere (art. 2932 c.c.; v. § 121; v. Cass. 26 settembre 2018, n. 22997); la sentenza che accoglie una domanda revocatoria ex art. 2901 c.c. (v. §§ 260 s.; v. Cass., sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416); la sentenza che, in accoglimento della domanda del lavoratore di impugnazione del licenziamento, ne dispone la reintegrazione nel posto di lavoro (v. § 502; v. Cass. 8 agosto 2017, n. 19699); ecc. Se, a fronte di una sentenza che lo condanna a tenere una Processo di determinata condotta, Caio, ciò nonostante, non ottempera neppure esecuzione a quanto disposto dal giudice, Tizio potrà instaurare contro di lui un processo di esecuzione, la cui finalità consiste nel realizzare coattivamente il comando contenuto nella sentenza (così — sempre per restare ai nostri esempi — Tizio potrà ottenere, se necessario anche con l’intervento della forza pubblica, il rilascio dell’immobile illegittimamente occupato da Caio; potrà far vendere coattivamente beni di Caio al fine di soddisfarsi sul relativo ricavato; ecc.). Del processo esecutivo parleremo più ampiamente al successivo § 121. Per impedire che, nel corso del processo di cognizione, contro- Processo parte possa porre in essere condotte destinate a frustrare gli effetti di cautelare un’eventuale — futura — sentenza sfavorevole, l’altra parte potrà avvalersi del processo cautelare (così — per rimanere all’esempio già fatto — per evitare che, nelle more di un procedimento di condanna al pagamento di una determinata somma di danaro, Caio possa sottrarre/occultare/alienare i beni su cui Tizio, una volta ottenuta la sentenza sperata, potrebbe esercitare un’azione esecutiva, allo stesso Tizio è concesso richiedere immediatamente il sequestro conservativo dei beni di Caio, rendendo così indifferente, nei confronti dello stesso Tizio, qualsiasi atto dispositivo che Caio dovesse eventualmente porre in essere: v. § 262). Finalità del processo cautelare è, in genere, quella di conservare lo stato di fatto esistente, per rendere possibile l’esecuzione dell’emananda sentenza. 238 L’attività giuridica § 120. [§ 120] La cosa giudicata. Per meglio assicurare la conformità della sentenza a giustizia, è concesso alle parti di promuovere il riesame della lite, impugnando la decisione. Tuttavia, questo riesame non può andare all’infinito e non può essere consentito senza limiti: verificatesi certe condizioni (decorso di termini, esaurimento dei mezzi di impugnativa concessi dalla legge), il comando contenuto nella sentenza non può essere più modificato da alcun altro giudice, costituendo « res iudicata ». Ad eventuali ulteriori tentativi di una delle parti di proseguire il dibattito si può opporre la « cosa giudicata » o — come anche si suol dire — il « passaggio in giudicato » della sentenza. L’efficacia del giudicato concerne anzitutto il processo: esso Cosa giudicata preclude — come si è detto — ogni ulteriore riesame ed impugnazione formale... della sentenza. Perciò l’art. 324 c.p.c. — la cui rubrica reca appunto « Cosa giudicata formale » — dice che s’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta ai mezzi di impugnazione ivi indicati (v. Cass. 24 gennaio 2017, n. 1553). Ma la cosa giudicata ha anche un valore sostanziale (c.d. « cosa ...e sostanziale giudicata sostanziale »): non soltanto non si può impugnare la sentenza, ma, se in essa è stato riconosciuto il mio diritto di proprietà o di credito, ciò non può più formare oggetto di discussione o di riesame tra me e l’altra parte (ed i rispettivi aventi causa), neppure in futuri processi. « Res iudicata — secondo il noto brocardo — pro veritate habetur »: ovvero — con enfasi che va fino alla stravaganza, ma che pure vale a scolpire l’indiscutibilità dell’accertamento contenuto nella sentenza — « res iudicata facit de albo nigrum, originem creat, aequat quadrata rotundis, naturalia sanguinis vincula et falsum in verum mutat ». Più sobriamente, l’art. 2909 c.c. dice che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato « fa stato » ad ogni effetto fra le parti, i loro eredi ed aventi causa. La cosa giudicata in senso sostanziale consiste, dunque, nella definitività dell’accertamento contenuto nella sentenza anche al di fuori del processo nel quale è stata pronunziata (v. Cass. 15 maggio 2018, n. 11754; Cass. 14 maggio 2018, n. 11600); rispetto, quindi, a qualunque futuro processo ed anche a prescindere dal processo: così, ad es., se Tizio ha contestato il mio diritto di proprietà su un bene che voglio vendere, io posso mostrare al potenziale acquirente la sentenza che ha respinto la domanda di Tizio e tranquillizzarlo che sarà sicuro da ogni suo ulteriore attacco (v. Cass. 11 gennaio 2017, n. 411). L’ulteriore approfondimento dell’argomento della cosa giudiNozione [§ 121] La tutela giurisdizionale dei diritti 239 cata spetta al diritto processuale civile: qui basta averne dato la nozione. § 121. Il processo esecutivo. Se non viene spontaneamente adempiuto neppure il comando contenuto nella sentenza, colui a cui favore detto comando è stato emesso può iniziare — come già si è detto — il procedimento esecutivo. Peraltro, solo in alcuni casi detto procedimento riesce ad assi- Esecuzione in curare coattivamente proprio quel risultato voluto dal comando con- forma specifica... tenuto nella sentenza: c.d. esecuzione forzata « in forma specifica ». Ciò accade nelle ipotesi in cui sia rimasto ineseguito: a) un obbligo avente ad oggetto la consegna di una cosa deter- ... degli di minata, mobile o immobile (ad es., l’obbligo dell’inquilino, alla sca- obblighi dare denza del contratto di locazione, di riconsegnare l’unità immobiliare al proprietario); nel qual caso l’avente diritto otterrà la consegna o il rilascio forzati del bene stesso (art. 2930 c.c.) (così, ad es., se alla cessazione del rapporto l’inquilino non rilascia spontaneamente l’appartamento locatogli, il concedente, dopo aver ottenuto una sentenza di rilascio, sarà immesso nella materiale disponibilità dell’immobile, grazie all’intervento dell’ufficiale giudiziario: artt. 605 ss. c.p.c.); b) un obbligo avente ad oggetto un « facere » fungibile (ad es., ... degli di l’obbligo dell’appaltatore di ultimare l’edificio che si è impegnato a obblighi facere realizzare); nel qual caso l’avente diritto — poiché « nemo ad factum precise cogi potest » — potrà ottenere soltanto che esso sia eseguito da altri, seppure a spese dell’obbligato (art. 2931 c.c.; artt. 612 ss. c.p.c.). Ove si tratti invece di inesecuzione di un obbligo avente ad oggetto un « facere » infungibile (ad es., l’obbligo assunto dal famoso tenore di cantare alla « prima » della Scala; v. § 196), l’avente diritto — non potendo la prestazione, proprio perché infungibile, essere eseguita da altri che dall’obbligato — potrà ottenere soltanto il risarcimento del danno; c) un obbligo avente ad oggetto quel particolare « facere » (in- ... dell’obbligo concludere fungibile) consistente nella conclusione di un contratto (ad es., l’ob- di un contratto bligo che il proprietario si sia assunto, in forza di un c.d. contratto preliminare, di vendere il proprio appartamento ad un determinato acquirente: v. § 298); nel qual caso l’avente diritto potrà ottenere dal giudice una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso (nel nostro esempio, una sentenza che trasferisca la 240 L’attività giuridica [§ 121] proprietà dell’appartamento dal promittente venditore inadempiente al promissario acquirente: art. 2932 c.c.); ... degli d) un obbligo avente ad oggetto un non facere (ad es., l’obbligo obblighi di di non sopraelevare un muro); nel qual caso l’avente diritto potrà non facere ottenere, a spese dell’obbligato, la distruzione della cosa che sia stata realizzata in violazione di detto obbligo (art. 2933, comma 1, c.c.); sempreché la distruzione non sia di pregiudizio all’economia nazionale (v. Cass. 31 ottobre 2017, n. 25890). Tutto ciò presuppone, ovviamente che la violazione dell’obbligo di non facere si sia tradotta nella realizzazione di un opus suscettibile di distruzione. In caso contrario (si pensi, ad es., all’ipotesi di violazione del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c.), l’avente diritto — non potendo materialmente impedire che controparte continui a tenere la condotta vietata — potrà ottenere soltanto il risarcimento del danno. Esecuzione La forma di gran lunga più importante di procedimento esecumediante tivo è, peraltro, quella che ha per oggetto l’espropriazione dei beni espropriazione del debitore: c.d. esecuzione mediante espropriazione forzata. In questo procedimento il bene o i beni colpiti dall’esecuzione vengono, di regola, venduti ai pubblici incanti e la somma ricavata ripartita tra i creditori. Le forme di questo procedimento sono regolate dal codice di procedura civile (artt. 483 ss. c.p.c.). PignoraIl procedimento di espropriazione forzata ha inizio con il pignomento e ... ramento (art. 491 c.p.c.), che è l’atto con il quale si indicano i beni assoggettati all’azione esecutiva. ... suoi effetti Importante è richiamare l’attenzione sugli effetti di diritto sosostanziali stanziale del pignoramento: l’art. 2913 c.c. stabilisce che non hanno effetto, in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione, gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento. Siffatta inefficacia dipende non già dall’incapacità del debitore sottoposto a pignoramento e nemmeno dalla perdita della proprietà dei beni, che non è ancora avvenuta; bensì dalla destinazione dei beni alla espropriazione. Detta inefficacia è relativa: può essere, cioè, fatta valere solo dal creditore pignorante e dai creditori intervenuti nell’esecuzione. Sicché, per es., se il processo esecutivo si estinguesse, il debitore che avesse effettuato l’alienazione non potrebbe opporre l’inefficacia stessa all’acquirente. Naturalmente, la legge tiene conto anche della situazione dei terzi che abbiano acquistato in buona fede, ignorando il pignoramento. Se si tratta di mobili non iscritti nei pubblici registri, basta l’acquisto del possesso a salvaguardare il diritto del terzo (artt. 2913 e 1153 c.c.), secondo un principio generale, al quale si è già varie volte accennato e del quale si tratterà diffusamente a suo luogo (§ 183); se [§ 121] La tutela giurisdizionale dei diritti 241 si tratta, invece, di immobili o di mobili registrati, la protezione del terzo è attuata per il tramite della trascrizione (art. 2914, comma 1 n. 1, c.c.). Ma di questo sarà bene parlare allorché esamineremo nel suo complesso la funzione della pubblicità immobiliare (§§ 681 ss.). Vi è peraltro da notare che non sussiste una correlazione necessaria fra sentenza di condanna ed esecuzione forzata: molte situazioni di vantaggio — specie ove il bene garantito sia di carattere non patrimoniale (ad es., rapporti di famiglia o di lavoro, diritti di libertà, ecc.) — non sono suscettibili di essere tutelate adeguatamente attraverso i procedimenti di esecuzione forzata. CAPITOLO XII LA PROVA DEI FATTI GIURIDICI § 122. Nozioni generali. L’esito di un giudizio può dipendere dalla soluzione di una quaestio facti: ossia dall’accoglimento di una delle contrapposte versioni che, circa il modo in cui si sono realmente svolti i fatti rilevanti ai fini del decidere, vengono fornite dalle parti (ad es., Tizio assume di avere prestato 100 a Caio, che invece lo nega; Caio sostiene di avere già restituito la somma e Tizio dichiara di non aver ricevuto nulla; ecc.). Ora, tutte le volte in cui di una circostanza — rilevante ai fini della decisione — le parti forniscono ricostruzioni contrastanti, il giudice è tenuto, per definire la lite, a scegliere tra le contrapposte versioni che gli vengono prospettate. I mezzi di Nel giudizio civile, peraltro, sono le parti che devono preoccuprova ed il parsi di indicare al giudice i mezzi di prova — ossia gli elementi principio dispositivo (documenti, testimonianze, dichiarazioni di controparte, ecc.) — in base ai quali ciascuna ritiene di accreditare la propria versione dei fatti litigiosi: c.d. « principio dispositivo » (art. 115, comma 1, c.p.c.; v. Cass. 26 aprile 2017, n. 10224). Il giudice deve infatti giudicare — come si suol dire — « iuxta alligata et probata partium »: sulla base, cioè, di quanto allegato e provato dalle parti. Al giudice spetta, innanzitutto, valutare se i mezzi di prova che le parti offrono o chiedono di acquisire siano: Ammissibilità a) ammissibili, ossia conformi alla legge (sarebbe inammissibile, e rilevanza ad es., la testimonianza di un soggetto che avesse un diretto interesse delle prove nella controversia: art. 246 c.p.c.; o una testimonianza volta a provare patti, anteriori o contestuali, contrari al contenuto di un documento: art. 2722 c.c.; o una qualsiasi prova dalla quale la parte, in base alle norme che regolano il processo, sia decaduta; ecc.); e b) rilevanti, ossia abbiano ad oggetto fatti che possano influenzare la decisione della lite (v. Cass., sez. un., 8 aprile 2008, n. 9040). I fatti contestati [§ 123] La prova dei fatti giuridici 243 Dopo aver ammesso (con ordinanza) e assunto le prove richiestegli Valutazione (cioè, dopo aver ascoltato i testimoni, interrogato le parti, acquisito i delle prove documenti, ecc.), il giudice valuterà, in sede di sentenza, la loro concludenza: ossia, la loro idoneità o meno a dimostrare i fatti sui quali vertevano (art. 116, comma 1, c.p.c.). A tal fine, il giudice riterrà « provata » una circostanza (o una sua modalità) non già soltanto quando abbia acquisito la certezza che la stessa si sia effettivamente verificata (od effettivamente verificata in quel determinato modo), bensì anche quando le prove raccolte lo abbiano convinto che una delle due versioni dei fatti prospettate dalle parti sia convincente e sia quella che ben si concilia con il materiale probatorio raccolto (v. Cass., sez. un., 14 dicembre 1999, n. 898; Cass., sez. un., 13 novembre 1996, n. 9961; e, da ultimo, Cass. 23 maggio 2014, n. 11511). In ogni caso, il giudice deve motivare la propria decisione, spiegando le ragioni del suo convincimento, che — come si è detto — deve formarsi iuxta alligata et probata partium (art. 115 c.p.c.), non essendogli consentito trarre elementi di convincimento da fonti di informazione che non siano state ritualmente acquisite in giudizio con tutte le garanzie processuali, compresa quella che discende dal rispetto del contraddittorio tra le parti (v. Cass. 13 giugno 2014, n. 13485). Al giudice è peraltro consentito — in deroga al principio dispositivo ed al principio del contraddittorio — far autonomamente ricorso alle nozioni di comune esperienza (c.d. « fatti notori »), per tali intendendosi quelle (si pensi, ad es., alla circostanza del coinvolgimento dell’Italia nel secondo conflitto mondiale) acquisite alla conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili (art. 115, comma 2, c.p.c.; v. Cass. 6 aprile 2018, n. 8504). Un problema di prova si pone — ovviamente — solo con riferi- I fatti non mento ai fatti oggetto di specifica contestazione fra le parti: quelli, rela- contestati tivamente ai quali non sorgono divergenze di prospettazione, sono invece dal giudice posti a fondamento della decisione senza necessità di prova alcuna (art. 115, comma 1, c.p.c.; v. Cass. 7 maggio 2018, n. 10864; v. però le precisazioni di Cass. 20 ottobre 2016, n. 21306). § 123. L’onere della prova. Può darsi che, relativamente ad un fatto con riferimento al La quale le parti abbiano fornito opposte versioni, nel processo sia del circostanza non provata tutto mancata la prova, ovvero che i risultati delle prove raccolte siano non persuasivi o addirittura contraddittori. Se non ritiene di avere elementi sufficienti per decidere quale tra le contrapposte 244 L’attività giuridica [§ 123] versioni prospettategli sia da considerare più convincente, il giudice come deve regolarsi? Non potendo, ovviamente, rifiutarsi di decidere, egli dovrà per forza egualmente scegliere una soluzione, ma — di certo — non capricciosamente, in base a considerazioni non giuridiche (ad es., di simpatia o antipatia). Dovrà, invece, far applicazione della regola dell’« onere della ... e l’onere della prova prova » (art. 2697 c.c.), secondo cui — allorquando un fatto, rilevante ai fini del decidere, rimane sfornito in causa di prova convincente — il giudice deve accogliere la versione di esso prospettata dalla parte su cui non grava l’onere della prova (quand’anche tale ultima versione risulti non sufficientemente dimostrata). In altre parole, il rischio della mancanza o insufficienza o contraddittorietà della prova di un fatto controverso è addossato alla parte su cui grava l’onere della prova; che avrà, quindi, tutto l’interesse a fornirne la dimostrazione in giudizio, se non vuole correre il pericolo di veder respinta la domanda o l’eccezione fondata su detto fatto (v. Cass. 10 marzo 2015, n. 4773). Non va peraltro dimenticato che il giudice deve basare il proprio Carattere residuale convincimento su tutte le prove acquisite, di chiunque sia stata della regola dell’onere l’iniziativa; e, quindi, senza dar rilievo al fatto che un mezzo di prova della prova sia stato offerto dall’uno o dall’altro dei litiganti (v. Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498; e, da ultimo, Cass. 4 giugno 2018, n. 14284; Cass. 4 luglio 2017, n. 16415). Il giudice non dovrà, dunque, far ricorso alla regola dell’onere della prova, quando la dimostrazione di un determinato fatto risulti comunque fornita in causa (non importa, se dalla parte che era gravata dal relativo onere probatorio ovvero dall’altra). Da ciò consegue che della regola dell’onere della prova il giudice dovrà far applicazione non già in tutti i giudizi, ma solo in quelli in cui un fatto contestato, rilevante ai fini del decidere, rimanga, alla fine, sfornito di prova sufficiente: c.d. carattere residuale della regola dell’onere probatorio (v. Cass. 19 giugno 2018, n. 16176). Naturalmente il problema più delicato diventa quello di accerLa ripartizione tare, rispetto a ciascun fatto, su quale delle parti ricada l’onere dell’onere probatorio: probatorio. fatti In linea di principio, può dirsi che l’onere di provare un fatto costitutivi e fatti ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della sua tesi: impeditivi, onus probandi incumbit ei qui dicit. In questo senso va intesa la norma modificativi (art. 2697 c.c.), che accolla a chi vuol far valere un diritto in giudizio o estintivi l’onere di provare i fatti (ad es., la stipulazione del contratto di cui si reclama l’osservanza) che ne costituiscono il fondamento (c.d. fatti costitutivi), ed a chi contesta la rilevanza di tali fatti l’onere di provarne l’inefficacia (ad es., la nullità del contratto) o di provare [§ 123] La prova dei fatti giuridici 245 eventuali altri fatti che abbiano modificato (ad es., un patto di proroga del termine di adempimento) o estinto (ad es., l’intervenuta risoluzione consensuale del contratto) il diritto fatto valere (c.d. fatti impeditivi, modificativi ed estintivi). Rimane tuttavia la difficoltà, rispetto a taluni fatti, di accertare l’esatta qualifica da attribuire alla circostanza contestata, al fine di decidere su quale delle parti ricada il relativo onere probatorio. Così, ad es., grava su colui che pretende il risarcimento di un danno extracontrattuale (v. §§ 454 ss.) provare la colpa del danneggiante, ovvero è quest’ultimo che ha l’onere di provare, per andare esente da responsabilità, la mancanza di colpa propria? Ossia, la colpa è momento costitutivo della responsabilità per danni, oppure è l’assenza di colpa circostanza impeditiva del sorgere di tale responsabilità (v. § 473)? Allo stesso modo, grava su chi chiede la condanna di controparte all’adempimento di un’obbligazione (v. §§ 214 ss.) provare l’inadempimento del convenuto, ovvero è quest’ultimo che, per vedere respinta la domanda attrice, ha l’onere di provare di aver già adempiuto? In proposito supplisce spesso la legge stessa, che — esplicitamente o implicitamente — consente di stabilire se una circostanza debba essere considerata come fatto costitutivo ovvero come fatto impeditivo. Così, ad es., l’art. 1147, comma 3, c.c. dispone che « la buona fede è presunta »: vale a dire che il legislatore fa ricadere su chi vuol contestare gli effetti della buona fede l’onere di provare la mala fede dell’altra parte e non già su questa l’onere di provare la propria buona fede. Quando la legge tace in ordine al carattere costitutivo o impeditivo di una circostanza, spetta ovviamente all’interprete determinare su quale delle parti debba ricadere il relativo onere probatorio. Al riguardo, la Suprema Corte — invocando l’art. 24 Cost. ed il Principio divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o della vicinanza troppo difficile l’esercizio dell’agire in giudizio — fa ricorso al c.d. della prova principio della vicinanza della prova, che induce a far gravare il relativo onere sulla parte che più agevolmente è in grado di assolverlo (così, ad es., nel giudizio in cui il lavoratore richieda il riconoscimento di un premio di produttività in relazione ai risultati economici positivi realizzati dall’impresa, graverà su quest’ultima l’onere di dimostrare il mancato raggiungimento di detti risultati, e non già sul lavoratore l’onere di dimostrare il contrario, in quanto gli elementi atti a provare il raggiungimento o meno di detti risultati sono nella disponibilità esclusiva dell’impresa: v. Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11748; Cass. 10 febbraio 2017, n. 3548). 246 L’attività giuridica [§ 124] Così precisata la portata dei principi in materia, l’onere della prova può correttamente definirsi come il rischio per la mancata prova di un fatto (rimasto) incerto nel giudizio; rischio dal legislatore addossato a quella parte che avrebbe dovuto trovarsi nelle migliori condizioni per fornire la prova della circostanza invocata: ove non riesca, invece, a convincerlo, in base alle prove raccolte, che quella circostanza si è effettivamente verificata, il giudice dovrà considerarla come non avvenuta, anche se non sia per nulla sicuro che quel fatto, in realtà, effettivamente non sia accaduto (così, ad es., chi pretende la restituzione della somma mutuata, ha l’onere di provare la stipulazione del mutuo: se non riesce a dare la prova che ciò è avvenuto, il giudice deve respingere la domanda, anche se non è per nulla sicuro che il mutuo non sia stato effettivamente concesso). Patti relativi Questa è la regola che pone la legge (art. 2697 c.c.). Le parti, all’onere tuttavia, possono stabilire diversamente (c.d. inversione convenziodella prova nale dell’onere della prova), a meno che non si tratti di diritti indisponibili (ad es., questioni di stato) e purché la modificazione non abbia per effetto di rendere eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio del diritto (art. 2698 c.c.). § 124. I mezzi di prova. Per « mezzo di prova » si intende qualsiasi elemento (ad es., un documento scritto, una fotografia, una registrazione fonografica, una testimonianza, un esperimento peritale, un ragionamento logico, ecc.) idoneo a stabilire quale, tra le contrapposte versioni di un fatto sostenute dalle parti in lite, sia la più convincente. Si ritiene che — oltre a quelle espressamente indicate e disciProve tipiche e prove plinate dal legislatore (artt. 2699-2739 c.c.), di cui parleremo fra atipiche poco: c.d. « prove tipiche » — il giudice possa porre a fondamento della propria decisione, dandone adeguata motivazione, anche « prove atipiche » (cioè, non espressamente previste dal codice), purché idonee ad offrire validi elementi di giudizio (v. Cass. 10 ottobre 2018, n. 25067; Cass. 8 marzo 2018, n.5539). Principio fondamentale, in tema di apprezzamento (del risulPrincipio del libero tato) delle prove raccolte in un giudizio, è quello della loro libera apprezzamento della valutazione da parte del giudice (v. Cass. 4 luglio 2017, n. 16467; Cass. prova 8 maggio 2017, n. 11176). « Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento », recita l’art. 116 c.p.c.: c.d. « principio del libero apprezzamento della prova » (v. Cass. 23 ottobre 2018, n. 26769). Nozione [§ 125] La prova dei fatti giuridici 247 Peraltro, la discrezionalità di tale valutazione è temperata dall’obbligo di motivazione; dall’obbligo cioè, per il giudice, di spiegare, in sede di decisione, perché certi mezzi di prova siano stati ritenuti convincenti ed altri no; se si sia dato ingresso, oppure no, ai principi sull’onere della prova; e così via: spiegazioni che è sempre possibile sottoporre al controllo del giudice dell’impugnazione (v. Cass. 2 agosto 2016, n. 16056; Cass. 8 settembre 2015, n. 17774). Peraltro, è lo stesso legislatore a talvolta derogare al principio Prove legali del libero apprezzamento dei mezzi di prova da parte del giudice, disponendo che talune prove — ad es., l’atto pubblico (art. 2700 c.c.; v. § 125), la confessione (art. 2733 c.c.; v. § 129), il giuramento decisorio (art. 2738 c.c.; v. § 130), ecc. — costituiscono « prove legali », la cui rilevanza è già predeterminata dalla legge, cosicché il giudice non ha alcuna discrezionalità nel valutarle. Esse — come si suol dire — fanno « piena prova », rispettivamente, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale, così come delle dichiarazioni e dei fatti che costui attesta essere avvenuti alla sua presenza (nell’atto pubblico), della verità dei fatti sfavorevoli asseverati dal dichiarante (nella confessione), della verità dei fatti confermati sotto giuramento (nel giuramento decisorio), ecc. In questi casi, il giudice è vincolato e non potrebbe decidere in contrasto con i fatti che devono considerarsi « pienamente provati ». I mezzi di prova si distinguono in due specie: a) « prove precostituite » o documentali (ad es., atto pubblico, Prove scrittura privata, registrazione fonografica, ecc.), così nominate per- precostituite e prove ché esistono già prima del giudizio; e costituende b) « prove costituende » (ad es., prova testimoniale, presunzione, giuramento, ecc.), così dette perché destinate a formarsi nel corso del giudizio. § 125. La prova documentale. Per « documento » s’intende ogni cosa (ad es., certificati rilasciati Nozione dalla P.A., lettere, fatture, libri contabili, fotografie, riproduzioni cinematografiche, riproduzioni fonografiche, ecc.) idonea a rappresentare un fatto, in modo da consentirne la presa di conoscenza a distanza di tempo. Importanza preminente, tra i documenti, rivestono l’« atto pubblico » e la « scrittura privata ». « Atto pubblico » è il documento redatto con particolari formalità Atto pubblico (stabilite dalla legge) da un notaio o da altro pubblico ufficiale 248 L’attività giuridica [§ 125] autorizzato ad attribuire all’atto quella particolare fiducia nella sua veridicità che si chiama « pubblica fede » (art. 2699 c.c.). Sono atti pubblici, ad es., oltre i rogiti notarili, i verbali d’udienza redatti da un cancelliere del tribunale, le relazioni di notifica predisposte dagli ufficiali giudiziari, i verbali redatti dalla commissione di un concorso pubblico, talune attestazioni rilasciate da uffici pubblici (v. Cass. 7 luglio 2016, n. 13829), i certificati medici rilasciati presso una struttura pubblica ospedaliera (v. Cass. 24 settembre 2015, n. 18868), le annotazioni contenute in una cartella clinica redatta da un’azienda ospedaliera pubblica (v. Cass. 20 novembre 2017, n. 27471), ecc. L’atto pubblico — che oggi può essere redatto anche con proEfficacia probatoria cedure informatiche (artt. 47-bis e 47-ter L. 16 febbraio 1913, n. 89) — fa « piena prova » (prova legale): a) della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato; b) delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti alla sua presenza (art. 2700 c.c.; v. Cass. 6 ottobre 2016, n. 20025). L’atto pubblico, pertanto, non fa prova della veridicità del contenuto delle dichiarazioni rese dalle parti avanti al pubblico ufficiale, ma solo del fatto che esse sono state effettivamente rese come indicato in atto (v. Cass. 24 gennaio 2018, n. 1745). Del pari, non fa prova della fondatezza dei giudizi eventualmente espressi dal pubblico ufficiale (ad es., in ordine alla capacità di intendere e volere delle parti; v. Cass. 11 giugno 2014, n. 13264). Dicendo che su determinate circostanze l’atto pubblico fa Piena prova « piena prova », il legislatore intende dire che il giudice è vincolato a considerare senz’altro vere tali circostanze, senza che siano possibili alternative, dubbi o controprove. Se una parte intende contrastare tale speciale forza probatoria privilegiata, deve fare necessariamente ricorso ad un particolare procedimento, che si avvia mediante una « querela di falso » (art. 221 c.p.c.): ossia, mediante la richiesta che il giudice accerti — in via separata rispetto al processo in cui il documento è prodotto e se ne chiede l’utilizzazione — che quel documento è in realtà oggettivamente falso (a prescindere dall’individuazione di chi sia stato eventualmente responsabile di tale falsità e dalla conseguente comminatoria delle relative sanzioni: accertamenti che potrebbero aver luogo soltanto in un processo penale). L’atto pubblico, ove nullo come tale per difetto di qualche La conversione formalità essenziale, può avere la stessa efficacia della scrittura formale privata, se sottoscritto da una o più parti: c.d. conversione formale (art. 2701 c.c.; v. Cass. 30 marzo 2011, n. 7264). [§ 125] La prova dei fatti giuridici 249 « Scrittura privata » è qualsiasi documento che risulti sottoscritto Scrittura da un privato. Il testo del documento può essere anche stampato, privata dattiloscritto o scritto a mano da terzi: essenziale è, però, la sottoscrizione autografa di colui che, con la firma, si assume la paternità del testo e, quindi, la responsabilità di quanto in esso dichiarato (v. Cass. 29 novembre 2018, n. 30948; Cass. 19 marzo 2018, n. 6753). La scrittura privata — appunto perché non proviene da un Efficacia pubblico ufficiale — non ha la stessa efficacia probatoria dell’atto probatoria nei confronti pubblico. Essa, infatti, fa prova soltanto contro chi ha sottoscritto il delle parti documento, e non anche a suo favore (v. Cass., sez. un., 29 aprile 2008, n. 10827; e, da ultimo, Cass. 30 giugno 2015, n. 13321). Tale valore, però, è subordinato alla condizione che colui che ne appare il firmatario riconosca come sua la sottoscrizione, ovvero che la sottoscrizione debba considerarsi legalmente come riconosciuta (art. 2702 c.c.). Si ha per « legalmente riconosciuta » la sottoscrizione autenticata Scrittura da un notaio o da un altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (c.d. privata autenticata e « scrittura privata autenticata »: art. 2703 c.c.), nonché la sottoscri- scrittura non zione di un documento prodotto in giudizio e non disconosciuta da privata autenticata colui contro il quale la produzione è effettuata (art. 215 c.p.c.). Basta dunque, se si tratta di scrittura non autenticata, che la persona cui la scrittura è attribuita neghi — in modo specifico e determinato (v. Cass. 22 gennaio 2018, n. 1537) — la propria sottoscrizione, perché chi vuol valersi della scrittura debba fornire la prova della provenienza di questa, mediante il c.d. « procedimento di verificazione » (artt. 216 ss. c.p.c.; v. Cass. 30 marzo 2018, n. 7993; Cass. 16 gennaio 2018, n. 887). Di qui l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui la mancata proposizione dell’istanza di verificazione di una scrittura privata disconosciuta equivale, di regola, ad una dichiarazione, da parte di colui che l’ha prodotta, di non volersene avvalere come mezzo di prova (v. Cass. 20 novembre 2017, n. 27506). Se, invece, la sottoscrizione è autenticata o riconosciuta o non disconosciuta, la scrittura privata (come l’atto pubblico) fa « piena prova » (prova legale) — fino a querela di falso — ma solo della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta (art. 2702 c.c.; v. Cass. 30 giugno 2015, n. 13321). Tutto ciò, sempre che la scrittura privata sia invocata contro il Efficacia sottoscrittore nell’ambito di un giudizio in cui lo stesso è parte. Se, probatoria nei confronti invece, è invocata in un giudizio cui il sottoscrittore è estraneo, la dei terzi scrittura privata ha, di regola, valore meramente indiziario (v. Cass., sez. un., 23 giugno 2010, n. 15169; e, da ultimo, Cass. 1° marzo 2018, 250 L’attività giuridica [§ 125] n. 4842); salvo che per quanto riguarda la sua provenienza, se la sottoscrizione è autenticata. Sempre nei confronti dei terzi, può avere rilevanza la « data » La data della scrittura privata: ossia, l’indicazione del giorno in cui il documento è stato sottoscritto (ad es., per stabilire, tra due contratti, quale sia stato concluso anteriormente, per tutti i fini che si possono riannodare a tale anteriorità: così, secondo il disposto dell’art. 1599 c.c., se taluno, dopo aver dato in locazione una cosa, l’abbia venduta, il contratto di locazione dev’essere rispettato anche dal compratore, se la locazione è anteriore alla vendita). Le parti, peraltro, potrebbero mettersi d’accordo in danno del La data certa terzo, apponendo una data fittizia, anteriore all’atto (c.d. retrodatazione). Per evitare queste facili frodi, la legge stabilisce (art. 2704 c.c.) che la data della scrittura privata è — per i terzi — la seguente (c.d. « data certa »): (i) se si tratta di scrittura privata autenticata, la data dell’autenticazione; (ii) se si tratta di scrittura privata non autenticata, la data della sua registrazione (ed è questo — come si ricorderà — l’effetto saliente della registrazione in materia privatistica: v. § 106), ovvero la data in cui si verifica un evento che stabilisca in modo incontestabile che il documento è stato formato anteriormente (ad es., il giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di coloro che l’hanno sottoscritta; il giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in un atto pubblico; ecc.) (v. Cass. 15 marzo 2018, n. 6462; Cass. 8 febbraio 2018, n. 3076). Anche al « telegramma » il legislatore riconosce l’efficacia proTelegramma batoria della scrittura privata, ma solo « se l’originale consegnato all’ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, ovvero se è stato consegnato dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo » (art. 2705, comma 1, c.c.; v. Cass. 4 maggio 2018, n. 10589). Pure « le carte e i registri domestici » fanno — alle condizioni Carte e registri precisate dall’art. 2707 c.c. — prova contro chi li ha scritti, al pari domestici delle scritture private, quand’anche carenti di sottoscrizione. Anche « i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a Scritture contabili registrazione fanno prova contro l’imprenditore » (art. 2709 c.c.; ma dell’impresa v., più ampiamente, § 496): ad es., quanto ai debiti da dette scritture risultanti (v. Cass. 18 febbraio 2016, n. 3190; e, da ultimo, Cass. 23 ottobre 2018, n. 26874). La legge pone dunque, a sfavore di quest’ultimo, una presunzione (v. § 128) di veridicità delle singole annotazioni contabili, contro la quale è peraltro ammessa prova contraria (v. Cass. 22 maggio 2009, n. 11912). [§ 125] La prova dei fatti giuridici 251 Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, Riproduzioni le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccaniche meccanica di fatti o di cose (c.d. « riproduzioni meccaniche ») « formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte (in giudizio) non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime » (art. 2712 c.c.; v. Cass. 23 aprile 2018, n. 9977): « disconoscimento » che, tuttavia, non può essere generico, ma deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, con specifica indicazione degli elementi di non corrispondenza fra realtà storica e realtà riprodotta (v. Cass. 28 marzo 2018, n. 7595). La giurisprudenza ritiene che anche il messaggio di posta elet- E-mail tronica (c.d. e-mail) — costituendo documento elettronico contenente la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati — sia da ricondurre al novero delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c. (v. Cass. 14 maggio 2018, n. 11606). Le copie fotostatiche e « le copie fotografiche di scritture hanno la Copie stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale fotostatiche è attestata da pubblico ufficiale competente, ovvero non è espressamente disconosciuta » (art. 2719 c.c.; v. Cass. 16 gennaio 2018, n. 882). In quest’ultimo caso, la contestazione della conformità del documento prodotto in copia deve avvenire in modo chiaro e circostanziato, attraverso l’indicazione specifica degli aspetti per i quali si assume essere difforme dall’originale (v. Cass. 6 febbraio 2019, n. 3540; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27633). Il disconoscimento della riproduzione meccanica e della copia fotostatica/fotografica — diversamente da quel che accade per il disconoscimento della scrittura privata — non preclude al giudice la possibilità di verificarne la conformità all’originale attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (v. Cass. 8 giugno 2018, n. 14950). Quanto al fax, si discute se lo stesso sia da annoverare fra le Fax « riproduzioni meccaniche », con conseguente applicazione della disciplina dettata dall’art. 2712 c.c. (in tal senso v. Cass. 3 marzo 2010, n. 5080), ovvero se — consistendo, in pratica, in una fotocopia teletrasmessa — rientri nell’ambito di operatività dell’art. 2719 c.c.: in ogni caso, il fax fa piena prova della sua conformità rispetto all’originale, se colui contro il quale è prodotto non la contesta (una particolare disciplina è dettata dalla L. 7 giugno 1993, n. 183, relativamente ai fax utilizzati per la « trasmissione degli atti relativi a procedimenti giurisdizionali »). Quanto ai « documenti informatici » — per tali intendendosi i Documento documenti elettronici che contengono « la rappresentazione informa- informatico... 252 L’attività giuridica [§ 125] tica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti » (cfr. art. 1, comma 1 lett. p, D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, « Codice dell’amministrazione digitale », ampiamente e reiteratamente modificato da successivi interventi normativi) — occorre distinguere fra: a) documento sottoscritto con « firma elettronica o qualsiasi ... con firma elettronica altro tipo di firma elettronica avanzata autenticata dal notaio o da autenticata altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato », che è equiparata alla scrittura privata autenticata (art. 25, comma 1, D.Lgs. n. 82/2005). « L’autenticazione della firma elettronica (...) consiste nell’attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che la firma è stata apposta in sua presenza dal titolare, previo accertamento della sua identità personale, della validità dell’eventuale certificato elettronico utilizzato e del fatto che il documento sottoscritto non è in contrasto con l’ordinamento giuridico » (art. 25, comma 2, D.Lgs. n. 82/2005); b) documento: ... con firma — sottoscritto con « firma elettronica avanzata » (per tale intenelettronica dendosi quella che « a) è connessa unicamente al firmatario; b) è avanzata idonea a identificare il firmatario; c) è creata mediante dati per la creazione di una firma elettronica che il firmatario può, con un elevato livello di sicurezza, utilizzare sotto il proprio esclusivo controllo; e d) è collegata ai dati sottoscritti in modo da consentire l’identificazione di ogni successiva modifica di tali dati »: artt. 3, n. 11, e 26 Regolamento CE 23 luglio 2014, n. 910/2014, richiamati dall’art. 1-bis D.Lgs. n. 82/2005); o ... con firma — sottoscritto con altro tipo di « firma elettronica qualificata » elettronica (per tale intendendosi « una firma elettronica avanzata creata da un qualificata dispositivo per la creazione di una firma elettronica qualificata e basata su un certificato qualificato per firme elettroniche »: art. 3, n. 12, Regolamento CE n. 910/2014, richiamato dall’art. 1-bis D.Lgs. n. 82/2005); o ... con firma — sottoscritto con « firma digitale » (per tale intendendosi « un digitale particolare tipo di firma qualificata basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare di firma elettronica tramite la chiave privata e a un soggetto terzo tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici »: art. 1, comma 1 lett. s, D.Lgs. n. 82/2005; v. anche art. 24 D.Lgs. n. 82/2005); o — « comunque (...) formato, previa identificazione informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dal AgID [= Agenzia per l’Italia digitale] (...) con modalità tali da [§ 126] La prova dei fatti giuridici 253 garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore » (art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005); che — al pari di una qualsiasi scrittura privata — fa « piena prova », se non disconosciuta, della sua provenienza dal titolare della firma elettronica (art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005). Peraltro, se intende disconoscere la paternità di un documento sottoscritto con firma elettronica qualificata o digitale, quest’ultimo — diversamente da quel che accade con riferimento alla scrittura privata — ha l’onere di fornirne la prova (art. 20, comma 1-ter, D.Lgs. n. 82/2005); c) documento informatico cui è apposta una semplice « firma ... con firma elettronica » (per tale intendendosi quella risultante dai « dati in forma elettronica elettronica, acclusi oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici e utilizzati dal firmatario per firmare »: art. 3, n. 10, Regolamento CE n. 910/2014, richiamato dall’art. 1-bis D.Lgs. n. 82/2005), che sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità (art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005). § 126. La prova testimoniale. La « testimonianza » è la narrazione fatta al giudice da una Nozione persona estranea alla causa — previa prestazione della seguente dichiarazione: « consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e non nascondere nulla di quanto a mia conoscenza » (art. 251 c.p.c.; v. Corte cost. 5 maggio 1995, n. 149) — in relazione a fatti controversi, di cui il teste abbia conoscenza (v. Cass. 29 gennaio 2013, n. 2075). Di regola, il testimone è chiamato a rendere la propria deposizione oralmente davanti al giudice (artt. 251 ss. c.p.c.). Peraltro il giudice può — su accordo delle parti — disporre che essa venga assunta fuori udienza mediante dichiarazione scritta, cui il teste appone la propria firma autenticata (art. 257-bis c.p.c.). La prova testimoniale può avere ad oggetto solo fatti obiettivi, non apprezzamenti o valutazioni personali del teste (v. Cass. 31 luglio 2012, n. 13693). La testimonianza è considerata con una certa diffidenza dal legislatore, sia per il rischio di testi interessati o compiacenti, sia per il rischio di deformazioni inconsapevoli nello sforzo di ricordare e riferire avvenimenti del passato. 254 L’attività giuridica [§ 126] Conseguentemente la prova testimoniale incontra, per certe ipotesi, limiti legali di ammissibilità. In primo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile quando sia invocata per provare il perfezionamento o il contenuto di un contratto avente un valore superiore a lire cinquemila, ovverosia ad E 2,58 (limite che non è stato adeguato al mutato valore della moneta) (art. 2721, comma 1, c.c.). Non si tratta, peraltro, di un divieto rigido: il giudice, infatti, può consentire la prova oltre il limite anzidetto tutte le volte in cui — il che, nella pratica, avviene quotidianamente, considerata l’esiguità dell’importo tuttora indicato dalla legge — lo ritenga opportuno, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza (art. 2721, comma 2, c.c.; v. Cass. 24 gennaio 2018, n. 1751). Inoltre il giudice deve ammettere la prova testimoniale, se ricorre una delle tre ipotesi previste nell’art. 2724 c.c.; e cioè: (i) quando vi sia un principio di prova scritta (ad es., una ricevuta): quando, cioè, vi sia agli atti un documento da cui scaturisca la verosimiglianza del fatto controverso (v. Cass. 16 ottobre 2012, n. 17766); (ii) quando la parte si sia trovata nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta (ad es., contratto concluso tra persone legate da rapporti di intima parentela; v. Cass. 7 luglio 2016, n. 13857); (iii) quando la parte abbia perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova (v. Cass. 24 marzo 2016, n. 5919; Cass. 29 gennaio 2014, n. 1944). ... prova di In secondo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile se patti tende a dimostrare che anteriormente o contemporaneamente alla stiaggiunti o contrari al pulazione di un accordo scritto sono stati stipulati altri patti, non contenuto di risultanti però dal documento (art. 2722 c.c.; v. Cass. 7 novembre un 2018, n. 28407). Anche per i casi in esame il giudice deve, però, documento ammettere la prova se ricorre una delle tre ipotesi di cui all’art. 2724 c.c., appena ricordate. Quando la prova testimoniale è invece invocata a dimostrazione che, successivamente alla formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, il giudice può ammetterla solo se ritiene verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali (art. 2723 c.c.; v. Cass. 3 aprile 2013, n. 8119). ... prova di In terzo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile se tende contratti che a provare un contratto che — per volontà delle parti o per espressa richiedono la forma scritta disposizione di legge — deve essere stipulato (c.d. « forma scritta ad ad substantiam ») o anche solo provato (c.d. « forma scritta ad probatiosubstantiam ovvero ad nem tantum ») per iscritto (art. 2725 c.c.) (v. § 127). In questi casi la probationem prova per testimoni è ammissibile esclusivamente ove ricorra la terza Limiti legali di ammissibilità: ... prova del perfezionamento e/o del contenuto di un contratto [§ 127] La prova dei fatti giuridici 255 ipotesi di cui all’art. 2724 c.c.: ossia, qualora la parte abbia perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova (art. 2725, comma 1, c.c.; v. § 127). Le stesse regole ora illustrate si applicano anche alle prove testimoniali invocate per provare l’effettuazione di un pagamento o la remissione di un debito (art. 2726 c.c.; v. Cass. 9 aprile 2015, n. 7090). L’inammissibilità della prova testimoniale — non derivando da ragioni di ordine pubblico processuale — non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata (v. Cass. 19 febbraio 2018, n. 3956; Cass. 15 febbraio 2018, n. 3763). § 127. Forma ad substantiam e forma ad probationem. Possiamo ora comprendere agevolmente la distinzione, sul piano probatorio, tra « forma richiesta ad substantiam » e « forma richiesta ad probationem ». Quando la forma scritta — atto pubblico o scrittura privata — Forma ad e è richiesta ad substantiam, essa costituisce un elemento essenziale del substantiam validità del contratto; cosicché, ove il requisito formale non venga osservato, contratto l’atto è irrimediabilmente nullo. Così, ad es., qualora una vendita immobiliare sia stata effettivamente stipulata, ma verbalmente, il contratto è invalido e, quindi, privo di qualsiasi effetto (artt. 1350, n. 1, 1325, n. 4, e 1418, comma 3, c.c.; v. § 339 ss.). La prova della stipulazione dell’atto con la forma richiesta ad ... e prova del substantiam può essere data — ovviamente — con la produzione in contratto giudizio del documento in cui l’atto stesso è consacrato. Ci si chiede se la prova che la formazione dell’atto è avvenuta proprio con l’osservanza delle forme stabilite dalla legge possa darsi altrimenti: cioè, attraverso mezzi di prova diversi dalla produzione in giudizio del documento originale (si pensi, ad es., all’ipotesi in cui la parte interessata lo abbia perduto). In linea di principio, il legislatore non consente che la formazione del documento richiesto ad substantiam sia provata per testimoni (art. 2725, comma 2, c.c.) o mediante giuramento (art. 2739, comma 1, c.c.) e quindi — è da ritenere — neppure mediante confessione. Da ciò deriva che il documento attraverso cui è stata manifestata la volontà contrattuale è essenziale non solo per la validità dell’atto (artt. 1325, n. 4, e 1418, comma 2, c.c.), ma anche — di regola — per la prova dello stesso (v. Cass. 24 marzo 2016, n. 5919). 256 L’attività giuridica [§ 127] Unica eccezione è il caso in cui la parte abbia perduto senza sua colpa (per es., in un incendio, in un infortunio, in un terremoto, ecc.) il documento nel quale l’atto era consacrato (artt. 2724, n. 3, e 2725 c.c.): in tal caso potrà essere ammesso ogni tipo di prova (testimonianza, confessione, giuramento, ecc.), se volta a dimostrare: (i) l’originaria esistenza del documento; (ii) la perdita incolpevole di esso; (iii) il suo contenuto (v. Cass. 23 giugno 2015, n. 12890). Dal principio illustrato si ricava che il legislatore impone alla parte l’onere di custodire il documento, onde poterlo in qualsiasi momento, occorrendo, esibire al giudice; altrimenti, mancando il documento o, in alternativa, la prova della sua perdita incolpevole, il giudice deve concludere che esso non è mai stato formato. Forma Ben diversa è la situazione, quando una forma sia richiesta ad scritta ad probationem tantum (cfr., ad es., art. 1742, comma 2, c.c., in tema di probationem: validità e contratto di agenzia; art. 1967 c.c., in tema di transazione non prova del immobiliare; art. 1888, comma 1, c.c., in tema di contratto di contratto assicurazione; art. 1928, comma 1, c.c., in tema di riassicurazione; art. 2556, comma 1, c.c., in tema di cessione d’azienda; art. 2581, comma 2, c.c., in tema di trasferimento dei diritti di utilizzazione dell’opera connessi al diritto d’autore; art. 2596, comma 1, c.c., in tema di patto limitativo della concorrenza; ecc.). In tal caso, infatti, l’atto compiuto senza l’osservanza della forma indicata dalla legge non è nullo: l’unica conseguenza dell’inosservanza del requisito di forma è il divieto della prova testimoniale (art. 2725, comma 1, c.c.) e di quella presuntiva (art. 2729, comma 2, c.c.) (v. Cass. 16 marzo 2015, n. 5165), sempre che la parte non provi di aver perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova (art. 2725, comma 1, c.c.; v. Cass. 14 agosto 2014, n. 17896). Il divieto — ovviamente — vige solo per la parte del negozio, non per i terzi (v. Cass. 30 maggio 2008, n. 14469). Invero, il divieto della prova testimoniale e di quella indiziaria è volto ad indurre le parti a precostituire un documento in cui l’atto risulti consacrato; seppure, in caso di forma richiesta ad probationem tantum, la mancanza del documento non pregiudichi irreparabilmente la possibilità, per le parti, di valersi dell’atto. Innanzitutto, se la formazione del contratto e quanto con esso pattuito costituisce un fatto non contestato, il giudice può — anzi deve — considerarlo provato (laddove, quando si tratti di negozi per i quali la forma è prescritta ad substantiam, nemmeno la concorde ammissione delle parti circa l’avvenuta formazione dell’atto, e neppure una loro concorde dichiarazione, in causa, circa il perfezionamento dell’atto stesso con l’osservanza delle forme prescritte, sa- [§ 128] La prova dei fatti giuridici 257 rebbe sufficiente — secondo l’interpretazione fin qui pacifica — a superare il principio cogente per cui, in assenza di produzione del documento richiesto dalla legge o della prova della sua perdita incolpevole, l’atto si ha per non perfezionato; v. Cass. 17 ottobre 2018, n. 25999). In secondo luogo, trattandosi di forma richiesta ad probationem tantum, quand’anche la formazione dell’atto o il suo contenuto fossero contestati in giudizio, la parte che ciononostante intendesse dimostrare che il negozio si è realmente perfezionato, ovvero quale ne sia il contenuto, potrebbe chiedere l’interrogatorio formale della controparte (artt. 230 ss. c.p.c.) nella speranza di ottenerne una confessione (v. § 129), ovvero potrebbe deferirle il giuramento decisorio (v. § 130), ovvero ancora potrebbe produrre documenti scritti dai quali risulti il perfezionamento dell’atto (v. Cass. 23 gennaio 2018, n. 1627). La giurisprudenza ritiene che l’inammissibilità, per la prova di un contratto per cui è richiesta la forma scritta ad probationem, della prova testimoniale e di quella presuntiva — diversamente da quel che accade ove la forma scritta sia richiesta ad substantiam (v. Cass. 24 novembre 2015, n. 23934) — non possa essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma debba essere eccepita dalla parte interessata (v. Cass. 25 giugno 2014, n. 14470). § 128. Le presunzioni. Per « presunzione » (o « prova indiretta ») si intende ogni argo- Nozione mento, congettura, illazione, attraverso cui — essendo già provata una determinata circostanza (c.d. « fatto-base » o « indizio ») (v. Cass. 12 febbraio 2015, n. 2766) — si giunge logicamente a considerare provata altresì un’altra circostanza, sfornita di prova diretta (così, ad es., dalla circostanza che sia decorso già un certo periodo di tempo dal momento in cui si poteva pretendere il pagamento di determinati debiti, per i quali è regola di esperienza che il pagamento avviene entro breve tempo, si trae la presunzione che il debito sia già stato pagato o comunque si sia già estinto, sebbene manchino prove dirette del pagamento o del verificarsi di un’altra causa di estinzione dell’obbligo: c.d. prescrizione presuntiva; v. § 116). Le presunzioni si dicono « legali » quando è la stessa legge che, in Presunzioni via generale, attribuisce ad un fatto valore di prova in ordine ad un legali: altro fatto, che quindi viene presunto: così, ad es., la legge presume che chi ha il possesso di una cosa altrui sia in buona fede (art. 1147, 258 L’attività giuridica [§ 128] comma 3, c.c.); che una dichiarazione diretta ad una determinata persona sia da quest’ultima conosciuta nel momento in cui la stessa giunge al suo indirizzo (art. 1335 c.c.); ecc. (v. anche artt. 195, 462, comma 2, 688, comma 2, 880, 881, 897, 898, 899, comma 2, 1095, 1101, 1141, comma 2, 1142, 1143, 1184, 1199, comma 2, 1237, comma 2, 1298, comma 2, 1352 c.c.). Le presunzioni legali possono, a loro volta, essere: a) iuris et de iure (ed allora si dicono « assolute »), laddove non ... iuris et de iure ammettono prova contraria (ad es., la presunzione di concepimento durante il matrimonio di cui all’art. 232 c.c.; la presunzione di interposizione di cui all’art. 599, comma 2, c.c.). Quando la legge stabilisce una presunzione assoluta — per la verità — più che di prova indiretta dovrebbe parlarsi di sufficienza del fatto-base a produrre l’effetto ricollegato al fatto-presunto, che, in realtà, diventa irrilevante, dal momento che, in presenza del fatto-base, non è ammessa la prova che il fatto presunto non si è verificato; o b) iuris tantum (ed allora si dicono « relative »), laddove ammet... iuris tantum tono prova contraria (ad es., artt. 899 e 1142 c.c.). La prova contraria può essere fornita, di regola, facendo ricorso a qualsiasi mezzo di prova. Non mancano, peraltro, casi in cui la legge pone limitazioni ai mezzi di prova utilizzabili (ad es., artt. 2959 e 2960 c.c.; v. § 116), ovvero all’oggetto della prova contraria (ad es., art. 1335, c.c.; v. § 268). Le presunzioni si dicono invece « semplici » (o hominis), quando Presunzioni semplici non sono prestabilite dalla legge, ma sono lasciate al prudente apprezzamento del giudice, il quale può ritenere provato un fatto, di cui manchino prove dirette, quando ricorrano indizi « gravi, precisi e concordanti » (art. 2729 c.c.). Peraltro, non occorre che tra il fatto noto ed il fatto ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità basato sull’id quod plerumque accidit (v. Cass. 5 dicembre 2017, n. 28995; Cass. 2 marzo 2017, n. 5374). Il giudice ben potrebbe fondare la propria decisione anche solo su presunzioni semplici (v. Cass. 13 dicembre 2017, n. 29956; Cass. 16 maggio 2017, n. 12002), valutando tutti gli elementi indiziari, non già singolarmente, bensì nel loro complesso e gli uni per mezzo degli altri (v. Cass. 13 dicembre 2017, n. 29956; Cass. 16 maggio 2017, n. 12002). Di più: gli elementi assunti a fonte di prova presuntiva non debbono essere necessariamente più d’uno, ben potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento, purché grave e preciso (v. Cass. 26 settembre 2018, n. 23153; Cass. 27 luglio 2018, n. 19987). [§ 129] La prova dei fatti giuridici 259 Alle presunzioni semplici non si può far ricorso nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni (art. 2729, comma 2, c.c.). § 129. La confessione. La « confessione » è la dichiarazione che la parte fa della verità di Nozione « fatti » a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (ad es., dichiaro di aver ricevuto una somma a mutuo; ammetto di non aver segnalato tempestivamente il cambiamento della traiettoria di marcia della mia autovettura; ecc.). Pur richiedendo nel confitente la consapevolezza e la volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte — c.d. « animus confitendi » (v. Cass. 23 maggio 2018, n. 12798) — la confessione non è un negozio giuridico (v. § 98), ma una dichiarazione di scienza, non occorrendo che il dichiarante ne voglia gli effetti (v. Cass. 30 settembre 2016, n. 19554; Cass. 22 settembre 2015, n. 18624). Essa — v. Cass., sez. un., 22 settembre 2014, n. 19888 — può essere: a) giudiziale, se resa in giudizio e, in questo caso, fa « piena Confessione prova » (prova legale: artt. 2730, 2732, 2733 c.c.), vale a dire che il giudiziale fatto oggetto di confessione non può più essere considerato controverso dal giudice (anche se il confitente, pentitosi o ricredutosi, dovesse muovere tardive contestazioni), cosicché il giudice deve senz’altro assumerlo come vero e porlo a base della propria decisione. La confessione giudiziale può essere fatta spontaneamente; ma, più spesso, è provocata mediante interrogatorio formale della parte, a cui il giudice procede su richiesta dell’altra parte (art. 228 c.p.c.); b) stragiudiziale, se resa fuori dal giudizio. Se è fatta alla parte Confessione o al suo rappresentante, ha lo stesso valore di quella giudiziale (prova stragiudiziale legale; v. Cass. 1° marzo 2018, n. 4842); se è fatta ad un terzo, può essere apprezzata liberamente dal giudice (art. 2735, comma 1, c.c.; v. Cass. 19 gennaio 2017, n. 1320). A differenza di quella giudiziale, la confessione stragiudiziale dev’essere, a sua volta, dimostrata; essa non può essere provata per testimoni, quando verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa secondo le regole già viste (art. 2735, comma 2, c.c.). La confessione (sia giudiziale che stragiudiziale) può essere Revoca: di fatto revocata — cioè, la sua efficacia probatoria può essere vinta — errore e violenza soltanto se si dimostra che essa è stata determinata da errore di fatto o da violenza (art. 2732 c.c.), non essendo sufficiente la prova della semplice divergenza fra quanto dichiarato e quanto effettivamente 260 L’attività giuridica [§ 130] accaduto (v. Cass. 12 maggio 2016, n. 9777; Cass., sez. un., 22 settembre 2014, n. 19888). Confessione La confessione si dice « qualificata » quando la parte riconosce la « qualificata » verità di fatti a sé sfavorevoli, ma vi aggiunge altri fatti o circostanze tendenti ad infirmare l’efficacia del fatto confessato, ovvero a modificarne od estinguerne gli effetti (ad es., ammetto che abbiamo concluso un contratto, ma aggiungo che esso è simulato; riconosco di aver ricevuto 100 a mutuo, ma oppongo di aver già restituito la somma) (v. Cass. 26 giugno 2013, n. 16119). In questo caso bisogna distinguere: a) se l’altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, la dichiarazione confessoria fa piena prova nella sua integrità; b) se l’altra parte la contesta (per es., nega che il contratto sia simulato o che il debito sia stato pagato), è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l’efficacia probatoria della dichiarazione confessoria (art. 2734 c.c.); che, conseguentemente, degrada da « legale » a prova liberamente apprezzabile (v. Cass. 22 gennaio 2018, n. 1530). Capacità del Per poter produrre gli effetti cui si è fatto cenno, la confessione confitente deve provenire da soggetto capace di disporre del diritto cui i fatti confessati si riferiscono (art. 2731 c.c.; v. Cass. 9 aprile 2015, n. 7135; Cass. 20 giugno 2013, n. 15538). Distinta dalla « dichiarazione confessoria » è la « dichiarazione Dichiarazione confessoria e ricognitiva »: mentre la prima — come si è detto — ha ad oggetto dichiarazione ricognitiva l’asseverazione di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (ad es., dichiaro di aver ricevuto 100 a mutuo), la seconda ha invece ad oggetto l’asseverazione di diritti o rapporti giuridici (ad es., dichiaro di essere tuo debitore di 100) e — come si vedrà al successivo § 427 — ha, sul piano probatorio, una rilevanza diversa rispetto a quella della confessione (art. 1988 c.c.). Del pari, non ha natura confessoria la dichiarazione avente ad oggetto non già fatti oggettivi, bensì la formulazione di giudizi, di opinioni, di valutazioni soggettive, quand’anche sfavorevoli al loro autore (v. Cass. 19 aprile 2012, n. 6142). § 130. Il giuramento. Il « giuramento » è un mezzo di prova (legale) cui si può ricorrere nel corso di un giudizio civile, in presenza di particolari presupposti, [§ 130] La prova dei fatti giuridici 261 al fine della dimostrazione di fatti (ma non di situazioni o rapporti giuridici: v. Cass. 25 ottobre 2018, n. 27086). Il giuramento può essere « decisorio » o « suppletorio » (art. 2736 c.c.). Il « giuramento decisorio » si chiama così perché deve riguardare Giuramento circostanze che abbiano valore « decisorio » in ordine ad un thema decisorio decidendum su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi (v. Cass. 29 ottobre 2018, n. 27410); cosicché l’esito del giuramento — positivo o negativo che sia — preclude ogni ulteriore accertamento al riguardo: perciò anche il giuramento è una « prova legale » ed il suo esito fa « piena prova » in ordine alle circostanze che ne formano oggetto, quand’anche i fatti con esso dedotti siano stati già accertati o esclusi in base ad altre risultanze probatorie (v. Cass. 15 febbraio 2013, n. 3815). Anzi, l’efficacia probatoria del giuramento è la più intensa che si possa immaginare: infatti, se — da un lato — vincola, quale prova legale, il giudice al suo esito — da altro lato — tale vincolo, atteso il carattere di decisività della questione oggetto di giuramento, si riflette sulla pronuncia del giudice che, dopo aver constatato « an juratum sit », dovrà senz’altro dichiarare vittoriosa la parte che ha giurato e soccombente l’altra (su tutta la causa o sulla parte investita dal giuramento), senza che quest’ultima abbia la possibilità di provare il contrario (v. Cass. 7 maggio 2014, n. 9831). Il giuramento decisorio può essere deferito solo ad iniziativa di Iniziativa di una delle parti in lite (e non può mai, perciò, essere ammesso dal parte giudice d’ufficio; cioè, senza specifica istanza di parte). La parte che assume l’iniziativa chiede al giudice — cui spetta soltanto di decidere se la circostanza indicata dalla parte ha effettivamente carattere « decisorio » (v. Cass. 25 giugno 2012, n. 10574) — di invitare controparte a confermare, sotto giuramento, se il fatto oggetto di contestazione si è davvero verificato secondo quanto dalla stessa finora sostenuto nel processo; cosicché, ove si tratti di un’affermazione mendace, la parte cui il giuramento è deferito si troverà nell’alternativa o di abbandonare la tesi finora affermata, riconoscendo la verità di quanto sostenuto invece dall’avversario, ovvero di giurare il falso, commettendo spergiuro (con ogni conseguente rischio, anche penale: art. 371 c.p.). Va comunque sottolineato che il giuramento non è ammissibile Giuramento veritate e se non quando (art. 2739, comma 2, c.c.) sia relativo ad un fatto de giuramento proprio della parte cui è deferito o, comunque, caduto sotto la sua de scientia diretta percezione (in tal caso, si parla di « giuramento de veritate »), ovvero quando sia relativo alla conoscenza che essa ha di un fatto 262 L’attività giuridica [§ 130] altrui (in tal caso, si parla di « giuramento de scientia ») (v. Cass. 4 giugno 2018, n. 14300). La parte alla quale il giuramento sia stato deferito può a sua volta, se preferisce, « riferire » il giuramento all’avversario (art. 234 c.p.c.), a condizione che il fatto che ne è oggetto sia « comune » ad entrambi (art. 2739, comma 2, c.c.). Il giuramento viene reso in giudizio personalmente dalla parte, La prestazione alla presenza del giudice, che deve ammonire il giurante sull’impordel giuramento tanza morale dell’atto e sulle conseguenze penali di eventuali dichiarazioni false da lui rese; e, quindi, l’invita a giurare (art. 238, comma 1, c.p.c.). Per la verità, il legislatore richiedeva che il giudice ammonisse la parte sull’importanza « religiosa e morale » dell’atto, e che la formula del giuramento comprendesse le parole « consapevole della responsabilità che con il giuramento assumo davanti a Dio e agli uomini »: ma la Corte costituzionale, con la sentenza n. 334 del 1996, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il richiamo sia ai valori religiosi che a quelli etici, cosicché il significato del giuramento « da etico-religioso qual era originariamente, diventa morale-individuale, in quanto finisce per dipendere dal riferimento che ciascuno faccia, in coscienza e secondo la sua visione del mondo, a quanto considera di più impegnativo e degno di osservanza ». Si giunge, così, al culmine del processo di laicizzazione del giuramento decisorio. Se la parte si rifiuta di giurare o non si presenta, senza giustiEfficacia probatoria ficato motivo, all’udienza all’uopo fissata, la sua versione del fatto del giuramento non può più essere considerata vera dal giudice, indipendentemente da qualsiasi altra prova a suo favore. Se invece presta il giuramento, il giudice deve definitivamente considerare vera la sua affermazione e decidere in conformità la questione per la quale il giuramento è stato ammesso. Non si possono fornire prove contrarie. Si può soltanto denunciare in sede penale chi abbia eventualmente giurato il falso (art. 371 c.p.). E, se sia intervenuta condanna penale, si può chiedere (art. 2738, comma 2, c.c.) il risarcimento dei danni (e, cioè, la condanna dello spergiuro al pagamento di una somma di danaro che rappresenti l’equivalente del danno subìto), ma non la revocazione della sentenza civile che sia stata pronunciata in base al falso giuramento (art. 2738, comma 1, c.c.). Se il delitto di falso giuramento è estinto (artt. 150-152 c.p.; ad es., per amnistia), spetta al giudice civile accertare se sussistono gli elementi del delitto di falso giuramento, sempre al limitato fine di condannare lo spergiuro al risarcimento dei danni (art. 2738, comma 2, c.c., in relazione all’art. 198 c.p.; per la [§ 130] La prova dei fatti giuridici 263 prescrizione della relativa azione civile cfr. art. 2947, ult. comma, c.c.) (v. Cass. 19 ottobre 2015, n. 21089). Il giuramento non è ammissibile quando (art. 2739, comma 1, Limiti legali c.c.) si tratti: (i) di diritti indisponibili (ad es., questioni di stato); (ii) all’ammissibilità del di fatto illecito (art. 2043 c.c.; v. Cass. 29 gennaio 2014, n. 1946); (iii) giuramento di atto per cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam (v. Cass. 23 novembre 2018, n. 30446); (iv) di negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che lo ha redatto. Il secondo tipo di giuramento previsto dal codice civile è il Giuramento suppletorio « giuramento suppletorio ». Il giuramento suppletorio può essere deferito non già in base ad Iniziativa un’iniziativa di parte, bensì d’ufficio, in forza di un potere discrezio- ufficiosa nale dello stesso giudice (v. Cass. 15 marzo 2016, n. 5090; Cass. 10 febbraio 2016, n. 2676), quando questi si trovi di fronte ad un fatto rimasto incerto, ma per il quale la parte che aveva l’onere di provarlo abbia fornito elementi abbastanza rilevanti, sebbene non definitivamente persuasivi (c.d. semiplena probatio): in tal caso il giudice può offrire alla parte, su cui grava il relativo onere probatorio, di perfezionare la prova, già quasi raggiunta, confermando con il giuramento che i fatti affermati sono veri (art. 2736, n. 2, c.c.; v. Cass. 20 ottobre 2016, n. 21235; Cass. 17 febbraio 2016, n. 3130). Una particolare specie di giuramento suppletorio è il « giura- Giuramento mento estimatorio », che può essere deferito per stabilire il valore di estimatorio una cosa, quando non sia possibile accertarlo diversamente (art. 2736, n. 2, c.c.; v. Cass. 15 marzo 2016, n. 5090). I DIRITTI REALI CAPITOLO XIII I DIRITTI REALI IN GENERALE E LA PROPRIETÀ A) I DIRITTI REALI § 131. Caratteri e categorie dei diritti reali. L’espressione « diritti reali » non risale al diritto romano, che Nozione conosceva la ben diversa — e più ampia — figura delle « actiones in rem ». La categoria è stata elaborata successivamente per raggruppare i diritti su cosa materiale determinata: c.d. « iura in rem ». Tradizionalmente si ritiene che i diritti reali siano caratterizzati: Caratteri: a) dall’« immediatezza », ossia dalla possibilità, per il titolare, di ... esercitare direttamente il potere sulla cosa, senza necessità della immediatezza cooperazione di terzi (così, ad es., il proprietario può utilizzare il bene, senza necessità della collaborazione di altri, essendo sufficiente che questi ultimi non vi frappongano ostacolo); b) dall’« assolutezza », ossia dal dovere di tutti i consociati di ... assolutezza astenersi dall’interferire nel rapporto fra il titolare del diritto reale ed il bene che ne è oggetto; e — correlativamente — dalla possibilità, per il titolare, di agire in giudizio contro chiunque contesti o pregiudichi il suo diritto: c.d. « efficacia erga omnes » del diritto reale; c) dall’« inerenza », ossia dalla opponibilità del diritto a chiun- ... inerenza que possieda o vanti diritti sulla cosa (così, ad es., il proprietario può agire nei confronti di chiunque possieda il bene per ottenerne la restituzione: v. § 143; la servitù di passaggio continua a gravare sul fondo anche quando la proprietà di quest’ultimo passi a terzi: c.d. « diritto di sequela »). Si è peraltro osservato che né l’immediatezza, né l’assolutezza, né l’inerenza caratterizzerebbero sempre e solo i diritti reali: così, ad es., l’« immediatezza » difetterebbe in caso di servitù negative (v. § 160) o di ipoteca (v. §§ 245 ss.), mentre ricorrerebbe in caso di locazione (v. § 384), di comodato (v. § 400), di anticresi (v. § 421); l’« assolutezza » difetterebbe in caso di diritti reali di garanzia (v. §§ 245 ss.) e di servitù (v. §§ 154 ss.), mentre ricorrerebbe in caso di 268 I diritti reali [§ 131] locazione per l’ipotesi di molestie arrecate da terzi che non pretendano di avere diritti sulla cosa (art. 1585, comma 2, c.c.); l’« inerenza » difetterebbe in caso di proprietà immobiliare non trascritta (art. 2644 c.c.; v. §§ 681 ss.) o di proprietà mobiliare senza possesso del bene (art. 1153 c.c.; v. § 181), mentre ricorrerebbe in caso di locazione ultranovennale trascritta, la quale può essere opposta a qualunque terzo (art. 1599, comma 3, c.c.). Pur in difetto di un’espressa previsione normativa al riguardo, Numero chiuso e si ritiene tradizionalmente che i diritti reali costituiscano un numerus tipicità clausus (che sia, cioè, precluso ai privati creare diritti reali diversi ed ulteriori rispetto a quelli espressamente disciplinati dalla legge; v. Cass. 24 ottobre 2018, n. 26987) e, contestualmente, che gli stessi siano connotati dal carattere della tipicità (che sia cioè, di regola, precluso all’autonomia dei privati di modificare il contenuto essenziale dei singoli diritti reali; v., da ultimo, Cass. 9 ottobre 2018, n. 24919). In tal modo — da un lato — si vuole impedire che i privati possano moltiplicare limiti e vincoli destinati a comprimere i poteri del proprietario, con il rischio di rendere inefficiente la gestione del bene, e — da altro lato — si intende tutelare i terzi che, volendo acquisire diritti sulla cosa, devono essere posti in grado di conoscere con esattezza i vincoli che gravano su di essa. Nell’ambito dei diritti reali, si è soliti distinguere tra — da un lato Ius in re propria e — la proprietà (ius in re propria) e — da altro lato — i c.d. « iura in iura in re aliena re aliena »: cioè, i diritti reali che gravano su beni di proprietà altrui e che sono destinati a coesistere, comprimendolo, con il diritto del proprietario (così, ad es., su un medesimo fondo possono gravare il diritto di proprietà di Tizio ed una servitù di passaggio a favore di Caio: è evidente che quest’ultimo diritto finirà con il limitare il potere di Tizio, il quale potrà sì utilizzare il proprio fondo, ma gli saranno precluse tutte quelle attività che impediscano a Caio l’esercizio del suo diritto). I « diritti reali in re aliena » si distinguono, a loro volta, in Diritti reali di godimento « diritti reali di godimento » (superficie, enfiteusi, usufrutto, uso, abie diritti reali di garanzia tazione, servitù prediali; v. §§ 144 ss.) e « diritti reali di garanzia » (pegno ed ipoteca; v. §§ 238 ss.): i primi attribuiscono al loro titolare il diritto di trarre dal bene talune delle utilità che lo stesso è in grado di fornire (al contempo variamente comprimendo il potere di godimento che compete al proprietario); i secondi attribuiscono al loro titolare il diritto di farsi assegnare, con prelazione rispetto agli altri creditori, il ricavato dall’eventuale alienazione forzata del bene, in caso di mancato adempimento dell’obbligo garantito (v. § 238). Collegate a situazioni di diritto reale sono le c.d. « obbligazioni Obbligazione propter rem propter rem » (o « obbligazioni reali »; v. anche § 192), che si caratte- [§ 132] I diritti reali in generale e la proprietà 269 rizzano per il fatto che la persona dell’obbligato viene individuata in base alla titolarità di un diritto reale su un determinato bene: così, ad es., l’obbligo di sostenere le spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune grava su ciascun comproprietario (artt. 1104, comma 1, e 1123 c.c.; v. Cass. 29 settembre 2011, n. 19893); l’obbligo di sostenere le spese necessarie per le riparazioni e le ricostruzioni necessarie del muro comune grava sui comproprietari (art. 882, comma 1, c.c.); l’obbligo di permettere al vicino l’accesso ed il passaggio sul fondo, onde consentirgli di riparare il muro dell’immobile di sua proprietà, grava sul proprietario del fondo confinante (art. 843 c.c.; v. Cass. 2 marzo 2018, n. 5012); ecc. Si dubita che all’autonomia privata sia consentito creare obbligazioni reali atipiche, cioè diverse ed ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dalla legge (in senso negativo v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25673). Da non confondere con l’« obbligazione reale » è l’« onere reale », in Onere reale forza del quale il creditore, per il pagamento di somme di denaro o altre cose generiche da prestarsi in relazione ad un determinato bene immobile, può soddisfarsi sul bene stesso, chiunque ne diventi proprietario o acquisti diritti reali di godimento o di garanzia su di esso. Si ritiene che l’unica ipotesi di onere reale prevista dal nostro codice civile sia costituita dai contributi consortili (art. 864 c.c.; v. Cass. 13 settembre 2018, n. 22302). Altre ipotesi sono però contemplate nella legislazione speciale (v., ad es., art. 253 D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152: v. Cons. Stato 5 ottobre 2016, n. 4099; art. 10 L. 30 aprile 1976, n. 386: v. Cass. 14 novembre 2013, n. 25595; art. 21 R.D. 13 febbraio 1933, n. 215: v. Cass. 13 settembre 2018, n. 22302; ecc.). L’opinione prevalente è che non sarebbe dato ai privati costituire oneri reali al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge (v. Cass. 22 luglio 1966, n. 2003). B) LA PROPRIETÀ § 132. Il contenuto del diritto. « Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono — proclamava La l’art. 29, comma 1, dello Statuto albertino del 1848 — inviolabili » concezione liberal (altre costituzioni dell’epoca dichiaravano addirittura che la pro- ottocentesca prietà è « sacra »). 270 I diritti reali [§ 132] Formule siffatte esaltavano il ruolo che, all’epoca, si riconosceva all’istituto della proprietà privata, autentico pilastro dell’organizzazione sociale: stimolo e premio dell’iniziativa privata, fondamento dell’ordine e della sicurezza collettiva, espressione prima della libertà di ciascuno (e, proprio per ciò, anche condizione per l’accesso ai diritti politici, cosicché il diritto di voto era subordinato al possesso di un determinato « censo »). Nella formula dello Statuto, taluno riteneva di trovare conferma alla tesi secondo cui la proprietà privata — in quanto espressione del generale principio di libertà dell’individuo — sarebbe un diritto « innato », « di natura », che i poteri pubblici possono soltanto eccezionalmente comprimere, ma sempre rispettandone la priorità rispetto alla stessa organizzazione dello Stato. Il codice L’art. 832 c.c. — riprendendo molto da vicino le parallele civile definizioni contenute nel codice francese del 1804 e nel codice civile italiano del 1865 — enuncia il principio secondo cui al proprietario spetta il « diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo ». La proprietà attribuisce, dunque, al titolare: Potere di a) il potere di godimento del bene, per tale intendendosi il potere godimento di trarre dalla cosa le utilità che la stessa è in grado di fornire, decidendo se, come e quando utilizzarla: o direttamente (ad es., abitando l’appartamento di proprietà) o indirettamente (ad es., concedendo l’appartamento in locazione a terzi, onde ricavarne un corrispettivo in danaro: il c.d. « canone di locazione »); e Potere di b) il potere di disposizione del bene, per tale intendendosi il disposizione potere di cedere ad altri, in tutto o in parte, diritti sulla cosa (ad es., il proprietario può vendere l’appartamento, donarlo, locarlo, farne oggetto di usufrutto, ecc.). L’art. 832 c.c. — come detto — precisa, poi, che il potere di godimento e di disposizione che compete al proprietario è « pieno ed esclusivo ». Da qui l’idea che la proprietà sia — in linea di principio — Assolutezza ed esclusività caratterizzata dai connotati: a) della « pienezza » (ossia, dell’attribuzione al proprietario del diritto di fare della cosa tutto ciò che vuole, persino distruggerla: al punto che il diritto di proprietà è stato definito come ius utendi et abutendi); e b) della « esclusività » (ossia, dell’attribuzione al proprietario del diritto di vietare ogni ingerenza di terzi in ordine alle scelte che, in tema di godimento e di disposizione del bene, il proprietario si riserva [§ 132] I diritti reali in generale e la proprietà 271 di effettuare con totale arbitrio e discrezionalità: ius excludendi omnes alios). Peraltro, lo stesso art. 832 c.c. riconosce sì al proprietario il « diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo », ma solo « entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico ». Ormai antistorico risulta il tentativo di conciliare l’apparente contrapposizione tra la pienezza del diritto del proprietario ed i limiti imposti al suo agire, attribuendo a questi ultimi carattere meramente eccezionale. In realtà, le caratteristiche dell’« assolutezza » e dell’« esclusività » — corrispondenti ad un concetto elementare del « mio », dell’« appartenenza » di una cosa ad un soggetto — sono tipiche ormai solo della proprietà dei beni di uso strettamente personale. Quanto agli altri beni — specie quelli utilizzati nell’esercizio di attività d’impresa o come capitale produttivo di rendita — l’ordinamento non rimette integralmente al proprietario le scelte in ordine al loro utilizzo (o non utilizzo). Già il codice civile — dopo alcune disposizioni valide per la proprietà in generale (a prescindere, cioè, dalla natura dell’oggetto su cui la stessa ricade), pur sempre improntate ad una subordinazione dell’interesse del proprietario ad altri interessi, privati o pubblici (artt. 833-838 c.c.) — detta una disciplina differenziata per la proprietà dei « beni d’interesse storico e artistico » (art. 839 c.c.; v. § 134), per la « proprietà rurale » (artt. 846 ss. c.c.), per la « proprietà edilizia » (artt. 869 ss. c.c.; v. § 135), per la « proprietà fondiaria » (artt. 840-845 e 873-921 c.c.; v. § 136): elaborando, per ciascuna categoria di beni, una serie di previsioni miranti a conciliare l’interesse egoistico del proprietario con l’interesse degli altri proprietari o della collettività. Il distacco dalla concezione liberal-ottocentesca della proprietà appare pienamente maturato nella Costituzione repubblicana del 1948. Innanzitutto, nella nostra Carta costituzionale, la proprietà non La proprietà solo non è più — come avveniva, invece, nello Statuto albertino — nella Costituzione dichiarata « inviolabile », ma non viene neppure disciplinata né fra i « principi fondamentali » (artt. 1-12 Cost.), né fra i diritti di libertà (artt. 13-28 Cost.): essa è contemplata nel titolo relativo ai « rapporti economici » (artt. 42-44 Cost.). Peraltro, anche l’attuale Costituzione dichiara solennemente che « la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge » (art. 42, comma 2, Cost.): tale garanzia implica non soltanto che non è consentito al legislatore ordinario di sopprimere l’istituto della pro- 272 I diritti reali [§ 132] prietà privata, ma che sarebbe altresì in contrasto con i principi costituzionali un’eventuale trasformazione del nostro sistema in un ordinamento in cui i beni siano prevalentemente collettivizzati. È tuttavia pacifico che il legislatore ben potrebbe escludere l’ammissibilità della proprietà privata per quanto riguarda una o più determinate categorie di beni: anzi, è lo stesso art. 43 Cost. ad espressamente prevedere che « a fini di utilità generale la legge può riservare o trasferire (...) allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale » (e, in applicazione di questa norma, nel 1962 si è proceduto alla nazionalizzazione delle imprese elettriche ed alla costituzione di un ente pubblico — l’Enel — incaricato della produzione e della distribuzione dell’energia elettrica; anche se oggi, come nelle oscillazioni di un pendolo, l’Enel è stato trasformato in una società per azioni con titoli diffusi fra il pubblico ed il mercato della produzione e commercializzazione dell’energia elettrica è stato liberalizzato). A ciò si aggiunga che, sempre con riferimento alla proprietà privata, la Costituzione — all’art. 42, comma 2 — demanda espressamente al legislatore ordinario il compito di determinarne « i modi di acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti ». In altre parole, il legislatore è legittimato ad intervenire per delineare — con riferimento a singole categorie di beni — il contenuto dei poteri (di godimento e/o di disposizione) che competono al proprietario (c.d. interventi « conformativi » dei vari statuti proprietari); e ciò, al fine di garantire che il relativo esercizio — quand’anche, come è normale, sia determinato da finalità egoistiche — comunque realizzi una « funzione sociale »: funzione da ricollegarsi — come lascia intuire il disposto dell’art. 44, comma 1, Cost. — sia all’esigenza di realizzare uno sfruttamento economicamente efficiente dei beni, sia all’esigenza di instaurare più equi rapporti sociali; e, più in generale, all’esigenza di tutelare tutti quei valori ed interessi costituzionalmente protetti (ad es., salute, lavoro, libertà, sicurezza, dignità della persona, solidarietà, ecc.) che potrebbero risultare sacrificati da un’illimitata ed esclusiva utilizzazione privatistica dei beni. Riserva di In sintesi: (i) la conformazione dei poteri dominicali compete, in legge via esclusiva, al legislatore (c.d. « riserva di legge »); (ii) il legislatore è legittimato a prevedere compressioni dei poteri dominicali solo se [§ 132] I diritti reali in generale e la proprietà 273 giustificate dalla necessità di garantire che gli stessi non vengano esercitati in contrasto con l’utilità sociale. Ora — in applicazione di siffatte indicazioni costituzionali — La nel dopoguerra si è assistito ad una serie ininterrotta, dilagante, legislazione postbellica talora scoordinata di interventi normativi che hanno variamente inciso sui singoli « statuti » proprietari: tant’è che ormai corrente è l’affermazione secondo cui, con riferimento al nostro ordinamento, sarebbe oggi corretto parlare piuttosto che della proprietà (al singolare), quale regime dominicale unitario, delle proprietà (al plurale), per indicare che le situazioni di appartenenza si atteggiano diversamente a seconda dell’oggetto cui si riferiscono e/o del soggetto cui competono. Così, ad es., ben diversi — e più ampi — sono i poteri di godimento e disposizione che competono al proprietario di un abito, rispetto a quelli che competono al proprietario di un « bene culturale » (v. § 134); ben diversi sono i poteri che competono al titolare di una proprietà esclusiva rispetto a quelli che competono al comproprietario (v. §§ 162 ss.); ben diversi sono i poteri che competono all’ente pubblico sui beni demaniali o del patrimonio indisponibile rispetto a quelli che competono al privato proprietario sul medesimo tipo di bene (v. § 95); ecc. Da notare che — con riferimento alle previsioni che delineano i poteri del proprietario relativamente ad intere categorie di beni — non appare giustificato parlare (come peraltro fa lo stesso art. 42, comma 2, Cost.) di « limiti » alla proprietà privata: dette previsioni, infatti, conformano positivamente il contenuto del diritto del proprietario. Quelli che emergono da dette previsioni potrebbero considerarsi « limiti » ai poteri di quest’ultimo, solo muovendo dall’aprioristico presupposto — ormai superato nel diritto positivo — che la proprietà attribuisca effettivamente al suo titolare il diritto di godere e disporre delle cose « in modo pieno ». Va, da ultimo, segnalato che la disciplina della proprietà non si La normativa esaurisce più, oggi, nelle sole regole di derivazione nazionale fin qui sovranazionale ricordate. Essa, infatti, si è venuta progressivamente arricchendo di tutta una serie di previsioni sovranazionali (v. art. 1 primo protocollo addizionale CEDU, secondo cui « ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni »; art. 17 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea — collocato nel titolo dedicato alle « libertà » — secondo cui « ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità »), che inducono ad interrogarsi se — in qualche misura in controtendenza rispetto al percorso compiuto dal legislatore nazionale nell’ultimo arco del secolo scorso — il diritto di proprietà non sia I diritti reali 274 [§ 133] venuto riacquisendo il carattere di diritto fondamentale dell’uomo; e, in caso affermativo, come ciò eventualmente incida, limitandolo, sul potere dello Stato nazionale di legittimamente imporre obblighi e restrizioni al diritto dominicale. Caratteri: La proprietà si ritiene tradizionalmente caratterizzata: ... elasticità a) dall’elasticità: invero, i poteri che normalmente competono al proprietario possono essere compressi in virtù della coesistenza sullo stesso bene di altri diritti reali (ad es., usufrutto, servitù, ecc.; v. §§ 131 e 144) o di vincoli di carattere pubblicistico; tali poteri sono però destinati a riespandersi automaticamente non appena dovesse venire meno il diritto reale o il vincolo pubblicistico concorrente. Così, ad es., allorquando si estingue il diritto di usufrutto gravante sul bene, il potere di godimento del proprietario, fino a quel momento praticamente azzerato in conseguenza dei poteri spettanti all’usufruttuario, riassume l’originaria ampiezza (v. § 152); ... imprescritb) dalla imprescrittibilità: sebbene l’art. 948, comma 3, c.c. tibilità riferisca l’imprescrittibilità non alla proprietà, ma all’azione di rivendicazione, è peraltro pacifico che anche la proprietà non si può perdere per « non uso », bensì soltanto per l’usucapione che altri abbia a perfezionare a proprio favore; e le ragioni di tale imprescrittibilità sono già state enunciate al § 112; ... perpetuità c) dalla perpetuità: è opinione diffusa che quella di una proprietà ad tempus sarebbe una contraddizione in termini (v. Cass. 4 aprile 2012, n. 5391). Si fa peraltro notare che l’ordinamento conosce Proprietà talune ipotesi di « proprietà temporanea »: si pensi, ad es., alla protemporanea prietà superficiaria a termine (art. 953 c.c.; v. § 145), alla proprietà oggetto di un legato sottoposto a termine iniziale (v. §§ 663 ss.), alla proprietà trasferita a terzi in forza di un contratto con termine iniziale (v. §§ 325 ss.), alla — aggiunge taluno — proprietà dell’istituito nel fecommesso (art. 692 c.c.; v. § 633). § 133. La tutela costituzionale Espropriazione e indennizzo. L’art. 42, comma 3, Cost. dispone che « la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale ». La norma tende a ricercare un punto di equilibrio fra — da un lato — l’interesse del proprietario alla conservazione dei suoi diritti sul bene e — da altro lato — il contrapposto interesse della collettività ad utilizzarlo, ove occorra, a fini di pubblico interesse (ad es., per destinarlo alla fruizione da parte dell’intera collettività, ovvero alla [§ 133] I diritti reali in generale e la proprietà 275 realizzazione di opere pubbliche: ponti, scuole, ospedali, aeroporti, programmi di edilizia economica e popolare, ecc.). A tal fine, la Costituzione prevede che la posizione del privato possa essere sacrificata solo in presenza: a) di un « interesse generale » (v. Cass., sez. un., 13 gennaio 2014, n. 441); b) di una previsione legislativa che lo consenta (c.d. « riserva di legge »); c) di un « indennizzo » che compensi il privato del sacrificio che subisce nell’interesse della collettività. Al riguardo, vedi — oggi — anche art. 17 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui « nessuna persona può essere privata delle proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa ». Due i punti nodali attorno ai quali si è sviluppato il dibattito suscitato dalla disciplina costituzionale in materia di espropriazione per pubblico interesse: che cosa si debba intendere per « espropriazione » e che cosa si debba intendere per « indennizzo ». Quanto al primo problema, senz’altro superata è la concezione Nozione: tradizionale, secondo cui si avrebbe « espropriazione » solo nel caso di espropriazione trasferimento della titolarità di un bene dal precedente proprietario traslativa e (« espropriato ») ad un altro soggetto, pubblico o privato (« beneficia- larvata rio dell’espropriazione »): c.d. « espropriazione traslativa ». La Corte costituzionale da oltre mezzo secolo insegna, infatti, che rientrano nella nozione di « espropriazione » (e non possono, quindi, essere imposte se non « per legge » ed a fronte di un « indennizzo ») anche quelle limitazioni che — pur non determinando, per il proprietario, la perdita del suo diritto — siano comunque « tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio » (Corte cost., 20 gennaio 1966, n. 6): c.d. « espropriazione larvata » o « limiti espropriativi ». Invero, la Corte tende a distinguere fra — da un lato — disposizioni (c.d. « interventi di conformazione dei vari statuti proprietari ») che si riferiscono ad intere categorie di beni, sottoponendo tutti i beni appartenenti alla categoria ad un particolare regime di godimento e/o di disposizione e — da altro lato — disposizioni (c.d. « interventi di espropriazione larvata ») che si riferiscono invece a 276 I diritti reali [§ 133] singoli cespiti, restringendo i poteri del proprietario rispetto a quelli riconosciuti, in via generale, agli altri titolari di beni appartenenti a quella medesima categoria, ovvero annullandone o diminuendone in modo apprezzabile il valore di scambio: le prime (ad es., quelle contemplate dal D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, che prevedono restrizioni, anche molto penetranti, ai poteri di godimento e di disposizione spettanti a tutti indiscriminatamente i proprietari di c.d. « beni culturali »; v. § 134) non rientrano nel concetto di « espropriazione », bensì in quello di « conformazione » del contenuto del diritto di proprietà sui beni appartenenti a quella determinata categoria e, conseguentemente, non comportano « indennizzo »; le seconde (ad es., quelle che impongono particolari restrizioni, rispetto ai poteri normalmente spettanti ai proprietari di aree agricole, al singolo titolare il cui fondo sia gravato da non marginali vincoli alla coltivazione, a tutela della sicurezza dei voli che si effettuano nel limitrofo aeroporto) rientrano invece nel concetto di « espropriazione » e necessitano di « indennizzo » (v. Cass. 18 giugno 2018, n. 16084). Muovendosi su questa linea, il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (« Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità ») prevede ora che nella nozione di « espropriazione » di beni immobili rientri non solo l’ipotesi di « passaggio del diritto di proprietà » dall’espropriato al beneficiario dell’espropriazione (art. 23, comma 1 lett. f, D.P.R. n. 327/2001; v. anche art. 20, commi 9 e 10, D.P.R. n. 327/2001), ma anche quella del « vincolo sostanzialmente espropriativo » (art. 39, comma 1, D.P.R. n. 327/2001), ovvero quella in cui il fondo « sia gravato da una servitù o subisca una permanente diminuzione di valore per la perdita o la ridotta possibilità di esercizio del diritto di proprietà » (art. 44, comma 1, D.P.R. n. 327/2001). Quanto al secondo problema — quello relativo ai criteri cui il Indennizzo legislatore deve attenersi per la determinazione dell’« indennizzo » da corrispondere al soggetto che subisce l’esproprio — la Corte costituzionale ha escluso, attesi i fini di interesse generale che i provvedimenti espropriativi perseguono, che l’indennizzo debba necessariamente consistere in un « integrale risarcimento » del pregiudizio economico sofferto dall’espropriato; con la conseguenza che non è richiesto che l’indennizzo sia pari al valore venale (o « di mercato ») del bene. Di contro, la stessa Corte costituzionale ha però escluso che l’indennizzo possa essere dal legislatore stabilito in termini meramente « simbolici » o « irrisori », dovendo piuttosto rappresentare un « serio [§ 133] I diritti reali in generale e la proprietà 277 ristoro » del pregiudizio conseguente all’espropriazione (v., da ultimo, Corte cost. 22 aprile 2016, n. 90). Dal canto suo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha preso ad interpretare l’art. 1 Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nel senso che — se lo stesso non garantisce sempre all’espropriato una riparazione integrale — « in numerosi casi di espropriazione legittima, come l’espropriazione singola di un terreno per la costruzione di una strada o per altri scopi di “pubblica utilità”, solo un indennizzo integrale può essere considerato » idoneo a « mantenere un “giusto equilibrio” tra le necessità dell’interesse generale della collettività e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo »; mentre solo « scopi legittimi di pubblica utilità, come quelli che si perseguono con misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono giustificare un rimborso inferiore al pieno valore di mercato » (così Corte europea dir. uomo, sez. Grande Camera, 29 marzo 2006, n. 36813). Era così destinata ad avviarsi al tramonto la fin troppo lunga stagione in cui il legislatore nazionale, a tutela delle esigenze di bilancio degli enti esproprianti, si è esibito nell’escogitare criteri di quantificazione degli indennizzi fortemente penalizzanti per l’espropriato. Tant’è che oggi il già citato D.P.R. n. 327/2001 (artt. 32 ss.) contempla una serie di meccanismi di quantificazione dell’indennità di esproprio miranti a ragguagliarla, in ipotesi di espropriazione traslativa, al valore venale del bene espropriato (v. Cass. 31 ottobre 2018, n. 27934; Cass. 25 ottobre 2017, n. 25314) e, in ipotesi di vincolo espropriativo o di espropriazione parziale, al pregiudizio effettivamente sofferto dall’espropriato (v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12468; Cass. 15 giugno 2017, n. 14891). Al fine di incentivare la « cessione volontaria » della proprietà del Cessione bene dall’espropriando al beneficiario dell’espropriazione senza ne- volontaria cessità di addivenire ad un formale decreto di esproprio, la legge prevede che il corrispettivo della cessione sia, di regola, maggiore rispetto all’indennizzo (artt. 37, comma 2, e 45, comma 2, D.P.R. n. 327/2001; v. Cass. 22 gennaio 2018, n. 1534). Si verifica con una certa frequenza che la P.A. (ad es., un Utilizzazione titolo di Comune) realizzi un’opera pubblica (ad es., alloggi popolari, un senza un bene per depuratore, ecc.) su un fondo privato occupato illegittimamente, scopi di senza aver prima adottato un valido provvedimento espropriativo o interesse pubblico: c.d. d’occupazione d’urgenza, ovvero nonostante la scadenza del termine acquisizione previsto per quest’ultima. In ipotesi siffatte, l’Autorità che utilizza sanante I diritti reali 278 [§ 134] un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo averlo modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità, è legittimata — in presenza di « attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico (...) valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati » ed in « assenza di ragionevoli alternative » — ad adottare un provvedimento (c.d. « provvedimento di acquisizione coattiva »), in forza del quale l’immobile viene acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile: c.d. « acquisizione sanante ». Al proprietario è riconosciuto un indennizzo per il pregiudizio — patrimoniale e non patrimoniale — sofferto: quantificati, il primo, in misura corrispondente al valore venale del bene e, il secondo, forfettariamente in misura pari al 10% di detto valore venale (art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001; v. Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 6017). § 134. La proprietà dei beni culturali. Già il disposto dell’art. 839 c.c. postulava — a tutela del nostro patrimonio culturale — un particolare regime dominicale per le « cose di proprietà privata, immobili o mobili, che presentano interesse artistico, storico o etnografico ». Su analoga lunghezza d’onda sembra muoversi la Costituzione La Costituzione repubblicana, che — all’art. 9, comma 2 — enuncia solennemente il repubblicana principio secondo cui la Repubblica « tutela (...) il patrimonio storico e artistico della Nazione ». Ora, il D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (« Codice dei beni culturali La legislazione e del paesaggio ») delinea un peculiare regime proprietario per i c.d. speciale « beni culturali », per tali intendendosi le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico, bibliografico, o che, comunque, costituiscono testimonianze aventi valore di civiltà (art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 42/2004; v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25690). In particolare — onde « garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione » (art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 42/2004) — impone al privato proprietario tutta una serie di vincoli: a) sia quanto al potere di godimento: ad es., prevedendo che i beni culturali non possano essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico, oppure tali da arrecare pregiudizio alla loro conservazione (art. 20, comma 1, D.Lgs. n. 42/2004); assoggettando ad autorizzazione l’esecuzione su di essi di opere e lavori di qualunque genere (art. 21, Il codice civile [§ 135] I diritti reali in generale e la proprietà 279 comma 4, D.Lgs. n. 42/2004); imponendo al proprietario, al possessore, al detentore l’obbligo di garantirne la conservazione (artt. 1, comma 5, 30, comma 3, e 32 ss. D.Lgs. n. 42/2004); contemplando che, in talune ipotesi, possa esserne imposta la visita da parte del pubblico per scopi culturali (artt. 104 s. D.Lgs. n. 42/2004); ecc.; b) sia quanto al potere di disposizione: ad es., prevedendo l’obbligo di denuncia degli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o la detenzione di detti beni (art. 59 D.Lgs. n. 42/2004); il diritto di prelazione dello Stato, della regione o degli altri enti pubblici territoriali interessati, in caso di alienazione a titolo oneroso o di conferimento in società (artt. 60 ss. D.Lgs. n. 42/2004); ecc. È altresì previsto che i beni culturali possano essere espropriati per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione risponda ad un importante interesse a migliorarne le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica (art. 95 D.Lgs. n. 42/2004). § 135. La proprietà edilizia. Al proprietario di un’area interessata all’edificazione compete il Ius c.d. « ius aedificandi »: cioè, il diritto di costruire (v. Cass. 12 novem- aedificandi bre 2015, n. 23130). Gli è altresì riconosciuta la facoltà di impegnarsi a prestare il Cessione di proprio consenso affinché la cubatura (cioè, la volumetria) che, cubatura secondo gli strumenti urbanistici, risulta realizzabile sulla sua area venga dalla P.A. attribuita al proprietario di un fondo vicino, compreso nella medesima zona urbanistica: c.d. « cessione di cubatura » (v. Cass. 10 ottobre 2018, n. 24948). Il relativo atto — che non richiede la forma scritta ad substantiam, poiché produce solo effetti obbligatori (v. §§ 189 ss.) — è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 2-bis, c.c.), con conseguente opponibilità ai terzi. In ogni caso, l’attività di trasformazione urbanistica o edilizia Permesso di del territorio può essere svolta solo nel rispetto delle previsioni degli costruire, SCIA, CILA « strumenti urbanistici », dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. Per gli interventi di maggior impatto (art. 10 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) è necessario il previo rilascio, da parte dell’Autorità comunale, del c.d. « permesso di costruire », che comporta la corresponsione di un « contributo » commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione (artt. 16 ss. D.P.R. n. 380/2001), destinato alla realizzazione delle indispensabili opere di urbanizzazione primaria (strade, parcheggi, spazi di 280 I diritti reali [§ 135] verde attrezzato, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, ecc.) e secondaria (asili nidi, scuole materne e dell’obbligo, mercati di quartiere, chiese, impianti sportivi, ecc.); mentre, per gli interventi di minore impatto, è sufficiente una comunicazione — rispettivamente, « CILA-comunicazione di inizio lavori asseverata » o « SCIA-segnalazione certificata di inizio di attività » — da indirizzarsi all’Amministrazione comunale (artt. 6-bis e 22 D.P.R. n. 380/2001). Tradizionalmente, gli strumenti urbanistici erano espressione di Strumenti ubanistici provvedimenti adottati unilateralmente — ed autoritativamente — dalla Pubblica Amministrazione (v., ad. es., artt. 8 e 10 L. 17 agosto 1942, n. 1150, per quel che riguarda il « piano regolatore generale » relativo alla totalità di ciascun singolo territorio comunale; artt. 14 e 16 L. n. 1150/1942, per quel che riguarda il « piano particolareggiato »; ecc.). Tuttavia — accanto a strumenti di pianificazione attuativa ad Convenzione di iniziativa pubblica — la legge, oggi, ne conosce altri che fanno invece lottizzazione ricorso a meccanismi di tipo privatistico: in particolare, la c.d. « convenzione di lottizzazione » (art. 28 L. n. 1150/1942, così come modificato dall’art. 8 L. 6 agosto 1967, n. 765), in forza della quale — a fronte dell’autorizzazione, da parte del Comune, di un « piano di lottizzazione » proposto dai proprietari delle aree interessate — questi ultimi si assumono una serie di impegni nei confronti del Comune stesso (ad es., la cessione gratuita di aree per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria; l’assunzione degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria; la prestazione di congrue garanzie finanziare per gli adempimenti derivanti dagli obblighi della convenzione; ecc.). Al fine di evitare l’abusivismo edilizio, la legge fa ricorso — Sanzioni civili accanto a quelli amministrativi (ad es., rimozione o demolizione dell’abusivismo dell’opera abusiva, sanzione pecuniaria) (artt. 30 ss. D.P.R. n. 380/ edilizio 2001) e penali (art. 44 D.P.R. n. 380/2001) — anche a strumenti di tipo privatistico. Così, ad es.: a) sanziona con la nullità gli atti inter vivos, aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su terreni, ove agli atti stessi non sia allegato il « certificato di destinazione urbanistica », rilasciato dall’autorità comunale, contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata (art. 30, comma 2, D.P.R. n. 380/2001; v. però il comma 4-bis del medesimo art. 30); [§ 136] I diritti reali in generale e la proprietà 281 b) sanziona con la nullità gli atti (diversi da quelli relativi a procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali: v. § 121), aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su edifici (o loro parti), la cui costruzione sia iniziata dopo il 17 marzo 1985, ove dagli atti stessi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del « permesso di costruire » (art. 46, comma 1 e 5-bis, D.P.R. n. 380/2001; v. però il comma 4 del medesimo art. 46; al riguardo v. ora Cass., sez. un., 22 marzo 2019, n. 8230); c) vieta alle aziende erogatrici di servizi pubblici di somministrare le loro forniture per l’esecuzione di opere prive di « permesso di costruire » e sanziona con la nullità i relativi contratti, ove la richiesta dell’utente non sia corredata dall’indicazione degli estremi di detto « permesso » (art. 48, commi 1, 2 e 3-bis, D.P.R. n. 380/2001); d) impone a chi abbia violato disposizioni che regolamentano l’attività edilizia l’obbligo di risarcire i danni che terzi (ad es., i vicini) ne abbiano eventualmente sofferto (art. 872, comma 2, c.c.); e — se si tratta di disposizioni tese a disciplinare, nei rapporti intersoggettivi di vicinato, le distanze tra costruzioni — consente ai vicini di chiedere la c.d. « riduzione in pristino » (cioè, l’eliminazione delle opere abusive) (art. 872, comma 2, c.c.; v. § 140; v. Cass. 31 agosto 2018, n. 21501). § 136. La proprietà fondiaria. In linea verticale, la « proprietà fondiaria » (per tale intendendosi L’estensione linea la proprietà della terra o dei fondi) si estenderebbe — secondo un in verticale suggestivo brocardo medievale — usque ad sidera, usque ad inferos: cioè, all’infinito sia nel sottosuolo che nello spazio aereo soprastante (v. Cass. 14 aprile 2004, n. 7051). Peraltro l’art. 840, comma 2, c.c. dispone — oggi — che « il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle » (così, ad es., il proprietario non può opporsi all’escavazione di una galleria che non pregiudichi l’utilizzo della sua proprietà o al passaggio di aeromobili sopra di essa; v. Cass. 28 febbraio 2018, n. 4664). Da ciò si deduce che la proprietà del suolo si estende a quella sola parte del sottosuolo suscettibile di utilizzazione secondo un criterio di normalità (art. 840, comma 1, c.c.). Analogo principio si ritiene valga anche per il soprassuolo (v. Cass. 28 febbraio 2018, n. 4664); con la precisazione che la sussistenza dell’interesse del proprietario del suolo ad escludere l’attività di terzi, che si svolga nello spazio I diritti reali 282 [§ 137] sovrastante, deve essere valutata con riferimento non solo alla situazione ed alla destinazione attuali del suolo, ma anche alle sue possibili, future, utilizzazioni, sia pure in concreto non individuate, purché compatibili con le caratteristiche e la normale destinazione del suolo medesimo (v. Cass. 18 agosto 2011, n. 17207). La giurisprudenza ritiene legittima la separata alienazione del soprasuolo dal sottosuolo come entità reali giuridicamente autonome; in tal caso scindendosi l’originaria unica proprietà appartenente ad un solo soggetto in più proprietà distinte in senso verticale facenti capo a soggetti diversi, trattandosi pur sempre di veri e propri diritti di proprietà (v. Cass. 26 ottobre 2018, n. 27256). Una limitazione all’estensione della proprietà al di sopra o al di sotto del suolo si ha quando venga costituito un « diritto di superficie » (v. § 145). La giurisprudenza, dal canto suo, afferma la validità di una separata alienazione del soprasuolo dal sottosuolo come entità reali giuridicamente autonome, scindendosi l’originaria unica proprietà appartenente ad un solo soggetto in più proprietà distinte in senso verticale e facenti capo a soggetti diversi, comunque trattandosi pur sempre di veri e propri diritti di proprietà (v. Cass. 26 ottobre 2018, n. 27256). In senso orizzontale, ciascuna proprietà fondiaria si estende ... in senso orizzontale nell’ambito dei propri confini. Il proprietario — nell’esercizio del proprio potere di godere del bene « in modo esclusivo » — ha la facoltà, da un lato, di cintare in qualsiasi momento il proprio fondo (art. 841 c.c.; v. Cass. 16 dicembre 2014, n. 26426) e, da altro lato, di impedirne l’accesso a chiunque (salvo che vi entri per l’esercizio della caccia: art. 842 c.c.; ovvero per costruire o riparare un muro od altra sua opera che si trovi sul confine o presso di esso: art. 843, comma 1, c.c.; ovvero ancora per riprendere la cosa sua che vi si trovi accidentalmente o l’animale che vi si sia riparato sfuggendo alla custodia: art. 843, comma 3, c.c.; v. Cass. 2 marzo 2018, n. 5012). Le consuetudini consentono talora l’accesso ai fondi altrui (specie in zone di montagna) per passeggiarvi, raccogliere fiori o funghi, sciare, ecc. § 137. La contiguità delle proprietà immobiliari I rapporti di vicinato. Le singole proprietà immobiliari sono necessariamente destinate a convivere fianco a fianco. L’eventuale riconoscimento, in capo a ciascuno dei titolari, di un potere di godere del proprio fondo in modo pieno (art. 832 c.c.) darebbe inevitabilmente luogo a conflitti tra i [§ 138] I diritti reali in generale e la proprietà 283 contrapposti interessi di cui gli stessi sono portatori (ad es., tra l’interesse del proprietario di un immobile ad esercitare in esso un’attività produttiva ed il contrapposto interesse del proprietario del fondo contiguo a non subire immissioni di fumi o rumori derivanti dall’esercizio di detta attività; tra l’interesse del proprietario ad edificare sul proprio fondo ed il contrapposto interesse del proprietario del fondo contiguo a non vedersi privato dell’aria e della luce che attinge dalle finestre aperte sul fondo del vicino; ecc.). Proprio al fine di contemperare i contrapposti interessi dei I rapporti di proprietari di fondi contigui — disciplinando i c.d. « rapporti di vicinato vicinato » — il codice detta tutta una serie di regole in materia di: a) atti emulativi (art. 833); b) immissioni (art. 844); c) distanze (artt. 873, 878 ss.); d) muri (artt. 874 ss.); e) luci e vedute (artt. 900 ss.); f) acque (artt. 908 ss.). Tradizionalmente, dette regole — specie, quelle in tema di distanze legali e di luci e vedute — venivano intese come volte ad imporre alla proprietà immobiliare limiti (legali) nell’interesse privato (nell’interesse, cioè, dei proprietari dei fondi contigui). Siffatta impostazione costituiva il logico corollario della concezione — ormai superata (v. supra, § 132) — che vedeva nella proprietà un diritto che, indifferente alla natura del bene su cui ricade, attribuisce sempre e comunque al suo titolare un potere di godimento pieno sul bene stesso. In realtà, le norme in discussione sono semplicemente tese a conformare la proprietà immobiliare, in modo da assicurare un coordinamento fra i diritti riconosciuti ai singoli titolari. § 138. Gli atti emulativi. Al proprietario sono preclusi gli « atti di emulazione » (o « emu- Nozione lativi »), per tali intendendosi quelli che non hanno altro scopo che quello di nuocere o arrecare molestia ad altri (art. 833 c.c.). Secondo l’opinione prevalente, il divieto costituirebbe espressione particolare del principio di carattere generale che vieta l’« abuso del diritto » (v. Cass. 19 marzo 2013, n. 6823). Perché l’atto di godimento di un bene sia vietato, debbono Presupposti del divieto concorrere — come risulta dall’art. 833 c.c. — due presupposti: a) uno oggettivo, ossia l’assenza di utilità per chi lo compie (v. Cass. 31 ottobre 2018, n. 27916); 284 I diritti reali [§ 139] b) l’altro soggettivo, ossia l’intenzione di nuocere o arrecare molestia ad altri (c.d. animus aemulandi o nocendi), che peraltro si può presumere allorquando l’atto risulti, da un lato, non giustificato da alcun interesse del proprietario e, da altro lato, lesivo di interessi del vicino (così, ad es., è stato ritenuto emulativo — e, quindi, vietato — il piantare alberi senza apprezzabile utilità per il proprietario, al solo evidente scopo di togliere la veduta panoramica ad una villa confinante; l’installare sul muro di recinzione di un fabbricato una finta telecamera posizionata in direzione del balcone del vicino: v. Cass. 11 aprile 2001, n. 5421). Atti Si ritiene non incorra nel divieto di « atti » emulativi un comporcommissivi e tamento omissivo del proprietario, quand’anche finalizzato a nuocere comportamenti omissivi al vicino (così, ad es., è stata reputata non illegittima la condotta di chi abbia lasciato crescere sul proprio fondo degli arbusti spontanei con l’intento di precludere al proprietario del fondo finitimo il godimento di una visuale di particolare suggestione: v. Cass. 20 ottobre 1997, n. 10250). § 139. Le immissioni. Il diritto di godere del bene « in modo esclusivo », riconosciuto al proprietario dall’art. 832 c.c., importa che lo stesso è legittimato ad opporsi a qualsiasi attività materiale di terzi che abbia a svolgersi sul suo fondo (ad es., scarico di rifiuti, smaltimento di liquami, ecc.): c.d. « immissioni materiali ». Immissioni Egli non può invece opporsi, almeno di regola, ad attività che si immateriali svolgano — lecitamente — sul fondo del vicino. È peraltro frequente — specie in un sistema di produzione industriale — che tali ultime attività importino la produzione di fumi, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili, destinati a propagarsi nelle proprietà circostanti (si pensi, ad es., alle polveri che fuoriescono da un altoforno; al rumore che, in estate, proviene dai locali pubblici all’aperto; ecc.): c.d. « immissioni immateriali ». In questo caso, occorre distinguere: Disciplina a) se le immissioni rimangono al di sotto della soglia della « normale tollerabilità » (ad es., le immissioni sonore provenienti dall’appartamento del vicino che non superano il c.d. « rumore di fondo » della zona; v. Cass. 12 maggio 2015, n. 9660), chi le subisce deve sopportarle: non ha né il diritto di farle cessare, né quello di vedersi riconosciuto un ristoro per il disagio eventualmente sofferto (art. 844, comma 1, c.c.; v. Cass. 3 settembre 2018, n. 21554); Immissioni materiali [§ 139] I diritti reali in generale e la proprietà 285 b) se le immissioni superano, invece, la soglia della « normale tollerabilità », ma sono giustificate da « esigenze della produzione » (ad es., le immissioni sonore provenienti dagli impianti industriali del vicino che superano in maniera significativa il c.d. « rumore di fondo » della zona, ma l’interesse collettivo, in termini di produzione e di occupazione, impone il mantenimento dell’attività), chi le subisce non ha diritto di farle cessare, ma può ottenere un « indennizzo » in danaro per il pregiudizio eventualmente sofferto (ad es., diminuzione del valore commerciale del fondo, sua minor redditività, spese fatte per porre rimedio agli effetti negativi dell’immissione, ecc.) (art. 844, comma 2, c.c.); c) se le immissioni superano la soglia della « normale tollerabilità » senza peraltro essere giustificate da « esigenze della produzione » (ad es., le immissioni sonore provenienti dall’appartamento del vicino che superano in maniera significativa il c.d. « rumore di fondo » della zona nelle ore in cui lo stesso si dedica a suonare la chitarra), chi le subisce ha diritto che — per il futuro — ne cessi la prosecuzione (o, quanto meno, che vengano adottate quelle misure indispensabili per far rientrare dette immissioni nei limiti della « normale tollerabilità »: v. Cass. 31 agosto 2018, n. 21504) e — per il passato — che gli sia riconosciuto l’integrale risarcimento del danno, sia patrimoniale che non patrimoniale (v. Cass., sez. un., 1° febbraio 2017, n. 2611), eventualmente sofferto (v. Cass. 2 settembre 2018, n. 21554). L’azione — che per questo si dice « reale » — rivolta all’accertamento dell’illegittimità delle immissioni e la condanna alla loro cessazione (ovvero all’adozione delle modifiche strutturali necessarie per ricondurle entro il limite della « normale tollerabilità ») deve essere proposta nei confronti del proprietario del fondo dal quale esse provengono. L’azione risarcitoria — che per questo si dice « personale » — va invece esercitata contro chi (ad es., il conduttore che gestisce il bar da cui provengono le immissioni di rumore ritenute intollerabili) ha concretamente provocato il danno di cui viene richiesta la riparazione (v. Cass. 15 novembre 2016, n. 23245); mentre il proprietario ne risponde solo quando, nel momento in cui ha concesso ad altri l’uso dell’immobile, avrebbe potuto prefigurarsi, impiegando l’ordinaria diligenza, che l’utilizzatore, con la propria attività, avrebbe certamente recato danno a terzi (v. Cass. 1° marzo 2018, n. 4908). La soglia della « normale tollerabilità » di un’immissione — se- La « normale condo giurisprudenza consolidata — non coincide con i limiti varia- tollerabilità » mente previsti da leggi e regolamenti a tutela di interessi di carattere generale (ad es., la salute, l’ambiente, la quiete pubblica, ecc.; v. 286 I diritti reali [§ 139] Cass. 20 gennaio 2017, n. 1606); anche se si ritiene che, di regola, la violazione di detti limiti importi, per ciò solo, l’intollerabilità dell’immissione anche nell’ambito dei rapporti di vicinato (v. Cass. 1° ottobre 2018, n. 23754). La « tollerabilità » o meno di un’immissione va piuttosto valutata, caso per caso, dal punto di vista del fondo che la subisce, tenendo conto della « condizione dei luoghi » (art. 844, comma 1, c.c.): cioè, della loro concreta destinazione naturalistica ed urbanistica, delle attività normalmente svolte nella zona, del sistema di vita e delle abitudini di chi vi opera, ecc. (v. Cass. 5 novembre 2018, n. 28201). Non rilevano, invece, né le condizioni soggettive di chi utilizza il fondo (ad es., un soggetto particolarmente irritabile, perché affetto da esaurimento nervoso), né l’attività da quest’ultimo svolta (ad es., una guardia notturna che riposa durante le ore diurne). Peraltro, sul punto, è di recente intervenuto il legislatore — con legge 30 dicembre 2018, n. 145 (art. 1, comma 746) — per statuire che, « nell’accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche », a decorrere dal 1° gennaio 2019 « si applicano i criteri di accettabilità del livello di rumore » indicati nella « legge quadro sull’inquinamento acustico » (L. 26 ottobre 1995, n. 447): il che ha sollevato in molti il timore che, se rispettose dei limiti imposti da tale legge, le immissioni acustiche debbano considerarsi senz’altro rispettose del limite della « normale tollerabilità »; senza che al giudice sia più concesso — come accadeva invece in passato — adottare, con riferimento al singolo caso concreto, parametri più restrittivi (v. Cass. 20 novembre 2017, n. 1606; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20198; e ora Cass. 11 marzo 2019, n. 6906). Esigenze Se l’immissione che supera la soglia della « normale tollerabidell’industria lità » proviene dall’espletamento di attività produttive, occorre — e ragioni della come appena visto (sub b) — bilanciare le esigenze dell’industria con proprietà le ragioni della proprietà (art. 844, comma 2, c.c.). Essa sarà dunque consentita — salvo, come detto, un « indennizzo » a favore delle proprietà danneggiate — solo se: a) non sia eliminabile (o, quanto meno, riducibile) attraverso l’adozione di accorgimenti tecnici non particolarmente onerosi (v. Cass. 8 marzo 2010, n. 5564); e b) la cessazione dell’attività produttiva causerebbe alla collettività un danno più grave del sacrificio inflitto ai proprietari dei fondi vicini. Al riguardo, si può — ma il criterio è sussidiario e facoltativo (v. Cass. 11 maggio 2005, n. 9865) — anche « tener conto della priorità di un determinato uso » (art. 844, comma 2, c.c.) (così, ad es., chi [§ 140] I diritti reali in generale e la proprietà 287 costruisce in adiacenza ad un’officina sa benissimo ex ante a quali immissioni si espone). Si è discusso — ma al quesito si tende ormai a fornire riposta Immissioni e della affermativa (v. Cass. 11 marzo 2019, n. 6906; Cass. 31 agosto 2018, n. tutela salute e 21504) — se, al medesimo fine, rilevi (o, addirittura, risulti decisivo dell’ambiente per escluderne la proseguibilità) il fatto che l’immissione sia tale da arrecare pregiudizio alla salute dei soggetti operanti sul fondo che la subisce, ovvero all’integrità dell’ambiente: tradizionalmente, infatti, la disciplina delle immissioni è stata pensata solo ed esclusivamente per regolare il conflitto tra usi proprietari incompatibili di fondi spazialmente vicini, non certo per la tutela di diritti fondamentali, affidata invece alle regole della responsabilità extracontrattuale (artt. 2043 e 2058 c.c.: v. §§ 454 ss.; v. Cass., sez. un., 18 luglio 1985, n. 4263). § 140. Le distanze legali. Al fine di impedire che, fra immobili che si fronteggiano da fondi Nozione appartenenti a proprietari diversi (v. Cass. 16 marzo 2017, n. 6855), possano crearsi anguste intercapedini — in cui i rifiuti sono destinati ad accumularsi e l’aria a ristagnare, con effetti negativi sulla vivibilità degli edifici e sulla salute dei loro utilizzatori (v. Cass. 16 febbraio 2017, n. 4190) — l’art. 873 c.c. dispone che « le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri » tra loro (v. Cass. 5 maggio 2016, n. 8935); e ciò — si badi — a prescindere dalla circostanza che, in concreto, la costruzione sia o meno idonea a creare intercapedini atte ad arrecare pregiudizio all’igiene ed alla salubrità dell’ambiente (v. Cass. 5 maggio 2015, n. 8935). Poiché volte unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antiigieniche e pericolose, le norme codicistiche in tema di distanze legali sono derogabili mediante convenzioni tra privati; non così le prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici locali, in quanto dettate a tutela dell’interesse generale ad un prefigurato modello urbanistico (v. Cass. 18 ottobre 2018, n. 26270; Cass. 11 settembre 2018, n. 22054; Cass. 2 marzo 2018, n. 5016). Nessuna parte della costruzione (v. Cass. 26 febbraio 2019, n. Tutela 5607; Cass. 21 febbraio 2019, n. 5145) — con esclusione dei soli sporti (ad es., i canali di gronda) (v. Cass. 2 ottobre 2018, n. 23845) — deve, dunque, trovarsi a distanza inferiore rispetto a quella prescritta. Se l’immobile risulta a distanza inferiore, il vicino può agire per la rimozione dell’opera abusivamente realizzata, nonché per il risarci- 288 I diritti reali [§ 140] mento del danno sofferto (art. 872, comma 2, c.c.; v. Cass. 28 novembre 2018, n. 30761). Anche quella volta al rispetto delle distanze legali costituisce un’« azione reale », che conseguentemente va proposta nei confronti dell’attuale proprietario della costruzione illegittima e non nei confronti del suo autore materiale (ad es., il precedente proprietario): infatti, solo il primo può essere destinatario dell’ordine di demolizione, che tale azione tende a conseguire (v. Cass. 7 febbraio 2017, n. 3236). L’art. 873 c.c. fa salva l’ipotesi in cui gli strumenti urbanistici Distanze previste negli locali richiedano una distanza superiore ai tre metri previsti dal strumenti urbanistici codice civile. In quest’ultimo caso: a) se la previsione degli strumenti urbanistici risulta destinata a disciplinare proprio le distanze tra costruzioni nei rapporti intersoggettivi di vicinato (v. Cass., sez. un., 24 settembre 2014, n. 20107) — e, in quanto tale, da considerarsi come « richiamata » dall’art. 872, comma 2, c.c. — la sua violazione legittima il vicino ad agire per la rimozione dell’opera abusivamente realizzata (c.d. tutela ripristinatoria) e per il risarcimento del danno sofferto (c.d. tutela risarcitoria) (art. 872, comma 2, c.c.; v. Cass. 29 ottobre 2018, n. 27364; Cass. 31 agosto 2018, n. 21501); b) se la previsione degli strumenti urbanistici — pur importando la necessità di rispettare determinate distanze — risulta invece dettata esclusivamente per la tutela di interessi generali (quali la limitazione del volume, dell’altezza, della densità degli edifici; le esigenze dell’igiene o della viabilità; la conservazione dell’ambiente; ecc.), la sua violazione legittima il vicino ad agire solo per il risarcimento del danno (c.d. tutela risarcitoria), non per la riduzione in pristino (v. Cass. 27 marzo 2013, n. 7752). Il codice contempla, poi, tutta una serie di disposizioni (artt. Muri 874-878 c.c.) aventi ad oggetto i muri che si trovino sul confine o nei pressi del confine fra proprietà limitrofe. In particolare, va segnalata la previsione secondo cui il proprietario confinante ha diritto di acquisire — mediante sentenza costitutiva (v. § 119), ove l’altro proprietario non vi consenta — la comproprietà del muro che si trovi sul confine (art. 874 c.c.; v. Cass. 10 novembre 2015, n. 22909); nonché, ma al solo scopo di fabbricare in appoggio allo stesso, il muro che si trovi a distanza inferiore a un metro e mezzo dal confine (ovvero a distanza inferiore alla metà di quella stabilita negli strumenti urbanistici locali) (art. 875 c.c.). Chi acquisisce la comproprietà del muro deve all’altro confinante un importo pari alla metà del [§ 140] I diritti reali in generale e la proprietà 289 valore del muro e del suolo su cui insiste, nonché — nel caso in cui il muro non si trovi sul confine — un importo pari al valore dell’area da occupare con la nuova costruzione. Nel sistema delineato dal codice, il confinante che costruisce per Principio di primo finisce con il condizionare le scelte del vicino che successiva- prevenzione mente voglia, a sua volta, costruire: c.d. « principio di prevenzione ». (v. Cass. 22 febbraio 2019, n. 5146). Invero, a chi edifica per primo è aperta una triplice alternativa: (i) costruire rispettando una distanza dal confine pari ad almeno la metà di quella imposta dalla legge; (ii) costruire sul confine; (iii) costruire ad una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta. Il vicino che edifica successivamente: nell’ipotesi (i), deve costruire ad una distanza tale da rispettare il prescritto distacco legale dalla costruzione preesistente; nell’ipotesi (ii), può chiedere la comunione forzosa del muro di confine ex art. 874 c.c., o realizzare il proprio manufatto in aderenza allo stesso ex art. 877, comma 1, c.c., ovvero ancora arretrare il suo edificio in misura pari all’intero distacco legale; nell’ipotesi (iii), può chiedere la comunione forzosa del muro ed avanzare la propria costruzione fino ad esso, occupando lo spazio intermedio, dopo aver interpellato il proprietario se preferisca estendere il muro a confine o procedere alla sua demolizione (art. 875 c.c.), o costruire in aderenza ex art. 877, comma 2, c.c., ovvero ancora rispettare il distacco legale dalla costruzione del vicino (v. Cass., sez. un., 19 maggio 2016, n. 10318). In considerazione del carattere potenzialmente dannoso che as- Pozzi, e sumono rispetto ai fondi vicini, il codice prevede altresì distanze mi- cisterne tubi nime dal confine per pozzi, cisterne, fosse e tubi (di acqua, gas e simili) (art. 889 c.c.; v. Cass. 30 luglio 2018, n. 20046; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23973), nonché per fabbriche e depositi pericolosi o nocivi (art. 890 c.c.; v. Cass. 16 aprile 2018, n. 9267; Cass. 20 giugno 2017, n. 15246). Inoltre, distanze minime, sempre dal confine, sono previste — in Fossi, canali e considerazione del pericolo di frane che può derivarne — per fossi e piantagioni canali (e, in genere, escavazioni non aventi carattere provvisorio) (art. 891 c.c.); nonché — in considerazione dell’opportunità di evitare al fondo del vicino possibili pregiudizi derivanti dal propagarsi delle radici, dal protendersi dei rami, dall’immissione di ombra e umidità, ecc. — per le piantagioni (artt. 892 ss. c.c.; v. Cass. 12 luglio 2018, n. 18439; Cass. 19 marzo 2018, n. 6765). L’art. 896-bis c.c. ha introdotto la previsione di distanze minime Apiari anche per gli apiari. I diritti reali 290 § 141. [§ 141] Le luci e le vedute. Le aperture nel muro contiguo al fondo finitimo si distinguono in: a) « vedute » (o « prospetti »), che sono quelle — ad es., finestre ad Vedute: nozione e altezza d’uomo, balconi, terrazze, ecc. — che consentono, in condidisciplina zioni di sufficiente comodità e sicurezza, non solo di guardare sul fondo del vicino (« inspicere ») senza l’ausilio di mezzi meccanici (ad es., scale, sgabelli, ecc.), ma anche di sporgere il capo su di esso (« prospicere ») per vedere di fronte (c.d. « vedute dirette »), obliquamente (c.d. « vedute oblique ») e lateralmente (c.d. « vedute laterali ») (art. 900 c.c.; v. Cass. 30 marzo 2018, n. 8010; Cass. 10 gennaio 2017, n. 346). Il proprietario può sempre aprire vedute nel muro contiguo al fondo altrui, ma — a tutela della riservatezza del fondo finitimo (v. Cass. 9 agosto 2016, n. 16808) — deve rispettare le distanze minime dal confine indicate negli artt. 905 e 906 c.c. (v. Cass. 31 gennaio 2017, n. 2533). Il proprietario del fondo contiguo non può chiuderle (art. 907 c.c.); anzi, se costruisce sul suo, deve rispettare le distanze minime indicate nell’art. 907 c.c. (v. Cass. 18 ottobre 2018, n. 26263; Cass. 20 giugno 2017, n. 15244); e b) « luci », che sono quelle aperture che, pur consentendo il Luci: nozione e disciplina passaggio di aria e luce, non permettono tuttavia la vista (c.d. « inspectio ») o, quanto meno, l’affaccio (c.d. « prospectio ») sul fondo del vicino (v. Cass. 13 agosto 2014, n. 17950). All’uopo — a tutela della sicurezza e della riservatezza del fondo contiguo — la legge prescrive che la luce abbia determinate caratteristiche (sia dotata di inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino; sia munita di grata in metallo a maglie strette, onde evitare che oggetti possano essere gettati sul fondo contiguo; l’apertura sia situata a determinate altezze minime: art. 901 c.c.): c.d. « luce regolare ». Se un’apertura, che non consenta di inspicere e prospicere in alienum, non rispetta dette caratteristiche, costituisce pur sempre una luce (c.d. « luce irregolare ») (art. 902, comma 1, c.c.); ma il vicino ha il diritto di esigere, in ogni momento, che la stessa sia resa « regolare » (art. 902, comma 2, c.c.; v. Cass. 4 gennaio 2017, n. 113). Il proprietario ha sempre la facoltà — espressione del suo diritto dominicale (e, quindi, imprescrittibile) — di aprire delle luci nel suo muro (art. 903, comma 1, c.c.); tuttavia il vicino può, in ogni tempo, chiuderle, ma solo se costruisce in aderenza o in appoggio al muro nel quale le luci — non importa se regolari od irregolari — risultano aperte (art. 904 c.c.; v. Cass. 4 dicembre 2014, n. 25635). [§ 142] I diritti reali in generale e la proprietà § 142. 291 Modi di acquisto della proprietà. Nell’ambito dei modi di acquisto della proprietà si suole distin- Modi di acquisto guere tra: α) modi d’acquisto « a titolo derivativo », che importano la suc- ... a titolo cessione nello stesso diritto già appartenente ad altro soggetto, per cui derivativo gli eventuali vizi che inficiavano il titolo del precedente proprietario si riverberano anche sul successore; e β) modi d’acquisto « a titolo originario », che determinano invece ... a titolo la nascita di un diritto nuovo, del tutto indipendente rispetto a quello originario prima eventualmente spettante sullo stesso bene ad altro precedente proprietario (v. Cass. 6 ottobre 2017, n. 23453). Sul problema della riconducibilità fra i primi o fra i secondi della confisca si è pronunciata Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10534. Modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo — di gran lunga i più importanti — sono, come indica l’art. 922 c.c., il contratto (v. §§ 264 ss.) e la successione a causa di morte (v. §§ 623 ss.), oltre che l’espropriazione per pubblica utilità (v. § 133), la vendita forzata dei beni del debitore (v. § 121), ecc. Modi di acquisto della proprietà a titolo originario sono invece: a) l’occupazione (artt. 923 ss. c.c.); b) l’invenzione (artt. 927 ss. c.c.); c) l’accessione (artt. 934 ss. c.c.); d) l’usucapione (artt. 1158 ss. c.c.); e) il possesso in buona fede di beni mobili (art. 1153 c.c.). Di questi due ultimi istituti ci occuperemo, rispettivamente, ai §§ 184 e 183, allorquando tratteremo del loro presupposto, costituito dal « possesso ». A) L’« occupazione » (artt. 923 ss. c.c.) consiste nella presa di Occupazione possesso, con l’intenzione di acquisirle in via permanente e definitiva, di cose mobili che non sono in proprietà di alcuno (c.d. « res nullius »: ad es., i pesci che vivono allo stato naturale) o abbandonate (c.d. « res derelictae »: ad es., gli oggetti lasciati nei cestini pubblici dei rifiuti). Non sono invece suscettibili di occupazione — in quanto, se non sono in proprietà di alcuno (sono, cioè, « vacanti »), « spettano al patrimonio dello Stato » (art. 827 c.c.) — i beni immobili. Eccezionalmente, possono acquistarsi per occupazione — anche se non rientrano né nella categoria delle res nullius, né in quella delle res derelictae — i mammiferi e gli uccelli facenti parte della fauna selvatica (che, pur appartenendo al patrimonio indisponibile dello Stato, vengono acquistati da chi li abbia abbattuti nell’ambito dell’attività venatoria esercitata nel rispetto delle vigenti disposi- 292 I diritti reali [§ 142] zioni in materia: artt. 1 e 12, comma 6, L. 11 febbraio 1992, n. 157); gli sciami d’api e gli animali mansuefatti sfuggiti al proprietario, di cui chi li ritrova acquista la titolarità, se non vengono reclamati tempestivamente (artt. 924 e 925 c.c.); i conigli, i pesci ed i colombi che passano ad altra conigliera, peschiera o colombaia (art. 926 c.c.); nonché — per consuetudine riconosciuta da molte leggi speciali — i frutti spontanei (ad es., tartufi, funghi, ecc.). B) L’« invenzione » (art. 927 ss. c.c.) riguarda solo le cose mobili Invenzione smarrite (di cui, cioè, il proprietario ignori il luogo in cui si trovano): queste debbono essere restituite al proprietario o, qualora non se ne conosca l’identità, consegnate al sindaco (art. 927 c.c.); trascorso un anno, se la cosa è stata consegnata al sindaco e non si presenta il proprietario, la proprietà spetta a colui che l’ha trovata (art. 929, comma 1, c.c.). Se invece si presenta il proprietario, quest’ultimo deve al ritrovatore un premio proporzionale al valore della cosa smarrita ovvero, se la cosa non ha un valore commerciale, un premio nella misura fissata dal giudice (artt. 929 e 930 c.c.; v. Cass. 11 agosto 2000, n. 10687). Una particolare forma di invenzione è quella che riguarda il Il tesoro « tesoro » (per tale intendendosi una cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario): esso diviene immediatamente — senza, cioè, alcun obbligo di consegna all’Autorità — di proprietà del titolare del fondo in cui si trova; ma, se è trovato, per solo effetto del caso, nel fondo altrui, spetta per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore (art. 932 c.c.). Diversa disciplina è dettata per i c.d. « beni culturali » (v. § 134): da chiunque e in qualunque modo ritrovati nel sottosuolo o sui fondali marini, essi appartengono allo Stato (art. 91, comma 1, D.Lgs. n. 42/2004); al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento e allo scopritore fortuito compete, però, un premio (artt. 92 ss. D.Lgs. n. 42/2004; v. Cass., sez. un., 7 marzo 2011, n. 5353). C) L’« accessione » (artt. 934 ss. c.c.) opera in caso di stabile Accessione incorporazione — per opera dell’uomo od anche per evento naturale — di beni di proprietari diversi: in tale ipotesi, di regola, il proprietario della cosa principale acquista la proprietà delle cose che vengono in essa incorporate. Al riguardo, occorre distinguere fra: a) accessione di mobile ad immobile (artt. 934 ss. c.c.); b) accessione di immobile ad immobile (artt. 941 ss. c.c.); c) accessione di mobile a mobile (artt. 939 e s. c.c.). [§ 142] I diritti reali in generale e la proprietà 293 a) L’accessione di mobile ad immobile importa — in applicazione Accessione di ad del principio per cui la proprietà del suolo si estende verticalmente mobile immobile allo spazio sovrastante (v. § 136) — che, di regola, « qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo » (art. 934 c.c.). Il proprietario del suolo — senza necessità di una sua dichiarazione di volontà, e senza neppure bisogno che egli lo sappia — acquista ex lege (v. Cass. 29 ottobre 2018, n. 27412) la proprietà di quanto (ad es., l’albero piantato, la costruzione edificata, ecc.) nello stesso suolo venga da chiunque incorporato: superficies solo cedit (v. Cass. 15 novembre 2018, n. 29457). Il suolo è sempre considerato « cosa principale », quand’anche le cose incorporate dovessero avere un valore di mercato maggiore. Siffatta regola — peraltro derogabile per volontà delle parti (art. 934 c.c.), mediante costituzione di un « diritto di superficie » (v. § 145) — importa la necessità di contemperare i contrapposti interessi del proprietario del suolo (che, per l’operare del principio dell’accessione, acquista la proprietà dei materiali impiegati sul suo fondo) con quelli del proprietario di questi ultimi, se diverso (che correlativamente, quale riflesso dell’operare del medesimo principio dell’accessione, perde la proprietà su detti beni): allo scopo provvedono — dettando una disciplina complessa ed articolata — gli artt. 935, 936 e 937 c.c. (v. Cass. 16 gennaio 2019, n. 904; Cass. 17 marzo 2017, n. 6973; Cass. 9 febbraio 2017, n. 3523). Per l’operatività delle regole in tema di accessione anche in ipotesi di costruzione realizzata da uno dei comproprietari su suolo comune v. Cass., sez. un., 16 febbraio 2018, n. 3873. La regola secondo cui « superficies solo cedit » viene peraltro Accessione derogata — anzi, ribaltata (nel senso che è il suolo a « cedere » a invertita quanto in esso impiantato) — in ipotesi di c.d. « accessione invertita » (art. 938 c.c.), che si configura allorquando, nel realizzare una costruzione, il proprietario finitimo sconfina sul fondo altrui, sicché l’edificio viene ad insistere a cavallo tra due fondi (v. Cass. 6 novembre 2014, n. 23707). Ora — (i) se la parte realizzata sul terreno altrui non ha una propria autonomia funzionale; (ii) se l’autore dello sconfinamento opera nel ragionevole convincimento di edificare sul proprio suolo (c.d. buona fede: v. Cass. 12 aprile 2018, n. 9093); (iii) se il proprietario del fondo occupato non fa opposizione entro tre mesi dal giorno in cui la costruzione sul suo fondo ha avuto inizio — il proprietario « sconfinante » può chiedere che il giudice, con sentenza costitutiva (v. § 119), gli trasferisca la proprietà del suolo occupato (con la sovrastante porzione immobiliare) a fronte del pagamento, a 294 I diritti reali [§ 142] favore del confinante, di una somma pari al doppio del valore della superficie occupata (v. Cass. 14 febbraio 2017, n. 3899). b) L’accessione di immobile ad immobile si articola nelle seguenti Accessione di immobile ad figure: immobile — l’« alluvione », che consiste nell’accrescimento — successivo ... alluvione ed impercettibile — dei fondi rivieraschi di fiumi e torrenti per l’azione naturale dell’acqua corrente: siffatti terreni alluvionali appartengono al proprietario del fondo incrementato (art. 941 c.c.; v. Cass., sez. un., 1° marzo 2016, n. 4013); — l’« avulsione », che consiste nell’unione al fondo rivierasco di ... avulsione porzioni di terreno, considerevoli e riconoscibili, staccatesi da altro fondo per forza istantanea dell’acqua corrente: dette porzioni di terreno appartengono al proprietario del fondo incrementato, che è peraltro tenuto a pagare all’altro proprietario un’indennità nei limiti del maggior valore recato al suo fondo dall’avulsione (art. 944 c.c.). Non costituiscono più — oggi — ipotesi di accessione né quella dei terreni abbandonati dalle acque correnti (art. 942 c.c.), né quella del c.d. « alveo derelitto » (cioè, i terreni abbandonati dalle acque di un fiume che si forma un nuovo letto) (art. 946 c.c.), né quella delle isole che si formano nel letto di fiumi o torrenti (art. 945 c.c.): detti beni vengono, ora, a far parte del demanio pubblico (artt. 942, 945 e 946 c.c.; v. § 95). c) L’accessione di mobile a mobile dà luogo alle seguenti figure: Accessione di mobile a — l’« unione » (o « commistione »), che consiste nella congiunmobile zione di beni mobili appartenenti a proprietari diversi che vengono a ... unione formare un tutto inseparabile senza dar luogo ad una « cosa nuova »: la proprietà diventa comune. Se, però, una delle due cose si può considerare principale o è molto superiore per valore, il suo proprietario acquista la proprietà del tutto; salvo l’obbligo di corrispondere all’altro una somma di danaro calcolata secondo i criteri indicati dall’art. 939 c.c.: in quest’ultima ipotesi ricorre il fenomeno dell’« accessione » (v. Cass. 13 giugno 2002, n. 8479); — la « specificazione », che consiste nella creazione di una cosa ... specificazione del tutto nuova con beni mobili appartenenti ad altri (ad es., produco sapone con materie prime altrui): qui si ha trasformazione della materia mediante l’opera umana. Il codice ha dato conseguentemente importanza all’elemento « lavoro »: infatti, se è superiore il valore della mano d’opera, la proprietà spetta allo specificatore (salvo l’obbligo di pagare al proprietario il prezzo della materia); altrimenti prevale il diritto del proprietario della materia (che, peraltro, deve pagare il prezzo della mano d’opera) (art. 940 c.c.). [§ 143] I diritti reali in generale e la proprietà § 142-bis. 295 Perdita della proprietà. La proprietà si perde, innanzitutto, in forza di un atto di dispo- Atti sizione (ad es., vendita, donazione, ecc.) posto in essere dal suo titolare, dispositivi che ne determini il trasferimento a favore di terzi (nei nostri esempi, l’acquirente, il donatario, ecc.), che la acquisiscono a titolo derivativo. Si perde altresì in conseguenza dell’acquisto che altri ne faccia Usucapione da parte di per usucapione (v. § 184). terzo Si tende ad ammettere — argomentando ex artt. 827, 882, Rinuncia comma 2, 888, 923, comma 2, 1070, 1104, comma 1, 1350, n. 5, e 2643, n. 5, c.c. — che la proprietà possa estinguersi per rinuncia da parte del suo titolare. Nel caso in cui la proprietà abbia ad oggetto un bene mobile, la rinuncia può avvenire anche per facta concludentia (ad es., abbandonando il bene in discarica); nell’ipotesi in cui abbia invece ad oggetto un bene immobile, l’atto di rinuncia deve rivestire la forma scritta (art. 1350, n. 5, c.c.) ed essere trascritto nei pubblici registri immobiliari (art. 2643, n. 5, c.c.). In seguito alla rinuncia, nel primo caso, il bene diviene res derelicta, suscettibile di acquisto per occupazione (artt. 923 ss. c.c.); nel secondo, viene acquisito ex lege (ex art. 827 c.c.) al patrimonio dello Stato. § 143. Azioni a difesa della proprietà. A difesa della proprietà sono esperibili le c.d. « azioni petitorie » Azioni (che — si dice — hanno natura reale, in quanto volte a far valere un petitorie diritto reale); e cioè: a) l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.); b) l’azione di mero accertamento della proprietà; c) l’azione negatoria (art. 949 c.c.); d) l’azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.); e) l’azione per apposizione di termini (art. 951 c.c.). A) L’« azione di rivendicazione » (c.d. reivindicatio) (art. 948 c.c.) Azione di è concessa a chi si afferma proprietario di un bene, ma non ne ha il rivendicazione possesso (v. §§ 174 ss.), al fine di ottenere, da un lato, l’accertamento del suo diritto di proprietà sul bene stesso e, da altro lato, la condanna di chi lo possiede o detiene alla sua restituzione (v. Cass. 12 novembre 2015, n. 23121). Legittimato attivamente è, perciò, chi sostiene di essere proprie- Legittimatario del bene, senza trovarsi nel possesso della cosa (v. Cass. 11 zione gennaio 2017, n. 472). 296 I diritti reali [§ 143] Legittimato passivamente è colui che, avendo il possesso o la detenzione (v. § 176) della cosa, ha la c.d. facultas restituendi (v. Cass. 4 ottobre 2018, n. 24260). Il detentore, peraltro, ove sia convenuto con la reivindicatio, può chiedere di essere estromesso dal giudizio, indicando il soggetto in nome del quale egli detiene la cosa (c.d. laudatio auctoris: art. 1586 c.c.), in modo che l’attore possa proseguire l’azione contro quest’ultimo. È sufficiente che il convenuto possieda o detenga la cosa al momento della domanda giudiziale: se successivamente abbia cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa (ad es., perché l’ha ceduta a terzi), l’azione può essere legittimamente proseguita nei suoi confronti, anche se non potrà più avere l’effetto restitutorio del possesso che le è proprio. Il convenuto — in quanto dolo desiit possidere — sarà obbligato a recuperare la cosa per l’attore a proprie spese, ovvero, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a dovergli in ogni caso risarcire il danno. Comunque, il proprietario può sempre rivolgersi direttamente contro il nuovo possessore, al fine di ottenere direttamente da quest’ultimo la restituzione del bene. Causa Poiché chi agisce in rivendica fa valere — come si è detto — il petendi suo (asserito) diritto di proprietà, ai fini della domanda, irrilevante è il titolo (se, ad es., un determinato contratto, o l’usucapione, ecc.) dallo stesso eventualmente indicato come fonte di esso (sicché, ad es., dopo aver sostenuto di aver acquistato il bene in forza di una compravendita, ben potrebbe successivamente allegarne l’intervenuta usucapione; così come il giudice potrebbe accogliere la domanda sulla scorta di un titolo diverso da quello invocato dall’attore): la proprietà — come, del resto, anche gli altri diritti reali di godimento (v. §§ 144 ss.) — appartiene, infatti, alla categoria dei c.d. « diritti autodeterminati », individuati cioè in base alla sola indicazione del loro contenuto, e non anche in base al titolo che ne costituisce la fonte (v. Cass. 17 ottobre 2017, n. 24435). Prova Per quel che riguarda la prova, l’attore — in conformità alle regole generali (art. 2697 c.c.; v. § 123) — ha l’onere di dimostrare il suo diritto di proprietà (v., da ultimo, Cass. 24 aprile 2018, n. 10066). All’uopo, se l’acquisto è a titolo originario, gli sarà sufficiente fornire la prova di tale titolo (ad es., l’intervenuta usucapione, l’accessione, ecc.). Se, invece, l’acquisto è a titolo derivativo (ad es., compravendita), non basterà la produzione in giudizio del suo titolo di acquisto (ad es., il relativo rogito notarile), in quanto l’alienante potrebbe non essere stato il proprietario del bene e, quindi, legittimato a trasferirne la titolarità all’acquirente (v. Cass. 10 settembre 2018, n. 21940); sicché l’attore dovrà dare la prova — oltre che del suo titolo di acquisto — anche del titolo di [§ 143] I diritti reali in generale e la proprietà 297 acquisto dei precedenti titolari, fino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario: a voler andare all’infinito, la prova potrebbe rivelarsi, se non addirittura impossibile, estremamente difficile (c.d. probatio diabolica). Tanto più che la prova della proprietà di beni immobili non può essere utilmente fornita con la produzione dei relativi certificati catastali (v. Cass. 30 aprile 2014, n. 9523). In proposito, soccorrono, però, due istituti: — rispetto ai beni mobili (non registrati), sarà sufficiente che l’attore provi che — quand’anche avesse acquistato la cosa da chi non ne era il legittimo proprietario (c.d. acquisto a non domino) — ne avrebbe comunque acquisito la proprietà per effetto della regola « possesso vale titolo » (art. 1153 c.c.; v. § 183), avendo a suo tempo ricevuto, in buona fede ed in base ad un titolo idoneo al trasferimento della proprietà, il possesso del bene di cui ora lamenta di non avere il godimento; — rispetto ai beni immobili — ed ai beni mobili relativamente ai quali non possa dimostrarsi l’operatività della regola « possesso vale titolo » — occorrerà invece che l’attore provi che, quand’anche avesse acquistato a non domino, avrebbe comunque acquisito la proprietà della cosa per usucapione (artt. 1158 ss. c.c.; v. § 184), avendone avuto — in via diretta ovvero attraverso i propri danti causa (in forza del principio della successione e dell’accessione nel possesso; art. 1146 c.c.; v. § 180) — il possesso continuato per il tempo necessario al maturarsi dell’usucapione stessa. Peraltro, l’onere probatorio normalmente gravante su chi agisce in rivendica può attenuarsi in relazione alla linea difensiva adottata dal convenuto (che, ad es., non contesti l’originaria appartenenza del bene conteso all’attore ovvero ad un comune dante causa) (v. Cass. 14 dicembre 2016, n. 25793). Il convenuto si trova — sempre per quel che riguarda la prova — in una posizione molto più comoda rispetto a quella dell’attore: egli può limitarsi a dire « possideo quia possideo » ed attendere che l’attore provi il suo diritto (v. Cass. 7 giugno 2018, n. 14734). L’azione di rivendicazione è imprescrittibile (v. § 112), perché Imprescrittianche il non uso è una manifestazione dell’ampiezza di poteri che bilità spettano al proprietario. Essa dev’essere però rigettata, se il convenuto dimostra di avere acquistato la proprietà della cosa per usucapione (art. 948, comma 3, c.c.; v. § 184). Per quanto riguarda — in caso di accoglimento della domanda di rivendica — gli obblighi connessi con la riconsegna della cosa (restituzione dei frutti ed eventuali rimborsi spettanti al possessore), v. § 182. 298 I diritti reali [§ 143] Dall’« azione di rivendicazione » si distingue l’« azione di restituzione » (v. Cass., sez. un., 28 marzo 2014, n. 7305): la prima — di carattere reale — presuppone che colui che si afferma proprietario pretenda la consegna del bene proprio per il fatto di esserne proprietario; l’azione di restituzione — di natura personale — presuppone, invece, che l’attore agisca in giudizio vantando un diritto alla restituzione nascente da un rapporto contrattuale (ad es., il diritto alla restituzione dell’autoveicolo consegnato al meccanico per una riparazione), ovvero dalla sua risoluzione (ad es., il diritto alla restituzione della cosa consegnata in esecuzione di un contratto di compravendita risolto per mancato pagamento del prezzo), ovvero ancora dalla sua scadenza (ad es., il diritto alla restituzione dell’appartamento per finita locazione), ecc. Nell’azione di restituzione non occorre — ovviamente — la prova del diritto di proprietà; basta quella del diritto alla restituzione (v. Cass. 10 ottobre 2018, n. 25052). B) L’« azione di mero accertamento della proprietà » è dalla giuriAzione di mero sprudenza riconosciuta a chi — abbia o non abbia il possesso della accertamento cosa — ha interesse (ad es., perché altri glielo contesta) ad una pronuncia giudiziale che affermi, con l’efficacia del giudicato (v. § 120), il suo diritto di proprietà su un determinato bene: l’azione è rivolta non già — come invece la reivindicatio — a recuperare la cosa (che, magari, è già nel possesso dell’attore), ma semplicemente a rimuovere la situazione di incertezza venutasi a creare in ordine alla proprietà di essa (v. Cass. 13 marzo 2009, n. 6258). L’attore ha l’onere di offrire la prova rigorosa della sua proprietà, non diversamente da quanto richiesto per l’azione di rivendicazione (v. Cass. 18 gennaio 2017, n. 1210), salvo che si trovi nel legittimo possesso del bene; nel qual ultimo caso deve allegare e provare solo il proprio titolo di acquisto (v. Cass. 16 maggio 2016, n. 9959; Cass. 30 dicembre 2011, n. 30606). C) L’« azione negatoria » (c.d. actio negatoria servitutis) (art. 949 Azione negatoria c.c.) è concessa al proprietario di un bene al fine di ottenere l’accertamento dell’inesistenza di diritti reali vantati da terzi sul bene stesso (ad es., Tizio sostiene di essere titolare di una servitù di passaggio sul mio fondo: v. Cass. 5 dicembre 2018, n. 31382; Cass. 11 settembre 2018, n. 22050), oltre che — nell’ipotesi in cui le relative pretese si siano tradotte nella realizzazione di opere e/o nel compimento di atti corrispondenti all’esercizio di detti diritti — la condanna alla rimozione di dette opere ed alla cessazione delle molestie e turbative poste in essere, nonché al risarcimento del danno (v. Cass. 9 gennaio 2017, n. 203). Azione di restituzione [§ 143] I diritti reali in generale e la proprietà 299 Per quel che riguarda la prova — poiché l’azione negatoria è di- Prova retta non già all’accertamento della proprietà di chi agisce, bensì soltanto al riconoscimento della libertà del bene da diritti di terzi — l’attore non deve fornire la prova rigorosa della proprietà sul bene stesso, come accade invece in caso di rivendicazione (v. Cass. 11 gennaio 2017, n. 472). È sufficiente che dimostri un valido titolo di acquisto (ad es., il rogito notarile in forza del quale ha comprato l’immobile); sarà il convenuto a dover, se vuole ottenere il rigetto dell’azione, dimostrare l’esistenza del diritto che vanta (Cass. 7 gennaio 2017, n. 203). Tale ultima regola costituisce una conseguenza, sul piano probatorio, del principio secondo cui il diritto di proprietà non incontra limiti che non siano stabiliti dalla legge o dalla volontà del proprietario: essa, cioè, si presume libera da pesi. Incombe, pertanto, a chi sostiene l’esistenza di limitazioni l’onere di fornirne la dimostrazione. Anche l’azione negatoria — essendo posta a tutela del diritto di Imprescritproprietà — è imprescrittibile (v. § 112). Ma dovrà essere rigettata, tibilità qualora il convenuto dovesse dimostrare di aver acquistato il diritto vantato per usucapione (v. § 184). D) L’« azione di regolamento di confini » presuppone l’incertezza Azione di — oggettiva od anche solo soggettiva — del confine tra due fondi (v. regolamento dei confini Cass. 8 febbraio 2013, n. 3130): i rispettivi titoli di proprietà delle parti non sono contestati; incerta è solo l’estensione delle proprietà contigue (e, quindi, l’esatta allocazione della linea di confine; v. Cass. 15 maggio 2018, n. 11822). Si ha dunque — si suol dire — un « conflitto tra fondi », non già un « conflitto di titoli » (v. Cass. 25 settembre 2018, n. 22645; Cass. 24 aprile 2018, n. 10066). L’azione — che spetta al proprietario nei confronti del confinante — è volta, appunto, ad accertare giudizialmente l’esatta collocazione del confine tra due fondi contigui ed, eventualmente, ad ottenere la condanna alla restituzione della striscia di terreno che, dalla fissazione della linea di confine, dovesse risultare posseduta dal non proprietario (v. Cass. 11 luglio 2016, n. 14131; Cass. 30 marzo 2016, n. 6148). La prova dell’ubicazione del confine può essere fornita con ogni Prova mezzo; in mancanza di altri elementi, il giudice si atterrà al confine delineato dalle mappe catastali (art. 950 c.c.; v. Cass. 24 aprile 2018, n. 10062; Cass. 6 giugno 2017, n. 14020). Anche l’azione di regolamento di confini — essendo pur essa Imprescrittiposta a tutela del diritto di proprietà — è imprescrittibile (v. § 112; v. bilità Cass. 27 febbraio 2008, n. 5134). E) L’« azione per apposizione di termini » (art. 951 c.c.) — a Azione di differenza della precedente — presuppone la certezza del confine (v. apposizione di termini Cass. 30 aprile 2014, n. 9512) e serve a far apporre o a ristabilire i 300 I diritti reali [§ 143] segni lapidei, simboli del confine tra due fondi, che manchino o siano divenuti irriconoscibili (v. Cass. 8 aprile 2011, n. 8100). Azioni Le azioni fin qui esaminate si chiamano « azioni petitorie » per petitorie e distinguerle da quelle a tutela del possesso: c.d. « azioni possessorie » azioni possessorie (v. §§ 185 ss.). CAPITOLO XIV I DIRITTI REALI DI GODIMENTO § 144. Generalità. I « diritti reali su cosa altrui » non costituiscono — come già si è I diritti reali visto (v. § 131) — una parte o frazione del diritto di proprietà, ma su cosa altrui una limitazione del diritto medesimo (v. Cass. 9 ottobre 2017, n. 23547). Si è anche detto che i diritti reali su cosa altrui si distinguono in Diritti reali di e « diritti reali di godimento » (che comprimono il potere di godimento godimento diritti reali di che spetta al proprietario) e « diritti reali di garanzia » (che — in garanzia funzione di garanzia di crediti di terzi — comprimono, di fatto, il potere di disposizione che spetta al proprietario). Di questi ultimi si tratterà ai successivi §§ 238 ss. I diritti reali di godimento — che, come i diritti reali in genere, costituiscono un numerus clausus (v. § 131; v., da ultimo, Cass. 18 gennaio 2019, n. 1254) — sono: la superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, la servitù prediale. I diritti di superficie, enfiteusi, abitazione e servitù possono Oggetto dei reali di avere ad oggetto solo beni immobili; i diritti di usufrutto e di uso diritti godimento possono avere ad oggetto anche beni mobili. Ci si interroga se — e, in caso di risposta affermativa, in che Diritti reali di e limiti — alle parti sia concesso di derogare alle regole dettate dal godimento autonomia codice in tema di diritti reali di godimento. La giurisprudenza è, privata infatti, ormai giunta ad ammettere che « il divieto di costituire diritti in re aliena diversi da quelli previsti dal codice limita la libertà contrattuale in relazione alla struttura del diritto reale, non al contenuto dello stesso » (così Cass. 4 gennaio 2013, n. 100). È evidente che, in quest’ottica, spazi non marginali si aprono all’autonomia privata — anche laddove manchi una esplicita previsione in tal senso (v. artt. 957, 964, 965, 980, 1030, 1042, 1063, 1069, ecc.) — nel momento in cui si tratta di conformare il concreto contenuto di diritti reali pur tipizzati dal legislatore. Nel prosieguo del discorso, ci atterremo alle regole — non importa se derogabili o meno — dettate dal codice. I diritti reali 302 [§ 145] A) LA SUPERFICIE § 145. Nozione e disciplina. Per comprendere quest’istituto, occorre ricordare che — per il principio dell’accessione (v. § 142) — tutto ciò che è stabilmente incorporato sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario del suolo medesimo (art. 934 c.c.). Peraltro, questa regola subisce una deroga, allorquando venga attribuito a soggetto diverso dal proprietario il « diritto di superficie » (artt. 952 ss. c.c.). La superficie consiste alternativamente (art. 952 c.c.; v. Cass. 9 ottobre 2017, n. 23547): a) nel diritto (c.d. « concessione ad aedificandum ») di costruire, Concessione ad al di sopra del suolo altrui, un’opera, di cui il superficiario, quando aedificandum l’abbia realizzata, acquista — a titolo originario — la proprietà (c.d. « proprietà superficiaria ») separata da quella del suolo, la quale ultima (c.d. « nuda proprietà ») resta invece al concedente; ovvero b) nella proprietà separata (c.d. « proprietà superficiaria ») di Proprietà separata una costruzione già esistente, di cui un soggetto diverso dal proprietario diviene titolare, mentre la proprietà del suolo (c.d. « nuda proprietà ») resta al concedente. Una separazione analoga si può stabilire per il sottosuolo (ad es., Sottosuolo e piantagioni nel caso in cui io conceda al terzo di realizzare nel sottosuolo del mio immobile un parcheggio sotterraneo, con diritto di conservarne la proprietà, poniamo, per cinquant’anni) (art. 955 c.c.), ma non per le piantagioni (art. 956 c.c.). È importante tenere distinte le due ipotesi sopra delineate di Disciplina diritto di superficie. Così ad es.: — se la costruzione ancora non esiste, non si ha che un diritto reale su cosa altrui; con la conseguenza che la concessione ad aedificandum si estingue se il titolare non costruisce per vent’anni (art. 954, comma 4, c.c.; v. Cass. 7 aprile 2014, n. 8084); — se la costruzione già esiste, si ha invece una proprietà della costruzione separata da quella del suolo; e, quindi, non è concepibile l’estinzione per non uso, che non si concilia con la natura del diritto di proprietà. La superficie può essere perpetua ovvero a termine: in quest’ulPerpetuità e temporaneità timo caso, alla scadenza la proprietà della costruzione passa — L’accessione [§ 145] I diritti reali di godimento 303 gratuitamente (salvo patto contrario) — al proprietario del suolo (art. 953 c.c.). Modi di acquisto della superficie sono il contratto (sia a titolo Modi di oneroso che gratuito), il testamento e — almeno una volta realizzate, acquisto attraverso l’esecuzione della costruzione, opere visibili di attuazione del diritto — l’usucapione. Posto che il diritto di superficie ha necessariamente ad oggetto beni immobili, il relativo contratto costitutivo (così come quello che lo modifica o lo trasferisce) richiede la forma scritta ad substantiam (art. 1350, n. 2, c.c.; v. Cass., sez. un., 16 febbraio 2018, n. 3873) ed è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 2, c.c.). Il superficiario ha la libera disponibilità della costruzione, che — Poteri del come si è detto — altro non è che di sua proprietà: può alienarla, superficiario costituire sulla stessa diritti reali (ad es., iscrivere ipoteca: art. 2810, comma 1 n. 3, c.c.), concederla in godimento a terzi (ad es., darla in locazione), ecc. Il superficiario — in ragione della natura « proprietaria » del suo Azioni a diritto — è legittimato ad esperire le azioni a tutela della « proprietà tutela superficiaria » (ad es., l’actio negatoria servitutis: v. Cass. 17 ottobre 2013, n. 23593). L’estinzione della superficie si verifica per scadenza del termine Estinzione (se a tempo determinato), confusione (cioè, riunione di superficie e nuda proprietà in capo ad un medesimo soggetto), rinunzia, prescrizione ventennale (se trattasi di concessione ad aedificandum; v. Cass. 29 gennaio 2018, n. 2092) (art. 954 c.c.). Salva diversa pattuizione, il perimento della costruzione non Perimento estingue il diritto di superficie (art. 954, comma 3, c.c.): ciò si spiega, della costruzione considerando che la costruzione non è che una estrinsecazione del diritto di superficie e non si confonde con esso. Perciò il superficiario può ricostruire sul suolo in base al diritto di superficie concessogli. Con l’estinzione della superficie, il diritto del proprietario (nudo) Effetti si estende alla costruzione eseguita dal superficiario (v. Cass. 9 dell’estinzione ottobre 2017, n. 23547). Se l’estinzione avviene per scadenza del termine, i diritti reali di godimento gravanti sul suolo si estendono alla costruzione, mentre quelli eventualmente costituiti dal superficiario si estinguono (art. 954, comma 1, c.c.), ad eccezione della servitù costituita a favore della costruzione (arg. ex art. 1078 c.c.). Se l’estinzione avviene, invece, per altre cause, si ritiene che i diritti reali di godimento eventualmente costituiti, rispettivamente, dal nudo proprietario e dal superficiario continuino a gravare separatamente sui beni già I diritti reali 304 [§ 146] oggetto dei diritti di ciascuno. Per quanto riguarda l’ipoteca dispone l’art. 2816 c.c. La prassi Il diritto di superficie trova — specie di recente — ampia applicazione nella pratica: ad es., negli edifici condominiali (in cui — mentre la proprietà del suolo compete, in comunione pro indiviso, a tutti i condòmini — la proprietà delle singole unità immobiliari compete, in via esclusiva, a ciascuno di essi: v. § 169); negli immobili di edilizia economico-popolare (in cui — mentre la proprietà del suolo va a far parte del patrimonio indisponibile della P.A. — la proprietà delle singole unità immobiliari appartiene, in via esclusiva, a ciascun acquirente per un massimo di novantanove anni: art. 35 L. 22 ottobre 1971, n. 865); nella realizzazione di parcheggi al di sotto del suolo pubblico (in cui — mentre la proprietà dell’area compete alla P.A. — la proprietà dell’edificando autosilo viene sovente concessa, per un periodo di tempo determinato, al privato che lo costruisce, affinché, attraverso il ricavato dalla gestione dell’autosilo stesso, possa recuperare l’investimento effettuato); ecc. B) L’ENFITEUSI § 146. Nozione e disciplina. L’enfiteusi ebbe notevole sviluppo nel Medio Evo. Il codice del 1865 la considerò con sfavore. Il legislatore del 1942 cercò di imprimere nuova vita all’istituto, convinto che esso potesse rendere ancora servizi utili all’economia: ma non sembra che tali aspettative si siano realizzate. Nozione L’« enfiteusi » attribuisce al soggetto a cui favore è costituita (c.d. enfiteuta, o utilista, o concessionario) lo stesso potere di godimento che, su un bene immobile, spetta al proprietario, salvo l’obbligo di migliorare il fondo e pagare al proprietario stesso (c.d. nudo proprietario, o direttario, o concedente) un canone periodico — che può consistere in danaro o in una quantità fissa di prodotti naturali — (art. 960 c.c.), nei limiti fissati da leggi speciali (L. 22 luglio 1966, n. 607; L. 18 dicembre 1970, n. 1138; L. 14 giugno 1974, n. 270). A differenza dell’usufruttuario (v. § 147), l’enfiteuta può anche mutare la destinazione del fondo (ad es., modificare il tipo di coltivazione in essere, edificarvi costruzioni, destinarlo ad attività industriali, commerciali, turistiche, ecc.), purché non lo deteriori. L’enfiteusi nel codice civile [§ 147] I diritti reali di godimento 305 Il potere di godimento che, per effetto della costituzione di enfiteusi, spetta all’enfiteuta si suol denominare dominio utile: al nudo proprietario compete il dominio diretto che, in concreto, si riduce a ben poca cosa (il diritto al canone). Perciò alcuni — ponendosi il problema relativo alla natura dell’enfiteusi — giungono ad affermare che, dal punto di vista giuridico, l’enfiteuta si dovrebbe ritenere il « vero » proprietario del fondo, mentre il diritto del concedente si configurerebbe come un diritto reale al canone. L’enfiteusi può essere perpetua (a differenza dei diritti di usu- Perpetuità e frutto, uso e abitazione che hanno sempre durata temporanea) o a temporaneità tempo (ma non può mai avere durata inferiore a 20 anni: se si consentisse un termine più breve, nessuno sarebbe invogliato ad assumere l’obbligo del miglioramento) (art. 958 c.c.). L’enfiteuta può disporre liberamente del proprio diritto sia per Potere di atto inter vivos che mortis causa (art. 965 c.c.), così come può disposizione costituire su di esso diritti reali limitati. Modi di acquisto dell’enfiteusi sono il contratto (a forma neces- Modi di sariamente scritta: art. 1350, n. 2, c.c.), il testamento e l’usucapione. acquisto La legge attribuisce: a) all’enfiteuta il c.d. potere di affrancazione, per effetto del Affrancazione quale lo stesso acquista la piena proprietà del fondo mediante il pagamento, a favore del concedente, di una somma di danaro (art. 971 c.c.; v. Cass. 26 maggio 2014, n. 11700; Cons. Stato 17 aprile 2014, n. 3932/13); b) al concedente il c.d. potere di devoluzione, per effetto del quale Devoluzione lo stesso — in caso di inadempimento, da parte dell’enfiteuta, all’obbligo di non deteriorare il fondo od a quello di migliorarlo, ovvero all’obbligo di pagare il canone — libera il fondo dal diritto enfiteutico (art. 972 c.c.; v. Cass. 19 ottobre 2018, n. 26520). C) L’USUFRUTTO, L’USO E L’ABITAZIONE § 147. L’usufrutto: nozione. L’« usufrutto » consiste nel diritto di godere della cosa altrui con Il contenuto l’obbligo, però, di rispettarne la destinazione economica: ius utendi del diritto fruendi salva rerum substantia (art. 981 c.c.). L’usufruttuario può, dunque, trarre dalla cosa tutte le utilità che ne può trarre il proprietario, ma se, per es., l’usufrutto ha per oggetto un’area, non può 306 I diritti reali [§ 147] costruirvi; se ha per oggetto un giardino o un parco, non può trasformarvi in un orto o in un frutteto, ecc. L’usufrutto ha necessariamente durata temporanea, perché non Temporaneità presenterebbe alcuna utilità pratica la proprietà del concedente (c.d. « nuda proprietà »), se la facoltà di godimento le fosse definitivamente sottratta (v. Cass. 12 maggio 2011, n. 10453). Così: a) se costituito a favore di una persona fisica, l’usufrutto — ove il titolo costitutivo non preveda una durata inferiore — s’intende per tutta la durata della vita dell’usufruttuario; in ogni caso, la morte di quest’ultimo determina l’estinzione del diritto, quand’anche non fosse ancora scaduto il termine finale eventualmente previsto; b) se costituito a favore di una persona giuridica, ovvero di un ente non personificato (ad es., un’associazione non riconosciuta), la durata dell’usufrutto non può essere superiore a trent’anni (art. 979 c.c.). Compatibile con il limite massimo di durata previsto dal codice Usufrutto congiuntivo — e, quindi, valido — si ritiene (arg. ex artt. 678 e 796 c.c.) il c.d. « usufrutto congiuntivo », per tale intendendosi quello attribuito congiuntamente a più soggetti, anche con diritto di accrescimento a favore del più longevo dei contitolari (si pensi, ad es., all’usufrutto costituito a favore dei coniugi Tizio e Caia, con la previsione che, alla morte del primo dei due, il diritto di usufrutto competerà integralmente all’altro), con conseguente non consolidazione dell’usufrutto con la nuda proprietà fino a quando rimane in vita l’ultimo dei contitolari originari (v. Cass. 7 novembre 2011, n. 24108). Da non confondere con l’usufrutto congiuntivo è l’« usufrutto Usufrutto successivo successivo », per tale intendendosi quello attribuito a più soggetti in via successiva alla morte dell’usufruttuario precedente (si pensi, ad es., all’usufrutto costituito a favore di Tizio, con la previsione che, alla sua morte, l’usufrutto spetterà a Caio). L’usufrutto successivo è espressamente vietato — e, quindi, valido solo a favore del primo beneficiario — se costituito per testamento (art. 698 c.c.) o in forza di donazione (art. 795 c.c.). Si discute se analoga regola valga con riferimento all’usufrutto successivo costituito in forza di contratto a titolo oneroso. Usufrutto Valido si ritiene comunque — in applicazione analogica della successivo previsione dell’art. 796 c.c. — il c.d. « usufrutto successivo improprio », improprio per tale intendendosi quello in cui l’alienante a titolo oneroso di un bene se ne riserva l’usufrutto, con la previsione che, alla sua morte, lo stesso competerà ad un terzo (o a più terzi congiuntamente, ma non successivamente) (v. Cass. 19 aprile 2016, n. 7710). I diritti reali di godimento [§ 149] § 148. 307 L’oggetto dell’usufrutto. Il quasi usufrutto. Oggetto di usufrutto può essere qualunque specie di bene — Oggetto mobile o immobile (v. anche artt. 994, 1000, 1010, 1998, 2352, 2561 c.c.) — con esclusione dei soli beni consumabili. Questi ultimi — poiché, se utilizzati, perdono la loro individualità (ad es., il cibo, una bevanda, ecc.), ovvero escono dalla disponibilità del soggetto che li impiega (ad es., il danaro) — non potrebbero, infatti, essere restituiti al proprietario alla cessazione dell’usufrutto. Se il godimento di beni consumabili viene attribuito a soggetto Il quasi diverso dal proprietario, si avrà una situazione che non coincide con usufrutto quella dell’usufrutto; ma che — per la sua somiglianza a quest’ultimo — si suole definire « quasi usufrutto »: in tal caso, la proprietà dei beni (consumabili) passa al quasi-usufruttuario — quindi, il quasi usufrutto non è un diritto reale su cosa altrui — salvo l’obbligo di quest’ultimo di restituire non già gli stessi beni ricevuti (cosa che, come abbiamo visto, sarebbe impossibile), bensì il loro valore, ovvero altrettanti beni dello stesso genere (tantundem eiusdem generis) (art. 995 c.c.). Oggetto di usufrutto possono, invece, essere anche beni (incon- Usufrutto di sumabili, ma) deteriorabili (ad es., un vestito, un’autovettura, ecc.): beni deteriorabili in tal caso, l’usufruttuario ha diritto di servirsene secondo l’uso al quale sono destinati (il che, del resto, è conforme al limite normale dell’usufrutto: salva rerum substantia). Perciò, se si tratta di abiti di gala, non possono essere indossati ogni giorno; se si tratta di cavalli da corsa, non possono essere impiegati come cavalli da tiro; ecc. Alla fine dell’usufrutto, l’usufruttuario è tenuto a restituirli nello stato in cui si trovano (art. 996 c.c.). § 149. Modi di acquisto dell’usufrutto. Costituzione Modi di acquisto dell’usufrutto possono essere: a) la legge, per quel che riguarda l’usufrutto legale dei genitori sui beni del figlio minore (artt. 324 ss. c.c.), di cui si tratterà al successivo § 613; b) il provvedimento del giudice che — in relazione alle necessità della prole — può (ex art. 194, comma 2, c.c.) costituire, a favore di uno dei coniugi, l’usufrutto su parte dei beni spettanti all’altro coniuge a seguito della divisione dei cespiti già in comunione legale, di cui si tratterà al successivo § 600; c) la volontà dell’uomo: contratto (a titolo gratuito ovvero oneroso), testamento, promessa al pubblico, donazione obnuziale (v. Cass. 30 gennaio 2007, n. 1967); con l’avvertenza che gli atti inter I diritti reali 308 [§ 150] vivos che costituiscono (modificano o trasferiscono) il diritto di usufrutto su beni immobili richiedono la forma scritta ad substantiam (art. 1350, n. 2, c.c.) e sono soggetti a trascrizione (art. 2643, n. 2, c.c.; v. anche art. 2684, n. 2, c.c.). Del pari, sono soggetti a trascrizione l’accettazione dell’eredità e l’acquisto del legato, che importino l’acquisto dell’usufrutto su detti beni (art. 2648 c.c.); d) l’usucapione (art. 1158 c.c.; v. § 184) e, sui beni mobili non registrati, l’acquisto del possesso in buona fede (art. 1153, comma 3, c.c.; v. § 183). Usufrutto Fino a tempi relativamente recenti, il modo d’acquisto dell’usuuxorio frutto più diffuso è stato l’attribuzione di tale diritto — ex lege — al coniuge superstite in sede di successione mortis causa al coniuge defunto (artt. 540, 542, 543, 544, 546, 581 c.c. nella loro versione originaria): c.d. « usufrutto uxorio ». La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha, peraltro, eliminato siffatto istituto, contemplando, a favore del coniuge superstite, non più il diritto di usufrutto su una quota dei beni relitti, bensì la proprietà piena su una quota degli stessi (v. § 640). Conseguentemente l’importanza dell’istituto appare, oggi, di gran lunga ridimensionata, poiché tutti i residui modi di acquisto dell’usufrutto risultano, nella pratica, meno diffusi. § 150. Diritti dell’usufruttuario. All’usufruttuario competono: a) il potere di godimento sul bene (art. 981 c.c.; v. Cass. 12 maggio 2011, n. 10453), che implica: (i) la facoltà di trarre dalla cosa tutte le utilità che la stessa può dare, fermo solo l’obbligo di rispettarne la destinazione economica; (ii) il possesso della cosa (art. 982 c.c.; v. § 178; v. Cass. 10 Possesso del bene e actio gennaio 2011, n. 355). Per conseguire il possesso, se questo è eserciconfessoria tato da altri, l’usufruttuario può esperire l’actio confessoria, azione analoga alla reivindicatio, tanto che si chiama anche vindicatio ususfructus. Quest’azione è diretta ad accertare l’esistenza del diritto d’usufrutto e ad ottenere la condanna del terzo al rilascio del possesso (v. Cass. 31 marzo 2016, n. 6293); (iii) l’acquisto dei frutti naturali e civili della cosa (ma v., anche, I frutti art. 1998 c.c.). La legge (art. 821 c.c.) — come già sappiamo — distingue, in generale, tra frutti civili e frutti naturali: la proprietà dei frutti naturali si acquista con la separazione, i frutti civili si acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto (v. § Potere di godimento [§ 150] I diritti reali di godimento 309 89). Questa regola generale si applica anche all’usufruttuario: a quest’ultimo spettano i frutti naturali separati durante l’usufrutto ed i frutti civili maturati giorno per giorno fino al termine dell’usufrutto. Tuttavia, il principio dell’acquisto dei frutti naturali per effetto della separazione è attenuato dal legislatore rispetto alla categoria più importante di frutti naturali, cioè quelli prodotti da un fondo rustico: la ripartizione tra proprietario ed usufruttuario ha luogo, in questo caso, in proporzione della durata del rispettivo diritto nell’anno agrario. Così, se l’anno agrario ha avuto inizio il 1o novembre e l’usufrutto ha termine il 28 febbraio dell’anno successivo (l’usufrutto è, perciò, durato quattro mesi: un terzo, cioè, di anno), i frutti dell’annata agraria spetteranno per un terzo all’usufruttuario e per due terzi al proprietario. Secondo la regola generale per cui fructus non intelleguntur nisi deductis impensis, con lo stesso criterio di ripartizione dei frutti si ripartiscono anche le spese necessarie per la loro produzione (art. 984 c.c.); b) il potere di disposizione — naturalmente, solo per atto inter Potere di vivos (v. Cass. 27 marzo 2002, n. 4376) — del diritto di usufrutto (art. disposizione del diritto di 980 c.c.). L’usufruttuario può, di regola, cedere ad altri — contro un usufrutto corrispettivo od anche gratuitamente — non certo il diritto di proprietà sul bene, che non gli compete, ma il proprio diritto d’usufrutto; e può anche concedere ipoteca sull’usufrutto stesso (art. 2810, comma 1 n. 2, c.c.). In ogni caso, la cessione non può danneggiare il nudo proprietario, prolungando la compressione del suo diritto: perciò l’usufrutto si estinguerà egualmente nel termine stabilito nell’atto di costituzione e, in mancanza, con la morte non già dell’acquirente, bensì dell’originario primo usufruttuario (v. Cass. 4 maggio 2016, n. 8911); c) il potere di disposizione — naturalmente, solo per atto inter Potere di vivos — del godimento del bene (art. 999 c.c.): ad es., l’usufruttuario disposizione del può concedere in locazione la cosa che forma oggetto del suo diritto godimento (art. 999 c.c.) e, più in generale, concederla in godimento a terzi (ad del bene es., in comodato). In applicazione del principio resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis, le locazioni concesse dall’usufruttuario dovrebbero estinguersi quando si estingue l’usufrutto. Tuttavia il legislatore ha consentito — per assicurare al conduttore una certa continuità del rapporto — che le locazioni in corso al momento della cessazione dell’usufrutto possano proseguire per la durata stabilita, ma a condizione che la locazione e la sua durata risultino da atto pubblico o da scrittura privata con data certa anteriore, ed in ogni caso per non oltre un quinquennio dalla cessazione dell’usufrutto. Peraltro, se I diritti reali 310 [§ 151] l’estinzione dell’usufrutto si verifica per effetto della scadenza del termine fissato per la sua durata — termine, quindi, che il conduttore era in grado di conoscere al momento della stipula della locazione — la locazione non può durare se non per l’anno in corso (art. 999 c.c.; v. Cass. 26 maggio 2011, n. 11602); d) la facoltà di apportare miglioramenti alla cosa e di eseguire addizioni (artt. 985 e 986 c.c.). § 151. Obblighi dell’usufruttuario. Gli obblighi dell’usufruttuario si ricollegano al dovere fondamentale di restituire la cosa al termine del suo diritto (art. 1001 c.c.). Corollari Da ciò deriva che egli è tenuto a: a) usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento della cosa (art. 1001, comma 2, c.c.; v. anche artt. 989, 991, 992, 994, 997 c.c.); b) non modificarne la destinazione (art. 981, comma 1, c.c.; anche art. 986, comma 1, c.c.; v. Cass. 24 febbraio 2009, n. 4426); c) fare — salvo dispensa — l’inventario e prestare garanzia, a presidio dell’osservanza degli obblighi di conservazione e restituzione dei beni assoggettati ad usufrutto (artt. 1002 e 1003 c.c.). Le tutele La Suprema Corte ritiene che quelle appena ricordate costituiscano vere e proprie « obbligazioni » (v. §§ 189 ss.) dell’usufruttuario nei confronti del nudo proprietario; e che, in ipotesi di loro inadempimento, quest’ultimo ben possa richiedere al primo il risarcimento — anche in forma specifica (art. 2058 c.c.; v. § 469) — del danno eventualmente sofferto (così, ad es., nel caso in cui abbia eseguito opere che alterino l’originaria destinazione economica dell’immobile oggetto del suo diritto, l’usufruttuario potrà essere chiamato al risarcimento del danno sotto forma di ripristino della precedente condizione dell’immobile) (v. Cass., sez. un., 14 febbraio 1995, n. 1571). Spese ed La ripartizione delle spese inerenti alla produttività della cosa è oneri — come già accennato — collegata con il principio fructus non intelleguntur nisi deductis impensis: perciò l’usufruttuario è tenuto alle spese e, in genere, agli oneri relativi alla custodia, all’amministrazione, alla manutenzione ordinaria della cosa e, quindi, alle riparazioni ordinarie (art. 1004 c.c.; v. Cass., 24 febbraio 2009, n. 4426), alle imposte, ai canoni, alle rendite fondiarie e agli altri pesi che gravano sul reddito (art. 1008 c.c.). Sono, invece, a carico del nudo proprietario le riparazioni straordinarie: cioè, in genere, quelle che superano i limiti della Obbligo di restituzione [§ 153] I diritti reali di godimento 311 conservazione della cosa e delle sue utilità per la durata della vita umana (per l’esemplificazione v. art. 1005 c.c.; v. Cass. 6 novembre 2015, n. 22703). § 152. Estinzione dell’usufrutto. Cause di L’estinzione dell’usufrutto si verifica (art. 1014 c.c.): a) per scadenza del termine o morte dell’usufruttuario (art. 979 estinzione c.c.); b) per prescrizione estintiva ventennale; c) per consolidazione, ossia per riunione dell’usufrutto e della nuda proprietà in capo alla stessa persona; d) per perimento totale della cosa (art. 1014 c.c.); e) per abuso che l’usufruttuario faccia del suo diritto, alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli perire per mancanza di ordinarie riparazioni (art. 1015 c.c.; v. Cass. 14 giugno 2017, n. 1483); f) per rinunzia, che, se l’usufrutto ha ad oggetto beni immobili, deve essere fatta per iscritto (art. 1350, n. 5, c.c.) ed essere trascritta nei pubblici registri immobiliari (art. 2643, n. 5, c.c.). Per effetto del principio dell’elasticità del dominio (v. § 132), Effetti l’estinzione dell’usufrutto importa l’automatica riespansione — ex lege — della « nuda proprietà » in « proprietà piena ». Nell’interesse generale della produzione, la legge — come già Miglioramenti detto — non ha vietato all’usufruttuario di eseguire miglioramenti, ma ha limitato il credito dell’usufruttuario per i miglioramenti fatti, sempre che gli stessi sussistano al momento della restituzione della cosa, alla minor somma tra lo speso e l’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto del miglioramento (art. 985 c.c.). Per le addizioni si applica la regola richiamata in tema di Addizioni accessione: l’usufruttuario ha lo ius tollendi, qualora il suo esercizio non arrechi nocumento alla cosa, tranne che il proprietario non preferisca ritenere le addizioni, nel qual caso egli deve la minor somma tra lo speso ed il migliorato (art. 986 c.c.). § 153. Uso ed abitazione. L’« uso » e l’« abitazione » non sono che tipi limitati di usufrutto: Nozione a) l’uso consiste nel diritto di servirsi di un bene e, se fruttifero, di raccoglierne i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art. 1021 c.c.; v. Cass. 31 agosto 2015, n. 17320); 312 I diritti reali [§ 154] b) l’abitazione consiste nel diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art. 1022 c.c.). A differenza del titolare del diritto d’uso — che potrebbe impiegare l’unità immobiliare che ne costituisse l’oggetto anche per finalità diverse da quella abitativa (ad es., come ufficio o come deposito) — l’habitator non può destinare la casa oggetto del suo diritto che all’abitazione diretta propria e dei propri familiari (dovendosi ricomprendere fra le sue esigenze abitative anche la possibilità di avvalersi della collaborazione di natura domestica e/o assistenziale di terzi conviventi), con conseguente divieto di utilizzarla in altro modo (v. Cass. 27 giugno 2014, n. 14687). I diritti d’uso e di abitazione possono sorgere — oltre che, al pari Diritti di abitazione e dell’usufrutto, per volontà dell’uomo (contratto, testamento) e per di uso attribuiti ex usucapione — anche ex lege: l’art. 540, comma 2, c.c. prevede infatti lege al che, in caso di morte del coniuge convivente, all’altro siano riservati coniuge i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso superstite sui mobili che la arredano, se di proprietà del defunto o comuni (v. § 643). Dato il loro carattere personale, i diritti d’uso e di abitazione — Poteri di godimento e a differenza dell’usufrutto — non si possono cedere, né il bene può di disposizione essere concesso in locazione o altrimenti in godimento a terzi (art. 1024 c.c.). Peraltro, attenendo a diritti patrimoniali disponibili, detti divieti possono essere derogati dalle parti (ad es., in sede di atto costitutivo del diritto di uso o di abitazione: v. Cass. 27 aprile 2015, n. 8507). Per il resto, ove non diversamente previsto, all’uso ed all’abitazione trovano applicazione, in quanto compatibili, le disposizioni dettate in tema di usufrutto. Così, ad es., si ritiene che i diritti di uso e di abitazione non possano eccedere la durata della vita del titolare (art. 979, comma 1, c.c.; v. Cass. 27 aprile 2015, n. 8507); che, di conseguenza, i due diritti si estinguano — al pari dell’usufrutto — con la morte del titolare; che pertanto, non possano formare oggetto di disposizione testamentaria; che alle addizioni operate dal titolare di detti diritti trovi applicazione il disposto degli artt. 985 e 986 c.c. (v. Cass. 24 aprile 2018, n. 10085); ecc. D) LE SERVITÙ § 154. Nozione Nozione. La « servitù prediale » consiste nel peso imposto sopra un fondo (c.d. fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (c.d. fondo domi- [§ 154] I diritti reali di godimento 313 nante), appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.). Essenziale, pertanto, è questa relazione (c.d. rapporto di servizio) tra i due fondi (o « predi », dal latino praedium: da qui il termine « servitù prediale »), per cui il fondo dominante si avvantaggia della limitazione che subisce quello servente (così, ad es., la servitù di passaggio, mentre costringe il proprietario del fondo servente a tollerare che il proprietario del fondo dominante passi sul suo terreno, agevola l’accesso al fondo dominante). L’utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità Utilità del del fondo dominante (art. 1028 c.c.). Si può costituire, ad es., una fondo dominante servitus altius non tollendi per impedire di realizzare o di elevare una costruzione sul fondo vicino al fine di assicurare l’amenità di un parco o di un giardino, oppure la vista del mare o dei monti da una casa (c.d. « servitù di panorama »; v. Cass. 27 febbraio 2012, n. 2973). Da ciò discende che il contenuto del diritto di servitù può essere Servitù e il più vario: perciò, accanto alle c.d. servitù tipiche, il cui contenuto è tipiche atipiche previsto e regolamentato dal codice civile (ad es., servitù di presa d’acqua: artt. 1080 ss. c.c.; servitù di scolo d’acqua: art. 1094 c.c.; ecc.), sono altresì ammesse le c.d. servitù atipiche, che — pur non appartenendo ad alcuno dei modelli legali — possono tuttavia essere liberamente costituite, purché finalizzate all’utilità del fondo dominante. La legge consente esplicitamente anche le c.d. servitù industriali Servitù e (art. 1028 c.c.): quelle, cioè, strumentali a quegli utilizzi produttivi industriali aziendali del fondo dominante (pur diversi dalla sua coltivazione) che ineriscano strutturalmente al fondo stesso (ad es., servitù di passaggio per trasportare le merci prodotte; servitù di attingere acqua per servire un mulino, ecc.; v. Cass. 12 aprile 2011, n. 8363). Non costituiscono, invece, servitù prediali — ma sono servitù « irregolari », di cui si dirà subito — le c.d. servitù aziendali: quelle, cioè, strumentali all’azienda come tale, indipendentemente dal fondo sul quale la stessa viene esercitata (ad es., il divieto di concorrenza: v. Cass. 17 novembre 2017, n. 27312; il diritto di apporre un’insegna luminosa ovvero un cartellone pubblicitario a vantaggio di un esercizio commerciale gestito nell’immobile finitimo; ecc.). Nulla vieta che le servitù possano essere reciproche: poste, cioè, Servitù simultaneamente a favore ed a carico di due (o più) fondi, a reciproco reciproche vantaggio. Sicché ciascun fondo si troverà ad essere — contemporaneamente — dominante e servente (ad es., nelle vendite a lotti di aree edificabili è spesso contenuta, a carico di ciascun singolo lotto ed a favore di tutti gli altri, una serie di prescrizioni in ordine alle rispettive modalità edificatorie, volte ad assicurare a tutti i lotti siti 314 I diritti reali [§ 155] nel medesimo comprensorio standard costruttivi omogenei e particolarmente qualificati; v. Cass. 10 aprile 2018, n. 8817; Cass. 18 ottobre 2016, n. 21024). Servitù a L’utilità può anche essere rivolta ad un edificio da costruire o ad favore di un fondo da acquistare (art. 1029, comma 2, c.c.). Peraltro la servitù, edificio da costruire consistendo in una relazione tra due fondi, non può nascere come diritto reale se non quando l’edificio sia costruito od acquistato (e da tale momento decorre il termine di prescrizione per non uso della servitù: v. Cass. 3 maggio 2018, n. 10486). Prima della costruzione o dell’acquisto il rapporto ha natura obbligatoria ed è soggetto, pertanto, a prescrizione decennale (v. Cass. 2 febbraio 2011, n. 2432). Servitù Non costituiscono « servitù prediali » — che, come si è detto, irregolari instaurano una relazione tra due fondi — le c.d. « servitù irregolari » (o « personali »), in cui il servizio è prestato a favore di una persona. È, per es., servitù regolare la servitù di passaggio costituita su un fondo a favore di un altro fondo, perché consente un migliore accesso al fondo dominante; ha invece carattere di servitù irregolare — irregolare perché diversa, per queste particolarità, da quella regolare e tipica prevista dal codice civile — quella che attribuisce ad una persona il diritto di passare sul fondo altrui per esercitarvi la pesca (v. Cass. 9 ottobre 2014, n. 21356). La ragione per cui non sono ammesse servitù se non a favore di fondi consiste nel fatto che — come abbiamo visto — i diritti reali su cosa altrui costituiscono un numerus clausus: per evitare l’aggravio della proprietà con pesi che limiterebbero la produttività dei fondi, non si è riconosciuto alla volontà dei privati il potere di dar vita, a loro arbitrio, a tipi di diritti reali su cosa altrui non previsti dalla legge. Naturalmente nulla vieta che il proprietario si obblighi a consentire ad un’altra persona, per es., di esercitare la pesca sul proprio fondo; ma il negozio darà luogo ad una obbligazione con effetti limitati al concedente ed ai suoi aventi causa, e non ad un diritto reale che, come tale, potrebbe essere fatto valere erga omnes, cioè pure contro ogni successivo possessore del fondo (v. Cass. 11 febbraio 2014, n. 3091). Per la stessa ragione, l’opinione prevalente esclude — come si è ricordato al § 131 — l’ammissibilità della costituzione volontaria di obbligazioni propter rem e di oneri reali. § 155. Principi generali. I principi fondamentali in materia di servitù sono riassunti nei seguenti brocardi: [§ 155] I diritti reali di godimento 315 1) « servitus in faciendo consistere nequit »: la servitù può imporre Servitus in al proprietario del fondo servente un dovere negativo di non facere (si faciendo consistere pensi, ad es., alla servitus altius non tollendi: il proprietario del fondo nequit servente non deve sopraelevare — non facere — la costruzione esistente sul suo fondo) o di pati (si pensi, ad es., alla servitù di passaggio: il proprietario del fondo servente deve sopportare — pati — che il proprietario del fondo dominante passi sul suo fondo), non un dovere positivo (facere) (art. 1030 c.c.; v. Cass. 2 luglio 2014, n. 15101). Perciò, le spese per le opere necessarie alla conservazione della servitù sono, di regola, a carico del proprietario del fondo dominante (art. 1069 c.c.; ma v. anche Cass. 15 marzo 2017, n. 6653); mentre il proprietario del fondo servente non è, salvo patto contrario, tenuto a compiere alcun atto volto a rendere possibile l’esercizio della servitù da parte del proprietario del fondo dominante (art. 1030 c.c.; v. Cass. 2 luglio 2014, n. 15101). Nei casi in cui il proprietario del fondo servente è tenuto — in forza del titolo — ad una prestazione positiva, non si ha un unico rapporto giuridico, ma si hanno due rapporti distinti: il rapporto reale di servitù ed un rapporto obbligatorio propter rem (v. § 131), congiunto con quello reale ed accessorio rispetto ad esso (v. Cass. 24 aprile 2018, n. 10046). Questi obblighi positivi (ad es., di riparare la conduttura della presa d’acqua, di tagliare i rami ovvero di potare le piante che ostacolano il passaggio, ecc.) servono soltanto per rendere possibile o semplicemente più agevole l’esercizio della servitù (v. Cass. 17 giugno 2010, n. 14622); 2) « nemini res sua servit »: la servitù presuppone che i fondi Nemini res appartengano a proprietari diversi (v. Cass. 28 aprile 2011, n. 9464). sua servit La regola nemini res sua servit vale soltanto quando un solo soggetto è titolare sia del fondo servente sia di quello dominante, non già quando il proprietario di uno di tali fondi sia comproprietario dell’altro: in tal caso l’intersoggettività del rapporto è data appunto dal concorso di altri titolari del bene comune (v. Cass. 22 marzo 2017, n. 7318); 3) « praedia vicina esse debent »: i fondi devono trovarsi in una Praedia esse situazione topografica tale che l’uno (fondo servente) possa arrecare vicina debent utilità all’altro (fondo dominante). La vicinitas non deve intendersi in senso assoluto, ma relativo al contenuto della servitù. Perciò, ad es., una servitù di passaggio può essere costituita anche quando tra i due fondi non vi sia contiguità fisica, e la servitù debba esercitarsi anche attraverso un fondo intermedio (v. Cass., sez. un., 22 aprile 2013, n. 9685); così come una servitù di elettrodotto può gravare su un fondo servente che si trovi anche a chilometri di distanza dal fondo dominante; ecc. I diritti reali 316 § 156. Modi di acquisto [§ 156] Costituzione. La costituzione delle servitù può avvenire (art. 1031 c.c.): a) in attuazione di un obbligo di legge (c.d. servitù coattive); b) per volontà dell’uomo (contratto, testamento) (c.d. servitù volontarie) (art. 1058 c.c.); c) per usucapione (art. 1061 c.c.); d) per destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.). § 157. Le servitù coattive o legali. In taluni casi, la legge — in considerazione della situazione nella quale si trova un fondo (si pensi, per es., ad un fondo che non abbia accesso alla via pubblica) — si preoccupa del pregiudizio che tale situazione arreca alla possibilità di utilizzo dell’immobile ed attribuisce al suo proprietario il diritto (potestativo) di ottenere l’imposizione di una servitù sul fondo altrui (nell’esempio fatto: la servitù di passaggio sul fondo di terzi per accedere alla via pubblica) e così ovviare alla situazione pregiudizievole (v. Cass, sez. un., 15 settembre 2015, n. 18081). In contropartita del sacrificio che subisce, il proprietario del fondo su cui viene imposta la servitù ha diritto ad un’indennità (art. 1032, comma 1, c.c.) commisurata al danno sofferto (v. Cass. 18 maggio 2016, n. 10269). Questa servitù — che viene imposta dalla legge al proprietario del fondo servente — si chiama « servitù coattiva » (o legale). Occorre chiarire in che modo si costituiscono queste servitù: se Costituzione il mio fondo si trova nelle condizioni previste dalla legge (ad es., non ha accesso alla via pubblica: art. 1051 c.c.), io non posso senz’altro esercitare la servitù e cominciare a passare sul fondo altrui. La legge mi attribuisce il diritto ad ottenere la servitù (jus ad servitutem habendam), ma — per costituirla concretamente — occorrerà: a) un contratto (se l’altro proprietario acconsente a riconoscere bonariamente il mio diritto) (art. 1032 c.c.): nel qual caso la servitù dovrà ritenersi coattiva, anche se costituita con contratto, nella misura in cui quest’ultimo si configuri come adempimento di un obbligo legale (v. Cass. 23 settembre 2015, n. 18770); oppure b) che mi rivolga al giudice, che — con una sentenza (costitutiva) — farà nascere la servitù, determinando altresì l’indennità che devo pagare al proprietario del fondo servente (art. 1032, comma 2, c.c.; v. Cass., sez. un., 22 aprile 2013, n. 9685). Finché detto pagamento non sia intervenuto, il proprietario del fondo servente può opporsi all’esercizio della servitù (art. 1032, comma 3, c.c.). In sostanza, si vuol Nozione [§ 157] I diritti reali di godimento 317 impedire al proprietario, che ritenga di trovarsi nelle condizioni prescritte, di farsi giustizia da sé e si vuole, invece, a garanzia dell’altro proprietario, che il giudice accerti se, in concreto, sussistono effettivamente i requisiti dalla legge previsti in astratto per l’imposizione della servitù e fissi l’indennità dovuta. La legge prevede — ma solo con riferimento a talune ipotesi specifiche (v., ad es., in tema di servitù di passaggio di tubazioni per l’allacciamento alla rete del gas di utenze domestiche o aziendali, così come in tema di servitù di passaggio di tubazioni per la trasmissione di energia geotermica, l’art. 3 L. 28 luglio 2016, n. 154; in tema di servitù occorrenti al passaggio con appoggio di fili, cavi ed impianti connessi alle reti di comunicazione elettronica ad uso pubblico, l’art. 92 D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259; in tema di infrastrutture lineari energetiche, l’art. 52-octies D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327; in tema di servitù di elettrodotto, gli artt. 119 ss. R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775) — che l’avente diritto ad una servitù coattiva possa chiederne la costituzione alla P.A., che vi provvederà in forza di un atto amministrativo. Il venir meno dei presupposti, che avevano giustificato la costi- Cessazione tuzione della servitù coattiva, ne legittima la richiesta di estinzione (art. 1055 c.c.), quand’anche la servitù fosse stata costituita convenzionalmente (v. Cass. 10 febbraio 2014, n. 2922): per l’estinzione occorre, tuttavia, una sentenza — costitutiva — del giudice, emessa su domanda del soggetto interessato (v. Cass. 9 ottobre 2013, n. 22989). Le figure più importanti di servitù coattive — che sono tipiche, Tipicità delle in quanto necessariamente previste dalla legge (v. Cass. 6 giugno servitù coattive 2016, n. 11563) — sono le seguenti: a) acquedotto coattivo (artt. 1033 ss. c.c.), su cui si modellano Acquedotto l’elettrodotto coattivo (art. 1056 c.c.) ed il passaggio coattivo di linee coattivo teleferiche (art. 1057 c.c.). L’acqua è essenziale alla vita ed alla produzione agricola ed industriale: perciò il proprietario è tenuto a consentire il passaggio delle acque, sia che servano ai bisogni della vita, sia che siano destinate ad usi agricoli od industriali (art. 1033 c.c.). Il diritto all’acquedotto coattivo sussiste anche quando l’acqua non è necessaria, ma utile: ho, per es., l’acqua per bere e lavarmi, per irrigare il fondo, ma posso chiedere ugualmente l’imposizione della servitù per avere una maggiore quantità di liquido affinché lo sfruttamento del mio fondo risulti più redditizio. Occorre peraltro — alla stregua di quanto, come si vedrà subito, è stabilito per il passaggio coattivo — che chi richiede la servitù non 318 I diritti reali [§ 157] abbia possibilità di far passare l’acqua per i suoi fondi o di procurarsi altrimenti il passaggio senza eccessivo dispendio o disagio; b) elettrodotto coattivo (art. 1056 c.c.): per l’importanza che Elettrodotto coattivo l’energia elettrica ha assunto nella vita moderna, ogni proprietario è tenuto a dar passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche; c) passaggio coattivo (artt. 1051 ss. c.c.): l’accesso di un fondo Passaggio coattivo alla via pubblica è — come si può agevolmente intendere — condizione indispensabile per il suo utilizzo; la sua mancanza legittima l’imposizione della servitù di passaggio sul fondo vicino. Il diritto alla servitù di passaggio sussiste, peraltro, non soltanto Fondo intercluso: nell’ipotesi più grave — e che, in pratica, si verifica raramente — in interclusione assoluta e cui il fondo non ha né può avere accesso alla via pubblica (c.d. interclusione interclusione assoluta), ma anche nell’ipotesi in cui il proprietario non relativa possa procurarsi l’uscita senza eccessivo dispendio o disagio (per es., tra il fondo e la strada c’è un fiume ed occorrerebbe una spesa eccessiva per costruire un ponte; oppure il livello della strada è molto più alto rispetto a quello del fondo e, pertanto, sarebbe necessaria una scala ripidissima) (c.d. interclusione relativa). Come si vede, la legge non si attiene ad una concezione rigida dell’interclusione, ma tiene adeguatamente conto delle ragionevoli esigenze inerenti all’utilizzo del fondo (v. Cass. 4 gennaio 2018, n. 55; Cass. 7 febbraio 2017, n. 3232). Perciò nemmeno il fatto che il fondo abbia già un accesso alla Fondo non intercluso via pubblica (c.d. fondo non intercluso) è d’ostacolo alla costituzione della servitù coattiva nelle seguenti due ipotesi: a) vi sia bisogno, ai fini del conveniente uso del fondo, di ampliare l’accesso esistente per il transito dei veicoli, anche a trazione meccanica (art. 1051, comma 3, c.c.; v. Cass. 11 febbraio 2014, n. 3092). Il « conveniente uso del fondo » va valutato non già in base a criteri astratti o ipotetici, ma con riguardo — da un lato — alla concreta possibilità di un suo più intenso sfruttamento o di una sua migliore utilizzazione e — da altro lato — all’accertamento di un serio proposito del proprietario di attuare tale più intenso sfruttamento o tale migliore utilizzazione (v. Cass. 30 settembre 2015, n. 19388); b) il passaggio esistente sia inadatto o insufficiente ai bisogni del fondo e non possa essere ampliato (art. 1052, comma 1, c.c.; v. Cass. 29 febbraio 2012, n. 3125): in quest’ultimo caso, però, la costituzione della servitù è subordinata al fatto che risponda « alle esigenze dell’agricoltura e dell’industria » intese in senso ampio (art. 1052, comma 2, c.c.; v. Cass. 20 gennaio 2017, n. 1603); che risponda, cioè, ad un interesse generale della produzione (v. Cass. 7 marzo 2013, n. 5765). Peraltro, la giurisprudenza ritiene che il disposto dell’art. [§ 158] I diritti reali di godimento 319 1052 c.c. possa essere invocato, al fine della costituzione di una servitù coattiva di passaggio, non solo — come espressamente richiesto dal codice civile — per esigenze dell’agricoltura e dell’industria, ma anche per esigenze di accessibilità al fondo dominante da parte di qualsiasi portatore di handicap o persona con ridotta capacità motoria (v. Corte cost., 10 maggio 1999, n. 167) e, più in generale, per garantire la tutela di esigenze abitative, da chiunque invocabili (v. Cass. 6 giugno 2018, n. 14477; Cass. 10 aprile 2018, n. 8817). Il sacrificio che con l’imposizione della servitù s’impone al fondo servente dev’essere — in tutti i casi — il minore possibile. Perciò il comma 2 dell’art. 1051 c.c. stabilisce i seguenti criteri che il giudice deve tenere presenti per la determinazione del luogo del passaggio: maggiore brevità del passaggio e minor danno del fondo su cui la servitù dev’essere costituita. La via breve dev’essere preferita in quanto sia anche la meno dannosa; ma, se essa recasse un danno sensibilmente maggiore di una più lunga (dovesse, per es., attraversare un vigneto), al criterio della brevità dovrebbe preferirsi quello del minor danno (v. Cass. 12 dicembre 2016, n. 25352). § 158. Le servitù volontarie. Quando un fondo non si trova in quelle condizioni sfavorevoli Costituzione: che giustificano la costituzione di una servitù legale, il proprietario di per contratto esso può assicurarsi l’utilità che occorre per il suo miglior sfruttamento mediante la conclusione di un contratto con il proprietario del fondo su cui vorrebbe acquistare la servitù (art. 1058 c.c.; v. Cass. 20 agosto 2015, n. 17044). Il contratto, riferendosi ad un diritto reale immobiliare, deve farsi per iscritto (art. 1350, n. 4, c.c.; v. Cass. 27 aprile 2018, n. 10169) ed è soggetto, per l’opponibilità ai terzi, a trascrizione (art. 2643, n. 4, c.c.; v. Cass. 31 agosto 2018, n. 21501). La servitù può essere costituita anche per testamento (art. 1058 ... per c.c.). L’accettazione di eredità che importi l’acquisto di una servitù è testamento soggetta a trascrizione (art. 2648 c.c.). Alcune servitù — e, precisamente, quelle apparenti — possono ... per sorgere anche per usucapione (ventennale) (v. § 184) o per « destina- usucapione, quanto alle zione del padre di famiglia » (art. 1062 c.c.). Le servitù non apparenti servitù si possono, invece, costituire solo per contratto o per testamento apparenti (artt. 1058 e 1061 c.c.). « Servitù apparenti » sono quelle al cui esercizio sono destinate opere — anche formatesi naturalmente (ad es., un sentiero creatosi per effetto del calpestio: v. Cass. 27 maggio 2009, n. 12362) — visibili 320 I diritti reali [§ 158] e permanenti, non importa se insistenti sul fondo servente e/o sul fondo dominante e/o sul fondo di terzi, obiettivamente finalizzate all’esercizio della servitù: tali, cioè, da appalesare in modo non equivoco, per la loro struttura e funzione, l’esistenza di un peso gravante sul fondo servente (v. Cass. 25 ottobre 2017, n. 25355; Cass. 8 giugno 2017, n. 14292). In altre parole, occorre che queste opere (ad es., una strada, un cavalcavia sul fondo altrui, rispetto alla servitù di passaggio; una finestra rispetto alla servitù di veduta; una condotta idrica rispetto alla servitù di acquedotto; i tralicci dell’alta tensione rispetto alla servitù di elettrodotto; ecc.) rendano manifesta la soggezione alla servitù: la legge vuole evitare che la servitù sorga in base a manifestazioni non chiare ed equivoche, che, non incidendo sensibilmente nella sfera altrui, possono anche essere state tollerate a titolo precario, per ragioni di buon vicinato (v. art. 1144 c.c.; v. Cass., sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2949). ... per Per ben comprendere le modalità con cui opera quel particolare destinazione modo di acquisto della servitù costituito dalla destinazione del padre del padre di famiglia, di famiglia, occorre tener presente che — se il proprietario di un quanto alle fondo costruisce sul suo bene opere permanenti (ad es., acquedotti, servitù apparenti strade, ponti, ecc.) per effetto delle quali una parte del fondo risulta « asservita » ad un’altra parte del medesimo fondo, consentendone un miglior utilizzo — non può sorgere alcuna servitù, perché nemini res sua servit: e, cioè, non si può costituire servitù sulla cosa propria. Ma, se il fondo cessa di appartenere allo stesso proprietario (ad es., per divisione, per vendita parziale, per vendita forzata in lotti distinti, ecc.), allora al legislatore è apparso opportuno — sempre che sussistano i requisiti per l’apparenza di una situazione analoga a quella che darebbe luogo ad una servitù e sempre che nulla in contrario sia stabilito nell’atto da cui origina la separazione in due parti del fondo — che lo stato di fatto, che consentiva ad una parte del fondo di trarre utilità e vantaggi dall’altra parte del fondo, possa continuare legittimamente: a tal fine, il codice civile prevede che si costituisca ex lege — attivamente a favore di uno dei due fondi e passivamente a carico dell’altro — una servitù corrispondente allo stato di fatto preesistente (art. 1062 c.c.; v. Cass. 17 maggio 2018, n. 12113). Non occorre, dunque, alcuna manifestazione di volontà negoziale per la costituzione della servitù (v. Cass. 12 febbraio 2014, n. 3219); occorre solo che nell’atto che provoca la divisione dei due fondi non sia inserita una dichiarazione contraria, che escluderebbe la nascita della servitù (v. Cass. 1° marzo 2018, n. 4872). [§ 159] I diritti reali di godimento § 159. 321 Esercizio della servitù. L’esercizio delle servitù è regolato — innanzitutto — dal titolo Titolo e legge (contratto, testamento, sentenza se si tratta di servitù coattiva, ecc.) e — in difetto — dalla legge (art. 1063 c.c.; v. Cass. 9 agosto 2018, n. 20696; Cass. 11 giugno 2018, n. 15046): c.d. graduazione delle fonti regolatrici dell’estensione e dell’esercizio delle servitù. In ogni caso, il diritto di servitù comprende tutto ciò che è ne- I c.d. cessario per usarne (art. 1064 c.c.; v. Cass. 19 febbraio 2019, n. 4821; adminicula servitutis Cass. 7 giugno 2018, n. 14820): c.d. adminicula servitutis, cioè facoltà accessorie, ma indispensabili per l’esercizio della servitù (ad es., il diritto di attingere acqua comprende anche il diritto di passaggio sul fondo in cui la fonte si trova: v. Cass. 10 febbraio 2016, n. 2643). Si chiama « modo » (o modalità) d’esercizio della servitù il come Modo di la servitù può essere esercitata (ad es., modi della servitù di passaggio esercizio possono essere: a piedi, con mezzi a trazione animale, con mezzi a trazione meccanica, ecc.; v. Cass. 23 luglio 2018, n. 19483). Si discute se possa usucapirsi il modo di una servitù: ad es., se è stato stabilito nel titolo il passaggio a piedi, posso usucapire il diritto di passare con mezzi a trazione meccanica? Se la servitù non è apparente, è chiaro che, come non si può usucapire la servitù, così non si può usucapire il modo. Se la servitù è apparente, la dottrina distingue: se il modo è determinato nel titolo, non si può usucapire un modo diverso, perché solo il diritto è usucapibile; se il modo non è determinato, l’usucapione è ammissibile (perché si consolida lo stesso diritto di servitù che non aveva esistenza ben definita). L’eventuale dubbio circa l’estensione e le modalità d’esercizio Il principio minimo deve risolversi in base alla regola secondo cui le servitù debbono del mezzo essere esercitate civiliter, soddisfacendo il bisogno del fondo dominante con il minor aggravio del fondo servente (art. 1065 c.c.; v. Cass. 10 ottobre 2018, n. 25056): c.d. « principio del minimo mezzo ». Corollario di siffatto principio è il divieto — per il proprietario del fondo dominante — di aggravare (v. Cass. 14 maggio 2018, n. 11661; Cass. 20 aprile 2018, n. 9877) e — per quello del fondo servente — di diminuire l’esercizio della servitù (v. Cass. 23 maggio 2016, n. 10604) (art. 1067 c.c.). Poiché uno dei canoni tradizionali in tema di servitù è — come sappiamo — quello che si esprime nel brocardo servitus in faciendo consistere nequit, le spese necessarie per l’uso e la conservazione della servitù sono a carico, di regola, del proprietario del fondo dominante (art. 1069, comma 2, c.c.; v. però anche art. 1069, comma 3, c.c.) (v. Cass. 15 marzo 2017, n. 6653). I diritti reali 322 § 160. [§ 160] Estinzione della servitù. Le servitù si estinguono: a) per rinuncia da parte del titolare, fatta per iscritto (art. 1350, n. 5, c.c.; v. Cass. 22 maggio 2015, n. 10662): se la rinuncia ha luogo contro un corrispettivo, non vi è dubbio che occorra un atto bilaterale, cioè un contratto; se, viceversa, la rinuncia ha luogo per decisione del titolare senza alcuna contropartita, è sufficiente un atto unilaterale (v. Cass. 20 dicembre 1989, n. 5759); b) per scadenza del termine, se la servitù è a tempo; c) per confusione, quando il proprietario del fondo dominante acquista la proprietà del fondo servente o viceversa (art. 1072 c.c.); d) per prescrizione estintiva ventennale (c.d. « non uso ») (art. 1073 c.c.; v. Cass. 2 febbraio 2017, n. 2789). In quest’ultimo caso, da quale momento comincia a decorrere il termine per la prescrizione estintiva? La risposta dipende dalla natura delle servitù. Queste si distinguono in: a) « negative », quando attribuiscono al proprietario del fondo Servitù negativa dominante il potere di vietare al proprietario del fondo servente di fare qualche cosa, di svolgere un’attività sul proprio fondo; a tale potere corrisponde un obbligo di non facere in capo al proprietario del fondo servente (ad es., nella servitus altius non tollendi il proprietario del fondo servente è tenuto a non edificare oltre una data altezza); e b) « affermative » (o attive), quando attribuiscono al proprietario Servitù affermativa del fondo dominante il potere di fare qualche cosa, di svolgere un’attività nel fondo servente (ad es., di passare, far pascolare il gregge, attingere acqua, estrarre arena, pietre o simili); a tale potere corrisponde un obbligo di pati in capo al proprietario del fondo servente (il quale deve tollerare il passaggio, il pascolo, l’estrazione, ecc.). Le servitù affermative si distinguono — a loro volta — in: 1) « continue », quando l’attività dell’uomo è antecedente all’eserServitù continua cizio della servitù: per l’esercizio di siffatte servitù non occorre l’attività dell’uomo (si prenda, ad es., la servitù di acquedotto: occorre l’attività dell’uomo per predisporre la conduttura; l’acqua, poi, scorre da sé in conformità ad una legge fisica); e Servitù 2) « discontinue », quando invece il fatto dell’uomo deve essere discontinua concomitante con l’esercizio della servitù (ad es., in tanto esercito la servitù di passaggio, in quanto transito sul fondo altrui; v. Cass. 12 dicembre 2012, n. 26636). Cause di estinzione [§ 160] I diritti reali di godimento 323 Orbene: Il dies a quo la — se la servitù è negativa, il proprietario del fondo dominante per prescrizione nulla deve fare per esercitare la servitù (posto il divieto, altro non gli rimane che controllare che l’altro lo rispetti): la prescrizione, quindi, non comincia a decorrere se non quando il proprietario del fondo servente abbia violato il divieto (ad es., abbia alzato la sua costruzione; v. Cass. 26 febbraio 2016, n. 3857; Cass. 29 aprile 2010, n. 10280); — se la servitù è (affermativa) continua, si riproduce la stessa situazione (costruito l’acquedotto, il proprietario del fondo dominante non deve far nulla per ritrarre dalla servitù l’utilità voluta): perciò, anche in questo caso, la prescrizione non comincia a decorrere se non quando si sia verificato un fatto contrario all’esercizio della servitù (per es., allorquando l’acquedotto sia stato ostruito; v. Cass. 26 febbario 2016, n. 3857); — se la servitù è (affermativa) discontinua, la prescrizione estintiva comincia a decorrere dall’ultimo atto di esercizio (per es., dall’ultima volta che sono passato sul fondo servente). L’interruzione del termine ventennale di prescrizione di cui all’art. 1073 c.c. — oltre che dal riconoscimento da parte del proprietario del fondo servente (art. 2944 c.c.) — può essere determinata soltanto dalla proposizione della domanda giudiziale di cui parleremo subito (v. § 161), non essendo a tal fine sufficiente la costituzione in mora o una diffida stragiudiziale, il cui effetto interruttivo è circoscritto ai diritti di credito (art. 2943, comma 4, c.c.; v. § 232) e non concerne i diritti reali (v. Cass. 5 luglio 2013, n. 16861). L’impossibilità di fatto di usare la servitù (ad es., è crollato Quiescenza l’edificio da cui esercitavo la servitù di veduta), così come la cessa- della servitù zione della sua utilità (ad es., si inaridisce la sorgente nella servitù di attingere acqua) non fanno, di per sé, estinguere la servitù, perché lo stato dei luoghi potrebbe nuovamente mutare e la servitù divenire ancora utile. Si ha, in questo caso, sospensione (o quiescenza) della servitù: l’estinzione non si verifica se non quando sia decorso il termine (ventennale) per la prescrizione (art. 1074 c.c.; v. Cass. 25 giugno 2013, n. 15988; Cass. 8 febbraio 2013, n. 3132). Abbiamo visto che cosa è il modo di una servitù. Orbene, ci si Imprescrittidel domanda: esso è soggetto a prescrizione estintiva? Per chiarire il bilità modo problema: se ho una servitù di veduta da cinque finestre e ne chiudo quattro, posso esercitare la servitù, anche decorso il ventennio, da tutte e cinque le finestre, riaprendo anche le quattro che avevo chiuso, oppure devo limitarmi ad esercitarla dalla sola finestra rimasta aperta? Il problema è risolto dall’art. 1075 c.c.: la servitù si I diritti reali 324 [§ 161] conserva per intero, ciò perché per non uso si può estinguere solo il diritto, non il modo, che non ha un valore autonomo; non muore ciò che non ha vita propria (v. Cass. 23 settembre 2009, n. 20462). § 161. Tutela della servitù. A tutela delle servitù è preordinata l’« azione confessoria » (c.d. confessoria servitutis o vindicatio servitutis), in forza della quale — di fronte ad una contestazione dell’esistenza o consistenza della servitù — chi se ne afferma titolare chiede una pronuncia giudiziale di accertamento del suo diritto e, nell’ipotesi in cui la lamentata contestazione si sia tradotta in impedimenti o turbative all’esercizio della servitù stessa (ad es., posa di uno sbarramento che impedisce il passaggio), anche una pronuncia di condanna alla loro cessazione ed alla rimessione delle cose in pristino (nel nostro esempio, attraverso la rimozione dello sbarramento che impedisce il passaggio), oltre che al risarcimento del danno (art. 1079 c.c.; v. Cass. 14 febbraio 2013, n. 3707). LegittimazioLegittimato attivamente è colui che si afferma titolare della ne attiva e servitù (v. Cass. 18 novembre 2013, n. 25809; v. anche Cass. 28 aprile passiva 2017, n. 10617, in tema di legittimazione attiva dell’enfiteuta); legittimato passivamente è il soggetto che — avendo un rapporto attuale con il fondo servente (ad es., ne è proprietario, comproprietario, usufruttuario, ecc.) — contesta l’esercizio della servitù o che, comunque, ne turba o impedisce l’esercizio (art. 1079 c.c.; v. Cass. 22 gennaio 2014, n. 1332). Onere Come l’attore in rivendicazione deve fornire la dimostrazione probatorio rigorosa del suo diritto di proprietà, così l’attore in confessoria servitutis deve fornire la prova rigorosa dell’esistenza della servitù (art. 2697 c.c.; v. Cass. 11 gennaio 2017, n. 472). Infatti, l’azione confessoria ha carattere petitorio ed il suo accoglimento presuppone l’accertamento del diritto alla servitù. A tutela dello stato di fatto (c.d. possesso: v. §§ 174 ss.) corriTutela petitoria e spondente alla servitù, possono invece esperirsi le azioni possessorie di possessoria reintegrazione (art. 1168 c.c.) e di manutenzione (art. 1170 c.c.), come meglio si vedrà allorché ci occuperemo del possesso (v. §§ 185 ss.). Azione confessoria CAPITOLO XV LA COMUNIONE E IL CONDOMINIO A) LA COMUNIONE § 162. Nozione. Un diritto soggettivo può appartenere a più persone, le quali Contitolarità sono — tutte — contitolari del medesimo (unico) diritto (il quale di diritti rimane identico a se stesso, nonostante faccia capo a più soggetti diversi che lo condividono). Il fenomeno della contitolarità — allorquando ha ad oggetto un Comunione indiviso diritto reale (ad es., Tizio e Caia comprano insieme un determinato pro di diritti reali appartamento; il padre, morendo, lascia il suo appartamento ai figli Tizio e Caio; Tizio e Caia donano il loro appartamento al figlio, riservandosi però il diritto di usufrutto sullo stesso; Tizio e Caio, comproprietari del fondo dominante, acquistano una servitù di passaggio sul fondo servente di Sempronio; ecc.) — prende il nome di « comunione pro indiviso » (o comproprietà, se trattasi di contitolarità del diritto dominicale; cousufrutto, se trattasi di contitolarità del diritto di usufrutto; ecc.). Secondo l’opinione maggiormente accreditata (v. Cass. 28 gennaio 2015, n. 1650), il diritto (nei nostri esempi, di proprietà, di usufrutto, di servitù, ecc.) di ciascuno dei contitolari investe l’intero bene (così, ad es., se Tizio e Caia acquistano un immobile in comunione, il diritto di ciascuno cade non su questa o quella parte del bene — la parte destra ovvero quella sinistra, il primo piano ovvero il secondo — bensì sul cespite nella sua totalità), seppure il relativo esercizio trovi necessariamente limite nell’esistenza dell’egual diritto degli altri compartecipi. A ciascuno dei contitolari spetta, dunque, una quota ideale La quota sull’intero bene (così, ad es., se Tizio e Caia acquistano un immobile pagando ciascuno il 50% del prezzo, si dirà che a ciascuno appartiene una quota pari al 50% dell’intero; v. Cass. 14 aprile 2016, n. 7457): detta quota è, di regola, disponibile (ad es., Tizio potrà vendere, in I diritti reali 326 [§ 163] qualsiasi momento, la sua quota del 50%) (art. 1103, comma 1, c.c.) e segna, in linea di massima, la misura di facoltà, diritti ed obblighi dei rispettivi titolari (ad es., Tizio e Caia, contitolari di un determinato immobile nella misura del 50%, ne divideranno i frutti — ad es., i canoni di locazione — in ragione di metà ciascuno, così come le spese di gestione, le imposte, ecc.) (art. 1101, comma 2, c.c.). Nell’ipotesi in cui non sia diversamente previsto, le quote si Presunzione di presumono — presunzione iuris tantum (v. § 128) — uguali (art. 1101, eguaglianza delle quote comma 1, c.c.). Ora — se quella fin qui delineata (cioè, quella della « comunione Comunione senza quote per quote ») costituisce la figura generale di comunione prevista dal nostro codice (artt. 1100 ss. c.c.) — l’ordinamento italiano conosce altresì taluni istituti (ad es., la comunione legale fra coniugi di cui al § 597: v. Cass. 5 aprile 2017, n. 8803) che si avvicinano, invece, alla figura della « comunione senza quote », di tradizione germanica, in cui il bene appartiene non già pro quota ai singoli, bensì unitariamente al gruppo. Ma torniamo alla comunione per quote. § 163. Comunione e società. La « comunione » si distingue dalla « società » (v. §§ 504 ss.) per il fatto che — mentre i compartecipi alla comunione si limitano ad esercitare in comune il godimento di un determinato bene (c.d. « comunione a scopo di godimento »: art. 2248 c.c.) — i compartecipi alla società, almeno di norma, esercitano invece in comune, almeno di norma, un’attività economica volta alla produzione ed allo scambio di beni e servizi (artt. 2082 e 2247 c.c.; v. § 504). Comunione La distinzione diviene più labile allorquando si tratti di bene di bene produttivo (ad es., un fondo rustico, un’azienda, ecc.). produttivo In tal caso, si rimane nell’ambito della comunione — e trova conseguentemente applicazione la relativa disciplina — se i compartecipi non utilizzano il bene, ovvero lo concedono in godimento a terzi (ad es., Tizio e Caio affittano l’azienda comune a Sempronio, che la gestisce imprenditorialmente), ovvero ancora si limitano a raccoglierne i frutti naturali, senza che la loro attività possa qualificarsi come « d’impresa » ex art. 2082 c.c. (ad es., Tizio e Caio tagliano periodicamente il bosco naturale che cresce sul loro fondo) (v. Cass. 25 maggio 2017, n. 13183). Si scivola invece nell’ambito della società — con conseguente applicazione della relativa disciplina — se i compartecipi (o alcuni di Distinzione [§ 165] La comunione e il condominio 327 essi), attraverso lo strumento costituito dal bene produttivo, esercitano un’attività d’impresa. Così, ad es. — se il padre, che gestiva un’impresa agricola sul fondo di sua proprietà, morendo, lascia la propria azienda ai tre figli — fra questi ultimi verrà a costituirsi una « comunione » sull’azienda paterna; se, poi, due dei tre figli dovessero continuare l’attività del padre, si costituirà tra questi ultimi una « società » (v. Cass. 2 ottobre 2018, n. 23952). § 164. Costituzione. Quanto ai modi di costituzione, la comunione per quote si distin- Comunione gue in: a) volontaria, quando scaturisce dall’accordo dei futuri contito- ... volontaria lari (ad es., Tizio e Caio si accordano per comperare insieme un immobile; Tizio e Caio si accordano per mettere in comunione due distinti immobili, prima di proprietà individuale di ciascuno; ecc.); b) incidentale, quando scaturisce senza un atto dei futuri conti- ... incidentale tolari diretto alla sua costituzione (ad es., Tizio e Caio acquistano un immobile in forza di un legato testamentario di Sempronio: v. §§ 663 s.; Tizio e Caio acquistano in comunione i frutti della cosa comune: v. § 89; ecc.; v. Cass. 15 novembre 2018, n. 29457); c) forzosa, quando scaturisce dall’esercizio di un diritto potesta- ... forzosa tivo da parte di uno dei futuri contitolari (ad es., comunione forzosa del muro: artt. 874 e 875 c.c.; v. § 140; v. Cass. 10 novembre 2015, n. 22909; Cass. 8 luglio 2014, n. 15547). Quando i beni comuni sono pervenuti ai contitolari in forza di titoli diversi (ad es., i fratelli Tizio e Caio comprano oggi un immobile; un anno dopo ricevono in donazione dal padre un terreno), non si realizza un’unica comunione, ma tante comunioni quanti sono i titoli di provenienza dei beni (v. Cass. 30 ottobre 2018, n. 27645; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25756). § 165. Disciplina: profili generali. Comunione Quanto alla disciplina, si è soliti distinguere fra: e a) comunione ordinaria, che è quella regolata dagli artt. 1100- ordinaria comunioni 1116 c.c.; e speciali b) comunioni speciali, che sono quelle figure autonomamente previste e regolate dalla legge (ad es., il condominio negli edifici: v. §§ 169 ss.; la comunione ereditaria: v. § 666; ecc.), cui le norme sulla comunione ordinaria trovano applicazione solo laddove compatibili. I diritti reali 328 Il titolo [§ 166] Per quel che riguarda la comunione ordinaria, la disciplina prevista dal codice (artt. 1100 ss. c.c.) può — in linea di massima — essere derogata dal titolo (ad es., il contratto o il testamento con cui si dà vita alla comunione) (art. 1100 c.c.): sicché le regole legali trovano applicazione solo in mancanza di una diversa disciplina negoziale. § 166. I poteri di godimento e di disposizione. La disciplina legale della comunione ordinaria risponde alla logica — già segnalata — secondo cui il diritto di ciascuno dei contitolari, pur investendo il bene nella sua totalità, incontra un limite nel diritto degli altri compartecipi. Godimento Per quel che riguarda il potere di godimento: della cosa A) ciascuno dei contitolari può servirsi della cosa comune (per comune: il c.d. uso es., passare nel cortile comune, viaggiare con l’autoveicolo comune, promiscuo ecc.) (c.d. uso collettivo o promiscuo della cosa comune), a condizione però — a tutela dell’interesse degli altri compartecipi — che: i) non ne alteri la destinazione (ad es., trasformando la villa comune in un albergo); e ii) non impedisca agli altri contitolari di parimenti utilizzarla (ad es., installando un impianto di condizionamento dell’aria che occupi il 60% della superficie del ballatoio comune: v. Cass. 13 luglio 2017, n. 17400) (art. 1202, comma 1, c.c.). Rispettati detti limiti, l’utilizzo che il singolo fa della cosa comune non deve essere necessariamente proporzionato alla quota a ciascuno spettante: se gli altri contitolari non lo utilizzano, anche chi possiede una quota minima può fruire del bene in tutta la sua estensione (art. 1102 c.c.; v. Cass. 16 aprile 2018, n. 9278). ... l’uso Le parti possono derogare alla regola legale dell’uso promiscuo, frazionato concordando una divisione del godimento del bene comune nello spazio (ad es., i due comproprietari di una villetta con due appartamenti possono accordarsi per abitare, l’uno, l’appartamento del primo piano, l’altro, quello del secondo piano) e/o nel tempo (ad es., i due comproprietari di un cavallo da sella possono accordarsi perché l’uno lo usi nei giorni festivi e prefestivi, l’altro nei giorni feriali); così come possono concordarne l’uso indiretto (ad es., concedendo l’appartamento comune in locazione a terzi) (v. Cass. 12 dicembre 2017, n. 29747). Al fine di un suo miglior godimento, al singolo contitolare è consentito apportare alla cosa comune le modificazioni che ritiene necessarie (ad es., aprire una porta o una finestra nel muro comune, La comunione e il condominio [§ 167] 329 installare un meccanismo automatico per l’apertura del cancello inserito nel muro comune, ecc.) — sempre nei limiti in cui ciò non importi alterazione della destinazione del bene o impedimento del diritto degli altri partecipanti a parimenti goderne — purché se ne accolli le relative spese (art. 1102, comma 1, c.c.; v. Cass. 5 dicembre 2018, n. 31462); B) ciascuno dei contitolari ha diritto di percepire i frutti della I frutti cosa in proporzione della rispettiva quota (art. 1101, comma 2, c.c.; v. Cass. 2 marzo 2015, n. 4162), pur dovendo partecipare in analoga proporzione alle spese per la sua gestione, al pagamento delle imposte, ecc. (artt. 1101, comma 2, e 1104, comma 1, c.c.). Per quel che riguarda poi il potere di disposizione, ciascun I poteri di comproprietario può disporre della propria quota (art. 1103 c.c.), ad disposizione della quota es. alienandola, costituendola in usufrutto, ipotecandola (art. 2825 c.c.): non può — ovviamente — disporre né della quota altrui, né dell’intero, che non gli competono (v. Cass. 8 ottobre 2014, n. 21286). Gli atti di alienazione della cosa comune nella sua totalità, di I poteri di costituzione su di essa di diritti reali, di instaurazione di locazioni di disposizione del bene durata superiore a nove anni — in breve, gli atti di disposizione del bene comune — richiedono invece il consenso di tutti i contitolari (art. 1108, comma 3, c.c.; v. Cass. 17 ottobre 2017, n. 24489): c.d. principio dell’unanimità. § 167. L’amministrazione della cosa comune. Per quel che riguarda l’amministrazione della cosa comune, L’amministraciascuno dei compartecipi ha diritto di concorrervi (art. 1105, comma zione ... 1, c.c.) (così, ad es., ha diritto di essere previamente informato delle decisioni da assumere: art. 1105, comma 3, c.c.; v. Cass. 12 dicembre 2017, n. 29747). Non è però richiesto, per l’adozione delle relative deliberazioni, il consenso di tutti: infatti assai spesso, specie quando la comunione è fra molte persone, queste non riuscirebbero a mettersi d’accordo, con pregiudizio per la conservazione della cosa. Perciò il codice prevede che le deliberazioni relative all’amministrazione del bene comune vengano adottate in base al c.d. principio di maggioranza, che si calcola non già in relazione al numero dei partecipanti, bensì con riferimento al valore delle rispettive quote (art. 1105, comma 2, c.c.). Così: a) per gli atti di ordinaria amministrazione (quelli, cioè, finaliz- ... atti di zati alla conservazione, alla normale utilizzazione, al miglior godi- ordinaria amministramento della cosa comune) — che sono peraltro vietati, se gravemente zione 330 I diritti reali [§ 167] pregiudizievoli per la cosa comune (art. 1109, comma 1 n. 1, c.c.) — è sufficiente il consenso di tanti comproprietari le cui quote rappresentino più della metà del valore complessivo della cosa comune (art. 1105, comma 2, c.c.; v. Cass. 23 marzo 2015, n. 5729); b) per gli atti di straordinaria amministrazione — che sono, ... atti di straordinaria peraltro, in ogni caso vietati, se pregiudicano l’interesse di alcuno dei amministrazione partecipanti (art. 1108, comma 2, c.c.) — occorre il consenso di tanti comproprietari le cui quote rappresentino almeno i due terzi del valore complessivo della cosa comune (art. 1108, comma 2, c.c.); c) per le innovazioni dirette al miglioramento della cosa od a ... innovazioni renderne più comodo o redditizio il godimento — che sono, peraltro, in ogni caso vietate, qualora pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti o importino una spesa eccessivamente gravosa — occorre parimenti il consenso di tanti comproprietari le cui quote rappresentino almeno i due terzi del valore complessivo della cosa comune (art. 1108, comma 1, c.c.). Nell’ipotesi in cui non vengano presi i provvedimenti necessari Amministratore per l’amministrazione della cosa comune (ad es., perché non si riesce giudiziario a formare la maggioranza richiesta) — così come nell’ipotesi in cui la decisione adottata non venga eseguita — ciascun compartecipante può ricorrere all’Autorità giudiziaria perché emetta i provvedimenti opportuni, eventualmente anche nominando un amministratore (c.d. amministratore giudiziario) (art. 1105, comma 4, c.c.; v. Cass. 22 giugno 2017, n. 15548). Se non vengono deliberati gli interventi necessari alla conservazione della cosa comune, il singolo può addirittura provvedervi direttamente — dopo aver interpellato gli altri — con diritto al rimborso delle spese sostenute (art. 1110 c.c.; v. Cass. 4 ottobre 2018, n. 24160). Le spese deliberate con le maggioranze sopraindicate — così Le spese come quelle necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune — gravano (c.d. « obbligazioni propter rem »: v. § 131) su ciascun compartecipe alla comunione (art. 1104, comma 1, c.c.) in proporzione dell’entità della rispettiva quota (art. 1101, comma 2, c.c.; v. Cass. 20 maggio 2011, n. 11264). Peraltro, quest’ultimo può sottrarsi a detta obbligazione, rinunciando al proprio diritto, che verrà a ripartirsi proporzionalmente — al pari dei relativi oneri — tra gli altri partecipanti (v. Cass. 9 novembre 2009, n. 23691). La giurisprudenza ritiene che ciascun contitolare possa legittiLa rappresenmamente compiere atti di amministrazione del bene comune (ad es., tanza stipulare contratti aventi ad oggetto il godimento del bene comune; ad intimare lo sfratto all’inquilino dell’appartamento comune; ecc.), [§ 168] La comunione e il condominio 331 nei limiti in cui ricorrano i presupposti della « gestione di affari » (artt. 2028 ss. c.c.: §§ 296 e 451; v. Cass., sez. un., 4 luglio 2012, n. 11135; e, da ultimo, Cass. 2 febbraio 2016, n. 1986); il che è escluso allorquando risulti l’espressa volontà contraria degli altri comproprietari (v. Cass. 13 aprile 2017, n. 9556). Del pari, si ritiene che il singolo partecipante sia legittimato a Le tutele proporre azioni petitorie a difesa del diritto comune, azioni possessorie a difesa della comune situazione possessoria (v. §§ 185 ss.), azioni risarcitorie per i danni sofferti dalla cosa comune (v. Cass. 28 gennaio 2015, n. 1650). Con il consenso di tanti comproprietari le cui quote rappresen- Regolamento tino più della metà del valore complessivo della cosa comune, può della comunione essere formato un regolamento per l’ordinaria amministrazione ed il miglior godimento della cosa comune (art. 1106, comma 1, c.c.; v. Cass. 4 giugno 2010, n. 13632), così come può essere delegata ad uno o più soggetti, scelti anche tra i non partecipi alla comunione, l’amministrazione della cosa (art. 1106, comma 2, c.c.; v. Cass. 20 giugno 2017, n. 15271). § 168. Scioglimento della comunione. Il nostro codice — ritenendolo possibile occasione di liti fra i compartecipi (« communio est mater rixarum ») — guarda con sfavore allo stato di indivisione. Tant’è che: a) da un lato, attribuisce a ciascuno dei partecipanti la facoltà Diritto di lo di chiederne, in qualsiasi momento ed anche contro la volontà della chiedere scioglimento maggioranza, lo scioglimento (art. 1111, comma 1, c.c.); b) da altro lato, vieta che le parti possano convenzionalmente Patto di vincolarsi a rimanere in comunione per un tempo superiore ai dieci indivisione anni (c.d. patto di indivisione) (art. 1111, comma 2, c.c.). L’eventuale indivisibilità (v. § 87) del bene comune (ad es., un cavallo) non preclude lo scioglimento della comunione: il bene, infatti, può essere alienato a terzi, ovvero assegnato ad uno dei contitolari. Lo scioglimento non è consentito solo se la comunione ha ad oggetto beni che, se divisi, cesserebbero di servire all’uso cui sono destinati (ad es., il cortile servente due immobili di proprietà individuale dei singoli comproprietari strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a ciascuno di essi) (v. Cass. 4 marzo 2011, n. 5261). I diritti reali 332 [§ 169] B) IL CONDOMINIO § 169. Il condominio negli edifici. Il sempre più diffuso ricorso, per risolvere il problema dell’affollamento urbano, ad edifici suddivisi in più porzioni immobiliari, normalmente sovrapposte, ha reso di crescente importanza la figura del « condominio » (art. 1117-bis c.c.), che si ha allorquando in un medesimo edificio coesistono più unità immobiliari di proprietà esclusiva di singoli condòmini (ad es., l’appartamento al primo piano appartiene a Tizio, quello al secondo ai coniugi Caio e Sempronia, ecc.) e parti comuni strutturalmente e funzionalmente connesse al complesso delle prime. Tali si presumono (v. Cass. 9 agosto 2018, n. 20693; Cass. 24 aprile 2018, n. 10073) ad es.: (i) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune (ad es., il suolo su cui sorge l’edificio stesso, le fondazioni, i muri maestri, i tetti, le scale, i portoni d’ingresso, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate); (ii) le aree destinate a parcheggio (v. Cass. 21 febbraio 2018, n. 4255) ed i locali per i servizi in comune (ad es., la portineria, la lavanderia, gli stenditoi, ecc.); (iii) le opere, le installazioni ed i manufatti destinati all’uso ed al godimento comune (ad es., gli ascensori, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e trasmissione per il gas, l’energia elettrica, il riscaldamento, il condizionamento dell’aria, la ricezione radiotelevisiva, ecc.) (art. 1117 c.c., che peraltro contiene un’elencazione non tassativa, ma solo esemplificativa delle parti comuni: v. Cass. 16 gennaio 2018, n. 884). La disciplina del codice civile in materia di condominio è stata ampiamente modificata — ricorrendo alla tecnica della « novella » — con L. 11 dicembre 2012, n. 220. Salvo che sia diversamente previsto nel titolo (v. Cass. 2 marzo Le parti comuni 2017, n. 5336), le c.d. parti comuni si presume appartengano in comunione a tutti i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari site nel condominio (art. 1117 c.c.) — pro quota — in proporzione al valore di ciascuna di dette unità immobiliari rispetto al valore dell’intero edificio (art. 1118, comma 1, c.c.). Il singolo condomino: Diritti e doveri del a) può far uso delle parti comuni (c.d. uso promiscuo), purché singolo non compia attività che incidano negativamente ed in modo sostancondomino ziale sulla loro destinazione d’uso (art. 1117-quater c.c.), non impedisca agli altri condòmini di farne parimenti uso, non arrechi pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza ed al decoro architettonico dell’ediNozione [§ 169] La comunione e il condominio 333 ficio, non impedisca o limiti l’esercizio, da parte di un altro condomino, dei diritti dallo stesso vantati sulla porzione di sua proprietà esclusiva, secondo quanto stabilito per la comunione ordinaria dall’art. 1102, comma 1, c.c. (v. Cass. 21 febbraio 2019, n. 5132; Cass. 4 luglio 2018, n. 17460); b) può, sempre nei limiti appena indicati, apportare alle parti comuni modificazioni funzionali ad un miglior godimento della propria unità immobiliare (ad es., aprire una porta nel muro condominiale per più comodamente accedere all’appartamento di proprietà individuale: v. Cass. 5 dicembre 2018, n. 31462); c) deve contribuire, in misura proporzionale alla propria quota, alle spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune (ad es., portierato, riscaldamento, ecc.), nonché per le innovazioni deliberate dalla maggioranza (art. 1123, comma 1, c.c.; v. Cass. 24 febbraio 2017, n. 4844). Se si tratta di cose destinate a servire i condòmini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne (art. 1123, comma 2, c.c.; v. Cass. 28 febbraio 2019, n. 6010). In applicazione di tale ultimo principio, qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti (ad es., ascensori) destinati a servire una parte soltanto dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condòmini che ne trae utilità (art. 1123, comma 3, c.c.; v. Cass. 2 marzo 2016, n. 4127). Il condomino può, peraltro, sottrarsi alle relative spese di gestione, rinunciando all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, sempre che dal suo distacco non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condòmini (v. Cass. 3 novembre 2016, n. 22285; Cass. 13 novembre 2014, n. 24209); in ogni caso, il condomino rinunciante al riscaldamento/condizionamento centralizzato resta pur sempre tenuto a concorrere al pagamento delle spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma (art. 1118, comma 4, c.c.). In ipotesi di ritardo nel pagamento delle spese che si protragga per almeno sei mesi, al condòmino può essere sospesa la fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato (art. 63, comma 3, disp. att. c.c.); d) non può — ad es., al fine di sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese condominiali — rinunciare al suo diritto sulle parti comuni (art. 1118, comma 2, c.c.; v. le precisazioni di Cass. 18 settembre 2015, n. 18344); e) non può disporre (ad es., alienandole) delle parti comuni nella loro totalità e — diversamente da quel che accade in tema di I diritti reali 334 [§ 170] comunione ordinaria — neppure della propria quota su di esse (così, ad es., il singolo condomino non può cedere a terzi la propria quota di comproprietà sul cortile comune), se non congiuntamente alla porzione immobiliare di proprietà esclusiva (così come non può disporre della porzione immobiliare di sua proprietà esclusiva, se non unitamente alla quota di comproprietà sulle parti comuni: v. Cass. 29 gennaio 2015, n. 1680); né può costituire diritti reali sulle parti comuni, a tal fine occorrendo l’unanime consenso di tutti i condòmini (v. Cass. 13 aprile 2016, n. 7201); f) non può, nell’unità immobiliare di proprietà esclusiva, eseguire opere che rechino danno alle parti comuni, ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio (art. 1122, comma 1, c.c.; v. Cass. 27 ottobre 2011, n. 22428). Poiché le parti comuni sono funzionali ad un miglior sfruttaTendenziale indivisibilità mento e godimento delle unità immobiliari di proprietà individuale, delle parti comuni ne è sancita — per regola — l’indivisibilità (proprio per ciò, tradizionalmente la comunione condominiale viene qualificata come « necessaria »). Peraltro, se ciò può avvenire senza rendere più incomodo l’uso delle singole proprietà individuali, la divisione può essere disposta, purché vi sia il consenso di tutti i partecipanti al condominio (art. 1119 c.c.). § 170. L’assemblea e l’amministratore del condominio. Organi del condominio sono: l’assemblea e — obbligatoriamente solo quando i condòmini sono più di otto (art. 1129, comma 1, c.c.) — l’amministratore. L’assemblea, se lo ritiene opportuno, può nominare un revisore, che verifichi la contabilità del condominio, e/o un consiglio di condominio — composto da almeno tre condòmini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari — con funzioni consultive e di controllo (art. 1130-bis c.c.). Assemblea: All’« assemblea » hanno diritto di intervenire — anche a mezzo di diritto di rappresentante munito di delega scritta — tutti i condòmini (art. 67, intervento comma 1, disp. att. c.c.). ... Di competenza dell’assemblea sono: l’adozione del regolamento competenze condominiale (art. 1138, comma 3, c.c.), la nomina dell’amministratore, l’approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l’anno e la relativa ripartizione tra i condòmini, l’approvazione del rendiconto annuale e l’impiego del residuo attivo di gestione, la decisione in ordine alle opere di manutenzione straordinaria ed alle Organi [§ 170] La comunione e il condominio 335 innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle parti comuni, sempre che non arrechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non ne alterino il decoro architettonico e non rendano talune parti comuni inservibili all’uso ed al godimento anche di un solo condòmino (artt. 1120 e 1135, comma 1, c.c.; v. Cass. 29 agosto 2018, n. 21342), la modificazione della destinazione d’uso delle parti comuni, peraltro consentita solo per esigenze di interesse condominiale e sempre che non rechi pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato e non ne alteri il decoro architettonico (art. 1117-ter, commi 1 e 5, c.c.), la decisione in ordine ad eventuali azioni giudiziarie, attive o passive (art. 1132, comma 1, c.c.), ecc. L’assemblea — convocata dall’amministratore con avviso con- ... quorum tenente l’indicazione del luogo e dell’ora della riunione, nonché del- costitutivo l’ordine del giorno, e comunicato a tutti i condòmini almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza (art. 66 disp. att. c.c.; ma v. anche artt. 1117-ter, commi 2 e 3, e 1120, comma 3, c.c.; v. Cass. 25 marzo 2019, n. 8275) — è validamente costituita con l’intervento di tanti condòmini che rappresentino i due terzi del valore dell’intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio (c.d. « quorum costitutivo ») (art. 1136, comma 1, c.c.). Se — come accade sovente — non può deliberare per mancato raggiungimento del quorum costitutivo, l’assemblea può essere nuovamente convocata in un giorno successivo, ma non oltre dieci giorni, per deliberare sul medesimo ordine del giorno: in questo caso, l’assemblea (c.d. « di seconda convocazione ») è validamente costituita con l’intervento di tanti condòmini che rappresentino almeno un terzo del valore dell’intero edificio ed un terzo dei partecipanti al condominio (art. 1136, comma 3, c.c.). Le deliberazioni assembleari sono assunte, in prima convoca- ... quorum zione, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli deliberativo intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio; in seconda convocazione, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno un terzo del valore dell’edificio (art. 1136, commi 2 e 3, c.c.) (c.d. « quorum deliberativo »). Quorum deliberativi più elevati sono previsti per le materie indicate ai commi 4 e 5 dell’art. 1136 c.c. (ma v. anche artt. 1117-ter, comma 1, 1120, commi 1 e 2, 1122-bis, comma 3, e 1138, comma 3, c.c.; nonché art. 3, comma 5-bis, D.L. 28 aprile 2009, n. 39). Nelle deliberazioni relative alle spese ed alle modalità di ge- ... partecipadel stione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria, il zione conduttore diritto di voto nell’assemblea di condominio compete, anziché al proprietario dell’appartamento concesso in locazione, al conduttore 336 I diritti reali [§ 170] di esso (art. 10, comma 1, L. 27 luglio 1978, n. 392, « Disciplina delle locazioni di immobili urbani »): è infatti su quest’ultimo che, salvo patto contrario, sono destinati a gravare i relativi oneri (art. 9, comma 1, L. n. 392/1978). Per l’ipotesi in cui l’unità immobiliare di proprietà individuale sia gravata da usufrutto, la partecipazione all’assemblea è disciplinata dall’art. 67, commi 6 e 7, disp. att. c.c. Delle deliberazioni assembleari si deve redigere processo verbale, ...verbale da trascriversi nel relativo registro tenuto dall’amministratore (art. 1136, comma 7, c.c.): dal verbale — insegnava la giurisprudenza prima della recente riforma — debbono risultare i partecipanti all’assemblea (in proprio o per delega), i nomi dei condòmini assenzienti, dissenzienti ed astenuti, nonché le rispettive quote millesimali (v. § 171; v. Cass. 31 marzo 2015, n. 6552). La mancanza di dette indicazioni importa l’annullabilità delle deliberazioni assunte dall’assemblea (v. Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806). Le deliberazioni assunte dall’assemblea sono vincolanti per ... efficacia delle tutti i partecipanti al condominio (art. 1137, comma 1, c.c.; v. Cass. deliberazioni 20 dicembre 2018, n. 33057). Peraltro i condòmini assenti all’assemblea ovvero dissenzienti ... impugnazione od astenuti rispetto ad una determinata deliberazione possono impudelle deliberazioni gnarla davanti all’autorità giudiziaria, se contraria alla legge o al regolamento condominiale: c.d. « deliberazione annullabile » (v. Cass. 26 febbraio 2019, n. 5611). Il ricorso deve essere proposto, a pena di decadenza, entro trenta giorni decorrenti, per i condòmini dissenzienti od astenuti, dalla data della deliberazione e, per i condòmini assenti, dalla data in cui è stato loro comunicato il verbale dell’assemblea (art. 1137, comma 2, c.c.; v. Cass. 14 dicembre 2016, n. 25791). I condòmini dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati possono impugnare anche le deliberazioni assunte da un’assemblea relativamente alla quale risulti omessa, tardiva od incompleta la convocazione degli aventi diritto (art. 66, comma 3, disp. att. c.c.; v. Cass. 7 novembre 2016, n. 22573). La giurisprudenza insegna che dalle deliberazioni semplice... annullabilità mente « annullabili » — perché contrarie alla legge o al regolamento e nullità delle di condominio (art. 1137, comma 2, c.c.) o perché assunte da un’asdeliberazioni semblea non regolarmente convocata (art. 66, comma 3, disp. att. c.c.) — occorre tener distinte le deliberazioni « nulle »: tali debbono qualificarsi — pur in assenza di una specifica previsione codicistica al riguardo — le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile (v. Cass. 23 gennaio 2018, n. 1629) o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale od al buon costume), le [§ 170] La comunione e il condominio 337 delibere con oggetto che non rientra nelle competenze assembleari (ad es., le delibere che incidano sui diritti di godimento e/o di disposizione dei singoli sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva di ciascuno: v. Cass. 12 gennaio 2016, n. 305), le delibere che incidano sui diritti individuali dei condòmini sulle cose o servizi comuni (ad es., la delibera che assegni in via esclusiva ad un solo condomino l’uso del cortile condominiale: v. Cass. 26 settembre 2018, n. 23076) (cfr. Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806; e, da ultimo, Cass. 3 ottobre 2013, n. 22634). L’azione di nullità può essere esperita da chiunque vi abbia interesse — e non solo dai condòmini assenti, astenuti o dissenzienti — e non è soggetta a termini di prescrizione o decadenza (v. Cass. 24 luglio 2012, n. 12930). All’« amministratore » — che, nominato dall’assemblea (artt. Amministra1129, comma 1, e 1135, comma 1 n. 1, c.c.), dura in carica un anno tore: competenze (art. 1129, comma 10, c.c.), ma può essere revocato in ogni tempo dall’assemblea stessa (art. 1129, comma 11, c.c.) — compete di eseguire le deliberazioni dell’assemblea, convocarla annualmente per l’approvazione del rendiconto condominiale, curare l’osservanza del regolamento, disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune, riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni, compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni (v. Cass. 30 gennaio 2018, n. 2436), eseguire gli adempimenti fiscali, curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale (contenente, in primis, le generalità dei singoli condòmini), del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore e del registro di contabilità (ove devono essere annotati in ordine cronologico, entro trenta giorni da quello della loro effettuazione, i singoli movimenti in entrata ed in uscita), redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione (art. 1130, comma 1, c.c.), accendere uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio, sul quale far transitare tutte le somme ricevute a qualunque titolo dai condòmini o da terzi, così come quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio (art. 1129, comma 7, c.c.) e — salvo espressa dispensa da parte dell’assemblea — agire, entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale il credito è divenuto esigibile, per la riscossione forzosa delle somme dovute al condominio (art. 1129, comma 9, c.c.). L’incarico di amministratore del condominio può essere confe- ... soggetti rito non solo ad una persona fisica, ma anche ad una società lucrativa abilitati (v. §§ 509 ss.), non importa se di persone o di capitali (art. 71-bis, comma 3, disp. att. c.c.). I diritti reali 338 [§ 171] I provvedimenti presi dall’amministratore nell’ambito dei suoi poteri sono obbligatori per i condòmini (v. Cass. 16 novembre 2017, n. 27235). Contro detti provvedimenti è peraltro ammesso ricorso all’assemblea (art. 1133 c.c.). L’amministratore, nei limiti delle proprie attribuzioni, ha la ... rappresentanrappresentanza del condominio; e può agire e resistere in giudizio — za del condominio sia contro i condòmini, sia contro i terzi — talora autonomamente (art. 1131, comma 1, c.c.; v. Cass. 26 settembre 2018, n. 22911), talora previa autorizzazione assembleare (v. Cass. 12 marzo 2018, n. 5900). Per l’adempimento delle obbligazioni assunte dall’amministra... obbligazioni tore nell’interesse del condominio, i creditori (ad es., l’appaltatore cui assunte dall’ammini- sia stato affidato il rifacimento delle grondaie, il fornitore del gasolio stratore per il riscaldamento, ecc.) possono agire nei confronti sia del condonell’interesse del minio che dei singoli condòmini (che quindi rispondono in via solicondominio dale); con la precisazione che i creditori non possono però agire nei confronti dei condòmini in regola con i pagamenti dovuti al condominio, se non dopo l’escussione degli altri condòmini: c.d. « beneficium excussionis » (art. 63, comma 2, disp. att. c.c.). Come anticipato (v. § 41), le sezioni unite della Suprema Corte (v. La soggettività Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19663) hanno, di recente, osserdel condominio vato che la riforma della disciplina legislativa del condominio — e, in particolare, la previsione di cui all’art. 1129, comma 12 n. 4, c.c., che impone all’amministratore di tenere distinta la gestione del patrimonio del condominio da quella del patrimonio suo personale e del patrimonio di altri condomìni; la previsione di cui all’art. 1135, comma 1. n. 4, c.c., che impone la costituzione obbligatoria di un fondo speciale da destinare ai lavori di manutenzione straordinaria ed alle innovazioni che l’assemblea abbia a deliberare; e, soprattutto, la previsione di cui all’art. 2659, comma 1 n. 1, c.c., secondo cui, per le trascrizioni « a favore » o « contro » i condomìni, è necessaria l’indicazione dell’eventuale denominazione, dell’ubicazione e del codice fiscale del condominio — sembra deporre a favore « della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma » (v. però, da ultimo, Cass. 28 febbraio 2018, n. 4573). ... efficacia dei provvedimenti dell’amministratore § 171. Regolamento assembleare: competenze Il regolamento condominiale. L’assemblea — obbligatoriamente nell’ipotesi in cui i condòmini siano più di dieci (art. 1138, comma 1, c.c.) — approva, con le maggioranze richieste per le deliberazioni in prima convocazione [§ 171] La comunione e il condominio 339 (comb. disp. artt. 1138, comma 3, e 1136, comma 2, c.c.), un regolamento che contenga le norme circa l’uso delle cose comuni, la ripartizione delle spese, la tutela del decoro dell’edificio, l’amministrazione del condominio (art. 1138 c.c.). Per le infrazioni al regolamento può essere dal medesimo pre- Sanzioni visto, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino ad E 200,00 e, in caso di recidiva, fino ad E 800,00: somme destinate alle spese ordinarie di gestione condominiale (art. 70 disp. att. c.c.; v. Cass. 16 gennaio 2014, n. 820). Se non prevista nel titolo, al regolamento deve essere allegata la Tabelle c.d. « tabella millesimale » (art. 68 disp. att. c.c.), la quale — ai fini millesimali della ripartizione delle spese e del computo dei quorum costitutivi e deliberativi assembleari — indica, espresso in frazione millesimale, il rapporto proporzionale fra il valore della singola unità immobiliare di proprietà esclusiva e quello dell’intero edificio (v. Cass. 10 maggio 2018, n. 11290). Per la modifica delle tabelle millesimali è sufficiente la maggio- Approvazione ranza prevista dall’art. 1136, comma 2, c.c.: (i) quando risulta che i emodificazione valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nelle tabelle sono conseguenza di un errore; ovvero (ii) quando, per le mutate condizioni di una parte dell’edificio (in conseguenza di sopraelevazione, incremento di superfici, incremento o diminuzione delle unità immobiliari), risulti alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell’unità immobiliare anche di uno solo dei condómini. Negli altri casi è invece richiesto il consenso unanime di tutti i condómini (art. 69 disp. att. c.c.; v. Cass. 25 ottobre 2018, n. 27159). Posto che la loro competenza è circoscritta all’uso delle c.d. Disciplina del parti comuni ed ai rapporti condominiali, né l’assemblea né il rego- godimento delle unità lamento approvato dall’assemblea (c.d. « regolamento assembleare ») immobiliari possono imporre limitazioni ai diritti dei singoli condòmini sulle unità di proprietà esclusiva immobiliari di rispettiva proprietà esclusiva (ad es., non possono vietare determinati usi delle singole porzioni immobiliari) (art. 1138, comma 4, c.c.), ma solo — eventualmente — obblighi intesi a garantire il reciproco rispetto delle comuni esigenze (ad es., possono prevedere l’obbligo di non far rumore in determinate ore della giornata; il divieto di installare tende sui balconi di proprietà individuale che alterino il decoro della facciata: v. Cass. 18 maggio 2016, n. 10272; ecc.). Naturalmente, nulla impedisce che i condòmini concordino — Regolamento all’unanimità — limitazioni a carico delle rispettive proprietà esclu- contrattuale sive, venendo così a costituire servitù reciproche, rispettivamente a I diritti reali 340 [§ 172] favore ed a carico delle singole unità immobiliari di proprietà di ciascuno (v. § 154; v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5336), ovvero determinino le rispettive quote nel condominio in modo difforme da quanto previsto dall’art. 1118 c.c. (v. Cass. 25 gennaio 2018, n. 1848), ovvero impongano ai condòmini limitazioni od obblighi ulteriori rispetto a quelli previsti dalla disciplina legale (v. Cass. 29 gennaio 2018, n. 2114), ovvero ancora attribuiscano ad alcuni condòmini diritti maggiori o minori rispetto a quelli che spetterebbero loro ex lege (v. Cass. 24 febbraio 2017, n. 4844), ecc. (v. anche Cass. 21 luglio 2017, n. 4432): in tal caso, l’accordo avrà natura contrattuale — e, ove formalizzato in un regolamento approvato da tutti, quest’ultimo si dirà « contrattuale » — e dovrà essere redatto per iscritto (art. 1350, n. 4, c.c.). Equiparato al « regolamento contrattuale » è quello predisposto dall’originario unico proprietario dell’edificio e da quest’ultimo fatto accettare dagli acquirenti in sede della compravendita delle singole unità immobiliari (v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5336). In ogni caso, le clausole dei regolamenti approvati all’unanimità ... modifiche e dei regolamenti apprestati dall’unico originario proprietario hanno natura contrattuale solo nella parte in cui limitino i diritti dei condòmini sulle proprietà esclusive o comuni, ovvero siano attributive ad alcuni condòmini di diritti maggiori o minori rispetto a quelli che spetterebbero loro ex lege. Da ciò consegue che — mentre tali ultime previsioni possono essere modificate solo con il consenso unanime di tutti i condòmini — quelle che, pur approvate con il consenso totalitario dei partecipanti, si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, possono essere invece modificate con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (v. Cass., sez. un., 30 dicembre 1999, n. 943; e, da ultimo, Cass. 4 giugno 2010, n. 13632). Né il regolamento contrattuale, né — tantomeno — quello Animali domestici assembleare possono vietare di tenere animali domestici all’interno delle unità immobiliari di proprietà esclusiva (art. 1138, comma 5, c.c.). In ogni caso, per la formazione del regolamento di condominio Forma (non importa se assembleare o contrattuale), così come per la sua modifica è richiesta — ad substantiam — la forma scritta (v. Cass., sez. un., 30 dicembre 1999, n. 943; e, da ultimo, Cass. 7 giugno 2011, n. 12291). § 172. Nozione Il supercondominio. Nell’ipotesi in cui una pluralità di edifici, costituiti in distinti condomìni, siano legati tra loro dall’esistenza di talune cose e/o [§ 173] La comunione e il condominio 341 impianti e/o servizi comuni (ad es., il viale d’accesso, le zone verdi, l’impianto di illuminazione, i locali per la portineria, l’alloggio del portiere, i parcheggi, l’impianto centralizzato per il riscaldamento, ecc.) in rapporto di accessorietà rispetto a ciascuno di detti condomìni, si ha quello che viene comunemente denominato « supercondominio » (v. Cass. 28 gennaio 2019, n. 2279; Cass. 15 novembre 2017, n. 27094). Ai singoli proprietari delle unità immobiliari facenti parte di ciascun condominio spetta pro quota la proprietà sulle parti comuni, così come sugli stessi gravano i relativi oneri (v. Cass. 12 giugno 2018, n. 15262). Secondo la giurisprudenza, al supercondominio sono applicabili: Disciplina a) le norme dal codice dettate in tema di condominio, per quanto riguarda le parti ed i servizi necessari ovvero oggettivamente e stabilmente destinati all’uso ed al godimento di tutti gli edifici, costituiti in altrettanti condomìni (c.d. rapporto di accessorietà necessaria) (ad es., le portinerie, gli impianti dei servizi idraulici o energetici, i sistemi centralizzati di riscaldamento e condizionamento dell’aria, ecc.) (artt. 1117-bis c.c. e 67, comma 3, disp. att. c.c.; v. Cass. 12 giugno 2018, n. 15262); b) le norme dal codice dettate in tema di comunione, per quanto riguarda altre eventuali strutture che siano invece dotate di una propria autonoma utilità: che cioè — da un lato — costituiscano parti o servizi non necessari per l’utilizzo delle unità abitative di proprietà esclusiva e — da altro lato — ben possano essere oggetto di utilizzazione autonoma (ad es., impianti sportivi, spazi di intrattenimento, centri commerciali inclusi nel comprensorio, ecc.; v. Cass. 18 aprile 2005, n. 8066). Discorso analogo deve ripetersi (art. 1117-bis c.c.) con riferi- Il c.d. mento al c.d. « condominio orizzontale », per tale intendendosi quel condominio orizzontale complesso residenziale costituito da più edifici autonomi di proprietà individuale, che fruiscano però, per la loro utilizzazione ed il loro godimento, di aree, strutture, installazioni, manufatti, servizi comuni; così come con riferimento alle unità immobiliari di proprietà individuale (ad es., le c.d. villette a schiera) che abbiano però « parti comuni » (Cass. 29 dicembre 2016, n. 27360). C) LA MULTIPROPRIETÀ § 173. La multiproprietà. Il termine « multiproprietà » indica un’operazione economica L’operazione volta ad assicurare al c.d. multiproprietario un potere di godimento, economica 342 I diritti reali [§ 173] che evoca quello che il codice riconosce al proprietario, su di un’unità immobiliare — completamente arredata e, normalmente, inserita in un più vasto insediamento turistico-residenziale (talora anche alberghiero e commerciale) — ma solo per un determinato e normalmente invariabile periodo di ogni anno (ad es., dal 1o al 15 agosto); mentre analogo potere, per i restanti periodi, compete agli altri multiproprietari. Siffatta operazione ha conosciuto — specie negli anni passati — particolare fortuna nel segmento di mercato della seconda casa destinata alle vacanze, in quanto consente l’acquisizione della disponibilità, per il tempo delle ferie, di un’unità immobiliare in località turisticamente attrezzate, a fronte di un esborso iniziale relativamente contenuto ed oneri di gestione accessibili: ciò, grazie al fatto che i relativi costi vengono ripartiti fra un elevatissimo numero di multiproprietari che, nell’arco dell’anno, si succedono nel godimento del medesimo immobile. Per dar veste giuridica all’operazione, la prassi italiana — in La veste giuridica assenza di una disciplina legislativa del fenomeno — ha fatto ricorso, in via prevalente, all’istituto della comunione: a) a ciascun multiproprietario viene, infatti, venduta — in forza di un normale rogito notarile di compravendita immobiliare (v. § 369) — una quota in comproprietà pro indiviso di un complesso residenziale (comprendente il terreno lottizzato, l’insieme delle unità abitative, il mobilio, gli arredi, i corredi, le attrezzature, gli impianti necessari al godimento delle stesse, i locali comuni, le infrastrutture, ecc.) (v. Cass. 19 marzo 2018, n. 6750); b) a ciascun multiproprietario viene fatto contestualmente accettare un « regolamento della comunione », che — in deroga al disposto dell’art. 1102, comma 1, c.c., il quale accoglie il principio del c.d. « uso promiscuo » della cosa comune — prevede, da un lato, una divisione topografica del godimento del bene (il potere di godimento di ciascun multiproprietario viene, cioè, limitato ad una predeterminata unità abitativa ed alle parti comuni del complesso residenziale) e, da altro lato, un frazionamento cronologico di detto godimento (il potere di godimento di ciascun multiproprietario viene, cioè, limitato ad un prefissato periodo di ciascun anno: c.d. uso turnario). In alternativa: a) a ciascun multiproprietario viene venduta — sempre in forza di un rogito notarile di compravendita immobiliare — una quota in comproprietà di una singola unità immobiliare (con relativi mobili, arredi e corredi) inserita in un più vasto complesso condominiale; [§ 173] La comunione e il condominio 343 b) a ciascun multiproprietario viene fatto contestualmente accettare un « regolamento della comunione », che prevede un frazionamento cronologico del godimento su detta unità immobiliare. Nell’uno come nell’altro caso, la chiave di volta del sistema della multiproprietà c.d. immobiliare — almeno così come si è affermato nella prassi italiana — è rappresentata da uno strumento ben noto alla nostra esperienza giuridica: quello della comproprietà pro indiviso, il cui regime legale viene derogato (come espressamente consentito dall’art. 1100, comma 1, c.c.) dal titolo; in forza, cioè, di un accordo intercorrente fra tutti i partecipanti attraverso cui ciascuno, pur continuando a rimanere contitolare dell’intero cespite, rinuncia a servirsene nei tempi e/o in relazione agli spazi attribuiti in uso agli altri (v. Cass. 16 marzo 2010, n. 6352). Pur continuando a non dettare alcuna disciplina sostanziale Tutela della multiproprietà, il legislatore italiano ha inserito nel c.d. « codice contrattuale del del consumo » (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) tutta una serie di consumatore previsioni principalmente volte, da un lato, a garantire che chi effettua un acquisto in multiproprietà sia pienamente edotto dei termini dell’operazione che va a stipulare e, conseguentemente, presti un consenso consapevole ed informato e, da altro lato, a tutelare il consumatore contro il rischio di possibili scorrettezze del professionista nell’esecuzione del contratto (artt. 69-81-bis cod. cons.). CAPITOLO XVI IL POSSESSO § 174. Le situazioni possessorie. Altro è avere il diritto di godere e disporre di un determinato bene (averne, cioè, la proprietà: art. 832 c.c.); altro è il fatto di effettivamente godere e disporre di detto bene (esercitare cioè, in concreto, i poteri dalla legge riconosciuti al proprietario). Infatti — se è vero che, normalmente, chi ha il diritto di godere e disporre di un determinato bene è anche colui che, di fatto, ne gode e ne dispone (ad es., io godo, guidandola, o dispongo, vendendola, dell’autovettura di mia proprietà) — può tuttavia accadere che il proprietario non sia in grado, in concreto, di esercitare i poteri riconosciutigli dalla legge (ad es., se mi rubano l’autovettura, non sono in grado né di goderne né di disporne); così come può accadere che un soggetto, pur non avendo il diritto di proprietà su un bene, si comporti, di fatto, come se lo avesse (ad es., colui che mi ha rubato l’autovettura ne gode e ne dispone, come se fosse proprietario). Factum Il codice attribuisce rilevanza giuridica alle situazioni di fatto possessionis che si estrinsecano attraverso un’attività corrispondente all’esercizio di diritti reali: c.d. « situazioni possessorie » (art. 1140 c.c.). E ciò — si badi — a prescindere dalla circostanza che alle stesse corrisponda o meno la correlativa situazione di diritto. Commoda Invero, il factum possessionis assicura — di per sé solo — al possessionis possessore determinati vantaggi: c.d. « commoda possessionis ». Tra i più importanti, la tutela possessoria (v. §§ 185 ss.); l’acquisto della proprietà per usucapione (v. § 184) o in forza della regola « possesso vale titolo » (v. § 183); la posizione di convenuto nell’azione di rivendica, nell’ambito della quale, come si è visto, il possessore può limitarsi a dire « possideo quia possideo » e l’attore ha l’onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà, non essendo sufficiente la prova che il convenuto non ha diritto al possesso (v. § 143), ecc. E ciò — si ripete — indipendentemente dalla circostanza che il possessore sia o meno, al contempo, proprietario del bene. Nozione Il possesso [§ 175] 345 Ragioni della Le ragioni di siffatta scelta normativa sono varie: delle — in primo luogo, proteggendo il fatto esteriore e facilmente tutela situazioni accertabile della situazione possessoria, la legge assicura allo stesso possessorie proprietario — che, di solito, è proprio colui che esercita, di fatto, i poteri connessi al diritto di proprietà — una difesa rapida ed efficace; — in secondo luogo, impedendo che si arrechi molestia o violenza al possessore, si conserva la pace tra i consociati: il possesso — si afferma — è protetto ne cives ad arma ruant. Chi, contro lo stato di fatto del possesso esercitato da altri, vuole opporre il proprio diritto, deve agire in giudizio e non può farsi giustizia da sé, togliendo all’altro la cosa (ad es., il proprietario che voglia riprendersi l’immobile occupato abusivamente da terzi non può farlo con la forza, ma deve rivolgersi all’Autorità dello Stato). A questo punto, si può agevolmente intendere la differenza che Ius possessionis e corre tra « ius possessionis » e « ius possidendi »: ius possidendi a) il primo designa l’insieme dei vantaggi che il possesso, di per sé, genera a favore del possessore (commoda possessionis); b) il secondo designa la situazione di chi ha effettivamente diritto a possedere il bene: diritto che implica il potere di rivendicare il bene stesso presso chiunque lo possieda sine titulo (così, ad es., il ladro ha lo ius possessionis, ma non lo ius possidendi, che spetta invece al proprietario). Il possesso, dunque, non è un diritto, bensì una situazione di fatto Situazioni di diritto e produttiva di effetti giuridici. situazioni di Oggetto del possesso sono — come specifica l’art. 1140, comma fatto 1, c.c. — le « cose »: cioè, i beni materiali (v. § 80), non importa se allo Oggetto del stato solido, liquido o gassoso (per il possesso di azienda v. Cass., sez. possesso un., 5 marzo 2014, n. 5087). Si ritiene comunemente che non possano essere oggetto di possesso le « cose di cui non si può acquistare la proprietà » (art. 1145, comma 1, c.c.): cioè, i beni demaniali ed i beni del patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali (v. § 95; v. Cass. 27 novembre 2018, n. 30720), che infatti non possono essere acquistati per usucapione (v. § 184). Detti beni sono, peraltro, suscettibili di tutela possessoria nei limiti indicati dall’art. 1145, commi 2 e 3, c.c. (v. Cass., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15289; e, da ultimo, Cass. 2 febbraio 2017, n. 2735). § 175. Le distinte situazioni possessorie. Ovviamente, il legislatore non attribuisce identica rilevanza a 346 I diritti reali [§ 175] tutte indistintamente le situazioni di fatto che comportano l’esercizio di un potere su di un bene. Al riguardo, occorre distinguere fra: Possesso a) possesso pieno (o corpore et animo) (art. 1140, comma 1, c.c.), (pieno) che — secondo l’opinione tradizionale — è caratterizzato dal concorso di due elementi costitutivi: l’uno oggettivo (c.d. corpus), consistente nell’avere il soggetto la disponibilità di fatto della cosa (nell’averla, cioè, nella propria sfera di controllo); l’altro soggettivo (c.d. animus possidendi), consistente nella volontà del soggetto di comportarsi, con riferimento al bene, come proprietario, ad esclusione di qualsiasi altro (si pensi, ad es., alla situazione di colui che, ritenendosi proprietario di un determinato bene, ne gode e ne dispone, disconoscendo qualsiasi diritto di terzi sul bene stesso; ovvero, alla situazione del ladro della mia autovettura, che ne gode e ne dispone, disconoscendo di fatto — pur sapendo che l’autovettura non è sua — il mio diritto di proprietario); Detenzione b) detenzione (art. 1140, comma 2, c.c.), che — sempre secondo l’opinione tradizionale — è caratterizzata dal concorso di due elementi costitutivi: l’uno oggettivo (c.d. corpus), consistente nell’avere il soggetto la disponibilità di fatto della cosa (nell’averla, cioè, nella propria sfera di controllo); l’altro soggettivo (c.d. animus detinendi), consistente nella volontà del soggetto di godere e disporre del bene, ma nel rispetto dei diritti che, sul medesimo bene, riconosce spettare ad altri (si pensi, ad es., alla situazione dell’inquilino, che gode dell’appartamento concessogli in locazione, ma riconosce che detto appartamento è del proprietario e rispetta il diritto di quest’ultimo, ad es., pagando il canone, non apportando all’unità immobiliare innovazioni non consentitegli, non alterandone la destinazione d’uso, ecc.); Possesso c) possesso mediato (o indiretto o solo animo) (art. 1140, comma mediato 2, c.c.), che — sempre secondo l’opinione tradizionale — è caratterizzato dal solo elemento soggettivo (c.d. animus possidendi), mentre la disponibilità materiale del bene compete al detentore (si pensi, ad es., alla situazione di colui che, ritenendosi proprietario di un’unità immobiliare concessa in locazione ad un inquilino, si comporta come suo proprietario, sebbene la materiale disponibilità della stessa sia dell’inquilino). Compossesso Il possesso — sia pieno sia mediato — su un determinato bene può essere esercitato congiuntamente da più soggetti ad un medesimo titolo (ad es., se due soggetti hanno acquistato una casa in comunione, di regola eserciteranno congiuntamente il possesso sulla stessa; se due figli hanno ereditato un appartamento dal padre, di regola eserciteranno congiuntamente il possesso su tutta l’unità immobiliare; i condòmini Il possesso [§ 176] 347 di regola esercitano congiuntamente il possesso sulle parti comuni; ecc.): si parla allora di compossesso, che si concretizza in un’attività corrispondente all’esercizio di diritti (reali) in comunione (v. Cass. 19 febbraio 2019, n. 4844; Cass. 30 marzo 2016, n. 6154). § 176. Possesso e detenzione. Secondo l’impostazione tradizionale, dunque, « possesso » L’animus (pieno) e « detenzione » sono caratterizzati dal medesimo elemento obiettivo: cioè, la materiale disponibilità del bene (corpus) (così, ad es., il medesimo fatto oggettivo della guida di un autoveicolo può corrispondere sia ad una situazione possessoria che ad una situazione detentoria). Si distinguono tra loro in base all’elemento soggettivo (animus): animus detinendi nella detenzione, animus possidendi (rem sibi habendi) nel possesso (così, per restare al nostro esempio, se il soggetto alla guida del veicolo è un ladro, sarà « possessore »; se è un amico cui ho prestato la mia vettura, sarà « detentore »). Peraltro, da più parti si rileva, da un lato, che i requisiti ... e il titolo soggettivi dell’animus possidendi e dell’animus detinendi non trovano riscontro alcuno nelle previsioni codicistiche; da altro lato, che — in realtà — ai fini della qualificazione di una situazione di fatto come « possessoria » o « detentoria » rileva non tanto lo stato psicologico soggettivo (animus) di chi acquisisce la materiale disponibilità del bene (corpus), quanto il titolo in forza del quale detta acquisizione si verifica (così, ad es., se uno studente prende a prestito un libro dalla biblioteca universitaria, diventa sempre detentore del libro stesso: e ciò, sia che — come solitamente avviene — lo stesso sia soggettivamente intenzionato a rispettare il diritto della biblioteca, restituendo il libro, non sgualcendolo, ecc.; sia che, fin dall’origine, sia invece soggettivamente intenzionato a non rispettare tale diritto, nutrendo in cuor suo la volontà — ovviamente non manifestata alla biblioteca — di far definitivamente proprio il volume che prende a prestito) (v. Cass. 8 giugno 2017, n. 14272). Invero, ciò che rileva ai fini della distinzione fra « possesso » e « detenzione » è non già lo stato psicologico che il soggetto nutre, nel proprio interno, nel momento in cui acquisisce la materiale disponibilità del bene (così, per tornare al nostro esempio, il fatto che, nel momento in cui prende in prestito il libro dalla biblioteca, lo studente nutra, fra sé e sé, la volontà di rispettare ovvero di non rispettare i diritti della biblioteca), bensì lo stato psicologico (animus) che, in quel momento, il soggetto manifesta all’esterno: e, all’esterno, l’ani- 348 I diritti reali [§ 176] mus manifestato — se possidendi o detinendi — dipende, in buona sostanza, dal titolo in forza del quale avviene siffatta acquisizione (così, sempre per restare al nostro esempio, nel momento stesso in cui prende un libro in prestito dalla biblioteca con l’impegno di restituirlo senza danneggiamenti, lo studente fa mostra, all’esterno, di voler rispettare — animus detinendi — i diritti della biblioteca: a nulla rileva se siffatta volontà coincida o meno con quella effettiva) (v. Cass. 2 dicembre 2016, n. 24637), ovvero dalle modalità con cui detta acquisizione si realizza (così, ad es., nel momento stesso in cui ruba la mia autovettura, il ladro fa mostra di non voler rispettare — animus possidendi — il mio diritto di proprietà sul veicolo) (v. Cass. 18 ottobre 2016, n. 21015). Nel dubbio, l’esercizio del potere di fatto su un bene si presume Presunzione di possesso — salvo prova contraria — integrare la fattispecie del possesso (art. 1141, comma 1, c.c.; v. Cass. 28 febbraio 2013, n. 5037): spetta a chi nega la sussistenza del possesso l’onere di provare che, nel caso di specie, ricorre un’ipotesi di semplice detenzione (v. Cass. 27 settembre 2017, n. 22667). Per le ragioni fin qui esposte, a nulla rileva, in sé, la circostanza Mutamento della che il soggetto, che ha cominciato a detenere un determinato bene detenzione in possesso (animus detinendi), in un secondo momento modifichi in cuor suo l’atteggiamento psicologico originario e intenda, per il futuro, comportarsi come un vero e proprio proprietario (animus possidendi), senza più rispettare il diritto di terzi (così, ad es., non vale a trasformare la detenzione in possesso il fatto — per ritornare al nostro esempio — che lo studente, dopo aver acquisito la disponibilità materiale del libro per averlo preso in prestito dalla biblioteca, decida, nel suo intimo, di non restituirlo più). Il mutamento della detenzione in possesso — c.d. interversio possessionis o, in lingua italiana, interversione del possesso (v. Cass. 28 febbraio 2013, n. 5038) — (art. 1141, comma 2, c.c.) può avvenire solo se la modificazione dello stato psicologico del detentore venga manifestata all’esterno (v. Cass. 8 marzo 2011, n. 5419): a) in forza di « opposizione » (c.d. « contradictio ») dal detentore rivolta al possessore (art. 1141, comma 2, c.c.; v. Cass. 17 maggio 2018, n. 12080): in forza, cioè, di un atto — non importa se giudiziale o stragiudiziale, scritto od orale, dichiarativo o costituente una mera condotta materiale — con cui il detentore manifesti inequivocabilmente l’intenzione di continuare, per il futuro, a tenere la cosa per sé non più come detentore e, quindi, in nome del proprietario, bensì come possessore, per conto ed in nome proprio (così, costituirà idonea contradictio — per riprendere ancora una volta il nostro esempio — la di- Il possesso [§ 177] 349 chiarazione rivolta alla biblioteca, nella quale lo studente neghi di dover restituire il libro; non altrettanto potrà dirsi relativamente al fatto materiale che lo studente non provveda tempestivamente alla restituzione, in quanto detta omissione risulta equivoca: infatti potrebbe essere determinata non già dall’intento volitivo di tenere il libro definitivamente per sé, bensì da una dimenticanza, da una malattia, ecc.) (v. Cass. 11 aprile 2019, n. 10186; Cass. 3 luglio 2018, n. 17376); ovvero b) in forza di « causa proveniente da un terzo » (art. 1141, comma 2, c.c.): in forza, cioè, di un atto con il quale l’attuale possessore — quand’anche non legittimato a disporre del bene — attribuisca al detentore il diritto corrispondente la propria posizione possessoria (si pensi, ad es., al caso del ladro che, dopo avermi concesso la detenzione del bene perché lo esamini ai fini dell’acquisto, me lo vende) (v. Cass. 27 maggio 2010, n. 13008). § 177. Le qualificazioni del possesso e della detenzione. Il possesso si distingue, a sua volta, in: a) possesso legittimo, che si ha allorquando il potere di godere e Possesso disporre del bene è esercitato dall’effettivo titolare del diritto di legittimo proprietà: in tal caso la situazione di fatto coincide esattamente con la situazione di diritto (ad es., il pescatore non solo gode e dispone, di fatto, del pesce pescato, ma ha altresì il diritto di goderne e disporne: art. 923 c.c.; v. § 142); b) possesso illegittimo, che si ha allorquando il potere di godere e ... illegittimo disporre del bene è esercitato, di fatto, da persona diversa dall’effettivo titolare del diritto di proprietà: in tal caso la situazione di fatto non coincide con la situazione di diritto; e si articola, a sua volta, in: (i) possesso (illegittimo) di buona fede (art. 1147, comma 1, c.c.), ... di buona che si ha allorquando il possessore ha acquisito la materiale disponi- fede bilità del bene, ignorando di ledere l’altrui diritto, sempreché detta ignoranza non dipenda da sua colpa grave (art. 1147, comma 2, c.c.) (ad es., porto a casa un quadro, acquistato presso una nota casa d’aste, senza aver ragione per sospettarne la provenienza furtiva). Nel caso di errore inescusabile, il possessore non è considerato in buona fede. In definitiva, la qualifica di possessore di buona fede dipende dalle circostanze nelle quali avviene l’acquisto del possesso (c.d. buona fede oggettiva): se il bonus pater familias, nelle medesime circostanze, avrebbe ritenuto di comportarsi correttamente, il possessore è in buona fede, altrimenti si deve concludere che il possessore è in mala fede; 350 I diritti reali [§ 177] (ii) possesso (illegittimo) di mala fede, che si ha allorquando il possessore ha acquisito la materiale disponibilità del bene, conoscendo il difetto del proprio titolo d’acquisto (ad es., occupo abusivamente un appezzamento di terreno, che mi è noto appartenere ad un terzo), ovvero dovendolo conoscere con l’ordinaria diligenza (ad es., acquisto la disponibilità di un immobile in forza di una compravendita fatta — in violazione dell’art. 1350, n. 1, c.c. — oralmente); ... viziato da (iii) possesso (illegittimo) vizioso, che si ha allorquando il posviolenza o sessore ha acquisito la materiale disponibilità del bene non solo in clandestinità mala fede, ma addirittura con violenza (ad es., mediante rapina), ovvero clandestinità (ad es., mediante furto). Presunzione La buona fede, in materia di possesso, si presume (art. 1147, di buona comma 3, c.c.). Peraltro, si tratta di presunzione iuris tantum (v. § fede 128): grava su chi contesta la buona fede del possessore l’onere di provare la sua mala fede (adducendo, ad es., indizi idonei a far concludere che l’uomo medio, in quelle circostanze, non avrebbe potuto non rendersi conto di acquistare il possesso con un titolo difettoso; v. Cass. 18 settembre 2013, n. 21387). Il principio: Per qualificare il possesso come « di buona fede », non occorre mala fides che la buona fede perduri per tutta la durata del possesso; è suffisuperveniens non nocet ciente che vi sia stata al momento del suo acquisto: mala fides superveniens non nocet (art. 1147, comma 3, c.c.). La detenzione si distingue, a sua volta, in: Detenzione a) detenzione qualificata, che si ha allorquando il detentore ha qualificata acquisito la materiale disponibilità del bene nell’interesse proprio (ad es., l’inquilino, l’affittuario di un fondo rustico, il coniuge o il convivente more uxorio del proprietario di un appartamento o dell’inquilino, ecc.) ovvero nell’interesse del possessore (ad es., il mandatario: v. § 390): nel primo caso si parla di detenzione (qualificata) autonoma (v. Cass. 2 gennaio 2014, n. 7); nel secondo, di detenzione (qualificata) non autonoma; ... non b) detenzione non qualificata, che si ha allorquando il detentore qualificata ha acquistato la materiale disponibilità del bene per ragioni di ospitalità (si pensi, ad es., all’amico che accolgo nel mio appartamento) ovvero di servizio (si pensi, ad es., all’autista cui affido la mia autovettura perché la guidi) o di lavoro (si pensi, ad es., al meccanico cui affido la mia autovettura per la riparazione). Le appena ricordate distinzioni fra le varie situazioni possessorie e detentorie hanno notevole importanza pratica, in quanto — come si vedrà fra breve (v. §§ 181 ss.) — la legge attribuisce a ciascuna di esse una diversa rilevanza giuridica: è infatti evidente che l’ordinamento giuridico non può trattare alla stessa guisa il ladro o il ... di mala fede Il possesso [§ 178] 351 rapinatore e chi si è immesso nel possesso della cosa credendo in buona fede di esserne proprietario; chi possiede un bene perché ne è proprietario e chi se ne è impossessato ledendo l’altrui diritto; ecc. § 178. Il possesso di diritti reali minori. Per ragioni di semplicità espositiva, sin qui si è parlato di Nozione situazioni di fatto che corrispondono all’esercizio del diritto di proprietà: c.d. « possesso uti dominus ». Peraltro, vi possono anche essere situazioni di fatto che corrispondono all’esercizio di diritti reali c.d. minori: così, ad es., se sopra un fondo viene fatto passare un acquedotto, si ha possesso della servitù (cioè, esercizio di fatto di poteri corrispondenti all’esercizio del diritto di servitù di acquedotto; e non è detto che colui che utilizza il fondo altrui abbia effettivamente un corrispondente diritto di servitù); se sopra un fondo esercito i poteri tipici dell’usufruttuario, si avrà possesso dell’usufrutto (e non è detto che colui che gode del fondo altrui, rispettandone la destinazione, abbia effettivamente il diritto di usufrutto); ecc. Il codice limita la figura del possesso alle situazioni di fatto corrispondenti all’esercizio di diritti reali (art. 1140, comma 1, c.c.; ma v. Cass., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2735). Sul medesimo bene — così come possono gravare più diritti reali — possono coesistere più possessi di diverso tipo (ad es., il possesso a titolo di proprietà di Tizio può coesistere con un possesso a titolo di usufrutto di Caio e/o con un possesso a titolo di servitù di Sempronio: v. Cass. 28 gennaio 2015, n. 1584). Chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale Interversione minore (ad es., a titolo di servitù o di usufrutto) può modificare il del possesso titolo del proprio possesso (ad es., trasformare l’originario possesso a titolo di usufrutto in possesso a titolo di proprietà, al fine — poniamo — di usucapire tale ultimo diritto) solo attraverso uno di quei mezzi che già abbiamo visto (v. § 176) idonei a consentire la trasformazione della detenzione in possesso (c.d. interversione del possesso; v. Cass. 10 gennaio 2011, n. 355); e, cioè, attraverso: a) l’« opposizione » fatta dal possessore a titolo di diritto reale minore nei confronti del possessore a titolo di proprietà; ovvero b) la « causa proveniente da un terzo » (art. 1164 c.c.). Nell’ipotesi in cui la proprietà di un bene spetti in comunione Da possesso pro indiviso a più soggetti (v. §§ 162 ss.), il partecipante, per acqui- uti condominus a sirne il possesso esclusivo, non ha necessità — insegna la giurispru- possesso uti denza — di compiere atti di interversio possessionis ex art. 1164 c.c., dominus I diritti reali 352 [§ 179] essendo sufficiente che goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziarne l’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus (v. Cass. 4 maggio 2018, n. 10734; Cass. 18 aprile 2018, n. 9556; Cass. 12 aprile 2018, n. 9100). § 179. L’acquisto e la perdita del possesso. L’acquisto del possesso può avvenire: a) in modo originario, con l’apprensione della cosa contro o senza la volontà di un eventuale precedente possessore (c.d. impossessamento) ed il conseguente esercizio sulla cosa stessa di poteri di fatto corrispondenti a quelli spettanti al titolare di un diritto reale (ad es., occupo una casa abbandonata, mi approprio di un’autovettura incustodita, rapino il campionario al rappresentante di gioielli, ecc.; v. Cass. 28 febbraio 2013, n. 5037). La tolleranza Non si ha acquisto del possesso se l’apprensione del bene ed il relativo esercizio di fatto del diritto reale si verificano per mera tolleranza del possessore (art. 1144 c.c.; v. Cass. 29 maggio 2015, n. 11277): ossia, quando chi potrebbe impedire l’acquisto del corpus se ne astiene per spirito di amicizia, di cortesia, di buon vicinato, ecc. (così, se un amico o un vicino, per mia condiscendenza, si trattiene nella mia villa quando non ci sono, non per questo ne diventa possessore); Acquisto a b) in modo derivativo, con la consegna (c.d. traditio o, in lingua titolo italiana, « tradizione ») — materiale (ad es., consegna di un plico nelle derivativo mani del destinatario) o simbolica (ad es., consegna di un appartamento mediante consegna delle chiavi) — del bene da parte del precedente al nuovo possessore. Non è necessaria, perché si abbia consegna, la materiale apprensione del bene da parte dell’accipiens, essendo sufficiente che quest’ultimo consegua la possibilità, attuale ed esclusiva, di agire liberamente su di esso (ad es., consegna di merci mediante consegna delle chiavi del locale in cui le stesse sono depositate). Peraltro, l’esperienza conosce due figure di traditio ficta, in cui La c.d. traditio ficta: non si ha alcun mutamento nella relazione di fatto con la cosa (che ... resta sempre nelle mani della stessa persona); ciò che muta è solo l’animus: (α) la traditio brevi manu, che si ha allorquando il detentore ... traditio brevi manu acquista il possesso del bene (ad es., se il proprietario vende la casa all’inquilino, quest’ultimo, che già la deteneva, con la vendita ne Acquisto a titolo originario [§ 179] Il possesso 353 acquista il possesso, pur non mutando la sua relazione di fatto con il bene); (β) il costituto possessorio, che si ha allorquando il possessore, ... costituto perdendo il possesso, acquista però la detenzione del bene (ad es., se possessorio chi acquista un immobile contemporaneamente lo concede in locazione al venditore, quest’ultimo conserva la relazione materiale con il bene quale detentore, ma perde il possesso che d’ora in poi spetta all’acquirente; v. Cass. 21 marzo 2014, n. 6742). Poiché il possesso è — come si è detto — una situazione di fatto, la giurisprudenza (v. Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 7930; e, da ultimo, Cass. 11 giugno 2014, n. 13222) ritiene inammissibile un contratto avente ad oggetto il solo trasferimento del possesso, disgiunto dal diritto reale di cui costituisca l’esercizio (così, ad es., inammissibile sarebbe un contratto in forza del quale Tizio trasferisse a Caio, a fronte di un corrispettivo in danaro, il possesso uti dominus del bene, di cui Tizio si riservi però la proprietà). Per il trasferimento del possesso occorrerebbero dunque — da un lato — un contratto (anche viziato: ad es., perché il venditore non è proprietario del bene, o perché il contratto non è stato stipulato nella forma solenne richiesta dalla legge, ecc.) purché astrattamente idoneo a trasferire il diritto reale e — da altro lato — la traditio. In dottrina si è obiettato che, se una consegna effettivamente consegua ad un contratto con il quale le parti hanno inteso trasferire il mero possesso, essa appare comunque idonea — ricorrendone i presupposti — a far iniziare un possesso in capo all’acquirente (v. ora Cass. 4 luglio 2017, n. 16412). La perdita del possesso si verifica per il venir meno di uno o di Perdita del entrambi gli elementi del possesso: cioè, del corpus e/o dell’animus possesso possidendi (se abbandono il bene, se lo trasferisco ad altri, vengono meno e l’uno e l’altro; se qualcuno si impossessa del bene senza o contro la mia volontà, viene meno il solo corpus; se — come nel caso del costituto possessorio — cedo il possesso del bene, conservandone però la detenzione, viene meno il solo animus; ecc.: v. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1723; v. anche Cass. 2 ottobre 2018, n. 23850). Per la perdita del corpus, non è sufficiente una semplice dimenticanza momentanea del bene (ad es., scordo l’ombrello a casa di amici) — né, tantomeno, un occasionale distacco fisico dalla cosa (ad es., lascio la macchina parcheggiata lungo la strada), che non precluda però al soggetto di ripristinare il rapporto materiale con la stessa — occorrendo invece la sua definitiva irreperibilità od irrecuperabilità da parte del possessore (ad es., a seguito di uno smarri- I diritti reali 354 [§ 180] mento vero e proprio, di un furto, di una rapina, ecc.; v. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1723). Il possesso degli animali selvatici si perde allorché essi riacquistino la naturale libertà; il possesso di quelli mansuefatti allorché essi perdano la consuetudo revertendi. Per quanto concerne gli immobili, la dottrina tradizionale ritiene che la conservazione possa avvenire anche per solo effetto della persistenza dell’animus, nonostante si sia perduta la disponibilità fisica, limitatamente al periodo di tempo — un anno — entro cui si può esercitare l’azione di spoglio (art. 1168 c.c.: v. § 186). § 180. Successione nel possesso ed accessione del possesso. Il possesso, alla morte del possessore, continua in capo al suo successore a titolo universale (erede: v. § 624) ipso iure — cioè, anche in mancanza di una materiale apprensione del bene da parte dell’erede e perfino se questi ignora l’esistenza del bene ovvero che questo fa parte dell’eredità (v. Cass. 20 luglio 2011, n. 15967) — e con quei medesimi caratteri che aveva rispetto al defunto (così, se il defunto era in buona fede, si considera in buona fede anche l’erede, seppure per avventura sappia di ledere l’altrui diritto; se, invece, il defunto era in mala fede, poco importa che l’erede sappia o non sappia di ledere l’altrui diritto: egli subentra nella stessa posizione in cui si trovava il defunto e, quindi, secondo la legge, nel suo stato psicologico): si parla, in tal caso, di « successione nel possesso » (art. 1146, comma 1, c.c.). Accessione Ben diversa dalla successione nel possesso (applicabile solo ai nel possesso: successori a titolo universale, cioè agli eredi) è l’« accessione del pospresupposti e disciplina sesso » — di cui parla l’art. 1146, comma 2, c.c. — applicabile solo a chi acquista il possesso in forza di un titolo (ad es., vendita, legato, ecc.) astrattamente idoneo a trasferire a titolo particolare la proprietà (o altro diritto reale) sul bene (v. Cass. 13 agosto 2018, n. 20715) e sempre che acquisti egli stesso il possesso (laddove, per l’erede, l’acquisto del possesso avviene — come detto — ipso iure, e quindi pure in assenza della materiale apprensione della cosa). L’acquirente a titolo particolare acquista un possesso nuovo, diverso da quello del suo dante causa. Pertanto può essere in buona fede, benché il suo dante causa fosse in mala fede, e viceversa. Le qualifiche del possesso vanno, cioè, valutate nei confronti dell’acquirente, senza dare rilievo alla situazione in cui si trovava l’alienante. Orbene, il successore a titolo particolare può — se lo ritiene utile (v. Cass. 6 giugno 2018, n. 14505) — sommare al periodo in cui ha egli Successione nel possesso: presupposti e disciplina Il possesso [§ 182] 355 stesso posseduto, anche il periodo durante il quale hanno posseduto i suoi danti causa: questa sommatoria dei due o più periodi può, infatti, risultare utile ai fini dell’usucapione, dell’azione di rivendicazione, dell’azione di manutenzione, ossia ogni volta che assuma rilievo la durata del possesso (così, ad es., se compero un bene mobile da chi non è proprietario e sono in buona fede, non avrò alcuna convenienza ad invocare, ai fini dell’acquisto della proprietà del bene, l’accessio possessionis, in quanto all’uopo basterà far ricorso alla regola « possesso vale titolo » ex art 1153 c.c.: v. § 183; se invece compero un bene mobile da chi so non esserne proprietario, mi potrà convenire, sempre ai fini dell’acquisto della proprietà del bene, invocare l’accessio possessionis, onde poter sommare a quella del mio possesso la durata del possesso del mio dante causa ai fini del computo del tempo necessario per l’usucapione: v. § 184). § 181. Effetti del possesso. Il possesso rileva principalmente: a) quale titolo per l’acquisto dei frutti del bene posseduto e per il rimborso delle spese sullo stesso effettuate (v. § 182); b) quale possibile presupposto per l’acquisto della proprietà del bene posseduto (v. §§ 183 ss.); c) quale oggetto di tutela contro le altrui aggressioni (v. §§ 185 ss.). § 182. L’acquisto dei frutti ed il rimborso delle spese. Il possessore (illegittimo) è, di norma, tenuto a restituire al Frutti e di titolare del diritto non solo il bene — e, se non lo fa spontaneamente, possesso mala fede può esservi costretto attraverso l’esperimento dell’azione di rivendicazione (v. § 143) — ma anche i frutti (v. § 89) prodotti dal bene a partire dal momento in cui ha avuto inizio il suo possesso (v. Cass. 6 giugno 2014, n. 12798). La regola, peraltro, trova eccezione in caso di possesso (illegit- Frutti e di timo) di buona fede (§ 177): in tale ipotesi, infatti, il possessore ha possesso buona fede diritto di tenere per sé tutti i frutti percepiti anteriormente alla proposizione, da parte del titolare del diritto, della relativa domanda giudiziale. Solo i frutti percepiti durante la lite spettano al proprietario (v. Cass. 5 settembre 2012, n. 14917). Anzi — ad evitare che il possessore, sapendo di doverli restituire, trascuri la coltivazione o lasci perire i frutti — dal giorno della domanda e fino alla restituzione I diritti reali 356 [§ 183] della cosa, il possessore stesso risponde verso il rivendicante non solo dei frutti percepiti durante la lite, ma anche di quelli (c.d. frutti percipiendi) che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del bonus pater familias (art. 1148 c.c.). Spese Quanto alle spese, occorre distinguere fra: a) spese ordinarie (cioè, quelle che servono per la produzione dei frutti ed il loro raccolto, nonché per le riparazioni ordinarie del bene), di cui il possessore ha diritto al rimborso limitatamente al tempo per il quale è tenuto alla restituzione dei frutti (artt. 1149 e 1150, comma 4, c.c.): non sarebbe giusto che chi deve restituire i frutti non abbia diritto al rimborso delle spese effettuate per la loro produzione (v. Cass. 11 agosto 2015, n. 16700); b) spese straordinarie (cioè, quelle che servono alle riparazioni straordinarie), di cui il possessore — sia di buona che di mala fede — ha sempre diritto al rimborso (art. 1150, comma 1, c.c.): non sarebbe giusto che il proprietario si avvantaggiasse di spese che superano il limite della conservazione del bene; c) spese per miglioramenti, di cui il possessore — sia di buona che di mala fede — ha diritto al rimborso, purché detti miglioramenti sussistano al tempo della restituzione (art. 1150, comma 2, c.c.; v. Cass. 23 maggio 2012, n. 8156) e risultino realizzati in conformità alla normativa edilizia (v. Cass. 25 gennaio 2016, n. 1237): e la ragione è che, nell’interesse generale della produzione, non si vuole distogliere chi di fatto si trova ad utilizzare la cosa dal compimento di opere che ne accrescano il valore (v. Cass. 9 giugno 2009, n. 13259). Tuttavia, per quanto concerne l’importo del rimborso, bisogna distinguere se il possesso era di buona o di mala fede: al possessore di buona fede, l’indennità si deve corrispondere nella misura dell’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti; a quello di mala fede, nella minor somma tra lo speso ed il migliorato (art. 1150, comma 3, c.c.). Al possessore — purché di buona fede — è riconosciuto il diritto Diritto di ritenzione di ritenzione: cioè, il diritto di non restituire il bene fino a che non gli siano state corrisposte le indennità dovute per spese, riparazioni e miglioramenti (art. 1152 c.c.; v. § 263; v. Cass. 16 giugno 2016, n. 12406). § 183. Acquisto a non domino L’acquisto della proprietà in forza del possesso: a) la regola « possesso vale titolo ». Se acquisto un bene da chi non ne è proprietario (c.d. « acquisto a non domino »: ad es., acquisto dal ladro; da chi, pochi minuti prima, ha già alienato il medesimo bene ad un terzo; da chi ha, a sua volta, [§ 183] Il possesso 357 acquistato il bene in base ad un titolo nullo, ecc.), non ne divento — di norma — proprietario; e ciò, per la semplice ragione che colui che mi ha alienato il bene non era legittimato a farlo: nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet. Detta regola, se fosse applicata in tutto il suo rigore, costitui- Il principio plus rebbe però un grave ostacolo alla circolazione della ricchezza: difatti, nemo iuris per essere sicuri di non restare esposti all’azione di rivendicazione da transferre parte del dominus, prima di qualsiasi acquisto occorrerebbe indagare potest quam ipse habet e se l’alienante è davvero il proprietario del bene che si intende gli acquistare; ed anzi, per maggior sicurezza, occorrerebbe indagare inconvenienti una sua pure se l’alienante ha a sua volta acquistato correttamente a domino, di rigorosa e così via. Ne deriverebbero difficoltà ed incertezze tali da paralizzare applicazione il traffico giuridico, che è viceversa essenziale, ancor più nelle società moderne fortemente dinamiche. Ora — se per i beni immobili e per i beni mobili c.d. registrati il La regola possesso legislatore ha ovviato a siffatto pericolo mediante l’istituzione di «vale titolo » pubblici registri (v. §§ 681 ss.) — per quel che riguarda invece i beni mobili (non registrati) ha dettato la regola « possesso vale titolo » (art. 1153 c.c.). In forza di tale regola, chi acquista un bene a non domino ne Presupposti: diventa — ciò nonostante — proprietario, purché concorrano i seguenti presupposti: a) che l’acquisto riguardi beni mobili — ad esclusione dei beni ... l’acquisto mobili registrati (v. § 83; v. però Cass. 23 maggio 2018, n. 12860) e di beni mobili delle universalità di mobili (v. § 92) — suscettibili di possesso (art. 1156 c.c.; v. Cass. 3 gennaio 2017, n. 39); b) che l’acquirente possa vantare — come precisa l’art. 1153 c.c. ... il titolo — « un titolo idoneo al trasferimento della proprietà »: cioè, un con- idoneo tratto non solo astrattamente atto al trasferimento del diritto dominicale (ad es., una compravendita o un altro contratto ad effetti reali: v. § 314), ma anche che non presenti altro vizio se non quello di essere stipulato da chi non è legittimato a disporre del bene: tale non sarebbe, ad es., una compravendita nulla per illiceità dell’oggetto (ad es., armi da guerra, droga, ecc.); c) che l’acquirente — oltre ad aver stipulato l’atto d’acquisto ... l’acquisto del bene mobile — ne abbia altresì acquistato il possesso (v. Cass. 29 del possesso gennaio 2018, n. 2100): il legislatore tutela l’acquirente solo se già vi sia stata la consegna (traditio) a favore di quest’ultimo, altrimenti preferisce tutelare ancora il (precedente) dominus (così, se il non dominus — ad es., il ladro — mi ha venduto un bene mobile, ma non me lo ha ancora consegnato, nel conflitto fra il precedente dominus derubato e l’acquirente a non domino prevale il primo; se il non 358 I diritti reali [§ 183] dominus — cioè, il ladro — mi ha venduto un bene mobile e me lo ha già consegnato, nel conflitto fra il precedente dominus e l’acquirente a non domino prevale il secondo); ... la buona d) che l’acquirente sia in buona fede nel momento in cui il bene fede gli viene consegnato: mala fides superveniens non nocet. Peraltro, a tal fine, non basta che l’acquirente ignori che l’alienante non aveva diritto di disporre della cosa, ma occorre altresì che tale ignoranza non dipenda da sua colpa grave (art. 1147, comma 2, c.c.; v. Cass. 20 gennaio 2017, n. 1593); colpa, che sussisterebbe se le circostanze in cui l’acquisto ha avuto luogo avrebbero indotto in sospetto l’uomo medio (il c.d. bonus pater familias). Tuttavia, siccome per chi si trova nel possesso di una cosa « la buona fede è presunta » (art. 1147, comma 3, c.c.), incombe su chi intenda contestarne l’acquisto l’onere di provare la mala fede del possessore, adducendo ogni indizio utile a dimostrare che una persona di media diligenza, in quelle circostanze, avrebbe preferito astenersi dall’acquisto, non potendo non avere dei dubbi sulla reale titolarità dell’alienante (v. Cass. 2 ottobre 2018, n. 23853). La buona fede è esclusa — secondo l’art. 1154 c.c. — se l’acquirente conosce l’illegittima provenienza della cosa (ad es., sappia che è stata rubata): e ciò, anche quando ritenga erroneamente che colui da cui l’ha acquistata o un precedente possessore sia diventato nel frattempo proprietario. Effetti: Quello realizzato in forza dell’applicazione della regola « posl’acquisto del sesso vale titolo » costituisce — secondo l’opinione prevalente — diritto... acquisto a titolo originario (v. Cass. 27 settembre 2012, n. 16435). ... libero da Se il possesso di buona fede costituisce titolo d’acquisto della diritti altrui proprietà, a maggior ragione deve produrre l’effetto di porre nel nulla i diritti sulla cosa che siano ignorati. Perciò, il comma 2 dell’art. 1153 c.c. dispone che la proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa (se questi non risultano dal titolo e vi è la buona fede dell’acquirente). Quindi, se acquisto a non domino, in buona fede, un quadro e chi me lo vende non mi dice che su di esso è costituito un pegno (v. § 241), non soltanto divento proprietario del quadro, ma contro di me non può neppur essere fatto valere il diritto di pegno dal creditore pignoratizio. Conflitto tra Un ulteriore corollario della regola « possesso vale titolo » è più previsto nell’art. 1155 c.c. acquirenti di Può darsi che taluno alieni il medesimo bene mobile (ad es., un beni mobili orologio) a più persone (ad es., Tizio vende il medesimo orologio prima a Primus, poi a Secundus), o costituisca lo stesso diritto a favore di più persone (ad es., Tizio costituisce il diritto di usufrutto sul medesimo orologio prima a favore di Primus, poi a favore di [§ 183] Il possesso 359 Secundus), ovvero cerchi di trasferire a persone diverse diritti tra loro incompatibili (ad es., Tizio cede a Primus la proprietà dell’orologio, poi costituisce a favore di Secundus il diritto di usufrutto sul medesimo orologio). Come si risolve il conflitto tra i vari acquirenti? A rigore, se Tizio ha alienato il bene il 1o novembre a Primus ed il 15 novembre a Secundus, questa seconda alienazione non dovrebbe avere effetti, perché fatta a non domino: infatti, con la prima alienazione, Tizio si era già spogliato della proprietà del bene e non avrebbe più potuto trasmetterla a Secundus. Ma, se Tizio ha trasmesso a Secundus, che in buona fede ignorava la prima alienazione, il possesso, non può non applicarsi il principio « possesso di buona fede vale titolo »: Secundus acquista la proprietà della cosa e Primus non può più rivendicarla, salva — s’intende — la possibilità di agire contro Tizio per il risarcimento dei danni. Perciò l’art. 1155 c.c. stabilisce che, se taluno con successivi contratti aliena a più persone un bene mobile, tra esse quella che per prima ne acquista in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore. I princìpi fin qui esaminati, relativi agli effetti del possesso di Acquisto a domino buona fede, non si applicano — come si è detto — « alle universalità non di... di mobili e ai beni mobili iscritti in pubblici registri » (art. 1156 c.c.). Le ragioni di tale esclusione sono evidenti. Per quanto riguarda le universalità di mobili (ad es., biblioteche, ... pinacoteche, greggi, ecc.) il legislatore preferisce sollecitare l’atten- universalità di mobili zione di chi voglia acquistare un siffatto complesso di beni, evitando che questi possa accontentarsi dell’apparente titolarità di chi si accinga a compiere atti di disposizione dell’universitas. Ragion per cui, con riferimento alle universalità di mobili, trova applicazione rigorosa il principio nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet; con la conseguenza che viene tutelato non già chi per primo acquista il possesso in buon fede, bensì chi può vantare un valido titolo d’acquisto di data anteriore. Per quanto riguarda, invece, i beni mobili iscritti in pubblici ... mobili registri (autoveicoli, natanti ed aeromobili), trovano applicazione — registrati come per gli immobili — i princìpi relativi alla trascrizione (v. §§ 681 ss.), in virtù dei quali viene tutelato non già chi per primo acquista il possesso in buona fede, bensì chi per primo provvede alla trascrizione del suo titolo. I diritti reali 360 § 184. Nozione [§ 184] L’acquisto della proprietà in forza del possesso: b) l’usucapione. Il possesso protratto per un certo lasso di tempo fa acquisire al possessore — attraverso l’istituto dell’« usucapione » — la titolarità del diritto reale (proprietà, usufrutto, enfiteusi, ecc.) corrispondente alla situazione di fatto esercitata (art. 1158 c.c.): l’usucapione costituisce, dunque, un modo di acquisto a titolo originario della proprietà e dei diritti reali minori. Fondamento La ratio dell’usucapione va ricercata nell’opportunità, dal punto dell’usucapione di vista sociale, di favorire chi, nel tempo, utilizza e rende produttivo il bene — facendo così cosa utile, non solo nel suo interesse, ma in quello generale — a scapito del proprietario che lo trascura. Usucapione e L’usucapione agevola altresì — come già rilevato (v. § 143) — la prova della proprietà prova del diritto di proprietà: se non soccorresse l’usucapione, chi si afferma proprietario dovrebbe dare la prova — estremamente difficile, se non impossibile — di aver acquistato il suo diritto da un soggetto che era effettivamente proprietario del bene per averlo, a sua volta, acquistato dal precedente proprietario, che era effettivamente tale per averlo acquistato da quello precedente, e così via fino alla notte dei tempi (c.d. probatio diabolica). Usucapione e L’usucapione — lo si è già sottolineato (v. § 109) — si distingue prescrizione dalla prescrizione estintiva (art. 2934 c.c.): (i) in entrambi gli istituti hanno importanza il fattore tempo e l’inerzia del titolare del diritto: ma nella prescrizione questi elementi danno luogo all’estinzione, nell’usucapione all’acquisto di un diritto; (ii) la prescrizione ha una portata generale, in quanto si riferisce a tutti i diritti, salvo eccezioni (di cui la più importante è la proprietà); l’usucapione riguarda invece solo la proprietà ed i diritti reali minori. Oggetto A quest’ultimo proposito, va sottolineato che per usucapione possono acquistarsi solo la proprietà ed i diritti reali di godimento — ad eccezione delle servitù non apparenti (v. § 158; v. Cass., sez. un., 21 novembre 1996, n. 10285) e, secondo taluni, del diritto di superficie, nella sua forma della « concessione ad aedificandum » (v. § 145) — con esclusione, quindi, dei diritti reali di garanzia. I diritti usucapibili possono avere ad oggetto tutti i beni corporali (immobili, mobili registrati, mobili, universalità di mobili) — anche se ancora in corso di costruzione (v. Cass. 21 maggio 2015, n. 10482) — ad esclusione dei beni demaniali e dei beni del patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali (v. § 95). Si discute, invece, se siano suscettibili di usucapione anche diritti su taluni beni immateriali (ad es., la ditta, l’insegna, ecc.). [§ 184] Il possesso 361 Perché si verifichi l’usucapione, debbono concorrere i seguenti Presupposti: presupposti: a) il possesso — sia « di buona fede » che « di mala fede » (v. Cass. ... possesso 6 maggio 2014, n. 9671; Cass. 28 novembre 2013, n. 26641) — del bene; irrilevante, ai fini dell’usucapione, è invece la detenzione (v. Cass. 17 maggio 2018, n. 12080); ovviamente inutile, ai fini dell’acquisizione del diritto (ma non della prova di esso), è il possesso legittimo (cioè, il possesso di chi già è titolare del diritto). Peraltro, se il possesso (illegittimo, di mala fede) viene acquistato con violenza (ad es., mediante rapina) o clandestinità (ad es., mediante furto) — c.d. possesso vizioso (v. Cass. 27 luglio 2013, n. 17881) — il possesso utile per l’usucapione decorre solo dal momento in cui sono cessate la violenza e la clandestinità (art. 1163 c.c.): è da tale momento, infatti, che il precedente possessore, vittima dell’atto violento o clandestino, potrebbe agire in giudizio per ottenere il recupero del bene; se omette di farlo, deve subire le conseguenze negative della propria colpevole inerzia; b) la continuità del possesso per un certo lasso di tempo: peral- ... continuità possesso: tro, al fine di dimostrare la continuità del suo possesso, il soggetto del presunzione interessato non ha l’onere di fornire la prova — particolarmente di possesso difficile, se non addirittura impossibile — di aver posseduto il bene intermedio e presunzione giorno per giorno, minuto per minuto, per tutto l’arco di tempo di possesso richiesto. La legge, infatti, lo agevola con la « presunzione di possesso anteriore intermedio » (art. 1142 c.c.), in forza della quale basta che il possessore dimostri di possedere ora e di aver posseduto in un tempo più remoto; ciò è sufficiente per far presumere — iuris tantum — che abbia posseduto anche nel periodo intermedio; spetterà a chi eventualmente sostenga il contrario di dimostrare il suo assunto (v. Cass. 9 febbraio 2017, n. 3517). Invece, il solo possesso attuale non fa presumere il possesso anteriore, salvo che il possessore possa invocare un titolo a fondamento del proprio possesso (ad es., esibire un atto dal quale risulti che, in una certa data, ha comperato il bene); in tal caso (poiché, normalmente, l’acquisto della proprietà o del diritto reale minore si accompagna all’acquisto del relativo possesso) la legge presume — sempre iuris tantum — che il possesso abbia avuto inizio dalla data del titolo: c.d. « presunzione di possesso anteriore » (art. 1143 c.c.; v. Cass. 30 settembre 2015, n. 19501); c) la non interruzione del possesso, che si ha allorquando, nel ... non interruzione lasso di tempo richiesto dalla legge, non intervenga: del possesso: (i) né una causa di interruzione c.d. « naturale » dell’usucapione, a) che si verifica allorquando il soggetto perda (ad es., per abbandono interruzione naturale del bene, trasferimento a terzi, smarrimento definitivo, ecc.) il possesso del bene (v. Cass. 11 maggio 2017, n. 11698; Cass. 10 gennaio 362 I diritti reali [§ 184] 2017, n. 362); con la precisazione che, in ipotesi di perdita del possesso in conseguenza del fatto del terzo che se ne appropri (ad es., perdo il possesso del mio fondo perché il vicino se ne impossessa), l’interruzione si considera verificata solo se chi si è visto privato del possesso non abbia proposto l’azione diretta a recuperare il perduto possesso (ad es., l’azione di reintegrazione: v. § 186) entro il termine di un anno dall’avvenuto spoglio (art. 1167 c.c.); b) (ii) né una causa di interruzione c.d. « civile » dell’usucapione, interruzione che si verifica allorquando: civile — contro il possessore (v. Cass. 30 dicembre 2013, n. 28721) — che pure conserva materialmente il possesso del bene — venga proposta una domanda giudiziale volta a privarlo di esso (ad es., un’azione di rivendicazione: v. § 143; un’azione di spoglio: v. § 186; un’azione di manutenzione volta a reagire contro uno spoglio non violento né clandestino: v. § 187); non essendo sufficiente, al riguardo, un atto stragiudiziale (ad es., una richiesta per iscritto di rilascio dell’immobile occupato: v. Cass. 29 luglio 2016, n. 15927); ovvero — il possessore abbia effettuato un riconoscimento del diritto del titolare (ex comb. disp. artt. 1165 e 2944 c.c.), per tale intendendosi un atto o un fatto che non si limiti ad evidenziare la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto dallo stesso esercitato come proprio, ma esprima altresì la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare (v. Cass. 26 ottobre 2018, n. 27170). Si noti che le cause di interruzione c.d. civile dell’usucapione coincidono con quelle di interruzione della prescrizione (v. § 114). La giurisprudenza ritiene tassativa l’elencazione degli atti interruttivi del possesso ad usucapionem contemplata dall’art. 2943 c.c., cui fa rinvio l’art. 1165 c.c.; con la conseguenza che non è consentito attribuire efficacia interruttiva dell’usucapione ad atti diversi da quelli contemplati nella norma (v. Cass. 28 febbraio 2019, n. 6029; Cass. 18 ottobre 2016, n. 21015); d) il decorso di un certo lasso di tempo, che gli artt. 1158, 1160, ... decorso del tempo comma 1, e 1161, comma 2, c.c. fissano — di regola — in venti anni (c.d. usucapione ordinaria). Si ricordi (v. § 180) che, ai fini del computo del tempo utile ai fini dell’usucapione, chi ha acquisito il possesso a titolo particolare può sommare al tempo del proprio possesso anche il tempo del possesso dei propri danti causa: c.d. accessione del possesso (art. 1146, comma 2, c.c.); mentre chi ha acquisito il possesso a titolo universale si giova del possesso del suo autore: c.d. successione nel possesso (art. 1146, comma 1, c.c.). [§ 184] Il possesso 363 Peraltro, la legge prevede, relativamente a talune ipotesi, ter- Usucapione mini di usucapione più brevi (c.d. usucapione abbreviata); e precisa- abbreviata mente: a) di dieci anni per i beni immobili (art. 1159 c.c.) e di tre anni per i beni mobili registrati (art. 1162 c.c.), allorquando — oltre a quelli fin qui indicati — concorrano cumulativamente i seguenti presupposti: (i) che il possessore possa vantare a proprio favore — come precisano gli artt. 1159 e 1162 c.c. — un « titolo idoneo a trasferire la proprietà » (ad es., una vendita) (v. Cass. 9 maggio 2018, n. 11141): si tratta — evidentemente — di un’ipotesi di acquisto a non domino (v. Cass. 7 maggio 2018, n. 10873); (ii) che l’acquirente abbia acquistato il possesso del bene « in buona fede » (v. § 177; v. Cass. 5 dicembre 2013, n. 27296); (iii) che sia stata effettuata la « trascrizione » del titolo (v. Cass. 7 giugno 2013, n. 14440): il termine utile per l’usucapione decorre proprio dalla data della trascrizione; b) di dieci anni per le universalità di mobili (art. 1160 c.c.), allorquando — oltre a quelli generali sopra indicati — concorrono cumulativamente i seguenti presupposti: (i) che il possessore possa vantare a proprio favore — come precisa l’art. 1160, comma 2, c.c. — un « titolo idoneo » all’acquisto del diritto (ad es., una vendita); (ii) che l’acquirente abbia acquistato il possesso del bene « in buona fede » (v. § 177); c) di dieci anni per i beni mobili non registrati (art. 1161 c.c.), allorquando l’acquirente abbia acquistato il possesso in buona fede (se, oltre alla buona fede, potesse vantare anche un « titolo idoneo » all’acquisto del diritto, il possessore non avrebbe ragione di invocare l’usucapione, poiché lo stesso — in forza della regola « possesso vale titolo »: art. 1153 c.c. — avrebbe acquistato il diritto fin dal momento dell’acquisizione del possesso); d) di quindici anni per i fondi rustici (con annessi eventuali fabbricati) situati in comuni che per legge sono classificati come « montani » ai sensi di legge (v. Cass. 5 luglio 2012, n. 11312), ovvero per i fondi rustici (con annessi eventuali fabbricati), anche se non situati in comuni « montani », che abbiano un reddito domenicale iscritto in catasto non superiore a complessive lire 350.000 (art. 2 L. 10 maggio 1976, n. 346), pari — oggi — ad E 180,76 (art. 1159-bis, comma 1, c.c.): termine che — se concorrono i presupposti della sussistenza di un « titolo idoneo », della « buona fede » e della « trascrizione » del titolo — si riduce a cinque anni dalla trascrizione stessa (art. 1159-bis, comma 2, c.c.): c.d. usucapione speciale per la I diritti reali 364 [§ 185] piccola proprietà rurale (v. Cass. 28 agosto 2017, n. 20451). Ovviamente, tale ultima forma di usucapione non trova applicazione allorquando, in forza degli strumenti urbanistici vigenti, il bene sia destinato ad insediamenti ed attività diversi da quelli agricoli (v. Cass. 22 ottobre 2014, n. 22476). L’acquisto del diritto in forza di usucapione avviene ex lege, nel Accertamento dell’avvenuta momento stesso in cui matura il termine normativamente previsto. usucapione Peraltro, l’usucapiente potrebbe aver interesse — ad es., per eliminare ogni incertezza in ordine al suo acquisto, ovvero per ottenere un titolo utile per la trascrizione — a promuovere un giudizio di accertamento dell’intervenuta usucapione (v. Cass. 7 settembre 2018, n. 21873), che, in ogni caso, si concluderebbe con una sentenza avente valore dichiarativo e non già costitutivo (v. § 119). Si discute se all’acquisto per usucapione debba riconoscersi Il problema dell’efficacia efficacia retroattiva: cioè, fin dal momento in cui ha avuto inizio la retroattiva dell’usuca- situazione possessoria che ha portato all’usucapione stessa (v., in pione senso affermativo, Cass. 23 dicembre 2015, n. 25964). Ovviamente, il possessore può rinunciare all’usucapione già Rinuncia all’usucapione maturata a proprio favore (v. Cass. 19 gennaio 2018, n. 1363; Cass. 12 maturata ottobre 2016, n. 20565). La nostra Suprema Corte ha, di recente, sottolineato che l’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla CEDU (« Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei sui beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non ... nelle condizioni previste dalla legge ») impone al giudice nazionale l’impiego di un particolare rigore nell’apprezzamento della sussistenza dei presupposti per l’acquisto per usucapione della proprietà altrui, prevalente sul precedente titolo dominicale; occorrendo, al riguardo, un attento bilanciamento dei valori in conflitto (v. Cass. 30 agosto 2017, n. 20539; ma v. ora Cass. 6 febbraio 2019, 3487). § 185. La tutela delle situazioni possessorie. Contro l’altrui condotta volta a privarmi del mio possesso ovvero ad arrecarvi turbativa posso oppormi, in via di autodifesa (v. § 118), finché l’altrui azione illecita è in atto (ad es., se il rapinatore vuole sottrarmi la valigetta con i preziosi, posso oppormi con la forza al suo tentativo: v. Cass. pen. 27 novembre 2012, n. 49760; Cass. 9 giugno 2009, n. 13270). Le azioni Se invece l’azione, che si è risolta nella privazione o nella possessorie turbativa del possesso, si è esaurita (ad es., il rapinatore si è dileguato Autodifesa delle situazioni possessorie [§ 185] Il possesso 365 con la mia valigetta di preziosi), al possessore — sul piano civilistico — non resta che rivolgersi al giudice attraverso una delle azioni che, proprio perché poste a tutela del possesso, si dicono « possessorie ». Tali azioni sono concesse a chi esercita una situazione possessoria a prescindere dal fatto che lo stesso sia altresì titolare del correlativo diritto. La categoria delle « azioni possessorie » si contrappone alla ca- Azioni e tegoria delle « azioni petitorie » (v. § 143): queste ultime possono essere possessorie azioni fatte valere solo da chi si affermi titolare del diritto di proprietà o di petitorie un diritto reale di godimento, a prescindere dal fatto che abbia altresì il possesso del bene. Chi riveste contestualmente sia la qualità di possessore che la qualità di titolare del correlativo diritto reale potrà esperire — quale possessore — le azioni possessorie, ovvero — quale titolare del diritto — le azioni petitorie. Da notare che le azioni possessorie, da un lato, si giovano di un procedimento giudiziale (artt. 703 ss. c.p.c.) più agile rispetto a quello ordinario, applicabile invece alle azioni petitorie; e, da altro lato, fanno gravare su chi agisce un onere probatorio (relativo a fatti: cioè, la situazione possessoria) meno disagevole di quello (relativo, invece, a diritti) che grava su chi agisce in via petitoria (v. § 143; v. Cass. 21 gennaio 2019, n. 2032; Cass. 4 aprile 2018, n. 8394). Le azioni possessorie assicurano, per definizione, una tutela di carattere soltanto provvisorio, nel senso che chi soccombe nel giudizio possessorio può successivamente esperire un giudizio petitorio (v. Cass. 17 febbraio 2012, n. 2371). Peraltro, il convenuto in un giudizio possessorio non può pro- Divieto del del porre il giudizio petitorio, finché il primo non si sia definito e la cumulo giudizio decisione non sia stata eseguita (art. 705, comma 1, c.p.c.; v. Cass. 25 petitorio con giugno 2012, n. 10588): c.d. divieto del cumulo del giudizio petitorio con quello possessorio quello possessorio. Così, ad es., se vengo evocato in giudizio con un’azione possessoria da colui cui ho sottratto il possesso del bene, non posso — per giustificare la mia condotta (feci, sed iure feci) — proporre, nell’ambito del medesimo giudizio, un’azione volta all’accertamento che il bene è, in realtà, di mia proprietà e, conseguentemente, che lo ius possidendi compete a me; debbo, invece, attendere la definizione del giudizio possessorio ed eseguire la sentenza che, in esito allo stesso, dovesse condannarmi alla restituzione del bene (spoliatus ante omnia restituendus); solo allora potrò avviare l’azione petitoria (nel caso di specie, l’azione di rivendicazione; v. § 143). La regola legale del divieto del cumulo del giudizio petitorio con quello possessorio soffre deroga — come statuito dalla Corte costitu- I diritti reali 366 [§ 186] zionale con sentenza 3 febbraio 1992, n. 25 — nell’ipotesi in cui vi sia il rischio che dalla sua applicazione possa derivare, per il convenuto, un pregiudizio irreparabile (v. Cass. 18 giugno 2018, n. 16000). La lesione di situazioni possessorie obbliga il suo autore — Il danno da lesione di qualora concorrano i presupposti della responsabilità civile (artt. una situazione 2043 ss.; v. §§ 454 ss.) — a risarcire il danno che ne sia derivato al possessoria possessore o al detentore (v. Cass. 31 gennaio 2019, n. 2991; Cass. 31 agosto 2018, n. 21475). La relativa azione può essere proposta congiuntamente all’azione possessoria (v. Cass. 2 dicembre 2013, n. 26985; v. anche Cass. 4 dicembre 2018, n. 31353). § 186. L’azione di reintegrazione (o spoglio). L’« azione di reintegrazione » (o « spoglio ») risponde all’esigenza di garantire a chi possiede un bene una sollecita tutela giudiziaria, indipendentemente dalla prova che sullo stesso gli spetti un diritto; ed è volta a reintegrare nel possesso del bene — anche, ove occorra, mediante riduzione in pristino dello stato dei luoghi (v. Cass., sez. un., 23 gennaio 2015, n. 1238) — chi sia rimasto vittima di uno « spoglio violento o clandestino » (art. 1168 c.c.). Per « spoglio » si intende qualsiasi azione che si risolva nella Lo « spoglio » duratura privazione del possesso o, comunque, in una modifica della situazione oggettiva preesistente che comprometta in modo apprezzabile l’esercizio del possesso (v. Cass. 22 gennaio 2013, n. 1494). Lo spoglio può essere totale (ad es., occupo integralmente il fondo del vicino; chiudo con un cancello la strada sulla quale al vicino spetta una servitù di passaggio, ecc; v. Cass. 30 giugno 2014, n. 14819) od anche solo parziale (ad es., occupo una parte del fondo del vicino; restringo il ponte sul quale al vicino spetta una servitù di passaggio; v. Cass. 22 gennaio 2013, n. 1494). Uno spoglio si dice « violento » o « clandestino » (v. Cass. 6 aprile 2017, n. 8911), allorquando è posto in essere contro la volontà espressa o presunta del possessore o detentore: così, almeno, intende la giurisprudenza, che fornisce un’interpretazione molto ampia dell’espressione testuale utilizzata dal codice (v. Cass. 2 dicembre 2013, n. 26985). Si ritiene che l’azione di reintegrazione sia esperibile solo L’animus spoliandi quando lo spoglio risulti accompagnato dal c.d. « animus spoliandi », cioè dalla coscienza e volontà del suo autore (c.d. spoliator) di compiere l’atto materiale nel quale si sostanzia lo spoglio stesso, nella consapevolezza di ledere, con ciò, la posizione del possessore o del Petitum e causa petendi [§ 186] Il possesso 367 detentore (v. Cass. 14 giugno 2017, n. 14797): peraltro, di regola, quest’elemento soggettivo è insito nello stesso fatto materiale della privazione totale o parziale del possesso altrui, tranne che ciò non risulti escluso dalle circostanze (per es., quando il bene si presenta in stato di abbandono: in tal caso manca nell’autore del fatto la coscienza di privare altri del suo possesso) (v. Cass. 25 luglio 2011, n. 16236). La legittimazione attiva ad esercitare l’azione spetta a qualsiasi Legittimazione possessore (art. 1168, comma 1, c.c.): sia esso legittimo o illegittimo, attiva corpore et animo o solo animo, di buona o di male fede (v. Cass. 31 gennaio 2019, n. 2991; Cass. 4 aprile 2018, n. 8394); addirittura al possessore che tale sia divenuto con violenza o clandestinità (v. Cass. 21 gennaio 2009, n. 1551). L’azione di reintegrazione è dal possessore (spogliato) esperibile anche nei confronti del detentore (spoliator) che abbia mutato la propria detenzione in possesso (v. Cass. 29 maggio 2013, n. 13417). Legittimato all’azione di spoglio è altresì il detentore, con esclusione del solo detentore non qualificato: cioè, di chi sia tale per ragioni di servizio o di ospitalità (art. 1168, comma 2, c.c.; v. Cass. 20 marzo 2012, n. 4448). In quest’ultima ipotesi, infatti, è logico che l’azione venga intentata, anziché dal detentore precario, dal possessore, che è l’unico realmente interessato al recupero del possesso (così, ad es., se l’autovettura è dallo spoliator sottratta alla disponibilità materiale del mio autista, la legittimazione attiva all’azione di spoglio compete a me possessore; se la mia casa è occupata da un terzo, la legittimazione attiva all’azione di spoglio compete a me possessore, non all’eventuale amico che io ospito temporaneamente). Il detentore (qualificato) può esperire l’azione di spoglio non solo nei confronti dei terzi, ma anche nei confronti del possessore, sempre che la sua detenzione sia « autonoma » (cioè, acquisita nel proprio interesse). Si pensi, ad es., all’inquilino al quale il proprietario od un terzo abbia sottratto la disponibilità dell’appartamento locatogli (v. Cass. 25 settembre 2015, n. 19114); ovvero al convivente more uxorio che venga estromesso — non importa se dal convivente proprietario (v. Cass. 15 settembre 2014, n. 19423; Cass. 21 marzo 2013, n. 7214) o da un terzo (v. Cass. 2 gennaio 2014, n. 7) — dall’unità immobiliare in cui ha fin qui condotto la propria vita di coppia. Il detentore (qualificato) « non autonomo » può invece esperire l’azione di spoglio nei confronti dei terzi, ma non del possessore (perciò, ad es., l’amico cui ho affidato un quadro perché lo venda per mio conto non è legittimato ad esperire l’azione di reintegrazione, I diritti reali 368 [§ 187] nell’eventualità in cui io possessore mi sia ripreso il quadro) (v. Cass. 4 gennaio 2013, n. 99). La legittimazione passiva compete — oltre che, ovviamente, Legittimazione passiva all’autore materiale dello spoglio (c.d. spoliator), quand’anche nel frattempo abbia trasferito ad altri il possesso del bene — a coloro che debbono rispondere del fatto di quest’ultimo (ad es., il datore di lavoro che abbia ordinato al dipendente di porre in essere lo spoglio), al c.d. « autore morale » dello spoglio (cioè, a colui che ne abbia tratto vantaggio, consapevole dell’illiceità della condotta dello spoliator: v. Cass. 10 ottobre 2018, n. 24967), nonché a chi si trovi attualmente nel possesso o nella detenzione del bene, in virtù di un acquisto a titolo particolare, fatto con la conoscenza dell’avvenuto spoglio (ad es., il soggetto che abbia acquistato il bene dallo spoliator, pur sapendo come quest’ultimo aveva acquisito il suo possesso) (art. 1169 c.c.; v. Cass. 13 aprile 2015, n. 7365). Da notare che l’azione di reintegrazione può — come si è già L’eccezione: feci, sed iure detto — essere esperita contro lo spoliator, quand’anche quest’ultimo feci sia il titolare del diritto e tenti di difendersi opponendo l’eccezione « feci, sed iure feci »: infatti, anche in questo caso lo spoliator deve prima ripristinare la situazione quo ante abusivamente mutata (spoliatus ante omnia restituendus); solo dopo potrà agire giudizialmente per far valere contro il possessore il suo diritto. La proposizione dell’azione è soggetta ad un termine di decaTermine di decadenza denza di un anno, che decorre dal sofferto spoglio (art. 1168, comma 1, c.c.; v. Cass. 19 marzo 2014, n. 6428) ovvero, se questo è clandestino, dal giorno della sua scoperta (art. 1168, comma 3, c.c.; v. Cass. 18 settembre 2009, n. 20228). Vertendosi in materia di diritti disponibili, il decorso del termine di decadenza deve essere eccepito dalla parte interessata, non potendo essere dal giudice rilevato d’ufficio (v. § 117; v. Cass. 19 gennaio 2018, n. 1455). Nel caso in cui lo spoglio non sia stato né violento né clandestino, chi l’abbia subito può reagire non già con l’azione « di reintegrazione », ma solo con l’azione « di manutenzione », se ed in quanto ricorrano le più restrittive condizioni previste dalla legge per la proponibilità di tale ultima azione (v. § 187). § 187. Petitum e causa petendi L’azione di manutenzione. L’« azione di manutenzione » è volta — alternativamente (v. Cass. 30 settembre 2016, n. 19586) — a: [§ 187] Il possesso 369 a) reintegrare nel possesso del bene chi sia stato vittima di uno spoglio non violento né clandestino (art. 1170, comma 3, c.c.; v. Cass. 29 maggio 2013, n. 13417, la quale qualifica come spoglio non violento, né clandestino il rifiuto opposto dal detentore al possessore, di restituire il fondo, accompagnato dal disconoscimento del possesso di quest’ultimo); ovvero b) far cessare le « molestie » o le « turbative » di cui sia stato vittima il possessore (art. 1170, comma 1, c.c.; v. Cass. 7 agosto 2018, n. 20581); con conseguente ripristino della situazione dei luoghi eventualmente alterata o modificata dall’azione lesiva (v. Cass. 13 agosto 2018, n. 20726). Per « molestia » o « turbativa » s’intende qualunque attività che Molestia di e arrechi — o vi sia il serio o concreto pericolo che possa arrecare (v. fatto molestia di Cass. 5 febbraio 2016, n. 2291) — al possessore un apprezzabile diritto disturbo, ovvero una compressione delle facoltà in cui il possesso si concretizza (v. Cass. 23 ottobre 2018, n. 26787), tanto che consista in attentati materiali (c.d. molestia di fatto: ad es., taglio degli alberi, passaggio sul fondo, interruzione del deflusso di un’acqua, costruzione in violazione delle distanze legali, ecc.), quanto che si estrinsechi in atti giuridici (c.d. molestia di diritto: ad es., notificazione di una opposizione al possessore di intraprendere una costruzione, giustificata con l’affermazione che la costruzione sarebbe in contrasto con una servitù di passaggio spettante all’opponente) che facciano temere imminenti azioni materiali contrastanti con la situazione possessoria (v. Cass. 10 ottobre 2011, n. 20800). Anche se adito per la reintegrazione del possesso di cui si denuncia lo spoglio, il giudice può disporre la cessazione di quella che egli ritenga costituire invece semplice molestia, atteso che la turbativa costituisce un minus rispetto allo spoglio e che nella domanda di reintegrazione nel possesso deve ritenersi ricompresa o implicita quella di manutenzione dello stesso (v. Cass. 30 settembre 2016, n. 19586). La giurisprudenza — parallelamente a quanto afferma in tema L’animus di azione di spoglio — ritiene che l’azione di manutenzione sia turbandi esperibile solo in presenza del c.d. « animus turbandi »: cioè, della consapevolezza, nell’agente, che il proprio atto arreca pregiudizio al possesso altrui (v. Cass. 14 febbraio 2017, n. 3901, secondo cui l’animus turbandi deve peraltro presumersi ogniqualvolta ricorrano gli estremi della turbativa). La legittimazione attiva — a differenza di quanto accade per Legittimaziol’azione di spoglio — non spetta al detentore e neppure a tutti i ne attiva possessori: spetta soltanto al possessore di un immobile, di un’univer- I diritti reali 370 [§ 188] salità di mobili o di un diritto reale su un immobile (non, quindi, al possessore di beni mobili), e solo a condizione che sia possessore da almeno un anno, in modo continuativo e non interrotto (ovvero, qualora abbia acquistato il possesso con violenza o clandestinità, da almeno un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità sono cessate) (art. 1170, comma 2, c.c.). La legittimazione passiva compete — oltre che, ovviamente, Legittimazione passiva all’autore dello spoglio (non violento e non clandestino) o della turbativa — a coloro che debbono rispondere del fatto di quest’ultimo, nonché, secondo la giurisprudenza, al c.d. autore morale (v. Cass. 2 ottobre 2018, n. 23855). Termine di Anche l’azione di manutenzione è soggetta al termine di decadecadenza denza di un anno, che decorre dall’avvenuto spoglio (non violento e non clandestino), ovvero dal giorno in cui ha avuto inizio l’attività molestatrice (v. Cass. 17 agosto 2017, n. 20134, con riferimento all’ipotesi in cui lo spoglio o la turbativa siano posti in essere tramite una pluralità di atti protrattisi nel tempo). § 188. Le azioni di nuova opera e di danno temuto. L’« azione di nuova opera » e l’« azione di danno temuto » — che il codice definisce, rispettivamente, come « denuncia di nuova opera » e « denuncia di danno temuto » — (c.d. azioni di nunciazione) possono essere esercitate sia a tutela del possesso sia a tutela della proprietà o di altro diritto reale di godimento (v. Cass. 26 gennaio 2006, n. 1519). Finalità Esse hanno finalità tipicamente cautelare, in quanto mirano a cautelare prevenire un danno o un pregiudizio che può derivare da una nuova opera o dalla cosa altrui, in attesa che successivamente si accerti il diritto alla proibizione (v. Cass. 11 marzo 2015, n. 4904). Legittimazione Legittimato passivo, nelle azioni di nunciazione, è non solo il passiva titolare del diritto reale del bene da cui si assume possa derivare la denunciata situazione di pericolo di danno, ma anche il possessore e colui che, in ogni caso, abbia la disponibilità del bene, in quanto l’obbligo di custodia e di manutenzione sussiste in ragione dell’effettivo potere fisico sulla cosa (v. Cass. 17 marzo 2016, n. 5336). Denuncia di La denunzia di nuova opera spetta al proprietario, al titolare di nuova opera: un diritto reale di godimento o al possessore che abbia ragione di legittimazione attiva, temere che da una nuova opera (ad es., una costruzione, degli scavi, petitum e ecc.) — iniziata da meno di un anno e non terminata (se fosse causa petendi terminata, non ricorrerebbe più la figura dell’azione preventiva o cautelare e si potrebbe agire con l’azione petitoria o possessoria) — Carattere alternativamente petitorio e possessorio [§ 188] Il possesso 371 possa, se proseguita, derivare danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o del suo possesso (v. Cass. 30 novembre 2012, n. 21491). Il giudice può vietare la continuazione dell’opera, o permetterla stabilendo però le opportune cautele (art. 1171 c.c.; v. Cass. 13 gennaio 2011, n. 676). La denunzia di danno temuto è data al proprietario, al titolare di Denuncia di un diritto reale di godimento o al possessore nel caso in cui vi sia danno temuto: pericolo di un danno grave e prossimo derivante da qualsiasi edificio, legittimazioalbero o altra cosa (non, quindi, da una persona), senza che ricorra ne attiva, petitum e l’ipotesi di nuova opera (art. 1172 c.c.; v. Cass. 28 maggio 2004, n. causa petendi 10282). Il giudice dispone i provvedimenti necessari per ovviare il pericolo e, se del caso, impone idonea garanzia per gli eventuali danni. I DIRITTI DI CREDITO CAPITOLO XVII IL RAPPORTO OBBLIGATORIO § 189. Nozione. Con il temine « obbligazione » si intende il rapporto tra due Il rapporto soggetti — il soggetto passivo (c.d. debitore) ed il soggetto attivo (c.d. obbligatorio creditore) — in forza del quale il primo è tenuto, nei confronti del secondo, ad una determinata « prestazione » (ad es., il venditore è tenuto, nei confronti dell’acquirente, alla consegna del bene: v. § 370; il responsabile di un sinistro stradale è tenuto, nei confronti del danneggiato, al risarcimento del danno: v. § 454; ecc.). Il rapporto obbligatorio dà, dunque, luogo a due posizioni Il debitore ed correlate: alla posizione passiva (di « debito ») fa da contraltare quella il creditore attiva (di « credito ») (così, per restare al nostro primo esempio, alla posizione passiva, debitoria, del venditore, che è tenuto alla consegna, si contrappone quella attiva, creditoria, dell’acquirente, che ha diritto a siffatta consegna). Tale concetto si esprime anche dicendo che al debitore fa capo una determinata « obbligazione » (nel nostro esempio, l’obbligazione di consegnare il bene), mentre al creditore fa capo il correlativo « diritto di credito » (nel nostro esempio, il diritto alla consegna stessa): in siffatto contesto, il temine « obbligazione » è sinonimo di « debito ». Il creditore, per conseguire l’utilità cui ha diritto, ha bisogno La dell’indispensabile cooperazione del debitore (così, per restare ancora cooperazione del debitore una volta al nostro esempio, chi ha diritto alla consegna del bene non può prenderselo da sé, ma deve poter contare sulla collaborazione del debitore, che a siffatta consegna proceda). Il diritto del creditore è, quindi, un diritto nei confronti del Relatività del debitore: per questo, si dice « relativo » (o personale), in quanto può rapporto obbligatorio essere fatto valere solo nei confronti di quest’ultimo. La nozione di « diritto di credito » viene tradizionalmente con- Diritti reali e di trapposta a quella di « diritto reale »: mentre quest’ultimo è un diritto diritti credito: sulla cosa, caratterizzato dai connotati dell’« immediatezza » e rinvio dell’« assolutezza » (v. § 131), il primo è un diritto nei confronti di un 376 I diritti di credito [§ 189] soggetto obbligato ad una determinata prestazione (c.d. « relatività » del diritto di credito). La distinzione si fa più sottile allorquando la prestazione dovuta dal debitore consiste nel consentire al creditore di trarre da un bene le utilità che lo stesso è in grado di offrire (si pensi, ad es., al diritto che concedo ad un terzo di venire a pescare nel laghetto sito sul mio fondo; al diritto che l’albergatore concede al cliente di fruire di una camera dell’hotel; ecc.). Con riferimento a questi ultimi casi — si dice — il potere del creditore sul bene è mediato (in quanto il godimento del bene gli viene garantito attraverso la condotta imposta al debitore, e non già mediante l’attribuzione di una diretta potestà sul bene medesimo, come accade invece in ipotesi di diritto reale) e relativo (in quanto può esercitarsi nei confronti del solo debitore, e non già erga omnes, come accade invece in ipotesi di diritto reale). Proprio con riferimento a tali ipotesi si parla di « diritti personali di godimento » per distinguerli dai « diritti reali di godimento ». La giuridicità del vincolo del debitore è sanzionata — a diffeLa responsabilità renza di quanto avveniva in altri tempi, quando era previsto anche patrimoniale l’arresto per inadempimento di un debito — soltanto con una « responsabilità patrimoniale » (art. 2740 c.c.): il debitore risponde dell’inadempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (v. § 235). Vale a dire che, se la sua pretesa all’adempimento resta insoddisfatta, il creditore può invocare misure coercitive (solo) sul patrimonio dell’obbligato. Si è già visto (v. § 121) che il creditore, se ha diritto di ricevere L’esecuzione forzata una somma di danaro (che è il caso più frequente di obbligazione), potrà conseguire tramite l’esecuzione forzata, sempre che il patrimonio del debitore sia capiente, proprio quanto aveva diritto di conseguire con l’adempimento spontaneo: cioè, l’importo di cui era creditore. La stessa coincidenza tra prestazione dovuta e risultato delle procedure esecutive può realizzarsi — come pure si è visto (v. § 121) — anche in tutti gli altri casi in cui è possibile l’« e