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Manuale di Diritto Privato: Guida Completa

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ABBREVIAZIONI
CEDU
c.c.
c.p.
c.p.c.
cod. ambiente
cod. assic.
cod. cons.
cod. nav.
cod. privacy
cod. strada
cod. tur.
Cost.
c.p.i.
L. ass.
L. aut.
L. camb.
L.F.
T.U.B.
T.U.F.
TFUE
TUE
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali
codice civile (R.D. 16 marzo 1942, n. 262)
codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)
codice di procedura civile (R.D. 28 ottobre 1940, n.
1443)
codice dell’ambiente (D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152)
codice delle assicurazioni private (D.Lgs. 7 settembre
2005, n. 209)
codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206)
codice della navigazione (R.D. 30 marzo 1942, n. 327)
codice della privacy (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196)
codice della strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285)
codice del turismo (D.Lgs. 23 maggio 2011, n. 79)
Costituzione della Repubblica italiana 27 dicembre
1947
codice della proprietà industriale (D.Lgs. 10 febbraio
2005, n. 30)
legge sull’assegno bancario e sull’assegno circolare
(R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736)
legge sul diritto d’autore (L. 22 aprile 1941, n. 633)
legge sulla cambiale e sul vaglia cambiario (R.D. 14
dicembre 1933, n. 1669)
legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267)
testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia
(D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385)
testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58)
Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea
Trattato sull’Unione Europea
PREFAZIONE ALLA VENTIQUATTRESIMA EDIZIONE
Il Manuale si ripresenta ai lettori rispettando la cadenza di
aggiornamento biennale inaugurata da qualche tempo.
La impongono la continua evoluzione normativa e l’abbondanza della produzione giurisprudenziale. In particolare a quest’ultima
si è scelto di dedicare crescente attenzione nell’intento, da un lato, di
offrire agli studenti una rappresentazione vivente del diritto privato,
consentendo loro di cogliere già nella fase dell’iniziazione allo studio
del diritto la problematicità sottesa ai testi normativi con i quali
spesso per la prima volta si confrontano e, da altro lato, di fornire ai
lettori più esperti un materiale informativo utile per studi più avanzati e personali approfondimenti.
Le novità normative hanno interessato, come sempre, tutti i
settori dell’estesa materia privatistica; in particolare si segnala la
nuova disciplina del “terzo settore”, la cui riforma si è dipanata nel
tempo con l’emanazione del Codice del Terzo Settore (D.Lgs. 3 luglio
2017, n. 117) e con i successivi provvedimenti attuativi e correttivi
(D.Lgs. 3 agosto 2018, n. 105) e che ancora richiederà attenzione in
futuro. Le altre importanti riforme degli anni recenti — si pensi in
particolare a quelle che hanno interessato il diritto familiare, con la
riforma della filiazione e la disciplina delle unioni civili e delle
convivenze, già illustrate nelle precedenti edizioni — sono ora alla
prova dell’esperienza applicativa e dell’elaborazione giurisprudenziale.
La presente edizione è segnata anche da una ponderata, seppur
sofferta, rinuncia: quella alle indicazioni bibliografiche poste in chiusura dei singoli capitoli. L’espansione continua della produzione della
letteratura giuridica ha reso difficilmente dominabile la ricchezza
delle fonti, che avrebbe imposto — anche per evidenti esigenze di
spazio — scelte selettive impossibili da operare con la necessaria
accuratezza.
Auspico che, comunque, il Manuale si confermi anche in questa
edizione uno strumento utile per quanti — studenti e professionisti
VI
Manuale di diritto privato
— vorranno avvalersene per la loro preparazione negli studi giuridici
e come fonte di consultazione nella loro quotidiana attività.
PIERO SCHLESINGER
INDICE SOMMARIO (*)
NOZIONI PRELIMINARI
CAPITOLO I
L’ORDINAMENTO GIURIDICO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
L’ordinamento giuridico........................................................................
L’ordinamento giuridico dello Stato e la pluralità degli ordinamenti
giuridici. ................................................................................................
Gli ordinamenti sovranazionali. L’Unione Europea..............................
La norma giuridica................................................................................
Diritto positivo e diritto naturale. ........................................................
La struttura della norma. La fattispecie. .............................................
La sanzione. ..........................................................................................
Caratteri della norma giuridica. Generalità e astrattezza. Il principio
costituzionale di eguaglianza.................................................................
L’equità.................................................................................................
3
4
6
9
11
12
14
16
18
CAPITOLO II
IL DIRITTO PRIVATO E LE SUE FONTI
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
Diritto pubblico e diritto privato..........................................................
Distinzione tra norme cogenti e norme derogabili. ...............................
Fonti delle norme giuridiche. ................................................................
a) La Costituzione e le leggi di rango costituzionale.............................
b) Le leggi dello Stato e le leggi regionali. ............................................
c) I regolamenti.....................................................................................
d) Le fonti comunitarie. ........................................................................
e) La consuetudine. ...............................................................................
Il codice civile. ......................................................................................
20
22
23
25
27
29
30
33
35
CAPITOLO III
L’EFFICACIA TEMPORALE DELLE LEGGI
19.
Entrata in vigore della legge.................................................................
(*) I capitoli I-VI, IX, XXV-L, LXV-LXXXI sono curati da Franco Anelli.
I capitoli VII-VIII, X-XXIV, LI-LXIV sono stati curati da Carlo Granelli.
40
VIII
Manuale di diritto privato
20.
21.
22.
Abrogazione della legge.........................................................................
Irretroattività della legge......................................................................
Successione di leggi. ..............................................................................
40
42
43
CAPITOLO IV
L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE
23.
24.
25.
26.
L’applicazione della legge. ....................................................................
L’interpretazione della legge. Il precedente giurisprudenziale..............
Le regole dell’interpretazione................................................................
L’analogia. ............................................................................................
45
45
50
52
CAPITOLO V
I CONFLITTI DI LEGGI NELLO SPAZIO
27.
28.
29.
30.
31.
32.
Il diritto internazionale privato. ...........................................................
Qualificazione del rapporto e momenti di collegamento. ......................
I vari momenti di collegamento............................................................
Il rinvio ad altra legge. Il limite dell’ordine pubblico. Le norme di
applicazione necessaria..........................................................................
La conoscenza della legge straniera. .....................................................
La condizione dello straniero. ...............................................................
55
57
58
64
65
66
L’ATTIVITÀ GIURIDICA
E LA TUTELA GIURISDIZIONALE
DEI DIRITTI
CAPITOLO VI
LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE
33.
34.
35.
36.
37.
38.
39.
40.
Il rapporto giuridico..............................................................................
Situazioni soggettive attive (diritto soggettivo, potestà, facoltà, aspettativa, status). .......................................................................................
L’esercizio del diritto soggettivo. ..........................................................
Categorie di diritti soggettivi. ...............................................................
Gli interessi legittimi.............................................................................
Situazioni di fatto. ................................................................................
Situazioni soggettive passive (dovere, obbligo, soggezione, onere). ......
Vicende del rapporto giuridico..............................................................
71
72
74
76
79
83
83
84
CAPITOLO VII
IL SOGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO
41.
Soggetto e persona. ...............................................................................
87
Indice sommario
IX
A) LA PERSONA FISICA
42.
43.
44.
45.
46.
47.
48.
49.
50.
51.
52.
53.
54.
55.
56.
57.
58.
59.
60.
La capacità giuridica della persona fisica. ............................................
La nascita e la morte. ...........................................................................
Le incapacità speciali............................................................................
Il concepito. ..........................................................................................
La capacità di agire. .............................................................................
La minore età........................................................................................
L’interdizione giudiziale........................................................................
L’interdizione legale..............................................................................
L’inabilitazione. ....................................................................................
L’emancipazione. ..................................................................................
L’amministrazione di sostegno..............................................................
L’incapacità naturale. ...........................................................................
Incapacità legale e incapacità naturale.................................................
La legittimazione. .................................................................................
La sede della persona............................................................................
La cittadinanza. ....................................................................................
La posizione della persona nella famiglia..............................................
Scomparsa, assenza e morte presunta...................................................
Gli atti dello stato civile. ......................................................................
88
90
92
93
95
97
100
103
104
106
106
110
112
113
114
116
118
119
121
B) I DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
61.
62.
63.
64.
65.
66.
67.
68.
Nozione e caratteri................................................................................
Diritto alla vita.....................................................................................
Diritto alla salute..................................................................................
Diritto al nome. ....................................................................................
Diritto all’integrità morale....................................................................
Diritto all’immagine..............................................................................
Dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali. ............
Diritto all’identità personale.................................................................
122
125
130
136
139
141
143
148
C) GLI ENTI
69.
70.
71.
72.
73.
74.
75.
76.
77.
78.
79.
Gli enti: soggettività giuridica e personalità giuridica. .........................
Classificazione degli enti........................................................................
Il fenomeno associativo.........................................................................
Associazione e società. ..........................................................................
L’associazione riconosciuta. ..................................................................
L’associazione non riconosciuta. ...........................................................
La fondazione........................................................................................
Il comitato. ...........................................................................................
Le altre istituzioni di carattere privato. ...............................................
Il terzo settore. .....................................................................................
I diritti della personalità degli enti.......................................................
149
151
154
157
159
163
167
171
173
175
179
X
Manuale di diritto privato
CAPITOLO VIII
L’OGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO
80.
81.
82.
83.
84.
85.
86.
87.
88.
89.
90.
91.
92.
93.
94.
95.
Il bene. ..................................................................................................
Categorie di beni: materiali e immateriali.............................................
Beni mobili e immobili..........................................................................
I beni registrati. ....................................................................................
I prodotti finanziari. .............................................................................
Beni fungibili e infungibili. ...................................................................
Beni consumabili e inconsumabili.........................................................
Beni divisibili e indivisibili. ..................................................................
Beni presenti e futuri............................................................................
I frutti...................................................................................................
Combinazione di beni............................................................................
Le pertinenze. .......................................................................................
Le universalità patrimoniali..................................................................
L’azienda...............................................................................................
Il patrimonio.........................................................................................
Beni pubblici, beni comuni, beni collettivi. Beni degli enti ecclesiastici..
180
181
183
184
184
185
187
188
189
189
190
191
194
195
197
199
CAPITOLO IX
IL FATTO, L’ATTO ED IL NEGOZIO GIURIDICO
96.
97.
98.
99.
100.
101.
102.
103.
104.
105.
106.
107.
I fatti giuridici. .....................................................................................
Classificazione degli atti giuridici. .........................................................
Il negozio giuridico................................................................................
Classificazioni dei negozi giuridici: a) in relazione alla struttura
soggettiva..............................................................................................
Classificazioni dei negozi giuridici: b) in relazione alla funzione. ..........
Negozi a titolo gratuito e negozi a titolo oneroso. ................................
La rinunzia............................................................................................
Elementi del negozio giuridico. .............................................................
La dichiarazione....................................................................................
La forma. ..............................................................................................
Il bollo e la registrazione.......................................................................
La pubblicità: fini e natura...................................................................
205
206
207
209
210
211
212
213
214
216
217
218
CAPITOLO X
L’INFLUENZA DEL TEMPO SULLE VICENDE GIURIDICHE
A) NOZIONI GENERALI
108. Computo del tempo...............................................................................
109. Influenza del tempo sull’acquisto e sull’estinzione dei diritti soggettivi..
220
221
B) LA PRESCRIZIONE ESTINTIVA
110. Nozione e fondamento. .........................................................................
221
111.
112.
113.
114.
115.
116.
Indice sommario
XI
Operatività della prescrizione. ..............................................................
Oggetto della prescrizione. ....................................................................
Inizio della prescrizione. .......................................................................
Sospensione ed interruzione della prescrizione......................................
Durata della prescrizione. .....................................................................
Le prescrizioni presuntive. ....................................................................
222
223
224
225
228
229
C) LA DECADENZA
117. Nozione e fondamento. .........................................................................
231
CAPITOLO XI
LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI
118.
119.
120.
121.
Premessa. ..............................................................................................
Cenni sui tipi di azione. ........................................................................
La cosa giudicata. .................................................................................
Il processo esecutivo. ............................................................................
234
235
238
239
CAPITOLO XII
LA PROVA DEI FATTI GIURIDICI
122.
123.
124.
125.
126.
127.
128.
129.
130.
Nozioni generali. ...................................................................................
L’onere della prova. ..............................................................................
I mezzi di prova....................................................................................
La prova documentale. .........................................................................
La prova testimoniale. ..........................................................................
Forma ad substantiam e forma ad probationem. ....................................
Le presunzioni.......................................................................................
La confessione. ......................................................................................
Il giuramento. .......................................................................................
242
243
246
247
253
255
257
259
260
I DIRITTI REALI
CAPITOLO XIII
I DIRITTI REALI IN GENERALE E LA PROPRIETÀ
A) I DIRITTI REALI
131. Caratteri e categorie dei diritti reali. ....................................................
267
B) LA PROPRIETÀ
132. Il contenuto del diritto. ........................................................................
133. Espropriazione e indennizzo. ................................................................
269
274
XII
Manuale di diritto privato
134. La proprietà dei beni culturali..............................................................
135. La proprietà edilizia..............................................................................
136. La proprietà fondiaria...........................................................................
137. I rapporti di vicinato. ...........................................................................
138. Gli atti emulativi. .................................................................................
139. Le immissioni. .......................................................................................
140. Le distanze legali. .................................................................................
141. Le luci e le vedute. ...............................................................................
142. Modi di acquisto della proprietà. ..........................................................
142-bis. Perdita della proprietà. .....................................................................
143. Azioni a difesa della proprietà. .............................................................
278
279
281
282
283
284
287
290
291
295
295
CAPITOLO XIV
I DIRITTI REALI DI GODIMENTO
144. Generalità..............................................................................................
301
A) LA SUPERFICIE
145. Nozione e disciplina. .............................................................................
302
B) L’ENFITEUSI
146. Nozione e disciplina. .............................................................................
304
C) L’USUFRUTTO, L’USO E L’ABITAZIONE
147.
148.
149.
150.
151.
152.
153.
L’usufrutto: nozione..............................................................................
L’oggetto dell’usufrutto. Il quasi usufrutto. .........................................
Modi di acquisto dell’usufrutto. ............................................................
Diritti dell’usufruttuario. ......................................................................
Obblighi dell’usufruttuario....................................................................
Estinzione dell’usufrutto.......................................................................
Uso ed abitazione..................................................................................
305
307
307
308
310
311
311
D) LE SERVITÙ
154.
155.
156.
157.
158.
159.
160.
161.
Nozione. ................................................................................................
Principi generali. ...................................................................................
Costituzione...........................................................................................
Le servitù coattive o legali. ..................................................................
Le servitù volontarie.............................................................................
Esercizio della servitù. ..........................................................................
Estinzione della servitù.........................................................................
Tutela della servitù. ..............................................................................
312
314
316
316
319
321
322
324
Indice sommario
XIII
CAPITOLO XV
LA COMUNIONE E IL CONDOMINIO
A) LA COMUNIONE
162.
163.
164.
165.
166.
167.
168.
Nozione. ................................................................................................
Comunione e società..............................................................................
Costituzione...........................................................................................
Disciplina: profili generali. ....................................................................
I poteri di godimento e di disposizione.................................................
L’amministrazione della cosa comune...................................................
Scioglimento della comunione. ..............................................................
325
326
327
327
328
329
331
B) IL CONDOMINIO
169.
170.
171.
172.
Il condominio negli edifici.....................................................................
L’assemblea e l’amministratore del condominio. ..................................
Il regolamento condominiale.................................................................
Il supercondominio. ..............................................................................
332
334
338
340
C) LA MULTIPROPRIETÀ
173. La multiproprietà..................................................................................
341
CAPITOLO XVI
IL POSSESSO
174.
175.
176.
177.
178.
179.
180.
181.
182.
183.
184.
185.
186.
187.
188.
Le situazioni possessorie. ......................................................................
Le distinte situazioni possessorie. .........................................................
Possesso e detenzione............................................................................
Le qualificazioni del possesso e della detenzione. .................................
Il possesso di diritti reali minori. ..........................................................
L’acquisto e la perdita del possesso. .....................................................
Successione nel possesso ed accessione del possesso..............................
Effetti del possesso. ..............................................................................
L’acquisto dei frutti ed il rimborso delle spese. ....................................
L’acquisto della proprietà in forza del possesso: a) la regola « possesso
vale titolo »............................................................................................
L’acquisto della proprietà in forza del possesso: b) l’usucapione. .........
La tutela delle situazioni possessorie. ...................................................
L’azione di reintegrazione (o spoglio). ..................................................
L’azione di manutenzione. ....................................................................
Le azioni di nuova opera e di danno temuto. .......................................
344
345
347
349
351
352
354
355
355
356
360
364
366
368
370
I DIRITTI DI CREDITO
CAPITOLO XVII
IL RAPPORTO OBBLIGATORIO
189. Nozione. ................................................................................................
375
XIV
Manuale di diritto privato
190. Fonti delle obbligazioni.........................................................................
191. L’obbligazione naturale.........................................................................
377
379
CAPITOLO XVIII
GLI ELEMENTI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO
192.
193.
194.
195.
196.
197.
198.
199.
200.
I soggetti. ..............................................................................................
Le obbligazioni plurisoggettive. ............................................................
Le obbligazioni solidali. ........................................................................
Divisibilità e indivisibilità dell’obbligazione. ........................................
La prestazione.......................................................................................
L’oggetto...............................................................................................
Obbligazioni semplici, alternative e facoltative. ...................................
Le obbligazioni pecuniarie. ...................................................................
Gli interessi. ..........................................................................................
381
381
383
385
386
389
390
391
395
CAPITOLO XIX
MODIFICAZIONE DEI SOGGETTI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO
201. Successione nel debito e nel credito. .....................................................
400
A) MODIFICAZIONI NEL LATO ATTIVO DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO
202. Le singole ipotesi di modificazione nel lato attivo del rapporto
obbligatorio. ..........................................................................................
203. La cessione del credito. .........................................................................
204. Effetti della cessione. ............................................................................
205. Rapporti tra cedente e cessionario........................................................
206. La cessione dei crediti di impresa ed il factoring .................................
207. La cartolarizzazione dei crediti. ............................................................
208. La delegazione attiva............................................................................
400
401
402
404
405
407
408
B) MODIFICAZIONI NEL LATO PASSIVO DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO
209. Le singole ipotesi di modificazione nel lato passivo del rapporto
obbligatorio. ..........................................................................................
210. La delegazione passiva..........................................................................
211. L’espromissione. ....................................................................................
212. L’accollo. ...............................................................................................
409
410
412
413
CAPITOLO XX
L’ESTINZIONE DELL’OBBLIGAZIONE
213. I modi di estinzione. .............................................................................
416
I. L’ADEMPIMENTO
214. L’esatto adempimento. .........................................................................
416
215.
216.
217.
218.
219.
220.
221.
222.
223.
Indice sommario
XV
Il destinatario dell’adempimento. .........................................................
Il luogo dell’adempimento. ...................................................................
Il tempo dell’adempimento. ..................................................................
Limitazioni all’uso del contante............................................................
Adempimento del terzo.........................................................................
Imputazione del pagamento. ................................................................
Il pagamento con surrogazione. ............................................................
La prestazione in luogo di adempimento (c.d. « datio in solutum »). .....
La cooperazione del creditore nell’adempimento e la mora credendi .
419
420
421
424
424
426
427
428
430
II. I MODI DI ESTINZIONE DIVERSI DALL’ADEMPIMENTO
224.
225.
226.
227.
228.
La compensazione. ................................................................................
La confusione. .......................................................................................
La novazione.........................................................................................
La remissione. .......................................................................................
L’impossibilità sopravvenuta. ...............................................................
433
435
435
437
438
CAPITOLO XXI
L’INADEMPIMENTO E LA MORA
229. L’inadempimento. .................................................................................
230. La responsabilità contrattuale. .............................................................
231. Il danno risarcibile. ...............................................................................
231-bis. Inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di valuta e danno
risarcibile...............................................................................................
232. La mora del debitore. ...........................................................................
233. Effetti del ritardo ed effetti della mora debendi ...................................
234. Differenza di effetti tra mora debendi e mora credendi .......................
442
443
449
453
456
458
459
CAPITOLO XXII
LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DEL DEBITORE
235. Nozione. ................................................................................................
236. Concorso di creditori e cause legittime di prelazione. ...........................
236-bis. Procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. .........
460
461
462
CAPITOLO XXIII
LE CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE
A) IL PRIVILEGIO
237. Il privilegio. ..........................................................................................
468
B) PEGNO ED IPOTECA: CARATTERI GENERALI E COMUNI
238. Nozione. ................................................................................................
239. Pegno ed ipoteca: differenze. ................................................................
470
471
XVI
Manuale di diritto privato
240. Il patto commissorio. ............................................................................
472
C) IL PEGNO
241. Nozione. ................................................................................................
242. Costituzione...........................................................................................
243. Effetti. ..................................................................................................
244. Pegno mobiliare non possessorio. ..........................................................
244-bis. Pegno irregolare.................................................................................
475
476
478
479
481
D) L’IPOTECA
245. Nozione. ................................................................................................
246. Oggetto dell’ipoteca. .............................................................................
247. Ipoteca legale. .......................................................................................
248. Ipoteca giudiziale. .................................................................................
249. Ipoteca volontaria.................................................................................
250. La pubblicità ipotecaria........................................................................
251. L’iscrizione. ...........................................................................................
252. L’annotazione........................................................................................
253. La rinnovazione. ...................................................................................
254. La cancellazione. ...................................................................................
254-bis. Esecuzione sui beni ipotecati.............................................................
255. Il terzo acquirente del bene ipotecato. .................................................
256. Il terzo datore d’ipoteca. ......................................................................
257. Estinzione dell’ipoteca. .........................................................................
482
484
485
486
487
488
490
491
491
492
493
494
495
495
CAPITOLO XXIV
I MEZZI DI CONSERVAZIONE DELLA GARANZIA PATRIMONIALE
258. Premessa. ..............................................................................................
259. L’azione surrogatoria. ...........................................................................
260. L’azione revocatoria..............................................................................
261. Effetti dell’azione revocatoria...............................................................
261-bis. La c.d. « azione revocatoria sommaria » di atti a titolo gratuito .....
262. Il sequestro conservativo. .....................................................................
263. Il diritto di ritenzione. ..........................................................................
497
497
500
503
504
505
506
I CONTRATTI IN GENERALE
CAPITOLO XXV
IL CONTRATTO
264. Nozioni introduttive. Il contratto come atto di autonomia dei privati..
265. Centralità sistematica della disciplina legale del contratto...................
266. Elementi essenziali del contratto. .........................................................
511
514
517
Indice sommario
267. Classificazione dei contratti...................................................................
XVII
518
CAPITOLO XXVI
LE TRATTATIVE E LA CONCLUSIONE DEL CONTRATTO
268.
269.
270.
271.
272.
273.
274.
La formazione del contratto. La proposta e l’accettazione. .................
La revoca della proposta e dell’accettazione. .......................................
L’offerta al pubblico. ............................................................................
Il contratto aperto all’adesione.............................................................
Le trattative. Il dovere di buona fede. .................................................
La responsabilità precontrattuale (culpa in contrahendo). ....................
Le condizioni generali di contratto (contratti « standard » o per adesione). I contratti del consumatore: rinvio................................................
521
525
528
529
529
532
534
CAPITOLO XXVII
I VIZI DELLA VOLONTÀ
A) IL PROBLEMA IN GENERALE
275. Problemi del consenso negoziale. Incapacità di agire e vizi della
volontà. .................................................................................................
276. Volontà e dichiarazione. La teoria dell’affidamento. ............................
538
538
B) ERRORE
277.
278.
279.
280.
Errore ostativo ed errore-vizio..............................................................
Condizioni di rilevanza dell’errore. .......................................................
Essenzialità dell’errore. .........................................................................
Riconoscibilità dell’errore. ....................................................................
541
542
542
545
C) DOLO
281. Dolo determinante ed incidente. Gli obblighi di informazione. ............
282. Rapporti tra il dolo vizio della volontà e la nozione generale di dolo. .
546
550
D) VIOLENZA
283. Nozione. Violenza psichica e violenza fisica..........................................
284. Violenza e stato di pericolo...................................................................
285. Requisiti della violenza.........................................................................
550
552
552
CAPITOLO XXVIII
LA FORMA DEL CONTRATTO
286. La forma del contratto. ........................................................................
287. Le forme convenzionali. ........................................................................
554
559
XVIII
Manuale di diritto privato
CAPITOLO XXIX
LA RAPPRESENTANZA
288.
289.
290.
291.
292.
293.
294.
295.
296.
297.
Nozione. ................................................................................................
Rappresentanza diretta e indiretta.......................................................
Negozi per i quali è esclusa la rappresentanza. ....................................
Fonti della rappresentanza. ..................................................................
La procura. ...........................................................................................
Vizi della volontà e stati soggettivi nel negozio rappresentativo. ........
Il conflitto d’interessi tra rappresentante e rappresentato. ..................
Rappresentanza senza potere................................................................
La gestione di affari altrui. ...................................................................
Il contratto per persona da nominare...................................................
561
562
563
563
564
567
568
570
572
573
CAPITOLO XXX
IL CONTRATTO PRELIMINARE ED I VINCOLI A CONTRARRE
298.
299.
300.
301.
302.
Il contratto preliminare. .......................................................................
La trascrivibilità del contratto preliminare. Rinvio. ............................
La tutela degli acquirenti di immobili da costruire. .............................
L’opzione...............................................................................................
La prelazione.........................................................................................
576
580
582
583
584
CAPITOLO XXXI
L’OGGETTO DEL CONTRATTO
303. I requisiti dell’oggetto. Oggetto e contenuto. .......................................
304. La determinazione dell’oggetto ad opera di un terzo. ..........................
587
589
CAPITOLO XXXII
LA CAUSA DEL CONTRATTO
305.
306.
307.
308.
309.
310.
Nozione. ................................................................................................
Negozi astratti. .....................................................................................
Mancanza della causa............................................................................
L’illiceità della causa.............................................................................
I motivi. ................................................................................................
Il contratto in frode alla legge. .............................................................
591
595
596
597
599
600
CAPITOLO XXXIII
L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
311. Le regole legislative di ermeneutica......................................................
602
CAPITOLO XXXIV
GLI EFFETTI DEL CONTRATTO
312. La forza vincolante del contratto. Lo scioglimento convenzionale e il
recesso. ..................................................................................................
605
313.
314.
315.
316.
317.
318.
319.
Indice sommario
XIX
Gli effetti tra le parti. L’integrazione. ..................................................
I contratti ad effetti reali e ad effetti obbligatori.................................
Conflitti tra acquirenti di diritti sullo stesso oggetto............................
La clausola penale e la caparra.............................................................
Effetti del contratto rispetto ai terzi. ...................................................
Il contratto a favore di terzi.................................................................
La cessione del contratto. .....................................................................
605
608
610
611
614
615
617
CAPITOLO XXXV
GLI ELEMENTI ACCIDENTALI DEL CONTRATTO
A) NOZIONI GENERALI
320. Gli elementi accidentali.........................................................................
620
B) LA CONDIZIONE
321.
322.
323.
324.
Definizione. ...........................................................................................
Illiceità e impossibilità della condizione. ..............................................
Pendenza della condizione. ...................................................................
Avveramento della condizione. .............................................................
620
622
624
625
C) IL TERMINE
325. Natura...................................................................................................
326. Effetti del termine. ...............................................................................
627
628
D) IL MODO
327. Natura...................................................................................................
328. Modo impossibile o illecito. ...................................................................
329. Adempimento del modo. .......................................................................
629
631
631
CAPITOLO XXXVI
LA MANCANZA DI VOLONTÀ E LA SIMULAZIONE
330. Il problema in generale. Dichiarazioni a scopo rappresentativo o didattico; scherzo; riserva mentale; violenza fisica........................................
331. La simulazione. Nozione. ......................................................................
332. Simulazione assoluta e relativa. ............................................................
333. Effetti della simulazione tra le parti.....................................................
334. Effetti della simulazione rispetto ai terzi..............................................
335. Effetti della simulazione nei confronti dei creditori. ............................
336. La prova della simulazione. ..................................................................
337. Negozio indiretto e negozio fiduciario. Il trust .....................................
633
634
635
637
639
641
643
645
XX
Manuale di diritto privato
CAPITOLO XXXVII
INVALIDITÀ ED INEFFICACIA DEL CONTRATTO
A) IL PROBLEMA GENERALE
338. Invalidità ed inefficacia. .......................................................................
650
B) LA NULLITÀ
339.
340.
341.
342.
343.
344.
La categoria della nullità. .....................................................................
Le cause di nullità del contratto...........................................................
Nullità parziale e sostituzione di clausole. ............................................
L’azione di nullità. ................................................................................
La conversione del contratto nullo. ......................................................
Conseguenze della nullità. .....................................................................
652
653
655
656
659
661
C) L’ANNULLABILITÀ
345. Le cause e la disciplina dell’annullabilità. ............................................
346. Effetti dell’annullamento. .....................................................................
347. La convalida. ........................................................................................
662
665
666
CAPITOLO XXXVIII
LA RESCISSIONE E LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO
348.
349.
350.
351.
352.
353.
354.
355.
356.
357.
Rescissione del contratto concluso in istato di pericolo........................
L’azione generale di rescissione per lesione...........................................
L’azione di risoluzione per inadempimento. .........................................
La risoluzione di diritto. .......................................................................
Eccezione di inadempimento. ...............................................................
Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti. .....................
La clausola solve et repete. .....................................................................
La risoluzione per impossibilità sopravvenuta......................................
La risoluzione per eccessiva onerosità...................................................
La presupposizione................................................................................
668
669
671
675
678
679
679
680
682
684
I SINGOLI CONTRATTI
CAPITOLO XXXIX
DAI CONTRATTI DEL CONSUMATORE
AL DIRITTO DEL CONSUMATORE
358. Premessa. La genesi e le ragioni del diritto dei consumatori................
359. I soggetti: il « consumatore » ed il « professionista ». La tutela del
contraente debole nei rapporti fra imprenditori. ..................................
691
694
Indice sommario
360. L’« educazione del consumatore »; gli obblighi di informazione, la comunicazione pubblicitaria e la promozione commerciale......................
361. I contratti del consumatore e le clausole vessatorie. ............................
361-bis. L’informazione precontrattuale nella novella del 2014. ....................
362. I contratti negoziati fuori dai locali commerciali e i contratti a distanza.
Il « commercio elettronico ». La commercializzazione a distanza di
servizi finanziari. ...................................................................................
363. Singoli contratti del consumatore: multiproprietà e prestazione di
servizi turistici. .....................................................................................
363-bis. Il credito al consumo.........................................................................
364. Tutele speciali: azioni inibitorie e azione collettiva risarcitoria. ...........
XXI
696
698
702
704
708
709
711
CAPITOLO XL
CONTRATTI TIPICI E ATIPICI
365. I singoli contratti e la relativa disciplina..............................................
366. Classificazioni dei singoli contratti. .......................................................
715
716
CAPITOLO XLI
LA COMPRAVENDITA
367.
368.
369.
370.
371.
372.
373.
374.
375.
376.
377.
378.
Definizione. ...........................................................................................
Vendita ad effetti reali e vendita obbligatoria......................................
Forma e pubblicità della vendita..........................................................
Obbligazioni del venditore. ...................................................................
La garanzia per evizione. ......................................................................
La garanzia per i vizi. ...........................................................................
Le obbligazioni del compratore.............................................................
La vendita con patto di riscatto. ..........................................................
Vendita di cose mobili. .........................................................................
La vendita di beni di consumo. ............................................................
La vendita con riserva di proprietà. .....................................................
Vendita immobiliare. ............................................................................
717
718
719
720
721
723
726
727
728
730
734
735
CAPITOLO XLII
GLI ALTRI CONTRATTI DI SCAMBIO
CHE REALIZZANO UN DO UT DES
379. La permuta. ..........................................................................................
380. I contratti di borsa e l’intermediazione finanziaria. La vendita a
termine di titoli di credito. ...................................................................
381. Il riporto. ..............................................................................................
382. Il contratto estimatorio.........................................................................
383. La somministrazione. ............................................................................
738
738
744
744
746
CAPITOLO XLIII
I CONTRATTI DI SCAMBIO CHE REALIZZANO UN DO UT FACIAS
384. La locazione e l’affitto. .........................................................................
748
XXII
Manuale di diritto privato
385. La locazione di immobili urbani. ..........................................................
386. Il leasing e i contratti di godimento in funzione della successiva
alienazione di immobili (c.d. rent to buy) ..............................................
387. L’appalto...............................................................................................
387-bis. Il contratto d’opera. La prestazione d’opera intellettuale. I contratti
di scambio che realizzano un do ut facias ............................................
388. La subfornitura. ....................................................................................
389. Il contratto di trasporto. ......................................................................
751
756
761
767
770
772
CAPITOLO XLIV
I CONTRATTI DI COOPERAZIONE NELL’ALTRUI ATTIVITÀ GIURIDICA
390.
391.
392.
393.
394.
395.
396.
Il mandato. ...........................................................................................
La commissione.....................................................................................
Il contratto di spedizione......................................................................
Il contratto di agenzia. .........................................................................
Il contratto di affiliazione commerciale (franchising). ..........................
La mediazione. ......................................................................................
Le « vendite piramidali ». ......................................................................
777
781
782
783
787
789
791
CAPITOLO XLV
I PRINCIPALI CONTRATTI REALI
397.
398.
399.
400.
401.
Il deposito regolare. ..............................................................................
Il deposito irregolare. ............................................................................
Il deposito nei magazzini generali.........................................................
Il comodato...........................................................................................
Il mutuo................................................................................................
793
795
795
796
798
CAPITOLO XLVI
I CONTRATTI BANCARI
402.
403.
404.
405.
406.
407.
Le operazioni di banca. Le regole generali sui contratti bancari..........
Il conto corrente e le operazioni bancarie in conto corrente. ...............
Il deposito bancario. .............................................................................
I prestiti alla clientela...........................................................................
Il contratto di sconto. ...........................................................................
Cassette di sicurezza. ............................................................................
803
805
807
808
809
810
CAPITOLO XLVII
I CONTRATTI ALEATORI
A) LA RENDITA
408. La nozione di rendita............................................................................
409. La rendita perpetua. .............................................................................
410. La rendita vitalizia. ..............................................................................
812
812
813
Indice sommario
XXIII
B) LE ASSICURAZIONI
411.
412.
413.
414.
Il contratto e l’impresa di assicurazione. ..............................................
La conclusione del contratto.................................................................
L’assicurazione contro i danni. .............................................................
L’assicurazione della responsabilità civile. Le assicurazioni obbligatorie .........................................................................................................
415. L’assicurazione sulla vita. .....................................................................
416. La riassicurazione..................................................................................
814
816
817
818
821
822
C) GIUOCO E SCOMMESSA
417. Natura...................................................................................................
822
CAPITOLO XLVIII
I CONTRATTI DIRETTI A COSTITUIRE UNA GARANZIA
418.
419.
420.
421.
La fideiussione. Il mandato di credito. Le « lettere di patronage ». .......
La fideiussione omnibus. La fideiussione per obbligazione futura.........
La c.d. garanzia « a prima richiesta ». ...................................................
L’anticresi. ............................................................................................
824
827
828
830
CAPITOLO XLIX
I CONTRATTI DIRETTI A DIRIMERE UNA CONTROVERSIA
422. La transazione.......................................................................................
423. La cessione dei beni ai creditori............................................................
831
833
CAPITOLO L
I CONTRATTI AGRARI
424. L’affitto di fondi rustici. .......................................................................
425. I contratti soggetti a conversione in affitto: la mezzadria; la colonìa
parziaria; la soccida...............................................................................
835
837
LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DA ATTI UNILATERALI
CAPITOLO LI
LE PROMESSE UNILATERALI
A) TIPICITÀ DELLE PROMESSE UNILATERALI
426. Nozioni generali. ...................................................................................
841
XXIV
Manuale di diritto privato
B) PROMESSA DI PAGAMENTO E RICOGNIZIONE DI DEBITO
427. Nozione e disciplina. .............................................................................
842
C) PROMESSA AL PUBBLICO
428. Nozione e disciplina. .............................................................................
845
D) I TITOLI DI CREDITO
429.
430.
431.
432.
433.
434.
435.
Nozione. ................................................................................................
Titoli al portatore, all’ordine e nominativi. ..........................................
Gestione accentrata e dematerializzazione dei titoli di credito.............
Titoli rappresentativi, titoli di partecipazione. .....................................
Caratteristiche del titolo di credito. ......................................................
Eccezioni opponibili dal debitore..........................................................
L’ammortamento dei titoli di credito all’ordine e nominativi. .............
846
848
849
850
851
852
853
CAPITOLO LII
LA CAMBIALE
436.
437.
438.
439.
440.
441.
442.
443.
444.
445.
446.
Nozione. ................................................................................................
Caratteristiche del rapporto cambiario. ................................................
Requisiti del negozio cambiario. ...........................................................
Capacità e rappresentanza nel negozio cambiario.................................
La cambiale in bianco...........................................................................
L’accettazione della tratta. ...................................................................
La girata. ..............................................................................................
L’avallo. ................................................................................................
Il pagamento.........................................................................................
L’azione cambiaria. ...............................................................................
Eccezioni cambiarie. .............................................................................
855
856
858
859
860
861
862
864
865
866
869
CAPITOLO LIII
GLI ASSEGNI
447. Caratteristiche generali. ........................................................................
448. L’assegno bancario. ...............................................................................
449. L’assegno circolare. ...............................................................................
871
872
874
LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE
CAPITOLO LIV
OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE
450. Premessa. ..............................................................................................
879
Indice sommario
451. La gestione di affari. .............................................................................
452. La ripetizione di indebito......................................................................
453. L’ingiustificato arricchimento. ..............................................................
XXV
879
880
883
LE OBBLIGAZIONI NASCENTI
DA ATTO ILLECITO
CAPITOLO LV
LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE
454. Nozione. ................................................................................................
455. Il fatto...................................................................................................
456. L’illiceità del fatto. ...............................................................................
457. Le cause di giustificazione.....................................................................
458. L’imputabilità del fatto. .......................................................................
459. Il dolo e la colpa. ..................................................................................
460. La responsabilità oggettiva...................................................................
461. Tra responsabilità « aggravata » e responsabilità oggettiva. .................
462. Il nesso di causalità...............................................................................
463. Il danno cagionato da più soggetti. ......................................................
464. Il concorso del fatto colposo del danneggiato. ......................................
465. La responsabilità per fatto altrui..........................................................
466. Il danno. ...............................................................................................
467. Il danno patrimoniale. ..........................................................................
468. Il danno non patrimoniale. ...................................................................
469. Risarcimento per equivalente e risarcimento in forma specifica...........
470. La prescrizione. .....................................................................................
471. La responsabilità per danno ambientale. ..............................................
472. La responsabilità per danno da prodotto difettoso...............................
472-bis. La responsabilità medica...................................................................
473. Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale. ..........
474. Il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. ..........
887
888
889
895
900
902
904
907
915
917
919
920
927
934
936
944
945
947
949
952
957
960
L’IMPRESA
CAPITOLO LVI
L’IMPRESA E L’AZIENDA
475.
476.
477.
478.
479.
L’iniziativa economica privata. ............................................................
L’imprenditore. .....................................................................................
Imprenditore, lavoratore autonomo, professionista intellettuale..........
Tipologie di imprenditori. .....................................................................
Imprenditore agricolo e imprenditore commerciale. .............................
965
967
969
970
971
XXVI
Manuale di diritto privato
480. Il piccolo imprenditore..........................................................................
480-bis. Le piccole, medie e micro-imprese.....................................................
481. Impresa individuale e impresa collettiva. .............................................
482. L’impresa sociale...................................................................................
483. L’impresa pubblica. ..............................................................................
974
975
976
977
979
CAPITOLO LVII
LO STATUTO GENERALE DELL’IMPRENDITORE
484.
485.
486.
487.
488.
489.
490.
491.
492.
493.
Il registro delle imprese. ....................................................................... 982
Vicende dell’azienda.............................................................................. 984
I segni distintivi.................................................................................... 987
Le invenzioni industriali. ...................................................................... 993
Le opere dell’ingegno. ........................................................................... 999
La tutela della libertà di concorrenza................................................... 1001
La concorrenza sleale. ........................................................................... 1005
La pubblicità commerciale.................................................................... 1006
I consorzi e le società consortili. ........................................................... 1008
Il Gruppo europeo di interesse economico. ........................................... 1011
CAPITOLO LVIII
LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE
494. La capacità necessaria per l’esercizio dell’impresa commerciale........... 1014
495. Figure tipiche di rappresentanti. .......................................................... 1015
496. Le scritture contabili. ........................................................................... 1016
CAPITOLO LIX
IL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO
497.
498.
499.
500.
501.
502.
503.
Lavoro subordinato e lavoro autonomo................................................ 1019
I sindacati e la contrattazione collettiva. ............................................. 1021
Lo sciopero............................................................................................ 1024
Lo Statuto dei lavoratori. ..................................................................... 1026
Diritti ed obblighi delle parti................................................................ 1028
Durata ed estinzione del rapporto di lavoro. ........................................ 1031
Indisponibilità dei diritti dei lavoratori................................................ 1035
CAPITOLO LX
L’IMPRESA COLLETTIVA
504. La società.............................................................................................. 1037
505. La c.d. responsabilità amministrativa della società. ............................. 1040
506. L’associazione in partecipazione. .......................................................... 1042
507. Accordi di joint venture. Raggruppamento temporaneo di imprese. ..... 1043
507-bis. Contratto di rete................................................................................ 1044
508. I fondi comuni di investimento e le altre figure di gestione collettiva del
risparmio. .............................................................................................. 1046
Indice sommario
XXVII
509. Categorie di società. .............................................................................. 1048
510. Capacità e partecipazione a società. ..................................................... 1051
511. Nazionalità delle società. ...................................................................... 1051
CAPITOLO LXI
LE SOCIETÀ DI PERSONE
A) LA SOCIETÀ SEMPLICE
512. Principi fondamentali. .......................................................................... 1053
513. Scioglimento e liquidazione................................................................... 1055
514. Società di fatto, società apparente, società occulta. ............................. 1058
B) LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO
515. Principi fondamentali. .......................................................................... 1059
C) LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE
516. La società in accomandita: principi fondamentali. ............................... 1061
517. La società in accomandita semplice...................................................... 1062
CAPITOLO LXII
LE SOCIETÀ DI CAPITALI
A) LA SOCIETÀ PER AZIONI
518.
519.
520.
521.
522.
523.
524.
525.
526.
527.
528.
529.
530.
531.
532.
533.
534.
535.
536.
537.
538.
L’autonomia patrimoniale..................................................................... 1064
I diversi modelli normativi di società per azioni. ................................. 1066
La costituzione...................................................................................... 1067
La nullità delle società. ......................................................................... 1069
I patti parasociali.................................................................................. 1071
Le azioni. .............................................................................................. 1073
La circolazione della partecipazione azionaria...................................... 1075
Recesso del socio. .................................................................................. 1077
Modelli organizzativi. ............................................................................ 1078
Il « sistema tradizionale ». ..................................................................... 1078
L’assemblea nel « sistema tradizionale ». ............................................... 1079
L’invalidità delle deliberazioni assembleari. ......................................... 1081
Gli amministratori nel « sistema tradizionale »...................................... 1082
La responsabilità degli amministratori. ................................................ 1085
Il collegio sindacale nel « sistema tradizionale ». ................................... 1087
Il revisore legale dei conti nel « sistema tradizionale ». ......................... 1088
Il « sistema dualistico ». ......................................................................... 1090
Il « sistema monistico ». ......................................................................... 1091
I patrimoni destinati ad uno specifico affare. ....................................... 1092
Le obbligazioni...................................................................................... 1093
Gli strumenti finanziari partecipativi. .................................................. 1095
XXVIII
Manuale di diritto privato
539. Il bilancio d’esercizio. ........................................................................... 1096
540. Il bilancio consolidato. .......................................................................... 1100
B) LA SOCIETÀ EUROPEA
541. Nozione e disciplina. ............................................................................. 1102
C) LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA PER AZIONI
542. Nozione e disciplina. ............................................................................. 1104
D) LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA
543. L’autonomia patrimoniale..................................................................... 1104
544. La costituzione...................................................................................... 1105
545. Le quote di partecipazione. .................................................................. 1106
546. I titoli di debito. ................................................................................... 1108
547. L’organizzazione. .................................................................................. 1109
548. Le decisioni dei soci. ............................................................................. 1109
549. L’amministrazione. ............................................................................... 1111
550. I controlli. ............................................................................................. 1113
550-bis. La società a responsabilità limitata « semplificata ». ......................... 1113
E) DIREZIONE E COORDINAMENTO DI SOCIETÀ
551. Nozione e disciplina. ............................................................................. 1114
F) TRASFORMAZIONE, FUSIONE E SCISSIONE
552. La trasformazione. ................................................................................ 1117
553. La fusione. ............................................................................................ 1119
554. La scissione. .......................................................................................... 1121
G) SCIOGLIMENTO E LIQUIDAZIONE
555. L’estinzione della società. ..................................................................... 1121
CAPITOLO LXIII
LA SOCIETÀ COOPERATIVA
556. Nozione e disciplina. ............................................................................. 1125
CAPITOLO LXIV
LE PROCEDURE CONCORSUALI
557. Caratteristiche generali. ........................................................................ 1129
A) IL FALLIMENTO
558. Gli imprenditori soggetti a fallimento................................................... 1131
Indice sommario
XXIX
559. Presupposti oggettivi del fallimento. .................................................... 1132
560. Fasi ed organi della procedura.............................................................. 1133
561. Effetti della dichiarazione di fallimento: a) effetti per il debitore
fallito..................................................................................................... 1135
562. Effetti della dichiarazione di fallimento: b) effetti per i creditori......... 1138
563. La revocatoria fallimentare................................................................... 1139
564. Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti. ...................... 1145
565. Il fallimento delle società commerciali.................................................. 1147
566. Chiusura del fallimento. ........................................................................ 1149
567. Chiusura del fallimento per concordato. ............................................... 1150
568. Approvazione ed omologazione del concordato. ................................... 1152
569. Efficacia del concordato omologato. ..................................................... 1152
B) IL CONCORDATO PREVENTIVO
570.
571.
572.
573.
Presupposti soggettivi ed oggettivi....................................................... 1153
La domanda di concordato preventivo. ................................................ 1153
Approvazione ed omologazione del concordato preventivo. ................. 1156
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. ............................................. 1158
C) LA LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA
574. Presupposti e disciplina. ....................................................................... 1159
D) L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA DELLE GRANDI IMPRESE IN STATO DI INSOLVENZA
575. Presupposti e disciplina. ....................................................................... 1160
E) LA RISTRUTTURAZIONE INDUSTRIALE DI GRANDI IMPRESE IN STATO DI INSOLVENZA
576. Presupposti e disciplina. ....................................................................... 1164
I RAPPORTI DI FAMIGLIA
CAPITOLO LXV
TRASFORMAZIONI SOCIALI E DIRITTO DI FAMIGLIA
577. La famiglia e il diritto........................................................................... 1171
578. Famiglia « legittima » e famiglia « di fatto »........................................... 1174
CAPITOLO LXVI
MATRIMONIO: LA FORMAZIONE DEL VINCOLO
A) IL MATRIMONIO CIVILE
579. Nozioni generali. ................................................................................... 1176
XXX
580.
581.
582.
583.
584.
Manuale di diritto privato
La promessa di matrimonio. ................................................................. 1177
Capacità e impedimenti. ....................................................................... 1179
Pubblicazione e celebrazione................................................................. 1181
Invalidità del matrimonio..................................................................... 1183
Il matrimonio putativo. ........................................................................ 1189
B) IL MATRIMONIO CONCORDATARIO
E IL MATRIMONIO CELEBRATO DAVANTI A MINISTRI DI ALTRI CULTI
585. Nozioni generali. ................................................................................... 1191
586. Le modalità per il riconoscimento dell’efficacia civile del matrimonio
canonico. ............................................................................................... 1192
587. La trascrizione del matrimonio canonico. ............................................. 1193
588. La giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale......................... 1195
589. Il matrimonio celebrato davanti a ministro di un culto acattolico. ..... 1199
CAPITOLO LXVII
IL MATRIMONIO: IL REGIME DEL VINCOLO
590. Diritti e doveri personali dei coniugi. ................................................... 1201
591. La crisi della coppia. La separazione personale dei coniugi. Le convenzioni di negoziazione assistita e la separazione innanzi all’ufficiale dello
stato civile............................................................................................. 1205
592. Lo scioglimento del matrimonio. Il divorzio......................................... 1211
593. I provvedimenti riguardo ai figli nella crisi della coppia (separazione,
divorzio, cessazione della convivenza, invalidità del matrimonio). L’affidamento condiviso. ............................................................................. 1216
CAPITOLO LXVIII
IL REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA
594. Princìpi generali. ................................................................................... 1222
595. L’obbligo di contribuzione per il soddisfacimento dei bisogni della
famiglia. ................................................................................................ 1223
596. Regime patrimoniale legale. Le convenzioni matrimoniali. .................. 1224
597. La comunione legale. ............................................................................ 1226
598. Scioglimento della comunione. .............................................................. 1231
599. Comunione convenzionale. .................................................................... 1233
600. La separazione dei beni......................................................................... 1234
601. Il fondo patrimoniale. ........................................................................... 1235
602. L’impresa familiare. .............................................................................. 1237
603. La dote.................................................................................................. 1239
CAPITOLO LXIX
LA FILIAZIONE
604. La filiazione. L’unicità dello status di figlio dopo la Legge 10 dicembre
2012, n. 219. .......................................................................................... 1240
Indice sommario
XXXI
605. I figli nati nel matrimonio. ................................................................... 1243
606. La prova della filiazione........................................................................ 1244
607. L’azione di disconoscimento della paternità del figlio nato nel matrimonio. Le azioni di reclamo e di contestazione dello stato di figlio. .... 1246
608. Il riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio. ........................... 1249
609. La dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità. .............. 1254
610. I figli nati da genitori legati tra loro da relazione di parentela o affinità.. 1256
611. La condizione giuridica dei figli nati fuori del matrimonio: l’esercizio
delle funzioni genitoriali, il cognome del figlio e il suo inserimento nella
famiglia del genitore.............................................................................. 1259
612. La procreazione medicalmente assistita................................................ 1261
CAPITOLO LXX
LA RESPONSABILITÀ GENITORIALE E LA TUTELA DEI MINORI
613. Rapporti tra genitori e figli. La responsabilità genitoriale e i diritti e
doveri del figlio. .................................................................................... 1267
614. La tutela dei minori. ............................................................................. 1271
CAPITOLO LXXI
L’ADOZIONE
615.
616.
617.
618.
619.
L’adozione. Premesse. ........................................................................... 1273
L’adozione dei minori. .......................................................................... 1274
L’adozione internazionale. .................................................................... 1279
L’affidamento di minori. ....................................................................... 1281
L’adozione di persone maggiori di età. ................................................. 1283
CAPITOLO LXXII
L’OBBLIGAZIONE DEGLI ALIMENTI
620. Fondamento e natura. .......................................................................... 1286
621. Ordine tra gli obbligati. ........................................................................ 1287
622. L’obbligazione volontaria degli alimenti............................................... 1288
CAPITOLO LXXII-BIS
LE UNIONI CIVILI E LE CONVIVENZE
622-bis. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso.................................... 1290
622-ter. La disciplina legale delle convivenze................................................. 1296
XXXII
Manuale di diritto privato
LA SUCCESSIONE PER CAUSA DI MORTE
CAPITOLO LXXIII
PRINCIPI GENERALI
623.
624.
625.
626.
627.
628.
629.
630.
631.
632.
Premesse. .............................................................................................. 1305
Eredità e legato..................................................................................... 1308
Apertura della successione. ................................................................... 1312
Vocazione e delazione ereditaria. I patti successori.............................. 1313
Giacenza dell’eredità. ............................................................................ 1315
La capacità di succedere. ...................................................................... 1317
L’indegnità............................................................................................ 1318
La rappresentazione.............................................................................. 1321
L’accrescimento. ................................................................................... 1323
Le sostituzioni....................................................................................... 1325
CAPITOLO LXXIV
L’ACQUISTO DELL’EREDITÀ E LA RINUNCIA
633. L’accettazione dell’eredità. La trasmissione del diritto di accettare
l’eredità. La vendita di eredità. ............................................................ 1328
634. Accettazione con beneficio d’inventario................................................ 1335
635. La separazione del patrimonio del defunto........................................... 1338
636. L’azione di petizione ereditaria............................................................. 1340
637. Gli acquisti dall’erede apparente. ......................................................... 1342
638. La rinuncia all’eredità........................................................................... 1343
CAPITOLO LXXV
LA SUCCESSIONE LEGITTIMA
639. Fondamento e presupposto................................................................... 1346
640. Le categorie di successibili. ................................................................... 1346
641. La successione dello Stato..................................................................... 1350
CAPITOLO LXXVI
LA SUCCESSIONE NECESSARIA
642.
643.
644.
645.
646.
647.
648.
Fondamento e natura. .......................................................................... 1352
Categorie di legittimari. ........................................................................ 1352
La quota legittima. ............................................................................... 1354
La riunione fittizia. ............................................................................... 1357
L’azione di riduzione............................................................................. 1359
L’azione di restituzione contro gli aventi causa dai donatari. .............. 1362
Il patto di famiglia................................................................................ 1365
Indice sommario
XXXIII
CAPITOLO LXXVII
LA SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
649.
650.
651.
652.
653.
654.
655.
656.
657.
658.
659.
660.
661.
662.
Il testamento......................................................................................... 1369
Il testamento come negozio giuridico. .................................................. 1370
Gli elementi accidentali del testamento. ............................................... 1375
Forme del testamento. .......................................................................... 1377
Il testamento olografo........................................................................... 1377
Il testamento pubblico.......................................................................... 1380
Il testamento segreto. ........................................................................... 1381
Il testamento « internazionale ». ............................................................ 1383
Testamenti speciali. .............................................................................. 1384
Invalidità del testamento per vizio di forma. ....................................... 1384
Sanatoria del testamento nullo. ............................................................ 1385
La revoca del testamento...................................................................... 1385
La pubblicazione del testamento. ......................................................... 1387
L’esecuzione del testamento. ................................................................ 1388
CAPITOLO LXXVIII
IL LEGATO
663. Nozione. ................................................................................................ 1390
664. Acquisto del legato................................................................................ 1392
665. Tipi particolari di legati. ....................................................................... 1392
CAPITOLO LXXIX
LA DIVISIONE DELL’EREDITÀ
666.
667.
668.
669.
670.
671.
672.
673.
674.
La comunione ereditaria. Il retratto successorio. ................................. 1395
La divisione........................................................................................... 1396
Natura della divisione........................................................................... 1397
La divisione contrattuale. ..................................................................... 1398
La divisione giudiziale. ......................................................................... 1399
Divisione fatta dal testatore. ................................................................ 1400
I debiti e i crediti ereditari. .................................................................. 1401
La garanzia per evizione. ...................................................................... 1402
La collazione. ........................................................................................ 1402
CAPITOLO LXXX
LA DONAZIONE
675.
676.
677.
678.
679.
680.
Il contratto di donazione. ..................................................................... 1406
Donazione, negozi gratuiti, liberalità non donative.............................. 1408
La donazione indiretta.......................................................................... 1409
Requisiti e disciplina............................................................................. 1412
Invalidità della donazione..................................................................... 1417
La revoca della donazione..................................................................... 1418
XXXIV
Manuale di diritto privato
LA PUBBLICITÀ IMMOBILIARE
CAPITOLO LXXXI
LA TRASCRIZIONE
681. Premessa. .............................................................................................. 1423
682. La funzione della trascrizione e il principio del consenso traslativo..... 1423
683. La natura dichiarativa della trascrizione. Altri profili di efficacia della
trascrizione............................................................................................ 1427
684. La nozione di « terzo » nel sistema della trascrizione. ........................... 1430
685. L’impostazione dei registri immobiliari nel codice civile. ..................... 1430
686. Il principio della continuità delle trascrizioni. ...................................... 1432
687. Atti soggetti a trascrizione.................................................................... 1433
688. Trascrizione degli acquisti mortis causa ............................................... 1435
689. Altre funzioni della trascrizione. ........................................................... 1436
690. La trascrizione degli « atti di destinazione » e degli atti costitutivi di
vincoli pubblici...................................................................................... 1437
691. La trascrizione delle domande giudiziali............................................... 1441
691-bis. La trascrizione del contratto preliminare. L’effetto prenotativo. ..... 1444
692. L’annotazione........................................................................................ 1446
693. Modalità per eseguire la trascrizione. La trascrizione relativa a beni
mobili registrati..................................................................................... 1447
Indice analitico-alfabetico ................................................................................ 1449
NOZIONI PRELIMINARI
CAPITOLO I
L’ORDINAMENTO GIURIDICO
§ 1.
L’ordinamento giuridico.
Ogni società, ogni comunità umana stabile non può vivere
senza un complesso di regole che disciplinino i rapporti tra gli
individui (ubi societas, ibi ius) e senza apparati che s’incarichino di
farle osservare.
L’uomo è per sua natura portato a cercare l’aiuto e la collabo- Socialità del
razione dei suoi simili. La cooperazione tra gli uomini rende realiz- diritto
zabili risultati che sarebbero irraggiungibili per il singolo e assicura il
soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi.
Non qualsiasi forma di aggregazione umana, però, dà luogo ad Organizzazione
una « societas »; fenomeno che implica la costituzione di un gruppo sociale
organizzato. A tal fine occorrono tre condizioni:
a) che l’agire dei consociati sia disciplinato da regole di condotta,
che governino il comportamento che ogni membro del gruppo deve
osservare (o da cui deve astenersi) per assicurare un’ordinata e
pacifica convivenza, risolvere i conflitti e facilitare la collaborazione
tra i consociati nel perseguimento di scopi comuni;
b) che queste regole siano stabilite e attuate da appositi organi,
ai quali tale compito sia affidato in base a precise regole di struttura o
di competenza o organizzative;
c) che tanto le regole di condotta quanto quelle di struttura
vengano effettivamente osservate (« principio di effettività »). Questo
non implica che sempre e tutte le regole che compongono il sistema
organizzativo del gruppo siano da tutti e in ogni situazione osservate:
è inevitabile che talune regole vengano trasgredite da singoli individui, altre cadano in desuetudine, altre ancora vengano modificate o
diversamente interpretate col passar del tempo. Ma il principio di
effettività segna il limite entro il quale può dirsi che un dato complesso di regole (ordinamento) disciplina un gruppo: se ad un certo
momento (ad es. in seguito ad una rivoluzione) l’organizzazione non
è più in grado di funzionare e di far rispettare le norme che stanno
alla sua base, deve concludersi o che la collettività si è sciolta, ovvero
Nozioni preliminari
4
[§ 2]
che alla sua vita presiede non più la precedente organizzazione, ma
un nuovo sistema di regole. Un ordinamento giuridico è tale, quindi,
in quanto esista una autorità capace di attuarlo, di farne rispettare le
regole; la legittimazione di quell’autorità, e dunque anche dell’insieme di norme che essa esprime e realizza, nei sistemi democratici
deriva dal consenso dei consociati.
Il sistema di regole mediante le quali è organizzata una deterOrdinamento
giuridico
minata collettività e viene disciplinato e diretto (il termine « diritto »
deriva appunto dal latino directus) lo svolgimento della vita sociale
costituisce l’« ordinamento giuridico ». La scelta di questa denominazione tende a porre subito in luce la finalità del fenomeno giuridico,
che è quella di « ordinare » la realtà sociale.
L’ordinamento di una collettività costituisce dunque il suo diritto
in senso oggettivo, quale sistema delle regole che organizzano la vita
sociale; altro è, come diremo, il concetto di diritto soggettivo, da intendersi quale situazione giuridica appartenente ad un determinato individuo (es. il diritto di proprietà di un soggetto su un certo bene).
§ 2.
Società
politica
L’ordinamento giuridico dello Stato e la pluralità
degli ordinamenti giuridici.
Gli uomini danno vita a organizzazioni di vario tipo, per il
perseguimento di fini specifici di differente natura: si pensi ai partiti
politici, ai sindacati o alle organizzazioni culturali, sportive o ricreative, alle confessioni religiose, e via dicendo. Tra tutte le forme di
collettività, importanza preminente assume la società politica:
quella, cioè, che si propone finalità di ordine generale, essendo volta
« alla soddisfazione non già di uno o dell’altro dei vari bisogni dei
consociati, bensì di quello che tutti li precede condizionandone il
conseguimento, e che consiste nell’assicurare i presupposti necessari
affinché le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi
in modo ordinato e pacifico » (Mortati).
L’organizzazione politica, per poter assolvere i propri molteplici
e complessi compiti, finisce necessariamente per assumere una struttura articolata.
In epoca moderna si è verificato un imponente fenomeno di espansione dei compiti pubblici, che non sono più limitati a garantire l’ordinato svolgimento della vita sociale, l’applicazione delle leggi, la sicurezza contro le minacce esterne e la realizzazione di infrastrutture
[§ 2]
L’ordinamento giuridico
5
e servizi essenziali, ma si orientano a creare le condizioni per « il pieno
sviluppo della persona » (come recita l’art. 3 della Costituzione della
Repubblica Italiana), promuovendo lo sviluppo sociale ed erogando
servizi (il c.d. stato sociale) e, per altro verso, intervenendo sotto vari
profili nella vita economica, non soltanto disciplinando l’iniziativa dei
privati — la quale, precisa la Costituzione, « non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana » (art. 42, comma 2, Cost.) — ma anche
assumendo direttamente o indirettamente la gestione di determinate
attività.
Le società politiche hanno assunto forme diversissime nella Lo Stato
storia: dalle comunità primitive alle tribù nomadi, dalla polis agli
imperi, dalla società feudale ai regni, ai comuni, alle signorie e via
dicendo. Oggi è centrale la nozione di Stato, che s’identifica con una
certa comunità di individui (i cittadini di quello Stato, che come tali
si qualificano in base alle regole concernenti l’acquisto e la perdita
della cittadinanza), stanziata in un certo territorio, sul quale si
dispiega la sovranità dello Stato, ed organizzata in base ad un certo
sistema di regole, ossia un ordinamento giuridico.
Oggetto di studio, in questa sede, è essenzialmente il diritto Stato e
vigente nella Repubblica Italiana, ossia il sistema di regole che riceve diritto
forza e attuazione nel territorio italiano o comunque attraverso
l’autorità dello Stato italiano; il diritto, in altri termini, che è vigente
in Italia (anche se le singole regole non nascono necessariamente da
atti degli organi dello Stato, coesistendo plurime fonti del diritto, non
tutte riconducibili all’attività degli apparati dello Stato).
Un ordinamento giuridico si dice originario quando superiorem Sovranità
non recognoscit, ossia quando la sua organizzazione non è soggetta a dello Stato
un controllo di validità da parte di un’altra entità: tale è il caso, oltre
che dei singoli Stati, delle organizzazioni internazionali, della Chiesa
cattolica, della Comunità europea.
Nella prospettiva della pluralità degli ordinamenti giuridici va Pluralità
valutata la soggezione — talvolta volontaria, frutto di una adesione degli
ordinamenti
spontanea del singolo (come nel caso degli ordinamenti sportivi),
talaltra necessaria ed indeclinabile — di ciascun individuo alle regole
di uno od anche di più ordinamenti (si pensi al cittadino di uno Stato
straniero che si trovi in Italia e viceversa; ovvero al cittadino di
religione cattolica, sottoposto, in quanto cittadino, alle leggi della
Repubblica Italiana, e in quanto fedele, all’ordinamento canonico).
Nozioni preliminari
6
§ 3.
[§ 3]
Gli ordinamenti sovranazionali. L’Unione Europea.
Sotto altro profilo, interessa la teoria dell’ordinamento giuridico
anche la partecipazione dell’Italia alla comunità internazionale, soprattutto alla luce dell’assetto dei rapporti internazionali succeduto
alla seconda guerra mondiale, ispirato ad una più intensa collaborazione fra gli Stati per il mantenimento della pace e la diffusione dello
sviluppo economico.
L’art. 10 della Costituzione enuncia il principio per cui « l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute ». Il diritto internazionale, quale
insieme di regole che disciplinano i rapporti fra gli Stati — che, come
si è detto, per loro natura si proclamano « sovrani » e non riconoscono
superiori autorità — è un diritto che ha fonte essenzialmente consuetudinaria, vale a dire trae origine dalla prassi delle relazioni tra gli
Stati, o pattizia, ossia nasce da appositi accordi di carattere bilaterale
o plurilaterale che ciascuno Stato stringe con altri e che si impegna a
rispettare (i trattati internazionali vincolano lo Stato soltanto se sono
ratificati; la ratifica deve essere autorizzata con apposita legge: art. 80
Cost.). Attraverso il richiamo operato dall’art. 10, comma 1, Cost.
anche le norme del diritto internazionale consuetudinario fanno
parte dell’ordinamento giuridico dello Stato.
La Repubblica Italiana è anche parte di organizzazioni interOrganizzazioni
nazionali.
L’art. 11 della Costituzione stabilisce che l’Italia « coninternazionali
sente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo ». Il principio è di particolare importanza, in quanto rende ammissibile la sottoposizione dello Stato alle
regole di un’organizzazione sovranazionale, le cui norme e provvedimenti vincolano l’operatività degli organi dello Stato stesso, con una
conseguente limitazione della « sovranità » dello Stato (che la Costituzione ammette se necessaria a favorire la pace e purché gli altri
Stati aderenti all’ordinamento sovranazionale si sottopongano ad
identiche limitazioni della propria sovranità).
La norma costituzionale era pensata in particolare in vista della
L’Unione
Europea
partecipazione dell’Italia all’Organizzazione delle Nazioni Unite; peraltro ha avuto un’importanza decisiva ai fini del contributo dell’Italia al processo di unificazione dell’Europa.
Infatti l’adesione dell’Italia alle Comunità Europee, a partire
dalla stipulazione del Trattato di Roma del 1957, che ha dato vita
alla Comunità Economica Europea, ha implicato l’accettazione di
L’ordinamento
internazionale
[§ 3]
L’ordinamento giuridico
7
limiti alla sovranità dello Stato, che si è sottoposto, in un numero di
materie via via crescente, alla volontà della maggioranza degli altri
Stati membri o degli organi dell’Unione. Trattando delle fonti del
diritto (§ 16) si avrà modo di verificare come l’adesione al processo di
integrazione europea abbia inciso su di una dimensione particolarmente rilevante della sovranità dello Stato, quale il potere legislativo, poiché gli atti delle istituzioni europee hanno valore di fonte del
diritto nell’ordinamento interno dei singoli Stati.
Il processo di « integrazione europea » è stato lungo e difficoltoso Il processo di
e oggi attraversa una fase estremamente delicata. Partendo dai tre integrazione
iniziali Trattati istitutivi di organismi — la Comunità Europea del
Carbone e dell’Acciaio — CECA (nel 1951), la Comunità Economica
Europea — CEE e la Comunità Europea per l’Energia Atomica —
Euratom (queste ultime nel 1957) — volti principalmente a definire
un’area di libera circolazione delle merci e a coordinare alcune
attività economiche, si è proceduto verso un progressivo allargamento del numero degli Stati aderenti e, soprattutto, verso una
sempre più accentuata prevalenza delle decisioni assunte dagli organi
comunitari sulle determinazioni dei singoli Stati ed una costante
dilatazione delle competenze delle istituzioni comunitarie.
Si devono rammentare, sintetizzando le tappe di una vicenda Il Trattato di
del
complessa, oltre al già ricordato Trattato di Roma del 25 marzo 1957 Roma
1957 e le
(Convenzione istitutiva della Comunità Economica Europea), il successive
Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992. Quest’ultimo, entrato in modificazioni
vigore il 1° novembre 1993, oltre a modificare l’originario trattato
istitutivo della CEE, ora denominata Comunità Europea (non più
soltanto « economica »), contiene il Trattato sull’Unione Europea,
con il quale si fissano le regole politiche e i parametri economici
richiesti per l’adesione all’Unione dei vari stati. Il Trattato di Maastricht, tra l’altro, ha introdotto il concetto di Cittadinanza dell’Unione europea e posto le basi per l’unione economica e monetaria
dell’Unione europea. L’estensione delle politiche comuni ben oltre
l’originario ambito della Comunità Europea creò incertezza circa la
ratifica da parte di taluni Paesi membri, per superare la quale si
ammise la clausola di opt-out, grazie alla quale il singolo paese
membro avrebbe potuto negoziare e ottenere la permanenza nell’Unione pur non sottomettendosi a talune regole o vincoli dell’Unione stessa. Grazie a tale meccanismo, che crea l’idea dell’Europa
« a più velocità », taluni paesi membri, come il Regno Unito, non
hanno aderito all’Euro quale moneta unica. È a tutti noto che di
recente il Regno Unito ha deliberato di recedere dal Trattato e
avviato i conseguenti negoziati con le autorità dell’Unione.
8
Nozioni preliminari
[§ 3]
Ulteriori modificazioni sono state introdotte dal Trattato di
Amsterdam, del 2 ottobre 1997 (entrato in vigore il 1o maggio 1999)
e dal Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001 (entrato in vigore il 1o
febbraio 2003).
In occasione del Trattato di Nizza il Consiglio europeo aveva
Il Trattato e
la Carta di
anche solennemente proclamato la Carta dei diritti fondamentali
Nizza
dell’Unione Europea (Carta di Nizza), che però non era entrata a far
parte del Trattato. Essa era confluita successivamente nel progetto
di trattato costituzionale europeo, costituendone la seconda parte.
Senonché il Trattato istitutivo di una costituzione per l’Europa,
firmato a Roma il 29 ottobre 2004 non è mai entrato in vigore a
motivo della mancata ratifica da parte di tutti gli stati membri entro
la data stabilita del 1o novembre 2006.
Successivamente il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre
Il Trattato
di Lisbona. I
2007
ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, ha prodotto ulteriori
“Trattati
UE” importanti modifiche, incidendo sia sul Trattato sull’Unione Europea
(TUE) sia sul Trattato istitutivo della Comunità Europea, che ha
assunto il nome di Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea
(TFUE). In tale occasione si è anche attribuito valore vincolante per
le istituzioni europee e per gli stati membri alla Carta di Nizza, che
ora costituisce la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Essa enuncia i principi fondamentali che devono essere rispettati
dall’Unione in sede di applicazione del diritto comunitario. La suddetta parte del Trattato di Lisbona è generalmente vincolante anche
per i singoli paesi membri; tuttavia alcuni stati (Regno Unito,
Polonia e Repubblica Ceca) hanno ottenuto l’opt-out dalla Carta.
La Carta di Nizza non va confusa con la CEDU (Convenzione
La CEDU
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali), che è un trattato internazionale — firmato nel 1950
dai paesi aderenti al Consiglio d’Europa — il quale predispone un
sistema di tutela internazionale dei diritti dell’uomo, offrendo ai
singoli soggetti la facoltà di invocare il controllo giudiziario sul
rispetto dei loro diritti (rivolgendosi alla Corte europea dei diritti
dell’uomo). L’Unione Europea non aveva aderito formalmente alla
CEDU, sebbene tutti gli stati membri vi facessero parte, insieme agli
altri stati aderenti al Consiglio d’Europa, come Russia e Turchia. La
ragione di tale anomalia stava nel difetto di legittimazione dell’Unione Europea, sulla base dei trattati, a essere parte di una
convenzione internazionale concernente i diritti dell’uomo. Ciò non
aveva impedito una recezione sostanziale dei principi contenuti nella
Carta: da una parte già il Trattato di Amsterdam ribadiva in alcuni
punti il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU;
[§ 4]
L’ordinamento giuridico
9
dall’altra la giurisprudenza della Corte di giustizia europea ha considerato i principi della CEDU quali componenti dell’ordinamento
comunitario. Con il Trattato di Lisbona il processo di adesione ha
guadagnato anche una base di carattere normativo, giacché all’art. 6
n. 3 TFUE si afferma che i diritti fondamentali garantiti dalla
Convenzione e “risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali”. Ciò consente, tra l’altro, di interpretare la legislazione
dell’UE alla luce della CEDU.
§ 4.
La norma giuridica.
L’ordinamento di una collettività è costituito, come abbiamo
visto, da un sistema di regole che concorrono a disciplinare la vita
organizzata della comunità. Ciascuna di queste regole si chiama
norma; e poiché il sistema di regole da cui è assicurato l’ordine di una
società rappresenta il « diritto », in senso oggettivo, di quella società,
ciascuna di tali norme si dice giuridica (in quanto appartenente allo
ius).
La giuridicità di una norma non è la conseguenza di qualche Giuridicità
carattere peculiare inerente al suo contenuto, a quanto, cioè, con essa della norma
si dispone, ma dipende dal fatto che vada considerata, in base a
criteri fissati da ciascun ordinamento, dotata di « autorità », in
quanto inserita nel sistema giuridico e suscettibile di essere resa
vincolante nei confronti di tutti i consociati. Ciò avviene quando una
certa regola trovi origine in un « atto » o, più latamente, in un
« fenomeno normativo », ossia in un fenomeno che, secondo le regole
di quel determinato ordinamento, sia idoneo a porsi come « fonte » (v.
infra § 12) di norme giuridiche (e che potrà consistere in una varia
tipologia di atti o di fatti: una legge di un’assembla parlamentare, un
editto di un sovrano, una consuetudine normativa, una sentenza e
via dicendo).
La norma giuridica si distingue dalla norma morale, anche Norma
e
quando l’una e l’altra abbiano identico contenuto. Difatti, mentre giuridica
norma morale
ciascuna regola morale è assoluta, nel senso che trova solo nel suo
contenuto la propria validità e quindi obbliga solamente l’individuo
che, riconoscendone il valore, decide di adeguarvisi, ed è perciò
altresì autonoma, nel senso che funge da imperativo solo in quanto la
coscienza del singolo spontaneamente ne accetti il comando, la regola
giuridica deriva la propria forza vincolante dal fatto di essere prevista da un atto dotato di autorità nell’ambito dell’organizzazione di
10
Nozioni preliminari
[§ 4]
una collettività, cosicché anche quando disciplina l’azione del singolo
(c.d. norme « di condotta ») essa si presenta come eteronoma, cioè
imposta al singolo da altri, da una autorità a lui esterna capace di
coercizione.
Il diritto, pur da essa distinto, non prescinde del tutto dalla
morale sociale, ma rispecchia in regole coercibili, ossia criteri imperativi di orientamento della condotta individuale e di decisione delle
controversie, i principi morali cui si ispira una determinata collettività.
I fatti produttivi di norme giuridiche si chiamano « fonti » (v. §
Il testo e il
precetto
12). Di solito — salva l’ipotesi della consuetudine (§ 17) — la norma
normativo
è espressione della volontà di un organo investito del potere di
elaborare regole destinate ad entrare a far parte dell’ordinamento
giuridico (ossia è il risultato di un « atto normativo ») e viene consacrata in un documento normativo (una carta costituzionale, una
legge, un regolamento ecc.). In tal caso occorre non confondere la
formulazione concreta dell’atto di esercizio del potere normativo,
ossia il testo, nel caso di una disposizione normativa scritta, con il
« precetto », ossia il significato di quel testo; l’individuazione del
significato del testo normativo, e dunque del precetto, della regola
che esso pone, è il risultato di un’operazione di interpretazione del
testo medesimo (§ 24).
Non bisogna neppure confondere il concetto di « norma giuriNorma e
legge
dica » con quello di « legge ». Per un verso, infatti, la legge, nel senso
tecnico definito dalla Carta costituzionale e dall’art. 2 delle Disposizioni sulla legge in generale, poste in premessa al codice civile, è un
certo e definito tipo di « atto » normativo scritto, che nel nostro
ordinamento è elaborato da organi a ciò competenti secondo le
procedure stabilite dalla Carta costituzionale (artt. 70 ss. Cost.); per
altro verso ogni ordinamento conosce regole giuridiche frutto di atti
o fenomeni normativi diversi da quelli che tecnicamente si definiscono « leggi » (fonti che possono essere di vario tipo: regolamenti,
ordinanze, sentenze, contratti, consuetudini ecc.) e dunque deve
affrontare il problema del rapporto tra le varie fonti, per evitare
antinomie e incertezze; per altro verso ancora, una certa « legge » può
contenere, e di regola contiene, molte norme (basti pensare al codice
civile), ma una norma può anche risultare soltanto dal « combinato
disposto » di più disposizioni legislative, ciascuna delle quali può
regolare anche un solo aspetto di un fenomeno complesso.
L’ordinamento giuridico
[§ 5]
§ 5.
11
Diritto positivo e diritto naturale.
Il complesso delle norme da cui è costituito ciascun ordina- Diritto
mento giuridico — ossia l’insieme delle regole scaturenti dalle « fonti » positivo
che quell’ordinamento riconosce come tali — rappresenta il « diritto
positivo » (ius in civitate positum) di quella società.
In tutto il corso della storia dell’uomo, peraltro, è sempre stata Diritto
presente, sebbene in misura e con modalità diverse, l’idea che esista naturale
un « diritto naturale »: talvolta inteso come matrice dei singoli diritti
positivi, talaltra come criterio di valutazione critica dei concreti
ordinamenti; talvolta raffigurato come un complesso di princìpi
eterni ed universali, talaltra considerato anch’esso storicamente condizionato e quindi mutevole; talvolta legato a concezioni religiose
circa la « natura » dell’uomo, talaltra ricollegato esclusivamente alla
ragione umana, o addirittura alla « natura delle cose », ossia alla
realtà esterna, in cui ogni legislatore troverebbe un limite invalicabile.
Il richiamo al diritto naturale cerca di soddisfare l’aspirazione
ad ancorare il diritto positivo — che è frutto degli atti concreti degli
organi dotati di potere legislativo in un certo contesto storico e
politico — ad un fondamento valoriale obiettivo, universale e stabile,
che elimini il rischio di arbitrarietà insito nella possibilità di elevare
al rango di norma giuridica qualsiasi contenuto approvato da chi
detiene il potere (quod principi placuit legis habet vigorem). Non per
nulla le concezioni del diritto naturale tendono ad acquistare maggior rilievo nei momenti storici in cui l’organizzazione della società
viene a trovarsi in conflitto con i sentimenti diffusi nella collettività
(si pensi ai regimi totalitari, che stabiliscono regole volte a comprimere i valori fondamentali di libertà e dignità della persona), cosicché il diritto positivo viene ad essere subìto dai consociati come
un’imposizione, realizzata per mezzo della forza, ma senza un’intima
giustificazione morale e sociale.
D’altra parte a sua volta il diritto naturale non riesce a trovare
un fondamento obiettivo ed univoco. La storia dimostra che, nel
corso dei secoli, il contenuto stesso del diritto « di natura », che pure
si assume universale ed invariabile, è andato mutando: nelle società
antiche, per esempio, era ritenuta naturale, in quanto conforme ad un
ordine intrinseco dei rapporti umani, la condizione di schiavitù di
alcuni uomini.
Tuttavia la configurazione di un diritto sovraordinato a quello
positivo costituisce un costante vincolo al legislatore, perché tenga
conto della cultura e dei valori fondamentali della collettività e dei
Nozioni preliminari
12
[§ 6]
singoli ai quali indirizza i suoi comandi e soprattutto costituisce lo
strumento per assicurare, in certi contesti, la tutela di beni e interessi
essenziali riferibili alla persona umana.
Oggi infatti, come si dirà (§ 61), sono molti gli atti della comunità internazionale che solennemente enunciano l’esistenza di diritti
umani spettanti originariamente ed inalienabilmente a ciascun individuo, senza necessità che una specifica norma positiva li attribuisca,
e che anzi nessun legislatore ha il potere di ledere o sacrificare.
Il concetto di diritto evoca quello di « giustizia » (ius-iustitia). E
Diritto e
giustizia
del resto l’apparato di uffici preposto all’esercizio del potere giurisdizionale è appunto definito « Ministero della Giustizia ». Senonché
appare constatazione indiscutibile che in nessun ordinamento, frutto
dell’attività degli apparati nei quali si organizza una società politica,
si realizza davvero un sistema di rapporti riconosciuto unanimemente come « giusto ».
Per di più la definizione stessa di giustizia e la determinazione,
nei singoli casi, di quanto occorrerebbe per conseguire soluzioni non
soltanto « legali » (cioè conformi al dettato normativo), ma anche
« giuste », incontra insuperabili difficoltà. Difatti l’individuazione di
ciò che è « obiettivamente » giusto presupporrebbe la capacità del
singolo di spogliarsi delle sue passioni, dei suoi egoismi, delle sue
concezioni necessariamente « soggettive ». Ed anche le « ideologie », in
cui gruppi più o meno numerosi di individui teorizzano i propri ideali
di giustizia, sono sempre inevitabilmente « parziali », esprimendo
determinati punti di vista, concrete aspirazioni ed esigenze, specifiche rivendicazioni, storicamente condizionate.
Ciò non toglie che sul piano morale appare indubbiamente
biasimevole la rinuncia ad una valutazione critica dell’ordinamento
nel quale si vive, alla luce di un sistema di valori concepiti come
criteri guida per realizzare una società che sia la migliore possibile in
relazione alle concrete situazioni storiche in cui l’organizzazione deve
muoversi.
§ 6.
Struttura
della norma
giuridica
La struttura della norma. La fattispecie.
Una norma è un enunciato prescrittivo che si articola nella
formulazione di una ipotesi di fatto, al cui verificarsi la norma
ricollega una determinata conseguenza o effetto giuridico, che può
consistere, esemplificando, nell’acquisto di un diritto (chi possiede
una cosa per venti anni ne acquista la proprietà per effetto di
usucapione: art. 1158 c.c.; § 184), nell’insorgenza di un’obbligazione
[§ 6]
L’ordinamento giuridico
13
(« Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno
ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno »:
art. 2043 c.c.), nella estinzione o modificazione di un diritto (« La
dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione... »: art. 1236 c.c.), nell’applicazione di una conseguenza afflittiva (« Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la
reclusione non inferiore ad anni ventuno » art. 575 c.p.). La norma,
dunque, si struttura come un periodo ipotetico: si compone della
previsione di un accadimento futuro ed eventuale e dell’affermazione
di una conseguenza giuridica che deriva dal concreto verificarsi
dell’evento prefigurato dall’enunciato normativo.
La parte della norma che descrive l’evento che intende regolare,
facendone discendere determinati effetti giuridici, si definisce fattispecie (dal latino: species facti).
Si parla di fattispecie astratta e di fattispecie concreta. Per Fattispecie
e
fattispecie « astratta » si intende il fatto (o talora un complesso di astratta
concreta
fatti), descritto ipoteticamente da una norma ad indicare quanto
deve verificarsi affinché si produca una data conseguenza giuridica.
Ad es. ogni descrizione di un reato indica tutte le circostanze che
devono concorrere affinché il responsabile divenga punibile, ogni
descrizione di un contratto elenca gli elementi essenziali da cui dipende la rilevanza giuridica dell’accordo tra le parti contraenti. Per
fattispecie « concreta », invece, si intende non più « un modello » di
evento configurato ipoteticamente, ma un determinato fatto o complesso di fatti realmente verificatisi, rispetto ai quali la norma
descrive gli effetti giuridici che ne derivano.
La ricostruzione di tutti gli elementi rilevanti ai fini, da un lato,
della delineazione della fattispecie (astratta), e, dall’altro lato, dell’individuazione degli effetti che ne conseguono, richiede spesso una
lettura coordinata di una pluralità di disposizioni normative, in
quanto la descrizione di un fatto giuridicamente rilevante può scaturire dalla combinazione di molteplici enunciati normativi, ciascuno
dei quali descrive un profilo o una componente della fattispecie, la
quale soltanto se considerata nella sua integrità risulta idonea a
produrre gli effetti giuridici contemplati dalla legge (per esempio, il
furto è descritto come il comportamento di chi si appropria della
« cosa mobile altrui », e dunque la conoscenza della fattispecie implica
quella della nozione giuridica di « cosa mobile » e del concetto di
« altruità » della stessa).
Occorre ancora precisare che mentre l’individuazione della fattispecie astratta si risolve in una pura operazione intellettuale, di
interpretazione del testo normativo, volta ad individuare i presup-
14
Nozioni preliminari
[§ 7]
posti materiali dell’applicazione di determinate regole, l’indagine
sulla fattispecie concreta consiste nell’accertamento — che nell’ambito del processo avviene attraverso gli strumenti di istruzione probatoria — del fatto storico, quale materialmente verificatosi, onde
porre a confronto tale fenomeno con l’ipotesi astratta prevista e
regolata dalla legge.
La fattispecie può consistere in un unico fatto (per es., morte di
Fattispecie
semplice e
una persona, da cui deriva l’apertura della sua successione ereditacomplessa
ria), e si chiama allora fattispecie semplice. Se, invece, la fattispecie è
costituita da una pluralità di fatti giuridici (per es., per alienare i beni
di un incapace occorrono l’autorizzazione del giudice e il consenso del
rappresentante legale; per il matrimonio è necessario il consenso dei
nubendi e la dichiarazione dell’ufficiale dello stato civile), essa si dice
complessa.
L’effetto ricollegato dalla norma alla fattispecie complessa non
si verifica se non quando si siano realizzati tutti i fatti « giuridici » (in
quanto giuridicamente rilevanti, ossia tali da produrre, secondo la
predisposizione normativa, effetti per il diritto) da cui essa è costituita.
In alcuni casi, se la fattispecie si compone di una serie di fatti
Fattispecie a
formazione
che si succedono nel tempo, si possono verificare effetti prodromici o
progressiva
preliminari, prima che l’intera serie sia completata. Un esempio
tipico è offerto dal contratto sottoposto a condizione sospensiva: gli
effetti definitivi non si producono se non quando la condizione si sia
verificata, ma prima di questo momento il soggetto è titolare di
un’aspettativa che, come vedremo (§ 323), riceve una certa protezione dall’ordinamento giuridico.
Altra ipotesi di effetti prodromici o preliminari è quella costituita dal negozio su cosa futura: esso non può attuare il passaggio
della proprietà, perché la cosa non è ancora venuta ad esistenza:
tuttavia, esso vincola sul piano obbligatorio il venditore (§ 368).
§ 7.
Funzione
dissuasiva
della
sanzione
La sanzione.
Secondo un’antica concezione le norme giuridiche si caratterizzerebbero per il fatto di essere suscettibili di attuazione forzata
(coercizione) o sarebbero comunque garantite dalla predisposizione,
per l’ipotesi di trasgressione, della comminatoria di una conseguenza
in danno del trasgressore, di una « sanzione », la cui minaccia favorirebbe l’osservanza spontanea della norma, attraverso una forma di
[§ 7]
L’ordinamento giuridico
15
coazione psicologica volta a dissuadere dal tenere comportamenti
antigiuridici.
Effettivamente spesso, accanto a norme « di condotta » (dette
primarie), il legislatore prevede una « risposta » o « reazione » dell’ordinamento (c.d. norme sanzionatorie o secondarie).
Peraltro la difesa dell’ordinamento non viene perseguita soltanto attraverso misure repressive o restaurative di una situazione
preesistente illegittimamente violata, ma anche mediante misure
preventive, di vigilanza e di dissuasione, e perfino con l’ausilio di
norme che si limitano ad affermazioni di principio (« Il figlio deve
rispettare i genitori »: art. 315-bis c.c.), che svolgono una funzione
« esemplare », indipendentemente dalla previsione di qualsiasi sanzione.
Sussistono poi norme che stabiliscono « incentivi » a favore dei Norme
soggetti che si vengano a trovare in particolari situazioni (ad es., a promozionali
o incentivanti
favore delle imprese che intraprendono nuove attività in zone considerate depresse o sottosviluppate).
Se la sanzione non può considerarsi tratto essenziale di tutte le Applicazione
norme giuridiche, deve peraltro riconoscersi che l’ordinamento di della sanzione
una società politica prevede sempre l’allestimento di un apparato
coercitivo, tendente ad assicurare, occorrendo anche con l’uso della
forza, la salvaguardia della collettività e degli interessi e valori da
questa condivisi contro minacce esterne o interne e l’applicazione, in
concreto, delle conseguenze sanzionatorie previste in astratto da
singole norme per il caso di loro violazione.
Anzi lo stato moderno rivendica per sé il monopolio dell’uso Monopolio
della forza, riservandone l’esercizio ai suoi apparati e consentendolo statale
dell’uso della
ai privati soltanto in determinate circostanze (es.: legittima difesa o forza
adozione di specifiche misure di autotutela previste dalla legge).
La sanzione può operare in modo diretto, realizzando il risultato
materiale che la legge prescrive (per es. viene distrutto a spese
dell’obbligato ciò che è stato fatto in violazione di un obbligo, art.
2933 c.c.) o in modo indiretto: in questo caso l’ordinamento si avvale
di altri mezzi per ottenere l’osservanza della norma o per reagire alla
sua violazione. Per esempio, se il cantante che ho scritturato per un
concerto rifiuta di esibirsi, è chiaro che non è possibile costringerlo
materialmente a farlo (nemo ad factum cogi potest): ciò che io posso
ottenere dal giudice è che l’obbligato inadempiente sia condannato a
risarcirmi i danni che ho subìto per effetto della sua inadempienza.
Nozioni preliminari
16
§ 8.
[§ 8]
Caratteri della norma giuridica. Generalità e astrattezza.
Il principio costituzionale di eguaglianza.
Tradizionalmente si insegna che caratteri essenziali della norma
giuridica sono la generalità e la astrattezza dei relativi precetti.
Con il carattere della generalità si intende che la legge non deve
Generalità
essere dettata per singoli individui, ossia formulata in modo da essere
applicata ad una sola persona o ad una schiera predeterminata di
soggetti individualmente identificati (c.d. leggi-fotografia o ad personam), bensì o per tutti i consociati o per classi generiche di soggetti
(i commercianti, i proprietari di beni immobili, gli studenti universitari, ecc.).
Con il carattere della astrattezza si intende che la legge non deve
Astrattezza
essere dettata per specifiche situazioni concrete, bensì, come si è
detto, per fattispecie astratte, ossia per situazioni descritte ipoteticamente. La norma ha lo scopo di regolare una serie indeterminata di
casi futuri ed eventuali e si presta ad applicarsi a chiunque si verrà
a trovare nella situazione prefigurata dalla norma.
Peraltro si riconosce anche l’ammissibilità di leggi in senso
formale (ossia di atti degli organi legislativi, emanati secondo le
procedure stabilite dalla Costituzione per la formazione delle leggi:
artt. 70 ss.) che non dettino norme generali ed astratte ma contengano la disciplina di una certa situazione individualmente determinata (c.d. leggi-provvedimento: per es. costituzione o modificazione
di un certo ente pubblico).
Particolarmente importante nella formulazione della norma
Principio di
eguaglianza
giuridica è l’esigenza del rispetto del c.d. « principio di eguaglianza »,
che è solennemente proclamato da una tra le più importanti disposizioni della nostra Carta costituzionale (art. 3).
Dal principio di eguaglianza va tenuto distinto il principio per
Principio di
imparzialità
cui i pubblici uffici devono rispettare nell’esercizio delle loro funzioni
il criterio della imparzialità (art. 97 Cost.), ossia l’obbligo di applicare
le leggi in modo eguale, senza arbitrarie differenziazioni di trattamento a favore o a danno dei singoli interessati (a questo significato
va riportata la solenne affermazione che si legge nelle aule dei
Tribunali: « La legge è uguale per tutti »).
Nell’art. 3 Cost. è solennemente enunciato il principio di eguaglianza, che ha peraltro due profili:
Eguaglianza
a) il primo è di carattere formale (art. 3, comma 1) ed importa
formale
che « tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione,
di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ». La norma fa
[§ 8]
L’ordinamento giuridico
17
esplicito riferimento ai soli « cittadini »; la Corte costituzionale ha
però precisato che il principio di eguaglianza deve essere rispettato
anche nei confronti degli stranieri, quanto meno per quanto riguarda
i diritti fondamentali della persona.
Si tratta di un vincolo rivolto anzitutto al legislatore ordinario,
ed opera non già nel senso che tutte le norme di legge debbano
sempre indirizzarsi in modo identico a tutti i cittadini (ne risulterebbe l’impossibilità di disciplinare in modo differenziato le variabili
situazioni di fatto che si presentano nell’esperienza), bensì nel senso
che l’individuazione delle « categorie » di soggetti cui ciascuna norma
è destinata deve avvenire in modo non arbitrario, con criteri che
evitino di trattare situazioni omogenee in modo differenziato, ovvero
situazioni disomogenee in modo eguale. A parità di condizioni deve
corrispondere un trattamento eguale ed a condizioni diverse un
trattamento differenziato.
Il controllo del rispetto del principio di eguaglianza è affidato
alla Corte costituzionale (v. § 13), la quale può dichiarare l’illegittimità di una norma di legge quando ravvisi un’irragionevole o arbitraria differenziazione normativa di situazioni che, in realtà, siano
omogenee, ovvero un’assimilazione di trattamento nei confronti di
situazioni tra loro diverse. Il giudizio della Corte deve mantenersi su
un piano di valutazione della legittimità delle soluzioni normative
sottoposte al suo esame alla stregua del criterio della eguaglianza di
trattamento (ad es.: è ammissibile concedere un diritto di recesso
incondizionato al lavoratore subordinato e negarlo al datore di lavoro? È ammissibile trattare diversamente l’adulterio della moglie e
quello del marito?), senza sconfinare in un sindacato dei criteri di
politica legislativa con cui il legislatore ordinario decide discrezionalmente le soluzioni da dare ai vari problemi sui quali intende intervenire, essendo tali scelte rimesse, appunto, al potere legislativo;
b) il secondo è di carattere sostanziale (art. 3, comma 2) ed Eguaglianza
impegna la Repubblica a « rimuovere gli ostacoli di ordine economico sostanziale
e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ». Si tratta di un’indicazione programmatica
rivolta agli organi dello Stato, sollecitati ad assumere misure —
normative, ma anche amministrative e di politica economica e sociale
— idonee ad attenuare le differenze di fatto, economiche e sociali, che
in concreto discriminano le condizioni di vita dei singoli.
Quest’ultima norma ha valore fondamentale in quanto riassume
i fondamentali obiettivi di promozione della società e dell’individuo
18
Nozioni preliminari
[§ 9]
ai quali la comunità deve dedicarsi attraverso l’azione degli organi di
rappresentanza politica e di governo.
§ 9.
L’equità.
Abbiamo visto che la norma giuridica contiene, in genere, la
previsione astratta di una situazione-tipo.
Quando occorre risolvere una concreta controversia il giudice è
tenuto a decidere applicando la norma precostituita che egli identifica come riferibile alla situazione sottoposta al suo esame (l’operazione di riconduzione del caso concreto a quello generale previsto da
una norma giuridica si chiama sussunzione).
In qualche ipotesi al giudicante è consentito decidere senza fare
applicazione di una specifica norma oggettiva, bensì sulla base di
criteri fondati sul contemperamento degli interessi contrapposti e
sulla realizzazione di valori di giustizia condivisi dalla collettività
sociale, che appaiano più adatti a regolare il caso concreto. Infatti
può accadere che l’applicazione della norma legale ad un certo caso
concreto dia luogo a conseguenze che urtano contro il sentimento di
giustizia (si pensi a norme che impongono requisiti formali rigorosi, o
il rispetto di termini di decadenza, e che in tal modo conducano ad un
difetto di tutela delle ragioni di una delle parti).
L’equità è stata, pertanto, sinteticamente definita come la
Nozione di
equità
giustizia del caso singolo.
Il ricorso all’equità quale criterio decisionale è però consentito
solo in casi eccezionali. L’ordinamento giuridico sacrifica spesso la
giustizia del caso singolo all’esigenza della certezza del diritto, in
quanto ritiene pericoloso affidarsi alla valutazione soggettiva del
giudice e preferisce che i singoli possano prevedere esattamente quali
saranno le conseguenze dei loro comportamenti. Conseguentemente,
la legge stabilisce che il giudice, nel decidere le controversie, « deve
seguire le norme del diritto » (ossia quelle dell’ordinamento giuridico
dello Stato), e può discostarsene soltanto nel caso in cui la stessa
« legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità » (art. 113
c.p.c.), il che avviene nelle cause di minor valore, attribuite alla
competenza del Giudice di Pace, ovvero qualora siano state le parti
della controversia ad attribuire concordemente al giudice il potere di
decidere secondo equità (art. 114 c.p.c.). In quest’ultimo caso l’autorizzazione delle parti è possibile se i diritti fatti valere si possano
qualificare come “disponibili”.
[§ 9]
L’ordinamento giuridico
19
In tutte le altre ipotesi la norma dev’essere rigorosamente
applicata, anche se conduca ad un risultato avvertito come “iniquo”
(« summum ius, summa iniuria »).
Anche nell’ipotesi eccezionale in cui è ammesso il ricorso all’equità, il giudice non può far prevalere le sue concezioni personali
(cosiddetta equità cerebrina), ma deve ispirarsi a quelle accolte
dall’ordinamento vigente e ricercare, pertanto, come si sarebbe comportato il legislatore se avesse potuto prevedere il caso. La Corte
costituzionale ha precisato che anche il Giudice di Pace — in ossequio
al principio di legalità — deve comunque fare riferimento nel motivare la propria decisione ai principi informatori della materia (Corte
cost. 6 luglio 2004, n. 206), tra i quali sono senz’altro da considerare
le norme di rango costituzionale e quelle di derivazione comunitaria
(Cass., sez. un., 15 ottobre 1999, n. 716).
Dall’equità come criterio decisorio va distinta l’equità cd. « in- Equità
tegrativa », espressione che si riferisce ai casi in cui la legge prevede integrativa
che il giudice provveda ad integrare o determinare « secondo equità »
gli elementi di una fattispecie (per esempio nel caso di liquidazione
« equitativa » di un danno difficile da quantificare nel suo esatto
ammontare), o anche di un regolamento contrattuale predisposto
dalle parti (cfr. artt. 1371 e 1374 c.c.).
CAPITOLO II
IL DIRITTO PRIVATO E LE SUE FONTI
§ 10.
Diritto pubblico e diritto privato.
Una distinzione tradizionale è quella tra diritto pubblico e
diritto privato.
Il diritto pubblico disciplina l’organizzazione dello Stato e degli
Diritto
pubblico
altri enti pubblici, regola la loro azione nell’interesse della collettività
ed impone ai singoli il comportamento cui sono tenuti per rispettare
la vita associata. Esso attiene in gran parte all’esplicazione di pubblici poteri: individua gli organi competenti ad esercitarli, le modalità
del loro esercizio, la posizione e le tutele dei privati di fronte ad atti
di esercizio di poteri pubblici, e si articola nelle varie branche del
diritto costituzionale, amministrativo (che regola organizzazione,
attività e procedimenti della Pubblica Amministrazione), penale,
tributario, ecc.
Il diritto privato, invece, disciplina le relazioni interindividuali,
Diritto
privato
sia dei singoli che degli enti privati (es. le associazioni o le società
commerciali), lasciando alla iniziativa personale anche l’attuazione
delle singole norme e l’esercizio dei diritti attribuiti agli individui.
Anche il diritto privato è innanzi tutto diritto, cioè parte dell’ordinamento, complesso di norme dettate cercando di avere presenti gli interessi di tutta la società, che vengono realizzati attraverso
una certa disciplina dei rapporti tra i privati; ma si tratta di disposizioni in base alle quali il singolo, individuo o ente, non si viene a
trovare in situazioni di soggezione di fronte ad un potere pubblico,
dotato di strumenti di supremazia, bensì opera su un piano di
eguaglianza con gli altri individui.
La linea di demarcazione tra diritto pubblico e diritto privato è
Un confine
incerto
però variabile: lo Stato può avocare a sé la realizzazione di funzioni
un tempo lasciate ai privati (ad es. la scuola, gli ospedali), e viceversa; può sanzionare penalmente comportamenti un tempo considerati di mero interesse privato (ad es. ponendo taluni nuovi limiti
all’azione delle imprese o dettando norme per la protezione dei
lavoratori) e viceversa; ovvero può rinunciare ad organizzare in
[§ 10]
Il diritto privato e le sue fonti
21
forma pubblica determinati tipi di attività, restituendoli all’iniziativa privata, preferendosi, anche in settori un tempo ritenuti « strategici », promuovere e regolare le imprese private, piuttosto che far
svolgere tali attività da soggetti pubblici (si pensi alle recenti « privatizzazioni » in materia di telecomunicazioni o di produzione e
distribuzione dell’energia).
Ma la contrapposizione, oltre che variabile, è anche per larga
misura incerta: enti pubblici (ad es. talune banche e compagnie di
assicurazioni) possono svolgere, e soprattutto fino a tempi recenti
svolgevano largamente, attività di diritto privato in concorrenza con
aziende private (fenomeno che, da ultimo, si tende a far cessare); per
altro verso soggetti privati possono essere concessionari di servizi
pubblici (ad es. ferrovie o trasporti stradali) ed essere perciò dotati di
taluni poteri pubblicistici; lo Stato o altri enti pubblici possono avere
il controllo di società di diritto privato in qualità di azionisti di
maggioranza.
Non tutto ciò che riguarda soggetti pubblici, beni pubblici, Attività di
attività pubbliche, dunque, appartiene per ciò solo al diritto pub- diritto
privato degli
blico: infatti i soggetti pubblici possono operare anche iure privato- enti pubblici
rum (ad es. una Università statale stipula un contratto di locazione
di diritto privato per assicurarsi la disponibilità di maggiori spazi);
sui beni pubblici possono talvolta costituirsi rapporti di diritto
privato (un Comune può concedere a privati l’uso saltuario o continuativo di una propria sala); gli enti pubblici talora perseguono
finalità o svolgono servizi di pubblico interesse (per es.: trasporti,
erogazione di energia, raccolta dei rifiuti) per il tramite di società per
azioni di diritto privato, sia con la partecipazione di altri enti
pubblici, sia unitamente a soggetti privati (c.d. società « miste »).
Si aggiunga che, spesso, un medesimo fatto è disciplinato sia da
norme di diritto privato che da norme di diritto pubblico: l’investimento di un pedone da parte di un automobilista fa scattare sia la
sanzione penale per lesioni colpose (art. 590 c.p.), sia quella amministrativa (es.: sospensione della patente di guida), sia la sanzione
civile del risarcimento del danno (art. 2043 c.c.); la costruzione
illegittima di un fabbricato può violare sia il piano regolatore comunale che il diritto del singolo frontista all’osservanza delle distanze
legali (artt. 872 e 873 c.c.); il mancato pagamento dei contributi
previdenziali da parte del datore di lavoro a favore del singolo
prestatore d’opera viola tanto la disciplina privatistica del rapporto
di lavoro quanto un obbligo di carattere pubblicistico, e via dicendo.
Di fronte a questa situazione la tradizionale bipartizione (publicum ius est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad
Nozioni preliminari
22
[§ 11]
singulorum utilitatem) appare evanescente e va conservata soprattutto in via orientativa e quale criterio di massima, mentre assume
sempre più rilievo un diverso modo di considerazione della realtà
giuridica, che pone quale canone per distinzione tra i vari tipi di
norme la rilevanza degli interessi in gioco.
§ 11.
Norme
derogabili,
inderogabili,
suppletive
Distinzione tra norme cogenti e norme derogabili.
Le norme di diritto privato si distinguono in derogabili (o
dispositive) e inderogabili (o cogenti): si dicono inderogabili o cogenti
quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli; derogabili o dispositive le norme la
cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati. Si usa poi individuare un’ulteriore categoria di norme, quelle
suppletive, le quali sono destinate a trovare applicazione solo quando
i soggetti privati non abbiano provveduto a disciplinare un determinato aspetto dei rapporti tra loro: una lacuna cui la legge sopperisce
intervenendo a disciplinare ciò che i privati hanno lasciato privo di
regolamentazione. Così, ad esempio, l’art. 1193, comma 1, c.c. attribuisce al debitore, che abbia più debiti nei confronti del creditore, la
facoltà di dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare.
Qualora ciò non faccia, interviene in via suppletiva la legge, che con
l’art. 1193, comma 2, dispone a quale dei debiti deve essere imputato
il pagamento eseguito dal debitore (altri esempi di norme suppletive
possono ravvisarsi, fra i molti, negli artt. 1100, 1182, 1183, 1271, 1272
c.c.).
Naturalmente anche l’osservanza delle norme privatistiche inderogabili richiede, in caso di violazione, l’iniziativa del singolo il cui
diritto soggettivo sia stato leso, non essendo compito degli organi
pubblici far rispettare norme di diritto privato realizzando gli interessi dei singoli: così, ad es., qualora un lavoratore subordinato abbia
previamente rinunciato all’aumento di retribuzione per le ore di
lavoro straordinario, la rinuncia non è valida, poiché tale aumento gli
è dovuto in forza di norma cogente (art. 2108 c.c.); tuttavia soltanto
l’interessato resta arbitro di decidere se denunciare l’invalidità dell’accordo e pretendere la maggior retribuzione che gli è garantita
dalla legge, ovvero se accontentarsi di quanto pattuito: ed in questa
scelta nessun organo pubblico può intervenire sostituendosi al privato nell’esercizio dei suoi diritti. Altra questione, invece, è l’eventuale azione dell’ente pubblico previdenziale per il pagamento di
contributi evasi dal datore di lavoro.
[§ 12]
Il diritto privato e le sue fonti
23
Con la norma dispositiva il legislatore, ai fini della certezza del Funzione
norme
diritto, pone un criterio di disciplina nel caso in cui la volontà dei delle
dispositive
singoli non si è manifestata, ossia enuncia una regola corrispondente
ad un modello abituale di regolamentazione di quel tipo di operazione economica, che tuttavia le parti possono, con una loro espressa
manifestazione di volontà, rendere inoperante rispetto alla disciplina
del loro rapporto (per esempio, l’art. 1815 c.c. stabilisce che, se le
parti non hanno convenuto diversamente, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante: infatti è corrispondente al normale atteggiarsi degli interessi delle parti di un rapporto di mutuo il
fatto che colui che riceve il prestito lo remuneri, pagando degli
interessi, ma le parti possono escludere, con un contrario atto di
volontà, l’operatività di tale regola e pattuire un mutuo gratuito).
Il carattere cogente di una norma risulta spesso direttamente Individuaziodelle
dalla sua formulazione (es. art. 147 c.c.: « il matrimonio impone ad ne
norme
ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere cogenti
moralmente i figli »), oppure dalla previsione della nullità dell’atto
compiuto in violazione di una norma (es. l’art. 1350 c.c. impone a
pena di nullità che gli atti di trasferimento della proprietà di beni
immobili siano fatti per iscritto) o in contrasto con specifici limiti alla
libertà dei privati di regolare i loro rapporti (es. art. 1229 c.c.: « è
nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave »). Correlativamente,
indici testuali del carattere derogabile possono essere le espressioni
« salvo diversa volontà delle parti » (art. 1815 c.c.), « salvo che il titolo
disponga altrimenti » (art. 957 c.c.), e simili.
Non sempre soccorrono elementi letterali sufficientemente precisi, e allora per stabilire se una norma sia imperativa o dispositiva
bisogna indagare quale sia lo spirito della norma o, come anche si
dice, la volontà del legislatore, secondo le regole che saranno esaminate allorché si tratterà dell’interpretazione della legge (v. § 24).
§ 12.
Fonti delle norme giuridiche.
Per « fonti » legali di « produzione » delle norme giuridiche si Fonti di
e
intendono gli atti e i fatti idonei a produrre diritto. Consistono in atti produzione
fonti di
quelle fonti che si manifestano in esplicazioni dell’attività di un cognizione
determinato organo o autorità muniti del potere di produrre norme
(es.: una legge del parlamento; un decreto di un sovrano assoluto
ecc.); ma la norma può anche nascere da un semplice fatto, come per
24
Nozioni preliminari
[§ 12]
esempio una consuetudine affermatasi nel tempo come regola giuridica di condotta nell’ambito di una determinata comunità (§ 17).
Dalle fonti di produzione si distinguono le fonti di « cognizione »,
ossia i documenti e le pubblicazioni ufficiali da cui si può prendere
conoscenza (quando si tratti di fonti che consistono in « atti ») del
testo di un atto normativo (ad es. Gazzetta Ufficiale).
Rispetto a ciascuna fonte, quando si tratti di un « atto », si può
individuare: a) l’organo investito del potere di emanarlo (il Parlamento, il Governo); b) il procedimento formativo dell’atto (ad es. il
procedimento di emanazione di una legge costituzionale, ovvero ordinaria statale, ovvero regionale); c) il documento normativo (la legge,
considerata nel suo testo); d) i precetti ricavabili dal documento
(determinando, tramite « l’interpretazione » del testo, il suo « significato »).
È chiaro che ogni ordinamento deve anzitutto stabilire le norme
Individuazione delle fonti
sulla produzione giuridica, ossia a quali autorità, a quali organi, e con
e gerarchia
quali procedure sia affidato il potere di emanare norme giuridiche, e
con quali valori gerarchici. Spesso, infatti, un ordinamento contempla una pluralità di fonti generatrici di norme giuridiche; pertanto si
rende indispensabile regolarne il rapporto gerarchico, ossia precisare,
nel caso in cui due o più fonti diverse stabiliscano regole tra loro
contrastanti, quale debba prevalere. La gerarchia delle fonti esprime
perciò una regola sulla produzione giuridica che identifica la norma
applicabile in caso di contrasto tra norme provenienti da fonti
diverse.
Nel nostro Paese la gerarchia delle fonti è stata interessata, a
partire dalla metà del ’900, da profondi mutamenti, connotati negli
anni più recenti soprattutto dall’affermarsi di fonti di produzione del
diritto non statali: gli organi sovranazionali delle istituzioni europee,
da un lato, ed enti infrastatuali, come le regioni, dall’altro lato.
Conviene, per ordine, ricordare anzitutto il regime delineato dal
L’evoluzione
della
codice civile. L’art. 1 delle « Disposizioni sulla legge in generale » o
gerarchia
delle fonti « preleggi », anteposte al codice civile (emanato nel 1942: § 18),
ordinava le fonti ponendo al primo posto la legge, al secondo i
regolamenti, al terzo le norme corporative, e all’ultimo gli usi. Con la
caduta del fascismo le norme corporative hanno perduto efficacia; le
altre fonti enumerate dall’art. 1 disp. prel. c.c. hanno invece conservato il loro valore secondo l’ordine gerarchico dettato dalla citata
disposizione; ma a quell’elenco nel dopoguerra si sono aggiunte altre
importanti fonti del diritto: prima fra tutte la Costituzione, entrata
in vigore nel 1948 (la Costituzione venne approvata da un’Assemblea
costituente, eletta successivamente al referendum celebrato subito
Il diritto privato e le sue fonti
[§ 13]
25
dopo la fine della seconda guerra mondiale, che assegnò allo Stato la
forma repubblicana in luogo di quella monarchica).
Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana la gerarchia delle fonti « interne » è risultata così ricostruita: a) alla sommità
della scala si collocano princìpi definiti « supremi » o « fondamentali »,
da cui discendono diritti « inviolabili » (v. art. 2 Cost.), cosicché
queste norme appaiono secondo una diffusa concezione insuscettibili
di modifica o revisione (la modificazione dei principi fondamentali
implicherebbe l’istituzione di un ordinamento diverso, di una nuova
organizzazione della società secondo diversi valori); b) seguono le
disposizioni della Carta costituzionale e delle leggi di rango costituzionale; c) vengono poi le leggi statali ordinarie e le altre fonti di cui
all’art. 1 delle preleggi.
Nella descritta scala gerarchica si sono poi inserite, determinandone ulteriori articolazioni, le leggi regionali (il cui ruolo è stato di
recente ulteriormente accentuato, per effetto di un intervento di
revisione della Costituzione) e le norme di matrice comunitaria.
La complessità raggiunta dal sistema delle fonti impone una sua
illustrazione analitica.
§ 13.
a) La Costituzione e le leggi di rango costituzionale.
In questa sede interessa trattare della Costituzione soltanto
sotto il profilo della sua rilevanza nel sistema delle fonti del diritto.
Anzitutto la Costituzione assolve la funzione di fondamentale La
norma sulla produzione giuridica. Essa stabilisce, regolando il proce- Costituzione
come norma
dimento di formazione delle leggi, la disciplina degli atti normativi. sulla
Le disposizioni costituzionali si integrano, poi, con l’art. 1 disp. prel. produzione
giuridica
c.c., già ricordato, che pone la gerarchia delle ulteriori fonti (regolamenti e consuetudini), e con l’art. 2 disp. prel. c.c., il quale precisa
che la formazione delle leggi e degli atti del Governo aventi forza di
legge « sono disciplinate da leggi di carattere costituzionale »; disposizioni che non sono state abrogate con l’entrata in vigore della
Costituzione, anche se l’art. 1 citato ha perduto la funzione fondamentale di regola esclusiva sulla gerarchia delle fonti che rivestiva
nel sistema vigente fino al 1948.
La Costituzione italiana non disciplina soltanto il procedimento I princìpi
di elaborazione delle leggi, ma pone altresì regole e princìpi che si costituzionali
atteggiano a limiti sostanziali all’attività del legislatore. Si vedano
per esempio, oltre al già ricordato principio di eguaglianza (art. 3
Cost.) (§ 8) le norme che prevedono i fondamentali diritti e doveri dei
26
Nozioni preliminari
[§ 13]
cittadini (sancendo per esempio l’inviolabilità della libertà personale
e del domicilio; la libertà di circolazione, di associazione, di professione della fede religiosa, di manifestazione del pensiero; il diritto di
agire in giudizio; la tutela della proprietà e della libertà di iniziativa
economica; la tutela della famiglia e dei figli e via dicendo): una legge
ordinaria che violasse questi diritti sarebbe illegittima.
Si ritiene anzi, come accennato in precedenza, che i « princìpi
supremi » enunciati dalla Costituzione costituiscano limiti allo stesso
potere del legislatore costituzionale, in quanto non sarebbero suscettibili di revisione (un divieto espresso di revisione è invece previsto
soltanto per la « forma repubblicana » dello Stato: art. 139 Cost.).
Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali — che hanno lo stesso valore gerarchico della Costituzione e
sono perciò sovraordinate alle altre fonti — devono essere approvate
con un’apposita procedura, più complessa di quella prevista per le
leggi ordinarie, regolata dall’art. 138 Cost.
La Costituzione italiana è rigida, in quanto una legge ordinaria
La Corte
cost.
dello Stato non può né modificare la Costituzione o altra legge di
rango costituzionale, né contenere disposizioni in qualsiasi modo in
contrasto con norme costituzionali. A presidio di questa rigidità della
nostra Carta costituzionale (a differenza dello Statuto albertino del
1848, che era una costituzione flessibile) è stato istituito un apposito
organo, la Corte costituzionale, cui è affidato il compito di stabilire se
disposizioni di una legge ordinaria (o di altri atti « aventi forza di
legge ») siano in conflitto con norme costituzionali (art. 134 Cost.). Il
controllo di legittimità costituzionale delle leggi è previsto nella
forma del controllo « incidentale »: se un giudice, chiamato a decidere
una specifica controversia, ritiene di dover applicare ai fini della
decisione una determinata norma di legge, e quella norma gli appare
di sospetta incostituzionalità, deve rimettere gli atti del processo alla
Corte costituzionale, affinché decida al riguardo. È anche previsto un
giudizio di costituzionalità in via « principale », che può essere promosso dal Governo, contro le leggi regionali che eccedano la competenza legislativa delle Regioni, o da una Regione contro le leggi dello
Stato o di un’altra Regione che ledano la sua sfera di competenza
(art. 127 Cost., come modificato dalla L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3).
Non è invece consentito a singoli privati rivolgersi direttamente alla
Corte costituzionale per denunziare l’illegittimità di una legge.
Se la Corte ritiene illegittima la norma sottoposta al suo esame,
dichiara con sentenza l’incostituzionalità della o delle disposizioni
viziate, che cessano « di avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione » (art. 136 Cost.).
Il diritto privato e le sue fonti
[§ 14]
27
Alle fonti di rango costituzionale appartengono anche le norme Il ruolo del
del diritto internazionale consuetudinario, il cui fondamento risiede diritto
internazionell’art. 10 Cost., ove è stabilito che “l’ordinamento giuridico italiano nale
si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Da tale disposizione discende che le norme di ambito
internazionale formatesi in seguito ad uno ossequio spontaneo da
parte delle Nazioni non solo entrano a far parte dell’ordinamento
senza la necessità di una legge di ratifica da parte del Parlamento, ma
altresì godono della medesima forza vincolante della Carta costituzionale, onde non possono essere modificate o contraddette da una
legge ordinaria. Così, ad esempio, costituisce un principio internazionale generalmente riconosciuto quello secondo cui uno Stato estero
non può essere convenuto in giudizio innanzi all’autorità giudiziaria
dello Stato ospitante per motivi inerenti agli scopi istituzionali, a
meno che non venga in rilievo la lesione di un diritto inviolabile della
persona umana, come può essere la commissione di crimini internazionali (Cass., sez. un., Ord., 29 maggio 2008, n. 14201). Vi è da
precisare tuttavia che la stessa posizione gerarchica nel quadro delle
fonti non è riconosciuta al diritto internazionale convenzionale. Quest’ultimo ha la propria base nella legge che autorizza alla ratifica, la
quale ha la medesima forza vincolante di tutte le altri leggi ordinarie.
§ 14.
b) Le leggi dello Stato e le leggi regionali.
Le leggi statali ordinarie sono approvate dal Parlamento con
una procedura dettagliatamente disciplinata dalla Carta costituzionale (artt. 70 ss.: approvazione di un identico testo da parte di
entrambe le Camere, promulgazione da parte del Presidente della
Repubblica, pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale).
La legge ordinaria può modificare o abrogare qualsiasi norma La legge
non avente valore di legge, mentre non può essere modificata o ordinaria
abrogata se non da una legge successiva (art. 15 disp. prel. c.c.). Vi
sono materie (ad es. art. 25, comma 2, Cost.) che non possono essere
regolate se non mediante leggi (c.d. « riserva di legge »), e dunque non
possono essere disciplinate da fonti normative di rango inferiore
(come per esempio i regolamenti, su cui infra).
Alle leggi statali sono equiparati i decreti legislativi delegati e i
decreti legge di urgenza. Si tratta di provvedimenti aventi forza di
legge emanati dal Governo e non dal Parlamento: ciò può avvenire o
in virtù di una legge di delega del Parlamento, che deve specificare
l’oggetto della delega e i principi e criteri direttivi ai quali il Governo
28
Nozioni preliminari
[§ 14]
deve attenersi (art. 76 Cost.; in tale ipotesi si impone il rispetto dei
limiti della delega, altrimenti il decreto legislativo risulta incostituzionale per c.d. « eccesso di delega »); oppure in presenza di « casi
straordinari di necessità e urgenza », ma è in tal caso necessario che
il decreto-legge del Governo venga convertito in legge dal Parlamento
entro sessanta giorni, altrimenti perde efficacia sin dall’inizio (art. 77
Cost.).
La legge ordinaria può essere abrogata con referendum popolare
(art. 75 Cost.).
Il ruolo delle leggi regionali e il rapporto di queste con quelle
La
legislazione
statali sono stati, come si è anticipato, di recente profondamente
regionale
innovati. L’art. 117 della Carta costituzionale approvata nel 1948
conferiva alle regioni un potere legislativo nell’ambito di un insieme
determinato di materie e, comunque, ponendo il diritto di fonte
regionale in posizione sottordinata rispetto a quello dello Stato.
La L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, ha modificato l’intero Titolo V
Il nuovo
rapporto tra
Cost. (dedicato a « Le Regioni, le Provincie, i Comuni »). In particolegislazione
statale e lare, per quanto interessa in questa sede, il vigente testo dell’art. 117
regionale regola i rapporti tra leggi dello Stato e leggi regionali anzitutto
definendo le rispettive competenze: lo Stato ha potestà legislativa
esclusiva in un insieme di materie enumerate dall’art. 117 (tra le
quali, è interessante osservare, rientrano: « giurisdizione e norme
processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa »,
ancorché non sia fino in fondo chiaro il significato dell’espressione
« ordinamento civile » e dunque quale sia l’estensione dell’àmbito di
competenza riservata allo Stato in materia di diritto civile; la L. cost.
20 aprile 2012, n. 1 ha aggiunto a tali materie la competenza
concernente o finalizzata alla «l’armonizzazione dei bilanci pubblici»);
esistono poi « materie di legislazione concorrente » tra Stato e regione
(elencate dall’art. 117, comma 3, Cost.): in tali materie la potestà
legislativa spetta alle Regioni, compete però alla legislazione dello
Stato la determinazione dei « princìpi fondamentali »; infine, è attribuita alle Regioni la potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Dunque oggi il criterio fondamentale cui si ispirano i rapporti
tra legge statale e regionale non è più quello della gerarchia, bensì
quello della competenza, in quanto sono stabiliti distinti àmbiti di
operatività, rispettivamente, della legislazione statale e regionale; il
principio di gerarchia torna ad operare nelle materie di legislazione
concorrente, poiché in tal caso allo Stato spetta la funzione di stabilire
i « princìpi fondamentali », ai quali, dunque la legge regionale si deve
attenere.
[§ 15]
Il diritto privato e le sue fonti
§ 15.
29
c) I regolamenti.
Subordinate alle leggi vi sono altre fonti di diritto: l’art. 1 delle
preleggi menziona « i regolamenti », « le norme corporative » (oggi non
più attuali, dopo la dissoluzione del sistema corporativo fascista) e
« gli usi » (o consuetudini: v. infra, § 17).
I regolamenti sono fonti « secondarie », sottordinate alla legge, e
possono essere emanate dal Governo, dai ministri e da altre autorità
amministrative, anche non statali, come le c.d. « autorità indipendenti » (ormai numerose: si pensi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, alla Consob, all’Autorità per l’Energia Elettrica
e il Gas e via dicendo), nell’ambito di apposite prescrizioni di legge
(art. 3 disp. prel. c.c.). Essi hanno contenuto normativo, in quanto
pongono norme generali ed astratte — ma provengono dall’autorità
amministrativa, non dal potere legislativo — e possono riguardare le
materie più varie. I regolamenti, per esempio, disciplinano l’organizzazione e il funzionamento dei pubblici uffici, o anche degli organi
costituzionali (per es. i regolamenti parlamentari, i quali peraltro
hanno rango di norme primarie), ovvero regolano specifiche materie
in forza di una « delega » o « autorizzazione » contenuta in una legge,
che può fare rinvio, per completare la disciplina, a successivi regolamenti (nell’ambito del diritto privato assumono rilievo i regolamenti
della Consob in materia di disciplina dei mercati finanziari o quelli
della Banca d’Italia in materia di attività bancaria e creditizia).
Come ribadito espressamente dall’art. 4, co. 1 delle preleggi, « i Disapplicae
regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni zione
annullamento
di legge ». Qualora dunque un giudice rilevi l’esistenza di un contra- del
sto tra norma regolamentare e norma di legge, egli è tenuto a regolamento
disapplicare la prima: vale a dire che non ne terrà conto per decidere
la controversia sottoposta al suo esame, la quale sarà risolta in base
alla norma contenuta nella legge. Per questa ragione la Corte costituzionale ha escluso il proprio controllo di legittimità sui regolamenti, potendo riguardare quest’ultimo soltanto la legge e gli atti
aventi forza di legge. Quando un regolamento sia impugnato davanti
ad un giudice amministrativo (ossia ad un organo giurisdizionale che
ha il potere di decidere della legittimità degli atti della Pubblica
Amministrazione: Tribunale Amministrativo Regionale — TAR o
Consiglio di Stato), quest’ultimo, a differenza del giudice civile, ha il
potere di provvedere con sentenza all’annullamento del regolamento
contrario alla legge. La differenza tra l’annullamento e la disapplicazione consiste in questo: se il regolamento è annullato la sua efficacia
viene rimossa, ed esso non è più applicabile neppure rispetto a casi
30
Nozioni preliminari
[§ 16]
concreti diversi da quello che ha dato origine all’impugnazione;
invece la disapplicazione opera solo nell’ambito di quello specifico
processo, ma il regolamento rimane in vigore, e potrebbe essere
applicato in altri casi, se per esempio un altro giudice, interpretando
diversamente il regolamento e la legge, non ravvisasse un’incompatibilità tra le due fonti.
§ 16.
d) Le fonti comunitarie.
Fin qui si è illustrato il nuovo ordine delle fonti « interne ».
Peraltro ha acquistato valore prevalente rispetto alle stesse leggi
ordinarie statali tutta la normativa comunitaria.
Come già messo in evidenza (v. § 3) l’ingresso dell’Italia prima
Fondamento
costituzionale
nelle Comunità Europee e poi nell’Unione Europea è avvenuta
dell’efficacia
delle norme mediante l’adesione a trattati internazionali, che attualmente si
comunitarie identificano con il Trattato sull’Unione Europea, il Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza). In riferimento all’ordinamento europeo essi costituiscono le cc.dd. fonti originarie del diritto
comunitario, nelle quali sono contenute anche le “norme di produzione” concernenti le fonti derivate. È opportuno precisare che
sebbene i trattati originari e le versioni successive (sino al Trattato di
Lisbona) siano state recepite nell’ordinamento interno non con leggi
costituzionali, bensì con leggi ordinarie di autorizzazione alla ratifica,
la valenza costituzionale dei Trattati viene affermata sulla base del
disposto dell’art. 11 Cost., alla stregua del quale sono ammissibili
limitazioni della sovranità nazionale per consentire la partecipazione
del nostro paese ad organizzazioni internazionali. È sulla base di tale
principio che è possibile affermare, da una parte, l’equiparazione dei
Trattati alla Carta costituzionale — fatti salvi il rispetto dei principi
supremi e dei diritti inviolabili stabiliti dalla Costituzione (Corte cost.
21 aprile 1989, n. 232) — dall’altra la “prevalenza” di tutto il diritto
comunitario (e non solo dei Trattati) sulle fonti interne di rango
ordinario.
Il principio è ora più esplicitamente affermato dall’art. 117,
comma 1, Cost., come modificato dalla L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3,
a norma del quale « La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e
dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali ».
[§ 16]
Il diritto privato e le sue fonti
31
Di recente, la CGUE ha ribadito che gli organi nazionali di
ultima istanza sono chiamati a fare « tutto il necessario » non solo
affinché venga applicato il diritto di fonte comunitaria (nel caso
disapplicando anche il diritto di rango nazionale), ma anche affinché
venga applicata l’interpretazione che di tale diritto viene fornita
dalla Corte di Giustizia (CGUE, 5 aprile 2016, c-689/13).
Le fonti derivate di matrice comunitaria sono i regolamenti, le
direttive e le decisioni:
a) i regolamenti (art. 288, comma 2, del Trattato sul funziona- Regolamenti
mento dell’Unione Europea, detto anche per brevità TFUE) sono
atti di portata generale e obbligatori in tutti i loro elementi. Essi
contengono norme applicabili dai giudici dei singoli Stati membri,
come se fossero leggi dello Stato, senza bisogno di recepimento.
Prima la Corte di giustizia e poi la nostra Corte costituzionale (sent.
18 giugno 1984, n. 170) hanno chiarito che, nel caso di contrasto tra
un regolamento e una legge interna, il giudice italiano deve « disapplicare » la norma interna e applicare, con prevalenza, la norma
regolamentare (e ciò anche se la norma interna sia posteriore a quella
regolamentare, il che pone quest’ultima in posizione gerarchica superiore a quella della legge ordinaria dello Stato);
b) le direttive (art. 288, comma 3, del TFUE) si rivolgono agli Direttive
organi legislativi degli Stati membri ed hanno lo scopo di armonizzare le legislazioni interne dei singoli Paesi; a differenza dei regolamenti, le direttive non sono immediatamente efficaci nell’ordinamento dei singoli Stati, ma devono essere « attuate » mediante l’emanazione di apposite leggi dei rispettivi Parlamenti (leggi di « recepimento » della direttiva). Per esempio la disciplina « Dei contratti del
consumatore » venne introdotta nel nostro ordinamento in attuazione della Direttiva 93/13/CE, il cui scopo era appunto quello di far
sì che tutti gli Stati membri assicurassero un omogeneo livello di
protezione dei consumatori contro le clausole contrattuali « vessatorie » o « abusive » (v. § 358). Uno Stato che si renda inadempiente
all’obbligo di attuare una direttiva entro il termine previsto dalla
stessa può essere sanzionato dagli organi comunitari.
Inoltre, benché una direttiva, se ancora non attuata, non possa Efficacia
fondare diritti tra privati e non possa pertanto essere applicata da un della
direttiva non
Giudice italiano per risolvere una controversia tra singoli individui, si attuata
ritiene che, qualora le norme della direttiva siano sufficientemente
specifiche e sia scaduto il termine per la sua attuazione, gli organi
della Pubblica Amministrazione vi si debbano uniformare, anche in
assenza di un’apposita legge di recepimento. Pertanto i privati
possono pretendere che gli apparati pubblici orientino la loro con-
32
Nozioni preliminari
[§ 16]
dotta in modo coerente con le disposizioni della direttiva, in quanto
la stessa è vincolante per lo Stato.
Infine un cittadino che abbia subito un danno a causa del
mancato o tardivo recepimento della direttiva — ciò che può avvenire quando la direttiva sia volta ad attribuire specifici diritti al
privato, che tuttavia in concreto non li ha acquisiti a causa appunto
dell’omesso recepimento nell’ordinamento interno — può chiedere il
risarcimento allo Stato (C. Giust., 19 novembre 1991, C-6/90 e C9/90;
Cass., sez. un., 17 aprile 2009, n. 9147);
c) le decisioni (art. 288, comma 4, del Trattato FUE) discipliLe decisioni
nano normalmente situazioni ben definite, e sono vincolanti soltanto
per i soggetti destinatari specificamente individuati: persone fisiche o
giuridiche, oppure Stati membri. Questo tipo di atto è adottato
frequentemente dalla Commissione nell’ambito della concorrenza.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le decisioni possono
essere anche di portata generale, come accade per quelle decisioni di
carattere organizzativo e per quelle in materia di politica estera e
sicurezza comune.
La Corte di giustizia dell’Unione europea (alla quale è affiancato
La Corte di
giustizia
anche un Tribunale), ha competenza, ai sensi dell’art. 267 TFUE, in
tema di interpretazione dei trattati, nonché di validità e interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione. Infatti, qualora un giudice nazionale ritenga che
la questione su cui debba decidere comporti l’applicazione di una
norma comunitaria, il cui significato sia dubbio, può sospendere il
giudizio e chiedere alla Corte di giustizia in via pregiudiziale un’interpretazione della norma. Le sentenze interpretative così emesse
dalla Corte sono vincolanti, nel senso che prevalgono pure sulle
norme di legge incompatibili, determinandone la disapplicazione.
Per consentire una tempestiva attuazione delle direttive è stato
La « legge
comunitaria »
elaborato lo strumento della « legge comunitaria », ossia una legge
generale, approvata anno per anno, con la quale il Parlamento delega
al Governo l’emanazione dei decreti legislativi di attuazione di un
insieme di direttive, delle quali sia in scadenza il termine di attuazione. Ciò permette di dare attuazione alle direttive senza passare
attraverso il complesso iter parlamentare di approvazione delle leggi.
Il procedimento è stato più analiticamente regolato dalla L. 24
dicembre 2012, n. 234, recante « Norme generali sulla partecipazione
dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea », la quale prevede che entro il 28 febbraio
di ogni anno il Governo presenti una « legge di delegazione europea »,
alla quale ne può seguire un’altra, entro il 31 luglio, relativa al
[§ 17]
Il diritto privato e le sue fonti
33
secondo semestre dell’anno. Inoltre è previsto un ulteriore strumento, la « legge europea », per dare attuazione agli atti europei e ai
trattati internazionali stipulati nell’ambito delle relazioni esterne
dell’Unione.
§ 17.
e) La consuetudine.
La nostra tradizione giuridica è dominata dalla distinzione fra
due modi tipici di produzione del diritto: la consuetudine e la legge;
non vi è società organizzata in cui questi due momenti della produzione giuridica non siano, in misura maggiore o minore, presenti.
Il diritto consuetudinario di regola riceve scarsa attenzione. Fonti formali
fonte
Questo atteggiamento è parzialmente giustificato dall’importanza econsuetudel tutto secondaria e residuale che la consuetudine riveste nell’am- dinaria
bito degli ordinamenti contemporanei, i quali, per ragioni di certezza
del diritto e per la crescente complessità del sistema normativo,
privilegiano senz’altro le fonti scritte. Tuttavia, a parte l’indiscussa
importanza storica della fonte consuetudinaria, anche nel diritto
contemporaneo vi sono settori nei quali la consuetudine ha mantenuto un ruolo di rilievo.
Si ritiene che una consuetudine (nel linguaggio del codice civile Elementi
ciò che in dottrina si usa chiamare « consuetudine » assume il nome di dell’uso
normativo
« uso ») sussista quando ricorrono:
1) la ripetizione, generale e costante in un determinato ambiente (tutti i commercianti, tutti i locatori, ecc.), per un tempo
adeguatamente protratto, di un certo comportamento osservabile
come regola di condotta tra i privati (è questo l’elemento c.d.
materiale o oggettivo della consuetudine, comunemente denominato
usus);
2) un atteggiamento di osservanza di quel comportamento in
quanto ritenuto, nell’ambiente sociale considerato, doveroso (c.d.
opinio iuris ac (seu) necessitatis) e non semplicemente conforme a
prassi. Quest’ultimo profilo esprime appunto la concezione di « giuridicità » della consuetudine, in quanto l’uso viene recepito all’interno di una determinata collettività di individui come fonte di
regole giuridiche, come tali coercitive. In ciò consiste la differenza
rispetto alle abitudini o ai costumi meramente sociali, che si traducono in regole sociali dell’agire individuale, le quali però non costituiscono fonte di diritti in capo a taluni soggetti nei confronti di altri
e la cui inosservanza non concreta violazione di precetti giuridicamente sanzionati.
34
Nozioni preliminari
[§ 17]
L’uso normativo, invece, è norma giuridica che costituisce fonte
di diritti tra i privati, sicché il singolo che lamenti la lesione di un
proprio diritto, derivante da una fonte consuetudinaria, potrà rivolgersi al giudice per ottenere gli opportuni provvedimenti di tutela di
quel diritto.
Valore della
La consuetudine non è prevista e disciplinata dalla Costituconsuetudine
zione. Essa costituisce fonte del diritto in virtù dell’art. 1 disp. prel.
c.c.: dunque in virtù di una disposizione di rango legislativo. Ne
segue che la consuetudine è fonte strutturalmente subordinata alla
legge e può operare solo nei limiti in cui la legge lo consente.
InammissibiCiò vale di per sé ad escludere l’ammissibilità della consuetudine
lità della
cosiddetta contra legem, come pure della desuetudine. Se ne trova
consuetudine
contra legem conferma nell’art. 15 disp. prel. c.c., il quale dispone che « le leggi non
sono abrogate che da leggi posteriori ». Sicché è escluso, in linea di
principio, che una legge possa essere abrogata mediante desuetudine,
ossia in forza di una consuetudine in contrasto con la legge stessa.
Consuetudine
L’art. 8, comma 1, disp. prel. c.c. stabilisce che « nelle materie
secundum
regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in
legem
quanto sono da essi richiamati ».
Si dicono perciò consuetudini secundum legem quelle che operano « in accordo » con la legge in quanto ad esse la legge fa rinvio
(sono infatti numerose le norme del codice che, per la regolamentazione di determinati rapporti, rimandano espressamente agli usi
eventualmente esistenti in materia: con riferimento alla vendita, per
esempio, si vedano gli artt. 1492, 1497, 1510, 1512, 1517, 1520, 1521,
1522, 1527, 1528, 1535 c.c.). Talora gli usi sono richiamati quali fonti
di norme derogatorie rispetto alla disciplina codicistica: in quest’ultima ipotesi la legge reca una norma dispositiva, applicabile « salvo
uso contrario » (es.: art. 1187 c.c.).
Per ciò che concerne le (rare) materie o fattispecie non discipliConsuetudine
praeter legem
nate in alcun modo da fonti scritte — le materie cioè per le quali il
diritto scritto è totalmente lacunoso — nulla è espressamente disposto. Argomentando a contrario dalla disposizione in esame (art. 8
disp. prel. c.c.), i più ritengono che in queste materie sia consentito
ricorrere alla consuetudine onde colmare le lacune del diritto. La
consuetudine non richiamata da fonti scritte, ma potenzialmente
rilevante come fonte integrativa della disciplina posta dalle fonti
scritte, è comunemente detta « consuetudine praeter legem ».
D’altro canto si deve osservare che l’art. 12, comma 2, disp.
prel. c.c. prevede espressamente, quali tecniche di integrazione del
diritto lacunoso, l’analogia e il ricorso ai princìpi generali del diritto
(§ 26), non menzionando affatto la consuetudine. Sicché il ruolo della
[§ 18]
Il diritto privato e le sue fonti
35
consuetudine praeter legem non può che essere estremamente ridotto.
Sulla base della disposizione menzionata, si può sostenere che il
ricorso a norme consuetudinarie sia consentito solo quando il caso in
esame non possa essere deciso mediante analogia, e neppure ricada
sotto alcun principio generale.
Il diritto consuetudinario, in quanto non scritto e perciò non Conoscenza
documentato dalle fonti ufficiali di cognizione, solleva delicati pro- della
consuetudine
blemi di accertamento del suo contenuto.
Da un lato, vale anche per la consuetudine il principio iura novit
curia (ossia il principio per cui l’esistenza di una norma non deve essere
provata dalla parte che ne chiede l’applicazione, in quanto l’ordinamento giuridico dello Stato è per definizione noto ai giudici dello Stato):
pertanto, il giudice deve applicare la consuetudine di cui sia a conoscenza. Dall’altro lato è di fatto possibile che l’esistenza di una norma
consuetudinaria di cui una parte pretenda l’applicazione sia controversa e debba essere obiettivamente accertata. In simili circostanze è
la parte interessata all’applicazione della una norma consuetudinaria
ad avere l’onere di provarne l’esistenza, collaborando con il giudice in
tal senso. Tale attività probatoria non è soggetta a forme legali. La
prova può essere fornita facendo ricorso ad ogni mezzo consentito per
l’accertamento di fatti: documenti, testimonianze, precedenti applicazioni. Esistono raccolte ufficiali di usi (per esempio quelle curate
dalle Camere di Commercio, che raccolgono gli usi commerciali praticati su una certa « piazza »), che non hanno ovviamente alcun valore
di fonte normativa, ma determinano una presunzione semplice (§ 128)
circa l’esistenza degli usi da esse documentati (art. 9 disp. prel. c.c.).
L’uso che abbia gli elementi su indicati si chiama uso normativo Usi negoziali
e si distingue dagli usi negoziali (o contrattuali o convenzionali) che einterpretativi
valgono solo per l’integrazione degli effetti del contratto (artt. 1340
e 1374 c.c.), sia dagli usi interpretativi, che assolvono ad una funzione
appunto interpretativa del contratto (art. 1368 c.c.).
§ 18.
Il codice civile.
Speciale rilievo tra tutte le leggi ordinarie dello Stato va riconosciuto a quel particolare tipo di leggi che vengono definite « codici »
(abbiamo così il codice civile, il codice penale, il codice di procedura
civile, il codice di procedura penale e il codice della navigazione).
Il termine codice — che in origine indicava genericamente un Polisemia del
libro cucito sul dorso (codex) — ha molteplici significati. Nel linguag- termine
« codice »
gio giuridico inizialmente per codice si intendeva una raccolta di
36
Nozioni preliminari
[§ 18]
materiali normativi come è appunto accaduto per il Codex inserito nel
Corpus iuris civilis di Giustiniano, che raccoglieva un insieme di
Constitutiones imperiali. La successiva evoluzione della teoria giuridica e dei sistemi normativi ha portato ad individuare come Codice
non più una « raccolta » di leggi precedenti (compilatio), bensì una
legge del tutto nuova, che si caratterizzi per le note della organicità
(trattandosi di uno strumento normativo volto a disciplinare complessivamente un intero settore dell’esperienza giuridica), della sistematicità (che si esprime nel coordinamento logico del materiale
normativo e delle singole regole, definizioni, istituti), della universalità ed eguaglianza (in quanto la disciplina del codice si rivolge in
egual modo a tutti i consociati, svolgendo una funzione unificatrice
degli statuti giuridici delle diverse classi sociali). Per la sua funzione
innovatrice e uniformatrice il codice implica l’abrogazione di tutto il
diritto precedente vigente nella materia codificata, e l’accentramento
della disciplina nell’intero territorio contemplato, onde favorire l’univocità delle soluzioni e la facilità nel reperimento e nella consultazione del materiale normativo, accentrato in un unico strumento.
Qualificare una legge come « codice » di un intero settore postula
che il legislatore intenda dare a quella materia un assetto organico e
non precario, ma tendenzialmente di lungo periodo, sostenuto da
soluzioni tecniche da inserire in un saldo reticolato sistematico di
princìpi e regole costanti, chiare e coerenti.
Nella storia giuridica moderna — a partire dal XVII e XVIII
La nozione
di « codice »
secolo — ha assunto importanza rilevante il movimento per la
nel pensiero
giuridico codificazione, sia in campo costituzionale (si pensi alle « Dichiarazioni
dei diritti dell’uomo » approvate in Francia nel periodo della Rivoluzione, oppure alla Costituzione federale americana del 1787, alle
lotte politiche negli Stati italiani preunitari per la concessione di una
costituzione o « Statuto »), sia nel campo del diritto privato. In
questo specifico terreno il Medioevo aveva lasciato una situazione di
estrema complessità, con una molteplicità di fonti normative intersecantisi (diritto romano, diritto canonico, diritti locali, legislazione
del potere centrale) cui corrispondeva una spesso disordinata pluralità di giurisdizioni, ossia di organismi investiti del potere di applicare
le leggi (ius dicere); il tutto con la conseguenza di favorire l’incertezza
e l’arbitrio. Si chiedeva, perciò, di spazzar via il vecchio, pletorico e
confuso materiale, sostituendolo con leggi organiche, caratterizzate
da semplicità, chiarezza, uniformità, certezza, razionalità. Un tale
intento era spinto dall’aspirazione ad introdurre norme da considerare addirittura universali ed eterne, perché dettate dalla, e conformi
alla, « ragione »: non a caso l’idea di codice è storicamente un pro-
[§ 18]
Il diritto privato e le sue fonti
37
dotto dell’Illuminismo, e dunque della fiducia nella capacità dell’uomo di costruire un sistema normativo organico e logicamente
ordinato, e perciò privo di contraddizioni e lacune.
Tuttora nei Paesi di « diritto scritto », come sono quelli dell’Europa continentale, il codice civile, sebbene abbia perduto molto del
suo valore ideologico, riveste un ruolo di centralità nel sistema del
diritto privato: regolando i soggetti (sia le persone fisiche che quelle
giuridiche, con identità di trattamento per tutti ed abolizione di ogni
privilegio individuale), i beni e i diritti sulle cose (e quindi, in
particolare, la proprietà), l’attività (e quindi, in particolare, il contratto), nonché i princìpi fondamentali sulla responsabilità civile, il
codice, sebbene non abbia pretese esaustive della disciplina dei
rapporti tra privati, si pone come necessario elemento di integrazione
e supporto di qualsiasi altra legge (che, proprio per questo, si dice,
rispetto al codice, « speciale », ossia « di specie », perché solo il codice
è l’unica legge a carattere generale).
Il primo grande codice di diritto privato dell’età moderna è Il codice
stato il « Codice civile dei francesi » (detto anche « codice Napoleone ») Napoleone
emanato nel 1804, che, sorto nel clima culturale della Rivoluzione
francese, favorì efficacemente la diffusione dei princìpi dell’eguaglianza tra i cittadini (parità di trattamento a parità di condizioni),
l’idea del primato del diritto di proprietà (si consideri che nel preesistente sistema feudale la proprietà terriera era gravata da diritti del
sovrano e dei ceti nobiliari, che si esprimevano attraverso l’imposizione di oneri economici e rendite, che dovevano essere pagate da chi
effettivamente lavorava il fondo e che ponevano ostacoli di varia
natura alla libera circolazione della proprietà delle terre), il principio
della libertà dei commerci e delle attività economiche tra i privati. Il
codice Napoleone, sia per l’avanzato modello della società che rispecchiava, sia per il grado di raffinatezza tecnica e di rigore logico, ha
avuto molto successo, tanto da essere stato pressoché integralmente
adottato in numerosi altri Paesi e da essere tuttora vigente in
Francia, sia pure attraverso, ovviamente, numerosi adattamenti.
Nel nostro Paese la vita dei codici, compreso il codice civile, è I codici
stata particolarmente travagliata. Tralasciando i codici degli Stati italiani
post-unitari
preunitari (per lo più non autentici « codici », nel senso sopra illustrato, ma semplici raccolte di legislazione preesistente), dopo l’unificazione del Regno d’Italia fu emanato il codice civile del 1865 (per
larga parte ispirato al codice francese), insieme ad un separato codice
di commercio. Quest’ultimo fu sostituito nel 1882 da un nuovo codice
di commercio. Ma già nel 1938 cominciarono ad essere emanati singoli
libri di un nuovo codice civile, promulgato per intero nel 1942, e nel
38
Nozioni preliminari
[§ 18]
quale fu — all’ultimo momento, con insufficiente lavoro di coordinamento — assorbito anche il codice di commercio, per la cui
sostituzione i lavori preparatori erano stati invece condotti separatamente.
La scelta di emanare un nuovo codice nel corso di una grande
Il codice
civile del
guerra — e pertanto alla vigilia di inevitabili profondi mutamenti
1942
sociali — non fu certo felice. E difatti nel dopoguerra sono stati
numerosi i settori in cui sono state emanate leggi che hanno profondamente modificato il tessuto originario del codice (basti pensare alla
riforma del diritto di famiglia, alle rilevanti modifiche in tema di
lavoro subordinato, locazioni, società commerciali, ecc.).
Va tuttavia sottolineato che l’ideologia imperante al momento
dell’emanazione del codice civile (la dittatura fascista era ancora al
potere, anche se si era alla vigilia della sua caduta) non ha lasciato
tracce significative nel codice, maturato ad opera di giuristi formatisi
nel precedente clima liberal-borghese, e perciò sostanzialmente indifferenti alle concezioni ufficiali del fascismo. Si può così spiegare « la
tenuta » del codice, che appare ancora idoneo a svolgere la sua
funzione di documento centrale e fondamentale nel regolamento dei
rapporti inter-privati.
Peraltro il codice non esaurisce il sistema del diritto civile. Da
Il codice
civile e la
un lato occorre tener presenti anche i princìpi dettati con la Carta
Costituzione
costituzionale del 1948, che, sebbene successiva al codice di soli pochi
anni, si dimostra ben più sensibile alle esigenze di perequazione
sociale, di elevazione dei ceti meno abbienti, di partecipazione di
tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese (art. 3, comma 2, Cost.); dall’altro è venuta costantemente
crescendo di importanza la legislazione speciale, che lungi dal rappresentare, come un tempo, una sorta di « completamento » del
codice, oggi costituisce — sia quantitativamente che qualitativamente — un mondo estremamente variegato e complesso, tale da non
consentire più di considerare necessariamente i princìpi codicistici
(benché sempre gli unici, come si è visto, a carattere « generale »)
come i più importanti. È dunque compito dell’interprete quello di
sforzarsi di restituire ai frammenti sparsi dell’ordinamento sistematicità e coerenza.
Naturalmente anche i codici — essendo approvati con leggi
ordinarie — sono soggetti al controllo di legittimità della Corte
costituzionale e possono essere sempre modificati (o addirittura, in
tutto o in parte, abrogati) da leggi ordinarie successive; spesso le
modifiche vengono apportate con la tecnica della « Novella », ossia
sostituendo direttamente il testo di un articolo, ferma la numera-
[§ 18]
Il diritto privato e le sue fonti
39
zione originaria (si vedano, ad es., gli artt. 143-145, il cui testo
attuale, profondamente diverso da quello originario, è stato introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975), ovvero
aggiungendo articoli nuovi.
CAPITOLO III
L’EFFICACIA TEMPORALE DELLE LEGGI
§ 19.
Entrata in vigore della legge.
Per l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi si richiede,
oltre all’approvazione da parte delle due Camere:
a) la promulgazione della legge da parte del Presidente della
Repubblica (art. 73 Cost.);
b) la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (art.
73, ult. comma, Cost.);
c) il decorso di un periodo di tempo, detto vacatio legis, che va
dalla pubblicazione all’entrata in vigore della legge, e che di regola è
di quindici giorni (art. 73 Cost. e art. 10 disp. prel. c.c.), salvo che la
legge stessa stabilisca un termine diverso, più lungo o più breve, fino
al limite dell’entrata in vigore immediata al momento della pubblicazione.
La disciplina costituzionale è integrata dal Testo unico delle
disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull’emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali
della Repubblica italiana, D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092.
Con la pubblicazione la legge si reputa conosciuta e diventa
obbligatoria per tutti, anche per chi, in realtà, non ne abbia conoscenza. Vale, infatti, il principio tradizionale per cui ignorantia iuris
non excusat, cosicché nessuno può invocare a propria giustificazione,
per evitare una sanzione o comunque sottrarsi agli effetti della
norma, di aver ignorato l’esistenza di una disposizione di legge (art.
5 c.p.). La Corte costituzionale (sent. n. 364/1988) ha tuttavia stabilito che l’ignoranza della legge è scusabile quando l’errore di un
soggetto in ordine all’esistenza o al significato di una legge penale sia
stato inevitabile.
§ 20.
Abrogazione della legge.
Una disposizione di legge — come di qualsiasi altro atto normativo — viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessi
[§ 20]
L’efficacia temporale delle leggi
41
l’efficacia (anche se una disposizione abrogata può continuare ad
essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente all’abrogazione, e
può anche essere previsto un apposito regime transitorio; in proposito
v. il § 22).
Per abrogare una disposizione occorre sempre l’intervento di
una disposizione nuova di pari valore gerarchico: e così una legge non
può essere abrogata che da una legge posteriore (art. 15 disp. prel.
c.c.).
L’abrogazione può essere espressa o tacita. Si ha abrogazione Abrogazione
espressa quando la legge posteriore dichiara esplicitamente abrogata espressa
una legge anteriore, o suoi singoli articoli.
Si ha abrogazione tacita se, in assenza di una dichiarazione Abrogazione
esplicita volta a sancire l’abrogazione di disposizioni previgenti, le tacita
norme posteriori: a) sono incompatibili con una o più disposizioni
antecedenti (sussiste incompatibilità quando fra le disposizioni successive e quelle precedenti vi sia una contraddizione tale da renderne
impossibile la contemporanea applicazione); b) introducono una
nuova regolamentazione dell’intera materia già regolata dalla legge
precedente, la quale, pertanto, deve ritenersi assorbita e sostituita
integralmente dalle disposizioni più recenti anche in assenza di una
vera e propria incompatibilità tra la vecchia e la nuova disciplina.
Fenomeno diverso dall’abrogazione (parziale) di una norma è la Deroga
deroga, che si ha quando una nuova norma pone, ma solo per specifici
casi, una disciplina diversa da quella prevista dalla norma precedente, la quale continua però ad essere applicabile a tutti gli altri casi
(lex specialis posterior derogat generali).
Un’altra figura di abrogazione espressa può essere realizzata Referendum
mediante un referendum popolare, quando ne facciano richiesta almeno cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali; la proposta di abrogazione si considera approvata se alla votazione partecipi
la maggioranza degli aventi diritto e la proposta di abrogazione
consegua la maggioranza dei voti espressi (art. 75 Cost.).
Anche la dichiarazione d’incostituzionalità di una legge (o di un Illegittimità
solo articolo di una legge, o di un comma o di una qualsiasi sua parte) costituzionale
ne fa cessare l’efficacia. Ma mentre l’abrogazione ha effetto solo per
l’avvenire, ex nunc (e pertanto la legge, benché abrogata, può essere
ancora applicata ai fatti verificatisi quando era in vigore), la dichiarazione di incostituzionalità annulla la disposizione illegittima ex
tunc, come se non fosse mai stata emanata, cosicché non può più
essere applicata neppure nei giudizi ancora in corso e neppure a fatti
già verificatisi in precedenza. Restano salvi soltanto i rapporti definiti con sentenza passata in giudicato (art. 136 Cost.), ossia una
Nozioni preliminari
42
[§ 21]
sentenza contro la quale non siano più esperibili i mezzi ordinari di
impugnazione previsti dal codice di procedura civile.
L’abrogazione di una norma che, a sua volta, aveva abrogato
una norma precedente non fa rivivere quest’ultima, salvo che sia
espressamente disposto: in tal caso la norma si chiama ripristinatoria.
§ 21.
Irretroattività della legge.
Una norma giuridica ricollega al verificarsi di una data fattispecie (ossia di un fatto o di una serie di fatti) una certa conseguenza
giuridica (quale, ad es., l’acquisto o la perdita di un diritto, il sorgere
o l’estinguersi di un obbligo, la soggezione ad una sanzione, ecc.). La
fattispecie, descritta in astratto dalla norma, determina la conseguenza giuridica ivi prevista quando si verificano in concreto i fatti
astrattamente previsti da quella norma. È logico, quindi, che, quanto
meno di regola, la norma si applichi alla fattispecie in essa descritta
(in astratto) che si verifica (in concreto) successivamente all’entrata in
vigore della norma stessa. E difatti l’art. 11, comma 1, delle preleggi
stabilisce che « La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha
effetto retroattivo ». Si dice, invece, retroattiva una norma la quale
attribuisca conseguenze giuridiche a fattispecie (concrete) verificatesi in momenti anteriori alla sua entrata in vigore.
Irretroattività
La irretroattività della legge deve considerarsi principio di
della norma
civiltà giuridica, in quanto posto a presidio della certezza del diritto
penale
e a garanzia dei consociati, la cui condotta non può essere valutata in
base a regole introdotte ex post facto. Tuttavia nel nostro ordinamento soltanto la norma incriminatrice penale non può in alcun caso
essere retroattiva: « nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato »
(art. 2 c.p., principio elevato a rango di disposizione costituzionale
dall’art. 25, comma 2, Cost.; lo stesso principio è affermato in materia
di sanzioni amministrative dall’art. 1 della L. 24 novembre 1981, n.
689).
La retroattività delle leggi di ambito privatistico non è invece in
assoluto preclusa; al riguardo si è espressa in più occasioni la Corte
costituzionale, ritenendo giustificata l’efficacia retroattiva della
norma solo se motivata dall’esigenza di tutelare diritti e beni di
rilievo costituzionale o tutelati dalla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (Corte cost. 28 novembre 2012, n. 264), e purché non abbia
l’effetto di produrre ingiustificate disparità di trattamento o la
[§ 22]
L’efficacia temporale delle leggi
43
lesione di legittimi affidamenti (Corte cost. 5 aprile 2012, n. 78; Corte
cost. 26 gennaio 2012, n. 15).
Efficacia retroattiva hanno, poi, le cosiddette « leggi interpretative », ossia le leggi emanate per chiarire il significato di norme
antecedenti e che, quindi, si applicano a tutti i fatti regolati da
queste ultime, quand’anche anteriori alla emanazione della legge
interpretativa. Sulla distinzione, peraltro, tra legge effettivamente
interpretativa, e perciò retroattiva, ovvero in realtà novativa, e
quindi irretroattiva, si veda infra al § 24.
Se la norma ha efficacia retroattiva, essa si applica anche alla
risoluzione delle controversie che siano ancora pendenti al momento
della sua entrata in vigore (al riguardo si usa l’espressione ius
superveniens). Vengono invece, salva diversa disposizione legislativa,
rispettati gli effetti delle sentenze già passate in giudicato.
§ 22.
Successione di leggi.
La soluzione dei problemi posti dal succedersi delle leggi non è
sempre agevole, quando si tratti di fattispecie verificatesi anteriormente all’entrata in vigore della modificazione normativa, ma i cui
effetti perdurano nel tempo.
In alcuni casi il legislatore ha cura di regolare il passaggio tra la Norme
legge vecchia e quella nuova con specifiche norme, che si chiamano transitorie
disposizioni transitorie. Per esempio con la riforma del diritto di
famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151) il legislatore ha introdotto come
regime generale dei rapporti patrimoniali tra i coniugi quello della
comunione legale dei beni e ne ha previsto l’applicazione anche alle
coppie che si fossero sposate prima dell’entrata in vigore della nuova
legge, ma ha anche stabilito un periodo transitorio durante il quale
ciascuno dei coniugi, con una propria dichiarazione unilaterale, poteva impedire l’applicazione del regime di comunione, sicché la
coppia restava assoggettata al regime della separazione dei beni.
Ma può avvenire che manchi una specifica regola di disciplina
intertemporale. Ed allora sorgono delicate questioni che genericamente vengono designate come questioni di diritto transitorio, o di
successione di leggi nel tempo.
Due teorie sono state a questo proposito sostenute: a) la legge
nuova non può colpire i « diritti quesiti », che, cioè, sono già entrati
nel patrimonio di un soggetto (teoria del diritto quesito); b) la legge
nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezio-
44
Nozioni preliminari
[§ 22]
nati sotto il vigore della legge precedente, ancorché dei fatti stessi
siano pendenti gli effetti (teoria del fatto compiuto).
Teoria dei
La prima teoria viene in genere criticata in base al rilievo per cui
diritti quesiti non sempre è agevole la distinzione che essa introduce tra diritto
quesito, ossia già maturato nel patrimonio di un soggetto, e la
semplice aspettativa dell’acquisto di un diritto, che si verifica quando
la sequenza che ne determina l’insorgere non sia ancora integralmente compiuta.
Teoria del
La teoria del fatto compiuto comporta che la legge — se non ne
fatto sia disposta la retroattività — non si applica alle fattispecie realizcompiuto
zatesi anteriormente alla sua entrata in vigore. La legge non si
applica neppure ai rapporti “esauriti” al tempo della sua entrata in
vigore. Ad es., dovrebbe ritenersi estinto un diritto, una volta decorso il termine fissato per la sua prescrizione estintiva, anche se una
nuova norma, entrata in vigore successivamente al momento in cui la
prescrizione di quel diritto è già maturata, disponesse un nuovo
termine prescrizionale più lungo del precedente.
Anche la teoria dei fatti compiuti, tuttavia, non offre che criteri
meramente indicativi, e soprattutto lascia aperti i problemi di soluzione dei rapporti « pendenti » o comunque di tutte quelle situazioni
in cui una fattispecie verificatasi nell’imperio della legge previgente
non abbia esaurito tutti i propri effetti giuridici; effetti che, però, la
nuova disciplina connota diversamente rispetto a quella vigente
all’epoca del compimento del fatto.
In definitiva, occorre sempre risalire alla volontà del legislatore
e domandarsi se, in vista di nuove esigenze sociali, egli intenda con la
nuova norma attribuire efficacia immediata al regolamento disposto
ed estenderlo, pertanto, ai fatti compiuti sotto il vigore di quella
preesistente (ma i cui effetti non si siano esauriti), oppure limitarne
l’applicazione alle sole vicende materiali verificatesi sotto l’impero
della nuova disciplina.
Si parla, invece, di ultrattività allorquando una disposizione di
legge, derogando al principio tempus regit actum, stabilisce che atti o
rapporti, compiuti o svolgentisi nel vigore di una nuova normativa,
continuano ad essere regolati dalla legge anteriore.
CAPITOLO IV
L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE
DELLA LEGGE
§ 23.
L’applicazione della legge.
Per applicazione della legge s’intende la concreta realizzazione,
nella vita della collettività, di quanto è ordinato dalle regole che
compongono l’ordinamento giuridico. Pertanto, se si tratta di norme
di organizzazione o di struttura, la loro applicazione consiste nella
effettiva creazione degli organi previsti e nel loro funzionamento. Se
si tratta di norme di condotta, la loro applicazione consiste nel non
fare ciò che è proibito e nel fare ciò che è doveroso.
In particolare il diritto privato regola l’agire degli individui nei
rapporti tra loro. Tenere un comportamento coerente con le regole
poste dall’ordinamento, prestare ad esse spontanea osservanza, è il
primo modo di dare attuazione alle norme (es.: pagare un debito;
rispettare la proprietà altrui ecc.).
Qualora la tutela del diritto individuale, di fronte alla sua
lesione da parte di un altro soggetto, renda indispensabile il ricorso
all’Autorità giurisdizionale, è il giudice ad applicare la legge, pronunciando i provvedimenti (sentenza, ordinanza, decreto) previsti dal
diritto processuale al fine di dare tutela al diritto sostanziale della
parte istante.
§ 24.
L’interpretazione della legge. Il precedente giurisprudenziale.
L’interpretazione è attività tipica del giurista, che deve confrontarsi con il testo normativo per comprenderne il valore precettivo, ossia la regola affermata dall’enunciato legislativo.
Interpretare, si legge in Cicerone, consiste nel trarre un significato da segni oscuri (obscura explanare interpretando).
Interpretare un testo, e in particolare un testo normativo, I plurimi
di
dunque, non vuol dire « accertare » (conoscere) un significato univoco significati
un testo
che il testo in sé già esprimerebbe, bensì attribuire un senso, decidere
(scegliere) che cosa si ritiene che il testo effettivamente significhi tra
46
Nozioni preliminari
[§ 24]
le plurime letture che spesso un testo consente (§ 4) e, conseguentemente, come vadano risolti i conflitti che possono insorgere nella sua
applicazione.
Insufficienza
L’attività di interpretazione non può mai, dunque, esaurirsi nel
del dato
mero esame dei dati testuali. In primo luogo, infatti, non tutti i
testuale
vocaboli contenuti nelle leggi possono essere definiti nelle leggi stesse:
pertanto il significato che viene loro attribuito in ciascun contesto va
ricavato da elementi extra-testuali. E difatti lo stesso legislatore (art.
12 disp. prel.) — dopo aver prescritto di attribuire alle parole il loro
« significato proprio » (ma quasi nessun vocabolo ha un significato
univoco, e quindi già la scelta del significato « proprio » di ciascuna
parola, nel singolo contesto, è opera dell’interprete) — impone di
tener conto altresì della « intenzione del legislatore », concetto che,
come vedremo (§ 25), l’interprete non può ricostruire se non avvalendosi di elementi extra-testuali.
Fattispecie
In secondo luogo, gli enunciati normativi si riferiscono a situaastratta e
zioni ipotetiche e definite in via generale ed astratta: spetterà all’incaso concreto
terprete, di fronte a singoli casi concreti, decidere se considerarli
inclusi nella disciplina dettata dalla singola norma, oppure no, ed a
tal fine l’interprete dovrà impiegare particolari tecniche di « estensione » o di « integrazione » delle disposizioni della legge, attingendo a
criteri di decisione extra-testuali o meta-testuali.
Conflitti tra
In terzo luogo, le formulazioni delle leggi appaiono non di rado
fonti
in conflitto fra loro: conflitti che si superano ricorrendo a criteri di
normative
gerarchia tra le fonti (ad es. le norme costituzionali prevalgono su
quelle ordinarie), a criteri cronologici (la norma posteriore prevale su
quella anteriore), a criteri di specialità (lex specialis derogat legi
generali; lex posterior generalis non derogat legi priori speciali).
Interpretazione
In quarto luogo, di fronte a ciascun caso singolo difficilmente si
sistematica
può applicare un’unica norma, ma occorre utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni, opportunamente ritagliate e ricomposte per
adattarle al caso: operazione complessa che si avvale di ricostruzioni
sistematiche (ossia sulla base dell’intero sistema dell’ordinamento).
... e
Sotto questo profilo assume un ruolo di grande importanza
costituzionall’ancoraggio dell’attività ermeneutica ai principi e ai valori fondamente
orientata mentali contenuti nella Costituzione, poiché come ha ribadito la
stessa Corte costituzionale in più occasioni, tra più significati possibili
che si possono attribuire a una norma deve essere preferito quello
conforme alla Costituzione (Corte cost. 7 gennaio 2000, n. 1). Ed anzi
una norma può essere dichiarata incostituzionale soltanto quando
non sia possibile darne un’interpretazione conforme a costituzione
(Corte cost. 22 ottobre 1996, n. 356; Corte cost. 16 maggio 2008, n.
[§ 24]
L’applicazione e l’interpretazione della legge
47
147) Si parla a tal proposito di interpretazione costituzionalmente
orientata.
Si è inoltre ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte
costituzionale e della Corte di Cassazione l’orientamento secondo cui
i principi fondamentali della Costituzione — come, ad esempio, il
dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. — non solo vincolano
l’opera del legislatore (che deve normare nel rispetto di tali principi)
ma « entrano direttamente nel contratto » e nei rapporti tra privati,
i quali pure sono dunque immediatamente vincolati dal loro contenuto (Corte cost. 26 marzo 2014, n. 77; Cass., sez. un., 6 maggio 2016,
n. 9140).
L’attribuzione a un documento legislativo del senso più imme- Ogni testo
di
diato e intuitivo viene detta interpretazione « dichiarativa ». Il ca- richiede
essere
none metodologico in claris non fit interpretatio prescrive di attenersi, interpretato
ovunque sia possibile, se la lettera della legge non è oscura, ad una
interpretazione dichiarativa (tale modalità di approccio al testo normativo si rispecchia nella regola di cui alla prima parte dell’art. 12,
comma 1, disp. prel. c.c.). Quando invece il processo interpretativo
attribuisce ad una disposizione un significato diverso da quello che
apparirebbe, a prima vista, esserle « proprio », e cioè attribuisce alla
legge una portata diversa da quella che il suo tenore letterale potrebbe suggerire, si parla di interpretazione « correttiva », nelle due
forme della interpretazione « estensiva » e della interpretazione « restrittiva » (che può giungere fino al limite della interpretazione
« abrogante »): espressioni tutte che implicitamente si ispirano alla
credenza che il discorso legislativo abbia un significato proprio, che
precede ed è indipendente dall’attività dell’interprete, occultando il
fatto che il documento è muto senza l’interprete, essendo il suo
significato il risultato e non il presupposto dell’attività interpretativa.
Talvolta nell’uso si contrappone alla « interpretazione della Interpretae
legge » la « integrazione della legge », per distinguere tra l’attribuzione zione
integrazione
di significato ad un determinato documento normativo e l’individuazione di una regola che il documento normativo non consentirebbe ad
una sua prima ed immediata lettura, ma che si ritiene possa egualmente esserne ricavata con un più accurato esame: contrapposizione,
quindi, che non va accettata, rientrando anche « l’integrazione della
legge » nella attività di interpretazione.
Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpre- I soggetti
tativa si suole distinguere tra interpretazione giudiziale, interpreta- dell’attività
interprezione dottrinale e interpretazione autentica.
tativa
L’attività interpretativa si traduce in provvedimenti dotati di La giuriefficacia vincolante quando sia compiuta dai giudici dello Stato sprudenza
48
Nozioni preliminari
[§ 24]
nell’esercizio della funzione giurisdizionale (c.d. interpretazione giudiziale). Però si deve chiarire che l’interpretazione della disposizione,
attraverso cui il giudice giunge alla decisione del caso sottoposto al
suo esame, svolge il suo ruolo autoritativo nei confronti delle sole
parti del giudizio, che sono le uniche destinatarie del provvedimento
del giudice. Una sentenza è però idonea ad assumere anche valore di
precedente nei confronti di altri casi simili, in quanto l’interpretazione
di una disposizione normativa sottesa alla sentenza e le argomentazioni logico-giuridiche che ne costituiscono la motivazione possono
essere assunte a modello da parte di altri giudici a fini della soluzione
di casi analoghi.
In termini tecnici con l’espressione giurisprudenza si definisce
l’orientamento applicativo espresso dalla costante, o tendenzialmente stabile, prassi dei giudici (così si dice, per esempio, che la
giurisprudenza della Corte di Cassazione è orientata ad interpretare
abitualmente una certa disposizione attribuendole un determinato
significato).
Il valore di un precedente, nel nostro ordinamento, è però limiIl valore del
precedente
tato alla persuasività logica ed argomentativa del criterio di decisione
espresso dalla sentenza, poiché, di regola, non è attribuita ai precedenti giurisprudenziali forza vincolante ai fini della risoluzione di
successivi casi analoghi (diversamente avviene negli ordinamenti
anglosassoni in cui le pronunce delle Corti concorrono alla creazione
del diritto oggettivo); pertanto ciascun giudice è libero di adottare
l’interpretazione che ritenga preferibile, anche eventualmente in
contrasto con pronunce della Corte di Cassazione.
Tuttavia l’interpretazione giudiziale ha di fatto sempre avuto
una notevole autorità, a causa della tendenza degli orientamenti
della giurisprudenza a consolidarsi (anche in ragione del carattere
professionale della magistratura, istituzionalizzata come corpo dell’apparato dello Stato, dotato di autonomia e indipendenza rispetto
agli altri poteri dello Stato).
Recenti leggi, nel tentativo di accrescere l’uniformità delle
prassi interpretative e dunque la prevedibilità delle decisioni (e
quindi la certezza del diritto), hanno rafforzato il valore del precedente. L’art. 360-bis c.p.c. prevede l’inammissibilità del ricorso alla
Corte di cassazione quando il provvedimento che si vuole impugnare
(es.: una sentenza di un organo giurisdizionale di grado inferiore,
Corte d’appello o Tribunale) abbia deciso le questioni di diritto in
modo conforme al pregresso orientamento della Corte Suprema in
argomento, e i motivi di ricorso non offrano elementi per modificare
quell’orientamento.
[§ 24]
L’applicazione e l’interpretazione della legge
49
Ancora, nell’ambito del processo civile, è conferita una sorta di
vincolatività alle sentenze della Cassazione a sezioni unite; infatti,
mentre i giudici di merito, in conformità ai principi generali, restano
liberi di emanare decisioni difformi, non così invece le sezioni semplici della medesima Corte di Cassazione, in relazione alle quali l’art.
374, comma 3, c.p.c. prevede che se « la sezione semplice ritiene di
non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite,
rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del
ricorso ».
Si è già detto, infine, come siano dotate di vincolatività le
sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’Unione europea
(v. § 16).
Del tutto peculiare è il ruolo attribuito alle sentenze emanate
dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo (che ha sede a Strasburgo),
la cui vincolatività nei confronti dei giudici nazionali è anche di tipo
ermeneutico, nel senso che i giudici nazionali devono far riferimento
senz’altro alle norme della Cedu, così come intese dalla Corte Europea, nell’applicare le norme dell’ordinamento italiano e di quello
comunitario.
Su un altro piano si pone l’interpretazione dottrinale, che è La dottrina
costituita dagli apporti di studio dei cultori delle materie giuridiche,
i quali, senza alcun’altra autorità diversa da quella che può eventualmente derivare dal prestigio personale dell’autore, si preoccupano di raccogliere il materiale utile all’interpretazione delle varie
disposizioni, di illustrarne i possibili significati, di sottolineare le
implicazioni e le conseguenze delle varie soluzioni interpretative, con
uno sforzo di grande importanza pratica, in difetto del quale quanti
operano nella concreta esperienza quotidiana (giudici, avvocati, funzionari pubblici, comuni cittadini, ecc.) sarebbero privati di un
appoggio fondamentale nelle scelte che sono di continuo chiamati ad
effettuare con rapidità, e che escludono la possibilità di dedicarsi ad
analisi spesso ardue del materiale normativo.
Non costituisce, infine, vera attività interpretativa la c.d. inter- L’interpretapretazione autentica, ossia quella che proviene dallo stesso legislatore, zione
autentica
che emana talvolta apposite disposizioni per chiarire il significato di
altre preesistenti. La norma interpretativa, come ogni altra norma
giuridica, ha carattere vincolante: ossia il legislatore vuole che chi
deve applicare la norma precedente le attribuisca il senso voluto
dalla nuova disposizione. Questa ha, perciò, efficacia retroattiva:
infatti essa chiarisce anche per il passato il valore da attribuire alla
legge precedente.
Nozioni preliminari
50
[§ 25]
Appunto in vista dell’efficacia retroattiva della norma interpretativa è assai importante distinguerla da quella novativa che ha
efficacia solo per i fatti compiuti successivamente alla sua entrata in
vigore (ex nunc).
Talora la natura interpretativa di una norma è esplicitamente
dichiarata (es. quando la nuova legge dispone che una certa norma
preesistente « si interpreta nel senso che ... »), in altri casi deve essere
dedotta in via interpretativa, con le intuibili difficoltà e incertezze.
Non si può, peraltro, considerare davvero interpretativa la legge
che, sebbene dichiarata espressamente tale, in realtà non sia diretta
affatto a sciogliere un dubbio interpretativo creato dalla norma
precedente, bensì a modificarla.
Giova tener presente che la retroattività della legge interpretativa non incide, salva contraria disposizione, sul giudicato formatosi
sotto l’impero della legge precedente.
§ 25.
Le regole dell’interpretazione.
Abbiamo già detto che l’indagine dell’interprete non può limitarsi alla lettera della legge (soprattutto quando questa utilizza, come
di frequente accade, le c.d. clausole generali: buona fede, buon costume, equità, forza maggiore, diligenza, giusta causa, e via dicendo;
espressioni che obbligano non tanto ad un’operazione di astratta
determinazione del loro significato, quanto ad una valutazione di
specifica riferibilità al singolo caso, che nella sua concretezza e
dinamicità è refrattario a lasciarsi inquadrare nelle rigide e aprioristiche descrizioni delle fattispecie legali).
L’interpretaGià i Romani sottolineavano che scire leges non est verba earum
zione
tenere sed vim ac potestatem; e l’art. 12, comma 1, disp. prel. c.c.
teleologica
espressamente impone di valutare non soltanto il « significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse » (c.d. interpretazione
letterale), ma anche la « intenzione del legislatore ».
Quest’ultimo concetto rimanda non tanto ai concreti propositi
(soggettivi) di un inesistente legislatore (posto che nei sistemi moderni
l’attività legislativa non è svolta da un individuo, ma da organi
collegiali ed è spesso frutto di compromessi e mediazioni tra le
posizioni delle diverse forze politiche presenti nelle assemblee parlamentari), bensì alla funzione che la norma persegue come strumento
di disciplina della vita associata, la c.d. ratio legis (criterio di interpretazione teleologico). Si tratta quindi di indagare la finalità obiettiva
della norma, alla luce della materia regolata, dei risultati perseguiti
[§ 25]
L’applicazione e l’interpretazione della legge
51
dalla legge (es.: tutelare determinati soggetti, disincentivare determinati comportamenti), dei valori del sistema giuridico.
A questo scopo si possono utilizzare anche elementi tratti dall’attività di elaborazione delle leggi, i « lavori preparatori » (quali le
discussioni delle assemblee legislative, le relazioni i pareri che accompagnano i singoli disegni di legge), i quali però offrono soltanto
indicazioni di massima, di per sé non decisive.
Soprattutto va detto che l’individuazione dello scopo della legge
(della sua ratio,) più che la premessa della interpretazione ne rappresenta già un risultato, che tuttavia aiuta a discernere tra i plurimi
possibili significati del testo, facendo preferire quello che appare più
coerente con la funzione che la norma persegue.
Vi sono peraltro numerosi altri criteri cui l’interprete si rivolge, Gli strumenti
dell’ermee che possono, con qualche semplificazione, così schematizzarsi:
neutica
a) il criterio logico, attraverso l’argumentum a contrario (volto giuridica
ad escludere dalla norma quanto non vi appare espressamente compreso: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit), l’argumentum a simili
(volto ad estendere la norma per comprendervi anche fenomeni simili
a quelli risultanti dal contenuto letterale della disposizione, assumendo tale simiglianza come determinante per una identità di disciplina: lex minus dixit quam voluit), l’argumentum a fortiori (volto ad
estendere la norma in modo da includervi fenomeni che a maggior
ragione meritano il trattamento riservato a quello risultante dal
contenuto letterale della disposizione), l’argumentum ad absurdum
(volto ad escludere quella interpretazione che dia luogo ad una
norma « assurda »);
b) il criterio storico: nessuna disposizione spunta all’improvviso
in un ordinamento; l’analisi delle motivazioni con cui un istituto è
stato introdotto in un sistema giuridico precedente (dal diritto romano fino alla legislazione moderna), delle modifiche che esso ha via
via subito, del modo con cui è stato interpretato ed applicato, è
sempre di grande utilità per cogliere la portata che ad una disposizione va attribuita nel momento attuale;
c) il criterio sistematico. Già Celso (D. 1, 3, 24) sosteneva che
incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita
iudicare vel respondere. Per determinare, infatti, il significato e la
portata di una disposizione è indispensabile collocarla nel quadro
complessivo dell’ordinamento in cui va inserita, onde evitare contraddizioni e ripetizioni, istituire opportuni coordinamenti, e via
dicendo;
d) il criterio sociologico: la conoscenza degli aspetti economicosociali dei rapporti regolati è spesso illuminante per pervenire ad una
52
Nozioni preliminari
[§ 26]
interpretazione congruente con la realtà disciplinata e su cui quelle
regole sono destinate ad avere rilievo;
e) il criterio equitativo: volto ad evitare interpretazioni che
contrastino col senso di giustizia della comunità, favorendo invece
soluzioni equilibrate degli interessi confliggenti e che l’interprete
deve sempre valutare comparativamente.
§ 26.
L’analogia.
È impossibile che il legislatore riesca a disciplinare l’intero
àmbito dell’esperienza umana, per quanto possa essere attento e
minuzioso.
È inevitabile, infatti, che si presentino casi che nessuna norma
di legge ha espressamente previsto e regolato (le c.d. lacune dell’ordinamento).
Il problema delle lacune non può essere risolto da uno sforzo
previsione casistica: anzi una tecnica normativa esasperatamente
analitica finisce per aggravare il rischio di incontrare casi non contemplati, rispetto ai quali rimane incerta la disciplina da applicare
proprio perché il fenomeno materiale da regolare non rientra nella
casistica predefinita.
Inoltre l’evoluzione scientifica, tecnica, sociale, economica crea
di continuo situazioni materiali nuove, che nessuna norma ha potuto
prevedere.
Il giudice si trova, perciò, di frequente e inevitabilmente di
fronte a fattispecie concrete che nessuna norma positiva prevede e
disciplina.
Non potrebbe, tuttavia, rifiutarsi di decidere, sotto pena di
rendersi responsabile di denegata giustizia, omettendo un atto del
proprio ufficio.
L’applicazione
Perciò l’art. 12, comma 2, delle preleggi dispone che il giudice —
analogica di
quando
non sia riuscito a risolvere il caso su cui deve pronunciarsi, né
norme
applicando una norma che lo contempli direttamente, né applicando
una norma che pur non contemplandolo direttamente possa essere
interpretata estensivamente fino ad abbracciarlo — deve procedere
applicando « per analogia » le « disposizioni che regolino casi simili o
materie analoghe », e qualora il caso rimanga ancora dubbio, applicando « i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato ».
Dunque il procedimento analogico consiste nell’applicare ad un
caso non regolato (in quanto per esso non si è trovata nessuna norma
che lo contempli, neppure ricorrendo ad una interpretazione estensiva
Le lacune e
la necessità
della
decisione
[§ 26]
L’applicazione e l’interpretazione della legge
53
della portata della norma che regoli la fattispecie più prossima a
quella da decidere) una norma non scritta desunta da una norma
scritta, la quale, però, è dettata per regolare un caso diverso, sebbene
« simile » a quello da decidere. Ma cosa significa individuare tra due
fattispecie diverse — una regolata ed un’altra non regolata — un
rapporto di « somiglianza »? Di due entità può dirsi che sono simili se
hanno qualche elemento in comune; il che pone il problema di
comprendere che cosa debba intercorrere di comune tra le due fattispecie messe a confronto, quella oggetto della norma scritta presa in
considerazione e l’altra, oggetto della lite, priva di specifica disciplina, per consentirci di concludere che tra i due casi sussiste una
« somiglianza » o, appunto, analogia tale da consentire di applicare
alla seconda fattispecie la regola dettata dal legislatore per la prima.
Ora, quell’elemento di contatto, unificante, deve consistere
proprio nella fondamentale giustificazione della disciplina del caso:
l’identità di quell’elemento ci fa concludere che pure il caso non
regolato merita di essere assoggettato al regime previsto per quello
espressamente considerato dalla legge. Così, ad es., se una disposizione è dettata per i « lavoratori dipendenti », ove la sua giustificazione vada rintracciata nella circostanza che si applica a dei « dipendenti » non potrà invocarsene un’applicazione analogica a lavoratori
« autonomi »; ove, invece, la sua giustificazione vada rintracciata
nella circostanza che essa è stata dettata per dei « lavoratori », quale
che sia il tipo di contratto in forza del quale prestano la loro opera,
ecco che si apre lo spazio per un’applicazione analogica anche ad altri
« lavoratori » sebbene autonomi.
Si spiega, dunque, il tradizionale insegnamento secondo cui
l’analogia si fonda su un’identità di ratio, ossia sul riconoscimento di
una finalità della norma positiva che ne giustifica l’operare anche nel
caso (simile, ma) non contemplato dalla legge.
L’art. 12 cpv. delle preleggi autorizza non solo il ricorso alla La « analogia
analogia legis, ossia alla applicazione in via analogica ad un caso non iuris »
regolato di singole disposizioni ritenute adatte a regolare quella
fattispecie (sebbene dettate con riferimento ad ipotesi diverse, ma,
appunto, « analoghe »), ma pure, se il caso rimane ancora dubbio
perché non si rinviene nell’ordinamento una norma analogicamente
ad esso applicabile, il ricorso alla analogia iuris, ossia ai « princìpi
generali dell’ordinamento giuridico dello Stato ». In tal caso il caso
viene deciso ricavando una norma (non scritta) non già da specifiche
disposizioni che, pur dettate per differenti casi, vengono applicate a
quello in esame, bensì addirittura estrapolando la regola solutoria del
caso « dubbio » dai generali orientamenti del sistema legislativo. Si
54
Nozioni preliminari
[§ 26]
tratta, quindi, di un’operazione ontologicamente diversa dall’applicazione analogica di una specifica norma.
Il ricorso all’analogia è sottoposto a limiti: l’analogia non è
consentita né per « le leggi penali », né per « quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi » (art. 14 disp. prel.).
I divieti di
Il divieto si giustifica, in relazione alle norme penali, per il
analogia: le principio di stretta legalità che caratterizza le norme incriminatrici:
norme
penali... nullum crimen sine praevia lege penali (« nessuno può essere punito se
non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
compiuto »: art. 25, comma 2, Cost.). Il divieto di applicazione
analogica riguarda le sole norme incriminatrici o, comunque, in
malam partem, ossia volte a stabilire un trattamento deteriore per il
reo.
... le norme
In relazione alle norme che abbiano carattere di eccezione, ossia
eccezionali di deroga, a precetti di ordine generale (norme eccezionali), il divieto
di analogia si giustifica con la necessità logica di non ampliare le
deroghe, privilegiando, di fronte ai casi non regolati, la disciplina
normale e non quella eccezionale.
Il divieto dell’analogia nell’applicazione delle leggi penali ed
eccezionali non vale per l’interpretazione estensiva, con la quale,
secondo l’insegnamento corrente, ci si limita ad adeguare la portata
letterale della norma all’effettiva volontà legislativa.
In effetti, tuttavia, la distinzione, nel singolo caso, tra una
interpretazione estensiva di una norma eccezionale (consentita) e una
applicazione per analogia (vietata) appare quanto mai ardua; così
come non è, in molti casi, agevole la stessa determinazione della
natura eccezionale di una norma, che la rende insuscettibile di interpretazione analogica.
CAPITOLO V
I CONFLITTI DI LEGGI NELLO SPAZIO
§ 27.
Il diritto internazionale privato.
Gli ordinamenti primitivi sono caratterizzati da una rigorosa
aderenza al principio di « territorialità »: il diritto vigente in ciascun
ordinamento si applica a tutti, cittadini e stranieri, coloro i quali si
trovino nel territorio sul quale l’autorità politica dalla quale l’ordinamento promana estende la propria sovranità. Questo principio vige
ancora, in genere, per il diritto pubblico ed in particolare per le
norme di polizia e di diritto penale, ma non per il diritto privato.
Nell’ambito dei rapporti di diritto privato può accadere che la Le fattispecie
elementi
fattispecie concreta presenti qualche elemento « di estraneità » ri- con
di estraneità
spetto al sistema giuridico italiano: un cittadino sposa una francese,
uno straniero acquista beni in Italia, una coppia italiana adotta un
bambino straniero, due inglesi stipulano un contratto a Roma o un
italiano e un tedesco concludono un accordo in Germania. In simili
casi si pone il dubbio di quale debba essere l’ordinamento competente a regolarli.
Tutto sarebbe semplice se al mondo esistesse un solo diritto
uniforme, cioè eguale dappertutto; ma il diritto uniforme è raro e
poco esteso. In alcuni casi regole uniformi sono stabilite da convenzioni internazionali: tuttavia neppure le convenzioni offrono una
risposta sufficiente, perché vincolano solo gli Stati che vi aderiscono
e si occupano soltanto di specifiche materie (es.: la vendita internazionale di beni; i trasporti internazionali).
In ciascun Paese, pertanto, vengono elaborate norme di « diritto
internazionale privato »: si tratta di regole che stabiliscono quale tra
varie leggi nazionali, che siano tutte astrattamente applicabili ad un
rapporto che presenta elementi di collegamento con ciascuna di esse,
vada applicata in ogni singola ipotesi.
In realtà la definizione « diritto internazionale privato », pur Natura e
del
recepita nel lessico legislativo, è per più aspetti imprecisa e fuor- funzione
d.i.p.
viante. Al riguardo occorre chiarire:
56
Nozioni preliminari
[§ 27]
a) che il c.d. « diritto internazionale privato », sebbene venga
tradizionalmente denominato così, non è davvero un diritto « internazionale »: tale è il c.d. diritto internazionale « pubblico », ossia il
diritto che regola rapporti tra Stati o soggetti internazionali (es. le
organizzazioni internazionali, come l’ONU ecc.) e che ha fonte nella
consuetudine dei rapporti internazionali o in specifici accordi tra
Stati; invece il diritto internazionale privato è diritto interno e ha
fonte in atti normativi propri dei singoli ordinamenti. Pertanto
ciascun Paese, salvi i vincoli derivanti da convenzioni internazionali
cui abbia aderito, è arbitro del proprio diritto internazionale privato,
le cui disposizioni possono non coincidere con quelle adottate da altri
ordinamenti;
b) che il c.d. « diritto internazionale privato » non abbraccia, in
effetti, solo norme relative a rapporti giuridici tra privati, ma disciplina anche altri fenomeni; per esempio contiene regole di tipo
processuale (ad es. il diritto internazionale « privato » italiano stabilisce quando sussista la giurisdizione italiana rispetto ad uno straniero, quando una sentenza straniera possa produrre effetti in Italia,
e via dicendo);
c) che il c.d. « diritto internazionale privato » è costituito non da
norme materiali, ossia che disciplinano la sostanza di taluni rapporti,
bensì da regole strumentali, che si limitano cioè ad individuare,
rispetto a ciascun rapporto contemplato (ad es. tra coniugi o tra
contraenti, ecc.), a quale ordinamento debba farsi capo (alla legge
italiana o a quella francese o tedesca, ecc.) per giungere poi, applicando l’ordinamento così individuato, a stabilire come quel rapporto
vada disciplinato. Si comprende, dunque, perché le norme in esame
si definiscano norme di conflitto, perché risolvono un conflitto tra le
leggi potenzialmente applicabili ad una fattispecie transnazionale.
In sostanza il diritto internazionale privato è l’insieme delle
norme di diritto interno che il giudice italiano deve applicare — nel
caso in cui debba decidere una controversia relativa ad una fattispecie che presenti elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento
giuridico — per individuare la legge regolatrice della fattispecie, ossia
l’ordinamento giuridico in base al quale deve essere decisa la controversia. In tal modo può accadere che il giudice italiano debba
decidere una controversia facendo applicazione di un ordinamento
giuridico straniero.
Il diritto internazionale privato opera secondo una tecnica di
rinvio, in quanto individua la legge che il giudice deve applicare, che
potrà essere la legge dello Stato cui il giudice appartiene, ovvero
quella di un altro Stato, alla quale la norma di diritto internazionale
[§ 28]
I conflitti di leggi nello spazio
57
privato faccia, appunto, « rinvio » quale fonte regolatrice del rapporto concreto.
L’importanza del diritto internazionale privato è notevolmente
cresciuta nel tempo, per effetto dell’intensificarsi della circolazione
delle persone e degli scambi transnazionali.
Il diritto internazionale privato italiano era contenuto preva- Le fonti del
lentemente negli artt. 17/31 delle disposizioni preliminari al codice d.i.p. italiano
civile del 1942 (c.d. « preleggi »), ma nel tempo è risultato progressivamente inadeguato.
Si è così giunti all’approvazione di una legge di riforma globale
della materia (L. 31 maggio 1995, n. 218), di ben 74 articoli, che ha
disposto, tra l’altro, l’abrogazione degli articoli dal 17 al 31 delle
preleggi.
Peraltro la disciplina del d.i.p. non è contenuta nella sola, pur
centrale, L. n. 218/1995; infatti, parallelamente al processo di aggiornamento dei singoli regimi interni, si è imposto un movimento di
uniformazione a livello sovranazionale del diritto internazionale privato, che ha portato all’elaborazione di numerose convenzioni di
diritto internazionale privato uniforme, volte, cioè, a porre regole
comuni di soluzione dei conflitti di leggi nello spazio, applicate da
tutti gli Stati aderenti alle convenzioni, a beneficio della certezza
nell’individuazione delle norme applicabili ai rapporti transnazionali.
Un ruolo particolare hanno le fonti europee, ed in particolare i
vari regolamenti volti a disciplinare specifici fenomeni di rilevanza
transnazionale nell’ambito dei rapporti tra gli Stati membri. Tali
regolamenti trattano sia aspetti di diritto sostanziale (p. es. la legge
applicabile ai contratti o alle obbligazioni extracontrattuali: v. il §
29), sia aspetti di diritto processuale (quali il riconoscimento dell’efficacia delle sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali, la
notificazione degli atti giudiziari, ecc.).
§ 28.
Qualificazione del rapporto e momenti di collegamento.
Per comprendere come operino le norme di diritto internazionale privato è opportuno tenere distinte le varie fasi attraverso le
quali occorre procedere per scegliere l’ordinamento competente a
disciplinare un rapporto nei cui confronti si profilino elementi di
estraneità rispetto all’ordinamento italiano (si pensi a un contratto
concluso tra un italiano ed un francese, ai rapporti tra coniugi di
diversa nazionalità, alla lite tra due italiani sulla proprietà di un
appartamento sito in Germania, ecc.).
Nozioni preliminari
58
[§ 29]
Orbene, per stabilire quale sia l’ordinamento da applicare occorre in primo luogo procedere alla qualificazione del rapporto in
questione, evidenziandone la natura: così, ad es., un certo rapporto
giuridico può classificarsi come coniugale, ovvero come di successione
a causa di morte, di obbligazione contrattuale ovvero extracontrattuale,
e via enumerando. Peraltro può accadere che i singoli ordinamenti
non seguano identici criteri nel classificare i rapporti giuridici; ecco
allora porsi un quesito preliminare: in base a quale ordinamento deve
procedersi alla qualificazione di ciascun rapporto, ossia alla determinazione della sua natura? La soluzione generalmente accolta indica la
legge del luogo in cui si procede alla disciplina del rapporto, ossia nel
quale pende la controversia (lex fori).
Compiuta la qualificazione del rapporto, si deve procedere ad
Il momento
di
un’ulteriore operazione, ossia alla individuazione della legge che lo
collegamento
deve regolare. A tale scopo la norma di diritto internazionale privato
assume un elemento del rapporto per elevarlo a momento di collegamento, ossia ad elemento della fattispecie decisivo per la scelta
dell’ordinamento competente a regolare il rapporto in oggetto, in
quanto ordinamento più « vicino » al caso concreto ed appropriato
per disciplinarlo.
Per comprendere meglio la nozione occorre svolgere una rassegna dei principali momenti di collegamento rilevanti in base al diritto
vigente.
La
qualificazione
del rapporto
§ 29.
I vari momenti di collegamento.
Dopo le premesse di ordine generale, possiamo procedere all’esame delle principali disposizioni di diritto internazionale privato
(italiano), quali risultano dalla Legge n. 218/1995.
Per quanto riguarda la « capacità giuridica delle persone fisiCapacità
giuridica
che » (art. 20) si applica la c.d. lex originis, ossia la legge nazionale
della persona. Se questa « ha più cittadinanze, si applica la legge di
quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento
più stretto. Se tra le cittadinanze vi è quella italiana, questa « prevale » (art. 19, comma 2).
La « capacità di agire delle persone fisiche » è pure regolata
Capacità di
agire
« dalla loro legge nazionale » (art. 23, comma 1). Tuttavia, se per un
dato atto si deve applicare un diverso ordinamento, il quale « prescrive condizioni speciali di capacità di agire », deve applicarsi quest’ultima legge.
[§ 29]
I conflitti di leggi nello spazio
59
Gli enti — società, associazioni, fondazioni — « sono disciplinati Enti
dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il
procedimento di costituzione » (art. 25, comma 1). Tuttavia si applica
la legge italiana « se la sede dell’amministrazione è situata in Italia,
ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti ».
Per quanto riguarda il matrimonio, si distinguono diversi pro- Matrimonio e
rapporti tra
fili:
coniugi
a) la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre
matrimonio, « sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo
al momento del matrimonio » (art. 27);
b) la « forma del matrimonio » (art. 28), è retta dalla « legge del
luogo di celebrazione », ma può applicarsi pure « la legge nazionale di
almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione » o « la legge
dello Stato di comune residenza » in quel momento;
c) ai « rapporti personali tra coniugi » si applica la legge nazionale se hanno eguale cittadinanza ovvero, se hanno diversa cittadinanza o più cittadinanze comuni, « la legge dello Stato nel quale la
vita matrimoniale è prevalentemente localizzata » (art. 29);
d) i « rapporti patrimoniali tra coniugi » sono regolati dalla legge
applicabile ai rapporti personali, a meno che i coniugi abbiano
convenuto per iscritto l’applicabilità della « legge dello Stato di cui
almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede »
(art. 30, comma 1);
e) alla « separazione personale » e allo « scioglimento del matrimonio » si doveva applicare, ai sensi dell’art. 31, comma 1, della
Legge n. 218/1995, « la legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o di scioglimento del matrimonio » e, in mancanza di legge comune, quella dello Stato « nel quale la
vita matrimoniale risulta prevalentemente localizzata » (art. 31,
comma 1). In argomento è intervenuto il Regolamento n. 1259/
2010/UE (Regolamento Roma III), applicabile nel suo complesso a
partire dal 21 giugno 2012. Si tratta di un regolamento di applicazione universale (art. 4), ossia la legge che lo stesso individua come
applicabile si applica anche se non sia la legge di uno Stato membro
dell’Unione. Esso stabilisce, introducendo un’importante novità, che
siano i coniugi a poter designare di comune accordo, per iscritto, la
legge applicabile al divorzio e alla separazione personale (artt. 6 e 7).
Per evitare, però, scelte di comodo (c.d. law shopping) deve trattarsi
della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi, ovvero dello
Stato di cittadinanza di uno di essi ovvero della lex fori. In caso di
mancata scelta si applica la legge di residenza abituale attuale,
ovvero quella di cittadinanza o la lex fori (art. 8) Peraltro è impor-
60
Nozioni preliminari
[§ 29]
tante segnalare che il Regolamento non obbliga i giudici di uno Stato
membro, la cui legislazione non preveda il divorzio o non consideri
valido il matrimonio cui il procedimento si riferisce, ad emettere una
decisione di divorzio in virtù del Regolamento stesso (art. 13);
f) quanto alla giurisdizione, per i giudizi di nullità, annullamento, separazione personale e divorzio si può sempre adire il giudice
italiano se « uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è
stato celebrato in Italia » (art. 32 Legge n. 218/1995).
Le norme di conflitto in materia di filiazione sono state modiFiliazione
ficate per effetto dell’entrata in vigore del D.Lgs. 28 dicembre 2013,
n. 154, emanato in attuazione della Legge 10 dicembre 2012, n. 219,
che ha innovato la disciplina della filiazione (v. i §§ 604 e ss.).
Lo stato di figlio « è determinato dalla legge nazionale del figlio
o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è
cittadino, al momento della nascita » (art. 33, comma 1); la stessa
legge regola l’accertamento e la contestazione dello stato di figlio. Le
condizioni per il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio
(v. infra § 615) « sono regolate dalla legge nazionale del figlio al
momento della nascita o, se più favorevole, dalla legge nazionale del
soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene » (art. 35, comma 1); la forma del riconoscimento « è regolata
dalla legge dello Stato in cui esso è fatto o da quella che ne disciplina
la sostanza » (art. 35, comma 3). I rapporti personali e patrimoniali
tra genitori e figli « sono regolati dalla legge nazionale del figlio » (art.
36).
Come si vedrà, la riforma della filiazione è imperniata sul
principio della unicità dello status di figlio, superando la distinzione
tra figli nati nel matrimonio o al di fuori di esso (detti un tempo « figli
naturali »): e difatti l’art. 33, comma 4, L. n. 218/1995 sancisce che
« Sono di applicazione necessaria le norme del diritto italiano che
sanciscono l’unicità dello stato di figlio » (sulla nozione di legge di
applicazione necessaria v. infra § 30).
Nella stessa logica l’art. 36-bis L. n. 218/1995 stabilisce che,
nonostante il richiamo ad altra legge, si applicano in ogni caso le
norme del diritto italiano che: a) attribuiscono ad entrambi i genitori
la responsabilità genitoriale; b) stabiliscono il dovere di entrambi i
genitori di provvedere al mantenimento del figlio; c) attribuiscono al
giudice il potere di adottare provvedimenti limitativi o ablativi della
responsabilità genitoriale in presenza di condotte pregiudizievoli per
il figlio.
Si vuole, in sostanza, che, quale che sia la legge regolatrice del
rapporto di filiazione, il Giudice italiano possa in ogni caso applicare
[§ 29]
I conflitti di leggi nello spazio
61
le regole fondamentali che il nostro ordinamento reputa in ogni caso
inderogabili.
Come si dirà (§ 622-bis), la L. 20 maggio 2016, n. 76, ha Unioni civili
persone
introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile tra tra
dello stesso
persone dello stesso sesso, la cui disciplina è in larga parte mutuata sesso
da quella del matrimonio, il quale però rimane istituto riservato alle
coppie eterosessuali. Con il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 7, il legislatore
ha integrato la L. n. 218/1995, disciplinando il trattamento delle
unioni civili caratterizzate da elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano.
In base alla nuova disciplina, il matrimonio contratto all’estero
da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti
non già del matrimonio, bensì dell’unione civile regolata dalla legge
italiana (così il nuovo art. 32-bis L. n. 218/1995).
Le regole di conflitto che disciplinano l’unione civile tra persone
di diversa nazionalità sono modellate, dal nuovo art. 32-ter, su quelle
previste per il matrimonio: la capacità e le altre condizioni per
costituire unione civile sono regolate dalla legge nazionale di ciascuna
parte al momento della costituzione dell’unione civile, disponendo
inoltre che se la legge applicabile non ammette l’unione civile tra
persone maggiorenni dello stesso sesso, si applica la legge italiana;
quanto alla forma, l’unione civile è valida se è considerata tale dalla
legge del luogo di costituzione o dalla legge nazionale di almeno una
delle parti o dalla legge dello Stato di comune residenza al momento
della costituzione; infine, i rapporti personali e patrimoniali tra le
parti sono regolati dalla legge dello Stato davanti alle cui autorità
l’unione è stata costituita, potendo comunque il giudice applicare, a
richiesta anche di una sola delle parti, la legge dello Stato nel quale
la vita comune è prevalentemente localizzata. Le parti possono in
ogni caso convenire per iscritto che i loro rapporti patrimoniali siano
regolati dalla legge dello Stato di cui almeno una di esse è cittadina
o nel quale almeno una di esse risiede.
Quanto allo scioglimento dell’unione, esso è regolato dalla legge
applicabile al divorzio in conformità al Regolamento Roma III,
sopra citato.
L’adozione è regolata « dal diritto nazionale dell’adottato o degli Adozione
adottanti se comune o, in mancanza, dal diritto dello Stato nel quale
gli adottanti sono entrambi residenti, ovvero da quello dello Stato
nel quale la loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, al
momento dell’adozione » (art. 38, comma 1); tuttavia, precisa la
norma, quando viene richiesta al giudice italiano l’adozione di un
62
Nozioni preliminari
[§ 29]
minore, idonea ad attribuirgli lo stato di figlio, si applica il diritto
italiano.
La successione mortis causa « è regolata dalla legge nazionale del
Successioni
mortis causa
soggetto della cui eredità si tratta, al momento della morte » (art. 46,
comma 1, L. n. 218/1995). La forma del testamento deve rispettare o
« la legge dello Stato nel quale il testatore ha disposto » o « la legge
dello Stato di cui il testatore, al momento del testamento o della
morte, era cittadino » o « la legge dello Stato in cui aveva il domicilio
o la residenza » (art. 48 L. n. 218/1995).
Peraltro anche in materia successoria è intervenuta una recente
normativa europea, recata dal Regolamento n. 650/2012/UE del 4
luglio 2012, che riguarda molteplici aspetti: la competenza giurisdizionale a decidere le controversie successorie, la legge applicabile, il
riconoscimento e l’esecuzione di decisioni in materia successoria e
l’istituzione di un certificato successorio europeo. Il Regolamento
innova il criterio fondamentale di individuazione della legge regolatrice della successione, che è quella dello Stato in cui il defunto aveva
la propria residenza abituale al momento del decesso (art. 20 del
Regolamento) e soprattutto introduce un elemento volontaristico:
una persona può infatti scegliere come legge regolatrice della propria
successione quella dello Stato del quale è cittadino al momento della
scelta o al momento della morte (art. 22 del Regolamento): la scelta
deve essere espressa e deve rivestire la forma prevista per un atto di
disposizione a causa di morte (testamento).
Il Regolamento, come accennato, istituisce un certificato successorio europeo, che può essere rilasciato dalle autorità di uno Stato
membro per essere utilizzato dagli eredi, legatari, esecutori testamentari o amministratori dell’eredità allo scopo di far valere tale loro
qualità o poteri in un altro Stato membro (artt. 62 ss. del Regolamento).
Il Regolamento si applica alle successioni delle persone decedute a partire dal 17 agosto 2015.
La proprietà, gli altri diritti reali e il possesso dei immobili e
Diritti reali e
possesso
mobili sono regolati dalla legge del luogo nel quale i beni si trovano
(lex rei sitae; art. 51, comma 1, L. n. 218/1995), che disciplina anche
il modo di acquisto e perdita di tali diritti. Per i beni « immateriali »
si applica « la legge dello Stato di utilizzazione » (art. 54).
Obbligazioni
In materia di obbligazioni il diritto internazionale privato itacontrattuali
liano è stato di recente interessato da importanti modificazioni per
effetto di convenzioni internazionali e di regolamenti comunitari.
Per le obbligazioni contrattuali l’art. 57 della L. n. 218/1995 fa
rinvio alla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni
[§ 29]
I conflitti di leggi nello spazio
63
contrattuali del 19 giugno 1980 (entrata in vigore il 1o aprile 1991). La
Convenzione ha introdotto un diritto internazionale privato uniforme: ciò significa che tutti gli Stati aderenti si vincolano ad utilizzare identici criteri per individuare la legge regolatrice di un rapporto
contrattuale con elementi di estraneità.
Successivamente è entrato in vigore (dal 17 dicembre 2009) il
Regolamento n. 593/2008/CE, del 17 giugno 2008, « Sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) », che sostituisce la
Convenzione di Roma (art. 24 del Regolamento Roma I), sicché ogni
rinvio fatto alla Convenzione deve intendersi riferito al Regolamento.
Il regolamento è di applicazione universale (art. 2). La disciplina, oltre a porre una serie di regole di dettaglio relative alla legge
applicabile a specifici contratti e a confermare l’attenzione alla tutela
del consumatore (art. 6), conferma le scelte operate dalla Convenzione, attribuendo prioritaria valenza alla scelta delle parti in ordine
alla legge applicabile al contratto tra loro stipulato (art. 3): si applica
dunque anzitutto la legge richiamata da apposita clausola contrattuale (c.d. lex voluntatis), ovvero, in difetto di una scelta espressa, la
legge dello Stato con il quale il contratto « presenta il collegamento
più stretto »; collegamento che si presume sussista nei confronti del
Paese in cui la parte che deve fornire « la prestazione caratteristica »
(fornitura, opera, ecc.) ha, al momento della conclusione del contratto, la propria residenza abituale o la propria amministrazione
centrale (art. 4).
Per quanto riguarda le obbligazioni avente fonte non contrattuale Obbligazioni
si deve fare riferimento al Regolamento n. 864/2007/CE dell’11 luglio non
contrattuali
2007 (« Roma II »). Si tratta anche in questo caso di un regolamento
di applicazione universale (art. 3). I criteri principali stabiliti dal
Regolamento sono i seguenti: le obbligazioni derivanti da un fatto
illecito (§ 454 ss.) sono regolate dalla legge del paese nel quale il danno
si è verificato (art. 4); le obbligazioni nascenti da arricchimento senza
causa (§ 453), quelle relative alla restituzione di un pagamento
ricevuto indebitamente (ripetizione dell’indebito: § 452) o derivanti da
gestione di affari altrui (§ 451) sono disciplinate, se l’obbligazione si
ricolleghi ad una preesistente relazione tra le parti, dalla legge che
disciplina quel rapporto (artt. 10 e 11), altrimenti dalla legge della
(eventuale) residenza comune delle parti o da quella del luogo in cui
è avvenuto il fatto.
Nozioni preliminari
64
§ 30.
[§ 30]
Il rinvio ad altra legge. Il limite dell’ordine pubblico.
Le norme di applicazione necessaria
Come si è accennato, la funzione del diritto internazionale
privato sostanziale è quella di individuare l’ordinamento che il
giudice italiano deve applicare per regolare una certa fattispecie con
elementi di estraneità.
Senonché l’eventuale rinvio operato dal nostro diritto internazionale privato ad un ordinamento straniero pone problemi delicati.
Anzitutto, quid iuris nell’ipotesi in cui quell’ordinamento a sua
L’ulteriore
rinvio
volta, nella stessa situazione, rinvii ad un altro ordinamento? Ad es.
il nostro diritto internazionale privato rinvia, per i rapporti tra
genitori e figli, come abbiamo appena visto, alla legge nazionale « del
figlio »; ma quest’ultima potrebbe a sua volta, per un determinato
caso, rinviare alla legge nazionale « del padre », ovvero alla legge « del
domicilio del figlio ». In precedenza l’abrogato art. 30 delle preleggi,
proprio per evitare il rischio di una serie successiva di rinvii da un
ordinamento all’altro, stabiliva che, quando si doveva applicare una
legge straniera, non si tenesse conto « del rinvio da essa fatto ad altra
legge ». Viceversa ora l’art. 13, comma 1, della L. n. 218 stabilisce che
« si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato
straniero alla legge di un altro Stato: a) se il diritto di tale Stato
accetta il rinvio; b) se si tratta di rinvio alla legge italiana ». Peraltro
i commi successivi dello stesso articolo restringono in modo rilevante
i casi in cui è ammesso il rinvio successivo.
Il « rinvio » alle norme di un altro ordinamento pone l’ulteriore,
Il limite
dell’ordine
e particolarmente delicato, problema della compatibilità delle dispopubblico
sizioni sostanziali di un ordinamento estraneo, reso applicabile per
effetto della norma di conflitto, con i princìpi fondamentali del nostro
ordinamento.
L’art. 31 delle « preleggi » disponeva perciò che « in nessun caso
le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti di
qualunque istituzione o ente o le private disposizioni e convenzioni
possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari
all’ordine pubblico o al buon costume ».
Oggi la materia è regolata dall’art. 16, comma 1, L. n. 218/1995,
il quale ribadisce che la legge straniera non può essere applicata « se
i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico ». La nuova disposizione
non considera più rilevante, in materia, « il buon costume »; soprattutto va segnalato che la valutazione non riguarda la norma straniera
nella sua astratta formulazione, bensì i risultati concreti cui potrebbe
condurre la sua applicazione nel caso specifico.
I conflitti di leggi nello spazio
[§ 31]
65
L’ordine pubblico di cui è qui questione, non è il c.d. « ordine
pubblico interno » (costituito da tutte le disposizioni che non possono
essere derogate dai privati, v. infra § 308), bensì quello « internazionale », che abbraccia (solo) i fondamentali princìpi cui l’ordinamento
giuridico italiano è ispirato: così, ad es., non si potrebbe consentire
l’applicazione di una norma straniera che ammettesse la schiavitù o
la poligamia, ovvero che consentisse lo scioglimento del matrimonio
per « ripudio » unilaterale di un coniuge da parte dell’altro (sulla
progressiva assimilazione tra ordine pubblico interno e ordine pubblico internazionale v. Cass. 16 maggio 2016, n. 9978).
Il secondo comma del medesimo art. 16 opportunamente aggiunge che — nel caso operi il ricordato limite della contrarietà
all’ordine pubblico — si deve tentare ugualmente di applicare la
legge richiamata « mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa ». Solo ove manchi
tale possibilità « si applica la legge italiana ».
Il richiamo all’ordine pubblico opera con funzione esclusiva- Le norme di
mente negativa: esso preclude l’applicazione di norme ritenute in- applicazione
necessaria
compatibili con il nostro ordinamento. Ma non offre risposta ad un
altro problema: quello di assicurare in ogni caso l’applicazione, anche
ai rapporti regolati dalla legge straniera di regole che esprimano
principi fondamentali e non derogabili dell’ordinamento italiano. A
questo provvede l’art. 17 della L. n. 218/1995, che ha introdotto una
regola non presente nelle preleggi, in forza della quale è sempre fatta
salva la prevalenza delle norme italiane « che, in considerazione del
loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il
richiamo alla legge straniera ». Abbiamo già incontrato esempi di
norme di applicazione necessaria in materia di filiazione: il principio
di unità dello status di figlio, o quello per cui entrambi i genitori
condividono la responsabilità genitoriale e l’obbligo di mantenimento, si impongono anche nel caso in cui la legge straniera regolatrice del rapporto disponga diversamente.
§ 31.
La conoscenza della legge straniera.
Un’altra importante novità introdotta dalla legge di riforma del
1995 riguarda la conoscenza della legge straniera che, in base all’applicazione delle norme di conflitto, dovesse risultare applicabile. La
disciplina delle « preleggi » non prevedeva regole specifiche sulle
modalità di accertamento della legge straniera; la giurisprudenza
pertanto tendeva, in prevalenza, a ritenere che fosse onere della
Nozioni preliminari
66
[§ 32]
parte, che pretendeva di far valere un qualche diritto fondato su
norme dell’ordinamento straniero richiamato, provare al giudice
l’esistenza delle norme invocate a proprio favore (con la conseguenza
di veder respinta la propria domanda nel caso in cui non fosse riuscita
a fornire la prova richiesta); un tale onere della prova poteva essere
tutt’altro che agevole da assolvere, quando si trattasse di ordinamenti il cui contenuto fosse difficilmente conoscibile (per es. a causa
della situazione politica del Paese al quale l’ordinamento apparteneva, ovvero della peculiarità delle fonti di quell’ordinamento). La
nuova disciplina (art. 14) stabilisce invece che spetti al giudice
accertare il contenuto della legge straniera applicabile, anche interpellando il Ministero della Giustizia o istituzioni specializzate ed
eventualmente con la collaborazione delle parti. Nel caso in cui
comunque non risulti possibile accertare le disposizioni della legge
straniera richiamata, il giudice deciderà in base alla legge italiana.
§ 32.
La condizione dello straniero.
Quanto al trattamento giuridico degli stranieri si pone una
fondamentale distinzione tra i « cittadini comunitari » e quelli « extracomunitari ».
La
Il Trattato di Maastricht ha introdotto la « Cittadinanza del« cittadinanza
l’Unione » (oggi disciplinata dall’art. 9 TUE e dall’art. 20 TFUE):
dell’Unione »
essa è attribuita a « chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato
membro » e costituisce un « complemento » della cittadinanza nazionale, alla quale si aggiunge senza sostituirla. Ai cittadini comunitari
non solo va riconosciuto, senza possibilità di discriminazioni, pieno
diritto di circolazione e soggiorno in tutti gli Stati membri e il
godimento degli stessi diritti civili attribuiti al cittadino nazionale
(regole particolari riguardano l’esercizio di attività professionali e
imprenditoriali), ma spettano perfino alcuni limitati diritti politici,
quali il voto nelle elezioni comunali nello Stato mebro nel quale
risiedono (art. 22 TFUE). Sono destinatari di un trattamento di
favore i cittadini di Paesi terzi che siano familiari di un cittadino
dell’Unione.
Gli stranieri
Per gli extracomunitari la disciplina è stata affannosamente più
extravolte modificata negli ultimi anni, sotto la spinta di un massiccio
comunitari
fenomeno migratorio. La relativa normativa è stata inserita nel
« Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero » (D.Lgs. 25 luglio 1998,
n. 286, successivamente ripetutamente modificato). La materia è in
[§ 32]
I conflitti di leggi nello spazio
67
così frenetica, e non sempre coerente, evoluzione che non è possibile
in questa sede cercare di inseguirne i percorsi.
Si deve invece ricordare che ai cittadini extracomunitari è
comunque applicabile sia il « diritto d’asilo », previsto in generale
dall’art. 10, comma 3, Cost. per qualsiasi straniero « al quale sia
impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana », sia l’inammissibilità della
estradizione « per reati politici » (art. 10, comma 4, Cost.). Inoltre
« allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello
Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana
previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai princìpi di diritto internazionale generalmente
riconosciuti » (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 286/1998). All’extracomunitario « regolarmente soggiornante » in Italia è altresì assicurato il
godimento « dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano », a meno che « le convenzioni internazionali in vigore per
l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente » (art. 2,
comma 2).
Le specifiche disposizioni attinenti alla disciplina dell’ingresso e
del soggiorno dello straniero nel Paese, alla protezione internazionale, all’esercizio di attività lavorativa, all’eventuale allontanamento
di soggetti entrati illegalmente nel territorio dello Stato o che abbiano commesso reati, appartengono alla legislazione speciale e non
interessano in questa sede.
Attiene, invece, ai rapporti di diritto privato la c.d. condizione La
di « reciprocità » (art. 16 disp. prel. c.c.), ossia la previsione per cui un «dicondizione
determinato diritto può essere riconosciuto in capo allo straniero a reciprocità »
condizione che nella medesima fattispecie ad un italiano, nel Paese di
cui quello straniero è cittadino, quel diritto sarebbe parimenti riconosciuto, non essendo ivi stabilite delle discriminazioni. Il principio
di reciprocità, frutto di un modo di intendere i rapporti tra gli Stati
ormai palesemente superato, è però sopravvissuto sia alla Costituzione (un orientamento di dottrina aveva sostenuto l’abrogazione
implicita della norma, in quanto incompatibile con i valori costituzionali) sia alla riforma del diritto internazionale privato (la L. n.
218/1995 non contiene infatti alcuna abrogazione espressa, né detta
una nuova disciplina incompatibile con l’art. 16 disp. prel.); ne è
risultato, però, fortemente ridimensionato, proprio in ragione del
fatto che la Costituzione, le convenzioni internazionali e, le norme
comunitarie riconoscono in modo assoluto la tutela dei diritti della
persona (Corte cost. 30 luglio 2008, n. 306; Cass. 2 febbraio 2012, n.
1493).
68
Nozioni preliminari
[§ 32]
Anzitutto esso, ovviamente, non si applica ai cittadini comunitari; inoltre il T.U. n. 286/1998 ha ulteriormente eroso l’ambito di
applicazione del criterio di reciprocità, poiché, come sopra ricordato,
ha riconosciuto il godimento dei diritti civili a tutti gli stranieri
regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato (art. 2, comma 2,
cit.), ma al tempo stesso fa salva l’ipotesi in cui il T.U. medesimo o
le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità.
La regola, dunque, è ridotta ad un àmbito di applicazione residuale,
ma non può dirsi né abrogata in toto, né in assoluto incompatibile con
i princìpi dell’ordinamento giuridico italiano.
A tutti i lavoratori stranieri, infine, è garantita « parità di
trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori
italiani » (art. 2, comma 3, T.U. n. 286/1998).
L’ATTIVITÀ GIURIDICA
E LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI
CAPITOLO VI
LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE
§ 33.
Il rapporto giuridico.
Le relazioni umane possono essere di vario genere, ma non tutte
sono rilevanti per il diritto.
Il rapporto giuridico è per l’appunto la relazione tra due soggetti Il rapporto
giuridico
regolata dall’ordinamento giuridico.
Una relazione di amicizia, per esempio, si colloca sul piano dei
rapporti sociali, ma è giuridicamente irrilevante. Una relazione sentimentale tra due persone è in sé priva di significato per il diritto; se
però queste decidono di contrarre matrimonio il rapporto che ne
deriva è disciplinato dal diritto e sorgono una serie di effetti giuridici
(quali i reciproci diritti e doveri dei coniugi; i diritti successori ecc.).
Il rapporto tra il creditore e il debitore, per fare ancora un esempio,
è essenzialmente una relazione giuridica.
Un breve cenno, anzitutto, sui soggetti protagonisti del rap- Le parti del
porto giuridico. Soggetto attivo è colui al quale l’ordinamento giuridico rapporto
giuridico
attribuisce un potere (o diritto soggettivo) (per es.: di pretendere un
pagamento). Soggetto passivo è colui a carico del quale sussiste un
dovere (p. es.: di pagare).
Quando si vuole alludere alle persone tra le quali intercorre un
rapporto giuridico si usa l’espressione « parti ». Contrapposto al concetto di parte è quello di terzo, che è appunto colui il quale sia
estraneo ad un determinato rapporto giuridico, intercorrente tra altri
soggetti (questa denominazione deriva dal fatto che negli esempi
scolastici le parti venivano designate con i numeri ordinali « Primus »
e « Secundus »; la persona estranea al rapporto veniva, perciò, chiamata « Tertius »).
Regola generale è che il rapporto giuridico, in linea di principio
e salvo esplicite eccezioni, non produce effetti né a favore né a danno
del terzo (res inter alios acta tertio neque prodest, neque nocet). Tuttavia
non di rado la legge si deve preoccupare di regolare la posizione dei
terzi rispetto a un determinato rapporto, in quanto anche gli interessi
degli estranei possono esserne indirettamente toccati dalle vicende
72
L’attività giuridica
[§ 34]
del rapporto stesso (es.: se Tizio vende un bene a Caio e quest’ultimo
lo rivende a Sempronio, l’invalidità della prima vendita può incidere
sulla posizione giuridica del subacquirente Sempronio).
Il rapporto giuridico non è che una figura (la più importante) di
una categoria più ampia: la situazione giuridica. La norma giuridica
prevede fattispecie a cui annette determinate conseguenze giuridiche
(ricevimento di una somma a prestito da cui scaturisce l’obbligo di
restituzione; raggiungimento degli anni diciotto da cui deriva la
capacità di agire, ecc.). Quando la fattispecie si è realizzata, un
mutamento si è prodotto nel mondo dei fenomeni giuridici: allo stato
di cose preesistente si è sostituito, secondo la valutazione compiuta
dall’ordinamento giuridico, uno stato diverso, una situazione giuridica nuova. Questa situazione può consistere in un rapporto giuridico
o nella qualificazione di persone (capacità, incapacità, qualità di
coniuge, ecc.) o di cose (demanialità, ecc.).
§ 34. Situazioni soggettive attive
(diritto soggettivo, potestà, facoltà, aspettativa, status).
Il soggetto attivo del rapporto giuridico si connota quale titolare di un diritto soggettivo. Esaminiamo più da vicino questa figura
fondamentale.
Si è già visto che la norma è un precetto (diritto oggettivo, norma
agendi) che opera non solo mediante la comminatoria di sanzioni ma
anche — e questo è particolarmente importante nel diritto privato —
mediante l’attribuzione di prerogative e tutele giuridiche in capo ai
singoli: per esempio il proprietario ha diritto di godere e disporre
della cosa che gli appartiene; il divieto di arrecare danni ad altri
(neminem laedere) si traduce nella regola per cui, se taluno mi arreca
un danno, ho diritto al risarcimento (art. 2043 c.c.).
Con l’attribuzione del diritto soggettivo si realizza quindi la
protezione giuridica di un certo interesse del singolo al quale, al
tempo stesso, si riconosce una situazione di libertà (diritto soggettivo,
ius est facultas agendi), in quanto, di regola, il titolare di un diritto è
libero di decidere se esercitarlo o meno, e di reagire oppure no nel
caso di lesione del diritto da parte di altri.
Si può perciò intendere la definizione tradizionale: il diritto
Diritto
soggettivo
soggettivo è il potere di agire (agere licere) per il soddisfacimento di un
proprio interesse individuale, protetto dall’ordinamento giuridico.
L’aspetto della tutela è essenziale nel qualificare una situazione di
interesse personale come contenuto di un diritto del soggetto. Esi-
[§ 34]
Le situazioni giuridiche soggettive
73
stono, infatti, molteplici interessi individuali giuridicamente irrilevanti, ai quali l’ordinamento non concede alcuna protezione (si pensi
all’aspettativa di ciascuno al rispetto, da parte degli altri, di regole di
cortesia); viceversa, in tanto esiste un diritto soggettivo in quanto
l’ordinamento tuteli, mediante la propria autorità e l’attivazione
degli strumenti di coercizione di cui è dotato, la soddisfazione dell’interesse del singolo.
La concezione tradizionale del diritto soggettivo, ora descritta,
è ovviamente stata nel corso del tempo sottoposta a precisazioni,
revisioni e critiche, talora anche radicali. Essa comunque costituisce
tuttora un punto di riferimento del sistema e uno strumento operativo fondamentale.
In alcuni casi il potere di agire per l’ottenimento di un certo Potestà e
risultato pratico non è attribuito al singolo nel suo proprio interesse, uffici
bensì per realizzare un interesse altrui. Per esempio ai genitori è
attribuito un complesso di poteri concessi nell’interesse dei figli (§
608). Queste figure di poteri che al tempo stesso sono doveri si
chiamano potestà o uffici (è un ufficio quello del tutore di una persona
incapace). Mentre, come si è detto, l’esercizio del diritto soggettivo è
libero, in quanto il titolare può perseguire i fini che ritiene più
opportuni, l’esercizio della potestà deve sempre ispirarsi alla cura
dell’interesse altrui.
Le facoltà (o diritti facoltativi) sono, invece, manifestazioni del Facoltà
diritto soggettivo che non hanno carattere autonomo, ma sono in
esso comprese. Così, costituisce una delle estrinsecazioni del diritto di
proprietà la facoltà che ha il proprietario di chiudere il fondo in
qualunque tempo (art. 841 c.c.) o di farvi apporre i confini. Dalla
mancanza di autonomia delle facoltà deriva che esse si estinguono
soltanto se viene meno il diritto del quale sono espressione: ciò che si
traduce con la formula latina in facultativis non datur praescriptio,
non è ammessa, cioè, la prescrizione estintiva delle sole facoltà,
ancorché il titolare del diritto non le abbia esercitate per lungo
tempo. Soltanto la prescrizione del diritto determina necessariamente l’estinzione delle inerenti facoltà.
Può avvenire che l’acquisto di un diritto derivi dal concorso di Aspettativa
più elementi successivi. Se soltanto di questi alcuni si siano verificati
si ha la figura dell’aspettativa. Si pensi all’ipotesi di un’eredità lasciata
a taluno subordinatamene alla condizione (condizione sospensiva)
che consegua la laurea. Egli non acquisterà il diritto all’eredità se non
quando si sarà laureato: intanto si trova in una posizione di attesa
che viene tutelata dall’ordinamento (infatti, egli può compiere atti
conservativi o cautelari del suo diritto: per impedire che qualcuno
L’attività giuridica
74
[§ 35]
disperda i beni lasciati, può ottenerne il sequestro) (§ 323). L’aspettativa è perciò un interesse individuale tutelato in via provvisoria e
strumentale, ossia quale mezzo al fine di assicurare la possibilità del
sorgere di un diritto.
La figura del diritto soggettivo che si viene realizzando attraverso stadi successivi viene considerata, oltre che dal lato del soggetto (la cui situazione psicologica è di attesa: perciò, aspettativa),
anche sotto il punto di vista oggettivo della fattispecie. Si parla,
infatti, di fattispecie a formazione progressiva per dire che il risultato
si realizza per gradi, progressivamente (prima l’aspettativa, poi il
diritto) e l’aspettativa attribuita al singolo costituisce un effetto
preliminare o prodromico della fattispecie.
A volte alcuni diritti e alcuni doveri si ricollegano alla qualità di
Status
una persona, la quale deriva dalla sua posizione in un gruppo sociale
(Stato, famiglia, ecc.). Status è, pertanto, una qualità giuridica che si
ricollega alla posizione dell’individuo in una collettività. Lo status
può essere di diritto pubblico (esempio, stato di cittadino) o di diritto
privato (stato di figlio, di coniuge).
Alcuni ampliano il concetto di status fino a parlare di status di
erede, di socio, ecc., ma è preferibile usare, per designare queste
situazioni, l’espressione generica « qualità giuridica ».
§ 35.
L’esercizio del diritto soggettivo.
L’esercizio del diritto soggettivo da parte di chi ne è titolare
consiste nell’esplicazione dei poteri di cui il diritto soggettivo consta.
Il proprietario, per esempio, esercita il diritto soggettivo di proprietà
utilizzando la cosa, percependone i frutti, apponendo i confini, ecc.
L’esercizio del diritto soggettivo deve essere distinto dalla sua
realizzazione, che consiste nella soddisfazione materiale dell’interesse
protetto, sebbene spesso i due fenomeni possono coincidere (il proprietario che raccoglie i frutti del bene esercita il potere giuridico di
godimento del bene e al tempo stesso realizza, soddisfa il suo interesse materiale; il creditore, richiedendo al debitore la prestazione
che gli è dovuta, esercita il suo diritto, tuttavia in tal caso il suo
interesse non è soddisfatto se non quando il debitore adempie).
La realizzazione dell’interesse può essere spontanea o coattiva:
quest’ultima si verifica quando occorre far ricorso ai mezzi che
l’ordinamento predispone per la tutela del diritto soggettivo (il
debitore non adempie e il creditore, per conseguire quanto gli è
dovuto, fa espropriare i beni del debitore) (art. 2910 c.c.).
[§ 35]
Le situazioni giuridiche soggettive
75
Si comprende agevolmente che chi esercita un diritto sogget- L’abuso del
tivo, ancorché ciò possa essere causa della frustrazione o della lesione diritto
degli interessi di altri soggetti, non è tenuto a compensare costoro per
gli eventuali pregiudizi che il corretto esercizio di tale diritto possa
aver eventualmente provocato (qui iure suo utitur neminem laedit).
Alcune disposizioni legislative (artt. 833, 844, 1175 c.c. ecc.) vietano,
peraltro, l’abuso del diritto soggettivo, ossia l’esercizio anomalo delle
prerogative concesse dalla legge al titolare del diritto. Si ha abuso
quando il titolare del diritto si avvale delle facoltà e dei poteri che gli
sono concessi non già per perseguire l’interesse che propriamente
forma oggetto del diritto soggettivo — e che come tale l’ordinamento
riconosce come meritevole di tutela — bensì per realizzare finalità
ulteriori, eccedenti l’ambito dell’interesse che la legge ha inteso
tutelare.
Da tempo si discute se questo principio abbia carattere generale
oppure debba applicarsi soltanto nei casi espressamente previsti. La
legge infatti è intervenuta, nelle ipotesi di maggior rilievo, con il
divieto degli atti di emulazione e delle immissioni (artt. 833, 844 c.c.;
§§ 138 e 139), a temperare con criteri di socialità e di solidarietà
l’esercizio del diritto di proprietà e, per quanto riguarda il diritto di
credito, ha stabilito (art. 1175 c.c.) che il debitore ed il creditore
debbono comportarsi secondo le regole della correttezza. Là dove il
legislatore nulla ha disposto, invece, potrebbe apparire pericoloso
affidare al giudice poteri discrezionali nella individuazione caso per
caso di variabili confini di liceità nell’uso « normale » del diritto, in
quanto verrebbe posta in discussione l’esigenza di certezza che —
come abbiamo visto (§ 9) — è fondamentale nell’ordinamento giuridico. Ciò ha indotto parte della dottrina a ritenere inoperante lo
strumento dell’abuso del diritto in ipotesi diverse da quelle in cui il
medesimo è considerato e represso dalla legge; altri interpreti, ed è la
posizione che oggi si sta affermando, anche nell’applicazione giurisprudenziale, ne ammettono un più largo impiego, fondandosi sul
carattere generale dei principi di solidarietà e di correttezza e buona
fede, ma sempre richiamando l’esigenza di un impiego accuratamente sorvegliato di tale strumento (in ambito tributario si vanno
affermando approcci che qualificano “abusivi” i comportamenti volti
ad eludere l’applicazione delle imposte; cfr. Cass. 27 gennaio 2017, n.
2054; la materia peraltro risente delle specifiche norme dettate al
riguardo).
Pertanto, mentre, in forza dell’art. 833 c.c., il proprietario non
può piantare alberi, se ciò non gli arreca alcuna utilità, ma è fatto al
solo scopo di togliere al vicino una veduta panoramica (§ 138), il
L’attività giuridica
76
[§ 36]
creditore può richiedere il pagamento del suo credito e, in caso
d’inadempimento, domandare il fallimento del debitore (qualora si
tratti di un imprenditore commerciale), anche se non ha bisogno del
danaro dovutogli, non potendosi tale condotta reputare abusiva
(nell’accezione sopra illustrata), benché il creditore sia consapevole
delle gravi conseguenze della sua iniziativa.
Un argine all’esercizio abusivo del diritto è ravvisato nell’excepL’exceptio
doli generalis
tio doli generalis seu preasentis. Si tratta di un istituto ripreso dal
diritto romano e adottato dalla nostra giurisprudenza come rimedio
generale volto a precludere l’esercizio fraudolento o sleale di diritti
attribuiti dall’ordinamento: in taluni casi la pretesa del titolare del
diritto può essere paralizzata, e la relativa domanda rigettata dal
giudice, quando appunto la pretesa, pur corrispondente al contenuto
di un diritto, appaia proposta in modo contrario a correttezza, o in
contrasto con pregresse condotte del titolare (venire contra factum
proprium), o comunque in mala fede.
Talune norme, poi, prendono in considerazione e reprimono
Altre figure
di abuso
specifiche ipotesi di abuso (non già di uno specifico diritto soggettivo,
bensì) di particolari situazioni materiali di vantaggio nelle quali un
soggetto possa venire a trovarsi: si parla, per esempio, di abuso, da
parte di un contraente, della situazione di dipendenza economica nella
quale l’altro si trovi rispetto al primo (L. 18 giugno 1998, n. 192,
regolante la subfornitura nelle attività produttive: § 388), oppure di
abuso di posizione dominante, come condotta vietata dalle norme a
tutela della concorrenza (art. 3 L. 10 ottobre 1990, n. 287, c.d. « legge
antitrust »).
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di
Nizza) enuncia, all’art. 54, un divieto dell’abuso di diritto, sancendo
che nessuna disposizione della Carta « deve essere interpretata nel
senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un
atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciuti nella presente
Carta o a imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle
previste dalla presente Carta ».
§ 36.
Diritti
assoluti e
relativi
Categorie di diritti soggettivi.
Se io sono proprietario di un bene, ho evidentemente il potere di
escludere tutti gli altri dalla facoltà di godimento e di disposizione del
bene stesso (ius excludendi alios; art. 832 c.c.). Il mio diritto soggettivo non consiste in tal caso in una pretesa verso un soggetto
determinato ad un certo comportamento da parte sua (cioè ad una
[§ 36]
Le situazioni giuridiche soggettive
77
prestazione a mio vantaggio), ma è in generale rivolto verso tutti gli
altri consociati, che sono tenuti a non interferire con il godimento
della cosa che mi appartiene. Se invece ho dato in prestito una
somma ad una persona, il mio diritto alla restituzione della somma
non può rivolgersi che verso quella persona: essa sola è tenuta a
ridarmi il danaro. Inoltre, mentre posso esercitare il mio diritto di
proprietà senza bisogno di alcuna cooperazione di altri (posso passeggiare nel mio fondo, cogliere i frutti, utilizzare la mia automobile,
senza che vi sia bisogno di un’attività di terzi: mi basta che questi
non mi ostacolino o impediscano di compiere tali attività), invece per
realizzare il diritto di credito è necessaria la cooperazione del debitore: dipende dal comportamento di quest’ultimo se l’obbligazione
sarà adempiuta. Questi esempi valgono a chiarire la prima distinzione dei diritti soggettivi in diritti assoluti, che garantiscono al
titolare un potere che egli può far valere verso tutti (erga omnes) e
diritti relativi, che gli assicurano un potere che egli può far valere solo
nei confronti di una o più persone determinate.
Tipici diritti assoluti sono i diritti reali (iura in re) e cioè diritti Diritti reali
su una cosa (res). Essi attribuiscono al titolare una signoria, piena
(proprietà) o limitata (diritti reali su cosa altrui), su un bene. Campeggia in primo piano la relazione immediata tra il soggetto e la cosa.
Gli altri consociati debbono solo astenersi dall’impedire il pacifico
svolgimento di quella signoria. Ciò perché l’interesse del proprietario
è quello di conservare la disponibilità di un bene che gli appartiene e
di poterne in tal modo trarre la conseguente utilità, senza essere
turbato nell’esercizio del godimento esclusivo della res. È stato efficacemente detto che nei diritti reali l’ordinamento risolve un problema di attribuzione di beni, nei rapporti di obbligazione un problema di cooperazione.
La categoria dei diritti assoluti non comprende solo i diritti reali
ma anche i cosiddetti diritti della personalità (diritto all’integrità
fisica, al nome, all’immagine, ecc.) che sono tutelati in capo al singolo
nei confronti di chiunque.
La concezione tradizionale del diritto reale è stata sottoposta a
critica: un rapporto giuridico del titolare del diritto con tutti i
consociati — si è detto — è inconcepibile, si tratterebbe di una
finzione del tutto astratta. Per sfuggire a questa critica, si è precisato
che soggetti passivi del diritto reale non sono « tutti », ma solo quelli
che possono venire, di fatto, a contatto con la cosa, che abbiano, cioè,
concretamente la possibilità di interferire con la posizione del titolare
del diritto. E così, nel momento in cui un estraneo si sia impossessato
78
L’attività giuridica
[§ 36]
della cosa, o l’abbia danneggiata o distrutta, si verifica una lesione
del diritto del proprietario, che comporta la reazione dell’ordinamento, che mette a disposizione opportuni strumenti di tutela per far
conseguire al proprietario stesso la restituzione del bene o il risarcimento del danno arrecato.
Nel rapporto obbligatorio (o di credito), invece, è determinante
per la realizzazione dell’interesse del titolare del diritto il comportamento di un altro soggetto, il quale (soggetto passivo) è tenuto a una
determinata condotta (prestazione: che può consistere in un dare,
fare, non fare; p. es. restituire la somma ricevuta in prestito, realizzare un’opera) verso il creditore (soggetto attivo). Quest’ultimo ha
interesse a conseguire un bene o una prestazione da altri: ha quindi
bisogno della cooperazione altrui. Ciò spiega perché, mentre è sufficiente l’esercizio del diritto reale per la realizzazione dell’interesse
tutelato, è invece necessaria la cooperazione di un altro soggetto (di
solito il debitore) (v. anche § 219) perché si verifichi la realizzazione
spontanea dell’interesse del creditore (per la distinzione tra esercizio
e realizzazione del diritto soggettivo v. § 35).
Diritti
La categoria dei diritti relativi si riferisce perciò a quei diritti
relativi
che attribuiscono al titolare una pretesa, o comunque una situazione
giuridica attiva, nei confronti non della generalità dei consociati, ma
esclusivamente di soggetti individuati.
Essa comprende in primo luogo i diritti di credito, che vengono
anche chiamati personali in contrapposto ai diritti reali perché hanno
appunto come termine di riferimento non una res, ma una persona,
tenuta ad un determinato comportamento nei confronti del titolare
del diritto.
Il dovere
Il rovescio, sia del diritto di credito che del diritto reale, è
costituito dal dovere: a fronte del diritto reale si pone, in capo a
qualsiasi consociato, un generico dovere negativo, di astensione dal
compiere qualsiasi atto volto ad impedire o limitare il godimento del
bene da parte del proprietario; a fronte del diritto di credito si pone
il dovere (che più precisamente si chiama obbligo) di una o più
persone determinate, specificamente tenute ad eseguire una determinata prestazione o tenere un certo comportamento, funzionale alla
soddisfazione dell’interesse del creditore.
Vi sono, ancora, ipotesi nelle quali al potere di una persona non
I diritti
potestativi e
corrisponde alcun dovere, ma solo uno stato di soggezione. Cerchiamo
la soggezione
di spiegare il concetto con un esempio. Nel caso di beni indivisi
appartenenti a più soggetti (comunione) ciascuno dei comproprietari
può chiedere la divisione (art. 1111 c.c.): gli altri comproprietari nulla
possono fare di fronte a questa iniziativa. Queste considerazioni
[§ 37]
Le situazioni giuridiche soggettive
79
permettono di individuare un’ulteriore categoria di diritti soggettivi
diffusamente accolta: la categoria dei diritti potestativi. Essi consistono nel potere di operare il mutamento della situazione giuridica di
un altro soggetto: così, ad es., il proprietario di un fondo contiguo al
muro altrui può chiederne la comunione forzosa (art. 874 c.c.),
ovvero il contraente che abbia pattuito una caparra penitenziale può
liberamente recedere dal contratto (art. 1386 c.c.).
Il soggetto passivo si trova in questo caso in una situazione di
soggezione: basta l’iniziativa del titolare perché si abbia la realizzazione dell’interesse tutelato; il comportamento del soggetto passivo è
irrilevante.
È disputato se i diritti personali di godimento (che consistono Diritti
di
nella situazione in un cui un soggetto si è obbligato a far godere di un personali
godimento
proprio bene un altro soggetto: per es. nella locazione o nel comodato;
§§ 384 e 400) abbiano una duplice natura.
Secondo l’opinione ancora oggi prevalente (v. anche § 384), il
diritto che, per esempio, spetta all’inquilino di un appartamento non
è che un diritto di credito verso colui che gli ha dato in locazione
l’appartamento e che, secondo l’art. 1571 c.c., si obbliga a fargli
godere la cosa locata. Tuttavia un’opinione sostiene che i diritti
personali di godimento hanno una duplice natura: relativa verso chi
ha concesso il godimento, assoluta verso tutti i consociati i quali sono
tutti tenuti ad astenersi dal turbare tale godimento.
§ 37.
Gli interessi legittimi.
Per interesse si intende qualsiasi vantaggio o utilità, che costituisce l’obiettivo o il movente dell’agire di un soggetto. L’interesse si
dice pubblico o privato, a seconda di chi ne sia portatore. Un
interesse privato si dice « semplice » o « di fatto » quando non fruisce
di alcuna particolare protezione giuridica (ho interesse, come chiunque, a che vi siano strutture sanitarie e medici capillarmente diffusi
sul territorio, in modo da poter essere assistito subito in caso di
necessità, ma non ho alcun diritto, in senso tecnico, di pretenderlo;
non ho, cioè, alcun potere di promuovere un procedimento giudiziario nei confronti di un qualche soggetto o ente per poter ottenere la
soddisfazione di quell’interesse, per esempio costruendo un ospedale
in una certa località).
Quando, invece, come si è detto, il mio personale interesse riceve
piena tutela giuridica, sicché mi è concesso di sollecitare la tutela
attraverso gli strumenti di coercizione messi a disposizione dall’ordi-
80
L’attività giuridica
[§ 37]
namento per ottenerne la soddisfazione (es.: se il debitore non mi
paga posso agire in giudizio per ottenere la condanna al pagamento
e promuovere un’azione volta ad espropriare i beni del debitore per
farli vendere e soddisfare il mio credito con il ricavato), allora sono
titolare di un diritto soggettivo. Ancora, se il mio vicino taglia un
albero del mio giardino posso agire nei suoi confronti per ottenere il
risarcimento del danno; invece se l’amministrazione comunale taglia
gli alberi di un parco per realizzare un parcheggio, posso dissentire,
ma non posso lamentare la lesione di un mio diritto soggettivo
individuale.
Si parla di interesse legittimo nell’ambito dei rapporti tra il
Gli interessi
legittimi
privato e i pubblici poteri. Tale situazione comporta il potere del
singolo di sollecitare un controllo giudiziario in ordine al comportamento tenuto, correttamente o meno, dalla pubblica amministrazione.
Talora, invero, anche il rapporto fra il cittadino ed una Pubblica
Amministrazione si configura connotato da una correlazione e reciprocità di veri e propri diritti soggettivi e di obblighi. Si parla, in tal
caso, di norme « di relazione », in quanto disciplinano uno specifico
rapporto interindividuale tra il privato e l’ente pubblico (ad es.: il
pubblico impiegato ha un diritto soggettivo perfetto al pagamento
della retribuzione).
Diverse sono le norme « di azione », che regolano, cioè, il funzionamento — l’azione, appunto — delle pubbliche amministrazioni (ad
es. regole sui concorsi pubblici). Da queste norme non derivano, in
capo ai privati interessati alla loro osservanza, diritti soggettivi pieni,
perché quelle norme non sono destinate a tutelare specifici interessi
individuali, ma soltanto a disciplinare l’attività pubblica.
In taluni casi però l’esercizio dei pubblici poteri incide direttamente sulla sfera di determinati soggetti, non genericamente in
quanto cittadini interessati al bene collettivo, bensì specificamente
come portatori di specifici interessi individuali coinvolti dall’azione
pubblica: ad es. il candidato ad un concorso, l’imprenditore che
partecipa ad una gara per l’assegnazione di un appalto, il proprietario di un fondo sottoposto alla procedura dell’espropriazione, ecc.
In questi casi al privato viene riconosciuto uno specifico potere
di controllo della regolarità dell’azione pubblica ed un potere di
impugnativa degli atti eventualmente viziati (art. 113 Cost.). L’esercizio dei poteri pubblici, infatti, nello Stato moderno non è abbandonato all’arbitrio dell’autorità titolare del potere, ma è regolato da
norme giuridiche (si parla perciò di Stato « di diritto »).
[§ 37]
Le situazioni giuridiche soggettive
81
La situazione giuridica dei portatori di tali interessi qualificati
viene definita come « interesse legittimo » e si traduce non già nella
tutela dell’interesse del singolo a veder concretamente soddisfatto un
proprio bisogno o aspirazione, ma in una tutela soltanto mediata o
strumentale, ossia nel controllo del corretto esercizio delle pubbliche
funzioni (il candidato ad un concorso non ha diritto di vincerlo, ma ha
un interesse legittimo al regolare svolgimento della procedura, alla
corretta ed imparziale valutazione dei candidati, e può quindi chiedere l’annullamento di tutti gli atti che siano illegittimi, compiuti
cioè in violazione delle norme « di azione » dettate per disciplinare
l’attività dell’amministrazione che ha bandito il concorso; il proprietario può reagire contro i privati che ledano il suo diritto di proprietà,
esercitando il proprio diritto soggettivo, se invece subisce un’espropriazione per pubblico interesse, deve soggiacere al provvedimento
dell’autorità, ma può far valere un interesse legittimo al corretto
esercizio del potere di espropriazione e chiedere l’annullamento degli
atti eventualmente illegittimi).
Gli artt. 24, comma 1, e 113 della Carta costituzionale garantiscono la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi, e l’art. 103
Cost. specifica gli organi ai quali è affidata tale tutela.
Il tipico strumento di tutela dell’interesse legittimo consiste, L’impugnazione
atti
come si è anticipato, nell’impugnazione dell’atto amministrativo ille- degli
amministrativi
gittimo, al fine di ottenerne l’annullamento. Infatti l’esercizio dei pubblici poteri, da parte degli organi amministrativi, deve avvenire nel
rispetto della legge e secondo criteri di razionalità. Pertanto il privato,
portatore di un interesse legittimo in relazione ad un determinato provvedimento della Pubblica Amministrazione, può contestarne la validità, rivolgendosi agli organi giudiziari competenti (a tal fine sono stati
costituiti i Tribunali Amministrativi Regionali, T.A.R.) e deducendo
il relativo vizio, che può essere un vizio di incompetenza (un organo
amministrativo ha compiuto un atto non rientrante nei suoi poteri),
di violazione di legge (il provvedimento si pone in contrasto con le norme
di legge che ne definiscono, per es., i presupposti o i contenuti), o di
eccesso di potere (l’atto risulta viziato da illogicità e contraddittorietà,
concretando uno « straripamento » di potere, ossia un non corretto uso
del potere da parte dell’organo che ha compiuto l’atto). L’accoglimento
dell’impugnativa del privato conduce all’annullamento dell’atto amministrativo ritenuto illegittimo.
Un problema dibattuto per decenni riguardava la sussistenza o Lesione di
meno di un diritto del privato, che sia leso da un atto amministrativo interessi
legittimi e
illegittimo, di ottenere il risarcimento del danno subìto per effetto di risarcimento
tale atto (non ho un diritto al rilascio di un provvedimento che mi del danno
82
L’attività giuridica
[§ 37]
consenta di costruire sul terreno di mia proprietà, ma se il provvedimento mi viene illegittimamente negato, subisco, ovviamente, un
danno). La risposta è stata a lungo negativa; si riteneva che l’aspettativa del privato alla corretta esplicazione dei poteri pubblici potesse ricevere tutela soltanto mediante la rimozione degli atti illegittimi, ma non anche attraverso lo strumento del risarcimento del
danno, perché, si diceva, quest’ultimo presuppone la sussistenza di
un diritto soggettivo (ossia di una forma giuridica di protezione
assoluta dell’interesse individuale), mentre di fronte all’azione della
P.A. il privato è titolare, appunto, esclusivamente di un interesse
(legittimo) alla corretta esplicazione dei pubblici poteri, ma l’ordinamento non assicura al singolo il diritto di ottenere in ogni caso la
soddisfazione del proprio interesse sostanziale.
Sul tema è intervenuta un’importante decisione della Corte di
Cassazione, a Sezioni Unite (la sentenza 22 luglio 1999, n. 500), la
quale ha affermato il principio per cui anche la lesione di un interesse
individuale costituente oggetto di un interesse legittimo può costituire fonte di danno risarcibile: pertanto il privato, che abbia subìto
una perdita a causa di un atto amministrativo illegittimo (e in
quanto tale annullato), ha diritto di ottenere il risarcimento del
danno patito. Oggi l’art. 7 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del
processo amministrativo) attribuisce espressamente alla competenza
del Giudice amministrativo le controversie relative al risarcimento
del danno per lesione di interessi legittimi.
Secondo talune tesi la figura dell’interesse legittimo, oltre che
Interessi
legittimi nel
nel diritto amministrativo, sarebbe rintracciabile anche nel diritto
diritto
privato privato: ad es. le norme che regolano il funzionamento delle assemblee di una società per azioni sono stabilite nell’interesse della società, ma il singolo socio che si ritenga leso da una deliberazione può
chiedere al giudice di annullarla, se sia stata adottata violando le
norme suddette (v. § 529), impugnativa che sarebbe quindi concessa
a tutela di un interesse legittimo dei soci.
Altri richiamano casi in cui l’ordinamento conferisce a soggetti
privati poteri da esercitarsi in forma discrezionale per la cura di
interessi altrui (ad es. poteri familiari dei genitori o del tutore).
La tendenza a fare dell’interesse legittimo una figura applicabile
anche nell’ambito del diritto privato suscita peraltro perplessità,
data la sua peculiare natura di figura tipica del diritto amministrativo.
[§ 39]
Le situazioni giuridiche soggettive
§ 38.
83
Situazioni di fatto.
Quelle che abbiamo esaminato sono le situazioni giuridiche
legittime, ossia le situazioni conformi alle previsioni dell’ordinamento e alle regole da esso stabilite.
Ma l’ordinamento stesso protegge provvisoriamente contro i
comportamenti lesivi altrui anche la situazione di fatto in cui il
soggetto può trovarsi rispetto ad un bene ed attribuisce anche ad essa
alcuni effetti (indipendentemente della sua conformità o meno ad
una situazione di diritto). Si hanno allora le due figure del possesso e
della detenzione, delle quali si parlerà più diffusamente al § 177.
Le situazioni di fatto possono essere altresì rilevanti in tema di
società (per le società « di fatto » v. il § 514), di « pre-uso » di un
marchio (v. § 486), di famiglia (v. § 578), di rapporti di lavoro (art.
2126 c.c.), ecc.: ce ne occuperemo volta a volta nell’ambito della
trattazione dedicata ai singoli istituti.
§ 39.
Situazioni soggettive passive (dovere, obbligo, soggezione, onere).
Dopo quanto abbiamo detto a proposito delle categorie dei Dovere,
diritti soggettivi, poco ci resta da esporre circa la posizione del obbligo,
soggezione
soggetto passivo. Ripetendo, per ragioni sistematiche e di chiarezza,
cose in parte già dette, distingueremo la figura del dovere generico di
astensione che incombe su tutti i consociati a fronte di un diritto
assoluto: ossia dovere di astenersi dal ledere il diritto assoluto (proprietà, integrità fisica) di un’altra persona (neminem laedere); quella
dell’obbligo cui è tenuto il soggetto passivo di un rapporto obbligatorio, a cui fa riscontro nel soggetto attivo la pretesa, ossia il potere di
esigere uno specifico comportamento (una prestazione) da un altro
individuo (pagare una somma di denaro; eseguire un servizio), volto
a soddisfare un interesse sostanziale del titolare del diritto; e quella
della soggezione che corrisponde al diritto potestativo.
Dalle situazioni passive innanzi considerate si deve distinguere Onere
la figura dell’onere.
Questa figura ricorre quando ad un soggetto è attribuito un
potere, ma l’esercizio di tale potere è condizionato a un previo
comportamento (che però, essendo previsto nell’interesse dello stesso
soggetto, non è obbligatorio e quindi non prevede sanzioni per
l’ipotesi che resti inattuato): ad es., il compratore che intenda avvalersi della garanzia per i vizi della cosa vendutagli (v. § 372) ha l’onere
di denunciare i vizi della cosa entro otto giorni dal momento in cui li
L’attività giuridica
84
[§ 40]
ha scoperti (art. 1495 c.c.), altrimenti perde il diritto di far valere la
garanzia.
Non costituisce un vero « onere », nel senso appena illustrato, il
Onere della
prova
c.d. « onere della prova » (art. 2697 c.c.), che, come meglio vedremo a
suo luogo (cfr. § 123), rappresenta, più che un onere, un rischio per il
soggetto che ne è gravato, in quanto il giudice di fronte ad un fatto
(rimasto) incerto nel giudizio, deve accogliere come vera la versione
offerta dalla parte che non aveva l’onere di provare quel fatto.
Il termine « onere » viene inoltre adoperato anche in un altro
Onere o
modus
significato completamente diverso dai precedenti, e cioè quale sinonimo di « modo », nell’ambito dei c.d. elementi « accidentali » del
negozio (v. § 327).
§ 40.
Vicende del rapporto giuridico.
Il rapporto giuridico nasce o, come è più preciso dire, si costituisce allorché il soggetto attivo acquista il diritto soggettivo.
L’acquisto indica il fenomeno del collegarsi di un diritto con una
Acquisto
titolo
persona che ne diventa il titolare: in sostanza, un diritto soggettivo
originario e
derivativo entra a far parte della complessiva situazione giuridica facente capo
ad una persona. L’acquisto può essere di due specie: a titolo originario, quando il diritto soggettivo sorge a favore di una persona, senza
esserle trasmesso da nessuno; a titolo derivativo, quando il diritto si
trasmette da una persona ad un’altra.
Per esempio, il pescatore che fa propri i pesci caduti nella rete
compie un acquisto a titolo originario (art. 923, comma 2, c.c.): il
pesce era, infatti, prima che egli se ne appropriasse, cosa di nessuno
(res nullius). Si ha acquisto a titolo originario anche se la cosa ha già
formato oggetto di altro rapporto, ma il soggetto non subentra in tale
rapporto, perché la cosa non gli viene trasmessa dal precedente
titolare. È, quindi, a titolo originario l’acquisto per occupazione delle
cose abbandonate (res derelictae) ovvero l’acquisto per usucapione di
un bene altrui.
Se, invece, compro un immobile da chi è proprietario, compio
un acquisto a titolo derivativo (derivativo perché deriva dal diritto
del precedente titolare).
Titolo d’acquisto o, come anche si dice, causa adquirendi è l’atto
Titolo
dell’acquisto
o il fatto giuridico che giustifica l’acquisto.
Com’è chiaro, nell’acquisto a titolo derivativo si verifica il
Successione
passaggio di un diritto (assoluto o relativo) dal patrimonio giuridico
di una persona a quello di un’altra. Questo fenomeno si chiama
[§ 40]
Le situazioni giuridiche soggettive
85
successione. Esso indica il mutamento del soggetto di un rapporto
giuridico (o di un complesso di più rapporti giuridici): colui che per
effetto della successione perde il diritto si chiama autore o dante
causa; chi lo acquista successore o avente causa. È chiaro che una
successione non si verifica nel caso di acquisto a titolo originario;
coincidono, invece, i due fenomeni (acquisto e successione) nell’acquisto a titolo derivativo, in cui appunto una persona subentra
all’altra nella titolarità di un diritto soggettivo. Può verificarsi non
soltanto il mutamento del soggetto attivo del rapporto (successione
nel lato attivo), ma anche quello del soggetto passivo (successione nel
lato passivo: per es., l’erede succede, come vedremo, nell’obbligo di
pagare i debiti del defunto).
L’acquisto a titolo derivativo può essere di due specie: si può
trasmettere proprio lo stesso diritto che aveva il precedente titolare
(acquisto derivativo-traslativo) o può attribuirsi al nuovo titolare un
diritto differente che, peraltro, scaturisce dal diritto del precedente
titolare (acquisto derivativo-costitutivo o successione a titolo derivativocostitutivo), in quanto lo suppone e ne assorbe il contenuto, o, in
parte, lo limita. Così il contenuto del diritto di proprietà comprende
il godimento e la disposizione della cosa (art. 832 c.c.); se il proprietario attribuisce ad un’altra persona il diritto di godere della cosa
(usufrutto: art. 981 c.c.), l’acquisto che l’usufruttuario compie è a
titolo derivativo-costitutivo.
Nelle due forme di acquisto a titolo derivativo (o nella successione, espressione, che — come abbiamo visto — indica lo stesso
fenomeno) il nuovo soggetto consegue lo stesso diritto che aveva il
precedente titolare ovvero un diritto da esso derivante (nemo plus
iuris quam ipse habet transferre potest). Ciò giustifica le regole seguenti: 1) il nuovo titolare non può vantare un diritto di portata più
ampia di quello che spettava al precedente titolare; 2) l’acquisto del
diritto del nuovo titolare dipende, di regola, dalla effettiva esistenza
del diritto del precedente titolare.
Se, per esempio, ho ereditato da una persona un bene e risulta
che il mio dante causa non è proprietario del bene, anche il mio
diritto cade (resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis). Come
vedremo il principio non è, tuttavia, senza deroghe.
Se il fenomeno dell’acquisto a titolo derivativo è considerato
non con riferimento alla persona a cui favore si verifica, ma avendo
riguardo alla persona che trasferisce il diritto, si ha il concetto di
alienazione (alienum facere). Tizio vende una cosa a Caio: Tizio fa
un’alienazione, Caio un acquisto.
86
L’attività giuridica
[§ 40]
La successione è di due specie: a titolo universale, quando una
persona subentra in tutti i rapporti di un’altra persona, e, cioè, sia
nella posizione attiva (es., diritti di proprietà, crediti ecc.) sia in
quella passiva (debiti) (successio in universum ius); a titolo particolare,
quando una persona subentra solo in un determinato diritto o rapporto (o in più rapporti determinati). Nell’ordinamento giuridico
italiano la successione a titolo universale si verifica nel caso di morte
di una persona (successione a causa di morte) o nel caso di fusione tra
società (v. § 553). Come vedremo, si distingue a questo proposito
l’erede, che subentra nella titolarità dei rapporti attivi e passivi che
facevano capo al defunto (successione a titolo universale), dal legatario, che subentra solo in rapporti determinati (successione a titolo
particolare).
Estinzione
La vicenda finale del rapporto è la sua estinzione. Il rapporto si
estingue quando il titolare perde il diritto senza che questo sia
trasmesso ad altri. Ciò si verifica, ad es., nel caso di derelictio di cosa
mobile (v. art. 827 c.c.), o nel caso dell’estinzione del rapporto
obbligatorio (es.: per rimessione del debito o impossibilità di esecuzione della prestazione).
Non tutti i diritti soggettivi sono rimessi all’arbitrio del titolare.
Diritti
disponibili e Accanto alla categoria, certamente ampia nel diritto privato, dei
indisponibili
diritti disponibili (dei quali il titolare può appunto disporre, alienandoli o rinunziandovi) v’è quella dei diritti indisponibili che è presa
varie volte in considerazione dal codice (es., nullità della transazione
su diritti indisponibili: art. 1966 c.c.). Indisponibili sono in genere i
rapporti che servono a soddisfare un interesse superiore: tali le
potestà e i diritti familiari.
Successione a
titolo
universale e
particolare
CAPITOLO VII
IL SOGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO
§ 41.
Soggetto e persona.
Le situazioni giuridiche soggettive (ad es., i diritti, gli obblighi, Il soggetto di
i doveri, gli oneri, ecc.) fanno capo a quelli che vengono definiti come diritto
« soggetti ».
L’idoneità ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive La capacità
— l’idoneità, cioè, ad essere « soggetti » — viene definita come « ca- giuridica
pacità giuridica ».
La capacità giuridica, nel nostro ordinamento, compete non solo La persona
alle persone fisiche (v. §§ 42 ss.), ma anche agli enti (ad es., associa- fisica
zioni, fondazioni, comitati, società, consorzi, enti pubblici, ecc.) (v. §§
69 ss.) e — secondo un’opinione non marginale — addirittura ad altre
strutture organizzate che la legge tratta, almeno a certi fini, come
autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive:
ad es., la “rete” iscritta nella sezione ordinaria del registro delle
imprese (art. 3, comma 4-quater, D.L. 10 febbraio 2009, n. 5), ovvero
il condominio (v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12501; sulla scia di Cass.,
sez. un., 18 settembre 2014, n. 19663; v. però anche Cass. 15 novembre 2017, n. 27101).
All’interno degli enti, occorre poi distinguere fra enti che sono Persona
ed
« persone giuridiche » (ad es., associazioni riconosciute, società di giuridica
enti non
capitali, enti pubblici) ed « enti non dotati di personalità » (ad es., dotati di
associazioni non riconosciute, società di persone, ecc.) (v. § 70). personalità
Entrambi sono « soggetti » di diritto. I primi hanno, però, autonomia
patrimoniale perfetta (ossia, delle obbligazioni dell’ente risponde solo
l’ente stesso con il proprio patrimonio), che difetta invece ai secondi.
I concetti di « soggetto » e di « persona », dunque, non coincidono. Soggetto e
Le « persone » — « fisiche » e « giuridiche » — sono « soggetti », ma non persona
esauriscono quest’ultima categoria, che comprende anche gli enti non
dotati di personalità e gli altri centri autonomi di imputazione
giuridica.
L’attività giuridica
88
[§ 42]
A) LA PERSONA FISICA
§ 42.
La capacità giuridica della persona fisica.
L’uomo — per il solo fatto della nascita (art. 1, comma 1, c.c.) —
acquista la capacità giuridica e, conseguentemente, diviene soggetto di
diritto.
E la Costituzione repubblicana — all’art. 22 — enuncia solennemente il principio secondo cui « nessuno può essere privato, per
motivi politici, della capacità giuridica ».
La capacità giuridica, dunque, compete indifferentemente a tutti
Capacità
giuridica e
gli uomini (per tali ovviamente intendendosi gli esseri umani, a
principio di
eguaglianza prescindere da distinzioni di sesso).
...
Siffatto principio — che può sembrare ovvio, essendo ormai
stabilmente acquisito al nostro patrimonio culturale — costituisce, in
realtà, una conquista relativamente recente della civiltà giuridica
occidentale.
Senza necessità di risalire all’epoca romana (quando, ad es., lo
schiavo non era « soggetto » di diritto, ma « oggetto » di proprietà da
parte del dominus), sarà sufficiente ricordare che ancora nel periodo
immediatamente precedente la rivoluzione francese il diritto distingueva — diversamente conformando diritti e capacità di ciascuno
(relativamente, ad es., alle libertà personali; alla giurisdizione applicabile; al regime matrimoniale, familiare e successorio; alla possibilità
di accedere a professioni, arti, mestieri e commerci; alla possibilità di
essere proprietari di determinate categorie di beni, di assumere
determinati uffici; ecc.) — tra soggetti di religione cattolica, soggetti
di religione protestante e, soprattutto, ebrei; tra soggetti nobili,
soggetti borghesi, soggetti appartenenti al clero, soggetti servi; tra
soggetti maschi e soggetti femmine: finendo con il delineare, per
ciascuno, uno status giuridico differenziato.
È solo con la caduta dell’ancien régime che si afferma il « rivo... formale
luzionario » principio — di derivazione giusnaturalista ed illuminista
— secondo cui « gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei
diritti » (come si legge, testualmente, all’art. 1 della francese « Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino » del 26 agosto 1789).
Proprio nel solco della tradizione così inaugurata, l’art. 3 della
nostra Costituzione repubblicana proclama oggi solennemente che
« tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ».
Capacità
giuridica
[§ 42]
Il soggetto del rapporto giuridico
89
E, in ossequio a detto principio, il legislatore è reiteratamente
intervenuto per eliminare quelle limitazioni formali alla capacità dei
cittadini che erano state, in passato, introdotte nel nostro ordinamento sulla base della razza (v. R.D.L. 20 gennaio 1944, n. 25, che ha
abrogato le sciagurate leggi razziali del periodo 1938-1942), del sesso
(v. i provvedimenti — tra cui la L. 9 febbraio 1963, n. 66 — abolitivi
dei divieti di accesso della donna a talune carriere pubbliche, in
particolare alla magistratura ordinaria ed amministrativa), delle
condizioni personali (v. le incapacità speciali ampiamente previste
dal testo originario del codice civile in danno dei figli nati fuori del
matrimonio, prima non di rado incorse nei fulmini della Corte costituzionale, poi sistematicamente eliminate dalla riforma organica del
diritto di famiglia del 1975), ecc.
Peraltro, sempre più avvertita anche nella coscienza sociale è ... sostanziale
l’idea che il superamento delle limitazioni formali della capacità dei
cittadini è condizione necessaria, ma non sufficiente per la completa
attuazione del principio di eguaglianza.
In quest’ottica, l’art. 3, comma 2, Cost. prevede testualmente
che « è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ».
Ed è innegabile che il legislatore ordinario si sia mosso nella Il « codice
pari
direzione indicata dalla Carta costituzionale. Ad es., ha varato il delle
opportunità »
« Codice delle pari opportunità tra uomo e donna » (D.Lgs. 11 aprile
2006, n. 198, ora ampiamente novellato — in attuazione della direttiva 2006/54/CE — con D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5), che non si
limita a vietare atti discriminatori in ragione del sesso, ma prevede
altresì « azioni positive » (art. 42, comma 1, D.Lgs. n. 198/2006) « volte
ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come
conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà
fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile
o in ogni altro campo » (art.1, comma 1, D.lgs. n. 198/2006).
Capacità giuridica di diritto privato compete non solo al citta- Capacità
dino, ma anche allo straniero: peraltro — dispone l’art. 16 disp. prel. giuridica
dello
al c.c. — con il limite del rispetto del c.d. « principio di reciprocità » (lo straniero
straniero è, cioè, ammesso a godere in Italia dei diritti civili, se e nella
misura in cui il cittadino italiano è ammesso al godimento di detti
diritti nel Paese di cui lo straniero ha la cittadinanza). L’applicazione
del « principio di reciprocità » può risolversi — è evidente — in forme
90
L’attività giuridica
[§ 43]
di limitazione, anche pesanti, della capacità dello straniero, non
cittadino di Stati membri dell’Unione europea, di godere dei diritti
civili in Italia (v. Cass. 30 giugno 2014, n. 14811).
Ora, però, il riferimento al « principio di reciprocità » non comPrincipio di
reciprocità e
pare più nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, laddove prevede che « allo
diritti
fondamentali straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato
della persona sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti
dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in
vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti » (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 286/1998). E la giurisprudenza
afferma che un’interpretazione dell’art. 16 disp. prel. c.c., condotta
alla luce dei principi di cui agli artt. 2, 3 e 10 Cost. (c.d. interpretazione costituzionalmente orientata), induce alla conclusione che i diritti
inviolabili della persona umana sono riconosciuti dal nostro ordinamento in favore di chiunque, cittadino o straniero (anche extracomunitario), indipendentemente dal riconoscimento di un egual diritto in
favore del cittadino italiano nello Stato cui appartiene lo straniero (v.
Cass. 7 giugno 2015, n. 13923; Cass. 13 novembre 2014, n. 24201;
Cass. 4 novembre 2014, n. 23432).
§ 43.
La nascita e la morte.
La persona fisica acquista la capacità giuridica con la nascita
(art. 1, comma 1, c.c.) e la perde con la morte (come si arguisce non
solo dall’art. 4 c.c., ma soprattutto dall’art. 456 c.c.).
Si ha nascita — secondo la scienza medico-legale, cui occorre far
La nascita
riferimento nel silenzio del codice — con l’acquisizione della piena
indipendenza dal corpo materno che si realizza con l’inizio della
respirazione polmonare (mentre le funzioni circolatoria e nervosa
preesistono). Conseguentemente, nel dubbio se il feto sia nato morto
o se la morte sia sopravvenuta dopo la nascita, sarà necessario
accertare se i polmoni hanno respirato o meno (facendo ricorso ai
criteri medico-legali della c.d. docimasia polmonare).
La nascita è condizione necessaria, ma anche — almeno di
regola (v. § 44) — sufficiente per l’acquisto della capacità giuridica.
In particolare, non occorre la vitalità (ossia, l’idoneità fisica alla
sopravvivenza). Se il neonato è morto subito dopo la nascita, ha
comunque acquisito — sia pure per qualche momento soltanto — la
capacità giuridica, con quel che ne consegue (ad es., è chiamato alla
successione del padre che sia premorto: art. 462 c.c.).
Acquisto e
perdita della
capacità
giuridica
[§ 43]
Il soggetto del rapporto giuridico
91
Entro dieci giorni, l’evento della nascita deve essere — « da uno L’atto di
dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dall’oste- nascita
trica o da altra persona che ha assistito al parto » (art. 30, comma 1,
D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396) — dichiarato all’ufficiale dello stato
civile per la formazione dell’atto di nascita (artt. 29 ss. D.P.R. n. 396/
2000). Se la nascita avviene in un ospedale o in una casa di cura, la
dichiarazione può essere resa — entro tre giorni — presso la relativa
direzione sanitaria, che provvederà alla sua trasmissione all’ufficiale
dello stato civile (art. 30, comma 4, D.P.R. n. 396/2000).
Si ha morte « con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni La morte
dell’encefalo » (art. 1 L. 29 dicembre 1993, n. 578). Tale ultima
previsione normativa, estranea al codice, si è resa necessaria (anche
per fissare l’esatto momento a partire dal quale è possibile procedere
al prelievo di organi e tessuti a fini di trapianto terapeutico: art. 1 L.
1o aprile 1999, n. 91) per la sempre più accentuata labilità del confine
tra la vita e la morte — tradizionalmente fatto coincidere con
l’esalazione dell’ultimo respiro e la cessazione del battito cardiaco —
in conseguenza dell’evolversi delle tecniche di rianimazione, che
consentono di sostenere artificialmente, e per lungo tempo, l’attività
respiratoria e circolatoria dell’organismo.
L’accertamento della cessazione irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo avviene con le modalità via via definite — tenendo
conto delle sempre nuove acquisizioni della scienza medica — con
decreto del Ministro della Salute (attualmente, D.M. 11 aprile 2008).
Entro le ventiquattro ore dal decesso, la morte è — « da uno dei L’atto di
congiunti o da una persona convivente con il defunto o da un loro morte
delegato o, in mancanza, da persona informata del decesso » (art. 72,
comma 2, D.P.R. n. 396/2000); ovvero, se la morte è avvenuta in un
ospedale, casa di cura o riposo, ecc., dal relativo direttore (art. 72,
comma 3, D.P.R. n. 396/2000) — dichiarata all’ufficiale di stato civile
per la formazione dell’atto di morte (artt. 71 ss. D.P.R. n. 396/2000).
Allorquando vi sia incertezza in ordine alla sopravvivenza di Presunzione
una persona rispetto ad un’altra — in genere, perché le stesse sono di
commorienza
perite in un unico contesto (ad es., sinistro stradale, crollo di una
casa, incendio, terremoto, ecc.) — la legge presume, fino a prova
contraria (che può essere fornita con qualunque mezzo), che le stesse
siano morte contestualmente; cioè, che nessuna sia sopravvissuta
all’altra (art. 4 c.c.): c.d. presunzione di commorienza.
Con la morte, alcuni rapporti facenti capo al defunto si estin- Sorte di
e
guono (ad es., il matrimonio: art. 149, comma 1, c.c.; l’unione civile diritti
rapporti alla
tra persone dello stesso sesso: art. 1, comma 22, L. 20 maggio 2016, n. morte del
76; il contratto di convivenza: art. 1, comma 59 lett. d, L. n. 76/2016; titolare
92
L’attività giuridica
[§ 44]
v. anche artt. 448, 1722, comma 1 n. 4, 2118, comma 3, e 2534,
comma 1, c.c.; art. 134, n. 3, L. aut.); altri possono essere sciolti ad
iniziativa degli eredi del defunto e/o ad iniziativa dell’altra parte (v.,
ad es., artt. 1614, 1627, 1674, 1811 e 1833 c.c.). I diritti patrimoniali
si trasmettono, di norma, secondo le regole dal codice dettate per la
successione a causa di morte (artt. 456 ss. c.c.; v. §§ 623 ss.). La tutela
degli interessi non patrimoniali (ad es., quelli legati alle spoglie
mortali, all’integrità morale, al nome, all’immagine, alla riservatezza,
all’identità personale: v. §§ 64 ss.) è invece affidata, di regola, al
coniuge superstite e/o ai prossimi congiunti (v., ad es., artt. 246, 267
e 270, comma 2, c.c.; artt. 23, comma 1, 93, comma 2, e 96, comma
2, L. aut.; art. 79 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285: « Approvazione
del regolamento di polizia mortuaria »; art. 2-terdecies, comma 1, cod.
privacy; artt. 8, comma 1, 62 e 110 c.p.i.).
§ 44.
Le incapacità speciali.
La nascita — lo si è appena evidenziato — è condizione sufficiente per far acquisire alla persona fisica la capacità giuridica
generale: ossia, la capacità di essere titolare di tendenzialmente tutte
le situazioni giuridiche soggettive connesse alla tutela dei propri
interessi.
Incapacità
Peraltro, per l’accesso a taluni rapporti, non è sufficiente la
speciali
nascita, ma è richiesto il concorso di altri presupposti (così, ad es., la
capacità matrimoniale si acquista al momento del compimento del
sedicesimo anno di età: art. 84, comma 2, c.c.; la capacità di testare
si acquista con il compimento del diciottesimo anno di età: art. 591,
comma 2 n. 1, c.c.): se detti presupposti non sussistono, il soggetto
non può essere parte di quel determinato rapporto.
Dette incapacità si distinguono, tradizionalmente, in:
a) assolute, se al soggetto è precluso quel dato tipo di rapporto
... assolute
o di atto (oltre agli esempi appena menzionati, si ricordi che il
rapporto di lavoro subordinato è precluso a chi non abbia compiuto
il sedicesimo anno di età: art. 1, comma 622, L. 27 dicembre 2006, n.
296; ecc.); e
b) relative, se al soggetto è precluso quel dato tipo di rapporto o
... relative
di atto, ma solo con determinate persone (ad es., è preclusa al tutore,
che non sia ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge, la
capacità di succedere per testamento alla persona sottoposta alla sua
tutela: art. 596, commi 1 e 2, c.c.; ecc.) o solo in determinate
circostanze (ad es., al pubblico ufficiale è precluso di rendersi acquiCapacità
giuridica
generale
[§ 45]
Il soggetto del rapporto giuridico
93
rente di beni venduti con il concorso della propria opera: art. 1471,
comma 1 n. 2, c.c.).
In tutti questi casi, tradizionalmente, si ravvisa una limitazione
della capacità giuridica — c.d. incapacità speciali — in quanto, da un
lato, il rapporto non è accessibile al soggetto neppure attraverso
l’intervento di un rappresentante e, da altro lato, l’atto eventualmente compiuto in violazione del divieto è nullo e non già semplicemente annullabile (come dovrebbe invece essere, se si trattasse di
incapacità d’agire: v. §§ 47, 48 e 53).
Ad ipotesi di « incapacità » fa oggi sempre più ampio ricorso il Incapacità
pena
legislatore penale, a titolo di « pena accessoria » per chi si sia mac- quale
accessoria a
chiato di determinati reati. Si pensi alla « interdizione temporanea seguito di
dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese » (che condanna
penale
« priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili
societari, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della
persona giuridica o dell’imprenditore ») comminata a chi sia stato
condannato « alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti
commessi con abuso dei poteri o violazioni dei doveri inerenti all’ufficio » (art. 32-bis c.p.); alla « incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione » (che « importa il divieto di concludere contratti
con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio ») comminata a chi sia stato condannato
per uno dei delitti di cui all’art. 32-quater c.p. (art. 32-ter c.p.); ecc. (v.
anche artt. 30, 31, 448, comma 2, c.p.).
§ 45.
Il concepito.
La nascita — lo si è già avvertito — è condizione necessaria per
far acquisire alla persona fisica la capacità giuridica generale.
Peraltro, indiscussa e indiscutibile è la rilevanza, nel nostro Il concepito
ordinamento, anche di chi, seppur non ancora nato, sia però concepito ...
(v., da ultimo, Cass. 8 agosto 2014, n. 17811).
Al riguardo, si può utilmente ricordare che la L. 19 febbraio ... nella
2004, n. 40 (« Norme in materia di procreazione medicalmente assi- legislazione
extracodicistita »), enuncia testualmente — al suo art. 1, comma 1 — il principio stica
secondo cui vengono assicurati « i diritti di tutti i soggetti coinvolti,
compreso il concepito »; che la L. 22 maggio 1978, n. 194 (« Norme per
la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della
gravidanza ») statuisce testualmente — al suo art. 1, comma 1 — che
94
L’attività giuridica
[§ 45]
« lo Stato (...) tutela la vita umana dal suo inizio », cioè fin dal
momento del concepimento; che la L. 29 luglio 1975, 405 (« Istituzione dei consultori familiari ») — al suo art. 1 lett. c) — indica, tra
gli scopi dei consultori familiari, quello della « tutela della salute (...)
del prodotto del concepimento ».
... nel codice
Peraltro, già lo stesso codice civile attribuisce al concepito:
civile:
a) la capacità di succedere per causa di morte, sia per legge che per
a) capacità testamento (così, ad es., se il padre muore dopo il concepimento, ma
di succedere
prima della nascita del figlio, l’eredità si devolve anche a favore di
mortis causa
quest’ultimo, seppure non ancora nato all’epoca dell’apertura della
successione) (art. 462, comma 1, c.c.);
b) capacità
b) la capacità di ricevere per donazione (così, ad es., il nonno può
ricevere per
effettuare una donazione a favore del nipote, quando ancora è nel
donazione
ventre materno) (art. 784, comma 1, c.c.).
... nella giuriDal canto suo, la giurisprudenza afferma la risarcibilità del
sprudenza
danno conseguente a condotte poste in essere, in suo pregiudizio,
quando il concepito ancora nato non era (v. Cass., sez. un., 22
dicembre 2015, n. 25767); in particolare, afferma:
i) la risarcibilità del danno alla salute ed all’integrità fisica
eventualmente cagionato al nascituro (ad es., dalla condotta imperita dell’ostetrico) prima o durante il parto (v. Cass. 15 maggio 2018,
n. 11750; Cass. 12 aprile 2018, n. 9048);
ii) la risarcibilità del danno sofferto a seguito dell’uccisione del
padre ad opera di un terzo (ad es., in un incidente stradale causato
dall’imprudenza di quest’ultimo), quando ancora la gestazione era in
corso (v. Cass. 10 marzo 2014, n. 5509).
Da ultimo, la Suprema Corte ha affermato che la presenza di
nascituri concepiti — non diversamente dalla presenza di figli minori
(art. 171, comma 2, c.c.; v. § 601) — osta alla cessazione del « fondo
patrimoniale » (v. Cass. 8 agosto 2014, n. 17811).
Ovviamente, « i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita » (art. 1, comma 2,
c.c.): potranno, cioè, essere fatti valere solo se e quando avvenga la
nascita; altrimenti dovranno considerarsi come mai entrati nella sua
sfera giuridica.
Alla luce di ciò, si discute se il concepito abbia una propria
capacità giuridica, sia pure parziale e condizionata (c.d. capacità
giuridica prenatale) — o, comunque, una sua autonoma soggettività
giuridica (v. Cass. 11 maggio 2009, n. 10741) — ovvero se lo stesso sia
semplicemente oggetto di tutela (in tal senso v. ora Cass., sez. un., 22
dicembre 2015, n. 25767).
[§ 46]
Il soggetto del rapporto giuridico
95
La capacità di succedere per testamento e di ricevere per Capacità del
ancora
donazione è riconosciuta anche a chi non sia stato neppure ancora non
concepito
concepito, ma sia figlio di una determinata persona fisica vivente al
momento dell’apertura della successione del testatore (art. 462,
comma 3, c.c.) ovvero al momento della donazione (art. 784, comma
1, c.c.) (v. §§ 628 e 678).
§ 46.
La capacità di agire.
Con la nascita la persona fisica acquista — come si è detto — la
capacità giuridica generale (ossia, l’idoneità ad essere titolare di
diritti, doveri, ecc.).
Siffatta idoneità si « concretizza » immediatamente, sempre al- L’acquisto
l’atto della nascita, con l’acquisto — automatico e necessario — dei dei diritti
c.d. diritti della personalità (ad es., i diritti alla vita, all’integrità
fisica, all’integrità morale, ecc.; v. §§ 61 ss.). Solo eventuale è invece
l’acquisto, con la nascita, dei diritti patrimoniali (ad es., per successione mortis causa in ipotesi di decesso del padre durante il periodo di
gestazione del figlio).
Peraltro, non sempre la persona fisica è in grado — per giovane La capacità
età (si pensi, ad es., al bambino), per malattia (si pensi, ad es., a chi è di agire
affetto da una grave forma della sindrome di Down), per decadimento
delle facoltà intellettive e/o volitive in conseguenza dell’età (si pensi,
ad es., all’anziano), ecc. — di gestire in prima persona le situazioni
giuridiche che alla stessa pur fanno capo (così, ad es., un bimbo di tre
anni non è materialmente in grado di rivolgersi ad un giudice per reagire alla pubblicazione abusiva della propria immagine nell’ambito di
una campagna pubblicitaria di prodotti per la prima infanzia).
Ecco perché la legge richiede, affinché possa compiere personalmente ed autonomamente atti di amministrazione dei propri interessi,
che il soggetto abbia — oltre che la « capacità giuridica » — anche la
c.d. « capacità d’agire »: per tale intendendosi l’idoneità a porre in
essere in proprio atti negoziali destinati a produrre effetti nella sua
sfera giuridica (c.d. capacità negoziale).
La capacità d’agire presuppone la capacità giuridica, ma non si Capacità
e
confonde con essa: anche quando difetta di capacità d’agire (ad es., giuridica
capacità
perché minore d’età; v. § 47), il soggetto è pur sempre dotato di d’agire
capacità giuridica.
La capacità d’agire si acquista — come regola generale — al La maggiore
raggiungimento della maggiore età: cioè, al compimento del diciot- età
tesimo anno (art. 2, comma 1, c.c.).
96
L’attività giuridica
[§ 46]
Può peraltro accadere che, nonostante la maggiore età, la persona fisica si ritrovi — per le ragioni più varie (ad es., malattia fisica
o mentale, situazioni di disagio psichico, ubriachezza, assunzione di
sostanze stupefacenti, ecc.) — a non avere quella capacità di discernimento che è invece normale attendersi in un individuo adulto e
maturo. Di qui la necessità di apprestare — a protezione di detti
soggetti — strumenti di salvaguardia contro il rischio che gli stessi
possano porre in essere atti negoziali destinati ad incidere negativamente sui loro interessi (ad es., svendere la propria casa, fare acquisti
sconsiderati, prestare denaro senza garanzie, ecc.).
Istituti a
A « protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonoprotezione
mia » (come recita, oggi, la rubrica del titolo XII del suo libro primo),
delle persone
prive di il codice civile prevede gli istituti:
autonomia
a) della minore età;
b) dell’interdizione giudiziale;
c) dell’inabilitazione;
d) dell’emancipazione;
e) dell’amministrazione di sostegno;
f) dell’incapacità di intendere o di volere (c.d. incapacità naturale).
Ad una logica non già di protezione, bensì ad una logica sanzionatoria risponde invece l’istituto dell’interdizione legale (v. § 49).
Capacità
Da non confondere con la capacità negoziale — cui si è fin qui
negoziale e ...
fatto cenno — sono:
capacità
⇒ da un lato, la capacità extracontrattuale: mentre la prima
extra
riguarda l’idoneità del soggetto a compiere personalmente atti di
contrattuale
autonomia negoziale (ad es., vendere, comprare, dare in locazione,
prendere o dare a mutuo, ecc.), la seconda riguarda l’idoneità del
soggetto a rispondere delle conseguenze dannose degli atti dallo
stesso posti in essere (ad es., delle lesioni cagionate a terzi investiti
sulle strisce pedonali);
Capacità di
⇒ da altro lato, la capacità di porre in essere (o ricevere) atti
porre in
giuridici
in senso stretto (ad es., la richiesta di risarcimento dal
essere atti
giuridici in danneggiato rivolta al danneggiante; v. § 97), che — secondo la
senso stretto giurisprudenza di legittimità (v. Cass. 13 ottobre 2017, n. 24077) —
possono essere validamente compiuti anche dall’incapace, sempre
che dagli stessi non possano derivargli effetti sfavorevoli (ad es., la
perdita di un diritto o l’assunzione di un obbligo): si pensi — per
riprendere l’esempio appena fatto — alla richiesta di riparazione del
danno sofferto, che varrà ad interrompere la prescrizione del diritto
risarcitorio dell’incapace (v. § 114).
[§ 47]
Il soggetto del rapporto giuridico
97
Ora ci occuperemo delle incapacità negoziali. Della capacità
extracontrattuale parleremo, invece, quando affronteremo il tema
della responsabilità civile (v. § 458).
§ 47.
La minore età.
La capacità d’agire presuppone — come abbiamo visto — che il Acquisto
capacità
soggetto sia in grado di curare autonomamente i propri interessi e della
d’agire
che, a tal fine, abbia raggiunto la necessaria maturità. Sarebbe
peraltro fonte di infinite incertezze e contestazioni se si dovesse
andare a verificare, caso per caso, a quale età il singolo è concretamente pervenuto ad un grado di avvedutezza sufficiente per gestire
direttamente i propri affari. La legge fissa perciò, con criterio generale, un’età, eguale per tutti, al cui raggiungimento reputa che la
persona fisica abbia acquisito la capacità e l’esperienza necessarie per
assumere validamente ogni decisione che la riguarda: « la maggiore età
— statuisce infatti l’art. 2 c.c. — è fissata al compimento del diciottesimo anno ».
Prima di quel momento, il soggetto è legalmente incapace,
quand’anche dovesse aver acquisito un elevato grado di maturità;
dopo quel momento, il soggetto è legalmente capace, quand’anche, per
una qualsiasi ragione (ad es., per una malattia mentale), dovesse non
aver raggiunto i livelli di maturità normali per la sua età.
Con la maggiore età, la persona acquista la capacità di compiere
tutti gli atti per i quali non sia richiesta un’età diversa (art. 2, comma
1, c.c.). A quest’ultimo proposito, si ricordi — ad es. — che il minore
ultrasedicenne è ammesso a stipulare in proprio il contratto di lavoro
ed « è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono »
da detto contratto (art. 2, comma 2, c.c.); il minore ultrasedicenne,
giudizialmente ammesso al matrimonio, è chiamato a prestare in
prima persona il consenso alle nozze (art. 84, comma 2, c.c.); il minore
ultrasedicenne — e, se autorizzato dal giudice, anche prima del
compimento dei sedici anni — effettua direttamente il riconoscimento del figlio naturale (art. 250, comma 5, c.c.); il minore ultraquattordicenne può esprimere il consenso al trattamento dei propri
dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società
dell’informazione (art. 2-quinquies, comma 1, cod. privacy); ecc.
Di regola, il minore non può stipulare direttamente gli atti Condizione
del
negoziali destinati ad incidere sulla propria sfera giuridica, ma nep- giuridica
minore
pure decidere il loro compimento.
98
Atti posti in
essere dal
minore
L’attività giuridica
[§ 47]
Gli atti eventualmente posti in essere dal minore sono annullabili (art. 1425, comma 1, c.c.; v. § 345). Non importa se, nel caso
concreto, il minore abbia raggiunto una maturità che gli consenta di
apprezzare utilità e rischi dell’atto: esso è comunque annullabile per il
solo fatto di essere stipulato da un minore, salvo che quest’ultimo
non abbia, con raggiri idonei a trarre in inganno il terzo (ad es.,
alterando il proprio documento d’identità), occultato la propria
minore età (art. 1426 c.c.).
L’atto posto in essere dal minore può essere impugnato entro
cinque anni dal raggiungimento, da parte del minore stesso, della
maggiore età (art. 1442, comma 2, c.c.). L’impugnativa può, però,
essere proposta solo dal rappresentante legale del minore ovvero
direttamente da quest’ultimo, una volta divenuto maggiorenne; non
dalla controparte (art. 1441, comma 1, c.c.): si parla, al riguardo, di
« negozi claudicanti ». Ciò, in quanto la legge intende tutelare il
minore contro i rischi di un atto improvvidamente assunto, non chi
— maggiorenne, e quindi dalla legge ritenuto legalmente capace —
abbia stipulato con il minore. La scelta di mantenere o meno in vita
l’atto stipulato dal minore è, quindi, rimessa ad una valutazione di
convenienza fatta, prima, dal legale rappresentante del minore, poi,
dal minore stesso.
Se l’atto è annullato per sua incapacità legale, il minore ha
diritto alla restituzione di quanto prestato in esecuzione di esso,
mentre è tenuto a restituire la prestazione ricevuta solo nei limiti in
cui la stessa è stata rivolta a suo vantaggio (art. 1443 c.c.; v. Cass. 7
luglio 2017, n. 16888).
L’art. 1425, comma 1, c.c. statuisce — senza operare distinzioni
di sorta — che « il contratto è annullabile se una delle parti era
legalmente incapace di contrattare » (nel caso di specie, perché minore). Peraltro, nella quotidianità i minori vengono normalmente
ammessi a stipulare tutta una serie di contratti (ad es., acquistano
giornali, libri, biglietti dell’autobus, del treno, del cinema, del teatro,
del concerto, della discoteca; comprano cibi, bevande, carburante per
il motorino, capi di abbigliamento; fanno riparare la bicicletta, il
telefonino, ecc.), senza che nessuno si sogni di impugnare detti atti.
In realtà — essendo l’istituto della minore età funzionale alla protezione del minore contro il rischio che lo stesso ponga in essere atti
pregiudizievoli alla propria persona o al proprio patrimonio — devono ritenersi a quest’ultimo accessibili tutti quegli atti che siano
(come si esprime ora l’art. 409, comma 2, c.c.) « necessari a soddisfare
le esigenze della propria vita quotidiana » in relazione all’età raggiunta (così, ad es., un ragazzo di diciassette anni ben potrà valida-
[§ 47]
Il soggetto del rapporto giuridico
99
mente acquistare da solo un libro, un giornale, ecc., senza dover
ricorrere ai genitori): diversamente, l’istituto della minore età finirebbe con il trasformarsi da istituto di protezione in strumento di
emarginazione del minore dal consorzio sociale.
La gestione del patrimonio del minore (c.d. potere di ammini- Rappresened
strazione) ed il compimento di ogni atto relativo (c.d. potere di tanza
amministrarappresentanza) competono, in via esclusiva, ai genitori:
zione del
a) disgiuntamente, per quanto riguarda gli atti di ordinaria patrimonio
del minore
amministrazione (per tali intendendosi quelli che non comportano
rischi per l’integrità del patrimonio: ad es., la riscossione del canone
di locazione dell’appartamento di cui il minore è proprietario);
b) congiuntamente — « di comune accordo » (come si esprime
l’art. 316, comma 1, c.c.) — per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione (per tali intendendosi quelli suscettibili di
incidere in termini significativi sulla struttura e/o sulla consistenza
del patrimonio: ad es., la vendita dell’appartamento di cui il minore
è proprietario), nonché gli atti con cui si concedono o si acquistano
diritti personali di godimento (ad es., la concessione in locazione
dell’appartamento di proprietà del minore) (art. 320, comma 1, c.c.).
Peraltro — al fine di controllare preventivamente che gli atti Autorizzadel
maggiormente rischiosi per il patrimonio del minore siano effettiva- zione
giudice
mente funzionali ai suoi interessi — la legge richiede che, per il tutelare
compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (e, tra
questi, l’alienazione di beni di proprietà del minore, la costituzione di
pegno o ipoteca su beni del minore, l’accettazione di eredità o legati,
l’accettazione di donazioni, la stipula di locazioni ultranovennali,
ecc.), i genitori si muniscano della preventiva autorizzazione del
giudice tutelare (art. 320, comma 3 e 4, c.c.).
Gli atti posti in essere dai genitori in assenza della richiesta
autorizzazione sono annullabili, su istanza dei genitori stessi o del
figlio, una volta divenuto maggiorenne (art. 322 c.c.; v. Cass. 29
maggio 2014, n. 12177).
Se uno dei genitori è morto o impossibilitato (per lontananza,
incapacità o altro impedimento) ad esercitare la responsabilità genitoriale sul figlio, l’amministrazione del suo patrimonio e la relativa
rappresentanza competono, in via esclusiva, all’altro genitore (artt.
317, comma 1, e 320, comma 1, c.c.).
Se entrambi i genitori sono morti o per altra causa non possono La tutela dei
esercitare la responsabilità genitoriale, la gestione del patrimonio del minori
minore e la relativa rappresentanza competono ad un tutore (artt.
343, comma 1, e 346 c.c.) nominato dal giudice tutelare (nella persona
designata dal genitore che per ultimo ha esercitato la responsabilità
L’attività giuridica
100
[§ 48]
genitoriale ovvero, in mancanza di siffatta designazione, scegliendolo
preferibilmente tra gli ascendenti o tra gli altri prossimi parenti od
affini del minore: art. 348 c.c.).
Offrendo il tutore minori garanzie, rispetto ai genitori, in ordine
Autorizzazione del
all’esclusivo perseguimento degli interessi del minore, la legge rigiudice
tutelare e del chiede che lo stesso debba munirsi della preventiva autorizzazione del
tribunale giudice tutelare per il compimento degli atti indicati dall’art. 374 c.c.
e — addirittura — della preventiva autorizzazione del tribunale per il
compimento degli atti di cui all’art. 375 c.c.
In sintonia con indicazioni in tal senso provenienti da fonti
Diritto di
ascolto
extrastatuali — v., per tutti, art. 12 « Convenzione sui diritti del
fanciullo », sottoscritta a New York il 20 novembre 1989 e dall’Italia
ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176; e art. 24 « Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea » — con sempre maggiore frequenza il legislatore nazionale espressamente prevede che, ove capace di discernimento, il minore abbia diritto di essere ascoltato
nell’ambito dei procedimenti (giudiziari ed amministrativi), nei quali
debbono essere adottati provvedimenti che lo riguardano (v., ad es.,
artt. 252, comma 5, 262, comma 4, 315-bis, comma 3, 316, comma 3,
336, comma 2, 336-bis, 337-octies, comma 1, 348, comma 3, 371,
comma 1 n. 1, c.c.; art. 4, comma 5-quater, L. 4 maggio 1983, n. 184:
« Diritto del minore ad una famiglia »; art. 4, comma 8, L. 1 dicembre
1970, n. 898: « Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio »):
c.d. diritto di ascolto ( v. Cass. 24 maggio 2018, n. 12957; Cass. 7 marzo
2017, n. 5676).
§ 48.
Presupposti
L’interdizione giudiziale.
L’interdizione è pronunciata con sentenza dal tribunale (donde
l’appellativo di « giudiziale »), allorquando ricorrono — congiuntamente — i seguenti presupposti (art. 414 c.c.):
a) infermità di mente, per tale intendendosi una malattia che
mini profondamente il soggetto nella sua sfera intellettiva e/o volitiva, sì da non consentirgli di esprimere una volontà liberamente e
consapevolmente maturata (non essendo sufficiente, ad es., una sua
scarsa propensione ovvero una mera inettitudine agli affari);
b) abitualità di detta infermità, per tale intendendosi un’infermità non transitoria (non sarebbe quindi sufficiente, ad es., un
esaurimento nervoso destinato a risolversi in breve arco di tempo);
non si richiede, tuttavia, né che la malattia sia irreversibile e/o
[§ 48]
Il soggetto del rapporto giuridico
101
incurabile, né che privi continuativamente il soggetto della capacità
di intendere e di volere, senza lasciargli « lucidi intervalli »;
c) incapacità del soggetto, a causa di detta infermità, di provvedere ai propri interessi: poiché, ai fini dell’interdizione, l’infermità
di mente rileva non già in sé, ma per il fatto che la stessa incide
sull’attitudine del soggetto a gestire autonomamente i propri affari,
una medesima malattia può giustificare l’interdizione di chi abbia
cospicui e complessi interessi (si pensi, ad es., all’imprenditore individuale che ha necessità di stipulare quotidianamente decine di
contratti per la propria attività) e non invece l’interdizione di chi non
abbia interessi che richiedano significativi atti di gestione (si pensi,
ad es., alla persona che vive della pensione sociale); si tenga peraltro
presente che gli « interessi » rilevanti ai fini dell’interdizione sono non
solo quelli economici, ma anche quelli extrapatrimoniali (ad es.,
quelli alla cura della propria salute: sicché potrà procedersi all’interdizione del soggetto che, pur non avendo interessi patrimoniali di una
qualche rilevanza, si opponga, a causa della malattia mentale che lo
colpisce, ai trattamenti medici richiesti dal suo stato) (v. Cass. 6
giugno 2018, n. 14669);
d) necessità di assicurare al soggetto un’adeguata protezione:
sicché si potrà procedere all’interdizione solo allorquando risultino
non idonei e/o non sufficienti gli altri strumenti di protezione dell’incapace (ad es., l’amministrazione di sostegno) pur previsti dall’ordinamento: c.d. carattere residuale della misura dell’interdizione (v.
Cass. 11 settembre 2015, n. 17962; ma già Corte cost. 9 dicembre
2005, n. 440).
L’interdizione può essere pronunciata solo a carico del maggiore Procedimento
di età (art. 414 c.c.), essendo il minorenne già legalmente incapace —
e, quindi, tutelato dall’ordinamento — in quanto tale. Peraltro, onde
evitare soluzioni di continuità nella protezione, il soggetto può essere
interdetto nell’ultimo anno della sua minore età, seppure l’interdizione sia comunque destinata ad avere effetto solo dal giorno in cui
il minore raggiunge l’età maggiore (art. 416 c.c.).
Il procedimento di interdizione può essere promosso, di regola,
dallo stesso interdicendo, dal coniuge, dal partner di un’unione civile
tra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 15, L. 20 maggio 2016, n.
76; v. § 622-bis), dalla persona stabilmente convivente, dai parenti
entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, ovvero dal
pubblico ministero (art. 417, comma 1, c.c.; ma cfr. anche il comma 2).
Fase centrale del procedimento d’interdizione è l’esame diretto
dell’interdicendo da parte del giudice (art. 419, comma 1, c.c.), che
102
L’attività giuridica
[§ 48]
peraltro può farsi assistere da un consulente tecnico (art. 419, comma
2, c.c.).
Dopo detto esame, il giudice può nominare, ove lo ritenga
Tutore
provvisorio
opportuno, un tutore provvisorio dell’interdicendo (art. 419, comma 3,
c.c.). In quest’ultimo caso, nelle more del giudizio di interdizione,
l’interdicendo è legalmente rappresentato dal tutore provvisorio e, in
caso di successiva interdizione, gli atti eventualmente compiuti in
prima persona dall’interdicendo dopo la nomina del tutore provvisorio sono annullabili (art. 427, comma 2, c.c.; v. Cass. 24 giugno
2009, n. 14781).
Gli effetti dell’interdizione decorrono dal momento della pubPubblicità
blicazione della sentenza di primo grado, ancorché non passata in
giudicato, che pronuncia l’interdizione stessa (art. 421 c.c.; v. Cass.
31 marzo 2011, n. 7477). La sentenza viene annotata dal cancelliere
nel registro delle tutele (art. 48 disp. att. c.c.) e comunicata, entro dieci
giorni, all’ufficiale dello stato civile per essere annotata a margine
dell’atto di nascita (art. 423 c.c.).
L’interdetto si trova in una condizione per molti versi non
Condizione
giuridica
dissimile da quella in cui si trova il minore (art. 424, comma 1, c.c.):
dell’interdetto non può compiere direttamente alcun atto negoziale, se non quelli
« necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana »; se
compie atti negoziali, gli stessi sono annullabili (ex artt. 427, comma
2, e 1425, comma 1, c.c.) ed il relativo procedimento può essere
promosso — dal tutore ovvero dallo stesso interdetto, una volta
revocata l’interdizione — entro cinque anni dalla cessazione dello
stato di interdizione (art. 1442, comma 2, c.c.). La gestione del
patrimonio dell’interdetto e gli atti negoziali ad esso relativi sono
compiuti, nell’interesse ed in vece dello stesso interdetto, da un tutore
nominato dal giudice tutelare, ferma restando l’esigenza dell’autorizzazione da parte del giudice tutelare o del tribunale per il compimento degli atti di cui, rispettivamente, agli artt. 374 e 375 c.c. Il
tutore può altresì compiere — in nome e per conto dell’interdetto, e
sempre che ne sia accertata la necessità per un’adeguata protezione
degli interessi di quest’ultimo — anche gli atti personalissimi (ad es.,
la proposizione della domanda di separazione personale o di divorzio:
v. Cass. 6 giugno 2018, n. 14669; v. anche artt. 119, comma 1, e 273,
comma 3, c.c.; art. 13 L. 22 maggio 1978, n. 194, « Norme per la tutela
sociale della maternità e sull’interruzione della gravidanza »), che non
siano espressamente preclusi all’interdetto.
Peraltro, il giudice — con la sentenza che pronuncia l’interdizione o con un successivo autonomo provvedimento — può prevedere che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere
[§ 49]
Il soggetto del rapporto giuridico
103
compiuti autonomamente dall’interdetto, ovvero da quest’ultimo con
l’assistenza del tutore: cioè, con una manifestazione congiunta di
volontà dell’uno e dell’altro (art. 427, comma 1, c.c.).
In ogni caso, l’interdizione preclude al soggetto il matrimonio
(art. 85, comma 1, c.c.), l’unione civile fra persone dello stesso sesso
(art. 1, comma 4 lett. b, L. 20 maggio 2016, n. 76), l’amministrazione
dei cespiti oggetto di comunione legale tra coniugi o uniti civilmente
(art. 183, comma 3, c.c.), il riconoscimento dei figli naturali (art. 266
c.c.), la possibilità di fare testamento (art. 591, comma 2 n. 2, c.c.),
l’assunzione della carica di amministratore o di sindaco di società per
azioni (artt. 2382 e 2399, comma 1 lett. a, c.c.). Legittima la richiesta,
in danno dell’interdetto, della separazione giudiziale dei beni, estintiva del regime di comunione legale tra coniugi o uniti civilmente
(art. 193, comma 1, c.c.), così come la richiesta di esclusione dalle
società di persone (art. 2286, comma 1, c.c.) e dalla società cooperativa (art. 2533, comma 1 n. 4, c.c.). Le eredità devolute all’interdetto
non si possono accettare, se non con il beneficio d’inventario (art. 471
c.c.). Il contratto d’affitto si scioglie per interdizione dell’affittuario
(art. 1626 c.c.); il contratto di mandato si scioglie per interdizione del
mandante o del mandatario (art. 1722 c.c.).
Se e quando dovessero venir meno i presupposti che hanno Revoca
condotto all’interdizione, quest’ultima può essere revocata — su
istanza del coniuge, del partner di un’unione civile fra persone dello
stesso sesso (art. 1, comma 15, L. 20 maggio 2016, n. 76), dei parenti
entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado, del tutore o
del pubblico ministero — con sentenza del tribunale (art. 429 c.c.).
Detta sentenza produce i suoi effetti solo con il passaggio in giudicato
(art. 431 c.c.).
Il tribunale, in sede di revoca dell’interdizione, può — ove ne
ricorrano i presupposti — dichiarare il soggetto inabilitato (art. 432,
comma 1, c.c.; v. § 50), ovvero trasmettere gli atti al giudice tutelare
perché apra una procedura di amministrazione di sostegno (art. 429,
comma 3, c.c.; v. § 52).
§ 49.
L’interdizione legale.
Il codice penale prevede — come pena accessoria ad una con- Presupposti
danna definitiva all’ergastolo ovvero alla reclusione, per reati non
colposi, per un tempo non inferiore a cinque anni — la c.d. interdizione legale (art. 32 c.p.).
104
L’attività giuridica
[§ 50]
L’istituto ha, dunque, funzione sanzionatoria (tant’è che viene a
colpire soggetti perfettamente in grado di intendere e di volere).
Si discute se la liberazione condizionale abbia o meno efficacia
sospensiva anche della pena accessoria dell’interdizione legale (in
senso negativo, v. Corte cost. 14 luglio 1986, n. 183).
Condizione
Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, l’interdetto legale si
giuridica
trova, durante la pena, nella medesima condizione in cui si trova
dell’interdetto
legale: l’interdetto giudiziale: non potrà, perciò, compiere atti dispositivi del
rapporti proprio patrimonio; gli atti che avesse a compiere sarebbero annulpatrimoniali
... labili; l’amministrazione del suo patrimonio e la rappresentanza per
il compimento dei relativi atti competeranno ad un tutore, ecc. (art.
32, comma 4, c.p.). Con una differenza, però: l’annullabilità degli atti
compiuti dall’interdetto legale può essere fatta valere non solo dall’interdetto stesso e/o dal suo tutore, bensì da chiunque vi abbia
interesse (art. 1441, comma 2, c.c.): c.d. annullabilità assoluta. La
diversità della regola si giustifica per il fatto che — mentre l’annullabilità (relativa) degli atti dell’incapace è dal legislatare preordinata
a tutela dell’incapace stesso, onde evitare che quest’ultimo possa
trovarsi vincolato da negozi che non ha posto in essere con la
necessaria lucidità e consapevolezza — l’annullabilità (assoluta) degli
atti dell’interdetto legale è prevista come sanzione, a tutela di un
interesse generale: conseguentemente, può essere fatta valere da
chiunque (v. Cass. 24 agosto 1993, n. 8918).
... rapporti a
Per quanto riguarda, invece, gli atti a carattere personale (ad es.,
carattere
matrimonio, testamento, riconoscimento di figlio naturale, ecc.),
personale
nessuna incapacità consegue all’interdizione legale.
§ 50.
Presupposti
L’inabilitazione.
L’inabilitazione è pronunciata con sentenza dal tribunale, allorquando ricorra — alternativamente — uno dei seguenti presupposti:
a) infermità di mente non talmente grave da far luogo all’interdizione (per tale intendendosi quella che incide negativamente sulla
capacità del soggetto di attendere personalmente ai propri affari,
senza però privarlo completamente della capacità di intendere o di
volere) (art. 415, comma 1, c.c.);
b) prodigalità (per tale intendendosi un impulso patologico che
incide negativamente sulla capacità del soggetto di valutare la rilevanza economica dei propri atti, sì da spingerlo allo sperpero),
sempre che lo induca ad esporre sé o la propria famiglia a gravi
pregiudizi economici (art. 415, comma 2, c.c.); ovviamente non
[§ 50]
Il soggetto del rapporto giuridico
105
rileva, ai fini dell’inabilitazione, una consapevole e matura scelta di
vita che comporti il distacco dai beni terreni, così come una ponderata
volontà di procedere alla distribuzione in vita di parte dei propri
averi a persone vicine e/o a cui si deve gratitudine (v. Cass. 13
gennaio 2017, n. 786);
c) abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, sempre
che induca il soggetto ad esporre sé o la propria famiglia a gravi
pregiudizi economici (art. 415, comma 2, c.c.);
d) sordità o cecità dalla nascita o dalla prima infanzia, sempre
che il soggetto non abbia ricevuto — ipotesi, fortunatamente, sempre
meno frequente — un’educazione sufficiente a fargli acquisire la
capacità necessaria per attendere personalmente ai propri affari (art.
415, comma 3, c.c.).
Il procedimento di inabilitazione ricalca — quanto ai soggetti Procedimento
legittimati a promuoverlo, alla fase istruttoria, alla nomina del
curatore provvisorio, alla decorrenza degli effetti della sentenza di
inabilitazione, alla pubblicità di essa, ecc. — quello di interdizione.
Del pari, il procedimento di revoca dell’inabilitazione ricalca quello
di revoca dell’interdizione.
L’inabilitato può autonomamente compiere gli atti di ordinaria Condizione
amministrazione (art. 424, comma 1, che rinvia all’art. 394, comma 1, giuridica
dell’inabilic.c.). Per gli atti di straordinaria amministrazione, necessita invece tato
dell’assistenza del curatore nominato dal giudice tutelare: deve, cioè,
compiere l’atto unitamente al curatore. Il curatore non si sostituisce —
come accade invece per i genitori, in caso di minore età, e per il
tutore, in caso di interdizione — all’incapace (v. Cass. 30 gennaio
2015, n. 1773), ma integra la volontà di quest’ultimo, previo ottenimento dell’autorizzazione giudiziale (sicché, ad es., per la vendita di
un bene di proprietà dell’inabilitato, occorrerà il consenso sia dell’inabilitato stesso che del suo curatore, previa autorizzazione giudiziale) (art. 394, comma 3, c.c.).
L’assistenza del curatore è altresì sempre necessaria perché Capacità
l’inabilitato possa stare in giudizio (comb. disp. artt. 394, comma 2, processuale
e 424, comma 1, c.c.; v. Cass. 19 aprile 2010, n. 9217).
Peraltro, il giudice — con la sentenza che pronuncia l’inabilitazione o con un successivo provvedimento — può prevedere che taluni
atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere autonomamente compiuti dall’inabilitato, senza l’assistenza del curatore (art.
427, comma 1, c.c.).
L’attività giuridica
106
§ 51.
[§ 51]
L’emancipazione.
Il minore ultrasedicenne, autorizzato dal tribunale a contrarre
matrimonio (art. 84, comma 2, c.c.), con le nozze acquista automaticamente l’emancipazione (art. 390 c.c.), così sottraendosi alla disciplina della minore età.
L’istituto dell’emancipazione ha oggi un’applicazione pratica
del tutto marginale, posto che i tribunali adottano una linea progressivamente sempre più restrittiva in ordine all’ammissione al matrimonio dell’infradiciottenne.
Condizione
La condizione giuridica dell’emancipato è analoga a quella
giuridica dell’inabilitato: può compiere autonomamente gli atti di ordinaria
dell’emancipato amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione
necessita dell’assistenza di un curatore, munito di previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria (art. 394 c.c.). Gli atti di straordinaria
amministrazione eventualmente compiuti dall’emancipato senza
l’assistenza del curatore sono annullabili.
Se l’emancipato è sposato con persona maggiore di età, quest’ultima ne è il curatore; se è invece sposato con persona anch’essa
minore di età, il giudice tutelare può nominare ad entrambi un unico
curatore, scelto preferibilmente tra i genitori (art. 392, commi 1 e 2,
c.c.).
L’annullamento del matrimonio per causa diversa dal difetto di
età, così come l’eventuale scioglimento del matrimonio, non fa venir
meno l’emancipazione (art. 392, comma 3, c.c.).
Lo stato di emancipazione cessa — ovviamente — con il raggiungimento della maggiore età.
Presupposti
§ 52.
L’amministrazione di sostegno.
L’amministrazione di sostegno si apre con decreto motivato del
giudice tutelare, allorquando ricorrano — congiuntamente — i seguenti
presupposti (art. 404 c.c.):
... oggettivo
a) infermità o menomazione fisica o psichica della persona (v.
Cass. 28 febbraio 2018, n. 4709): presupposto oggettivo;
... soggettivo
b) impossibilità per il soggetto, a causa di detta infermità o
menomazione, di provvedere ai propri interessi: presupposto soggettivo.
Analogamente a quanto si è visto con riferimento all’interdizione, l’infermità o menomazione psichica o fisica rilevano, ai fini
dell’apertura dell’amministrazione di sostegno, non già in sé, ma per
il fatto che si traducano, per il soggetto, nell’impossibilità, anche solo
Presupposti
...
[§ 52]
Il soggetto del rapporto giuridico
107
parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, anche non
patrimoniali (v. Cass. 26 luglio 2018, n. 19866; Cass. 7 giugno 2017, n.
14158). Ciò comporta, ad es., che una medesima infermità psichica —
che può legittimare l’interdizione di chi abbia vasti e complessi
interessi — può giustificare invece solo l’amministrazione di sostegno
del soggetto cui facciano capo interessi semplici e circoscritti (ad es.,
la gestione ordinaria del reddito da pensione).
Occorre osservare che — rispetto ai presupposti per la pronun- Differenza di
cia di interdizione — ai fini dell’apertura della procedura di ammi- presupposti
con
nistrazione di sostegno:
l’interdizione
— rileva non solo una infermità di mente, ma anche una
semplice menomazione psichica (per tale intendendosi quella situazione di disagio che non si traduce in una vera e propria malattia: si
pensi, ad es., all’anziano non affetto da demenza senile, ma che veda
però affievolite le proprie facoltà intellettive o la memoria) (v. Cass.
2 ottobre 2012, n. 16770);
— rileva non solo una infermità o menomazione psichica, ma
anche un’infermità o menomazione fisica (per tale intendendosi quella
che, pur senza colpire la sfera intellettiva o volitiva, preclude però al
soggetto, in tutto od anche solo in parte, « l’autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana »: art. 1 L. 9 gennaio 2004,
n. 6) (si pensi, ad es., al soggetto che, seppure psichicamente capace,
sia portatore di handicap) (v. Cass. 27 settembre 2017, n. 22602; Cass.
2 agosto 2012, n. 13917);
— rileva non solo un’infermità o menomazione abituale, ma
anche un’infermità o menomazione temporanea: tant’è che l’amministratore di sostegno può essere nominato a tempo determinato (art.
405, comma 5 n. 2, c.c.);
— rileva non solo un’infermità o menomazione che coinvolga
integralmente la sfera psichica o fisica del soggetto, sì da privarlo
della complessiva capacità di gestire i propri interessi, ma anche
un’infermità o menomazione che incida su taluni profili soltanto della
sua personalità (si pensi, ad es., al soggetto che, pur dotato di una
capacità di gestire i propri affari superiore alla media, sia però
irresistibilmente schiavo del demone del gioco d’azzardo);
— rileva — esattamente come per l’interdizione — anche « l’abituale infermità di mente », con l’avvertenza però che, di fronte ad una
patologia che legittimerebbe sia una pronuncia di interdizione sia
l’apertura di un’amministrazione di sostegno, la prima alternativa è
praticabile solo allorquando lo strumento di protezione costituito
dall’amministrazione di sostegno risulti inidoneo ad assicurare ade-
108
L’attività giuridica
[§ 52]
guata protezione agli interessi dell’incapace: c.d. carattere residuale
dell’interdizione (v. § 48; Cass. 26 ottobre 2011, n. 22332).
L’amministrazione di sostegno può essere aperta, di regola, solo
Procedimento
nei confronti del maggiore di età, essendo il minorenne già tutelato in
quanto tale. Peraltro, onde evitare soluzioni di continuità con tale
ultima misura di protezione, il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno può essere emesso nell’ultimo anno della minore età
dell’interessato, pur divenendo esecutivo solo nel momento in cui lo
stesso compia il diciottesimo anno (art. 405, comma 2, c.c.).
Il procedimento di amministrazione di sostegno può essere
promosso dallo stesso beneficiario (anche se minore, interdetto o
inabilitato), dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai
parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal
tutore o dal curatore, dal pubblico ministero (art. 406, comma 1,
c.c.), nonché dai responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura della persona (art. 406, comma 3, c.c.).
Fase centrale del procedimento di amministrazione di sostegno è
l’audizione personale dell’interessato da parte del giudice, che a tal
fine deve recarsi, ove occorra, nel luogo in cui questo si trova (art.
407, comma 2, c.c.): la legge stabilisce infatti che, nel definire il
contenuto del proprio provvedimento, il giudice deve tener conto —
compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della
persona — non solo dei bisogni, ma anche delle richieste di questa
(art. 407, comma 2, c.c.).
In ogni caso — ove necessario — il giudice tutelare adotta,
anche d’ufficio, i provvedimenti urgenti per la cura della persona
interessata e/o per la conservazione e l’amministrazione del suo
patrimonio (ad es., procedendo alla nomina di un amministratore di
sostegno provvisorio, con l’indicazione degli atti che quest’ultimo è
autorizzato a compiere) (art. 405, comma 4, c.c.).
Pubblicità
Gli effetti dell’amministrazione di sostegno decorrono dal deposito del relativo decreto di apertura, emesso dal giudice tutelare (art.
405, comma 1, c.c.). Tale ultimo provvedimento è immediatamente
annotato dal cancelliere nel registro delle amministrazioni di sostegno
(art. 49-bis disp. att. c.c.) e comunicato, entro dieci giorni, all’ufficiale di stato civile per essere annotato in margine all’atto di nascita
(art. 405, comma 7, c.c.).
Condizione
Mentre gli effetti dell’interdizione e dell’inabilitazione sono
giuridica del
sostanzialmente
predeterminati dalla legge e, quindi, standardizzati
soggetto
amministrato (salvo quanto previsto dall’art. 427, comma 1, c.c.), gli effetti dell’amministrazione di sostegno sono determinati volta a volta dal
provvedimento del giudice tutelare (art. 405, comma 5, c.c.); che, per
[§ 52]
Il soggetto del rapporto giuridico
109
di più, può, in ogni momento, modificare od integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte (art. 407, comma 4, c.c.): c.d. flessibilità o
duttilità dell’amministrazione di sostegno.
Il giudice tutelare nomina all’interessato un amministratore di
sostegno nella persona eventualmente designata — mediante atto
pubblico o scrittura privata autenticata (v. § 125) — dallo stesso
interessato, in previsione della propria possibile futura incapacità (v.
Cass. 20 dicembre 2012, n. 23707); ovvero, in mancanza di tale
designazione od in presenza di gravi motivi, scegliendolo preferibilmente nella persona del coniuge non legalmente separato, del partner
di un’unione civile tra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 15, L.
20 maggio 2016, n. 76), della persona stabilmente convivente, del
padre, della madre, del figlio, del fratello, della sorella, dei parenti
entro il quarto grado, ecc.: tenendo peraltro conto che, in ogni caso,
la scelta dell’amministratore di sostegno deve avvenire con esclusivo
riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario (art.
408, comma 1, c.c.; v. Cass. 26 settembre 2011, n. 19596).
Il giudice tutelare, all’atto della nomina dell’amministratore di
sostegno, indica, in relazione alla specificità della situazione ed alle
esigenze del singolo soggetto amministrato:
a) gli atti che l’amministratore di sostegno ha — non diversamente da quel che accade per la figura del « tutore » — il potere di
compiere in nome e per conto del beneficiario, che correlativamente
perde la capacità di porli in essere personalmente (art. 405, comma 5
n. 3, c.c.), con conseguente annullabilità degli atti che quest’ultimo
avesse eventualmente a compiere (art. 412, comma 2, c.c.);
b) gli atti cui l’amministratore di sostegno — non diversamente
da quel che accade per la figura del « curatore » dell’inabilitato,
relativamente agli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione — deve
dare il proprio assenso, prestando così assistenza al beneficiario, che
correlativamente perde la capacità di porli in essere da solo (art. 405,
comma 5 n. 4, c.c.), con conseguente annullabilità di quelli che lo
stesso avesse a compiere autonomamente (art. 412, comma 2, c.c.).
Il giudice tutelare può altresì disporre che determinati effetti
che conseguono ex lege di interdizione od all’inabilitazione (ad es., la
perdita della capacità di donare o di testare: v. Cass. 21 maggio 2018,
n. 12460) si estendano anche al beneficiario dell’amministrazione di
sostegno (art. 411, comma 4, c.c.).
Relativamente agli atti necessari a soddisfare le esigenze della
propria vita quotidiana (art. 409, comma 2, c.c.), nonché relativamente a tutti gli altri atti che il giudice non abbia espressamente
indicato debbano essere posti in essere dall’amministratore di soste-
110
L’attività giuridica
[§ 53]
gno, ovvero con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, il beneficiario conserva integra la propria capacità di agire (art. 409, comma
1, c.c.): c.d. principio della generale capacità del soggetto amministrato,
salve le limitazioni espressamente previste.
Nel determinare gli atti per cui è richiesta la rappresentanza o
l’assistenza dell’amministratore di sostegno o che non possono essere
compiuti — e, di riflesso, gli atti che il beneficiario può compiere, da
solo, in prima persona — il giudice deve perseguire l’obiettivo della
« minore limitazione possibile della capacità di agire » dell’interessato
(art. 1 L. n. 6/2004): principio della massima salvaguardia dell’autodeterminazione del soggetto amministrato.
Gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione
di disposizioni di legge o in eccesso rispetto ai poteri conferitigli dal
giudice sono annullabili, su istanza dello stesso amministratore di
sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi o
aventi causa (art. 412, comma 1, c.c.).
L’istituto dell’amministrazione di sostegno — introdotto nel
L’irresistibile
ascesa
nostro ordinamento solo nel 2004 (con L. 9 gennaio 2004, n. 6) per
dell’istituto
dell’ammini- affiancarsi a quelli codicistici dell’interdizione e dell’inabilitazione —
strazione di ha fatto registrare, negli anni, una crescente diffusione, cui ha fatto da
sostegno
contraltare una drastica riduzione del ricorso a quello dell’interdizione ed un sostanziale abbandono di quello dell’inabilitazione. Tant’è che si è autorevolmente sollecitato un intervento normativo volto,
da un lato, a potenziare il primo e, da altro lato, ad abrogare i
secondi.
§ 53.
L’incapacità naturale.
In tutte le ipotesi di incapacità fin qui esaminate, gli atti
autonomamente posti in essere dall’incapace oltre i limiti allo stesso
consentiti (ad es., oltre i limiti dell’ordinaria amministrazione per
l’inabilitato e l’emancipato) sono sempre annullabili (quand’anche
dovesse risultare, in ipotesi, che il soggetto era perfettamente in
grado di rendersi conto di quanto stava facendo): sicché del tutto
irrilevante risulta verificare se, nel momento in cui ha compiuto
l’atto, il soggetto era o meno in grado di comprenderne la portata.
Incapacità di
Peraltro può accadere che un soggetto — pur legalmente capace
fatto
di compiere un determinato atto — in concreto si trovi, nel momento
in cui lo pone in essere, in una situazione di incapacità di volere e/o di
intendere, per qualsivoglia causa:
Incapacità di
diritto
[§ 53]
Il soggetto del rapporto giuridico
111
(i) permanente (si pensi, ad es., al soggetto che, pur essendo affetto
dalla sindrome di Down ovvero da una grave forma di demenza senile,
non sia assoggettato ad alcuna misura di protezione); o
(ii) transitoria (si pensi, ad es., al soggetto che, normalmente di
singolare avvedutezza, abbia ecceduto nell’uso dell’alcool o sia sotto
shock perché coinvolto in un pauroso incidente stradale).
Perché si abbia « incapacità di volere e/o di intendere » — c.d.
incapacità naturale — non è sufficiente una qualsiasi anomalia o
alterazione delle facoltà psichiche e/o intellettive, occorrendo che il
soggetto sia privo in modo assoluto, al momento del compimento del
negozio, della capacità di autodeterminarsi ovvero della coscienza dei
propri atti (v. Cass. 6 novembre 2013, n. 24881) o, quantomeno, che
le stesse siano a tal punto menomate da impedire la formazione di
una volontà cosciente (v. Cass. 30 giugno 2017, n. 13659; Cass. 8
giugno 2011, n. 12532).
In ipotesi di tal fatta, la legge non può — solo perché si tratta
di persona legalmente capace di compiere quel determinato atto —
disinteressarsi della protezione dei suoi interessi: nell’ipotesi in
esame, si verifica infatti uno scollamento tra situazione giuridica (di
capacità legale) e situazione di fatto (di incapacità naturale).
Ecco perché il soggetto — legalmente capace di compiere un Prova
determinato atto — è comunque ammesso ad impugnarlo, se prova dell’incapacità
naturale
che, nel momento in cui l’ha compiuto, versava in uno stato di
incapacità di intendere e/o di volere. Prova, evidentemente, abbastanza agevole se il soggetto è affetto da una malattia che offusca
stabilmente la sua sfera intellettiva e/o volitiva (v. Cass. 4 marzo 2016,
n. 4316); ben più difficile nell’ipotesi in cui l’obnubilamento dipenda
da una causa transitoria (ad es., ubriachezza), di cui non sempre è
facile dimostrare ex post l’esistenza e l’impatto sulla sfera psichica
della persona (v. Cass. 30 maggio 2017, n. 13659; Cass. 30 agosto
2013, n. 19958).
La controparte non è invece legittimata a proporre domanda di
annullamento dell’atto stipulato dall’incapace naturale (v. Cass. 20
febbraio 2015, n. 3456).
Quanto alla sorte degli atti posti in essere dall’incapace natu- Atti compiuti
dall’incapace
rale, occorre distinguere:
naturale
a) il matrimonio (art. 120, comma 1, c.c.; v. Cass. 30 giugno 2014,
n. 14794), l’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 1, comma
5, L. 20 maggio 2016, n. 76), il testamento (art. 591, comma 2 n. 3, c.c.)
e la donazione (art. 775, comma 1, c.c.) sono impugnabili sol che si
dimostri che il soggetto era incapace di volere e/o di intendere nel
momento in cui ha compiuto l’atto;
L’attività giuridica
112
[§ 54]
b) gli atti unilaterali (ad es., la rinuncia ad un credito; il conferimento di una procura) sono annullabili, se si dimostra — da un lato
— che il soggetto era incapace di volere e/o di intendere nel momento
in cui li ha posti in essere e — da altro lato — che da detti atti è
derivato un grave pregiudizio per l’incapace stesso (art. 428, comma
1, c.c.; v. Cass. 31 gennaio 2017, n. 2550);
c) i contratti (ad es., la compravendita, il mutuo, ecc.) sono
annullabili, se si dimostra — da un lato — che il soggetto era
incapace di volere e/o di intendere nel momento in cui li ha posti in
essere e — da altro lato — che l’altro contraente era in malafede:
ossia, si rendeva conto o avrebbe dovuto rendersi conto, usando
l’ordinaria diligenza, che stava contraendo con un soggetto incapace
(art. 428, comma 2, c.c.; v. Cass. 29 settembre 2016, n. 19270). Non
è richiesto che il contratto rechi pregiudizio all’incapace (sicché
quest’ultimo ben potrebbe, ad es., chiedere l’annullamento del contratto di compravendita della propria casa, quand’anche posto in
essere al prezzo di mercato): l’eventuale squilibrio delle prestazioni
contrattuali in danno dell’incapace può solo costituire elemento
sintomatico da cui desumere la malafede della controparte (art. 428,
comma 2, c.c.; v. Cass. 30 settembre 2015, n. 19458).
L’annullamento degli atti unilaterali e dei contratti posti in
essere dall’incapace naturale può essere richiesto da quest’ultimo,
una volta riacquistata la capacità naturale, entro cinque anni dal
loro compimento (art. 428, comma 3, c.c.; v. Cass. 20 febbraio 2015,
n. 3456).
§ 54.
Incapacità di
diritto ed
incapacità di
fatto
Incapacità legale e incapacità naturale.
Quanto sin qui esposto ci consente di comprendere l’insegnamento tradizionale secondo cui, all’interno delle ipotesi di incapacità
d’agire, occorre distinguere tra:
a) minore età, interdizione giudiziale, interdizione legale, inabilitazione, emancipazione, amministrazione di sostegno, che importano, per il soggetto, una incapacità legale, in cui rileva non già il
fatto che il soggetto sia concretamente incapace di intendere e di
volere nel momento in cui pone in essere l’atto negoziale, bensì solo ed
esclusivamente il fatto che lo stesso si trovi in una determinata
situazione (minore età, interdizione, emancipazione, ecc.); e
b) incapacità di intendere o di volere, che importa, invece, una
incapacità naturale, in cui rileva solo ed esclusivamente il fatto che il
soggetto — seppur legalmente capace — si trovi concretamente, nel
[§ 55]
Il soggetto del rapporto giuridico
113
momento in cui compie l’atto negoziale, in una situazione di menomazione della propria sfera intellettiva e/o volitiva.
Non meno tradizionale — seppure oggi approssimativa, come Incapacità
e
abbiamo avuto modo di vedere (cfr. art. 427, comma 1, c.c.) — è assoluta
relativa
l’osservazione che, tra gli istituti che importano incapacità legale,
occorrerebbe poi distinguere tra:
(i) minore età ed interdizione giudiziale, che importano una
incapacità « assoluta », in quanto precludono al soggetto il compimento di qualsiasi atto negoziale; e
(ii) inabilitazione, emancipazione ed amministrazione di sostegno, che importano invece una incapacità « relativa », in quanto
lasciano permanere, in capo al soggetto, una più o meno ampia
capacità negoziale.
§ 55.
La legittimazione.
Una nozione che, sviluppatasi nel campo del diritto processuale, Nozione
è penetrata anche nel campo del diritto privato sostanziale è quella
di « legittimazione »: per tale intendendosi, l’idoneità del soggetto ad
esercitare e/o a disporre di un determinato diritto.
Invero, per compiere validamente un determinato atto (ad es.,
vendere un dato bene), il soggetto deve trovarsi nella situazione
giuridica richiesta dalla legge (deve, per rimanere al nostro esempio,
essere proprietario del bene; v. Cass., sez. un., 16 febbraio 2016, n.
2951).
Non sempre la legittimazione coincide con la titolarità del diritto Legittimae
soggettivo: così, ad es., il mandatario (v. § 390) può, in caso di zione
titolarità del
urgenza, vendere le cose detenute per conto del mandante (art. 1718, diritto
comma 2, c.c.); l’amministratore del condominio, non i singoli
condómini, può agire per il pagamento degli oneri condominiali (v.
Cass. 18 gennaio 2017, n. 1208); ecc. (v. Cass. 6 luglio 2018, n. 17727;
Cass. 29 maggio 2018, n. 13377; Cass. 2 febbraio 2018, n. 2575).
Peraltro, non sempre il difetto di legittimazione produce l’inva- L’apparenza
lidità dell’atto: talora, infatti, l’ordinamento si accontenta dell’apparenza.
Così, ad es., il pagamento effettuato allo sportello dell’ufficio
postale è validamente eseguito — e, quindi, ha efficacia solutoria —
anche se l’impiegato non è legittimato a riceverlo per conto dell’ufficio stesso (art. 1189, comma 1, c.c.; v. § 215; v. Cass. 25 gennaio
2018, n. 1869); se compro un bene mobile (ad es., un orologio, un
libro, un vestito, ecc.) da chi non ne è proprietario, ne acquisto
114
L’attività giuridica
[§ 56]
egualmente la proprietà, se ne ricevo la consegna, ignorando — senza
mia colpa — che il bene non apparteneva al venditore (art. 1153,
comma 1, c.c.; v. § 183); ecc.
La giurisprudenza è incline ad applicare estensivamente il principio dell’apparenza, subordinandolo però al ricorso di tre distinti
presupposti:
a) una situazione di fatto non corrispondente alla situazione di
diritto;
b) il convincimento dei terzi — derivante da errore scusabile (e,
come tale, immune da loro colpa) — che la situazione di fatto
rispecchi la situazione di diritto;
c) un comportamento colposo del soggetto effettivamente legittimato, che abbia consentito il crearsi della situazione di apparenza
(v. Cass. 13 luglio 2018, n. 18519, e Cass. 19 aprile 2018, n. 9758, in
tema di « rappresentanza apparente »: v. § 295; Cass. 4 novembre
2014, n. 23448, in tema di apparenza del rapporto di preposizione e
del nesso di « occasionalità necessaria » in materia di responsabilità
civile indiretta: v. § 465; Cass. 27 agosto 2014, n. 18307, in tema di
apparenza del contratto di assicurazione; Cass. 5 luglio 2013, n.
16829, in tema di « società apparente »: v. § 514; ecc.).
Peraltro, non sembra che nel nostro ordinamento sussista un
principio generale in virtù del quale l’apparenza sia in ogni caso
tutelata, pur essendo a tale protezione informati vari specifici istituti
(v. Cass. 25 ottobre 2018, n. 27162).
§ 56.
Rilevanza
pratica
La sede della persona.
Il luogo in cui la persona fisica vive e svolge la propria attività
ha, per l’ordinamento giuridico, rilievo da diversi punti di vista:
specie in ambito processuale (ad es., per la determinazione della
competenza territoriale del giudice: art. 18 c.p.c.; del luogo di notificazione: artt. 139 ss. c.p.c.; ecc.), ma anche in ambito sostanziale (ad
es., l’art. 456 c.c. statuisce che la successione si apre nel luogo
dell’ultimo domicilio del defunto; l’art. 1182, comma 3, c.c. statuisce
che l’obbligazione avente per oggetto una somma di danaro deve
essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della
scadenza; l’art. 1182, comma 4, c.c. statuisce che negli altri casi
l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al
tempo della scadenza; ecc.).
Al riguardo, la legge distingue (art. 43 c.c.) tra:
[§ 56]
Il soggetto del rapporto giuridico
115
— domicilio, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha Domicilio
stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi (non solo
patrimoniali, ma anche morali, sociali e familiari);
— dimora, per tale intendendosi il luogo in cui la persona Dimora
attualmente abita;
— residenza, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha Residenza
volontaria ed abituale dimora.
Sovente domicilio, dimora e residenza, in concreto, si concentrano in un medesimo luogo.
Domicilio
Il « domicilio » si distingue in:
a) legale, se fissato direttamente dalla legge (così, ad es., l’art. ... legale e
45, comma 2, c.c. stabilisce che il minore ha il domicilio nel luogo di volontario
residenza della famiglia o del tutore; l’art. 45, comma 3, c.c. stabilisce
che l’interdetto ha il domicilio del tutore; ecc.); e
b) volontario, se concretamente eletto dall’interessato a centro
della propria vita di relazione.
Per lo più, il domicilio coincide con la residenza, cioè con il luogo ... generale e
in cui il soggetto ha fissato stabilmente l’abitazione sua e della speciale
famiglia, poiché è proprio in tale luogo che lo stesso intrattiene
principalmente i propri rapporti economici e personali. Ciò non
esclude, tuttavia, che in molti casi — secondo quella che è la comune
valutazione sociale — il domicilio sia distinto dalla residenza (così, ad
es., l’avvocato si intenderà aver domicilio presso il proprio studio
professionale; l’imprenditore presso la propria azienda; ecc.). Se il
soggetto ha una pluralità di luoghi in cui svolge la propria vita
personale o professionale (ad es., l’avvocato che ha studio sia a
Milano sia a Roma), il domicilio coincide con il luogo in cui si
intrattiene l’attività principale. Peraltro, non è neppure necessaria la
presenza fisica della persona presso il proprio domicilio; è sufficiente
che la stessa abbia in quel luogo la sede principale dei suoi affari (così,
ad es., il cittadino americano che ha interessi in una determinata
città italiana, avrà il domicilio in quella città, anche se fa curare i
propri affari da un terzo, senza mai mettere piede nel nostro Paese).
Il domicilio generale — inteso, appunto, come sede principale
degli affari e degli interessi della persona — è unico (v. Cass. 15
ottobre 2011, n. 21370).
Peraltro, la legge consente al soggetto di eleggere un domicilio
speciale per determinati atti o affari (ad es., ai fini di un determinato
procedimento giudiziale, posso, per comodità, eleggere domicilio
presso lo studio del mio avvocato; in un contratto posso stabilire che
tutte le comunicazioni siano effettuate in un determinato luogo;
ecc.). Anzi, talora è la stessa legge a prevedere l’onere dell’elezione di
116
L’attività giuridica
[§ 57]
un domicilio speciale (v., ad es., artt. 103, 2839, comma 2 n. 2, 2842,
2843, comma 2, 2890, comma 3, c.c.).
L’elezione del domicilio speciale deve essere fatta per iscritto e
L’elezione di
domicilio
con dichiarazione espressa (art. 47, comma 2, c.c.; v. Cass. 23 ottobre
2008, n. 25647). L’elezione di domicilio non ha, in difetto di
un’espressa e chiara volontà in senso contrario, carattere esclusivo
(v. Cass. 22 dicembre 2015, n. 25731).
La residenza dipende (i) dall’elemento oggettivo della permanenza
Residenza:
presupposti
abituale del soggetto in un determinato luogo e (ii) dall’elemento
oggettivo e
soggettivo soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali
(art. 43, comma 2, c.c.; art. 3, comma 1, D.P.R. 30 maggio 1989, n.
223; v. Cass. 1° dicembre 2011, n. 25726). L’interessato deve dichiarare all’anagrafe del comune in cui intende fissare la dimora abituale
il trasferimento della propria residenza (art. 31 disp. att. c.c.; art. 13,
comma 1 lett. a, D.P.R. n. 223/1989; v. Cass. 9 maggio 2014, n.
10183).
Le risultanze anagrafiche hanno valore di presunzione semplice
(v. § 128) circa la rispondenza della situazione di fatto a quella
risultante dall’iscrizione anagrafica: presunzione superabile con qualsiasi mezzo di prova idoneo a dimostrare la volontaria ed abituale
dimora del soggetto in un luogo diverso (v. Cass. 3 agosto 2017, n.
19387).
§ 57.
La cittadinanza.
La cittadinanza è la situazione di appartenenza di una persona
fisica ad un determinato Stato: più rilevante, in genere, nell’ambito
del diritto pubblico che in quello del diritto privato.
Essa è attualmente regolata dalla L. 5 febbraio 1992, n. 91, e dal
relativo regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 12 ottobre
1993, n. 572.
La cittadinanza italiana si acquista:
Acquisto
a) iure sanguinis: sono, infatti, cittadini italiani tutti i figli nati
da cittadino italiano, indipendentemente dal luogo di nascita; è
sufficiente che italiano sia anche solo uno dei genitori (art. 1, comma
1 lett. a, L. n. 91/1992). Ai figli di sangue sono parificati i figli adottivi
(v. § 616), che, se stranieri, acquistano automaticamente la cittadinanza italiana, ove almeno uno degli adottanti sia cittadino italiano
(art. 3, comma 1, L. n. 91/1992); o
Nozione
[§ 57]
Il soggetto del rapporto giuridico
117
b) iure soli: sono, infatti, cittadini italiani tutti coloro che
nascono nel territorio della Repubblica, qualora entrambi i genitori
siano ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non acquisisce la cittadinanza
dei genitori in base alla legge dello Stato di appartenenza di questi
ultimi (art. 1, comma 1 lett. b, L. n. 91/1992); o
c) per iuris communicatio: invero, in forza di provvedimento dell’Autorità amministrativa, emesso ad istanza dell’interessato (art. 7 L.
n. 91/1992), acquista la cittadinanza italiana il coniuge od il partner di
un’unione civile fra persone dello stesso sesso, straniero o apolide, di
cittadino italiano, allorché, dopo il matrimonio o la costituzione dell’unione civile, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio
della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio o
dalla costituzione dell’unione civile, se residente all’estero, sempre che
non vi sia stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti
civili del matrimonio stesso e non sia intervenuta separazione personale dei coniugi (art. 5 L. n. 91/1992; v. Cass. 17 gennaio 2017, n. 969),
ovvero non vi sia stato scioglimento dell’unione civile; o
d) per naturalizzazione: invero, in forza di decreto del Presidente della Repubblica, può — sulla base di una valutazione discrezionale di opportunità — essere concessa la cittadinanza italiana a
chi si trovi nelle condizioni previste dall’art. 9 L. n. 91/1992 (ad es.,
al cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea che risieda
legalmente nel territorio della Repubblica da almeno quattro anni;
all’apolide che risieda legalmente nel territorio della Repubblica da
almeno cinque anni; allo straniero che risieda legalmente nel territorio della Repubblica da almeno dieci anni; ecc.).
Nelle ipotesi di cui supra sub c) e sub d), la concessione della
cittadinanza italiana è subordinata al possesso, da parte dell’interessato, di un’adeguata conoscenza della lingua italiana (art. 9.1 L. n.
91/1992).
È consentito (art. 11 L. n. 91/1992) che un cittadino italiano Doppia
possa avere, contemporaneamente, un’altra cittadinanza: c.d. doppia cittadinanza
cittadinanza.
La perdita della cittadinanza si verifica nei casi previsti dagli Perdita
artt. 10-bis, 11 e 12 L. n. 91/1992 (ma v. anche l’art. 11 L. n. 91/1992).
L’art. 22 Cost. statuisce che nessuno può essere privato della
cittadinanza per motivi politici.
Come già accennato (v. § 32), l’art. 20 TFUE prevede che « è La
istituita una cittadinanza dell’Unione » europea (c.d. « cittadinanza cittadinanza
europea
europea »), con la precisazione che « è cittadino dell’Unione chiunque
abbia la cittadinanza di uno Stato membro » e che « la cittadinanza
dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostitui-
L’attività giuridica
118
[§ 58]
sce »: « i cittadini dell’Unione — recita il par. 2 dell’art. 20 TFUE —
godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati ». La
maggior parte dei diritti attribuiti al cittadino europeo incide sul suo
rapporto con gli Stati membri diversi dal suo, e solo in minima parte
sulla posizione dell’individuo nei confronti dell’Unione e delle sue
istituzioni (v. artt. 21-24 TFUE). Non risultano invece specificati i
doveri che dalla cittadinanza europea discendono.
§ 58.
La posizione della persona nella famiglia.
Il rapporto che lega le persone appartenenti ad una medesima
famiglia dà luogo ad una serie di diritti e di doveri (c.d. status
familiae), che saranno esaminati a suo tempo (v. §§ 577 ss.).
Peraltro, giova qui soffermarsi su alcune nozioni di carattere
generale, inerenti appunto alla posizione della persona nella famiglia.
La « parentela » è il vincolo che unisce i soggetti che discendono
La parentela
dalla stessa persona — o, come dice il codice, dallo stesso « stipite » —
non importa se nati all’interno del matrimonio o fuori da esso, ovvero
se adottivi (ma non se adottati ex artt. 291 ss. c.c.: v. § 604) (art. 74
c.c.).
Linee e gradi
Ai fini della determinazione dell’intensità del vincolo di parentela, occorre considerare le linee ed i gradi:
a) la linea retta unisce le persone di cui l’una discende dall’altra
(ad es., padre e figlio, nonno e nipote, ecc.) (art. 75 c.c.);
b) la linea collaterale unisce le persone che, pur avendo uno
stipite comune, non discendono l’una dall’altra (ad es., fratello e
sorella, zio e nipote, ecc.) (art. 75 c.c.);
c) i gradi si contano calcolando le persone e togliendo lo stipite:
così, ad es., tra padre e figlio v’è parentela di primo grado; tra fratelli
v’è parentela di secondo grado (figlio, padre, figlio = 3; 3 – 1 = 2); tra
nonno e nipote, parentela di secondo grado (nonno, padre, figlio = 3;
3 – 1 = 2); tra cugini, parentela di quarto grado; e così via (art. 76
c.c.).
Di regola, la legge riconosce effetti alla parentela soltanto fino al
sesto grado (art. 77 c.c.).
L’affinità
L’« affinità » è il vincolo che unisce un coniuge ed i parenti
dell’altro coniuge (art. 78 c.c.): sono affini, perciò, il marito e la
cognata (sorella della moglie), la suocera e la nuora, ecc.
Per stabilire il grado di affinità, si tiene conto del grado di
parentela con cui l’affine è legato al coniuge (art. 78, comma 2, c.c.):
Il soggetto del rapporto giuridico
[§ 59]
119
così, ad es., la suocera e la nuora sono affini in primo grado; il marito
e la sorella della moglie sono affini in secondo grado, ecc.
In ogni caso, adfines inter se non sunt adfines: gli affini di un
coniuge non sono affini dell’altro coniuge (ad es., il marito della
sorella di mia moglie non è mio affine).
Di regola, la morte di uno dei coniugi, anche se non vi sia prole,
non estingue l’affinità (art. 78, comma 3, c.c.). Questa cessa, invece,
se il matrimonio è dichiarato nullo (art. 78, comma 3, c.c.): rimane in
ogni caso fermo il divieto di matrimonio tra gli affini in linea retta
(art. 87, comma 1 n. 4, c.c.).
Il rapporto di affinità rileva, ad es., ai fini del disposto degli artt. Rilevanza del
di
87, 251, 417, 429, 433, 434, 1916, 2122, 2399 c.c.; e degli artt. 28, 127 rapporto
affinità
e 177 L. fall.
Tra coniugi non v’è rapporto né di parentela né di affinità: la Il rapporto di
coniugio
relazione tra essi esistente si chiama « coniugio ».
§ 59.
Scomparsa, assenza e morte presunta.
Non solo in occasione di cataclismi (ad es., inondazioni, terremoti, ecc.), ma anche nella quotidianità non è raro che di una persona
si perdano le tracce (la nota trasmissione televisiva « Chi l’ha visto? »
offre uno spaccato significativo di questa realtà).
Per la disciplina dei rapporti facenti capo a detti soggetti, sono
previsti gli istituti:
— della scomparsa (art. 48 c.c.);
— dell’assenza (artt. 49 ss. c.c.);
— della morte presunta (artt. 58 ss. c.c.).
La « scomparsa » è dichiarata con decreto dal tribunale (art. 721 La
scomparsa:
c.p.c.), allorquando concorrono i seguenti presupposti:
presupposti
a) allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza;
b) mancanza di sue notizie oltre il lasso di tempo che può essere
giustificato dagli ordinari allontanamenti della persona per ragioni di
lavoro, svago, ecc. (art. 48 c.c.).
Avendo l’istituto finalità essenzialmente conservative del patrimo- ... effetti
nio dello scomparso, il tribunale può dare i provvedimenti a ciò
necessari (ad es., nominare un curatore che rappresenti la persona in
giudizio, compia gli atti di amministrazione dei suoi beni, gestisca
l’impresa a lui facente capo, ecc.) (v. Cass. 20 febbraio 2014, n. 4081).
Se la persona ritorna, gli effetti della dichiarazione di scomparsa
cessano, senza necessità di una nuova pronuncia giudiziale.
120
L’attività giuridica
[§ 59]
L’« assenza » è dichiarata con sentenza dal tribunale (art. 724
c.p.c.), allorquando concorrono i seguenti presupposti:
a) allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza;
b) mancanza di sue notizie da oltre due anni (art. 49 c.c.).
Il tribunale, se richiesto, ordina l’apertura degli eventuali te... effetti
stamenti dell’assente (art. 50, comma 1, c.c.). Coloro che sarebbero
stati eredi testamentari o legittimi dell’assente, se lo stesso fosse
morto nel giorno a cui risale l’ultima sua notizia, possono domandare
l’immissione temporanea nel possesso dei beni di lui (art. 50, comma 2,
c.c.). Peraltro, chi è immesso nel possesso temporaneo di detti beni
non può disporne (ad es., alienarli, sottoporli a pegno o ipoteca, ecc.),
se non per necessità o utilità evidente riconosciuta dal tribunale (art.
54, comma 1, c.c.). Ne ha però l’amministrazione (art. 52, comma 2,
c.c.) ed il godimento, con diritto di far propri frutti e rendite (artt. 52,
comma 2, e 53 c.c.).
La dichiarazione di assenza non scioglie il matrimonio, né
l’unione civile (art. 1, comma 6, L. 20 maggio 2016, n. 76) dell’interessato (cfr. però art. 117, comma 3, c.c.), ma determina lo scioglimento della comunione legale (art. 191, comma 1, c.c.; v. § 598).
Gli effetti della dichiarazione di assenza cessano — senza necessità di una nuova pronuncia giudiziale — se l’assente ritorna o,
comunque, ne è provata l’esistenza (art. 56, comma 1, c.c.). L’assente
ha diritto alla restituzione dei suoi beni, pur rimanendo fermi gli atti
di gestione e quelli di disposizione, se debitamente autorizzati, compiuti da chi era nel loro legittimo possesso (art. 56, comma 2, c.c.).
La morte
La « morte presunta » è dichiarata con sentenza dal tribunale,
presunta:
allorquando concorrono i seguenti presupposti:
presupposti
a) allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza;
b) mancanza di sue notizie da dieci anni (art. 58, comma 1, c.c.).
Nei confronti di chi è scomparso per un infortunio, è sufficiente che
non si abbiano più notizie da due anni (art. 60, comma 1 n. 3, c.c.; per
gli scomparsi in occasione di eventi bellici, v. art. 60, comma 1 nn. 1
e 2, c.c.).
... effetti
Gli effetti della pronuncia di morte presunta sono quelli che la
legge normalmente ricollega alla morte: così, coloro che sarebbero
stati suoi eredi testamentari o legittimi, se il soggetto fosse morto nel
giorno a cui risale l’ultima notizia di lui, conseguono la piena titolarità e disponibilità dei suoi beni e diritti, secondo le regole della
successione a causa di morte (artt. 63 e 64 c.c.), con la particolarità
che è obbligatorio l’inventario dei beni (art. 72 c.c.); la comunione
L’assenza:
presupposti
[§ 60]
Il soggetto del rapporto giuridico
121
legale si scioglie (art. 191, comma 1, c.c.); il coniuge può passare a
nuove nozze (art. 65 c.c.); l’altra parte dell’unione civile tra persone
dello stesso sesso può passare ad una nuova unione civile ovvero a
nozze (art. 1, comma 22, L. 20 maggio 2016, n. 76); ecc.
Detti effetti cessano retroattivamente in forza di sentenza che
accerta il ritorno o, quantomeno, l’esistenza in vita della persona di
cui è stata dichiarata la morte presunta. Quest’ultima recupera i
propri beni, fermi restando gli atti di gestione e di disposizione fin qui
compiuti. Il nuovo matrimonio contratto dal coniuge è nullo, salvo
gli effetti del c.d. matrimonio putativo (artt. 68, comma 2, e 128 c.c.:
v. § 584); l’unione civile eventualmente costituita dall’altro partner è
nulla (ex art. 1, comma 5, L. 20 maggio 2016, n. 76).
§ 60.
Gli atti dello stato civile.
Le vicende più importanti della persona fisica sono documen- Archivi dello
tate negli archivi dello stato civile, tenuti presso ogni comune (artt. stato civile
449 ss. c.c.).
In ciascun ufficio dello stato civile sono registrati e conservati in
un unico archivio informatico tutti gli atti formati nel comune, o
comunque relativi a soggetti ivi residenti, riguardanti:
a) la cittadinanza;
b) la nascita;
c) i matrimoni;
d) le unioni civili;
e) la morte (art. 10, comma 1, D.P.R. 30 novembre 2000, n. 396).
In via di prima approssimazione, si può dire che negli archivi Iscrizione di
dello stato civile si iscrivono le dichiarazioni che i privati rendono dichiarazioni
all’ufficiale di stato civile in ordine a cittadinanza, nascita, matrimoni, unioni civili, morte di una determinata persona.
Ciò che viene dai comparenti dichiarato all’ufficiale di stato
civile si presume, fino a prova contraria, rispondente a verità (art.
451, comma 2, c.c.).
Gli atti dello stato civile sono atti pubblici (artt. 2699 ss. c.c.; v.
§ 125): con la conseguenza che fanno prova, fino a querela di falso, di
ciò che l’ufficiale di stato civile attesta essere avvenuto in sua
presenza o da lui compiuto (art. 451, comma 1, c.c.).
Da ciò deriva che gli atti dello stato civile svolgono, innanzitutto, funzione probatoria in ordine a cittadinanza, nascita, matrimonio, unione civile e morte della persona fisica.
122
L’attività giuridica
[§ 61]
Negli archivi dello stato civile si trascrivono altresì provvedimenti di autorità amministrative e giudiziarie, italiane e straniere,
sempre relativi a cittadinanza, nascita, matrimoni, unioni civili e
morte della persona fisica.
La rettificazione di un atto dello stato civile inficiato da errori,
Rettificazione
omissioni od irregolarità, la ricostruzione di un atto andato distrutto
o smarrito, la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un
atto indebitamente registrato possono avvenire soltanto in forza di
decreto motivato del tribunale (artt. 95 ss. D.P.R. n. 396/2000; v.
Cass. 6 novembre 2018, n. 28277).
Gli atti dello stato civile sono pubblici (art. 450 c.c.): nel senso
Funzione di
pubblicità
che chiunque può consultarli e chiederne estratti e certificati (artt.
notizia
106 ss. D.P.R. n. 396/2000).
I registri dello stato civile adempiono, dunque, anche ad una
funzione di pubblicità-notizia (v. § 107) delle principali vicende della
persona fisica.
Trascrizione
di provvedimenti
B) I DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
§ 61.
Nozione e caratteri.
L’art. 2 Cost. proclama solennemente che « la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ».
La formula della norma costituzionale riecheggia l’idea, di oriTutela nei gine giusnaturalistica, secondo cui la persona umana sarebbe portaconfronti
trice di diritti « innati », che l’ordinamento giuridico non attribuisce,
dello Stato
bensì « riconosce »; e che, in quanto tali, sono « inviolabili » da parte
dello Stato, nell’esercizio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Una conferma di siffatta interpretazione viene dal fatto che —
allorquando contempla singolarmente tali diritti (art. 13: libertà
personale; art. 14: inviolabilità del domicilio; art. 15: libertà e segretezza delle comunicazioni; art. 16: libertà di circolazione; art. 17:
libertà di riunione; art. 18: libertà di associazione; art. 19: libertà di
religione; art. 21: libertà di manifestazione del pensiero e libertà di
stampa; art. 24: diritto di accesso alla giustizia ed alla difesa in
giudizio) — la nostra Costituzione mira chiaramente a garantire il
cittadino, in primo luogo, contro gli abusi e l’arbitrio dei pubblici
poteri: in altri termini, mira ad assicurare a quest’ultimo una sfera
intangibile di libertà nei confronti dello Stato.
I diritti
inviolabili
costituzionalmente
garantiti
[§ 61]
Il soggetto del rapporto giuridico
123
Peraltro, la tutela costituzionale dei diritti inviolabili non si ... e dei
esaurisce in questa direzione: i diritti inviolabili della persona sono consociati
tali anche nei confronti degli altri consociati.
Proprio in questa seconda prospettiva, il codice penale sanziona
i « delitti contro la persona » (artt. 575 ss. c.p.), distinguendoli in
« delitti contro la vita e l’incolumità individuale » (artt. 575 ss. c.p.:
omicidio, percosse, lesione personale, ecc.), « delitti contro l’onore »
(artt. 595 ss. c.p.: diffamazione), « delitti contro la libertà individuale »
(artt. 600 ss. c.p.: riduzione in schiavitù, prostituzione minorile,
pornografia minorile, impiego di minori nell’accattonaggio, organizzazione dell’accattonaggio, tratta delle persone, sequestro di persona,
violenza sessuale, violenza privata, tortura, violazione di domicilio,
violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza, ecc.).
Dal canto suo, il codice civile detta norme specifiche a tutela
dell’integrità fisica (art. 5 c.c.), del nome (artt. 6-9 c.c.) e dell’immagine (art. 10 c.c.).
Peraltro, è ormai pacifico che — allorquando proclama che « la L’« elenco »
dei
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo » — aperto
diritti
l’art. 2 Cost. intende far riferimento non solo a quelli specificamente inviolabili
tipizzati in altre norme della stessa Costituzione (artt. 13 ss. Cost.),
bensì anche a quelli che la coscienza sociale, in un determinato
momento storico, ritiene essenziali per la tutela della persona umana.
L’elenco dei diritti inviolabili è dunque — da un lato — aperto (v.
Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455; Cass. 20 luglio 2015, n. 15138),
essendo ammissibili diritti della personalità per così dire « atipici »
(come sono stati, almeno all’origine, il diritto alla riservatezza e
quello all’identità personale; v. §§ 67 e 68) e — da altro lato —
storicamente condizionato (ad es., mentre l’art. 29 dello Statuto albertino dichiarava testualmente « inviolabile » il diritto di proprietà, la
vigente Costituzione repubblicana disciplina tale diritto tra i « Rapporti economici »: artt. 42 ss. Cost.; v. § 132).
Da segnalare che, negli ultimi anni, la nostra giurisprudenza ha
mostrato una progressiva propensione ad ampliare il novero dei
diritti « inviolabili » della persona: così, ad es., è giunta ad affermare
che dovrebbe ritenersi « diritto inviolabile » quello ad una ragionevole
durata del processo (v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12515; Cass. 31
ottobre 2017, n. 25855); quello all’autodeterminazione in materia di
trattamenti sanitari (v. Cass. 22 agosto 2018, n. 20885); quello delle
persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche (v.
Cass. 9 marzo 2017, n. 6129); quello al riconoscimento di uno status
filiale corrispondente a verità (v. Cass. 29 novembre 2016, n. 24292);
quello al cambiamento di sesso ed all’autodeterminazione in ordine
124
L’attività giuridica
[§ 61]
alla propria identità di genere (v. Cass. 20 luglio 2015, n. 15138);
quello alla libera espressione della propria identità sessuale (v. Cass.
22 gennaio 2015, n. 1126); quello del figlio all’adempimento dei
doveri facenti capo al genitore naturale (v. Cass. 14 aprile 2012, n.
5652); quello di due persone del medesimo sesso, conviventi in stabile
relazione di fatto, di vivere liberamente una condizione di coppia (v.
Cass. 15 marzo 2012, n. 4184); quello ai rapporti parentali-familiari
(v. Cass. 11 gennaio 2011, n. 450); ecc.
Ai fini dell’individuazione dei diritti che nel nostro ordinamento
I diritti
« inviolabili »
devono considerarsi « inviolabili », un ruolo decisivo svolgono — oltre
nelle norme
di che, ovviamente, le disposizioni del diritto interno — anche norme di
derivazione derivazione extrastatuale.
extrastatuale
In proposito, meritano segnalazione:
a) la « Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo », approvata
con risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in data
10 dicembre 1948;
b) la « Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali » (« CEDU »), firmata a Roma il 4
novembre 1950, cui è stata data esecuzione in Italia con L. 4 agosto
1955, n. 848. Dal 1o dicembre 2009, con l’entrata in vigore del
trattato di Lisbona, « i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali » (art. 6, par. 3, TUE);
c) il « Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali
culturali » ed il « Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici »,
adottati a New York il 16 dicembre 1966, cui è stata data esecuzione
in Italia con L. 25 ottobre 1977, n. 881;
d) la « Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea » —
proclamata ufficialmente dalle istituzioni comunitarie (Parlamento,
Consiglio e Commissione) una prima volta a Nizza, in occasione del
Consiglio europeo, in data 7 dicembre 2000 (c.d. Carta di Nizza), e
una seconda volta, in versione modificata, a Strasburgo il 12 dicembre 2007 — che dal 1o dicembre 2009, con l’entrata in vigore del
trattato di Lisbona, ha « lo stesso valore giuridico dei trattati »
dell’Unione europea (art. 6, par. 1, TUE).
Tradizionalmente si afferma che i diritti della persona sono
Caratteri dei
diritti della
connotati
dai caratteri:
persona:
a) della necessarietà, in quanto competono a tutte le persone
necessarietà
fisiche, che li acquistano al momento della nascita e li perdono solo
con la morte;
[§ 62]
Il soggetto del rapporto giuridico
125
b) della imprescrittibilità (v. §§ 110 ss.), in quanto il non uso ... imprescritprolungato non ne determina l’estinzione (ad es., se per anni non ho tibilità
reagito contro l’utilizzo abusivo della mia immagine, non per questo
perdo il diritto di farlo in futuro);
c) della assolutezza, in quanto — da un lato — implicano, in ... assolutezza
capo a tutti i consociati, un generale dovere di astensione dal ledere
l’interesse presidiato da detti diritti e — da altro lato — sono
tutelabili erga omnes, cioè nei confronti di chiunque li contesti o li
pregiudichi;
d) della non patrimonialità, in quanto tutelano valori della ... non
patrimopersona non suscettibili di valutazione economica;
nialità
e) della indisponibilità, in quanto non sono rinunziabili, sep- ... indispopure si ammetta con sempre maggiore larghezza la possibilità di nibilità
consentirne l’uso ad altri, a titolo gratuito od anche oneroso (si pensi,
ad es., al testimonial che concede, a fini di lucro o di solidarietà, l’uso
della propria immagine per una campagna pubblicitaria). In ogni
caso, devono ritenersi invalidi quegli atti dispositivi che, alla stregua
della coscienza sociale, risultino incompatibili con i valori fondamentali della persona (ad es., nullo deve ritenersi l’accordo in forza del
quale un aspirante cantante si impegni, nei confronti della propria
casa discografica, ad assumere definitivamente una determinata
« personalità », ritenuta idonea a far presa sul pubblico, rinunciando
al proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, affettivo, sentimentale, ecc.).
Si discute se esista un unico diritto della personalità avente ad Teoria
e
oggetto la tutela della persona vista nella sua unitarietà ed indivisi- monistica
teoria
bilità (c.d. teoria monistica; v. Cass. 25 agosto 2014, n. 18174; Cass. 14 pluralistica
ottobre 2008, n. 25157) ovvero tanti diritti distinti volti a tutelare,
singolarmente, i diversi interessi di cui la stessa è portatrice (c.d.
teoria pluralistica).
§ 62.
Diritto alla vita.
Seppur non testualmente previsto dalla nostra Carta costituzio- Fonte e
nale — mentre trova espressa proclamazione, ad es., nella Dichiara- contenuto
zione universale dei diritti umani (art. 3), nel Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici (art. 6), nella CEDU (art. 2), nella
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 2) — il
« diritto alla vita », dalla nostra Corte costituzionale definito come il
« primo dei diritti inviolabili dell’uomo » (Corte cost. 27 giugno 1996,
126
L’attività giuridica
[§ 62]
n. 223), è posto a presidio del fondamentale interesse della persona
umana alla propria esistenza fisica.
Tale diritto impone a tutti i consociati l’obbligo di astenersi
dall’attentare alla vita altrui: obbligo presidiato anche da sanzioni
penali (artt. 575, 578, 584, 588, comma 2, 589, 589-bis, 591, comma 3,
593, comma 3, 593-ter, comma 4, c.p.).
Problema delicato è quello di stabilire il momento in cui si
Acquisto
acquista il diritto alla vita.
Come già anticipato (v. § 45), è pacifico che la non ancora
intervenuta acquisizione della capacità giuridica non impedisce al
nascituro di essere titolare di interessi giuridicamente tutelati (v.
Corte cost. 6 febbraio 1975, n. 26): tant’è che l’art. 1, comma 1, L. 22
maggio 1978, n. 194 (« Norme per la tutela sociale della maternità e
sull’interruzione volontaria della gravidanza ») statuisce che « lo
Stato (...) tutela la vita umana dal suo inizio », cioè dal momento del
concepimento; ed ora l’art. 1, comma 1, L. 19 febbraio 2004, n. 40
(« Norme in materia di procreazione medicalmente assistita ») espressamente dichiara di tutelare anche i diritti del concepito.
Il diritto a nascere trova tutela piena ed immediata nei confronti
Il « diritto a
nascere »
dei soggetti diversi dalla madre: è infatti penalmente sanzionata la
condotta di chiunque cagioni l’interruzione della gravidanza, senza il
consenso della donna manifestato secondo le modalità previste dalla
legge (artt. 17, 18, 19 e 20 L. n. 194/1978).
Nei confronti della madre occorre invece distinguere:
Interruzione
volontaria
a) l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi 90
della
gravidanza giorni dal concepimento è sostanzialmente rimessa alla sua libera
determinazione: prevede infatti la legge che « la donna che accusi
circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la
maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o
psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni
economiche o sociali o familiari, o le circostanze in cui è avvenuto il
concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico (...) o a una struttura
socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua
fiducia » (art. 4 L. n. 194/1978); « quando il medico del consultorio o
della struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia
immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza. Con
tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi
autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza » (art. 5,
comma 3, L. n. 194/1978); di contro, « se non viene riscontrato il caso
di urgenza », « il medico del consultorio o della struttura socio-
[§ 62]
Il soggetto del rapporto giuridico
127
sanitaria o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di
interrompere la gravidanza », « le rilascia copia di un documento,
firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i
sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione
della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole » (art. 5, comma
4, L. n. 194/1978): e, cioè, quand’anche la sua richiesta dovesse
risultare fondata su motivi futili o capricciosi;
b) l’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi 90
giorni può invece essere praticata unicamente quando la gravidanza
o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna,
ovvero quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli
relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che
determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della
donna (art. 6 L. n. 194/1978; v. Cass. 11 aprile 2017, n. 9251): in
quest’ultimo caso, dunque, il diritto del nascituro può essere sacrificato solo di fronte al preminente interesse della madre alla vita ed
alla integrità psico-fisica.
Se è tutelato nei confronti dei terzi, il diritto alla vita non lo è, Il suicidio
in concreto, nei confronti del diretto interessato: nessuna sanzione
consegue, infatti, al suicidio (così come al tentato suicidio). Costituiscono tuttavia reato (art. 580 c.p.) — ed integrano gli estremi
dell’illecito civile, con conseguente obbligo risarcitorio (ex artt. 2043
ss. c.c.; v. §§ 454 ss.) — le condotte di chi determini altri al suicidio,
ovvero ne rafforzi i propositi suicidi, ovvero ancora agevoli in qualunque modo l’esecuzione di detti propositi: c.d. istigazione o aiuto al
suicidio.
Peraltro, con ordinanza in data 16 novembre 2018, n. 207, la L’aiuto al
Corte costituzionale ha rinviato all’udienza del 24 settembre 2019 suicidio
l’esame della questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.,
sollevata nell’ambito del procedimento penale aperto nei confronti
del sig. Marco Cappato per l’ausilio da quest’ultimo prestato al
suicidio assistito, presso una clinica svizzera, del sig. Fabiano Antoniani, più noto come Dj Fabo: e ciò, al fine di « consentire al
Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa ». La Corte costituzionale ha infatti evidenziato come l’indiscriminata incriminazione
dell’aiuto al suicidio ponga problemi di compatibilità con interessi
costituzionalmente protetti, specie con riferimento all’ipotesi —
come quella che ha visto protagonista proprio Dj Fabo — « in cui il
soggetto agevolato si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che
trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo
128
L’attività giuridica
[§ 62]
di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli » in ordine ad interventi, che lo stesso non
è però in grado di porre in essere autonomamente, atti a determinarne la morte.
Costituisce reato (art. 579 c.p.) — e, conseguentemente, illecito
L’omicidio
del
civile
— anche la condotta di chi cagioni ad altri la morte, seppure
consenziente
con il di lui consenso: c.d. omicidio del consenziente.
Si ritiene pertanto illecita anche la condotta di chi, per motivi di
L’eutanasia
attiva
pietà e con il suo consenso (o, addirittura, su sua sollecitazione),
provochi la morte dell’infermo, affetto da malattia probabilmente o
certamente incurabile, attraverso un diretto intervento acceleratore (ad
es., mediante un’iniezione letale), volto ad anticiparne il decesso allo
scopo di evitargli le sofferenze del processo patologico terminale: c.d.
eutanasia attiva.
Diverso è il caso in cui l’interessato — lungi dal richiedere un
Principio di
autodeterintervento che ne causi positivamente, accelerandola, la morte —
minazione e
rifiuto dei rifiuti il trattamento terapeutico necessario per salvargli la vita o
trattamenti decida di interromperlo. Il generale principio — di cui parleremo al
salvavita
successivo § 63 — secondo cui i trattamenti sanitari possono essere
praticati solo con il consenso dell’avente diritto (c.d. principio di
autodeterminazione: artt. 1 e 2 L. 22 dicembre 2017, n. 219) vale anche
con riferimento ai c.d. trattamenti salvavita: con riferimento, cioè, a
quegli interventi — fra i quali devono ricomprendersi anche la
nutrizione e l’idratazione artificiali (art. 1, comma 5, L. n. 219/2017)
— che la scienza medica indica come idonei a scongiurare o, quantomeno, ad allontanare il rischio di morte dell’infermo. Il diritto alla
salute, costituzionalmente garantito (v. § 63), implica infatti — come
da tempo affermato dalla nostra Suprema Corte (v. Cass. 16 ottobre
2007, n. 21748) — anche il suo risvolto negativo: cioè, il « diritto di
non curarsi » e, persino, il « diritto di lasciarsi morire » (di lasciare, in
altre parole, che la malattia segua il suo corso naturale fino all’exitus
finale).
Di fronte al rifiuto del trattamento medico consapevolmente
espresso dall’assistito, così come di fronte alla sua richiesta di interruzione del trattamento già in atto, il dovere del medico di curarlo,
proprio perché fondato sul consenso del malato, viene meno; anzi,
egli è obbligato a rispettare la volontà dell’assistito contraria alle cure
(art. 1, comma 6, L. n. 219/2017).
Tutto ciò, ovviamente, presuppone che l’interessato — nonostante il turbamento che inevitabilmente gli deriva dal trovarsi in
pericolo di vita — sia in grado di manifestare consapevolmente e
[§ 62]
Il soggetto del rapporto giuridico
129
liberamente il proprio intendimento in ordine al trattamento medico
propostogli (art. 1, comma 5, L. n. 219/2017).
Allorquando invece il soggetto non sia in grado, a causa dello Principio di
stato di incapacità in cui versa, di manifestare il proprio consenso/ autodeterminazione ed
dissenso al riguardo, il medico — nelle situazioni di emergenza o di incapacità del
urgenza — deve senz’altro praticare le cure necessarie (art. 1, comma paziente
7, L. n. 219/2017).
Superata l’urgenza, la decisione in ordine al consenso/rifiuto di
un determinato trattamento terapeutico da praticare all’incapace
spetta al suo rappresentante legale (ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale, al tutore, all’amministratore di sostegno) (art. 3 L.
n. 219/2017). Nel caso in cui il rappresentante rifiuti le cure proposte
che il medico ritenga invece appropriate e necessarie, la decisione è
demandata al giudice tutelare (art. 3, comma 5, L. n. 219/2017).
In ogni caso, di fronte a paziente con prognosi infausta a breve Il divieto di
termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni accanimento
terapeutico
ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal
ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati; ricorrendo piuttosto, in
presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, alla sedazione palliativa profonda continua, in associazione con la terapia del
dolore (art. 2, comma 2, L. n. 219/2017).
Al fine di evitare la rimessione al rappresentante legale (ed Le
eventualmente al giudice tutelare) di scelte così delicate e dramma- disposizioni
anticipate di
tiche come quelle di fine vita, la recente L. 22 dicembre 2017, n. 219, trattamento
consente al maggiorenne capace di intendere e di volere di redigere —
nella forma dell’atto pubblico, della scrittura privata autenticata o
della scrittura privata consegnata personalmente presso l’ufficio
dello stato civile del comune di residenza ovvero presso le strutture
sanitarie abilitate (art. 4, comma 6, L. n. 219/2017) — le proprie «
disposizioni anticipate di trattamento » (« DAT »), attraverso cui
manifestare ora per allora le proprie volontà in tema di accertamenti
diagnostici, scelte terapeutiche e/o trattamenti sanitari, per il caso in
cui, in futuro, dovesse venirsi a trovare in uno stato di incapacità di
esprimere il proprio consapevole consenso/rifiuto al riguardo (art. 4
L. n. 219/2017). Il disponente può altresì indicare il nominativo di
persona di propria fiducia — c.d. « fiduciario » — che, sempre
nell’ipotesi in cui lo stesso disponente dovesse venirsi a trovare in uno
stato di incapacità di esprimere la propria volontà in tema di trattamenti sanitari, lo rappresenti nelle relazioni con il medico e le
strutture sanitarie (art. 4, commi 1, 2 e 4, L. n. 219/2017).
Le direttive espresse nelle DAT sono vincolanti per il medico, che
può disattenderle, in tutto o in parte, solo — in accordo con il
130
L’attività giuridica
[§ 63]
fiduciario — qualora le stesse dovessero apparire palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente,
ovvero per essere nel frattempo divenute disponibili terapie, non
prevedibili all’atto della sottoscrizione delle stesse DAT, capaci di
offrire al paziente concrete possibilità di miglioramento delle proprie
condizioni di vita. Nel caso di conflitto fra fiduciario e medico, la
decisione è rimessa al giudice tutelare (art. 4, comma 5, L. n.
219/2017).
Le DAT — così come l’indicazione del fiduciario — possono
essere, in qualunque momento, revocate o modificate dal disponente
nelle forme richieste per la loro formulazione (art. 4, commi 3 e 6, L.
n. 219/2017).
Diversa modalità di manifestazione anticipata del volere del
La
pianificazione paziente per l’ipotesi in cui lo stesso dovesse, in futuro, venirsi a
condivisa
delle cure trovare in una situazione di impossibilità di manifestare le proprie
volontà in tema di trattamenti sanitari è quella della c.d. « pianificazione condivisa delle cure »: in presenza di una patologia cronica e
invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi
infausta, il paziente può concordare, per iscritto, con il medico una
pianificazione delle cure, alla quale il medico stesso e la sua équipe
saranno, un domani, tenuti ad attenersi, quand’anche l’assistito
dovesse venirsi a trovare in una condizione di incapacità. La pianificazione condivisa delle cure può, in ogni momento, essere aggiornata — su richiesta del paziente o su suggerimento del medico — al
progressivo evolversi della malattia (art. 5 L. n. 219/2017).
In ogni caso, al paziente dev’essere consentito l’accesso alle c.d.
Cure
palliative e cure palliative (per tali intendendosi « l’insieme degli interventi teraterapia del
dolore peutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia
al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti
la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione
e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici »)
ed alla terapia del dolore (per tale intendendosi « l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle
forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche,
chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnosticoterapeutici per la soppressione e il controllo del dolore »), disciplinate
dalla L. 15 marzo 2010, n. 38.
§ 63.
Fonti e
contenuto
Diritto alla salute.
L’art. 32, comma 1, Cost. definisce quello alla « salute » come
« fondamentale diritto dell’individuo ». L’art. 3, comma 1, della Carta
[§ 63]
Il soggetto del rapporto giuridico
131
dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclama oggi che « ogni
individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica » (v. anche
art. 25 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo).
Tale diritto implica, per tutti i consociati, l’obbligo di astensione da condotte che possano cagionare ad altri malattie, infermità
o menomazioni: obbligo presidiato — oltre che da sanzioni penali
(artt. 581, 582, 583, 583-bis, 583-quater, 590, 590-bis c.p.) — anche sul
piano risarcitorio (v. §§ 229 ss. e 454 ss.).
L’interesse alla salute ed all’integrità psico-fisica è tutelato Il diritto di
anche a favore del nascituro: tant’è che si ammette la risarcibilità del nascere sano
danno conseguente a lesioni subite dal feto nel periodo prenatale a
causa di condotte imperite del medico; sicché il soggetto che, con la
nascita, abbia acquistato la capacità giuridica ben potrà far valere la
responsabilità per lesioni o malattie procurategli quando ancora nato
non era (v. § 45).
Si ritiene che non trovi invece cittadinanza, nel nostro ordina- Il preteso
a non
mento, il c.d. diritto di non nascere se non sano. Con la conseguenza diritto
nascere se
che chi sia nato affetto da una grave patologia (ad es., dalla sindrome non sano
di Down) non potrà vantare un diritto risarcitorio (per impossibilità
di un’esistenza sana e dignitosa) né nei confronti della madre che,
benché correttamente informata dell’anomalia del feto, non si sia
avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza, né nei confronti
del medico che, non avendola correttamente informata di tale anomalia, le ha, di fatto, impedito di valutare l’opportunità di una scelta
abortiva (v. Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767; e, più di
recente, Cass. 11 aprile 2017, n. 9251). Ovviamente, il medico risponderà, nei confronti della madre, dei danni — da c.d. « nascita indesiderata » — da quest’ultima sofferti in conseguenza della mancata
segnalazione di anomalie del feto, ove risultasse che, se correttamente informata, la stessa avrebbe optato per l’interruzione della
gravidanza (v. Cass. 11 aprile 2017, n. 9251; Cass. 28 febbraio 2017,
n. 5004).
Il diritto alla salute ed all’integrità psico-fisica — se trova tutela Principio di
nei confronti dei terzi — è invece rimesso, in linea di principio, autodeterminazione
all’autodeterminazione del suo titolare.
« Nessuno — dispone infatti l’art. 32, comma 1, Cost. — può
essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge ».
La legge può prevedere l’obbligo di un determinato accerta- Trattamenti
mento o trattamento sanitario solo — come più volte ribadito dalla sanitari
obbligatori
Corte costituzionale (v., da ultimo, Corte cost. 14 dicembre 2017, n.
268) — quando ciò sia giustificato non tanto dal vantaggio che potrà
132
L’attività giuridica
[§ 63]
derivarne per il soggetto cui esso è imposto, quanto dalla necessità di
tutelare l’interesse superiore alla protezione della sanità pubblica (v. il
tanto contestato — dal movimento no-vax — D.L. 7 giugno 2017, n.
73, che rende obbligatorie le vaccinazioni contro poliomielite, difterite, tetano, epatite B, pertosse, Haemophilus influenzale tipo B,
morbillo, rosolia, parotite e varicella).
Coerentemente, il legislatore ha previsto un « indennizzo » da
parte dello Stato a favore di « chiunque abbia riportato, a causa di
vaccinazioni obbligatorie (...), lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica » (art.
1, comma 1, L. 25 febbraio 1992, n. 210; v., anche, art. 1, comma 1,
L. 29 ottobre 2005, n. 229); « indennizzo » che la Corte costituzionale
parrebbe orientata a ritenere dovuto, in caso di patologie irreversibili
derivanti da vaccinazioni, non solo nell’ipotesi (legislativamente
prevista) in cui queste ultime siano obbligatorie, ma anche quando le
stesse siano semplicemente raccomandate a mezzo di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore del trattamento vaccinale,
tali da giustificare nei cittadini un particolare affidamento in quanto
consigliato dall’Autorità: nell’uno come nell’altro caso — rileva la
Corte — l’obiettivo perseguito è sempre quello « di garantire e
tutelare la salute (anche) collettiva attraverso il raggiungimento
della massima copertura vaccinale », sicché sarebbe « ingiusto (...) che
siano i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio anche
collettivo » (così Corte cost. 14 dicembre 2017, n. 268).
In ogni caso — in attuazione del dettato dell’art. 32, comma 2,
Cost. — accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori possono
essere disposti solo « nel rispetto della dignità della persona e dei
diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per
quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di
cura » (art. 1, comma 2, L. 13 maggio 1978, n. 180: « Accertamenti e
trattamenti sanitari volontari e obbligatori »; e art. 33, comma 2, L.
23 dicembre 1978, n. 833: « Istituzione del servizio sanitario nazionale »). Rivoluzionaria, in quanto particolarmente all’avanguardia in
questa direzione, apparve, all’epoca della sua entrata in vigore, la
disciplina degli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori delle
persone affette da malattie mentali (artt. 2 ss. L. n. 180/1978).
Al di fuori dei casi — eccezionali — in cui risultino imposti per
Il principio
di autolegge, « gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari » (art.
determinazione 1, comma 1, L. n. 180/1978; v. anche art. 33, comma 1, L. n.
833/1978; ed ora, da ultimo, art. 1, comma 1, L. 22 dicembre 2017, n.
219): c.d. principio di auto-determinazione.
[§ 63]
Il soggetto del rapporto giuridico
133
Essi richiedono, cioè, il consenso dell’avente diritto, che, se in
stato di capacità legale e naturale di agire, ben potrebbe legittimamente opporre un rifiuto alle cure (ad es., per motivi religiosi: si pensi
al diniego di ricevere trasfusioni di sangue opposto dal testimone di
Geova) (art. 1, commi 5 e 6, L. n. 219/2017).
Senza il consenso del paziente, il medico non può sottoporlo ad
accertamenti sanitari, cure mediche, interventi chirurgici, neppure
— come si è visto — quando il trattamento dovesse risultare necessario per salvargli la vita (art. 1, comma 6, L. n. 219/2017).
Peraltro, affinché possa prestare un valido consenso, è necessa- Il consenso
rio che l’assistito venga prima correttamente, chiaramente ed esausti- informato
vamente informato in ordine, da un lato, alle proprie condizioni di
salute, da altro lato, alle relative diagnosi e prognosi e, da altro lato
ancora, alle diverse alternative diagnostiche e terapeutiche disponibili, nonché a natura ed esiti possibili, benefici e rischi di ciascuna,
ecc.: c.d. consenso informato (art. 1, comma 3, L. n. 219/2017).
L’eventuale inadempimento, da parte del medico, all’obbligo Violazione del
informativo sullo stesso gravante lede il diritto all’auto- diritto
all’auto-deterdeterminazione che compete all’assistito, con la conseguenza che il minazione
sanitario potrà essere chiamato a rispondere, quand’anche il trattamento sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per il solo
fatto che il paziente non è stato posto in condizione di validamente
prestare il proprio consenso (v. Cass. 15 maggio 2018, n. 11749; Cass.
5 luglio 2017, n. 16503).
In ogni caso, il consenso al trattamento medico (ad es., a Revocabilità
sottoporsi a trapianto cardiaco) non obbliga chi lo ha prestato, che del consenso
può efficacemente revocarlo in qualsiasi momento, fin quando l’atto
medico non sia stato posto in essere (art. 1, comma 5, L. n. 219/2017).
Nell’ipotesi in cui il paziente legalmente capace si trovi in stato di Paziente
incoscienza e ricorra un caso di urgenza, il medico — stante l’impos- legalmente
capace, ma
sibilità di raccoglierne il volere — deve comunque assicurargli le cure non cosciente
necessarie (art. 1, comma 7, L. n. 219/2017).
Nell’ipotesi in cui il paziente sia invece incapace legale, il con- Paziente
senso deve, di regola, essere espresso dal suo rappresentante legale: in legalmente
incapace
caso di minore età, dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale
o dal tutore; in caso di interdizione, dal tutore; in caso di amministrazione di sostegno, dall’amministratore la cui nomina ne preveda
la « rappresentanza esclusiva » in ambito sanitario. In caso di inabilitazione, il consenso informato deve essere invece espresso dalla
stessa persona inabilitata; in caso di amministrazione di sostegno,
dallo stesso soggetto sottoposto alla procedura, « assistito » dall’am-
134
L’attività giuridica
[§ 63]
ministratore la cui nomina ne preveda la semplice « assistenza » in
ordine alle decisioni sanitarie.
In ogni caso, l’incapace legale deve ricevere informazioni sulle
scelte relative alla propria salute, in modo consono alle sue capacità,
per essere messo in condizione di esprimere il proprio volere al
riguardo, che il soggetto deputato ad esprimere in sua vece il consenso informato deve tenere nel debito conto (art. 3, commi 1, 2, 3 e
4, L. n. 219/2017).
Nell’ipotesi in cui il rappresentante legale dell’incapace rifiuti le
cure proposte ed il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare (art. 3,
comma 5, L. n. 219/2017).
Il consenso informato — ovvero la sua revoca — deve essere
Forma del
consenso
documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni, ovvero,
per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano
di comunicare (art. 1, commi 4 e 5, L. n. 219/2017).
Il diritto alla salute ed all’integrità psico-fisica non è, tuttavia,
Limiti al
principio di
integralmente rimesso all’autodeterminazione del suo titolare.
autodeterGli atti dispositivi del proprio corpo sono, di regola, consentiti a
minazione
due condizioni:
a) che non siano contrari alla legge (si pensi, ad es., all’art. 3 L.
21 ottobre 2005, n. 219, che vieta, se non a titolo gratuito, il prelievo
di sangue o di emocomponenti, così come il prelievo di cellule
staminali emopoietiche; o all’art. 583-bis c.p., che punisce le pratiche
di mutilazione degli organi genitali femminili), all’ordine pubblico ed
al buon costume (si pensi, ad es., al contratto di meretricio);
b) che non cagionino una diminuzione permanente dell’integrità
fisica del soggetto (art. 5 c.c.): sicché — mentre dovrà ritenersi
legittimo, se consentito dall’avente diritto, il prelievo di sangue,
lembi di pelle, frammenti ossei, segmenti vascolari, midollo osseo,
tessuti in genere, ecc., nella misura in cui l’intervento non incida
stabilmente sulla sua integrità — dovranno ritenersi, di contro,
vietati, quand’anche vi sia il consenso dell’interessato, l’espianto di
organi (ad es., la cornea) così come ogni altro intervento che su tale
integrità sia invece destinato ad incidere negativamente.
Peraltro, quand’anche riconducibili ad interventi menomativi
dell’integrità fisica del soggetto, la legge — in deroga al disposto
dell’art. 5 c.c. — consente:
i) l’espianto da vivente del rene (L. 26 giugno 1967, n. 458), di
parti del fegato (L. 16 dicembre 1999, n. 483), ovvero di parti di
polmone, pancreas ed intestino (L. 19 settembre 2012, n. 167),
seppure solo a titolo gratuito e con il consenso informato dell’inte-
[§ 63]
Il soggetto del rapporto giuridico
135
ressato, nonché l’autorizzazione del tribunale: ciò, al fine di favorire
la pratica dei trapianti d’organo, eliminando ostacoli all’esercizio del
dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost.;
ii) interventi di modificazione dei caratteri sessuali (art. 1 L. 14
aprile 1982, n. 164; art. 31 D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150): ciò, al
fine di consentire l’eliminazione degli irriducibili conflitti esistenti in
coloro che, pur appartenendo fisicamente ad un determinato sesso,
avvertono a livello psicologico e per pulsioni sessuali la propria
appartenenza al sesso opposto. Peraltro, da segnalare che — secondo
la più recente giurisprudenza — la rettificazione anagrafica di sesso
(da maschile a femminile o viceversa) non richiede necessariamente la
preventiva modifica per via chirurgica dei caratteri sessuali anatomici primari, potendo, in concreto, risultare al riguardo sufficiente il
ricorso a presidi medici (ad es., terapie ormonali, trattamenti estetici,
interventi additivi quali quelli relativi al seno, ecc.) ed a sostegni
psico-terapeutici se atti a realizzare il mutamento, tendenzialmente
immutabile, di sesso sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia
sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari
estetico-somatici ed ormonali (v. Corte cost. 13 luglio 2017, n. 180;
Corte cost. 5 novembre 2015, n. 221; Cass. 20 luglio 2015, n. 15138).
Dal canto suo, la giurisprudenza — dopo che la L. 22 maggio
1978, n. 194, ha abrogato il reato di « procurata impotenza alla
procreazione » — ammette pacificamente, sempre che vi sia il consenso informato dell’avente diritto, la liceità della sterilizzazione
volontaria sia maschile (ad es., mediante vasectomia) che femminile
(ad es., mediante incollaggio delle tube) (v. Cass. 24 ottobre 2013, n.
24109).
Gli interventi chirurgici ed i trattamenti medici devono ritenersi
sottratti ai limiti al potere di autodeterminazione dell’interessato
fissati dall’art. 5 c.c. Conseguentemente, il paziente può legittimamente consentire anche interventi chirurgici o trattamenti medici
destinati a comportare menomazioni gravi e definitive alla propria
integrità fisica (ad es., l’amputazione di una gamba). Invero, i limiti
al potere di autodeterminazione in ordine agli atti dispositivi del
proprio corpo sono dalla legge posti a tutela e nell’interesse dell’avente
diritto: non possono certo fungere — in contrasto con la propria
funzione — da impedimento a trattamenti medico-chirurgici necessari a preservarne la salute o, addirittura, la vita (v., già, Corte cost.
24 maggio 1985, n. 161).
Le parti legittimamente staccate dal corpo (ad es., capelli, Le parti
dal
denti, unghie, ecc.) sono beni autonomi (v. § 80) di spettanza (v. § staccate
corpo
132) del soggetto al cui corpo appartenevano (v. Cass. 5 agosto 2008,
136
L’attività giuridica
[§ 64]
n. 21128). Conseguentemente, possono essere oggetto di atti di disposizione (ad es., posso vendere i capelli che ho tagliato, perché
vengano utilizzati per la confezione di extensions).
Ovviamente, i limiti al potere di autodeterminazione dell’avente diritto, previsti dall’art. 5 c.c., valgono fino a che il soggetto
è in vita.
Atti
Per il momento successivo alla propria morte, la persona può
dispositivi
disporre in ordine alla collocazione della propria salma (c.d. ius
del cadavere
eligendi sepulchrum); ovvero — per testamento o più semplicemente,
per gli iscritti ad associazioni riconosciute che abbiano tra i propri fini
statutari quello della cremazione dei cadaveri dei propri associati, in
forza di una dichiarazione in carta libera — in ordine alla cremazione
del proprio corpo ed all’eventuale dispersione delle ceneri (L. 30
marzo 2001, n. 130; art. 79 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285); nonché
in ordine al prelievo di organi e tessuti — esclusi gonadi ed encefalo —
a scopo di trapianto (L. 1o aprile 1999, n. 91): anzi, la legge prevede
che « i cittadini sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in
ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte » e che « la mancata dichiarazione di volontà è
considerata quale assenso alla donazione » (art. 4, comma 1 e 4 lett. b,
L. n. 91/1999; peraltro — ad oltre vent’anni di distanza — il regime
attualmente applicabile è ancora quello previsto, in via transitoria,
dagli artt. 23 e 28, comma 2, L. n. 91/1999).
§ 64.
Diritto al nome.
Il « nome » — costituito da prenome (cioè, dal nome di battesimo) e cognome (art. 6, comma 2, c.c.) — svolge funzione di identificazione sociale della persona e viene ricondotto nell’alveo dei valori
fondamentali della persona, in particolare, nella prospettiva della
protezione della sua identità, intesa anche come proiezione della sua
personalità (artt. 2 e 30 Cost.; art. 8 CEDU; art. 24 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; art. 7 Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea).
Il cognome
Il figlio nato nel matrimonio (v. § 605) — secondo l’opinione
del figlio
assolutamente prevalente che, in assenza di una puntuale espressa
nato nel
matrimonio previsione di legge al riguardo, deduce la regola dal disposto degli
... artt. 237, 262 e 299 c.c., nonché degli artt. 33 e 34 D.P.R. n. 396/2000
— assume il cognome del padre ed il prenome attribuitogli all’atto
della dichiarazione di nascita all’ufficiale di stato civile (artt. 29,
comma 2, e 34 ss. D.P.R. n. 396/2000; v. Cass. 20 novembre 2012, n.
Contenuto
del diritto
[§ 64]
Il soggetto del rapporto giuridico
137
20385). Se il dichiarante non dà un prenome al bambino, vi supplisce
l’ufficiale di stato civile (art. 29, comma 4, D.P.R. n. 396/2000).
Peraltro, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo — con sentenza
del 7 gennaio 2014, ric. n. 77/07 — ha ritenuto che la regola, secondo
cui il figlio legittimo acquista automaticamente il cognome paterno,
senza possibilità di assumere (in aggiunta o in sostituzione) quello
della madre, contrasti con le previsioni dettate dagli artt. 8 e 14
CEDU; con la conseguenza che lo Stato italiano è ora obbligato (ex
art. 46 CEDU) ad adeguare la normativa interna a quanto statuito
dalla Corte di Strasburgo.
All’inerzia del legislatore ha peraltro supplito, almeno parzialmente, la Corte costituzionale, la quale è intervenuta dichiarando
illegittima — perché in contrasto con il disposto degli artt. 2, 3 e 29,
comma 2, Cost. — la regola, che vuole che al figlio nato nel matrimonio sia attribuito il cognome paterno, « nella parte in cui non
consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al
momento della nascita, anche il cognome materno » (Corte cost. 21
dicembre 2016, n. 286).
Il figlio nato fuori del matrimonio (v. §§ 608 e 611) assume il ... del figlio
fuori dal
cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il ricono- nato
matrimonio
scimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori,
assume il cognome del padre (art. 262, comma 1, c.c.), sempre che i
genitori, di comune accordo, non richiedano di trasmettere al figlio
anche il cognome materno (v. Corte cost. 21 dicembre 2016, n. 286).
Se il riconoscimento del padre avviene successivamente a quello della
madre, il figlio può assumere il cognome del padre, aggiungendolo,
anteponendolo o sostituendolo a quello della madre (art. 262, comma
2, c.c.). Nel caso di minore età del figlio, è il giudice a dover decidere
— avendo quale unico criterio di riferimento l’interesse del minore
stesso — se quest’ultimo debba sostituire il cognome paterno a quello
materno, ovvero premetterlo od aggiungerlo ad esso (art. 262,
comma 4, c.c.; v. Cass. 18 giugno 2015, n. 12640).
I bambini non riconosciuti da alcuno dei genitori assumono il ... del figlio
cognome ed il prenome loro imposto dall’ufficiale di stato civile (art. non
riconosciuto
29, comma 5, D.P.R. n. 396/2000; v. anche art. 262, comma 3, c.c.).
Il figlio adottivo (v. §§ 616 ss.) assume il cognome degli adottanti ... del figlio
(art. 27, comma 1, L. 4 maggio 1983, n. 184; ma v. anche il comma 2). adottivo
Per l’ipotesi di adozione del maggiorenne (v. § 619) dispone l’art.
299 c.c. (ma v. ora Corte cost. 21 dicembre 2016, n. 286).
A seguito del matrimonio, la moglie aggiunge al proprio co- ... della
gnome quello del marito (art. 143-bis c.c.); e lo conserva anche moglie
138
L’attività giuridica
[§ 64]
durante la separazione personale (v. §§ 591 s.), salvo quanto disposto
dall’art. 156-bis c.c.
Con lo scioglimento del matrimonio (v. § 592) per morte del
... delle parti
di un’unione
marito, la moglie, durante la vedovanza, ne conserva il cognome, fino
civile fra
persone dello a che passi a nuove nozze (art. 143-bis c.c.).
stesso sesso
La donna divorziata perde invece il cognome maritale (art. 5,
comma 2, L. 1o dicembre 1970, n. 898); ma può chiedere al giudice di
essere autorizzata a conservarlo, in aggiunta al proprio, quando
sussista un interesse suo (ad es., perché ormai nota nell’ambiente
lavorativo o nelle relazioni sociali con il cognome del marito) o dei
figli meritevole di tutela (art. 5, comma 3, L. n. 898/1970; v. Cass. 26
ottobre 2015, n. 21706).
Le parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso — se
non intendono mantenere i rispettivi cognomi — possono, mediante
dichiarazione all’ufficiale dello stato civile, assumere, per la durata
dell’unione, un cognome comune, scegliendolo tra i loro cognomi. La
parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso (art. 1, comma 10, L. 20 maggio 2016, n. 76; v.
Corte cost. 22 novembre 2018, n. 212).
Il nome è tendenzialmente immodificabile. Il mutamento di
Mutamento
del nome
nome e/o cognome (ad es., perché ridicolo o vergognoso) ovvero
l’aggiunta al proprio di altro nome e/o cognome (ad es., quello della
famiglia materna, priva di discendenti maschi) possono essere concessi con decreto del Prefetto della provincia del luogo di residenza
del richiedente, ovvero della provincia nella cui circoscrizione è
situato l’ufficio dello stato civile ove si trova l’atto di nascita al quale
la richiesta si riferisce (artt. 84 ss. D.P.R. n. 396/2000).
In considerazione della sua funzione di identificazione sociale
Violazioni
del diritto:
della persona, il nome viene tutelato contro:
a) la contestazione (art. 7, comma 1, c.c.), che si ha allorquando
contestazione
un terzo compie atti volti a precludere od ostacolare al soggetto
l’utilizzo del nome legalmente attribuitogli (ad es., il marito separato
tenta di impedire alla moglie l’uso del cognome maritale, senza
ricorrere al procedimento di cui all’art. 156-bis c.c.);
b) l’usurpazione (art. 7, comma 1, c.c.), che si ha allorquando un
...
usurpazione
terzo, cui sia stato attribuito un nome diverso, utilizza il nome altrui
per identificare la propria persona (ad es., per accreditarsi nella
« buona società » o nel mondo degli affari, utilizza il cognome di una
nobile e nota casata): peraltro, l’uso indebito dell’altrui cognome è
vietato solo allorquando possa arrecare pregiudizio al suo legittimo
titolare (ad es., perché concretamente idoneo a creare confusione
sull’identità della persona; v. Cass. 16 luglio 2003, n. 11129);
[§ 65]
Il soggetto del rapporto giuridico
139
c) l’utilizzazione abusiva (art. 7, comma 1, c.c.), che si ha allor- ...
quando un terzo utilizzi il nome altrui per identificare un personaggio utilizzazione
abusiva
di fantasia (ad es., il protagonista di un romanzo o di un film) o un
prodotto commerciale (ad es., il nome della più nota e nobile famiglia
del luogo viene impiegato per identificare un liquore di produzione
locale), ovvero lo apponga in calce ad un appello o ad una « lettera
aperta » di contenuto politico: anche in questo caso, l’utilizzo abusivo
dell’altrui nome è vietato solo se idoneo ad arrecare pregiudizio al suo
titolare (ad es., perché il personaggio del romanzo cui è attribuito il
mio nome può suggerire, nella misura in cui svolge la mia stessa
attività e vive nei miei stessi ambienti, un collegamento con la mia
persona).
La vittima di contestazione, usurpazione od utilizzo abusivo del Le tutele
proprio nome — così come chiunque, pur non portando il nome
contestato o indebitamente usato, abbia alla tutela del nome un
interesse fondato su ragioni familiari degne di essere protette (art. 8
c.c.) — può chiedere la cessazione del fatto lesivo ed il risarcimento del
danno, oltre che la pubblicazione su uno o più giornali della sentenza
che accerta l’illecito (art. 7, comma 1 e 2, c.c.).
Tutela analoga a quella prevista per il nome assiste lo pseudo- Lo
nimo: ovvero il nome, diverso da quello attribuitogli per legge, con pseudonimo
cui il soggetto è conosciuto in determinati ambienti (si pensi, ad es.,
al c.d. « nome d’arte »: Jovanotti, per identificare il sig. Lorenzo
Cherubini; Checco Zalone, per identificare il sig. Luca Pasquale
Medici).
L’avente diritto può concedere a terzi, anche a titolo oneroso, il Atti
del
diritto di utilizzare il proprio nome (celebre) a fini commerciali (ad dispositivi
nome
es., per contraddistinguere un prodotto).
§ 65.
Diritto all’integrità morale.
L’art. 1 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea Onore,
enuncia il principio secondo cui « la dignità umana è inviolabile. Essa decoro,
reputazione
deve essere rispettata e tutelata » (ma v. già l’art. 12 Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo; e l’art. 17 Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici).
La legge nazionale tutela — anche con sanzioni penali: art. 595
(« Diffamazione ») c.p. — l’interesse di ciascuno all’« onore » (per tale
intendendosi il valore sociale di un determinato soggetto, dato dall’insieme delle sue doti morali), al « decoro » (per tale intendendosi il
valore sociale di un determinato soggetto, dato dall’insieme delle sue
140
L’attività giuridica
[§ 65]
doti intellettuali, fisiche e delle altre qualità che concorrono a determinarne il pregio nell’ambiente in cui vive), alla « reputazione » (per
tale intendendosi l’opinione che gli altri hanno dell’onore e del decoro
di un determinato soggetto: cioè, la stima di cui lo stesso gode nel suo
ambiente sociale; v. Cass. 21 giugno 2016, n. 12813).
Esiste un onore ed un decoro minimo che compete ad ogni
persona per il solo fatto di essere uomo. Al di sopra di detto minimo,
onore e decoro vanno valutati in relazione alla personalità dell’interessato, stante la naturale relatività di detti concetti in riferimento a
variabili quali l’ambiente sociale (così, ad es., tra commilitoni risultano tollerabili espressioni altrimenti difficilmente accettabili), il
momento storico (ad es., oggi risultano di uso corrente espressioni
che, in altri tempi, sarebbero suonate pesantemente offensive), le
circostanze del caso concreto (ad es., dire che un magistrato « tifa per
una delle parti » non è lesivo del suo onore se l’affermazione riguarda
una partita di calcio, mentre lo diviene se riferita ad un giudizio sul
quale è chiamato a decidere), ecc.
Illegittima risulta qualsiasi espressione di mancato rispetto delViolazioni
del diritto
l’integrità morale della persona, manifestata (anche implicitamente:
ad es., con allusioni) — attraverso parole, scritti, disegni, caricature,
gesti, suoni, ecc. — direttamente all’interessato od anche solo a terzi
(ad es., attraverso una denuncia presentata all’Autorità giudiziaria:
Cass. 30 novembre 2018, n. 30988; un’intervista giornalistica: v. Cass.
17 giugno 2013, n. 15112; un’illegittima levata di protesto: v. Cass. 31
ottobre 2017, n. 25872; ma v. anche Cass. 28 marzo 2018, n. 7594;
ecc.).
L’illiceità dell’offesa non viene meno, se il fatto attribuito alla
L’exceptio
veritatis
persona (ad es., bollare come « strozzino » chi effettivamente presti
denaro ad usura) od il giudizio espresso sul suo conto (ad es.,
apostrofare come « cornuto » il marito tradito) rispondono a verità o
sono di pubblico dominio: c.d. efficacia non scriminante dell’exceptio
veritatis (art. 596, comma 1, c.p.; ma v. Cass. pen. 16 giugno 2016, n.
41414).
In una società dell’informazione, il diritto all’onore, al decoro ed
Diritti di
cronaca e
alla reputazione è inevitabilmente destinato a venire sempre più
critica
giornalistica spesso in conflitto con i diritti — costituzionalmente garantiti (art. 21
Cost.) — di cronaca e critica giornalistica (ad es., in relazione ad
un’indagine per corruzione avviata dalla magistratura nei confronti
del sindaco, quest’ultimo ha interesse a che la relativa notizia non
venga divulgata, mentre la cittadinanza, suo corpo elettorale, ha
l’interesse esattamente opposto). In tal caso, il diritto all’integrità
morale del singolo cede di fronte al diritto all’informazione — e la
[§ 66]
Il soggetto del rapporto giuridico
141
notizia potrà, quindi, essere legittimamente pubblicata, quand’anche
lesiva dell’altrui reputazione (v. Corte europea dei Diritti dell’Uomo,
24 settembre 2013, ric. n. 43610/10) — qualora concorrano tre distinti
presupposti (v., da ultimo, Cass. 31 gennaio 2018, n. 2357):
a) quello della verità della notizia (vi sia, cioè, esatta corrispondenza, almeno nel suo nucleo essenziale, tra i fatti accaduti ed i fatti
narrati, senza omissioni che ne alterino il significato);
b) quello dell’utilità sociale dell’informazione;
c) quello della c.d. continenza espositiva (vengano, cioè, utilizzate modalità espressive dei fatti e/o della loro valutazione non
eccedenti rispetto allo scopo informativo da conseguire ed improntate a leale chiarezza, senza ricorso a toni sproporzionatamente
scandalizzati o sdegnati, insinuazioni, sottintesi od accostamenti
suggestionanti, ecc.).
Ovviamente, notizie lesive dell’altrui integrità morale possono Consenso
essere pubblicate anche in assenza dei presupposti appena indicati, se dell’avente
diritto
vi è l’assenso dell’avente diritto.
L’illegittima lesione dell’altrui diritto all’integrità morale ob- Le tutele
bliga il suo autore al risarcimento del danno — anche non patrimoniale (v. Cass. 15 giugno 2018, n. 15742) — sofferto dalla persona
offesa (artt. 2043 ss. c.c.; v. §§ 454 ss.). Il giudice, se ritiene che ciò
possa contribuire a riparare il danno, può ordinare la pubblicazione
della sentenza su uno o più giornali (art. 120 c.p.c.). Nel caso di
diffamazione a mezzo stampa, la persona offesa può chiedere — oltre
al risarcimento del danno — una somma a titolo di riparazione, da
commisurarsi alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato
(art. 12 L. 8 febbraio 1948, n. 47; v. Cass. 12 dicembre 2017, n. 29640;
v. § 466).
§ 66.
Diritto all’immagine.
A tutela del riserbo della persona, il « diritto all’immagine » Contenuto
importa il divieto, per i terzi, di esporre, pubblicare, mettere in del diritto
commercio il ritratto altrui — per tale intendendosi qualsiasi rappresentazione delle sue sembianze — senza il consenso, anche solo implicito, dell’interessato (art. 10 c.c.; art. 96, comma 1, L. aut.).
La giurisprudenza tende ad allargare l’ambito di applicabilità
della tutela dell’immagine fino a ricomprendervi anche la c.d. « maschera scenica » (cioè, la rappresentazione della persona attraverso
l’interpretazione di un attore), la figura del sosia (ad es., è vietato
l’uso del sosia di un noto attore per pubblicizzare un prodotto
142
L’attività giuridica
[§ 66]
commerciale), la rappresentazione di oggetti notoriamente usati da
un personaggio per caratterizzare la sua personalità (ad es., il copricapo a zucchetto di lana e gli occhialetti a binocolo usati da Lucio
Dalla).
Il consenso dell’effigiato vale — ovviamente — solo a favore di
Consenso
dell’effigiato
colui cui è stato prestato, per i fini e con le modalità indicate dal
consenziente, per il tempo da questi stabilito (così, ad es., è vietata la
pubblicazione su una rivista per soli uomini di immagini di nudo di
un’attrice, tratte dalle foto di scena di un suo film: v. Cass. 27 luglio
2015, n. 15769; Cass. 1 settembre 2008, n. 21995). La giurisprudenza
ritiene che il consenso alla pubblicazione della propria immagine
costituisca negozio unilaterale, avente ad oggetto non il diritto, personalissimo ed inalienabile, all’immagine, ma soltanto il suo esercizio;
con la conseguenza che esso è revocabile in ogni tempo, anche se
formalmente inserito in un contratto e concesso a fronte di un
compenso, salvo, in quest’ultimo caso, il diritto dell’altra parte al
risarcimento del danno (v. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748).
È, in ogni caso, consentita la diffusione dell’altrui immagine —
Non
necessità del
anche senza il consenso dell’interessato — quando la stessa è giusticonsenso
ficata:
a) dalla notorietà o dall’ufficio pubblico ricoperto dalla persona
ritratta (si pensi, ad es., alla diffusione dell’immagine del Presidente
della Repubblica mentre riceve un capo di Stato straniero); ovvero
b) da necessità di giustizia o di polizia (si pensi, ad es., alla
diffusione dell’immagine della persona scomparsa o ricercata); ovvero
c) da scopi scientifici, didattici o culturali; ovvero
d) dal collegamento a fatti, avvenimenti o cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico (art. 97, comma 1, L. aut.).
In ogni caso, la pubblicazione dell’altrui immagine senza il
consenso dell’interessato deve essere giustificata da esigenze di pubblica informazione, seppure intese in senso lato (v. Cass. 19 luglio
2018, n. 19311). Sicché le immagini della persona nota potranno
essere divulgate solo se correlate alle ragioni della sua notorietà (ad
es., è vietata, senza il suo consenso, la pubblicazione di fotografie di
un noto uomo politico ritratto nell’intimità familiare) e mai a fini di
sfruttamento economico (ad es., è vietato, senza il suo consenso,
l’utilizzo dell’immagine di un noto attore, cantante, calciatore per
pubblicizzare un prodotto commerciale; v. Cass. 29 gennaio 2016, n.
1748; Cass. 27 novembre 2015, n. 24221). Del pari, la diffusione
dell’immagine di una persona in relazione a fatti svoltisi in pubblico
è ammessa solo in presenza di circostanze che rivestano un apprez-
[§ 67]
Il soggetto del rapporto giuridico
143
zabile rilievo per la pubblica opinione (ad es., è vietata, senza il loro
consenso, la pubblicazione della fotografia di due privati cittadini che
escono in barca, seppure il fatto si sia svolto in pubblico; v. Cass. 11
maggio 2010, n. 11353).
In ogni caso, la pubblicazione dell’altrui immagine senza il
consenso dell’interessato è vietata, ove rechi pregiudizio all’onore,
alla reputazione od al decoro della persona ritratta (art. 97, comma 2,
L. aut.; v. Cass. 27 agosto 2015, n. 17211; Cass. 27 luglio 2015, n.
15763): divieto che, peraltro, cede di fronte al legittimo esercizio dei
diritti — costituzionalmente garantiti (art. 21 Cost.) — di cronaca e
critica giornalistica, a condizione che sussista uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica dell’essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza dell’informazione
fornita (v. Cass. 9 luglio 2018, n. 18006).
È pacificamente ammesso che il titolare possa consentire a terzi Atti
l’uso della propria immagine non solo a titolo gratuito (si pensi, ad dispositivi
es., al noto cantante che si presta altruisticamente come testimonial
di una campagna per la prevenzione dell’AIDS), ma anche a titolo
oneroso (si pensi, ad es., all’attore che presta la propria immagine per
la realizzazione di un film o di uno spot pubblicitario).
In ogni caso, i contratti aventi ad oggetto il diritto dell’utilizzazione dell’altrui immagine richiedono la forma scritta ad probationem
(v. § 127) ai sensi dell’art. 110 L. aut. (v. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748).
La lesione del diritto all’immagine obbliga il suo autore al Le tutele
risarcimento del danno — patrimoniale (v. Cass. 23 gennaio 2019, n.
1875) e non patrimoniale (v. Cass. 11 maggio 2010, n. 11353) —
sofferto dalla persona ritratta (artt. 2043 ss. c.c.). Il giudice può
altresì disporre qualsiasi provvedimento idoneo ad impedire la prosecuzione od il ripetersi dell’illecito (art. 10 c.c.).
La tutela apprestata (dall’art. 10 c.c. e dagli artt. 96 e 97 L. Diritto
aut.) per l’immagine riguarda solo l’esposizione e la pubblicazione all’immagine
e diritto alla
dell’altrui ritratto, non anche l’atto in sé del ritrarre — con la riservatezza
fotografia, il disegno, la pittura, ecc. — le sembianze di una persona.
In quest’ultimo caso viene in gioco il diritto alla riservatezza (v. § 67),
non quello all’immagine (v. Cass. 22 luglio 2014, n. 16647).
§ 67.
Dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali.
Pur in assenza di un’espressa previsione normativa, la giuri- Il diritto alla
sprudenza — intravedendo nelle previsioni dettate dagli artt. 13, 14 riservatezza
144
L’attività giuridica
[§ 67]
e 15 Cost., nonché dagli artt. 10 c.c., 96 e 97 L. aut. (v. § 66), 615-bis
c.p. (che sanziona il comportamento di « chiunque, mediante l’uso di
strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie
o immagini attinenti alla vita privata svolgentisi nei luoghi » di
privata dimora o nelle appartenenze di essi), ecc., altrettante espressioni particolari di un più generale diritto alla tutela dell’intimità
della sfera privata — aveva ritenuto che, tra i « diritti inviolabili
dell’uomo » riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., fosse da annoverare anche il c.d. « diritto alla riservatezza »; da intendersi quale potere
dell’interessato di vietare comportamenti di terzi volti a conoscere od
a far conoscere situazioni o vicende della propria vita personale o
familiare, anche se svoltesi al di fuori del recinto domestico, che non
avessero un interesse socialmente apprezzabile. L’intromissione nell’altrui sfera privata, senza il consenso dell’interessato, avrebbe
perciò dovuto ritenersi legittima solo in presenza di un interesse
pubblico attuale che la giustifichi (non diversamente da quanto accade
per la possibilità di divulgare l’altrui immagine in assenza del consenso del ritrattato: art. 97 L. aut.).
Peraltro, già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 12), il Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici (art. 17) e la CEDU (art. 8) avevano espressamente ricondotto quello all’intimità tra i diritti fondamentali della persona.
La
Ora, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
protezione
enuncia testualmente — all’art. 8 — il principio per cui « ogni
dei dati
personali: la persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che
tutela a la riguardano » (v. anche art. 16, par. 1, TFUE), con il corollario che
livello sovranazionale « tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per
finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o
a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha
il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne
la rettifica ».
La materia è oggi disciplinata dal Reg. (CE) 27 aprile 2016, n.
GDPR e
codice
2016/679/UE
(c.d. « GDPR », acronimo di General Data Protection
privacy
Regulation), e dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. « codice privacy »).
La relativa regolamentazione — ampiamente articolata, minuziosamente dettagliata, esasperatamente complessa (il solo GDPR
consta di ben 99 articoli!) — è dichiaratamente volta a far sì che il
« trattamento » dei « dati personali » abbia a svolgersi « nel rispetto
della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della
persona » interessata (art. 1 cod. privacy; v. anche art. 1, par. 2,
GDPR).
[§ 67]
Il soggetto del rapporto giuridico
145
Per « dato personale » si intende qualsiasi informazione — non Le nozioni di
dato
solo quelle relative alla vita privata, ma anche quelle relative all’at- «personale
»
tività professionale, economica, ecc. — che riguardi una persona
fisica identificata o identificabile, direttamente o indirettamente (art.
4, par. 1 n. 1, GDPR).
Per « interessato » si intende la persona fisica, cui i dati personali ... di
si riferiscono (art. 4, par. 1 n. 1, GDPR). La normativa in esame non « interessato »
trova, quindi, applicazione ai dati relativi ad enti, non importa se
pubblici o privati, se dotati o meno di personalità giuridica, ecc.
Per « trattamento » si intende qualsiasi operazione o insieme di ... di « trattaoperazioni — non importa se compiute o meno con l’ausilio di mento »
processi automatizzati — concernenti la raccolta, la registrazione,
l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o
la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione
mediante trasmissione ad uno o più soggetti determinati, la diffusione a favore di soggetti indeterminati o qualsiasi altra forma di
messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione,
la cancellazione o la distruzione di dati personali (art. 4, par. 1 n. 2,
GDPR).
Peraltro, la normativa in discussione non si applica ai trattamenti effettuati da persone fisiche per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale e domestico (si pensi, ad es., alla
tenuta di un’agendina telefonica) (art. 2, par. 2 lett. c, GDPR).
In questa sede non ci si può che limitare ad un’esposizione
sintetica e selettiva dei principi informatori della disciplina comunitaria e nazionale in tema, tralasciando le infinite eccezioni, varianti,
puntualizzazioni in essa contemplate.
Regole
In via generale, è previsto che:
a) l’interessato (non importa se i dati che lo riguardano siano generali:
raccolti presso di lui o presso terzi) venga previamente informato — l’informativa
in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, all’interessato
con un linguaggio semplice e chiaro, preferibilmente per iscritto —
circa (tra l’altro) le finalità del trattamento cui i dati sono destinati
(artt. 12, par. 1, 13 e 14 GDPR): c.d. « informativa all’interessato »;
b) il trattamento dei dati personali avvenga solo se vi è il ... il consenso
consenso espresso dell’interessato, che si ritiene validamente prestato al
trattamento
solo se: i) a quest’ultimo sia stata previamente resa l’informativa cui dei dati
si è appena fatto cenno; ii) sia manifestato liberamente, inequivocabilmente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, anche nelle finalità (artt. 4, par. 1 n. 11, 6, par. 1
lett. a, e 7 GDPR): c.d. « consenso al trattamento dati »;
146
L’attività giuridica
[§ 67]
c) l’interessato abbia diritto di ottenere da chiunque conferma
se lo stesso abbia o meno in corso un trattamento di dati personali
che lo riguardano e, in caso affermativo, di aver accesso e copia di
detti dati, con indicazione delle finalità del trattamento, delle categorie di dati personali oggetto di trattamento, dei destinatari cui i
dati personali sono stati o saranno comunicati, la fonte da cui gli
stessi sono stati raccolti, ecc. (art. 15 GDPR): c.d. « diritto di accesso »;
... il diritto
d) l’interessato abbia diritto di ottenere, senza ingiustificato
di rettifica
ritardo, la rettifica dei dati personali inesatti che lo riguardano, così
come l’integrazione dei dati personali incompleti, anche fornendo
una dichiarazione integrativa (art. 16 GDPR): c.d. « diritto di rettifica »;
... il diritto
e) l’interessato abbia diritto di ottenere, senza ingiustificato
all’oblio
ritardo, la cancellazione dei dati personali che lo riguardano, (tra
l’altro) quando non più necessari rispetto alle finalità per le quali
sono stati raccolti o altrimenti trattati, ovvero quando il consenso
che legittima il trattamento venga revocato, sempre che non sussista
altro fondamento giuridico per lo stesso, ecc. (art. 17 GDPR): c.d. «
diritto all’oblio »;
... le
f) i dati personali debbano essere: (i) trattati in modo lecito,
modalità del
corretto
e trasparente (cc.dd. « liceità, correttezza e trasparenza »); (ii)
trattamento
raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo non incompatibile con tali finalità (c.d. «
limitazione della finalità »); (iii) adeguati, pertinenti e limitati a
quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati (c.d.
« minimizzazione dei dati »); (iv) esatti e, se necessario, aggiornati (c.d.
« esattezza »); (v) conservati per un arco di tempo non superiore al
conseguimento delle finalità per le quali sono trattati (c.d. « limitazione della conservazione »); (vi) trattati in maniera da garantire
un’adeguata sicurezza dei dati personali, compresa la protezione,
mediante misure tecniche e organizzative adeguate, da trattamenti
non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno
accidentali (c.d. « integrità e riservatezza ») (art. 5 GDPR). Per una
miglior definizione dei limiti di liceità del trattamento dei dati
personali nei singoli settori, dev’essere incoraggiata l’elaborazione di
appositi « codici di condotta » (artt. 40 ss. GDPR; art. 2-quater cod.
privacy): il rispetto delle disposizioni in essi contenute costituisce
condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento
dei dati personali (art. 2-quater, comma 4, cod. privacy);
g) particolari cautele circondino il trattamento di categorie
... i c.d. « dati
sensibili »
particolari di dati personali; in particolare: (i) quelli che rivelino
l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni reli... il diritto
di accesso
[§ 67]
Il soggetto del rapporto giuridico
147
giose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale; (ii) dei dati genetici
(per tali intendendosi quelli relativi alle caratteristiche genetiche
ereditarie o acquisite di una persona fisica che forniscono informazioni univoche sulla fisiologia o sulla salute di detta persona fisica,
e che risultano in particolare dall’analisi di un campione biologico
della persona fisica in questione); (iii) dei dati biometrici (per tali
intendendosi quelli ottenuti da un trattamento tecnico specifico
relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di
una persona fisica, che ne consentono o confermano l’identificazione
univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici); (iv) dei
dati relativi alla salute (per tali intendendosi quelli attinenti alla
salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione
di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative
al suo stato di salute) o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale
della persona (art. 9 GDPR; artt. 2-sexies e 2-septies cod. privacy);
(v) dei dati personali relativi alle condanne penali e ai reati o a
connesse misure di sicurezza (art. 10 GDPR; art. 2-octies cod.
privacy);
h) siano messe in atto — tenendo conto dello stato dell’arte e ... la sicurezza
dei costi di attuazione, nonché della natura, dell’oggetto, del contesto dei dati
e delle finalità del trattamento, come anche del rischio di varia
probabilità e gravità per i diritti e le libertà delle persone fisiche —
misure tecniche ed organizzative adeguate per garantire un livello di
sicurezza adeguato al rischio (art. 32 GDPR): c.d. « diritto alla sicurezza dei dati personali ».
Disposizioni particolari vengono poi dettate in relazione a trat- Regimi
tamenti effettuati in settori specifici (ad es., in ambito sanitario: artt. particolari
75 ss. cod. privacy; nell’ambito del rapporto di lavoro: artt. 111 ss.
cod. privacy; in ambito giornalistico: artt. 136 ss. cod. privacy; ecc.),
ovvero per determinate finalità (ad es., a fini di archiviazione nel
pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici:
artt. 97 ss. cod. privacy), ovvero ancora facendo ricorso a strumenti
elettronici (ad es., trattamenti connessi alla fornitura di servizi di
comunicazione elettronica: artt. 121 ss. cod. privacy); ecc.
Con ampi poteri di controllo, regolamentazione, denuncia e L’Autorità
sanzione in ordine al trattamento dei dati personali, è istituita garante
un’apposita « Autorità Garante per la protezione dei dati personali »,
(artt. 51 ss. GDPR e artt. 153 ss. cod. privacy).
Chi si ritenga vittima di un illecito trattamento dei propri dati Le tutele
personali può, per ottenere tutela, rivolgersi — in via alternativa
(art. 140-bis cod. privacy) — o al Garante (artt. 77 ss. DGPR; artt.
141 ss. cod. privacy) o all’Autorità giudiziaria ordinaria (art. 152 cod.
L’attività giuridica
148
[§ 68]
privacy). A quest’ultima può altresì richiedere la condanna dell’autore dell’illecito al risarcimento del danno, anche non patrimoniale
(art. 82 GDPR).
Il rispetto delle regole relative al trattamento dei dati personali
è, inoltre, presidiato da sanzioni penali (artt. 167 ss. cod. privacy) e da
sanzioni amministrative pecuniarie, che possono raggiungere anche
livelli molto elevati (art. 83 GDPR; art. 166 cod. privacy).
§ 68.
Diritto all’identità personale.
La giurisprudenza annovera tra i diritti inviolabili di cui all’art.
2 Cost. anche il « diritto all’identità personale » (v. Cass. 9 luglio 2018,
n. 18006; Cass., sez. un., 25 gennaio 2017, n. 1946): il diritto, cioè, di
ciascuno a vedersi rappresentato con i propri reali caratteri, senza
travisamenti della propria storia, delle proprie idee, della propria
condotta, del proprio stile di vita, del proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale, ecc. (ad es., illegittimo è attribuire ad un soggetto orientamenti politici diversi da quelli effettivamente condivisi).
Identità
Il diritto all’identità personale si distingue dal diritto alla riserpersonale e
vatezza: quest’ultimo è il diritto a non vedere rappresentati alriservatezza:
differenze l’esterno profili della propria personalità e della propria vita privata;
quello all’identità personale è il diritto a che i profili della propria
personalità e della propria vita — nella misura in cui possono essere
legittimamente rappresentati all’esterno — lo siano nel rispetto del
principio della verità, evitando false prospettazioni.
Identità
Il diritto all’identità personale si distingue, altresì, dal diritto
personale ed
all’integrità morale: quest’ultimo è il diritto a non vedersi attribuiti
integrità
morale: fatti ed a non essere oggetto di valutazioni suscettibili di creare
differenze
attorno alla persona un giudizio di disvalore; quello all’identità
personale è il diritto a che i profili della propria personalità — anche
non lesivi dell’onore, della reputazione, del decoro — vengano divulgati solo nel rispetto del principio di verità. L’esigenza di tutela
dell’identità personale non viene meno, perciò, neppure nell’ipotesi
in cui il travisamento dell’altrui personalità risulti per così dire
« migliorativo », conferendo all’individuo — contrariamente al vero
— tratti e caratteri generalmente considerati espressione di valori
positivi.
Fonti e
contenuto
[§ 69]
Il soggetto del rapporto giuridico
149
C) GLI ENTI
§ 69.
Gli enti: soggettività giuridica e personalità giuridica.
Come già si è detto, nel nostro ordinamento « soggetti » di diritto Gli enti
(cioè, titolari di situazioni giuridiche soggettive) sono — oltre che le
« persone fisiche » — anche gli « enti ».
Ciò significa che un bene (ad es., un appartamento) può far capo
direttamente all’ente in quanto tale (v., ad es., gli artt. 822 ss. c.c.,
secondo cui i beni possono appartenere allo Stato, alle province, ai
comuni); che la responsabilità per un atto illecito (ad es., per il
ferimento di un passante travolto sulle strisce pedonali) può far capo
direttamente all’ente in quanto tale (v., ad es., l’art. 28 Cost., secondo
cui la responsabilità civile dei propri funzionari e dipendenti si
estende allo Stato: sicché, se un’auto dei carabinieri investe un
pedone sulle strisce pedonali, dei relativi danni sarà chiamato a
rispondere lo Stato); che un contratto può intercorrere direttamente
con l’ente in quanto tale (v., ad es., i contratti bancari, che vedono
come parte una banca; o i contratti di assicurazione, che vedono
come parte una compagnia di assicurazione); ecc.
È dunque dotata di soggettività giuridica quell’organizzazione Soggettività
cui l’ordinamento attribuisce la capacità — c.d. capacità giuridica — giuridica
di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive (ad es., la proprietà, il credito, il debito, la responsabilità patrimoniale, ecc.) di
contenuto sostanzialmente analogo rispetto a quello delle situazioni
giuridiche accessibili alla persona fisica.
È ben vero che in rerum natura gli interessi sostanziali non
possono far capo che agli uomini, alle persone fisiche (così, ad es.,
quando si dice che è stata offesa la reputazione di un’associazione, si
vuol in realtà dire che è stata lesa la reputazione dei suoi membri in
quanto tali, e non come singoli). Non è men vero tuttavia che la legge
talora tutela detti interessi come se gli stessi facessero capo non già
agli individui uti singuli, ma al gruppo (così, per restare al nostro
esempio, quando viene offesa la reputazione dei membri di un’associazione in quanto tali, la reazione giudiziaria è consentita non già al
singolo, bensì al gruppo cui, appunto, l’ordinamento attribuisce
soggettività giuridica).
Peraltro, l’attribuzione agli enti di detta soggettività finisce con
il farli divenire delle entità che operano nel contesto sociale con
un’identità ed un ruolo distinti da quelli dei loro componenti (si
pensi, ad es., allo Stato, ai comuni, ai partiti, ai sindacati, alle grandi
società per azioni, ecc.): al punto che l’interesse dei singoli non
150
L’attività giuridica
[§ 69]
sempre coincide con quello del gruppo (così, ad es., mentre il socio
investitore ha interesse ad un’immediata distribuzione di alti dividendi, la società ha interesse ad autofinanziarsi mediante la non
distribuzione degli utili conseguiti).
Non deve confondersi con quella di « ente giuridico » — di ente,
Personalità
giuridica
cioè, dotato di soggettività giuridica — la nozione di « persona
giuridica ». Così come non deve confondersi con quella di « soggettività
giuridica » la nozione di « personalità giuridica ».
Le nozioni di « persona » e di « personalità giuridica » sono,
infatti, più ristrette rispetto a quelle, rispettivamente, di « ente giuridico » e di « soggettività giuridica ».
Si dicono, infatti, dotati di personalità giuridica solo quegli enti
che godono di autonomia patrimoniale perfetta: quegli enti, cioè, che —
non solo hanno, come tutti, un loro patrimonio — ma, al pari della
persona fisica, rispondono delle loro obbligazioni solo con detto patrimonio (si pensi, ad es., alle società di capitali in contrapposizione alle
società di persone: v. §§ 512 ss. e 518 ss.; alle associazioni riconosciute
in contrapposizione alle associazioni non riconosciute: v. §§ 73 e 74).
Gli enti, ovviamente, non possono agire — ad es., decidere se
Gli organi
acquistare o meno un determinato bene; una volta deciso l’acquisto,
stipulare il relativo contratto; ecc. — che attraverso persone fisiche,
che fanno parte della loro struttura organizzativa: dette persone —
che, proprio per questo, si dicono « organi » dell’ente — esercitano, in
buona sostanza, la stessa funzione che il cervello, la bocca, ecc., esercitano nella formazione e nella manifestazione del pensiero dell’uomo
singolo.
Seppure i loro interessi vengano, in concreto, gestiti da altri
Capacità
d’agire degli
soggetti — non diversamente da quel che abbiamo visto accadere per
enti
le persone fisiche incapaci (ad es., per il minore, i cui interessi sono
gestiti dai genitori o dal tutore) — si ritiene che gli enti non siano
privi di capacità d’agire. Invero — così come l’organo intellettivo e
volitivo, o l’organo fonetico non si distinguono dall’uomo, ma sono
parte di lui — del pari gli organi dell’ente sono parte di esso. In
quest’ottica, deve escludersi che gli enti siano incapaci d’agire; anzi,
essi non incontrano neppure quelle limitazioni alla capacità d’agire
che, con riferimento alla persona fisica, dipendono — come abbiamo
visto — dall’età ovvero da infermità psichiche: fenomeni, ovviamente, inconcepibili con riferimento agli enti.
Organi
Gli organi dell’ente si distinguono in esterni ed interni, a seconda
esterni ed
che abbiano o meno il potere di rappresentanza dell’ente: il potere,
organi
interni cioè, di assumere impegni con terzi (ad es., contrarre un mutuo,
assumere un dipendente; ecc.) in nome e per conto dell’ente stesso.
[§ 70]
Il soggetto del rapporto giuridico
151
Al riguardo, occorre aver ben chiara la distinzione tra poteri di Gestione e
gestione (interna) e poteri di rappresentanza (esterna): il potere di ge- rappresentanza
stione è il potere di decidere una determinata operazione (ad es., se
acquistare o meno un macchinario); il potere di rappresentanza è il
potere di porre in essere, in nome e per conto dell’ente, l’operazione
decisa (ad es., stipulare con il venditore il contratto di acquisto del
macchinario). Non sempre detti poteri sono attribuiti al medesimo
organo: così, ad es., nella società per azioni il potere di gestione compete
in via esclusiva, di regola, al consiglio di amministrazione, mentre il
potere di rappresentanza compete a quei soli amministratori (ad es.,
il presidente e/o l’amministratore delegato) cui tale potere sia espressamente conferito (artt. 2380-bis e 2384 c.c.; v. § 530).
§ 70.
Classificazione degli enti.
All’interno della categoria degli enti, occorre innanzitutto distinguere tra « enti pubblici » — o, come si esprime la rubrica dell’art.
11 c.c., « persone giuridiche pubbliche » — ed « enti privati ».
Tra i primi rientrano non solo lo Stato e gli altri enti territoriali Enti pubblici
(regioni, città metropolitane, province e comuni) (art. 114, comma 1
e 2, Cost.), ma anche tutta una serie di altri enti — ad es., Comunità
montane, aziende sanitarie locali (ASL), Banca d’Italia, INPS,
INAIL, ACI, ISTAT, CONI, Camere di commercio, industria, agricoltura ed artigianato (C.C.I.A.A.), Agenzia delle Entrate, Agenzia
del demanio, Ordini e Collegi professionali, Università statali, ecc. —
con finalità varie e strutture differenti.
Dopo un lungo periodo in cui si è assistito alla moltiplicazione Il fenomeno
privadegli enti pubblici, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso la delle
tizzazioni
tendenza si è invertita: fenomeno delle c.d. « privatizzazioni ». Molti
enti pubblici sono stati trasformati in società per azioni (si pensi, ad
es., a Ferrovie dello Stato Italiane s.p.a., il cui socio unico è il
Ministero dell’Economia e delle Finanze; ad ANAS s.p.a., il cui socio
unico è Ferrovie dello Stato Italiane s.p.a.), talora in previsione della
collocazione delle relative partecipazioni azionarie presso il pubblico
dei risparmiatori (si pensi, ad es., ad ENI s.p.a., ad ENEL s.p.a., a
Poste Italiane s.p.a., che — oggi — sono società quotate in borsa).
Da sempre discussi sono i criteri in forza dei quali distinguere un Enti pubblici
ed enti
ente pubblico da un ente privato.
privati: criteri
Al riguardo, la giurisprudenza aveva elaborato tutta una serie distintivi
di « indici di riconoscibilità » della natura pubblica di un ente: istituzione per legge; istituzione da parte dello Stato o di altro ente
152
L’attività giuridica
[§ 70]
pubblico; esistenza di un potere di indirizzo in capo allo Stato o ad
altro ente pubblico; assoggettamento al controllo o all’ingerenza (ad
es., per quel che riguarda la nomina o la revoca degli organi di
vertice) da parte dello Stato o di altro ente pubblico; attribuzione di
poteri autoritativi; partecipazione dello Stato e di altro ente pubblico
alle spese di gestione; fruizione di agevolazioni o privilegi tipici della
P.A.; ecc. (v. Cons. Stato 28 giugno 2012, n. 3820). In realtà, anche
l’applicazione di detti indici non sempre porta a risultati pienamente
soddisfacenti, specie oggi, di fronte alla tendenza ad attribuire compiti di natura pubblicistica a soggetti aventi formalmente natura
privatistica (v. Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283; Cons.
Stato 24 maggio 2013, n. 2829, che si è pronunciato per la natura
pubblica di ANAS s.p.a.).
Ciò induce la più recente giurisprudenza — anche in ragione
dell’influenza del diritto comunitario — a ritenere che « la nozione di
ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non possa ritenersi
fissa ed immutevole. Non può ritenersi, in altri termini, che il
riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per
la pubblica amministrazione. Al contrario, l’ordinamento si è ormai
orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico. Si
ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la
natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti e possa,
invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti
regimi normativi di natura privatistica » (così, testualmente, Cons.
Stato 26 maggio 2015, n. 2660; e, da ultimo, Cons. Stato 11 luglio
2016, n. 3043; Cons. Stato 1 giugno 2016, n. 2326).
Il diritto
Gli enti pubblici — se, almeno di regola, possono operare
privato degli
attraverso l’esercizio di poteri pubblicistici (ad es., il comune può,
enti pubblici
anche contro la volontà del suo attuale proprietario, autoritativamente espropriare un’area da destinare alla realizzazione di una
piscina pubblica: v. § 133) — possono tuttavia avvalersi, come
qualsiasi cittadino, di strumenti privatistici (ad es., il comune, al fine
di acquisire la proprietà dell’area per la realizzazione della piscina,
può stipulare un contratto di compravendita con il suo attuale
proprietario).
Invero, le norme di diritto privato trovano applicazione anche
nei confronti degli enti pubblici, salvo che non sia diversamente
previsto (così, ad es., ai contratti di appalto stipulati dalla P.A. si
applicano le norme di cui agli artt. 1655 ss. c.c., ove non derogate
dalle norme speciali in tema di pubblici appalti), ovvero vi sia
[§ 70]
Il soggetto del rapporto giuridico
153
incompatibilità con la natura peculiare del soggetto pubblico (così,
ad es. — mentre per i contratti fra privati vale, di regola, il principio
per cui non è richiesta alcuna forma particolare: v. § 105 — per i
contratti di cui è parte una P.A. vale, di regola, l’opposto principio
della necessità della forma scritta; e ciò, in ossequio alle prevalenti
esigenze di certezza e pubblicità cui deve essere improntata l’azione
amministrativa: v. Cass., sez. un., 22 marzo 2010, n. 6827; e, da
ultimo, Cass. 30 gennaio 2018, n. 1549; ma v. ora Cass., Sez. un., 9
agosto 2018, n. 20684).
Venendo ora agli enti privati, occorre innanzitutto rilevare che, Enti privati
al loro interno, è opportuno distinguere tra:
a) enti registrati (ad es., associazioni riconosciute, fondazioni, ... registrati e
ecc. iscritte nel registro delle persone giuridiche tenuto presso cia- non
scuna prefettura ex art. 3 D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; società
iscritte nel registro delle imprese tenuto presso ciascuna camera di
commercio ex art. 7 D.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581: v. § 484) ed enti
non registrati (ad es., associazioni non riconosciute, società di fatto,
società irregolari, ecc.): le vicende relative ai primi risultano, a
differenza di quelle relative ai secondi, da un pubblico registro,
accessibile a chiunque ne faccia richiesta;
b) enti dotati di personalità giuridica (ad es., associazioni ricono- ... con e senza
sciute, fondazioni, società di capitali, ecc.) ed enti privi di personalità personalità
giuridica
giuridica (ad es., associazioni non riconosciute, comitati non riconosciuti, società di persone, ecc.): i primi godono — come si è detto — di
autonomia patrimoniale perfetta, che difetta invece ai secondi;
c) enti a struttura associativa (ad es., associazioni, comitati, ... a struttura
ed
società non unipersonali, consorzi, ecc.) ed enti a struttura istituzio- associativa
a struttura
nale (ad es., fondazioni): i primi danno vita ad un’organizzazione istituzionale
stabile di più soggetti per l’esercizio di un’attività volta al perseguimento di uno scopo comune (si pensi, ad es., ad un partito politico,
i cui iscritti mirano ad affermare, attraverso un’azione congiunta,
una determinata linea programmatica; ad una società, i cui soci
mirano alla realizzazione, attraverso l’esercizio di un’attività economica in comune, di utili da distribuire al loro interno); i secondi
danno vita ad un’organizzazione stabile per la gestione di un patrimonio, finalizzata al perseguimento di scopi altruistici (si pensi, ad
es., alla fondazione istituita con il compito di amministrare un
patrimonio, le cui rendite sono destinate a finanziare borse di studio
per studenti di non agiate condizioni economiche);
d) enti con finalità economiche, per tali intendendosi quelli ... con e senza
aventi come scopo la ripartizione tra i partecipanti degli utili conse- finalità
economiche
guiti attraverso l’attività svolta dall’ente stesso (ad es., le società
L’attività giuridica
154
[§ 71]
lucrative: v. §§ 512 ss.), ovvero la fruizione di altri vantaggi economici
connessi all’attività dell’ente (ad es., le società cooperative: v. § 556);
ed enti senza finalità economiche, per tali intendendosi quelli in cui è
statutariamente esclusa la ripartizione tra i partecipanti di utili o di
altri vantaggi economici eventualmente conseguiti attraverso l’attività dell’ente (ad es., le associazioni e le fondazioni).
Gli enti con finalità economiche sono dal nostro codice civile
disciplinati nel libro quinto (artt. 13 e 2247 ss. c.c.), in quanto, di
regola, svolgono attività d’impresa (art. 2082 c.c.: v. §§ 475 ss.). Gli
enti senza finalità economiche sono, invece, dal nostro codice civile
disciplinati nel libro primo (artt. 14 ss. c.c.).
Seguendo l’impostazione codicistica, dei primi tratteremo allorquando affronteremo il tema dell’impresa (v. §§ 504 ss.); dei secondi
parleremo subito.
Enti senza
Tra gli enti privati senza finalità economiche, la legge annovera
finalità
espressamente:
economiche
a) le associazioni, riconosciute (artt. 14 ss. c.c.) e non (artt. 36
ss. c.c.);
b) le fondazioni (artt. 14 ss. c.c.);
c) i comitati, riconosciuti e non (artt. 39 ss. c.c.);
d) le altre istituzioni di carattere privato (art. 1, comma 1, D.P.R.
n. 361/2000; v. anche art. 4, comma 1, D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117: c.d.
« codice del Terzo settore »).
L’art. 42-bis c.c. prevede ora espressamente che — al pari di
quanto consentito alle società (v. §§ 552, 553 e 554) — anche le
associazioni riconosciute e non riconosciute e le fondazioni possano «
operare reciproche trasformazioni, fusioni e scissioni ».
§ 71.
Il fenomeno
associativo ...
Il fenomeno associativo.
La tradizione liberal-ottocentesca guardava con generalizzata
diffidenza al fenomeno degli enti senza finalità economiche: da un
lato, i c.d. « corpi intermedi » — con la loro tendenza a porsi come
centri di aggregazione di interessi ideali, religiosi, politici, sindacali,
ecc. — venivano considerati come un ostacolo a quel rapporto diretto
tra cittadino e Stato che costituiva uno dei capisaldi della filosofia
politica liberale; da altro lato, diffuso era il timore che l’accumulo di
patrimoni, specie immobiliari, nelle mani di organizzazioni operanti
secondo logiche diverse da quella tipicamente lucrativa potesse risolversi in un loro inefficiente utilizzo, con conseguenze negative sul
piano del benessere collettivo e dello sviluppo economico.
[§ 71]
Il soggetto del rapporto giuridico
155
Il clima autoritario nel quale venne concepita la vigente codi- ... nel codice
ficazione spiega il permanere di un disegno politico complessivo volto civile
a contenere e controllare il fenomeno associativo.
Per quest’ultimo, il codice veniva a predisporre due distinti
modelli organizzativi: quello dell’« associazione riconosciuta » (artt. 14
ss. c.c.) e quello dell’« associazione non riconosciuta » (artt. 36 ss. c.c.).
Il riconoscimento — sostanzialmente rimesso, nell’originaria impostazione codicistica, ad una valutazione discrezionale dell’autorità governativa — avrebbe fatto acquisire all’ente una posizione giuridica
ben più favorevole rispetto a quella riservata agli organismi che detto
riconoscimento non avessero richiesto od ottenuto.
Invero:
a) alle associazioni non riconosciute erano preclusi sia gli acquisti
mortis causa (art. 600 c.c., oggi abrogato), sia quelli a titolo di donazione
(art. 786 c.c., oggi abrogato), sia — si riteneva — quelli immobiliari,
quand’anche a titolo oneroso; acquisti accessibili, invece, alle associazioni riconosciute, seppure subordinatamente all’ottenimento di apposita autorizzazione governativa (art. 17 c.c., oggi abrogato);
b) nelle associazioni non riconosciute, l’ordinamento interno ed
i rapporti tra associazione ed associati venivano rimessi integralmente agli « accordi degli associati » (art. 36, comma 1, c.c.); mentre
nelle associazioni riconosciute i medesimi profili venivano fatti oggetto di specifica regolamentazione normativa (artt. 18 ss. c.c.), in
buona misura inderogabile, anche a tutela dell’associato all’interno
del gruppo (v. art. 24 c.c.).
L’obiettivo era quello di consentire all’autorità governativa di
selezionare — tramite la concessione o il diniego del riconoscimento
— gli enti collettivi volta a volta ritenuti meritevoli di tutela. Questi
ultimi avrebbero potuto sì assumere dimensioni di una certa rilevanza sia economica che sociale, ma — in compenso — sarebbero
stati assoggettati al controllo pubblico. Gli altri enti collettivi — si
pensava — avrebbero avuto una posizione marginale: nella categoria
degli enti non riconosciuti si ipotizzava sarebbero confluite quelle
realtà talmente modeste da non necessitare di particolari controlli da
parte del regime.
Scenario del tutto diverso è quello delineato dalla Costituzione ... nella
Costituzione
repubblicana del 1948.
repubblicana
Innanzitutto, l’art. 18, comma 1, Cost. proclama solennemente
che « I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione ». Principio ribadito dall’art. 19 Cost., con riferimento alle associazioni religiose; dall’art. 39, comma 1, Cost., con riferimento alle
associazioni sindacali; dall’art. 49 Cost., con riferimento ai partiti.
156
L’attività giuridica
[§ 71]
In secondo luogo — nel tracciare il disegno di una società
pluralista — la Carta costituzionale individua proprio negli enti
associativi lo strumento privilegiato per la partecipazione dei cittadini alla vita politica (art. 49 Cost.) e sindacale (art. 39 Cost.), per la
professione del proprio credo religioso (art. 19 Cost.), per la realizzazione delle rispettive inclinazioni e la crescita della personalità di
ciascuno (art. 2 Cost.).
In terzo luogo — senza distinguere tra associazioni riconosciute
e non riconosciute — la Costituzione affida alla Repubblica l’impegno di riconoscere e garantire « i diritti inviolabili dell’uomo », anche
all’interno delle « formazioni sociali » (art. 2 Cost.): per tali intendendosi tutte quelle organizzazioni collettive (ad es., anche la famiglia)
cui l’individuo può trovarsi ad appartenere; e, tra queste, anche le
associazioni.
Evidente è, rispetto all’impostazione codicistica, il ribaltamento
di prospettiva: le organizzazioni collettive vengono viste non più
come fenomeni da controllare o emarginare, bensì come realtà non
solo da tutelare, ma anche da promuovere, costituendo esse strumento di sviluppo della personalità dei singoli e di partecipazione
degli stessi alla vita politica e sociale del Paese.
Tale ribaltamento di prospettiva non è stato — come vedremo
tra poco — senza conseguenze anche sul piano della stessa interpretazione e applicazione della disciplina dal codice dettata in tema di
associazione non riconosciuta.
Dal canto suo, la realtà sociale si è incaricata di smentire
Fenomeno
associativo e
clamorosamente le aspettative del legislatore del 1942.
realtà sociale
Invero, tra le due forme giuridiche — quella dell’« associazione
riconosciuta » e quella dell’« associazione non riconosciuta » — apprestate per il fenomeno associativo, quest’ultimo ha decisamente optato per la seconda: veste di associazione non riconosciuta hanno,
infatti, assunto non solo organizzazioni marginali o destinate ad
operare in ambito locale (ad es., circoli ricreativi, centri sportivi,
ecc.), ma anche le maggiori organizzazioni collettive del Paese (ad es.,
partiti, sindacati, organizzazioni di categoria, ecc.), destinate a giocare un ruolo centrale nella vita pubblica.
Determinante, in questa scelta, è stata — almeno all’origine —
la volontà di evitare il rischio di intrusioni, da parte dello Stato, nella
vita interna dell’ente: a tal fine, ci si è avvalsi proprio della previsione
codicistica che, con riferimento alle associazioni non riconosciute,
rimette integralmente all’autonomia degli associati la regolamentazione dell’organizzazione interna e dei rapporti c.d. endoassociativi
(art. 36, comma 1, c.c.).
[§ 72]
Il soggetto del rapporto giuridico
157
Emblematica, al riguardo, è la vicenda dei sindacati, che — pur
di sottrarsi a quel controllo in punto di « democraticità » del proprio
ordinamento interno, previsto dall’art. 39, comma 3, Cost. — hanno
rinunciato alla « registrazione » e, con essa, alla possibilità di stipulare
contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce, secondo
il meccanismo contemplato dallo stesso art. 39 Cost.
§ 72.
Associazione e società.
L’associazione — come già anticipato — è un’organizzazione L’associazione
ente
collettiva che ha come scopo il perseguimento di finalità non econo- quale
non profit
miche: essa costituisce, quindi, tipico ente c.d. « non profit ».
Proprio in ciò, l’associazione si distingue dalla società (v. §§ 504 Associazione
ss.). Quest’ultima — pur essendo, al pari dell’associazione, una e società
organizzazione collettiva con comunione di scopo (in cui, cioè, i
membri mirano alla realizzazione di uno scopo comune) — è infatti
caratterizzata o da uno scopo lucrativo, cioè dallo scopo di dividere
tra i partecipanti gli utili conseguiti attraverso l’esercizio in comune
di un’attività economica (c.d. società lucrativa: art. 2247 c.c.; v. §
509); ovvero da uno scopo mutualistico, cioè dallo scopo di attribuire
ai partecipanti vantaggi pur sempre di natura economica (c.d. società
cooperativa: art. 2511 c.c.; v. § 556).
Nell’associazione, invece, sono precluse sia la ripartizione tra gli Esclusione,
associati degli utili eventualmente realizzati attraverso l’esercizio nelle
associazioni,
dell’attività dell’ente, sia l’attribuzione agli stessi di vantaggi atti a del lucro
soddisfare un loro interesse di natura economica: esclusione del c.d. soggettivo
« lucro soggettivo » (v. Cass. 8 marzo 2013, n. 5836).
Non è tuttavia escluso che gli associati possano trarre, seppure
solo indirettamente, vantaggi economici dall’agire dell’associazione
(si pensi, ad es., ai lavoratori che beneficiano delle conquiste salariali
del sindacato, ma non in quanto iscritti, bensì in forza dei contratti
individuali di lavoro da ciascuno stipulati con il proprio datore); così
come non è escluso che gli associati possano fruire, tramite l’associazione, di servizi suscettibili di valutazione economica (si pensi, ad es.,
agli iscritti al circolo del tennis, ammessi a fruire dei campi di gioco,
della club house, degli insegnamenti dei maestri, ecc.), sempre che
detti servizi risultino funzionali al soddisfacimento di un loro interesse ideale (nel nostro esempio, l’interesse all’esercizio di un’attività
sportiva ed all’utilizzo del tempo libero).
158
L’attività giuridica
[§ 72]
Da segnalare che il D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 112 — nel disciplinare ex novo la c.d. « impresa sociale » (v. §§ 78 e 482), per tale
intendendosi quella che « esercita in via stabile e principale una o più
attività d’impresa di interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale » (art. 1, comma 1,
D.Lgs. n. 112/2017) nell’ambito di settori specifici indicati dallo
stesso legislatore (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 112/2017; ma v. anche
il successivo comma 2) — consente che la stessa possa essere gestita
« senza scopo di lucro », quand’anche esercitata « nelle forme di cui al
libro V del codice civile »: cioè, in forma di società lucrativa o
mutualistica (v. § 509). Con la conseguenza che tali ultime società
sono ammesse — al pari degli enti di cui al libro I del codice civile —
a gestire attività d’impresa « senza scopo di lucro » soggettivo.
Da ultimo — inserendo un ulteriore tassello al più ampio
Società
benefit
mosaico di interventi normativi volti a favorire e promuovere la c.d.
« responsabilità sociale dell’impresa » (v., ad es., art. 25, comma 4,
D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, in tema di « start-up a vocazione
sociale »; L. 18 maggio 2015, n. 141, in tema di « agricoltura sociale »)
— la L. 28 dicembre 2015, n. 208, ha dischiuso alle società disciplinate nel libro V del codice civile la possibilità di perseguire, oltre allo
scopo (lucrativo o mutualistico) loro proprio, anche « finalità di beneficio comune », operando « in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti delle persone, comunità, territori e ambiente,
beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori
di interesse » (per tali intendendosi, ad es., lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile)
(art. 1, comma 376 e 378 lett b, L. n. 208/2015): c.d. « società benefit »
(SB), che — come è facile intendere — vengono così a collocarsi in
un’area intermedia fra quella del profit e quella del non profit.
Un’ultima osservazione: non deve confondersi lo scopo perseScopo ed
attività
guito dall’ente con l’attività dallo stesso svolta per realizzarlo.
Per quanto riguarda le associazioni, è ormai pacificamente
Associazione
ed attività
acquisito
che le stesse, al pari delle società, possono svolgere attività
d’impresa
economica di produzione o scambio di beni o di servizi: cioè, attività di
impresa (art. 2082 c.c.; v. § 476). E possono svolgerla non solo in via
secondaria, al fine di procurarsi entrate da destinare al perseguimento
del loro scopo ideale (si pensi, ad es., all’associazione sportiva che, per
finanziare la propria attività, commercializzi gadgets legati ai colori
della propria squadra); ma anche in via principale o, addirittura,
esclusiva (si pensi, ad es., all’associazione concertistica che, al fine di
diffondere la cultura musicale, organizzi spettacoli, a pagamento,
aperti al pubblico). Essenziale è solo che sia statutariamente escluso
L’impresa
sociale
[§ 73]
Il soggetto del rapporto giuridico
159
il c.d. « lucro soggettivo »: cioè, che gli utili, eventualmente conseguiti
tramite l’esercizio di dette attività, possano essere distribuiti tra gli
associati (v. Cass. 8 marzo 2013, n. 5836; Cass. 24 marzo 2011, n.
6853).
§ 73.
L’associazione riconosciuta.
L’« associazione riconosciuta » prende vita in forza di un atto di Atto
autonomia — un vero e proprio contratto, secondo l’opinione preva- costitutivo
lente (v. Cass. 26 luglio 2007, n. 16600) — tra i fondatori (c.d. atto
costitutivo), che deve rivestire la forma dell’atto pubblico (art. 14,
comma 1, c.c.) (v. § 125), normalmente notarile.
L’atto costitutivo — oltre alla manifestazione della volontà dei Statuto
fondatori di dar vita all’associazione — deve contenere le seguenti
indicazioni: denominazione dell’ente; scopo, patrimonio e sede;
norme sull’ordinamento e sull’amministrazione; diritti ed obblighi
degli associati; condizioni di ammissione all’associazione (art. 16,
comma 1, c.c.). Tali previsioni possono essere contenute in un documento separato, rispetto all’atto costitutivo, detto « statuto ».
Atto costitutivo e statuto devono essere presentati alla prefettura nella cui provincia è stabilita la sede dell’ente, unitamente alla
richiesta di riconoscimento dell’associazione come persona giuridica
(art. 1, comma 2, D.P.R. n. 361/2000).
RiconosciAl fine del riconoscimento, la prefettura deve verificare:
a) che siano state soddisfatte le condizioni previste da norme di mento
legge o di regolamento per la costituzione dell’ente (ad es., che l’atto
costitutivo sia redatto nella forma dell’atto pubblico; che rechi le
indicazioni richieste dall’art. 16, comma 1, c.c.; ecc.);
b) che lo scopo sia possibile e lecito (ad es., che l’attività, che
l’associazione si prefigge di svolgere, non sia penalmente illecita);
c) che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo
(ciò, in quanto — come vedremo — per le obbligazioni dell’associazione riconosciuta risponde solo ed esclusivamente quest’ultima, con
il proprio patrimonio, che conseguentemente non può essere irrisorio
per non mettere a rischio i crediti dai terzi vantati nei confronti
dell’associazione) (art. 1, comma 3, D.P.R. n. 361/2000).
Nessun controllo è consentito alla prefettura in ordine alla
meritevolezza dello scopo che l’associazione si prefigge, così come in
ordine all’opportunità che venga costituita un’associazione per perseguirlo: al prefetto è, infatti, demandato un mero controllo di legittimità.
160
L’attività giuridica
[§ 73]
In ipotesi di esito positivo di tale controllo, il prefetto provvede
all’iscrizione dell’associazione nel registro delle persone giuridiche tenuto presso la stessa prefettura (art. 1, comma 5, D.P.R. n. 361/
2000): con l’iscrizione, l’associazione acquista la personalità giuridica
(art. 1, comma 1, D.P.R. n. 361/2000).
Per le associazioni che operano nelle materie di cui all’art. 17
D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (ad es., assistenza sanitaria ed ospedaliera, istruzione artigiana e professionale, assistenza scolastica, ecc.) e
le cui finalità statutarie si esauriscono nell’ambito territoriale di una
sola regione, la domanda di riconoscimento va presentata alla regione
stessa e l’acquisto della personalità giuridica si determina con l’iscrizione dell’associazione nel registro delle persone giuridiche istituito
presso la medesima regione (art. 7 D.P.R. n. 361/2000).
Nel lasso di tempo fra la stipula dell’atto costitutivo e l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, l’associazione già esiste e
può operare, ma come associazione non riconosciuta (con conseguente
applicazione della relativa disciplina: v. § 74).
Organi
L’ordinamento interno dell’associazione riconosciuta deve prevedere almeno due organi: l’assemblea degli associati e gli amministratori. Altri organi (ad es., il collegio dei probiviri, il collegio di revisori,
ecc.) possono essere contemplati dallo statuto.
Assemblea
L’assemblea ha competenza per le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto (art. 21, comma 2, c.c.), per l’approvazione del
bilancio (artt. 20, comma 1, e 21, comma 1, c.c.), per l’esercizio
dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (artt.
21, comma 1, e 22 c.c.), per l’esclusione dell’associato per gravi motivi
(art. 24, comma 3, c.c.), per lo scioglimento dell’associazione e la
devoluzione del patrimonio (art. 21, comma 3, c.c.), nonché per tutte
le materie che siano alla stessa demandate dallo statuto.
Di regola, l’assemblea delibera a maggioranza dei voti, in prima
convocazione, con la presenza di almeno la metà degli associati; in
seconda convocazione, qualunque sia il numero degli intervenuti
(art. 21, comma 1, c.c.). Maggioranze qualificate sono richieste per le
modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto, nonché per lo scioglimento dell’associazione (art. 21, comma 2 e 3, c.c.).
AmministraGli amministratori hanno competenza per la gestione dell’attitori
vità associativa e rappresentano l’associazione nei confronti dei terzi
(così, ad es., se l’associazione necessita di un locale da destinare a
sede associativa, sarà l’amministratore sia a decidere di prendere in
locazione una determinata unità immobiliare da adibire allo scopo,
sia a sottoscrivere il relativo contratto, a nome dell’associazione).
Iscrizione
[§ 73]
Il soggetto del rapporto giuridico
161
L’associazione ha un suo patrimonio, costituito dai cespiti ori- Patrimonio
ginariamente conferiti dai fondatori, dalle quote di ammissione e/o di
iscrizione eventualmente versate dagli associati, dai proventi dell’attività svolta dall’associazione, da apporti di privati (ad es., di uno
sponsor), da finanziamenti pubblici, da acquisti effettuati dall’associazione, ecc.
A tale ultimo proposito, va segnalato che sono ormai venuti
meno tutti i condizionamenti che tradizionalmente circondavano la
possibilità, per le associazioni riconosciute, di effettuare acquisti
immobiliari, ovvero acquisti a titolo gratuito o mortis causa (v.
l’abrogato art. 17 c.c.): oggi, l’associazione riconosciuta può effettuare liberamente qualsiasi tipo di acquisto, senza necessità di autorizzazione alcuna.
Gli associati non hanno alcun diritto sul patrimonio dell’associazione, che è distinto dal loro patrimonio personale. Tant’è che,
allorquando cessa (per recesso, esclusione, morte, ecc.) di far parte
dell’associazione, l’associato non può pretendere che gli venga attribuita una quota-parte del patrimonio associativo (art. 24, comma 4,
c.c.).
Da ciò discende — da un lato — che, per le obbligazioni del Responsabiper le
singolo associato, non risponde l’associazione con il suo patrimonio lità
obbligazioni
(così, ad es., il padrone di casa dell’associato non potrà rivolgersi
all’associazione per richiedere il versamento del canone di locazione
dovutogli) e — da altro lato — che, per le obbligazioni dell’associazione, non risponde l’associato con il suo patrimonio (così, ad es., il
dipendente dell’associazione non potrà rivolgersi all’associato per
chiedere la corresponsione degli stipendi dovutigli): e ciò, quand’anche il patrimonio dell’associazione dovesse risultare insufficiente per
far fronte alle obbligazioni associative. Delle obbligazioni dell’associazione riconosciuta risponde, infatti, solo ed esclusivamente quest’ultima con il suo patrimonio: c.d. autonomia patrimoniale perfetta.
All’accordo associativo si può aderire o all’atto della costitu- Adesione di
zione dell’associazione, oppure in un momento successivo. Si dice, nuovi
associati
perciò, che l’accordo associativo è aperto all’adesione di terzi (art. 1332
c.c.): c.d. struttura aperta dell’associazione.
Peraltro, quand’anche possegga i requisiti statutariamente previsti per l’ammissione all’associazione, l’aspirante non ha diritto di
entrarvi: l’accoglimento della sua domanda è, in ogni caso, subordinato alla valutazione degli organi statutariamente competenti.
Di contro, una volta entrato a far parte della compagine asso- Esclusione
ciativa, l’associato ha diritto di rimanervi: non può esserne escluso, se dell’associato
non per gravi motivi (ad es., inosservanza degli obblighi imposti dallo
162
L’attività giuridica
[§ 73]
statuto, mancato pagamento dei contributi associativi, perdita dei
requisiti richiesti per l’ammissione all’associazione, ecc.) ed in forza
di una delibera motivata dell’assemblea (art. 24, comma 2, c.c.).
Avverso detta delibera, l’associato espulso può ricorrere all’autorità
giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui la stessa gli è stata
notificata (art. 24, comma 3, c.c.; v. Cass. 29 luglio 2016, n. 15784;
Cass. 10 aprile 2014, n. 8456). L’autorità giudiziaria dovrà procedere
all’annullamento del provvedimento impugnato, qualora non fossero
state rispettate le regole procedurali per la sua adozione (ad es., il
provvedimento è stato adottato da un organo incompetente; non è
stato congruamente motivato; non è stato garantito il contraddittorio; ecc.), così come — nell’ipotesi in cui l’atto costitutivo contenesse
una ben specifica indicazione dei motivi ritenuti così gravi da giustificare l’esclusione dell’associato (ad es., il mancato pagamento della
quota associativa) — qualora accertasse l’insussistenza della condotta contestata; ovvero — nell’ipotesi in cui lo statuto si limitasse,
invece, a formule generiche ed elastiche (ad es., condotte lesive degli
interessi o del buon nome dell’associazione) — qualora ritenesse, con
un giudizio di merito, che la condotta dell’associato non sia talmente
grave da impedirne l’ulteriore permanenza nella compagine sociale
(v. Cass. 9 aprile 2004, n. 17907).
Un’esigenza di tutela della libertà individuale — costituente un
Recesso
dell’associato
aspetto della tutela della stessa libertà di associazione, che importa
anche la libertà di non associarsi — spiega perché all’associato sia
riconosciuto il diritto di recedere dall’associazione, in qualsiasi momento, sia pure con effetto allo scadere dell’anno in corso, purché
esercitato almeno tre mesi prima (art. 24, comma 2, c.c.). Nell’ipotesi
in cui avesse assunto l’obbligo di far parte dell’associazione per un
tempo determinato, l’associato potrà recedere anticipatamente solo
ove ricorra una giusta causa (ad es., modifica dell’oggetto dell’associazione, limitazione dei diritti statutariamente attribuiti all’associato, ecc.).
L’associazione si estingue — oltre che per le cause eventualEstinzione
mente previste nell’atto costitutivo o nello statuto (ad es., scadenza
del termine: art. 16, comma 2, c.c.), ovvero per deliberazione assembleare (art. 21, comma 3, c.c.) — per raggiungimento dello scopo,
impossibilità della sua realizzazione, venir meno di tutti gli associati
(art. 27 c.c.).
Il verificarsi di una delle cause di estinzione dell’associazione —
se l’assemblea non ne delibera lo scioglimento — viene accertato dal
prefetto, su istanza di qualunque interessato o anche d’ufficio (art. 6,
comma 1, D.P.R. n. 361/2000; v. Cass. 19 luglio 2018, n. 19309).
[§ 74]
Il soggetto del rapporto giuridico
163
Una volta dichiarata l’estinzione dell’associazione, si procede Liquidazione
alla liquidazione del suo patrimonio, con il pagamento dei debiti
dell’associazione stessa (artt. 30 c.c. e 11 ss. disp. att.). I beni che
eventualmente residuino sono devoluti in conformità con quanto
previsto nell’atto costitutivo o nello statuto; ovvero, in mancanza,
secondo quanto stabilito dall’assemblea che ha deliberato lo scioglimento; ovvero, quando manca anche qualsiasi statuizione assembleare al riguardo, secondo quanto stabilito dall’autorità governativa, « attribuendo i beni ad altri enti che hanno fini analoghi » (art.
31 c.c.).
Chiusa la procedura di liquidazione, si procede alla cancellazione Cancellazione
dell’ente dal registro delle persone giuridiche (art. 6, comma 2,
D.P.R. n. 361/2000: v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12528).
§ 74.
L’associazione non riconosciuta.
L’« associazione non riconosciuta » prende vita — non diversa- Costituzione
mente da quanto accade per l’associazione riconosciuta — in forza di
un atto di autonomia (un vero e proprio contratto, secondo l’orientamento prevalente) tra i fondatori. Peraltro — diversamente da
quanto previsto per l’associazione riconosciuta — non sono richiesti
né requisiti di forma (così, ad es., l’accordo associativo potrebbe
essere stipulato anche per scrittura privata o, addirittura, oralmente), né di contenuto (v. Cass. 15 gennaio 2010, n. 410).
L’iter formativo dell’associazione non riconosciuta non richiede
altro, esaurendosi con il perfezionarsi dell’accordo tra i fondatori.
L’associazione non riconosciuta non acquista, quindi, persona- Soggettività
lità giuridica, seppure goda di una sua soggettività (v. Cass. 16 della
associazione
novembre 2015, n. 23401): tant’è che è titolare del fondo comune non
(art. 37 c.c.), risponde in proprio delle obbligazioni assunte in suo riconosciuta
nome e per suo conto (art. 38 c.c.), può stare in giudizio nella persona
di coloro ai quali è conferita la presidenza o la direzione (art. 36,
comma 2, c.c.).
L’ordinamento interno e l’amministrazione dell’associazione non Ordinamento
riconosciuta, nonché la disciplina dei rapporti tra associati e associa- interno
zione sono — dall’art. 36, comma 1, c.c. — integralmente rimessi agli
« accordi degli associati ». La previsione è espressione della volontà del
legislatore del 1942 di disinteressarsi dei rapporti interni all’associazione, per limitare la disciplina legale ai soli rapporti tra associazione
e terzi (artt. 36, comma 2, 37 e 38 c.c.); e ciò, a tutela di questi ultimi.
164
L’attività giuridica
[§ 74]
Peraltro — in un ordinamento costituzionale che, come già si è
ricordato, annovera tra i propri « principi fondamentali » quello del
riconoscimento e della garanzia dei « diritti inviolabili dell’uomo (...)
nelle formazioni sociali » (art. 2 Cost.) — non è oggi più possibile
affermare l’assoluta discrezionalità degli accordi associativi nel disciplinare ordinamento e rapporti interni all’associazione.
Innanzitutto — laddove non derogati dall’atto costitutivo o
dallo statuto — dovranno ritenersi applicabili anche all’associazione
non riconosciuta tutti quei principi dal codice dettati in tema di
associazione riconosciuta che non presuppongano l’avvenuto riconoscimento: così, ad es., laddove lo statuto dell’associazione non riconosciuta nulla prevedesse in tema di ordinamento interno, troveranno applicazione gli artt. 18 ss. c.c. (v. Cass. 23 gennaio 2007, n.
1476); mentre, nel silenzio dello statuto, non troveranno applicazione
le norme dettate per lo scioglimento delle associazioni riconosciute
(v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12528; Cass. 10 marzo 2009, n. 5738).
Laddove si discostino, invece, dalle previsioni codicistiche in
tema di associazione riconosciuta, atto costitutivo e statuto non
potranno adottare soluzioni che si risolvano in un sostanziale disconoscimento dei diritti dell’associato a partecipare alla vita associativa. Così, ad es. — se potranno prevedere che gli associati esprimano
la loro volontà non già in sede assembleare, come voluto dall’art. 20
c.c., bensì attraverso una consultazione a mezzo posta — non potranno, però, sottrarre loro qualsiasi scelta associativa, demandandola, ad es., al presidente o ad un gruppo ristretto di associati (v.
Cass. 8 novembre 2013, n. 25210).
Analogamente — se potranno prevedere che l’esclusione dell’asEsclusione
dell’associato
sociato sia rimessa alla competenza non già dell’assemblea, come
voluto dall’art. 24, comma 3, c.c., bensì a quella, ad es., del collegio
dei probiviri — gli « accordi degli associati » non potranno invece
prevedere che detta esclusione sia demandata al potere discrezionale
ed insindacabile di un organo associativo, da esercitarsi attraverso
una deliberazione immotivata e non impugnabile: e ciò, per contrasto
con l’art. 2 Cost., nella misura in cui una siffatta previsione finirebbe,
in buona sostanza, con il rimettere all’altrui arbitrio il diritto del
socio a permanere nella compagine associativa. Una clausola di
esclusione dell’associato che violasse siffatto diritto dovrebbe ritenersi nulla, con conseguente applicazione del disposto dell’art. 24
c.c., seppur quest’ultima sia dettata con specifico riferimento all’associazione riconosciuta (v. Cass. 9 settembre 2004, n. 18186).
L’associazione non riconosciuta ha un suo fondo comune, diFondo
comune
stinto dal patrimonio dei singoli associati (v. Cass. 8 novembre 2013,
[§ 74]
Il soggetto del rapporto giuridico
165
n. 25210), che non possono, pertanto, chiederne la divisione per tutta
la durata dell’associazione, né pretenderne una quota-parte in caso di
recesso (art. 37 c.c.).
Anche per quanto riguarda l’associazione non riconosciuta sono
venuti meno tutti gli impedimenti ed i condizionamenti che tradizionalmente circondavano la possibilità di effettuare acquisti immobiliari, ovvero acquisti mortis causa o a titolo gratuito (v. gli abrogati
artt. 600 e 786 c.c.): sicché — oggi — anche l’associazione non
riconosciuta può effettuare liberamente qualsiasi tipo di acquisto.
La distinzione tra fondo comune dell’associazione e patrimonio Responsabilità
le
dei singoli associati importa — da un lato — che, per le obbligazioni per
obbligazioni
del singolo associato, non risponde l’associazione con il suo fondo; e ...
— da altro lato — che, per le obbligazioni dell’associazione, non
risponde l’associato con il suo patrimonio, quand’anche abbia approvato l’assunzione di detta obbligazione: sicché mai l’associato in
quanto tale rischia il suo patrimonio per debiti dell’associazione (così,
ad es., l’iscritto ad un partito non risponde degli ingenti debiti che
l’organizzazione abbia contratto con il sistema bancario, in occasione
dell’ultima campagna elettorale).
Peraltro, per le obbligazioni contrattuali dell’associazione non ... negoziali
riconosciuta rispondono — oltre che il fondo comune — anche,
personalmente e solidalmente, con il loro patrimonio personale, coloro
che hanno agito in nome e per conto dell’associazione, quand’anche non
membri della stessa (art. 38 c.c.; v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25650;
Cass. 25 agosto 2014, n. 18188). Così, ad es., a fronte di una bolletta
non pagata, l’ente erogatore di energia elettrica potrà rivolgersi,
alternativamente, o al fondo comune dell’associazione ovvero a colui
o coloro (ad es., il direttore dell’associazione) che hanno stipulato il
relativo contratto di somministrazione (v. Cass. 4 aprile 2017, n.
8752): c.d. autonomia patrimoniale imperfetta.
Da notare che — sebbene il debito sia, a rigore, dell’associazione
— il creditore può rivolgersi immediatamente a chi ha agito in nome
e per conto dell’associazione, senza dover preventivamente escutere
il fondo comune: quella del soggetto che agisce in nome e per conto
dell’associazione costituirebbe — secondo la giurisprudenza — una
sorta di garanzia ex lege, assimilabile alla fideiussione (v. Cass. 17
giugno 2015, n. 12508; v. § 418).
Per quel che riguarda, invece, i debiti dell’associazione a fonte ... non
non negoziale — si pensi, ad es., ai debiti tributari — si ritiene che ne negoziali
rispondano il fondo comune (v. Cass. 13 luglio 2011, n. 15394),
nonché, in solido, i soggetti che, in forza del ruolo rivestito, abbiano
diretto la complessiva gestione associativa nel periodo in considera-
166
L’attività giuridica
[§ 74]
zione (v. Cass. 22 gennaio 2019, n. 1602; Cass. 15 ottobre 2018, n.
25650).
Una deroga all’ordinario regime della responsabilità per le obbligazioni delle associazioni non riconosciute è dettata, con riferimento ai movimenti ed ai partiti politici partecipanti ad elezioni per
il Parlamento nazionale, per quelle europee o per i consigli regionali,
dall’art. 6-bis L. 3 giugno 1999, n. 157, il quale esonera dalla responsabilità solidale per i debiti dell’associazione chi sia istituzionalmente
investito, ai sensi dell’atto costitutivo o dello statuto, di cariche
amministrative e non abbia agito con dolo o colpa grave (v. Cass. 1°
aprile 2014, n. 7521).
Sempre per quanto riguarda i partiti (o movimenti) politici che
La disciplina
speciale
civilisticamente assumano la veste di associazioni non riconosciute,
prevista per i
partiti occorre ricordare che il D.L. 28 dicembre 2013, n. 149 — nell’abolire
politici il c.d. « finanziamento pubblico » a loro favore — ha però previsto che
gli stessi possano, nel concorso di altri presupposti, accedere a forme
di erogazioni liberali in denaro, da parte di persone fisiche, assistite
da agevolazioni fiscali, così come vedersi assegnato il 2‰ dell’imposta sul reddito delle persone fisiche che, in sede di dichiarazione
annuale dei redditi, li abbiano indicati come destinatari di tale
beneficio (artt. 10, 11 e 12 D.L. n. 149/2013; v. ora anche art. 1,
commi 11 ss., L. 9 gennaio 2019, n. 3), a condizione che gli stessi si
iscrivano nel “registro nazionale dei partiti politici”, tenuto dalla «
Commissione di garanzia degli statuti per la trasparenza e il controllo
dei rendiconti dei partiti politici » istituita presso la Camera dei
deputati (art. 4, comma 7, D.Lgs. n. 149/2013).
Condizione per l’iscrizione nel registro è che il partito (o movimento) politico: (i) si doti di uno statuto, redatto nella forma dell’atto
pubblico e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, che contenga le indicazioni minime di cui all’art. 3, commi 1 e 2, D.L. n. 149/2013; (ii) si
assoggetti ad una serie di controlli — invero non particolarmente
pregnanti — volti a garantirne la trasparenza (con particolare riferimento al proprio assetto statutario, agli organi associativi, al funzionamento interno, ai finanziamenti/contributi ricevuti, ai bilanci,
compresi i relativi rendiconti, ecc.), la correttezza della gestione
contabile-finanziaria, la parità tra i sessi negli organismi collegiali e
nell’accesso alle cariche elettive, ecc. (artt. 5 ss. D.Lgs. n. 149/2013).
Laddove non richiedano l’iscrizione nel registro, i partiti non
potranno fruire dei benefici economici appena ricordati, ma, in
compenso, potranno giovarsi della più ampia autonomia organizzativa e della quasi totale assenza di controlli dal codice civile contemplate con riferimento alle associazioni non riconosciute in generale.
[§ 75]
Il soggetto del rapporto giuridico
167
La già citata L. n. 3/2019 ha delegato il Governo ad adottare, Legge delega
testo
entro un anno dalla sua entrata in vigore, un decreto legislativo un
unico in
recante un testo unico, nel quale siano riunite le disposizioni in materia di
materia di contributi ai candidati alle elezioni ed ai partiti ed ai trasparenza e
democraticità
movimenti politici, nonché in materia di trasparenza, democraticità dei partiti, e
dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contri- di loro
finanziamento
buzione indiretta a loro favore (art. 1, comma 26, L. n. 3/2019).
§ 75.
La fondazione.
La « fondazione » è un’organizzazione stabile che si avvale di un Atto di
fondazione
patrimonio per il perseguimento di uno scopo non economico.
Anche la fondazione — come l’associazione — trae vita da un ... struttura
atto di autonomia, che però — a differenza di quel che accade per
l’associazione — non è un contratto, bensì un atto unilaterale (v. Cass.
4 luglio 2017, n. 16409): il c.d. atto di fondazione.
Quest’ultimo può essere:
a) un atto « inter vivos », nel qual caso deve rivestire la forma ... inter vivos
dell’atto pubblico (art. 14, comma 1, c.c.), di regola notarile; ed è
revocabile dal fondatore fino a quando non sia intervenuto il riconoscimento, ovvero, se anteriore, fino al momento della morte del
fondatore, ovvero ancora fino al momento in cui quest’ultimo abbia
eventualmente fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta (art.
15 c.c.); o
b) contenuto in un testamento (art. 14, comma 2, c.c.), nel qual ... mortis
caso l’atto di fondazione — al pari di ogni altra disposizione testa- causa
mentaria — diverrà efficace solo al momento dell’apertura della
successione e fino a quel momento potrà essere revocato dal testatore.
L’atto di fondazione — oltre alla manifestazione di volontà del Statuto
fondatore di dar vita ad un’organizzazione mirante al perseguimento
di una finalità non economica — deve contenere le seguenti indicazioni: denominazione dell’ente; scopo, patrimonio e sede; norme
sull’ordinamento e sull’amministrazione; criteri e modalità di erogazione delle rendite (art. 16, comma 1, c.c.). Analogamente a quanto
accade per le associazioni, tali previsioni possono essere contenute in
un documento separato rispetto all’atto di fondazione: lo statuto.
Essenziale, per la fondazione, è che la stessa sia dotata di un Atto di
patrimonio, destinato a consentirle la realizzazione delle proprie dotazione
finalità. È quindi necessario che il fondatore — od anche terzi —
pongano in essere un atto, in forza del quale si spogliano gratuita-
168
L’attività giuridica
[§ 75]
mente, in modo definitivo ed irrevocabile, della proprietà di beni a
favore della fondazione, con il vincolo di destinazione degli stessi al
perseguimento dello scopo indicato dal fondatore: c.d. atto di dotazione (v. Cass. 4 luglio 2017, n. 16409).
RiconosciPer il riconoscimento e l’acquisto della personalità giuridica,
mento
valgono le medesime regole che abbiamo visto con riferimento alle
associazioni riconosciute: a) presentazione di atto di fondazione,
statuto ed atto di dotazione alla prefettura nella cui provincia è
stabilita la sede della fondazione, accompagnata dalla relativa domanda di riconoscimento; b) controllo, da parte della prefettura, del
rispetto delle condizioni previste per la costituzione dell’ente, della
possibilità e liceità dello scopo, dell’adeguatezza del patrimonio alla
sua realizzazione; c) iscrizione nel registro delle persone giuridiche, che
determina l’acquisizione della personalità giuridica (art. 1 D.P.R. n.
361/2000; v. anche art. 7 D.P.R. n. 361/2000).
Fondazioni
In mancanza di riconoscimento — a differenza delle associanon
zioni, che possono operare come associazioni non riconosciute (artt.
riconosciute
36 ss. c.c.) — le fondazioni, secondo l’opinione tradizionale, non
possono operare come fondazioni non riconosciute: ciò, in quanto non
sarebbe dato all’autonomia delle parti creare patrimoni separati, « se
non nei casi stabiliti dalla legge » (art. 2740, comma 2, c.c.), imprimendo ai relativi beni un vincolo perpetuo di destinazione (v. § 94).
Scopo
Quanto allo scopo della fondazione, si discute se — oltre che non
economico (nel senso già indicato: v. § 70) — lo stesso debba essere
anche di pubblica utilità. In senso negativo, sembra deporre il disposto dell’art. 28, comma 3, c.c., che ammette le c.d. fondazioni di
famiglia: fondazioni, cioè, « destinate a vantaggio soltanto di una o
più famiglie determinate ».
Lo scopo — che, una volta che la fondazione abbia ottenuto il
riconoscimento, non può essere modificato né dal fondatore, né
dall’organo amministrativo (artt. 28, comma 1, e 32 c.c.) — può
essere statutariamente definito con una certa precisione (ad es.,
fondazione destinata a gestire un asilo o una scuola per i bimbi del
paese; fondazione per l’assegnazione di borse di studio a studenti
iscritti ad una determinata università; ecc.); con l’inevitabile rischio
di una sua più o meno rapida obsolescenza (si pensi, ad es., ad una
fondazione originariamente destinata a gestire l’asilo di un piccolo
paese, in cui il calo demografico degli ultimi decenni abbia fatto
diventare anacronistico il mantenimento di una siffatta struttura).
Sicché, negli ultimi tempi, si è assistito al proliferare di fondazioni in
cui lo scopo è statutariamente indicato in termini ampi e generici (si
pensi, ad es., ad una fondazione avente ad oggetto attività di bene-
[§ 75]
Il soggetto del rapporto giuridico
169
ficenza, ovvero di ricerca medica, ecc.): con la conseguenza che, in
pratica, competerà all’organo di gestione scegliere, nel tempo, l’attività
da svolgere concretamente e gli interessi volta a volta da perseguire.
Per il raggiungimento dello scopo, la fondazione svolge un’atti- Attività
vità, che tradizionalmente si limitava alla mera gestione del suo
patrimonio, al fine di devolverne le rendite alle finalità statutariamente previste: c.d. fondazioni di erogazione (a questa fattispecie fa
riferimento l’art. 16, comma 1, c.c., laddove prevede che lo statuto
contempli criteri e modalità di erogazione delle rendite).
Oggi è pacificamente ammesso (v. Cass., sez. un., 15 marzo 2016, Attività
n. 5069) che la fondazione possa svolgere anche un’attività di impresa, d’impresa
organizzata per la produzione e lo scambio di beni o servizi (v. § 476):
(i) o per ricavarne utili da destinare allo scopo non lucrativo
proprio della fondazione (si pensi, ad es., alla fondazione museale che
svolga un’attività di produzione e/o vendita di libri d’arte per finanziare manutenzione ed arricchimento delle proprie collezioni): c.d.
attività d’impresa svolta in via secondaria;
(ii) o per realizzare immediatamente il proprio scopo istituzionale (si pensi, ad es., alla fondazione per la diffusione della cultura del
teatro di prosa, che organizzi spettacoli a pagamento): c.d. attività
d’impresa svolta in via esclusiva o principale.
La fondazione è gestita da un organo amministrativo, secondo le Organo amministrativo
previsioni che devono essere contemplate dallo statuto.
Gli amministratori sono i veri arbitri della vita della fondazione:
il fondatore in quanto tale non può ingerirsi in alcun modo in essa; la
fondazione non ha, di regola, assemblea; il controllo dell’autorità
governativa è solo un controllo di legittimità sugli atti di gestione,
con l’esclusione di qualsiasi sindacato in ordine all’opportunità delle
scelte operate dagli amministratori.
La fondazione ha un suo patrimonio — distinto da quello del Patrimonio
fondatore — costituito dai cespiti oggetto dell’atto di dotazione, da
donazioni, lasciti, contributi pubblici, utili derivanti dall’attività
svolta, beni acquistati, ecc. Anche per le fondazioni sono ormai
caduti i limiti che tradizionalmente circondavano la possibilità di
effettuare acquisti immobiliari, ovvero acquisti a titolo gratuito o
mortis causa (cfr. l’abrogato art. 17 c.c.).
Delle obbligazioni della fondazione risponde solo quest’ultima Responsabilità per le
con il proprio patrimonio: c.d. autonomia patrimoniale perfetta.
obbligazioni
La vita delle fondazioni è assoggettata al controllo dell’autorità
amministrativa, che può procedere all’annullamento delle delibera- Controllo
zioni dell’organo amministrativo contrarie a norme imperative, al- dell’autorità
amministral’atto di fondazione, all’ordine pubblico, al buon costume; può scio- tiva
170
L’attività giuridica
[§ 75]
gliere l’organo amministrativo e nominare un commissario straordinario, qualora gli amministratori non agiscano in conformità dello
statuto, dello scopo della fondazione e della legge; autorizza le azioni
contro gli amministratori per fatti riguardanti la loro responsabilità;
può provvedere alla nomina ed alla sostituzione degli amministratori, quando le disposizioni contenute nell’atto di fondazione non
possono attuarsi (art. 25 c.c.).
Allorquando si verifica una causa di scioglimento (esaurimento,
Scioglimento
impossibilità o scarsa utilità dello scopo; insufficienza del patrimonio; ecc.), la fondazione — anziché estinguersi — modifica il suo
scopo, attraverso un provvedimento dell’autorità governativa, che
individua le nuove finalità dell’ente, « allontanandosi il meno possibile dalla volontà del fondatore » (art. 28, comma 1, c.c.).
Peraltro, il fondatore può prevedere che, verificandosi una
causa di scioglimento della fondazione, questa si estingua ed i beni
vengano devoluti a terze persone (art. 28, comma 2, c.c.); in mancanza di tale ultima previsione, provvede l’autorità governativa,
attribuendo i beni ad altri enti che hanno fini analoghi (art. 31,
comma 2, c.c.).
Fino a tempi relativamente recenti la fondazione ha avuto
Le
fondazioni
importanza marginale nella nostra realtà socio-economica, essendo
nel momento
attuale strumento principalmente utilizzato per realizzare l’intento di soggetti con non trascurabili disponibilità economiche di perpetuare il
proprio nome, ancorandolo ad un’organizzazione con finalità di pubblico interesse, destinata a sopravvivere loro.
A far tempo dall’ultimo quarto del secolo scorso, il panorama è
radicalmente mutato.
Innanzitutto, la rinata disponibilità — a fronte della crisi del
welfare state — di cittadini ed imprese a destinare risorse finanziarie
a fini di utilità sociale, senza la mediazione del potere politico, ha
trovato proprio nella fondazione uno strumento sufficientemente
duttile ed efficiente (si pensi, ad es., alla « Fondazione Giovanni
Agnelli », alla « Fondazione Adriano Olivetti », alla « Fondazione Pirelli », alla « Fondazione Vodafone Italia », alla « Fondazione Fondo
per l’Ambiente Italiano - FAI », alla « Fondazione Telethon », alla
« Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro - AIRC », alla « Fondazione Umberto Veronesi », alla « Fondazione per la ricerca sulla
fibrosi cistica - FFC », alla « Fondazione IRCCS Istituto Nazionale
dei Tumori »; alla « Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli »;
ecc.).
[§ 76]
Il soggetto del rapporto giuridico
171
In secondo luogo, la legge — nell’ambito del c.d. fenomeno delle
privatizzazioni — ha imposto la trasformazione in fondazioni di
diritto privato:
(i) di singoli enti pubblici (si pensi, ad es., alla trasformazione del
« Centro sperimentale di cinematografia » nella « Fondazione Centro
Sperimentale di Cinematografia - C.S.C. », contemplata dal D.Lgs. 18
novembre 1997, n. 426; alla trasformazione dell’ente autonomo « La
Triennale di Milano » nell’omonima fondazione, contemplata dal
D.Lgs. 20 luglio 1999, n. 273; ecc.); ovvero
(ii) di intere categorie di enti pubblici (si pensi, ad es., alla
trasformazione degli enti lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate in fondazioni lirico-sinfoniche — ad es., la « Fondazione Teatro
alla Scala di Milano », la « Fondazione Teatro La Fenice di Venezia »,
ecc. — contemplata dal D.Lgs. 29 giugno 1996, n. 367, e dal D.L. 24
novembre 2000, n. 345; alla trasformazione delle ex Casse di Risparmio, delle Banche del Monte e degli Istituti di credito di diritto
pubblico, previo conferimento in s.p.a. della relativa azienda bancaria, in fondazioni bancarie, contemplata dalla L. 23 dicembre 1998, n.
461, e dal D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153).
A ciò si aggiunga che la legge prevede che possano assumere la
veste di fondazione anche i c.d. fondi pensione (art. 4, comma 1 lett.
b, D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252), le casse di previdenza ed assistenza
di liberi professionisti (art. 1 D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509; tale è, ad
es., la « Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense »), le ex
Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza - IPAB (art. 16 D.Lgs.
4 maggio 2001, n. 207); ecc.
Il D.P.R. 24 maggio 2001, n. 254, consente ora che le università
statali costituiscano, singolarmente od in forma associata, fondazioni
di diritto privato al fine di realizzare l’acquisizione di beni e servizi
alle migliori condizioni di mercato e/o al fine dello svolgimento delle
attività strumentali e di supporto alla didattica ed alla ricerca: c.d.
fondazioni universitarie.
Siffatte fondazioni — c.d. « di diritto speciale » — costituiscono
strumento per consentire e stimolare forme di collaborazione tra il
settore pubblico e quello privato.
§ 76.
Il comitato.
Il « comitato » è un’organizzazione di più persone che — di regola, Nozione
attraverso raccolta pubblica di fondi — costituisce un patrimonio con
il quale realizzare finalità di natura altruistica.
172
L’attività giuridica
[§ 76]
Il comitato — al pari dell’associazione — nasce da un accordo di
tipo associativo, in forza del quale più soggetti (c.d. promotori) si
vincolano all’esercizio in comune di un’attività di raccolta, tra il
pubblico, dei mezzi con cui successivamente realizzare il « programma » enunciato ai fini della sollecitazione delle oblazioni (v. Cass.
23 giugno 1994, n. 6032).
In altre parole, l’attività del comitato si articola — di norma (v.
Attività
Cass. 22 giugno 2006, n. 14453) — in due fasi, logicamente distinte:
a) i promotori annunciano al pubblico — mediante l’elaborazione di un « programma » — la volontà di perseguire un determinato
scopo (ad es., soccorrere i terremotati; organizzare la festa patronale;
dar vita ad una mostra; ecc.), invitando gli interessati (c.d. sottoscrittori) ad effettuare offerte in danaro o in altri beni (ad es., coperte o
medicinali per i terremotati) (c.d. oblazioni);
b) gli stessi promotori — ovvero altri soggetti (c.d. organizzatori), normalmente indicati nel programma (ad es., una testata giornalistica si fa promotrice di una raccolta di somme di denaro destinate alle vittime di un’inondazione, con la precisazione che le stesse
saranno gestite, sia pure con quello specifico fine, dalla Croce Rossa)
— gestiscono i fondi raccolti, onde realizzare lo scopo annunciato ai
sottoscrittori.
Il patrimonio del comitato è, di regola, costituito dai fondi
Patrimonio e
vincolo di
pubblicamente raccolti, con i quali ben potrebbero essere acquistati
scopo
beni, mobili ed anche immobili (v. Cass. 22 giugno 2006, n. 14453).
Con una precisazione, però: su detti fondi grava — diversamente da
quel che accade nell’associazione e conformemente a quel che accade,
invece, nella fondazione — un vincolo di destinazione allo scopo
programmato (sicché né i promotori, né gli organizzatori potranno
distrarli da tale destinazione). Solo l’autorità governativa è legittimata — qualora i fondi raccolti fossero insufficienti allo scopo, o
questo non fosse più attuabile, o fosse raggiunto — a dare loro una
diversa destinazione, sempre che non sia diversamente stabilito nel
programma presentato ai sottoscrittori per sollecitarne le oblazioni
(art. 42 c.c.).
La distrazione dei fondi raccolti dalla destinazione programmata comporta la responsabilità di promotori ed organizzatori nei
confronti del comitato, degli oblatori e dei terzi designati come
beneficiari delle erogazioni (art. 40 c.c.).
Scopo
Dalle esemplificazioni contenute nel disposto dell’art. 39 c.c. si
deduce che lo scopo del comitato deve essere di pubblico interesse o,
comunque, altruistico. Non è invece necessario — anche se, in concreto, è abbastanza frequente — che sia di durata limitata nel tempo
Costituzione
Il soggetto del rapporto giuridico
[§ 77]
173
(scopi transeunti avranno, ad es., i comitati sorti per far fronte alle
esigenze delle vittime di una calamità naturale; scopi durevoli
avranno, invece, i comitati per l’organizzazione di feste patronali
ovvero di manifestazioni culturali o sportive, destinate a ripetersi
periodicamente nel tempo).
Il codice civile prevede che il comitato possa vivere o come ente Comitato
e
non riconosciuto, dotato di semplice soggettività (v. Cass. 8 maggio riconosciuto
non
2003, n. 6985), ovvero — una volta raccolti fondi sufficienti al
perseguimento dello scopo annunciato — richiedere ed ottenere il
riconoscimento e, con esso, la personalità giuridica (art. 41, comma 1,
c.c.).
In questa seconda ipotesi l’atto costitutivo dovrà essere redatto
in forma pubblica. Il procedimento e le condizioni per il riconoscimento saranno i medesimi previsti per il riconoscimento di associazioni e fondazioni (art. 1 D.P.R. n. 361/2000).
Per le obbligazioni del comitato « riconosciuto » risponde solo Responsabiper le
quest’ultimo con il suo patrimonio: c.d. autonomia patrimoniale per- lità
obbligazioni
fetta. Ai sottoscrittori può essere richiesto esclusivamente di effettuare le oblazioni promesse.
Per le obbligazioni del comitato privo di riconoscimento — sia che
si tratti di obbligazioni assunte dai promotori nell’esercizio dell’attività di raccolta di fondi, sia che si tratti di obbligazioni assunte dagli
organizzatori nell’esercizio dell’attività di gestione di fondi raccolti e
di realizzazione del fine programmato, sia che si tratti di obbligazioni
nate da fatto illecito — rispondono personalmente, in solido con il
patrimonio dell’ente, anche tutti i componenti il comitato (art. 41,
comma 1, c.c.) (v. Cass. 12 gennaio 1982, n. 134). Ai sottoscrittori non
può essere richiesto che di effettuare le oblazioni promesse.
§ 77.
Le altre istituzioni di carattere privato.
Ai sensi della L. 20 maggio 1985, n. 222, personalità giuridica Enti
« agli effetti civili » è attribuita agli « enti ecclesiastici civilmente ecclesiastici
riconosciuti » appartenenti alla Chiesa Cattolica (si pensi, ad es., alla
conferenza episcopale italiana, agli istituti per il sostentamento del
clero, alle diocesi, alle parrocchie, agli istituti religiosi, ai seminari,
ecc.), per i quali è conseguentemente prevista l’iscrizione nel registro
delle persone giuridiche (art. 5, comma 1, L. n. 222/1985; v. Cass. 4
giugno 2018, n. 14247).
Peraltro, si discute se detti enti abbiano natura privatistica,
174
L’attività giuridica
[§ 77]
ovvero costituiscano una sorta di tertium genus non riconducibile né
agli enti privati, né agli enti pubblici.
Discorso sostanzialmente analogo può ripetersi con riferimento
Enti delle
altre
agli enti delle Chiese rappresentate dalla Tavola valdese (art. 12 L. 11
confessioni
religiose agosto 1984, n. 449), agli enti delle Chiese cristiane avventiste (artt.
19 ss. L. 22 novembre 1988, n. 516), agli enti delle Assemblee di Dio
in Italia (artt. 13 ss. L. 22 novembre 1988, n. 517), agli enti ebraici
(artt. 18 ss. L. 8 marzo 1989, n. 101), agli enti della Chiesa Cristiana
Evangelica Battista (artt. 11 ss. L. 12 aprile 1995, n. 116), agli enti
della Chiesa Evangelica Luterana (artt. 17 ss. L. 29 novembre 1995,
n. 520), agli enti della Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia (artt. 14 ss.
L. 30 luglio 2012, n. 126), agli enti della Chiesa di Gesù Cristo dei
Santi degli ultimi giorni (artt. 17 ss. L. 30 luglio 2012, n. 127), agli
enti della Chiesa Apostolica in Italia (artt. 15 ss. L. 30 luglio 2012, n.
128), agli enti dell’Unione Buddhista Italiana (artt. 11 ss. L. 31
dicembre 2012, n. 245), agli enti dell’Unione Induista Italiana (artt.
12 ss. L. 31 dicembre 2012, n. 246), agli enti dell’Istituto Buddista
Italiano Soka Gakkai (art. 11 ss. L. 28 giugno 2016, n. 130).
Poiché la legge testualmente annovera tra gli enti privati —
Altre
istituzioni di
accanto alle « associazioni » ed alle « fondazioni » — anche le « altre
diritto
privato istituzioni di carattere privato » (art. 1, comma 1, D.P.R. 10 febbraio
2000, n. 361; cfr. anche art. 12 c.c., oggi abrogato; e art. 4, comma 1,
D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117), l’opinione prevalente sembra ammettere la possibilità della costituzione di enti caratterizzati dalla combinazione dei modelli organizzativi tipici (associazione e fondazione)
o, addirittura, di enti atipici.
Mentre la dottrina si interroga sui limiti entro cui è consentito
Le c.d.
fondazioni di
all’autonomia privata di operare in questa direzione, la prassi ci conpartecipazione segna il sempre più frequente ricorso alla figura della c.d. « fondazione
di partecipazione »: una fondazione, cioè, in cui a determinati soggetti,
che contribuiscano non saltuariamente alla realizzazione degli scopi
dell’ente mediante versamenti in denaro o prestazione di servizi, è
riconosciuta la qualifica di « partecipanti » (che si può perdere per recesso od esclusione), alla cui assemblea è riservato il diritto di nominare
un determinato numero di componenti dell’organo amministrativo,
oltre che una funzione consultiva su attività, programmi ed obiettivi
della fondazione, nonché sui bilanci consuntivi e preventivi. Evidente
è, in questo caso, la « contaminazione » del modello organizzativo tipico
della fondazione con quello proprio dell’associazione.
Del fenomeno sembra aver ora preso atto anche il recente
D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. « codice del Terzo settore »), laddove
— agli artt. 23, comma 4, e 24, comma 6 — fa testuale riferimento a
[§ 78]
Il soggetto del rapporto giuridico
175
« fondazioni (...) il cui statuto preveda la costituzione di un organo
assembleare o di indirizzo, comunque denominato ».
§ 78.
Il terzo settore.
Il declino della famiglia patriarcale, tradizionale luogo di pro- L’emergere
terzo
duzione di tutta una serie di servizi alla persona (si pensi, ad es., alla del
settore
cura degli anziani o dei disabili), l’emergere nel tessuto sociale di
tutta una serie di nuovi bisogni da soddisfare (si pensi, ad es., alle
esigenze di assistenza ai tossicodipendenti, agli immigrati, agli anziani, ecc.), la crisi del welfare state indotta dalle necessità di contenimento della spesa pubblica hanno determinato, a partire dalla fine
degli anni ’70, la progressiva espansione del c.d. « terzo settore »: cioè,
della realizzazione di attività di utilità sociale — nei settori dell’assistenza, della formazione, della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, della promozione della cultura e dell’arte, della tutela dei
diritti civili, della ricerca scientifica, della valorizzazione del patrimonio culturale, ecc. — ad opera di enti senza fini di lucro (c.d. enti
non profit), espressione della c.d. società civile.
Dall’inizio degli anni ’90, si è assistito al proliferare, spesso La
scoordinato e disorganico, di interventi normativi volti — attraverso promozione
del terzo
la previsione di benefici fiscali, di contributi pubblici e/o comunitari, settore
della possibilità di stipulare convenzioni con la Pubblica Amministrazione per la gestione di servizi di pubblico interesse, ecc. — a
promuovere e sostenere gli enti operanti nel terzo settore.
La materia è stata, da ultimo, oggetto di una « revisione Il « codice del
organica » (come si esprime il suo art. 1) ad opera del D.lgs. 3 luglio terzo settore »
2017, n. 117: c.d. « codice del terzo settore ».
Innanzitutto, viene per la prima volta fornita una definizione Gli ETS:
normativa di « ente del terzo settore » (di seguito, « ETS »), per tale presupposti
dovendosi intendere (art. 4, comma 1, D.lgs. n. 117/2017) (i) quell’ente di carattere privato che, (ii) senza scopo di lucro (artt. 8 e 9 D.lgs.
n. 117/2017), (iii) persegue « finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una
o più attività di interesse generale » in uno dei settori tassativamente
indicati nell’art. 5 D.lgs. n. 117/2017 ed (iv) è iscritto nel registro unico
nazionale del terzo settore, (che verrà) istituito presso il Ministero del
lavoro e delle politiche sociali e gestito, con modalità informatiche, su
base regionale attraverso gli « Uffici regionali del Registro unico
nazionale del Terzo settore » (artt. 45 ss. D.lgs. n. 117/2017).
176
L’attività giuridica
[§ 78]
La qualifica di ETS è peraltro espressamente preclusa alle fondazioni bancarie (art. 3, comma 3, D.lgs. n. 117/2017), alle formazioni
ed alle associazioni politiche, ai sindacati, alle associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, alle associazioni di
datori di lavoro, nonché agli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati da detti enti (art. 4, comma 2, D.lgs. n. 117/2017).
ETS e
Agli ETS è, di regola, consentito svolgere attività d’impresa (v. §
attività
476): a) sia in via esclusiva o, quantomeno, principale (artt. 11, comma 2,
d’impresa
e 13, comma 4, D.lgs. n. 117/2017); b) sia in via secondaria e strumentale
rispetto a quella di interesse generale, esercitata in via principale (artt. 6
e 13, comma 6, D.lgs. n. 117/2017). Nel primo caso, sarà proprio attraverso
l’esercizio dell’attività d’impresa che l’ente realizzerà i propri fini istituzionali; nel secondo, l’esercizio dell’attività d’impresa sarà invece finalizzato a supportare (ad es., attraverso il perseguimento di profitti) l’attività di interesse generale dall’ente svolta in via principale. Se esercitano
la propria attività esclusivamente o principalmente in forma d’impresa,
gli ETS sono soggetti all’obbligo di iscrizione — oltre che nel registro unico
nazionale del terzo settore — anche nel registro delle imprese (v. § 484)
(art. 11, comma 2, D.lgs. n. 117/2017).
ETS e fine di
Quel che conta è che agli ETS — anche laddove esercitino
lucro
attività d’impresa e, conseguentemente, perseguano il c.d. « lucro
oggettivo » — è comunque precluso il c.d. « lucro soggettivo », essendo
loro « vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di
gestione, fondi e riserve comunque denominate a favore di fondatori,
associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali », sia nel corso della vita dell’ente, sia in
ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo (ad es.,
per recesso od esclusione), sia in caso di estinzione o scioglimento
dell’ETS, il cui patrimonio residuo dovrà essere devoluto ad altro
ente del terzo settore (artt. 8 e 9 D.lgs. n. 117/2017).
Gli ETS debbono redigere il bilancio di esercizio (artt. 13, commi
Disciplina
1, 2 e 3, e 14 D.lgs. n. 117/2017), depositandolo presso il registro unico
nazionale del terzo settore (art. 13, comma 7, D.lgs. n. 117/2017). Se
esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in
forma d’impresa commerciale, gli ETS debbono tenere le stesse scritture contabili dal codice civile imposte alle imprese commerciali (v. §
496) e redigere il bilancio di esercizio, depositandolo presso il registro
delle imprese, secondo modalità e contenuti previsti per le società di
capitali (v. § 539) (art. 13, commi 4 e 5, D.lgs. n. 117/2017).
Essendo loro precluso lo « scopo di lucro » (soggettivo), gli ETS
ETS in
forma di
appaiono destinati ad assumere, di regola, una delle forme giuridiche
associazione
e fondazione contemplate nel libro I del codice civile: quelle, cioè, dell’associazione
[§ 78]
Il soggetto del rapporto giuridico
177
(non importa se riconosciuta o meno), della fondazione o degli « altri
enti di carattere privato diversi dalle società » (art. 4, comma 1, D.lgs.
n. 117/2017).
Peraltro, la disciplina dettata dal codice civile — e ripercorsa ai
precedenti §§ 73, 74 e 75 — trova applicazione agli ETS costituiti in
forma di associazione o di fondazione solo ove non derogata dal
codice del terzo settore (art. 3, comma 2, D.lgs. n. 117/2017).
Quest’ultimo prevede, ad es., che gli ETS costituiti in forma di
associazione (anche non riconosciuta) o di fondazione inseriscano nel
proprio atto costitutivo o nello statuto le indicazioni contemplate all’art. 21 D.lgs. n. 117/2017; che acquisiscano personalità giuridica (non
già attraverso l’ordinario procedimento di cui al D.P.R. n. 361/2000,
che si conclude con l’iscrizione dell’ente nel registro delle persone giuridiche, bensì) mediante l’iscrizione nel registro unico nazionale del
terzo settore, previo controllo di legittimità del relativo atto costitutivo ad opera del notaio che lo ha ricevuto (art. 22, commi 1 e 2, D.lgs.
n. 117/2017); che possano acquistare personalità giuridica solo qualora
il loro patrimonio sia non inferiore ad E 15.000,00, se associazioni,
ovvero ad E 30.000,00, se fondazioni (art. 22., comma 4, D.lgs. n.
117/2017); ecc.
Quanto poi agli ETS costituiti in veste di associazione, anche
non riconosciuta, il codice del terzo settore prevede che i relativi
statuti contemplino una struttura organizzativa articolata in tre
organi distinti: l’assemblea, in cui a ciascun socio compete inderogabilmente un voto e le cui competenze sono fissate dall’art. 25, commi
1 e 2, D.lgs. n. 117/2017; l’organo amministrativo, nominato dall’assemblea, ai cui componenti trovano applicazione, in materia di
conflitto di interessi, di responsabilità, di controllo giudiziale, le
norme dal codice civile dettate con riferimento agli amministratori di
società per azioni (v. §§ 530 e 531); e, nelle associazioni che raggiungono una maggiore dimensione, un organo di controllo, deputato a
vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto e sull’osservanza
dei principi di corretta amministrazione, sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, ed eventualmente
alla revisione legale dei conti (artt. 24 ss. D.lgs. n. 117/2017).
Nell’evidente intento di non mortificare la multiforme eteroge- ... le
neità delle istituzioni che avevano fin qui operato nell’ambito del terzo organizzazioni
di
settore, il D.lgs. n. 117/2017 ha tratteggiato — accanto alla figura ge- volontariato
nerale — tutta una serie di figure « tipiche » di ETS, con riferimento a Figure tipiche
di ETS:
ciascuna delle quali ha poi dettato una disciplina particolare:
a) le organizzazioni di volontariato — che possono assumere solo
la forma giuridica dell’associazione, riconosciuta o non — caratteriz-
178
L’attività giuridica
[§ 78]
zate dal fatto di svolgere una o più delle attività di interesse generale
di cui all’art. 5 D.lgs. n. 117/2017, prevalentemente a favore di terzi
estranei all’associazione, principalmente avvalendosi dell’attività di
volontariato svolta, a titolo gratuito, dai propri associati (artt. 32 ss.
D.lgs. n. 117/2017);
b) le associazioni di promozione sociale — che pure possono
... le
associazioni
costituirsi solo in veste di associazione, riconosciuta o non — caratdi
promozione terizzate dal fatto di svolgere una o più delle attività di interesse
sociale generale di cui al citato art. 5 D.lgs. n. 117/2017 in favore dei propri
associati, di loro familiari o di terzi, avvalendosi in modo prevalente
dell’attività svolta, a titolo gratuito, dai propri associati (artt. 35 s.
D.lgs. n. 117/2017);
c) gli enti filantropici — che possono costituirsi solo in forma di
... gli enti
filantropici:
associazione riconosciuta o di fondazione — caratterizzati dal fatto di
svolgere attività di erogazione di denaro, beni o servizi, anche di
investimento, a sostegno di categorie di persone svantaggiate o di
attività di interesse generale (artt. 37 ss. D.lgs. n. 117/2017);
d) le imprese sociali — che possono adottare, in alternativa ri... le imprese
sociali
spetto agli schemi organizzativi delineati nel libro I, anche le « forme
di cui al libro V del codice civile »: cioè, uno dei tipi di società (lucrativa
o mutualistica) previsti dallo stesso codice (v. § 509) — la cui disciplina
è oggi riscritta dal D.lgs. 3 luglio 2017, n. 112 (art. 40, comma 1, D.lgs.
n. 117/2017), e che sono caratterizzate dal fatto di esercitare, in via
stabile e principale, un’attività d’impresa nei settori d’attività indicati
all’art. 2 D.lgs. n. 112/2017: di esse tratteremo al successivo § 482;
e) le cooperative sociali — che possono assumere solo ed esclusi... le
cooperative
vamente
la veste giuridica della società cooperativa (v. § 556) — la
sociali
cui disciplina è affidata alla L. 8 novembre 1991, n. 381 (art. 40,
comma 2, D.lgs. n. 117/2017), caratterizzate dal fatto di acquisire « di
diritto la qualifica di imprese sociali » (art. 1, comma 4, D.lgs. n.
112/2017), e di operare nel settore dei servizi socio-sanitari ed educativi e delle attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate (art. 1, comma 1, L. n. 381/1991);
f) le reti associative — che possono costituirsi solo in forma di
... le reti
associative
associazione, riconosciuta o non riconosciuta — e caratterizzate dal
fatto di svolgere principalmente attività di coordinamento, tutela,
rappresentanza, promozione o supporto degli enti del terzo settore
loro associati e delle loro attività di interesse generale (art. 41 D.lgs.
n. 117/2017);
g) le società di mutuo soccorso — cui è accessibile solo la forma
... le società
di mutuo
giuridica della società lucrativa di capitali (v. § 509), sebbene non possoccorso
sano svolgere attività d’impresa — ancor oggi regolamentate dalla L.
[§ 79]
Il soggetto del rapporto giuridico
179
15 aprile 1886, n. 3818 (art. 42 D.lgs. n. 117/2017), e caratterizzate dal
fatto di svolgere solo attività di erogazione di contributi, sussidi e servizi in favore dei soci e dei loro famigliari conviventi.
Il codice del terzo settore — « riconosciuto il valore e la funzione Misure di
e
sociale degli enti del Terzo settore, dell’associazionismo, dell’attività promozione
sostegno
di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressione di
partecipazione, solidarietà e pluralismo » (come si legge all’art. 2
D.lgs. n. 117/2017) — predispone, a favore degli ETS, tutta una serie,
ampia ed articolata, di misure (fiscali: artt. 79 ss. D.lgs. n. 117/2017;
e non solo: artt. 55 ss D.lgs. n. 117/2017) di promozione e sostegno.
Peraltro, la disciplina dettata per gli ETS potrà andare pienamente « a regime » solo quando saranno emanati i relativi decreti
attuativi — il D.Lgs. n. 117/2017 ne prevede 26; il D.Lgs. n. 112/2017
ne prevede 12 — molti dei quali mancano ancora all’appello.
Va, per finire, ricordato che la riforma del Titolo V Cost. ha Il c.d.
principio di
solennemente enunciato la regola per cui i pubblici poteri « favori- «sussidiarietà
»
scono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio
di sussidiarietà » (art. 118, comma 4, Cost.): sulla base, cioè, del
principio per cui il potere pubblico è legittimato ad intervenire
direttamente nel settore solo allorquando nessun privato sia disponibile ad operare, ovvero allorquando, nonostante gli aiuti pubblici,
il livello dei servizi offerti dal privato sia inferiore a quello ritenuto
minimo essenziale (c.d. carattere residuale dell’intervento pubblico).
§ 79.
I diritti della personalità degli enti.
Se taluni diritti della personalità (in particolare, il diritto alla Principi
vita ed il diritto alla salute) — essendo indissolubilmente legati alla generali
corporeità della persona fisica — non possono spettare che ad essa,
altri diritti della personalità (in particolare, il diritto al nome, all’integrità morale, all’identità personale) si ritiene competano, invece,
anche agli enti, non importa se dotati o meno di personalità giuridica
(v. Cass. 26 gennaio 2018, n. 2039; Cass. 10 maggio 2017, n. 11446).
Si discute se ai soggetti diversi dalla persona fisica competa il Il diritto
diritto all’immagine: la risposta è ovviamente negativa, se si ritiene che all’immagine
degli enti
quest’ultimo abbia ad oggetto solo le sembianze esteriori della persona;
di segno contrario, se si ritiene che esso possa avere ad oggetto qualunque elemento visibile (ad es., uno stemma, un emblema, un logo, un
bene, ecc.) atto a richiamare alla mente un determinato soggetto (in
tal senso v., ora, Cass. 11 agosto 2009, n. 18218).
CAPITOLO VIII
L’OGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO
§ 80.
Il bene.
I concetti di « bene » e di « cosa » sono spesso confusi o adoperati
come sinonimi. In realtà, si tratta di concetti ben diversi.
« Cose » che
« Cosa » è una parte di materia (non importa se allo stato solido,
sono « beni »
liquido o gassoso). Peraltro non ogni cosa è un « bene »: tale è solo la
cosa che possa essere fonte di utilità e oggetto di appropriazione.
« Cose » che
Quindi non sono « beni »:
non sono
a) né le cose dalle quali non si è in grado, allo stato, di trarre
« beni »
vantaggio alcuno (ad es., le stelle, i giacimenti su altri pianeti o in
fondo al mare, fino a quando non siano raggiungibili e sfruttabili;
ecc.);
b) né le c.d. res communes omnium, ossia le cose di cui tutti
possono fruire, senza impedirne una pari fruizione da parte degli altri
consociati (ad es., la luce del sole, i venti, le acque degli oceani; v.
Cass., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2735), a meno che non ne venga
assicurato un separato godimento (ad es., l’aria compressa in bombole).
È a questo concetto di « bene » che si riferisce l’art. 810 c.c.
allorquando precisa che « sono beni le cose che possono formare
oggetto di diritti »: quelle, cioè, suscettibili di appropriazione e di
utilizzo e che, perciò, possono avere un valore. Si tratta della stessa
nozione che ritroviamo nell’art. 2082 c.c. (v. § 476), ove l’attività di
impresa viene riassunta nella classica formula della produzione o
scambio « di beni o di servizi ».
Nel significato ristretto fatto proprio dall’art. 810 c.c., i « beni »
sono una species all’interno del più ampio genus delle « cose ».
Peraltro — se in senso economico « bene » è la « cosa » che
« Beni » che
non sono
presenta un valore (di uso e/o di scambio) — in senso giuridico
« cose »
« bene » è non tanto la res come tale, quanto il « diritto » sulla res,
perché è questo che ha un valore in funzione della sua negoziabilità,
tant’è che sulla medesima res possono concorrere più diritti (si pensi,
« Cosa » e
« bene »
L’oggetto del rapporto giuridico
[§ 81]
181
ad es., alla nuda proprietà, all’usufrutto, all’ipoteca che possono
concorrere su uno stesso fondo: v. § 131).
È lo stesso legislatore codicistico ad impiegare la locuzione
« bene » come sinonimo di « diritto ». Ad es., quando — art. 2740,
comma 1, c.c. — enuncia il principio secondo cui « il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni
presenti e futuri »; ovvero quando — art. 320, comma 1, c.c. —
statuisce che « i genitori... rappresentano i figli... e ne amministrano
i beni ».
Qui — per di più — il termine « bene » è impiegato per indicare
tutti i diritti (patrimoniali), facenti capo al debitore o ai figli, suscettibili di negoziazione, e non soltanto i diritti sulle « cose ». Anzi,
proprio quest’ultima è l’eccezione nella quale l’espressione « bene » è
più frequentemente impiegata dal codice (v., ad es., artt. 553, 588,
2247, 2905 c.c.).
In questo significato, il termine « bene » finisce con il designare
un genus assai ampio, che ricomprende, oltre ai diritti sulle res, anche
altri diritti (ad es., i crediti; v. § 189) che hanno ad oggetto elementi
patrimoniali che « cose » non sono.
§ 81.
Categorie di beni: materiali e immateriali.
Le « cose » che possono essere oggetto di diritti reali si caratte- Beni
rizzano — oltre che per la loro suscettibilità di valutazione economica materiali
— per la loro corporeità o, quanto meno, per la loro idoneità ad essere
percepite con i sensi o con strumenti materiali: venendo così a
costituire i c.d. « beni materiali » (o « corporali »).
Il legislatore ricomprende tra i beni (mobili materiali) anche le Le energie
energie naturali (ad es., l’energia elettrica), purché abbiano « valore naturali
economico » (art. 814 c.c.).
Molto più delicata è l’analisi relativa all’ammissibilità — ed alla Beni
stessa utilità pratica — della categoria dei c.d. « beni immateriali ». immateriali
Tali vengono innanzitutto considerati gli stessi diritti quando ... i diritti
possono formare oggetto di negoziazione: ad es., il « credito », che può
essere oggetto di cessione, magari a fronte di un adeguato corrispettivo
(art. 1260 c.c.; v. §§ 203 ss.); la « quota » di una società a responsabilità
limitata (v. § 545; v. Cass. 21 ottobre 2009, n. 22361), ecc.
Alla categoria dei « beni immateriali » potrebbero ricondursi, ... gli
oggi, anche i c.d. « strumenti finanziari » (v. § 84) destinati alla nego- strumenti
finanziari
ziazione sui c.d. « mercati regolamentati » (borsa, IDEM, MTS, ecc.)
(artt. 1, comma 1 lett. w-ter, T.U.F.), per i quali la legge (artt. 4 e 11
182
L’attività giuridica
[§ 81]
D.P.R. 30 dicembre 2003, n. 398) impone la c.d. « dematerializzazione »
(v. § 431): impone, cioè, che la relativa emissione e circolazione avvengano tramite mere scritturazioni contabili, escludendo che gli stessi
possano — come avveniva, invece, in passato — essere incorporati in
un supporto cartaceo (res) (artt. 12 ss. D.P.R. n. 398/2003).
... i dati
Altrettanto potrebbe dirsi per i c.d. dati personali, relativapersonali
mente ai quali — come si è visto (v. § 67) — la normativa (europea
ed interna) attribuisce all’« interessato » (cioè, al soggetto cui i dati si
riferiscono) penetranti ed articolati poteri di controllo in ordine al
loro « trattamento ».
... le banche
Il discorso potrebbe ripetersi, più in generale, con riferimento al
dati
contenuto delle banche-dati, che — ove non diversamente tutelato (ad
es., attraverso il diritto d’autore, il segreto industriale o professionale, l’appena ricordato diritto al controllo sui c.d. « dati personali »,
ecc.) — risulta protetto (ma solo se, per la costituzione della bancadati, sono occorsi investimenti rilevanti di mezzi finanziari, tempo o
lavoro: ad es., la banca-dati che contenga la motivazione di tutte le
sentenze della Cassazione civile dal 1986 ad oggi) attraverso — da un
lato — l’attribuzione al suo titolare del diritto di opporsi all’estrazione, così come al reimpiego, della totalità o di una parte sostanziale
di esso (art. 102-bis, comma 3, L. aut.) e — da altro lato — l’imposizione al legittimo utilizzatore del divieto di « eseguire operazioni che
siano in contrasto con la normale gestione della banca-dati o che
arrechino un ingiustificato pregiudizio al costitutore della banca di
dati » stessa (art. 102-ter, comma 2, L. aut.).
Vengono spesso configurati come « beni immateriali » le c.d.
... le opere
dell’ingegno
opere dell’ingegno (artt. 1 ss. L. aut.; v. § 488): cioè, le opere letterarie,
scientifiche, didattiche; le opere e le composizioni musicali; le opere
coreografiche; le opere della scultura, della pittura, dell’arte del
disegno; i disegni e le opere dell’architettura; le opere della cinematografia; le opere fotografiche; i programmi per elaboratori (c.d.
software); le banche-dati, sempre che (per la scelta o la disposizione
del materiale) costituiscano una creazione intellettuale dell’autore.
Peraltro, soprattutto nel caso delle arti figurative, l’opera dell’ingegno si esprime attraverso un sostrato materiale indispensabile
(c.d. corpus mechanicum) e, pertanto, si pone il problema del rapporto
tra il diritto dell’autore (pittore, scultore, architetto) sul risultato
della sua attività creativa ed il diritto reale sull’oggetto che costituisce il supporto fisico dell’idea. Il secondo spetta a chiunque sia
proprietario dell’oggetto, della res (tela, scultura, edificio, ecc.), il
quale può disporre del bene in base al suo diritto di proprietà (ad es.,
vendendolo, donandolo, concedendolo in comodato e via dicendo); il
[§ 82]
L’oggetto del rapporto giuridico
183
primo spetta sempre e comunque all’autore. Quest’ultimo, per esempio, dopo aver venduto il quadro da lui dipinto, non sarà più
proprietario della tela, ma avrà sempre il diritto di impedire che altri
se ne assuma la paternità, così come il diritto di opporsi a qualsiasi
deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a
danno dell’opera stessa, che possa essere di pregiudizio al suo onore
o alla sua reputazione (art. 2577, comma 2, c.c.; art. 20 L. aut.).
Beni (immateriali) sono poi considerati la ditta, l’insegna, il La proprietà
marchio (v. § 486), le invenzioni e gli altri possibili oggetti di « pro- industriale
prietà industriale » (v. § 487).
Peraltro, qualsiasi idea — anche se non coperta da privative — Know-how
può, a certe condizioni, diventare un « bene »: tipico è il caso del
know-how, per tale intendendosi quel patrimonio di conoscenze,
informazioni, notizie utili, competenze specifiche, capacità tecniche
necessarie per attuare un processo produttivo, per acquisire un
vantaggio competitivo sul piano organizzativo o commerciale, ecc.
(v. § 487; Cass. 19 marzo 2010, n. 6726).
Ancora: la giurisprudenza riconduce fra i beni immateriali la testata giornalistica (v. Cass. 17 gennaio 2013, n. 1102), le radiofrequenze
(v. Cass. 23 settembre 2011, n. 19545), le quote di produzione di prodotti agricoli (v. Cass. 4 aprile 2014, n. 7606), la prestazione d’opera
intellettuale (v. Cass. 22 giugno 2015, n. 12871), i diritti televisivi,
sportivi e cinematografici (v. Cass. 14 dicembre 2018, n. 32417), ecc.
§ 82.
Beni mobili e immobili.
I beni si distinguono in:
a) « immobili », per tali intendendosi il suolo (ivi compresi le sor- Beni
genti ed i corsi d’acqua) e tutto ciò che naturalmente (per es., alberi) immobili
o artificialmente (per es., edifici, lampioni per l’illuminazione stradale,
tralicci dell’alta tensione, ecc.) è incorporato al suolo stesso; forma,
cioè, un corpo unico con il suolo, in modo tale da perdere la propria
autonomia fisica e da rendere impossibile una sua separazione senza la
contemporanea dissoluzione o la sostanziale alterazione del tutto (art.
812, comma 1, c.c.; v. Cass. 10 maggio 2018, n. 11294; Cass. 5 gennaio
2017, n. 152). Immobili — per determinazione di legge — sono altresì
considerati (art. 812, comma 2, c.c.) alcuni altri beni non incorporati
al suolo: i mulini, i bagni e gli edifici galleggianti, quando siano saldamente ancorati alla riva o all’alveo per destinazione permanente; e
b) « mobili », per tali intendendosi tutti gli altri beni (art. 812, ... e mobili
184
L’attività giuridica
[§ 83]
comma 3, c.c.; v. Cass. 9 aprile 2014, n. 8291; Cass. 7 settembre 2009,
n. 19283), comprese — come si è visto — le energie (art. 814 c.c.).
Differenze di
Le due categorie di beni sono sottoposte — come vedremo — ad
regime un regime giuridico sotto vari aspetti diverso: ad es., in tema di forma
giuridico
dei relativi negozi costitutivi, traslativi e modificativi (art. 1350 c.c.:
v. § 105); di acquisto in virtù del possesso (artt. 1153 e 1158 ss. c.c.;
v. §§ 183, 184); di titolarità nell’ipotesi in cui non siano di proprietà
di alcuno (artt. 827 e 923 ss. c.c.; v. § 142); ecc.
§ 83.
I beni registrati.
Secondo quanto verrà meglio chiarito ai successivi §§ 681 ss.,
talune vicende (ad es., il trasferimento di proprietà; la costituzione o
il trasferimento del diritto di usufrutto, di superficie, di servitù; la
costituzione di ipoteca; ecc.) relative ad alcune categorie di beni —
c.d. « beni registrati » — sono oggetto di iscrizione in registri pubblici,
che chiunque può liberamente consultare (art. 2673 c.c.).
I pubblici
Nel nostro ordinamento sono istituiti:
registri
a) il « registro immobiliare », tenuto presso gli uffici periferici
dell’Agenzia delle Entrate, in cui sono pubblicizzate le vicende
relative ai beni immobili (v. § 685);
b) il « pubblico registro automobilistico » (P.R.A.), tenuto presso
ogni sede provinciale dell’Automobile Club d’Italia (A.C.I.), in cui
sono pubblicizzate le vicende relative agli autoveicoli (artt. 11 ss.
R.D.L. 15 marzo 1927, n. 436; R.D. 29 luglio 1927, n. 1814);
c) i registri indicati dall’art. 146 cod. nav., in cui sono pubblicizzate le vicende relative alle navi ed ai galleggianti (artt. 146 ss.
cod. nav.); mentre per le unità da diporto dispongono gli artt. 17 ss.
D.Lgs. 18 luglio 2005, n. 171;
d) il « registro aeronautico nazionale » (R.A.N.), tenuto presso
l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (E.N.A.C.), in cui sono pubblicizzate le vicende relative agli aeromobili (artt. 749 ss. cod. nav.).
Quanto alla rilevanza sul piano privatistico della pubblicità
effettuata tramite i detti registri v. §§ 682 ss.
Nozione
§ 84.
Nozione
I prodotti finanziari.
In tempi relativamente recenti, il legislatore ha individuato una
particolare categoria di beni — i c.d. « prodotti finanziari » — al fine
di assoggettarli ad una specifica disciplina a tutela degli investitori,
a sua volta strumentale al buon funzionamento del mercato dei
[§ 85]
L’oggetto del rapporto giuridico
185
capitali (talora sviluppatosi in modi scarsamente prudenti, quando
non addirittura fraudolenti, con gravi danni per i risparmiatori).
Per « prodotti finanziari » si intendono tutte le forme di investimento di natura finanziaria, esclusi i depositi bancari e postali non
rappresentati da strumenti finanziari (art. 1, comma 1 lett. u, T.U.F.).
Tra i « prodotti finanziari » una posizione di particolare rilievo Gli strumenti
occupano i c.d. « strumenti finanziari » — azioni, obbligazioni ed altri finanziari
titoli di debito emessi da società di capitali, buoni del tesoro, quote di
organismi di investimento collettivo, strumenti finanziari c.d. derivati (ad es., options; futures; swaps), ecc. (art. 1, comma 2, e all. I sez.
C T.U.F.) — il cui tratto comune è quello della loro idoneità a
formare oggetto di negoziazione sul mercato dei capitali.
Basti qui ricordare che — al fine di assicurare al risparmiatore Il prospetto
un sufficiente grado di informazione in ordine ad una tipologia di informativo
beni relativamente ai quali lo stesso non ha, di norma, conoscenze
adeguate — la legge impone a chiunque intenda effettuare una
« offerta al pubblico » di prodotti finanziari l’obbligo di predisporre un
« prospetto informativo » (c.d. « prospetto d’offerta »), contenente, « in
una forma facilmente analizzabile e comprensibile, tutte le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dell’emittente e dei prodotti
finanziari offerti, sono necessarie affinché gli investitori possano
pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e
finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente e
degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi
diritti » (art. 94, comma 2, T.U.F.). Detto prospetto — di regola,
previamente sottoposto al controllo della Consob — deve essere reso
conoscibile al pubblico attraverso la sua pubblicazione.
A maggior tutela del risparmiatore, la legge riserva inoltre l’eser- I servizi di
cizio professionale nei confronti del pubblico dei « servizi e attività di investimento
investimento » — per tali intendendosi la negoziazione ed il collocamento di strumenti finanziari, la gestione individuale di portafogli di
investimento per conto terzi, la consulenza in tema di investimenti,
ecc. (art. 1, comma 5, e all. I sez. A T.U.F.) — a banche, « S.I.M-Società
di intermediazione mobiliare » e « imprese di investimento » appositamente autorizzate, ecc. (art. 18, comma 1, T.U.F.).
§ 85.
Beni fungibili e infungibili.
I beni possono altresì distinguersi in:
a) « fungibili » (o « di genere » o « generici »), per tali intenden- Beni fungibili
dosi quelli che sono individuati con esclusivo riferimento alla loro
186
L’attività giuridica
[§ 85]
appartenenza ad un determinato genere (ad es., denaro, titoli di Stato,
ecc.): essi possono essere sostituiti indifferentemente con altri, in
quanto non interessa, secondo la comune valutazione, avere proprio
quel bene (ad es., una determinata banconota da E 100), ma una data
quantità di beni di quel genere (ad es., banconote per un valore
complessivo di E 100: nessuno si preoccupa infatti, quando riceve
una determinata somma di danaro, che gli venga data questa o quella
banconota; ognuno sta, invece, bene attento a che gli venga data la
dovuta quantità di danaro: v. Cass. 9 ottobre 2012, n. 17178); e
Beni
b) « infungibili », per tali intendendosi quelli individuati nella
infungibili
loro specifica identità (ad es., un’opera d’arte); tali sono, di regola, i
beni immobili (ad es., l’immobile di via Verdi, n. 3; ecc.).
La fungibilità o infungibilità dipende, anzitutto, dalla natura
dei beni: il quadro di un celebre autore è certamente infungibile,
mentre il danaro è eminentemente fungibile. La fungibilità o infungibilità può, peraltro, derivare anche dalla volontà delle parti, le quali
possono attribuire carattere infungibile ad un oggetto che, secondo la
comune valutazione, dovrebbe essere considerato fungibile (così, ad
es., per me può avere interesse acquistare una determinata copia di
un certo libro perché appartenuta ad una persona cara: un altro
esemplare mi lascerebbe indifferente).
Anche la distinzione fra beni fungibili e beni infungibili è
Differenze di
regime
importante, perché le due categorie sono sottoposte ad una disciplina
giuridico
parzialmente diversificata.
Così, ad es. — mentre per trasmettere all’acquirente la proprietà di un bene infungibile è sufficiente che le parti raggiungano un
accordo al riguardo (art. 1376 c.c.), senza necessità di ulteriori
adempimenti (ad es., consegna del bene, registrazione dell’atto, ecc.;
v. § 314) — per il trasferimento della proprietà di una determinata
quantità di beni fungibili, non basta che sia intervenuto, al riguardo,
un accordo fra venditore ed acquirente; occorre altresì la separazione
(o specificazione), la quale consiste nella numerazione, nella pesatura
o nella misura della parte dovuta (art. 1378 c.c.). Perciò, se compro
un metro di stoffa, fino a quando il commerciante non ha misurato e
tagliato la stoffa che corrisponde ad un metro, non acquisto la
proprietà della stoffa: anche se ho pagato, ho soltanto il diritto —
diritto di credito — di ottenere che il commerciante tagli un metro di
stoffa e me ne faccia diventare proprietario (v. § 314).
Ancora: un vecchio aforisma giuridico avverte che « genus
numquam perit ». Esso esprime una verità indiscutibile: potrà perire
la quantità di grano che si trova nel mio granaio (ad es., per incendio,
per umidità o per qualsivoglia altra causa); ma mai potrà perire tutto
[§ 86]
L’oggetto del rapporto giuridico
187
il genus, ossia il grano. Se pure sarà bruciato il mio grano, grano vi
sarà sempre nel granaio del vicino, nei magazzini, ecc. Orbene, a
questa che sembra una verità lapalissiana si connettono conseguenze
giuridiche importanti. Se mi sono obbligato a dare una certa quantità
di beni fungibili (ad es., un litro di vino di una certa qualità), e il mio
vino va perduto per una causa qualsiasi, io non mi libero dall’obbligazione, perché non v’è una impossibilità assoluta: tutto si riduce,
per me, nell’obbligo di procurarmi dell’altro vino di quella stessa
qualità, anche se ciò mi costringe a sborsare del danaro per acquistarlo. Sia pure con questo maggiore mio sacrificio, potrò — e dovrò
— consegnare il vino al mio creditore (v. § 230).
La distinzione tra cose fungibili ed infungibili serve altresì a
distinguere il « mutuo » (art. 1813 c.c.) dal « comodato » (art. 1803
c.c.) (v. § 401).
§ 86.
Beni consumabili e inconsumabili.
I beni si distinguono anche in:
a) « consumabili », per tali intendendosi quelli che non possono Beni
arrecare utilità all’uomo senza perdere la loro individualità (per es., il consumabili
cibo, una bevanda, il carburante per auto, ecc.), ovvero senza che il
soggetto se ne privi (per es., il danaro); e
b) « inconsumabili », per tali intendendosi quelli che sono suscet- Beni
tibili di plurime utilizzazioni senza essere distrutti nella loro consistenza inconsumabili
(e beni
(ad es., un fondo rustico, un edificio, ecc.), ancorché, sovente, si deteriorabili)
deteriorino con l’uso (ad es., un vestito, un’autovettura, ecc.) (c.d.
« beni deteriorabili »).
A scolpire la distinzione sarà opportuno ricordare che i beni
consumabili — siccome capaci di una sola utilizzazione — sono anche
detti beni ad utilità semplice ovvero a fecondità semplice; i beni
inconsumabili — in quanto suscettibili di una serie di utilizzazioni —
sono anche detti beni ad utilità permanente ovvero a fecondità ripetuta.
Anche la distinzione tra beni consumabili e beni inconsumabili Differenze di
ha notevole importanza pratica, in quanto talune regole o taluni regime
giuridico
istituti trovano applicazione agli uni e non agli altri e viceversa.
Così, ad es., l’« usufrutto » — che, come vedremo meglio in
seguito (v. §§ 147 ss.), è un diritto reale con il quale si attribuisce il
godimento di uno o più beni a persona diversa dal proprietario, con
l’obbligo di rispettarne la destinazione economica (ius utendi fruendi,
salva rerum substantia) e di restituire lo stesso o gli stessi beni ricevuti
L’attività giuridica
188
[§ 87]
— non è concepibile rispetto ai beni consumabili. Rispetto a tali beni
è, invece, configurabile un rapporto diverso: il « quasi-usufrutto »
(art. 995 c.c.: il quasi-usufruttuario ha diritto di servirsi dei beni e
deve restituirne il valore al termine dell’usufrutto) (v. § 148). Invece,
per i beni deteriorabili — che, come già si è detto, rientrano nella
categoria dei beni inconsumabili — rimane la disciplina propria
dell’usufrutto: l’usufruttuario è tenuto a restituirli nello stato in cui
si trovano (art. 996 c.c.: v. § 148).
Altro aspetto della distinzione tra beni consumabili ed inconsumabili si ravvisa nella distinzione tra « comodato » e « mutuo ». Il comodato — come vedremo (v. § 400) — è un contratto con il quale si
consegna ad una persona una cosa a titolo gratuito, perché se ne serva
con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta (art. 1803 c.c.) (per es.,
presto un libro ad un amico che vuol leggerlo, con l’obbligo di restituirmelo). Esso non è concepibile rispetto ai beni consumabili. A questi
si addice la figura del mutuo (art. 1813 c.c.), in cui si ha l’obbligo di
restituire non già la stessa cosa, ma la stessa quantità di beni dello
stesso genere (tantundem eiusdem generis) (v. § 401). Eccezionalmente,
peraltro, si può avere anche la figura del comodato di beni consumabili,
quando questi siano stati consegnati non perché se ne tragga l’utilità
che è loro propria, ma per farne mostra, per ostentazione (per es., presto
del danaro all’amico, perché possa mostrare un portafoglio rigonfio alla
persona sulla quale vuole far colpo) (v. § 400).
§ 87.
Beni divisibili e indivisibili.
I beni si distinguono, ancora, in:
Beni
a) « divisibili », per tali intendendosi quelli suscettibili di essere
divisibili
ridotti in parti omogenee senza che se ne alteri la destinazione economica
(ad es., almeno di regola, un appezzamento di terreno, una quota
sociale, una forma di formaggio, ecc.); e
Beni
b) « indivisibili », per tali intendendosi quelli che non risponindivisibili
dono a tale caratteristica (ad es., un animale vivo, un quadro,
un’autovettura, ecc.).
Differenze di
La nozione di bene divisibile assume rilievo in caso di contitoregime
larità di diritti sul bene. Difatti — mentre, se il bene è divisibile, si
giuridico
può sempre ottenere lo scioglimento della comunione, mercé assegnazione di sue parti in natura — se il bene è indivisibile, lo
scioglimento della comunione può aver luogo soltanto o con l’attribuzione dell’intero nella porzione di quello (o di quelli) tra i condividenti che ne facciano (congiuntamente) richiesta, con addebito
[§ 89]
L’oggetto del rapporto giuridico
189
dell’eccedenza a beneficio degli esclusi (art. 720 c.c., richiamato
dall’art. 1116 c.c.; v. Cass. 9 ottobre 2018, n. 24832); ovvero con la
vendita del bene all’incanto e successiva ripartizione del ricavato tra
gli aventi diritto (v. § 670; v. Cass. 19 luglio 2016, n. 14756).
§ 88.
Beni presenti e futuri.
Altra distinzione è quella tra:
a) « beni presenti », per tali intendendosi quelli già esistenti in Beni presenti
natura: solo questi possono formare oggetto di proprietà o di diritti
reali (v. §§ 131 ss.); e
b) « beni futuri », per tali intendendosi quelli non ancora pre- Beni futuri
senti in natura (ad es., una casa progettata dall’architetto, ma non
ancora costruita; i frutti che verranno prodotti da un albero; ecc.):
essi possono formare oggetto solo di rapporti obbligatori (art. 1348
c.c.; v. §§ 189 ss.), salvo i rari casi in cui ciò sia vietato dalla legge (art.
771 c.c.: divieto di donazione di beni futuri; v. § 678).
A proposito dei negozi aventi per oggetto un bene futuro, bisogna
tener ben distinte due situazioni diverse fra loro. Può darsi che chi acquista un bene futuro non voglia assumere alcun rischio: è perciò stabilito
che, se esso non viene ad esistenza, il contratto non produce effetto e
nessun corrispettivo è dovuto dall’altra parte (così, ad es., il compratore
dei frutti di un fondo nulla deve pagare a titolo di prezzo, se i frutti non
sono prodotti) (art. 1472, comma 2, c.c.): c.d. « emptio rei speratae » (v. Cass.
30 giugno 2011, n. 14461). Del tutto diversa è, invece, l’ipotesi seguente.
Le parti si affidano alla sorte (e perciò il contratto è detto aleatorio): comprano ciò che si ricaverà dal getto della rete, e quindi lo stesso prezzo sarà
dovuto sia nel caso in cui la rete esca dal mare piena di pesci, sia in quello
in cui risulti vuota: c.d. « emptio spei ».
§ 89.
I frutti.
I « frutti » si distinguono in due categorie:
a) « frutti naturali », che sono prodotti direttamente da altro bene, Frutti
vi concorra o meno l’opera dell’uomo (ad es., i prodotti agricoli, la naturali
legna, i parti degli animali, i prodotti di miniere, cave e torbiere, ecc.)
(art. 820, comma 1, c.c.). Perché si possa parlare di frutti, occorre che
la produzione abbia carattere periodico e non incida né sulla sostanza
né sulla destinazione economica della cosa madre: così, ad es., il taglio
(periodico) di alberi di un bosco di alto fusto, destinato alla produzione di legna, costituisce frutto dell’immobile (terreno).
190
L’attività giuridica
[§ 90]
Finché non avviene la separazione dal bene che li produce, i
frutti naturali si dicono « pendenti »: essi formano parte della « cosamadre » (c.d. cosa fruttifera) e non hanno ancora esistenza autonoma.
Sono considerati come beni futuri e possono, quindi, formare oggetto
unicamente di rapporti obbligatori (art. 820, comma 2, c.c.). Solo con
la separazione i frutti naturali acquistano una loro distinta individualità (c.d. frutti « separati ») e divengono oggetto di un autonomo
diritto di proprietà: che spetta al proprietario della « cosa-madre »,
salvo che questi non ne abbia già disposto a favore di altri (ad es.,
abbia venduto i frutti ad un terzo, quando ancora essi erano sulla
pianta). Se le spese per la produzione e/o il raccolto dei frutti sono
sostenute da persona diversa da quella cui spetta la proprietà dei
frutti stessi, quest’ultima è tenuta al relativo rimborso, sempre che
tali spese non superino il valore dei frutti; altrimenti, il rimborso
spetta fino al limite di tale valore (art. 821, comma 2, c.c.; v. Cass. 11
agosto 2015, n. 16700): si suole dire, in proposito, che fructus non
intelleguntur nisi deductis impensis;
Frutti civili
b) « frutti civili », che — secondo la definizione fornita dall’art.
820, comma 3, c.c. — sono quelli che si ritraggono dalla cosa come
corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Se io concedo il mio
appartamento in locazione ad altri e questi mi paga un corrispettivo
(il c.d. canone di locazione), io ricavo dalla mia cosa un quid che non
è naturalmente prodotto da essa, ma sostituisce le utilità che avrei
ricavato dalla cosa: e, perciò, si chiama « frutto civile » (v. Cass. 28
settembre 2016, n. 19215). Tali sono anche gli interessi dei capitali, i
dividendi azionari, le rendite vitalizie, ecc. (v. Cass. 24 aprile 2018, n.
10116; Cass. 16 marzo 2018, n. 6664).
I frutti civili — al pari di quelli naturali — debbono presentare
il requisito della periodicità. Perciò, tali non sono i premi che vengono
sorteggiati a favore di possessori di titoli di Stato, di azioni, di
obbligazioni, che non abbiano carattere di periodicità, ma rappresentino un aumento del valore del bene che dipende dal caso.
Acquisto dei
I frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione della
frutti civili
durata del diritto: così, ad es., se viene venduta la cosa locata, il
canone in corso di maturazione (salvo diversa pattuizione tra le
parti) va diviso tra alienante ed acquirente in proporzione della
durata dei rispettivi diritti.
Acquisto dei
frutti
naturali
§ 90.
Combinazione di beni.
I beni possono essere impiegati dall’uomo o separatamente o —
[§ 91]
L’oggetto del rapporto giuridico
191
come più spesso avviene — insieme o collegati ad altri, in guisa da
accrescerne l’utilità.
Di qui una serie di distinzioni.
Anzitutto, quella tra:
a) « bene semplice », per tale intendendosi quello i cui elementi Bene
sono talmente compenetrati tra di loro che non possono staccarsi semplice
senza distruggere o alterare la fisionomia del tutto (ad es., un animale, una pianta, un fiore, ecc.);
b) « bene composto », per tale intendendosi quello risultante Bene
dalla connessione, materiale o fisica, di più cose, ciascuna delle quali composto
potrebbe essere staccata dal tutto ed avere autonoma rilevanza
giuridica ed economica (ad es., un’autovettura, che è composta dalla
carrozzeria, dal motore, dalle ruote, ecc.).
Se vendo un bene composto (ad es., un’automobile), la vendita Il regime dei
abbraccia tutti gli elementi (carrozzeria, motore, ruote, ecc.) di cui singoli
componenti
consta. Ciò non esclude che l’individualità dei singoli elementi — che della cosa
si trova, per così dire, allo stato latente o potenziale — possa composta
riaffiorare (ad es., se il proprietario intende vendere soltanto il
motore o le ruote).
Nell’ipotesi in cui singoli elementi appartengano a persone
diverse dal proprietario del tutto, bisogna distinguere: se il tutto è
una cosa mobile (per es., un’automobile) il proprietario di un singolo
elemento (per es., delle gomme) può rivendicarlo, se esso può separarsi senza notevole deterioramento; diversamente, la proprietà diventa comune in proporzione del valore delle cose spettanti a ciascuno (art. 939, comma 1, c.c.), salvo quanto previsto dal successivo
comma 2 (v. § 142); se il tutto è invece un immobile, gioca il principio
dell’accessione (di cui si parlerà al § 142): i singoli elementi diventano
di proprietà del titolare dell’immobile, salvo indennizzo o risarcimento (artt. 935 ss. c.c.).
È importante distinguere — ai fini della disciplina applicabile — Cosa
e
la « cosa composta » dall’« universalità di fatto », di cui parleremo al § composta
universalità
92: infatti, ad es., alla cosa composta si applica il principio « possesso di fatto
vale titolo », che non vige invece per le universalità di mobili (art. 1156
c.c.; v. § 183).
§ 91.
Le pertinenze.
Nella « cosa composta » gli elementi che la costituiscono diven- Nozione
tano parti di un tutto, il quale non può sussistere senza di essi (non
192
L’attività giuridica
[§ 91]
è concepibile, ad es., un’automobile senza motore) (v. Cass. 23
ottobre 2014, n. 22579).
Se, invece, una cosa è posta a servizio o ad ornamento di
Il vincolo
pertinenziale
un’altra, senza costituirne parte integrante e senza rappresentare
elemento indispensabile per la sua esistenza, ma in guisa da accrescerne l’utilità o il pregio, si ha la figura della « pertinenza » (art. 817
c.c.; v. Cass. 2 febbraio 2017, n. 2804).
Per la costituzione del rapporto pertinenziale debbono concorPresupposti
rere:
a) sia un elemento oggettivo: cioè, il rapporto di servizio o ornamento tra cosa accessoria e cosa principale: la prima deve arrecare
un’utilità alla seconda (v. Cass. 16 maggio 2018, n. 11970; Cass. 2
febbraio 2017, n. 2804);
b) sia un elemento soggettivo: cioè, la volontà — espressa od
anche solo tacita — di effettuare la destinazione dell’una cosa a
servizio od ornamento dell’altra (v. Cass. 2 agosto 2011, n. 16914).
Elemento
Il vincolo di pertinenza può intercorrere fra immobile ed immooggettivo
bile (ad es., il box, il posto auto, la cantina, il solaio, destinati al
servizio di una casa d’abitazione; il giardino destinato ad ornamento
di una unità immobiliare; un pozzo od una presa d’acqua per l’irrigazione di un fondo; le dipendenze di una villa; ecc.), fra mobile ed
immobile (ad es., le scorte vive — bestiame — e morte — strumenti,
utensili — di un fondo: artt. 1640, 1641 c.c.; la caldaia dell’impianto
di riscaldamento di una casa; il climatizzatore di un appartamento;
ecc.), fra mobile e mobile (ad es., le scialuppe e gli arredi di una nave;
l’autoradio di un’autovettura; ecc.).
...
La destinazione di una cosa al servizio o all’ornamento dell’altra
accessorietà
fa sì che l’una cosa abbia carattere accessorio rispetto all’altra, che
assume posizione principale. Se manca il vincolo di accessorietà, non
v’è figura della pertinenza (v. Cass. 26 settembre 2006, n. 20815).
... non
Il vincolo che sussiste tra le due cose dev’essere durevole, ossia
occasionalità
non occasionale (come può, invece, avvenire in occasione di fiere,
mostre, ecc.) (v. Cass. 16 maggio 2018, n. 11970).
Elemento
Detto vincolo dev’essere posto in essere da chi è proprietario
soggettivo
della cosa principale ovvero da chi ha un diritto reale su di essa (art.
817, comma 2, c.c.).
Titolarità
La giurisprudenza enuncia il principio secondo cui, per potersi
delle cose
configurare un rapporto pertinenziale, sarebbe necessario che la cosa
principale e
accessoria accessoria appartenga al proprietario della cosa principale (v. Cass.
16 maggio 2018, n. 11970) o, quanto meno, che quest’ultimo ne abbia
la disponibilità in forza di un rapporto obbligatorio (v. Cass. 30
ottobre 2018, n. 27636).
[§ 91]
L’oggetto del rapporto giuridico
193
In ogni caso, il vincolo, che si crea tra le due cose, non pregiudica i diritti che i terzi abbiano sulla cosa destinata alla funzione
pertinenziale; questi possono rivendicare la propria cosa, ancorché
sia stata posta al servizio di un’altra (art. 819 c.c.).
Tuttavia, il vincolo pertinenziale può creare nei terzi la convinzione che — come normalmente avviene — le pertinenze appartengano al proprietario della cosa principale. La legge tutela perciò,
entro certi limiti, la buona fede di questi terzi in riferimento sia alla
costituzione che alla cessazione della qualità di pertinenza:
a) costituzione: i terzi proprietari delle pertinenze — come si è
detto — possono rivendicarle contro il proprietario della cosa principale. Se, tuttavia, costui ha alienato la cosa principale, senza
esclusione della pertinenza, l’art. 819 c.c. protegge i terzi acquirenti,
sempre che ignorassero, senza loro colpa (c.d. buona fede), che la
pertinenza non apparteneva al proprietario della cosa principale:
— se la cosa principale è un bene immobile o un mobile registrato, ai terzi in buona fede non si può opporre l’esistenza di diritti
altrui sulle pertinenze, se essi non risultano da scrittura avente data
certa (art. 2704 c.c.) anteriore all’atto di acquisto da parte del terzo;
— se la cosa principale è un mobile non registrato, il terzo
acquirente in buona fede è protetto in base al principio « possesso vale
titolo », al quale abbiamo già più volte accennato (art. 1153 c.c.; v. §
183);
b) cessazione: la cessazione della qualità di pertinenza non è
opponibile ai terzi che abbiano anteriormente acquistato diritti sulla
cosa principale. Così, per es., se la cosa principale è stata venduta dal
proprietario a Tizio senza esclusione delle pertinenze e queste vengono poi vendute a Caio, questa seconda vendita non può essere
opposta a Tizio (art. 818, comma 3, c.c.; v. Cass. 5 agosto 2013, n.
18651).
Le pertinenze seguono, di regola, lo stesso destino della cosa Gli atti
principale, a meno che non sia diversamente disposto (art. 818 c.c.; v. dispositivi
Cass. 26 settembre 2017, n. 22353): se io vendo, dono, permuto un
bene, l’atto ha ad oggetto anche le pertinenze, pur se di queste non si
faccia cenno e — naturalmente — sempre che le parti non manifestino
una diversa volontà (v. Cass. 28 dicembre 2011, n. 29468). Peraltro,
sono perfettamente ammissibili contratti che riguardino in via autonoma la sola pertinenza (vendita o locazione di un box, comodato di
una soffitta, ecc.; v. Cass. 10 aprile 2015, n. 7183).
L’attività giuridica
194
§ 92.
[§ 92]
Le universalità patrimoniali.
L’art. 816 c.c. definisce « universalità » la pluralità di cose mobili
che: (i) appartengono alla stessa persona; e (ii) hanno una destinazione
unitaria (ad es., i libri di una biblioteca, i quadri di una pinacoteca,
i francobolli di una collezione, le pecore di un gregge, ecc.).
L’« universalità di mobili » si distingue:
Universalità,
cosa
— dalla « cosa composta », perché non v’è coesione fisica tra le
composta,
complesso varie cose;
pertinenziale
— dal « complesso pertinenziale », in quanto le cose non si trovano
l’una rispetto all’altra in rapporto di subordinazione: l’una non è posta
a servizio o ad ornamento dell’altra, ma tutte insieme costituiscono una
entità nuova dal punto di vista economico-sociale (ad es., la biblioteca,
la pinacoteca, la collezione di francobolli, il gregge, ecc.).
I beni che formano l’universalità possono essere considerati a
volte separatamente (art. 816, comma 2, c.c.), a volte come un
tutt’uno. Ciò dipende dalla volontà delle parti (ad es., posso vendere
il libro singolo o l’intera biblioteca) ed assume particolare importanza
nell’usufrutto: se questo è stabilito su una mandria o un gregge, gli
animali che nascono non sono considerati come frutti e non appartengono perciò, come tali, all’usufruttuario, come avverrebbe invece
se l’usufrutto fosse costituito su ciascun animale; l’usufruttuario è
infatti tenuto a surrogare gli animali periti con i nati (art. 994 c.c.).
Sotto vari aspetti l’ordinamento giuridico stabilisce per l’uniDifferenze di
regime fra
versitas un regime proprio e diverso da quello che disciplina i singoli
universitas e
singoli beni beni mobili.
mobili
Ad es., il principio « possesso vale titolo » non si applica all’universalità di mobili (art. 1156 c.c.; v. § 183): così, se acquisto in buona
fede un’universalità di mobili da chi non ne è proprietario, in forza di
un titolo idoneo, non divento subito proprietario per effetto della
trasmissione del possesso, come avviene per le cose mobili (art. 1153
c.c.), ma occorre che io abbia il possesso dell’universalità per dieci
anni (usucapione: art. 1160, comma 2, c.c.; v. § 184).
Inoltre, il possesso di un’universalità di mobili può essere tutelato con l’azione di manutenzione (art. 1170 c.c.), che non è concessa,
invece, per i singoli beni mobili (v. § 187).
Il codice non conosce che la figura generica dell’universalità di
mobili (art. 816 c.c.).
La dottrina distingue, peraltro, tra:
Universitas
facti e
— « universalità di fatto » (o « universitas facti » o « universitas
universitas
iuris rerum ») — di cui abbiamo appena parlato — che è costituita da più
beni mobili unitariamente considerati; e
Nozione
[§ 93]
L’oggetto del rapporto giuridico
195
— « universalità di diritto » (o « universitas iuris »), che è costituita da più beni — ma anche rapporti giuridici — in cui la riduzione
ad unità è operata dalla legge che, almeno sotto taluni profili, considera e regola unitariamente l’insieme di detti beni e rapporti (ad es.,
l’eredità: v. § 624; v. Cass. 10 febbraio 2017, n. 3655; il fondo
patrimoniale: v. § 601).
Vi è peraltro da dubitare della validità teorica — e della stessa
utilità pratica — della riconduzione dell’universalità di fatto e dell’universalità di diritto ad una figura unitaria.
§ 93.
L’azienda.
Un posto particolare tra le combinazioni di cose spetta Nozione
all’« azienda », che il codice (art. 2555 c.c.) definisce come il complesso
di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa: ossia, per la produzione di beni (ad es., azienda agricola, azienda
manifatturiera, ecc.) o di servizi (ad es., azienda di credito, compagnia di assicurazioni, società di trasporti, ecc.), ovvero per lo scambio
di beni (ad es., azienda per la rivendita di frutta e verdura, di
automobili, ecc.) o di servizi (ad es., agenzia di assicurazioni, ecc.) (v.
§ 476).
L’azienda è, dunque, costituita da un insieme di beni collegati
tra loro da un nesso di dipendenza reciproca, in guisa da servire al
fine produttivo comune.
Disputata è la natura giuridica dell’azienda. L’opinione tradi- Azienda e
zionale — peraltro ancora di recente riproposta dalla nostra Cassa- universitas
facti
zione (v. Cass. 26 settembre 2007, n. 20191; Cass. 15 gennaio 2003, n.
502) — la considera come un’universitas facti. Ma — come si è visto
— il concetto di universalità esige, da un lato, che di essa facciano
parte solo beni mobili, mentre l’azienda ben può comprendere anche
beni immobili (ad es., il capannone in cui viene svolta l’attività) e, da
altro lato, che le cose appartengano ad uno stesso proprietario,
mentre questo non è richiesto nell’azienda (ad es., assai spesso i locali
in cui l’attività viene esercitata sono in locazione, i macchinari sono
presi in leasing, le merci appartengono ad altri, ecc.). E, comunque,
è titolare dell’azienda anche chi (ad es., l’affittuario) non sia proprietario del complesso organizzato o dei singoli elementi costitutivi di
essa, purché organizzi e diriga ad un determinato fine produttivo o di
scambio l’attività economica dell’azienda, assumendone il rischio.
Non manca, perciò, chi ricorre ad una figura di universalità
diversa da quella prevista nell’art. 816 c.c.
196
L’attività giuridica
[§ 93]
Così — secondo altri — l’azienda sarebbe una cosa composta
funzionale, in cui le singole cose sono collegate non materialmente,
ma funzionalmente, in virtù del loro impiego, della loro destinazione
comune. È stato, peraltro, obiettato che la concezione tradizionale
della cosa composta implica l’idea della coesione materiale tra gli
elementi che la costituiscono.
Alle teorie materialistiche — che più o meno, come si è visto,
Azienda e
bene
fanno ricorso alle figure tradizionali del bene composto o dell’univerimmateriale
salità — si contrappongono le teorie immaterialistiche, che considerano l’azienda come un bene immateriale. L’azienda — si dice —
consiste tutta nell’organizzazione dei vari beni.
Vi è chi dà rilievo al concetto di organizzazione e chi considera
Azienda e
universitas
l’azienda come « universitas iuris o iurium » (in quest’ultimo senso, v.
iuris
Cass. 19 luglio 2000, n. 9460).
Da ultimo, la Suprema Corte — sulla base della considerazione
Azienda
quale bene
che l’azienda in quanto tale, come bene distinto dai suoi singoli
unitario
componenti, ben può essere oggetto di negozi giuridici (v. artt. 2112,
2555, 2558, 2559 e 2560 c.c., in tema di alienazione d’azienda; art.
2562 c.c., in tema di affitto d’azienda), di diritti reali (v. art. 2561
c.c., in tema di usufrutto d’azienda), di provvedimenti giudiziali (v.
art. 670 n. 1 c.p.c., in tema di sequestro giudiziale d’azienda) — è
giunta a ritenere che essa debba essere riguardata come bene unitario,
a composizione variabile nel tempo e qualitativamente mista, il cui
elemento unificatore, dal legislatore testualmente indicato nell’organizzazione per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.), è ancorato ad
un’attività (l’organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l’esercizio dell’impresa). Da ciò la S.C. ha
dedotto che l’azienda può essere oggetto anche di « possesso » (v. §§
174 ss.) e, nel concorso degli altri presupposti richiesti dalla legge, di
« usucapione » (v. § 184) (v. Cass., sez. un., 5 marzo 2014, n. 5087).
Tra gli elementi che formano l’azienda particolare importanza
L’avviamento
ha l’« avviamento ». L’espressione è nata dal linguaggio comune: si
dice che un complesso aziendale è ben « avviato » per affermare che fa
molti affari. Sinteticamente si può definire l’avviamento come la
capacità di profitto dell’azienda.
Disputata è la natura dell’avviamento: alcuni lo identificano
con la clientela, ma questa è piuttosto l’effetto dell’avviamento e si
distingue, perciò, da esso; altri lo considerano come un bene immateriale, un prodotto dell’ingegno, basandosi sulla considerazione che
il successo di un’impresa dipende dall’iniziativa, dalla genialità,
dall’intraprendenza dell’imprenditore; altri, infine, negano che si
Azienda e
cosa
composta
[§ 94]
L’oggetto del rapporto giuridico
197
tratti di un bene e considerano l’avviamento come una qualità
dell’azienda.
Secondo la Cassazione (v. Cass. 8 marzo 2013, n. 5845; ed ora
Cass. 19 novembre 2018, n. 29742), l’avviamento è una qualità
immateriale dell’azienda, che può anche mancare (come accade nel
caso di un’azienda di nuova formazione che non sia ancora entrata in
attività, ma sia suscettibile di iniziarla; o di azienda già in esercizio
che abbia cessato temporaneamente di funzionare).
Uno dei fattori che contribuiscono a costituire l’avviamento —
ossia, la sede ove si svolge l’attività aziendale — risulta oggi tutelato
dalla L. 27 luglio 1978, n. 392 (sulla « Disciplina delle locazioni di
immobili urbani »), che ha previsto, a favore dell’imprenditore che
gestisce un’azienda in locali altrui, il diritto a conseguire una indennità qualora venga a cessare la locazione dell’immobile, purché non a
seguito di sua inadempienza o recesso (art. 34 L. n. 392/1978).
Ha dato luogo a dispute anche il rapporto tra le nozioni di Azienda e
impresa
« impresa » e di « azienda ».
Il codice non dà la definizione di impresa, ma quella di « imprenditore »: l’imprenditore — secondo l’art. 2082 c.c. — è chi esercita
professionalmente (cioè, non occasionalmente) un’attività economica
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di
servizi (v. § 476).
La nozione dell’imprenditore è tratta dalle scienze economiche:
l’imprenditore è il soggetto principale della produzione, colui che ne
assume l’iniziativa ed il rischio.
Secondo l’opinione prevalente, l’azienda è lo strumento indispensabile per l’attività dell’imprenditore. D’altro canto, l’azienda
rientra nella categoria degli « oggetti », l’imprenditore in quella dei
« soggetti ».
L’« impresa », dunque, è l’attività economica svolta dall’imprenditore; l’« azienda » è, invece, il complesso dei beni di cui l’imprenditore si avvale per svolgere l’attività stessa.
§ 94.
Il patrimonio.
In senso giuridico, si chiama « patrimonio » il complesso dei Nozione
rapporti attivi e passivi, suscettibili di valutazione economica, facenti capo ad un soggetto.
Come si vede, questo concetto è diverso da quello comune di
patrimonio, secondo cui solo chi ha beni possiede un patrimonio.
Invece, qualunque soggetto ha un patrimonio, intesa l’espressione in
198
L’attività giuridica
[§ 94]
senso giuridico, anche se ha soltanto o prevalentemente debiti,
perché è, quanto meno, soggetto passivo di rapporti giuridici.
Il patrimonio non è considerato come un bene unico e, quindi,
esso non è una universitas.
La regola tradizionale è che ogni soggetto ha un patrimonio ed
La regola
dell’unicità
un patrimonio solo, con il quale risponde dei propri debiti (art. 2740,
del
patrimonio comma 1, c.c.; v. § 235).
Non è, di massima, concesso al singolo di staccare dei beni o dei
rapporti giuridici dal proprio patrimonio per riservarli ad alcuni
creditori, escludendo gli altri. Ciò può avvenire soltanto nei casi
previsti dalla legge (art. 2740, comma 2, c.c.).
Peraltro, specie in anni recenti, sono venute moltiplicandosi le
I patrimoni
separati
ipotesi in cui la legge prevede o consente la « separazione » di taluni
cespiti o categorie di cespiti dal restante patrimonio di un medesimo
soggetto. Su detti cespiti (c.d. « patrimonio separato ») possono agire
in via esecutiva non già — come sarebbe la regola (v. §§ 235 ss.) —
tutti i creditori del titolare, bensì solo alcuni di essi (così sottratti al
concorso degli altri, in funzione dell’interesse che la legge intende
tutelare). Si pensi, ad es., ai beni costituiti in fondo patrimoniale (v.
§ 601), sui quali non può far valere le proprie ragioni chi sapeva che
il suo credito era stato dal debitore assunto per scopi estranei ai
bisogni della famiglia (art. 170 c.c.); al patrimonio di chi ha accettato
l’eredità con beneficio di inventario (v. § 634), sul quale non possono
far valere le proprie ragioni i creditori del defunto ed i legatari (art.
490, comma 2 n. 2, c.c.); ai fondi speciali per la previdenza e
l’assistenza, costituiti dall’imprenditore ai sensi dell’art. 2117 c.c.,
che « non possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell’imprenditore o del prestatore di lavoro »; ai « patrimoni
destinati ad uno specifico affare » (v. § 536), di regola sottratti
all’esecuzione da parte dei « normali » creditori sociali (art. 2447quinquies e 2447-decies c.c.; v. ora anche art. 10 L. 3 luglio 2017, n.
117: c.d. « codice del Terzo settore »); ai beni destinati ad uno scopo
ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. (v. § 690), di regola sottratti all’esecuzione per crediti estranei alla finalità loro impressa; ai crediti ceduti,
nell’ambito di un’operazione di « cartolarizzazione », alla c.d. « società
veicolo » (v. § 207), che costituiscono « patrimonio separato » sia
rispetto a quello della stessa società veicolo, sia rispetto a quello
relativo ad altre operazioni di cartolarizzazione eventualmente realizzate dalla medesima società veicolo (art. 3, comma 2, L. 30 aprile
1999, n. 130); ai beni immobili trasferiti alle società costituite per la
realizzazione di operazioni di cartolarizzazione di immobili pubblici
(v. § 95), che costituiscono « patrimonio separato » sia rispetto a
L’oggetto del rapporto giuridico
[§ 95]
199
quello della società, sia rispetto a quello relativo ad altre operazioni
di cartolarizzazione da quest’ultima realizzate (art. 2, comma 2, D.L.
25 settembre 2001, n. 351); alle somme che i notai e gli altri pubblici
ufficiali sono tenuti — ai sensi dell’art. 1, comma 63, L. 27 dicembre
2013, n. 147 — a versare su appositi conti correnti dedicati, per le
quali è previsto, da un lato, che le stesse siano escluse dalla successione del notaio o del pubblico ufficiale, così come dal suo regime
patrimoniale di famiglia e, da altro lato, che siano assolutamente
impignorabili (art. 1, comma 65, L. n. 147/2013); ai beni costituiti in
trust, istituto di matrice anglosassone in cui alcuni cespiti patrimoniali vengono trasferiti da un settlor ad un trustee per una determinata
finalità, e vengono a costituire un patrimonio separato rispetto agli
altri rapporti facenti capo al trustee medesimo (cfr. L. 16 ottobre
1989, n. 364, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja del
1o luglio 1985: v. § 337); ecc. V. anche gli artt. 22, comma 1, 35-bis,
comma 6, e 36, comma 4, T.U.F., sui quali si tornerà al successivo §
508; nonché l’art. 42, comma 2, cod. assic.
Diverso dal « patrimonio separato » è il « patrimonio autonomo »: Patrimonio
il primo termine allude al fenomeno del distacco di una parte del autonomo
patrimonio, che continua ad appartenere allo stesso soggetto; il
patrimonio autonomo è, invece, quello che viene attribuito ad un
nuovo soggetto, mediante la creazione di una persona giuridica (ad es.,
società di capitali, associazione riconosciuta, ecc.), od anche solo di
un ente che, sebbene sprovvisto di personalità, sia dotato di autonomia patrimoniale, ancorché imperfetta (ad es., società di persone,
associazione non riconosciuta, comitato, ecc.) (v. § 69).
§ 95.
Beni pubblici, beni comuni, beni collettivi.
Beni degli enti ecclesiastici.
Nozione
Di « beni pubblici » si parla in due sensi:
a) beni appartenenti ad un ente pubblico: c.d. « beni pubblici in
senso soggettivo »;
b) beni assoggettati ad un regime speciale, diverso dalla proprietà privata, per favorire il raggiungimento dei fini pubblici cui
quei cespiti sono destinati: c.d. « beni pubblici in senso oggettivo » (v.
Cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665).
Sono pubblici in senso oggettivo i « beni demaniali » ed i « beni
del patrimonio indisponibile ».
Tradizionalmente, i beni « demaniali » — tassativamente indi- Beni
demaniali
cati dalla legge — si distinguevano, a loro volta, in:
200
L’attività giuridica
[§ 95]
a) beni — immobili — del « demanio necessario », in quanto
appartenevano necessariamente allo Stato (demanio marittimo: lido
del mare, spiagge, rade, porti, lagune, foci dei fiumi, bacini comunicanti liberamente con il mare e relative pertinenze; demanio idrico:
fiumi, torrenti, laghi, acque superficiali e sotterranee ex art. 144
D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ghiacciai, terreni abbandonati dalle
acque correnti ex art. 942 c.c., alvei abbandonati ex art. 946 c.c., isole
che si formano nel letto di fiumi e torrenti ex art. 945 c.c.; demanio
militare: opere destinate alla difesa nazionale, ossia fortificazioni,
piazzeforti, linee fortificate, impianti ed infrastrutture militari, aeroporti militari, opere permanenti di difesa antiaerea, ecc., oggi
indicate dagli artt. 231 e 236 D.Lgs. 16 marzo 2010, n. 66) (art. 822,
comma 1, c.c.);
b) beni — immobili ed universalità di mobili — del « demanio
... demanio
accidentale
accidentale », che possono appartenere anche a privati e che sono
« demaniali » solo se appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico
territoriale (demanio stradale: strade destinate all’uso pubblico, autostrade e relative pertinenze; demanio aeronautico civile: aerodromi
non militari; acquedotti; demanio culturale ex art. 53 D.Lgs. 22
gennaio 2004, n. 42: immobili di interesse storico, archeologico e
artistico, raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle
biblioteche; v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25690) (artt. 822, comma 2,
e 824, comma 1, c.c.). Rientrano nel « demanio comunale » anche i
cimiteri ed i mercati comunali, sempre che appartengano ai Comuni
(art. 824, comma 2, c.c.).
I beni demaniali — in quanto direttamente preordinati al
Il regime dei
beni
soddisfacimento di interessi imputati alla collettività rappresentata
demaniali
dagli enti territoriali — sono assoggettati ad un regime particolare:
non possono, di regola, formare oggetto di negozi di diritto privato
(c.d. incommerciabilità dei beni demaniali: art. 823 c.c.); non possono
formare oggetto di possesso (art. 1145 c.c.); conseguentemente, non
possono essere acquistati per usucapione da privati (v. Cass. 15
ottobre 2018, n. 25690); non sono assoggettabili ad esecuzione forzata
(v. Cass. 30 maggio 2018, n. 13618); non possono essere espropriati
per pubblica utilità; ecc. A tutela dei beni demaniali, la P.A. può —
oltre che ricorrere agli ordinari rimedi giurisdizionali che l’ordinamento prevede a tutela della proprietà e del possesso (v. §§ 143, 161,
185 ss.) — procedere in via amministrativa (c.d. « autotutela »),
irrogando sanzioni (ad es., pecuniarie) e/o esercitando poteri di
polizia demaniale (ad es., tramite ordini di sgombero, rimozioni
forzate, ecc.) (art. 823, comma 2, c.c.).
... demanio
necessario
[§ 95]
L’oggetto del rapporto giuridico
201
Siffatti profili sono disciplinati dal diritto pubblico. Si rinvia, in
proposito, alle trattazioni di questa materia.
Quello sin qui descritto è il sistema tradizionale dei beni demaniali. Peraltro, la disciplina del c.d. federalismo demaniale (art. 19 L.
5 maggio 2009, n. 42; D.Lgs. 28 maggio 2010, n. 85) — di cui
parleremo fra un momento — prevede che il regime dei beni demaniali continui ad applicarsi, in via generale, soltanto al demanio
marittimo, al demanio idrico, al demanio aeroportuale, così come,
almeno di regola, alle miniere (art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 85/2010); e
che gli altri beni, se ed in quanto oggetto di trasferimento a comuni,
province, città metropolitane e regioni, entrino a far parte, di regola,
del loro « patrimonio disponibile » (art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 85/
2010).
I beni « non demaniali » appartenenti ad un ente pubblico — Beni
anche non territoriale — si definiscono « beni patrimoniali »; e, a loro patrimoniali
volta, si distinguono in:
a) beni — immobili e mobili — del « patrimonio indisponibile »
(ad es., foreste; miniere, cave e torbiere; cose mobili di interesse
storico, archeologico, paletnologico, paleontologico ed artistico, da
chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo; caserme,
armamenti, aeromobili militari e navi da guerra; edifici destinati a
sede di uffici pubblici, con i loro arredi; nonché — ex art. 1, comma
1, L. 11 febbraio 1992, n. 157 — la fauna selvatica) (art. 826, comma
3, c.c.; v. Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 6019), che non possono
essere sottratti alle rispettive destinazioni se non con le modalità
previste dalle norme del diritto pubblico (art. 828, comma 2, c.c.; v.
Cass. 14 giugno 2018, n. 15621): quindi, non possono essere oggetto di
usucapione (v. Cass. 23 febbraio 2009, n. 4388) e — pur potendo, di
regola, formare oggetto di negozi traslativi di diritto privato — sono
comunque gravati da uno specifico vincolo di destinazione all’uso
pubblico (v. Cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 9665); e
b) beni del « patrimonio disponibile », che non sono destinati
direttamente ed immediatamente al perseguimento di fini pubblici
(v. Cass. 25 gennaio 2018, n. 1868) e, conseguentemente, sono soggetti — salvo deroghe contenute in leggi speciali — alle norme del
codice civile (ad es., possono essere alienati o, più in generale, fatti
oggetto di atti dispositivi; sono usucapibili; sono soggetti ad esecuzione forzata; sono assoggettabili ad espropriazione per pubblica
utilità; ecc.).
Il quadro normativo delineato dal codice civile — e fin qui
descritto nei suoi tratti essenziali — era già stato ampiamente inciso
dalla legislazione di settore (ad es., per quanto riguarda le strade
202
L’attività giuridica
[§ 95]
ferrate già appartenenti all’Azienda autonoma Ferrovie dello Stato,
la rete stradale ed autostradale nazionale, gli aeroporti, ecc.).
Ma una modifica ben più radicale dovrebbe conseguire all’atIl c.d.
federalismo
tuazione del c.d. federalismo demaniale, quale delineato dall’art. 19 L.
demaniale
5 maggio 2009, n. 42, e dal D.Lgs. 28 maggio 2010, n. 85.
Due le linee di fondo, cui si ispira il nuovo sistema:
a) contrazione del patrimonio pubblico dello Stato, mediante attribuzione — a titolo non oneroso — di molti beni immobili statali del
demanio ed anche del patrimonio indisponibile (ad es., spiagge, rade,
porti, lagune, aeroporti di interesse regionale o locale, miniere, ecc.)
agli enti territoriali non statali (comuni, province, città metropolitane e regioni), che saranno però tenuti a favorirne la massima
valorizzazione funzionale, a vantaggio diretto o indiretto della collettività territoriale rappresentata (artt. 1, 2, 3, 4, comma 3, e 5
D.Lgs. n. 85/2010);
b) contrazione del numero complessivo dei « beni pubblici » in
senso oggettivo, mediante attribuzione dei beni così trasferiti agli
enti locali, di regola, al loro patrimonio disponibile (art. 4, comma 1,
D.Lgs. n. 85/2010); con la conseguenza che detti beni potranno essere
alienati, seppure previa loro valorizzazione attraverso idonee varianti agli strumenti urbanistici (art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 85/2010).
Faranno eccezione — come già anticipato — i beni appartenenti al
demanio marittimo, al demanio idrico ed al demanio aeroportuale, così
come, almeno di regola, le miniere, che, seppur trasferiti agli enti
locali, resteranno assoggettati al regime demaniale delineato dal
codice civile (art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 85/2010).
Va, tuttavia, segnalato il ritardo che continua a caratterizzare
le procedure di attuazione di siffatto disegno riformatore (tant’è che,
al riguardo, è dovuto nuovamente intervenire il legislatore — con
D.L. 21 giugno 2013, n. 69 — nel tentativo di semplificare i relativi
procedimenti).
Peraltro, dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso — nell’ambito
Privatizzazione del
delle
misure di risanamento finanziario — è stato avviato un processo
patrimonio
immobiliare di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico (al riguardo v., da
pubblico ultimo, art. 1, commi 422-433, L. 30 dicembre 2018, n. 145).
Il tema appartiene al diritto pubblico.
Purtuttavia può essere utilmente segnalato che lo Stato (art. 2,
La c.d.
cartolarizzacomma 1, D.L. 25 settembre 2001, n. 351), nonché le regioni, le
zione del
patrimonio province, i comuni e gli altri enti locali (art. 84 L. 27 dicembre 2002,
immobiliare n. 289) sono abilitati a costituire società a responsabilità limitata
pubblico
(c.d. « S.C.I.P.-Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici »), cui
trasferire — a titolo oneroso — beni facenti parte del patrimonio
[§ 95]
L’oggetto del rapporto giuridico
203
immobiliare pubblico, affinché queste ultime procedano alla loro alienazione sul mercato. Per il pagamento del corrispettivo dovuto per
l’acquisto di detti beni, le « S.C.I.P. » devono procurarsi la provvista
necessaria mediante una o più operazioni di « cartolarizzazione » (v. §
207): cioè, mediante l’emissione di titoli o l’assunzione di finanziamenti
garantiti proprio ed esclusivamente dai beni pubblici oggetto di ciascuna operazione (beni sui quali potranno far valere il loro credito solo
i portatori di detti titoli ed i concedenti detti finanziamenti, non gli altri
creditori della società: beni che, conseguentemente, costituiscono un
« patrimonio separato » sia rispetto a quello della società stessa, sia rispetto a quelli relativi ad eventuali altre operazioni di cartolarizzazione realizzate dalla medesima società: art. 2, comma 2, D.L. n. 351/
2001). I titolari dei titoli ed i concedenti i finanziamenti finalizzati alla
singola operazione di cartolarizzazione debbono essere rimborsati con
il ricavato dalla alienazione degli immobili.
Peraltro le operazioni di cartolarizzazione di immobili pubblici,
avviate nei primi anni 2000, hanno sortito esiti non all’altezza delle
aspettative.
Il principio costituzionale della tutela della personalità umana Beni
anche nell’ambiente in cui essa si svolge (artt. 2, 9 e 42 Cost.) — ha « comuni »
di recente ricordato la nostra Suprema Corte (v. Cass., sez. un., 14
febbraio 2011, n. 3665) — impone una peculiare considerazione non
solo per i « beni pubblici » in senso oggettivo (relativamente ai quali,
come si è detto, è previsto un regime peculiare proprio perché, di
regola, funzionali al soddisfacimento di interessi della collettività),
ma anche per i c.d. « beni comuni », per tali intendendosi quei beni
che — indipendentemente dall’essere di proprietà privata o pubblica
— per loro intrinseca natura o finalizzazione risultano funzionali al
perseguimento ed alla realizzazione di interessi della collettività e per
i quali, proprio per questo, viene variamente assicurato un uso
diretto da parte della collettività stessa (si pensi, ad es., alle c.d.
« strade vicinali », di proprietà privata, ma soggette al pubblico transito; agli « usi civici » su terreni appartenenti a comunità locali, i cui
abitanti possono goderne collettivamente: v. Corte cost. 31 maggio
2018, n. 113; alle c.d. « aree protette » ex L. 6 dicembre 1991, n. 394,
sulle quali sono imposti vincoli finalizzati alla tutela del paesaggio e
della salute dei consociati; ecc.).
Proprio « in attuazione degli artt. 2, 9, 42, secondo comma, e 43 Beni
della Costituzione », la recente L. 20 novembre 2017, n. 168, ha ora « collettivi »
tipizzato la categoria dei « beni collettivi » — per tali intendendosi le
terre di originaria proprietà collettiva della generalità degli abitanti
del territorio di un comune o di una frazione; le terre, con le
204
L’attività giuridica
[§ 95]
costruzioni di pertinenza, assegnate in proprietà collettiva agli abitanti di un comune o di una frazione, a seguito della liquidazione dei
diritti di uso civico; le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati,
sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici
non ancora liquidati; i corpi idrici sui quali i residenti del comune o
della frazione esercitano usi civici; ecc. (art. 3, comma 1, L. n.
168/2017) — il cui regime giuridico (artt. 3, comma 3, e 2, comma 4,
L. n. 168/2017) è caratterizzato: (i) dall’inalienabilità; (ii) dall’indivisibilità; (iii) dall’inusucapibilità; (iv) dalla perpetua destinazione
agro-silvo-pastorale; (v) dall’affidamento della relativa amministrazione ad enti esponenziali delle collettività titolari, cui è riconosciuta
personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria (art.
1, comma 2, L. n. 168/2017).
I beni degli
Ai beni degli enti ecclesiastici trovano applicazione le norme del
enti codice civile, ove non diversamente previsto dalle leggi speciali (di
ecclesiastici
norma attuative delle intese concluse dallo Stato Italiano con le varie
confessioni religiose).
Le chiese
Per quanto riguarda, poi, il regime giuridico delle chiese destidestinate al nate all’esercizio pubblico del culto cattolico, va ricordato che esse
culto
cattolico possono appartenere anche a privati; nel qual caso sono soggette alla
disciplina del diritto privato (possono quindi essere alienate, usucapite, ecc.), ma, finché non siano sconsacrate secondo le regole del
diritto canonico, non possono essere sottratte alla loro destinazione e
al culto (art. 831, comma 2, c.c.). In altre parole, la destinazione
all’esercizio pubblico del culto importa una limitazione del diritto di
proprietà spettante al loro titolare, che — fin quando detta destinazione permane — potrà goderne solo nella misura in cui ciò non
ostacoli le esigenze del culto (v. Cass. 22 giugno 2017, n. 15504).
CAPITOLO IX
IL FATTO, L’ATTO ED IL NEGOZIO GIURIDICO
§ 96.
I fatti giuridici.
Per fatto giuridico si intende qualsiasi avvenimento cui l’ordinamento ricolleghi conseguenze giuridiche.
Si distinguono fatti materiali (quando si verifica un mutamento
della situazione preesistente in rerum natura, nel mondo esterno,
fisico o sensibile, percepibile dall’uomo con i sensi: l’abbattimento di
un albero, la distruzione di un documento) e fatti in senso ampio,
comprensivi sia di omissioni (ad es.: mancato esercizio di un diritto
che, se l’inerzia si protrae per il tempo determinato dalla legge,
conduce alla estinzione del diritto per prescrizione: art. 2934 c.c.), sia
di c.d. fatti interni o psicologici (ad es.: affinché sia ammissibile
l’azione revocatoria di un atto di disposizione posto in essere da un
debitore occorre « che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto
arrecava alle ragioni del creditore », art. 2901, comma 1, n. 1 c.c.).
Si parla di fatti giuridici in senso stretto o naturali quando Fatti in senso
determinate conseguenze giuridiche sono poste in relazione ad un stretto
certo evento senza che assuma rilievo se a causarlo sia intervenuto o
meno l’uomo (ad es.: « Sono frutti naturali quelli che provengono
direttamente dalla cosa, vi concorra o no l’opera dell’uomo, come i
prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i prodotti delle
miniere, cave e torbiere », art. 820, comma 1, c.c.). Si pensi alla morte
di una persona, che provoca la « apertura della successione » mortis
causa del defunto (art. 456 c.c.), o a un’inondazione o a un terremoto,
che possono provocare perdite di proprietà, estinzioni o modificazioni
di diritti, ecc. (ad es., se un fiume si costituisce un nuovo letto,
abbandonando l’antico, « il terreno abbandonato rimane assoggettato al regime proprio del demanio pubblico », art. 946 c.c.)
Si parla, invece, di atti giuridici se l’evento causativo di conse- Atti giuridici
guenze giuridiche consiste in un’azione umana (così è, ad es., per tutti
i reati, i contratti, oppure per l’occupazione di una res nullius, art.
923 c.c., o per la « specificazione », art. 940 c.c., ecc.).
L’attività giuridica
206
[§ 97]
La giuridicità di un fatto, dunque, non dipende mai da caratteristiche intrinseche di quell’avvenimento, bensì soltanto dalla circostanza che da quell’evento derivi, in forza di una norma giuridica
che lo disponga, un certo effetto giuridico.
§ 97.
Classificazione degli atti giuridici.
Gli atti giuridici (e, cioè, gli atti umani consapevoli e volontari
rilevanti per il diritto) si distinguono, sul piano della valutazione
giuridica, in due grandi categorie: atti conformi alle prescrizioni
dell’ordinamento (atti leciti) e atti compiuti in violazione di doveri
giuridici e che producono la lesione del diritto soggettivo altrui (atti
illeciti, che dal codice sono denominati « fatti illeciti »: artt. 2043 ss.
c.c.).
Di questi ultimi ci occuperemo a suo luogo (§§ 454 e ss.).
Operazioni e
Gli atti leciti si suddistinguono in operazioni (o anche atti reali o
dichiarazioni
materiali ovvero comportamenti) che consistono in modificazioni del
mondo esterno (per es. la presa di possesso di una cosa, la costruzione
di un edificio), e dichiarazioni, che sono atti diretti a comunicare ad
altri il proprio pensiero, la propria opinione o il proprio stato d’animo
o la propria volontà (sono, dunque, fatti di linguaggio).
Negozi
Tra le dichiarazioni, la maggiore importanza va attribuita ai
giuridici
negozi giuridici (v. § 98), ossia alle dichiarazioni con le quali i privati,
nell’ambito dell’autonomia a loro riconosciuta dall’ordinamento,
esprimono la volontà di regolare in un determinato modo i propri
interessi, mediante la produzione di effetti giuridici (es. assumendo
un’obbligazione, rinunciando ad un diritto o trasferendolo ad altri,
recedendo da un contratto, istituendo una persona come proprio
erede ecc.).
Dichiarazioni
Si dicono invece dichiarazioni di scienza quelle con le quali non
di scienza
si esprime una propria volontà, tendente a produrre un qualche
effetto giuridico, ma si comunica ad altri di essere a conoscenza di un
atto o di una situazione del passato, della quale il dichiarante afferma
di essere a diretta conoscenza (come, ad es., nella confessione, v. § 129,
ma anche in casi di attestazioni, riconoscimenti, certificati), ovvero si
descrivono i termini di una situazione che il dichiarante afferma di
aver preso in esame (come nel caso di inventari, rendiconti, bilanci,
perizie).
Atti giuridici
Tutti gli atti umani consapevoli e volontari, che non siano
in senso
negozi giuridici, sono denominati atti giuridici in senso stretto (o atti
stretto
non negoziali). I loro effetti giuridici non dipendono dalla volontà
Atti leciti ed
atti illeciti
[§ 98]
Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico
207
dell’agente, ma sono disposti dall’ordinamento senza riguardo all’intenzione di colui che li pone in essere. Per esempio, se una persona
intima per iscritto al debitore di adempiere, questi è costituito in
mora (art. 1219 c.c.), con tutte le relative conseguenze (v. § 232),
anche se il creditore non aveva nessuna intenzione di provocare
quegli effetti con la sua iniziativa.
Secondo un’autorevole dottrina per la validità di questi atti,
salva diversa disposizione legislativa, non è richiesta la capacità
legale di agire (§ 46), ma è sufficiente lo stesso grado di capacità che
si esige per l’imputabilità degli atti illeciti: la capacità d’intendere e
di volere al momento dell’atto (art. 2046 c.c.).
Una particolare categoria di atti è costituita dagli atti dovuti, o
satisfattivi, che consistono nell’adempimento di un obbligo: per es. il
pagamento. Anch’essi si distinguono dai negozi giuridici perché,
appunto in quanto presuppongono un obbligo, non costituiscono
esplicazione di autonomia privata (che è sostanzialmente libertà).
§ 98.
Il negozio giuridico.
Frutto di elaborazione teorica, la figura del negozio giuridico è
stata delineata dalla dottrina tedesca del XIX secolo (ed in particolare dalla scuola pandettistica, così denominata perché fondata sulla
rielaborazione della tradizione romanistica, nota attraverso le Pandette giustinianee) mediante un processo di astrazione rispetto ai più
frequenti ed importanti tipi di atti: si è rilevato, infatti, che istituti
quali il contratto, il testamento, il matrimonio, presentano tutti il
tratto comune per cui dei privati enunciano in una loro dichiarazione
(unilaterale, bilaterale o plurilaterale a seconda dei casi) gli effetti
giuridici che intendono conseguire (l’acquisto della proprietà di una
cosa in corrispettivo di un prezzo o il licenziamento di un dipendente
o l’attribuzione di propri beni ad un congiunto post mortem, ecc.). In
tutti questi casi la volontà manifestata produce effetti giuridici,
creando, modificando o estinguendo situazioni giuridiche soggettive;
ossia, per utilizzare la formula impiegata dal nostro codice per il
contratto, la regola dettata dalla volontà privata « ha forza di legge
tra le parti » (art. 1372 c.c.).
È agevole, perciò, intendere la definizione del negozio giuridico Nozione
data dalla dottrina tradizionale: una « dichiarazione di volontà » con
la quale vengono enunciati gli effetti perseguiti (il c.d. « intento
empirico ») ed alla quale l’ordinamento giuridico — se la finalità
dell’atto è meritevole di tutela e se esso risponde ai requisiti fissati
208
L’attività giuridica
[§ 98]
dalla legge per le singole figure negoziali — ricollega effetti giuridici
conformi al risultato voluto dal o dai dichiaranti (effetti che come si
è accennato possono essere i più vari: il trasferimento della proprietà
di un bene; la costituzione di obblighi reciproci di prestazione tra i
contraenti; l’estinzione di un preesistente diritto di una delle parti
verso l’altra; la nomina di un erede o l’attribuzione di un legato).
Il fenomeno negoziale corrisponde alla necessità di ritagliare
una sfera di « autonomia », entro la quale i privati possano decidere
da sé come regolare i propri interessi, ottenendo dalla legge che gli
atti posti in essere siano resi vincolanti ed impegnativi: in tal modo
l’ordinamento attribuisce ai privati il potere di creare una regola
giuridica dei loro rapporti e di produrre modificazioni della situazione
giuridica preesistente (per es. il trasferimento del diritto di proprietà), sia pure nei limiti e con le forme prescritte dalla legge e con
efficacia circoscritta (salvo talune eccezioni) alle parti del negozio.
Assenza di
Nonostante la grande importanza che il concetto di negozio
una
giuridico riveste, il nostro codice civile non gli dedica un’apposita
disciplina
universale disciplina: nel codice sono regolati, per esempio, il contratto (artt.
del negozio 1321-1469 c.c.), il testamento (artt. 587-712 c.c.), il matrimonio (artt.
giuridico
84-142) e numerose altre singole figure negoziali, ma non il negozio
giuridico in generale.
La disciplina
Peraltro al contratto il codice civile dedica una disciplina orgadel contratto
nica ed articolata: l’intero titolo II del libro IV del codice regola, con
in generale
numerose norme, la « parte generale » del contratto; inoltre l’art. 1324
c.c. dispone che « salvo diverse disposizioni di legge, le norme che
regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti
unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale »: ciò rende la
disciplina dei contratti tendenzialmente applicabile a tutti gli altri
negozi giuridici inter vivos e a contenuto patrimoniale, sicché quella
disciplina costituisce altresì il paradigma della disciplina dei fenomeni negoziali. Non sarebbe però corretto dedurne una sicura ed
immediata applicabilità, in via diretta o analogica, di quella disciplina ad ogni altro tipo di negozio, diverso dal contratto, essendo
evidente, per esempio, che i negozi aventi carattere non patrimoniale, come il matrimonio e in generale gli atti relativi a rapporti di
diritto familiare, presentano profili eterogenei rispetto alla logica
della disciplina del contratto, il quale attiene a rapporti di carattere
patrimoniale. Dunque la possibilità di fare riferimento, nell’ambito
dei negozi diversi dal contratto, alla disciplina di quest’ultimo deve
essere vagliata caso per caso.
Benché il negozio giuridico non costituisca una figura normativa, essa ha un ruolo centrale nella storia della cultura giuridica e
[§ 99]
Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico
209
mantiene anche oggi rilevanza come strumento concettuale utilizzato dagli interpreti; pertanto è senz’altro utile illustrare le classificazioni dei negozi giuridici tradizionalmente operate.
§ 99. Classificazioni dei negozi giuridici:
a) in relazione alla struttura soggettiva.
Se il negozio giuridico è perfezionato con la dichiarazione di una Negozio
sola parte si dice unilaterale (per es. il testamento, o l’atto costitutivo unilaterale
di una fondazione). Non si deve peraltro confondere la nozione di
parte con quella di individuo: per parte s’intende un « centro d’interessi ». Perciò si può avere una parte composta da una pluralità di
persone (parte « soggettivamente complessa »). È, per es., unilaterale
il negozio con il quale più persone conferiscono tutte insieme una
procura a vendere un bene di cui siano comproprietarie.
Se le dichiarazioni di volontà sono dirette a formare la volontà Atto
di un organo pluripersonale di una persona giuridica o di una collet- collegiale
tività organizzata di individui (es.: deliberazione dell’assemblea di
una società per azioni e di un condomino), si ha l’atto collegiale.
Nell’atto collegiale si applica il principio di maggioranza: la deliberazione è valida ed efficace anche se è approvata dalla maggioranza
e non da tutti coloro che hanno diritto di partecipare alla formazione
della volontà della persona giuridica.
Dalle figure finora esaminate si distingue quella dell’atto com- Atto
plesso. Anche l’atto complesso consta di più volontà tendenti ad un complesso
fine comune, ma, a differenza di quanto avviene nell’atto collegiale,
queste volontà si fondono in modo da formarne una sola. Per esempio
la dichiarazione dell’inabilitato e del suo curatore.
Il valore pratico della distinzione è il seguente: quando le
dichiarazioni si fondono in una sola, il vizio di una di esse inficia
senza rimedio la dichiarazione complessa (per esempio se il curatore di
un inabilitato è stato costretto da violenza a consentire all’alienazione di un bene di quest’ultimo, il vizio si riflette interamente sulla
validità della dichiarazione della « parte » venditrice — ossia l’inabilitato assistito dal curatore — non potendo attribuirsi autonoma
valenza alla dichiarazione del solo inabilitato). Invece, se la dichiarazione di voto di un partecipante ad un’assemblea è viziata, ciò non
travolge automaticamente la deliberazione collegiale: si deve vedere
se il voto invalido era determinante ai fini della formazione della
maggioranza; qualora la maggioranza sussista ugualmente la deliberazione dell’organo collegiale rimane valida (c.d. prova di resistenza).
L’attività giuridica
210
[§ 100]
I negozi giuridici unilaterali si distinguono in recettizi, se, per
produrre effetto, la dichiarazione negoziale deve pervenire a conoscenza di una determinata persona, alla quale, pertanto, deve essere
comunicata o notificata (art. 1334 c.c.: per es. la disdetta, la proposta
di concludere un contratto); e non recettizi, se producono effetto
indipendentemente dalla comunicazione ad uno specifico destinatario
(ad es., riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio, accettazione di un’eredità).
Negozio
Si distinguono, sotto il profilo della disciplina, negozi unilaterali,
bilaterale e
bilaterali
o plurilaterali.
plurilaterale
Il negozio plurilaterale presuppone la partecipazione di (almeno) tre parti, ciascuna delle quali si rende portatrice di un’autonoma posizione di interesse (es.: contratto di società; divisione di una
comunione), e non deve essere confuso con il caso, già considerato, in
cui una delle parti di un contratto bilaterale abbia struttura plurisoggettiva: per esempio se due coniugi acquistano insieme un appartamento da destinare ad abitazione comune, il contratto di compravendita rimane comunque bilaterale, pur essendo la parte acquirente
composta da due soggetti.
Negozi
recettizi
§ 100.
Classificazioni dei negozi giuridici:
b) in relazione alla funzione.
Ulteriori distinzioni del negozio giuridico si ricollegano alla sua
funzione (o causa) (§§ 305 ss.).
Si distinguono così i negozi mortis causa (il testamento), i cui
Negozi
mortis causa
effetti presuppongono la morte di una persona, dai negozi inter vivos
e inter vivos
(per es., vendita ecc.).
Secondo che si riferiscano ad interessi economici o meno si
Negozi
patrimoniali
distinguono i negozi patrimoniali o a contenuto patrimoniale (il contratto è appunto definito dall’art. 1321 c.c. come negozio che incide su
un rapporto giuridico patrimoniale tra le parti) dai negozi apatrimoniali (es.: i negozi di diritto familiare o in generale i negozi personali).
Nell’ambito dei negozi patrimoniali si collocano i negozi di
attribuzione patrimoniale, che tendono ad uno spostamento di diritti
patrimoniali da un soggetto ad un altro (es. vendita, donazione).
I negozi di attribuzione patrimoniale si distinguono in negozi di
disposizione, che importano un’immediata diminuzione del patrimonio mediante alienazione (§ 40), o mediante rinunzia, e negozi di
obbligazione, che danno luogo soltanto alla nascita di un’obbligazione, ancorché possa essere diretta al trasferimento di un diritto (per
Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico
[§ 101]
211
es., vendita di cosa altrui, nella quale il venditore si obbliga ad
acquistare la cosa dal proprietario, in guisa che il compratore possa,
di conseguenza, diventarne a sua volta automaticamente proprietario: art. 1478, comma 2, c.c.).
I negozi di disposizione si distinguono in negozi traslativi (se
attuano il trasferimento del diritto a favore di altri), traslativocostitutivi (se costituiscono un diritto reale limitato su di un bene del
disponente), e abdicativi.
Possono però anche darsi negozi che si propongono soltanto di Negozi di
eliminare controversie e dubbi sulla situazione giuridica esistente: accertamento
sono i negozi di accertamento. Questa figura ha dato luogo a molte
discussioni.
La sua ammissibilità è stata, soprattutto in passato, contestata
da una parte della dottrina, la quale riteneva che la funzione di
accertamento di situazioni giuridiche dovrebbe considerarsi prerogativa degli organi giudiziari, sicché i privati non avrebbero alcun
potere di « accertare » la situazione di diritto. Tuttavia simili resistenze sono superate ed ora si ammette che le parti possano validamente chiarire, con un atto di autonomia negoziale, una situazione
giuridica incerta (con la conseguenza che, per il futuro, esse si
atterranno nei rapporti tra loro alla situazione giuridica convenzionalmente accertata). Si è d’accordo nel ritenere che il negozio di
accertamento ha effetto retroattivo: lo stato d’incertezza viene eliminato ab origine, come se non fosse mai esistito.
Un caso particolare è quello della divisione della comunione (che,
secondo un’autorevole opinione, rientra nella categoria esaminata), il
cui effetto retroattivo (o dichiarativo) è scolpito dall’art. 757 c.c.
§ 101.
Negozi a titolo gratuito e negozi a titolo oneroso.
I negozi patrimoniali si possono distinguere in negozi a titolo
gratuito e negozi a titolo oneroso.
Il codice non definisce le nozioni di gratuità ed onerosità: vi è
tuttavia accordo in dottrina per qualificare un negozio « a titolo
oneroso » quando un soggetto, per acquistare qualsiasi tipo di diritto,
beneficio o vantaggio, accetta un correlativo sacrificio, mentre si dice
« a titolo gratuito » il negozio per effetto del quale un soggetto
acquisisce un vantaggio senza alcun correlativo sacrificio.
Di alcuni negozi la legge presume la gratuità (es.: il deposito;
art. 1767 c.c.), di altri presume l’onerosità (es.: il mutuo e il mandato;
artt. 1815 e 1709 c.c.) Taluni contratti, poi, sono essenzialmente
212
L’attività giuridica
[§ 102]
gratuiti, come la donazione (art. 769 c.c.) o il comodato (art. 1803,
comma 2, c.c.): la previsione di un corrispettivo snaturerebbe il
contratto.
In genere l’acquirente a titolo gratuito è protetto meno intensamente dell’acquirente a titolo oneroso: ad es. il venditore è tenuto
a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi (artt. 1490-1496),
mentre il donante, se non è in dolo, non risponde dei vizi della cosa
donata (art. 798); l’acquirente a titolo oneroso, purché sia in buona
fede, non è pregiudicato dall’annullamento dell’atto d’acquisto del
suo dante causa (art. 1445) o dalla revoca di quell’atto (art. 2901),
mentre l’acquirente a titolo gratuito non ha eguale protezione,
quand’anche sia in buona fede.
In tema d’interpretazione del contratto il legislatore stabilisce
che, in caso di dubbi, il contratto deve essere inteso, se è a titolo
gratuito, « nel senso meno gravoso per l’obbligato » (art. 1371).
La gratuità non coincide con la liberalità, che rappresenta la
Gratuità e
liberalità
causa della donazione e si connota per l’intento di arricchire il
beneficiario di un’attribuzione patrimoniale (donatario); la gratuità è
categoria più ampia, perché comprende tutti i casi di attribuzioni
patrimoniali o di prestazioni a fronte delle quali non si ponga una
specifica controprestazione da parte del destinatario, che però possono essere sorrette da un intento non liberale del disponente (per es.:
un imprenditore organizza un servizio gratuito di trasporto dei
propri dipendenti, o dei potenziali clienti per consentire loro di
accedere ai locali commerciali).
Della figura del negozio misto di gratuità ed onerosità (negotium
mixtum cum donatione) si parlerà a proposito della donazione (v. §
675).
§ 102.
La rinunzia
La rinunzia.
Negozio abdicativo è la rinunzia, che è la dichiarazione unilaterale del titolare di un diritto soggettivo, diretta a dismettere il diritto
stesso senza trasferirlo ad altri. Non si esclude che altri possa avvantaggiarsi della rinunzia, ma questo vantaggio può derivare solo
occasionalmente e indirettamente dalla perdita del diritto da parte
del suo titolare. La rinunzia, per es., al diritto di usufrutto importa la
consolidazione dell’usufrutto con la nuda proprietà (art. 1014 c.c.),
per effetto della quale il potere di godere la cosa ritorna al proprietario; tuttavia tale conseguenza non costituisce effetto diretto della
rinunzia, che in sé e per sé produce soltanto l’estinzione del diritto di
[§ 103]
Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico
213
usufrutto: essa, invece, deriva dal principio della elasticità del dominio, in virtù del quale la proprietà, prima compressa, riprende
automaticamente la sua espansione originaria, non appena il diritto
che la limitava viene meno. Ciò spiega come la rinuncia, pur avvantaggiando indirettamente il nudo proprietario, non debba farsi con la
forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione (art. 782 c.c.). Lo
stesso discorso vale per la rinuncia ad un credito (c.d. « remissione del
debito », art. 1236 c.c.).
S’intende che non ricorre la figura della rinunzia se la dismissione del diritto è fatta verso un corrispettivo. Manca, invero, in
quest’ipotesi l’elemento della unilateralità, caratteristico — come
abbiamo visto — della rinunzia (da segnalare che, in materia successoria, l’art. 478 stabilisce che la rinuncia ad un’eredità compiuta
verso corrispettivo determina, in realtà, l’accettazione dell’eredità
stessa).
Secondo un orientamento, la rinunzia va tenuta distinta dal Il rifiuto
rifiuto, il quale si caratterizza per il fatto che o il diritto non è ancora
presente nella sfera del dichiarante, e dunque in realtà il soggetto
impedisce che vi faccia ingresso (rifiuto impeditivo); oppure il diritto
dismesso, pur presente nella sfera del dichiarante, non è ancora
pienamente stabile, ossia è suscettibile di essere rimosso con effetto
retroattivo (rifiuto eliminativo). Così, il soggetto chiamato a divenire
erede, che rinunci all’eredità, in realtà impedisce un acquisto al
proprio patrimonio: infatti, i beni ereditari non sono mai stati nella
titolarità del chiamato, avendo quest’ultimo soltanto il diritto di
accettare o meno l’eredità. Nel caso invece in cui un soggetto sia
beneficiato dal testatore con un legato, l’acquisto della titolarità del
bene legato è immediato (non è richiesta accettazione); e tuttavia il
beneficiato può eliminare retroattivamente tale bene dalla propria
sfera giuridica con la rinuncia al legato.
§ 103.
Elementi del negozio giuridico.
Gli elementi o requisiti del negozio giuridico si distinguono in
elementi essenziali, senza i quali il negozio è nullo (essentialia negotii),
ed elementi accidentali (accidentalia negotii), che le parti sono libere di
apporre o meno.
In relazione al contratto, gli elementi essenziali sono elencati Elementi
dall’art. 1325 c.c., che li definisce « requisiti »; la mancanza o il vizio essenziali
dei requisiti del contratto ne comporta la nullità (art. 1418 c.c.). Gli
elementi essenziali si dicono generali, se si riferiscono ad ogni tipo di
214
L’attività giuridica
[§ 104]
contratto (tali la volontà, la dichiarazione, la causa); particolari, se si
riferiscono a quel particolare tipo considerato. Così, elemento essenziale particolare della vendita è il prezzo.
Una parte della dottrina distingue dagli elementi essenziali i
presupposti del negozio, che sono circostanze estrinseche al negozio,
indispensabili perché il negozio sia valido. Tali sono per esempio la
capacità della persona che pone in essere il negozio e la sua legittimazione a disporre del rapporto che forma oggetto del negozio.
Elementi accidentali sono la condizione, il termine, il modo: non
Elementi
accidentali
appartengono alla struttura necessari del negozio, ai fini della sua
validità, ma se vengono apposti, essi incidono sull’efficacia del negozio (§§ 320 ss.).
La dottrina meno recente soleva aggiungere un’altra categoria
Elementi
naturali
di elementi: i cosiddetti elementi naturali (naturalia negotii). In realtà
si tratta di effetti naturali del negozio, ossia di effetti che la legge
considera connaturati al negozio posto in essere dalle parti stesse: essi
si producono senza bisogno di previsione delle parti, in forza della
disciplina legislativa che è stabilita per il tipo di negozio prescelto,
salva contraria volontà manifestata dalle parti. Così, l’ordinamento
giuridico ritiene che chi acquista un bene mediante corrispettivo
intende essere garantito nell’ipotesi che il bene stesso non risulti di
proprietà del venditore, ma di altra persona. Perciò, anche se il
contratto di vendita non contiene alcuna clausola in proposito, il
venditore è sempre tenuto alla garanzia di cui si parla (garanzia per
evizione: art. 1476, n. 3, c.c.; v. infra § 371).
L’ordinamento giuridico non impone, peraltro, inderogabilmente questa garanzia: libere le parti di regolare i propri interessi, e
quindi libero il compratore di acquistare a suo rischio e pericolo (art.
1487 c.c.). Perciò, purché non si sorpassino i limiti che a suo tempo
esamineremo, le parti possono anche escludere la garanzia per evizione e, in genere, gli effetti naturali del contratto (si tratta dunque
di norme dispositive, § 11).
§ 104.
La dichiarazione.
La volontà del soggetto diretta a produrre effetti giuridici
dev’essere dichiarata, esternata: deve uscire dalla sfera del soggetto,
perché gli altri possano percepirla e averne conoscenza. I modi con
cui questa estrinsecazione della volontà avviene corrispondono in
sostanza a quelli con cui nella vita di relazione rendiamo noti ad altri
le nostre intenzioni o il nostro pensiero. Non è, pertanto, difficile
[§ 104]
Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico
215
rendersi conto delle distinzioni, correnti nella scienza giuridica, con
cui si classificano le modalità di manifestazione della volontà.
A seconda dei modi con cui la dichiarazione avviene, essa si Dichiarazione
e
distingue, dunque, in dichiarazione espressa (se fatta con parole, espressa
tacita
cenni, alfabeto Morse, linguaggio dei segni, segnali di bandiere tra
navi, insomma con qualsiasi mezzo idoneo a far palese ad altri il
nostro pensiero) e dichiarazione tacita (consistente in un comportamento che, secondo il comune modo di pensare e di agire, risulti
incompatibile con la volontà contraria), detta anche perciò dichiarazione indiretta o comportamento concludente. Così, se, senza parlare,
restituisco al mio debitore il titolo originale del credito, manifesto
tacitamente la volontà di liberarlo (art. 1237 c.c.); se, essendo caduto
in prescrizione un debito, chiedo una dilazione per poter pagare,
rinunzio tacitamente alla prescrizione (art. 2937 c.c.).
In alcuni casi l’ordinamento giuridico, per evitare incertezze,
non si accontenta di una manifestazione tacita dell’intento, ma
richiede la dichiarazione espressa della volontà della parte (per es.:
prestazione di una fideiussione, art. 1937 c.c.).
Vecchia questione è se il silenzio possa valere come dichiara- Il silenzio
zione tacita di volontà. La dottrina prevalente e la stessa giurisprudenza negano valore al detto volgare « chi tace acconsente ». Il
silenzio può avere valore di dichiarazione tacita di volontà soltanto
in concorso di determinate circostanze, che conferiscano al semplice
silenzio un preciso valore espressivo: ciò avviene se la parte aveva
l’onere, per legge, per consuetudine o per contratto, di formulare una
dichiarazione; oppure se, in base alle regole della correttezza e della
buona fede, il silenzio, dati i rapporti tra le parti, ha il valore di
consenso (v. Cass. 4 dicembre 2007 n. 25290). È il caso regolato
dall’art. 1712, comma 2, c.c.: il silenzio del mandante, al quale sia
stata comunicata l’esecuzione del mandato, implica approvazione
dell’operato del mandatario, anche se questi si è discostato dalle
istruzioni ricevute. Quest’indirizzo si riassume, in sostanza, nell’adagio: qui tacet consentire videtur, si loqui debuisset ac potuisset. Per
esempio, se un libraio manda da tempo ad un cliente le nuove
pubblicazioni e il cliente ha l’abitudine di comperare le copie non
restituite entro un certo termine, la mancata restituzione del libro ne
importa l’acquisto (e l’obbligo d pagare il prezzo). Se, invece, un
editore, con il quale non ho nessun rapporto, mi manda un periodico,
anche se vi aggiunge l’avvertenza che chi non restituisce la copia sarà
considerato abbonato, la mancata restituzione non potrà significare
accettazione della proposta di abbonamento.
216
L’attività giuridica
[§ 105]
L’evoluzione degli strumenti di comunicazione ha posto nuovi
problemi ai giuristi, in particolare con riferimento alla rilevanza
giuridica delle manifestazioni di volontà negoziale trasmesse attraverso le nuove tecnologie, come il telefax e, più di recente, la
comunicazione telematica. Di questi argomenti si tratterà, più diffusamente, illustrando la disciplina della forma del contratto (§ 286).
Altra questione attiene alla rilevanza del silenzio della P.A. di
fronte a specifiche istanze o sollecitazioni del privato; in questo caso
le conseguenze sono regolate dalle norme di settore, che attribuiscono
volta a volta effetti determinati all’inerzia dell’Autorità: silenziorifiuto, silenzio-assenso, silenzio-inadempimento.
§ 105.
La forma.
Come si è già accennato, qualsiasi volizione del soggetto deve
essere esternata e, in linea di principio, ciascuno sceglie le modalità di
manifestazione delle proprie volontà come meglio preferisce. Vale a
dire che l’ordinamento, di regola, non impone rigidi formalismi per
riconoscere effetti giuridici agli atti dei privati (c.d. principio della
« libertà della forma »).
Peraltro talvolta il legislatore avverte la necessità di prescrivere
che un determinato atto sia compiuto secondo determinate forme
solenni.
Le prescrizioni di forma trovano giustificazione in varie esigenze: di certezza, di conoscibilità, di ponderazione dell’atto.
La forma può essere prescritta in considerazione del tipo di atto:
si pensi al matrimonio (v. infra, § 582), del quale la legge regola le
particolari modalità di celebrazione (art. 106 c.c.), o agli atti di diritto
successorio (testamento, accettazione e rinunzia all’eredità) (v. infra
§§ 652 ss.).
Nel caso del contratto non esiste un regime formale generale e
uniforme, in quanto specifici vincoli di forma risultano imposti in
relazione all’oggetto del contratto (per gli atti relativi a diritti reali su
beni immobili si richiede la forma scritta), ovvero in relazione al tipo
di contratto (il contratto di donazione deve essere perfezionato, se
non abbia ad oggetto una prestazione « di modico valore », mediante
atto pubblico e alla presenza di due testimoni), o ai connotati di una
certa categoria di contratti (per esempio i contratti relativi alle
operazioni e ai servizi delle banche e quelli relativi alla prestazione di
servizi di investimento — definizioni che comprendono ciascuna
plurime figure contrattuali — devono essere stipulati per iscritto: v.
[§ 106]
Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico
217
art. 117 D.Lgs. 1o settembre 1993, n. 385; art. 23 D.Lgs. 24 febbraio
1998, n. 58).
In questi casi — definiti a forma « vincolata » — si dice che la Forma ad
forma è richiesta ad substantiam actus, in quanto l’atto compiuto in substantiam
forma diversa da quella legale è invalido (nullo).
In altre ipotesi il requisito di forma è richiesto solo a fini Forma ad
processuali, in quanto l’atto, in caso di divergenza tra le parti circa la probationem
sua effettiva stipulazione, può essere provato soltanto mediante l’esibizione in giudizio del relativo documento (forma ad probationem
tantum); per l’approfondimento della nozione si fa rinvio alla trattazione in tema di prova (v. § 127).
Dal caso in cui un requisito di forma di un atto sia imposto dalla Forme
legge va tenuto distinto quello in cui un requisito di forma sia invece convenzionali
imposto dagli stessi privati (c.d. formalismo convenzionale: art. 1352
c.c.), come ad esempio avviene allorché in un contratto si inserisce
una clausola (particolarmente frequente) secondo cui ogni eventuale
dichiarazione di disdetta o recesso (ovvero, più ampiamente, ogni
eventuale dichiarazione relativa alla fase di esecuzione del contratto
o volta a modificare successivamente il regolamento contrattuale)
non potrà avere effetto alcuno se non in quanto sia comunicata per
iscritto, oppure addirittura, più specificamente, se non in quanto sia
comunicata con determinate modalità (ad es. mediante lettera raccomandata).
§ 106.
Il bollo e la registrazione.
Non sono requisiti di forma né il bollo né la registrazione di un
atto.
Per molti negozi lo Stato, per ragioni fiscali, impone la « bollatura » degli atti: acquistando le marche da bollo, e applicandole sulla
carta utilizzata per la redazione delle scritture, le parti versano
all’Erario l’importo dei valori bollati acquistati. L’inosservanza delle
prescrizioni in materia di bollo non dà luogo, tuttavia, alla nullità del
negozio, ma ad una sanzione pecuniaria. Solo la cambiale e l’assegno
bancario, se non sono stati regolarmente bollati al momento dell’emissione, pur essendo validi a tutti gli altri effetti, non hanno
efficacia di titolo esecutivo.
Anche la registrazione, che consiste nel deposito del documento
presso l’ufficio del registro, serve prevalentemente a scopi fiscali, in
quanto le parti devono pagare un’imposta, di regola proporzionale al
valore economico dell’affare risultante dal negozio sottoposto a regi-
L’attività giuridica
218
[§ 107]
strazione. La registrazione, peraltro, ha importanza anche nell’ottica
del diritto privato, in quanto costituisce strumento per render
« certa », mediante l’attestazione dell’ufficio stesso sul documento, la
data di una scrittura privata di fronte ai terzi (art. 2704 c.c., v. infra,
§ 125).
§ 107.
La pubblicità: fini e natura.
Le vicende giuridiche non interessano soltanto le parti che ne
sono direttamente coinvolte, ma anche i terzi, i quali possono avere
interesse a conoscere determinati atti e situazioni giuridiche vicende
per regolare, in base a tali informazioni, il loro comportamento. In
molti casi, pertanto, la legge impone l’iscrizione dell’atto in registri
tenuti dalla pubblica amministrazione, che chiunque può consultare,
o in giornali ufficiali, bollettini, ecc. La pubblicità serve a dare ai terzi
la possibilità di conoscere l’esistenza ed il contenuto di un negozio
giuridico, o, anche, lo stato delle persone fisiche (§ 42) e le vicende
delle persone giuridiche (§ 69). Ci limiteremo qui a pochi cenni di
carattere generale sulla pubblicità, riservandoci di integrare le nozioni, che ora esporremo, allorché tratteremo nella parte speciale
delle varie figure di pubblicità.
La pubblicità non si confonde con la dichiarazione negoziale:
essa, invece, presuppone la dichiarazione negoziale e costituisce
soltanto un mezzo perché il negozio (o in generale un altro atto
giuridicamente rilevante: per esempio una sentenza) possa essere
conosciuto dai terzi.
Tipi di
Si distinguono tre tipi di pubblicità.
pubblicità
A) La pubblicità-notizia. Assolve semplicemente la funzione di
rendere conoscibile un atto, del quale il legislatore ritiene appunto
opportuno sia data notorietà. L’omissione di tale formalità dà luogo
ad una sanzione pecuniaria, ma è irrilevante per la validità e l’efficacia dell’atto, il quale rimane operante tra le parti ed anche opponibile ai terzi indipendentemente dalla mancata attuazione dello
strumento pubblicitario. La pubblicità-notizia costituisce, pertanto,
contenuto di un obbligo, non di un onere. Esempio di pubblicitànotizia è la pubblicazione matrimoniale (art. 93 c.c.) che serve a
rendere noto l’imminente matrimonio, onde consentire a chi sia a ciò
legittimato di proporre eventuale opposizione, facendo valere eventuali ragioni ostative alla celebrazione. L’attuazione della pubblicità
non influisce in alcun modo sulla validità ed efficacia dell’atto; è
prevista, infatti, soltanto una sanzione amministrativa pecuniaria
La
pubblicità
dei fatti
giuridici
[§ 107]
Il fatto, l’atto ed il negozio giuridico
219
per gli sposi e l’ufficiale dello stato civile che abbiano celebrato il
matrimonio senza che la celebrazione sia stata preceduta dalla prescritta pubblicazione, ma il matrimonio è indubbiamente valido (art.
134 c.c.).
B) La pubblicità dichiarativa. Serve a rendere opponibile il
negozio ai terzi (come si vedrà meglio in tema di efficacia della
trascrizione nei registri immobiliari e dell’iscrizione nel registro delle
imprese). L’omissione della pubblicità dichiarativa non determina
l’invalidità dell’atto, che produce egualmente i suoi effetti tra le parti
del negozio. È rispetto ai terzi che gioca la mancata attuazione di
questa figura di pubblicità. Si immagini che Primus abbia venduto lo
stesso immobile (rectius: il diritto di proprietà sull’immobile) prima a
Secundus e poi a Tertius, ma che quest’ultimo trascriva per primo il
suo titolo di acquisto nei registri immobiliari. Il conflitto tra Secundus e Tertius sarà risolto a favore di quest’ultimo, nonostante che
Tertius abbia acquistato dopo Secundus (art. 2644 c.c.): e ciò perché
la vendita da Primus a Secundus, non essendo stata trascritta, non è
opponibile a Tertius (cfr. infra § 682), il cui acquisto, pertanto, non
risente degli effetti della precedente vendita a Secundus. Ciò non
toglie, tuttavia, che la vendita da Primus a Secundus, pur non
essendo stata trascritta, è in sé valida ed efficace, tanto è vero che
Secundus, ove rimanga soccombente di fronte a Tertius, potrà pretendere da Primus, che con la seconda vendita lo ha danneggiato, sia
la restituzione del prezzo eventualmente già pagato, sia il risarcimento dei danni subiti. Inoltre, se il contratto stipulato da Tertius
venisse in seguito dichiarato nullo, annullato o risolto, l’acquisto di
Secundus risulterebbe pienamente efficace ed opponibile erga omnes.
C) La pubblicità costitutiva. In questo tipo la pubblicità è elemento costitutivo della fattispecie: senza la pubblicità il negozio non
soltanto non si può opporre ai terzi, ma non produce effetti nemmeno
tra le parti. Esempio tipico di pubblicità costitutiva è la pubblicità
ipotecaria: l’ipoteca, infatti, come dispone l’art. 2808, comma 2, c.c.,
viene ad esistenza mediante l’iscrizione nei registri immobiliari (v. §
250). Altro esempio è offerto dall’acquisto della personalità giuridica
della società per azioni (art. 2331 c.c.): la società acquista la personalità giuridica con l’iscrizione nel registro delle imprese (v. § 491).
CAPITOLO X
L’INFLUENZA DEL TEMPO
SULLE VICENDE GIURIDICHE
A) NOZIONI GENERALI
§ 108.
Computo del tempo.
Il tempo — che è un fattore così importante nelle vicende umane
— è preso in considerazione dall’ordinamento giuridico sotto vari
aspetti.
Assai spesso le attività giuridiche si devono compiere entro
Calcolo dei
termini periodi di tempo determinati. Da qui la necessità di regole che
stabiliscano come i termini devono essere calcolati. Naturalmente ci si
avvale del calendario comune (calendario gregoriano). Ciò non basta,
tuttavia, per eliminare le incertezze e dettare principi sicuri, uguali
per tutti e in tutti i casi (se, ad es., è fissato un termine di cinque
giorni da oggi per il compimento di un atto giuridico, la giornata di
oggi deve essere compresa nel calcolo oppure no?).
Soccorre, in proposito, l’art. 2963 c.c.
Secondo tale disposizione:
a) non si conta il giorno iniziale: dies a quo non computatur in
termino (v. Cass. 26 maggio 2017, n. 13406);
b) si computa quello finale: dies ad quem computatur in termino;
c) il termine scadente il giorno festivo è prorogato al giorno
seguente non festivo;
d) se il termine è a mese o ad anno, si segue il criterio ex
nominatione e non ex numeratione dierum: il termine scade, cioè, nel
giorno corrispondente a quello del mese iniziale (così, ad es., un
termine di un mese a decorrere dal 2 ottobre scade il 2 novembre e
non il 1o novembre, come sarebbe se si calcolassero trenta giorni dal
2 ottobre; v. Cass. 26 maggio 2017, n. 13406; Cass. 31 agosto 2015, n.
17313);
e) se nel mese di scadenza manca il giorno corrispondente, il
termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese (così, ad es.,
Il tempo
[§ 110]
L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche
221
il termine di un mese che abbia inizio il 31 gennaio scade il 28
febbraio, se l’anno non è bisestile).
§ 109.
Influenza del tempo sull’acquisto e sull’estinzione
dei diritti soggettivi.
Il decorso di un determinato periodo di tempo, nel concorso di Acquisto o
di
altri presupposti, può dar luogo all’acquisto ovvero all’estinzione di un estinzione
diritti per il
diritto soggettivo: ciò in quanto, se una situazione di fatto si protrae decorrere del
a lungo nel tempo, l’ordinamento tende a far coincidere la situazione tempo
di diritto con quella di fatto.
Il tempo costituisce, in queste ipotesi, presupposto di alcune Usucapione,
e
fattispecie fondamentali nel diritto privato, che, pur presentando prescrizione
decadenza
questo carattere comune, sono ben distinte tra loro. Se il decorso del
tempo serve a far acquistare un diritto soggettivo, l’istituto che viene
in considerazione è quello dell’« usucapione » o, come anche si dice,
della « prescrizione acquisitiva »; invece, l’estinzione del diritto soggettivo per decorso del tempo forma oggetto di due altri istituti, che
pur si distinguono tra loro: la « prescrizione estintiva » e la « decadenza ».
Dell’usucapione — che è modo di acquisto soltanto dei diritti
reali (e non di tutti, come vedremo) — ci occuperemo a suo luogo (v.
§ 184).
Qui soffermeremo l’attenzione sulla prescrizione estintiva e
sulla decadenza, che hanno carattere generale.
B) LA PRESCRIZIONE ESTINTIVA
§ 110.
Nozione e fondamento.
La « prescrizione estintiva » produce l’estinzione del diritto sog- L’inerzia
gettivo per effetto dell’inerzia del titolare del diritto stesso, che non
lo esercita (art. 2934 c.c.) o non ne usa (artt. 954, ult. comma, 970,
1014, 1073 c.c.) per un arco di tempo determinato dalla legge.
La ragione per cui l’ordinamento giuridico riconnette all’inerzia Fondamento
del titolare, protratta nel tempo, l’estinzione del diritto soggettivo dell’istituto
consiste nell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici. Invero, il fatto
che un diritto soggettivo non venga esercitato induce nella generalità
delle persone la convinzione che esso non esista o sia stato abbandonato. D’altro canto, sorgendo contestazioni, riesce difficile, quando
L’attività giuridica
222
[§ 111]
sia decorso un notevole lasso di tempo, la dimostrazione della nascita
e correlativamente dell’estinzione di un rapporto giuridico: chi conserva più, a distanza di tempo, le ricevute per provare che un
pagamento è stato effettuato?
§ 111.
Operatività della prescrizione.
Essendo — come abbiamo visto — stabilita per ragioni d’interesse generale, la prescrizione estintiva è un istituto di ordine pubblico:
quindi, le norme che stabiliscono l’estinzione del diritto ed il tempo
necessario perché ciò si verifichi sono inderogabili (art. 2936 c.c.).
Di conseguenza, le parti non possono rinunziare preventivaRinuncia
preventiva
mente alla prescrizione (art. 2937, comma 2, c.c.), né prolungare o
abbreviare i termini stabiliti dalla legge (art. 2936 c.c.). Si rifletta, del
resto, che — se fosse consentito alle parti di rinunziare preventivamente alla prescrizione — una tale rinunzia diverrebbe una clausola
di stile: verrebbe, cioè, apposta in tutti i contratti; e le disposizioni
sulla prescrizione rimarrebbero, almeno per i diritti derivanti da
fonte contrattuale, lettera morta.
Per analoghe ragioni non è consentita nemmeno la rinuncia
... in
pendenza del
fatta mentre il termine prescrizionale è in corso (art. 2937, comma 2,
termine
c.c.): essa, tuttavia, vale come riconoscimento del diritto soggetto a
prescrizione e produce — come vedremo tra poco — l’interruzione
della prescrizione, ossia l’irrilevanza del tempo prescrizionale decorso
fino a quel momento.
Diversa è, invece, la rilevanza della rinunzia successiva al de... successiva
corso del termine di prescrizione. Una volta verificatasi — con il
decorso del termine previsto — la prescrizione, è ormai interesse
esclusivo del soggetto che ne risulta avvantaggiato farla valere o
meno. Si aggiunga che il servirsi della prescrizione estintiva non
sempre può risultare conforme all’etica: in certi casi la prescrizione
può apparire, dal punto di vista morale, un impium remedium (ad es.,
se il compratore ha ricevuto a suo tempo della merce, egli ricava un
profitto non giustificato sotto l’aspetto morale, se si avvale della
prescrizione del credito relativo al pagamento del prezzo). Perciò la
legge si rimette alla valutazione dell’interessato: l’art. 2937, comma
2, c.c. consente la rinuncia successiva alla prescrizione; la rinuncia
effettuata, cioè, dopo che la prescrizione si è compiuta. Peraltro,
l’intervenuta rinuncia può essere rilevata d’ufficio dal giudice, se
risultante dagli atti di causa (v. Cass. 25 novembre 2015, n. 24113).
Inderogabilità della
disciplina
[§ 112]
L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche
223
Come ogni manifestazione di volontà, la rinunzia alla prescri- ... espressa o
zione può essere tanto espressa quanto tacita: è « tacita » se risulta da tacita
un fatto (per es., il riconoscimento inequivocabile del credito, la
richiesta di una dilazione di pagamento, ecc.) incompatibile con la
volontà di valersi della prescrizione (art. 2937, comma 3, c.c.; v. Cass.
19 maggio 2014, n. 10955; Cass. 1 agosto 2013, n. 18425).
Per la stessa ragione — e, cioè, perché è rimesso alla volontà Non
dell’interessato avvalersi o meno della prescrizione già compiuta — il rilevabilità
d’ufficio
giudice non può rilevarla d’ufficio: la prescrizione deve essere eccepita
dalla parte che vi ha interesse (art. 2938 c.c.; v. Cass. 18 giugno 2018,
n. 15991).
Peraltro — in base al principio generale secondo cui i creditori Rilevabilità
via
possono esercitare i diritti spettanti al proprio debitore (c.d. « azione in
surrogatoria
surrogatoria »: art. 2900 c.c.; v. § 259) — i creditori possono sostituirsi
all’interessato e far valere la prescrizione, anche se la parte vi abbia
rinunziato (art. 2939 c.c.).
Sempre in virtù del principio per cui la prescrizione non opera Pagamento
debito
automaticamente, ma solo in quanto opposta, il debitore che, dopo il del
prescritto
maturarsi della prescrizione, abbia pagato spontaneamente — senza,
cioè, esservi costretto per effetto di domanda giudiziale — non può
farsi restituire quanto versato, senza che rilevi se sapeva o meno che
il debito era prescritto (art. 2940 c.c.; v. Cass. 18 settembre 2014, n.
19654): si verifica qui — secondo la giurisprudenza e la prevalente
dottrina — un’ipotesi di obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), figura
della quale ci occuperemo più ampiamente a suo tempo (v. § 191).
§ 112.
Oggetto della prescrizione.
La regola è che tutti i diritti sono soggetti a prescrizione estin- Ambito di
tiva.
applicazione
Ne sono esclusi i diritti indisponibili, come quelli derivanti dagli Diritti imstatus personali (v. § 61; v. Cass. 28 marzo 2017, n. 7963, in tema di prescrittibili
status di socio), i diritti della personalità (v. §§ 61 s.) — ma non le
pretese risarcitorie derivanti dalla loro violazione — la responsabilità
genitoriale (v. § 613), il diritto alla cittadinanza (v. § 57; v. Cass. 8
marzo 2017, n. 19428; Cass. 3 novembre 2016, n. 22271), ecc. (art.
2934, comma 2, c.c.): c.d. diritti imprescrittibili.
Anche il diritto di proprietà non è soggetto a prescrizione estin- La proprietà
tiva (art. 948, comma 3, c.c.), perché anche il non uso è espressione
della libertà riconosciuta al proprietario: inoltre la prescrizione ha
sempre come finalità il soddisfacimento di un interesse, laddove
L’attività giuridica
224
[§ 113]
l’estinzione del diritto di proprietà per non uso non avvantaggerebbe
nessuno, facendo solo diventare nullius la res. Anche il proprietario,
peraltro, può perdere il suo diritto qualora un terzo usucapisca la
proprietà del bene (art. 948, comma 3, e artt. 1158 ss. c.c.; v. § 184).
Sono inoltre imprescrittibili l’azione di disconoscimento della
paternità, se promossa dal figlio (art. 244, comma 5, c.c.; v. § 607),
l’azione di contestazione dello stato di figlio (art. 248, comma 2, c.c.;
v. § 607), l’azione di reclamo dello stato di figlio (art. 249, comma 2,
c.c.; v. § 607), l’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio
nato fuori del matrimonio, se promossa dal figlio stesso (art. 263,
comma 2, c.c.; v. § 608), l’azione di dichiarazione giudiziale di
paternità o maternità, se promossa dal figlio stesso (art. 270, comma
1, c.c.; v. § 609), l’azione di petizione d’eredità (art. 533, comma 2,
c.c.; v. § 636), l’azione per far dichiarare la nullità di un negozio
giuridico (art. 1422 c.c.; v. § 342) e, in generale, le azioni di mero
accertamento (§ 119; v. Cass. 19 marzo 2012, n. 4366).
Non sono prescrittibili nemmeno le singole facoltà (o diritti
Le facoltà
facoltativi), che formano il contenuto di un diritto soggettivo (v.
Cass. 15 aprile 2014, n. 8743). Esse si estinguono se ed in quanto si
estingua il diritto soggettivo o il potere di cui costituiscono manifestazione (così, ad es., il proprietario non perde mai la facoltà di
chiudere il proprio fondo: art. 841 c.c.): in facultativis non datur
praescriptio.
Prescrizione
La vecchia questione se la prescrizione estingua il diritto o
del diritto e
l’azione — che, come vedremo, si distingue dal diritto soggettivo
prescrizione
dell’azione sostanziale (v. § 119) — è stata risolta testualmente dal legislatore nel
primo senso: l’art. 2934 c.c. dice, infatti, che « ogni diritto si estingue
per prescrizione ». Peraltro sono soggette a prescrizione pure talune
azioni giudiziali (v. art. 1442 c.c.: prescrizione dell’azione di annullamento; art. 1449 c.c.: prescrizione dell’azione di rescissione; art.
1495, comma 3, c.c.: prescrizione dell’azione per far valere i vizi del
bene acquistato; ecc.).
§ 113.
Il dies a quo
Inizio della prescrizione.
Come abbiamo premesso, presupposto della prescrizione estintiva è l’inerzia del titolare del diritto soggettivo. Poiché non si può
parlare di inerzia quando il diritto non può essere fatto valere, la
prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto avrebbe
potuto essere esercitato: actio nondum nata non praescribitur (art.
2935 c.c.). Così, ad es., se il diritto deriva da un contratto sottoposto
[§ 114]
L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche
225
a condizione sospensiva o a termine iniziale (v. §§ 321 e 325), la
prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata o il
termine è scaduto (perciò, se acquisto una casa in Roma a condizione
— condizione che, come vedremo, si chiama sospensiva — che io
venga trasferito entro un anno a Roma, il venditore non potrà agire
per il pagamento del prezzo se non quando la condizione, cui è
subordinata l’efficacia del contratto, si sia verificata; di conseguenza,
la prescrizione del credito relativo al pagamento del prezzo comincerà a decorrere soltanto da tale momento: v. Cass. 25 gennaio 2018,
n. 1947). Del pari, se il coniuge separato ha diritto ad un assegno
mensile di mantenimento a carico dell’altro, il termine prescrizionale
del suo credito decorrerà dalla scadenza di ciascuna singola rata di
pagamento (v. Cass. 4 aprile 2014, n. 7981; v. anche Cass. 13 settembre 2018, n. 22362; Cass. 15 marzo 2018, n. 6386).
L’impossibilità di esercitare il diritto, cui l’art. 2935 c.c. ricollega la non decorrenza del termine prescrizionale, è peraltro solo
quella che deriva da cause giuridiche (nei nostri esempi, la pendenza
della condizione sospensiva, la pendenza del termine di pagamento),
e non comprende anche gli impedimenti soggettivi e gli ostacoli di mero
fatto (ad es., l’ignoranza, da parte del titolare, dell’esistenza del suo
diritto; la necessità di tempo per il suo accertamento; ecc.) (v. Cass.
11 settembre 2018, n. 22072; Cass. 19 luglio 2018, n. 19193).
Sul problema dell’inizio del decorso della prescrizione del diritto
al risarcimento del danno extracontrattuale ci soffermeremo al successivo § 470.
§ 114.
Sospensione ed interruzione della prescrizione.
La prescrizione — come si è visto — presuppone l’inerzia
ingiustificata del titolare del diritto: essa, quindi, non opera, allorché
sopraggiunga una causa che giustifichi l’inerzia stessa (contra non
valentem agere non currit praescriptio), così come nel caso in cui
l’inerzia stessa venga meno.
Entrano qui in gioco i due — distinti — istituti della « sospensione » e della « interruzione » della prescrizione.
La « sospensione » è determinata:
Sospensione:
a) o da particolari rapporti intercorrenti fra le parti (art. 2941 cause
c.c.): così, ad es., la prescrizione rimane sospesa tra i coniugi, se non
legalmente separati (v., da ultimo, Cass. 4 ottobre 2018, n. 24160); tra
le parti di un’unione civile (art. 1, comma 18, L. 20 maggio 2016, n.
76; v. § 622-bis); tra chi esercita la responsabilità genitoriale (ad es.,
226
L’attività giuridica
[§ 114]
i genitori) e chi vi è sottoposto (ad es., il figlio minore) (v. § 613); tra
tutore ed interdetto o minore (v. § 614); tra la società ed i suoi
amministratori (v. Corte cost. 11 dicembre 2015, n. 262);
b) o dalla condizione del titolare (art. 2942 c.c.): così, ad es., la
prescrizione rimane sospesa nei confronti dei minori non emancipati
e degli interdetti per infermità di mente, se privi di rappresentante
legale (v. Cass. 8 maggio 2018, n. 11004); nei confronti dei militari in
servizio attivo in tempo di guerra; ecc. (ma v. anche art. 2952,
comma 4, c.c.; e, sul tema, v. Cass. 4 luglio 2018, n. 17543).
Prescrizione
Per quanto riguarda i crediti retributivi dei prestatori di lavoro, la
dei crediti
giurisprudenza ritiene che il decorso della prescrizione venga sospeso
retributivi
dei prestatori per tutta la durata del rapporto (v. Corte cost. 10 giugno 1966, n. 63),
di lavoro quantomeno nell’ipotesi in cui la sua stabilità non sia presidiata
dall’origine da « tutela reale » (v. § 502) (Corte cost. 20 novembre
1969, n. 143; Corte cost. 29 aprile 1971, n. 86; ecc.): e ciò, in quanto,
in tale ultimo caso, l’inerzia del lavoratore ad azionare i propri diritti
potrebbe essere determinata dal timore di un licenziamento (v. Cass.
25 luglio 2018, n. 19729; Cass. 7 giugno 2018, n. 14827).
Impedimenti
Le cause di sospensione della prescrizione indicate dalla legge
di fatto
sono tassative (v. Cass. 8 maggio 2018, n. 11004; Cass. 18 aprile 2018,
n. 9589). Cosicché i semplici impedimenti di fatto (per es., uno sciopero
che mi renda impossibile la notificazione di un atto di citazione) non
valgono a sospendere il decorso della prescrizione. Del resto, quando
l’impedimento assume carattere generale, intervengono — di regola
— provvedimenti legislativi ad hoc.
Interruzione:
L’« interruzione » ha invece luogo:
cause
a) o perché il titolare (ad es., attraverso la notifica di una
domanda giudiziale o arbitrale; v. Cass. 15 febbraio 2017, n. 4034)
avvia un procedimento — non importa se giudiziale o arbitrale; se di
cognizione o conservativo o esecutivo (v. § 119) — volto all’esercizio del
proprio diritto (art. 2943 c.c.; v. Cass. 12 luglio 2018, n. 18485; Cass.
25 maggio 2018, n. 13070); con la precisazione che, in ipotesi di
instaurazione di un giudizio di cognizione, l’interruzione della prescrizione perdura fino al passaggio in giudicato della sentenza che lo
definisce (v. Cass. 28 luglio 2015, n. 15839).
Oggi, la prescrizione è altresì interrotta: (i) dall’avvio di una
procedura di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili o commerciali (art. 5, comma 6, D.Lgs. 4 marzo 2010, n.
28; v. Cass., sez. un., 22 luglio 2013, n. 17781); (ii) dalla sottoscrizione
(o anche solo dall’invito alla stipula) di una convenzione di negoziazione assistita (art. 8 D.L. 12 settembre 2014, n. 132); (iii) dalla
domanda presentata per avviare una procedura di risoluzione extra-
[§ 114]
L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche
227
giudiziale delle controversie previste dagli artt. 141 ss. cod. cons. (art.
141-quinquies cod. cons.);
b) o perché — quando si tratti di diritti di credito (e non, quindi,
di diritti reali: v. Cass. 5 luglio 2013, n. 16861; o di diritti potestativi:
v. Cass. 18 gennaio 2018, n. 1159) — il titolare pone in essere un
qualsiasi atto stragiudiziale idoneo a costituire in mora il debitore (art.
2943, comma 4, c.c.; v. § 232; v. Cass. 26 ottobre 2018, n. 27218; Cass.
14 giugno 2018, n. 15714);
c) o perché il soggetto passivo effettua il riconoscimento dell’altrui
diritto (ad es., si riconosce debitore nei miei confronti, promettendo di
pagarmi appena possibile) (art. 2944 c.c.; v. Cass. 15 giugno 2018, n.
15893); riconoscimento che può anche risultare da un semplice comportamento, purché univoco ed incompatibile con la volontà di
negare il diritto stesso: c.d. riconoscimento tacito (v. Cass. 27 marzo
2017, n. 7820).
L’interruzione e la sospensione della prescrizione — insegna la ... rilevabilità
giurisprudenza (v. Cass. 7 giugno 2018, n. 14755) — possono essere d’ufficio
rilevate d’ufficio dal giudice, sulla base di prove ritualmente acquisite
agli atti, senza necessità di domanda di parte.
Il fondamento dei due istituti della sospensione e dell’interru- Fondamento
zione è diverso: nella sospensione l’inerzia del titolare del diritto degli istituti
continua a durare, ma è giustificata; nell’interruzione è l’inerzia stessa
che viene meno, o perché il diritto è stato esercitato, o perché — e ciò,
agli effetti giuridici, è equivalente — esso è stato riconosciuto dall’altra parte.
Questa differenza si riverbera sugli effetti della sospensione e
dell’interruzione, che sono ben diversi.
La sospensione spiega i suoi effetti per tutto il periodo per il Effetti della
quale gioca la causa giustificativa dell’inerzia (ad es., finché dura il sospensione
matrimonio, senza che intervenga separazione legale), ma non toglie
valore al periodo eventualmente trascorso in precedenza (nel nostro
esempio, prima del matrimonio). Perciò essa può paragonarsi ad una
parentesi. Nella sospensione il tempo anteriore al verificarsi della
causa che la determina non perde la sua rilevanza, ma si somma con
il periodo successivo alla cessazione dell’operatività dell’evento sospensivo.
Invece l’interruzione, facendo venir meno l’inerzia, toglie ogni Effetti della
valore al tempo anteriormente trascorso: dal verificarsi del fatto interruzione
interruttivo, perciò, comincia a decorrere, per intero, un nuovo
periodo di prescrizione (art. 2945 c.c.).
L’attività giuridica
228
§ 115.
[§ 115]
Durata della prescrizione.
Rispetto alla durata, si distinguono la « prescrizione ordinaria »
e le « prescrizioni brevi ».
La prescrizione ordinaria trova applicazione in tutti i casi in cui
Prescrizione
ordinaria
la legge non disponga diversamente: essa matura in dieci anni (art.
2946 c.c.).
Un periodo più lungo — venti anni — è peraltro richiesto, in
Prescrizione
dei diritti
armonia con il termine per l’usucapione (art. 1158 c.c.; v. § 184), per
reali
l’estinzione dei diritti reali su cosa altrui (artt. 954, 970, 1014, 1026,
1073 c.c.; v. §§ 144 ss.).
Prescrizioni
Termini più brevi — giustificati dalle peculiarità dei relativi casi
brevi:
— sono previsti per altre categorie di rapporti (artt. 2947 ss. c.c.).
il diritto al
Tra i casi più significativi vanno menzionati il diritto al risarrisarcimento
cimento del danno conseguente ad un illecito extracontrattuale (v. §§
dei danni
extracon- 454 ss.), che si prescrive in cinque anni (art. 2947 c.c.), che si riducono
trattuali a due nel caso di danni derivanti da circolazione di veicoli (art. 2947,
comma 2, c.c.). Nel caso, però, in cui il fatto dannoso costituisca
reato, per il quale sia previsto un termine di prescrizione più lungo,
quest’ultimo si applica anche all’azione civile di risarcimento del
danno (art. 2947, comma 3, c.c.); se poi il reato è estinto per causa
diversa dalla prescrizione, ovvero è intervenuta una sentenza definitiva, il termine di prescrizione dell’azione civile risarcitoria ritorna
a decorrere, per la durata stabilita dai primi due comma dell’art.
2947, a far tempo dalla data di estinzione del reato o dal momento in
cui la sentenza penale diviene irrevocabile.
Sul punto torneremo ancora quando tratteremo specificamente
della responsabilità extracontrattuale (v. § 470).
... il diritto a
In cinque anni si prescrivono altresì i diritti a prestazioni
prestazioni
periodiche (ad es., le annualità di rendite e pensioni alimentari, i
periodiche e i
diritti che canoni di affitto e di locazione, gli interessi, ecc: art. 2948 c.c.; v. Cass.
derivano da 20 dicembre 2017, n. 30546), quelli derivanti da rapporti societari
rapporti
societari (art. 2949 c.c.; v. Cass. 5 luglio 2016, n. 13686), nonché i crediti di
lavoro (art. 2948, nn. 4 e 5, c.c.; v. Cass. 19 giugno 2018, n. 16139).
Del pari si prescrivono in cinque anni le azioni di annullamento
del contratto (art. 1442, comma 1, c.c.; v. §§ 345 ss.), l’azione revocatoria ordinaria (art. 2903 c.c.; v. §§ 260 s.) e le azioni relative alla tutela
ed all’amministrazione di sostegno (artt. 387, 424, 411 c.c.).
... i diritti
Ancora più breve — di regola, annuale — è la prescrizione dei
derivanti da
diritti derivanti da taluni rapporti commerciali (ad es., mediazione,
taluni
rapporti spedizione, trasporto: artt. 2950-2951 c.c.). Il diritto al pagamento
commerciali delle rate di premio dovute in forza di un contratto di assicurazione
[§ 116]
L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche
229
si prescrive in un anno dalle singole scadenze (art. 2952, comma 1,
c.c.); mentre gli altri diritti derivanti dal contratto di assicurazione si
prescrivono in due anni dal giorno in cui si è verificato il fatto su cui
il diritto si fonda, ad esclusione del contratto di assicurazione sulla
vita, i cui diritti si prescrivono nel termine ordinario di dieci anni
(art. 2952, comma 2, c.c.; v. Cass. 15 luglio 2016, n. 14420).
Deve peraltro avvertirsi che — se il titolare del diritto abbia Effetto del
proposto azione nel termine di prescrizione breve previsto dalla legge giudicato
sulle
e sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato (art. 324 prescrizioni
c.p.c.) — l’azione diretta all’esecuzione del giudicato (actio iudicati) è brevi
soggetta al termine di dieci anni previsto per la prescrizione ordinaria
(art. 2953 c.c.). Invero, ormai, al rapporto giuridico originario, sottoposto a prescrizione breve, si è sostituito il diritto nascente dalla
sentenza; e, rispetto a tale diritto, non valgono le ragioni che giustificano, secondo il legislatore, un periodo prescrizionale più breve (v.
Cass. 26 gennaio 2017, n. 2003).
§ 116.
Le prescrizioni presuntive.
Le « prescrizioni presuntive » hanno fondamento, natura e disci- Fondamento
plina radicalmente differenti rispetto alla « prescrizione estintiva ». dell’istituto
Quest’ultima — come si è detto — è una vicenda estintiva del diritto,
che consegue al mancato esercizio del diritto stesso per un determinato periodo di tempo.
Le prescrizioni presuntive, invece, si fondano sulla presunzione
(v. § 128) che un determinato credito sia stato pagato, o che si sia
comunque estinto per effetto di qualche altra causa. Dunque —
mentre la prescrizione estintiva è essa stessa causa di estinzione del
diritto — nella prescrizione presuntiva la legge semplicemente presume che si sia verificata una causa estintiva di esso (v. Cass. 18
gennaio 2017, n. 1203).
Da qui l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui la parte,
che solleva in giudizio l’eccezione di prescrizione, ha l’onere di
puntualizzare se intende avvalersi di quella estintiva ovvero di
quella presuntiva, trattandosi di eccezioni diverse e non fungibili (v.
Cass. 5 luglio 2017, n. 16486; Cass. 18 gennaio 2017, n. 1203).
L’istituto della prescrizione presuntiva si basa sulla considerazione che vi sono rapporti della vita quotidiana nei quali l’estinzione
del debito avviene, di regola, contestualmente all’esecuzione della
prestazione e senza che il debitore abbia cura di richiedere e, soprattutto, di conservare una quietanza (v. § 214) che gli garantisca la
230
L’attività giuridica
[§ 116]
possibilità di provare, anche a distanza di tempo, di aver già provveduto ad estinguere il debito. Si pensi al corrispettivo della cena consumata al ristorante (art. 2954 c.c.), al compenso delle lezioni private
impartite dall’insegnante ad un allievo, al prezzo delle merci vendute
al dettaglio o dei medicinali venduti dai farmacisti (art. 2955 c.c.).
Perciò la legge — trascorso un breve periodo: sei mesi, un anno o tre
anni, a seconda dei casi (artt. 2954, 2955, 2956 c.c.) — presume che il
debito relativo al compenso di dette prestazioni sia stato estinto.
Si noti bene: non è che il debito si estingua, ma si presume che
Presunzione
di estinzione
si sia estinto (v. Cass. 14 dicembre 2017, n. 30058). In altre parole, il
debitore — se intende rifiutare l’adempimento che dovesse essergli
richiesto una volta decorso il termine in cui si matura la prescrizione
presuntiva — è esonerato dall’onere di fornire in giudizio la prova
dell’avvenuta estinzione del credito azionato, come altrimenti dovrebbe
fare (ad es., esibendo la quietanza del pagamento) in base alla regola
generale (art. 2697, comma 2, c.c.; v. § 123): spetterà al creditore
offrire la prova che la prestazione non è stata eseguita.
Le prescrizioni presuntive non operano, perciò, sul terreno del
diritto sostanziale come la prescrizione estintiva. Esse riguardano,
invece, la prova e s’inquadrano nell’istituto generale delle presunzioni (v. § 128).
Come vedremo (v. § 128), le presunzioni sono di due specie:
presunzioni iuris tantum (che ammettono la prova contraria) e presunzioni iuris et de iure (che non l’ammettono) (art. 2728 c.c.). La
presunzione che nasce, a favore del debitore, dalla prescrizione
presuntiva appartiene alla prima categoria.
Tuttavia, contro la presunzione di estinzione non è ammesso
La prova
contraria
qualsiasi mezzo di prova. Il creditore, il quale abbia imprudentemente
lasciato trascorrere l’intero periodo prescrizionale prima di pretendere il pagamento, ove la prescrizione presuntiva gli venga opposta
in giudizio, può vincerla soltanto (v. Cass. 15 aprile 2014, n. 8753):
a) ottenendo dal debitore l’ammissione che l’obbligazione è
tuttora esistente (art. 2959 c.c.); ovvero
b) deferendo alla parte debitrice giuramento decisorio (art. 2736
c.c.; v. § 130): ossia, invitandola a confermare sotto giuramento che
l’obbligazione si è davvero estinta (art. 2960 c.c.).
Il vantaggio che il debitore riceve opponendo la prescrizione
presuntiva è chiaro: egli — come si è detto — è esonerato dall’onere
di provare il fatto che avrebbe determinato l’estinzione del debito; ed
il giudice deve rigettare la domanda di pagamento, senza bisogno che
egli dimostri di avere effettivamente già pagato, ovvero che si è
davvero verificata qualche altra causa di estinzione del debito. Per
[§ 117]
L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche
231
sfuggire a questa conseguenza, il creditore può deferirgli il giuramento decisorio. Ma il giuramento è un espediente pericoloso: se il
debitore non è una persona corretta, basta che egli affermi di aver
pagato perché la lite sia decisa a suo favore. Vero è, tuttavia, che il
creditore — qualora abbia elementi da cui risulti la falsità del
giuramento — può denunciarlo per il reato di falso giuramento (art.
371 c.p.), come vedremo parlando del giuramento (v. § 130).
È bene rimarcare che, nella fattispecie in esame, il legislatore Oggetto della
presume non già — specificamente — che il debitore abbia pagato il presunzione
debito, bensì — genericamente — che l’obbligazione si sia estinta per
effetto di uno qualsiasi dei vari modi di estinzione del debito previsti
dalla legge (artt. 1230 ss. c.c.; §§ 224 ss.). Così, ad es., la presunzione
opera anche se il debitore, pur riconoscendo di non aver pagato,
affermi che il debito gli è stato rimesso (art. 1236 c.c.; v. Cass. 1°
ottobre 2018, n. 23751).
Se si ha presente il fondamento della prescrizione presuntiva,
risulta chiaro come questa non possa operare quando chi oppone la
prescrizione abbia comunque ammesso — in giudizio (v. Cass. 8
maggio 2014, n. 9930) — che l’obbligazione non è stata estinta (art.
2959 c.c.). Così, ad es., se il debitore, convenuto in giudizio per
l’adempimento dell’obbligazione, sostenga che il debito non è sorto e,
comunque, ne eccepisca la prescrizione, l’eccezione dovrà essere
rigettata, perché chi oppone che il debito non è sorto, necessariamente ammette che il debito stesso non è stato nemmeno pagato, né
si è altrimenti estinto (v. Cass. 14 dicembre 2017, n. 30058; v. anche
Cass. 31 gennaio 2019, n. 2970).
La giurisprudenza ritiene che le prescrizioni presuntive — tro- Prescrizione
e
vando ragione unicamente nei rapporti che si svolgono senza forma- presuntiva
crediti
lità, dove il pagamento suole avvenire senza dilazione — non operino nascenti da
se il credito trae origine da un contratto stipulato in forma scritta (v. contratti
stipulati per
Cass. 30 aprile 2018, n. 10379).
iscritto
C) LA DECADENZA
§ 117.
Nozione e fondamento.
Il fondamento della prescrizione è — come abbiamo visto — Fondamento
l’inerzia del titolare: il trascorrere del tempo determina l’estinzione
del diritto che il titolare, trascurando di esercitarlo, ha in certo modo
« abbandonato ». Invece, alla base della decadenza, sta esclusiva-
232
L’attività giuridica
[§ 117]
mente la fissazione — da parte del legislatore o in forza di una
specifica clausola contrattuale — di un termine perentorio entro il
quale il titolare del diritto deve compiere una determinata attività
(v. Cass. 14 febbraio 2017, n. 3851), in difetto della quale l’esercizio
del diritto è definitivamente precluso, senza che abbiano rilevanza le
circostanze subiettive che hanno determinato l’inutile decorso del
termine.
Così, ad es., la legge concede alla parte soccombente in un
giudizio il potere di impugnare la sentenza; ma l’impugnazione
dev’essere proposta in un breve termine (art. 325 c.p.c.), trascorso il
quale — senza che possa rilevare alcun impedimento — inesorabilmente l’impugnazione diventa inammissibile: si decade, cioè, dal
diritto di proporre l’impugnativa (v. Cass. 14 marzo 2018, n. 6230).
Perciò, la decadenza produce l’estinzione del diritto in virtù del
fatto oggettivo del decorso del tempo. La decadenza implica, quindi,
l’onere di esercitare il diritto entro il tempo prescritto dalla legge.
Da questa differenza di fondamento tra i due istituti della
Disciplina
prescrizione e della decadenza discende la disciplina specifica della
decadenza, divergente da quella della prescrizione: ad essa non si
applicano le norme relative all’interruzione e, salvo che sia disposto
altrimenti, neppure quelle relative alla sospensione (art. 2964 c.c.).
La decadenza può, quindi, essere impedita solo dall’esercizio del
diritto mediante il compimento dell’atto previsto (per tornare al
nostro esempio, il passaggio in giudicato della sentenza può essere
impedito solo con l’impugnazione proposta entro il termine dalla
legge fissato a pena di decadenza) (art. 2966 c.c.). Con l’esercizio del
diritto viene meno, infatti, la stessa ragione d’essere della decadenza:
l’onere, a cui era condizionato l’esercizio del diritto, è ormai soddisfatto.
A differenza della prescrizione — che, come abbiamo visto, è
prevista dalla legge solamente nell’interesse generale — la decadenza
può essere prevista anche nell’interesse di uno dei soggetti del rapporto; perciò, può anche essere prevista in un contratto (c.d. decadenza convenzionale).
Decadenza
La decadenza « legale » costituisce sempre un istituto eccezionale,
legale
in quanto deroga al principio generale, secondo cui l’esercizio dei
diritti soggettivi non è sottoposto a limiti ed il titolare può esercitarli
quando, come e dove gli pare opportuno. Quindi, le norme che
stabiliscono decadenze sono di stretta applicazione (v. Cass. 15 giugno
2018, n. 15780) e non sono suscettibili di applicazione analogica (v. §
26).
[§ 117]
L’influenza del tempo sulle vicende giuridiche
233
La decadenza legale può essere stabilita così nell’interesse generale come in quello individuale di una delle parti.
Se la decadenza legale è stabilita nell’interesse generale — e, cioè, ... stabilita
in relazione a diritti indisponibili (ad es., in tema di rapporti fami- nell’interesse
generale
liari) — le parti non possono né modificare il regime previsto dalla
legge, né rinunziare alla decadenza (art. 2968 c.c.); ed il giudice — a
differenza di quanto abbiamo visto in tema di prescrizione — deve
rilevarla d’ufficio (art. 2969 c.c.; v. Cass. 9 novembre 2018, n. 28639).
Se la decadenza legale è, invece, stabilita a tutela di un interesse ... stabilita a
di un
individuale (si pensi, ad es., al termine entro il quale il compratore tutela
interesse
deve denunciare al venditore i vizi occulti, da cui la cosa venduta è individuale
affetta: art. 1495 c.c.; al termine entro il quale il committente deve
denunciare all’appaltatore vizi e difformità dell’opera: artt. 1667,
comma 2, e 1669, comma 1, c.c.), non può essere rilevata ex officio dal
giudice, ma deve essere invocata dalla parte interessata (v. Cass. 3
ottobre 2018, n. 24074). Di più, trattandosi di diritti disponibili, le
parti possono modificare il regime legale della decadenza e possono
anche rinunziarvi (si arg. a contrario ex art. 2968 c.c.).
La stessa disciplina dell’impedimento della decadenza è meno
rigorosa, in quanto è attribuito valore anche al riconoscimento del
diritto proveniente dalla persona contro la quale si deve far valere il
diritto soggetto a decadenza (art. 2966 c.c.).
Questi stessi principi — dalla legge previsti per la decadenza Decadenza
legale stabilita a tutela di un interesse individuale — valgono natu- convenzionale
ralmente anche per la decadenza « negoziale » (o convenzionale), che è
quella stabilita dalle parti.
La possibilità di stabilire decadenze in un contratto — o, in
genere, in un negozio giuridico — presuppone che si versi in tema di
diritti disponibili. In ogni caso, ad evitare la sopraffazione di una
delle parti ai danni dell’altra, è posto un limite alla libertà contrattuale: è necessario che il termine stabilito non renda eccessivamente
difficile l’esercizio del diritto (art. 2965 c.c.).
CAPITOLO XI
LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI
§ 118.
Premessa.
Se il diritto soggettivo non viene spontaneamente rispettato,
solo in casi eccezionali il suo titolare può provvedere direttamente —
in prima persona — alla sua tutela: c.d. « autotutela ». Di regola, il
soggetto che vuol far valere un proprio diritto deve rivolgersi al
giudice (art. 2907 c.c.): se il privato si fa arbitrariamente ragione da
sé con violenza sulle cose ovvero con violenza o minaccia alle persone,
incorre nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392
e 393 c.p.).
Ipotesi di
Eccezionalmente (v. Cass. 16 gennaio 2014, n. 820), il codice
autotutela
consente talune forme di autotutela.
consentite
Si pensi, ad es.:
dalla legge
(i) al diritto di ritenzione (ad es., ex art. 1152 c.c.; v. §§ 182 e 263;
Cass. 19 aprile 2010, n. 9267);
(ii) alla difesa del possesso finché la violenza dell’aggressore è in
atto (vim vi repellere licet) (v. § 185; Cass. 9 giugno 2009, n. 13270);
(iii) alla facoltà del contraente di recedere dal contratto, incamerando la caparra confirmatoria ricevuta, in caso di inadempimento dell’altra parte (art. 1385, comma 2, c.c.; v. § 316; Cass. 15
novembre 2011, n. 3728);
(iv) alla facoltà del contraente di intimare diffida ad adempiere
(art. 1454 c.c.; v. § 351; Cass. 13 giugno 2006, n. 5407);
(v) alla facoltà del contraente di risolvere il contratto in forza di
clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.; v. § 351; Cass. 31 agosto
2009, n. 18920);
(vi) alla facoltà di opporre l’eccezione di inadempimento (art.
1460 c.c.; v. § 352; v. Cass. 15 dicembre 2016, n. 25894);
(vii) alla facoltà del contraente di sospendere l’esecuzione della
prestazione dovuta, nell’ipotesi in cui le condizioni patrimoniali
dell’altro contraente siano divenute tali da porre in evidente pericolo
il conseguimento della controprestazione (art. 1461 c.c.; v. § 353;
Cass. 9 febbraio 2011, n. 3173;);
L’autotutela
[§ 119]
La tutela giurisdizionale dei diritti
235
(viii) alla facoltà dell’acquirente di sospendere il pagamento del
prezzo in caso di pericolo di rivendica (art. 1481 c.c.; v. § 371; Cass.
21 febbraio 2013, n. 4426);
(ix) alla facoltà del venditore, a fronte del mancato pagamento
del prezzo da parte dell’acquirente, di far vendere senza ritardo le
cose mobili compravendute, per conto e a spese di lui (art. 1515 c.c.;
v. § 375; v. Cass. 4 dicembre 2018, n. 31038);
(x) alla legittima difesa (v. § 457), ecc.
Di tali figure tratteremo via via che le incontreremo nello
svolgimento del nostro discorso.
Lo studio delle regole che disciplinano l’attività del giudice e
delle parti per risolvere le controversie insorte fra queste ultime
appartiene al diritto processuale civile. Qui ci limiteremo a brevissimi
cenni su istituti la cui regolamentazione è contenuta nel codice civile
(artt. 2907 ss.) e la cui comprensione presenta utilità anche per la
conoscenza del diritto privato.
§ 119.
Cenni sui tipi di azione.
Poiché lo Stato, come si è visto, ha avocato a sé il potere — che L’azione
è, al tempo stesso, un dovere — di rendere giustizia, ai consociati è
correlativamente riconosciuto il diritto di rivolgersi agli organi all’uopo istituiti per ottenere quella giustizia che non possono farsi da
sé: questo diritto — cioè, il diritto di agire in giudizio — si chiama
« azione ».
Chi esercita l’azione, proponendo la domanda giudiziale, si Attore e
chiama « attore » (perché agisce); colui contro il quale l’azione è convenuto
proposta si chiama « convenuto » (perché è invitato nel suo interesse,
se lo crede, a presentarsi — a convenire — in giudizio per esporre le
proprie ragioni).
Il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o
interessi legittimi è oggetto di una specifica garanzia costituzionale
(art. 24 Cost.) e, quindi, non può essere soppresso o limitato nei
confronti di nessuno e per nessuna ragione. Del pari, costituisce
diritto inviolabile dei cittadini la possibilità di difendersi in giudizio
(art. 24, comma 2, Cost.). La Costituzione prevede altresì che ai non
abbienti siano assicurati mezzi idonei per difendersi adeguatamente
davanti a qualsiasi giudice (art. 24, comma 3, Cost.).
Preme — specialmente perché si tratta di distinzioni che hanno I tipi di
importanza ai fini della conoscenza del diritto sostanziale — richia- azione
236
L’attività giuridica
[§ 119]
mare l’attenzione sui vari tipi di azione (e, correlativamente, di
processo civile) conosciuti dal nostro ordinamento.
Se tra Tizio e Caio sorge controversia in ordine alla sussistenza
Processo di
cognizione:
ovvero al modo di essere di un determinato diritto soggettivo (ad es.,
se la proprietà di un certo fondo spetta a Tizio ovvero a Caio; se il
corrispettivo da Caio dovuto a Tizio è di 100 ovvero di 200; ecc.),
s’instaura tra i due un processo c.d. « di cognizione », in esito al quale
il giudice individua la regola applicabile al caso concreto (così — per
restare ai nostri esempi — accerta se la proprietà del fondo appartiene a Tizio o a Caio; a quanto ammonta il corrispettivo da Caio
dovuto a Tizio; ecc.).
L’azione di cognizione può tendere ad una di queste tre finalità:
a) al mero accertamento dell’esistenza/inesistenza e/o del modo
... sentenza
di
di essere di un rapporto giuridico controverso (per restare ai nostri
accertamento
esempi, se la proprietà del fondo spetta a Tizio o a Caio; quale è
l’importo da Caio dovuto a Tizio) (c.d. azione e, correlativamente,
« sentenza di mero accertamento »);
b) all’emanazione di un comando, che il giudice rivolgerà alla
... sentenza
di condanna
parte soccombente, di tenere la condotta che lo stesso giudice riconosca come dovuta (così — sempre per rimanere ai nostri esempi —
il giudice condannerà Caio al rilascio del fondo che accerti essere da
quest’ultimo occupato illegittimamente; al pagamento della somma
riconosciuta come dovuta a Tizio; ecc.) (c.d. azione e, correlativamente, « sentenza di condanna »). Con lo stesso provvedimento di
condanna, se avente ad oggetto l’adempimento di obblighi diversi dal
pagamento di somme di denaro, il giudice, su richiesta della parte
interessata, potrà — al fine di incentivarne l’adempimento spontaneo
— prevedere che, in caso di violazione o inosservanza del proprio
provvedimento o di ritardo nella sua esecuzione, il condannato debba
corrispondere all’altra parte una somma di denaro, dal giudice predeterminata tenendo conto del valore della controversia, della natura
della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra
circostanza utile (art. 614-bis c.p.c.);
c) alla costituzione, modificazione o estinzione di rapporti giuri... sentenza
costitutiva
dici (art. 2908 c.c.). In questa ipotesi — in realtà — la sentenza non
si limita ad accertare la situazione giuridica preesistente o ad esprimere un comando concreto che, in via astratta e generale, poteva
ritenersi già esistente in applicazione della norma di legge, ma
modifica la situazione fino a quel momento vigente (c.d. azione e,
correlativamente, « sentenza costitutiva »). Un esempio è quello offerto
dalla pronunzia di separazione personale fra coniugi: questi ultimi
prima erano reciprocamente tenuti alla fedeltà, all’assistenza morale
[§ 119]
La tutela giurisdizionale dei diritti
237
e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia, alla
coabitazione (art. 143, comma 2, c.c.); per effetto della sentenza di
separazione questi obblighi cessano o si modificano (v. § 591). Altri
esempi sono la sentenza che accoglie la domanda di costituzione di
una servitù coattiva (art. 1032 c.c.; v. § 157; v. Cass. 18 aprile 2018,
n. 9543); la sentenza che pronuncia l’annullamento di un contratto
(v. § 346), la sua risoluzione giudiziale per inadempimento (v. § 350;
v. Cass. 4 giugno 2018, n. 14289) o eccessiva onerosità (v. § 356),
ovvero la sua rescissione (v. §§ 348 s.; v. Cass. 20 marzo 2009, n. 6891);
la sentenza che produce gli effetti del contratto che la parte aveva
l’obbligo di concludere (art. 2932 c.c.; v. § 121; v. Cass. 26 settembre
2018, n. 22997); la sentenza che accoglie una domanda revocatoria ex
art. 2901 c.c. (v. §§ 260 s.; v. Cass., sez. un., 23 novembre 2018, n.
30416); la sentenza che, in accoglimento della domanda del lavoratore di impugnazione del licenziamento, ne dispone la reintegrazione
nel posto di lavoro (v. § 502; v. Cass. 8 agosto 2017, n. 19699); ecc.
Se, a fronte di una sentenza che lo condanna a tenere una Processo di
determinata condotta, Caio, ciò nonostante, non ottempera neppure esecuzione
a quanto disposto dal giudice, Tizio potrà instaurare contro di lui un
processo di esecuzione, la cui finalità consiste nel realizzare coattivamente il comando contenuto nella sentenza (così — sempre per
restare ai nostri esempi — Tizio potrà ottenere, se necessario anche
con l’intervento della forza pubblica, il rilascio dell’immobile illegittimamente occupato da Caio; potrà far vendere coattivamente beni
di Caio al fine di soddisfarsi sul relativo ricavato; ecc.). Del processo
esecutivo parleremo più ampiamente al successivo § 121.
Per impedire che, nel corso del processo di cognizione, contro- Processo
parte possa porre in essere condotte destinate a frustrare gli effetti di cautelare
un’eventuale — futura — sentenza sfavorevole, l’altra parte potrà
avvalersi del processo cautelare (così — per rimanere all’esempio già
fatto — per evitare che, nelle more di un procedimento di condanna
al pagamento di una determinata somma di danaro, Caio possa
sottrarre/occultare/alienare i beni su cui Tizio, una volta ottenuta la
sentenza sperata, potrebbe esercitare un’azione esecutiva, allo stesso
Tizio è concesso richiedere immediatamente il sequestro conservativo
dei beni di Caio, rendendo così indifferente, nei confronti dello stesso
Tizio, qualsiasi atto dispositivo che Caio dovesse eventualmente
porre in essere: v. § 262). Finalità del processo cautelare è, in genere,
quella di conservare lo stato di fatto esistente, per rendere possibile
l’esecuzione dell’emananda sentenza.
238
L’attività giuridica
§ 120.
[§ 120]
La cosa giudicata.
Per meglio assicurare la conformità della sentenza a giustizia, è
concesso alle parti di promuovere il riesame della lite, impugnando la
decisione. Tuttavia, questo riesame non può andare all’infinito e non
può essere consentito senza limiti: verificatesi certe condizioni (decorso di termini, esaurimento dei mezzi di impugnativa concessi dalla
legge), il comando contenuto nella sentenza non può essere più
modificato da alcun altro giudice, costituendo « res iudicata ». Ad
eventuali ulteriori tentativi di una delle parti di proseguire il dibattito si può opporre la « cosa giudicata » o — come anche si suol dire —
il « passaggio in giudicato » della sentenza.
L’efficacia del giudicato concerne anzitutto il processo: esso
Cosa
giudicata
preclude — come si è detto — ogni ulteriore riesame ed impugnazione
formale...
della sentenza. Perciò l’art. 324 c.p.c. — la cui rubrica reca appunto
« Cosa giudicata formale » — dice che s’intende passata in giudicato la
sentenza che non è più soggetta ai mezzi di impugnazione ivi indicati
(v. Cass. 24 gennaio 2017, n. 1553).
Ma la cosa giudicata ha anche un valore sostanziale (c.d. « cosa
...e
sostanziale
giudicata sostanziale »): non soltanto non si può impugnare la sentenza, ma, se in essa è stato riconosciuto il mio diritto di proprietà o
di credito, ciò non può più formare oggetto di discussione o di riesame
tra me e l’altra parte (ed i rispettivi aventi causa), neppure in futuri
processi. « Res iudicata — secondo il noto brocardo — pro veritate
habetur »: ovvero — con enfasi che va fino alla stravaganza, ma che
pure vale a scolpire l’indiscutibilità dell’accertamento contenuto
nella sentenza — « res iudicata facit de albo nigrum, originem creat,
aequat quadrata rotundis, naturalia sanguinis vincula et falsum in
verum mutat ». Più sobriamente, l’art. 2909 c.c. dice che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato « fa stato » ad
ogni effetto fra le parti, i loro eredi ed aventi causa.
La cosa giudicata in senso sostanziale consiste, dunque, nella
definitività dell’accertamento contenuto nella sentenza anche al di
fuori del processo nel quale è stata pronunziata (v. Cass. 15 maggio
2018, n. 11754; Cass. 14 maggio 2018, n. 11600); rispetto, quindi, a
qualunque futuro processo ed anche a prescindere dal processo: così,
ad es., se Tizio ha contestato il mio diritto di proprietà su un bene che
voglio vendere, io posso mostrare al potenziale acquirente la sentenza
che ha respinto la domanda di Tizio e tranquillizzarlo che sarà sicuro
da ogni suo ulteriore attacco (v. Cass. 11 gennaio 2017, n. 411).
L’ulteriore approfondimento dell’argomento della cosa giudiNozione
[§ 121]
La tutela giurisdizionale dei diritti
239
cata spetta al diritto processuale civile: qui basta averne dato la
nozione.
§ 121.
Il processo esecutivo.
Se non viene spontaneamente adempiuto neppure il comando
contenuto nella sentenza, colui a cui favore detto comando è stato
emesso può iniziare — come già si è detto — il procedimento
esecutivo.
Peraltro, solo in alcuni casi detto procedimento riesce ad assi- Esecuzione in
curare coattivamente proprio quel risultato voluto dal comando con- forma
specifica...
tenuto nella sentenza: c.d. esecuzione forzata « in forma specifica ».
Ciò accade nelle ipotesi in cui sia rimasto ineseguito:
a) un obbligo avente ad oggetto la consegna di una cosa deter- ... degli
di
minata, mobile o immobile (ad es., l’obbligo dell’inquilino, alla sca- obblighi
dare
denza del contratto di locazione, di riconsegnare l’unità immobiliare
al proprietario); nel qual caso l’avente diritto otterrà la consegna o il
rilascio forzati del bene stesso (art. 2930 c.c.) (così, ad es., se alla
cessazione del rapporto l’inquilino non rilascia spontaneamente l’appartamento locatogli, il concedente, dopo aver ottenuto una sentenza
di rilascio, sarà immesso nella materiale disponibilità dell’immobile,
grazie all’intervento dell’ufficiale giudiziario: artt. 605 ss. c.p.c.);
b) un obbligo avente ad oggetto un « facere » fungibile (ad es., ... degli
di
l’obbligo dell’appaltatore di ultimare l’edificio che si è impegnato a obblighi
facere
realizzare); nel qual caso l’avente diritto — poiché « nemo ad factum
precise cogi potest » — potrà ottenere soltanto che esso sia eseguito da
altri, seppure a spese dell’obbligato (art. 2931 c.c.; artt. 612 ss. c.p.c.).
Ove si tratti invece di inesecuzione di un obbligo avente ad oggetto
un « facere » infungibile (ad es., l’obbligo assunto dal famoso tenore di
cantare alla « prima » della Scala; v. § 196), l’avente diritto — non
potendo la prestazione, proprio perché infungibile, essere eseguita da
altri che dall’obbligato — potrà ottenere soltanto il risarcimento del
danno;
c) un obbligo avente ad oggetto quel particolare « facere » (in- ... dell’obbligo
concludere
fungibile) consistente nella conclusione di un contratto (ad es., l’ob- di
un contratto
bligo che il proprietario si sia assunto, in forza di un c.d. contratto
preliminare, di vendere il proprio appartamento ad un determinato
acquirente: v. § 298); nel qual caso l’avente diritto potrà ottenere dal
giudice una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto
non concluso (nel nostro esempio, una sentenza che trasferisca la
240
L’attività giuridica
[§ 121]
proprietà dell’appartamento dal promittente venditore inadempiente al promissario acquirente: art. 2932 c.c.);
... degli
d) un obbligo avente ad oggetto un non facere (ad es., l’obbligo
obblighi di
di non sopraelevare un muro); nel qual caso l’avente diritto potrà
non facere
ottenere, a spese dell’obbligato, la distruzione della cosa che sia stata
realizzata in violazione di detto obbligo (art. 2933, comma 1, c.c.);
sempreché la distruzione non sia di pregiudizio all’economia nazionale (v. Cass. 31 ottobre 2017, n. 25890). Tutto ciò presuppone,
ovviamente che la violazione dell’obbligo di non facere si sia tradotta
nella realizzazione di un opus suscettibile di distruzione. In caso
contrario (si pensi, ad es., all’ipotesi di violazione del patto di non
concorrenza ex art. 2125 c.c.), l’avente diritto — non potendo materialmente impedire che controparte continui a tenere la condotta
vietata — potrà ottenere soltanto il risarcimento del danno.
Esecuzione
La forma di gran lunga più importante di procedimento esecumediante
tivo è, peraltro, quella che ha per oggetto l’espropriazione dei beni
espropriazione del debitore: c.d. esecuzione mediante espropriazione forzata.
In questo procedimento il bene o i beni colpiti dall’esecuzione
vengono, di regola, venduti ai pubblici incanti e la somma ricavata
ripartita tra i creditori. Le forme di questo procedimento sono
regolate dal codice di procedura civile (artt. 483 ss. c.p.c.).
PignoraIl procedimento di espropriazione forzata ha inizio con il pignomento e ...
ramento (art. 491 c.p.c.), che è l’atto con il quale si indicano i beni
assoggettati all’azione esecutiva.
... suoi effetti
Importante è richiamare l’attenzione sugli effetti di diritto sosostanziali
stanziale del pignoramento: l’art. 2913 c.c. stabilisce che non hanno
effetto, in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che
intervengono nell’esecuzione, gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento. Siffatta inefficacia dipende non già dall’incapacità del debitore sottoposto a pignoramento e nemmeno dalla perdita
della proprietà dei beni, che non è ancora avvenuta; bensì dalla
destinazione dei beni alla espropriazione. Detta inefficacia è relativa:
può essere, cioè, fatta valere solo dal creditore pignorante e dai
creditori intervenuti nell’esecuzione. Sicché, per es., se il processo
esecutivo si estinguesse, il debitore che avesse effettuato l’alienazione
non potrebbe opporre l’inefficacia stessa all’acquirente.
Naturalmente, la legge tiene conto anche della situazione dei
terzi che abbiano acquistato in buona fede, ignorando il pignoramento. Se si tratta di mobili non iscritti nei pubblici registri, basta
l’acquisto del possesso a salvaguardare il diritto del terzo (artt. 2913
e 1153 c.c.), secondo un principio generale, al quale si è già varie volte
accennato e del quale si tratterà diffusamente a suo luogo (§ 183); se
[§ 121]
La tutela giurisdizionale dei diritti
241
si tratta, invece, di immobili o di mobili registrati, la protezione del
terzo è attuata per il tramite della trascrizione (art. 2914, comma 1 n.
1, c.c.). Ma di questo sarà bene parlare allorché esamineremo nel suo
complesso la funzione della pubblicità immobiliare (§§ 681 ss.).
Vi è peraltro da notare che non sussiste una correlazione necessaria fra sentenza di condanna ed esecuzione forzata: molte situazioni
di vantaggio — specie ove il bene garantito sia di carattere non
patrimoniale (ad es., rapporti di famiglia o di lavoro, diritti di libertà,
ecc.) — non sono suscettibili di essere tutelate adeguatamente attraverso i procedimenti di esecuzione forzata.
CAPITOLO XII
LA PROVA DEI FATTI GIURIDICI
§ 122.
Nozioni generali.
L’esito di un giudizio può dipendere dalla soluzione di una
quaestio facti: ossia dall’accoglimento di una delle contrapposte versioni che, circa il modo in cui si sono realmente svolti i fatti rilevanti
ai fini del decidere, vengono fornite dalle parti (ad es., Tizio assume
di avere prestato 100 a Caio, che invece lo nega; Caio sostiene di avere
già restituito la somma e Tizio dichiara di non aver ricevuto nulla;
ecc.).
Ora, tutte le volte in cui di una circostanza — rilevante ai fini
della decisione — le parti forniscono ricostruzioni contrastanti, il
giudice è tenuto, per definire la lite, a scegliere tra le contrapposte
versioni che gli vengono prospettate.
I mezzi di
Nel giudizio civile, peraltro, sono le parti che devono preoccuprova ed il
parsi di indicare al giudice i mezzi di prova — ossia gli elementi
principio
dispositivo (documenti, testimonianze, dichiarazioni di controparte, ecc.) — in
base ai quali ciascuna ritiene di accreditare la propria versione dei
fatti litigiosi: c.d. « principio dispositivo » (art. 115, comma 1, c.p.c.;
v. Cass. 26 aprile 2017, n. 10224).
Il giudice deve infatti giudicare — come si suol dire — « iuxta
alligata et probata partium »: sulla base, cioè, di quanto allegato e
provato dalle parti.
Al giudice spetta, innanzitutto, valutare se i mezzi di prova che
le parti offrono o chiedono di acquisire siano:
Ammissibilità
a) ammissibili, ossia conformi alla legge (sarebbe inammissibile,
e rilevanza
ad es., la testimonianza di un soggetto che avesse un diretto interesse
delle prove
nella controversia: art. 246 c.p.c.; o una testimonianza volta a
provare patti, anteriori o contestuali, contrari al contenuto di un
documento: art. 2722 c.c.; o una qualsiasi prova dalla quale la parte,
in base alle norme che regolano il processo, sia decaduta; ecc.); e
b) rilevanti, ossia abbiano ad oggetto fatti che possano influenzare la decisione della lite (v. Cass., sez. un., 8 aprile 2008, n. 9040).
I fatti
contestati
[§ 123]
La prova dei fatti giuridici
243
Dopo aver ammesso (con ordinanza) e assunto le prove richiestegli Valutazione
(cioè, dopo aver ascoltato i testimoni, interrogato le parti, acquisito i delle prove
documenti, ecc.), il giudice valuterà, in sede di sentenza, la loro concludenza: ossia, la loro idoneità o meno a dimostrare i fatti sui quali
vertevano (art. 116, comma 1, c.p.c.). A tal fine, il giudice riterrà « provata » una circostanza (o una sua modalità) non già soltanto quando
abbia acquisito la certezza che la stessa si sia effettivamente verificata
(od effettivamente verificata in quel determinato modo), bensì anche
quando le prove raccolte lo abbiano convinto che una delle due versioni
dei fatti prospettate dalle parti sia convincente e sia quella che ben si
concilia con il materiale probatorio raccolto (v. Cass., sez. un., 14 dicembre 1999, n. 898; Cass., sez. un., 13 novembre 1996, n. 9961; e, da
ultimo, Cass. 23 maggio 2014, n. 11511).
In ogni caso, il giudice deve motivare la propria decisione, spiegando le ragioni del suo convincimento, che — come si è detto — deve
formarsi iuxta alligata et probata partium (art. 115 c.p.c.), non essendogli consentito trarre elementi di convincimento da fonti di informazione che non siano state ritualmente acquisite in giudizio con tutte
le garanzie processuali, compresa quella che discende dal rispetto del
contraddittorio tra le parti (v. Cass. 13 giugno 2014, n. 13485).
Al giudice è peraltro consentito — in deroga al principio dispositivo ed al principio del contraddittorio — far autonomamente ricorso
alle nozioni di comune esperienza (c.d. « fatti notori »), per tali intendendosi quelle (si pensi, ad es., alla circostanza del coinvolgimento
dell’Italia nel secondo conflitto mondiale) acquisite alla conoscenza
della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed
incontestabili (art. 115, comma 2, c.p.c.; v. Cass. 6 aprile 2018, n. 8504).
Un problema di prova si pone — ovviamente — solo con riferi- I fatti non
mento ai fatti oggetto di specifica contestazione fra le parti: quelli, rela- contestati
tivamente ai quali non sorgono divergenze di prospettazione, sono
invece dal giudice posti a fondamento della decisione senza necessità
di prova alcuna (art. 115, comma 1, c.p.c.; v. Cass. 7 maggio 2018, n.
10864; v. però le precisazioni di Cass. 20 ottobre 2016, n. 21306).
§ 123.
L’onere della prova.
Può darsi che, relativamente ad un fatto con riferimento al La
quale le parti abbiano fornito opposte versioni, nel processo sia del circostanza
non provata
tutto mancata la prova, ovvero che i risultati delle prove raccolte
siano non persuasivi o addirittura contraddittori. Se non ritiene di
avere elementi sufficienti per decidere quale tra le contrapposte
244
L’attività giuridica
[§ 123]
versioni prospettategli sia da considerare più convincente, il giudice
come deve regolarsi? Non potendo, ovviamente, rifiutarsi di decidere, egli dovrà per forza egualmente scegliere una soluzione, ma —
di certo — non capricciosamente, in base a considerazioni non
giuridiche (ad es., di simpatia o antipatia).
Dovrà, invece, far applicazione della regola dell’« onere della
... e l’onere
della prova
prova » (art. 2697 c.c.), secondo cui — allorquando un fatto, rilevante
ai fini del decidere, rimane sfornito in causa di prova convincente —
il giudice deve accogliere la versione di esso prospettata dalla parte
su cui non grava l’onere della prova (quand’anche tale ultima versione risulti non sufficientemente dimostrata). In altre parole, il
rischio della mancanza o insufficienza o contraddittorietà della prova di
un fatto controverso è addossato alla parte su cui grava l’onere della
prova; che avrà, quindi, tutto l’interesse a fornirne la dimostrazione
in giudizio, se non vuole correre il pericolo di veder respinta la
domanda o l’eccezione fondata su detto fatto (v. Cass. 10 marzo 2015,
n. 4773).
Non va peraltro dimenticato che il giudice deve basare il proprio
Carattere
residuale
convincimento su tutte le prove acquisite, di chiunque sia stata
della regola
dell’onere l’iniziativa; e, quindi, senza dar rilievo al fatto che un mezzo di prova
della prova sia stato offerto dall’uno o dall’altro dei litiganti (v. Cass., sez. un., 23
dicembre 2005, n. 28498; e, da ultimo, Cass. 4 giugno 2018, n. 14284;
Cass. 4 luglio 2017, n. 16415). Il giudice non dovrà, dunque, far
ricorso alla regola dell’onere della prova, quando la dimostrazione di
un determinato fatto risulti comunque fornita in causa (non importa,
se dalla parte che era gravata dal relativo onere probatorio ovvero
dall’altra). Da ciò consegue che della regola dell’onere della prova il
giudice dovrà far applicazione non già in tutti i giudizi, ma solo in
quelli in cui un fatto contestato, rilevante ai fini del decidere,
rimanga, alla fine, sfornito di prova sufficiente: c.d. carattere residuale
della regola dell’onere probatorio (v. Cass. 19 giugno 2018, n. 16176).
Naturalmente il problema più delicato diventa quello di accerLa
ripartizione
tare,
rispetto a ciascun fatto, su quale delle parti ricada l’onere
dell’onere
probatorio: probatorio.
fatti
In linea di principio, può dirsi che l’onere di provare un fatto
costitutivi e
fatti ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della sua tesi:
impeditivi, onus probandi incumbit ei qui dicit. In questo senso va intesa la norma
modificativi
(art. 2697 c.c.), che accolla a chi vuol far valere un diritto in giudizio
o estintivi
l’onere di provare i fatti (ad es., la stipulazione del contratto di cui si
reclama l’osservanza) che ne costituiscono il fondamento (c.d. fatti
costitutivi), ed a chi contesta la rilevanza di tali fatti l’onere di
provarne l’inefficacia (ad es., la nullità del contratto) o di provare
[§ 123]
La prova dei fatti giuridici
245
eventuali altri fatti che abbiano modificato (ad es., un patto di
proroga del termine di adempimento) o estinto (ad es., l’intervenuta
risoluzione consensuale del contratto) il diritto fatto valere (c.d. fatti
impeditivi, modificativi ed estintivi).
Rimane tuttavia la difficoltà, rispetto a taluni fatti, di accertare
l’esatta qualifica da attribuire alla circostanza contestata, al fine di
decidere su quale delle parti ricada il relativo onere probatorio. Così,
ad es., grava su colui che pretende il risarcimento di un danno
extracontrattuale (v. §§ 454 ss.) provare la colpa del danneggiante,
ovvero è quest’ultimo che ha l’onere di provare, per andare esente da
responsabilità, la mancanza di colpa propria? Ossia, la colpa è
momento costitutivo della responsabilità per danni, oppure è l’assenza di colpa circostanza impeditiva del sorgere di tale responsabilità (v. § 473)? Allo stesso modo, grava su chi chiede la condanna di
controparte all’adempimento di un’obbligazione (v. §§ 214 ss.) provare l’inadempimento del convenuto, ovvero è quest’ultimo che, per
vedere respinta la domanda attrice, ha l’onere di provare di aver già
adempiuto?
In proposito supplisce spesso la legge stessa, che — esplicitamente o implicitamente — consente di stabilire se una circostanza
debba essere considerata come fatto costitutivo ovvero come fatto
impeditivo. Così, ad es., l’art. 1147, comma 3, c.c. dispone che « la
buona fede è presunta »: vale a dire che il legislatore fa ricadere su chi
vuol contestare gli effetti della buona fede l’onere di provare la mala
fede dell’altra parte e non già su questa l’onere di provare la propria
buona fede.
Quando la legge tace in ordine al carattere costitutivo o impeditivo di una circostanza, spetta ovviamente all’interprete determinare su quale delle parti debba ricadere il relativo onere probatorio.
Al riguardo, la Suprema Corte — invocando l’art. 24 Cost. ed il Principio
divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o della
vicinanza
troppo difficile l’esercizio dell’agire in giudizio — fa ricorso al c.d. della prova
principio della vicinanza della prova, che induce a far gravare il
relativo onere sulla parte che più agevolmente è in grado di assolverlo
(così, ad es., nel giudizio in cui il lavoratore richieda il riconoscimento
di un premio di produttività in relazione ai risultati economici
positivi realizzati dall’impresa, graverà su quest’ultima l’onere di
dimostrare il mancato raggiungimento di detti risultati, e non già sul
lavoratore l’onere di dimostrare il contrario, in quanto gli elementi
atti a provare il raggiungimento o meno di detti risultati sono nella
disponibilità esclusiva dell’impresa: v. Cass., sez. un., 3 maggio 2019,
n. 11748; Cass. 10 febbraio 2017, n. 3548).
246
L’attività giuridica
[§ 124]
Così precisata la portata dei principi in materia, l’onere della
prova può correttamente definirsi come il rischio per la mancata prova
di un fatto (rimasto) incerto nel giudizio; rischio dal legislatore
addossato a quella parte che avrebbe dovuto trovarsi nelle migliori
condizioni per fornire la prova della circostanza invocata: ove non
riesca, invece, a convincerlo, in base alle prove raccolte, che quella
circostanza si è effettivamente verificata, il giudice dovrà considerarla come non avvenuta, anche se non sia per nulla sicuro che quel
fatto, in realtà, effettivamente non sia accaduto (così, ad es., chi
pretende la restituzione della somma mutuata, ha l’onere di provare
la stipulazione del mutuo: se non riesce a dare la prova che ciò è
avvenuto, il giudice deve respingere la domanda, anche se non è per
nulla sicuro che il mutuo non sia stato effettivamente concesso).
Patti relativi
Questa è la regola che pone la legge (art. 2697 c.c.). Le parti,
all’onere
tuttavia,
possono stabilire diversamente (c.d. inversione convenziodella prova
nale dell’onere della prova), a meno che non si tratti di diritti indisponibili (ad es., questioni di stato) e purché la modificazione non abbia
per effetto di rendere eccessivamente difficile ad una delle parti
l’esercizio del diritto (art. 2698 c.c.).
§ 124.
I mezzi di prova.
Per « mezzo di prova » si intende qualsiasi elemento (ad es., un
documento scritto, una fotografia, una registrazione fonografica, una
testimonianza, un esperimento peritale, un ragionamento logico,
ecc.) idoneo a stabilire quale, tra le contrapposte versioni di un fatto
sostenute dalle parti in lite, sia la più convincente.
Si ritiene che — oltre a quelle espressamente indicate e disciProve tipiche
e prove
plinate dal legislatore (artt. 2699-2739 c.c.), di cui parleremo fra
atipiche
poco: c.d. « prove tipiche » — il giudice possa porre a fondamento della
propria decisione, dandone adeguata motivazione, anche « prove atipiche » (cioè, non espressamente previste dal codice), purché idonee
ad offrire validi elementi di giudizio (v. Cass. 10 ottobre 2018, n.
25067; Cass. 8 marzo 2018, n.5539).
Principio fondamentale, in tema di apprezzamento (del risulPrincipio del
libero
tato) delle prove raccolte in un giudizio, è quello della loro libera
apprezzamento della valutazione da parte del giudice (v. Cass. 4 luglio 2017, n. 16467; Cass.
prova 8 maggio 2017, n. 11176).
« Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente
apprezzamento », recita l’art. 116 c.p.c.: c.d. « principio del libero
apprezzamento della prova » (v. Cass. 23 ottobre 2018, n. 26769).
Nozione
[§ 125]
La prova dei fatti giuridici
247
Peraltro, la discrezionalità di tale valutazione è temperata
dall’obbligo di motivazione; dall’obbligo cioè, per il giudice, di spiegare, in sede di decisione, perché certi mezzi di prova siano stati
ritenuti convincenti ed altri no; se si sia dato ingresso, oppure no, ai
principi sull’onere della prova; e così via: spiegazioni che è sempre
possibile sottoporre al controllo del giudice dell’impugnazione (v.
Cass. 2 agosto 2016, n. 16056; Cass. 8 settembre 2015, n. 17774).
Peraltro, è lo stesso legislatore a talvolta derogare al principio Prove legali
del libero apprezzamento dei mezzi di prova da parte del giudice,
disponendo che talune prove — ad es., l’atto pubblico (art. 2700 c.c.;
v. § 125), la confessione (art. 2733 c.c.; v. § 129), il giuramento
decisorio (art. 2738 c.c.; v. § 130), ecc. — costituiscono « prove legali »,
la cui rilevanza è già predeterminata dalla legge, cosicché il giudice non
ha alcuna discrezionalità nel valutarle. Esse — come si suol dire —
fanno « piena prova », rispettivamente, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale, così come delle dichiarazioni e dei fatti
che costui attesta essere avvenuti alla sua presenza (nell’atto pubblico), della verità dei fatti sfavorevoli asseverati dal dichiarante
(nella confessione), della verità dei fatti confermati sotto giuramento
(nel giuramento decisorio), ecc. In questi casi, il giudice è vincolato e
non potrebbe decidere in contrasto con i fatti che devono considerarsi « pienamente provati ».
I mezzi di prova si distinguono in due specie:
a) « prove precostituite » o documentali (ad es., atto pubblico, Prove
scrittura privata, registrazione fonografica, ecc.), così nominate per- precostituite
e prove
ché esistono già prima del giudizio; e
costituende
b) « prove costituende » (ad es., prova testimoniale, presunzione,
giuramento, ecc.), così dette perché destinate a formarsi nel corso del
giudizio.
§ 125.
La prova documentale.
Per « documento » s’intende ogni cosa (ad es., certificati rilasciati Nozione
dalla P.A., lettere, fatture, libri contabili, fotografie, riproduzioni
cinematografiche, riproduzioni fonografiche, ecc.) idonea a rappresentare un fatto, in modo da consentirne la presa di conoscenza a
distanza di tempo.
Importanza preminente, tra i documenti, rivestono l’« atto pubblico » e la « scrittura privata ».
« Atto pubblico » è il documento redatto con particolari formalità Atto pubblico
(stabilite dalla legge) da un notaio o da altro pubblico ufficiale
248
L’attività giuridica
[§ 125]
autorizzato ad attribuire all’atto quella particolare fiducia nella sua
veridicità che si chiama « pubblica fede » (art. 2699 c.c.). Sono atti
pubblici, ad es., oltre i rogiti notarili, i verbali d’udienza redatti da un
cancelliere del tribunale, le relazioni di notifica predisposte dagli
ufficiali giudiziari, i verbali redatti dalla commissione di un concorso
pubblico, talune attestazioni rilasciate da uffici pubblici (v. Cass. 7
luglio 2016, n. 13829), i certificati medici rilasciati presso una struttura pubblica ospedaliera (v. Cass. 24 settembre 2015, n. 18868), le
annotazioni contenute in una cartella clinica redatta da un’azienda
ospedaliera pubblica (v. Cass. 20 novembre 2017, n. 27471), ecc.
L’atto pubblico — che oggi può essere redatto anche con proEfficacia
probatoria
cedure informatiche (artt. 47-bis e 47-ter L. 16 febbraio 1913, n. 89)
— fa « piena prova » (prova legale):
a) della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo
ha formato;
b) delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico
ufficiale attesta essere avvenuti alla sua presenza (art. 2700 c.c.; v.
Cass. 6 ottobre 2016, n. 20025).
L’atto pubblico, pertanto, non fa prova della veridicità del
contenuto delle dichiarazioni rese dalle parti avanti al pubblico
ufficiale, ma solo del fatto che esse sono state effettivamente rese
come indicato in atto (v. Cass. 24 gennaio 2018, n. 1745). Del pari,
non fa prova della fondatezza dei giudizi eventualmente espressi dal
pubblico ufficiale (ad es., in ordine alla capacità di intendere e volere
delle parti; v. Cass. 11 giugno 2014, n. 13264).
Dicendo che su determinate circostanze l’atto pubblico fa
Piena prova
« piena prova », il legislatore intende dire che il giudice è vincolato a
considerare senz’altro vere tali circostanze, senza che siano possibili
alternative, dubbi o controprove. Se una parte intende contrastare
tale speciale forza probatoria privilegiata, deve fare necessariamente
ricorso ad un particolare procedimento, che si avvia mediante una
« querela di falso » (art. 221 c.p.c.): ossia, mediante la richiesta che il
giudice accerti — in via separata rispetto al processo in cui il
documento è prodotto e se ne chiede l’utilizzazione — che quel
documento è in realtà oggettivamente falso (a prescindere dall’individuazione di chi sia stato eventualmente responsabile di tale falsità
e dalla conseguente comminatoria delle relative sanzioni: accertamenti che potrebbero aver luogo soltanto in un processo penale).
L’atto pubblico, ove nullo come tale per difetto di qualche
La
conversione
formalità essenziale, può avere la stessa efficacia della scrittura
formale
privata, se sottoscritto da una o più parti: c.d. conversione formale
(art. 2701 c.c.; v. Cass. 30 marzo 2011, n. 7264).
[§ 125]
La prova dei fatti giuridici
249
« Scrittura privata » è qualsiasi documento che risulti sottoscritto Scrittura
da un privato. Il testo del documento può essere anche stampato, privata
dattiloscritto o scritto a mano da terzi: essenziale è, però, la sottoscrizione autografa di colui che, con la firma, si assume la paternità
del testo e, quindi, la responsabilità di quanto in esso dichiarato (v.
Cass. 29 novembre 2018, n. 30948; Cass. 19 marzo 2018, n. 6753).
La scrittura privata — appunto perché non proviene da un Efficacia
pubblico ufficiale — non ha la stessa efficacia probatoria dell’atto probatoria
nei confronti
pubblico. Essa, infatti, fa prova soltanto contro chi ha sottoscritto il delle parti
documento, e non anche a suo favore (v. Cass., sez. un., 29 aprile 2008,
n. 10827; e, da ultimo, Cass. 30 giugno 2015, n. 13321). Tale valore,
però, è subordinato alla condizione che colui che ne appare il firmatario riconosca come sua la sottoscrizione, ovvero che la sottoscrizione debba considerarsi legalmente come riconosciuta (art. 2702
c.c.).
Si ha per « legalmente riconosciuta » la sottoscrizione autenticata Scrittura
da un notaio o da un altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (c.d. privata
autenticata e
« scrittura privata autenticata »: art. 2703 c.c.), nonché la sottoscri- scrittura
non
zione di un documento prodotto in giudizio e non disconosciuta da privata
autenticata
colui contro il quale la produzione è effettuata (art. 215 c.p.c.). Basta
dunque, se si tratta di scrittura non autenticata, che la persona cui la
scrittura è attribuita neghi — in modo specifico e determinato (v.
Cass. 22 gennaio 2018, n. 1537) — la propria sottoscrizione, perché
chi vuol valersi della scrittura debba fornire la prova della provenienza di questa, mediante il c.d. « procedimento di verificazione »
(artt. 216 ss. c.p.c.; v. Cass. 30 marzo 2018, n. 7993; Cass. 16 gennaio
2018, n. 887). Di qui l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui la
mancata proposizione dell’istanza di verificazione di una scrittura
privata disconosciuta equivale, di regola, ad una dichiarazione, da
parte di colui che l’ha prodotta, di non volersene avvalere come
mezzo di prova (v. Cass. 20 novembre 2017, n. 27506).
Se, invece, la sottoscrizione è autenticata o riconosciuta o non
disconosciuta, la scrittura privata (come l’atto pubblico) fa « piena
prova » (prova legale) — fino a querela di falso — ma solo della
provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta (art. 2702 c.c.; v.
Cass. 30 giugno 2015, n. 13321).
Tutto ciò, sempre che la scrittura privata sia invocata contro il Efficacia
sottoscrittore nell’ambito di un giudizio in cui lo stesso è parte. Se, probatoria
nei confronti
invece, è invocata in un giudizio cui il sottoscrittore è estraneo, la dei terzi
scrittura privata ha, di regola, valore meramente indiziario (v. Cass.,
sez. un., 23 giugno 2010, n. 15169; e, da ultimo, Cass. 1° marzo 2018,
250
L’attività giuridica
[§ 125]
n. 4842); salvo che per quanto riguarda la sua provenienza, se la
sottoscrizione è autenticata.
Sempre nei confronti dei terzi, può avere rilevanza la « data »
La data
della scrittura privata: ossia, l’indicazione del giorno in cui il documento è stato sottoscritto (ad es., per stabilire, tra due contratti,
quale sia stato concluso anteriormente, per tutti i fini che si possono
riannodare a tale anteriorità: così, secondo il disposto dell’art. 1599
c.c., se taluno, dopo aver dato in locazione una cosa, l’abbia venduta,
il contratto di locazione dev’essere rispettato anche dal compratore,
se la locazione è anteriore alla vendita).
Le parti, peraltro, potrebbero mettersi d’accordo in danno del
La data
certa
terzo, apponendo una data fittizia, anteriore all’atto (c.d. retrodatazione). Per evitare queste facili frodi, la legge stabilisce (art. 2704 c.c.)
che la data della scrittura privata è — per i terzi — la seguente (c.d.
« data certa »):
(i) se si tratta di scrittura privata autenticata, la data dell’autenticazione;
(ii) se si tratta di scrittura privata non autenticata, la data della
sua registrazione (ed è questo — come si ricorderà — l’effetto saliente
della registrazione in materia privatistica: v. § 106), ovvero la data in
cui si verifica un evento che stabilisca in modo incontestabile che il
documento è stato formato anteriormente (ad es., il giorno della
morte o della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di
coloro che l’hanno sottoscritta; il giorno in cui il contenuto della
scrittura è riprodotto in un atto pubblico; ecc.) (v. Cass. 15 marzo
2018, n. 6462; Cass. 8 febbraio 2018, n. 3076).
Anche al « telegramma » il legislatore riconosce l’efficacia proTelegramma
batoria della scrittura privata, ma solo « se l’originale consegnato
all’ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, ovvero se è stato
consegnato dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo » (art.
2705, comma 1, c.c.; v. Cass. 4 maggio 2018, n. 10589).
Pure « le carte e i registri domestici » fanno — alle condizioni
Carte e
registri
precisate
dall’art. 2707 c.c. — prova contro chi li ha scritti, al pari
domestici
delle scritture private, quand’anche carenti di sottoscrizione.
Anche « i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a
Scritture
contabili
registrazione fanno prova contro l’imprenditore » (art. 2709 c.c.; ma
dell’impresa
v., più ampiamente, § 496): ad es., quanto ai debiti da dette scritture
risultanti (v. Cass. 18 febbraio 2016, n. 3190; e, da ultimo, Cass. 23
ottobre 2018, n. 26874). La legge pone dunque, a sfavore di quest’ultimo, una presunzione (v. § 128) di veridicità delle singole annotazioni contabili, contro la quale è peraltro ammessa prova contraria
(v. Cass. 22 maggio 2009, n. 11912).
[§ 125]
La prova dei fatti giuridici
251
Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, Riproduzioni
le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccaniche
meccanica di fatti o di cose (c.d. « riproduzioni meccaniche ») « formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro
il quale sono prodotte (in giudizio) non ne disconosce la conformità ai
fatti o alle cose medesime » (art. 2712 c.c.; v. Cass. 23 aprile 2018, n.
9977): « disconoscimento » che, tuttavia, non può essere generico, ma
deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, con specifica indicazione degli elementi di non corrispondenza fra realtà storica e realtà
riprodotta (v. Cass. 28 marzo 2018, n. 7595).
La giurisprudenza ritiene che anche il messaggio di posta elet- E-mail
tronica (c.d. e-mail) — costituendo documento elettronico contenente la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati — sia da
ricondurre al novero delle riproduzioni informatiche di cui all’art.
2712 c.c. (v. Cass. 14 maggio 2018, n. 11606).
Le copie fotostatiche e « le copie fotografiche di scritture hanno la Copie
stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale fotostatiche
è attestata da pubblico ufficiale competente, ovvero non è espressamente disconosciuta » (art. 2719 c.c.; v. Cass. 16 gennaio 2018, n.
882). In quest’ultimo caso, la contestazione della conformità del
documento prodotto in copia deve avvenire in modo chiaro e circostanziato, attraverso l’indicazione specifica degli aspetti per i quali si
assume essere difforme dall’originale (v. Cass. 6 febbraio 2019, n.
3540; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27633).
Il disconoscimento della riproduzione meccanica e della copia
fotostatica/fotografica — diversamente da quel che accade per il
disconoscimento della scrittura privata — non preclude al giudice la
possibilità di verificarne la conformità all’originale attraverso altri
mezzi di prova, comprese le presunzioni (v. Cass. 8 giugno 2018, n.
14950).
Quanto al fax, si discute se lo stesso sia da annoverare fra le Fax
« riproduzioni meccaniche », con conseguente applicazione della disciplina dettata dall’art. 2712 c.c. (in tal senso v. Cass. 3 marzo 2010,
n. 5080), ovvero se — consistendo, in pratica, in una fotocopia
teletrasmessa — rientri nell’ambito di operatività dell’art. 2719 c.c.:
in ogni caso, il fax fa piena prova della sua conformità rispetto
all’originale, se colui contro il quale è prodotto non la contesta (una
particolare disciplina è dettata dalla L. 7 giugno 1993, n. 183,
relativamente ai fax utilizzati per la « trasmissione degli atti relativi
a procedimenti giurisdizionali »).
Quanto ai « documenti informatici » — per tali intendendosi i Documento
documenti elettronici che contengono « la rappresentazione informa- informatico...
252
L’attività giuridica
[§ 125]
tica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti » (cfr. art. 1, comma
1 lett. p, D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, « Codice dell’amministrazione
digitale », ampiamente e reiteratamente modificato da successivi
interventi normativi) — occorre distinguere fra:
a) documento sottoscritto con « firma elettronica o qualsiasi
... con firma
elettronica
altro tipo di firma elettronica avanzata autenticata dal notaio o da
autenticata
altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato », che è equiparata alla
scrittura privata autenticata (art. 25, comma 1, D.Lgs. n. 82/2005).
« L’autenticazione della firma elettronica (...) consiste nell’attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che la firma è stata apposta in
sua presenza dal titolare, previo accertamento della sua identità
personale, della validità dell’eventuale certificato elettronico utilizzato e del fatto che il documento sottoscritto non è in contrasto con
l’ordinamento giuridico » (art. 25, comma 2, D.Lgs. n. 82/2005);
b) documento:
... con firma
— sottoscritto con « firma elettronica avanzata » (per tale intenelettronica
dendosi quella che « a) è connessa unicamente al firmatario; b) è
avanzata
idonea a identificare il firmatario; c) è creata mediante dati per la
creazione di una firma elettronica che il firmatario può, con un
elevato livello di sicurezza, utilizzare sotto il proprio esclusivo controllo; e d) è collegata ai dati sottoscritti in modo da consentire
l’identificazione di ogni successiva modifica di tali dati »: artt. 3, n.
11, e 26 Regolamento CE 23 luglio 2014, n. 910/2014, richiamati
dall’art. 1-bis D.Lgs. n. 82/2005); o
... con firma
— sottoscritto con altro tipo di « firma elettronica qualificata »
elettronica
(per tale intendendosi « una firma elettronica avanzata creata da un
qualificata
dispositivo per la creazione di una firma elettronica qualificata e
basata su un certificato qualificato per firme elettroniche »: art. 3, n.
12, Regolamento CE n. 910/2014, richiamato dall’art. 1-bis D.Lgs. n.
82/2005); o
... con firma
— sottoscritto con « firma digitale » (per tale intendendosi « un
digitale
particolare tipo di firma qualificata basata su un sistema di chiavi
crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che
consente al titolare di firma elettronica tramite la chiave privata e a
un soggetto terzo tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di
rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un
documento informatico o di un insieme di documenti informatici »:
art. 1, comma 1 lett. s, D.Lgs. n. 82/2005; v. anche art. 24 D.Lgs. n.
82/2005); o
— « comunque (...) formato, previa identificazione informatica
del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dal
AgID [= Agenzia per l’Italia digitale] (...) con modalità tali da
[§ 126]
La prova dei fatti giuridici
253
garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e,
in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore »
(art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005);
che — al pari di una qualsiasi scrittura privata — fa « piena
prova », se non disconosciuta, della sua provenienza dal titolare della
firma elettronica (art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005). Peraltro,
se intende disconoscere la paternità di un documento sottoscritto con
firma elettronica qualificata o digitale, quest’ultimo — diversamente
da quel che accade con riferimento alla scrittura privata — ha l’onere
di fornirne la prova (art. 20, comma 1-ter, D.Lgs. n. 82/2005);
c) documento informatico cui è apposta una semplice « firma ... con firma
elettronica » (per tale intendendosi quella risultante dai « dati in forma elettronica
elettronica, acclusi oppure connessi tramite associazione logica ad
altri dati elettronici e utilizzati dal firmatario per firmare »: art. 3, n.
10, Regolamento CE n. 910/2014, richiamato dall’art. 1-bis D.Lgs. n.
82/2005), che sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio,
in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità (art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005).
§ 126.
La prova testimoniale.
La « testimonianza » è la narrazione fatta al giudice da una Nozione
persona estranea alla causa — previa prestazione della seguente
dichiarazione: « consapevole della responsabilità morale e giuridica
che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità
e non nascondere nulla di quanto a mia conoscenza » (art. 251 c.p.c.;
v. Corte cost. 5 maggio 1995, n. 149) — in relazione a fatti controversi,
di cui il teste abbia conoscenza (v. Cass. 29 gennaio 2013, n. 2075). Di
regola, il testimone è chiamato a rendere la propria deposizione
oralmente davanti al giudice (artt. 251 ss. c.p.c.). Peraltro il giudice
può — su accordo delle parti — disporre che essa venga assunta fuori
udienza mediante dichiarazione scritta, cui il teste appone la propria
firma autenticata (art. 257-bis c.p.c.).
La prova testimoniale può avere ad oggetto solo fatti obiettivi,
non apprezzamenti o valutazioni personali del teste (v. Cass. 31 luglio
2012, n. 13693).
La testimonianza è considerata con una certa diffidenza dal
legislatore, sia per il rischio di testi interessati o compiacenti, sia per
il rischio di deformazioni inconsapevoli nello sforzo di ricordare e
riferire avvenimenti del passato.
254
L’attività giuridica
[§ 126]
Conseguentemente la prova testimoniale incontra, per certe
ipotesi, limiti legali di ammissibilità.
In primo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile quando
sia invocata per provare il perfezionamento o il contenuto di un
contratto avente un valore superiore a lire cinquemila, ovverosia ad
E 2,58 (limite che non è stato adeguato al mutato valore della
moneta) (art. 2721, comma 1, c.c.).
Non si tratta, peraltro, di un divieto rigido: il giudice, infatti,
può consentire la prova oltre il limite anzidetto tutte le volte in cui
— il che, nella pratica, avviene quotidianamente, considerata l’esiguità dell’importo tuttora indicato dalla legge — lo ritenga opportuno, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza (art. 2721, comma 2, c.c.; v. Cass. 24
gennaio 2018, n. 1751).
Inoltre il giudice deve ammettere la prova testimoniale, se
ricorre una delle tre ipotesi previste nell’art. 2724 c.c.; e cioè: (i)
quando vi sia un principio di prova scritta (ad es., una ricevuta):
quando, cioè, vi sia agli atti un documento da cui scaturisca la
verosimiglianza del fatto controverso (v. Cass. 16 ottobre 2012, n.
17766); (ii) quando la parte si sia trovata nell’impossibilità morale o
materiale di procurarsi una prova scritta (ad es., contratto concluso
tra persone legate da rapporti di intima parentela; v. Cass. 7 luglio
2016, n. 13857); (iii) quando la parte abbia perduto senza sua colpa il
documento che le forniva la prova (v. Cass. 24 marzo 2016, n. 5919;
Cass. 29 gennaio 2014, n. 1944).
... prova di
In secondo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile se
patti tende a dimostrare che anteriormente o contemporaneamente alla stiaggiunti o
contrari al pulazione di un accordo scritto sono stati stipulati altri patti, non
contenuto di risultanti però dal documento (art. 2722 c.c.; v. Cass. 7 novembre
un
2018, n. 28407). Anche per i casi in esame il giudice deve, però,
documento
ammettere la prova se ricorre una delle tre ipotesi di cui all’art. 2724
c.c., appena ricordate.
Quando la prova testimoniale è invece invocata a dimostrazione
che, successivamente alla formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, il giudice può
ammetterla solo se ritiene verosimile che siano state fatte aggiunte o
modificazioni verbali (art. 2723 c.c.; v. Cass. 3 aprile 2013, n. 8119).
... prova di
In terzo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile se tende
contratti che
a provare un contratto che — per volontà delle parti o per espressa
richiedono la
forma scritta disposizione di legge — deve essere stipulato (c.d. « forma scritta ad
ad substantiam ») o anche solo provato (c.d. « forma scritta ad probatiosubstantiam
ovvero ad nem tantum ») per iscritto (art. 2725 c.c.) (v. § 127). In questi casi la
probationem prova per testimoni è ammissibile esclusivamente ove ricorra la terza
Limiti legali
di ammissibilità:
... prova del
perfezionamento e/o
del
contenuto di
un contratto
[§ 127]
La prova dei fatti giuridici
255
ipotesi di cui all’art. 2724 c.c.: ossia, qualora la parte abbia perduto
senza sua colpa il documento che le forniva la prova (art. 2725,
comma 1, c.c.; v. § 127).
Le stesse regole ora illustrate si applicano anche alle prove
testimoniali invocate per provare l’effettuazione di un pagamento o
la remissione di un debito (art. 2726 c.c.; v. Cass. 9 aprile 2015, n.
7090).
L’inammissibilità della prova testimoniale — non derivando da
ragioni di ordine pubblico processuale — non può essere rilevata
d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata (v. Cass. 19
febbraio 2018, n. 3956; Cass. 15 febbraio 2018, n. 3763).
§ 127.
Forma ad substantiam e forma ad probationem.
Possiamo ora comprendere agevolmente la distinzione, sul
piano probatorio, tra « forma richiesta ad substantiam » e « forma
richiesta ad probationem ».
Quando la forma scritta — atto pubblico o scrittura privata — Forma ad
e
è richiesta ad substantiam, essa costituisce un elemento essenziale del substantiam
validità del
contratto; cosicché, ove il requisito formale non venga osservato, contratto
l’atto è irrimediabilmente nullo. Così, ad es., qualora una vendita
immobiliare sia stata effettivamente stipulata, ma verbalmente, il
contratto è invalido e, quindi, privo di qualsiasi effetto (artt. 1350, n.
1, 1325, n. 4, e 1418, comma 3, c.c.; v. § 339 ss.).
La prova della stipulazione dell’atto con la forma richiesta ad ... e prova del
substantiam può essere data — ovviamente — con la produzione in contratto
giudizio del documento in cui l’atto stesso è consacrato.
Ci si chiede se la prova che la formazione dell’atto è avvenuta
proprio con l’osservanza delle forme stabilite dalla legge possa darsi
altrimenti: cioè, attraverso mezzi di prova diversi dalla produzione in
giudizio del documento originale (si pensi, ad es., all’ipotesi in cui la
parte interessata lo abbia perduto).
In linea di principio, il legislatore non consente che la formazione del documento richiesto ad substantiam sia provata per testimoni (art. 2725, comma 2, c.c.) o mediante giuramento (art. 2739,
comma 1, c.c.) e quindi — è da ritenere — neppure mediante
confessione. Da ciò deriva che il documento attraverso cui è stata
manifestata la volontà contrattuale è essenziale non solo per la
validità dell’atto (artt. 1325, n. 4, e 1418, comma 2, c.c.), ma anche —
di regola — per la prova dello stesso (v. Cass. 24 marzo 2016, n. 5919).
256
L’attività giuridica
[§ 127]
Unica eccezione è il caso in cui la parte abbia perduto senza sua
colpa (per es., in un incendio, in un infortunio, in un terremoto, ecc.)
il documento nel quale l’atto era consacrato (artt. 2724, n. 3, e 2725
c.c.): in tal caso potrà essere ammesso ogni tipo di prova (testimonianza, confessione, giuramento, ecc.), se volta a dimostrare: (i)
l’originaria esistenza del documento; (ii) la perdita incolpevole di esso;
(iii) il suo contenuto (v. Cass. 23 giugno 2015, n. 12890).
Dal principio illustrato si ricava che il legislatore impone alla
parte l’onere di custodire il documento, onde poterlo in qualsiasi
momento, occorrendo, esibire al giudice; altrimenti, mancando il
documento o, in alternativa, la prova della sua perdita incolpevole, il
giudice deve concludere che esso non è mai stato formato.
Forma
Ben diversa è la situazione, quando una forma sia richiesta ad
scritta ad
probationem tantum (cfr., ad es., art. 1742, comma 2, c.c., in tema di
probationem:
validità e contratto di agenzia; art. 1967 c.c., in tema di transazione non
prova del immobiliare; art. 1888, comma 1, c.c., in tema di contratto di
contratto
assicurazione; art. 1928, comma 1, c.c., in tema di riassicurazione;
art. 2556, comma 1, c.c., in tema di cessione d’azienda; art. 2581,
comma 2, c.c., in tema di trasferimento dei diritti di utilizzazione
dell’opera connessi al diritto d’autore; art. 2596, comma 1, c.c., in
tema di patto limitativo della concorrenza; ecc.). In tal caso, infatti,
l’atto compiuto senza l’osservanza della forma indicata dalla legge
non è nullo: l’unica conseguenza dell’inosservanza del requisito di
forma è il divieto della prova testimoniale (art. 2725, comma 1, c.c.) e
di quella presuntiva (art. 2729, comma 2, c.c.) (v. Cass. 16 marzo
2015, n. 5165), sempre che la parte non provi di aver perduto senza
sua colpa il documento che le forniva la prova (art. 2725, comma 1,
c.c.; v. Cass. 14 agosto 2014, n. 17896).
Il divieto — ovviamente — vige solo per la parte del negozio, non
per i terzi (v. Cass. 30 maggio 2008, n. 14469).
Invero, il divieto della prova testimoniale e di quella indiziaria
è volto ad indurre le parti a precostituire un documento in cui l’atto
risulti consacrato; seppure, in caso di forma richiesta ad probationem
tantum, la mancanza del documento non pregiudichi irreparabilmente la possibilità, per le parti, di valersi dell’atto.
Innanzitutto, se la formazione del contratto e quanto con esso
pattuito costituisce un fatto non contestato, il giudice può — anzi deve
— considerarlo provato (laddove, quando si tratti di negozi per i
quali la forma è prescritta ad substantiam, nemmeno la concorde
ammissione delle parti circa l’avvenuta formazione dell’atto, e neppure una loro concorde dichiarazione, in causa, circa il perfezionamento dell’atto stesso con l’osservanza delle forme prescritte, sa-
[§ 128]
La prova dei fatti giuridici
257
rebbe sufficiente — secondo l’interpretazione fin qui pacifica — a
superare il principio cogente per cui, in assenza di produzione del
documento richiesto dalla legge o della prova della sua perdita
incolpevole, l’atto si ha per non perfezionato; v. Cass. 17 ottobre
2018, n. 25999).
In secondo luogo, trattandosi di forma richiesta ad probationem
tantum, quand’anche la formazione dell’atto o il suo contenuto
fossero contestati in giudizio, la parte che ciononostante intendesse
dimostrare che il negozio si è realmente perfezionato, ovvero quale ne
sia il contenuto, potrebbe chiedere l’interrogatorio formale della
controparte (artt. 230 ss. c.p.c.) nella speranza di ottenerne una
confessione (v. § 129), ovvero potrebbe deferirle il giuramento decisorio (v. § 130), ovvero ancora potrebbe produrre documenti scritti dai
quali risulti il perfezionamento dell’atto (v. Cass. 23 gennaio 2018, n.
1627).
La giurisprudenza ritiene che l’inammissibilità, per la prova di
un contratto per cui è richiesta la forma scritta ad probationem, della
prova testimoniale e di quella presuntiva — diversamente da quel
che accade ove la forma scritta sia richiesta ad substantiam (v. Cass.
24 novembre 2015, n. 23934) — non possa essere rilevata d’ufficio dal
giudice, ma debba essere eccepita dalla parte interessata (v. Cass. 25
giugno 2014, n. 14470).
§ 128.
Le presunzioni.
Per « presunzione » (o « prova indiretta ») si intende ogni argo- Nozione
mento, congettura, illazione, attraverso cui — essendo già provata
una determinata circostanza (c.d. « fatto-base » o « indizio ») (v. Cass.
12 febbraio 2015, n. 2766) — si giunge logicamente a considerare
provata altresì un’altra circostanza, sfornita di prova diretta (così, ad
es., dalla circostanza che sia decorso già un certo periodo di tempo
dal momento in cui si poteva pretendere il pagamento di determinati
debiti, per i quali è regola di esperienza che il pagamento avviene
entro breve tempo, si trae la presunzione che il debito sia già stato
pagato o comunque si sia già estinto, sebbene manchino prove dirette
del pagamento o del verificarsi di un’altra causa di estinzione dell’obbligo: c.d. prescrizione presuntiva; v. § 116).
Le presunzioni si dicono « legali » quando è la stessa legge che, in Presunzioni
via generale, attribuisce ad un fatto valore di prova in ordine ad un legali:
altro fatto, che quindi viene presunto: così, ad es., la legge presume
che chi ha il possesso di una cosa altrui sia in buona fede (art. 1147,
258
L’attività giuridica
[§ 128]
comma 3, c.c.); che una dichiarazione diretta ad una determinata
persona sia da quest’ultima conosciuta nel momento in cui la stessa
giunge al suo indirizzo (art. 1335 c.c.); ecc. (v. anche artt. 195, 462,
comma 2, 688, comma 2, 880, 881, 897, 898, 899, comma 2, 1095,
1101, 1141, comma 2, 1142, 1143, 1184, 1199, comma 2, 1237, comma
2, 1298, comma 2, 1352 c.c.).
Le presunzioni legali possono, a loro volta, essere:
a) iuris et de iure (ed allora si dicono « assolute »), laddove non
... iuris et de
iure
ammettono prova contraria (ad es., la presunzione di concepimento
durante il matrimonio di cui all’art. 232 c.c.; la presunzione di
interposizione di cui all’art. 599, comma 2, c.c.). Quando la legge
stabilisce una presunzione assoluta — per la verità — più che di
prova indiretta dovrebbe parlarsi di sufficienza del fatto-base a
produrre l’effetto ricollegato al fatto-presunto, che, in realtà, diventa
irrilevante, dal momento che, in presenza del fatto-base, non è
ammessa la prova che il fatto presunto non si è verificato; o
b) iuris tantum (ed allora si dicono « relative »), laddove ammet... iuris
tantum
tono prova contraria (ad es., artt. 899 e 1142 c.c.). La prova contraria
può essere fornita, di regola, facendo ricorso a qualsiasi mezzo di prova.
Non mancano, peraltro, casi in cui la legge pone limitazioni ai mezzi
di prova utilizzabili (ad es., artt. 2959 e 2960 c.c.; v. § 116), ovvero
all’oggetto della prova contraria (ad es., art. 1335, c.c.; v. § 268).
Le presunzioni si dicono invece « semplici » (o hominis), quando
Presunzioni
semplici
non sono prestabilite dalla legge, ma sono lasciate al prudente
apprezzamento del giudice, il quale può ritenere provato un fatto, di
cui manchino prove dirette, quando ricorrano indizi « gravi, precisi e
concordanti » (art. 2729 c.c.). Peraltro, non occorre che tra il fatto
noto ed il fatto ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva
necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia
desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità basato sull’id quod plerumque
accidit (v. Cass. 5 dicembre 2017, n. 28995; Cass. 2 marzo 2017, n.
5374).
Il giudice ben potrebbe fondare la propria decisione anche solo
su presunzioni semplici (v. Cass. 13 dicembre 2017, n. 29956; Cass. 16
maggio 2017, n. 12002), valutando tutti gli elementi indiziari, non già
singolarmente, bensì nel loro complesso e gli uni per mezzo degli altri
(v. Cass. 13 dicembre 2017, n. 29956; Cass. 16 maggio 2017, n. 12002).
Di più: gli elementi assunti a fonte di prova presuntiva non debbono
essere necessariamente più d’uno, ben potendo il convincimento del
giudice fondarsi anche su di un solo elemento, purché grave e preciso
(v. Cass. 26 settembre 2018, n. 23153; Cass. 27 luglio 2018, n. 19987).
[§ 129]
La prova dei fatti giuridici
259
Alle presunzioni semplici non si può far ricorso nei casi in cui la
legge esclude la prova per testimoni (art. 2729, comma 2, c.c.).
§ 129.
La confessione.
La « confessione » è la dichiarazione che la parte fa della verità di Nozione
« fatti » a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (ad es., dichiaro di
aver ricevuto una somma a mutuo; ammetto di non aver segnalato
tempestivamente il cambiamento della traiettoria di marcia della
mia autovettura; ecc.). Pur richiedendo nel confitente la consapevolezza e la volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé
sfavorevole e favorevole all’altra parte — c.d. « animus confitendi »
(v. Cass. 23 maggio 2018, n. 12798) — la confessione non è un negozio
giuridico (v. § 98), ma una dichiarazione di scienza, non occorrendo
che il dichiarante ne voglia gli effetti (v. Cass. 30 settembre 2016, n.
19554; Cass. 22 settembre 2015, n. 18624).
Essa — v. Cass., sez. un., 22 settembre 2014, n. 19888 — può
essere:
a) giudiziale, se resa in giudizio e, in questo caso, fa « piena Confessione
prova » (prova legale: artt. 2730, 2732, 2733 c.c.), vale a dire che il giudiziale
fatto oggetto di confessione non può più essere considerato controverso dal giudice (anche se il confitente, pentitosi o ricredutosi,
dovesse muovere tardive contestazioni), cosicché il giudice deve
senz’altro assumerlo come vero e porlo a base della propria decisione.
La confessione giudiziale può essere fatta spontaneamente; ma, più
spesso, è provocata mediante interrogatorio formale della parte, a cui
il giudice procede su richiesta dell’altra parte (art. 228 c.p.c.);
b) stragiudiziale, se resa fuori dal giudizio. Se è fatta alla parte Confessione
o al suo rappresentante, ha lo stesso valore di quella giudiziale (prova stragiudiziale
legale; v. Cass. 1° marzo 2018, n. 4842); se è fatta ad un terzo, può
essere apprezzata liberamente dal giudice (art. 2735, comma 1, c.c.;
v. Cass. 19 gennaio 2017, n. 1320). A differenza di quella giudiziale,
la confessione stragiudiziale dev’essere, a sua volta, dimostrata; essa
non può essere provata per testimoni, quando verte su un oggetto per
il quale la prova testimoniale non è ammessa secondo le regole già
viste (art. 2735, comma 2, c.c.).
La confessione (sia giudiziale che stragiudiziale) può essere Revoca:
di fatto
revocata — cioè, la sua efficacia probatoria può essere vinta — errore
e violenza
soltanto se si dimostra che essa è stata determinata da errore di fatto
o da violenza (art. 2732 c.c.), non essendo sufficiente la prova della
semplice divergenza fra quanto dichiarato e quanto effettivamente
260
L’attività giuridica
[§ 130]
accaduto (v. Cass. 12 maggio 2016, n. 9777; Cass., sez. un., 22
settembre 2014, n. 19888).
Confessione
La confessione si dice « qualificata » quando la parte riconosce la
« qualificata »
verità di fatti a sé sfavorevoli, ma vi aggiunge altri fatti o circostanze
tendenti ad infirmare l’efficacia del fatto confessato, ovvero a modificarne od estinguerne gli effetti (ad es., ammetto che abbiamo
concluso un contratto, ma aggiungo che esso è simulato; riconosco di
aver ricevuto 100 a mutuo, ma oppongo di aver già restituito la
somma) (v. Cass. 26 giugno 2013, n. 16119).
In questo caso bisogna distinguere:
a) se l’altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, la dichiarazione confessoria fa piena prova nella sua
integrità;
b) se l’altra parte la contesta (per es., nega che il contratto sia
simulato o che il debito sia stato pagato), è rimesso al giudice di
apprezzare, secondo le circostanze, l’efficacia probatoria della dichiarazione confessoria (art. 2734 c.c.); che, conseguentemente, degrada
da « legale » a prova liberamente apprezzabile (v. Cass. 22 gennaio
2018, n. 1530).
Capacità del
Per poter produrre gli effetti cui si è fatto cenno, la confessione
confitente
deve provenire da soggetto capace di disporre del diritto cui i fatti
confessati si riferiscono (art. 2731 c.c.; v. Cass. 9 aprile 2015, n. 7135;
Cass. 20 giugno 2013, n. 15538).
Distinta dalla « dichiarazione confessoria » è la « dichiarazione
Dichiarazione
confessoria e
ricognitiva »: mentre la prima — come si è detto — ha ad oggetto
dichiarazione
ricognitiva l’asseverazione di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (ad
es., dichiaro di aver ricevuto 100 a mutuo), la seconda ha invece ad
oggetto l’asseverazione di diritti o rapporti giuridici (ad es., dichiaro
di essere tuo debitore di 100) e — come si vedrà al successivo § 427 —
ha, sul piano probatorio, una rilevanza diversa rispetto a quella della
confessione (art. 1988 c.c.).
Del pari, non ha natura confessoria la dichiarazione avente ad
oggetto non già fatti oggettivi, bensì la formulazione di giudizi, di
opinioni, di valutazioni soggettive, quand’anche sfavorevoli al loro
autore (v. Cass. 19 aprile 2012, n. 6142).
§ 130.
Il giuramento.
Il « giuramento » è un mezzo di prova (legale) cui si può ricorrere
nel corso di un giudizio civile, in presenza di particolari presupposti,
[§ 130]
La prova dei fatti giuridici
261
al fine della dimostrazione di fatti (ma non di situazioni o rapporti
giuridici: v. Cass. 25 ottobre 2018, n. 27086).
Il giuramento può essere « decisorio » o « suppletorio » (art. 2736
c.c.).
Il « giuramento decisorio » si chiama così perché deve riguardare Giuramento
circostanze che abbiano valore « decisorio » in ordine ad un thema decisorio
decidendum su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi (v. Cass. 29
ottobre 2018, n. 27410); cosicché l’esito del giuramento — positivo o
negativo che sia — preclude ogni ulteriore accertamento al riguardo:
perciò anche il giuramento è una « prova legale » ed il suo esito fa
« piena prova » in ordine alle circostanze che ne formano oggetto,
quand’anche i fatti con esso dedotti siano stati già accertati o esclusi
in base ad altre risultanze probatorie (v. Cass. 15 febbraio 2013, n.
3815). Anzi, l’efficacia probatoria del giuramento è la più intensa che
si possa immaginare: infatti, se — da un lato — vincola, quale prova
legale, il giudice al suo esito — da altro lato — tale vincolo, atteso il
carattere di decisività della questione oggetto di giuramento, si
riflette sulla pronuncia del giudice che, dopo aver constatato « an
juratum sit », dovrà senz’altro dichiarare vittoriosa la parte che ha
giurato e soccombente l’altra (su tutta la causa o sulla parte investita
dal giuramento), senza che quest’ultima abbia la possibilità di provare il contrario (v. Cass. 7 maggio 2014, n. 9831).
Il giuramento decisorio può essere deferito solo ad iniziativa di Iniziativa di
una delle parti in lite (e non può mai, perciò, essere ammesso dal parte
giudice d’ufficio; cioè, senza specifica istanza di parte). La parte che
assume l’iniziativa chiede al giudice — cui spetta soltanto di decidere
se la circostanza indicata dalla parte ha effettivamente carattere
« decisorio » (v. Cass. 25 giugno 2012, n. 10574) — di invitare controparte a confermare, sotto giuramento, se il fatto oggetto di contestazione si è davvero verificato secondo quanto dalla stessa finora
sostenuto nel processo; cosicché, ove si tratti di un’affermazione
mendace, la parte cui il giuramento è deferito si troverà nell’alternativa o di abbandonare la tesi finora affermata, riconoscendo la
verità di quanto sostenuto invece dall’avversario, ovvero di giurare il
falso, commettendo spergiuro (con ogni conseguente rischio, anche
penale: art. 371 c.p.).
Va comunque sottolineato che il giuramento non è ammissibile Giuramento
veritate e
se non quando (art. 2739, comma 2, c.c.) sia relativo ad un fatto de
giuramento
proprio della parte cui è deferito o, comunque, caduto sotto la sua de scientia
diretta percezione (in tal caso, si parla di « giuramento de veritate »),
ovvero quando sia relativo alla conoscenza che essa ha di un fatto
262
L’attività giuridica
[§ 130]
altrui (in tal caso, si parla di « giuramento de scientia ») (v. Cass. 4
giugno 2018, n. 14300).
La parte alla quale il giuramento sia stato deferito può a sua
volta, se preferisce, « riferire » il giuramento all’avversario (art. 234
c.p.c.), a condizione che il fatto che ne è oggetto sia « comune » ad
entrambi (art. 2739, comma 2, c.c.).
Il giuramento viene reso in giudizio personalmente dalla parte,
La
prestazione
alla presenza del giudice, che deve ammonire il giurante sull’impordel
giuramento tanza morale dell’atto e sulle conseguenze penali di eventuali dichiarazioni false da lui rese; e, quindi, l’invita a giurare (art. 238, comma
1, c.p.c.). Per la verità, il legislatore richiedeva che il giudice ammonisse la parte sull’importanza « religiosa e morale » dell’atto, e che la
formula del giuramento comprendesse le parole « consapevole della
responsabilità che con il giuramento assumo davanti a Dio e agli
uomini »: ma la Corte costituzionale, con la sentenza n. 334 del 1996,
ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il richiamo sia ai valori
religiosi che a quelli etici, cosicché il significato del giuramento « da
etico-religioso qual era originariamente, diventa morale-individuale,
in quanto finisce per dipendere dal riferimento che ciascuno faccia, in
coscienza e secondo la sua visione del mondo, a quanto considera di
più impegnativo e degno di osservanza ». Si giunge, così, al culmine
del processo di laicizzazione del giuramento decisorio.
Se la parte si rifiuta di giurare o non si presenta, senza giustiEfficacia
probatoria
ficato motivo, all’udienza all’uopo fissata, la sua versione del fatto
del
giuramento non può più essere considerata vera dal giudice, indipendentemente
da qualsiasi altra prova a suo favore.
Se invece presta il giuramento, il giudice deve definitivamente
considerare vera la sua affermazione e decidere in conformità la
questione per la quale il giuramento è stato ammesso.
Non si possono fornire prove contrarie. Si può soltanto denunciare in sede penale chi abbia eventualmente giurato il falso (art. 371
c.p.). E, se sia intervenuta condanna penale, si può chiedere (art.
2738, comma 2, c.c.) il risarcimento dei danni (e, cioè, la condanna
dello spergiuro al pagamento di una somma di danaro che rappresenti l’equivalente del danno subìto), ma non la revocazione della
sentenza civile che sia stata pronunciata in base al falso giuramento
(art. 2738, comma 1, c.c.). Se il delitto di falso giuramento è estinto
(artt. 150-152 c.p.; ad es., per amnistia), spetta al giudice civile
accertare se sussistono gli elementi del delitto di falso giuramento,
sempre al limitato fine di condannare lo spergiuro al risarcimento dei
danni (art. 2738, comma 2, c.c., in relazione all’art. 198 c.p.; per la
[§ 130]
La prova dei fatti giuridici
263
prescrizione della relativa azione civile cfr. art. 2947, ult. comma,
c.c.) (v. Cass. 19 ottobre 2015, n. 21089).
Il giuramento non è ammissibile quando (art. 2739, comma 1, Limiti legali
c.c.) si tratti: (i) di diritti indisponibili (ad es., questioni di stato); (ii) all’ammissibilità del
di fatto illecito (art. 2043 c.c.; v. Cass. 29 gennaio 2014, n. 1946); (iii) giuramento
di atto per cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam (v. Cass.
23 novembre 2018, n. 30446); (iv) di negare un fatto che da un atto
pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che lo
ha redatto.
Il secondo tipo di giuramento previsto dal codice civile è il Giuramento
suppletorio
« giuramento suppletorio ».
Il giuramento suppletorio può essere deferito non già in base ad Iniziativa
un’iniziativa di parte, bensì d’ufficio, in forza di un potere discrezio- ufficiosa
nale dello stesso giudice (v. Cass. 15 marzo 2016, n. 5090; Cass. 10
febbraio 2016, n. 2676), quando questi si trovi di fronte ad un fatto
rimasto incerto, ma per il quale la parte che aveva l’onere di provarlo
abbia fornito elementi abbastanza rilevanti, sebbene non definitivamente persuasivi (c.d. semiplena probatio): in tal caso il giudice può
offrire alla parte, su cui grava il relativo onere probatorio, di perfezionare la prova, già quasi raggiunta, confermando con il giuramento
che i fatti affermati sono veri (art. 2736, n. 2, c.c.; v. Cass. 20 ottobre
2016, n. 21235; Cass. 17 febbraio 2016, n. 3130).
Una particolare specie di giuramento suppletorio è il « giura- Giuramento
mento estimatorio », che può essere deferito per stabilire il valore di estimatorio
una cosa, quando non sia possibile accertarlo diversamente (art.
2736, n. 2, c.c.; v. Cass. 15 marzo 2016, n. 5090).
I DIRITTI REALI
CAPITOLO XIII
I DIRITTI REALI IN GENERALE E LA PROPRIETÀ
A) I DIRITTI REALI
§ 131.
Caratteri e categorie dei diritti reali.
L’espressione « diritti reali » non risale al diritto romano, che Nozione
conosceva la ben diversa — e più ampia — figura delle « actiones in
rem ». La categoria è stata elaborata successivamente per raggruppare i diritti su cosa materiale determinata: c.d. « iura in rem ».
Tradizionalmente si ritiene che i diritti reali siano caratterizzati: Caratteri:
a) dall’« immediatezza », ossia dalla possibilità, per il titolare, di ...
esercitare direttamente il potere sulla cosa, senza necessità della immediatezza
cooperazione di terzi (così, ad es., il proprietario può utilizzare il
bene, senza necessità della collaborazione di altri, essendo sufficiente
che questi ultimi non vi frappongano ostacolo);
b) dall’« assolutezza », ossia dal dovere di tutti i consociati di ... assolutezza
astenersi dall’interferire nel rapporto fra il titolare del diritto reale ed
il bene che ne è oggetto; e — correlativamente — dalla possibilità,
per il titolare, di agire in giudizio contro chiunque contesti o pregiudichi il suo diritto: c.d. « efficacia erga omnes » del diritto reale;
c) dall’« inerenza », ossia dalla opponibilità del diritto a chiun- ... inerenza
que possieda o vanti diritti sulla cosa (così, ad es., il proprietario può
agire nei confronti di chiunque possieda il bene per ottenerne la
restituzione: v. § 143; la servitù di passaggio continua a gravare sul
fondo anche quando la proprietà di quest’ultimo passi a terzi: c.d.
« diritto di sequela »).
Si è peraltro osservato che né l’immediatezza, né l’assolutezza,
né l’inerenza caratterizzerebbero sempre e solo i diritti reali: così, ad
es., l’« immediatezza » difetterebbe in caso di servitù negative (v. §
160) o di ipoteca (v. §§ 245 ss.), mentre ricorrerebbe in caso di
locazione (v. § 384), di comodato (v. § 400), di anticresi (v. § 421);
l’« assolutezza » difetterebbe in caso di diritti reali di garanzia (v. §§
245 ss.) e di servitù (v. §§ 154 ss.), mentre ricorrerebbe in caso di
268
I diritti reali
[§ 131]
locazione per l’ipotesi di molestie arrecate da terzi che non pretendano di avere diritti sulla cosa (art. 1585, comma 2, c.c.); l’« inerenza » difetterebbe in caso di proprietà immobiliare non trascritta
(art. 2644 c.c.; v. §§ 681 ss.) o di proprietà mobiliare senza possesso
del bene (art. 1153 c.c.; v. § 181), mentre ricorrerebbe in caso di
locazione ultranovennale trascritta, la quale può essere opposta a
qualunque terzo (art. 1599, comma 3, c.c.).
Pur in difetto di un’espressa previsione normativa al riguardo,
Numero
chiuso e
si
ritiene
tradizionalmente che i diritti reali costituiscano un numerus
tipicità
clausus (che sia, cioè, precluso ai privati creare diritti reali diversi ed
ulteriori rispetto a quelli espressamente disciplinati dalla legge; v.
Cass. 24 ottobre 2018, n. 26987) e, contestualmente, che gli stessi
siano connotati dal carattere della tipicità (che sia cioè, di regola,
precluso all’autonomia dei privati di modificare il contenuto essenziale dei singoli diritti reali; v., da ultimo, Cass. 9 ottobre 2018, n.
24919). In tal modo — da un lato — si vuole impedire che i privati
possano moltiplicare limiti e vincoli destinati a comprimere i poteri
del proprietario, con il rischio di rendere inefficiente la gestione del
bene, e — da altro lato — si intende tutelare i terzi che, volendo
acquisire diritti sulla cosa, devono essere posti in grado di conoscere
con esattezza i vincoli che gravano su di essa.
Nell’ambito dei diritti reali, si è soliti distinguere tra — da un lato
Ius in re
propria e
— la proprietà (ius in re propria) e — da altro lato — i c.d. « iura in
iura in re
aliena re aliena »: cioè, i diritti reali che gravano su beni di proprietà altrui e
che sono destinati a coesistere, comprimendolo, con il diritto del proprietario (così, ad es., su un medesimo fondo possono gravare il diritto
di proprietà di Tizio ed una servitù di passaggio a favore di Caio: è
evidente che quest’ultimo diritto finirà con il limitare il potere di Tizio,
il quale potrà sì utilizzare il proprio fondo, ma gli saranno precluse tutte
quelle attività che impediscano a Caio l’esercizio del suo diritto).
I « diritti reali in re aliena » si distinguono, a loro volta, in
Diritti reali
di godimento
« diritti reali di godimento » (superficie, enfiteusi, usufrutto, uso, abie diritti reali
di garanzia tazione, servitù prediali; v. §§ 144 ss.) e « diritti reali di garanzia »
(pegno ed ipoteca; v. §§ 238 ss.): i primi attribuiscono al loro titolare
il diritto di trarre dal bene talune delle utilità che lo stesso è in grado
di fornire (al contempo variamente comprimendo il potere di godimento che compete al proprietario); i secondi attribuiscono al loro
titolare il diritto di farsi assegnare, con prelazione rispetto agli altri
creditori, il ricavato dall’eventuale alienazione forzata del bene, in
caso di mancato adempimento dell’obbligo garantito (v. § 238).
Collegate a situazioni di diritto reale sono le c.d. « obbligazioni
Obbligazione
propter rem
propter rem » (o « obbligazioni reali »; v. anche § 192), che si caratte-
[§ 132]
I diritti reali in generale e la proprietà
269
rizzano per il fatto che la persona dell’obbligato viene individuata in
base alla titolarità di un diritto reale su un determinato bene: così, ad
es., l’obbligo di sostenere le spese necessarie per la conservazione ed
il godimento della cosa comune grava su ciascun comproprietario
(artt. 1104, comma 1, e 1123 c.c.; v. Cass. 29 settembre 2011, n.
19893); l’obbligo di sostenere le spese necessarie per le riparazioni e le
ricostruzioni necessarie del muro comune grava sui comproprietari
(art. 882, comma 1, c.c.); l’obbligo di permettere al vicino l’accesso ed
il passaggio sul fondo, onde consentirgli di riparare il muro dell’immobile di sua proprietà, grava sul proprietario del fondo confinante
(art. 843 c.c.; v. Cass. 2 marzo 2018, n. 5012); ecc.
Si dubita che all’autonomia privata sia consentito creare obbligazioni reali atipiche, cioè diverse ed ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dalla legge (in senso negativo v. Cass. 15 ottobre
2018, n. 25673).
Da non confondere con l’« obbligazione reale » è l’« onere reale », in Onere reale
forza del quale il creditore, per il pagamento di somme di denaro o altre
cose generiche da prestarsi in relazione ad un determinato bene immobile, può soddisfarsi sul bene stesso, chiunque ne diventi proprietario o acquisti diritti reali di godimento o di garanzia su di esso.
Si ritiene che l’unica ipotesi di onere reale prevista dal nostro
codice civile sia costituita dai contributi consortili (art. 864 c.c.; v.
Cass. 13 settembre 2018, n. 22302). Altre ipotesi sono però contemplate nella legislazione speciale (v., ad es., art. 253 D.Lgs. 3 aprile
2006, n. 152: v. Cons. Stato 5 ottobre 2016, n. 4099; art. 10 L. 30
aprile 1976, n. 386: v. Cass. 14 novembre 2013, n. 25595; art. 21 R.D.
13 febbraio 1933, n. 215: v. Cass. 13 settembre 2018, n. 22302; ecc.).
L’opinione prevalente è che non sarebbe dato ai privati costituire oneri reali al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla
legge (v. Cass. 22 luglio 1966, n. 2003).
B) LA PROPRIETÀ
§ 132.
Il contenuto del diritto.
« Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono — proclamava La
l’art. 29, comma 1, dello Statuto albertino del 1848 — inviolabili » concezione
liberal
(altre costituzioni dell’epoca dichiaravano addirittura che la pro- ottocentesca
prietà è « sacra »).
270
I diritti reali
[§ 132]
Formule siffatte esaltavano il ruolo che, all’epoca, si riconosceva all’istituto della proprietà privata, autentico pilastro dell’organizzazione sociale: stimolo e premio dell’iniziativa privata, fondamento dell’ordine e della sicurezza collettiva, espressione prima della
libertà di ciascuno (e, proprio per ciò, anche condizione per l’accesso
ai diritti politici, cosicché il diritto di voto era subordinato al possesso
di un determinato « censo »).
Nella formula dello Statuto, taluno riteneva di trovare conferma alla tesi secondo cui la proprietà privata — in quanto espressione del generale principio di libertà dell’individuo — sarebbe un
diritto « innato », « di natura », che i poteri pubblici possono soltanto
eccezionalmente comprimere, ma sempre rispettandone la priorità
rispetto alla stessa organizzazione dello Stato.
Il codice
L’art. 832 c.c. — riprendendo molto da vicino le parallele
civile
definizioni contenute nel codice francese del 1804 e nel codice civile
italiano del 1865 — enuncia il principio secondo cui al proprietario
spetta il « diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed
esclusivo ».
La proprietà attribuisce, dunque, al titolare:
Potere di
a) il potere di godimento del bene, per tale intendendosi il potere
godimento
di trarre dalla cosa le utilità che la stessa è in grado di fornire,
decidendo se, come e quando utilizzarla: o direttamente (ad es.,
abitando l’appartamento di proprietà) o indirettamente (ad es.,
concedendo l’appartamento in locazione a terzi, onde ricavarne un
corrispettivo in danaro: il c.d. « canone di locazione »); e
Potere di
b) il potere di disposizione del bene, per tale intendendosi il
disposizione
potere di cedere ad altri, in tutto o in parte, diritti sulla cosa (ad es.,
il proprietario può vendere l’appartamento, donarlo, locarlo, farne
oggetto di usufrutto, ecc.).
L’art. 832 c.c. — come detto — precisa, poi, che il potere di
godimento e di disposizione che compete al proprietario è « pieno ed
esclusivo ».
Da qui l’idea che la proprietà sia — in linea di principio —
Assolutezza
ed esclusività
caratterizzata dai connotati:
a) della « pienezza » (ossia, dell’attribuzione al proprietario del
diritto di fare della cosa tutto ciò che vuole, persino distruggerla: al
punto che il diritto di proprietà è stato definito come ius utendi et
abutendi); e
b) della « esclusività » (ossia, dell’attribuzione al proprietario del
diritto di vietare ogni ingerenza di terzi in ordine alle scelte che, in
tema di godimento e di disposizione del bene, il proprietario si riserva
[§ 132]
I diritti reali in generale e la proprietà
271
di effettuare con totale arbitrio e discrezionalità: ius excludendi
omnes alios).
Peraltro, lo stesso art. 832 c.c. riconosce sì al proprietario il
« diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo »,
ma solo « entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti
dall’ordinamento giuridico ».
Ormai antistorico risulta il tentativo di conciliare l’apparente
contrapposizione tra la pienezza del diritto del proprietario ed i limiti
imposti al suo agire, attribuendo a questi ultimi carattere meramente
eccezionale.
In realtà, le caratteristiche dell’« assolutezza » e dell’« esclusività » — corrispondenti ad un concetto elementare del « mio »,
dell’« appartenenza » di una cosa ad un soggetto — sono tipiche
ormai solo della proprietà dei beni di uso strettamente personale.
Quanto agli altri beni — specie quelli utilizzati nell’esercizio di
attività d’impresa o come capitale produttivo di rendita — l’ordinamento non rimette integralmente al proprietario le scelte in ordine al
loro utilizzo (o non utilizzo).
Già il codice civile — dopo alcune disposizioni valide per la proprietà in generale (a prescindere, cioè, dalla natura dell’oggetto su cui
la stessa ricade), pur sempre improntate ad una subordinazione dell’interesse del proprietario ad altri interessi, privati o pubblici (artt.
833-838 c.c.) — detta una disciplina differenziata per la proprietà dei
« beni d’interesse storico e artistico » (art. 839 c.c.; v. § 134), per la
« proprietà rurale » (artt. 846 ss. c.c.), per la « proprietà edilizia » (artt.
869 ss. c.c.; v. § 135), per la « proprietà fondiaria » (artt. 840-845 e
873-921 c.c.; v. § 136): elaborando, per ciascuna categoria di beni, una
serie di previsioni miranti a conciliare l’interesse egoistico del proprietario con l’interesse degli altri proprietari o della collettività.
Il distacco dalla concezione liberal-ottocentesca della proprietà
appare pienamente maturato nella Costituzione repubblicana del
1948.
Innanzitutto, nella nostra Carta costituzionale, la proprietà non La proprietà
solo non è più — come avveniva, invece, nello Statuto albertino — nella
Costituzione
dichiarata « inviolabile », ma non viene neppure disciplinata né fra i
« principi fondamentali » (artt. 1-12 Cost.), né fra i diritti di libertà
(artt. 13-28 Cost.): essa è contemplata nel titolo relativo ai « rapporti
economici » (artt. 42-44 Cost.).
Peraltro, anche l’attuale Costituzione dichiara solennemente
che « la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge » (art.
42, comma 2, Cost.): tale garanzia implica non soltanto che non è
consentito al legislatore ordinario di sopprimere l’istituto della pro-
272
I diritti reali
[§ 132]
prietà privata, ma che sarebbe altresì in contrasto con i principi
costituzionali un’eventuale trasformazione del nostro sistema in un
ordinamento in cui i beni siano prevalentemente collettivizzati.
È tuttavia pacifico che il legislatore ben potrebbe escludere
l’ammissibilità della proprietà privata per quanto riguarda una o più
determinate categorie di beni: anzi, è lo stesso art. 43 Cost. ad espressamente prevedere che « a fini di utilità generale la legge può riservare o trasferire (...) allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di
lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che
si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a
situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse
generale » (e, in applicazione di questa norma, nel 1962 si è proceduto
alla nazionalizzazione delle imprese elettriche ed alla costituzione di
un ente pubblico — l’Enel — incaricato della produzione e della
distribuzione dell’energia elettrica; anche se oggi, come nelle oscillazioni di un pendolo, l’Enel è stato trasformato in una società per
azioni con titoli diffusi fra il pubblico ed il mercato della produzione
e commercializzazione dell’energia elettrica è stato liberalizzato).
A ciò si aggiunga che, sempre con riferimento alla proprietà
privata, la Costituzione — all’art. 42, comma 2 — demanda espressamente al legislatore ordinario il compito di determinarne « i modi di
acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione
sociale e di renderla accessibile a tutti ».
In altre parole, il legislatore è legittimato ad intervenire per
delineare — con riferimento a singole categorie di beni — il contenuto
dei poteri (di godimento e/o di disposizione) che competono al
proprietario (c.d. interventi « conformativi » dei vari statuti proprietari); e ciò, al fine di garantire che il relativo esercizio — quand’anche, come è normale, sia determinato da finalità egoistiche — comunque realizzi una « funzione sociale »: funzione da ricollegarsi —
come lascia intuire il disposto dell’art. 44, comma 1, Cost. — sia
all’esigenza di realizzare uno sfruttamento economicamente efficiente dei
beni, sia all’esigenza di instaurare più equi rapporti sociali; e, più in
generale, all’esigenza di tutelare tutti quei valori ed interessi costituzionalmente protetti (ad es., salute, lavoro, libertà, sicurezza,
dignità della persona, solidarietà, ecc.) che potrebbero risultare sacrificati da un’illimitata ed esclusiva utilizzazione privatistica dei
beni.
Riserva di
In sintesi: (i) la conformazione dei poteri dominicali compete, in
legge
via esclusiva, al legislatore (c.d. « riserva di legge »); (ii) il legislatore è
legittimato a prevedere compressioni dei poteri dominicali solo se
[§ 132]
I diritti reali in generale e la proprietà
273
giustificate dalla necessità di garantire che gli stessi non vengano
esercitati in contrasto con l’utilità sociale.
Ora — in applicazione di siffatte indicazioni costituzionali — La
nel dopoguerra si è assistito ad una serie ininterrotta, dilagante, legislazione
postbellica
talora scoordinata di interventi normativi che hanno variamente
inciso sui singoli « statuti » proprietari: tant’è che ormai corrente è
l’affermazione secondo cui, con riferimento al nostro ordinamento,
sarebbe oggi corretto parlare piuttosto che della proprietà (al singolare), quale regime dominicale unitario, delle proprietà (al plurale),
per indicare che le situazioni di appartenenza si atteggiano diversamente a seconda dell’oggetto cui si riferiscono e/o del soggetto cui
competono. Così, ad es., ben diversi — e più ampi — sono i poteri di
godimento e disposizione che competono al proprietario di un abito,
rispetto a quelli che competono al proprietario di un « bene culturale » (v. § 134); ben diversi sono i poteri che competono al titolare di
una proprietà esclusiva rispetto a quelli che competono al comproprietario (v. §§ 162 ss.); ben diversi sono i poteri che competono
all’ente pubblico sui beni demaniali o del patrimonio indisponibile
rispetto a quelli che competono al privato proprietario sul medesimo
tipo di bene (v. § 95); ecc.
Da notare che — con riferimento alle previsioni che delineano i
poteri del proprietario relativamente ad intere categorie di beni —
non appare giustificato parlare (come peraltro fa lo stesso art. 42,
comma 2, Cost.) di « limiti » alla proprietà privata: dette previsioni,
infatti, conformano positivamente il contenuto del diritto del proprietario. Quelli che emergono da dette previsioni potrebbero considerarsi « limiti » ai poteri di quest’ultimo, solo muovendo dall’aprioristico presupposto — ormai superato nel diritto positivo — che la
proprietà attribuisca effettivamente al suo titolare il diritto di godere
e disporre delle cose « in modo pieno ».
Va, da ultimo, segnalato che la disciplina della proprietà non si La normativa
esaurisce più, oggi, nelle sole regole di derivazione nazionale fin qui sovranazionale
ricordate. Essa, infatti, si è venuta progressivamente arricchendo di
tutta una serie di previsioni sovranazionali (v. art. 1 primo protocollo
addizionale CEDU, secondo cui « ogni persona fisica o giuridica ha
diritto al rispetto dei suoi beni »; art. 17 Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea — collocato nel titolo dedicato alle « libertà » —
secondo cui « ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei
beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli
in eredità »), che inducono ad interrogarsi se — in qualche misura in
controtendenza rispetto al percorso compiuto dal legislatore nazionale nell’ultimo arco del secolo scorso — il diritto di proprietà non sia
I diritti reali
274
[§ 133]
venuto riacquisendo il carattere di diritto fondamentale dell’uomo; e,
in caso affermativo, come ciò eventualmente incida, limitandolo, sul
potere dello Stato nazionale di legittimamente imporre obblighi e
restrizioni al diritto dominicale.
Caratteri:
La proprietà si ritiene tradizionalmente caratterizzata:
... elasticità
a) dall’elasticità: invero, i poteri che normalmente competono al
proprietario possono essere compressi in virtù della coesistenza sullo
stesso bene di altri diritti reali (ad es., usufrutto, servitù, ecc.; v. §§
131 e 144) o di vincoli di carattere pubblicistico; tali poteri sono però
destinati a riespandersi automaticamente non appena dovesse venire
meno il diritto reale o il vincolo pubblicistico concorrente. Così, ad
es., allorquando si estingue il diritto di usufrutto gravante sul bene,
il potere di godimento del proprietario, fino a quel momento praticamente azzerato in conseguenza dei poteri spettanti all’usufruttuario, riassume l’originaria ampiezza (v. § 152);
... imprescritb) dalla imprescrittibilità: sebbene l’art. 948, comma 3, c.c.
tibilità
riferisca l’imprescrittibilità non alla proprietà, ma all’azione di rivendicazione, è peraltro pacifico che anche la proprietà non si può
perdere per « non uso », bensì soltanto per l’usucapione che altri abbia
a perfezionare a proprio favore; e le ragioni di tale imprescrittibilità
sono già state enunciate al § 112;
... perpetuità
c) dalla perpetuità: è opinione diffusa che quella di una proprietà ad tempus sarebbe una contraddizione in termini (v. Cass. 4
aprile 2012, n. 5391). Si fa peraltro notare che l’ordinamento conosce
Proprietà talune ipotesi di « proprietà temporanea »: si pensi, ad es., alla protemporanea
prietà superficiaria a termine (art. 953 c.c.; v. § 145), alla proprietà
oggetto di un legato sottoposto a termine iniziale (v. §§ 663 ss.), alla
proprietà trasferita a terzi in forza di un contratto con termine
iniziale (v. §§ 325 ss.), alla — aggiunge taluno — proprietà dell’istituito nel fecommesso (art. 692 c.c.; v. § 633).
§ 133.
La tutela
costituzionale
Espropriazione e indennizzo.
L’art. 42, comma 3, Cost. dispone che « la proprietà privata può
essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata
per motivi d’interesse generale ».
La norma tende a ricercare un punto di equilibrio fra — da un
lato — l’interesse del proprietario alla conservazione dei suoi diritti
sul bene e — da altro lato — il contrapposto interesse della collettività ad utilizzarlo, ove occorra, a fini di pubblico interesse (ad es., per
destinarlo alla fruizione da parte dell’intera collettività, ovvero alla
[§ 133]
I diritti reali in generale e la proprietà
275
realizzazione di opere pubbliche: ponti, scuole, ospedali, aeroporti,
programmi di edilizia economica e popolare, ecc.).
A tal fine, la Costituzione prevede che la posizione del privato
possa essere sacrificata solo in presenza:
a) di un « interesse generale » (v. Cass., sez. un., 13 gennaio 2014,
n. 441);
b) di una previsione legislativa che lo consenta (c.d. « riserva di
legge »);
c) di un « indennizzo » che compensi il privato del sacrificio che
subisce nell’interesse della collettività.
Al riguardo, vedi — oggi — anche art. 17 Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui « nessuna persona
può essere privata delle proprietà se non per causa di pubblico
interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della
stessa ».
Due i punti nodali attorno ai quali si è sviluppato il dibattito
suscitato dalla disciplina costituzionale in materia di espropriazione
per pubblico interesse: che cosa si debba intendere per « espropriazione » e che cosa si debba intendere per « indennizzo ».
Quanto al primo problema, senz’altro superata è la concezione Nozione:
tradizionale, secondo cui si avrebbe « espropriazione » solo nel caso di espropriazione
trasferimento della titolarità di un bene dal precedente proprietario traslativa e
(« espropriato ») ad un altro soggetto, pubblico o privato (« beneficia- larvata
rio dell’espropriazione »): c.d. « espropriazione traslativa ». La Corte
costituzionale da oltre mezzo secolo insegna, infatti, che rientrano
nella nozione di « espropriazione » (e non possono, quindi, essere
imposte se non « per legge » ed a fronte di un « indennizzo ») anche
quelle limitazioni che — pur non determinando, per il proprietario, la
perdita del suo diritto — siano comunque « tali da svuotare di
contenuto il diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene
tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente alla natura del bene stesso o determinando il
venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio »
(Corte cost., 20 gennaio 1966, n. 6): c.d. « espropriazione larvata » o
« limiti espropriativi ».
Invero, la Corte tende a distinguere fra — da un lato —
disposizioni (c.d. « interventi di conformazione dei vari statuti proprietari ») che si riferiscono ad intere categorie di beni, sottoponendo
tutti i beni appartenenti alla categoria ad un particolare regime di
godimento e/o di disposizione e — da altro lato — disposizioni (c.d.
« interventi di espropriazione larvata ») che si riferiscono invece a
276
I diritti reali
[§ 133]
singoli cespiti, restringendo i poteri del proprietario rispetto a quelli
riconosciuti, in via generale, agli altri titolari di beni appartenenti a
quella medesima categoria, ovvero annullandone o diminuendone in
modo apprezzabile il valore di scambio: le prime (ad es., quelle
contemplate dal D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, che prevedono
restrizioni, anche molto penetranti, ai poteri di godimento e di
disposizione spettanti a tutti indiscriminatamente i proprietari di
c.d. « beni culturali »; v. § 134) non rientrano nel concetto di « espropriazione », bensì in quello di « conformazione » del contenuto del
diritto di proprietà sui beni appartenenti a quella determinata categoria e, conseguentemente, non comportano « indennizzo »; le seconde (ad es., quelle che impongono particolari restrizioni, rispetto ai
poteri normalmente spettanti ai proprietari di aree agricole, al singolo titolare il cui fondo sia gravato da non marginali vincoli alla
coltivazione, a tutela della sicurezza dei voli che si effettuano nel
limitrofo aeroporto) rientrano invece nel concetto di « espropriazione » e necessitano di « indennizzo » (v. Cass. 18 giugno 2018, n.
16084).
Muovendosi su questa linea, il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327
(« Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
di espropriazione per pubblica utilità ») prevede ora che nella nozione
di « espropriazione » di beni immobili rientri non solo l’ipotesi di
« passaggio del diritto di proprietà » dall’espropriato al beneficiario
dell’espropriazione (art. 23, comma 1 lett. f, D.P.R. n. 327/2001; v.
anche art. 20, commi 9 e 10, D.P.R. n. 327/2001), ma anche quella del
« vincolo sostanzialmente espropriativo » (art. 39, comma 1, D.P.R. n.
327/2001), ovvero quella in cui il fondo « sia gravato da una servitù
o subisca una permanente diminuzione di valore per la perdita o la
ridotta possibilità di esercizio del diritto di proprietà » (art. 44,
comma 1, D.P.R. n. 327/2001).
Quanto al secondo problema — quello relativo ai criteri cui il
Indennizzo
legislatore deve attenersi per la determinazione dell’« indennizzo » da
corrispondere al soggetto che subisce l’esproprio — la Corte costituzionale ha escluso, attesi i fini di interesse generale che i provvedimenti espropriativi perseguono, che l’indennizzo debba necessariamente consistere in un « integrale risarcimento » del pregiudizio economico sofferto dall’espropriato; con la conseguenza che non è richiesto che l’indennizzo sia pari al valore venale (o « di mercato ») del bene.
Di contro, la stessa Corte costituzionale ha però escluso che l’indennizzo possa essere dal legislatore stabilito in termini meramente
« simbolici » o « irrisori », dovendo piuttosto rappresentare un « serio
[§ 133]
I diritti reali in generale e la proprietà
277
ristoro » del pregiudizio conseguente all’espropriazione (v., da ultimo,
Corte cost. 22 aprile 2016, n. 90).
Dal canto suo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha preso ad
interpretare l’art. 1 Protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nel
senso che — se lo stesso non garantisce sempre all’espropriato una
riparazione integrale — « in numerosi casi di espropriazione legittima, come l’espropriazione singola di un terreno per la costruzione di
una strada o per altri scopi di “pubblica utilità”, solo un indennizzo
integrale può essere considerato » idoneo a « mantenere un “giusto
equilibrio” tra le necessità dell’interesse generale della collettività e
gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo »; mentre solo « scopi legittimi di pubblica utilità, come quelli che
si perseguono con misure di riforma economica o di giustizia sociale,
possono giustificare un rimborso inferiore al pieno valore di mercato »
(così Corte europea dir. uomo, sez. Grande Camera, 29 marzo 2006, n.
36813).
Era così destinata ad avviarsi al tramonto la fin troppo lunga
stagione in cui il legislatore nazionale, a tutela delle esigenze di
bilancio degli enti esproprianti, si è esibito nell’escogitare criteri di
quantificazione degli indennizzi fortemente penalizzanti per l’espropriato.
Tant’è che oggi il già citato D.P.R. n. 327/2001 (artt. 32 ss.)
contempla una serie di meccanismi di quantificazione dell’indennità
di esproprio miranti a ragguagliarla, in ipotesi di espropriazione
traslativa, al valore venale del bene espropriato (v. Cass. 31 ottobre
2018, n. 27934; Cass. 25 ottobre 2017, n. 25314) e, in ipotesi di vincolo
espropriativo o di espropriazione parziale, al pregiudizio effettivamente sofferto dall’espropriato (v. Cass. 21 maggio 2018, n. 12468;
Cass. 15 giugno 2017, n. 14891).
Al fine di incentivare la « cessione volontaria » della proprietà del Cessione
bene dall’espropriando al beneficiario dell’espropriazione senza ne- volontaria
cessità di addivenire ad un formale decreto di esproprio, la legge
prevede che il corrispettivo della cessione sia, di regola, maggiore
rispetto all’indennizzo (artt. 37, comma 2, e 45, comma 2, D.P.R. n.
327/2001; v. Cass. 22 gennaio 2018, n. 1534).
Si verifica con una certa frequenza che la P.A. (ad es., un Utilizzazione
titolo di
Comune) realizzi un’opera pubblica (ad es., alloggi popolari, un senza
un bene per
depuratore, ecc.) su un fondo privato occupato illegittimamente, scopi di
senza aver prima adottato un valido provvedimento espropriativo o interesse
pubblico: c.d.
d’occupazione d’urgenza, ovvero nonostante la scadenza del termine acquisizione
previsto per quest’ultima. In ipotesi siffatte, l’Autorità che utilizza sanante
I diritti reali
278
[§ 134]
un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo averlo modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio
o dichiarativo di pubblica utilità, è legittimata — in presenza di
« attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico (...) valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati » ed in « assenza di ragionevoli alternative » — ad adottare un provvedimento
(c.d. « provvedimento di acquisizione coattiva »), in forza del quale
l’immobile viene acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile: c.d. « acquisizione sanante ». Al proprietario è riconosciuto un indennizzo per il pregiudizio — patrimoniale e non patrimoniale — sofferto: quantificati, il primo, in misura corrispondente al
valore venale del bene e, il secondo, forfettariamente in misura pari
al 10% di detto valore venale (art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001; v.
Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 6017).
§ 134.
La proprietà dei beni culturali.
Già il disposto dell’art. 839 c.c. postulava — a tutela del nostro
patrimonio culturale — un particolare regime dominicale per le « cose
di proprietà privata, immobili o mobili, che presentano interesse
artistico, storico o etnografico ».
Su analoga lunghezza d’onda sembra muoversi la Costituzione
La
Costituzione
repubblicana, che — all’art. 9, comma 2 — enuncia solennemente il
repubblicana
principio secondo cui la Repubblica « tutela (...) il patrimonio storico
e artistico della Nazione ».
Ora, il D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (« Codice dei beni culturali
La
legislazione
e del paesaggio ») delinea un peculiare regime proprietario per i c.d.
speciale
« beni culturali », per tali intendendosi le cose, immobili e mobili, che
presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico, bibliografico, o che, comunque, costituiscono testimonianze aventi valore di civiltà (art. 2, comma 2, D.Lgs.
n. 42/2004; v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25690).
In particolare — onde « garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione » (art. 3, comma 1, D.Lgs. n.
42/2004) — impone al privato proprietario tutta una serie di vincoli:
a) sia quanto al potere di godimento: ad es., prevedendo che i
beni culturali non possano essere distrutti, deteriorati, danneggiati o
adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico,
oppure tali da arrecare pregiudizio alla loro conservazione (art. 20,
comma 1, D.Lgs. n. 42/2004); assoggettando ad autorizzazione l’esecuzione su di essi di opere e lavori di qualunque genere (art. 21,
Il codice
civile
[§ 135]
I diritti reali in generale e la proprietà
279
comma 4, D.Lgs. n. 42/2004); imponendo al proprietario, al possessore, al detentore l’obbligo di garantirne la conservazione (artt. 1,
comma 5, 30, comma 3, e 32 ss. D.Lgs. n. 42/2004); contemplando
che, in talune ipotesi, possa esserne imposta la visita da parte del
pubblico per scopi culturali (artt. 104 s. D.Lgs. n. 42/2004); ecc.;
b) sia quanto al potere di disposizione: ad es., prevedendo
l’obbligo di denuncia degli atti che trasferiscono, in tutto o in parte,
a qualsiasi titolo, la proprietà o la detenzione di detti beni (art. 59
D.Lgs. n. 42/2004); il diritto di prelazione dello Stato, della regione o
degli altri enti pubblici territoriali interessati, in caso di alienazione
a titolo oneroso o di conferimento in società (artt. 60 ss. D.Lgs. n.
42/2004); ecc.
È altresì previsto che i beni culturali possano essere espropriati
per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione risponda ad un
importante interesse a migliorarne le condizioni di tutela ai fini della
fruizione pubblica (art. 95 D.Lgs. n. 42/2004).
§ 135.
La proprietà edilizia.
Al proprietario di un’area interessata all’edificazione compete il Ius
c.d. « ius aedificandi »: cioè, il diritto di costruire (v. Cass. 12 novem- aedificandi
bre 2015, n. 23130).
Gli è altresì riconosciuta la facoltà di impegnarsi a prestare il Cessione di
proprio consenso affinché la cubatura (cioè, la volumetria) che, cubatura
secondo gli strumenti urbanistici, risulta realizzabile sulla sua area
venga dalla P.A. attribuita al proprietario di un fondo vicino, compreso nella medesima zona urbanistica: c.d. « cessione di cubatura » (v.
Cass. 10 ottobre 2018, n. 24948). Il relativo atto — che non richiede
la forma scritta ad substantiam, poiché produce solo effetti obbligatori
(v. §§ 189 ss.) — è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 2-bis, c.c.), con
conseguente opponibilità ai terzi.
In ogni caso, l’attività di trasformazione urbanistica o edilizia Permesso di
del territorio può essere svolta solo nel rispetto delle previsioni degli costruire,
SCIA, CILA
« strumenti urbanistici », dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigente. Per gli interventi di maggior impatto
(art. 10 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) è necessario il previo rilascio,
da parte dell’Autorità comunale, del c.d. « permesso di costruire », che
comporta la corresponsione di un « contributo » commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione (artt. 16
ss. D.P.R. n. 380/2001), destinato alla realizzazione delle indispensabili opere di urbanizzazione primaria (strade, parcheggi, spazi di
280
I diritti reali
[§ 135]
verde attrezzato, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, ecc.) e secondaria
(asili nidi, scuole materne e dell’obbligo, mercati di quartiere, chiese,
impianti sportivi, ecc.); mentre, per gli interventi di minore impatto,
è sufficiente una comunicazione — rispettivamente, « CILA-comunicazione di inizio lavori asseverata » o « SCIA-segnalazione certificata di
inizio di attività » — da indirizzarsi all’Amministrazione comunale
(artt. 6-bis e 22 D.P.R. n. 380/2001).
Tradizionalmente, gli strumenti urbanistici erano espressione di
Strumenti
ubanistici
provvedimenti adottati unilateralmente — ed autoritativamente —
dalla Pubblica Amministrazione (v., ad. es., artt. 8 e 10 L. 17 agosto
1942, n. 1150, per quel che riguarda il « piano regolatore generale »
relativo alla totalità di ciascun singolo territorio comunale; artt. 14 e
16 L. n. 1150/1942, per quel che riguarda il « piano particolareggiato »;
ecc.).
Tuttavia — accanto a strumenti di pianificazione attuativa ad
Convenzione
di
iniziativa pubblica — la legge, oggi, ne conosce altri che fanno invece
lottizzazione
ricorso a meccanismi di tipo privatistico: in particolare, la c.d.
« convenzione di lottizzazione » (art. 28 L. n. 1150/1942, così come
modificato dall’art. 8 L. 6 agosto 1967, n. 765), in forza della quale —
a fronte dell’autorizzazione, da parte del Comune, di un « piano di
lottizzazione » proposto dai proprietari delle aree interessate — questi ultimi si assumono una serie di impegni nei confronti del Comune
stesso (ad es., la cessione gratuita di aree per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria; l’assunzione degli oneri relativi alle
opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria; la prestazione di congrue garanzie finanziare per gli adempimenti derivanti dagli obblighi della convenzione;
ecc.).
Al fine di evitare l’abusivismo edilizio, la legge fa ricorso —
Sanzioni
civili
accanto a quelli amministrativi (ad es., rimozione o demolizione
dell’abusivismo dell’opera abusiva, sanzione pecuniaria) (artt. 30 ss. D.P.R. n. 380/
edilizio 2001) e penali (art. 44 D.P.R. n. 380/2001) — anche a strumenti di
tipo privatistico.
Così, ad es.:
a) sanziona con la nullità gli atti inter vivos, aventi ad oggetto
il trasferimento o la costituzione di diritti reali su terreni, ove agli atti
stessi non sia allegato il « certificato di destinazione urbanistica »,
rilasciato dall’autorità comunale, contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata (art. 30, comma 2, D.P.R. n.
380/2001; v. però il comma 4-bis del medesimo art. 30);
[§ 136]
I diritti reali in generale e la proprietà
281
b) sanziona con la nullità gli atti (diversi da quelli relativi a
procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali: v. § 121),
aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su
edifici (o loro parti), la cui costruzione sia iniziata dopo il 17 marzo
1985, ove dagli atti stessi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del « permesso di costruire » (art. 46, comma 1 e
5-bis, D.P.R. n. 380/2001; v. però il comma 4 del medesimo art. 46;
al riguardo v. ora Cass., sez. un., 22 marzo 2019, n. 8230);
c) vieta alle aziende erogatrici di servizi pubblici di somministrare le loro forniture per l’esecuzione di opere prive di « permesso di
costruire » e sanziona con la nullità i relativi contratti, ove la richiesta dell’utente non sia corredata dall’indicazione degli estremi di
detto « permesso » (art. 48, commi 1, 2 e 3-bis, D.P.R. n. 380/2001);
d) impone a chi abbia violato disposizioni che regolamentano
l’attività edilizia l’obbligo di risarcire i danni che terzi (ad es., i vicini)
ne abbiano eventualmente sofferto (art. 872, comma 2, c.c.); e — se si
tratta di disposizioni tese a disciplinare, nei rapporti intersoggettivi di
vicinato, le distanze tra costruzioni — consente ai vicini di chiedere la
c.d. « riduzione in pristino » (cioè, l’eliminazione delle opere abusive)
(art. 872, comma 2, c.c.; v. § 140; v. Cass. 31 agosto 2018, n. 21501).
§ 136.
La proprietà fondiaria.
In linea verticale, la « proprietà fondiaria » (per tale intendendosi L’estensione
linea
la proprietà della terra o dei fondi) si estenderebbe — secondo un in
verticale
suggestivo brocardo medievale — usque ad sidera, usque ad inferos:
cioè, all’infinito sia nel sottosuolo che nello spazio aereo soprastante
(v. Cass. 14 aprile 2004, n. 7051).
Peraltro l’art. 840, comma 2, c.c. dispone — oggi — che « il
proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si
svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio
sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle » (così, ad es.,
il proprietario non può opporsi all’escavazione di una galleria che non
pregiudichi l’utilizzo della sua proprietà o al passaggio di aeromobili
sopra di essa; v. Cass. 28 febbraio 2018, n. 4664).
Da ciò si deduce che la proprietà del suolo si estende a quella
sola parte del sottosuolo suscettibile di utilizzazione secondo un criterio
di normalità (art. 840, comma 1, c.c.). Analogo principio si ritiene
valga anche per il soprassuolo (v. Cass. 28 febbraio 2018, n. 4664); con
la precisazione che la sussistenza dell’interesse del proprietario del
suolo ad escludere l’attività di terzi, che si svolga nello spazio
I diritti reali
282
[§ 137]
sovrastante, deve essere valutata con riferimento non solo alla situazione ed alla destinazione attuali del suolo, ma anche alle sue possibili, future, utilizzazioni, sia pure in concreto non individuate, purché compatibili con le caratteristiche e la normale destinazione del
suolo medesimo (v. Cass. 18 agosto 2011, n. 17207).
La giurisprudenza ritiene legittima la separata alienazione del
soprasuolo dal sottosuolo come entità reali giuridicamente autonome; in tal caso scindendosi l’originaria unica proprietà appartenente ad un solo soggetto in più proprietà distinte in senso verticale
facenti capo a soggetti diversi, trattandosi pur sempre di veri e propri
diritti di proprietà (v. Cass. 26 ottobre 2018, n. 27256).
Una limitazione all’estensione della proprietà al di sopra o al di
sotto del suolo si ha quando venga costituito un « diritto di superficie »
(v. § 145).
La giurisprudenza, dal canto suo, afferma la validità di una separata alienazione del soprasuolo dal sottosuolo come entità reali giuridicamente autonome, scindendosi l’originaria unica proprietà appartenente ad un solo soggetto in più proprietà distinte in senso verticale
e facenti capo a soggetti diversi, comunque trattandosi pur sempre di
veri e propri diritti di proprietà (v. Cass. 26 ottobre 2018, n. 27256).
In senso orizzontale, ciascuna proprietà fondiaria si estende
... in senso
orizzontale
nell’ambito dei propri confini. Il proprietario — nell’esercizio del
proprio potere di godere del bene « in modo esclusivo » — ha la
facoltà, da un lato, di cintare in qualsiasi momento il proprio fondo
(art. 841 c.c.; v. Cass. 16 dicembre 2014, n. 26426) e, da altro lato, di
impedirne l’accesso a chiunque (salvo che vi entri per l’esercizio della
caccia: art. 842 c.c.; ovvero per costruire o riparare un muro od altra
sua opera che si trovi sul confine o presso di esso: art. 843, comma 1,
c.c.; ovvero ancora per riprendere la cosa sua che vi si trovi accidentalmente o l’animale che vi si sia riparato sfuggendo alla custodia:
art. 843, comma 3, c.c.; v. Cass. 2 marzo 2018, n. 5012).
Le consuetudini consentono talora l’accesso ai fondi altrui (specie in zone di montagna) per passeggiarvi, raccogliere fiori o funghi,
sciare, ecc.
§ 137.
La
contiguità
delle
proprietà
immobiliari
I rapporti di vicinato.
Le singole proprietà immobiliari sono necessariamente destinate
a convivere fianco a fianco. L’eventuale riconoscimento, in capo a
ciascuno dei titolari, di un potere di godere del proprio fondo in modo
pieno (art. 832 c.c.) darebbe inevitabilmente luogo a conflitti tra i
[§ 138]
I diritti reali in generale e la proprietà
283
contrapposti interessi di cui gli stessi sono portatori (ad es., tra
l’interesse del proprietario di un immobile ad esercitare in esso
un’attività produttiva ed il contrapposto interesse del proprietario
del fondo contiguo a non subire immissioni di fumi o rumori derivanti
dall’esercizio di detta attività; tra l’interesse del proprietario ad
edificare sul proprio fondo ed il contrapposto interesse del proprietario del fondo contiguo a non vedersi privato dell’aria e della luce
che attinge dalle finestre aperte sul fondo del vicino; ecc.).
Proprio al fine di contemperare i contrapposti interessi dei I rapporti di
proprietari di fondi contigui — disciplinando i c.d. « rapporti di vicinato
vicinato » — il codice detta tutta una serie di regole in materia di:
a) atti emulativi (art. 833);
b) immissioni (art. 844);
c) distanze (artt. 873, 878 ss.);
d) muri (artt. 874 ss.);
e) luci e vedute (artt. 900 ss.);
f) acque (artt. 908 ss.).
Tradizionalmente, dette regole — specie, quelle in tema di
distanze legali e di luci e vedute — venivano intese come volte ad
imporre alla proprietà immobiliare limiti (legali) nell’interesse privato
(nell’interesse, cioè, dei proprietari dei fondi contigui). Siffatta impostazione costituiva il logico corollario della concezione — ormai
superata (v. supra, § 132) — che vedeva nella proprietà un diritto
che, indifferente alla natura del bene su cui ricade, attribuisce sempre
e comunque al suo titolare un potere di godimento pieno sul bene
stesso. In realtà, le norme in discussione sono semplicemente tese a
conformare la proprietà immobiliare, in modo da assicurare un coordinamento fra i diritti riconosciuti ai singoli titolari.
§ 138.
Gli atti emulativi.
Al proprietario sono preclusi gli « atti di emulazione » (o « emu- Nozione
lativi »), per tali intendendosi quelli che non hanno altro scopo che
quello di nuocere o arrecare molestia ad altri (art. 833 c.c.).
Secondo l’opinione prevalente, il divieto costituirebbe espressione particolare del principio di carattere generale che vieta l’« abuso
del diritto » (v. Cass. 19 marzo 2013, n. 6823).
Perché l’atto di godimento di un bene sia vietato, debbono Presupposti
del divieto
concorrere — come risulta dall’art. 833 c.c. — due presupposti:
a) uno oggettivo, ossia l’assenza di utilità per chi lo compie (v.
Cass. 31 ottobre 2018, n. 27916);
284
I diritti reali
[§ 139]
b) l’altro soggettivo, ossia l’intenzione di nuocere o arrecare molestia ad altri (c.d. animus aemulandi o nocendi), che peraltro si può
presumere allorquando l’atto risulti, da un lato, non giustificato da
alcun interesse del proprietario e, da altro lato, lesivo di interessi del
vicino (così, ad es., è stato ritenuto emulativo — e, quindi, vietato —
il piantare alberi senza apprezzabile utilità per il proprietario, al solo
evidente scopo di togliere la veduta panoramica ad una villa confinante; l’installare sul muro di recinzione di un fabbricato una finta
telecamera posizionata in direzione del balcone del vicino: v. Cass. 11
aprile 2001, n. 5421).
Atti
Si ritiene non incorra nel divieto di « atti » emulativi un comporcommissivi e
tamento omissivo del proprietario, quand’anche finalizzato a nuocere
comportamenti omissivi al vicino (così, ad es., è stata reputata non illegittima la condotta di
chi abbia lasciato crescere sul proprio fondo degli arbusti spontanei
con l’intento di precludere al proprietario del fondo finitimo il godimento di una visuale di particolare suggestione: v. Cass. 20 ottobre
1997, n. 10250).
§ 139.
Le immissioni.
Il diritto di godere del bene « in modo esclusivo », riconosciuto al
proprietario dall’art. 832 c.c., importa che lo stesso è legittimato ad
opporsi a qualsiasi attività materiale di terzi che abbia a svolgersi sul
suo fondo (ad es., scarico di rifiuti, smaltimento di liquami, ecc.): c.d.
« immissioni materiali ».
Immissioni
Egli non può invece opporsi, almeno di regola, ad attività che si
immateriali
svolgano — lecitamente — sul fondo del vicino.
È peraltro frequente — specie in un sistema di produzione
industriale — che tali ultime attività importino la produzione di
fumi, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili, destinati a
propagarsi nelle proprietà circostanti (si pensi, ad es., alle polveri che
fuoriescono da un altoforno; al rumore che, in estate, proviene dai
locali pubblici all’aperto; ecc.): c.d. « immissioni immateriali ».
In questo caso, occorre distinguere:
Disciplina
a) se le immissioni rimangono al di sotto della soglia della
« normale tollerabilità » (ad es., le immissioni sonore provenienti dall’appartamento del vicino che non superano il c.d. « rumore di fondo »
della zona; v. Cass. 12 maggio 2015, n. 9660), chi le subisce deve
sopportarle: non ha né il diritto di farle cessare, né quello di vedersi
riconosciuto un ristoro per il disagio eventualmente sofferto (art. 844,
comma 1, c.c.; v. Cass. 3 settembre 2018, n. 21554);
Immissioni
materiali
[§ 139]
I diritti reali in generale e la proprietà
285
b) se le immissioni superano, invece, la soglia della « normale
tollerabilità », ma sono giustificate da « esigenze della produzione »
(ad es., le immissioni sonore provenienti dagli impianti industriali del
vicino che superano in maniera significativa il c.d. « rumore di fondo »
della zona, ma l’interesse collettivo, in termini di produzione e di
occupazione, impone il mantenimento dell’attività), chi le subisce
non ha diritto di farle cessare, ma può ottenere un « indennizzo » in
danaro per il pregiudizio eventualmente sofferto (ad es., diminuzione
del valore commerciale del fondo, sua minor redditività, spese fatte
per porre rimedio agli effetti negativi dell’immissione, ecc.) (art. 844,
comma 2, c.c.);
c) se le immissioni superano la soglia della « normale tollerabilità » senza peraltro essere giustificate da « esigenze della produzione »
(ad es., le immissioni sonore provenienti dall’appartamento del vicino che superano in maniera significativa il c.d. « rumore di fondo »
della zona nelle ore in cui lo stesso si dedica a suonare la chitarra), chi
le subisce ha diritto che — per il futuro — ne cessi la prosecuzione (o,
quanto meno, che vengano adottate quelle misure indispensabili per
far rientrare dette immissioni nei limiti della « normale tollerabilità »:
v. Cass. 31 agosto 2018, n. 21504) e — per il passato — che gli sia
riconosciuto l’integrale risarcimento del danno, sia patrimoniale che
non patrimoniale (v. Cass., sez. un., 1° febbraio 2017, n. 2611),
eventualmente sofferto (v. Cass. 2 settembre 2018, n. 21554).
L’azione — che per questo si dice « reale » — rivolta all’accertamento dell’illegittimità delle immissioni e la condanna alla loro
cessazione (ovvero all’adozione delle modifiche strutturali necessarie
per ricondurle entro il limite della « normale tollerabilità ») deve
essere proposta nei confronti del proprietario del fondo dal quale esse
provengono. L’azione risarcitoria — che per questo si dice « personale » — va invece esercitata contro chi (ad es., il conduttore che
gestisce il bar da cui provengono le immissioni di rumore ritenute
intollerabili) ha concretamente provocato il danno di cui viene richiesta la riparazione (v. Cass. 15 novembre 2016, n. 23245); mentre
il proprietario ne risponde solo quando, nel momento in cui ha
concesso ad altri l’uso dell’immobile, avrebbe potuto prefigurarsi,
impiegando l’ordinaria diligenza, che l’utilizzatore, con la propria
attività, avrebbe certamente recato danno a terzi (v. Cass. 1° marzo
2018, n. 4908).
La soglia della « normale tollerabilità » di un’immissione — se- La « normale
condo giurisprudenza consolidata — non coincide con i limiti varia- tollerabilità »
mente previsti da leggi e regolamenti a tutela di interessi di carattere
generale (ad es., la salute, l’ambiente, la quiete pubblica, ecc.; v.
286
I diritti reali
[§ 139]
Cass. 20 gennaio 2017, n. 1606); anche se si ritiene che, di regola, la
violazione di detti limiti importi, per ciò solo, l’intollerabilità dell’immissione anche nell’ambito dei rapporti di vicinato (v. Cass. 1°
ottobre 2018, n. 23754). La « tollerabilità » o meno di un’immissione
va piuttosto valutata, caso per caso, dal punto di vista del fondo che
la subisce, tenendo conto della « condizione dei luoghi » (art. 844,
comma 1, c.c.): cioè, della loro concreta destinazione naturalistica ed
urbanistica, delle attività normalmente svolte nella zona, del sistema
di vita e delle abitudini di chi vi opera, ecc. (v. Cass. 5 novembre
2018, n. 28201). Non rilevano, invece, né le condizioni soggettive di
chi utilizza il fondo (ad es., un soggetto particolarmente irritabile,
perché affetto da esaurimento nervoso), né l’attività da quest’ultimo
svolta (ad es., una guardia notturna che riposa durante le ore diurne).
Peraltro, sul punto, è di recente intervenuto il legislatore — con
legge 30 dicembre 2018, n. 145 (art. 1, comma 746) — per statuire
che, « nell’accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle
emissioni acustiche », a decorrere dal 1° gennaio 2019 « si applicano i
criteri di accettabilità del livello di rumore » indicati nella « legge
quadro sull’inquinamento acustico » (L. 26 ottobre 1995, n. 447): il
che ha sollevato in molti il timore che, se rispettose dei limiti imposti
da tale legge, le immissioni acustiche debbano considerarsi senz’altro
rispettose del limite della « normale tollerabilità »; senza che al
giudice sia più concesso — come accadeva invece in passato —
adottare, con riferimento al singolo caso concreto, parametri più
restrittivi (v. Cass. 20 novembre 2017, n. 1606; Cass. 7 ottobre 2016,
n. 20198; e ora Cass. 11 marzo 2019, n. 6906).
Esigenze
Se l’immissione che supera la soglia della « normale tollerabidell’industria
lità » proviene dall’espletamento di attività produttive, occorre —
e ragioni
della come appena visto (sub b) — bilanciare le esigenze dell’industria con
proprietà le ragioni della proprietà (art. 844, comma 2, c.c.). Essa sarà dunque
consentita — salvo, come detto, un « indennizzo » a favore delle
proprietà danneggiate — solo se:
a) non sia eliminabile (o, quanto meno, riducibile) attraverso
l’adozione di accorgimenti tecnici non particolarmente onerosi (v.
Cass. 8 marzo 2010, n. 5564); e
b) la cessazione dell’attività produttiva causerebbe alla collettività un danno più grave del sacrificio inflitto ai proprietari dei fondi
vicini.
Al riguardo, si può — ma il criterio è sussidiario e facoltativo (v.
Cass. 11 maggio 2005, n. 9865) — anche « tener conto della priorità di
un determinato uso » (art. 844, comma 2, c.c.) (così, ad es., chi
[§ 140]
I diritti reali in generale e la proprietà
287
costruisce in adiacenza ad un’officina sa benissimo ex ante a quali
immissioni si espone).
Si è discusso — ma al quesito si tende ormai a fornire riposta Immissioni e
della
affermativa (v. Cass. 11 marzo 2019, n. 6906; Cass. 31 agosto 2018, n. tutela
salute e
21504) — se, al medesimo fine, rilevi (o, addirittura, risulti decisivo dell’ambiente
per escluderne la proseguibilità) il fatto che l’immissione sia tale da
arrecare pregiudizio alla salute dei soggetti operanti sul fondo che la
subisce, ovvero all’integrità dell’ambiente: tradizionalmente, infatti,
la disciplina delle immissioni è stata pensata solo ed esclusivamente
per regolare il conflitto tra usi proprietari incompatibili di fondi spazialmente vicini, non certo per la tutela di diritti fondamentali, affidata
invece alle regole della responsabilità extracontrattuale (artt. 2043 e
2058 c.c.: v. §§ 454 ss.; v. Cass., sez. un., 18 luglio 1985, n. 4263).
§ 140.
Le distanze legali.
Al fine di impedire che, fra immobili che si fronteggiano da fondi Nozione
appartenenti a proprietari diversi (v. Cass. 16 marzo 2017, n. 6855),
possano crearsi anguste intercapedini — in cui i rifiuti sono destinati
ad accumularsi e l’aria a ristagnare, con effetti negativi sulla vivibilità degli edifici e sulla salute dei loro utilizzatori (v. Cass. 16 febbraio
2017, n. 4190) — l’art. 873 c.c. dispone che « le costruzioni su fondi
finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza
non minore di tre metri » tra loro (v. Cass. 5 maggio 2016, n. 8935); e
ciò — si badi — a prescindere dalla circostanza che, in concreto, la
costruzione sia o meno idonea a creare intercapedini atte ad arrecare
pregiudizio all’igiene ed alla salubrità dell’ambiente (v. Cass. 5 maggio 2015, n. 8935).
Poiché volte unicamente ad evitare la creazione di intercapedini
antiigieniche e pericolose, le norme codicistiche in tema di distanze
legali sono derogabili mediante convenzioni tra privati; non così le
prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici locali, in quanto
dettate a tutela dell’interesse generale ad un prefigurato modello
urbanistico (v. Cass. 18 ottobre 2018, n. 26270; Cass. 11 settembre
2018, n. 22054; Cass. 2 marzo 2018, n. 5016).
Nessuna parte della costruzione (v. Cass. 26 febbraio 2019, n. Tutela
5607; Cass. 21 febbraio 2019, n. 5145) — con esclusione dei soli sporti
(ad es., i canali di gronda) (v. Cass. 2 ottobre 2018, n. 23845) — deve,
dunque, trovarsi a distanza inferiore rispetto a quella prescritta. Se
l’immobile risulta a distanza inferiore, il vicino può agire per la
rimozione dell’opera abusivamente realizzata, nonché per il risarci-
288
I diritti reali
[§ 140]
mento del danno sofferto (art. 872, comma 2, c.c.; v. Cass. 28
novembre 2018, n. 30761).
Anche quella volta al rispetto delle distanze legali costituisce
un’« azione reale », che conseguentemente va proposta nei confronti
dell’attuale proprietario della costruzione illegittima e non nei confronti del suo autore materiale (ad es., il precedente proprietario):
infatti, solo il primo può essere destinatario dell’ordine di demolizione, che tale azione tende a conseguire (v. Cass. 7 febbraio 2017, n.
3236).
L’art. 873 c.c. fa salva l’ipotesi in cui gli strumenti urbanistici
Distanze
previste negli
locali richiedano una distanza superiore ai tre metri previsti dal
strumenti
urbanistici codice civile.
In quest’ultimo caso:
a) se la previsione degli strumenti urbanistici risulta destinata
a disciplinare proprio le distanze tra costruzioni nei rapporti intersoggettivi di vicinato (v. Cass., sez. un., 24 settembre 2014, n. 20107)
— e, in quanto tale, da considerarsi come « richiamata » dall’art. 872,
comma 2, c.c. — la sua violazione legittima il vicino ad agire per la
rimozione dell’opera abusivamente realizzata (c.d. tutela ripristinatoria) e per il risarcimento del danno sofferto (c.d. tutela risarcitoria)
(art. 872, comma 2, c.c.; v. Cass. 29 ottobre 2018, n. 27364; Cass. 31
agosto 2018, n. 21501);
b) se la previsione degli strumenti urbanistici — pur importando la necessità di rispettare determinate distanze — risulta invece
dettata esclusivamente per la tutela di interessi generali (quali la
limitazione del volume, dell’altezza, della densità degli edifici; le
esigenze dell’igiene o della viabilità; la conservazione dell’ambiente;
ecc.), la sua violazione legittima il vicino ad agire solo per il risarcimento del danno (c.d. tutela risarcitoria), non per la riduzione in
pristino (v. Cass. 27 marzo 2013, n. 7752).
Il codice contempla, poi, tutta una serie di disposizioni (artt.
Muri
874-878 c.c.) aventi ad oggetto i muri che si trovino sul confine o nei
pressi del confine fra proprietà limitrofe. In particolare, va segnalata
la previsione secondo cui il proprietario confinante ha diritto di
acquisire — mediante sentenza costitutiva (v. § 119), ove l’altro
proprietario non vi consenta — la comproprietà del muro che si trovi
sul confine (art. 874 c.c.; v. Cass. 10 novembre 2015, n. 22909);
nonché, ma al solo scopo di fabbricare in appoggio allo stesso, il muro
che si trovi a distanza inferiore a un metro e mezzo dal confine
(ovvero a distanza inferiore alla metà di quella stabilita negli strumenti urbanistici locali) (art. 875 c.c.). Chi acquisisce la comproprietà
del muro deve all’altro confinante un importo pari alla metà del
[§ 140]
I diritti reali in generale e la proprietà
289
valore del muro e del suolo su cui insiste, nonché — nel caso in cui il
muro non si trovi sul confine — un importo pari al valore dell’area da
occupare con la nuova costruzione.
Nel sistema delineato dal codice, il confinante che costruisce per Principio di
primo finisce con il condizionare le scelte del vicino che successiva- prevenzione
mente voglia, a sua volta, costruire: c.d. « principio di prevenzione ».
(v. Cass. 22 febbraio 2019, n. 5146).
Invero, a chi edifica per primo è aperta una triplice alternativa:
(i) costruire rispettando una distanza dal confine pari ad almeno la
metà di quella imposta dalla legge; (ii) costruire sul confine; (iii) costruire ad una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta.
Il vicino che edifica successivamente: nell’ipotesi (i), deve costruire ad una distanza tale da rispettare il prescritto distacco legale
dalla costruzione preesistente; nell’ipotesi (ii), può chiedere la comunione forzosa del muro di confine ex art. 874 c.c., o realizzare il proprio
manufatto in aderenza allo stesso ex art. 877, comma 1, c.c., ovvero
ancora arretrare il suo edificio in misura pari all’intero distacco legale;
nell’ipotesi (iii), può chiedere la comunione forzosa del muro ed avanzare la propria costruzione fino ad esso, occupando lo spazio intermedio, dopo aver interpellato il proprietario se preferisca estendere il
muro a confine o procedere alla sua demolizione (art. 875 c.c.), o costruire in aderenza ex art. 877, comma 2, c.c., ovvero ancora rispettare
il distacco legale dalla costruzione del vicino (v. Cass., sez. un., 19
maggio 2016, n. 10318).
In considerazione del carattere potenzialmente dannoso che as- Pozzi,
e
sumono rispetto ai fondi vicini, il codice prevede altresì distanze mi- cisterne
tubi
nime dal confine per pozzi, cisterne, fosse e tubi (di acqua, gas e simili)
(art. 889 c.c.; v. Cass. 30 luglio 2018, n. 20046; Cass. 12 ottobre 2017,
n. 23973), nonché per fabbriche e depositi pericolosi o nocivi (art. 890
c.c.; v. Cass. 16 aprile 2018, n. 9267; Cass. 20 giugno 2017, n. 15246).
Inoltre, distanze minime, sempre dal confine, sono previste — in Fossi, canali e
considerazione del pericolo di frane che può derivarne — per fossi e piantagioni
canali (e, in genere, escavazioni non aventi carattere provvisorio)
(art. 891 c.c.); nonché — in considerazione dell’opportunità di evitare
al fondo del vicino possibili pregiudizi derivanti dal propagarsi delle
radici, dal protendersi dei rami, dall’immissione di ombra e umidità,
ecc. — per le piantagioni (artt. 892 ss. c.c.; v. Cass. 12 luglio 2018, n.
18439; Cass. 19 marzo 2018, n. 6765).
L’art. 896-bis c.c. ha introdotto la previsione di distanze minime Apiari
anche per gli apiari.
I diritti reali
290
§ 141.
[§ 141]
Le luci e le vedute.
Le aperture nel muro contiguo al fondo finitimo si distinguono in:
a) « vedute » (o « prospetti »), che sono quelle — ad es., finestre ad
Vedute:
nozione e
altezza d’uomo, balconi, terrazze, ecc. — che consentono, in condidisciplina
zioni di sufficiente comodità e sicurezza, non solo di guardare sul
fondo del vicino (« inspicere ») senza l’ausilio di mezzi meccanici (ad
es., scale, sgabelli, ecc.), ma anche di sporgere il capo su di esso
(« prospicere ») per vedere di fronte (c.d. « vedute dirette »), obliquamente (c.d. « vedute oblique ») e lateralmente (c.d. « vedute laterali »)
(art. 900 c.c.; v. Cass. 30 marzo 2018, n. 8010; Cass. 10 gennaio 2017,
n. 346). Il proprietario può sempre aprire vedute nel muro contiguo
al fondo altrui, ma — a tutela della riservatezza del fondo finitimo (v.
Cass. 9 agosto 2016, n. 16808) — deve rispettare le distanze minime
dal confine indicate negli artt. 905 e 906 c.c. (v. Cass. 31 gennaio
2017, n. 2533). Il proprietario del fondo contiguo non può chiuderle
(art. 907 c.c.); anzi, se costruisce sul suo, deve rispettare le distanze
minime indicate nell’art. 907 c.c. (v. Cass. 18 ottobre 2018, n. 26263;
Cass. 20 giugno 2017, n. 15244); e
b) « luci », che sono quelle aperture che, pur consentendo il
Luci: nozione
e disciplina
passaggio di aria e luce, non permettono tuttavia la vista (c.d.
« inspectio ») o, quanto meno, l’affaccio (c.d. « prospectio ») sul fondo
del vicino (v. Cass. 13 agosto 2014, n. 17950). All’uopo — a tutela
della sicurezza e della riservatezza del fondo contiguo — la legge
prescrive che la luce abbia determinate caratteristiche (sia dotata di
inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino; sia munita di
grata in metallo a maglie strette, onde evitare che oggetti possano
essere gettati sul fondo contiguo; l’apertura sia situata a determinate
altezze minime: art. 901 c.c.): c.d. « luce regolare ». Se un’apertura, che
non consenta di inspicere e prospicere in alienum, non rispetta dette
caratteristiche, costituisce pur sempre una luce (c.d. « luce irregolare ») (art. 902, comma 1, c.c.); ma il vicino ha il diritto di esigere, in
ogni momento, che la stessa sia resa « regolare » (art. 902, comma 2,
c.c.; v. Cass. 4 gennaio 2017, n. 113). Il proprietario ha sempre la
facoltà — espressione del suo diritto dominicale (e, quindi, imprescrittibile) — di aprire delle luci nel suo muro (art. 903, comma 1,
c.c.); tuttavia il vicino può, in ogni tempo, chiuderle, ma solo se
costruisce in aderenza o in appoggio al muro nel quale le luci — non
importa se regolari od irregolari — risultano aperte (art. 904 c.c.; v.
Cass. 4 dicembre 2014, n. 25635).
[§ 142]
I diritti reali in generale e la proprietà
§ 142.
291
Modi di acquisto della proprietà.
Nell’ambito dei modi di acquisto della proprietà si suole distin- Modi di
acquisto
guere tra:
α) modi d’acquisto « a titolo derivativo », che importano la suc- ... a titolo
cessione nello stesso diritto già appartenente ad altro soggetto, per cui derivativo
gli eventuali vizi che inficiavano il titolo del precedente proprietario
si riverberano anche sul successore; e
β) modi d’acquisto « a titolo originario », che determinano invece ... a titolo
la nascita di un diritto nuovo, del tutto indipendente rispetto a quello originario
prima eventualmente spettante sullo stesso bene ad altro precedente
proprietario (v. Cass. 6 ottobre 2017, n. 23453).
Sul problema della riconducibilità fra i primi o fra i secondi della
confisca si è pronunciata Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10534.
Modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo — di gran
lunga i più importanti — sono, come indica l’art. 922 c.c., il contratto
(v. §§ 264 ss.) e la successione a causa di morte (v. §§ 623 ss.), oltre che
l’espropriazione per pubblica utilità (v. § 133), la vendita forzata dei
beni del debitore (v. § 121), ecc.
Modi di acquisto della proprietà a titolo originario sono invece:
a) l’occupazione (artt. 923 ss. c.c.);
b) l’invenzione (artt. 927 ss. c.c.);
c) l’accessione (artt. 934 ss. c.c.);
d) l’usucapione (artt. 1158 ss. c.c.);
e) il possesso in buona fede di beni mobili (art. 1153 c.c.).
Di questi due ultimi istituti ci occuperemo, rispettivamente, ai
§§ 184 e 183, allorquando tratteremo del loro presupposto, costituito
dal « possesso ».
A) L’« occupazione » (artt. 923 ss. c.c.) consiste nella presa di Occupazione
possesso, con l’intenzione di acquisirle in via permanente e definitiva,
di cose mobili che non sono in proprietà di alcuno (c.d. « res nullius »:
ad es., i pesci che vivono allo stato naturale) o abbandonate (c.d. « res
derelictae »: ad es., gli oggetti lasciati nei cestini pubblici dei rifiuti).
Non sono invece suscettibili di occupazione — in quanto, se non
sono in proprietà di alcuno (sono, cioè, « vacanti »), « spettano al
patrimonio dello Stato » (art. 827 c.c.) — i beni immobili.
Eccezionalmente, possono acquistarsi per occupazione — anche
se non rientrano né nella categoria delle res nullius, né in quella delle
res derelictae — i mammiferi e gli uccelli facenti parte della fauna
selvatica (che, pur appartenendo al patrimonio indisponibile dello
Stato, vengono acquistati da chi li abbia abbattuti nell’ambito
dell’attività venatoria esercitata nel rispetto delle vigenti disposi-
292
I diritti reali
[§ 142]
zioni in materia: artt. 1 e 12, comma 6, L. 11 febbraio 1992, n. 157);
gli sciami d’api e gli animali mansuefatti sfuggiti al proprietario, di
cui chi li ritrova acquista la titolarità, se non vengono reclamati
tempestivamente (artt. 924 e 925 c.c.); i conigli, i pesci ed i colombi
che passano ad altra conigliera, peschiera o colombaia (art. 926 c.c.);
nonché — per consuetudine riconosciuta da molte leggi speciali — i
frutti spontanei (ad es., tartufi, funghi, ecc.).
B) L’« invenzione » (art. 927 ss. c.c.) riguarda solo le cose mobili
Invenzione
smarrite (di cui, cioè, il proprietario ignori il luogo in cui si trovano):
queste debbono essere restituite al proprietario o, qualora non se ne
conosca l’identità, consegnate al sindaco (art. 927 c.c.); trascorso un
anno, se la cosa è stata consegnata al sindaco e non si presenta il
proprietario, la proprietà spetta a colui che l’ha trovata (art. 929,
comma 1, c.c.). Se invece si presenta il proprietario, quest’ultimo
deve al ritrovatore un premio proporzionale al valore della cosa
smarrita ovvero, se la cosa non ha un valore commerciale, un premio
nella misura fissata dal giudice (artt. 929 e 930 c.c.; v. Cass. 11 agosto
2000, n. 10687).
Una particolare forma di invenzione è quella che riguarda il
Il tesoro
« tesoro » (per tale intendendosi una cosa mobile di pregio, nascosta o
sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario): esso
diviene immediatamente — senza, cioè, alcun obbligo di consegna
all’Autorità — di proprietà del titolare del fondo in cui si trova; ma,
se è trovato, per solo effetto del caso, nel fondo altrui, spetta per
metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore (art. 932 c.c.).
Diversa disciplina è dettata per i c.d. « beni culturali » (v. § 134):
da chiunque e in qualunque modo ritrovati nel sottosuolo o sui
fondali marini, essi appartengono allo Stato (art. 91, comma 1,
D.Lgs. n. 42/2004); al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il
ritrovamento e allo scopritore fortuito compete, però, un premio
(artt. 92 ss. D.Lgs. n. 42/2004; v. Cass., sez. un., 7 marzo 2011, n.
5353).
C) L’« accessione » (artt. 934 ss. c.c.) opera in caso di stabile
Accessione
incorporazione — per opera dell’uomo od anche per evento naturale
— di beni di proprietari diversi: in tale ipotesi, di regola, il proprietario della cosa principale acquista la proprietà delle cose che vengono in essa incorporate.
Al riguardo, occorre distinguere fra:
a) accessione di mobile ad immobile (artt. 934 ss. c.c.);
b) accessione di immobile ad immobile (artt. 941 ss. c.c.);
c) accessione di mobile a mobile (artt. 939 e s. c.c.).
[§ 142]
I diritti reali in generale e la proprietà
293
a) L’accessione di mobile ad immobile importa — in applicazione Accessione di
ad
del principio per cui la proprietà del suolo si estende verticalmente mobile
immobile
allo spazio sovrastante (v. § 136) — che, di regola, « qualunque
piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo
appartiene al proprietario di questo » (art. 934 c.c.). Il proprietario
del suolo — senza necessità di una sua dichiarazione di volontà, e
senza neppure bisogno che egli lo sappia — acquista ex lege (v. Cass.
29 ottobre 2018, n. 27412) la proprietà di quanto (ad es., l’albero
piantato, la costruzione edificata, ecc.) nello stesso suolo venga da
chiunque incorporato: superficies solo cedit (v. Cass. 15 novembre
2018, n. 29457). Il suolo è sempre considerato « cosa principale »,
quand’anche le cose incorporate dovessero avere un valore di mercato maggiore.
Siffatta regola — peraltro derogabile per volontà delle parti
(art. 934 c.c.), mediante costituzione di un « diritto di superficie » (v.
§ 145) — importa la necessità di contemperare i contrapposti interessi
del proprietario del suolo (che, per l’operare del principio dell’accessione, acquista la proprietà dei materiali impiegati sul suo fondo) con
quelli del proprietario di questi ultimi, se diverso (che correlativamente, quale riflesso dell’operare del medesimo principio dell’accessione, perde la proprietà su detti beni): allo scopo provvedono —
dettando una disciplina complessa ed articolata — gli artt. 935, 936
e 937 c.c. (v. Cass. 16 gennaio 2019, n. 904; Cass. 17 marzo 2017, n.
6973; Cass. 9 febbraio 2017, n. 3523).
Per l’operatività delle regole in tema di accessione anche in
ipotesi di costruzione realizzata da uno dei comproprietari su suolo
comune v. Cass., sez. un., 16 febbraio 2018, n. 3873.
La regola secondo cui « superficies solo cedit » viene peraltro Accessione
derogata — anzi, ribaltata (nel senso che è il suolo a « cedere » a invertita
quanto in esso impiantato) — in ipotesi di c.d. « accessione invertita »
(art. 938 c.c.), che si configura allorquando, nel realizzare una costruzione, il proprietario finitimo sconfina sul fondo altrui, sicché l’edificio viene ad insistere a cavallo tra due fondi (v. Cass. 6 novembre
2014, n. 23707). Ora — (i) se la parte realizzata sul terreno altrui non
ha una propria autonomia funzionale; (ii) se l’autore dello sconfinamento opera nel ragionevole convincimento di edificare sul proprio
suolo (c.d. buona fede: v. Cass. 12 aprile 2018, n. 9093); (iii) se il
proprietario del fondo occupato non fa opposizione entro tre mesi dal
giorno in cui la costruzione sul suo fondo ha avuto inizio — il
proprietario « sconfinante » può chiedere che il giudice, con sentenza
costitutiva (v. § 119), gli trasferisca la proprietà del suolo occupato
(con la sovrastante porzione immobiliare) a fronte del pagamento, a
294
I diritti reali
[§ 142]
favore del confinante, di una somma pari al doppio del valore della
superficie occupata (v. Cass. 14 febbraio 2017, n. 3899).
b) L’accessione di immobile ad immobile si articola nelle seguenti
Accessione di
immobile ad
figure:
immobile
— l’« alluvione », che consiste nell’accrescimento — successivo
... alluvione
ed impercettibile — dei fondi rivieraschi di fiumi e torrenti per
l’azione naturale dell’acqua corrente: siffatti terreni alluvionali appartengono al proprietario del fondo incrementato (art. 941 c.c.; v.
Cass., sez. un., 1° marzo 2016, n. 4013);
— l’« avulsione », che consiste nell’unione al fondo rivierasco di
... avulsione
porzioni di terreno, considerevoli e riconoscibili, staccatesi da altro
fondo per forza istantanea dell’acqua corrente: dette porzioni di
terreno appartengono al proprietario del fondo incrementato, che è
peraltro tenuto a pagare all’altro proprietario un’indennità nei limiti
del maggior valore recato al suo fondo dall’avulsione (art. 944 c.c.).
Non costituiscono più — oggi — ipotesi di accessione né quella
dei terreni abbandonati dalle acque correnti (art. 942 c.c.), né quella
del c.d. « alveo derelitto » (cioè, i terreni abbandonati dalle acque di
un fiume che si forma un nuovo letto) (art. 946 c.c.), né quella delle
isole che si formano nel letto di fiumi o torrenti (art. 945 c.c.): detti
beni vengono, ora, a far parte del demanio pubblico (artt. 942, 945 e
946 c.c.; v. § 95).
c) L’accessione di mobile a mobile dà luogo alle seguenti figure:
Accessione di
mobile a
— l’« unione » (o « commistione »), che consiste nella congiunmobile
zione di beni mobili appartenenti a proprietari diversi che vengono a
... unione formare un tutto inseparabile senza dar luogo ad una « cosa nuova »:
la proprietà diventa comune. Se, però, una delle due cose si può
considerare principale o è molto superiore per valore, il suo proprietario acquista la proprietà del tutto; salvo l’obbligo di corrispondere
all’altro una somma di danaro calcolata secondo i criteri indicati
dall’art. 939 c.c.: in quest’ultima ipotesi ricorre il fenomeno dell’« accessione » (v. Cass. 13 giugno 2002, n. 8479);
— la « specificazione », che consiste nella creazione di una cosa
... specificazione
del tutto nuova con beni mobili appartenenti ad altri (ad es., produco
sapone con materie prime altrui): qui si ha trasformazione della
materia mediante l’opera umana. Il codice ha dato conseguentemente importanza all’elemento « lavoro »: infatti, se è superiore il
valore della mano d’opera, la proprietà spetta allo specificatore
(salvo l’obbligo di pagare al proprietario il prezzo della materia);
altrimenti prevale il diritto del proprietario della materia (che, peraltro, deve pagare il prezzo della mano d’opera) (art. 940 c.c.).
[§ 143]
I diritti reali in generale e la proprietà
§ 142-bis.
295
Perdita della proprietà.
La proprietà si perde, innanzitutto, in forza di un atto di dispo- Atti
sizione (ad es., vendita, donazione, ecc.) posto in essere dal suo titolare, dispositivi
che ne determini il trasferimento a favore di terzi (nei nostri esempi,
l’acquirente, il donatario, ecc.), che la acquisiscono a titolo derivativo.
Si perde altresì in conseguenza dell’acquisto che altri ne faccia Usucapione
da parte di
per usucapione (v. § 184).
terzo
Si tende ad ammettere — argomentando ex artt. 827, 882, Rinuncia
comma 2, 888, 923, comma 2, 1070, 1104, comma 1, 1350, n. 5, e 2643,
n. 5, c.c. — che la proprietà possa estinguersi per rinuncia da parte
del suo titolare.
Nel caso in cui la proprietà abbia ad oggetto un bene mobile, la
rinuncia può avvenire anche per facta concludentia (ad es., abbandonando il bene in discarica); nell’ipotesi in cui abbia invece ad oggetto
un bene immobile, l’atto di rinuncia deve rivestire la forma scritta
(art. 1350, n. 5, c.c.) ed essere trascritto nei pubblici registri immobiliari (art. 2643, n. 5, c.c.).
In seguito alla rinuncia, nel primo caso, il bene diviene res derelicta,
suscettibile di acquisto per occupazione (artt. 923 ss. c.c.); nel secondo,
viene acquisito ex lege (ex art. 827 c.c.) al patrimonio dello Stato.
§ 143.
Azioni a difesa della proprietà.
A difesa della proprietà sono esperibili le c.d. « azioni petitorie » Azioni
(che — si dice — hanno natura reale, in quanto volte a far valere un petitorie
diritto reale); e cioè:
a) l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.);
b) l’azione di mero accertamento della proprietà;
c) l’azione negatoria (art. 949 c.c.);
d) l’azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.);
e) l’azione per apposizione di termini (art. 951 c.c.).
A) L’« azione di rivendicazione » (c.d. reivindicatio) (art. 948 c.c.) Azione di
è concessa a chi si afferma proprietario di un bene, ma non ne ha il rivendicazione
possesso (v. §§ 174 ss.), al fine di ottenere, da un lato, l’accertamento
del suo diritto di proprietà sul bene stesso e, da altro lato, la condanna
di chi lo possiede o detiene alla sua restituzione (v. Cass. 12 novembre
2015, n. 23121).
Legittimato attivamente è, perciò, chi sostiene di essere proprie- Legittimatario del bene, senza trovarsi nel possesso della cosa (v. Cass. 11 zione
gennaio 2017, n. 472).
296
I diritti reali
[§ 143]
Legittimato passivamente è colui che, avendo il possesso o la
detenzione (v. § 176) della cosa, ha la c.d. facultas restituendi (v. Cass.
4 ottobre 2018, n. 24260). Il detentore, peraltro, ove sia convenuto
con la reivindicatio, può chiedere di essere estromesso dal giudizio,
indicando il soggetto in nome del quale egli detiene la cosa (c.d.
laudatio auctoris: art. 1586 c.c.), in modo che l’attore possa proseguire
l’azione contro quest’ultimo. È sufficiente che il convenuto possieda
o detenga la cosa al momento della domanda giudiziale: se successivamente abbia cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la
cosa (ad es., perché l’ha ceduta a terzi), l’azione può essere legittimamente proseguita nei suoi confronti, anche se non potrà più avere
l’effetto restitutorio del possesso che le è proprio. Il convenuto — in
quanto dolo desiit possidere — sarà obbligato a recuperare la cosa per
l’attore a proprie spese, ovvero, in mancanza, a corrispondergliene il
valore, oltre a dovergli in ogni caso risarcire il danno. Comunque, il
proprietario può sempre rivolgersi direttamente contro il nuovo
possessore, al fine di ottenere direttamente da quest’ultimo la restituzione del bene.
Causa
Poiché chi agisce in rivendica fa valere — come si è detto — il
petendi
suo (asserito) diritto di proprietà, ai fini della domanda, irrilevante è il
titolo (se, ad es., un determinato contratto, o l’usucapione, ecc.) dallo
stesso eventualmente indicato come fonte di esso (sicché, ad es., dopo
aver sostenuto di aver acquistato il bene in forza di una compravendita, ben potrebbe successivamente allegarne l’intervenuta usucapione; così come il giudice potrebbe accogliere la domanda sulla
scorta di un titolo diverso da quello invocato dall’attore): la proprietà
— come, del resto, anche gli altri diritti reali di godimento (v. §§ 144
ss.) — appartiene, infatti, alla categoria dei c.d. « diritti autodeterminati », individuati cioè in base alla sola indicazione del loro contenuto, e non anche in base al titolo che ne costituisce la fonte (v. Cass.
17 ottobre 2017, n. 24435).
Prova
Per quel che riguarda la prova, l’attore — in conformità alle regole
generali (art. 2697 c.c.; v. § 123) — ha l’onere di dimostrare il suo diritto
di proprietà (v., da ultimo, Cass. 24 aprile 2018, n. 10066). All’uopo, se
l’acquisto è a titolo originario, gli sarà sufficiente fornire la prova di tale
titolo (ad es., l’intervenuta usucapione, l’accessione, ecc.). Se, invece,
l’acquisto è a titolo derivativo (ad es., compravendita), non basterà la
produzione in giudizio del suo titolo di acquisto (ad es., il relativo rogito
notarile), in quanto l’alienante potrebbe non essere stato il proprietario
del bene e, quindi, legittimato a trasferirne la titolarità all’acquirente
(v. Cass. 10 settembre 2018, n. 21940); sicché l’attore dovrà dare la
prova — oltre che del suo titolo di acquisto — anche del titolo di
[§ 143]
I diritti reali in generale e la proprietà
297
acquisto dei precedenti titolari, fino ad arrivare ad un acquisto a titolo
originario: a voler andare all’infinito, la prova potrebbe rivelarsi, se non
addirittura impossibile, estremamente difficile (c.d. probatio diabolica). Tanto più che la prova della proprietà di beni immobili non può
essere utilmente fornita con la produzione dei relativi certificati catastali (v. Cass. 30 aprile 2014, n. 9523).
In proposito, soccorrono, però, due istituti:
— rispetto ai beni mobili (non registrati), sarà sufficiente che
l’attore provi che — quand’anche avesse acquistato la cosa da chi
non ne era il legittimo proprietario (c.d. acquisto a non domino) — ne
avrebbe comunque acquisito la proprietà per effetto della regola
« possesso vale titolo » (art. 1153 c.c.; v. § 183), avendo a suo tempo
ricevuto, in buona fede ed in base ad un titolo idoneo al trasferimento
della proprietà, il possesso del bene di cui ora lamenta di non avere
il godimento;
— rispetto ai beni immobili — ed ai beni mobili relativamente ai
quali non possa dimostrarsi l’operatività della regola « possesso vale
titolo » — occorrerà invece che l’attore provi che, quand’anche
avesse acquistato a non domino, avrebbe comunque acquisito la
proprietà della cosa per usucapione (artt. 1158 ss. c.c.; v. § 184),
avendone avuto — in via diretta ovvero attraverso i propri danti
causa (in forza del principio della successione e dell’accessione nel
possesso; art. 1146 c.c.; v. § 180) — il possesso continuato per il tempo
necessario al maturarsi dell’usucapione stessa.
Peraltro, l’onere probatorio normalmente gravante su chi agisce
in rivendica può attenuarsi in relazione alla linea difensiva adottata
dal convenuto (che, ad es., non contesti l’originaria appartenenza del
bene conteso all’attore ovvero ad un comune dante causa) (v. Cass.
14 dicembre 2016, n. 25793).
Il convenuto si trova — sempre per quel che riguarda la prova
— in una posizione molto più comoda rispetto a quella dell’attore:
egli può limitarsi a dire « possideo quia possideo » ed attendere che
l’attore provi il suo diritto (v. Cass. 7 giugno 2018, n. 14734).
L’azione di rivendicazione è imprescrittibile (v. § 112), perché Imprescrittianche il non uso è una manifestazione dell’ampiezza di poteri che bilità
spettano al proprietario. Essa dev’essere però rigettata, se il convenuto dimostra di avere acquistato la proprietà della cosa per usucapione (art. 948, comma 3, c.c.; v. § 184).
Per quanto riguarda — in caso di accoglimento della domanda
di rivendica — gli obblighi connessi con la riconsegna della cosa
(restituzione dei frutti ed eventuali rimborsi spettanti al possessore),
v. § 182.
298
I diritti reali
[§ 143]
Dall’« azione di rivendicazione » si distingue l’« azione di restituzione » (v. Cass., sez. un., 28 marzo 2014, n. 7305): la prima — di
carattere reale — presuppone che colui che si afferma proprietario
pretenda la consegna del bene proprio per il fatto di esserne proprietario; l’azione di restituzione — di natura personale — presuppone,
invece, che l’attore agisca in giudizio vantando un diritto alla restituzione nascente da un rapporto contrattuale (ad es., il diritto alla
restituzione dell’autoveicolo consegnato al meccanico per una riparazione), ovvero dalla sua risoluzione (ad es., il diritto alla restituzione della cosa consegnata in esecuzione di un contratto di compravendita risolto per mancato pagamento del prezzo), ovvero ancora
dalla sua scadenza (ad es., il diritto alla restituzione dell’appartamento per finita locazione), ecc. Nell’azione di restituzione non
occorre — ovviamente — la prova del diritto di proprietà; basta
quella del diritto alla restituzione (v. Cass. 10 ottobre 2018, n. 25052).
B) L’« azione di mero accertamento della proprietà » è dalla giuriAzione di
mero
sprudenza riconosciuta a chi — abbia o non abbia il possesso della
accertamento
cosa — ha interesse (ad es., perché altri glielo contesta) ad una
pronuncia giudiziale che affermi, con l’efficacia del giudicato (v. §
120), il suo diritto di proprietà su un determinato bene: l’azione è
rivolta non già — come invece la reivindicatio — a recuperare la cosa
(che, magari, è già nel possesso dell’attore), ma semplicemente a
rimuovere la situazione di incertezza venutasi a creare in ordine alla
proprietà di essa (v. Cass. 13 marzo 2009, n. 6258). L’attore ha l’onere
di offrire la prova rigorosa della sua proprietà, non diversamente da
quanto richiesto per l’azione di rivendicazione (v. Cass. 18 gennaio
2017, n. 1210), salvo che si trovi nel legittimo possesso del bene; nel
qual ultimo caso deve allegare e provare solo il proprio titolo di
acquisto (v. Cass. 16 maggio 2016, n. 9959; Cass. 30 dicembre 2011, n.
30606).
C) L’« azione negatoria » (c.d. actio negatoria servitutis) (art. 949
Azione
negatoria
c.c.) è concessa al proprietario di un bene al fine di ottenere l’accertamento dell’inesistenza di diritti reali vantati da terzi sul bene
stesso (ad es., Tizio sostiene di essere titolare di una servitù di
passaggio sul mio fondo: v. Cass. 5 dicembre 2018, n. 31382; Cass. 11
settembre 2018, n. 22050), oltre che — nell’ipotesi in cui le relative
pretese si siano tradotte nella realizzazione di opere e/o nel compimento di atti corrispondenti all’esercizio di detti diritti — la condanna alla rimozione di dette opere ed alla cessazione delle molestie
e turbative poste in essere, nonché al risarcimento del danno (v. Cass.
9 gennaio 2017, n. 203).
Azione di
restituzione
[§ 143]
I diritti reali in generale e la proprietà
299
Per quel che riguarda la prova — poiché l’azione negatoria è di- Prova
retta non già all’accertamento della proprietà di chi agisce, bensì soltanto al riconoscimento della libertà del bene da diritti di terzi —
l’attore non deve fornire la prova rigorosa della proprietà sul bene
stesso, come accade invece in caso di rivendicazione (v. Cass. 11 gennaio 2017, n. 472). È sufficiente che dimostri un valido titolo di acquisto
(ad es., il rogito notarile in forza del quale ha comprato l’immobile);
sarà il convenuto a dover, se vuole ottenere il rigetto dell’azione, dimostrare l’esistenza del diritto che vanta (Cass. 7 gennaio 2017, n. 203).
Tale ultima regola costituisce una conseguenza, sul piano probatorio,
del principio secondo cui il diritto di proprietà non incontra limiti che
non siano stabiliti dalla legge o dalla volontà del proprietario: essa, cioè,
si presume libera da pesi. Incombe, pertanto, a chi sostiene l’esistenza
di limitazioni l’onere di fornirne la dimostrazione.
Anche l’azione negatoria — essendo posta a tutela del diritto di Imprescritproprietà — è imprescrittibile (v. § 112). Ma dovrà essere rigettata, tibilità
qualora il convenuto dovesse dimostrare di aver acquistato il diritto
vantato per usucapione (v. § 184).
D) L’« azione di regolamento di confini » presuppone l’incertezza Azione di
— oggettiva od anche solo soggettiva — del confine tra due fondi (v. regolamento
dei confini
Cass. 8 febbraio 2013, n. 3130): i rispettivi titoli di proprietà delle
parti non sono contestati; incerta è solo l’estensione delle proprietà
contigue (e, quindi, l’esatta allocazione della linea di confine; v. Cass.
15 maggio 2018, n. 11822). Si ha dunque — si suol dire — un
« conflitto tra fondi », non già un « conflitto di titoli » (v. Cass. 25
settembre 2018, n. 22645; Cass. 24 aprile 2018, n. 10066). L’azione —
che spetta al proprietario nei confronti del confinante — è volta,
appunto, ad accertare giudizialmente l’esatta collocazione del confine tra due fondi contigui ed, eventualmente, ad ottenere la condanna alla restituzione della striscia di terreno che, dalla fissazione
della linea di confine, dovesse risultare posseduta dal non proprietario (v. Cass. 11 luglio 2016, n. 14131; Cass. 30 marzo 2016, n. 6148).
La prova dell’ubicazione del confine può essere fornita con ogni Prova
mezzo; in mancanza di altri elementi, il giudice si atterrà al confine
delineato dalle mappe catastali (art. 950 c.c.; v. Cass. 24 aprile 2018,
n. 10062; Cass. 6 giugno 2017, n. 14020).
Anche l’azione di regolamento di confini — essendo pur essa Imprescrittiposta a tutela del diritto di proprietà — è imprescrittibile (v. § 112; v. bilità
Cass. 27 febbraio 2008, n. 5134).
E) L’« azione per apposizione di termini » (art. 951 c.c.) — a Azione di
differenza della precedente — presuppone la certezza del confine (v. apposizione
di termini
Cass. 30 aprile 2014, n. 9512) e serve a far apporre o a ristabilire i
300
I diritti reali
[§ 143]
segni lapidei, simboli del confine tra due fondi, che manchino o siano
divenuti irriconoscibili (v. Cass. 8 aprile 2011, n. 8100).
Azioni
Le azioni fin qui esaminate si chiamano « azioni petitorie » per
petitorie e distinguerle da quelle a tutela del possesso: c.d. « azioni possessorie »
azioni
possessorie (v. §§ 185 ss.).
CAPITOLO XIV
I DIRITTI REALI DI GODIMENTO
§ 144.
Generalità.
I « diritti reali su cosa altrui » non costituiscono — come già si è I diritti reali
visto (v. § 131) — una parte o frazione del diritto di proprietà, ma su cosa altrui
una limitazione del diritto medesimo (v. Cass. 9 ottobre 2017, n.
23547).
Si è anche detto che i diritti reali su cosa altrui si distinguono in Diritti reali di
e
« diritti reali di godimento » (che comprimono il potere di godimento godimento
diritti reali di
che spetta al proprietario) e « diritti reali di garanzia » (che — in garanzia
funzione di garanzia di crediti di terzi — comprimono, di fatto, il
potere di disposizione che spetta al proprietario).
Di questi ultimi si tratterà ai successivi §§ 238 ss.
I diritti reali di godimento — che, come i diritti reali in genere,
costituiscono un numerus clausus (v. § 131; v., da ultimo, Cass. 18
gennaio 2019, n. 1254) — sono: la superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto,
l’uso, l’abitazione, la servitù prediale.
I diritti di superficie, enfiteusi, abitazione e servitù possono Oggetto dei
reali di
avere ad oggetto solo beni immobili; i diritti di usufrutto e di uso diritti
godimento
possono avere ad oggetto anche beni mobili.
Ci si interroga se — e, in caso di risposta affermativa, in che Diritti reali di
e
limiti — alle parti sia concesso di derogare alle regole dettate dal godimento
autonomia
codice in tema di diritti reali di godimento. La giurisprudenza è, privata
infatti, ormai giunta ad ammettere che « il divieto di costituire diritti
in re aliena diversi da quelli previsti dal codice limita la libertà
contrattuale in relazione alla struttura del diritto reale, non al
contenuto dello stesso » (così Cass. 4 gennaio 2013, n. 100). È evidente
che, in quest’ottica, spazi non marginali si aprono all’autonomia
privata — anche laddove manchi una esplicita previsione in tal senso
(v. artt. 957, 964, 965, 980, 1030, 1042, 1063, 1069, ecc.) — nel
momento in cui si tratta di conformare il concreto contenuto di
diritti reali pur tipizzati dal legislatore.
Nel prosieguo del discorso, ci atterremo alle regole — non
importa se derogabili o meno — dettate dal codice.
I diritti reali
302
[§ 145]
A) LA SUPERFICIE
§ 145.
Nozione e disciplina.
Per comprendere quest’istituto, occorre ricordare che — per il
principio dell’accessione (v. § 142) — tutto ciò che è stabilmente
incorporato sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario del suolo
medesimo (art. 934 c.c.).
Peraltro, questa regola subisce una deroga, allorquando venga
attribuito a soggetto diverso dal proprietario il « diritto di superficie »
(artt. 952 ss. c.c.).
La superficie consiste alternativamente (art. 952 c.c.; v. Cass. 9
ottobre 2017, n. 23547):
a) nel diritto (c.d. « concessione ad aedificandum ») di costruire,
Concessione
ad
al
di
sopra del suolo altrui, un’opera, di cui il superficiario, quando
aedificandum
l’abbia realizzata, acquista — a titolo originario — la proprietà (c.d.
« proprietà superficiaria ») separata da quella del suolo, la quale
ultima (c.d. « nuda proprietà ») resta invece al concedente; ovvero
b) nella proprietà separata (c.d. « proprietà superficiaria ») di
Proprietà
separata
una costruzione già esistente, di cui un soggetto diverso dal proprietario diviene titolare, mentre la proprietà del suolo (c.d. « nuda
proprietà ») resta al concedente.
Una separazione analoga si può stabilire per il sottosuolo (ad es.,
Sottosuolo e
piantagioni
nel caso in cui io conceda al terzo di realizzare nel sottosuolo del mio
immobile un parcheggio sotterraneo, con diritto di conservarne la
proprietà, poniamo, per cinquant’anni) (art. 955 c.c.), ma non per le
piantagioni (art. 956 c.c.).
È importante tenere distinte le due ipotesi sopra delineate di
Disciplina
diritto di superficie.
Così ad es.:
— se la costruzione ancora non esiste, non si ha che un diritto
reale su cosa altrui; con la conseguenza che la concessione ad aedificandum si estingue se il titolare non costruisce per vent’anni (art.
954, comma 4, c.c.; v. Cass. 7 aprile 2014, n. 8084);
— se la costruzione già esiste, si ha invece una proprietà della
costruzione separata da quella del suolo; e, quindi, non è concepibile
l’estinzione per non uso, che non si concilia con la natura del diritto
di proprietà.
La superficie può essere perpetua ovvero a termine: in quest’ulPerpetuità e
temporaneità
timo caso, alla scadenza la proprietà della costruzione passa —
L’accessione
[§ 145]
I diritti reali di godimento
303
gratuitamente (salvo patto contrario) — al proprietario del suolo
(art. 953 c.c.).
Modi di acquisto della superficie sono il contratto (sia a titolo Modi di
oneroso che gratuito), il testamento e — almeno una volta realizzate, acquisto
attraverso l’esecuzione della costruzione, opere visibili di attuazione
del diritto — l’usucapione. Posto che il diritto di superficie ha
necessariamente ad oggetto beni immobili, il relativo contratto costitutivo (così come quello che lo modifica o lo trasferisce) richiede la
forma scritta ad substantiam (art. 1350, n. 2, c.c.; v. Cass., sez. un., 16
febbraio 2018, n. 3873) ed è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 2,
c.c.).
Il superficiario ha la libera disponibilità della costruzione, che — Poteri del
come si è detto — altro non è che di sua proprietà: può alienarla, superficiario
costituire sulla stessa diritti reali (ad es., iscrivere ipoteca: art. 2810,
comma 1 n. 3, c.c.), concederla in godimento a terzi (ad es., darla in
locazione), ecc.
Il superficiario — in ragione della natura « proprietaria » del suo Azioni a
diritto — è legittimato ad esperire le azioni a tutela della « proprietà tutela
superficiaria » (ad es., l’actio negatoria servitutis: v. Cass. 17 ottobre
2013, n. 23593).
L’estinzione della superficie si verifica per scadenza del termine Estinzione
(se a tempo determinato), confusione (cioè, riunione di superficie e
nuda proprietà in capo ad un medesimo soggetto), rinunzia, prescrizione ventennale (se trattasi di concessione ad aedificandum; v. Cass.
29 gennaio 2018, n. 2092) (art. 954 c.c.).
Salva diversa pattuizione, il perimento della costruzione non Perimento
estingue il diritto di superficie (art. 954, comma 3, c.c.): ciò si spiega, della
costruzione
considerando che la costruzione non è che una estrinsecazione del
diritto di superficie e non si confonde con esso. Perciò il superficiario
può ricostruire sul suolo in base al diritto di superficie concessogli.
Con l’estinzione della superficie, il diritto del proprietario (nudo) Effetti
si estende alla costruzione eseguita dal superficiario (v. Cass. 9 dell’estinzione
ottobre 2017, n. 23547).
Se l’estinzione avviene per scadenza del termine, i diritti reali di
godimento gravanti sul suolo si estendono alla costruzione, mentre
quelli eventualmente costituiti dal superficiario si estinguono (art.
954, comma 1, c.c.), ad eccezione della servitù costituita a favore
della costruzione (arg. ex art. 1078 c.c.). Se l’estinzione avviene,
invece, per altre cause, si ritiene che i diritti reali di godimento
eventualmente costituiti, rispettivamente, dal nudo proprietario e
dal superficiario continuino a gravare separatamente sui beni già
I diritti reali
304
[§ 146]
oggetto dei diritti di ciascuno. Per quanto riguarda l’ipoteca dispone
l’art. 2816 c.c.
La prassi
Il diritto di superficie trova — specie di recente — ampia
applicazione nella pratica: ad es., negli edifici condominiali (in cui —
mentre la proprietà del suolo compete, in comunione pro indiviso, a
tutti i condòmini — la proprietà delle singole unità immobiliari
compete, in via esclusiva, a ciascuno di essi: v. § 169); negli immobili
di edilizia economico-popolare (in cui — mentre la proprietà del suolo
va a far parte del patrimonio indisponibile della P.A. — la proprietà
delle singole unità immobiliari appartiene, in via esclusiva, a ciascun
acquirente per un massimo di novantanove anni: art. 35 L. 22
ottobre 1971, n. 865); nella realizzazione di parcheggi al di sotto del
suolo pubblico (in cui — mentre la proprietà dell’area compete alla
P.A. — la proprietà dell’edificando autosilo viene sovente concessa,
per un periodo di tempo determinato, al privato che lo costruisce,
affinché, attraverso il ricavato dalla gestione dell’autosilo stesso,
possa recuperare l’investimento effettuato); ecc.
B) L’ENFITEUSI
§ 146.
Nozione e disciplina.
L’enfiteusi ebbe notevole sviluppo nel Medio Evo. Il codice del
1865 la considerò con sfavore. Il legislatore del 1942 cercò di imprimere nuova vita all’istituto, convinto che esso potesse rendere ancora
servizi utili all’economia: ma non sembra che tali aspettative si siano
realizzate.
Nozione
L’« enfiteusi » attribuisce al soggetto a cui favore è costituita
(c.d. enfiteuta, o utilista, o concessionario) lo stesso potere di godimento
che, su un bene immobile, spetta al proprietario, salvo l’obbligo di
migliorare il fondo e pagare al proprietario stesso (c.d. nudo proprietario, o direttario, o concedente) un canone periodico — che può
consistere in danaro o in una quantità fissa di prodotti naturali —
(art. 960 c.c.), nei limiti fissati da leggi speciali (L. 22 luglio 1966, n.
607; L. 18 dicembre 1970, n. 1138; L. 14 giugno 1974, n. 270).
A differenza dell’usufruttuario (v. § 147), l’enfiteuta può anche
mutare la destinazione del fondo (ad es., modificare il tipo di coltivazione in essere, edificarvi costruzioni, destinarlo ad attività industriali, commerciali, turistiche, ecc.), purché non lo deteriori.
L’enfiteusi
nel codice
civile
[§ 147]
I diritti reali di godimento
305
Il potere di godimento che, per effetto della costituzione di
enfiteusi, spetta all’enfiteuta si suol denominare dominio utile: al
nudo proprietario compete il dominio diretto che, in concreto, si
riduce a ben poca cosa (il diritto al canone). Perciò alcuni — ponendosi il problema relativo alla natura dell’enfiteusi — giungono ad
affermare che, dal punto di vista giuridico, l’enfiteuta si dovrebbe
ritenere il « vero » proprietario del fondo, mentre il diritto del concedente si configurerebbe come un diritto reale al canone.
L’enfiteusi può essere perpetua (a differenza dei diritti di usu- Perpetuità e
frutto, uso e abitazione che hanno sempre durata temporanea) o a temporaneità
tempo (ma non può mai avere durata inferiore a 20 anni: se si
consentisse un termine più breve, nessuno sarebbe invogliato ad
assumere l’obbligo del miglioramento) (art. 958 c.c.).
L’enfiteuta può disporre liberamente del proprio diritto sia per Potere di
atto inter vivos che mortis causa (art. 965 c.c.), così come può disposizione
costituire su di esso diritti reali limitati.
Modi di acquisto dell’enfiteusi sono il contratto (a forma neces- Modi di
sariamente scritta: art. 1350, n. 2, c.c.), il testamento e l’usucapione. acquisto
La legge attribuisce:
a) all’enfiteuta il c.d. potere di affrancazione, per effetto del Affrancazione
quale lo stesso acquista la piena proprietà del fondo mediante il
pagamento, a favore del concedente, di una somma di danaro (art.
971 c.c.; v. Cass. 26 maggio 2014, n. 11700; Cons. Stato 17 aprile 2014,
n. 3932/13);
b) al concedente il c.d. potere di devoluzione, per effetto del quale Devoluzione
lo stesso — in caso di inadempimento, da parte dell’enfiteuta, all’obbligo di non deteriorare il fondo od a quello di migliorarlo, ovvero
all’obbligo di pagare il canone — libera il fondo dal diritto enfiteutico
(art. 972 c.c.; v. Cass. 19 ottobre 2018, n. 26520).
C) L’USUFRUTTO, L’USO E L’ABITAZIONE
§ 147.
L’usufrutto: nozione.
L’« usufrutto » consiste nel diritto di godere della cosa altrui con Il contenuto
l’obbligo, però, di rispettarne la destinazione economica: ius utendi del diritto
fruendi salva rerum substantia (art. 981 c.c.). L’usufruttuario può,
dunque, trarre dalla cosa tutte le utilità che ne può trarre il proprietario, ma se, per es., l’usufrutto ha per oggetto un’area, non può
306
I diritti reali
[§ 147]
costruirvi; se ha per oggetto un giardino o un parco, non può
trasformarvi in un orto o in un frutteto, ecc.
L’usufrutto ha necessariamente durata temporanea, perché non
Temporaneità
presenterebbe alcuna utilità pratica la proprietà del concedente (c.d.
« nuda proprietà »), se la facoltà di godimento le fosse definitivamente
sottratta (v. Cass. 12 maggio 2011, n. 10453).
Così:
a) se costituito a favore di una persona fisica, l’usufrutto — ove
il titolo costitutivo non preveda una durata inferiore — s’intende per
tutta la durata della vita dell’usufruttuario; in ogni caso, la morte di
quest’ultimo determina l’estinzione del diritto, quand’anche non
fosse ancora scaduto il termine finale eventualmente previsto;
b) se costituito a favore di una persona giuridica, ovvero di un
ente non personificato (ad es., un’associazione non riconosciuta), la
durata dell’usufrutto non può essere superiore a trent’anni (art. 979
c.c.).
Compatibile con il limite massimo di durata previsto dal codice
Usufrutto
congiuntivo
— e, quindi, valido — si ritiene (arg. ex artt. 678 e 796 c.c.) il c.d.
« usufrutto congiuntivo », per tale intendendosi quello attribuito congiuntamente a più soggetti, anche con diritto di accrescimento a
favore del più longevo dei contitolari (si pensi, ad es., all’usufrutto
costituito a favore dei coniugi Tizio e Caia, con la previsione che, alla
morte del primo dei due, il diritto di usufrutto competerà integralmente all’altro), con conseguente non consolidazione dell’usufrutto
con la nuda proprietà fino a quando rimane in vita l’ultimo dei
contitolari originari (v. Cass. 7 novembre 2011, n. 24108).
Da non confondere con l’usufrutto congiuntivo è l’« usufrutto
Usufrutto
successivo
successivo », per tale intendendosi quello attribuito a più soggetti in
via successiva alla morte dell’usufruttuario precedente (si pensi, ad
es., all’usufrutto costituito a favore di Tizio, con la previsione che,
alla sua morte, l’usufrutto spetterà a Caio).
L’usufrutto successivo è espressamente vietato — e, quindi,
valido solo a favore del primo beneficiario — se costituito per
testamento (art. 698 c.c.) o in forza di donazione (art. 795 c.c.). Si
discute se analoga regola valga con riferimento all’usufrutto successivo costituito in forza di contratto a titolo oneroso.
Usufrutto
Valido si ritiene comunque — in applicazione analogica della
successivo
previsione dell’art. 796 c.c. — il c.d. « usufrutto successivo improprio »,
improprio
per tale intendendosi quello in cui l’alienante a titolo oneroso di un
bene se ne riserva l’usufrutto, con la previsione che, alla sua morte,
lo stesso competerà ad un terzo (o a più terzi congiuntamente, ma
non successivamente) (v. Cass. 19 aprile 2016, n. 7710).
I diritti reali di godimento
[§ 149]
§ 148.
307
L’oggetto dell’usufrutto. Il quasi usufrutto.
Oggetto di usufrutto può essere qualunque specie di bene — Oggetto
mobile o immobile (v. anche artt. 994, 1000, 1010, 1998, 2352, 2561
c.c.) — con esclusione dei soli beni consumabili. Questi ultimi —
poiché, se utilizzati, perdono la loro individualità (ad es., il cibo, una
bevanda, ecc.), ovvero escono dalla disponibilità del soggetto che li
impiega (ad es., il danaro) — non potrebbero, infatti, essere restituiti
al proprietario alla cessazione dell’usufrutto.
Se il godimento di beni consumabili viene attribuito a soggetto Il quasi
diverso dal proprietario, si avrà una situazione che non coincide con usufrutto
quella dell’usufrutto; ma che — per la sua somiglianza a quest’ultimo
— si suole definire « quasi usufrutto »: in tal caso, la proprietà dei beni
(consumabili) passa al quasi-usufruttuario — quindi, il quasi usufrutto
non è un diritto reale su cosa altrui — salvo l’obbligo di quest’ultimo
di restituire non già gli stessi beni ricevuti (cosa che, come abbiamo
visto, sarebbe impossibile), bensì il loro valore, ovvero altrettanti beni
dello stesso genere (tantundem eiusdem generis) (art. 995 c.c.).
Oggetto di usufrutto possono, invece, essere anche beni (incon- Usufrutto di
sumabili, ma) deteriorabili (ad es., un vestito, un’autovettura, ecc.): beni
deteriorabili
in tal caso, l’usufruttuario ha diritto di servirsene secondo l’uso al
quale sono destinati (il che, del resto, è conforme al limite normale
dell’usufrutto: salva rerum substantia). Perciò, se si tratta di abiti di
gala, non possono essere indossati ogni giorno; se si tratta di cavalli
da corsa, non possono essere impiegati come cavalli da tiro; ecc. Alla
fine dell’usufrutto, l’usufruttuario è tenuto a restituirli nello stato in
cui si trovano (art. 996 c.c.).
§ 149.
Modi di acquisto dell’usufrutto.
Costituzione
Modi di acquisto dell’usufrutto possono essere:
a) la legge, per quel che riguarda l’usufrutto legale dei genitori
sui beni del figlio minore (artt. 324 ss. c.c.), di cui si tratterà al
successivo § 613;
b) il provvedimento del giudice che — in relazione alle necessità
della prole — può (ex art. 194, comma 2, c.c.) costituire, a favore di
uno dei coniugi, l’usufrutto su parte dei beni spettanti all’altro
coniuge a seguito della divisione dei cespiti già in comunione legale,
di cui si tratterà al successivo § 600;
c) la volontà dell’uomo: contratto (a titolo gratuito ovvero oneroso), testamento, promessa al pubblico, donazione obnuziale (v.
Cass. 30 gennaio 2007, n. 1967); con l’avvertenza che gli atti inter
I diritti reali
308
[§ 150]
vivos che costituiscono (modificano o trasferiscono) il diritto di usufrutto su beni immobili richiedono la forma scritta ad substantiam
(art. 1350, n. 2, c.c.) e sono soggetti a trascrizione (art. 2643, n. 2, c.c.;
v. anche art. 2684, n. 2, c.c.). Del pari, sono soggetti a trascrizione
l’accettazione dell’eredità e l’acquisto del legato, che importino l’acquisto dell’usufrutto su detti beni (art. 2648 c.c.);
d) l’usucapione (art. 1158 c.c.; v. § 184) e, sui beni mobili non
registrati, l’acquisto del possesso in buona fede (art. 1153, comma 3,
c.c.; v. § 183).
Usufrutto
Fino a tempi relativamente recenti, il modo d’acquisto dell’usuuxorio
frutto più diffuso è stato l’attribuzione di tale diritto — ex lege — al
coniuge superstite in sede di successione mortis causa al coniuge
defunto (artt. 540, 542, 543, 544, 546, 581 c.c. nella loro versione
originaria): c.d. « usufrutto uxorio ». La riforma del diritto di famiglia
del 1975 ha, peraltro, eliminato siffatto istituto, contemplando, a
favore del coniuge superstite, non più il diritto di usufrutto su una
quota dei beni relitti, bensì la proprietà piena su una quota degli
stessi (v. § 640).
Conseguentemente l’importanza dell’istituto appare, oggi, di
gran lunga ridimensionata, poiché tutti i residui modi di acquisto
dell’usufrutto risultano, nella pratica, meno diffusi.
§ 150.
Diritti dell’usufruttuario.
All’usufruttuario competono:
a) il potere di godimento sul bene (art. 981 c.c.; v. Cass. 12
maggio 2011, n. 10453), che implica:
(i) la facoltà di trarre dalla cosa tutte le utilità che la stessa può
dare, fermo solo l’obbligo di rispettarne la destinazione economica;
(ii) il possesso della cosa (art. 982 c.c.; v. § 178; v. Cass. 10
Possesso del
bene e actio
gennaio 2011, n. 355). Per conseguire il possesso, se questo è eserciconfessoria
tato da altri, l’usufruttuario può esperire l’actio confessoria, azione
analoga alla reivindicatio, tanto che si chiama anche vindicatio
ususfructus. Quest’azione è diretta ad accertare l’esistenza del diritto
d’usufrutto e ad ottenere la condanna del terzo al rilascio del possesso
(v. Cass. 31 marzo 2016, n. 6293);
(iii) l’acquisto dei frutti naturali e civili della cosa (ma v., anche,
I frutti
art. 1998 c.c.). La legge (art. 821 c.c.) — come già sappiamo —
distingue, in generale, tra frutti civili e frutti naturali: la proprietà
dei frutti naturali si acquista con la separazione, i frutti civili si
acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto (v. §
Potere di
godimento
[§ 150]
I diritti reali di godimento
309
89). Questa regola generale si applica anche all’usufruttuario: a
quest’ultimo spettano i frutti naturali separati durante l’usufrutto ed
i frutti civili maturati giorno per giorno fino al termine dell’usufrutto.
Tuttavia, il principio dell’acquisto dei frutti naturali per effetto della
separazione è attenuato dal legislatore rispetto alla categoria più
importante di frutti naturali, cioè quelli prodotti da un fondo rustico:
la ripartizione tra proprietario ed usufruttuario ha luogo, in questo
caso, in proporzione della durata del rispettivo diritto nell’anno
agrario. Così, se l’anno agrario ha avuto inizio il 1o novembre e
l’usufrutto ha termine il 28 febbraio dell’anno successivo (l’usufrutto
è, perciò, durato quattro mesi: un terzo, cioè, di anno), i frutti
dell’annata agraria spetteranno per un terzo all’usufruttuario e per
due terzi al proprietario. Secondo la regola generale per cui fructus
non intelleguntur nisi deductis impensis, con lo stesso criterio di
ripartizione dei frutti si ripartiscono anche le spese necessarie per la
loro produzione (art. 984 c.c.);
b) il potere di disposizione — naturalmente, solo per atto inter Potere di
vivos (v. Cass. 27 marzo 2002, n. 4376) — del diritto di usufrutto (art. disposizione
del diritto di
980 c.c.). L’usufruttuario può, di regola, cedere ad altri — contro un usufrutto
corrispettivo od anche gratuitamente — non certo il diritto di
proprietà sul bene, che non gli compete, ma il proprio diritto d’usufrutto; e può anche concedere ipoteca sull’usufrutto stesso (art. 2810,
comma 1 n. 2, c.c.). In ogni caso, la cessione non può danneggiare il
nudo proprietario, prolungando la compressione del suo diritto:
perciò l’usufrutto si estinguerà egualmente nel termine stabilito
nell’atto di costituzione e, in mancanza, con la morte non già dell’acquirente, bensì dell’originario primo usufruttuario (v. Cass. 4
maggio 2016, n. 8911);
c) il potere di disposizione — naturalmente, solo per atto inter Potere di
vivos — del godimento del bene (art. 999 c.c.): ad es., l’usufruttuario disposizione
del
può concedere in locazione la cosa che forma oggetto del suo diritto godimento
(art. 999 c.c.) e, più in generale, concederla in godimento a terzi (ad del bene
es., in comodato).
In applicazione del principio resoluto iure dantis resolvitur et ius
accipientis, le locazioni concesse dall’usufruttuario dovrebbero estinguersi quando si estingue l’usufrutto. Tuttavia il legislatore ha consentito — per assicurare al conduttore una certa continuità del
rapporto — che le locazioni in corso al momento della cessazione
dell’usufrutto possano proseguire per la durata stabilita, ma a condizione che la locazione e la sua durata risultino da atto pubblico o da
scrittura privata con data certa anteriore, ed in ogni caso per non
oltre un quinquennio dalla cessazione dell’usufrutto. Peraltro, se
I diritti reali
310
[§ 151]
l’estinzione dell’usufrutto si verifica per effetto della scadenza del
termine fissato per la sua durata — termine, quindi, che il conduttore
era in grado di conoscere al momento della stipula della locazione —
la locazione non può durare se non per l’anno in corso (art. 999 c.c.;
v. Cass. 26 maggio 2011, n. 11602);
d) la facoltà di apportare miglioramenti alla cosa e di eseguire
addizioni (artt. 985 e 986 c.c.).
§ 151.
Obblighi dell’usufruttuario.
Gli obblighi dell’usufruttuario si ricollegano al dovere fondamentale di restituire la cosa al termine del suo diritto (art. 1001 c.c.).
Corollari
Da ciò deriva che egli è tenuto a:
a) usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento
della cosa (art. 1001, comma 2, c.c.; v. anche artt. 989, 991, 992, 994,
997 c.c.);
b) non modificarne la destinazione (art. 981, comma 1, c.c.; anche
art. 986, comma 1, c.c.; v. Cass. 24 febbraio 2009, n. 4426);
c) fare — salvo dispensa — l’inventario e prestare garanzia, a
presidio dell’osservanza degli obblighi di conservazione e restituzione
dei beni assoggettati ad usufrutto (artt. 1002 e 1003 c.c.).
Le tutele
La Suprema Corte ritiene che quelle appena ricordate costituiscano vere e proprie « obbligazioni » (v. §§ 189 ss.) dell’usufruttuario nei
confronti del nudo proprietario; e che, in ipotesi di loro inadempimento, quest’ultimo ben possa richiedere al primo il risarcimento —
anche in forma specifica (art. 2058 c.c.; v. § 469) — del danno eventualmente sofferto (così, ad es., nel caso in cui abbia eseguito opere che
alterino l’originaria destinazione economica dell’immobile oggetto del
suo diritto, l’usufruttuario potrà essere chiamato al risarcimento del
danno sotto forma di ripristino della precedente condizione dell’immobile) (v. Cass., sez. un., 14 febbraio 1995, n. 1571).
Spese ed
La ripartizione delle spese inerenti alla produttività della cosa è
oneri
— come già accennato — collegata con il principio fructus non
intelleguntur nisi deductis impensis: perciò l’usufruttuario è tenuto
alle spese e, in genere, agli oneri relativi alla custodia, all’amministrazione, alla manutenzione ordinaria della cosa e, quindi, alle
riparazioni ordinarie (art. 1004 c.c.; v. Cass., 24 febbraio 2009, n.
4426), alle imposte, ai canoni, alle rendite fondiarie e agli altri pesi
che gravano sul reddito (art. 1008 c.c.).
Sono, invece, a carico del nudo proprietario le riparazioni
straordinarie: cioè, in genere, quelle che superano i limiti della
Obbligo di
restituzione
[§ 153]
I diritti reali di godimento
311
conservazione della cosa e delle sue utilità per la durata della vita
umana (per l’esemplificazione v. art. 1005 c.c.; v. Cass. 6 novembre
2015, n. 22703).
§ 152.
Estinzione dell’usufrutto.
Cause di
L’estinzione dell’usufrutto si verifica (art. 1014 c.c.):
a) per scadenza del termine o morte dell’usufruttuario (art. 979 estinzione
c.c.);
b) per prescrizione estintiva ventennale;
c) per consolidazione, ossia per riunione dell’usufrutto e della
nuda proprietà in capo alla stessa persona;
d) per perimento totale della cosa (art. 1014 c.c.);
e) per abuso che l’usufruttuario faccia del suo diritto, alienando
i beni o deteriorandoli o lasciandoli perire per mancanza di ordinarie
riparazioni (art. 1015 c.c.; v. Cass. 14 giugno 2017, n. 1483);
f) per rinunzia, che, se l’usufrutto ha ad oggetto beni immobili,
deve essere fatta per iscritto (art. 1350, n. 5, c.c.) ed essere trascritta
nei pubblici registri immobiliari (art. 2643, n. 5, c.c.).
Per effetto del principio dell’elasticità del dominio (v. § 132), Effetti
l’estinzione dell’usufrutto importa l’automatica riespansione — ex
lege — della « nuda proprietà » in « proprietà piena ».
Nell’interesse generale della produzione, la legge — come già Miglioramenti
detto — non ha vietato all’usufruttuario di eseguire miglioramenti,
ma ha limitato il credito dell’usufruttuario per i miglioramenti fatti,
sempre che gli stessi sussistano al momento della restituzione della
cosa, alla minor somma tra lo speso e l’aumento di valore conseguito
dalla cosa per effetto del miglioramento (art. 985 c.c.).
Per le addizioni si applica la regola richiamata in tema di Addizioni
accessione: l’usufruttuario ha lo ius tollendi, qualora il suo esercizio
non arrechi nocumento alla cosa, tranne che il proprietario non
preferisca ritenere le addizioni, nel qual caso egli deve la minor
somma tra lo speso ed il migliorato (art. 986 c.c.).
§ 153.
Uso ed abitazione.
L’« uso » e l’« abitazione » non sono che tipi limitati di usufrutto: Nozione
a) l’uso consiste nel diritto di servirsi di un bene e, se fruttifero,
di raccoglierne i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria
famiglia (art. 1021 c.c.; v. Cass. 31 agosto 2015, n. 17320);
312
I diritti reali
[§ 154]
b) l’abitazione consiste nel diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art. 1022 c.c.).
A differenza del titolare del diritto d’uso — che potrebbe
impiegare l’unità immobiliare che ne costituisse l’oggetto anche per
finalità diverse da quella abitativa (ad es., come ufficio o come
deposito) — l’habitator non può destinare la casa oggetto del suo
diritto che all’abitazione diretta propria e dei propri familiari (dovendosi ricomprendere fra le sue esigenze abitative anche la possibilità di
avvalersi della collaborazione di natura domestica e/o assistenziale di
terzi conviventi), con conseguente divieto di utilizzarla in altro modo
(v. Cass. 27 giugno 2014, n. 14687).
I diritti d’uso e di abitazione possono sorgere — oltre che, al pari
Diritti di
abitazione e dell’usufrutto, per volontà dell’uomo (contratto, testamento) e per
di uso
attribuiti ex usucapione — anche ex lege: l’art. 540, comma 2, c.c. prevede infatti
lege al che, in caso di morte del coniuge convivente, all’altro siano riservati
coniuge
i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso
superstite
sui mobili che la arredano, se di proprietà del defunto o comuni (v. §
643).
Dato il loro carattere personale, i diritti d’uso e di abitazione —
Poteri di
godimento e a differenza dell’usufrutto — non si possono cedere, né il bene può
di
disposizione essere concesso in locazione o altrimenti in godimento a terzi (art.
1024 c.c.). Peraltro, attenendo a diritti patrimoniali disponibili, detti
divieti possono essere derogati dalle parti (ad es., in sede di atto
costitutivo del diritto di uso o di abitazione: v. Cass. 27 aprile 2015,
n. 8507).
Per il resto, ove non diversamente previsto, all’uso ed all’abitazione trovano applicazione, in quanto compatibili, le disposizioni
dettate in tema di usufrutto. Così, ad es., si ritiene che i diritti di uso
e di abitazione non possano eccedere la durata della vita del titolare
(art. 979, comma 1, c.c.; v. Cass. 27 aprile 2015, n. 8507); che, di
conseguenza, i due diritti si estinguano — al pari dell’usufrutto —
con la morte del titolare; che pertanto, non possano formare oggetto
di disposizione testamentaria; che alle addizioni operate dal titolare
di detti diritti trovi applicazione il disposto degli artt. 985 e 986 c.c.
(v. Cass. 24 aprile 2018, n. 10085); ecc.
D) LE SERVITÙ
§ 154.
Nozione
Nozione.
La « servitù prediale » consiste nel peso imposto sopra un fondo
(c.d. fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (c.d. fondo domi-
[§ 154]
I diritti reali di godimento
313
nante), appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.). Essenziale, pertanto, è questa relazione (c.d. rapporto di servizio) tra i due
fondi (o « predi », dal latino praedium: da qui il termine « servitù
prediale »), per cui il fondo dominante si avvantaggia della limitazione che subisce quello servente (così, ad es., la servitù di passaggio,
mentre costringe il proprietario del fondo servente a tollerare che il
proprietario del fondo dominante passi sul suo terreno, agevola
l’accesso al fondo dominante).
L’utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità Utilità del
del fondo dominante (art. 1028 c.c.). Si può costituire, ad es., una fondo
dominante
servitus altius non tollendi per impedire di realizzare o di elevare una
costruzione sul fondo vicino al fine di assicurare l’amenità di un parco
o di un giardino, oppure la vista del mare o dei monti da una casa
(c.d. « servitù di panorama »; v. Cass. 27 febbraio 2012, n. 2973).
Da ciò discende che il contenuto del diritto di servitù può essere Servitù
e
il più vario: perciò, accanto alle c.d. servitù tipiche, il cui contenuto è tipiche
atipiche
previsto e regolamentato dal codice civile (ad es., servitù di presa
d’acqua: artt. 1080 ss. c.c.; servitù di scolo d’acqua: art. 1094 c.c.;
ecc.), sono altresì ammesse le c.d. servitù atipiche, che — pur non
appartenendo ad alcuno dei modelli legali — possono tuttavia essere
liberamente costituite, purché finalizzate all’utilità del fondo dominante.
La legge consente esplicitamente anche le c.d. servitù industriali Servitù
e
(art. 1028 c.c.): quelle, cioè, strumentali a quegli utilizzi produttivi industriali
aziendali
del fondo dominante (pur diversi dalla sua coltivazione) che ineriscano strutturalmente al fondo stesso (ad es., servitù di passaggio per
trasportare le merci prodotte; servitù di attingere acqua per servire
un mulino, ecc.; v. Cass. 12 aprile 2011, n. 8363). Non costituiscono,
invece, servitù prediali — ma sono servitù « irregolari », di cui si dirà
subito — le c.d. servitù aziendali: quelle, cioè, strumentali all’azienda
come tale, indipendentemente dal fondo sul quale la stessa viene
esercitata (ad es., il divieto di concorrenza: v. Cass. 17 novembre
2017, n. 27312; il diritto di apporre un’insegna luminosa ovvero un
cartellone pubblicitario a vantaggio di un esercizio commerciale
gestito nell’immobile finitimo; ecc.).
Nulla vieta che le servitù possano essere reciproche: poste, cioè, Servitù
simultaneamente a favore ed a carico di due (o più) fondi, a reciproco reciproche
vantaggio. Sicché ciascun fondo si troverà ad essere — contemporaneamente — dominante e servente (ad es., nelle vendite a lotti di aree
edificabili è spesso contenuta, a carico di ciascun singolo lotto ed a
favore di tutti gli altri, una serie di prescrizioni in ordine alle
rispettive modalità edificatorie, volte ad assicurare a tutti i lotti siti
314
I diritti reali
[§ 155]
nel medesimo comprensorio standard costruttivi omogenei e particolarmente qualificati; v. Cass. 10 aprile 2018, n. 8817; Cass. 18 ottobre
2016, n. 21024).
Servitù a
L’utilità può anche essere rivolta ad un edificio da costruire o ad
favore di un fondo da acquistare (art. 1029, comma 2, c.c.). Peraltro la servitù,
edificio da
costruire consistendo in una relazione tra due fondi, non può nascere come
diritto reale se non quando l’edificio sia costruito od acquistato (e da
tale momento decorre il termine di prescrizione per non uso della
servitù: v. Cass. 3 maggio 2018, n. 10486). Prima della costruzione o
dell’acquisto il rapporto ha natura obbligatoria ed è soggetto, pertanto, a prescrizione decennale (v. Cass. 2 febbraio 2011, n. 2432).
Servitù
Non costituiscono « servitù prediali » — che, come si è detto,
irregolari instaurano una relazione tra due fondi — le c.d. « servitù irregolari »
(o « personali »), in cui il servizio è prestato a favore di una persona. È,
per es., servitù regolare la servitù di passaggio costituita su un fondo
a favore di un altro fondo, perché consente un migliore accesso al
fondo dominante; ha invece carattere di servitù irregolare — irregolare perché diversa, per queste particolarità, da quella regolare e
tipica prevista dal codice civile — quella che attribuisce ad una
persona il diritto di passare sul fondo altrui per esercitarvi la pesca
(v. Cass. 9 ottobre 2014, n. 21356).
La ragione per cui non sono ammesse servitù se non a favore di
fondi consiste nel fatto che — come abbiamo visto — i diritti reali su
cosa altrui costituiscono un numerus clausus: per evitare l’aggravio
della proprietà con pesi che limiterebbero la produttività dei fondi,
non si è riconosciuto alla volontà dei privati il potere di dar vita, a
loro arbitrio, a tipi di diritti reali su cosa altrui non previsti dalla
legge. Naturalmente nulla vieta che il proprietario si obblighi a
consentire ad un’altra persona, per es., di esercitare la pesca sul
proprio fondo; ma il negozio darà luogo ad una obbligazione con
effetti limitati al concedente ed ai suoi aventi causa, e non ad un
diritto reale che, come tale, potrebbe essere fatto valere erga omnes,
cioè pure contro ogni successivo possessore del fondo (v. Cass. 11
febbraio 2014, n. 3091).
Per la stessa ragione, l’opinione prevalente esclude — come si è
ricordato al § 131 — l’ammissibilità della costituzione volontaria di
obbligazioni propter rem e di oneri reali.
§ 155.
Principi generali.
I principi fondamentali in materia di servitù sono riassunti nei
seguenti brocardi:
[§ 155]
I diritti reali di godimento
315
1) « servitus in faciendo consistere nequit »: la servitù può imporre Servitus in
al proprietario del fondo servente un dovere negativo di non facere (si faciendo
consistere
pensi, ad es., alla servitus altius non tollendi: il proprietario del fondo nequit
servente non deve sopraelevare — non facere — la costruzione
esistente sul suo fondo) o di pati (si pensi, ad es., alla servitù di
passaggio: il proprietario del fondo servente deve sopportare — pati
— che il proprietario del fondo dominante passi sul suo fondo), non
un dovere positivo (facere) (art. 1030 c.c.; v. Cass. 2 luglio 2014, n.
15101). Perciò, le spese per le opere necessarie alla conservazione
della servitù sono, di regola, a carico del proprietario del fondo
dominante (art. 1069 c.c.; ma v. anche Cass. 15 marzo 2017, n. 6653);
mentre il proprietario del fondo servente non è, salvo patto contrario,
tenuto a compiere alcun atto volto a rendere possibile l’esercizio della
servitù da parte del proprietario del fondo dominante (art. 1030 c.c.;
v. Cass. 2 luglio 2014, n. 15101). Nei casi in cui il proprietario del
fondo servente è tenuto — in forza del titolo — ad una prestazione
positiva, non si ha un unico rapporto giuridico, ma si hanno due
rapporti distinti: il rapporto reale di servitù ed un rapporto obbligatorio propter rem (v. § 131), congiunto con quello reale ed accessorio
rispetto ad esso (v. Cass. 24 aprile 2018, n. 10046). Questi obblighi
positivi (ad es., di riparare la conduttura della presa d’acqua, di
tagliare i rami ovvero di potare le piante che ostacolano il passaggio,
ecc.) servono soltanto per rendere possibile o semplicemente più
agevole l’esercizio della servitù (v. Cass. 17 giugno 2010, n. 14622);
2) « nemini res sua servit »: la servitù presuppone che i fondi Nemini res
appartengano a proprietari diversi (v. Cass. 28 aprile 2011, n. 9464). sua servit
La regola nemini res sua servit vale soltanto quando un solo soggetto
è titolare sia del fondo servente sia di quello dominante, non già
quando il proprietario di uno di tali fondi sia comproprietario dell’altro: in tal caso l’intersoggettività del rapporto è data appunto dal
concorso di altri titolari del bene comune (v. Cass. 22 marzo 2017, n.
7318);
3) « praedia vicina esse debent »: i fondi devono trovarsi in una Praedia
esse
situazione topografica tale che l’uno (fondo servente) possa arrecare vicina
debent
utilità all’altro (fondo dominante). La vicinitas non deve intendersi
in senso assoluto, ma relativo al contenuto della servitù. Perciò, ad
es., una servitù di passaggio può essere costituita anche quando tra
i due fondi non vi sia contiguità fisica, e la servitù debba esercitarsi
anche attraverso un fondo intermedio (v. Cass., sez. un., 22 aprile
2013, n. 9685); così come una servitù di elettrodotto può gravare su
un fondo servente che si trovi anche a chilometri di distanza dal
fondo dominante; ecc.
I diritti reali
316
§ 156.
Modi di
acquisto
[§ 156]
Costituzione.
La costituzione delle servitù può avvenire (art. 1031 c.c.):
a) in attuazione di un obbligo di legge (c.d. servitù coattive);
b) per volontà dell’uomo (contratto, testamento) (c.d. servitù
volontarie) (art. 1058 c.c.);
c) per usucapione (art. 1061 c.c.);
d) per destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.).
§ 157.
Le servitù coattive o legali.
In taluni casi, la legge — in considerazione della situazione nella
quale si trova un fondo (si pensi, per es., ad un fondo che non abbia
accesso alla via pubblica) — si preoccupa del pregiudizio che tale
situazione arreca alla possibilità di utilizzo dell’immobile ed attribuisce al suo proprietario il diritto (potestativo) di ottenere l’imposizione
di una servitù sul fondo altrui (nell’esempio fatto: la servitù di
passaggio sul fondo di terzi per accedere alla via pubblica) e così
ovviare alla situazione pregiudizievole (v. Cass, sez. un., 15 settembre
2015, n. 18081). In contropartita del sacrificio che subisce, il proprietario del fondo su cui viene imposta la servitù ha diritto ad un’indennità (art. 1032, comma 1, c.c.) commisurata al danno sofferto (v.
Cass. 18 maggio 2016, n. 10269).
Questa servitù — che viene imposta dalla legge al proprietario
del fondo servente — si chiama « servitù coattiva » (o legale).
Occorre chiarire in che modo si costituiscono queste servitù: se
Costituzione
il mio fondo si trova nelle condizioni previste dalla legge (ad es., non
ha accesso alla via pubblica: art. 1051 c.c.), io non posso senz’altro
esercitare la servitù e cominciare a passare sul fondo altrui. La legge
mi attribuisce il diritto ad ottenere la servitù (jus ad servitutem
habendam), ma — per costituirla concretamente — occorrerà:
a) un contratto (se l’altro proprietario acconsente a riconoscere
bonariamente il mio diritto) (art. 1032 c.c.): nel qual caso la servitù
dovrà ritenersi coattiva, anche se costituita con contratto, nella
misura in cui quest’ultimo si configuri come adempimento di un
obbligo legale (v. Cass. 23 settembre 2015, n. 18770); oppure
b) che mi rivolga al giudice, che — con una sentenza (costitutiva)
— farà nascere la servitù, determinando altresì l’indennità che devo
pagare al proprietario del fondo servente (art. 1032, comma 2, c.c.; v.
Cass., sez. un., 22 aprile 2013, n. 9685). Finché detto pagamento non
sia intervenuto, il proprietario del fondo servente può opporsi all’esercizio della servitù (art. 1032, comma 3, c.c.). In sostanza, si vuol
Nozione
[§ 157]
I diritti reali di godimento
317
impedire al proprietario, che ritenga di trovarsi nelle condizioni
prescritte, di farsi giustizia da sé e si vuole, invece, a garanzia
dell’altro proprietario, che il giudice accerti se, in concreto, sussistono
effettivamente i requisiti dalla legge previsti in astratto per l’imposizione della servitù e fissi l’indennità dovuta.
La legge prevede — ma solo con riferimento a talune ipotesi
specifiche (v., ad es., in tema di servitù di passaggio di tubazioni per
l’allacciamento alla rete del gas di utenze domestiche o aziendali, così
come in tema di servitù di passaggio di tubazioni per la trasmissione
di energia geotermica, l’art. 3 L. 28 luglio 2016, n. 154; in tema di
servitù occorrenti al passaggio con appoggio di fili, cavi ed impianti
connessi alle reti di comunicazione elettronica ad uso pubblico, l’art.
92 D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259; in tema di infrastrutture lineari
energetiche, l’art. 52-octies D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327; in tema di
servitù di elettrodotto, gli artt. 119 ss. R.D. 11 dicembre 1933, n.
1775) — che l’avente diritto ad una servitù coattiva possa chiederne
la costituzione alla P.A., che vi provvederà in forza di un atto
amministrativo.
Il venir meno dei presupposti, che avevano giustificato la costi- Cessazione
tuzione della servitù coattiva, ne legittima la richiesta di estinzione
(art. 1055 c.c.), quand’anche la servitù fosse stata costituita convenzionalmente (v. Cass. 10 febbraio 2014, n. 2922): per l’estinzione
occorre, tuttavia, una sentenza — costitutiva — del giudice, emessa
su domanda del soggetto interessato (v. Cass. 9 ottobre 2013, n.
22989).
Le figure più importanti di servitù coattive — che sono tipiche, Tipicità delle
in quanto necessariamente previste dalla legge (v. Cass. 6 giugno servitù
coattive
2016, n. 11563) — sono le seguenti:
a) acquedotto coattivo (artt. 1033 ss. c.c.), su cui si modellano Acquedotto
l’elettrodotto coattivo (art. 1056 c.c.) ed il passaggio coattivo di linee coattivo
teleferiche (art. 1057 c.c.). L’acqua è essenziale alla vita ed alla
produzione agricola ed industriale: perciò il proprietario è tenuto a
consentire il passaggio delle acque, sia che servano ai bisogni della
vita, sia che siano destinate ad usi agricoli od industriali (art. 1033
c.c.).
Il diritto all’acquedotto coattivo sussiste anche quando l’acqua
non è necessaria, ma utile: ho, per es., l’acqua per bere e lavarmi, per
irrigare il fondo, ma posso chiedere ugualmente l’imposizione della
servitù per avere una maggiore quantità di liquido affinché lo sfruttamento del mio fondo risulti più redditizio.
Occorre peraltro — alla stregua di quanto, come si vedrà subito,
è stabilito per il passaggio coattivo — che chi richiede la servitù non
318
I diritti reali
[§ 157]
abbia possibilità di far passare l’acqua per i suoi fondi o di procurarsi
altrimenti il passaggio senza eccessivo dispendio o disagio;
b) elettrodotto coattivo (art. 1056 c.c.): per l’importanza che
Elettrodotto
coattivo
l’energia elettrica ha assunto nella vita moderna, ogni proprietario è
tenuto a dar passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche;
c) passaggio coattivo (artt. 1051 ss. c.c.): l’accesso di un fondo
Passaggio
coattivo
alla via pubblica è — come si può agevolmente intendere — condizione indispensabile per il suo utilizzo; la sua mancanza legittima
l’imposizione della servitù di passaggio sul fondo vicino.
Il diritto alla servitù di passaggio sussiste, peraltro, non soltanto
Fondo
intercluso:
nell’ipotesi più grave — e che, in pratica, si verifica raramente — in
interclusione
assoluta e cui il fondo non ha né può avere accesso alla via pubblica (c.d.
interclusione interclusione assoluta), ma anche nell’ipotesi in cui il proprietario non
relativa
possa procurarsi l’uscita senza eccessivo dispendio o disagio (per es.,
tra il fondo e la strada c’è un fiume ed occorrerebbe una spesa
eccessiva per costruire un ponte; oppure il livello della strada è molto
più alto rispetto a quello del fondo e, pertanto, sarebbe necessaria
una scala ripidissima) (c.d. interclusione relativa).
Come si vede, la legge non si attiene ad una concezione rigida
dell’interclusione, ma tiene adeguatamente conto delle ragionevoli
esigenze inerenti all’utilizzo del fondo (v. Cass. 4 gennaio 2018, n. 55;
Cass. 7 febbraio 2017, n. 3232).
Perciò nemmeno il fatto che il fondo abbia già un accesso alla
Fondo non
intercluso
via pubblica (c.d. fondo non intercluso) è d’ostacolo alla costituzione
della servitù coattiva nelle seguenti due ipotesi:
a) vi sia bisogno, ai fini del conveniente uso del fondo, di ampliare
l’accesso esistente per il transito dei veicoli, anche a trazione meccanica (art. 1051, comma 3, c.c.; v. Cass. 11 febbraio 2014, n. 3092). Il
« conveniente uso del fondo » va valutato non già in base a criteri
astratti o ipotetici, ma con riguardo — da un lato — alla concreta
possibilità di un suo più intenso sfruttamento o di una sua migliore
utilizzazione e — da altro lato — all’accertamento di un serio
proposito del proprietario di attuare tale più intenso sfruttamento o
tale migliore utilizzazione (v. Cass. 30 settembre 2015, n. 19388);
b) il passaggio esistente sia inadatto o insufficiente ai bisogni
del fondo e non possa essere ampliato (art. 1052, comma 1, c.c.; v.
Cass. 29 febbraio 2012, n. 3125): in quest’ultimo caso, però, la
costituzione della servitù è subordinata al fatto che risponda « alle
esigenze dell’agricoltura e dell’industria » intese in senso ampio (art.
1052, comma 2, c.c.; v. Cass. 20 gennaio 2017, n. 1603); che risponda,
cioè, ad un interesse generale della produzione (v. Cass. 7 marzo 2013,
n. 5765). Peraltro, la giurisprudenza ritiene che il disposto dell’art.
[§ 158]
I diritti reali di godimento
319
1052 c.c. possa essere invocato, al fine della costituzione di una
servitù coattiva di passaggio, non solo — come espressamente richiesto dal codice civile — per esigenze dell’agricoltura e dell’industria,
ma anche per esigenze di accessibilità al fondo dominante da parte di
qualsiasi portatore di handicap o persona con ridotta capacità motoria (v. Corte cost., 10 maggio 1999, n. 167) e, più in generale, per
garantire la tutela di esigenze abitative, da chiunque invocabili (v.
Cass. 6 giugno 2018, n. 14477; Cass. 10 aprile 2018, n. 8817).
Il sacrificio che con l’imposizione della servitù s’impone al fondo
servente dev’essere — in tutti i casi — il minore possibile. Perciò il
comma 2 dell’art. 1051 c.c. stabilisce i seguenti criteri che il giudice
deve tenere presenti per la determinazione del luogo del passaggio:
maggiore brevità del passaggio e minor danno del fondo su cui la
servitù dev’essere costituita. La via breve dev’essere preferita in
quanto sia anche la meno dannosa; ma, se essa recasse un danno
sensibilmente maggiore di una più lunga (dovesse, per es., attraversare un vigneto), al criterio della brevità dovrebbe preferirsi quello
del minor danno (v. Cass. 12 dicembre 2016, n. 25352).
§ 158.
Le servitù volontarie.
Quando un fondo non si trova in quelle condizioni sfavorevoli Costituzione:
che giustificano la costituzione di una servitù legale, il proprietario di per contratto
esso può assicurarsi l’utilità che occorre per il suo miglior sfruttamento mediante la conclusione di un contratto con il proprietario del
fondo su cui vorrebbe acquistare la servitù (art. 1058 c.c.; v. Cass. 20
agosto 2015, n. 17044). Il contratto, riferendosi ad un diritto reale
immobiliare, deve farsi per iscritto (art. 1350, n. 4, c.c.; v. Cass. 27
aprile 2018, n. 10169) ed è soggetto, per l’opponibilità ai terzi, a
trascrizione (art. 2643, n. 4, c.c.; v. Cass. 31 agosto 2018, n. 21501).
La servitù può essere costituita anche per testamento (art. 1058 ... per
c.c.). L’accettazione di eredità che importi l’acquisto di una servitù è testamento
soggetta a trascrizione (art. 2648 c.c.).
Alcune servitù — e, precisamente, quelle apparenti — possono ... per
sorgere anche per usucapione (ventennale) (v. § 184) o per « destina- usucapione,
quanto alle
zione del padre di famiglia » (art. 1062 c.c.). Le servitù non apparenti servitù
si possono, invece, costituire solo per contratto o per testamento apparenti
(artt. 1058 e 1061 c.c.).
« Servitù apparenti » sono quelle al cui esercizio sono destinate
opere — anche formatesi naturalmente (ad es., un sentiero creatosi
per effetto del calpestio: v. Cass. 27 maggio 2009, n. 12362) — visibili
320
I diritti reali
[§ 158]
e permanenti, non importa se insistenti sul fondo servente e/o sul
fondo dominante e/o sul fondo di terzi, obiettivamente finalizzate
all’esercizio della servitù: tali, cioè, da appalesare in modo non
equivoco, per la loro struttura e funzione, l’esistenza di un peso
gravante sul fondo servente (v. Cass. 25 ottobre 2017, n. 25355; Cass.
8 giugno 2017, n. 14292). In altre parole, occorre che queste opere (ad
es., una strada, un cavalcavia sul fondo altrui, rispetto alla servitù di
passaggio; una finestra rispetto alla servitù di veduta; una condotta
idrica rispetto alla servitù di acquedotto; i tralicci dell’alta tensione
rispetto alla servitù di elettrodotto; ecc.) rendano manifesta la soggezione alla servitù: la legge vuole evitare che la servitù sorga in base
a manifestazioni non chiare ed equivoche, che, non incidendo sensibilmente nella sfera altrui, possono anche essere state tollerate a
titolo precario, per ragioni di buon vicinato (v. art. 1144 c.c.; v. Cass.,
sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2949).
... per
Per ben comprendere le modalità con cui opera quel particolare
destinazione
modo di acquisto della servitù costituito dalla destinazione del padre
del padre di
famiglia, di famiglia, occorre tener presente che — se il proprietario di un
quanto alle
fondo costruisce sul suo bene opere permanenti (ad es., acquedotti,
servitù
apparenti strade, ponti, ecc.) per effetto delle quali una parte del fondo risulta
« asservita » ad un’altra parte del medesimo fondo, consentendone un
miglior utilizzo — non può sorgere alcuna servitù, perché nemini res
sua servit: e, cioè, non si può costituire servitù sulla cosa propria. Ma,
se il fondo cessa di appartenere allo stesso proprietario (ad es., per
divisione, per vendita parziale, per vendita forzata in lotti distinti,
ecc.), allora al legislatore è apparso opportuno — sempre che sussistano i requisiti per l’apparenza di una situazione analoga a quella che
darebbe luogo ad una servitù e sempre che nulla in contrario sia
stabilito nell’atto da cui origina la separazione in due parti del fondo
— che lo stato di fatto, che consentiva ad una parte del fondo di
trarre utilità e vantaggi dall’altra parte del fondo, possa continuare
legittimamente: a tal fine, il codice civile prevede che si costituisca ex
lege — attivamente a favore di uno dei due fondi e passivamente a
carico dell’altro — una servitù corrispondente allo stato di fatto
preesistente (art. 1062 c.c.; v. Cass. 17 maggio 2018, n. 12113). Non
occorre, dunque, alcuna manifestazione di volontà negoziale per la
costituzione della servitù (v. Cass. 12 febbraio 2014, n. 3219); occorre
solo che nell’atto che provoca la divisione dei due fondi non sia
inserita una dichiarazione contraria, che escluderebbe la nascita della
servitù (v. Cass. 1° marzo 2018, n. 4872).
[§ 159]
I diritti reali di godimento
§ 159.
321
Esercizio della servitù.
L’esercizio delle servitù è regolato — innanzitutto — dal titolo Titolo e legge
(contratto, testamento, sentenza se si tratta di servitù coattiva, ecc.)
e — in difetto — dalla legge (art. 1063 c.c.; v. Cass. 9 agosto 2018, n.
20696; Cass. 11 giugno 2018, n. 15046): c.d. graduazione delle fonti
regolatrici dell’estensione e dell’esercizio delle servitù.
In ogni caso, il diritto di servitù comprende tutto ciò che è ne- I c.d.
cessario per usarne (art. 1064 c.c.; v. Cass. 19 febbraio 2019, n. 4821; adminicula
servitutis
Cass. 7 giugno 2018, n. 14820): c.d. adminicula servitutis, cioè facoltà
accessorie, ma indispensabili per l’esercizio della servitù (ad es., il diritto di attingere acqua comprende anche il diritto di passaggio sul
fondo in cui la fonte si trova: v. Cass. 10 febbraio 2016, n. 2643).
Si chiama « modo » (o modalità) d’esercizio della servitù il come Modo di
la servitù può essere esercitata (ad es., modi della servitù di passaggio esercizio
possono essere: a piedi, con mezzi a trazione animale, con mezzi a
trazione meccanica, ecc.; v. Cass. 23 luglio 2018, n. 19483).
Si discute se possa usucapirsi il modo di una servitù: ad es., se
è stato stabilito nel titolo il passaggio a piedi, posso usucapire il
diritto di passare con mezzi a trazione meccanica? Se la servitù non
è apparente, è chiaro che, come non si può usucapire la servitù, così
non si può usucapire il modo. Se la servitù è apparente, la dottrina
distingue: se il modo è determinato nel titolo, non si può usucapire un
modo diverso, perché solo il diritto è usucapibile; se il modo non è
determinato, l’usucapione è ammissibile (perché si consolida lo stesso
diritto di servitù che non aveva esistenza ben definita).
L’eventuale dubbio circa l’estensione e le modalità d’esercizio Il principio
minimo
deve risolversi in base alla regola secondo cui le servitù debbono del
mezzo
essere esercitate civiliter, soddisfacendo il bisogno del fondo dominante con il minor aggravio del fondo servente (art. 1065 c.c.; v. Cass.
10 ottobre 2018, n. 25056): c.d. « principio del minimo mezzo ».
Corollario di siffatto principio è il divieto — per il proprietario
del fondo dominante — di aggravare (v. Cass. 14 maggio 2018, n.
11661; Cass. 20 aprile 2018, n. 9877) e — per quello del fondo servente
— di diminuire l’esercizio della servitù (v. Cass. 23 maggio 2016, n.
10604) (art. 1067 c.c.).
Poiché uno dei canoni tradizionali in tema di servitù è — come
sappiamo — quello che si esprime nel brocardo servitus in faciendo
consistere nequit, le spese necessarie per l’uso e la conservazione della
servitù sono a carico, di regola, del proprietario del fondo dominante
(art. 1069, comma 2, c.c.; v. però anche art. 1069, comma 3, c.c.) (v.
Cass. 15 marzo 2017, n. 6653).
I diritti reali
322
§ 160.
[§ 160]
Estinzione della servitù.
Le servitù si estinguono:
a) per rinuncia da parte del titolare, fatta per iscritto (art. 1350,
n. 5, c.c.; v. Cass. 22 maggio 2015, n. 10662): se la rinuncia ha luogo
contro un corrispettivo, non vi è dubbio che occorra un atto bilaterale, cioè un contratto; se, viceversa, la rinuncia ha luogo per decisione
del titolare senza alcuna contropartita, è sufficiente un atto unilaterale (v. Cass. 20 dicembre 1989, n. 5759);
b) per scadenza del termine, se la servitù è a tempo;
c) per confusione, quando il proprietario del fondo dominante
acquista la proprietà del fondo servente o viceversa (art. 1072 c.c.);
d) per prescrizione estintiva ventennale (c.d. « non uso ») (art.
1073 c.c.; v. Cass. 2 febbraio 2017, n. 2789).
In quest’ultimo caso, da quale momento comincia a decorrere il
termine per la prescrizione estintiva?
La risposta dipende dalla natura delle servitù.
Queste si distinguono in:
a) « negative », quando attribuiscono al proprietario del fondo
Servitù
negativa
dominante il potere di vietare al proprietario del fondo servente di fare
qualche cosa, di svolgere un’attività sul proprio fondo; a tale potere
corrisponde un obbligo di non facere in capo al proprietario del fondo
servente (ad es., nella servitus altius non tollendi il proprietario del
fondo servente è tenuto a non edificare oltre una data altezza); e
b) « affermative » (o attive), quando attribuiscono al proprietario
Servitù
affermativa
del fondo dominante il potere di fare qualche cosa, di svolgere un’attività nel fondo servente (ad es., di passare, far pascolare il gregge,
attingere acqua, estrarre arena, pietre o simili); a tale potere corrisponde un obbligo di pati in capo al proprietario del fondo servente
(il quale deve tollerare il passaggio, il pascolo, l’estrazione, ecc.).
Le servitù affermative si distinguono — a loro volta — in:
1) « continue », quando l’attività dell’uomo è antecedente all’eserServitù
continua
cizio della servitù: per l’esercizio di siffatte servitù non occorre l’attività dell’uomo (si prenda, ad es., la servitù di acquedotto: occorre
l’attività dell’uomo per predisporre la conduttura; l’acqua, poi,
scorre da sé in conformità ad una legge fisica); e
Servitù
2) « discontinue », quando invece il fatto dell’uomo deve essere
discontinua
concomitante con l’esercizio della servitù (ad es., in tanto esercito la
servitù di passaggio, in quanto transito sul fondo altrui; v. Cass. 12
dicembre 2012, n. 26636).
Cause di
estinzione
[§ 160]
I diritti reali di godimento
323
Orbene:
Il dies a quo
la
— se la servitù è negativa, il proprietario del fondo dominante per
prescrizione
nulla deve fare per esercitare la servitù (posto il divieto, altro non gli
rimane che controllare che l’altro lo rispetti): la prescrizione, quindi,
non comincia a decorrere se non quando il proprietario del fondo
servente abbia violato il divieto (ad es., abbia alzato la sua costruzione; v. Cass. 26 febbraio 2016, n. 3857; Cass. 29 aprile 2010, n.
10280);
— se la servitù è (affermativa) continua, si riproduce la stessa
situazione (costruito l’acquedotto, il proprietario del fondo dominante non deve far nulla per ritrarre dalla servitù l’utilità voluta):
perciò, anche in questo caso, la prescrizione non comincia a decorrere
se non quando si sia verificato un fatto contrario all’esercizio della
servitù (per es., allorquando l’acquedotto sia stato ostruito; v. Cass.
26 febbario 2016, n. 3857);
— se la servitù è (affermativa) discontinua, la prescrizione estintiva comincia a decorrere dall’ultimo atto di esercizio (per es., dall’ultima volta che sono passato sul fondo servente).
L’interruzione del termine ventennale di prescrizione di cui
all’art. 1073 c.c. — oltre che dal riconoscimento da parte del proprietario del fondo servente (art. 2944 c.c.) — può essere determinata
soltanto dalla proposizione della domanda giudiziale di cui parleremo
subito (v. § 161), non essendo a tal fine sufficiente la costituzione in
mora o una diffida stragiudiziale, il cui effetto interruttivo è circoscritto ai diritti di credito (art. 2943, comma 4, c.c.; v. § 232) e non
concerne i diritti reali (v. Cass. 5 luglio 2013, n. 16861).
L’impossibilità di fatto di usare la servitù (ad es., è crollato Quiescenza
l’edificio da cui esercitavo la servitù di veduta), così come la cessa- della servitù
zione della sua utilità (ad es., si inaridisce la sorgente nella servitù di
attingere acqua) non fanno, di per sé, estinguere la servitù, perché lo
stato dei luoghi potrebbe nuovamente mutare e la servitù divenire
ancora utile. Si ha, in questo caso, sospensione (o quiescenza) della
servitù: l’estinzione non si verifica se non quando sia decorso il
termine (ventennale) per la prescrizione (art. 1074 c.c.; v. Cass. 25
giugno 2013, n. 15988; Cass. 8 febbraio 2013, n. 3132).
Abbiamo visto che cosa è il modo di una servitù. Orbene, ci si Imprescrittidel
domanda: esso è soggetto a prescrizione estintiva? Per chiarire il bilità
modo
problema: se ho una servitù di veduta da cinque finestre e ne chiudo
quattro, posso esercitare la servitù, anche decorso il ventennio, da
tutte e cinque le finestre, riaprendo anche le quattro che avevo
chiuso, oppure devo limitarmi ad esercitarla dalla sola finestra rimasta aperta? Il problema è risolto dall’art. 1075 c.c.: la servitù si
I diritti reali
324
[§ 161]
conserva per intero, ciò perché per non uso si può estinguere solo il
diritto, non il modo, che non ha un valore autonomo; non muore ciò
che non ha vita propria (v. Cass. 23 settembre 2009, n. 20462).
§ 161.
Tutela della servitù.
A tutela delle servitù è preordinata l’« azione confessoria » (c.d.
confessoria servitutis o vindicatio servitutis), in forza della quale — di
fronte ad una contestazione dell’esistenza o consistenza della servitù
— chi se ne afferma titolare chiede una pronuncia giudiziale di
accertamento del suo diritto e, nell’ipotesi in cui la lamentata contestazione si sia tradotta in impedimenti o turbative all’esercizio della
servitù stessa (ad es., posa di uno sbarramento che impedisce il
passaggio), anche una pronuncia di condanna alla loro cessazione ed
alla rimessione delle cose in pristino (nel nostro esempio, attraverso la
rimozione dello sbarramento che impedisce il passaggio), oltre che al
risarcimento del danno (art. 1079 c.c.; v. Cass. 14 febbraio 2013, n.
3707).
LegittimazioLegittimato attivamente è colui che si afferma titolare della
ne attiva e servitù (v. Cass. 18 novembre 2013, n. 25809; v. anche Cass. 28 aprile
passiva
2017, n. 10617, in tema di legittimazione attiva dell’enfiteuta); legittimato passivamente è il soggetto che — avendo un rapporto attuale
con il fondo servente (ad es., ne è proprietario, comproprietario,
usufruttuario, ecc.) — contesta l’esercizio della servitù o che, comunque, ne turba o impedisce l’esercizio (art. 1079 c.c.; v. Cass. 22
gennaio 2014, n. 1332).
Onere
Come l’attore in rivendicazione deve fornire la dimostrazione
probatorio rigorosa del suo diritto di proprietà, così l’attore in confessoria
servitutis deve fornire la prova rigorosa dell’esistenza della servitù
(art. 2697 c.c.; v. Cass. 11 gennaio 2017, n. 472). Infatti, l’azione
confessoria ha carattere petitorio ed il suo accoglimento presuppone
l’accertamento del diritto alla servitù.
A tutela dello stato di fatto (c.d. possesso: v. §§ 174 ss.) corriTutela
petitoria e spondente alla servitù, possono invece esperirsi le azioni possessorie di
possessoria
reintegrazione (art. 1168 c.c.) e di manutenzione (art. 1170 c.c.), come
meglio si vedrà allorché ci occuperemo del possesso (v. §§ 185 ss.).
Azione
confessoria
CAPITOLO XV
LA COMUNIONE E IL CONDOMINIO
A) LA COMUNIONE
§ 162.
Nozione.
Un diritto soggettivo può appartenere a più persone, le quali Contitolarità
sono — tutte — contitolari del medesimo (unico) diritto (il quale di diritti
rimane identico a se stesso, nonostante faccia capo a più soggetti
diversi che lo condividono).
Il fenomeno della contitolarità — allorquando ha ad oggetto un Comunione
indiviso
diritto reale (ad es., Tizio e Caia comprano insieme un determinato pro
di diritti reali
appartamento; il padre, morendo, lascia il suo appartamento ai figli
Tizio e Caio; Tizio e Caia donano il loro appartamento al figlio,
riservandosi però il diritto di usufrutto sullo stesso; Tizio e Caio,
comproprietari del fondo dominante, acquistano una servitù di passaggio sul fondo servente di Sempronio; ecc.) — prende il nome di
« comunione pro indiviso » (o comproprietà, se trattasi di contitolarità
del diritto dominicale; cousufrutto, se trattasi di contitolarità del
diritto di usufrutto; ecc.).
Secondo l’opinione maggiormente accreditata (v. Cass. 28 gennaio 2015, n. 1650), il diritto (nei nostri esempi, di proprietà, di
usufrutto, di servitù, ecc.) di ciascuno dei contitolari investe l’intero
bene (così, ad es., se Tizio e Caia acquistano un immobile in comunione, il diritto di ciascuno cade non su questa o quella parte del bene
— la parte destra ovvero quella sinistra, il primo piano ovvero il
secondo — bensì sul cespite nella sua totalità), seppure il relativo
esercizio trovi necessariamente limite nell’esistenza dell’egual diritto
degli altri compartecipi.
A ciascuno dei contitolari spetta, dunque, una quota ideale La quota
sull’intero bene (così, ad es., se Tizio e Caia acquistano un immobile
pagando ciascuno il 50% del prezzo, si dirà che a ciascuno appartiene
una quota pari al 50% dell’intero; v. Cass. 14 aprile 2016, n. 7457):
detta quota è, di regola, disponibile (ad es., Tizio potrà vendere, in
I diritti reali
326
[§ 163]
qualsiasi momento, la sua quota del 50%) (art. 1103, comma 1, c.c.)
e segna, in linea di massima, la misura di facoltà, diritti ed obblighi
dei rispettivi titolari (ad es., Tizio e Caia, contitolari di un determinato immobile nella misura del 50%, ne divideranno i frutti — ad es.,
i canoni di locazione — in ragione di metà ciascuno, così come le spese
di gestione, le imposte, ecc.) (art. 1101, comma 2, c.c.).
Nell’ipotesi in cui non sia diversamente previsto, le quote si
Presunzione
di
presumono — presunzione iuris tantum (v. § 128) — uguali (art. 1101,
eguaglianza
delle quote comma 1, c.c.).
Ora — se quella fin qui delineata (cioè, quella della « comunione
Comunione
senza quote
per quote ») costituisce la figura generale di comunione prevista dal
nostro codice (artt. 1100 ss. c.c.) — l’ordinamento italiano conosce
altresì taluni istituti (ad es., la comunione legale fra coniugi di cui al
§ 597: v. Cass. 5 aprile 2017, n. 8803) che si avvicinano, invece, alla
figura della « comunione senza quote », di tradizione germanica, in cui
il bene appartiene non già pro quota ai singoli, bensì unitariamente al
gruppo.
Ma torniamo alla comunione per quote.
§ 163.
Comunione e società.
La « comunione » si distingue dalla « società » (v. §§ 504 ss.) per il
fatto che — mentre i compartecipi alla comunione si limitano ad
esercitare in comune il godimento di un determinato bene (c.d.
« comunione a scopo di godimento »: art. 2248 c.c.) — i compartecipi
alla società, almeno di norma, esercitano invece in comune, almeno di
norma, un’attività economica volta alla produzione ed allo scambio di
beni e servizi (artt. 2082 e 2247 c.c.; v. § 504).
Comunione
La distinzione diviene più labile allorquando si tratti di bene
di bene
produttivo (ad es., un fondo rustico, un’azienda, ecc.).
produttivo
In tal caso, si rimane nell’ambito della comunione — e trova
conseguentemente applicazione la relativa disciplina — se i compartecipi non utilizzano il bene, ovvero lo concedono in godimento a
terzi (ad es., Tizio e Caio affittano l’azienda comune a Sempronio, che
la gestisce imprenditorialmente), ovvero ancora si limitano a raccoglierne i frutti naturali, senza che la loro attività possa qualificarsi
come « d’impresa » ex art. 2082 c.c. (ad es., Tizio e Caio tagliano
periodicamente il bosco naturale che cresce sul loro fondo) (v. Cass.
25 maggio 2017, n. 13183).
Si scivola invece nell’ambito della società — con conseguente
applicazione della relativa disciplina — se i compartecipi (o alcuni di
Distinzione
[§ 165]
La comunione e il condominio
327
essi), attraverso lo strumento costituito dal bene produttivo, esercitano un’attività d’impresa. Così, ad es. — se il padre, che gestiva
un’impresa agricola sul fondo di sua proprietà, morendo, lascia la
propria azienda ai tre figli — fra questi ultimi verrà a costituirsi una
« comunione » sull’azienda paterna; se, poi, due dei tre figli dovessero
continuare l’attività del padre, si costituirà tra questi ultimi una
« società » (v. Cass. 2 ottobre 2018, n. 23952).
§ 164.
Costituzione.
Quanto ai modi di costituzione, la comunione per quote si distin- Comunione
gue in:
a) volontaria, quando scaturisce dall’accordo dei futuri contito- ... volontaria
lari (ad es., Tizio e Caio si accordano per comperare insieme un
immobile; Tizio e Caio si accordano per mettere in comunione due
distinti immobili, prima di proprietà individuale di ciascuno; ecc.);
b) incidentale, quando scaturisce senza un atto dei futuri conti- ... incidentale
tolari diretto alla sua costituzione (ad es., Tizio e Caio acquistano un
immobile in forza di un legato testamentario di Sempronio: v. §§ 663
s.; Tizio e Caio acquistano in comunione i frutti della cosa comune: v.
§ 89; ecc.; v. Cass. 15 novembre 2018, n. 29457);
c) forzosa, quando scaturisce dall’esercizio di un diritto potesta- ... forzosa
tivo da parte di uno dei futuri contitolari (ad es., comunione forzosa
del muro: artt. 874 e 875 c.c.; v. § 140; v. Cass. 10 novembre 2015, n.
22909; Cass. 8 luglio 2014, n. 15547).
Quando i beni comuni sono pervenuti ai contitolari in forza di
titoli diversi (ad es., i fratelli Tizio e Caio comprano oggi un immobile; un anno dopo ricevono in donazione dal padre un terreno), non
si realizza un’unica comunione, ma tante comunioni quanti sono i
titoli di provenienza dei beni (v. Cass. 30 ottobre 2018, n. 27645; Cass.
15 ottobre 2018, n. 25756).
§ 165.
Disciplina: profili generali.
Comunione
Quanto alla disciplina, si è soliti distinguere fra:
e
a) comunione ordinaria, che è quella regolata dagli artt. 1100- ordinaria
comunioni
1116 c.c.; e
speciali
b) comunioni speciali, che sono quelle figure autonomamente
previste e regolate dalla legge (ad es., il condominio negli edifici: v. §§
169 ss.; la comunione ereditaria: v. § 666; ecc.), cui le norme sulla
comunione ordinaria trovano applicazione solo laddove compatibili.
I diritti reali
328
Il titolo
[§ 166]
Per quel che riguarda la comunione ordinaria, la disciplina
prevista dal codice (artt. 1100 ss. c.c.) può — in linea di massima —
essere derogata dal titolo (ad es., il contratto o il testamento con cui
si dà vita alla comunione) (art. 1100 c.c.): sicché le regole legali
trovano applicazione solo in mancanza di una diversa disciplina
negoziale.
§ 166.
I poteri di godimento e di disposizione.
La disciplina legale della comunione ordinaria risponde alla
logica — già segnalata — secondo cui il diritto di ciascuno dei
contitolari, pur investendo il bene nella sua totalità, incontra un
limite nel diritto degli altri compartecipi.
Godimento
Per quel che riguarda il potere di godimento:
della cosa
A) ciascuno dei contitolari può servirsi della cosa comune (per
comune: il
c.d. uso es., passare nel cortile comune, viaggiare con l’autoveicolo comune,
promiscuo ecc.) (c.d. uso collettivo o promiscuo della cosa comune), a condizione
però — a tutela dell’interesse degli altri compartecipi — che:
i) non ne alteri la destinazione (ad es., trasformando la villa
comune in un albergo); e
ii) non impedisca agli altri contitolari di parimenti utilizzarla
(ad es., installando un impianto di condizionamento dell’aria che
occupi il 60% della superficie del ballatoio comune: v. Cass. 13 luglio
2017, n. 17400) (art. 1202, comma 1, c.c.).
Rispettati detti limiti, l’utilizzo che il singolo fa della cosa
comune non deve essere necessariamente proporzionato alla quota a
ciascuno spettante: se gli altri contitolari non lo utilizzano, anche chi
possiede una quota minima può fruire del bene in tutta la sua
estensione (art. 1102 c.c.; v. Cass. 16 aprile 2018, n. 9278).
... l’uso
Le parti possono derogare alla regola legale dell’uso promiscuo,
frazionato
concordando una divisione del godimento del bene comune nello spazio
(ad es., i due comproprietari di una villetta con due appartamenti
possono accordarsi per abitare, l’uno, l’appartamento del primo piano,
l’altro, quello del secondo piano) e/o nel tempo (ad es., i due comproprietari di un cavallo da sella possono accordarsi perché l’uno lo usi nei
giorni festivi e prefestivi, l’altro nei giorni feriali); così come possono
concordarne l’uso indiretto (ad es., concedendo l’appartamento comune in locazione a terzi) (v. Cass. 12 dicembre 2017, n. 29747).
Al fine di un suo miglior godimento, al singolo contitolare è
consentito apportare alla cosa comune le modificazioni che ritiene
necessarie (ad es., aprire una porta o una finestra nel muro comune,
La comunione e il condominio
[§ 167]
329
installare un meccanismo automatico per l’apertura del cancello
inserito nel muro comune, ecc.) — sempre nei limiti in cui ciò non
importi alterazione della destinazione del bene o impedimento del
diritto degli altri partecipanti a parimenti goderne — purché se ne
accolli le relative spese (art. 1102, comma 1, c.c.; v. Cass. 5 dicembre
2018, n. 31462);
B) ciascuno dei contitolari ha diritto di percepire i frutti della I frutti
cosa in proporzione della rispettiva quota (art. 1101, comma 2, c.c.;
v. Cass. 2 marzo 2015, n. 4162), pur dovendo partecipare in analoga
proporzione alle spese per la sua gestione, al pagamento delle imposte, ecc. (artt. 1101, comma 2, e 1104, comma 1, c.c.).
Per quel che riguarda poi il potere di disposizione, ciascun I poteri di
comproprietario può disporre della propria quota (art. 1103 c.c.), ad disposizione
della quota
es. alienandola, costituendola in usufrutto, ipotecandola (art. 2825
c.c.): non può — ovviamente — disporre né della quota altrui, né
dell’intero, che non gli competono (v. Cass. 8 ottobre 2014, n. 21286).
Gli atti di alienazione della cosa comune nella sua totalità, di I poteri di
costituzione su di essa di diritti reali, di instaurazione di locazioni di disposizione
del bene
durata superiore a nove anni — in breve, gli atti di disposizione del bene
comune — richiedono invece il consenso di tutti i contitolari (art. 1108,
comma 3, c.c.; v. Cass. 17 ottobre 2017, n. 24489): c.d. principio dell’unanimità.
§ 167.
L’amministrazione della cosa comune.
Per quel che riguarda l’amministrazione della cosa comune, L’amministraciascuno dei compartecipi ha diritto di concorrervi (art. 1105, comma zione ...
1, c.c.) (così, ad es., ha diritto di essere previamente informato delle
decisioni da assumere: art. 1105, comma 3, c.c.; v. Cass. 12 dicembre
2017, n. 29747). Non è però richiesto, per l’adozione delle relative
deliberazioni, il consenso di tutti: infatti assai spesso, specie quando
la comunione è fra molte persone, queste non riuscirebbero a mettersi
d’accordo, con pregiudizio per la conservazione della cosa. Perciò il
codice prevede che le deliberazioni relative all’amministrazione del
bene comune vengano adottate in base al c.d. principio di maggioranza, che si calcola non già in relazione al numero dei partecipanti,
bensì con riferimento al valore delle rispettive quote (art. 1105,
comma 2, c.c.). Così:
a) per gli atti di ordinaria amministrazione (quelli, cioè, finaliz- ... atti di
zati alla conservazione, alla normale utilizzazione, al miglior godi- ordinaria
amministramento della cosa comune) — che sono peraltro vietati, se gravemente zione
330
I diritti reali
[§ 167]
pregiudizievoli per la cosa comune (art. 1109, comma 1 n. 1, c.c.) —
è sufficiente il consenso di tanti comproprietari le cui quote rappresentino più della metà del valore complessivo della cosa comune (art.
1105, comma 2, c.c.; v. Cass. 23 marzo 2015, n. 5729);
b) per gli atti di straordinaria amministrazione — che sono,
... atti di
straordinaria
peraltro, in ogni caso vietati, se pregiudicano l’interesse di alcuno dei
amministrazione partecipanti (art. 1108, comma 2, c.c.) — occorre il consenso di tanti
comproprietari le cui quote rappresentino almeno i due terzi del
valore complessivo della cosa comune (art. 1108, comma 2, c.c.);
c) per le innovazioni dirette al miglioramento della cosa od a
...
innovazioni
renderne più comodo o redditizio il godimento — che sono, peraltro,
in ogni caso vietate, qualora pregiudichino il godimento di alcuno dei
partecipanti o importino una spesa eccessivamente gravosa — occorre parimenti il consenso di tanti comproprietari le cui quote
rappresentino almeno i due terzi del valore complessivo della cosa
comune (art. 1108, comma 1, c.c.).
Nell’ipotesi in cui non vengano presi i provvedimenti necessari
Amministratore
per l’amministrazione della cosa comune (ad es., perché non si riesce
giudiziario
a formare la maggioranza richiesta) — così come nell’ipotesi in cui la
decisione adottata non venga eseguita — ciascun compartecipante
può ricorrere all’Autorità giudiziaria perché emetta i provvedimenti
opportuni, eventualmente anche nominando un amministratore (c.d.
amministratore giudiziario) (art. 1105, comma 4, c.c.; v. Cass. 22
giugno 2017, n. 15548).
Se non vengono deliberati gli interventi necessari alla conservazione della cosa comune, il singolo può addirittura provvedervi
direttamente — dopo aver interpellato gli altri — con diritto al
rimborso delle spese sostenute (art. 1110 c.c.; v. Cass. 4 ottobre 2018,
n. 24160).
Le spese deliberate con le maggioranze sopraindicate — così
Le spese
come quelle necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa
comune — gravano (c.d. « obbligazioni propter rem »: v. § 131) su
ciascun compartecipe alla comunione (art. 1104, comma 1, c.c.) in
proporzione dell’entità della rispettiva quota (art. 1101, comma 2,
c.c.; v. Cass. 20 maggio 2011, n. 11264). Peraltro, quest’ultimo può
sottrarsi a detta obbligazione, rinunciando al proprio diritto, che
verrà a ripartirsi proporzionalmente — al pari dei relativi oneri — tra
gli altri partecipanti (v. Cass. 9 novembre 2009, n. 23691).
La giurisprudenza ritiene che ciascun contitolare possa legittiLa
rappresenmamente compiere atti di amministrazione del bene comune (ad es.,
tanza
stipulare contratti aventi ad oggetto il godimento del bene comune;
ad intimare lo sfratto all’inquilino dell’appartamento comune; ecc.),
[§ 168]
La comunione e il condominio
331
nei limiti in cui ricorrano i presupposti della « gestione di affari »
(artt. 2028 ss. c.c.: §§ 296 e 451; v. Cass., sez. un., 4 luglio 2012, n.
11135; e, da ultimo, Cass. 2 febbraio 2016, n. 1986); il che è escluso
allorquando risulti l’espressa volontà contraria degli altri comproprietari (v. Cass. 13 aprile 2017, n. 9556).
Del pari, si ritiene che il singolo partecipante sia legittimato a Le tutele
proporre azioni petitorie a difesa del diritto comune, azioni possessorie
a difesa della comune situazione possessoria (v. §§ 185 ss.), azioni
risarcitorie per i danni sofferti dalla cosa comune (v. Cass. 28 gennaio
2015, n. 1650).
Con il consenso di tanti comproprietari le cui quote rappresen- Regolamento
tino più della metà del valore complessivo della cosa comune, può della
comunione
essere formato un regolamento per l’ordinaria amministrazione ed il
miglior godimento della cosa comune (art. 1106, comma 1, c.c.; v.
Cass. 4 giugno 2010, n. 13632), così come può essere delegata ad uno
o più soggetti, scelti anche tra i non partecipi alla comunione,
l’amministrazione della cosa (art. 1106, comma 2, c.c.; v. Cass. 20
giugno 2017, n. 15271).
§ 168.
Scioglimento della comunione.
Il nostro codice — ritenendolo possibile occasione di liti fra i
compartecipi (« communio est mater rixarum ») — guarda con sfavore
allo stato di indivisione. Tant’è che:
a) da un lato, attribuisce a ciascuno dei partecipanti la facoltà Diritto di
lo
di chiederne, in qualsiasi momento ed anche contro la volontà della chiedere
scioglimento
maggioranza, lo scioglimento (art. 1111, comma 1, c.c.);
b) da altro lato, vieta che le parti possano convenzionalmente Patto di
vincolarsi a rimanere in comunione per un tempo superiore ai dieci indivisione
anni (c.d. patto di indivisione) (art. 1111, comma 2, c.c.).
L’eventuale indivisibilità (v. § 87) del bene comune (ad es., un
cavallo) non preclude lo scioglimento della comunione: il bene, infatti, può essere alienato a terzi, ovvero assegnato ad uno dei contitolari.
Lo scioglimento non è consentito solo se la comunione ha ad
oggetto beni che, se divisi, cesserebbero di servire all’uso cui sono
destinati (ad es., il cortile servente due immobili di proprietà individuale dei singoli comproprietari strutturalmente destinato a dare
aria, luce ed accesso a ciascuno di essi) (v. Cass. 4 marzo 2011, n.
5261).
I diritti reali
332
[§ 169]
B) IL CONDOMINIO
§ 169.
Il condominio negli edifici.
Il sempre più diffuso ricorso, per risolvere il problema dell’affollamento urbano, ad edifici suddivisi in più porzioni immobiliari,
normalmente sovrapposte, ha reso di crescente importanza la figura
del « condominio » (art. 1117-bis c.c.), che si ha allorquando in un
medesimo edificio coesistono più unità immobiliari di proprietà esclusiva di singoli condòmini (ad es., l’appartamento al primo piano
appartiene a Tizio, quello al secondo ai coniugi Caio e Sempronia,
ecc.) e parti comuni strutturalmente e funzionalmente connesse al
complesso delle prime. Tali si presumono (v. Cass. 9 agosto 2018, n.
20693; Cass. 24 aprile 2018, n. 10073) ad es.: (i) tutte le parti
dell’edificio necessarie all’uso comune (ad es., il suolo su cui sorge
l’edificio stesso, le fondazioni, i muri maestri, i tetti, le scale, i portoni
d’ingresso, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate); (ii) le aree
destinate a parcheggio (v. Cass. 21 febbraio 2018, n. 4255) ed i locali
per i servizi in comune (ad es., la portineria, la lavanderia, gli
stenditoi, ecc.); (iii) le opere, le installazioni ed i manufatti destinati
all’uso ed al godimento comune (ad es., gli ascensori, gli impianti
idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e trasmissione
per il gas, l’energia elettrica, il riscaldamento, il condizionamento
dell’aria, la ricezione radiotelevisiva, ecc.) (art. 1117 c.c., che peraltro
contiene un’elencazione non tassativa, ma solo esemplificativa delle
parti comuni: v. Cass. 16 gennaio 2018, n. 884).
La disciplina del codice civile in materia di condominio è stata
ampiamente modificata — ricorrendo alla tecnica della « novella » —
con L. 11 dicembre 2012, n. 220.
Salvo che sia diversamente previsto nel titolo (v. Cass. 2 marzo
Le parti
comuni
2017, n. 5336), le c.d. parti comuni si presume appartengano in
comunione a tutti i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari site nel condominio (art. 1117 c.c.) — pro quota — in proporzione
al valore di ciascuna di dette unità immobiliari rispetto al valore
dell’intero edificio (art. 1118, comma 1, c.c.).
Il singolo condomino:
Diritti e
doveri del
a) può far uso delle parti comuni (c.d. uso promiscuo), purché
singolo
non
compia
attività che incidano negativamente ed in modo sostancondomino
ziale sulla loro destinazione d’uso (art. 1117-quater c.c.), non impedisca agli altri condòmini di farne parimenti uso, non arrechi pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza ed al decoro architettonico dell’ediNozione
[§ 169]
La comunione e il condominio
333
ficio, non impedisca o limiti l’esercizio, da parte di un altro condomino, dei diritti dallo stesso vantati sulla porzione di sua proprietà
esclusiva, secondo quanto stabilito per la comunione ordinaria dall’art. 1102, comma 1, c.c. (v. Cass. 21 febbraio 2019, n. 5132; Cass. 4
luglio 2018, n. 17460);
b) può, sempre nei limiti appena indicati, apportare alle parti
comuni modificazioni funzionali ad un miglior godimento della propria unità immobiliare (ad es., aprire una porta nel muro condominiale per più comodamente accedere all’appartamento di proprietà
individuale: v. Cass. 5 dicembre 2018, n. 31462);
c) deve contribuire, in misura proporzionale alla propria quota,
alle spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti
comuni, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune (ad es.,
portierato, riscaldamento, ecc.), nonché per le innovazioni deliberate
dalla maggioranza (art. 1123, comma 1, c.c.; v. Cass. 24 febbraio
2017, n. 4844). Se si tratta di cose destinate a servire i condòmini in
misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che
ciascuno può farne (art. 1123, comma 2, c.c.; v. Cass. 28 febbraio
2019, n. 6010). In applicazione di tale ultimo principio, qualora un
edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti (ad es.,
ascensori) destinati a servire una parte soltanto dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo
di condòmini che ne trae utilità (art. 1123, comma 3, c.c.; v. Cass. 2
marzo 2016, n. 4127). Il condomino può, peraltro, sottrarsi alle
relative spese di gestione, rinunciando all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, sempre che dal suo
distacco non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi
di spesa per gli altri condòmini (v. Cass. 3 novembre 2016, n. 22285;
Cass. 13 novembre 2014, n. 24209); in ogni caso, il condomino
rinunciante al riscaldamento/condizionamento centralizzato resta
pur sempre tenuto a concorrere al pagamento delle spese per la
manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione
e messa a norma (art. 1118, comma 4, c.c.). In ipotesi di ritardo nel
pagamento delle spese che si protragga per almeno sei mesi, al
condòmino può essere sospesa la fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato (art. 63, comma 3, disp. att. c.c.);
d) non può — ad es., al fine di sottrarsi all’obbligo di contribuire
alle spese condominiali — rinunciare al suo diritto sulle parti comuni
(art. 1118, comma 2, c.c.; v. le precisazioni di Cass. 18 settembre
2015, n. 18344);
e) non può disporre (ad es., alienandole) delle parti comuni nella
loro totalità e — diversamente da quel che accade in tema di
I diritti reali
334
[§ 170]
comunione ordinaria — neppure della propria quota su di esse (così,
ad es., il singolo condomino non può cedere a terzi la propria quota
di comproprietà sul cortile comune), se non congiuntamente alla
porzione immobiliare di proprietà esclusiva (così come non può disporre della porzione immobiliare di sua proprietà esclusiva, se non
unitamente alla quota di comproprietà sulle parti comuni: v. Cass. 29
gennaio 2015, n. 1680); né può costituire diritti reali sulle parti
comuni, a tal fine occorrendo l’unanime consenso di tutti i condòmini
(v. Cass. 13 aprile 2016, n. 7201);
f) non può, nell’unità immobiliare di proprietà esclusiva, eseguire
opere che rechino danno alle parti comuni, ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio (art. 1122, comma 1, c.c.; v. Cass. 27 ottobre 2011, n. 22428).
Poiché le parti comuni sono funzionali ad un miglior sfruttaTendenziale
indivisibilità
mento
e godimento delle unità immobiliari di proprietà individuale,
delle parti
comuni ne è sancita — per regola — l’indivisibilità (proprio per ciò, tradizionalmente la comunione condominiale viene qualificata come « necessaria »). Peraltro, se ciò può avvenire senza rendere più incomodo
l’uso delle singole proprietà individuali, la divisione può essere disposta, purché vi sia il consenso di tutti i partecipanti al condominio
(art. 1119 c.c.).
§ 170.
L’assemblea e l’amministratore del condominio.
Organi del condominio sono: l’assemblea e — obbligatoriamente
solo quando i condòmini sono più di otto (art. 1129, comma 1, c.c.) —
l’amministratore.
L’assemblea, se lo ritiene opportuno, può nominare un revisore,
che verifichi la contabilità del condominio, e/o un consiglio di condominio — composto da almeno tre condòmini negli edifici di almeno
dodici unità immobiliari — con funzioni consultive e di controllo (art.
1130-bis c.c.).
Assemblea:
All’« assemblea » hanno diritto di intervenire — anche a mezzo di
diritto di
rappresentante munito di delega scritta — tutti i condòmini (art. 67,
intervento
comma 1, disp. att. c.c.).
...
Di competenza dell’assemblea sono: l’adozione del regolamento
competenze
condominiale (art. 1138, comma 3, c.c.), la nomina dell’amministratore, l’approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante
l’anno e la relativa ripartizione tra i condòmini, l’approvazione del
rendiconto annuale e l’impiego del residuo attivo di gestione, la
decisione in ordine alle opere di manutenzione straordinaria ed alle
Organi
[§ 170]
La comunione e il condominio
335
innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al
maggior rendimento delle parti comuni, sempre che non arrechino
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non ne
alterino il decoro architettonico e non rendano talune parti comuni
inservibili all’uso ed al godimento anche di un solo condòmino (artt.
1120 e 1135, comma 1, c.c.; v. Cass. 29 agosto 2018, n. 21342), la
modificazione della destinazione d’uso delle parti comuni, peraltro
consentita solo per esigenze di interesse condominiale e sempre che
non rechi pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato e
non ne alteri il decoro architettonico (art. 1117-ter, commi 1 e 5, c.c.),
la decisione in ordine ad eventuali azioni giudiziarie, attive o passive
(art. 1132, comma 1, c.c.), ecc.
L’assemblea — convocata dall’amministratore con avviso con- ... quorum
tenente l’indicazione del luogo e dell’ora della riunione, nonché del- costitutivo
l’ordine del giorno, e comunicato a tutti i condòmini almeno cinque
giorni prima della data fissata per l’adunanza (art. 66 disp. att. c.c.; ma
v. anche artt. 1117-ter, commi 2 e 3, e 1120, comma 3, c.c.; v. Cass. 25
marzo 2019, n. 8275) — è validamente costituita con l’intervento di
tanti condòmini che rappresentino i due terzi del valore dell’intero
edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio (c.d. « quorum
costitutivo ») (art. 1136, comma 1, c.c.). Se — come accade sovente —
non può deliberare per mancato raggiungimento del quorum costitutivo, l’assemblea può essere nuovamente convocata in un giorno successivo, ma non oltre dieci giorni, per deliberare sul medesimo ordine
del giorno: in questo caso, l’assemblea (c.d. « di seconda convocazione ») è validamente costituita con l’intervento di tanti condòmini
che rappresentino almeno un terzo del valore dell’intero edificio ed un
terzo dei partecipanti al condominio (art. 1136, comma 3, c.c.).
Le deliberazioni assembleari sono assunte, in prima convoca- ... quorum
zione, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli deliberativo
intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio; in seconda
convocazione, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza
degli intervenuti ed almeno un terzo del valore dell’edificio (art.
1136, commi 2 e 3, c.c.) (c.d. « quorum deliberativo »). Quorum deliberativi più elevati sono previsti per le materie indicate ai commi 4
e 5 dell’art. 1136 c.c. (ma v. anche artt. 1117-ter, comma 1, 1120,
commi 1 e 2, 1122-bis, comma 3, e 1138, comma 3, c.c.; nonché art.
3, comma 5-bis, D.L. 28 aprile 2009, n. 39).
Nelle deliberazioni relative alle spese ed alle modalità di ge- ... partecipadel
stione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria, il zione
conduttore
diritto di voto nell’assemblea di condominio compete, anziché al
proprietario dell’appartamento concesso in locazione, al conduttore
336
I diritti reali
[§ 170]
di esso (art. 10, comma 1, L. 27 luglio 1978, n. 392, « Disciplina delle
locazioni di immobili urbani »): è infatti su quest’ultimo che, salvo
patto contrario, sono destinati a gravare i relativi oneri (art. 9,
comma 1, L. n. 392/1978).
Per l’ipotesi in cui l’unità immobiliare di proprietà individuale
sia gravata da usufrutto, la partecipazione all’assemblea è disciplinata dall’art. 67, commi 6 e 7, disp. att. c.c.
Delle deliberazioni assembleari si deve redigere processo verbale,
...verbale
da trascriversi nel relativo registro tenuto dall’amministratore (art.
1136, comma 7, c.c.): dal verbale — insegnava la giurisprudenza
prima della recente riforma — debbono risultare i partecipanti
all’assemblea (in proprio o per delega), i nomi dei condòmini assenzienti, dissenzienti ed astenuti, nonché le rispettive quote millesimali
(v. § 171; v. Cass. 31 marzo 2015, n. 6552). La mancanza di dette
indicazioni importa l’annullabilità delle deliberazioni assunte dall’assemblea (v. Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806).
Le deliberazioni assunte dall’assemblea sono vincolanti per
... efficacia
delle
tutti i partecipanti al condominio (art. 1137, comma 1, c.c.; v. Cass.
deliberazioni
20 dicembre 2018, n. 33057).
Peraltro i condòmini assenti all’assemblea ovvero dissenzienti
...
impugnazione
od
astenuti
rispetto ad una determinata deliberazione possono impudelle
deliberazioni gnarla davanti all’autorità giudiziaria, se contraria alla legge o al
regolamento condominiale: c.d. « deliberazione annullabile » (v. Cass.
26 febbraio 2019, n. 5611). Il ricorso deve essere proposto, a pena di
decadenza, entro trenta giorni decorrenti, per i condòmini dissenzienti od astenuti, dalla data della deliberazione e, per i condòmini
assenti, dalla data in cui è stato loro comunicato il verbale dell’assemblea (art. 1137, comma 2, c.c.; v. Cass. 14 dicembre 2016, n.
25791). I condòmini dissenzienti o assenti perché non ritualmente
convocati possono impugnare anche le deliberazioni assunte da
un’assemblea relativamente alla quale risulti omessa, tardiva od
incompleta la convocazione degli aventi diritto (art. 66, comma 3,
disp. att. c.c.; v. Cass. 7 novembre 2016, n. 22573).
La giurisprudenza insegna che dalle deliberazioni semplice...
annullabilità
mente « annullabili » — perché contrarie alla legge o al regolamento
e nullità
delle di condominio (art. 1137, comma 2, c.c.) o perché assunte da un’asdeliberazioni semblea non regolarmente convocata (art. 66, comma 3, disp. att.
c.c.) — occorre tener distinte le deliberazioni « nulle »: tali debbono
qualificarsi — pur in assenza di una specifica previsione codicistica al
riguardo — le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con
oggetto impossibile (v. Cass. 23 gennaio 2018, n. 1629) o illecito
(contrario all’ordine pubblico, alla morale od al buon costume), le
[§ 170]
La comunione e il condominio
337
delibere con oggetto che non rientra nelle competenze assembleari
(ad es., le delibere che incidano sui diritti di godimento e/o di
disposizione dei singoli sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva
di ciascuno: v. Cass. 12 gennaio 2016, n. 305), le delibere che incidano
sui diritti individuali dei condòmini sulle cose o servizi comuni (ad
es., la delibera che assegni in via esclusiva ad un solo condomino l’uso
del cortile condominiale: v. Cass. 26 settembre 2018, n. 23076) (cfr.
Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806; e, da ultimo, Cass. 3 ottobre
2013, n. 22634). L’azione di nullità può essere esperita da chiunque vi
abbia interesse — e non solo dai condòmini assenti, astenuti o
dissenzienti — e non è soggetta a termini di prescrizione o decadenza
(v. Cass. 24 luglio 2012, n. 12930).
All’« amministratore » — che, nominato dall’assemblea (artt. Amministra1129, comma 1, e 1135, comma 1 n. 1, c.c.), dura in carica un anno tore:
competenze
(art. 1129, comma 10, c.c.), ma può essere revocato in ogni tempo
dall’assemblea stessa (art. 1129, comma 11, c.c.) — compete di
eseguire le deliberazioni dell’assemblea, convocarla annualmente per
l’approvazione del rendiconto condominiale, curare l’osservanza del
regolamento, disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei
servizi nell’interesse comune, riscuotere i contributi ed erogare le
spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni
dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni, compiere gli atti
conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni (v. Cass. 30 gennaio
2018, n. 2436), eseguire gli adempimenti fiscali, curare la tenuta del
registro di anagrafe condominiale (contenente, in primis, le generalità
dei singoli condòmini), del registro dei verbali delle assemblee, del
registro di nomina e revoca dell’amministratore e del registro di contabilità (ove devono essere annotati in ordine cronologico, entro trenta
giorni da quello della loro effettuazione, i singoli movimenti in
entrata ed in uscita), redigere il rendiconto condominiale annuale
della gestione (art. 1130, comma 1, c.c.), accendere uno specifico
conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio, sul quale
far transitare tutte le somme ricevute a qualunque titolo dai condòmini o da terzi, così come quelle a qualsiasi titolo erogate per conto
del condominio (art. 1129, comma 7, c.c.) e — salvo espressa dispensa
da parte dell’assemblea — agire, entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale il credito è divenuto esigibile, per la riscossione
forzosa delle somme dovute al condominio (art. 1129, comma 9, c.c.).
L’incarico di amministratore del condominio può essere confe- ... soggetti
rito non solo ad una persona fisica, ma anche ad una società lucrativa abilitati
(v. §§ 509 ss.), non importa se di persone o di capitali (art. 71-bis,
comma 3, disp. att. c.c.).
I diritti reali
338
[§ 171]
I provvedimenti presi dall’amministratore nell’ambito dei suoi
poteri sono obbligatori per i condòmini (v. Cass. 16 novembre 2017,
n. 27235). Contro detti provvedimenti è peraltro ammesso ricorso
all’assemblea (art. 1133 c.c.).
L’amministratore, nei limiti delle proprie attribuzioni, ha la
...
rappresentanrappresentanza del condominio; e può agire e resistere in giudizio —
za del
condominio sia contro i condòmini, sia contro i terzi — talora autonomamente
(art. 1131, comma 1, c.c.; v. Cass. 26 settembre 2018, n. 22911), talora
previa autorizzazione assembleare (v. Cass. 12 marzo 2018, n. 5900).
Per l’adempimento delle obbligazioni assunte dall’amministra...
obbligazioni
tore nell’interesse del condominio, i creditori (ad es., l’appaltatore cui
assunte
dall’ammini- sia stato affidato il rifacimento delle grondaie, il fornitore del gasolio
stratore per il riscaldamento, ecc.) possono agire nei confronti sia del condonell’interesse
del minio che dei singoli condòmini (che quindi rispondono in via solicondominio dale); con la precisazione che i creditori non possono però agire nei
confronti dei condòmini in regola con i pagamenti dovuti al condominio, se non dopo l’escussione degli altri condòmini: c.d. « beneficium
excussionis » (art. 63, comma 2, disp. att. c.c.).
Come anticipato (v. § 41), le sezioni unite della Suprema Corte (v.
La
soggettività
Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19663) hanno, di recente, osserdel
condominio vato che la riforma della disciplina legislativa del condominio — e, in
particolare, la previsione di cui all’art. 1129, comma 12 n. 4, c.c., che
impone all’amministratore di tenere distinta la gestione del patrimonio
del condominio da quella del patrimonio suo personale e del patrimonio
di altri condomìni; la previsione di cui all’art. 1135, comma 1. n. 4, c.c.,
che impone la costituzione obbligatoria di un fondo speciale da destinare ai lavori di manutenzione straordinaria ed alle innovazioni che
l’assemblea abbia a deliberare; e, soprattutto, la previsione di cui all’art. 2659, comma 1 n. 1, c.c., secondo cui, per le trascrizioni « a favore »
o « contro » i condomìni, è necessaria l’indicazione dell’eventuale denominazione, dell’ubicazione e del codice fiscale del condominio —
sembra deporre a favore « della progressiva configurabilità in capo al
condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma » (v.
però, da ultimo, Cass. 28 febbraio 2018, n. 4573).
... efficacia
dei provvedimenti
dell’amministratore
§ 171.
Regolamento
assembleare:
competenze
Il regolamento condominiale.
L’assemblea — obbligatoriamente nell’ipotesi in cui i condòmini
siano più di dieci (art. 1138, comma 1, c.c.) — approva, con le
maggioranze richieste per le deliberazioni in prima convocazione
[§ 171]
La comunione e il condominio
339
(comb. disp. artt. 1138, comma 3, e 1136, comma 2, c.c.), un regolamento che contenga le norme circa l’uso delle cose comuni, la ripartizione delle spese, la tutela del decoro dell’edificio, l’amministrazione del condominio (art. 1138 c.c.).
Per le infrazioni al regolamento può essere dal medesimo pre- Sanzioni
visto, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino ad E
200,00 e, in caso di recidiva, fino ad E 800,00: somme destinate alle
spese ordinarie di gestione condominiale (art. 70 disp. att. c.c.; v.
Cass. 16 gennaio 2014, n. 820).
Se non prevista nel titolo, al regolamento deve essere allegata la Tabelle
c.d. « tabella millesimale » (art. 68 disp. att. c.c.), la quale — ai fini millesimali
della ripartizione delle spese e del computo dei quorum costitutivi e
deliberativi assembleari — indica, espresso in frazione millesimale, il
rapporto proporzionale fra il valore della singola unità immobiliare di
proprietà esclusiva e quello dell’intero edificio (v. Cass. 10 maggio
2018, n. 11290).
Per la modifica delle tabelle millesimali è sufficiente la maggio- Approvazione
ranza prevista dall’art. 1136, comma 2, c.c.: (i) quando risulta che i emodificazione
valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nelle
tabelle sono conseguenza di un errore; ovvero (ii) quando, per le
mutate condizioni di una parte dell’edificio (in conseguenza di sopraelevazione, incremento di superfici, incremento o diminuzione
delle unità immobiliari), risulti alterato per più di un quinto il valore
proporzionale dell’unità immobiliare anche di uno solo dei
condómini. Negli altri casi è invece richiesto il consenso unanime di
tutti i condómini (art. 69 disp. att. c.c.; v. Cass. 25 ottobre 2018, n.
27159).
Posto che la loro competenza è circoscritta all’uso delle c.d. Disciplina del
parti comuni ed ai rapporti condominiali, né l’assemblea né il rego- godimento
delle unità
lamento approvato dall’assemblea (c.d. « regolamento assembleare ») immobiliari
possono imporre limitazioni ai diritti dei singoli condòmini sulle unità di proprietà
esclusiva
immobiliari di rispettiva proprietà esclusiva (ad es., non possono
vietare determinati usi delle singole porzioni immobiliari) (art. 1138,
comma 4, c.c.), ma solo — eventualmente — obblighi intesi a
garantire il reciproco rispetto delle comuni esigenze (ad es., possono
prevedere l’obbligo di non far rumore in determinate ore della
giornata; il divieto di installare tende sui balconi di proprietà individuale che alterino il decoro della facciata: v. Cass. 18 maggio 2016,
n. 10272; ecc.).
Naturalmente, nulla impedisce che i condòmini concordino — Regolamento
all’unanimità — limitazioni a carico delle rispettive proprietà esclu- contrattuale
sive, venendo così a costituire servitù reciproche, rispettivamente a
I diritti reali
340
[§ 172]
favore ed a carico delle singole unità immobiliari di proprietà di
ciascuno (v. § 154; v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5336), ovvero determinino le rispettive quote nel condominio in modo difforme da quanto
previsto dall’art. 1118 c.c. (v. Cass. 25 gennaio 2018, n. 1848), ovvero
impongano ai condòmini limitazioni od obblighi ulteriori rispetto a
quelli previsti dalla disciplina legale (v. Cass. 29 gennaio 2018, n.
2114), ovvero ancora attribuiscano ad alcuni condòmini diritti maggiori o minori rispetto a quelli che spetterebbero loro ex lege (v. Cass.
24 febbraio 2017, n. 4844), ecc. (v. anche Cass. 21 luglio 2017, n.
4432): in tal caso, l’accordo avrà natura contrattuale — e, ove formalizzato in un regolamento approvato da tutti, quest’ultimo si dirà
« contrattuale » — e dovrà essere redatto per iscritto (art. 1350, n. 4,
c.c.).
Equiparato al « regolamento contrattuale » è quello predisposto
dall’originario unico proprietario dell’edificio e da quest’ultimo fatto
accettare dagli acquirenti in sede della compravendita delle singole
unità immobiliari (v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5336).
In ogni caso, le clausole dei regolamenti approvati all’unanimità
... modifiche
e dei regolamenti apprestati dall’unico originario proprietario hanno
natura contrattuale solo nella parte in cui limitino i diritti dei
condòmini sulle proprietà esclusive o comuni, ovvero siano attributive ad alcuni condòmini di diritti maggiori o minori rispetto a quelli
che spetterebbero loro ex lege. Da ciò consegue che — mentre tali
ultime previsioni possono essere modificate solo con il consenso
unanime di tutti i condòmini — quelle che, pur approvate con il
consenso totalitario dei partecipanti, si limitino a disciplinare l’uso
dei beni comuni, possono essere invece modificate con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (v. Cass., sez. un., 30
dicembre 1999, n. 943; e, da ultimo, Cass. 4 giugno 2010, n. 13632).
Né il regolamento contrattuale, né — tantomeno — quello
Animali
domestici assembleare possono vietare di tenere animali domestici all’interno
delle unità immobiliari di proprietà esclusiva (art. 1138, comma 5,
c.c.).
In ogni caso, per la formazione del regolamento di condominio
Forma
(non importa se assembleare o contrattuale), così come per la sua
modifica è richiesta — ad substantiam — la forma scritta (v. Cass.,
sez. un., 30 dicembre 1999, n. 943; e, da ultimo, Cass. 7 giugno 2011,
n. 12291).
§ 172.
Nozione
Il supercondominio.
Nell’ipotesi in cui una pluralità di edifici, costituiti in distinti
condomìni, siano legati tra loro dall’esistenza di talune cose e/o
[§ 173]
La comunione e il condominio
341
impianti e/o servizi comuni (ad es., il viale d’accesso, le zone verdi,
l’impianto di illuminazione, i locali per la portineria, l’alloggio del
portiere, i parcheggi, l’impianto centralizzato per il riscaldamento,
ecc.) in rapporto di accessorietà rispetto a ciascuno di detti condomìni, si ha quello che viene comunemente denominato « supercondominio » (v. Cass. 28 gennaio 2019, n. 2279; Cass. 15 novembre 2017,
n. 27094). Ai singoli proprietari delle unità immobiliari facenti parte
di ciascun condominio spetta pro quota la proprietà sulle parti comuni, così come sugli stessi gravano i relativi oneri (v. Cass. 12
giugno 2018, n. 15262).
Secondo la giurisprudenza, al supercondominio sono applicabili: Disciplina
a) le norme dal codice dettate in tema di condominio, per
quanto riguarda le parti ed i servizi necessari ovvero oggettivamente
e stabilmente destinati all’uso ed al godimento di tutti gli edifici,
costituiti in altrettanti condomìni (c.d. rapporto di accessorietà necessaria) (ad es., le portinerie, gli impianti dei servizi idraulici o energetici, i sistemi centralizzati di riscaldamento e condizionamento
dell’aria, ecc.) (artt. 1117-bis c.c. e 67, comma 3, disp. att. c.c.; v.
Cass. 12 giugno 2018, n. 15262);
b) le norme dal codice dettate in tema di comunione, per quanto
riguarda altre eventuali strutture che siano invece dotate di una
propria autonoma utilità: che cioè — da un lato — costituiscano
parti o servizi non necessari per l’utilizzo delle unità abitative di
proprietà esclusiva e — da altro lato — ben possano essere oggetto di
utilizzazione autonoma (ad es., impianti sportivi, spazi di intrattenimento, centri commerciali inclusi nel comprensorio, ecc.; v. Cass.
18 aprile 2005, n. 8066).
Discorso analogo deve ripetersi (art. 1117-bis c.c.) con riferi- Il c.d.
mento al c.d. « condominio orizzontale », per tale intendendosi quel condominio
orizzontale
complesso residenziale costituito da più edifici autonomi di proprietà
individuale, che fruiscano però, per la loro utilizzazione ed il loro
godimento, di aree, strutture, installazioni, manufatti, servizi comuni; così come con riferimento alle unità immobiliari di proprietà
individuale (ad es., le c.d. villette a schiera) che abbiano però « parti
comuni » (Cass. 29 dicembre 2016, n. 27360).
C) LA MULTIPROPRIETÀ
§ 173.
La multiproprietà.
Il termine « multiproprietà » indica un’operazione economica L’operazione
volta ad assicurare al c.d. multiproprietario un potere di godimento, economica
342
I diritti reali
[§ 173]
che evoca quello che il codice riconosce al proprietario, su di un’unità
immobiliare — completamente arredata e, normalmente, inserita in
un più vasto insediamento turistico-residenziale (talora anche alberghiero e commerciale) — ma solo per un determinato e normalmente
invariabile periodo di ogni anno (ad es., dal 1o al 15 agosto); mentre
analogo potere, per i restanti periodi, compete agli altri multiproprietari.
Siffatta operazione ha conosciuto — specie negli anni passati —
particolare fortuna nel segmento di mercato della seconda casa
destinata alle vacanze, in quanto consente l’acquisizione della disponibilità, per il tempo delle ferie, di un’unità immobiliare in località
turisticamente attrezzate, a fronte di un esborso iniziale relativamente contenuto ed oneri di gestione accessibili: ciò, grazie al fatto
che i relativi costi vengono ripartiti fra un elevatissimo numero di
multiproprietari che, nell’arco dell’anno, si succedono nel godimento
del medesimo immobile.
Per dar veste giuridica all’operazione, la prassi italiana — in
La veste
giuridica
assenza di una disciplina legislativa del fenomeno — ha fatto ricorso,
in via prevalente, all’istituto della comunione:
a) a ciascun multiproprietario viene, infatti, venduta — in
forza di un normale rogito notarile di compravendita immobiliare (v.
§ 369) — una quota in comproprietà pro indiviso di un complesso
residenziale (comprendente il terreno lottizzato, l’insieme delle unità
abitative, il mobilio, gli arredi, i corredi, le attrezzature, gli impianti
necessari al godimento delle stesse, i locali comuni, le infrastrutture,
ecc.) (v. Cass. 19 marzo 2018, n. 6750);
b) a ciascun multiproprietario viene fatto contestualmente accettare un « regolamento della comunione », che — in deroga al disposto dell’art. 1102, comma 1, c.c., il quale accoglie il principio del c.d.
« uso promiscuo » della cosa comune — prevede, da un lato, una
divisione topografica del godimento del bene (il potere di godimento
di ciascun multiproprietario viene, cioè, limitato ad una predeterminata unità abitativa ed alle parti comuni del complesso residenziale) e,
da altro lato, un frazionamento cronologico di detto godimento (il
potere di godimento di ciascun multiproprietario viene, cioè, limitato
ad un prefissato periodo di ciascun anno: c.d. uso turnario).
In alternativa:
a) a ciascun multiproprietario viene venduta — sempre in forza
di un rogito notarile di compravendita immobiliare — una quota in
comproprietà di una singola unità immobiliare (con relativi mobili,
arredi e corredi) inserita in un più vasto complesso condominiale;
[§ 173]
La comunione e il condominio
343
b) a ciascun multiproprietario viene fatto contestualmente accettare un « regolamento della comunione », che prevede un frazionamento cronologico del godimento su detta unità immobiliare.
Nell’uno come nell’altro caso, la chiave di volta del sistema della
multiproprietà c.d. immobiliare — almeno così come si è affermato
nella prassi italiana — è rappresentata da uno strumento ben noto
alla nostra esperienza giuridica: quello della comproprietà pro indiviso, il cui regime legale viene derogato (come espressamente consentito dall’art. 1100, comma 1, c.c.) dal titolo; in forza, cioè, di un
accordo intercorrente fra tutti i partecipanti attraverso cui ciascuno,
pur continuando a rimanere contitolare dell’intero cespite, rinuncia a
servirsene nei tempi e/o in relazione agli spazi attribuiti in uso agli
altri (v. Cass. 16 marzo 2010, n. 6352).
Pur continuando a non dettare alcuna disciplina sostanziale Tutela
della multiproprietà, il legislatore italiano ha inserito nel c.d. « codice contrattuale
del
del consumo » (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) tutta una serie di consumatore
previsioni principalmente volte, da un lato, a garantire che chi
effettua un acquisto in multiproprietà sia pienamente edotto dei
termini dell’operazione che va a stipulare e, conseguentemente,
presti un consenso consapevole ed informato e, da altro lato, a
tutelare il consumatore contro il rischio di possibili scorrettezze del
professionista nell’esecuzione del contratto (artt. 69-81-bis cod.
cons.).
CAPITOLO XVI
IL POSSESSO
§ 174.
Le situazioni possessorie.
Altro è avere il diritto di godere e disporre di un determinato
bene (averne, cioè, la proprietà: art. 832 c.c.); altro è il fatto di
effettivamente godere e disporre di detto bene (esercitare cioè, in
concreto, i poteri dalla legge riconosciuti al proprietario).
Infatti — se è vero che, normalmente, chi ha il diritto di godere
e disporre di un determinato bene è anche colui che, di fatto, ne gode
e ne dispone (ad es., io godo, guidandola, o dispongo, vendendola,
dell’autovettura di mia proprietà) — può tuttavia accadere che il
proprietario non sia in grado, in concreto, di esercitare i poteri
riconosciutigli dalla legge (ad es., se mi rubano l’autovettura, non
sono in grado né di goderne né di disporne); così come può accadere
che un soggetto, pur non avendo il diritto di proprietà su un bene, si
comporti, di fatto, come se lo avesse (ad es., colui che mi ha rubato
l’autovettura ne gode e ne dispone, come se fosse proprietario).
Factum
Il codice attribuisce rilevanza giuridica alle situazioni di fatto
possessionis
che si estrinsecano attraverso un’attività corrispondente all’esercizio di
diritti reali: c.d. « situazioni possessorie » (art. 1140 c.c.). E ciò — si
badi — a prescindere dalla circostanza che alle stesse corrisponda o
meno la correlativa situazione di diritto.
Commoda
Invero, il factum possessionis assicura — di per sé solo — al
possessionis
possessore determinati vantaggi: c.d. « commoda possessionis ». Tra i
più importanti, la tutela possessoria (v. §§ 185 ss.); l’acquisto della
proprietà per usucapione (v. § 184) o in forza della regola « possesso
vale titolo » (v. § 183); la posizione di convenuto nell’azione di
rivendica, nell’ambito della quale, come si è visto, il possessore può
limitarsi a dire « possideo quia possideo » e l’attore ha l’onere di fornire
la prova del suo diritto di proprietà, non essendo sufficiente la prova
che il convenuto non ha diritto al possesso (v. § 143), ecc. E ciò — si
ripete — indipendentemente dalla circostanza che il possessore sia o
meno, al contempo, proprietario del bene.
Nozione
Il possesso
[§ 175]
345
Ragioni della
Le ragioni di siffatta scelta normativa sono varie:
delle
— in primo luogo, proteggendo il fatto esteriore e facilmente tutela
situazioni
accertabile della situazione possessoria, la legge assicura allo stesso possessorie
proprietario — che, di solito, è proprio colui che esercita, di fatto, i
poteri connessi al diritto di proprietà — una difesa rapida ed efficace;
— in secondo luogo, impedendo che si arrechi molestia o violenza al possessore, si conserva la pace tra i consociati: il possesso —
si afferma — è protetto ne cives ad arma ruant. Chi, contro lo stato di
fatto del possesso esercitato da altri, vuole opporre il proprio diritto,
deve agire in giudizio e non può farsi giustizia da sé, togliendo
all’altro la cosa (ad es., il proprietario che voglia riprendersi l’immobile occupato abusivamente da terzi non può farlo con la forza, ma
deve rivolgersi all’Autorità dello Stato).
A questo punto, si può agevolmente intendere la differenza che Ius
possessionis e
corre tra « ius possessionis » e « ius possidendi »:
ius possidendi
a) il primo designa l’insieme dei vantaggi che il possesso, di per
sé, genera a favore del possessore (commoda possessionis);
b) il secondo designa la situazione di chi ha effettivamente
diritto a possedere il bene: diritto che implica il potere di rivendicare
il bene stesso presso chiunque lo possieda sine titulo (così, ad es., il
ladro ha lo ius possessionis, ma non lo ius possidendi, che spetta
invece al proprietario).
Il possesso, dunque, non è un diritto, bensì una situazione di fatto Situazioni di
diritto e
produttiva di effetti giuridici.
situazioni di
Oggetto del possesso sono — come specifica l’art. 1140, comma fatto
1, c.c. — le « cose »: cioè, i beni materiali (v. § 80), non importa se allo Oggetto del
stato solido, liquido o gassoso (per il possesso di azienda v. Cass., sez. possesso
un., 5 marzo 2014, n. 5087).
Si ritiene comunemente che non possano essere oggetto di possesso le « cose di cui non si può acquistare la proprietà » (art. 1145,
comma 1, c.c.): cioè, i beni demaniali ed i beni del patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali (v. § 95; v.
Cass. 27 novembre 2018, n. 30720), che infatti non possono essere acquistati per usucapione (v. § 184). Detti beni sono, peraltro, suscettibili
di tutela possessoria nei limiti indicati dall’art. 1145, commi 2 e 3, c.c.
(v. Cass., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15289; e, da ultimo, Cass. 2
febbraio 2017, n. 2735).
§ 175.
Le distinte situazioni possessorie.
Ovviamente, il legislatore non attribuisce identica rilevanza a
346
I diritti reali
[§ 175]
tutte indistintamente le situazioni di fatto che comportano l’esercizio
di un potere su di un bene.
Al riguardo, occorre distinguere fra:
Possesso
a) possesso pieno (o corpore et animo) (art. 1140, comma 1, c.c.),
(pieno)
che — secondo l’opinione tradizionale — è caratterizzato dal concorso di due elementi costitutivi: l’uno oggettivo (c.d. corpus), consistente nell’avere il soggetto la disponibilità di fatto della cosa
(nell’averla, cioè, nella propria sfera di controllo); l’altro soggettivo
(c.d. animus possidendi), consistente nella volontà del soggetto di
comportarsi, con riferimento al bene, come proprietario, ad esclusione di qualsiasi altro (si pensi, ad es., alla situazione di colui che,
ritenendosi proprietario di un determinato bene, ne gode e ne dispone, disconoscendo qualsiasi diritto di terzi sul bene stesso; ovvero,
alla situazione del ladro della mia autovettura, che ne gode e ne
dispone, disconoscendo di fatto — pur sapendo che l’autovettura non
è sua — il mio diritto di proprietario);
Detenzione
b) detenzione (art. 1140, comma 2, c.c.), che — sempre secondo
l’opinione tradizionale — è caratterizzata dal concorso di due elementi costitutivi: l’uno oggettivo (c.d. corpus), consistente nell’avere
il soggetto la disponibilità di fatto della cosa (nell’averla, cioè, nella
propria sfera di controllo); l’altro soggettivo (c.d. animus detinendi),
consistente nella volontà del soggetto di godere e disporre del bene,
ma nel rispetto dei diritti che, sul medesimo bene, riconosce spettare ad
altri (si pensi, ad es., alla situazione dell’inquilino, che gode dell’appartamento concessogli in locazione, ma riconosce che detto appartamento è del proprietario e rispetta il diritto di quest’ultimo, ad es.,
pagando il canone, non apportando all’unità immobiliare innovazioni
non consentitegli, non alterandone la destinazione d’uso, ecc.);
Possesso
c) possesso mediato (o indiretto o solo animo) (art. 1140, comma
mediato
2, c.c.), che — sempre secondo l’opinione tradizionale — è caratterizzato dal solo elemento soggettivo (c.d. animus possidendi), mentre
la disponibilità materiale del bene compete al detentore (si pensi, ad
es., alla situazione di colui che, ritenendosi proprietario di un’unità
immobiliare concessa in locazione ad un inquilino, si comporta come
suo proprietario, sebbene la materiale disponibilità della stessa sia
dell’inquilino).
Compossesso
Il possesso — sia pieno sia mediato — su un determinato bene può
essere esercitato congiuntamente da più soggetti ad un medesimo titolo
(ad es., se due soggetti hanno acquistato una casa in comunione, di
regola eserciteranno congiuntamente il possesso sulla stessa; se due figli
hanno ereditato un appartamento dal padre, di regola eserciteranno
congiuntamente il possesso su tutta l’unità immobiliare; i condòmini
Il possesso
[§ 176]
347
di regola esercitano congiuntamente il possesso sulle parti comuni;
ecc.): si parla allora di compossesso, che si concretizza in un’attività
corrispondente all’esercizio di diritti (reali) in comunione (v. Cass. 19
febbraio 2019, n. 4844; Cass. 30 marzo 2016, n. 6154).
§ 176.
Possesso e detenzione.
Secondo l’impostazione tradizionale, dunque, « possesso » L’animus
(pieno) e « detenzione » sono caratterizzati dal medesimo elemento
obiettivo: cioè, la materiale disponibilità del bene (corpus) (così, ad es.,
il medesimo fatto oggettivo della guida di un autoveicolo può corrispondere sia ad una situazione possessoria che ad una situazione
detentoria). Si distinguono tra loro in base all’elemento soggettivo
(animus): animus detinendi nella detenzione, animus possidendi (rem
sibi habendi) nel possesso (così, per restare al nostro esempio, se il
soggetto alla guida del veicolo è un ladro, sarà « possessore »; se è un
amico cui ho prestato la mia vettura, sarà « detentore »).
Peraltro, da più parti si rileva, da un lato, che i requisiti ... e il titolo
soggettivi dell’animus possidendi e dell’animus detinendi non trovano
riscontro alcuno nelle previsioni codicistiche; da altro lato, che — in
realtà — ai fini della qualificazione di una situazione di fatto come
« possessoria » o « detentoria » rileva non tanto lo stato psicologico
soggettivo (animus) di chi acquisisce la materiale disponibilità del
bene (corpus), quanto il titolo in forza del quale detta acquisizione si
verifica (così, ad es., se uno studente prende a prestito un libro dalla
biblioteca universitaria, diventa sempre detentore del libro stesso: e
ciò, sia che — come solitamente avviene — lo stesso sia soggettivamente intenzionato a rispettare il diritto della biblioteca, restituendo
il libro, non sgualcendolo, ecc.; sia che, fin dall’origine, sia invece
soggettivamente intenzionato a non rispettare tale diritto, nutrendo
in cuor suo la volontà — ovviamente non manifestata alla biblioteca
— di far definitivamente proprio il volume che prende a prestito) (v.
Cass. 8 giugno 2017, n. 14272).
Invero, ciò che rileva ai fini della distinzione fra « possesso » e
« detenzione » è non già lo stato psicologico che il soggetto nutre, nel
proprio interno, nel momento in cui acquisisce la materiale disponibilità del bene (così, per tornare al nostro esempio, il fatto che, nel
momento in cui prende in prestito il libro dalla biblioteca, lo studente
nutra, fra sé e sé, la volontà di rispettare ovvero di non rispettare i
diritti della biblioteca), bensì lo stato psicologico (animus) che, in
quel momento, il soggetto manifesta all’esterno: e, all’esterno, l’ani-
348
I diritti reali
[§ 176]
mus manifestato — se possidendi o detinendi — dipende, in buona
sostanza, dal titolo in forza del quale avviene siffatta acquisizione
(così, sempre per restare al nostro esempio, nel momento stesso in cui
prende un libro in prestito dalla biblioteca con l’impegno di restituirlo senza danneggiamenti, lo studente fa mostra, all’esterno, di
voler rispettare — animus detinendi — i diritti della biblioteca: a
nulla rileva se siffatta volontà coincida o meno con quella effettiva)
(v. Cass. 2 dicembre 2016, n. 24637), ovvero dalle modalità con cui
detta acquisizione si realizza (così, ad es., nel momento stesso in cui
ruba la mia autovettura, il ladro fa mostra di non voler rispettare —
animus possidendi — il mio diritto di proprietà sul veicolo) (v. Cass.
18 ottobre 2016, n. 21015).
Nel dubbio, l’esercizio del potere di fatto su un bene si presume
Presunzione
di possesso
— salvo prova contraria — integrare la fattispecie del possesso (art.
1141, comma 1, c.c.; v. Cass. 28 febbraio 2013, n. 5037): spetta a chi
nega la sussistenza del possesso l’onere di provare che, nel caso di
specie, ricorre un’ipotesi di semplice detenzione (v. Cass. 27 settembre 2017, n. 22667).
Per le ragioni fin qui esposte, a nulla rileva, in sé, la circostanza
Mutamento
della
che il soggetto, che ha cominciato a detenere un determinato bene
detenzione in
possesso (animus detinendi), in un secondo momento modifichi in cuor suo
l’atteggiamento psicologico originario e intenda, per il futuro, comportarsi come un vero e proprio proprietario (animus possidendi),
senza più rispettare il diritto di terzi (così, ad es., non vale a
trasformare la detenzione in possesso il fatto — per ritornare al
nostro esempio — che lo studente, dopo aver acquisito la disponibilità materiale del libro per averlo preso in prestito dalla biblioteca,
decida, nel suo intimo, di non restituirlo più).
Il mutamento della detenzione in possesso — c.d. interversio
possessionis o, in lingua italiana, interversione del possesso (v. Cass. 28
febbraio 2013, n. 5038) — (art. 1141, comma 2, c.c.) può avvenire solo
se la modificazione dello stato psicologico del detentore venga manifestata all’esterno (v. Cass. 8 marzo 2011, n. 5419):
a) in forza di « opposizione » (c.d. « contradictio ») dal detentore
rivolta al possessore (art. 1141, comma 2, c.c.; v. Cass. 17 maggio 2018,
n. 12080): in forza, cioè, di un atto — non importa se giudiziale o
stragiudiziale, scritto od orale, dichiarativo o costituente una mera
condotta materiale — con cui il detentore manifesti inequivocabilmente
l’intenzione di continuare, per il futuro, a tenere la cosa per sé non più
come detentore e, quindi, in nome del proprietario, bensì come possessore, per conto ed in nome proprio (così, costituirà idonea contradictio — per riprendere ancora una volta il nostro esempio — la di-
Il possesso
[§ 177]
349
chiarazione rivolta alla biblioteca, nella quale lo studente neghi di dover restituire il libro; non altrettanto potrà dirsi relativamente al fatto
materiale che lo studente non provveda tempestivamente alla restituzione, in quanto detta omissione risulta equivoca: infatti potrebbe
essere determinata non già dall’intento volitivo di tenere il libro definitivamente per sé, bensì da una dimenticanza, da una malattia, ecc.)
(v. Cass. 11 aprile 2019, n. 10186; Cass. 3 luglio 2018, n. 17376); ovvero
b) in forza di « causa proveniente da un terzo » (art. 1141,
comma 2, c.c.): in forza, cioè, di un atto con il quale l’attuale
possessore — quand’anche non legittimato a disporre del bene —
attribuisca al detentore il diritto corrispondente la propria posizione
possessoria (si pensi, ad es., al caso del ladro che, dopo avermi
concesso la detenzione del bene perché lo esamini ai fini dell’acquisto,
me lo vende) (v. Cass. 27 maggio 2010, n. 13008).
§ 177.
Le qualificazioni del possesso e della detenzione.
Il possesso si distingue, a sua volta, in:
a) possesso legittimo, che si ha allorquando il potere di godere e Possesso
disporre del bene è esercitato dall’effettivo titolare del diritto di legittimo
proprietà: in tal caso la situazione di fatto coincide esattamente con
la situazione di diritto (ad es., il pescatore non solo gode e dispone, di
fatto, del pesce pescato, ma ha altresì il diritto di goderne e disporne:
art. 923 c.c.; v. § 142);
b) possesso illegittimo, che si ha allorquando il potere di godere e ... illegittimo
disporre del bene è esercitato, di fatto, da persona diversa dall’effettivo
titolare del diritto di proprietà: in tal caso la situazione di fatto non
coincide con la situazione di diritto; e si articola, a sua volta, in:
(i) possesso (illegittimo) di buona fede (art. 1147, comma 1, c.c.), ... di buona
che si ha allorquando il possessore ha acquisito la materiale disponi- fede
bilità del bene, ignorando di ledere l’altrui diritto, sempreché detta
ignoranza non dipenda da sua colpa grave (art. 1147, comma 2, c.c.)
(ad es., porto a casa un quadro, acquistato presso una nota casa
d’aste, senza aver ragione per sospettarne la provenienza furtiva).
Nel caso di errore inescusabile, il possessore non è considerato in
buona fede. In definitiva, la qualifica di possessore di buona fede
dipende dalle circostanze nelle quali avviene l’acquisto del possesso
(c.d. buona fede oggettiva): se il bonus pater familias, nelle medesime
circostanze, avrebbe ritenuto di comportarsi correttamente, il possessore è in buona fede, altrimenti si deve concludere che il possessore
è in mala fede;
350
I diritti reali
[§ 177]
(ii) possesso (illegittimo) di mala fede, che si ha allorquando il
possessore ha acquisito la materiale disponibilità del bene, conoscendo il difetto del proprio titolo d’acquisto (ad es., occupo abusivamente un appezzamento di terreno, che mi è noto appartenere ad
un terzo), ovvero dovendolo conoscere con l’ordinaria diligenza (ad
es., acquisto la disponibilità di un immobile in forza di una compravendita fatta — in violazione dell’art. 1350, n. 1, c.c. — oralmente);
... viziato da
(iii) possesso (illegittimo) vizioso, che si ha allorquando il posviolenza o
sessore
ha acquisito la materiale disponibilità del bene non solo in
clandestinità
mala fede, ma addirittura con violenza (ad es., mediante rapina),
ovvero clandestinità (ad es., mediante furto).
Presunzione
La buona fede, in materia di possesso, si presume (art. 1147,
di buona
comma 3, c.c.). Peraltro, si tratta di presunzione iuris tantum (v. §
fede
128): grava su chi contesta la buona fede del possessore l’onere di
provare la sua mala fede (adducendo, ad es., indizi idonei a far
concludere che l’uomo medio, in quelle circostanze, non avrebbe
potuto non rendersi conto di acquistare il possesso con un titolo
difettoso; v. Cass. 18 settembre 2013, n. 21387).
Il principio:
Per qualificare il possesso come « di buona fede », non occorre
mala fides
che la buona fede perduri per tutta la durata del possesso; è suffisuperveniens
non nocet ciente che vi sia stata al momento del suo acquisto: mala fides
superveniens non nocet (art. 1147, comma 3, c.c.).
La detenzione si distingue, a sua volta, in:
Detenzione
a) detenzione qualificata, che si ha allorquando il detentore ha
qualificata
acquisito la materiale disponibilità del bene nell’interesse proprio (ad
es., l’inquilino, l’affittuario di un fondo rustico, il coniuge o il convivente more uxorio del proprietario di un appartamento o dell’inquilino, ecc.) ovvero nell’interesse del possessore (ad es., il mandatario:
v. § 390): nel primo caso si parla di detenzione (qualificata) autonoma
(v. Cass. 2 gennaio 2014, n. 7); nel secondo, di detenzione (qualificata)
non autonoma;
... non
b) detenzione non qualificata, che si ha allorquando il detentore
qualificata
ha acquistato la materiale disponibilità del bene per ragioni di
ospitalità (si pensi, ad es., all’amico che accolgo nel mio appartamento) ovvero di servizio (si pensi, ad es., all’autista cui affido la mia
autovettura perché la guidi) o di lavoro (si pensi, ad es., al meccanico
cui affido la mia autovettura per la riparazione).
Le appena ricordate distinzioni fra le varie situazioni possessorie e detentorie hanno notevole importanza pratica, in quanto —
come si vedrà fra breve (v. §§ 181 ss.) — la legge attribuisce a
ciascuna di esse una diversa rilevanza giuridica: è infatti evidente che
l’ordinamento giuridico non può trattare alla stessa guisa il ladro o il
... di mala
fede
Il possesso
[§ 178]
351
rapinatore e chi si è immesso nel possesso della cosa credendo in
buona fede di esserne proprietario; chi possiede un bene perché ne è
proprietario e chi se ne è impossessato ledendo l’altrui diritto; ecc.
§ 178.
Il possesso di diritti reali minori.
Per ragioni di semplicità espositiva, sin qui si è parlato di Nozione
situazioni di fatto che corrispondono all’esercizio del diritto di proprietà: c.d. « possesso uti dominus ».
Peraltro, vi possono anche essere situazioni di fatto che corrispondono all’esercizio di diritti reali c.d. minori: così, ad es., se sopra un fondo
viene fatto passare un acquedotto, si ha possesso della servitù (cioè, esercizio di fatto di poteri corrispondenti all’esercizio del diritto di servitù di
acquedotto; e non è detto che colui che utilizza il fondo altrui abbia effettivamente un corrispondente diritto di servitù); se sopra un fondo esercito i poteri tipici dell’usufruttuario, si avrà possesso dell’usufrutto (e non
è detto che colui che gode del fondo altrui, rispettandone la destinazione,
abbia effettivamente il diritto di usufrutto); ecc.
Il codice limita la figura del possesso alle situazioni di fatto
corrispondenti all’esercizio di diritti reali (art. 1140, comma 1, c.c.;
ma v. Cass., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2735).
Sul medesimo bene — così come possono gravare più diritti reali
— possono coesistere più possessi di diverso tipo (ad es., il possesso a
titolo di proprietà di Tizio può coesistere con un possesso a titolo di
usufrutto di Caio e/o con un possesso a titolo di servitù di Sempronio:
v. Cass. 28 gennaio 2015, n. 1584).
Chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale Interversione
minore (ad es., a titolo di servitù o di usufrutto) può modificare il del possesso
titolo del proprio possesso (ad es., trasformare l’originario possesso a
titolo di usufrutto in possesso a titolo di proprietà, al fine — poniamo
— di usucapire tale ultimo diritto) solo attraverso uno di quei mezzi
che già abbiamo visto (v. § 176) idonei a consentire la trasformazione
della detenzione in possesso (c.d. interversione del possesso; v. Cass. 10
gennaio 2011, n. 355); e, cioè, attraverso:
a) l’« opposizione » fatta dal possessore a titolo di diritto reale
minore nei confronti del possessore a titolo di proprietà; ovvero
b) la « causa proveniente da un terzo » (art. 1164 c.c.).
Nell’ipotesi in cui la proprietà di un bene spetti in comunione Da possesso
pro indiviso a più soggetti (v. §§ 162 ss.), il partecipante, per acqui- uti
condominus a
sirne il possesso esclusivo, non ha necessità — insegna la giurispru- possesso uti
denza — di compiere atti di interversio possessionis ex art. 1164 c.c., dominus
I diritti reali
352
[§ 179]
essendo sufficiente che goda del bene con modalità incompatibili con
la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziarne l’inequivoca
volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus (v. Cass.
4 maggio 2018, n. 10734; Cass. 18 aprile 2018, n. 9556; Cass. 12 aprile
2018, n. 9100).
§ 179.
L’acquisto e la perdita del possesso.
L’acquisto del possesso può avvenire:
a) in modo originario, con l’apprensione della cosa contro o
senza la volontà di un eventuale precedente possessore (c.d. impossessamento) ed il conseguente esercizio sulla cosa stessa di poteri di
fatto corrispondenti a quelli spettanti al titolare di un diritto reale
(ad es., occupo una casa abbandonata, mi approprio di un’autovettura incustodita, rapino il campionario al rappresentante di gioielli,
ecc.; v. Cass. 28 febbraio 2013, n. 5037).
La tolleranza
Non si ha acquisto del possesso se l’apprensione del bene ed il
relativo esercizio di fatto del diritto reale si verificano per mera
tolleranza del possessore (art. 1144 c.c.; v. Cass. 29 maggio 2015, n.
11277): ossia, quando chi potrebbe impedire l’acquisto del corpus se
ne astiene per spirito di amicizia, di cortesia, di buon vicinato, ecc.
(così, se un amico o un vicino, per mia condiscendenza, si trattiene
nella mia villa quando non ci sono, non per questo ne diventa
possessore);
Acquisto a
b) in modo derivativo, con la consegna (c.d. traditio o, in lingua
titolo
italiana,
« tradizione ») — materiale (ad es., consegna di un plico nelle
derivativo
mani del destinatario) o simbolica (ad es., consegna di un appartamento mediante consegna delle chiavi) — del bene da parte del
precedente al nuovo possessore. Non è necessaria, perché si abbia
consegna, la materiale apprensione del bene da parte dell’accipiens,
essendo sufficiente che quest’ultimo consegua la possibilità, attuale
ed esclusiva, di agire liberamente su di esso (ad es., consegna di merci
mediante consegna delle chiavi del locale in cui le stesse sono depositate).
Peraltro, l’esperienza conosce due figure di traditio ficta, in cui
La c.d.
traditio ficta:
non si ha alcun mutamento nella relazione di fatto con la cosa (che
...
resta sempre nelle mani della stessa persona); ciò che muta è solo
l’animus:
(α) la traditio brevi manu, che si ha allorquando il detentore
... traditio
brevi manu
acquista il possesso del bene (ad es., se il proprietario vende la casa
all’inquilino, quest’ultimo, che già la deteneva, con la vendita ne
Acquisto a
titolo
originario
[§ 179]
Il possesso
353
acquista il possesso, pur non mutando la sua relazione di fatto con il
bene);
(β) il costituto possessorio, che si ha allorquando il possessore, ... costituto
perdendo il possesso, acquista però la detenzione del bene (ad es., se possessorio
chi acquista un immobile contemporaneamente lo concede in locazione al venditore, quest’ultimo conserva la relazione materiale con il
bene quale detentore, ma perde il possesso che d’ora in poi spetta
all’acquirente; v. Cass. 21 marzo 2014, n. 6742).
Poiché il possesso è — come si è detto — una situazione di fatto,
la giurisprudenza (v. Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 7930; e, da
ultimo, Cass. 11 giugno 2014, n. 13222) ritiene inammissibile un
contratto avente ad oggetto il solo trasferimento del possesso, disgiunto dal diritto reale di cui costituisca l’esercizio (così, ad es.,
inammissibile sarebbe un contratto in forza del quale Tizio trasferisse
a Caio, a fronte di un corrispettivo in danaro, il possesso uti dominus
del bene, di cui Tizio si riservi però la proprietà). Per il trasferimento
del possesso occorrerebbero dunque — da un lato — un contratto
(anche viziato: ad es., perché il venditore non è proprietario del bene,
o perché il contratto non è stato stipulato nella forma solenne
richiesta dalla legge, ecc.) purché astrattamente idoneo a trasferire il
diritto reale e — da altro lato — la traditio.
In dottrina si è obiettato che, se una consegna effettivamente
consegua ad un contratto con il quale le parti hanno inteso trasferire
il mero possesso, essa appare comunque idonea — ricorrendone i
presupposti — a far iniziare un possesso in capo all’acquirente (v. ora
Cass. 4 luglio 2017, n. 16412).
La perdita del possesso si verifica per il venir meno di uno o di Perdita del
entrambi gli elementi del possesso: cioè, del corpus e/o dell’animus possesso
possidendi (se abbandono il bene, se lo trasferisco ad altri, vengono
meno e l’uno e l’altro; se qualcuno si impossessa del bene senza o
contro la mia volontà, viene meno il solo corpus; se — come nel caso
del costituto possessorio — cedo il possesso del bene, conservandone
però la detenzione, viene meno il solo animus; ecc.: v. Cass. 29
gennaio 2016, n. 1723; v. anche Cass. 2 ottobre 2018, n. 23850).
Per la perdita del corpus, non è sufficiente una semplice dimenticanza momentanea del bene (ad es., scordo l’ombrello a casa di
amici) — né, tantomeno, un occasionale distacco fisico dalla cosa (ad
es., lascio la macchina parcheggiata lungo la strada), che non precluda però al soggetto di ripristinare il rapporto materiale con la
stessa — occorrendo invece la sua definitiva irreperibilità od irrecuperabilità da parte del possessore (ad es., a seguito di uno smarri-
I diritti reali
354
[§ 180]
mento vero e proprio, di un furto, di una rapina, ecc.; v. Cass. 29
gennaio 2016, n. 1723).
Il possesso degli animali selvatici si perde allorché essi riacquistino la naturale libertà; il possesso di quelli mansuefatti allorché essi
perdano la consuetudo revertendi.
Per quanto concerne gli immobili, la dottrina tradizionale ritiene che la conservazione possa avvenire anche per solo effetto della
persistenza dell’animus, nonostante si sia perduta la disponibilità
fisica, limitatamente al periodo di tempo — un anno — entro cui si
può esercitare l’azione di spoglio (art. 1168 c.c.: v. § 186).
§ 180.
Successione nel possesso ed accessione del possesso.
Il possesso, alla morte del possessore, continua in capo al suo
successore a titolo universale (erede: v. § 624) ipso iure — cioè, anche
in mancanza di una materiale apprensione del bene da parte dell’erede
e perfino se questi ignora l’esistenza del bene ovvero che questo fa parte
dell’eredità (v. Cass. 20 luglio 2011, n. 15967) — e con quei medesimi
caratteri che aveva rispetto al defunto (così, se il defunto era in buona
fede, si considera in buona fede anche l’erede, seppure per avventura
sappia di ledere l’altrui diritto; se, invece, il defunto era in mala fede,
poco importa che l’erede sappia o non sappia di ledere l’altrui diritto:
egli subentra nella stessa posizione in cui si trovava il defunto e, quindi,
secondo la legge, nel suo stato psicologico): si parla, in tal caso, di
« successione nel possesso » (art. 1146, comma 1, c.c.).
Accessione
Ben diversa dalla successione nel possesso (applicabile solo ai
nel possesso:
successori a titolo universale, cioè agli eredi) è l’« accessione del pospresupposti e
disciplina sesso » — di cui parla l’art. 1146, comma 2, c.c. — applicabile solo a
chi acquista il possesso in forza di un titolo (ad es., vendita, legato,
ecc.) astrattamente idoneo a trasferire a titolo particolare la proprietà
(o altro diritto reale) sul bene (v. Cass. 13 agosto 2018, n. 20715) e
sempre che acquisti egli stesso il possesso (laddove, per l’erede,
l’acquisto del possesso avviene — come detto — ipso iure, e quindi
pure in assenza della materiale apprensione della cosa). L’acquirente
a titolo particolare acquista un possesso nuovo, diverso da quello del
suo dante causa. Pertanto può essere in buona fede, benché il suo
dante causa fosse in mala fede, e viceversa. Le qualifiche del possesso
vanno, cioè, valutate nei confronti dell’acquirente, senza dare rilievo
alla situazione in cui si trovava l’alienante.
Orbene, il successore a titolo particolare può — se lo ritiene utile
(v. Cass. 6 giugno 2018, n. 14505) — sommare al periodo in cui ha egli
Successione
nel possesso:
presupposti e
disciplina
Il possesso
[§ 182]
355
stesso posseduto, anche il periodo durante il quale hanno posseduto
i suoi danti causa: questa sommatoria dei due o più periodi può,
infatti, risultare utile ai fini dell’usucapione, dell’azione di rivendicazione, dell’azione di manutenzione, ossia ogni volta che assuma
rilievo la durata del possesso (così, ad es., se compero un bene mobile
da chi non è proprietario e sono in buona fede, non avrò alcuna
convenienza ad invocare, ai fini dell’acquisto della proprietà del
bene, l’accessio possessionis, in quanto all’uopo basterà far ricorso
alla regola « possesso vale titolo » ex art 1153 c.c.: v. § 183; se invece
compero un bene mobile da chi so non esserne proprietario, mi potrà
convenire, sempre ai fini dell’acquisto della proprietà del bene,
invocare l’accessio possessionis, onde poter sommare a quella del mio
possesso la durata del possesso del mio dante causa ai fini del
computo del tempo necessario per l’usucapione: v. § 184).
§ 181.
Effetti del possesso.
Il possesso rileva principalmente:
a) quale titolo per l’acquisto dei frutti del bene posseduto e per
il rimborso delle spese sullo stesso effettuate (v. § 182);
b) quale possibile presupposto per l’acquisto della proprietà del
bene posseduto (v. §§ 183 ss.);
c) quale oggetto di tutela contro le altrui aggressioni (v. §§ 185
ss.).
§ 182.
L’acquisto dei frutti ed il rimborso delle spese.
Il possessore (illegittimo) è, di norma, tenuto a restituire al Frutti e
di
titolare del diritto non solo il bene — e, se non lo fa spontaneamente, possesso
mala fede
può esservi costretto attraverso l’esperimento dell’azione di rivendicazione (v. § 143) — ma anche i frutti (v. § 89) prodotti dal bene a
partire dal momento in cui ha avuto inizio il suo possesso (v. Cass. 6
giugno 2014, n. 12798).
La regola, peraltro, trova eccezione in caso di possesso (illegit- Frutti e
di
timo) di buona fede (§ 177): in tale ipotesi, infatti, il possessore ha possesso
buona fede
diritto di tenere per sé tutti i frutti percepiti anteriormente alla
proposizione, da parte del titolare del diritto, della relativa domanda
giudiziale. Solo i frutti percepiti durante la lite spettano al proprietario (v. Cass. 5 settembre 2012, n. 14917). Anzi — ad evitare che il
possessore, sapendo di doverli restituire, trascuri la coltivazione o
lasci perire i frutti — dal giorno della domanda e fino alla restituzione
I diritti reali
356
[§ 183]
della cosa, il possessore stesso risponde verso il rivendicante non solo
dei frutti percepiti durante la lite, ma anche di quelli (c.d. frutti
percipiendi) che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del
bonus pater familias (art. 1148 c.c.).
Spese
Quanto alle spese, occorre distinguere fra:
a) spese ordinarie (cioè, quelle che servono per la produzione dei
frutti ed il loro raccolto, nonché per le riparazioni ordinarie del bene),
di cui il possessore ha diritto al rimborso limitatamente al tempo per
il quale è tenuto alla restituzione dei frutti (artt. 1149 e 1150, comma
4, c.c.): non sarebbe giusto che chi deve restituire i frutti non abbia
diritto al rimborso delle spese effettuate per la loro produzione (v.
Cass. 11 agosto 2015, n. 16700);
b) spese straordinarie (cioè, quelle che servono alle riparazioni
straordinarie), di cui il possessore — sia di buona che di mala fede —
ha sempre diritto al rimborso (art. 1150, comma 1, c.c.): non sarebbe
giusto che il proprietario si avvantaggiasse di spese che superano il
limite della conservazione del bene;
c) spese per miglioramenti, di cui il possessore — sia di buona che di
mala fede — ha diritto al rimborso, purché detti miglioramenti sussistano
al tempo della restituzione (art. 1150, comma 2, c.c.; v. Cass. 23 maggio
2012, n. 8156) e risultino realizzati in conformità alla normativa edilizia
(v. Cass. 25 gennaio 2016, n. 1237): e la ragione è che, nell’interesse generale
della produzione, non si vuole distogliere chi di fatto si trova ad utilizzare
la cosa dal compimento di opere che ne accrescano il valore (v. Cass. 9
giugno 2009, n. 13259). Tuttavia, per quanto concerne l’importo del rimborso, bisogna distinguere se il possesso era di buona o di mala fede: al
possessore di buona fede, l’indennità si deve corrispondere nella misura
dell’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti;
a quello di mala fede, nella minor somma tra lo speso ed il migliorato (art.
1150, comma 3, c.c.).
Al possessore — purché di buona fede — è riconosciuto il diritto
Diritto di
ritenzione
di ritenzione: cioè, il diritto di non restituire il bene fino a che non gli
siano state corrisposte le indennità dovute per spese, riparazioni e miglioramenti (art. 1152 c.c.; v. § 263; v. Cass. 16 giugno 2016, n. 12406).
§ 183.
Acquisto a
non domino
L’acquisto della proprietà in forza del possesso:
a) la regola « possesso vale titolo ».
Se acquisto un bene da chi non ne è proprietario (c.d. « acquisto
a non domino »: ad es., acquisto dal ladro; da chi, pochi minuti prima,
ha già alienato il medesimo bene ad un terzo; da chi ha, a sua volta,
[§ 183]
Il possesso
357
acquistato il bene in base ad un titolo nullo, ecc.), non ne divento —
di norma — proprietario; e ciò, per la semplice ragione che colui che
mi ha alienato il bene non era legittimato a farlo: nemo plus iuris
transferre potest quam ipse habet.
Detta regola, se fosse applicata in tutto il suo rigore, costitui- Il principio
plus
rebbe però un grave ostacolo alla circolazione della ricchezza: difatti, nemo
iuris
per essere sicuri di non restare esposti all’azione di rivendicazione da transferre
parte del dominus, prima di qualsiasi acquisto occorrerebbe indagare potest quam
ipse habet e
se l’alienante è davvero il proprietario del bene che si intende gli
acquistare; ed anzi, per maggior sicurezza, occorrerebbe indagare inconvenienti
una sua
pure se l’alienante ha a sua volta acquistato correttamente a domino, di
rigorosa
e così via. Ne deriverebbero difficoltà ed incertezze tali da paralizzare applicazione
il traffico giuridico, che è viceversa essenziale, ancor più nelle società
moderne fortemente dinamiche.
Ora — se per i beni immobili e per i beni mobili c.d. registrati il La regola
possesso
legislatore ha ovviato a siffatto pericolo mediante l’istituzione di «vale
titolo »
pubblici registri (v. §§ 681 ss.) — per quel che riguarda invece i beni
mobili (non registrati) ha dettato la regola « possesso vale titolo » (art.
1153 c.c.).
In forza di tale regola, chi acquista un bene a non domino ne Presupposti:
diventa — ciò nonostante — proprietario, purché concorrano i seguenti presupposti:
a) che l’acquisto riguardi beni mobili — ad esclusione dei beni ... l’acquisto
mobili registrati (v. § 83; v. però Cass. 23 maggio 2018, n. 12860) e di beni mobili
delle universalità di mobili (v. § 92) — suscettibili di possesso (art.
1156 c.c.; v. Cass. 3 gennaio 2017, n. 39);
b) che l’acquirente possa vantare — come precisa l’art. 1153 c.c. ... il titolo
— « un titolo idoneo al trasferimento della proprietà »: cioè, un con- idoneo
tratto non solo astrattamente atto al trasferimento del diritto dominicale (ad es., una compravendita o un altro contratto ad effetti reali:
v. § 314), ma anche che non presenti altro vizio se non quello di essere
stipulato da chi non è legittimato a disporre del bene: tale non
sarebbe, ad es., una compravendita nulla per illiceità dell’oggetto (ad
es., armi da guerra, droga, ecc.);
c) che l’acquirente — oltre ad aver stipulato l’atto d’acquisto ... l’acquisto
del bene mobile — ne abbia altresì acquistato il possesso (v. Cass. 29 del possesso
gennaio 2018, n. 2100): il legislatore tutela l’acquirente solo se già vi
sia stata la consegna (traditio) a favore di quest’ultimo, altrimenti
preferisce tutelare ancora il (precedente) dominus (così, se il non
dominus — ad es., il ladro — mi ha venduto un bene mobile, ma non
me lo ha ancora consegnato, nel conflitto fra il precedente dominus
derubato e l’acquirente a non domino prevale il primo; se il non
358
I diritti reali
[§ 183]
dominus — cioè, il ladro — mi ha venduto un bene mobile e me lo ha
già consegnato, nel conflitto fra il precedente dominus e l’acquirente
a non domino prevale il secondo);
... la buona
d) che l’acquirente sia in buona fede nel momento in cui il bene
fede
gli viene consegnato: mala fides superveniens non nocet. Peraltro, a tal
fine, non basta che l’acquirente ignori che l’alienante non aveva
diritto di disporre della cosa, ma occorre altresì che tale ignoranza
non dipenda da sua colpa grave (art. 1147, comma 2, c.c.; v. Cass. 20
gennaio 2017, n. 1593); colpa, che sussisterebbe se le circostanze in
cui l’acquisto ha avuto luogo avrebbero indotto in sospetto l’uomo
medio (il c.d. bonus pater familias). Tuttavia, siccome per chi si trova
nel possesso di una cosa « la buona fede è presunta » (art. 1147,
comma 3, c.c.), incombe su chi intenda contestarne l’acquisto l’onere
di provare la mala fede del possessore, adducendo ogni indizio utile a
dimostrare che una persona di media diligenza, in quelle circostanze,
avrebbe preferito astenersi dall’acquisto, non potendo non avere dei
dubbi sulla reale titolarità dell’alienante (v. Cass. 2 ottobre 2018, n.
23853). La buona fede è esclusa — secondo l’art. 1154 c.c. — se
l’acquirente conosce l’illegittima provenienza della cosa (ad es., sappia che è stata rubata): e ciò, anche quando ritenga erroneamente che
colui da cui l’ha acquistata o un precedente possessore sia diventato
nel frattempo proprietario.
Effetti:
Quello realizzato in forza dell’applicazione della regola « posl’acquisto del
sesso vale titolo » costituisce — secondo l’opinione prevalente —
diritto...
acquisto a titolo originario (v. Cass. 27 settembre 2012, n. 16435).
... libero da
Se il possesso di buona fede costituisce titolo d’acquisto della
diritti altrui
proprietà, a maggior ragione deve produrre l’effetto di porre nel nulla
i diritti sulla cosa che siano ignorati. Perciò, il comma 2 dell’art. 1153
c.c. dispone che la proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla
cosa (se questi non risultano dal titolo e vi è la buona fede dell’acquirente). Quindi, se acquisto a non domino, in buona fede, un
quadro e chi me lo vende non mi dice che su di esso è costituito un
pegno (v. § 241), non soltanto divento proprietario del quadro, ma
contro di me non può neppur essere fatto valere il diritto di pegno dal
creditore pignoratizio.
Conflitto tra
Un ulteriore corollario della regola « possesso vale titolo » è
più
previsto nell’art. 1155 c.c.
acquirenti di
Può darsi che taluno alieni il medesimo bene mobile (ad es., un
beni mobili
orologio) a più persone (ad es., Tizio vende il medesimo orologio
prima a Primus, poi a Secundus), o costituisca lo stesso diritto a
favore di più persone (ad es., Tizio costituisce il diritto di usufrutto
sul medesimo orologio prima a favore di Primus, poi a favore di
[§ 183]
Il possesso
359
Secundus), ovvero cerchi di trasferire a persone diverse diritti tra
loro incompatibili (ad es., Tizio cede a Primus la proprietà dell’orologio, poi costituisce a favore di Secundus il diritto di usufrutto sul
medesimo orologio).
Come si risolve il conflitto tra i vari acquirenti?
A rigore, se Tizio ha alienato il bene il 1o novembre a Primus ed
il 15 novembre a Secundus, questa seconda alienazione non dovrebbe
avere effetti, perché fatta a non domino: infatti, con la prima alienazione, Tizio si era già spogliato della proprietà del bene e non avrebbe
più potuto trasmetterla a Secundus. Ma, se Tizio ha trasmesso a
Secundus, che in buona fede ignorava la prima alienazione, il possesso, non può non applicarsi il principio « possesso di buona fede vale
titolo »: Secundus acquista la proprietà della cosa e Primus non può
più rivendicarla, salva — s’intende — la possibilità di agire contro
Tizio per il risarcimento dei danni.
Perciò l’art. 1155 c.c. stabilisce che, se taluno con successivi
contratti aliena a più persone un bene mobile, tra esse quella che per
prima ne acquista in buona fede il possesso è preferita alle altre,
anche se il suo titolo è di data posteriore.
I princìpi fin qui esaminati, relativi agli effetti del possesso di Acquisto a
domino
buona fede, non si applicano — come si è detto — « alle universalità non
di...
di mobili e ai beni mobili iscritti in pubblici registri » (art. 1156 c.c.).
Le ragioni di tale esclusione sono evidenti.
Per quanto riguarda le universalità di mobili (ad es., biblioteche, ...
pinacoteche, greggi, ecc.) il legislatore preferisce sollecitare l’atten- universalità
di mobili
zione di chi voglia acquistare un siffatto complesso di beni, evitando
che questi possa accontentarsi dell’apparente titolarità di chi si
accinga a compiere atti di disposizione dell’universitas. Ragion per
cui, con riferimento alle universalità di mobili, trova applicazione
rigorosa il principio nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet;
con la conseguenza che viene tutelato non già chi per primo acquista
il possesso in buon fede, bensì chi può vantare un valido titolo
d’acquisto di data anteriore.
Per quanto riguarda, invece, i beni mobili iscritti in pubblici ... mobili
registri (autoveicoli, natanti ed aeromobili), trovano applicazione — registrati
come per gli immobili — i princìpi relativi alla trascrizione (v. §§ 681
ss.), in virtù dei quali viene tutelato non già chi per primo acquista
il possesso in buona fede, bensì chi per primo provvede alla trascrizione del suo titolo.
I diritti reali
360
§ 184.
Nozione
[§ 184]
L’acquisto della proprietà in forza del possesso:
b) l’usucapione.
Il possesso protratto per un certo lasso di tempo fa acquisire al
possessore — attraverso l’istituto dell’« usucapione » — la titolarità
del diritto reale (proprietà, usufrutto, enfiteusi, ecc.) corrispondente
alla situazione di fatto esercitata (art. 1158 c.c.): l’usucapione costituisce, dunque, un modo di acquisto a titolo originario della proprietà
e dei diritti reali minori.
Fondamento
La ratio dell’usucapione va ricercata nell’opportunità, dal punto
dell’usucapione di vista sociale, di favorire chi, nel tempo, utilizza e rende produttivo
il bene — facendo così cosa utile, non solo nel suo interesse, ma in quello
generale — a scapito del proprietario che lo trascura.
Usucapione e
L’usucapione agevola altresì — come già rilevato (v. § 143) — la
prova della
proprietà prova del diritto di proprietà: se non soccorresse l’usucapione, chi si
afferma proprietario dovrebbe dare la prova — estremamente difficile, se non impossibile — di aver acquistato il suo diritto da un
soggetto che era effettivamente proprietario del bene per averlo, a
sua volta, acquistato dal precedente proprietario, che era effettivamente tale per averlo acquistato da quello precedente, e così via fino
alla notte dei tempi (c.d. probatio diabolica).
Usucapione e
L’usucapione — lo si è già sottolineato (v. § 109) — si distingue
prescrizione
dalla prescrizione estintiva (art. 2934 c.c.):
(i) in entrambi gli istituti hanno importanza il fattore tempo e
l’inerzia del titolare del diritto: ma nella prescrizione questi elementi
danno luogo all’estinzione, nell’usucapione all’acquisto di un diritto;
(ii) la prescrizione ha una portata generale, in quanto si riferisce
a tutti i diritti, salvo eccezioni (di cui la più importante è la proprietà); l’usucapione riguarda invece solo la proprietà ed i diritti reali
minori.
Oggetto
A quest’ultimo proposito, va sottolineato che per usucapione
possono acquistarsi solo la proprietà ed i diritti reali di godimento —
ad eccezione delle servitù non apparenti (v. § 158; v. Cass., sez. un., 21
novembre 1996, n. 10285) e, secondo taluni, del diritto di superficie,
nella sua forma della « concessione ad aedificandum » (v. § 145) — con
esclusione, quindi, dei diritti reali di garanzia.
I diritti usucapibili possono avere ad oggetto tutti i beni corporali (immobili, mobili registrati, mobili, universalità di mobili) —
anche se ancora in corso di costruzione (v. Cass. 21 maggio 2015, n.
10482) — ad esclusione dei beni demaniali e dei beni del patrimonio
indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali (v. § 95).
Si discute, invece, se siano suscettibili di usucapione anche diritti su
taluni beni immateriali (ad es., la ditta, l’insegna, ecc.).
[§ 184]
Il possesso
361
Perché si verifichi l’usucapione, debbono concorrere i seguenti Presupposti:
presupposti:
a) il possesso — sia « di buona fede » che « di mala fede » (v. Cass. ... possesso
6 maggio 2014, n. 9671; Cass. 28 novembre 2013, n. 26641) — del bene;
irrilevante, ai fini dell’usucapione, è invece la detenzione (v. Cass. 17
maggio 2018, n. 12080); ovviamente inutile, ai fini dell’acquisizione del
diritto (ma non della prova di esso), è il possesso legittimo (cioè, il
possesso di chi già è titolare del diritto). Peraltro, se il possesso (illegittimo, di mala fede) viene acquistato con violenza (ad es., mediante
rapina) o clandestinità (ad es., mediante furto) — c.d. possesso vizioso
(v. Cass. 27 luglio 2013, n. 17881) — il possesso utile per l’usucapione
decorre solo dal momento in cui sono cessate la violenza e la clandestinità (art. 1163 c.c.): è da tale momento, infatti, che il precedente
possessore, vittima dell’atto violento o clandestino, potrebbe agire in
giudizio per ottenere il recupero del bene; se omette di farlo, deve subire
le conseguenze negative della propria colpevole inerzia;
b) la continuità del possesso per un certo lasso di tempo: peral- ... continuità
possesso:
tro, al fine di dimostrare la continuità del suo possesso, il soggetto del
presunzione
interessato non ha l’onere di fornire la prova — particolarmente di possesso
difficile, se non addirittura impossibile — di aver posseduto il bene intermedio e
presunzione
giorno per giorno, minuto per minuto, per tutto l’arco di tempo di possesso
richiesto. La legge, infatti, lo agevola con la « presunzione di possesso anteriore
intermedio » (art. 1142 c.c.), in forza della quale basta che il possessore
dimostri di possedere ora e di aver posseduto in un tempo più remoto;
ciò è sufficiente per far presumere — iuris tantum — che abbia
posseduto anche nel periodo intermedio; spetterà a chi eventualmente sostenga il contrario di dimostrare il suo assunto (v. Cass. 9
febbraio 2017, n. 3517). Invece, il solo possesso attuale non fa
presumere il possesso anteriore, salvo che il possessore possa invocare
un titolo a fondamento del proprio possesso (ad es., esibire un atto
dal quale risulti che, in una certa data, ha comperato il bene); in tal
caso (poiché, normalmente, l’acquisto della proprietà o del diritto
reale minore si accompagna all’acquisto del relativo possesso) la legge
presume — sempre iuris tantum — che il possesso abbia avuto inizio
dalla data del titolo: c.d. « presunzione di possesso anteriore » (art.
1143 c.c.; v. Cass. 30 settembre 2015, n. 19501);
c) la non interruzione del possesso, che si ha allorquando, nel ... non
interruzione
lasso di tempo richiesto dalla legge, non intervenga:
del possesso:
(i) né una causa di interruzione c.d. « naturale » dell’usucapione, a)
che si verifica allorquando il soggetto perda (ad es., per abbandono interruzione
naturale
del bene, trasferimento a terzi, smarrimento definitivo, ecc.) il possesso del bene (v. Cass. 11 maggio 2017, n. 11698; Cass. 10 gennaio
362
I diritti reali
[§ 184]
2017, n. 362); con la precisazione che, in ipotesi di perdita del
possesso in conseguenza del fatto del terzo che se ne appropri (ad es.,
perdo il possesso del mio fondo perché il vicino se ne impossessa),
l’interruzione si considera verificata solo se chi si è visto privato del
possesso non abbia proposto l’azione diretta a recuperare il perduto
possesso (ad es., l’azione di reintegrazione: v. § 186) entro il termine
di un anno dall’avvenuto spoglio (art. 1167 c.c.);
b)
(ii) né una causa di interruzione c.d. « civile » dell’usucapione,
interruzione
che
si
verifica allorquando:
civile
— contro il possessore (v. Cass. 30 dicembre 2013, n. 28721) —
che pure conserva materialmente il possesso del bene — venga
proposta una domanda giudiziale volta a privarlo di esso (ad es.,
un’azione di rivendicazione: v. § 143; un’azione di spoglio: v. § 186;
un’azione di manutenzione volta a reagire contro uno spoglio non
violento né clandestino: v. § 187); non essendo sufficiente, al riguardo, un atto stragiudiziale (ad es., una richiesta per iscritto di
rilascio dell’immobile occupato: v. Cass. 29 luglio 2016, n. 15927);
ovvero
— il possessore abbia effettuato un riconoscimento del diritto del
titolare (ex comb. disp. artt. 1165 e 2944 c.c.), per tale intendendosi
un atto o un fatto che non si limiti ad evidenziare la consapevolezza
del possessore circa la spettanza ad altri del diritto dallo stesso
esercitato come proprio, ma esprima altresì la volontà non equivoca
di attribuire il diritto reale al suo titolare (v. Cass. 26 ottobre 2018, n.
27170).
Si noti che le cause di interruzione c.d. civile dell’usucapione
coincidono con quelle di interruzione della prescrizione (v. § 114).
La giurisprudenza ritiene tassativa l’elencazione degli atti interruttivi del possesso ad usucapionem contemplata dall’art. 2943 c.c.,
cui fa rinvio l’art. 1165 c.c.; con la conseguenza che non è consentito
attribuire efficacia interruttiva dell’usucapione ad atti diversi da
quelli contemplati nella norma (v. Cass. 28 febbraio 2019, n. 6029;
Cass. 18 ottobre 2016, n. 21015);
d) il decorso di un certo lasso di tempo, che gli artt. 1158, 1160,
... decorso
del tempo
comma 1, e 1161, comma 2, c.c. fissano — di regola — in venti anni
(c.d. usucapione ordinaria). Si ricordi (v. § 180) che, ai fini del
computo del tempo utile ai fini dell’usucapione, chi ha acquisito il
possesso a titolo particolare può sommare al tempo del proprio
possesso anche il tempo del possesso dei propri danti causa: c.d.
accessione del possesso (art. 1146, comma 2, c.c.); mentre chi ha
acquisito il possesso a titolo universale si giova del possesso del suo
autore: c.d. successione nel possesso (art. 1146, comma 1, c.c.).
[§ 184]
Il possesso
363
Peraltro, la legge prevede, relativamente a talune ipotesi, ter- Usucapione
mini di usucapione più brevi (c.d. usucapione abbreviata); e precisa- abbreviata
mente:
a) di dieci anni per i beni immobili (art. 1159 c.c.) e di tre anni per
i beni mobili registrati (art. 1162 c.c.), allorquando — oltre a quelli fin
qui indicati — concorrano cumulativamente i seguenti presupposti:
(i) che il possessore possa vantare a proprio favore — come
precisano gli artt. 1159 e 1162 c.c. — un « titolo idoneo a trasferire la
proprietà » (ad es., una vendita) (v. Cass. 9 maggio 2018, n. 11141): si
tratta — evidentemente — di un’ipotesi di acquisto a non domino (v.
Cass. 7 maggio 2018, n. 10873);
(ii) che l’acquirente abbia acquistato il possesso del bene « in
buona fede » (v. § 177; v. Cass. 5 dicembre 2013, n. 27296);
(iii) che sia stata effettuata la « trascrizione » del titolo (v. Cass.
7 giugno 2013, n. 14440): il termine utile per l’usucapione decorre
proprio dalla data della trascrizione;
b) di dieci anni per le universalità di mobili (art. 1160 c.c.),
allorquando — oltre a quelli generali sopra indicati — concorrono
cumulativamente i seguenti presupposti:
(i) che il possessore possa vantare a proprio favore — come
precisa l’art. 1160, comma 2, c.c. — un « titolo idoneo » all’acquisto del
diritto (ad es., una vendita);
(ii) che l’acquirente abbia acquistato il possesso del bene « in
buona fede » (v. § 177);
c) di dieci anni per i beni mobili non registrati (art. 1161 c.c.),
allorquando l’acquirente abbia acquistato il possesso in buona fede
(se, oltre alla buona fede, potesse vantare anche un « titolo idoneo »
all’acquisto del diritto, il possessore non avrebbe ragione di invocare
l’usucapione, poiché lo stesso — in forza della regola « possesso vale
titolo »: art. 1153 c.c. — avrebbe acquistato il diritto fin dal momento
dell’acquisizione del possesso);
d) di quindici anni per i fondi rustici (con annessi eventuali
fabbricati) situati in comuni che per legge sono classificati come
« montani » ai sensi di legge (v. Cass. 5 luglio 2012, n. 11312), ovvero
per i fondi rustici (con annessi eventuali fabbricati), anche se non
situati in comuni « montani », che abbiano un reddito domenicale
iscritto in catasto non superiore a complessive lire 350.000 (art. 2 L.
10 maggio 1976, n. 346), pari — oggi — ad E 180,76 (art. 1159-bis,
comma 1, c.c.): termine che — se concorrono i presupposti della
sussistenza di un « titolo idoneo », della « buona fede » e della « trascrizione » del titolo — si riduce a cinque anni dalla trascrizione
stessa (art. 1159-bis, comma 2, c.c.): c.d. usucapione speciale per la
I diritti reali
364
[§ 185]
piccola proprietà rurale (v. Cass. 28 agosto 2017, n. 20451). Ovviamente, tale ultima forma di usucapione non trova applicazione
allorquando, in forza degli strumenti urbanistici vigenti, il bene sia
destinato ad insediamenti ed attività diversi da quelli agricoli (v.
Cass. 22 ottobre 2014, n. 22476).
L’acquisto del diritto in forza di usucapione avviene ex lege, nel
Accertamento
dell’avvenuta
momento stesso in cui matura il termine normativamente previsto.
usucapione
Peraltro, l’usucapiente potrebbe aver interesse — ad es., per eliminare ogni incertezza in ordine al suo acquisto, ovvero per ottenere un
titolo utile per la trascrizione — a promuovere un giudizio di accertamento dell’intervenuta usucapione (v. Cass. 7 settembre 2018, n.
21873), che, in ogni caso, si concluderebbe con una sentenza avente
valore dichiarativo e non già costitutivo (v. § 119).
Si discute se all’acquisto per usucapione debba riconoscersi
Il problema
dell’efficacia
efficacia
retroattiva: cioè, fin dal momento in cui ha avuto inizio la
retroattiva
dell’usuca- situazione possessoria che ha portato all’usucapione stessa (v., in
pione senso affermativo, Cass. 23 dicembre 2015, n. 25964).
Ovviamente, il possessore può rinunciare all’usucapione già
Rinuncia
all’usucapione
maturata a proprio favore (v. Cass. 19 gennaio 2018, n. 1363; Cass. 12
maturata
ottobre 2016, n. 20565).
La nostra Suprema Corte ha, di recente, sottolineato che l’art. 1
del protocollo addizionale n. 1 alla CEDU (« Ogni persona fisica o
giuridica ha diritto al rispetto dei sui beni. Nessuno può essere
privato della sua proprietà se non ... nelle condizioni previste dalla
legge ») impone al giudice nazionale l’impiego di un particolare rigore
nell’apprezzamento della sussistenza dei presupposti per l’acquisto
per usucapione della proprietà altrui, prevalente sul precedente
titolo dominicale; occorrendo, al riguardo, un attento bilanciamento
dei valori in conflitto (v. Cass. 30 agosto 2017, n. 20539; ma v. ora
Cass. 6 febbraio 2019, 3487).
§ 185.
La tutela delle situazioni possessorie.
Contro l’altrui condotta volta a privarmi del mio possesso
ovvero ad arrecarvi turbativa posso oppormi, in via di autodifesa (v.
§ 118), finché l’altrui azione illecita è in atto (ad es., se il rapinatore
vuole sottrarmi la valigetta con i preziosi, posso oppormi con la forza
al suo tentativo: v. Cass. pen. 27 novembre 2012, n. 49760; Cass. 9
giugno 2009, n. 13270).
Le azioni
Se invece l’azione, che si è risolta nella privazione o nella
possessorie
turbativa del possesso, si è esaurita (ad es., il rapinatore si è dileguato
Autodifesa
delle
situazioni
possessorie
[§ 185]
Il possesso
365
con la mia valigetta di preziosi), al possessore — sul piano civilistico
— non resta che rivolgersi al giudice attraverso una delle azioni che,
proprio perché poste a tutela del possesso, si dicono « possessorie ».
Tali azioni sono concesse a chi esercita una situazione possessoria a prescindere dal fatto che lo stesso sia altresì titolare del correlativo diritto.
La categoria delle « azioni possessorie » si contrappone alla ca- Azioni
e
tegoria delle « azioni petitorie » (v. § 143): queste ultime possono essere possessorie
azioni
fatte valere solo da chi si affermi titolare del diritto di proprietà o di petitorie
un diritto reale di godimento, a prescindere dal fatto che abbia altresì
il possesso del bene.
Chi riveste contestualmente sia la qualità di possessore che la
qualità di titolare del correlativo diritto reale potrà esperire — quale
possessore — le azioni possessorie, ovvero — quale titolare del diritto
— le azioni petitorie.
Da notare che le azioni possessorie, da un lato, si giovano di un
procedimento giudiziale (artt. 703 ss. c.p.c.) più agile rispetto a
quello ordinario, applicabile invece alle azioni petitorie; e, da altro
lato, fanno gravare su chi agisce un onere probatorio (relativo a fatti:
cioè, la situazione possessoria) meno disagevole di quello (relativo,
invece, a diritti) che grava su chi agisce in via petitoria (v. § 143; v.
Cass. 21 gennaio 2019, n. 2032; Cass. 4 aprile 2018, n. 8394).
Le azioni possessorie assicurano, per definizione, una tutela di
carattere soltanto provvisorio, nel senso che chi soccombe nel giudizio
possessorio può successivamente esperire un giudizio petitorio (v.
Cass. 17 febbraio 2012, n. 2371).
Peraltro, il convenuto in un giudizio possessorio non può pro- Divieto del
del
porre il giudizio petitorio, finché il primo non si sia definito e la cumulo
giudizio
decisione non sia stata eseguita (art. 705, comma 1, c.p.c.; v. Cass. 25 petitorio con
giugno 2012, n. 10588): c.d. divieto del cumulo del giudizio petitorio con quello
possessorio
quello possessorio. Così, ad es., se vengo evocato in giudizio con
un’azione possessoria da colui cui ho sottratto il possesso del bene,
non posso — per giustificare la mia condotta (feci, sed iure feci) —
proporre, nell’ambito del medesimo giudizio, un’azione volta all’accertamento che il bene è, in realtà, di mia proprietà e, conseguentemente, che lo ius possidendi compete a me; debbo, invece, attendere
la definizione del giudizio possessorio ed eseguire la sentenza che, in
esito allo stesso, dovesse condannarmi alla restituzione del bene
(spoliatus ante omnia restituendus); solo allora potrò avviare l’azione
petitoria (nel caso di specie, l’azione di rivendicazione; v. § 143).
La regola legale del divieto del cumulo del giudizio petitorio con
quello possessorio soffre deroga — come statuito dalla Corte costitu-
I diritti reali
366
[§ 186]
zionale con sentenza 3 febbraio 1992, n. 25 — nell’ipotesi in cui vi sia
il rischio che dalla sua applicazione possa derivare, per il convenuto,
un pregiudizio irreparabile (v. Cass. 18 giugno 2018, n. 16000).
La lesione di situazioni possessorie obbliga il suo autore —
Il danno da
lesione di
qualora concorrano i presupposti della responsabilità civile (artt.
una
situazione 2043 ss.; v. §§ 454 ss.) — a risarcire il danno che ne sia derivato al
possessoria possessore o al detentore (v. Cass. 31 gennaio 2019, n. 2991; Cass. 31
agosto 2018, n. 21475). La relativa azione può essere proposta congiuntamente all’azione possessoria (v. Cass. 2 dicembre 2013, n.
26985; v. anche Cass. 4 dicembre 2018, n. 31353).
§ 186.
L’azione di reintegrazione (o spoglio).
L’« azione di reintegrazione » (o « spoglio ») risponde all’esigenza
di garantire a chi possiede un bene una sollecita tutela giudiziaria,
indipendentemente dalla prova che sullo stesso gli spetti un diritto;
ed è volta a reintegrare nel possesso del bene — anche, ove occorra,
mediante riduzione in pristino dello stato dei luoghi (v. Cass., sez.
un., 23 gennaio 2015, n. 1238) — chi sia rimasto vittima di uno
« spoglio violento o clandestino » (art. 1168 c.c.).
Per « spoglio » si intende qualsiasi azione che si risolva nella
Lo « spoglio »
duratura privazione del possesso o, comunque, in una modifica della
situazione oggettiva preesistente che comprometta in modo apprezzabile l’esercizio del possesso (v. Cass. 22 gennaio 2013, n. 1494). Lo
spoglio può essere totale (ad es., occupo integralmente il fondo del
vicino; chiudo con un cancello la strada sulla quale al vicino spetta
una servitù di passaggio, ecc; v. Cass. 30 giugno 2014, n. 14819) od
anche solo parziale (ad es., occupo una parte del fondo del vicino;
restringo il ponte sul quale al vicino spetta una servitù di passaggio;
v. Cass. 22 gennaio 2013, n. 1494).
Uno spoglio si dice « violento » o « clandestino » (v. Cass. 6 aprile
2017, n. 8911), allorquando è posto in essere contro la volontà espressa
o presunta del possessore o detentore: così, almeno, intende la giurisprudenza, che fornisce un’interpretazione molto ampia dell’espressione testuale utilizzata dal codice (v. Cass. 2 dicembre 2013, n.
26985).
Si ritiene che l’azione di reintegrazione sia esperibile solo
L’animus
spoliandi
quando lo spoglio risulti accompagnato dal c.d. « animus spoliandi »,
cioè dalla coscienza e volontà del suo autore (c.d. spoliator) di
compiere l’atto materiale nel quale si sostanzia lo spoglio stesso, nella
consapevolezza di ledere, con ciò, la posizione del possessore o del
Petitum e
causa petendi
[§ 186]
Il possesso
367
detentore (v. Cass. 14 giugno 2017, n. 14797): peraltro, di regola,
quest’elemento soggettivo è insito nello stesso fatto materiale della
privazione totale o parziale del possesso altrui, tranne che ciò non
risulti escluso dalle circostanze (per es., quando il bene si presenta in
stato di abbandono: in tal caso manca nell’autore del fatto la coscienza
di privare altri del suo possesso) (v. Cass. 25 luglio 2011, n. 16236).
La legittimazione attiva ad esercitare l’azione spetta a qualsiasi Legittimazione
possessore (art. 1168, comma 1, c.c.): sia esso legittimo o illegittimo, attiva
corpore et animo o solo animo, di buona o di male fede (v. Cass. 31
gennaio 2019, n. 2991; Cass. 4 aprile 2018, n. 8394); addirittura al
possessore che tale sia divenuto con violenza o clandestinità (v. Cass.
21 gennaio 2009, n. 1551). L’azione di reintegrazione è dal possessore
(spogliato) esperibile anche nei confronti del detentore (spoliator) che
abbia mutato la propria detenzione in possesso (v. Cass. 29 maggio
2013, n. 13417).
Legittimato all’azione di spoglio è altresì il detentore, con esclusione del solo detentore non qualificato: cioè, di chi sia tale per
ragioni di servizio o di ospitalità (art. 1168, comma 2, c.c.; v. Cass. 20
marzo 2012, n. 4448). In quest’ultima ipotesi, infatti, è logico che
l’azione venga intentata, anziché dal detentore precario, dal possessore, che è l’unico realmente interessato al recupero del possesso
(così, ad es., se l’autovettura è dallo spoliator sottratta alla disponibilità materiale del mio autista, la legittimazione attiva all’azione di
spoglio compete a me possessore; se la mia casa è occupata da un
terzo, la legittimazione attiva all’azione di spoglio compete a me
possessore, non all’eventuale amico che io ospito temporaneamente).
Il detentore (qualificato) può esperire l’azione di spoglio non
solo nei confronti dei terzi, ma anche nei confronti del possessore,
sempre che la sua detenzione sia « autonoma » (cioè, acquisita nel
proprio interesse). Si pensi, ad es., all’inquilino al quale il proprietario
od un terzo abbia sottratto la disponibilità dell’appartamento locatogli (v. Cass. 25 settembre 2015, n. 19114); ovvero al convivente
more uxorio che venga estromesso — non importa se dal convivente
proprietario (v. Cass. 15 settembre 2014, n. 19423; Cass. 21 marzo
2013, n. 7214) o da un terzo (v. Cass. 2 gennaio 2014, n. 7) —
dall’unità immobiliare in cui ha fin qui condotto la propria vita di
coppia.
Il detentore (qualificato) « non autonomo » può invece esperire
l’azione di spoglio nei confronti dei terzi, ma non del possessore
(perciò, ad es., l’amico cui ho affidato un quadro perché lo venda per
mio conto non è legittimato ad esperire l’azione di reintegrazione,
I diritti reali
368
[§ 187]
nell’eventualità in cui io possessore mi sia ripreso il quadro) (v. Cass.
4 gennaio 2013, n. 99).
La legittimazione passiva compete — oltre che, ovviamente,
Legittimazione passiva
all’autore materiale dello spoglio (c.d. spoliator), quand’anche nel
frattempo abbia trasferito ad altri il possesso del bene — a coloro che
debbono rispondere del fatto di quest’ultimo (ad es., il datore di
lavoro che abbia ordinato al dipendente di porre in essere lo spoglio),
al c.d. « autore morale » dello spoglio (cioè, a colui che ne abbia tratto
vantaggio, consapevole dell’illiceità della condotta dello spoliator: v.
Cass. 10 ottobre 2018, n. 24967), nonché a chi si trovi attualmente nel
possesso o nella detenzione del bene, in virtù di un acquisto a titolo
particolare, fatto con la conoscenza dell’avvenuto spoglio (ad es., il
soggetto che abbia acquistato il bene dallo spoliator, pur sapendo
come quest’ultimo aveva acquisito il suo possesso) (art. 1169 c.c.; v.
Cass. 13 aprile 2015, n. 7365).
Da notare che l’azione di reintegrazione può — come si è già
L’eccezione:
feci, sed iure
detto — essere esperita contro lo spoliator, quand’anche quest’ultimo
feci
sia il titolare del diritto e tenti di difendersi opponendo l’eccezione
« feci, sed iure feci »: infatti, anche in questo caso lo spoliator deve
prima ripristinare la situazione quo ante abusivamente mutata (spoliatus ante omnia restituendus); solo dopo potrà agire giudizialmente
per far valere contro il possessore il suo diritto.
La proposizione dell’azione è soggetta ad un termine di decaTermine di
decadenza
denza di un anno, che decorre dal sofferto spoglio (art. 1168, comma
1, c.c.; v. Cass. 19 marzo 2014, n. 6428) ovvero, se questo è clandestino, dal giorno della sua scoperta (art. 1168, comma 3, c.c.; v. Cass.
18 settembre 2009, n. 20228). Vertendosi in materia di diritti disponibili, il decorso del termine di decadenza deve essere eccepito dalla
parte interessata, non potendo essere dal giudice rilevato d’ufficio (v.
§ 117; v. Cass. 19 gennaio 2018, n. 1455).
Nel caso in cui lo spoglio non sia stato né violento né clandestino,
chi l’abbia subito può reagire non già con l’azione « di reintegrazione »,
ma solo con l’azione « di manutenzione », se ed in quanto ricorrano le
più restrittive condizioni previste dalla legge per la proponibilità di
tale ultima azione (v. § 187).
§ 187.
Petitum e
causa petendi
L’azione di manutenzione.
L’« azione di manutenzione » è volta — alternativamente (v.
Cass. 30 settembre 2016, n. 19586) — a:
[§ 187]
Il possesso
369
a) reintegrare nel possesso del bene chi sia stato vittima di uno
spoglio non violento né clandestino (art. 1170, comma 3, c.c.; v. Cass.
29 maggio 2013, n. 13417, la quale qualifica come spoglio non
violento, né clandestino il rifiuto opposto dal detentore al possessore,
di restituire il fondo, accompagnato dal disconoscimento del possesso
di quest’ultimo); ovvero
b) far cessare le « molestie » o le « turbative » di cui sia stato
vittima il possessore (art. 1170, comma 1, c.c.; v. Cass. 7 agosto 2018,
n. 20581); con conseguente ripristino della situazione dei luoghi
eventualmente alterata o modificata dall’azione lesiva (v. Cass. 13
agosto 2018, n. 20726).
Per « molestia » o « turbativa » s’intende qualunque attività che Molestia di
e
arrechi — o vi sia il serio o concreto pericolo che possa arrecare (v. fatto
molestia di
Cass. 5 febbraio 2016, n. 2291) — al possessore un apprezzabile diritto
disturbo, ovvero una compressione delle facoltà in cui il possesso si
concretizza (v. Cass. 23 ottobre 2018, n. 26787), tanto che consista in
attentati materiali (c.d. molestia di fatto: ad es., taglio degli alberi,
passaggio sul fondo, interruzione del deflusso di un’acqua, costruzione in violazione delle distanze legali, ecc.), quanto che si estrinsechi in atti giuridici (c.d. molestia di diritto: ad es., notificazione di una
opposizione al possessore di intraprendere una costruzione, giustificata con l’affermazione che la costruzione sarebbe in contrasto con
una servitù di passaggio spettante all’opponente) che facciano temere imminenti azioni materiali contrastanti con la situazione possessoria (v. Cass. 10 ottobre 2011, n. 20800).
Anche se adito per la reintegrazione del possesso di cui si
denuncia lo spoglio, il giudice può disporre la cessazione di quella che
egli ritenga costituire invece semplice molestia, atteso che la turbativa costituisce un minus rispetto allo spoglio e che nella domanda di
reintegrazione nel possesso deve ritenersi ricompresa o implicita
quella di manutenzione dello stesso (v. Cass. 30 settembre 2016, n.
19586).
La giurisprudenza — parallelamente a quanto afferma in tema L’animus
di azione di spoglio — ritiene che l’azione di manutenzione sia turbandi
esperibile solo in presenza del c.d. « animus turbandi »: cioè, della
consapevolezza, nell’agente, che il proprio atto arreca pregiudizio al
possesso altrui (v. Cass. 14 febbraio 2017, n. 3901, secondo cui
l’animus turbandi deve peraltro presumersi ogniqualvolta ricorrano
gli estremi della turbativa).
La legittimazione attiva — a differenza di quanto accade per Legittimaziol’azione di spoglio — non spetta al detentore e neppure a tutti i ne attiva
possessori: spetta soltanto al possessore di un immobile, di un’univer-
I diritti reali
370
[§ 188]
salità di mobili o di un diritto reale su un immobile (non, quindi, al
possessore di beni mobili), e solo a condizione che sia possessore da
almeno un anno, in modo continuativo e non interrotto (ovvero,
qualora abbia acquistato il possesso con violenza o clandestinità, da
almeno un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità sono
cessate) (art. 1170, comma 2, c.c.).
La legittimazione passiva compete — oltre che, ovviamente,
Legittimazione passiva
all’autore dello spoglio (non violento e non clandestino) o della
turbativa — a coloro che debbono rispondere del fatto di quest’ultimo, nonché, secondo la giurisprudenza, al c.d. autore morale (v.
Cass. 2 ottobre 2018, n. 23855).
Termine di
Anche l’azione di manutenzione è soggetta al termine di decadecadenza
denza di un anno, che decorre dall’avvenuto spoglio (non violento e
non clandestino), ovvero dal giorno in cui ha avuto inizio l’attività
molestatrice (v. Cass. 17 agosto 2017, n. 20134, con riferimento
all’ipotesi in cui lo spoglio o la turbativa siano posti in essere tramite
una pluralità di atti protrattisi nel tempo).
§ 188.
Le azioni di nuova opera e di danno temuto.
L’« azione di nuova opera » e l’« azione di danno temuto » — che il
codice definisce, rispettivamente, come « denuncia di nuova opera » e
« denuncia di danno temuto » — (c.d. azioni di nunciazione) possono
essere esercitate sia a tutela del possesso sia a tutela della proprietà o di
altro diritto reale di godimento (v. Cass. 26 gennaio 2006, n. 1519).
Finalità
Esse hanno finalità tipicamente cautelare, in quanto mirano a
cautelare
prevenire un danno o un pregiudizio che può derivare da una nuova
opera o dalla cosa altrui, in attesa che successivamente si accerti il
diritto alla proibizione (v. Cass. 11 marzo 2015, n. 4904).
Legittimazione
Legittimato passivo, nelle azioni di nunciazione, è non solo il
passiva
titolare del diritto reale del bene da cui si assume possa derivare la
denunciata situazione di pericolo di danno, ma anche il possessore e
colui che, in ogni caso, abbia la disponibilità del bene, in quanto
l’obbligo di custodia e di manutenzione sussiste in ragione dell’effettivo potere fisico sulla cosa (v. Cass. 17 marzo 2016, n. 5336).
Denuncia di
La denunzia di nuova opera spetta al proprietario, al titolare di
nuova opera:
un diritto reale di godimento o al possessore che abbia ragione di
legittimazione attiva, temere che da una nuova opera (ad es., una costruzione, degli scavi,
petitum e ecc.) — iniziata da meno di un anno e non terminata (se fosse
causa petendi
terminata, non ricorrerebbe più la figura dell’azione preventiva o
cautelare e si potrebbe agire con l’azione petitoria o possessoria) —
Carattere
alternativamente
petitorio e
possessorio
[§ 188]
Il possesso
371
possa, se proseguita, derivare danno alla cosa che forma oggetto del
suo diritto o del suo possesso (v. Cass. 30 novembre 2012, n. 21491).
Il giudice può vietare la continuazione dell’opera, o permetterla
stabilendo però le opportune cautele (art. 1171 c.c.; v. Cass. 13
gennaio 2011, n. 676).
La denunzia di danno temuto è data al proprietario, al titolare di Denuncia di
un diritto reale di godimento o al possessore nel caso in cui vi sia danno
temuto:
pericolo di un danno grave e prossimo derivante da qualsiasi edificio, legittimazioalbero o altra cosa (non, quindi, da una persona), senza che ricorra ne attiva,
petitum e
l’ipotesi di nuova opera (art. 1172 c.c.; v. Cass. 28 maggio 2004, n. causa petendi
10282). Il giudice dispone i provvedimenti necessari per ovviare il
pericolo e, se del caso, impone idonea garanzia per gli eventuali
danni.
I DIRITTI DI CREDITO
CAPITOLO XVII
IL RAPPORTO OBBLIGATORIO
§ 189.
Nozione.
Con il temine « obbligazione » si intende il rapporto tra due Il rapporto
soggetti — il soggetto passivo (c.d. debitore) ed il soggetto attivo (c.d. obbligatorio
creditore) — in forza del quale il primo è tenuto, nei confronti del
secondo, ad una determinata « prestazione » (ad es., il venditore è
tenuto, nei confronti dell’acquirente, alla consegna del bene: v. § 370;
il responsabile di un sinistro stradale è tenuto, nei confronti del
danneggiato, al risarcimento del danno: v. § 454; ecc.).
Il rapporto obbligatorio dà, dunque, luogo a due posizioni Il debitore ed
correlate: alla posizione passiva (di « debito ») fa da contraltare quella il creditore
attiva (di « credito ») (così, per restare al nostro primo esempio, alla
posizione passiva, debitoria, del venditore, che è tenuto alla consegna, si contrappone quella attiva, creditoria, dell’acquirente, che ha
diritto a siffatta consegna). Tale concetto si esprime anche dicendo
che al debitore fa capo una determinata « obbligazione » (nel nostro
esempio, l’obbligazione di consegnare il bene), mentre al creditore fa
capo il correlativo « diritto di credito » (nel nostro esempio, il diritto
alla consegna stessa): in siffatto contesto, il temine « obbligazione » è
sinonimo di « debito ».
Il creditore, per conseguire l’utilità cui ha diritto, ha bisogno La
dell’indispensabile cooperazione del debitore (così, per restare ancora cooperazione
del debitore
una volta al nostro esempio, chi ha diritto alla consegna del bene non
può prenderselo da sé, ma deve poter contare sulla collaborazione del
debitore, che a siffatta consegna proceda).
Il diritto del creditore è, quindi, un diritto nei confronti del Relatività del
debitore: per questo, si dice « relativo » (o personale), in quanto può rapporto
obbligatorio
essere fatto valere solo nei confronti di quest’ultimo.
La nozione di « diritto di credito » viene tradizionalmente con- Diritti reali e
di
trapposta a quella di « diritto reale »: mentre quest’ultimo è un diritto diritti
credito:
sulla cosa, caratterizzato dai connotati dell’« immediatezza » e rinvio
dell’« assolutezza » (v. § 131), il primo è un diritto nei confronti di un
376
I diritti di credito
[§ 189]
soggetto obbligato ad una determinata prestazione (c.d. « relatività »
del diritto di credito).
La distinzione si fa più sottile allorquando la prestazione dovuta
dal debitore consiste nel consentire al creditore di trarre da un bene
le utilità che lo stesso è in grado di offrire (si pensi, ad es., al diritto
che concedo ad un terzo di venire a pescare nel laghetto sito sul mio
fondo; al diritto che l’albergatore concede al cliente di fruire di una
camera dell’hotel; ecc.). Con riferimento a questi ultimi casi — si dice
— il potere del creditore sul bene è mediato (in quanto il godimento
del bene gli viene garantito attraverso la condotta imposta al debitore, e non già mediante l’attribuzione di una diretta potestà sul bene
medesimo, come accade invece in ipotesi di diritto reale) e relativo (in
quanto può esercitarsi nei confronti del solo debitore, e non già erga
omnes, come accade invece in ipotesi di diritto reale). Proprio con
riferimento a tali ipotesi si parla di « diritti personali di godimento »
per distinguerli dai « diritti reali di godimento ».
La giuridicità del vincolo del debitore è sanzionata — a diffeLa
responsabilità
renza di quanto avveniva in altri tempi, quando era previsto anche
patrimoniale
l’arresto per inadempimento di un debito — soltanto con una « responsabilità patrimoniale » (art. 2740 c.c.): il debitore risponde dell’inadempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e
futuri (v. § 235). Vale a dire che, se la sua pretesa all’adempimento
resta insoddisfatta, il creditore può invocare misure coercitive (solo)
sul patrimonio dell’obbligato.
Si è già visto (v. § 121) che il creditore, se ha diritto di ricevere
L’esecuzione
forzata
una somma di danaro (che è il caso più frequente di obbligazione),
potrà conseguire tramite l’esecuzione forzata, sempre che il patrimonio del debitore sia capiente, proprio quanto aveva diritto di conseguire con l’adempimento spontaneo: cioè, l’importo di cui era creditore.
La stessa coincidenza tra prestazione dovuta e risultato delle
procedure esecutive può realizzarsi — come pure si è visto (v. § 121)
— anche in tutti gli altri casi in cui è possibile l’« e
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