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MACROECONOMIA

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MACROECONOMIA
Capitolo 1 – UN VIAGGIO INTORNO AL MONDO
Che cos’è la macroeconomia?
Il modo migliore per rispondere a questa domanda non è darvi una definizione formale, ma accompagnarvi in un viaggio
economico intorno al mondo.
La macroeconomia è una scienza sociale che attua un'analisi rigorosa dei fenomeni economici e sociali Studiando le
forze che influenzano i sistemi economici. L'etimologia della parola economia è casa -norma. Casa viene inteso come
nazione o gruppo, norma come le norme che regolano il funzionamento della nazione o gruppo. La macroeconomia ha
ripercussioni sulla vita quotidiana ed usa un linguaggio specifico.
A oggi i policy-maker (responsabili della politica economica) non dormono sonni migliori rispetto a qualche anno fa.
Infatti, all’inizio del 2020 la popolazione mondiale è stata colpita da una grave pandemia causata da un nuovo
coronavirus che ha costretto in quarantena interi paesi e fermato la produzione in molti settori.
Anche nel 2008 l’economia mondiale è stata colpita da una disastrosa crisi economica, la peggiore dalla Grande
D epressione del 1929. Il tasso di crescita della produzione mondiale, che di solito è del 4-5% annuo,
nel 2009 è stato addirittura negativo. Oggi la pandemia causerà una recessione ancora più profonda.
Le recessioni causate da una pandemia sono diverse, non sono provocate da alcuno squilibrio nell’economia, ma da uno
shock esogeno e inatteso. Questo shock colpisce l’economia in tre modi:
- spezzando le catene produttive: chi usava prodotti intermedi importati ha fermato le produzioni;
-
per rallentare il diffondersi del virus, gran parte dei paesi ha scelto di limitare la mobilità delle persone e molti
hanno smesso di lavorare e questo ha comportato uno shock che ha limitato la produzione;
- la caduta dei redditi familiari ha provocato un improvviso rallentamento dei consumi.
Quanto durerà questa recessione? Nell’aprile 2020, il Fondo monetario internazionale ha prodotto le prime previsioni
sull’andamento dell’economia mondiale durante e dopo la pandemia. Rispetto alle previsioni pre-pandemia (indicate
dalle linee tratteggiate), nel secondo trimestre del 2020 il Pil nei paesi avanzati
cadrà di quasi il 15%.
C risi 2008-2009
Parliamo di una crisi economica a livello mondiale peggiore della Grande Depressione del 1929. Nel periodo che va dal
2000 al 2007 l'economia mondiale ha attraversato una fase di forte espansione. La crescita media annua del pil mondiale
e stata del 4,5% nelle economie avanzate.
Tutto ebbe inizio negli Stati Uniti:
1. i prezzi immobiliari, che erano aumentati dall’inizio del 2000, cominciarono a diminuire
2. la crisi del settore immobiliare divenne presto una crisi finanziaria (bancaria poiché non riuscivano a pagare il
mutuo)
3. la crisi finanziaria divenne presto una crisi economica (le banche sono in difficoltà e riducono il credito)
4. la crisi economica si propagò al resto del mondo attraverso il commercio internazionale e il sistema finanziario
globale
La situazione oggi:
- grazie alle forti risposte delle politiche monetarie e fiscali e al risanamento del sistema finanziario molte
economie si sono oggi riprese;
- in molte economie avanzate, il tasso di crescita è tornato positivo e la disoccupazione al livello pre -crisi, sino
alla pandemia del 2020;
- tuttavia, sia nelle economie avanzate sia nelle economie emergenti il tasso di crescita della produzione rimane
particolarmente basso.
Quando i macroeconomisti analizzano un’economia per la prima volta, si pongono inizialmente due domande:
1. “Quanto è grande questo paese da un punto di vista economico?”
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livello della produzione aggregata (livello del PIL che è produzione aggregata di un’economia)
2. “Qual è il tenore di vita in questo paese?”
livello del reddito pro capite (= produzione pro capite)
N.B . PRO CAPITE
Ci permette di fare confronti temporali (evoluzione dell'economia) e spaziali (tenore di vita di un paese con un altro).
Successivamente, quando vogliono scavare più a fondo, i macroeconomisti, guardano a tre variabili:
1. Tasso di crescita della produzione: tasso a cui la produzione varia nel tempo
2. Tasso di disoccupazione: proporzione di lavoratori non occupati e in cerca di occupazione
3. Tasso di inflazione: tasso di crescita del prezzo medio dei beni nell’economia (aumento del livello dei prezzi
generali di un’economia)
STATI UNITI
L'economia degli Stati Uniti nel 2018 era in buona forma e si era lasciata alle spalle gran parte degli effetti negativi della
crisi. La pandemia del 2020 ha portato l'economia in una condizione molto peggiore di quella del 2008. La grande
riduzione del pil è accompagnata da un forte aumento della disoccupazione e da un'inflazione in calo per effetto del
crollo della domanda.
Cose possono fare indispensabili della politica economica per limitare il calo della produzione?
La Fed Ha un ruolo centrale per due ragioni: perché parte del mandato della Fed e contrastare le recessioni e perché ha
lo strumento migliore per farlo il tasso di interesse. Riducendo il tasso di interesse, la Fed può stimolare la domanda,
aumentare la produzione e ridurre la disoccupazione. Viceversa aumentando il tasso di interesse può ridurre la domanda
e aumentare la disoccupazione.
•
Bassi tassi di interesse e lo zero lower bound: quando la crisi scoppiò, la Fed cercò di limitare la diminuzione dei
consumi riducendo il tasso di interesse che è in grado di controllare, il cosiddetto Federal Funds Rate fu ridotto dal
5,2% del luglio 2007 a circa lo 0% (0,16% per l’esattezza) nel dicembre 2008. Potremmo chiederci perché la Fed si
fermò allo zero? La risposta è che i tassi di interesse non possono assumere valore negativo. Se lo facessero, nessuno
vorrebbe detenere titoli obbligazionari poiché tutti vorrebbero possedere banconote, dato che queste pagano un
tasso di interesse nullo. Questo limite nella capacità di una banca centrale di fissare tassi di interesse sotto lo zero
è conosciuto in macroeconomia come zero lower bound e la Fed lo raggiunse nel dicembre del 2008. Questa
riduzione del tasso di interesse rese meno costoso per i consumatori prendere a prestito e per le imprese investire
e in generale ha sicuramente limitato la caduta della domanda e il calo della produzione. Tuttavia, non è stato
comunque sufficiente ad evitare una profonda recessione: il tasso di crescita dell’economia statunitense è stato
infatti negativo sia nel 2008 che nel 2009. per aiutare l’economia nella sua ripresa, la Fed decise di tenere il tasso di
interesse prossimo allo zero, dove è rimasto fino alla fine del 2015 (nel dicembre del 2015 la Fed ha alzato i tassi
allo 0,25% per la prima volta dopo 8 anni). Perché bassi tassi di interesse potrebbero rappresentare un problema?
Per due ragioni! La prima è che bassi tassi di interesse riducono l’abilità della banca centrale di rispondere ad
ulteriori shock negativi all’economia. La seconda ragione è che bassi tassi di interesse sembrano incentivare gli
investitori ad assumere rischio in eccesso → poiché i rendimenti dei titoli obbligazionari sono bassi, in quanto
riflettono a loro volta bassi tassi d’interesse, gli investitori sono incentivati a investire in attività molto rischiose nel
tentativo di aumentare i propri rendimenti. Così, un’eccessiva accumulazione del rischio all’interno del sistema
finanziario può a sua volta dare origine ad altre crisi finanziarie. Le banche centrali come la Fed possono usare anche
altri strumenti per stimolare la domanda che rientrano nella politica monetaria non convenzionale ma non sono
efficaci come i tassi di interesse.
•
Bassa crescita della produttività: le banche centrali come la Fed si preoccupano spesso di sostenere la domanda
interna per conseguire una soddisfacente crescita economica nel breve periodo. Quando si considerano orizzonti
temporali più lunghi, la crescita economica è guidata da altri fattori, primo fra tutti la crescita della produttività. A
questo proposito, ci sono cattive notizie perché il tasso di crescita medio della produttività negli Stati Uniti per il
settore privato (tutti gli agenti economici escluse le amministrazioni pubbliche vale a dire famiglie e imprese) nel
suo complesso e per il settore manifatturiero (imprese la cui attività consiste nella trasformazione di materie prime
o beni intermedi in beni finiti come automobili o telefoni cellulari) nello specifico dal 2010 è stata la metà di quanto
non fosse negli anni novanta. Ci si potrebbe chiedere quanto tutto ciò sia preoccupante. La crescita della
produttività varia moltissimo da un anno all’altro e alcuni economisti ritengono che si tratti solo di qualche anno
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sfortunato e che non ci sia molto di cui preoccuparsi. Altri ritengono che ci siano dei problemi di misurazione della
produzione e che la crescita della produttività sia pertanto sottostimata (per esempio, come si misura
correttamente il vero valore di un nuovo smartphone rispetto ad un vecchio modello?). Altri economisti ritengono
che gli Usa siano effettivamente in un periodo di bassa crescita della produttività e che i principali guadagni delle
nuove tecnologie Tic (tecnologie dell’informazione e comunicazione) siano già stati assorbiti e che il progresso
economico dei prossimi anni sarà men veloce che in passato. Una fonte di preoccupazione è che questo
rallentamento della crescita della produttività si sta verificando in un contesto di crescente disuguaglianza. Infatti
dal 2000 a oggi lo stipendio in termini reali di un lavoratore con una qualifica di scuola secondaria o inferiore è
diminuito. Se i policy maker vogliono invertire questo trend è necessario che riportino la produttività a crescere o
che contengano l’aumento delle disuguaglianze o entrambe le cose
EUROPA
L’eurozona è una formidabile area economica. La sua produzione è quasi uguale a quella degli Stati Uniti e il tenore di
vita al suo interno non gli è di molto inferiore. Tuttavia, ultimamente i risultati economici non sono particolarmente
incoraggianti. Proprio come gli Stati Uniti, la fase acuta della crisi verificatesi negli anni 2008 e 2009 è stata
caratterizzata in Europa da un tasso di crescita negativo, seppur con differenze significative tra i vari paesi membri.
Tuttavia, mentre negli Stati Uniti si sono ripresi, la crescita da questo lato dell’oceano è rimasta anemica e prossima
allo zero negli anni 2010-2014. Persino nel 2015 la crescita è prevista essere solo del 1,5%, meno che degli Stati Uniti e
meno della media pre-crisi. La disoccupazione, in aumento dal 2007, ha raggiunto un elevato 11,1% nel 2015.
L’inflazione è bassa e al di sotto dell’obiettivo della Bce. Diversamente dsgli Stati uniti, dove la crescita è tornata
positiva nel 2010 ed è rimasta tale, l’eurozona (come tutta l’Unione Europea) è entrata in una seconda fase di
recessione. La seconda recessione nell’Eurozona prende il nome di crisi dell’euro ed è associata alla crisi greca, che si è
conclusa con l’insolvenza parziale del paese sul suo debito pubblico.
Oggi l’eurozona affronta due grandi problemi:
• È possibile ridurre la disoccupazione in Europa? il problema della disoccupazione non riguarda tutti i
paesi. Possiamo arrivare a una serie di conclusioni → gran parte dell’elevata disoccupazione attuale è un
retaggio della crisi recente, dovuta al crollo della domanda. Secondo alcuni economisti la soluzione sta nel
garantire meno protezione ai lavoratori (per un’impresa è costoso diminuire il numero di lavoratori e
assumerne di nuovi) e eliminare la rigidità nel mercato del lavoro.
• Che benefici ha portato l’euro agli stati membri? sostenitori dell’adozione dell’euro enfatizzano la sua
enorme importanza simbolica → alla luce delle numerose guerre del passato tra stati europei, quale
migliore garanzia di una moneta unica contro futuri conflitti? Inoltre le imprese europee non devono più
modificare i tassi di cambio e non c’è più bisogno di cambiare la valuta quando ci si sposta da un paese
all’altro Tuttavia ci sono persone che non sono molto a favore dell’euro perché sostengono che una valuta
comune significa una politica monetaria comune, che significa a sua volta medesimi tassi di interesse nei
diversi paesi europei.
CINA
La Cina è nei notiziari ogni giorno ed è sempre più considerata una delle maggiori aree economiche mondiali. Tuttavia
la sua produzione (espressa in dollari9 è pari a circa il 60% di quella statunitense e il reddito pro-capite è pari al 15% di
quello statunitense. Potremmo allora chiederci che cosa è che rende la Cina così interessante. In Cina, molti beni sono
più a buon mercato di quanto non lo siano negli USA → ad esempio, un pasto in un ristorante di fascia media nella
città di NY è di circa 20 dollari mentre a Pechino 4.
Nota bene → quando vogliamo comparare il tenore di vita tra paesi diversi, dobbiamo tendere in considerazione
queste differenze. Le variabili statistiche che lo fanno sono chiamate misure Ppp “Purchasing Power Parity” che
significa parità di potere d’acquisto
La crescita è a malapena rallentata durante il 2008 e il 2009 mentre la disoccupazione è appena aumentata. Questo non
vuol dire assolutamente che la Cina fosse isolata dal resto del mondo (infatti l’export cinese è comunque diminuito
durante la crisi) ma semplicemente l’effetto negativo della crisi sulla domanda cinese è stato quasi totalmente
controbilanciato da una massiccia espansione fiscale del governo cinese, portata avanti principalmente attraverso un
aumento degli investimenti pubblici. Il risultato è che si è ottenuta una crescita della doma nda e, di conseguenza, della
produzione.
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qual è la fonte di questa crescita? Ci sono 2 fattori. Il primo è l’elevato tasso di accumulazione di capitale. Il tasso di
investimento (Rapporto tra investimento e produzione) in Cina è del 48% (contro il 19% neg li USA) → più capitale
significa maggiore produttività e quindi maggiore produzione. Il secondo fattore è il rapido progresso tecnologico. La
Cina ha inoltre incoraggiato joint ventures tra imprese straniere e imprese cinesi e ciò permise alle imprese cine si di
lavorare e di apprendere da quelle straniere, la produttività delle prime è aumentata drasticamente.
ITALIA
La storia macroeconomica italiana del secondo dopoguerra può essere divisa in due fasi. La prima è di forte sviluppo
economico, caratterizzata da una sostenuta crescita della produzione negli anni 50 e 60 e tale sviluppo è proseguito
più moderatamente negli anni 70 e 80. La seconda fase è di stagnazione e abbraccia il periodo che va dalla seconda
metà degli anni 90 ad oggi. In altre parole, mentre l’attuale eurozona ha continuato a crescere ad un tasso medio
annuo del +2,1% (dal 1990 al 2007), l’Italia ad un certo punto si è fermata.
Come mai un paese (Francia) così simile ed esposto agli stessi shock (tra cui la crisi economica) sia riuscito a d
incrementare il tenore di vita e l’Italia no? Alcuni sostengono che la causa di tutto siano l’inefficienza della burocrazia
e della giustizia civile unite ad un eccessivo livello di tassazione. Ciò impedisce appunto alle imprese di crescere e
svilupparsi. Altri sostengono che gli imprenditori italiani, al contrario di quelli francesi e tedeschi, non sono stati in
grado di cogliere i benefici derivanti dall’adozione delle nuove tecnologie informatiche per due motivi: da un lato per
la ridotta dimensione delle imprese rispetto alla media europea e dall’altro per la bassa alfabetizzazione informatica
dei lavoratori adulti italiani. Infine un altro problema è il mercato del lavoro → nel tentativo di ridurre la
disoccupazione, i governi italiani introdussero due riforme del mercato del lavoro: il pacchetto Treu (1997) e la legge
Biagi (2003). La disoccupazione venne ridotta (da 12% a 6% circa) ma d’altra parte tutto ciò comportò posti di lavoro
precari/occasionali. Questo ha probabilmente ridotto la produttività del lavoro perché posti di lavoro precari e
occasionali, diversamente da quelli permanenti, non incentivano le imprese a investire nella formazione e nella
specializzazione dei dipendenti, rendendo così difficile incrementare la loro produttività. Per non parlare del fatto che
anche gli stessi dipendenti hanno un incentivo ridotto a impegnarsi sul posto di lavoro. La crescita economica non è
necessaria soltanto per migliorare il tenore di vita in Italia ma anche per pagare il debito pubblico accumulato anni
dopo anni (+ interessi).
Il messaggio centrale di questo capitolo è:
le economie, come le persone, si possono ammalare di elevata disoccupazione, recessioni, crisi finanziarie, bassa
crescita; la macroeconomia si occupa di capire quello che succede e cosa si può fare a riguardo.
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Capitolo 2 – UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL LIBRO
1. LA PRODUZIONE AGGREGATA (TOTALE)
Gli economisti che studiavano l’attività economica nel 19esimo secolo o al tempo della Grande Depressione
non potevano contare su alcuna misura affidabile della produzione aggregata. Fu solo alla fine della seconda
guerra mondiale che molti paesi europei iniziarono a sviluppare un sistema di contabilità nazionale. In
realtà, sono disponibili misure di produzione aggregata per periodi precedenti ma si tratta di dati costruiti in
modo retrospettivo. Due economisti, Simon Kuznets (università di Harvard) e Richard Stone (università di
Cambridge) furono insigniti del Premio Nobel per i loro contributi allo sviluppo della contabilità nazionale.
Come ogni sistema contabile, la contabilità nazionale per prima cosa definisce i concetti utilizzati e
successivamente costruisce delle variabili che corrispondono a tali concetti. Importanti sono la precisione e
la coerenza di tali rilevazioni → basta osservare i dati per un paese che non abbia sviluppato tale sistema,
senza precisione e coerenza i numeri che dovrebbero dare una certa somma, ne danno una diversa ed è
difficile far quadrare i conti.
1.1. PRODUZIONE E REDDITO
La misura della produzione aggregata nella contabilità nazionale è il prodotto interno lordo (PIL).
- INTERNO: perché è prodotto entro i confini nazionali
- LORDO: perché include gli ammortamenti
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C i sono però attività legali/illegali che non vengono registrate ufficialmente, quindi non fanno parte del PIL
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Es: economia sommersa→ prostituzione, traffico di droga, traffico di armi, lavoro domestico retribuito in
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nero…
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C i sono alcuni istituti di statistica che stimano quanto si l’economia sommersa di ciascun paese
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Nel 2014 la Commissione Europea ha imposto agli stati di includere il valore dell’economia sommersa nel
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calcolo del PIL
Non è l’unica variabile, ma è la più conosciuta e utilizzata per misurare la dimensione economica di un paese. Può
esser utilizzato per effettuare confronti temporali e spaziali (≠ dimensioni economiche)
Nota bene → ci sono diversi modi per definire il PIL:
• Il PIL è il valore dei beni finali prodotti nell’economia in un dato periodo di tempo. (=espresso in € contabilizzati – venduti sul mercato – in un intervallo temporale – in uno stato/economia). La parola chiave è
finali. Vogliamo considerare solo la produzione di beni finali e non intermedi. (vedi esempio pag. 50). È una
variabile flusso (e non stock) perché osservata in un INTERVALLO temporale.
REGOLA EMPIRICA
Pil= vendite ai consumatori finali (sia interni che esteri) + (export-import) di beni intermedi
• Il PIL è la somma del valore aggiunto nell’economia in un dato periodo di tempo. Il valore aggiunto da
un’impresa nel processo produttivo è definito come il valore della sua produzione meno il valore dei beni
intermedi utilizzati nella produzione stessa. (vedi esempio pag. 51)
REGOLA EMPIRICA
Pil= ricavi – valore dei beni intermedi usati nella produzione
Se dovessimo mettere insieme queste prime due definizioni del PIL, viene fuori che il valore dei beni e servizi finali
(prima definizione) può essere concepito come la somma del valore aggiunto da tutte le imprese lungo la catena
produttiva di quei beni finali (seconda definizione). Finora abbiamo considerato il PIL dal lato della produzione, l’altro
modo di considerare il PIL è dal lato del reddito. Il reddito può essere reddito da lavoro o da capitale (o profitto). Da
qui la terza definizione:
• Il PIL è la somma dei redditi dell’economia in un dato periodo di tempo. In conclusione, il PIL è la misura della
produzione aggregata. Possiamo pensare al PIL sia dal lato della produzione (produzione aggregata) sia dal
lato del reddito (reddito aggregato). Produzione aggregata e reddito aggregato sono sempre uguali.
Nel 2018 il Pil dell’UE era di 13.700 miliardi di euro, rispetto ai 2.598 miliardi di euro del 1980.
Tuttavia, la produzione aggregata dell’UE non è stata cinque volte più alta nel 2018 che nel 1980.
Gran parte dell’aumento riflette variazioni dei prezzi dei beni e servizi e non delle quantità prodotte.
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1.2. PIL NOMINALE E PIL REALE
Occorre ora distinguere il PIL nominale da quello reale. Il PIL nominale (€Y t)è la somma delle quantità dei beni e servizi
finali valutati al loro prezzo corrente (tempo t). Questa definizione suggerisce che il PIL nominale cresce nel tempo per
2 ragioni:
• Perché la produzione (in termini di quantità) di beni e servizi cresce nel tempo.
• Perché il prezzo di beni e servizi cresce anch’esso nel tempo.
Potremmo chiederci come mai gli economisti non si limitino a contare il numero di beni e servizi prodotti
per calcolare il PIL. La risposta è che questo sarebbe possibile se l’economia producesse un solo bene finale
ma ci sono molti beni e servizi estremamente diversi tra di loro che vengono prodotti da un’economia e
misurare direttamente la produzione in termini di quantità non è possibile. Perciò si ricorre all’operazione di
moltiplicazione per i prezzi (correnti o costanti). Il PIL reale (Y t) è la somma delle quantità di beni e servizi finali
valutati a prezzi costanti → il nostro obiettivo è misurare la produzione e le sue variazioni nel tempo
eliminando l’effetto dell’aumento dei prezzi.
Potremmo chiederci cosa cambierebbe se al posto di scegliere il prezzo di un certo anno scegliamo il prezzo di un altro
anno (che è diverso); Ovviamente, il livello del PIL reale in ciascun anno sarebbe diverso (perché i prezzi sarebbero
diversi) ma il suo tasso di variazione da un anno all’altro sarebbe lo stesso di prima , perché catturerebbe solamente la
variazione della produzione e non quella dei prezzi che per ipotesi sono mantenuti costanti (e hanno quindi variazione
uguale a zero).Se l’economia producesse un solo bene finale, costruire il PIL sarebbe particolarmente semplice. Il
problema è che nella realtà i beni sono più di uno e il PIL reale deve essere definito come una media ponderata della
produzione di tutti i beni finali. Questo solleva il problema di quali pesi usare. I prezzi relativi dei beni
sembrerebbero una scelta naturale. Se un bene costa il doppio di un altro, dovrebbe contare il doppio nella
costruzione del PIL reale. Ma questo pone un ulteriore difficoltà: cosa succede se, come spesso acca de, i
prezzi relativi cambiano nel tempo? Dovremmo scegliere come pesi i prezzi relativi di un dato anno o dovremmo forse
cambiare i pesi nel tempo? La misura del PIL reale nel sistema di contabilità nazionale dell’UE usa pesi che riflettono i
prezzi relativi e che cambiano nel tempo. Tale misura è chiamata PIL reale con indice a catena. L’anno usato per costruire
i prezzi è chiamato anno di referenza o anno base. L’anno base viene modificato periodicamente. Nel momento in cui il
libro è stato scritto, l’anno base è il 2010 (anno in cui il PIL reale e quello nominale coincidono). I termini PIL nominale
e PIL reale hanno entrambi molti sinonimi:
• Il PIL nominale è anche chiamato PIL a valori o prezzi correnti.
• Il PIL reale è anche chiamato PIL a prezzi costanti, PIL in termini di beni, PIL Aggiustato all’inflazione, PIL ai
prezzi del 2010 (quando l’anno in cui il PIL nominale e il PIL reale sono posti uno uguale all’altro è il 2010).
Nota: nei prossimi capitoli PIL Indicherà il PIL reale e Yt il PIL reale nell’ano t. Il PIL nominale e le variabili misurate a
prezzi correnti verranno invece indicate con il simbolo dell’euro → per esempio €Yt . Importante è, inoltre, il PIL reale
pro capite, il PIL reale diviso per la popolazione del paese. Esso misura il tenore di vita medio di quel paese. Per
valutare l’andamento di un’economia da un anno all’altro, gli economisti considerano il tasso di crescita del PIL reale,
chiamato semplicemente crescita del PIL. I periodi di crescita positiva del PIL sono chiamati espansioni mentre quelli
negativi recessioni. Per calcolare la crescita del PIL nell’anno t si fa (Yt – Yt-1 )/Yt-1. Per approfondire vedi pag. 55 e 56.
PIL NOMINALE: €Y t = P x Q =→ A PREZZI CORRENTI
PIL REALE: Y t: P (fisso di un anno t) x Q → A PREZZI COSTANTI
Il Pil nominale e il Pil reale possono differire enormemente, come si nota in questo grafico che riporta i dati per il Pil
nominale (in blu) e reale (in nero) italiano 1970-2018:
1.3. PIL: LIVELLO O TASSO DI CERSCITA?
Per valutare l’andamento di un’economia da un anno all’altro, gli economisti
considerano il tasso di crescita del Pil reale, chiamato semplicemente crescita del Pil.
Crescita del Pil al tempo t: tasso di crescita del Pil reale al tempo t:
(Yt − Yt −1 )
Yt −1
Espansione: periodo di crescita positiva
Recessione: periodo di crescita negativa, per convenzione almeno due trimestri consecutivi
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Con il grafico sottostante è possibile fare un’analisi delle differenze nei tassi di crescita del Pil tra Europa e Stati Unit i:
In quanto misura della produzione aggregata, il Pil è una variabile macroeconomica importante, ma:
• Per confrontare i paesi bisogna rapportarlo alla popolazione➔ Pil procapite
• Anche così, non dice nulla circa la disuguaglianza
• Come indicatore di benessere ha numerosi limiti
Altre due variabili, la disoccupazione e l’inflazione, rilevano aspetti altrettanto importanti dell’andamento di
un’economia.
Quali transazioni entrano nel PIL?
-
Quelle che aumentano il benessere: beni primari, servizi alle persone/imprese, innovazioni tecnologiche,
servizi di istruzione, ricerca scientifica, flussi turistici, nuove produzioni agricole.
-
Quelle che diminuiscono il benessere: inquinamento, divorzio, crimine, depauperamento delle risorse
naturali, OGM, armamenti
È quindi il pil la giusta misura della ricchezza in un’economia? NO
Abbiamo alcuni indicatori di benessere→ quadro BES-SDG: segmenti di indagine ISTAT per indicatore di benessere
equo e sostenibile
Better life index: abitazione, reddito, educazione, relazioni sociali, sicurezza… maggiore soddisfazione dei paesi nordici
(Italia ha valore medio)
2. IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE
✓ Occupato (N): persona che ha un lavoro al momento dell’intervista
✓ D isoccupato (U): persona che non ha lavoro, ma è in cerca di occupazione
✓ fuori dalle forze di lavoro: persona che non ha un lavoro e NON è in cerca di occupazione
✓ lavoratori scoraggiati: in presenza di elevata disoccupazione, alcuni lavoratori senza occupazione smettono di
cercare ed escono dalla forza lavoro
L’occupazione è data dal numero di persone che hanno un lavoro. La disoccupazione è costituita dal numero di
persone che non hanno un lavoro, ma lo stanno cercando.
• Le forze di lavoro sono la somma delle persone occupate e disoccupate: L = N + U
• Il tasso di disoccupazione è definito come il rapporto tra il numero di disoccupati e le forze di lavoro. u = U/L
Ha un costo:
- Costo sociale: disagio psicologico, deterioramento del tenore di vita, scoraggiamento ed emigrazione
- Costo economico: ricerca di un lavoro, salari ridotti, inefficienza dell’uso delle risorse, politiche di welfare
la collettività paga sussidi per mantenere chi è disoccupato
• Il tasso di partecipazione: rapporto tra la forza lavoro e il totale della popolazione in età lavorativa (16-64)
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Costruire il tasso di disoccupazione è più complesso di quanto immaginate. Mentre stabilire se una persona ha
un’occupazione è facile, determinare se una persona è disoccupata è più difficile. Infatti, dalla definizione data sopra,
occorre ricordare che per essere disoccupati bisogna soddisfare due condizioni:
• Non avere un impiego.
•
Essere alla ricerca di un impiego → questa è proprio la cosa difficile da valutare.
In molti paesi europei, fino a qualche decennio fa, e fino a poco tempo fa nella maggior parte deg li altri paesi, il
numero di persone registrate negli elenchi dei disoccupati era l’unica fonte disponibile di dati sulla disoccupazione, e
solo i Lavoratori registrati come disoccupati erano considerati come tali. Questo sistema ha generato una misura poc o
affidabile della disoccupazione. Infatti, la proporzione dei disoccupati che venivano effettivamente registrati in tali
elenchi variava tra paesi e nel tempo. Chi non aveva incentivo a registrarsi (per esempio, chi aveva esaurito i sussidi
della disoccupazione) difficilmente si ritagliava il tempo per andare a registrarsi nell’elenco dei disoccupati e in tal
modo non veniva incluso nel calcolo della disoccupazione → i paesi con i sussidi di disoccupazione meno generosi
rischiavano di avere un minor numero di disoccupati registrati e quindi un minor tasso ufficiale di disoccupazione.
Oggi, nella maggior parte dei paesi avanzati, il calcolo del tasso di disoccupazione si basa su indagini ad ampia scala
sulle famiglie. In Europa, questa indagine è chiamata Labour Force Survey (Lfs) ed è basata su interviste a un campione
rappresentativo di individui. In Italia, l’indagine prende il nome di Rilevazione sulle forze di lavoro ed è condotta
dall’Istat, che intervista un campione rappresentativo di famiglie italiane. Ciascun individuo viene classificato come
occupato se, nella settimana che precede quella in cui viene condotta l’intervista, ha svolto almeno un’ora di lavoro
retribuito in una qualsiasi attività. Nell’Unione Europea, stime basate sulla Lfs mostrano che, nel 2015, il tasso di
disoccupazione è pari al 9,6%. Negli Stati Uniti, viene condotta un’indagine simile chiamata C urrent Poplation Survey
(C ps), basata su interviste mensili a 60000 famiglie. L’indagine classifica un individuo come occupato, se svolge attività
lavorativa al momento dell’intervista e come disoccupato se non ha un lavoro ma ha compiuto almeno un’azione di
ricerca nelle ultime 4 settimane.
Nota bene → solo chi è in cerca di lavoro è considerato disoccupato, coloro che non lavorano ma non stanno
cercando lavoro sono fuori dalle forze del lavoro e non rientrano nella definizione di disoccupazione. “L’opposto” di
tasso di disoccupazione è detto tasso di partecipazione.
Quando la disoccupazione è alta, alcune delle persone senza un lavoro smettono di cercarne uno e non sono più
considerate disoccupate → sono dette lavoratori scoraggiati.
Perché gli economisti si preoccupano della disoccupazione? Gli economisti si preoccupano per due motivi:
• il primo motivo è legato al benessere delle persone disoccupate. Anche se i sussidi di disoccupazione sono
maggiori di quanto non fossero durante la crisi del 29, la disoccupazione è spesso associata a forti disagi
finanziari e psicologici. Quanto siano forti questi disagi dipende dalla natura della disoccupazione. Spesso
immaginiamo i disoccupati come un gruppo di persone rimaste a lungo alla ricerca di un’occupazione.
Tuttavia, nella realtà spesso le persone rimangono disoccupate per poco tempo. La durata del periodo in cui si
rimane disoccupati influisce su i disagi che il disoccupato vive.
• La disoccupazione segnala che l’economia potrebbe non utilizzare in modo efficiente alcune delle sue risorse.
Da questo punto di vista, anche un tasso di disoccupazione molto basso può essere un problema? La risposta
è sì → un’economia con un tasso di disoccupazione troppo basso potrebbe sovrautilizzare le sue risorse
umane e incorrere in carenza di forze lavoro. Tuttavia, non è facile stabilire quando un tasso di disoccupazione
sia troppo basso.
Il tasso di disoccupazione varia considerevolmente nel tempo e nello spazio, sia in risposta a recessioni ed espansioni,
sia come conseguenza di
mercati del lavoro
differenti tra loro.
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3. TASSO DI INFLAZIONE
L’inflazione rappresenta un aumento sostenuto del livello generale dei prezzi o semplicemente del livello dei prezzi. Il
tasso di inflazione è il tasso a cui il livello dei prezzi aumenta nel tempo. In modo simmetrico, la deflazione è una
riduzione del livello dei prezzi (corrisponde a un tasso di inflazione negativo).
Iniziamo con qualche definizione:
- inflazione: aumento del livello generale dei prezzi.
- tasso di inflazione: tasso a cui il livello dei prezzi aumenta nel tempo
- deflazione: riduzione del livello dei prezzi, ossia quando il tasso di inflazione è negat ivo.
- Disinflazione: c’è l’inflazione, ma cresce a tassi sempre più bassi
Il problema pratico è come calcolare il livello generale dei prezzi affinché sia possibile misurare l’inflazione.
3.1. IL DEFLATORE DEL PIL
Il problema è come calcolare questo livello generale dei prezzi affinché sia possibile misurare l’inflazione. I
macroeconomisti considerano di solito due indicatori del livello dei prezzi (o indici dei prezzi): il deflatore del PIL e
l’indice dei prezzi al consumo.
1. Il deflatore del PIL → Un aumento del PIL nominale può derivare da un aumento del PIL reale o da un aumento
dei prezzi. Se il PIL nominale aumenta più velocemente del PIL reale, la differenza deve provenire
necessariamente da un aumento dei prezzi. Il deflatore del PIL è il rapporto tra PIL nominale e PIL reale nell’anno
t. B isogna notare che nell’anno in cui il PIL reale e quello nominale sono uguali, il deflatore è uguale a 1. è utile
sottolineare che il deflatore PIL è un numero indice. Il suo livello è scelto arbitrariamente (in questo caso è
uguale a 1 nel 2010) e non ha alcuna interpretazione economica. Al contrario, il suo tasso di variazione ha
un’interpretazione economica ben precisa: esso dà il tasso al quale cresce il livello dei prezzi nel tempo (ossia il
tasso di inflazione).
Uno dei maggiori vantaggi derivanti dal definire il livello dei prezzi in termini di deflatore del PIL è che ci porta a una
relazione tra PIL nominale e reale. Il PIL nominale è uguale al PIL reale moltiplicato per il deflatore del PIL. Oppure, in
termini di tasso di variazione, il tasso di crescita del PIL nominale è uguale al Tasso di inflazione più il tasso di crescita
del PIL reale.
2. Il deflatore del PIL contiene informazioni in merito al prezzo medio della produzione, cioè dei beni finali prodotti
nell’economia. Tuttavia, i consumatori sono interessati al prezzo medio dei beni che consumano. Questi due
prezzi medi possono differire per due ragioni:
• Alcuni dei beni nel PIL non sono venduti ai consumatori ma alle imprese, ai governi o all’estero.
• Alcuni dei beni acquistati dai consumatori non sono prodotti all’interno dell’economia, ma importati
dall’estero.
Il deflatore del Pil (Pt) permette di calcolare il prezzo medio dei beni finali prodotti in una economia
Pt =
PIL nominale €Yt
=
PIL reale
Yt
Il deflatore del Pil è un numero indice: il suo livello viene scelto arbitrariamente uguale a 1 per l’anno base
Il tasso di variazione del deflatore del Pil rappresenta il tasso di inflazione
( Pt − Pt −1 )
Pt −1
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3.2. L’INDICE DEI PREZZI AL CONSUMO
L’indice dei prezzi al consumo misura il livello dei prezzi medi al consumo ed esprime il costo in valuta (euro, ad esempio)
di un determinato paniere di consumo di un tipico consumatore urbano.
L’indice dei prezzi al consumo (IPC) è un numero indice: il suo livello è scelto arbitrariamente.
Il tasso di variazione dell’IPC rappresenta il tasso di inflazione.
A livello europeo viene utilizzato l’Indice armonizzato dei prezzi al consumo (Iapc), costruito da Eurostat.
L’indice dei prezzi al consumo e il deflatore del Pil mostrano andamenti simili nel tempo. Ci sono però delle eccezioni,
che sono generalmente dovute all’aumento del costo delle importazioni.
Perché gli economisti si preoccupano dell’inflazione? Se un’elevata significasse un incremento proporzionale di tutti i
prezzi e salari (inflazione pura) essa non sarebbe altro che un piccolo inconveniente per i consumatori dato che i prezzi
relativi non ne sarebbero modificati. In realtà, l’inflazione pura NON esiste! Durante le fasi inflattive, non tutti i prezzi
e i salari aumentano proporzionalmente e l’inflazione influenza pertanto la distribuzione del reddit o → per esempio,
in molti paesi i pensionati ricevono dei pagamenti che non vengono indicizzati in base al livello dei prezzi perciò se
l’inflazione è alta, le loro pensioni perdono potere d’acquisto. Inoltre l’inflazione crea una serie di altre distorsioni. Le
variazioni dei prezzi relativi generano un clima di maggiore incertezza, rendendo più difficile per le imprese prendere
decisioni sul futuro, come quelle sugli investimenti produttivi. Alcuni prezzi (che sono fissati per legge) rimangono
fermi mentre altri aumentano e si verificano variazioni di prezzi relativi. Inoltre, la tassazione interagisce con
l’inflazione creando ulteriori distorsioni. Quando i vari scaglioni di reddito non tengono conto dell’inflazione, per
esempio, i contribuenti passano da una fascia contributiva a quella successiva semplicemente per effetto
dell’aumento dei prezzi, a parità di reddito reale. Questo fenomeno è conosciuto come fiscal drag o bracket creep.
Negli USA, contrariamente all’Italia (infatti qui si è assistito ad un aumento del 9% della tassazione effettiva del reddito
nel periodo 1974-1980), gli scaglioni di reddito sono automaticamente adeguati all’inflazione. Nota bene → ma se
l’inflazione è un male, significa forse che la deflazione è un bene? La risposta è no. In primo luogo, una deflazione
elevata crea molti degli stessi problemi creati da un’elevata inflazione, dalle distorsioni all’aumento dell’incertezza. In
secondo luogo, persino un basso tasso di deflazione riduce le capacità della politica monetaria di influenzare il livello
di produzione. A questo punto, potremmo chiederci quale sia il tasso ottimale di inflazione? Molti economisti credono
che il miglior tasso di inflazione sia basso e stabile, tra l’1 e il 3%.
3.3. PERCHE’ GLI ECONOMISTI SI PREOCCUPANO DELL’INFLAZIONE?
Durante le fasi inflattive, non tutti i prezzi e i salari aumentano proporzionalmente. L’inflazione influenza la distribuzione
del reddito.
L’inflazione crea altre distorsioni economiche.
I pro e i contro dei diversi tassi di inflazione verranno discussi quando parleremo della politica monetaria.
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4. PRODUZIONE, DISOCCUPAZIONE E INFLAZIONE: LA LEGGE DI OKUN E LA CURVA
DI PHILLIPS
Le tre variabili descritte finora (produzione, disoccupazione e inflazione) sono collegate tra loro. Gli economisti
considerano due relazioni:
La legge di Okun → quando il tasso di crescita è elevato la disoccupazione diminuisce, perché sono necessari più
lavoratori per produrre un numero maggiore di beni e e servizi. Arthur Okun è stato consigliere economico del
presidente John F. kennedy. La legge di Okun non è una legge naturale ma piuttosto una regolarità empirica.
(mette in relazione (negativa) la crescita della produzione e le variazioni del tasso di disoccupazione)
La curva di Phillips → La legge di Okun implica che, grazie ad una forte crescita economica, è possibile ridurre il tasso
di disoccupazione fino a livelli molto bassi. Tuttavia, l’intuizione ci suggerisce che, quando la disoccupazione è ridotta,
l’economia probabilmente si trova in una fase di “surriscaldamento” (gli economisti dicono che un’economia si sta
surriscaldando quando cresce ad una velocità superiore a quello a cui farebbe se le risorse fossero utilizzate
efficientemente), e che questo spingerà l’inflazione ad aumentare. E, in una certa misura, questo è vero. La relazione
tra disoccupazione e inflazione fu scoperta nel 1958 da un economista neozelandese A.W. Phillips ed è divenuta nota
come la curva di Phillips. Phillips mise inizialmente in relazione il tasso di inflazione e il t asso di disoccupazione. Da
allora la curva di Phillips (un nome più corretto sarebbe relazione di Phillips) è stata ridefinita per mettere in relazione
(negativa) la variazione nel tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione.
5. BREVE, MEDIO E LUNGO PERIODO
Che cosa determina il livello della produzione aggregata di un’economia? Ci possono essere tre possibili risposte:
1. La lettura dei giornali suggerisce una prima risposta: il livello della produzione dipende in qualche modo dalla
domanda di beni. Probabilmente avrete letto notizie del tipo “il mese scorso la produzione e la vendita di automobili
sono aumentate in seguito ad impennata della fiducia dei consumatori, che ha spinto un numero record di
consumatori nei concessionari d’auto”. Storie come questa enfatizzano il ruolo della domanda nella determinazione
della produzione aggregata, così come altri fattori che vanno dalla fiducia dei consumatori, alla spesa pubblica ai tassi
di interesse. → breve periodo.
2. Tuttavia, non sarebbe di certo sufficiente una corsa ai saloni automobilistici da parte dei consumatori indiani per far
crescere la produzione indiana al livello di quella statunitense. Questa osservazione suggerisce una seconda risposta:
ciò che conta per la produzione aggregata è il lato dell’offerta, cioè quanto l’economia può effettivamente produrre.
Ciò dipende a sua volta da quanto avanzata è la tecnologia disponibile in quella economia, da quanto capitale è
utilizzato, dalla quantità e dalle capacità dei lavoratori impiegati. Questi fattori (non la fiducia dei consumatori) devono
essere le determinanti fondamentali del livello di produzione di un paese. → medio periodo. (2-10 anni)
3. Anche altri fattori possono essere importanti. Per esempio, affinché le imprese operino in un modo efficiente,
hanno bisogno di leggi chiare e di un governo onesto che le faccia rispettare. Questo suggerisce una terza risposta: le
vere determinanti della produzione sono fattori come il sistema scolastico, il tasso di risparmio e la qualità del
governo. → lungo periodo.
Quale risposta è la più corretta? Tutte e 3 ma con diversi orizzonti temporali!
Il messaggio principale di questo capitolo è:
le tre variabili centrali della macroeconomia sono:
la produzione, la disoccupazione e l’inflazione.
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Capitolo 3 – IL MERCATO DEI BENI
1. LA COMPOSIZIONE DEL PIL
Analizziamo la composizione del PIL nel dettaglio:
• C (CONSUMO) → si tratta di beni e servizi acquistati dai consumatori. È la componente più importante.
• I (INVESTIMENTO) → è detto anche investimento fisso per distinguerlo dalle scorte di magazzino. È la somma
dell’investimento non residenziale e residenziale. I due tipi di investimento, e le decisioni che li motivano, sono molto
più simili di quanto non si pensi. Le imprese comprano impianti e macchinari per produrre di più nel futuro. Le
persone comprano case o appartamenti per ottenere più servizi abitativi nel futuro.
• G (SPESA PUBBLICA in beni e servizi)→ si tratta di beni e servizi acquistati dallo stato o altri enti pubblici. La spesa
pubblica per beni e servizi include sia la spesa per consumi sia quella per investimenti pubblici (che non entrano quindi
in I). i servizi includono anche quelli forniti dagli impiegati pubblici, cioè il valore dei loro stipendi → la contabilità
nazionale assume infatti che lo Stato acquisti i servizi dai suoi impiegati per poi fornirli gratuitamente al pubblico. Si
noti che G non include i trasferimenti come l’assistenza sanitaria o le pensioni, né gli interessi sul debito pubblico:
nonostante queste siano chiaramente delle spese dello stato, non rappresentano acquisti di beni e servizi.
• La somma delle prime 3 voci rappresenta la spesa in beni e servizi da parte dei residenti, siano essi consumatori,
imprese o settore pubblico. Per ottenere la spesa totale in beni nazionali, dobbiamo considerare ancora 2 voci.
Innanzitutto, dobbiamo escludere le IMPORTAZIONI (IM) cioè gli acquisti di beni e servizi dall’estero effettuati dai
residenti (consumatori, imprese e governo). Questo perché il consumo di beni stranieri viene conteggiato all’interno di
C e G, ma non concorre alla formazione della produzione nazionale, proprio perché questi beni vengono prodott i
all’estero. Quindi, per esempio, il consumo di beni prodotti all’estero entra nella composizione del PIL due volte:
nell’aggregato C (con segno +) e nell’aggregato IM con (segno –) e il risultato netto è nullo proprio perché questi beni
sono stati prodotti all’estero. Infine, dobbiamo includere le ESPORTAZIONI (X) cioè gli acquisti di beni e servizi
nazionali da parte del resto del mondo. La differenza tra esportazioni e importazioni (X – IM) è chiamata esportazioni
nette (NX) o saldo commerciale. Se le esportazioni eccedono le importazioni, il paese registra un avanzo commerciale
(NX > 0) Mentre se le esportazioni sono inferiori delle importazioni, il paese presenta un disavanzo commerciale (NX <
0).
• In ogni anno, la produzione e le vendite non sono necessariamente uguali. Alcuni beni prodotti potrebbero non
essere venduti che nell’anno successivo o oltre e alcuni beni venduti in quell’anno potrebbero essere stati prodotti in
anni precedenti. La differenza tra beni prodotti e venduti prende il nome di INVESTIMENTO IN SCORTE. Se la
produzione eccede le vendite, le scorte di magazzino aumentano: l’investimento in scorte è positivo. Quando la
produzione è inferiore alle vendite, le scorte si riducono: l’investimento in scorte è negativo.
Nota bene → investimento in scorte = produzione – vendite
produzione = vendite + investimento in scorte
vendite = produzione – investimento in scorte
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2. LA DOMANDA DI BENI
Z ≡ C + I + G + X – IM
Questa equazione è un’identità e dobbiamo ricordarci che l’investimento in scorte non fa parte della domanda.
Dobbiamo ora cercare di comprendere quali siano i fattori determinanti di Z. Per facilitarci il compito introduciamo
alcune semplificazioni:
• Assumiamo che tutte le imprese producano uno stesso bene che può essere usato indifferentemente dai consumatori
come bene di consumo, dalle imprese come bene di investimento e dal governo come spesa pubblica. In questo modo,
si analizza un solo mercato.
• Assumiamo che le imprese siano disposte a fornire qualsiasi qtà del bene a un dato prezzo P. Questa ipotesi permette
di concentrarci solo sul ruolo della domanda nella determinazione della produzione aggregata.
• Assumiamo che l’economia sia chiusa, cioè che non commerci con il resto del mondo: sia le importazioni sia le
esportazioni siano uguali a zero.
Z≡C+I +G
C onsumo
Le decisioni di consumo dipendono dal reddito disponibile (cioè ciò che rimane del reddito percepito dopo aver ricevuto
i trasferimenti dal governo e pagato le imposte). Quando il reddito disponibile aumenta, le persone comprano di più;
quando il reddito diminuisce, esse ridicono i loro consumi.
C=C(Y d) (+)
Tale funzione è detta funzione del consumo e il segno positivo riflette il fatto che quando il reddito disponibile aumenta,
anche il consumo aumenta. Gli economisti chiamano funzioni come questa equazioni di comportamento, per indicare
il fatto che esse descrivono alcuni aspetti del comportamento degli agenti economici (in questo caso dei consumatori).
La funzione del consumo è una relazione lineare, caratterizzata da due parametri costanti C 0 e C 1 :
C = C 0 + C1 Yd
Il parametro C 1 è chiamato propensione al consumo (o propensione marginale al consumo). Esso esprime l’effetto sul
consumo di un euro aggiuntivo di reddito disponibile. Se è 0,6, un euro in più di reddito disponibile aumenta il consumo
di 60 centesimi. Dobbiamo imporre due restrizioni su C 1 :
• Deve essere positivo.
• Deve essere minore di 1 → questo perché è probabile che gli individui vogliano consumare solo una parte del loro
incremento di reddito e risparmiare il resto. Il parametro C 0 ha una semplice interpretazione. Rappresenta il consumo
desiderato in corrispondenza di un reddito disponibile nullo. Perciò se Y d = 0 allora C = C0 . Un’altra restrizione naturale
è che se il reddito disponibile corrente fosse pari a zero, il consumo sarebbe comunque positivo: con o senza reddito,
le persone dovranno pur mangiare! Ma come è possibile che le persone consumino pur avendo un reddito nullo? La
risposta è semplice: attingendo dai loro risparmi o prendendo a prestito. Questo parametro può però anche avere
un’altra interpretazione: cambiamenti in questo parametro potrebbero riflettere cambiamenti nelle preferenze di
consumo per un dato livello di reddito disponibile. Un aumento in C0 riflette un desiderio di consumare maggiormente
dato un certo reddito, mentre una diminuzione riflette un desiderio di consumare meno.
Il tutto può essere rappresentato a livello grafico → si tratta di una retta la cui pendenza è C 1 e l’intercetta è C 0 . Dato
che l’inclinazione è minore di 1, la retta rappresentata è più piatta della retta a 45°.
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Nota bene → il consumo aumenta col reddito disponibile, ma meno che proporzionalmente.
Ora possiamo definire Y d (reddito disponibile) in questo modo:
Yd ≡ Y – T
(T indica le imposte al netto dei trasferimenti ricevuti dal governo e Y è il reddito). Concludiamo che: C = C 0 + C 1 (Y – T)
tale equazione ci dice che il consumo C è una funzione del reddito Y e delle imposte T. Un reddito più alto fa aumentare
il consumo ma non in maniera unitaria. Imposte più elevate fanno diminuire il consumo ma anche questo non in maniera
unitaria.
T È una variabile esogena ovvero data così com'è e non dipende da altre variabili
Investimento
Nei modelli economici ci sono due tipi di variabili: endogene (spiegate all’interno del modello) e esogene (prese come
date). Nel nostro caso noi consideriamo l’investimento come dato:
I= Ī
Nel nostro modello l’investimento è considerato come dato per motivi di semplicità, ma si tratta di un’ipotesi tutt’altro
che innocua: essa comporta che, quando osserviamo variazioni nella produzione, stiamo assumendo che l’investimento
non risponda in alcun modo.
Spesa Pubblica
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La spesa pubblica, insieme alle imposte T, descrive la politica fiscale del governo (scelte relative alle entrate e alle usci te
del settore pubblico). Analogamente all’investimento, consideriamo G e T come esogene, per ragioni diverse da quelle
precedenti, che si basano su 2 considerazioni:
• Il governo non presenta un comportamento altrettanto regolare come quello dei consumatori e imprese, non esiste
una funzione per G e T che descriva in maniera affidabile l’andamento di queste variabili come per il consumo.
• La seconda considerazione è la più importante. Uno dei compiti della macroeconomia è comprendere le implicazioni
sull’economia di diversi livelli di spesa pubblica e di tassazione, al fine di consigliare il governo circa le decisioni da
prendere. Il nostro obiettivo è essere in grado di dire ai membri del governo “se scegliete questi livelli di G e T, succederà
questo e quest’altro”. Per questa ragione, noi tratteremo G e T come variabili scelte del governo, senza cercare di
spiegarle all’interno del modello.
3. LA DETERMINAZIONE DELLA PRODUZIONE DI EQUILIBRIO
Se dovessimo riassumere quanto detto finora, arriveremmo alla seguente conclusione:
Z ≡ C0 + c1(Y – T) + I + G
Ora è il momento di analizzare l’equilibrio nel mercato dei beni e la relazione tra produzione e domanda. Se le imprese
detengono delle scorte, la produzione non deve necessariamente essere uguale alla domanda: le imprese possono
rispondere a un aumento della domanda attingendo alle loro scorte (cioè scegliendo un investimento negativo in
scorte). Allo stesso modo, possono rispondere a un calo della domanda continuando a produrre e accumulando scorte
(cioè scegliendo un investimento positivo in scorte). Tuttavia, per il momento ignoriamo questa complicazione e
assumiamo che le imprese non abbiano scorte in magazzino. In questo caso, l’investimento in scorte è nullo e l’equilibrio
nel mercato dei beni richiede che la produzione sia uguale alla domanda: Y = Z Questa equazione è chiamata equazione
di equilibrio. Possiamo avere tre tipi di equazioni:
1. Identità (ad esempio l’equazione che definisce il reddito disponibile).
2. Equazioni di comportamento (funzione del consumo).
3. Condizioni di equilibrio.
Y = C0 + c1(Y – T) + I + G
Nota bene → In equilibrio, la produzione, Y (il lato sx dell’equazione), è uguale alla domanda (il lato destro). A sua volta,
la domanda dipende dal reddito, Y, che è uguale alla produzione. Si noti che usiamo lo stesso simbolo Y sia per la
produzione sia per il reddito. Questo non deve creare confusione perché reddito e produzione sono la stessa cosa: sono
soltanto due modi diversi di guardare il PIL.
Ora risolviamo il tutto in 3 modi: con l’algebra, con i grafici e infine a parole.
➔ Con l’Algebra: riscriviamo nuovamente l’equazione di equilibrio:
Y = C0 + C1Y – C1T + I + G
Spostando C1Y sul lato sinistro e riordinando i termini sul lato destro, otteniamo:
(1 – C1)Y = C0 + I + G – C1T
Dividiamo entrambi i lati per (1 – C1): Y= (1/1 – C1)(C0 + I + G – C1T)
L’equazione descrive la produzione di equilibrio, ossia il livello di produzione che uguaglia la domanda. Bisogna
considerare il significato dei 2 fattori posti sul lato destro dell’equazione. Il secondo fattore rappresenta la componente
della domanda di beni che non dipende dal livello della produzione e per questo è detta spesa autonoma. Come
possiamo essere sicuri che tale spesa autonoma sia positiva? Non possiamo esserlo ma è molto probabile che lo sia! I
primi due addendi nella parantesi C0 e I, sono positivi. E gli altri due, G – C1T? Supponiamo, per esempio, che il governo
abbia un bilancio in pareggio cioè le imposte siano uguali alla spesa pubblica. Se T=G e se la propensione al consumo
(C1) è minore di 1, allora (G – C1T) è positivo. Solo se il governo presentasse un grosso avanzo di bilancio (cioè se le
imposte fossero di gran lunga superiori alla spesa), la spesa autonoma sarebbe negativa. Possiamo tranquillamente
ignorare quest’ultimo caso. Vediamo ora il primo fattore. Dal momento in cui C1 è compreso tra 0 e 1, allora tale primo
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fattore è un numero maggiore di 1. Questo numero, che moltiplica l’effetto della spesa autonoma è detto moltiplicatore.
Quanto più C1 si avvicina a 1, tanto maggiore sarà il moltiplicatore. Qual è il significato di questo moltiplicatore? Un
aumento del consumo (o diminuzione), una variazione dell’investimento, della spesa pubblica o delle imposte influirà
sulla produzione in misura superiore all’effetto diretto sulla spesa autonoma. Ma da cosa deriva l’effetto del
moltiplicatore? Un incremento in C0 fa aumentare la domanda, che a sua volta genere un incremento nella produzione.
L’aumento della produzione porta a un aumento del reddito dello stesso ammontare (perché sono la stessa cosa). La
crescita del reddito, a sua volta, fa aumentare ulteriormente il consumo che a sua volta genera un aumento della
domanda e così via.
➔ Con i grafici: il primo passo è disegnare la produzione in funzione del reddito, riportando sull’asse verticale la
produzione e su quella orizzontale il reddito. Siccome le due grandezze (reddito e produzione) coincidono sempre,
esprimere la produzione in funzione del reddito è semplice. La relazione tra le 2 variabili viene quindi rappresentata
dalla retta a 45° con pendenza uguale a 1. Il passo successivo consiste nel disegnare la domanda come funzione del
reddito. Ricordiamo che la domanda è data dalla seguente equazione:
Z = (C0 + I + G – C1T) + C1Y
La domanda dipende dalla spesa autonoma e dal reddito, attraverso il suo effetto sul consumo. Anche in questo caso si
tratta di una retta. L’intercetta sull’asse verticale (valore della domanda quando il reddito è uguale a zero) è pari alla
spesa autonoma. La pendenza della retta è pari alla propensione al consumo cioè C1. Quando il reddito aumenta di 1,
la domanda aumenta di C1. Sotto l’ipotesi che C1 sia positivo ma minore di 1, la retta è inclinata positivamente ma con
pendenza inferiore a 1. L’equilibrio si trova nel Punto A. Alla sinistra di A, la domanda eccede la produzione mentre alla
sua destra, la produzione eccede la domanda. Ora ipotizziamo che C0 aumenti di 1 miliardo di euro. L’equazione ci dice
che, per ogni valore del reddito, se C0 è più alto di un miliardo di euro, la domanda è più alta di un miliardo di euro.
POSSIBILE DOMANDA D’ESAME
Nota bene → un aumento della
spesa autonoma ha un effetto più
che proporzionale sulla produzione
di equilibrio
Si supponga che c0 aumenti di un miliardo: ZZ si sposta in ZZ’, il nuovo equilibrio sarà in A’ e quindi la produzione di
equilibrio diventerà Y’. Produzione aggregata e domanda aggregata maggiore nel pt A’--> fa aumentare il pil
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C’è un nuovo punto di intersezione e la produzione di equilibrio aumenta. L’incremento della produzione può essere
misurato sia sull’asse verticale che su quella orizzontale ed è maggiore dell’aumento iniziale di 1 miliardo di euro.
Questo è l’effetto del moltiplicatore. Cerchiamo ora di spiegare il ragionamento in maniera più approfondita:
1. Il primo aumento della domanda, indicato dalla distanza AB è uguale a un miliardo di euro.
2. Questo primo aumento della domanda porta a un aumento equivalente della produzione cioè 1 miliardo di
euro, anch’esso rappresentato dalla distanza AB.
3. Questo primo aumento della produzione porta a un aumento di pari ammontare del reddito, indicato dalla
distanza BC, anch’esso pari a un miliardo di euro.
4. Il secondo aumento della domanda, rappresentato dalla distanza CD, è uguale a 1 miliardo di euro (il primo
aumento del reddito) moltiplicato per la propensione marginale al consumo, C1 cioè C1 miliardi di euro.
5. Questo secondo aumento della domanda porta a un aumento di pari ammontare della produzione,
anch’esso rappresentato dalla distanza CD e quindi a un aumento di pari ammontare del reddito, indicato
dalla distanza DE.
6. Il terzo aumento della domanda è uguale a C1 miliardi di euro (il secondo aumento di reddito) moltiplicato
per C1 .. esso è uguale a C1 x C1 cioè C1 2 miliardi di euro e così via. Seguendo questa logica, l’aumento
totale della produzione dopo n + 1 passaggi è uguale a 1 miliardo di euro moltiplicato per la somma: 1 + C1 +
…… + C1 n . Questa somma è chiamata serie geometrica. Una proprietà importante delle serie geometriche
è che, quando C1 è inferiore a 1 (come nel nostro caso), all’aumentare di n la somma continua ad aumentare
ma si avvicina a un limite. Questo limite è 1/(1 – C1), cosicché l’aumento finale della produzione è pari a 1/(1
– C1) miliardi di euro. 1/(1 – C1) altro non è che il moltiplicatore. Si tratta di un modo diverso, ma più intuitivo
di considerare il moltiplicatore: l’aumento iniziale della domanda produce aumenti successivi della
produzione, ciascuno dei quali fa aumentare il reddito, che a sua volta fa aumentare la domanda e così via. Il
moltiplicatore è la somma di tutti questi aumenti successivi della produzione.
Aumento della produzione è come dire un aumento del pil di PIU’ di un mlr (effetto moltiplicatore della spesa
autonoma)
Se spesa autonoma aumenta
di 1 mlr
La produzione aggregata
aumenta di 2.5 mlr
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➔ A parole: la produzione dipende dalla domanda, che a sua volta dipende dal reddito che è uguale alla
produzione. Un incremento della domanda, come per esempio un aumento della spesa pubblica, fa aumentare la
produzione e il reddito. L’aumento del reddito (consumato e risparmiato) fa a sua volta aumentare la domanda e
quindi la produzione, e così via. In poche parole, un cambiamento iniziale della domanda dà il via ad un processo di
aggiustamento di produzione e domanda attraverso il quale si giunge ad un nuovo livello di produzione di equilibrio.
Il risultato è un aumento della produzione, superiore all’incremento iniziale della domanda di un fattore pari al
moltiplicatore. La dimensione del moltiplicatore è collegata direttamente al valore della propensione al consumo:
tanto più alta è la propensione al consumo, tanto
maggiore è il moltiplicatore.
Alla fine il risultato è un aumento della produzione
superiore all’incremento (perché moltiplicatore >1
→ 1/1-c1 → >1) iniziale della domanda, di un
fattore pari al moltiplicatore
ESERCIZIO TEORICO
Quanto impiega la produzione ad aggiustarsi? Con le ipotesi a cui si è fatto finora ricorso, la risposta è:
immediatamente! Ma nella realtà un aggiustamento istantaneo non è plausibile: un’impresa che si trovi di fronte a
un aumento della domanda potrebbe decidere di attendere prima di aggiustare la sua produzione, attingendo nel
frattempo scorte per soddisfare la domanda... e così via. La rappresentazione formale dell’aggiustamento della
produzione nel tempo, cioè le equazioni di quella che gli economisti chiamano la dinamica dell’aggiustamento, e la
soluzione di questo modello più complicato sarebbe troppo difficile ora perciò ne parliamo a paro le:
18
•
Supponiamo, per esempio, che le imprese scelgano il loro livello di produzione all’inizio di ciascun trimestre.
Una volta che le imprese hanno preso questa decisione, la produzione non potrà essere modificata nel corso
di quel trimestre. Se gli acquisti dei consumatori supereranno la produzione, le imprese ridurranno le scorte
per soddisfare la maggiore domanda. D’altra parte, se gli acquisti saranno inferiori alla produzione, le
imprese accumuleranno le scorte.
•
Supponiamo ora che i consumatori decidano di spendere di più, cioè di aumentare C0. Nel trimestre in cui
ciò accade, la domanda aumenterà, ma la produzione (che per ipotesi è decisa all’inizio del trimestre) non
cambierà.
•
Dopo aver osservato un aumento della domanda, nel trimestre successivo le imprese fisseranno un maggior
livello di produzione. Questo aumento di produzione porterà a un aumento di pari valore del reddito e a un
ulteriore aumento della domanda. Se gli acquisti supereranno ancora una volta la produzione, nel trimestre
successivo le imprese aumenteranno ulteriormente la produzione e così via.
•
Riassumendo, in risposta a un aumento della spesa per i consumi, la produzione non raggiunge subito il
nuovo equilibrio, ma aumenta progressivamente da Y a Y’ .
La durata di questo processo dipende dalla frequenza con la quale le imprese rivedono i loro piani di produzione
(quanto più frequentemente le imprese aggiustano la produzione in seguito ad aumenti delle vendite, tanto più
rapido sarà l’aggiustamento). Un ragionamento analogo lo si fa anche per le diminuzioni di domanda.
Nel breve periodo (quando prezzi non si modificano) la domanda determina la produzione
4. INVESTIMENTO = RISPARMIO: UN MODO ALTERNATIVO DI PENSARE
ALL’EQUILIBRIO NEL MERCATO DEI BENI
Finora abbiamo pensato all’equilibrio nel mercato dei beni in termini di uguaglianza tra produzione e domanda. Un
modo alternativo, ma equivalente, è pensarlo in termini di risparmio e investimento. Ciò fu proposto da J.M. Keynes
nel suo modello del 1936, nell’ambito della teoria generale. Iniziamo dal RISPARMIO AGGREGATO, pari alla somma di
risparmio privato e pubblico.
Il risparmio privato (S) è quella parte di reddito disponibile che non viene spesa dai consumatori
Il risparmio pubblico è la parte di gettito fiscale che non viene spesa dal governo, T-G.
Per definizione il risparmio privato (S) cioè il risparmio dei consumatori è pari al loro reddito disponibile al netto del
consumo:
S = Yd – C
Usando la definizione di reddito disponibile, possiamo riscrivere il risparmio come reddito meno imposte meno
consumo:
S=Y –T–C
Per definizione, il risparmio pubblico è uguale alle imposte (al netto dei trasferimenti) meno la spesa pubblica, T – G.
Se le imposte eccedono la spesa pubblica, il governo ha un avanzo di bilancio, cioè il risparmio è positivo. Se le
imposte sono inferiori alla spesa pubblica, il governo ha un disavanzo di bilancio, cioè il risparmio pubblico è negativo.
Torniamo ora all’equazione di equilibrio nel mercato dei beni che abbiamo derivato prima. La produzione deve essere
uguale alla domanda, che a sua volta è la somma di consumo, investimento e spesa pubblica:
Y =C+I+G
Sottraendo le imposte T da entrambi i lati e spostando il consumo sulla sinistra, otteniamo:
Y – T– C = I+ G – T
Il lato sinistro di questa equazione è semplicemente uguale al risparmio, per cui possiamo scrivere:
S = I +G – T Oppure I = S + (T – G)
dove il lato sinistro rappresenta l’investimento e il destro il risparmio aggregato.
19
L’equazione ci suggerisce un altro modo di considerare l’equilibrio nel mercato dei beni: affinché il mercato sia in
equilibrio, l’investimento deve essere uguale al risparmio (cioè la somma del risparmio privato e pubblico). Questo
modo di definire l’equilibrio spiega perché la condizione di equilibrio nel mercato dei beni sia chiamata C urva IS (che
sta per Investimento=Savings) → quanto le imprese vogliono investire deve essere uguale a quanto i consumatori e il
g overno sono disposti a risparmiare.
Per capire meglio l’equazione, si pensi a un’economia con una sola persona che deve decidere quanto consumare,
investire e risparmiare: un’economia di Robinson Crusoe, per esempio. Per lui. Le decisioni di risparmio e investimento
sono identiche. In un’economia moderna, invece, le decisioni di investimento spettano alle imprese e le decisioni di
risparmio ai consumatori e al governo.
Riassumendo, esistono due modi equivalenti di considerare la condizione di equilibrio nel mercato dei beni:
• Produzione = domanda.
• Investimento = risparmio.
Ora vediamo il secondo modo. Notiamo subito che le decisioni di consumo e risparmio rappresentano due facce della
stessa medaglia: dato un reddito disponibile, una volta deciso il consumo, il risparmio è determinato per differenza e
viceversa. L’equazione di comportamento del consumo specificata in precedenza comporta che il risparmio privato sia
dato da:
S = Y – T – C →= Y – T – C 0 – C 1 (Y – T)
Riordinando i termini, otteniamo:
S = – C 0 + (1 – C 1 ) (Y – T)
Così come abbiamo chiamato C1 la propensione marginale al consumo, chiamiamo (1 – C1) La propensione marginale
al risparmio. Essa ci dice quanta parte di un incremento unitario di reddito viene risparmiata. Il risparmio privato
aumenta all’aumentare del reddito disponibile, ma meno che proporzionalmente.
I = – C0 + (1 – C1) (Y – T) + (T – G)
Risolvendo per la produzione, otteniamo:
Y= 1
(c0 + I + G – c1 T)
-----------------------
.
(1-c1 )
.
5. IL GOVERNO È DAVVERO ONNIPOTENTE? UN AVVERTIMENTO
•
•
•
•
Cambiare la spesa pubblica o le imposte potrebbe essere tutt’altro che facile:
le risposte di consumo, investimento e importazioni (SENSIBILI A VARIAIZONI DELLA POLITICA FISCALE) sono
difficili da valutare con certezza
le aspettative contano (nel mondo vero)
mantenere il livello di produzione desiderato potrebbe causare spiacevoli effetti collaterali (nel medio
periodo: inflazione)
ridurre le imposte o aumentare la spesa pubblica potrebbe generare grossi disavanzi di bilancio e portare
all’accumulazione del debito pubblico
20
Nella realtà, modificare la spesa pubblica e le imposte
richiede un complesso lavoro legislativo che richiede
tempo e consensoIl FISCAL COMPACT ha imposto agli
Stati dell'Unione Europea di includere il PAREGGIO DI
BILANCIO nella carta costituzionale…. L’'Italia si è impegnata a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2018. Ciò significa
che non si possono creare ampi disavanzi di bilancio, che generano alto debito pubblico
Il messaggio principale di questo capitolo è: nel breve periodo, la domanda determina la produzione
21
Capitolo 4 – I MERCATI FINANZIARI
INTRODUZIONE
•
•
•
REDDITO: è ciò che guadagniamo – dal lavoro o sott forma di interessi e i dividenti. Esso è una variabile flussoè espresso per unità di tempo: reddito settimanale, mensile o annuo.
RISPARMIO: è la parte di reddito disponibile (al netto delle imposte) che non è consumata. Variabile flusso
RICCHEZZA (finanziaria): è il valore di tutte le attività finanziarie al netto delle passività finanziarie
È una variabile stock e fornisce il valore della ricchezza in un dato momento. È possibile modificare questo
valore soltanto nel corso del tempo, risparmiando o de cumulando ricchezza
1. DOMANDA DI MONETA
Le attività finanziarie che possono essere usate direttamente per acquistare beni sono chiamate: MONETA
Ci sono due tipi di moneta: il circolante (la moneta metallica e cartacea) e i depositi di conto corrente, a fronte dei
quali è possibile emettere assegni. → sommati sono chiamati M1
La moneta può essere usata per transazioni, ma non paga interessi
Moneta→ denaro detenuto dai responsabili delle decisioni di spesa nell’economia: famiglie e imprese
Moneta→ non paga interessi a differenza dei titoli
I titoli pagano un interesse positivo (i), ma non possono essere usati per le transazioni.
La decisione di detenere moneta vs titoli dipende:
• dal livello delle transazioni;
• dal tasso d’interesse offerto dai titoli.
(spiegato sotto al mix moneta-titoli)
IOU → credito
In realtà la moneta è un IOU: è un credito da parte dell’emettitore della moneta ai detentori della moneta
(famiglie/imprese)
22
19 paesi hanno aderito all’€ (pagherò dalla bce ha chi ha le banconote)
dimostrano aggregati: m1, m2(m1+altri tipi di moneta
non usati da fa, e imprese), m3(m1+altri tipi di moneta
non usati da famiglie e imprese)
TITOLI
I titoli sono attività finanziarie che pagano un interesse positivo, “i”, ma non possono essere usati per le transazioni.
Nella realtà, esistono numerosi strumenti finanziari: azioni, titoli di stato, obbligazioni societarie, derivati sul petr olio e
così via. Esiste un mercato per ognuno di questi e l’equilibrio in ciascuno influenza l’equilibrio negli altri. Il termine
“mercati finanziari” corrisponde quindi all’insieme di questi singoli mercati. In ognuno di questi mercati, domanda e
offerta del particolare strumento finanziario interagiscono determinando il prezzo associato a tale strumento.
•
In realtà esistono molte attività diverse della moneta, molti tipi di titoli cui è associato un tasso d’interesse
diverso. Per ora assumiamo che esista «un solo tipo» di titolo in cui investire che paga un tasso d’interesse «i»
•
In genere la compravendita di titoli composta dei COSTI DI TRANSAZIONE (per esempio: pagare un
intermediario finanziario, pagare le imposte)
•
Come vorreste allocare la vostra ricchezza finanziaria tra moneta e titoli? Dipende dal tasso d’interesse che
viene pagato
Detenere solo moneta è comodo perché evita costa di transazione, ma non paga alcun interesse
I titoli pagano un interesse positivo, ma non possono essere usati per le transazioni. Detenere solo
titoli è scomodo! Sarebbe necessario rivolgersi all’intermediario finanziario ogni volta che si volesse
bere un caffè
MIX MONETA-TITOLI
23
È dunque utile detenere sia moneta che titoli: ma in quali proporzioni? Dipende da due fattori
Tanto maggiore è il tasso d’interesse tanto più sopporterete i costi e la fatica di curare la posizione finanziaria,
comprando e vendendo titoli. Tanto più alto è il tasso d’interesse tanto minore sarà la quantità di moneta che
vorrete detenere
1. Il livello delle transazioni.
2. Il tasso di interesse offerto dai titoli. Maggiore è il tasso di interesse pagato dai titoli e maggiore è la
probabilità che decidiate di sopportare l’eventuale fatica e il costo associati alla compravendita di tali
strumenti. Se il tasso d’interesse offerto fosse molto elevato, potreste persino decidere di ridurre la qtà di
moneta detenuta, per esempio, ad una qtà sufficiente in media per due settimane, cioè a 1500€ nel caso in
cui pianificaste una spesa mensile di 3000€. in questo modo sareste in grado di detenere in media 48500€ in
titoli e percepire così più interessi. Chiariamo meglio quest’ultimo punto. La maggior parte delle persone non
possiede titoli e pochi dispongono di un intermediario finanziario di fiducia. Ma, di fatto, molti individui
detengono titoli indirettamente, attraverso i fondi comuni monetari. I fondi comuni monetari ricevono fondi
da individui e da imprese e li usano per acquistare titoli (di solito titoli di stato). Essi pagano un tasso di
interesse leggermente inferiore a quello percepito sui titoli (la differenza serve a coprire i costi amministrativi
e ad avere un margine di profitto).
DERIVAZIONE DELLA DOMANDA DI MONETA
Indichiamo con 𝑀𝑑 la domanda di moneta dove l’apice d sta per la domanda. La domanda di moneta di un’economia
nel suo insieme è la somma di tutte le domande di moneta individuali, provenienti da imprese e individui. La domanda
di moneta dipende dal livello totale delle transazioni nell’economia e dal tasso di interesse che pagano i titoli. Il livello
totale delle transazioni è difficile da misurare, ma possiamo ragionevolmente assumere che sia più o meno
proporzionale al reddito nominale (il reddito misurato in euro). Possiamo quindi scrivere la relazione tra domanda di
moneta, reddito nominale e tasso di interesse come:
𝑀𝑑 = €YL(i) (–)
Questa equazione ci dice che la domanda di moneta è uguale al reddito nominale moltiplicato per una funzione
decrescente nel tasso di interesse i indicata con L(i). il segno meno sotto l’equazione indica che il tasso di interesse ha
un effetto negativo sulla domanda di moneta: un aumento del tasso di interesse riduce la domanda di moneta (ne
dipende negativamente) . Ciò che conta qui è il reddito nominale non quello reale. La domanda di moneta aumenta con
il reddito nominale. Se il reddito reale non cambia ma i prezzi raddoppiano, facendo raddoppiare il reddito nominale,
gli individui avranno bisogno di detenere il doppio della moneta per acquistare lo stesso paniere di consumo. La
relazione tra domanda di moneta, reddito nominale e tasso di interesse è rappresentata nella figura sotto. Sull’asse
verticale abbiamo il tasso di interesse mentre su quello orizzontale la moneta. La relazione tra domanda di moneta e
tasso di interesse, per un dato livello di reddito nominale è rappresentata dalla curva Md . Essa è inclinata
negativamente: minore è il tasso e maggiore è la qtà di moneta che le persone vogliono. Fissato un certo tasso di
interesse, un aumento del reddito nominale fa aumentare la domanda di moneta (spostamento verso destra).
24
1. DETERMINAZIONE TASSO D’INTERESSE
Supponiamo che la banca centrale decida di offrire un ammontare di moneta uguale a M → MS = M, l’equilibrio nei
mercati finanziari richiede che l’offerta di moneta sia uguale alla domanda di moneta. Perciò la condizione di equilibrio
è:
MS = €YL(i)
Questa equazione ci dice che il tasso di interesse i deve essere tale da indurre gli individui a tenere una qtà di moneta
pari all’offerta di moneta dato il loro reddito nominale. (tutta la quantità offerta deve essere domandata)
La prima figura ci mostra gli effetti di un
aumento del reddito nominale sul tasso di
interesse → un aumento del reddito
nominale provoca un incremento del tasso
di interesse e la ragione è semplice: in
corrispondenza del tasso interesse iniziale,
la domanda di moneta eccede l’offerta di
monta. Per indurre gli individui a tenere una
qtà inferiore di moneta, e ristabilire
l’equilibrio, è necessario che il tasso di
interesse aumenti.
La seconda figura mostra gli effetti di
un aumento dell’offerta di moneta sul
tasso di interesse → un aumento
dell’offerta di moneta provoca una
riduzione del tasso di interesse. La
riduzione del tasso di interesse fa
aumentare la domanda di moneta, in
modo da eguagliare la nuova –
maggiore – offerta di moneta.
POSSIBILE DOMANDA D’ESAME
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L ’offerta di moneta non dipende
dal tasso di interesse e pertanto
è una retta verticale
POLITICA MONETARIA E OPERAZIONI DI MERCATO APERTO
Per capire meglio le figure sopra riportate, possiamo analizzare più in dettaglio il modo in cui la banca centrale varia
l’offerta di moneta e le conseguenze del suo operato sui mercati finanziari. La banca centrale normalmente modifica
l’offerta di moneta attraverso l’acquisto e le vendita di titoli nel mercato obbligazionario. Se desidera aumentare la qtà
di moneta, compra titoli e li paga immettendo nuova moneta nel sistema. Se, invece, vuole diminuire la qtà di moneta,
vende titoli e rimuove dalla circolazione la moneta che riceve in pagamento. Queste azioni sono chiamate operazioni di
mercato aperto perché avvengono nel mercato aperto dei titoli. Per comprendere come funzionino queste operazioni,
è utile partire dal bilancio della banca centrale(per bilancio intendiamo lo stato patrimoniale):
Attività
Titoli
Passività
Moneta (circolante)
Nota bene → le operazioni di mercato aperto comportano variazioni di pari importo nell’attivo e nel passivo del bilancio
della banca centrale. È importante fare una distinzione tra intervento espansivo di mercato aperto e intervento
restrittivo di mercato aperto. Nel primo caso la banca centrale compra dalle famiglie e dalle imprese titoli, pagandoli
con nuova moneta che entra in circolo con l’economia (la banca centrale aumenta/espande l’offerta di moneta, si sposta
verso dx). Nel secondo caso, la banca centrale vende i titoli alle famiglie e alle imprese che vengono pagati con moneta
(la moneta in circolazione diminuisce, si sposta a sx) che finisce nella cassaforte della banca e perciò scompare
dall’economia (la banca centrale restringe l’offerta di moneta).
(Finora ci siamo concentrati sul tasso di interesse pagato dai titoli. In realtà, nel mercato dei titoli si determina non il
tasso di interesse, ma il prezzo di essi. Queste due variabili sono strettamente collegate).
Supponiamo che i titoli nella nostra economia siano annuali, che non paghino alcun cedola e che garantiscano il
rimborso di 100€ dopo un anno. Supponiamo che il loro prezzo oggi sia di €PT (dove T sta per titolo).
Se compriamo il titolo oggi e lo teniamo per un anno, il rendimento del titolo detenuto fino a scadenza (che chiamiamo
tasso di interesse) sarà uguale a
(€100 – €PT)/€PT
26
Dove Pt è minore o uguale a 100, perciò quanto più è elevato è il prezzo del titolo, tanto minore sarà il tasso di interesse
pagato dal titolo stesso. Se conosciamo il tasso di interesse, possiamo risalire al prezzo del titolo usando la stessa
formula. Riordinando i termini nella formula precedente, il prezzo oggi di un titolo annuale che paga 100€ tra un anno
è dato da:
€PT = 100€/(1 + i)
Se il tasso di interesse è positivo, il prezzo del titolo è inferiore al valore di rimborso. Quanto maggiore è il tasso di
interesse, tanto minore sarà il prezzo del titolo oggi) Ora che abbiamo parlato di questa piccola parentesi, siamo pronti
ad analizzare nel dettaglio le operazioni di mercato e i loro effetti sull’equilibrio nei mercati finanziari. Consideriamo per
prima cosa un intervento espansivo di mercato aperto → la banca centrale acquista titoli e li paga emettendo nuova
moneta. Poiché acquista titoli, la banca centrale fa aumentare la domanda di titoli e, di conseguenza, ne fa aumentare
il prezzo. Quindi, il tasso di interesse sui titoli scende. Consideriamo un’operazione restrittiva di mercato aperto, con cui
la banca riduce l’offerta di moneta vendendo titoli. Questo provoca un aumento dell’offerta dei titoli e quindi una
riduzione del loro prezzo che equivale ad un aumento del tasso di interesse.
Il tasso di interesse è determinato
dall'uguaglianza tra offerta e domanda di
moneta.
variando l'offerta di moneta, la banca centrale
può influenzare il tasso di interesse.
la banca centrale cambia l'offerta di moneta
tramite operazioni di mercato aperto.
tali operazioni fanno variare il prezzo dei titoli e
quindi
tasso
di interesse.
Politica monetaria: attraverso il controllo dell’offerta di moneta o del
tassoil di
interesse?
Finora abbiamo immaginato che la banca centrale scelga l’offerta di moneta e lasci che il tasso di interesse sia
determinato dall’uguaglianza tra offerta e domanda. Alternativamente, avremmo potuto immaginare che la banca
centrale scelga il tasso di interesse e aggiusti l’offerta di moneta in modo tale da raggiungere quel tasso. Pe rché è utile
pensare che la banca centrale decida il tasso di interesse invece che l’offerta di moneta? Perché questo è quello che le
banche centrali moderne generalmente fanno (come la BCE o la FED) → prima decidono il tasso di interesse obiettivo e
poi aggiustano l’offerta di moneta.
2. DETERMINAZIONE TASSO D’INTERESSE II
Vediamo prima di tutto il ruolo delle banche.
Nelle economie moderne sono presenti molti tipi di intermediari finanziari: istituzioni che ricevono fondi dagli
individui e dalle imprese e li usano per accordare prestiti e acquistare titoli. Le attività che detengono nei loro bilanci
sono le azioni e le obbligazioni che possiedono e i prestiti che hanno concesso. Le passività nei loro bilanci sono i fondi
che esse ricevono dagli individui e dalle imprese. Le banche sono una tipologia di intermediari finanziari e ciò che le
caratterizza è che le loro passività sono moneta: gli individui possono pagare le transazioni emettendo assegni (o
usando la carta di debito) fino all’ammontare massimo dei propri depositi di conto corrente. Questo è il bilancio delle
banche:
27
Vediamo, nel dettaglio, cosa fanno le banche:
• le banche ricevono fondi da individui e imprese che li depositano direttamente o attraverso bonifici o assegni
bancari. In qualunque momento, gli individui e le imprese possono emettere assegni o prelevare fino all’ammontare
del loro saldo di conto corrente. Quindi le passività delle banche sono pari al valore totale dei depositi di conto
corrente.
• Le banche detengono parte dei fondi ricevuti sotto forma di riserve. Si tratta di riserve di moneta detenute in parte
in contanti e in parte su un conto che le banche hanno presso la banca centrale e dal quale possono prelevare in caso
di bisogno. Perché le banche detengono riserve di moneta?
Per 3 ragioni: 1. Ogni giorno, alcuni correntisti prelevano dai propri conti correnti, altri versano nei propri conti
correnti. Non vi è alcuna ragione per cui le entrate e le uscite di contante debbano essere uguali, per cui la banca deve
tenere un po’ di contante a disposizione. 2. Allo stesso modo, ogni giorno, i correntisti di una banca emettono assegni
a favore di correntisti di altre banche e, viceversa. Quanto la banca, in seguito a queste transazioni, deve alle altre
banche potrebbe essere maggiore di quanto essa deve ricevere dalle stesse. Anche per queste ragione, una banca ha
bisogno di tenere riserve. 3. Le prime due motivazioni spiegano perché le banche vogliono tenere riserve a loro
discrezione. Esistono anche riserve obbligatorie, proporzionali ai depositi di conto corrente. In Europa le banche
devono detenere una riserva di liquidità determinata in relazione alla composizione del loro bilancio. In particolare è
prevista un’aliquota di riserva pari all’1% sui depositi a vista e overnight, sui depositi a scadenza fino a due anni e sui
titoli di debito emessi con scadenza fino a due anni.
• I prestiti rappresentano il 70% delle attività bancarie diverse dalle riserve. I titoli rappresentano il restante 30%. Per
ora (cioè per capire quali fattori determinano l’offerta di moneta) la distinzione tra titoli e prestiti non è importante.
Per questo motivo, assumeremo per semplicità che le banche non concedano prestiti e che le attività di bilancio siano
costituite esclusivamente da riserve e titoli.
La domanda di moneta della banca centrale
→ la domanda di moneta della banca centrale ha ora due componenti. La prima è la domanda di circolante da parte
delle persone, mentre la seconda è la domanda di riserve da parte delle banche. Al fine di semplificare i passaggi,
assumeremo che le persone vogliono detenere moneta solo nella forma di depositi di c/c e non desiderino detenere
circolante. Nel caso che affronteremo ora, la domanda di moneta della banca centrale è semplicemente la domanda
di riserve da parte delle banche. Questa domanda dipende, a sua volta, dalla domanda di depositi di c/c da parte delle
persone. È da qui che partiremo quindi. Sotto la nostra ipotesi che gli individui non detengono circolante, la domanda
di moneta da parte degli individui coincide con la domanda di depositi di c/c. Quindi, per descrivere la domanda di
depositi di conto corrente, possiamo usare la stessa equazione che abbiamo visto in precedenza.
Md = €YL (i) (–)
L’equazione ci dice che le persone vogliono tenere più depositi quando il reddito nominale è elevato e quando il tasso
di interesse sui titoli è basso. Analizziamo ora la domanda di riserve da parte delle banche. Maggiori sono i depositi di
conto corrente, maggiore è l’ammontare di riserve che le banche devono mantenere, sia per motivi discrezionali sia
per via delle regolamentazioni relative alle riserve obbligatorie.
Sia Θ il coefficiente di riserva, cioè l’ammontare di riserve che le banche decidono di detenere per ogni euro di c/c.
Quindi, utilizzando l’equazione, possiamo descrivere la domanda di riserve da parte delle banche, che chiameremo Hd
, nel seguente modo:
H d = ΘMd = Θ €YL (i)
La prima uguaglianza riflette il fatto che la domanda di riserve sia proporzionale alla domanda di deposit i di conto
corrente. La seconda, invece, riflette il fatto che la domanda di depositi di conto corrente dipenda dal reddito nominale
28
e dal tasso di interesse. Quindi, la domanda di moneta emessa dalla banca centrale, che equivale alla domanda di riserve
da parte delle banche, è data da Θ moltiplicato per la domanda di moneta da parte degli individui.
L’EQUILIBRIO NEL MERCATO DELLA MONETA DELLA BANCA CENTRALE
→ esattamente come in precedenza, l’offerta di moneta della banca centrale è sotto il controllo della banca centrale
stessa. Chiamiamo H l’offerta di moneta della banca centrale. E, esattamente come prima, la banca modifica H
attraverso le operazioni di mercato aperto. La condizione di equilibrio è che l’offerta di moneta della banca centrale sia
uguale alla domanda di moneta della banca centrale:
H = Hd → H = Θ€YL (i)
l'offerta di moneta emessa dalla banca centrale è uguale alla domanda di moneta emessa dalla banca centrale.
A questo punto ci chiediamo se esista davvero un mercato in cui la domanda e l’offerta di moneta della banca centrale
determini il tasso di interesse. Sì, questo mercato esiste. Negli Stati Uniti c’è un mercato per le riserve, nel quale il tasso
di interesse è determinato dall’interazione tra la domanda e l’offerta di riserve. Esso è chiamato “federal funds market”,
e il tasso di interesse determinato al suo interno “federal funds rate”. La Fed, la banca centrale americana, fa variare
questo tasso di interesse attraverso aggiustamenti dell’offerta di riserve. Nell’euroz ona, la Bce implementa la politica
monetaria in una maniera più complicata rispetto alla Fed. Esistono diversi tassi di interesse controllati direttamente
dalla Bce, ma quello più importante è il tasso di rifinanziamento principale o, più semplicemente , ta sso di
rifinanziamento. Esso è il costo dei prestiti che le banche ottengono dalla Bce ed è strettamente legato all’offerta di
moneta della banca centrale: maggiore è questo tasso, minore sarà la qtà di riserve che il sistema bancario prende a
prestito dalla Bce e minore sarà quindi l’offerta di moneta. In altre parole, questo tasso è il principale fattore che
determina allo stesso tempo sia l’offerta di riserve sia il tasso di interesse a cui le banche si scambiano tra loro le riser ve
nel mercato interbancario. Aumentando o diminuendo il tasso di rifinanziamento la Bce può quindi esercitare
un’influenza indiretta su tutti i tassi di interesse dell’economia.
29
Una data variazione della moneta emessa dalla banca centrale ha un effetto più ampio sull'offerta di moneta, e quindi
sul tasso di interesse, in una economia in cui sono presenti le banche.
H -> la quantità di moneta emessa dalla banca centrale, e chiamata anche moneta ad alto potenziale, o base
monetaria. questo perché aumenti dell'offerta di moneta emessa dalla banca centrale portano ad un aumento più che
proporzionale dell'offerta aggregata di moneta.
3. TRAPPOLA DELLA LIQUIDITA’
La conclusione principale che abbiamo tratto è che la banca centrale, scegliendo opportunamente l’offerta di moneta
della banca centrale, è sempre in grado di scegliere il tasso di interesse desiderato. Questo paragrafo vuole dimostrare
che ciò è vero ma con un’importante eccezione: il tasso di interesse non può scendere sotto lo zero, un limite conosciuto
come zero lower bound. Quando il tasso di interesse è sceso a zero, la politica monetaria non è in grado di ridurlo
ulteriormente. La politica monetaria non funziona più e l’economia è considerata in una trappola di liquidità. Solo 10
anni fa, lo zero lower bound era percepito come un tema di rilevanza marginale. La maggioranza degli economisti
credeva che le banche centrali non avrebbero voluto, in ogni caso, implementare tassi di interesse negativi, così che
questo limite non sarebbe mai divenuto vincolante. La crisi recente, tuttavia, ha cambiato queste convinzioni →
numerose banche centrali hanno portato il tasso di interesse a zero e avrebbero voluto spingersi oltre. Ma lo zero lower
bound ha impedito loro di ridurre ulteriormente il tasso di interesse e ciò si è rilevato una grande limitazione alla
condotta della politica monetaria.
Nota bene → quando il tasso di interesse diminuisce
fino a zero, gli individui, dopo aver soddisfatto la
domanda di moneta per scopi transativi, sono
indifferenti tra moneta e titoli. La domanda di moneta
diventa orizzontale. Questo implica che, a un tasso di
interesse uguale a zero, ulteriori aumenti dell’offerta di
moneta non hanno alcun effetto sul tasso di interesse.
Il messaggio centrale di questo capitolo e: nel breve periodo, il tasso di interesse è determinato dalla banca
centrale.
30
Capitolo 5 – IL MERCATO DEI BENI E I MERCATI FINANZIARI: IL
MODELLO IS-LM
1. IL MERCATO DEI BENI E LA CURVA IS
RIASSUNTO CAPITOLO 3
•
Abbiamo caratterizzato l'equilibrio nel mercato dei beni attraverso la condizione di uguaglianza tra produzione,
Y, e domanda, Z, chiamando questa condizione relazione IS.
•
Abbiamo poi definito la domanda come la somma di consumo, investimento e spesa pubblica. Abbiamo assunto
che il consumo fosse una funzione del reddito disponibile, Y, (il reddito al netto delle imposte), e abbiamo
considerato l'investimento, la spesa pubblica e le imposte come dati:
Z = C(Y-T)+ I+ G
(Nel capitolo 3, per semplificare l'algebra, abbiamo assunto che la relazione tra il consumo C e il reddito disponibile, Y T, fosse lineare. Qui non ricorreremo a questa ipotesi e useremo la forma più generale C = C (Y - T).)
•
La condizione di equilibrio era quindi data da:
Y = C(Y - T) + I + G
•
Usando questa condizione di equilibrio, abbiamo analizzato i fattori che causano variazioni della produzione di
equilibrio. In particolare, abbiamo esaminato gli effetti di variazioni della spesa pubblica e del consumo.
La principale semplificazione di questo primo modello consisteva nel fatto che il tasso di interesse non influenzasse la
domanda di beni. In questo capitolo, il primo passo consisterà proprio nell' introdurre il tasso di interesse nel modello
di determinazione dell'equilibrio nel mercato dei beni. Per il momento, ci concentreremo soltanto sugli effetti del tasso
di interesse sull'investimento, rimandando ad un altro capitolo l'analisi dei suoi effetti sulle altre componenti della
domanda.
1.1
INVESTIMENTO, VENDITE E TASSO D’INTERESSE
In precedenza, abbiamo considerato l’investimento come costante. In realtà non è costante e dipende da due fattori:
•
Il livello delle vendite → per esempio, un’impresa che debba far fronte ad un aumento delle vendite e debba
aumentare la produzione, dovrà acquistare nuovi macchinari e impianti/attrezzature (separati o tutti insieme).
•
Il tasso di interesse → consideriamo un’impresa che si ritrovi a dover decidere se acquistare un nuovo
macchinario oppure no. Supponiamo che per comprare il macchinario, essa debba prendere denaro a
prestito. Quanto più è alto il tasso di interesse, tanto meno conveniente sarà la prospettiva di indebitarsi per
realizzare il nuovo investimento. (il profitto che si ottiene con il nuovo macchinario deve essere paragonato al
costo dell’indebitamento).
31
Per catturare questi due effetti, scriviamo l’equazione dell’investimento come segue (assumiamo che abbiano un
comportamento e non siano più esogeni):
I = I (Y, i) (+ , –) → I è funzione di Y (produzione) e i, non bisogna moltiplicare
•
•
1.2
+ →un aumento della produzione provoca un aumento di I (investimenti medi per aumentare la produzione)
- →un aumento del tasso di interesse provoca una riduzione di I
LA DETERMINAZIONE DELLA PRODUZIONE
Prendendo in considerazione l’equazione di investimento, la condizione di
equilibrio nel mercato dei beni diventa:
Y = C (Y – T) + I (Y, i) + G
La produzione deve essere uguale alla domanda di beni. L’equazione è la
nostra relazione IS estesa. Possiamo ora analizzare che cosa succede alla
produzione al variare del tasso di interesse. Iniziamo partendo dalla figura
accanto:
Come vediamo, la domanda è misurata sull’asse verticale e la produzione su
quello orizzontale. Per un dato valore del tasso di interesse, i, la domanda è una funzione crescente della produzione,
per due ragioni:
•
un aumento (del livello, non il tasso di crescita) della produzione fa aumentare il reddito e quindi anche il
reddito disponibile (tenendo fissate T e G). Quest’ultimo provoca un aumento del consumo: si tratta della
relazione che abbiamo studiato nel dettaglio nel capitolo 3.
•
un aumento della produzione fa aumentare l’investimento: si tratta della relazione tra investimento e
produzione che abbiamo introdotto poco fa.
In sintesi → attraverso i suoi effetti sia sul consumo ()sia sull’investimento (), un aumento della produzione fa
aumentare la domanda di beni: questa relazione tra domanda e produzione, per un dato tasso di interesse, è
rappresentata dalla curva ZZ inclinata positivamente. È importante notare due caratteristiche della curva ZZ:
a) Poiché non abbiamo assunto che le equazioni del consumo e dell’investimento dell’equazione precedente
siano lineari, la ZZ (meno inclinata rispetto alla bisettrice del primo quadrante. Inclinazione=c 1 ) in generale
sarà una curva e non una retta.
b) Avendo assunto che un aumento della produzione conduca a un incremento meno che proporzionale
della domanda, abbiamo disegnato la curva ZZ in modo che fosse più piatta della retta a 45°.
c) Il pt A è un pt di equilibrio: domanda aggregata= produzione aggregata
In altre parole, abbiamo assunto che un aumento unitario della produzione conduca a un incremento meno che
unitario della domanda. Nel capitolo 3, dove l’investimento era costante, questa restrizione derivava dall’ipotesi che i
consumatori spendessero in consumi solo una parte del loro reddito addizionale. Tuttavia, ora che l’investimento
risponde a variazioni della produzione, questa restrizione non è più valida. Quando la produzione aumenta, la somma
degli incrementi del consumo e dell’investimento potrebbe eccedere l’aumento iniziale della produzione. Benché si
tratti di una possibilità teorica, l’evidenza empirica suggerisce che in realtà ciò non si verifica. Assumeremo, quindi,
che la risposta della domanda alla produzione sia meno che proporzionale e disegneremo la curva ZZ più piatta della
retta a 45°. L’equilibrio nel mercato dei beni viene raggiunto nel punto in cui la domanda è uguale alla produzione,
cioè nel punto A, in corrispondenza dell’intersezione della ZZ con la retta a 45°. Il livello di equilibrio della produzione
è Y. Finora ci siamo semplicemente limitati a estendere l’analisi del capitolo 3, è giunto però il momento di derivare la
curva IS.
1.3
LA CURVA IS (domanda esame)
Obiettivo paragrafo: Costruire relazione tra produzione aggregata e tasso d’interesse
32
La curva IS → nella figura precedente abbiamo disegnato la curva di domanda, ZZ, per un dato valore del tasso di
interesse. Vediamo ora cosa succede quando questo tasso di interesse
cambia.
Domanda aggregata= produzione aggregata → in A
Tra tasso di interesse () e produzione () → relazione inversa: curva
decrescente: curva IS (in economia chiusa)
Nei due grafici cambiano solo le ordinate, le ascisse sono uguali
Come vediamo nella figura sotto, un aumento del tasso di interesse
riduce la domanda di beni (il maggior livello di i riduce l’investimento e la
domanda) e porta a una riduzione della produzione agg. di equilibrio.
Utilizzando la figura a, possiamo trovare il valore di equilibrio della
produzione per ogni valore del tasso di interesse. La relazione tra
produzione e equilibrio è derivata nella figura b. La figura mostra sull’asse
orizzontale la produzione di equilibrio e su quello verticale il tasso di
interesse.
Nota bene → Un maggior tasso di interesse è associato a un livello
inferiore di produzione. Questa relazione tra tasso di interesse e
produzione è rappresentata dalla curva inclinata negativamente in b
detta curva IS.
Perché la curva IS può essere più o meno inclinata? (domanda esame)
Perché molto inclinata/quasi verticale?
Per avere una stessa variazione della produzione, il tasso deve
variare molto di più.
Z è poco sensibile alle variazioni del tasso d’interesse→
investimenti sono slegati dalla variazione del tasso d’interesse,
quindi la domanda non è/poco sensibile alle variazioni del tasso
Se IS la disegno verticale: il tasso i può variare quanto gli pare,
ma gli investimenti non sono legati alle variazioni del tasso→ z
non dipende dal tasso d’interesse
Se curva IS quasi orizzontale→ gli investimenti dipendono molto
dal tasso i
Inclinazione della curva IS
IS”→ basta che il tasso si aumenti/abbassi di poco per avere
grand cambiamenti sulla domanda aggregata (quindi anche
sulla produzione aggregata)
33
La posizione dipende da: c0, c1, T, G
Governo decide di aumentare le tasse: T’>T. Si riducono il
reddito disponibile e la domanda aggregata (quindi anche
produzione aggregata)→ equilibrio si abbassa → vado vs
sinistra→ IS”
Se governo >G → >domanda aggregata > produzione equilibrio
→ vado vs destra→ IS’
A parità di tasso d’interesse=dato il tasso
d’interesse
 fattori che < la domanda aggregata
→Fattori che > la domanda di beni
1.4 SPOSTAMENTI DELLA CURVA IS
Riassumiamo quanto abbiamo appena visto:
• l’equilibrio del mercato dei beni richiede che un aumento del tasso di interesse sia associato a una riduzione
della produzione
• questa relazione è rappresentata dalla curva decrescente IS
• ogni fattore che diminuisce la domanda di beni, dato il tasso di interesse, sposta la IS verso sinistra. Ogni
fattore che aumenta la domanda di beni, dato il tasso di interesse, sposta la IS verso destra
Spostamenti della curva IS → prima abbiamo derivato la curva IS
per dati valori delle imposte, T, e della spesa pubblica, G. Variazioni
di T o G comportano lo spostamento della curva IS nel piano. Per
esempio, per un dato tasso di interesse, un aumento delle imposte
provoca una riduzione del livello di produzione. In altre parole, un
aumento delle imposte sposta la curva IS verso sinistra. Più in
generale: fissato il tasso di interesse, ogni fattore che fa diminuire
il livello di equilibrio della produzione fa spostare la curva IS verso
sinistra. Al contrario, fissato il tasso di interesse, ogni fattore che fa
aumentare il livello di equilibrio della produzione (una riduzione
delle imposte, un aumento della spesa pubblica o della fiducia dei
consumatori) fa spostare la curva IS verso destra.
34
2. I MERCATI FINANZIARI E LA CURVA LM
Nel capitolo 4, abbiamo visto che il tasso di interesse è determinato dall’uguaglianza tra domanda e offerta di moneta:
M = €YL(i)
La variabile M sul lato sinistro rappresenta lo stock nominale di moneta. Qui, per un attimo, ignoreremo i dettagli che
abbiamo studiato nel capitolo 4 e assumeremo che la banca centrale controlli direttamente M. Il lato destro, descrive
la domanda di moneta, che è una funzione del reddito nominale e del tasso di interesse.
2.1 LA MONETA REALE, IL REDDITO REALE E IL TASSO DI INTERESSE
L’equazione M = €YL(i) stabilisce una relazione tra moneta, reddito nominale e tasso di interesse. Qui è però più
conveniente riscriverla come una relazione tra moneta reale, reddito reale e tasso di interesse. Ricordiamo che il
reddito nominale diviso per il livello dei prezzi è uguale al reddito reale, Y. Quindi, dividendo entrambi i lati
dell’equazione per il livello dei prezzi P, si ha:
M/P = YL(i)
in questo modo, possiamo ridefinire la nostra condizione di equilibrio come eguaglianza tra offerta reale di moneta –
cioè lo stock di moneta in termini di beni (che questo stock di moneta è in grado di acquistare – volume) e non di euro
– e domanda reale di moneta la quale dipende a sua volta dal reddito reale Y e dal tasso di interesse i.
Questa equazione descrive l’equilibrio nel mercato della moneta, ed è utilizzata per derivare la curva LM quando la
banca centrale stabilisce una certa offerta di moneta.
2.2 LA CURVA LM
La curva LM → quando abbiamo derivato la curva IS, abbiamo considerato due variabili di politica economica: la spesa
pubblica G e la tassazione T. Analogamente, nella derivazione della curva LM dobbiamo decidere come caratterizzare
la condotta della politica monetaria: se in termini di scelta dell’offerta di moneta M o del tasso di interesse i.
Se il reddito reale aumenta, aumentando a sua volta la domanda di
moneta, il tasso di interesse deve aumentare in modo che la
domanda di moneta rimanga uguale all’offerta di moneta. In altre
parole, fissata l’offerta di moneta, un aumento del reddito porta
automaticamente ad un aumento del tasso di interesse. Questo è il
modo tradizionale di derivare la relazione LM e la relativa curva.
Tuttavia, l’ipotesi che le banche centrali scelgano lo stock di moneta
e lascino aggiustare automaticamente il tasso di interesse non
riflette la realtà odierna. Sebbene nel passato le banche centrale
abbiano spesso considerato l’offerta di moneta come la variabile di
politica monetaria, oggigiorno si concentrano direttamente sul tasso
di interesse. Esse scelgono un tasso di interesse e aggiustano
l’offerta di moneta in modo tale da raggiungerlo. Per questo, nel resto della nostra analisi, assumeremo che la banca
centrale scelga il tasso di interesse detto ī. Questo risulterà in una curva LM molto semplice: una retta orizzontale.
Y→ produzione= reddito (perché misurato in termini reali)
35
_
M/P= offerta dalla banca
Per mantenere i allo stesso livello deve aumentare
l’offerta di moneta (> reddito, > domanda di
transazioni)→ come se spostassi retta verticale verso dx |
→ B nuovo equilibrio
Bce aumenta offerta di moneta in termini reali deve
acquistare titoli
i0 obiettivo della bc
se aumenta reddito di nuovo, la curva si sposta vs
destra→ reddito, tasso d’interesse =
bc “rincorre la domanda”
→ sposta offerta vs dx
(linea verticale) → A-B-C
Sul secondo grafico
segno sulle ascisse i tre
livelli di reddito; traccio
dal grafico uno al due la
linea dello stesso tasso
d’interesse
LM rappresenta le combinazioni del tasso d’interesse e del reddito/produzione che caratterizzano l’equilibrio nel
mercato monetario
36
3. IL MODELLO IS – LM: L’EQUILIBRIO
La curva IS deriva dall’equilibrio nel mercato dei beni mentre la curva LM deriva dall’equilibrio dei mercati finanziari.
Per raggiungere l’equilibrio nella nostra economia, sia la IS, sia la LM devono valere simultaneamente:
Relazione IS: Y = C(Y – T) + I(Y,i) + G
Relazione LM: i = ī
Congiuntamente, queste due relazioni determinano la produzione.
Ogni punto della curva IS corrisponde a un possibile punto di equilibrio
nel mercato dei beni. Ogni punto della curva LM corrisponde a un
possibile equilibrio nei mercati finanziari. Solo nel punto A le due
condizioni di equilibrio sono soddisfatte in entrambi i mercati. Il punto A
corrisponde all’equilibrio generale.
Il tasso di interesse non si aggiusta per riportare in equilibrio il mercato
monetario, tale mercato rimane sempre in equilibrio grazie
all'aggiustamento di M.
C OSA ACCADE FUORI DALL'EQUILIBRIO GENERALE
Se il tasso è alto la domanda di moneta si riduce, vi
è un eccesso di offerta.
Punto C: Situazione opposta! il tasso di interesse è
più basso rispetto all'obiettivo, quindi vi è un
eccesso di domanda.
Punto G: il mercato dei beni e della moneta non
sono in equilibrio. Al di fuori del punto ha almeno
un mercato non è in equilibrio.
3.1 LA POLITICA FISCALE
Vediamo ora che cosa siamo in grado di analizzare utilizzando il modello IS-LM, considerando separatamente gli effetti
della politica fiscale e della politica monetaria:
•
Politica fiscale → supponiamo che il governo decida di ridurre il disavanzo di bilancio attraverso un aumento
delle imposte, mantenendo invariata la spesa pubblica. Una politica di questo tipo è spesso chiamata
consolidamento fiscale o contrazione fiscale (al contrario una crescita del disavanzo di bilancio, dovuta a un
incremento della spesa o a una riduzione delle imposte, è chiamata espansione fiscale).
o consolidamento fiscale: riduzione di (G-T)
o espansione fiscale: aumento di (G-T)
Quali sono gli effetti di una politica di questo tipo sul livello della produzione, sulla sua composizione e sul
tasso di interesse? Per rispondere a questa e ad altre domande sugli effetti delle misure di politica economica
è sempre opportuno compiere questi 3 passi:
37
1. Chiedetevi come la variazione di politica economica influenza le relazioni di equilibrio nel mercato dei
beni e nei mercati finanziari. In altri termini: si muove la curva IS e/o la curva LM e, nel caso, in che
modo?
2. Specificate gli effetti di questi spostamenti sull’intersezione tra la curva IS e LM. Come cambiano la
produzione e il tasso di interesse di equilibrio?
3. Descrivete questi effetti a parole.
Facciamolo:
1. Il primo problema da considerare è come l’incremento delle imposte influenza l’equilibrio nel mercato
dei beni, cioè come spostare la curva IS. La curva IS si sposta a sinistra. E alla curva LM cosa succede?
Dato che si tratta di politica fiscale e non monetaria, la banca centrale non modifica il tasso di
interesse e la curva LM rimane invariata.
2. Il cambiamento dell’equilibrio ci viene mostrato nella seguente figura:
RICORDA!
Un tasso basso stimola gli
investimenti che aumentano la
produzione
Quando la curva IS si sposta, l’economia si muove lungo la curva LM, da A a A’. (Nota bene → è importante capire
bene la differenza tra spostamenti della curva e spostamenti lungo la curva).
3. Il terzo passaggio consiste nel raccontare il tutto a parole. L’incremento delle imposte provoca una
riduzione del reddito disponibile, che a sua volta induce gli individui a consumare di meno. Il risultato,
attraverso l’effetto del moltiplicatore corrisponde ad una diminuzione della produzione e del reddito.
Consideriamo la composizione della produzione: la riduzione del reddito e l’aumento delle tasse
contribuiscono entrambi ad una riduzione del reddito disponibile e, quindi, ad una diminuzione del
consumo. La riduzione della produzione porta ad un calo dell’investimento. Così, sia il consumo sia
l’investimento si riducono.
3.2 LA POLITICA MONETARIA
•
Politica monetaria → supponiamo che la banca centrale riduca il tasso di interesse. Ricordate che per farlo è
necessario un aumento dell’offerta di moneta. Anche qui, bisogna compiere i 3 passaggi:
1. La curva IS non si sposta. La curva LM si sposta verso il basso
2. Il cambiamento dell’equilibrio ci viene proposto dalla figura sottostante:
38
3. La riduzione del tasso di interesse stimola l’investimento e quindi fa
aumentare la domanda e la produzione. Consideriamo la composizione
della produzione: l’aumento della produzione e la riduzione del tasso di
interesse contribuiscono entrambi ad un aumento dell’investimento.
L’aumento del reddito conduce ad un aumento del reddito disponibile e,
in questo modo, del consumo. Quindi, sia il consumo sia l’investimento
aumentano.
Consideriamo:
• Espansione monetaria: aumento di M
• Contrazione monetaria: riduzione di M
La prima causa uno spostamento verso il basso di LM.
La seconda causa uno spostamento verso l’alto di LM.
4 . UN MIX DI POLITICA ECONOMICA
La combinazione di politica fiscale e monetaria dà vita a un mix di politica economica. A volte il giusto mix richiede che
la politica fiscale e quella monetaria vadano nella stessa direzione. Immaginiamo, per esempio, che l’economia si trovi
in una fase di recessione e la produzione sia troppo bassa. In questo caso, occorre che sia la politica monetaria sia la
politica fiscale vengano usate per aumentare la produzione. Il tutto ci viene rappresentato nella figura sottostante →
l’espansione fiscale sposta la curva IS verso destra. L’espansione monetaria sposta la curva LM verso il basso.
Entrambe portano ad un aumento della produzione.
Molte persone potrebbero dire che l’aumento della produzione potrebbe essere raggiunto solo usando la politica
fiscale o solo usando la politica monetaria. Ci sono diverse ragioni che spingono gli economisti a usarle insieme:
• Un’espansione fiscale è operata attraverso o un aumento della spesa
pubblica o una riduzione delle imposte, o entrambi. In ogni caso, questo
porta ad un aumento del disavanzo di bilancio (o se il bilancio era
inizialmente in avanzo, ad un minor avanzo di bilancio). Più avanti
vedremo che condurre un grande disavanzo di bilancio porta
necessariamente ad un aumento del debito pubblico. Per questo è
meglio non affidarsi solo alla politica fiscale ma ricorrere anche alla
politica monetaria.
• Un’espansione monetaria è operata attraverso una riduzione del
tasso di interesse. Se il tasso di interesse è già troppo basso, ci sarà poco
spazio di manovra per utilizzare la politica monetaria. In questo caso, la
politica fiscale deve farsi carico della maggior parte del problema. Se il
tasso di interesse è già prossimo allo zero, allora la politica fiscale deve farsi carico di tutto il problema.
•
La politica monetaria e la politica fiscale hanno differenti effetti sulla combinazione della produzione. Una
riduzione delle tasse sul reddito, per esempio, tende ad aumentare il consumo piuttosto che l’investimento.
Una riduzione nel tasso di interesse avrà un effetto maggiore sull’investimento. Così, a seconda di quale sia la
composizione iniziale della produzione, i policy maker preferiranno una politica economica all’altra.
•
Infine, né la politica fiscale né quella monetaria funzionano perfettamente perciò a volte è utile usare
entrambe.
A volte il corretto mix di politica economica da utilizzare consiste nell’utilizzare la politica monetaria e quella fiscale i n
direzioni opposte, per esempio combinando un consolidamento fiscale con un’espansione monetaria. Supponiamo, ad
esempio, che il governo si ritrovi con un grande disavanzo di bilancio e vorrebbe ridurlo, senza però dare il via ad una
recessione. Come vediamo nella figura sotto, l’equilibrio iniziale è dato dall’intersezione tra le curve IS e LM nel punto
A, in corrispondenza del livello di produzione Y. La produzione è considerata ad un livello giusto, ma il disavanzo di
39
bilancio (T – G) è troppo elevato. Se il governo riduce il disavanzo di bilancio, o aumentando T, o riducendo G (o
entrambe le cose), la curva IS si sposterà a sinistra. Dato il tasso di interesse, maggiori imposte e minor spesa pubblica
ridurranno la domanda e, attraverso il moltiplicatore, la produzione. Così, la riduzione del disavanzo di bilancio
condurrà ad una recessione. Tuttavia, la recessione può essere evitata se viene utilizzata anche la politica monetaria,
riducendo il tasso di interesse.
Cosa succede al consumo e all’investimento in questo caso? Cosa
accade al consumo dipende dalla modalità con cui il disavanzo di
bilancio è ridotto. Se la diminuzione prende la forma di una
diminuzione della spesa pubblica invece che di un aumento delle
imposte, il reddito rimane invariato, il reddito disponibile rimane
invariato e anche il consumo rimane invariato. Cosa accade
all’investimento è più chiaro: una produzione invariata e un più basso
tasso di interesse implicano un livello più alto dell’investimento.
Sono svariate le ragioni per cui i policy-maker potrebbero voler utilizzare mix in cui le due politiche vanno in direzioni
diverse:
•
quando la banca centrale vuole aumentare il tasso di interesse per contenere l’inflazione e il governo adotta
una politica fiscale espansiva per evitare una recessione
•
quando il governo vuole ridurre la spesa e/o aumentare le imposte per migliorare il saldo di bilancio e la
banca centrale riduce il tasso di interesse per evitare una recessione.
APPROFONDIMENTO Bill Clinton
5.IL MODELLO IS-LM DESCRIVE DAVVERO QUELLO CHE SUCCEDE NELLA REALTÀ?
Finora abbiamo ignorato la dinamica di aggiustamento, immaginando che il movimento fosse istantaneo.
Descrivere con precisione il processo di aggiustamento è complesso. L’implicazione principale è però immediata: ci
vuole tempo prima che la produzione si aggiusti in seguito a variazioni di politica fiscale e/o monetaria.
Quanto? Per rispondere a ciò si procede con analisi econometriche.
Il messaggio fondamentale di questo capitolo è:
nel breve periodo, la produzione è determinata dall’equilibrio nel mercato dei beni e nei
mercati finanziari.
40
Capitolo 6 – I MERCATI FINANZIARI II – IL MODELLO IS-LM ESTESO
1. TASSO DI INTERESSE NOMINALE (1 + IT) E REALE (1 + RT)
Tasso d’interesse: quanti sono gli € che dovremo restituire in futuro in cambio di 1€ preso a prestito oggi.
Il tasso di interesse nominale (espresso in termini %) è il tasso di interesse espresso in euro (o in termini della valuta
nazionale). →se il tasso di interesse nominale per l’anno t è it, prendendo a prestito un euro quest’anno si dovranno
pagare (1 + it) euro il prossimo anno.
Il tasso di interesse reale è espresso in termini di beni= quanti beni dovremo ripagare in futuro in cambio di un bene
oggi. → Se indichiamo (per definizione) il tasso di interesse reale per l’anno t con rt, per prendere a prestito
l’equivalente di un’unità di beni quest’anno dovremo pagare l’equivalente di 1 + rt unità di beni il prossimo anno.
Che relazione c’è tra i due? Come è possibile passare dal tasso di interesse nominale a quello reale? La risposta è
intuitiva: dobbiamo correggere il tasso di interesse nominale per l’inflazione attesa.
La presenza dell’inflazione rende la distinzione tra euro e beni molto importante. È infatti privo di senso ricevere un
pagamento di interessi in futuro se l’inflazione nel frattempo diviene così elevata che, quando ci verranno restituiti gli
euro che abbiamo prestato, non saremo in grado di acquistare un maggior numero di beni.
Vediamo adesso come derivare il tasso di interesse reale. Assumiamo che ci sia un solo bene nell’economia (il pane
per esempio). Indichiamo con it il tasso di interesse nominale in termini di euro a un anno: se prendiamo a prestito un
euro quest’anno pagheremo (1 + it) il prossimo anno. Tuttavia, non siamo interessati alla moneta in sé e per sé, ma
41
vogliamo sapere quanto pane potremo acquistare tra un anno. Dobbiamo fare un ragionamento che si svolge in più
passaggi:
1. (freccia verso il basso: 1 bene→ pt€) Supponiamo di voler mangiare 1 chilo di pane quest’anno, se il prezzo del
pane al chilo quest’anno è Pt euro dovremo farci prestare Pt euro.
2. Sapendo che it è il tasso di interesse nominale in un anno, se ci facciamo prestare P t euro dovremo ripagare
(1 + it)Pt euro il prossimo anno.
3. Ciò che a noi interessa, tuttavia, non sono gli euro, ma la quantità di pane. L’ultimo passo è convertire gli euro
nella quantità di pane acquistabile in un anno. Indichiamo con P e t + 1 il prezzo del pane atteso l’anno prossimo.
(l’apice e indica che si tratta di un’aspettativa in quanto i consumatori non sanno esattamente quale sarà il
prezzo del pane il prossimo anno). Quello che dovremo restituire il prossimo anno in termini di pane equivale
a (1 + it)Pt [ovvero gli € da rimborsare l’anno successivo] diviso per P e t + 1 [ovvero il prezzo atteso del pane il
prossimo anno]. Se il prossimo anno dobbiamo restituire 10 euro e ci aspettiamo che il prezzo del pane l’anno
prossimo sia pari a 2 euro al chilo 10/2 = 5 chili di pane. → quanto pane compro al tempo t+1 con la somma di
denaro ricevuta (tenendo in considerazione il prezzo atteso del pane)→ questa quantità si chiama (1+r t): rt
tasso di interesse reale
Da questo ragionamento ne deriva che il tasso di interesse reale a un anno è dato da:
(1 + it)Pt / Pe t + 1
( Questo passaggio è rappresentato dalla freccia rivolta verso l’alto nel riquadro in basso a destra della figura 6.1 .)
Es: Se il prossimo anno dovrete ripagare 10€ e se vi aspettate che il prezzo del pane l’anno prossimo sarà pari a 2€
al chilo, vi aspettate di dover ripagare l’equivalente di 10€/2€ = 5 chili di pane. È questa la ragione per cui dividiamo
l’ammontare da ripagare (1 + it)Pt per il prezzo atteso del pane l’anno prossimo, Pet+1
La relazione sembra più complicata di quello che è. Manipoliamola leggermente per renderla più intuitiva. Denotiamo
l’aspettativa dell’inflazione tra t e t+1 con il termine π e t + 1 . Essendoci solo un bene, il pane appunto, l’aspettativa sul
tasso di inflazione equivale all’aspettativa sul cambiamento del prezzo del pane tra l’anno in corso e quello successivo,
rapportato al prezzo del pane dell’anno in corso:
π e t + 1 = (Pe t + 1 – Pt)/Pt
→ variazione dei prezzi tra oggi e t+1 (tasso d’inflazione attesa tra un anno)
Aggiungiamo 1 a entrambi i lati dell’equazione:
1 + π e t + 1 = ((Pe t + 1 – Pt)/Pt)+ 1
Semplifichiamo il lato destro dell’equazione:
1 + π e t + 1 = Pe t + 1 / Pt
Prendiamo l’inverso
1 / 1 + π e t + 1 = Pt/ Pe t + 1
Sostituendo questo risultato nell’equazione
uguale a:
otteniamo che il tasso di interesse reale è
Questa equazione ci fornisce l’esatta relazione tra il tasso di interesse reale, il tasso di interesse nominale e
l’inflazione. Inoltre, quando il tasso di interesse nominale e l’inflazione attesa non sono molto elevati (meno del 10%)
per anno, una valida approssimazione a questa equazione è data dalla semplice relazione:
42
Per conoscere il tasso di interesse reale dobbiamo conoscere l’inflazione attesa
Questa equazione ci dice che il tasso di interesse reale (approssimativamente) è uguale al tasso di interesse nominale
meno il tasso di inflazione attesa. Questa equazione porta con sé una serie di implicazioni:
•
Quando l’inflazione attesa è uguale a zero, i due tassi di interesse si equivalgono.
•
Poiché l’inflazione attesa risulta quasi sempre positiva, il tasso di interesse reale è tipicamente inferiore
rispetto a quello nominale.
•
Per un dato tasso di interesse nominale, maggiore è l’inflazione attesa e minore sarà il tasso di interesse reale.
Pensiamo a cosa succederebbe se il tasso d’interesse nominale e inflazione attesa fossero uguali al 10%: posso
comprare 1kg di pane oggi e 1 kg nel futuro
Se sono un creditore e l’inflazione attesa è uguale al tasso nominale, io in termini reali non guadagno nulla
Il debitore prede a prestito il denaro, lui restituirà lo stesso valore in termini reali e non di più→ lui sta meglio
(In riferimento al grafico: negli anni ’80 l’inflazione era elevata e ci si aspettava che l’inflazione restasse elevata)
1.1 TASSO DI INTERESSE REALE E NOMINALE IN ITALIA
Il tasso di interesse che importa maggiormente a famiglie e imprese è il reale. Dunque, sebbene la banca centrale
scelga il tasso di interesse nominale, è il reale che influenza le decisioni di spesa (anche se la bc sceglie l’interesse
nominale).
Quindi:
•
quando si raggiunge lo zero lower bound (limite inferiore pari a 0%, quando il tasso nominale arriva allo 0%)
del tasso di interesse nominale, il tasso reale è pari al negativo dell’inflazione attesa:
rt ≈ – π et+1
•
se gli individui si aspettano deflazione (inflazione negativa= livello generale dei prezzi scenda→ π et+1 <0 ), il
tasso reale diventa positivo, anche in presenza di un tasso nominale nullo
•
in altre parole, per raggiungere il tasso reale desiderato, la banca centrale deve tenere adeguatamente conto
delle aspettative di inflazione
1.2
TASSO D’INTERESSE NOMINALE E REALE: ZERO LOWER BOUND E DEFLAZIONE
Quale tasso di interesse dovrebbe entrare nella relazione IS? Chiaramente, quando si pensa al consumo o alle
decisioni di investimento, quello che importa agli individui e alle imprese è il tasso di interesse reale, ovvero il tasso di
interesse in termini di beni. Questa considerazione ha una conseguenza diretta sulla politica monetaria: sebbene la
banca centrale scelga il tasso di interesse nominale, essa si concentra sul tasso di interesse reale, perché è questo il
tasso che influenza le decisioni di spesa. Quindi la banca centrale deve tenere in considerazione le aspettative
sull’inflazione.
Se la banca centrale vuole raggiungere un tasso di interesse pari a r, deve scegliere un tasso di interesse
nominale i tale per cui, data l’inflazione attesa, π e, il tasso di interesse reale, r = i – π e, sia pari al livello desiderato. Per
esempio, se la banca centrale desidera che il tasso di interesse reale sia pari al 4% e l’inflazione attesa è pari al 2%,
fisserà un tasso di interesse nominale pari al 6%.
Lo zero lower bound implica che il tasso di interesse nominale non può essere negativo (altrimenti gli individui non
vorranno ottenere titoli, in quanto converrebbe tenere denaro contante). Questo implica, a sua volta, che il tasso di
interesse reale non può essere minore del negativo dell’inflazione. Se, ad esempio, l’inflazione attesa è pari al 2% il
tasso di interesse reale minimo può essere dello -2% (0- 2%). Fintanto che l’inflazione attesa è positiva è possibile
raggiungere tassi di interesse reali negativi. Ma se l’inflazione attesa diventa negativa, cioè se gli individui si aspettano
deflazione, allora il valore minimo raggiungibile del tasso di interesse reale è positivo e può assumere un valore molto
elevato.
43
2. RISCHIO E PREMIO PER IL RISCHIO
Finora abbiamo assunto che ci fosse solo una tipologia di titoli. Esistono in realtà un gran numero di titoli che
differiscono sotto numerosi aspetti. Gli aspetti principali sotto i quali differiscono sono:
-
la scadenza (cioè dell’arco temporale su cui garantiscono pagamenti): per esempio, un titolo di Stato a un
anno garantisce un pagamento dopo un anno dall’emissione. Un titolo di Stato a dieci anni garantisce invece
un flusso di pagamenti su dieci anni.
-
la rischiosità. Alcuni titoli sono privi di rischio: la probabilità che il debitore non ripaghi è trascurabile. A volte,
però, il rischio non è trascurabile → per assumersi tale rischio, coloro che comprano titoli (cioè coloro che
prestano denaro) richiedono un premio per il rischio.
La rischiosità dipende dal debitore: il governo è generalmente meno rischioso delle singole imprese, ma anche
le imprese private differiscono in termini di rischiosità
Quali sono i fattori che determinano un premio per il rischio?
•
La probabilità di fallimento del debitore → maggiore è questa probabilità, maggiore il tasso di interesse che
richiederanno gli investitori. La relazione per rendere uguale il rendimento di un titolo rischioso al rendimento
di un titolo non rischioso è questa:
rendimento atteso senza rischio → (1+i)= (1-p)(1+i+x) + (p) (0)  rendimento atteso con certa probabilità di fallimento
(1+𝑖 )𝑝
x = (1−𝑝)
dove
-
x è il premio di rischio
-
p la probabilità di fallimento di chi emette il titolo
-
i il tasso di interesse su un titolo privo di rischio
-
i + x il tasso di interesse su un titolo rischioso
Per esempio, se il tasso di interesse di un titolo privo di rischio è il 4% e la probabilità di fallimento è del 2%, allora
il premio per il rischio richiesto per avere uguali rendimenti è del 2,1%.
•
L’avversione al rischio degli obbligazionisti (ossia di coloro che acquistano titoli). Se il rendimento atteso sul
titolo rischioso fosse uguale a quello sul titolo privo di rischio, il rischio stesso renderebbe gli obbligazionisti
riluttanti a tenere il titolo rischioso. Per convincerli a tenere il titolo sarà necessario un premio per il rischio,
proprio per compensare tale rischio. Quanto debba essere grande questo premio per il rischio dipenderà dal
loro grado di avversione al rischio. Più avversi al rischio sono gli obbligazionisti, più il premio salirà anche se la
probabilità di insolvenza sarà rimasta la stessa.
3. IL RUOLO DEGLI INTERMEDIARI FINANZIARI
Gran parte dei prestiti non avvengono direttamente ma grazie all’ausilio di intermediari finanziari → istituzioni
finanziarie che ricevono fondi dai risparmiatori o dagli investitori per poi prestarli ad altri (questo metodo di
finanziamento è detto finanziamento indiretto). Tra queste istituzioni troviamo le banche e altre istituzioni finanziarie
non bancarie come le compagnie di mutui ipotecari, i fondi comuni monetari e così via.
Tuttavia, a volte il meccanismo dell’intermediazione finanziaria si blocca, come accaduto durante la crisi recente. Per
capire quanto accaduto è necessario partire dal bilancio (semplificato) di una banca.
Esistono diverse definizioni di «capitale» di una banca. Qui possiamo usare la seguente: valore di mercato del
patrimonio = valore di mercato delle attività meno il valore di mercato delle passività.
Questi intermediari svolgono una funzione importante. Essi sviluppano una conoscenza specifica dei singoli debitori e
possono adattare le caratteristiche dei prestiti ai loro bisogni. In tempi normali, tutto funziona senza intoppi. Essi
prendono e danno a prestito, richiedendo un tasso di interesse sui prestiti elargiti maggiore di quello pagato per
prendere a prestito, rimanendo in questo modo profittevoli. A volte, però, il meccanismo si blocca come successe
nella crisi recente.
44
Il bilancio di una banca è il seguente:
Quando abbiamo introdotto il bilancio di una banca nel capitolo 4, abbiamo trascurato il capitale ma ora è importante
prenderlo in considerazione e cerchiamo di capire il perché introducendo due definizioni.
3.1 LA SCELTA DELLA LEVA FINANZIARIA
La quota di capitale sugli impieghi di una banca (capital ratio) è il rapporto tra il suo capitale e le sue attività (nel
nostro caso è pari al 20%). La leva finanziaria (leverage ratio) è definita come il rapporto tra le sue attività e il suo
capitale (100/20= 5). Nel decidere quale leva finanziaria adottare, la banca deve valutare due fattori.
-
una maggiore leva finanziaria implica un più elevato tasso di profitto atteso per unità di capitale investito dagli
azionisti: a parità di capitale, la banca può acquistare maggiori attività (registrate).
-
una maggior leva finanziaria implica una maggior probabilità di insolvenza della banca stessa: una perdita di
valore dal lato delle attività rende la banca incapace di rimborsare (o far fronte alle richieste dei correntisti)
quanto preso a prestito.
Consideriamo ciascun fattore singolarmente:
•
Supponiamo che il rendimento atteso delle attività sia pari al 5% e che il rendimento atteso delle passività sia
del 4%. Il profitto atteso della banca sarà pari a (100x5% – 80x4%) = 1,8. Dato che gli azionisti hanno investito
direttamente dal loro portafoglio 20 nella banca, il profitto atteso per unità di capitale investito è uguale a
1,8/20 = 0,09=9%. Supponiamo che gli azionisti decidano di investire solo 10 nella banca, il profitto atteso
diventa del 14% → più alto. Quindi, aumentando la sua leva finanziaria, e diminuendo il capitale investito dagli
azionisti, la banca è in grado così di aumentare i profitti attesi per unità di capitale.
•
Ci chiediamo perché la banca non sceglie una maggiore leva finanziaria? Una maggiore leva finanziaria implica
un più elevato rischio di insolvenza da parte della banca. La banca deve pertanto scegliere una leva finanziaria
che bilanci questi fattori perché se è troppo bassa, c’è troppo poco profitto mentre se è troppo alta, c’è
troppo rischio.
3.2 LEVA FINANZIARIA E PRESTITI
Leva finanziaria e prestiti → Nella realtà si possono verificare un sacco di situazioni. Ad esempio, sempre facendo
riferimento al bilancio lì sopra, può succedere che l’attivo della banca passi da 100 a 90 in seguito ad un prestito
divenuto inesigibile. Il capitale della banca diventa ora pari a 90-80 cioè 10 e la leva finanziaria aumenta. A questo
punto, anche se la banca è ancora solvente, si ha più rischio e la banca ha di fronte a sé due opzioni:
-
potrebbe aumentare il capitale cercando altri azionisti oppure potrebbe ridurre la dimensione del suo
bilancio. Per esempio, se può riscuotere anticipatamente parte dei prestiti che aveva concesso in precedenza,
per un ammontare di 40 li può usare per pagare parte delle sue passività e la leva finanziaria torna al suo
valore originario cioè 5. C’è da dire, però, che l’effetto di questa operazione è una drastica riduzione dei
prestiti concessi dalla banca.
-
Facciamo un altro passo in avanti. Supponiamo che, partendo dal bilancio, il valore della riduzione dell’attivo
sia ancora maggiore diciamo da 100 a 70. A questo punto, la banca diventerà insolvente e fallirà. Coloro i cui
bisogni finanziari dipendono dalla banca in questione faranno molta fatica per trovare un alt ro creditore
desideroso di finanziarli.
Liquidità → Finora abbiamo considerato il caso in cui il valore dell’attivo di una banca diminuisce e abbiamo scoperto
come questo, in un modo o nell’altro, porta a una riduzione dei prestiti concessi. Consideriamo ora il caso in cui gli
investitori abbiano dubbi sul valore dell’attivo di una banca e credano, a torto o ragione, che il valore dell’attivo sia
diminuito. In questo scenario, la leva finanziaria può produrre effetti disastrosi per due motivi:
45
•
Quando gli investitori dubitano del valore dell’attivo di una banca, la cosa più sicura da fare per loro è
riappropriarsi dei fondi che avevano investito nella banca. Tuttavia, questo crea seri problemi alla banca, che
si trova nella situazione di dover trovare fondi sufficienti per rimborsare tutti. I prestiti concessi in precedenza
non sono facili da richiamare. Tipicamente, i debitori della banca non hanno i fondi che hanno preso a prestito
a disposizione (perché li hanno investiti in qualche progetto come case, attività o automobili). Per la banca,
vendere questi prestiti ad un’altra banca è altrettanto difficile. Questo perché l’altra banca fatica a valutare il
valore esatto di questi prestiti, dato che non dispone di tutte le informazioni sul debitore di cui dispone la
banca originale. In generale, più è complicato valutare il valore dell’attivo della banca da parte delle altre
banche, maggiore è la probabilità che la banca sia incapace di vendere le proprie attività o che sia costretta a
farlo a prezzi di svendita (prezzi molto inferiori rispetto al vero valore di tali attività). La decisione degli
investitori di prelevare i propri fondi dalla banca, e le svendite che ne conseguono, può portare una banca
inizialmente solvente ad essere insolvente. Nota bene → ciò accade anche se i dubbi iniziali sono totalmente
infondati.
•
Il problema è più grande quando gli investitori possono prelevare i loro fondi senza preavviso. È il caso dei
conti correnti, detti anche depositi a vista. La storia del sistema finanziario è ricca di episodi di corse agli
sportelli, durante le quali le preoccupazioni sull’attivo delle banche hanno portato gli investitori a prelevare i
propri fondi senza preavviso, causando l’insolvenza degli istituti bancari. Ci sono state nel corso degli anni
delle misure per evitare queste corse però non hanno risolto del tutto il problema.
Nota bene → riassumendo, minore è la liquidità delle attività (maggiore è la difficoltà che la banca incontra nel
venderle) della banca, maggiore è il rischio di svendite e quindi che la banca diventi insolvente e finisca in bancarotta.
Maggiore è la liquidità delle passività (ovvero, maggiore è la facilità con cui gli investitori possono prelevare i loro fondi
senza o con poco preavviso), maggiore è il rischio di svendite e quindi che la banca diventi insolvente e finisca in
bancarotta.
Ancora una volta tutto ciò è di nostro interesse perché comporta conseguenze macroeconomiche non indifferenti.
In che modo questo si ricollega alla macroeconomia? Perché, in seguito ad evento avverso nel sistema finanziario (che
riduce il valore dell’attivo nei bilanci delle banche), sia che le banche rimangano solventi riducendo i prestiti, sia che
diventino insolventi e falliscano, la riduzione nella concessione di prestiti all’economia che ne consegue avrà rilevanti
conseguenze macroeconomiche. In ogni caso c’è una contrazione dei prestiti concessi al tessuto economico (<
consumi, < investimenti, quindi < domanda)
4. IL MODELLO IS-LM ESTESO
Il modello che abbiamo introdotto nel capitolo precedente aveva un solo tasso di interesse. Questo tasso di interesse
era stabilito dalla banca centrale e determinava le decisioni di spesa. Esso appariva sia nella relazione LM sia nella IS.
Tuttavia questo capitolo ci ha già convinto che la realtà è ben più complessa.
Prima di tutto, occorre distinguere tra:
-
il tasso di interesse nominale e reale
e poi dobbiamo distinguere tra
-
i tassi di interesse a cui i debitori possono prendere a prestito e come abbiamo visto ciò dipende dal rischio
associato ai singoli debitori e dallo stato di salute dei singoli intermediari finanziari. Maggiore il rischio o
maggiore la leva finanziaria degli intermediari, maggiore il tasso di interesse che i debitori dovranno pagare.
Assumiamo che l’inflazione attesa sia nulla (=il livello generale dei prezzi non cresca) così che la banca centrale sia in
grado di controllare direttamente il tasso di interesse reale.
Riscriviamo, il nostro modello LM-IS:
Relazione IS: Y = C(Y – T) + I(Y,i – π e + x ) + G
Relazione LM: i = ī (r=r*) r* perché curva LM è una curva orizzontale (tasso obiettivo della bc)
La relazione LM rimane invariata. Infatti, la banca centrale continua a stabilire il tasso di interesse nominale. Abbiamo
però apportato due modifiche alla relazione IS: la presenza dell’inflazione attesa (π) e del premio per il rischio (x).
46
-
L’inflazione attesa riflette il fatto che le decisioni di spesa, ceteris paribus, dipendono dal tasso di interesse
reale (r= i -π) piuttosto che da quello nominale.
-
Il premio per il rischio riflette, in maniera semplificata, tutti i fattori che abbiamo precedentemente visto.
Assume valori elevati quando i creditori percepiscono un elevato rischio che i debitori non saranno in grado di
ripagare quanto preso a prestito, quando i creditori sono maggiormente avversi al rischio, o quando gli
intermediari finanziari riducono il livello dei prestiti concessi, a causa di timori sulla loro solvibilità o liquidità.
Le due equazioni sopra riportate rendono chiaro che il tasso di interesse che entra nella relazione LM, i, non è lo
stesso della relazione IS, r+x, ed è per questo che chiamiamo il tasso che entra nella LM “tasso di policy”→ r (deriva da
policy-maker → banca centrale) e chiameremo “tasso sui prestiti”→ r+x (poiché è il tasso a cui le imprese e gli
individui possono prendere a prestito) il tasso che entra nella relazione IS.
Ora adottiamo una semplificazione: come sappiamo, la banca centrale formalmente stabilisce il tasso di interesse
nominale e lo fa in modo tale da ottenere un certo tasso di interesse reale. Perciò, possiamo pensare che la banca
centrale scelga direttamente il tasso di interesse reale e possiamo riscrivere le equazioni nel seguente modo:
Relazione IS: Y = C(Y – T) + I(Y, r + x ) + G
Relazione LM: r =ṝ
SHOCK AVVERSO
nel modello is-lm esteso→ curva IS si sposta a sinistra
-
Se  tasso sui prestiti, curva IS va a sinistra,  investimenti aggregati ( produzione aggregata d’equilibrio)
Cosa potrebbe fare la banca per “controllare” il  della produzione aggregata?  r
Una sufficientemente grande riduzione del tasso di policy potrebbe riportare la produzione al suo livello originario,
potrebbe addirittura arrivare sotto 0
La banca centrale sceglie il tasso di policy reale, r. Ma il tasso
di interesse reale che determina le decisioni di spesa è il
tasso reale sui prestiti, r + x, che dipende non solo dal tasso di
policy, ma anche dal premio per il rischio.
rappresenta le due equazioni:
-
Tasso di policy sulle ordinate
-
Produzione sulle ascisse
Un aumento del premio al rischio x sposta la curva IS verso sinistra e porta ad una diminuzione della produzione di
equilibrio
La curva IS è disegnata per un dato valore di G, T e x. A parità di ogni altro fattore, un aumento del tasso di policy reale
riduce la spesa e, a sua volta, la produzione: la curva IS ha pendenza negativa. La curva LM è semplicemente una retta
orizzontale in corrispondenza del tasso di policy reale, cioè il tasso di interesse reale stabilito dalla banca centrale.
L’equilibrio è in corrispondenza del punto A, cui è associato il livello di produzione Y.
Per semplicità, abbiamo analizzato un aumento esogeno di x. Ma x potrebbe benissimo dipendere dalla produzione.
Una recessione aumenta la probabilità che alcuni debitori non saranno in grado di ripagare quanto pr eso a prestito: i
lavoratori diventati disoccupati potrebbero smettere di pagare le rate dei loro mutui e le imprese, davanti ad un crollo
delle vendite, potrebbero finire in bancarotta. Questo porta a un aumento del premio per il rischio e, di conseguenza ,
del tasso sui prestiti. A sua volta, questo può ridurre ulteriormente la produzione
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Supponiamo che, per qualche ragione, x aumenti. Questo potrebbe succedere per svariati motivi. Per esempio, perché
gli investitori sono diventati più avversi al rischio e richiedono così un maggior premio per il rischio; oppure perché
una banca è fallita e gli investitori hanno cominciato a dubitare della solvibilità delle altre banche, dando così il via ad
una corsa agli sportelli e obbligando le altre banche a ridurre i prestiti concessi al resto dell’economia. Il risultato, in
termini della figura 6.5, è che la curva IS si sposta verso sinistra. Per un dato tasso di policy, r, il tasso sui prestiti, r + x,
aumenta, provocando una contrazione della domanda e una riduzione della produzione. Il nuovo equilibrio è in
corrispondenza del punto A′. È in questo modo che difficoltà nate nel sistema finanziario possono condurre ad
una recessione. In altre parole, una crisi finanziaria diventa una crisi macroeconomica.
DA UNA CRISI IMMOBLIARE AD UNA CRISI FINANZIARIA
Dall’immagine, abbiamo l’evoluzione di un indice dei prezzi immobiliari statunitensi dal 2000 in poi. Tale indice è
conosciuto come indice di Case-Shiller (dagli economisti che lo hanno inventato). Notiamo un aumento dal 2000 al
2006. il rapido aumento dei prezzi dal 2000 al 2006 era giustificato? Con il senno di poi e dato il crollo seguente,
certamente no ma gli economisti in quegli anni non ne erano così convinti. Possiamo dire che sicuramente, una
porzione di tale aumento era giustificata:
•
Gli anni 2000 furono un periodo di tassi di interesse bassi. I bassi tassi sui mutui ipotecari hanno stimolato la
domanda di abitazioni e spinto così i prezzi verso l’alto.
•
Anche altri fattori entrarono in gioco. Coloro che concedevano mutui ipotecari cominciarono a dare prestiti a
debitori sempre più rischiosi → questi erano detti mutui ipotecari subprime. Erano esistiti già dalla metà degli
48
anni novanta, ma iniziarono a costituire una fetta più rilevante del mercato negli anni 2000. Nel 2006, circa il
20% di tutti i mutui ipotecari statunitensi era subprime. All’epoca questo venne visto dagli economisti come
uno sviluppo positivo: permetteva agli individui poveri di comprare una casa e, sotto l’ipotesi che i prezz i delle
case avrebbero continuato la loro ascesa, così che il valore del mutuo ipotecario in termini di prezzo
dell’abitazione acquistata sarebbe diminuito nel tempo, sembrò una soluzione sicura e vantaggiosa sia per i
creditori che per i debitori. All’epoca, l’ipotesi che i prezzi delle case non sarebbero diminuiti sembrava
ragionevole (anche se c’erano diversi economisti che sostenevano il contrario).
Tuttavia, i prezzi diminuirono nel 2006. quando questo accade, molti debitori si ritrovarono a dover pag are mutui
ipotecari il cui valore eccedeva quello delle loro case. E poi venne fuori che molti mutui erano più rischiosi di quanto si
potesse immaginare → alcuni debitori, indipendentemente dalla riduzione dei prezzi immobiliari, non erano in grado
di pagare. Fu così che, come i prezzi immobiliari invertirono il loro corso e molti debitori fallirono, i creditori si
ritrovarono a fronteggiare gigantesche perdite. Le banche erano caratterizzate da un’elevata leva finanziaria. Ciò era
dovuto da diverse ragioni. Prima di tutto, le banche avevano sottovalutato il rischio che si stavano assumendo. In
secondo luogo, i sistemi di compensazione dei dirigenti davano loro degli incentivi ad ottenere elevati rendimenti,
senza tenere pienamente in considerazione il rischio di fallimento. In terzo luogo, sebbene la regolamentazione
finanziaria obbligasse le banche a mantenere il livello del capitale sugli impieghi al di sopra di un certo minimo, le
banche trovarono nuovi stratagemmi per aggirare la regolamentazione, creando nuove società finanziarie chiamate
VIS ossia veicoli di investimento strutturato. Dal lato delle passività, i vis prendevano a prestito dagli investitori e dal
lato delle attività, detenevano varie forme di attività finanziarie. Per rassicurare gli investitori sulla loro solvibilità, i vis
avevano tipicamente una garanzia da parte delle banca che li aveva creati. Quando i prezzi immobiliari cominciarono a
diminuire e molti mutui ipotecari divennero inesigibili, il valore delle attività detenute nei bilanci dei Vis crollò. La
solvibilità dei vis venne messa in discussione e anche le banche che li avevano creati vennero messe in discussione
(dato che avevano prestato delle garanzie). Qui entrano in gioco due nuovi fenomeni: la cartolarizzazione e il
finanziamento all’ingrosso.
• C artolarizzazione → tradizionalmente, gli intermediari finanziari che concedevano prestiti o mutui ipotecari li
detenevano poi nei loro bilanci. Questo aveva degli svantaggi: una banca locale, con prestiti e mutui locali nel suo
bilancio, era molto esposta alla situazione economica locale. Per esempio, quando il prezzo del petrolio crollò a metà
degli anni ottanta e lo stato americano del Texas entrò in recessione, numerose banche locali fallirono. Se avessero
detenuto mutui più diversificati, come per esempio mutui da varie parti del mondo, non sarebbero fallite. La
cartolarizzazione è la creazione di attività finanziarie sulla base di un insieme di altre attività, come un insieme di
prestiti o un insieme di mutui ipotecari. Ad esempio, una “mortgage-backed security” è un’attività finanziaria che dà
diritto ai rendimenti di un insieme di mutui ipotecari. Il vantaggio è che molti investitori, che non vogliono detenere i
singoli mutui ipotecari, saranno desiderosi di comprare e detenere questi strumenti finanziari. Questo aumento
nell’offerta di fondi da parte degli investitori produce, a sua volta, una riduzione del costo dei prestiti. La
cartolarizzazione si può spingere persino oltre: per esempio, è possibile emettere due strumenti fina nziari →
strumenti finanziari senior (i cui diritti sui rendimenti hanno la precedenza) e junior (i cui diritti sono subordinati e
pagano solo se rimangono fondi dopo che vengono soddisfatti i diritti degli strumenti senior). La cartolarizzazione
sembra una buona idea, un modo per diversificare il rischio e per aumentare l’offerta di fondi alle famiglie e alle
imprese. E, infatti, lo è. Ma porta con sé grossi costi, che divennero molto chiari durante la crisi. Prima di tutto,
quando una banca vende il mutuo ipotecario che aveva utilizzato nell’operazione di cartolarizzazione e lo rimuove dal
suo bilancio, si ritrova con un incentivo minimo a verificare che il debitore sia effettivamente in grado di ripagare
quanto preso a prestito. Il secondo problema è che le agenzie di rating facevano fatica a valutare la rischiosità di
questi strumenti finanziari. Questi strumenti finanziari iniziarono così a venire considerati come titoli tossici.
• Finanziamento all’ingrosso → è un processo che si è sviluppato negli anni 90 e Duemila. Le banche cominciarono ad
affidarsi ad altre banche e altri investitori stipulando debiti a breve termine per finanziare l’acquisto delle loro attività .
I vis furono finanziati interamente per mezzo del finanziamento all’ingrosso. Anche questa sembrava una buona idea
ma in realtà non lo era. Sebbene i detentori di depositi di conto corrente fossero protetti dall’assicurazione sui
depositi e non dovessero preoccuparsi di possibili cambiamenti nel loro valore, la situazione era ben diversa per gli
altri investitori. Così, nel momento in cui questi investitori iniziarono ad avere delle preoccupazioni relativamente al
valore delle attività detenute dalle banche o dai loro vis, iniziarono a prelevare i propri fondi. Ci fu una combinazione
49
di: elevata leva finanziaria, attività liquide e passività ancora più liquide delle attività fu una crisi finanziaria. Quando i
prezzi immobiliari iniziarono a scendere e alcuni mutui ipotecari a diventare inesigibili, un’elevata leva finanziaria
implicò una riduzione relativa del capitale di banche e vis. Questo, a sua volta, li costrinse a vendere parte delle attività
di bilancio e spesso furono costretti a venderle a prezzi di svendita. A sua volta, questo portò a una riduzione del
valore di attività simili ancora presenti nel loro bilancio, o nel bilancio di altri intermediari finanziari, portando a
un’ulteriore riduzione del rapporto di capitale sugli impieghi e costringendoli ad ulteriori svendite di attività e, così, ad
ulteriori riduzioni nei prezzi di queste. Le banche smisero di prestarsi fondi l’una con l’altra e smisero di prestarli a
chiunque altro. Ci furono due implicazioni macroeconomiche: aumento dei tassi di interesse e un crollo delle
aspettative economiche. Ci fu un contagio internazionale (in particolare venne colpita L’Europa) mediante 3 canali:
• Alcune banche europee erano direttamente esposte al mercato immobiliare statunitense, poiché avevano
comprato attività finanziarie che avevano mutui ipotecari americani.
• Il commercio internazionale si ridusse perché si ridussero le aspettative economiche da parte dei consumatori e
imprese e perché ci fu una contrazione di credito da parte delle banche.
• Anche i tassi di interesse in Europa aumentarono. Ci furono delle risposte di politica economica sia da parte degli
USA sia da parte dell’Europa.
Vediamo cosa fecero gli USA:
• Politiche finanziarie → per scongiurare il pericolo di corse agli appelli, l’assicurazione federale sui depositi fu
aumentata da 100.000 $ a 250.000 $ per ogni conto corrente. In secondo luogo, La Fed offrì ampia liquidità al sistema
finanziario e questo perché abbiamo visto che se gli investitori vogliono prelevare dalle banche i loro fondi, queste
sono costrette a vendere delle loro attività, spesso a prezzi di svendita. Per tutti questi motivi, la Fed costituì una serie
di programmi di offerta di liquidità. La Fed, infine, ampliò l’insieme di attività che le istituzioni finanziarie potevano
utilizzare come collaterale per poter prendere prestito. Il governo introdusse un programma chiamato Tarp con lo
scopo iniziale di ripulire i bilanci bancari ma fu presto abbandonato perché non era facile valutare correttamente il
valore di queste attività e perciò scambiarle con i titoli di stato. Perciò il nuovo obiettivo fu quello di aumentare la
capitalizzazione delle banche → diminuendo la leva finanziaria, l’obiettivo di questo programma era permettere alle
banche di evitare il fallimento e tornare alla normalità nel tempo.
• Politica monetaria → a partire dall’estate del 2007, la Fed aveva cominciato a preoccuparsi di un rallentamento della
crescita economica e aveva cominciato a diminuire il tasso di policy, lentamente in un primo momento e più
velocemente man mano che la crisi si manifestava. A dicembre 2008, il tasso di interesse era stato abbassato fino allo
zero. A quel punto, la politica monetaria si trovava già allo zero lower bound e il tasso di policy non poteva essere
ridotto ulteriormente. La fed adottò così quella che prende il nome di politica monetaria non convenzionale, che
consiste nell’acquisto delle attività finanziarie al fine di influenzare direttamente i tassi di interesse a cui i debitori
possono prendere a prestito.
• Politica fiscale → quando l’amministrazione Obama iniziò il suo mandato nel 2009, la sua prima preoccupazione fu
quella di implementare un programma di stimolo fiscale che avrebbe aumentato la domanda e ridotto la gravità della
recessione. Tale programma fiscale, chiamato “American Recovery and Reinvestment Act” fu adottato nel febbraio del
2009. Predispose 780 miliardi di dollari in nuove misure economiche, sia nella forma di riduzione di imposte sia di
aumenti di spesa, per gli anni 2009 e 2010. Il disavanzo di bilancio statunitense passò dall’ 1,7% del PIL nel 2007 ad un
picco del 9% nel 2010. tale aumento fu in gran parte il risultato meccanico della crisi. Tuttavia l’aumento fu anche in
parte il risultato di misure specifiche del programma di stimolo fiscale finalizzate all’aumento della spesa pubblica e
privata.
Vediamo in Europa:
• Politiche finanziarie → L’Europa cominciò a ripulire i bilanci bancari molto più tardi rispetto agli USA. Solo il regno
unito adottò un programma simile al Tarp e cominciò a immettere nuovo capitale nelle banche già nel 2008. L’8
ottobre 2008, il governo inglese offrì a 7 anche e a una società di costruzioni di ricevere nuovo capitale. 2 banche
(Lloyds Tsb e Royal Bank) furono nazionalizzate → il governo divenne il principale azionista. 7 anni dopo, nel 2015, il
governo cominciò a rivendere le azioni che possedeva di entrambi gli istituti bancari. Tuttavia, non tutti i paesi furono
così brillanti nel tentare di risolvere la situazione. Ad esempio, in Italia, nel momento in cui scriviamo, le banche sono
50
ancora paralizzate da circa 350 miliardi di sofferenze bancarie (detti crediti deteriorati). Siccome la probabilità che
questi prestiti non vengano ripagati è molto elevata, le banche sono costrette ad accantonare capitale in anticipazione
di future perdite. Il risultato è la contrazione della concessione di credito. Si formano così delle “banche zombie”.
• Politica monetaria → le risposte più tempestive furono date ancora una volta dal Regno Unito. Quando il tasso di
policy britannico raggiunse lo zero lower bound, la banca D’Inghilterra, come la Fed, adottò delle politic he monetarie
non convenzionali comprando attività finanziarie private e titoli di stato. La Bce fu molto più lenta. Tuttavia, una
dimensione in cui la Bce si è spinta oltre la Fed è il livello del tasso di interesse, spingendolo al di sotto dello zero. Questo
significa che ogni volta che le banche depositano riserve presso la banca centrale, invece che ricevere interessi, devono
pagare un interesse sul deposito. Nell’Eurozona, nel momento in cui scriviamo, il tasso di policy è dello -0,3%. La ragione
di questa scelta è che essa dovrebbe fornire un disincentivo alle banche a depositare riserve presso la banca centrale e
un incentivo a concedere credito a imprese e individui.
• Politica fiscale → il tutto ci viene rappresentato da questo grafico dove sull’asse orizzontale ci viene rappresentato il
rapporto tra debito pubblico e il PIL e sull’asse verticale lo stimolo fiscale. Per alcuni paesi, come l’Italia, il livello del
debito pubblico era molto elevato e perciò ebbero poco spazio per aumentarlo ulteriormente e si ritrovarono costretti
ad adottare uno stimolo fiscale molto limitato. Il caso opposto all’Italia è la Danimarca, il cui debito pubblico era così
basso che fu in grado di intraprendere un’espansione fiscale pari al 5% del suo PIL.
5.4
IL CONTAGIO INTERNAZIONALE
Il contagio internazionale avvenne principalmente attraverso tre canali:
-
l’esposizione delle banche europee al mercato immobiliare statunitense
-
il commercio internazionale, sia per la contrazione della domanda di beni esteri sia per la contrazione del
credito per il commercio internazionale
-
l’aumento dei tassi di interesse statunitensi si rifletté anche sui tassi di interesse europei, rendendo difficile
prendere a prestito anche alle imprese europee
Il punto centrale di questo capitolo è: il sistema finanziario ha una grande importanza e le crisi finanziarie posso avere
grandi effetti macroeconomici.
Capitolo 17 – apertura del mercato dei beni e dei mercati finanziari
Finora abbiamo considerato delle ipotesi dove l’economia fosse chiusa (per semplicità). Ma questo non corrisponde alla
realtà. Basti pensare alla crisi recente che pur essendo nata negli USA, ha colpito quasi tutti i paesi del mondo. Un altro
esempio per comprendere che è ora di abbandonare l’ipotesi dell’economia chiusa è riportare questo grafico che
mostra i tassi di crescita delle economie avanzate e di quelle emergenti: ciò che colpisce è la misura in cui questi tassi
di crescita si muovono insieme.
Il concetto di apertura internazionale ha 3 dimensioni distinte:
• Apertura del mercato dei beni → l’opportunità dei consumatori e le imprese di scegliere tra beni nazionali e esteri. In
nessun paese la scelta tra beni nazionali e esteri è del tutto libera da vincoli: anche i paesi più inclini al libero scambio
mantengono dazi (tasse su beni importati) e quote (limitazioni/restrizioni sulle qtà di beni che possono essere importati).
• Apertura dei mercati finanziari → l’opportunità per gli investitori finanziari di scegliere tra attività nazionali ed estere.
Fino a tempi recenti erano in vigore dei controlli dei capitali (restrizioni sulle attività finanziare estere che potevano
essere detenute dai residenti nazionali e sulle attività finanziarie nazionali che potevano essere detenute da residenti
esteri). Queste restrizioni sono in gran parte svanite ormai.
• Apertura dei mercati dei fattori → l’opportunità delle imprese di scegliere dove localizzare la propria attività produttiva
e per i lavoratori di scegliere dove lavorare.
51
N.B. lo spazio di Shengen (1995) -> sono state adottate norme comuni in materia di visti, diritti d’asilo e controllo alle
frontiere esterne onde consentire la libera circolazione delle persone all’interno dei paesi firmatari senza turbare
l’ordine pubblico.
1.1 ESPORTAZIONI E IMPORTAZIONI
Studiando l’andamento delle importazioni e esportazione dell’UE dal 1960 a oggi, si nota che:
• Col passare del tempo, l’economia dell’Unione Europea è diventata sempre più aperta. Esportazioni e importazioni
pari al 19% del PIL nel 1960 ammontano oggi a circa il 40% del PIL oggi (42 le esportazioni e 39 le importazioni). L’Unione
Europa è molto più aperta internazionalmente degli USA che esportano solo il 13,5 % del PIL.
• Le esportazioni e le importazioni hanno seguito lo stesso trend crescente e nel 2009 le esportazioni hanno superato
le importazioni per più dell’1% in termini del PIL (e per il 3% del PIL nel 2014). Questo è in netto contrasto con quanto
accaduto negli USA, dove sin dagli anni 80 le importazioni ha costantemente superato le esportazioni. Per 4 anni
consecutivi, a metà degli anni 2000, il disavanzo commerciale è stato superiore al 5% del PIL. Comprendere le ragioni di
ciò è importante. A fronte delle innumerevoli discussioni sulla globalizzazione, un volume di scambi di circa il 30%
(misurato come rapporto tra la media di esportazioni e importazioni e livello del PIL) negli USA potrebbe sembrare
sorprendentemente piccolo per la principale economia mondiale. Tuttavia, il volume degli scambi non è un buon indice
di apertura di un’economia. Un buon indice è la parte del prodotto aggregato composta dai beni commerciabili (beni
che competono con quelli esteri sia sul mercato interno che su quello straniero). Alcune stime suggeriscono che la
produzione di beni commerciali costituisce il 60% di tutta la produzione degli USA.
Nota bene → 2 fattori influenzano l’ammontare degli scambi di un paese con l’estero: la distanza (es.Giappone) e la
dimensione (es.Islanda).
In un’economia chiusa le persone fronteggiano una decisione: risparmiare o consumare. In un’economia aperta, i
consumatori devono affrontare una seconda decisione: scegliere se comprare beni nazionali o esteri. Tutti gli acquirenti
nazionali devono compiere questa scelta (consumatori, imprese e governo) che ha un effetto diretto sulla produzione
nazionale → se decidono di acquistare più beni nazionali, la domanda per tali beni aumenta e quindi aumenta anche la
produzione. Se, invece, decidono di acquistare più beni esteri, allora è la produzione estera a aumentare. La vari abile
cruciale nella seconda decisione è il prezzo dei beni nazionali in termini di beni esteri → questo prezzo relativo è noto
52
come tasso di cambio reale. Non è osservabile direttamente, sui giornali si leggono i tassi di cambio nominali non quelli
reali (per esempio).
1.3 TASSI DI CAMBIO NOMINALI
Ci sono due definizioni di tasso di cambio nominale:
1. È Il prezzo della valuta nazionale in termini di valuta estera. Per esempio nel maggio 2016, il prezzo dell’euro in termini
di sterline era pari a 0,77. Un euro valeva 0,77 sterline. Noi usiamo questa definizione → tasso di cambio nominale=il
prezzo della moneta nazionale in termini di moneta estera (E).
2. È il prezzo delle valuta estera in termini della valuta nazionale. Per esempio nel maggio 2016, il prezzo della sterlina
in termini dell’euro era di 1,29. I tassi di cambio tra le monete sono determinati nei mercati dei cambi e cambiano ogni
giorno, anzi ogni minuto. Queste variazioni sono dette apprezzamenti nominali e deprezzamenti nominali:
1. Un apprezzamento della moneta nazionale corrisponde ad un aumento del prezzo della moneta nazionale in termini
di moneta estera. Sulla base della nostra definizione di tasso di cambio, ciò corrisponde a un suo aumento.
2. Un deprezzamento della moneta nazionale è una riduzione del prezzo della moneta nazionale in termini di moneta
estera. Quindi ciò corrisponde a una riduzione del tasso di cambio. Un paese potrebbe operare in regimi di cambi fissi
(un sistema nel quale due o più paesi mantengono un tasso di cambio costante tra le proprie valute). In questo caso gli
aumenti del tasso di Cambio, che sono rari, sono detti rivalutazioni mentre le diminuzioni svalutazioni.
Tasso nominale di cambio tra euro e sterlina
Tasso di cambio ha tendenza a crescere
Euro si è apprezzato rispetto alla sterlina,
nonostante ci fossero delle fluttuazioni
Prima del 99? (€ non esisteva prima) serie
ricostruita sulla base delle vecchie valute:
sapevamo tasso di cambio tra ciascuna valuta e l’€
2007/2008 durante la crisi si è apprezzato l’€,
rispetto alla sterlina, fino al 2011, ossia la crisi dei
debiti sovrani e poi ricomincia a crescere dopo il
2015
53
1.4 DAI TASSI DI CAMBIO NOMINALI AI TASSI DI CAMBIO REALI
Come possiamo costruire il tasso di cambio reale tra un paese dell’Eurozona e il Regno Unito?
1) Consideriamo il prezzo in euro di una Ferrari e convertiamolo in sterline. Se il prezzo è di 200.000 € e se un
euro vale 0,77£, allora il prezzo di una Ferrari in sterline è di 200.000€ * 0,77 = 154.000£.
2) Calcoliamo il rapporto tra il prezzo di una Ferrari e il prezzo di una Jaguar, entrambi in sterline: se una Jaguar
costa 50.000£, il prezzo di una Ferrari in termini di una Jaguar è 154.000/50.000=3.08. In altre parole, una
Ferrari (secondo le nostre ipotesi) è 3 volte più cara di una Jaguar!
Supponiamo che i beni siano più di uno, come si fa? In tal caso dobbiamo considerare un indice dei prezzi di tutti i beni
prodotti nel Regno Unito e un indice dei prezzi di tutti i beni prodotti nell’Eurozona. Occorre utilizzare il deflatore del
PIL: indice dei prezzi dei beni e servizi finali prodotti in un’economia. Sia P il deflatore del PIL nell’Eurozona e P* il
deflatore del Pil nel regno unito ed E il tasso di cambio nominale euro/sterlina avremo i seguenti passaggi:
ε: tasso di cambio reale dell’economia nazionale= esprime prezzo dei beni nazionali in termini
di beni esteri (per esempio, dal punto di vista dell’Eurozona, il prezzo dei beni europei in
termini di beni britannici)
 =
EP
P
*
Il tasso di cambio reale è costruito moltiplicando il livello dei prezzi nazionali per il tasso di cambio nominale e
dividendo poi per il livello dei prezzi esteri.
Il tasso di cambio reale è un numero indice. Vale a dire, il suo livello è arbitrario quindi non informativo perché i
deflatori del PIL usati per costruire il tasso di cambio reale sono essi stessi dei numeri indice; sono uguali a 1 (o 100)
nell’anno base. Ma non è tutto perduto: anche se il livello del tasso di cambio reale non è informativo, il tasso di
variazione del tasso di cambio reale lo è: per esempio se il tasso di cambio reale in Eurozona e Regno Unito
aumentasse del 10%, vorrebbe dire che adesso i beni europei sono più costosi di quelli britannici del 10%. Come i tassi
di cambio nominali, anche quelli reali variano nel tempo:
•
Un aumento del tasso di cambio reale, cioè un aumento del prezzo relativo dei beni nazionali in termini di
beni esteri prende il nome di apprezzamento reale.
•
Una diminuzione del tasso di cambio reale, cioè una riduzione del prezzo relativo dei beni nazionali in termini
di beni esteri prende il nome di deprezzamento reale.
Le variazioni del tasso di cambio reale sono informative sui flussi di commercio internazionale tra le diverse economie
54
La figura sottostante ci mostra l’evoluzione del tasso di cambio reale e nominale tra Eurozona e Regno Unito (anno
base=2000):
subito dopo la crisi finanziaria (2007/8) c’è un apprezzamento sia del tasso di cambio reale che di quello nominale
da cosa dipendono apprezzamento e deprezzamento reale?
Se c’è un aumento di inflazione nel paese→ si apprezza il tasso di cambio reale dell’economia nazionale
Se c’è aumento di inflazione estera→ si deprezza il tasso di cambio reale rispetto all’€
Differenziale negativo →I prezzi aumentano di più
all’estero, rispetto all’eurozona.
Ci sono due importanti insegnamenti:
Se i tassi di inflazione fossero perfettamente uguali, il rapporto P/P * sarebbe costante mentre ε ed E si muoverebbero
nella stessa direzione e proporzionalmente.
55
•
Il tasso di cambio nominale e il tasso di cambio reale possono muoversi in direzioni opposte. Nell’arco di
lunghi periodi di tempo, differenze nei tassi di inflazione tra paesi possono produrre differenti movimenti dei
tassi di cambio nominali e reali. È possibile avere un apprezzamento reale senza un apprezzamento nominale?
È possibile avere un apprezzamento nominale senza un apprezzamento reale? La risposta è sì in entrambi i
casi.
•
Le ampie fluttuazioni del tasso di cambio nominale che abbiamo visto nella figura si manifestano anche nel
tasso di cambio reale. Questo non è affatto sorprendente: le fluttuazioni dei prezzi relativi P/P* da un anno
all’altro sono state modeste rispetto al brusco andamento del tasso di cambio nominale, E. quindi le
fluttuazioni del tasso di cambio reale, da un anno a un altro, sono principalmente determinate dalle variazioni
del tasso di cambio nominale.
Nota bene → negli anni 90, i tassi di cambio nominale e reale hanno avuto andamenti analoghi e ciò riflette il fatto che
i tassi di inflazione nel Regno Unito e nell’Eurozona sono stati molto simili e contenuti. Se i tassi di inflazione fossero
perfettamente uguali, il rapporto P/P* sarebbe costante mentre ε ed E si muoverebbero esattamente nella stessa
direzione.
1.5. DAI TASSI DI CAMBIO BILATERALI AI TASSI DI CAMBIO MULTILATERALI
Il tasso di cambio reale multilaterale è il prezzo medio dei beni di una nazione rispetto a quello di tutti i suoi partner
commerciali.
Per misurare il tasso di cambio reale multilaterale è necessario usare come pesi le quote dei flussi commerciali di
questa nazione con gli altri paesi:
– dalle quote delle esportazioni si calcola il tasso di cambio all’esportazione;
– dalle quote delle importazioni si calcola il tasso di cambio all’importazione;
– si calcola la media delle quote di esportazioni e importazioni.
L’Eurozona commercia principalmente con tre gruppi di paesi: i paesi vicini che appartengono all’UE ma non
all’Eurozona, i paesi asiatici e gli USA. Il principio da utilizzare per la costruzione del tasso di cambio multilaterale è
piuttosto semplice. Vogliamo assegnare a ciascun paese un peso che tenga conto non solo di quanto l’Eurozona
commercia con questo paese, ma anche di quanto questo paese compete con l’Eurozona negli altri paesi (perché non
considerare solamente i flussi commerciali tra L’eurozona e ciascun paese? Considerate due paesi: l’Eurozona e il
paese A. Supponiamo che l’Eurozona e il paese A non commercino l’uno con l’altro, così che le quote commerciali
siano pari a zero. Tuttavia, entrambi esportano verso un terzo paese B. il tasso di cambio reale tra l’Eurozona e il
paese A sarà molto importante nel determinare quanto questa esporterà nel paese B). La variabile così costruita viene
chiamata tasso di cambio reale effettivo, o semplicemente tasso di cambio reale dell’Eurozona oppure ancora tasso di
cambio pesato per i flussi commerciali dell’Eurozona. Dal 1999 ha avuto luogo un grande apprezzamento reale
dell’euro, seguito da un grande deprezzamento reale effettivo a partire dal 2008.
56
qual è l’importanza di tutti gli altri paesi con cui scambiamo, per noi
2. I MERCATI FINANZIARI IN ECONOMIA APERTA
I mercati finanziari, in genere, sono molto pù aperti rispetto a quelli reali→ gli investitori possono detenere attività
finanziarie sia nazionali che estere, possono diversificare il loro portafoglio.
La dimensione delle transazioni in valuta estera è enorme:
- Nel 2005 ogni giorno il volume di transazioni mondiali aveva un valore di 4000 mlr di €
- 37% in € (circa 1.600 mlr €)
- 86% in dollari USA (circa 4.300 mlr £)
Alcune sono valutate sia in € che in £, quindi alcune transazioni si sovrappongono → non arriviamo al 100%
La somma delle imp ed exp di beni nell’area dell’€ nell’intero 2007 era 3.000 mlr di €
Dato che l’acquisto o la vendita di attività finanziarie estere comporta l’acquisto o la vendita di moneta estera (talvolta
chiamata valuta estera) il volume delle transazioni sul mercato delle valute è un indicatore dell’importanza delle
transazioni finanziarie internazionali. La maggior parte delle transazioni in valuta non è associata al commercio
internazionale ma alla compravendita di attività finanziarie. Inoltre, il volume delle transazioni in valuta è molto
elevato e in rapido aumento. Per esempio, esso è quadruplicato rispetto al 2011. per un paese, l’apertura dei mercati
finanziari ha un’importante conseguenza: essa permette al paese di registrare avanzi o disavanzi commerciali.
Ricordiamo che un paese in disavanzo commerciale compra all’estero più di quanto non venda al resto del mo ndo. È
quindi necessario che prenda a prestito per compensare la differenza tra il valore delle sue importazioni e il valore
delle sue esportazioni. A tal fine deve rendere conveniente per gli investitori esteri aumentare i propri investimenti in
attività finanziarie nazionali che equivale a prestare denaro al paese.
2.1 LA BILANCIA DEI PAGAMENTI
Le transazioni di un paese con il resto del mondo, siano esse flussi commerciali o finanziari, sono riassunte in una serie
di conti chiamati bilancia dei pagamenti. La tabella si compone di due sezioni separate da una linea; le transazioni si
dicono sopra e sotto linea.
Il conto corrente → le transazioni sopra la linea registrano tutti i pagamenti da e verso il resto del mondo. Esse sono
chiamate transazioni di conto corrente:
•
Le prime due righe riportano le esportazioni e le importazioni di beni e servizi. La differenza tra esportazioni e
importazioni è il saldo della bilancia commerciale.
•
Le esportazioni e le importazioni non sono l’unica fonte di pagamenti da e vero il resto del mondo. Infatti, i
residenti ricevono redditi da investimento dalle attività finanziarie estere che possiedono e i cittadini residenti
all’estero ricevono redditi da investimento dalle attività finanziarie europee incluse nel proprio porta foglio.
•
Un altro importante tipo di pagamenti da e verso il resto del mondo è rappresentato dai trasferimenti. I
trasferimenti includono una grande varietà di transazioni, come le cancellazioni del debito, i trasferimenti
dovuti a brevetti, a diritti d’autore e a marchi di fabbrica, e le donazioni internazionali.
57
La somma dei pagamenti netti da e verso il resto del mondo prende il nome di saldo di conto corrente. Se i pagamenti
netti verso il resto del mondo sono positivi, il paese registra un avanzo di conto corrente altrimenti un disavanzo
(compra dall’estero più di quando non venda al resto del mondo).
Un paese può avere un disavanzo commerciale senza avere allo stesso tempo un disavanzo di conto corrente? E un
disavanzo di conto corrente senza avere allo stesso tempo un disavanzo commerciale? Per entrambe le domande la
risposta è sì.
✓ Il conto capitale → le transazioni sotto la linea registrano tutti gli investimenti in attività finanziarie da e verso
il resto del mondo.
le transazioni sotto la linea sono dette transazioni di conto capitale e descrivono le modalità attraverso cui
tale risultato è stato raggiunto. I flussi netti di capitale positivi sono chiamati avanzo di conto capitale; i flussi
netti di capitale negativi sono detti disavanzo di conto capitale. I flussi netti di capitale (o il disavanzo di
capitale) devono essere esattamente pari all’avanzo di conto corrente? In teoria sì, in pratica no. Le cifre
relative alle transazioni sopra la linea e sotto la linea hanno origine da fonti statistiche diverse. Benché
debbano fornire lo stesso risultato, di solito ciò non avviene. Nel 2015, la differenza tra le due – la discrepanza
statistica – è stata pari a 92,3 miliardi di euro.
✓ la discrepanza statistica definisce la differenza esistente tra il saldo del conto corrente e il saldo del conto
capitale.
Questo ci ricorda ancora che, anche per un’area economica come L’unione Europea, i dati economici sono ben lungi
dall’essere perfetti (questo problema di misurazione si manifesta anche in un altro modo. La somma dei disavanzi di
conto corrente di tutti i paesi del mondo dovrebbe essere nulla: il disavanzo di un paese dovrebbe corrispondere al
saldo positivo di tutti gli altri paesi. Invece i conti non tornano: se sommiamo i disavanzi di conto corrente di tutti i
paesi, risulta che il mondo nel suo insieme registra un disavanzo di conto corrente e ciò non può certo attribuirsi
all’esistenza di un commercio segreto con i marziani!).
Il PIL misura il valore aggiunto internamente, mentre il PNL misura il valore aggiunto prodotto dai fattori nazionali di
produzione. Quando un’economia è chiusa, le due misure coincidono. Quando un’economia è aperta
internazionalmente, tuttavia, possono differire (quando è chiusa coincidono). È necessario partire dal PIL, aggiung ere
il reddito ricevuto dal resto del mondo e sottrarre il reddito pagato al resto del mondo. Più formalmente, denotiamo
questi trasferimenti di reddito netti con Rn (che sta per reddito netto):
Pnl=Pil+Rn
Esportava più di quanto
importasse nel 2015
D eficit→ ha un debito vs resto
del mondo, a fronte del fatto
che un paese importi più di
quanto esporti deve prendere
a prestito la differenza per
poter effettuare un
pagamento
2.2 LA SCELTA TRA ATTIVITÀ FINANZIARIE NAZIONALI ED ESTERE
58
L’apertura dei mercati finanziari consente agli investitori (privati e alle istituzioni finanziarie) di scegliere tra attività
finanziarie nazionali ed estere.
-
Il mercato dei titoli in economia aperta è in equilibrio quando la domanda (nazionale + estera) di titoli è pari
all’offerta (nazionale + estera)
-
Affinché in equilibrio gli individui detengano sia i titoli nazionali che esteri, tali titoli devono avere lo stesso
tasso di rendimento atteso
A prima vista sembrerebbe che ci siano almeno due nuove decisioni da affrontare: la scelta tra moneta (per acquisti
quotidiani, quindi non c’è bisogno di scegliere tra moneta estera e nazionale) nazionale ed estera e la scelta tra attività
finanziarie fruttifere nazionali ed estere. In realtà, per chi vive nell’Eurozona dove le transazioni sono effettuate quasi
esclusivamente in euro, non è utile detenere valuta estera, perché non può essere usata per gli acquisti. Quindi l’unica
scelta che è necessario compiere è quella tra attività finanziarie fruttifere nazionali ed estere. Consideriamo la scelta
tra titoli annuali nazionali ed esteri, per esempio, tra titoli Britannici a un anno e titoli europei a un anno, dal punto di
vista di un investitore dell’Eurozona:
•
Supponiamo che tale investitore decida di detenere titoli tedeschi e detenerli fino a scadenza. Sia it il tasso di
interesse nominale a un anno prevalente in Germania nell’anno t → per ogni euro investito oggi in titoli
tedeschi, si ottiene (1 +it) domani.
•
Supponiamo che l’investitore decida di acquistare titoli britannici. Per acquistare titoli britannici si devono
innanzitutto comprare sterline. Se Et è il tasso di cambio nominale tra l’Euro e la sterlina nell’anno t, per ogni
euro si ottiene Et sterline (perché devo convertire gli € in sterline). Sia i*t il tasso di interesse nominale a un
anno sui titoli britannici nell’anno t. L’anno prossimo si avrà Et(1+i*t) sterline. A quel punto dovrete convertire
e sterline in euro. Se il tasso di cambio nominale atteso è Ee t+1 ogni sterlina varrà 1/Ee t+1 euro. Pertanto, ci
si può aspettare di ottenere Et(1+i*t)( 1/Ee t+1) euro per per ogni euro investito.
Prezzo atteso
dell’€ in
termini di
sterline tra un
anno
1/Eet+1 
59
prezzo atteso in
termini di una sterlina in
termini di € (fra un anno)
Per valutare la redditività
dei titoli tedeschi rispetto a quelli
britannici, non basta guardare ai tassi di interesse tedeschi e britannici; bisogna anche formulare un’aspettativa circa
l’andamento del tasso di cambio euro/sterlina tra quest’anno e l’anno prossimo.
Assumiamo ora che gli investitori finanziari siano esclusivamente interessati a detenere attività con il più alto tasso di
rendimento atteso. In questo caso, quindi, affinché sia conveniente tenere titoli sia tedeschi sia britannici, essi devono
avere lo stesso tasso di rendimento atteso, cioè deve valere la seguente condizione:
Affinché sia conveniente detenere titoli sia tedeschi che britannici, essi devono avere lo stesso tasso di rendimento
atteso, cioè deve valere la seguente condizione di arbitraggio:
 E 
(1 + i ) = (1 + i ) 

E 
*
t
t
t
e
t +1
Tale equazione è chiamata parità scoperta dei tassi di interesse oppure parità dei tassi d’interesse (la parola scoperta
serve a distinguere questa relazione da un’altra chiamata parità coperta dei tassi di interesse. La parità coperta
d’interesse è derivata compiendo la seguente scelta: acquistare e tenere titoli tedeschi per un anno oppure acquistare
sterline oggi, acquistare titoli britannici annuali e accordarsi per vendere le sterline in cambio di euro fra un anno a un
prezzo prefissato, chiamato tasso di cambio a termine. Il tasso di rendimento di queste due alternative, entrambi
realizzabili senza rischio, deve essere lo stesso→ in condizioni di certezza: assenza di rischio). L’ipotesi che gli
investitori finanziari tengano soltanto i titoli con tasso di rendimento atteso più elevato è evidentemente troppo
restrittiva per due ragioni:
•
Ig nora i costi di transazione: acquistare e vendere titoli britannici richiede tre transazioni separate, ciascun
con un proprio costo.
•
Ig nora l’esistenza del rischio: poiché il tasso di cambio a un anno è incerto, per un investitore europeo tenere
titoli britannici è più rischioso.
60
Tuttavia, essa spiega abbastanza bene i movimenti (flussi d’investimento) di capitale tra i principali mercati
finanziari del mondo (New York, Londra, Francoforte, Tokyo...). Piccole variazioni dei tassi di interesse o notizie di
apprezzamenti o deprezzamenti imminenti possono spostare miliardi di dollari nel giro di pochi minuti. Per i paesi
ricchi, la condizione di arbitraggio espressa dall’equazione sopra è quindi una buona approssimazione della realtà.
In altri paesi, dove i mercati dei capitali sono di dimensioni inferiori e meno avanzati, o dove esistono controlli di
capitale, gli investitori sono più propensi a scegliere il tasso di interesse nazionale di quanto non risulti
dall’equazione sopra.
mostra la relazione fra il tasso di
2.3 TASSI D’INTERESSE E TASSI DI CAMBIO
interesse nominale nazionale, it,
Riscriviamo la parità dei tassi di interesse come:
il tasso di interesse nominale
*
estero, i∗t
t
e il tasso di apprezzamento
t
e
atteso (Eet+1–Et)/Et .
t +1
t
t
Se i tassi di interesse e il tasso di
apprezzamento atteso non sono
Una buona approssimazione di questa equazione è data da:
troppo elevati – ad esempio sotto il
20% all’anno – una buona
approssimazione di questa equazione
e
è data da:
*
(1 + i ) =
(1 + i )
[1 + ( E − E ) / E )]
−E
E
i i −
t +1
t
t
t
E
t
Il tasso di interesse nazionale deve essere uguale al tasso di interesse estero meno il tasso di deprezzamento atteso
della moneta estera (variazione della valuta nazionale → tasso apprezzamento atteso della moneta nazionale).
Notate inoltre che se Eet+1 = Et allora it = it*
.
Si tratta della condizione di parità dell’interesse che dovreste ricordare: l’arbitraggio fa sì che il tasso di interesse
interno sia (approssimativamente) uguale al tasso di interesse estero meno il tasso di apprezzamento atteso della
moneta interna. Si noti che il tasso di apprezzamento atteso della moneta nazionale è anche il t asso di deprezzamento
atteso della moneta estera. Quindi l’equazione può essere espressa anche dicendo che il tasso di interesse estero
meno il tasso di deprezzamento atteso della moneta estera è uguale al tasso di interesse nazionale.
La relazione di arbitraggio fra tassi di interesse e tassi di cambio, svolgerà un ruolo centrale nei capitoli successivi e ci
suggerisce che, a meno che i mercati valutari non si aspettino forti deprezzamenti o apprezzamenti, i tassi di interesse
interno ed estero si muoveranno insieme.
Nota bene → per vedere un esempio numerico, vedi pag. 448 e 449.
In ogni caso, possiamo concludere la nostra analisi dicendo:
•
L’apertura del mercato dei beni permette a individui e imprese di scegliere tra beni nazionali e esteri. Questa
scelta dipende principalmente dal tasso di cambio reale, cioè dal prezzo relativo dei beni nazionali in termini
di beni esteri.
•
L’apertura dei mercati finanziari permette agli investitori di scegliere tra attività finanziarie nazionali ed estere.
Questa scelta dipende principalmente dai tassi di rendimento relativi che dipendono dai tassi di interesse
nazionali ed esteri e dal tasso di apprezzamento atteso della valuta nazionale.
•
La parità scoperta dei tassi di interesse è una condizione di arbitraggio che richiede che il rendimento atteso,
una volta espresso in valuta nazionale, di un investimento in titoli nazionali o in titoli esteri deve essere lo
stesso.
Nota bene → il principio di assenza di opportunità di profitto priva di rischio da arbitraggio è uno dei fondamenti di
tutta la finanza: se il mercato è in equilibrio non ci può essere un schiacciante eccesso di redditività di un titolo
61
rispetto a un altro → aumenterebbe la domanda del titolo più redditizio facendo diminuire il tasso e questo
porterebbe nuovamente ad una condizione di equilibrio.
Capitolo 18 – il mercato dei beni in economia aperta
LA CURVA IS IN UN’ECONOMIA APERTA Quando abbiamo assunto l’ipotesi dell’economia chiusa non c’era
alcuna necessità di distinguere tra domanda nazionale di beni e domanda di beni nazionali. Ora questa distinzione è
fondamentale! Domanda nazionale di beni (detta anche domanda interna o domestica): domanda di beni espressa dai
residenti, domanda che può essere rivolta a beni nazionali e esteri (la domanda nazionale di beni esteri prende il
nome di importazioni). Domanda di beni nazionali: in parte proviene dall’estero (la domanda di beni nazionali
proveniente dall’estero prende il nome di esportazioni). In un’economia aperta la domanda di beni nazionali è data
da:
Z = C + I + G – IM/ε + X
Dove la somma dei primi tre termini è la domanda nazionale di beni (nazionali e esteri). X è la domanda estera di beni
nazionali. Se fossimo in un’economia chiusa questa domanda nazionale di beni sarebbe uguale alla domanda di beni
nazionali ma trovandoci in un’economia aperta, dobbiamo fare due aggiustamenti:
• Dobbiamo sottrarre le importazioni. Nel fare questo è necessario prestare attenzione al fatto che i beni esteri sono
diversi dai beni nazionali. Perciò dobbiamo esprimere il valore delle importazioni in termini di beni nazionali. Nota
bene → il prezzo relativo dei beni nazionali in termini di beni esteri è ε mentre il prezzo dei beni esteri in termini di
beni nazionali è 1/ε.
• Dobbiamo aggiungere le esportazioni, la domanda di beni nazionali proveniente dal resto del mondo.
Ora vediamo le determinanti di ognuna delle componenti della domanda di beni nazionali:
• C , I, G: Non dobbiamo apportare grandi modifiche. Le decisioni di spesa dei consumatori dipendono ancora dal loro
reddito e dalla loro ricchezza. Il tasso di cambio reale influenza certamente la composizione della spesa tra beni
nazionali e beni esteri, ma non c’è alcuna ragione per cui esso debba influenzare il livello.
• IM: le importazioni sono la parte di domanda nazionale rivolta ai beni esteri. Un aumento del reddito nazionale Y (o,
equivalentemente un aumento della produzione nazionale → ricordiamoci che sono due sinonimi) provoca un
aumento delle importazioni. l’effetto positivo sul reddito è indicato dal segno + sotto Y. Le importazioni dipendono
positivamente anche dal tasso di cambio reale ε, come indicato dal segno + sotto ε. IM=(Y,ε) (+),(+)
• X: Le esportazioni sono la parte di domanda estera rivolta ai beni nazionali. Un maggior reddito estero fa aumentare
le esportazioni. Ma queste ultime dipendono anche dal tasso di cambio reale; quanto maggiore è il prezzo dei beni
nazionali rispetto a quelli esteri, tanto minore sarà la domanda estera di beni nazionali. X=X(Y*,ε) (+),(--)
Nota bene: il tasso di cambio reale è un indicatore economico del livello di competitività di un paese negli scambi
internazionali. Il decremento del tasso di cambio reale indica un miglioramento della competitività del paese nei
confronti del resto del mondo. Ad esempio, la riduzione dei prezzi nazionali rispetto a quelli esteri rende più
convenienti le merci e i servizi nazionali sia sui mercati internazionali che sul mercato interno.
62
D OMANDA D’ESAME
Adesso vediamo il tutto a livello grafico mantenendo costanti tutte le variabili che influenzano la domanda (tasso di
interesse, imposte, spesa pubblica, produzione estera e tasso di cambio reale). Possiamo riassumere quanto detto
finora in questo modo:
Z = C(Y – T) + I(Y,r) + G – IM(Y,ε) + X(Y*,ε)
Nella figura (a), la retta DD rappresenta la domanda nazionale (C+I+G) Come funzione della produzione, Y. Un
aumento della produzione (o del reddito) fa aumentare la domanda in misura meno che proporzionale. Per ottenere
la domanda di beni nazionali, dobbiamo innanzitutto sottrarre le importazioni.
Lo facciamo nella figura (b) Dove otteniamo la retta AA, la domanda di beni nazionali: la distanza tra la DD e la AA è
uguale al valore delle importazioni (IM/ε). Dato che la qtà delle importazioni aumenta con il reddito, la distanza tra le
due retta aumenta al crescere di Y. Vi sono 2 caratteristiche della curva AA importanti:
1. AA è più piatta di DD perché all’aumentare del reddito, parte dell’accresciuta domanda interna sarà rivolta ai beni
esteri piuttosto che ai beni nazionali. In altre parole, all’aumentare del reddito, la domanda interna di beni nazionali
aumenta meno che della domanda interna totale.
2. In secondo luogo, fino a quando almeno una parte della domanda aggiuntiva è rivolta ai beni nazionali, la AA è
inclinata positivamente: un incremento del reddito fa aumentare la domanda interna di beni nazionali.
Infine dobbiamo aggiungere le esportazioni, e lo facciamo nella Figura (c) ottenendo la retta ZZ che giace sopra la AA.
La distanza tra la retta ZZ e la AA corrisponde alle esportazioni. Poiché queste ultime non dipendono dal reddito
interno (ma da quello estero) la distanza tra la ZZ e AA è costante, la due rette sono parallele. Inoltre dal momento
che la AA è più piatta della DD, anche la ZZ è più piatta della DD. Tutte queste considerazioni ci permettono di
descrivere anche il comportamento delle esportazioni nette.
63
Nella figura (d) la relazione tra esportazioni nette e produzione è rappresentata dalla retta indicata con NX (net
eXports). Le esportazioni nette sono una funzione decrescente della produzione nazionale: all’aumentare della
produzione nazionale, le importazioni aumentano e le esportazioni rimangono invariate, per cui le esportazioni nette
diminuiscono. Chiamiamo YTB (dall’inglese trade balance, ovvero bilancia commerciale) il livello di produzione
nazionale in corrispondenza del quale le importazioni sono uguali alle esportazioni, per cui le esportazioni nette sono
pari a zero. Per livelli di produzione nazionali maggiori di YTB avremo un disavanzo commerciale, per livelli minori di
YTB avremo un avanzo commerciale.
PRODUZIONE DI EQUILIBRIO E BILANCIA COMMERCIALE
Y = Z → Y = C(Y – T) + I(Y,r) + G – IM(Y,ε) + X(Y*,ε)
Diverse variabili come il tasso di cambio reale, produzione estera, G e T le consideriamo esogene.
La retta ZZ rappresenta la domanda in funzione della
produzione; essa replica la ZZ riportata nella figura 18.1 (c).
Come abbiamo visto, la ZZ è inclinata positivamente, con
pendenza minore di 1. La produzione di equilibrio è il punto in
cui la domanda è uguale alla produzione, cioè si trova in
corrispondenza dell’intersezione tra la ZZ e la retta a 45°.
Sotto, invece, abbiamo la replica della figura (d). Come
vediamo la produzione di equilibrio del mercato dei beni non
è uguale al livello che pareggia la bilancia commerciale. Per
come abbiamo disegnato la figura, la produzione di equilibrio
è associata a un disavanzo commerciale, pari alla distanza BC.
Avremmo potuto disegnare la figura diversamente di modo
che la produzione di equilibrio sarebbe stata associata a un
avanzo commerciale. In ogni caso. È importante capire che
non per forza la produzione di equilibrio deve essere quella
produzione che mi rende le esportazioni nette pari a zero!
Vediamo gli effetti dell’aumento della domanda interna e estera:
➔ Aumento domanda Interna Supponiamo che l’economia sia in recessione e che il governo sia considerando
l’opportunità di aumentare la spesa pubblica in modo da aumentare la domanda interna e, a sua volta, la produzione.
Quali saranno gli effetti sulla produzione e sulla bilancia commerciale? Assumiamo che la bilancia commerciale sia in
pareggio. Nella figura abbiamo Y=YTB . Che cosa succede se il governo aumenta la spesa pubblica di ΔG? Ad ogni
livello della produzione, la domanda aumenta di ΔG, per cui la retta che rappresenta la domanda si sposta verso l’alto
in misura pari a ΔG, da ZZ a ZZ’. Il punto di equilibrio si sposta da A a A’ e la produzione aumenterà da Y a Y’.
L’incremento della produzione è maggiore dell’aumento di G, per l’effetto del moltiplicatore. Rispetto all’economia
chiusa, ci sono delle differenze. Ora c’è un effetto sulla bilancia commerciale. Siccome la spesa pubblica non entra
direttamente né nell’equazione delle esportazioni, né nell’equazione delle importazioni, la retta che rappresenta le
esportazioni nette in funzione della produzione non si sposta. L’incremento di prodotto da Y a Y’ genera quindi un
disavanzo commerciale pari a BC. Le importazioni aumentano mentre le esportazioni rimangono invariate. Non
soltanto la spesa pubblica genera un disavanzo commerciale, ma il suo effetto sulla produzione nazionale è inferiore
rispetto a quello registrato in economia chiusa. Ricordiamoci che quanto è minore l’inclinazione di una retta (cioè
quanto è più piatta) meno sarà il valore del moltiplicatore → la ZZ è più piatta della DD. IN UN’ECONOMIA APERTA, IL
MOLTIPLICATORE HA UN VALORE INFERIORE. Queste due differenze sono dovute alla stessa causa (moltiplicatore
piccolo e disavanzo commerciale): l’aumento della domanda interna ricade sia sui beni nazionali che su quelli esteri.
64
➔ Aumento della domanda estera Consideriamo ora un aumento della produzione estera, cioè un aumento di Y* e
supponiamo di volerne analizzare gli effetti sull’economia nazionale. Questo potrebbe essere dovuto a un incremento
della spesa pubblica estera, G*. Per ora analizziamo il caso in cui non sia nota la causa dell’incremento di Y*. un
maggior livello della produzione estera si traduce in una maggiore domanda che riguarda anche i beni nazionali.
L’effetto diretto è un incremento di un certo ammontare, diciamo ΔX, delle nostre esportazioni. Per ogni livello dato
livello della produzione nazionale, questo aumento delle esportazioni induce un incremento della domanda di beni
nazionali pari a ΔX, per cui la retta che rappresenta la domanda di beni nazionali in funzione della produzione si sposta
verso l’alto in misura pari a ΔX. Dato il livello di produzione nazionale, all’aumenta re delle esportazioni di ΔX la retta
che rappresenta le esportazioni nette in funzione della produzione si sposta anch’essa verso l’alto in misura pari a ΔX.
Potrebbe accadere che l’aumento della produzione interna generi un incremento delle importazioni così elevato da
far peggiorare alla fine la bilancia commerciale? La risposta è negativa. Per capirne la ragione, notiamo che quando la
domanda estera aumenta, la domanda di beni nazionali si sposta verso l’alto da ZZ a ZZ’. Ma la retta DD, che
rappresenta la domanda interna di beni in funzione del reddito, non si muove. Al nuovo livello di equilibrio della
produzione, Y’, la domanda interna è data dalla distanza DC e la domanda di beni nazionali è data da DA’. Le
esportazioni nette sono quindi rappresentate dalla distanza CA’, la quale,dal momento che la DD è necessariamente al
di sotto della ZZ, è necessariamente positiva. Quindi le importazioni aumentano ma non in maniera tale da
compromettere l’incremento delle esportazioni, per cui la bilancia commerciale migliora. Y* influenza direttamente le
esportazioni e quindi entra nella relazione tra la domanda di beni nazionali e la produzione. Un aumento di Y* fa
spostare la ZZ verso l’alto.
Ora dobbiamo fare una rivisitazione della POLITICA FISCALE.
Con la precedente analisi siamo giunti a 2 conclusioni:
1. un aumento della domanda nazionale provoca un aumento della produzione e del disavanzo commerciale.
2. Un aumento della domanda estera provoca un aumento della produzione e un avanzo commerciale. Questi risultati
hanno due importanti implicazioni:
1. Gli shock alla domanda in un paese hanno effetti anche in tutti gli altri paesi. Quanto maggiori sono i legami
commerciali tra paesi, tanto maggiori saranno le interazioni e tanto più i paesi avranno andamenti economici simili.
Per esempio, nella crisi recente, tutti i paesi ne hanno risentito (non solo gli Stati Uniti) perché si sono ridotte le
esportazioni verso gli USA. Poi è vero che non tutto fu dovuto ai legami commerciali ma anche a quelli finanziari.
65
2. Queste implicazioni complicano in misura notevole il compito delle autorità di politica economica, soprattutto nel
caso di politica fiscale. I governi preferiscono non incorrere in disavanzi commerciali, per buone ragioni. La principale è
la seguente: un paese con un disavanzo commerciale cronico accumula debito nei confronti del resto del mondo e
quindi deve pagare interessi sempre più alti al resto del mondo. Per questa ragione, non è sorprendente che i paesi
prediligano aumenti della domanda estera piuttosto che incrementi della domanda interna. Queste preferenze possono
avere conseguenze disastrose. Si consideri un gruppo di paesi all’interno del quale vi siano ampi flussi commerciali. Ogni
aumento della domanda di un paese è rivolto in gran parte ai beni prodotti negli altri paesi. Supponiamo che tutti questi
siano in recessione e che ognuno di essi abbia una bilancia commerciale più o meno in pareggio. Questi paesi saranno
poco propensi ad attuare misure per stimolare la domanda interna, in quanto esse potrebbero avere scarsi effetti sulla
produzione nazionale e significativi effetti negativi sulla bilancia commerciale. Ciascuno aspetterà prima di adottare
misure che stimolino la domanda interna, aspettando che sia un altro paese ad adottarle. Ma se tutti aspettano, non
accadrà nulla e la recessione continuerà. La soluzione è il coordinamento delle politiche economiche di questi paesi in
modo da aumentare la domanda interna simultaneamente e aumentare la produzione senza generare disavanzi
commerciali fra loro. L’aumento coordinato della domanda genererebbe aumenti sia delle importazioni sia delle
esportazioni di ogni paese. È sempre vero, infatti, che l’’espansione della domanda interne induce maggiori importazioni
ma questo aumento delle importazioni sarebbe compensato da un aumento delle esportazioni, derivante
dall’espansione delle domande estere. Tante volte però tutto ciò non funziona perché potrebbe richiedere ad alcuni
paesi di intervenire più di altri e non è detto che siano disposti a farlo. Supponiamo nel nostro esempio che solo alcuni
paesi del gruppo siano in recessione. Gli altri saranno tutt’altro che propensi ad aumentare la domanda interna e se non
tutti lo fanno, i paesi che introducono misure espansive registreranno un disavanzo commerciale nei confronti di quelli
che non le introducono. Supponiamo invece che alcuni paesi abbiano già un ampio disavanzo commerciale. Essi saranno
contrari a tagliare le imposte o ad aumentare ulteriormente la spesa pubblica, e chiederanno agli altri paesi di farsi
maggiormente carico dell’aggiustamento. Non c’è però alcuna valida ragione che possa indurre questi ultimi a farsi
maggiormente carico dell’aggiustamento. Non c’è però alcuna valida ragione che possa indurre questi ultimi ad
assecondare le esigenze dei paesi in difficoltà. Molte volte poi i paesi hanno un forte incentivo a promettere di aderire
al coordinamento, per poi rinnegare la loro promessa. Una volta che tutti i paesi abbiano concordato, per esempio, un
aumento della spesa pubblica, ciascun paese ha un incentivo a non realizzarlo, allo scopo di beneficiare dell’aumento
della domanda estera per ottenere un miglioramento della sua bilancia commerciale. Ma se tutti i paesi non
mantengono la parola data, o comunque non attuano tutte le misure promesse, allora ci sarà un’espansione della
domanda insufficiente per uscire dalla recessione.
DEPREZZAMENTO, BILANCIA COMMERCIALE E PRODUZIONE
Supponiamo che un certo paese decida di intraprendere delle misure di politica economica che portino a un
deprezzamento della propria valuta cioè a una riduzione del tasso di cambio nominale. Siccome supponiamo di essere
nel breve periodo, i livelli dei prezzi rimangono costanti e quindi il deprezzamento nominale comporta un
deprezzamento reale. Ricordiamo che la definizione di esportazioni nette è:
NX = X – IM/ε
Sostituendo X e IM con le loro rispettive espressioni, otteniamo:
NX = X(Y*,ε) – IM(Y,ε)/ε
Una riduzione di ε influenza quindi la bilancia commerciale con 3 diversi canali:
• Le esportazioni, X, aumentano.
• Le importazioni, IM, diminuiscono.
• Il prezzo relativo dei beni esteri in termini di beni nazionali, 1/ε, aumenta. Questo tende ad aumentare il valore delle
importazioni, IM/ε. La stessa qtà di importazioni adesso costa di più. Così, affinché la bilancia commerciale migliori a
seguito di un deprezzamento, le esportazioni devono aumentare in misura sufficiente e le importazioni devono
66
diminuire abbastanza da compensare l’aumento del prezzo dei beni importati. La condizione in base alla quale un
deprezzamento reale genera un aumento delle esportazioni nette è nota come condizione di Marshall-Lerner.
Finora abbiamo analizzato gli effetti di un deprezzamento sulla bilancia commerciale (cioè gli effetti di un
deprezzamento a parità di produzione sia nazionale sia estera) ma gli effetti di un deprezzamento non finiscono lì. La
variazione delle esportazioni nette fa variare sua volta la produzione nazionale, influenzando ulteriormente le
esportazioni nette. Dal momento che gli effetti di un deprezzamento reale sono molto simili a quelli di un aumento
della produzione estera, possiamo usare la stessa figura usata per il caso in cui aumenta la domanda estera.
Il deprezzamento provoca una variazione della domanda, sia estera sia interna, a favore dei beni nazionali. Questo
genera un aumento della produzione interna e un miglioramento della bilancia commerciale.
-
La curva ZZ va in alto, verso ZZ’
-
NX verso l’alto perché le esportazioni nette dipendono negativamente da epsilon
-
>produzione interna (> pil) è miglioramento della bilancia commerciale → quando valgono le condizioni di
Marshall-Lerner
Mentre un deprezzamento e un aumento della produzione estera hanno gli stessi effetti sulla produzione interna e
sulla bilancia commerciale, tra i due c’è una sottile differenza. Un deprezzamento agisce rendendo relativamente più
costosi i beni esteri → le persone che ora spendono di più per acquistare i beni esteri, vedono ridotto il loro tenore di
vita. Perciò i governi che tentano misure di questo genere si trovano spesso a pagarne le conseguenze in termini di
rivolte e scioperi contro il rincaro dei beni esteri. Un’alternativa alle rivolte c’è: chiedere e ottenere un aumento dei
67
salari. Tuttavia, se i salari aumentano, il prezzo dei beni nazionali aumenterà, anch’esso, generando un minor
deprezzamento reale.
Punto c ci dice che c’è un disavanzo commerciale
Supponiamo ora che la produzione sia al suo livello
naturale, ma che l’economia registri un forte disavanzo
commerciale, e che perciò il governo voglia ridurre il
disavanzo commerciale senza cambiare il livello della
produzione. Come può agire? Un deprezzamento non è
adatto perché oltre a ridurre il deficit commerciale,
aumenterebbe la produzione mentre una stretta fiscale
ridurrebbe deficit commerciale e produzione. La
combinazione tra le due è la giusta soluzione. Supponiamo che l’equilibrio iniziale sia in A, associato a una produzione
Y e un disavanzo commerciale presentato nella figura inferiore a BC. Se il governo vuole eliminare il disavanzo deve
fare due cose:
-
Deve generare un deprezzamento sufficiente a eliminare il disavanzo commerciale al livello iniziale di
produzione. Il deprezzamento deve quindi essere tale da spostare la curva delle esportazioni nette. Il
problema è che, aumentando le esportazioni, aumenta anche la domanda e la produzione.
-
Per riportare la curva di domanda alla sua posizione iniziale, il governo dovrebbe ridurre la spesa pubblica.
L’effetto finale è che migliora la bilancia commerciale e il livello di produzione rimane uguale. Questo è solo
un esempio, ci sono altre combinazioni:
Esportazioni > importazioni→ avanzo commerciale. Per > pil >G. epsilon possiamo evitare di cambiare il tasso reale, o
deprezzarlo un po’
Consideriamo il caso di bassa produzione e disavanzo: un deprezzamento del cambio ha effetti positivi sia sulla
bilancia commerciale che sulla produzione. Dato che non sappiamo se il deprezzamento è sufficiente a riportare la
produzione al livello naturale, non possiamo dire se è necessario un aumento o una riduzione della spesa pubblica.
68
Effetti del deprezzamento sulla bilancia
commerciale nel medio periodo
(tipicamente da 6 mesi ad 1 anno)
5. UNO SGUARDO ALLA DINAMICA: LA CURVA J
Torniamo agli effetti di cambio sulla bilancia commerciale. Prima abbiamo affermato che un deprezzamento genera
un aumento delle X e una diminuzione delle IM. Ma questo non avviene subito. Supponiamo che l’euro si deprezzi del
10%. Nei primi mesi dopo il deprezzamento, l’effetto si riflette più sui prezzi che sulle qtà. Il prezzo delle importazioni
europee aumenta mentre quello delle esportazioni diminuisce. Ma la qtà delle esportazioni e delle importazioni si
aggiusterà lentamente: ci vuole un po’ di tempo prima che i consumatori si rendano conto che i prezzi relativi sono
cambiati, prima che le imprese si rivolgano a fornitori che praticano prezzi più convenienti. È quindi possibile che un
deprezzamento causi un peggioramento iniziale della bilancia commerciale: ε diminuisce ma né X né IM si aggiustano
in misura significativa, generando una riduzione delle esportazioni nette. Col passare del tempo, però, gli effetti di una
variazione dei prezzi relativi, sia delle esportazioni sia delle importazioni, si rafforzano.
La figura mostra questo aggiustamento disegnando l’evoluzione della bilancia commerciale nel tempo a seguito di un
deprezzamento reale. Il deficit commerciale prima del deprezzamento è pari a OA.
All’inizio, il deprezzamento fa aumentare il disavanzo commerciale fino a OB: ε diminuisce, ma né IM né X cambiano.
Nel tempo, le esportazioni aumentano e le importazioni diminuiscono, riducendo il disavanzo commerciale.
Alla fine (se la condizione di Marshall-Lerner è soddisfatta), la bilancia commerciale migliora rispetto al suo livello
iniziale. → questa è la CURVA J (con un certo sforzo di immaginazione, si vede che prima scende e poi sale). Vedi libro
pag. 473 per l’esempio sull’Italia. Conclusione: in tutti paesi Ocse, un deprezzamento reale alla fine migliora la bilancia
commerciale. Ma essa suggerisce che questo processo richiede tempo: dai 6 mesi a un anno. Bisogna notare che
“l’effetto negativo iniziale” del deprezzamento non è solo sulla bilancia commerciale ma anche sulla produzione
perciò se un governo intende intraprendere un deprezzamento per incidere sulla produzione, deve tener conto del
fatto che per un po’ ci sarà un effetto opposto a quello desiderato.
6. RISPARMIO, INVESTIMENTO E SALDO COMMERCIALE
Come abbiamo fatto nel capitolo 3, deriviamo la condizione di equilibrio alternativa. Y= C + I + G – IM/ε + X togliamo
da entrambi i lati (C + T) e ricordando che il risparmio privato è dato da S = Y – C – T, Otteniamo:
S= I + G – T – IM/ε + X
Usando la definizione di esportazioni nette NX=X – IM/ε e riordinando i termini, otteniamo:
69
NX= S+ (T – G) – I
Sp=Y-T-C → Sp= I – Sg + NX (risparmio privato)
Sg=T-G → NX =Sg + Sp – I (risaprmio pubblico)
NX= S (risparmio nazionale: pubblico + privato) -I
NX= S-I
•
Quando l’economia si trova in avanzo commerciale → NX > 0
NX= S-I >0 → S-I >0 → S>I → quando un’economia è in avanzo vi sarà un eccesso di risparmio (nazionali) sugli
investimenti → esportazioni > importazioni
•
Quando l’economia si trova in disavanzo commerciale → NX < 0
NX= S-I <0 → S-I <0 → SI → quando un’economia è in disavanzo vi sarà un eccesso di investimento sui
risparmi (nazionali) → esportazioni < importazioni → parte eccedente importazioni devono essere pagate, di
solito attraverso i flussi di capitale che entra nel paese ossia con l’indebitamento
Questa condizione ci dice che, in equilibrio, le esportazioni nette devono essere uguali al risparmio meno
l’investimento. Quindi, un avanzo commerciale corrisponde a un eccesso di risparmio sull’investimento. Un disavanzo
commerciale corrisponde a un eccesso di investimento sul risparmio.
70
Per cogliere il significato di questa relazione, si ricordi la descrizione del conto corrente e del conto capitale che
abbiamo visto nel capitolo 17. un avanzo commerciale comporta un prestito netto al resto del mondo, mentre un
disavanzo commerciale comporta un indebitamento netto nei confronti del resto del mondo. Se consideriamo un
paese che investe di più di quanto non risparmi, S + (T-G) – I è una qtà negativa. Quel paese dovrà prendere a prestito
la differenza dal resto del mondo cioè dovrà sopportare un disavanzo commerciale. In maniera simmetrica, un paese
che presti al resto del mondo è un paese che risparmia più di quanto investe. Ci sono, quindi, delle importanti
considerazioni da fare:
•
un Aumento dell’investimento deve riflettersi in un aumento del risparmio privato, del risparmio pubblico o in
un peggioramento del saldo commerciale (un più contenuto avanzo o un maggiore disavanzo commerciale).
•
Un peggioramento del bilancio pubblico (o nella forma di un minor avanzo di bilancio o nella forma di un
maggior disavanzo) deve riflettersi in un aumento del risparmio privato, in una riduzione dell’investimento o
in un peggioramento del saldo commerciale.
•
Un paese con un alto tasso di risparmio, pubblico e privato, deve avere o un elevato tasso di investimento o
un significativo avanzo commerciale.
Notiamo anche quello che l’ultima equazione evidenziata in azzurro non ci dice. Essa non ci dice, per esempio, se e
quali condizioni un disavanzo di bilancio si rifletta in un disavanzo commerciale, in un aumento del risparmio privato o
in una riduzione dell’investimento. Per rispondere a questa domanda, dobbiamo calcolare esplicitamente che cosa
accade alla produzione e alle sue componenti. Per comprendere come mai questa equazione è fuorviante basti
pensare alla seguente affermazione: “Un paese può ridurre il suo disavanzo commerciale con un deprezzamento”. Se
noi guardassimo solo all’ultima equazione ci chiederemmo come può un deprezzamento influire sull’investimento o
sul risparmio. Potremmo concludere che tale affermazione non sia corretta ma abbiamo visto che, se la condizione di
Marshall Lerner è soddisfatta, allora il deprezzamento genera un miglioramento della bilancia commerciale e un
aumento della produzione. In realtà, quindi, un deprezzamento influisce sull’investimento e sul risparmio attraverso la
domanda di beni nazionali e attraverso un aumento della produzione.
71
Capitolo 19 – PRODUZIONE, TASSO DI INTERESSE E TASSO DI
CAMBIO
In precedenza abbiamo trattato del tasso di cambio come uno degli strumenti di politica economica a disposizione del
governo. Tuttavia, il tasso di cambio non è uno strumento di politica economica. Esso è invece determinato nel
mercato valutario. In questo capitolo cercheremo di capire come i policy-maker possono influenzare il tasso di cambio
e cosa determina tale tasso di cambio. In poche analizzeremo congiuntamente Produzione, tasso di interesse e tasso
di cambio in un’economia aperta → estensione del modello IS-LM → Modello di Mundell-Fleming.
Facciamo un breve riassunto:
•
Equilibrio mercato dei beni → affinché sia in equilibrio, occorre che la produzione nazionale sia uguale alla
domanda di beni nazionali.
Le esportazioni nette dipendono positivamente da Y* e negativamente da Y e ε. Noi facciamo tre ipotesi:
•
La condizione di Marshall-Lerner è soddisfatta → un deprezzamento di ε comporta un aumento della
produzione e un miglioramento della bilancia commerciale.
•
Essendo nel breve periodo, assumiamo che i prezzi siano costanti e perciò il tasso di interesse reale è uguale a
quello nominale.
•
Allo stesso modo, ε=E proprio perché i prezzi sono costanti e quindi si ipotizza che il tasso di cambio nominale
e reale si muovano insieme.
Perciò riscriviamo l’equazione nel seguente modo:
Nota bene → l’equilibrio nel mercato dei beni implica che la produzione dipenda negativamente sia dal tasso di
interesse nominale che dal tasso di cambio nominale.
per i nostri scopi, ci interessa sapere come la domanda dipende dal tasso d’interesse reale e dal tasso di cambio reale:
-
Un aumento del tasso d’interesse genera una riduzione della spesa per investimenti, e quindi una riduzione
della domanda di beni nazionali. Attraverso il moltiplicatore, questo conduce ad una diminuzione della
produzione
-
Un aumento del tasso di cambio reale provoca uno spostamento della domanda a favore dei beni esteri e
quindi un calo delle esportazioni nette. La riduzione delle esportazioni nette fa diminuire la domanda e la
produzione attraverso il moltiplicatore
72
•
Equilibrio mercati finanziari (la scelta tra titoli esteri o nazionali) → In un’economia chiusa gli individui
dovevano scegliere come allocare la loro ricchezza tra moneta e titoli ma qui c’è una seconda scelta: titoli
esteri o nazionali? La scelta tra titoli nazionali e esteri non dipende solo dal tasso di interesse ma anche dal
tasso di cambio e dalle sue aspettative di apprezzamento o deprezzamento. Gli investitori cercano il tasso di
rendimento atteso più elevato. Ciò implica che, affinché in equilibrio gli investitori detengano sia titoli
nazionali che esteri, essi devono avere lo stesso tasso di rendimento attesto; altrimenti, gli investitori
sarebbero disposti a detenere gli uni o gli altri, ma non entrambi, e questo non corrisponderebbe ad una
condizione di equilibrio. Richiamiamo La parità dei tassi di interesse:
(1+it)=(Et/ E e t+1)(1 +i*t)
Moltiplicando entrambi i lati per Ee t+1 e riorganizzando i termini, otteniamo:
E=[(1+i)/(1+i*)]Ee dove E è il tasso di cambio corrente e Ee è quello atteso e lo consideriamo come dato (esogeno).
Condizione della parità scoperta:
Questa è un’equazione molto importante che dice che il tasso di cambio corrente dipende dal tasso di interesse
nazionale e estero e dal tasso di cambio atteso:
a) Un aumento del tasso di cambio atteso provoca un aumento del tasso di cambio corrente.
b) Un aumento del tasso di interesse estero provoca una riduzione del tasso di cambio corrente.
c) Un aumento del tasso di interesse nazionale provoca un aumento del tasso di cambio corrente.
La figura sottostante mostra la relazione tra tasso di interesse nazionale, i, e il tasso di cambio E. Essa è rappresentata
per un dato tasso di cambio futuro atteso, Ee e per un dato tasso di interesse estero, i*. Quanto maggiore è il tasso di
interesse interno, tanto maggiore sarà il tasso di cambio: la relazione è rappresentata da una curva inclinata
positivamente. Quando il tasso di interesse interno è uguale al tasso di interesse estero, il tasso di cambio corrente è
uguale al tasso di cambio futuro atteso → questo significa che la parità dei tassi di interesse passa per il punto A (dove
i=i*).
2. LA SCELTA TRA TITOLI NAZIONALI ED ESTERI
Ipotesi fondamentale: quando il tasso di interesse cambia, il tasso di cambio atteso resta invariato.
Questo implica che un apprezzamento oggi porta a un deprezzamento atteso in futuro, poiché ci si aspetta che il tasso
di cambio torni allo stesso valore.
73
Quando il tasso di interesse nazionale è uguale al tasso di interesse estero, il tasso di cambio corrente è ugua le al
tasso di cambio futuro atteso.
Relazione positiva tra relazione del tasso d’interesse e l’apprezzamento del tasso di cambio
3. UN’ANALISI CONGIUNTA DEL MERCATO DEI BENI E DEI MERCATI FINANZIARI
C urva IS → Y = C(Y-T) + I(Y,i) + G + NX(Y,Y*,E)
C urva LM → i=ī
Mercato dei cambi → E=[(1+i)(1+i*)]Ee
Queste tre relazioni determinano la produzione, il tasso di interesse e il tasso di cambio. Siccome non sono molto
agevoli da maneggiare, le ridurremmo a 2, usando la parità dei tassi di interesse per eliminare il tasso di cambio dalla
condizione di equilibrio nel mercato dei beni:
Curva IS → Y = C(Y-T) + I(Y,i) + G + NX(Y,Y*,[(1+i)/(1+i*)]Ee )
Curva LM → i=ī
Queste due relazioni determinano tasso di interesse e produzione di equilibrio.
Un aumento del tasso di interesse ha due effetti:
1) Un aumento del tasso di interesse provoca una diminuzione dell’investimento e quindi della domanda di beni
nazionali; quest’effetto è presente anche in economia chiusa.
2) Un aumento del tasso di interesse interno genera un apprezzamento del cambio che a sua volta provoca una
diminuzione delle esportazioni nette e quindi una riduzione della domanda di beni nazionali. Quest ’effetto è
presente solo in economia aperta.
La curva IS, come prima, ha un’inclinazione negativa. Se il tasso di interesse aumenta, ci sono due effetti:
•
Gli investimenti si riducono e di conseguenza anche la domanda di beni nazionali e della produzione… →
EFFETTO DIRETTO.
74
•
Il tasso di cambio aumenta (apprezzamento).
Ciò comporta una diminuzione delle
esportazioni nette e quindi della domanda di
beni nazionali e in definitiva della produzione.
→ EFFETTO INDIRETTO PRESENTE SOLO NEL
CASO DI UN’ECONOMIA APERTA. La curva LM
è orizzontale come prima ed è esattamente
uguale al caso di un’economia chiusa. 
Perché la curva IS è inclinata
negativamente? >i porta o con
investimenti o tasso ad una
riduzione della
domanda/produzione
La curva LM è orizzontale come
prima ed è esattamente uguale al
caso di un’economia chiusa.
Riassumendo:
✓ La curva IS è inclinata negativamente: un aumento del tasso di interesse porta direttamente (attraverso
l’investimento) e indirettamente (attraverso il tasso di cambio) a una riduzione della domanda e a un calo
della produzione.
✓ La curva LM è orizzontale in corrispondenza del tasso di interesse stabilito dalla banca centrale.
✓ La produzione e il tasso di interesse di equilibrio sono dati dall’intersezione delle curve IS e LM.
✓ Dato il tasso di interesse estero e il tasso di cambio atteso, il tasso di interesse di equilibrio determina il tasso
di cambio di equilibrio.
Il tasso di interesse di equilibrio determina il tasso di cambio di equilibrio
4. GLI EFFETTI DELLA POLITICA MONETARIA IN UN’ECONOMIA APERTA
In economia aperta, la politica monetaria opera attraverso due canali:
✓ Attraverso l’effetto del tasso di interesse sulla spesa, come in economia chiusa
✓ Attraverso l’effetto del tasso di interesse sul tasso di cambio e, quindi, attraverso l’effetto del tasso di cambio
sulle esportazioni e importazioni
Nel caso di una stretta monetaria, un maggior tasso di interesse e un apprezzamento del tasso di cambio riducono
entrambi domanda e produzione.
75
Un aumento del tasso di interesse sposta la curva LM verso l’alto ma non fa spostare né la curva IS né la curva di
parità dei tassi di interesse.
Che cosa accade alle varie componenti della domanda in seguito a una politica fiscale espansiva, quando la banca
centrale lascia il tasso di interesse invariato?
✓ Il consumo e la spesa pubblica aumentano, il primo a causa dell’incremento del reddito e la seconda per
ipotesi.
✓ Anche l’investimento aumenta, dato che dipende sia dalla produzione, in aumento, e dal tasso di interesse,
lasciato invariato dalla banca centrale.
✓ Le esportazioni nette dipendono negativamente dalla produzione nazionale e dal tasso di cambio. Le
esportazioni nette diminuiscono quindi a causa dell’aumento della produzione.
Se ipotizziamo un’espansione fiscale senza l’intervento della Bce e del resto del mondo, avremo la seguente
situazione:
Chiaramente C, I e G aumentano mentre le esportazioni nette diminuiscono in quanto dipendono negativamente dalla
produzione (la bilancia commerciale peggiora). Il tasso di cambio rimane invariato come il tasso di interesse. Se la Bce
interviene con una contrazione monetaria, allora avremo che come il caso precedente C e G aumentano mentre
l’effetto sugli investimenti è ambiguo. Le esportazioni nette diminuiscono sia per effetto del deprezzamento che per
effetto dell’aumento della produzione nazionale.
Che cosa accade alle varie componenti della domanda in seguito a una politica fiscale espansiva, quando la banca
centrale reagisce aumentando il tasso di interesse?
76
✓ Il consumo e la spesa pubblica aumentano, il primo a causa dell’incremento del reddito e la seconda per
ipotesi.
✓ Ciò che accade all’investimento è ambiguo. Da un lato la produzione aumenta, inducendo un incremento
dell’investimento. Dall’altro, il tasso di interesse aumenta, riducendo la spesa per investimenti.
✓ Le esportazioni nette dipendono negativamente dalla produzione nazionale e dal tasso di cambio. Le
esportazioni nette diminuiscono sia per effetto dell’apprezzamento sia a causa dell’aumento della produzione.
Reddito/pil potenziale → non vi è eccesso di
capacità
Nel punto A, il governo fa una politica fiscale
espansiva (> G), curva is → IS’ vs dx→ punto
A’ al quale corrisponde Y’> Yn
BC sapendo che l’equilibrio andrebbe su a’
attua una politica monetaria restrittiva per
evitare > inflazione→ si incontrano in a’’:
livello equilibrio della produzione Y’’
Aumento i→ > cambio valuta nazionale= apprezzamento
Due effetti deprimenti sulla produzione aggregata:
1. Aumento tasso i provoca <I, quindi domanda e produzione
2. Apprezzamento tasso, ridotte esportazioni, <pil
Bc reagisce con >i provoca un effetto negativo sull’aumento che potremmo avere del pil, da Yn cresce fino a Y’’ e non
Y’’, e aumentando ancora i si arriverebbe a produzione nulla
5. TASSI DI CAMBIO FISSI
L’assunzione fatta fino ad ora prevede che la BC scelga l’offerta di moneta e che lasci il tasso di cambio libero di
aggiustarsi.
Ci sono paesi come gli USA, Regno Unito e Canada con tassi di cambio flessibili (apprezzamento: aumenta tassi di
cambio; deprezzamento: diminuisce). All’estremo opposto ci sono paesi che operano in regimi di cambi fissi. Questi
paesi mantengono un tasso di cambio fisso in termini di qualche valuta estera, mantengono cioè una parità tra il
valore nominale della valuta nazionale e quello della valuta estera. Alcuni paesi nel passato ancorarono la loro moneta
al dollaro. Per esempio, dal 1991 al 2001, l’Argentina ha ancorato la sua valuta al dollaro. (1 peso=1 dollaro).
Il termine “fisso” è però fuorviante. Non è vero che nei paesi che operano in un sistema di cambi fissi il tasso di cambio
non varia mai ma le sue variazioni son rare e sono dette rivalutazioni, nel caso di aumento (del tasso di cambio) e
svalutazioni, nel caso di diminuzione.
Tra questi due estremi, ci sono paesi che adottano regimi di cambio intermedi cioè né perfet tamente fissi, né
perfettamente flessibili. Per esempio, alcuni paesi operano con una parità mobile del tasso di cambio. Questi paesi
hanno tipicamente tassi di inflazione che eccedono quello degli USA. Se ancorassero perfettamente il loro tasso di
cambio nominale al dollaro, il maggior aumento dei prezzi interni rispetto a quello statunitense causerebbe un
continuo apprezzamento reale della loro valuta e renderebbe i loro beni non competitivi. Per evitare tale effetto,
questi paesi scelgono di consentire lenti aggiustamenti rispetto al dollaro.
Un altro tipo di accordo prevede che un gruppo di paesi mantengano i loro tassi di cambio bilaterali all’interno di certe
bande di oscillazione. L’esempio per antonomasia di un sistema di questo tipo è stato il Sistema monetario europeo
(Sme), che ha determinato le variazioni dei tassi di cambio all’interno dell’UE dal 1979 al 1998. Secondo le regole dello
Sme, i paesi membri mantenevano il loro tasso di cambio, rispetto alle altre valute del sistema, all’interno di una
banda di oscillazione costruita intorno ad una parità centrale – un dato valore del tasso di cambio. Variazioni della
77
parità centrale e svalutazioni o rivalutazioni di alcune valute erano possibili, ma dovevano essere condivise dei paesi
aderenti all’accordo. Dopo una grave crisi nel 1992, in seguito alla quale alcuni dei maggiori paesi membri sono usciti
dallo Sme, gli aggiustamenti dei tassi di cambio sono diventati sempre meno frequenti, spingendo un certo numero di
paesi a fare un passo in più e ad adottare una moneta comune, l’Euro.
Politica monetaria in un sistema di cambi fissi → in ipotesi di cambi fissi e di perfetta mobilità dei capitali, il tasso di
interesse interno deve essere uguale al tasso di interesse estero. In un sistema di cambi fissi, la banca centrale
rinuncia alla politica monetaria come strumento di politica economica.
Politica fiscale in un sistema di cambi fissi → gli effetti sono identici a quelli visti precedentemente nel caso in cui ci sia
una politica fiscale in assenza di politica monetaria (la Bce non può intervenire).
La parità dei tassi di interesse è data da:
Et
(1 + it ) = (1 + i ) e
Et +1
*
t
_
Supponiamo di ancorare il tasso di cambio a qualche livello E, e i mercati credano che rimanga fisso, otterremo:
(1 + i ) = (1 + i )  i = i
*
t
t
t
*
t
In ipotesi di tasso di cambio fisso e di perfetta mobilità dei capitali, il tasso di interesse interno deve quindi essere
uguale al tasso di interesse estero.
Abbiamo quindi che:
In un sistema di cambi fissi, la banca centrale rinuncia alla politica monetaria come strumento di politica economica.
In un sistema di cambi fissi la politica monetaria non può più essere usata come uno strumento di politica economica.
Cosa succede invece alla politica fiscale?
L’effetto di un aumento della spesa pubblica quando la banca centrale adotta un tasso di cambio fisso sono identici a
quelli che abbiamo visto nel caso di tassi di cambio flessibili quando la banca centrale non reagisce.
Questo perché il tasso di interesse scelto dalla banca centrale in un sistema di cambi fissi deve essere uguale al tasso
di interesse estero.
✓ Fissando il tasso di cambio, si rinuncia a uno strumento efficace nella correzione degli squilibri commerciali e
nel controllo del livello di produzione aggregata.
✓ Ancorandosi a un dato tasso di cambio fisso, un paese rinuncia anche al controllo del suo tasso di interesse.
Inoltre deve seguire l’andamento del tasso di interesse estero, correndo il rischio di effetti indesiderati sulla
sua attività economica. (supponiamo che la bc debba perseguire un tasso di cambio fissato tra la propria
valuta e il tasso americano, come obiettivo deve avere il tasso americano. Gli usa decidono di >i, l’economia
italiana deve >i, ma questo < produzione aggregata, quindi recessione involontaria)
✓ Nonostante il paese mantenga una piena disponibilità della politica fiscale, un solo strumento di politica
economica non sempre è sufficiente.
Che cosa spinge allora alcuni paesi ad ancorare il tasso di cambio? Perché 19 paesi europei – presto seguiti da altri –
hanno adottato una moneta comune?
Dobbiamo vedere che cosa succede non solo nel breve periodo, ma anche nel medio periodo, quando il livello dei
prezzi si può aggiustare. E si deve considerare anche la natura delle crisi del tasso di cambio.
**
78
CRISI DELLO SME
Il sistema monetario europeo nacque nel 1979, inizialmente tra 6 paesi fondatori della CEE: Germania, Francia, Italia,
Belgio, Olanda e Lussemburgo, più Danimarca e Irlanda. Secondo gli accordi, nessun paese poteva cambiare il suo
tasso di interesse se anche gli altri paesi non avessero fatto altrettanto, come? (nell’accordo sme: variazioni della
parità centrale e svalutazioni/rivalutazioni di alcune valute erano possibili, ma dovevano essere condivise dai paesi
aderenti all’accordo)
-
Coordinando tutte le variazioni del tasso d’interesse oppure
-
Un solo paese prendeva iniziativa e gli altri seguivano (Germania)
Nel 1990, l’unificazione tedesca ha portato con sé una forte divergenza di obiettivi tra la Bundesbank e le banche
centrali degli altri paesi membri.
•
Ingenti trasferimenti alla Germania orientale, che hanno aumentato il disavanzo di bilancio pubblico, e gli
investimenti necessari hanno prodotto un forte aumento della domanda aggregata in Germania.
•
Il timore della Bundesbank di un aumento eccessivo dell’attività economica (pil) e dunque l’inflazione l’ha
indotta ad adottare una politica monetaria restrittiva (>i). il risultato è stato una forte crescita economica in
Germania accompagnata da un brusco aumento dei tassi d’interesse.
•
Gli altri paesi, tuttavia, pur non avendo registrato lo stesso aumento della domanda, hanno comunque dovuto
adeguare i loro tassi d’interesse a quelli tedeschi per rimanere nello SME. Di conseguenza, hanno subito un
brusco calo della domanda e della produzione.
•
Nel 1992, la disoccupazione media nell’Ue, che nel 1990 era all’8.7%, è aumentata al 10.3%. gli effetti degli
elevati tassi d’interesse sulla spesa sono stati la fonte principale di questo rallentamento dell’attività, ma non
l’unica.
•
Nel 1992, un numero crescente di paesi doveva scegliere se difendere la parità (dentro la banda di
oscillazione) oppure uscire dallo SME e ridurre i tassi di interesse nazionali (e quindi svalutare il proprio tasso
di cambio)
•
Preoccupati dal rischio di svalutazioni, i mercati finanziari hanno iniziato a chiedere tassi di interesse maggiori
nei paesi dove la svalutazione era ritenuta più probabile. Ne sono risultate due gravi crisi valutarie a causa
delle quali Italia e U.K. uscirono dallo SME
SVANTAGGI DELLA FISSAZIONE DEL CAMBIO | VANTAGGI DELLA FISSAZIONE DEL CAMBIO
•
Si vedono nel medio periodo, quando anche i
prezzi si aggiustano
•
In generale, il sistema di cambi fissi è preferibile
quando la banca centrale non ha una forte
reputazione di politica monetaria responsabile
•
Oppure quando un gruppo di paesi è già
fortemente integrato dal punto di vista
economico
Quello che è successo in UE dal 1992 in poi
DA CAMBI DLESSIBILI A CAMBI FISSI
79
Capitolo 7 – IL MERCATO DEL LAVORO
1. UN VIAGGIO NEL MERCATO DEL LAVORO
Offerta: lavoratori
Domanda: imprenditori
Iniziamo il nostro viaggio con qualche definizione:
•
•
•
•
•
Popolazione attiva:
individui che sono in età lavorativa (15-64)
Forze di lavoro:
lavoratori occupati + lavoratori in cerca di occupazione
Fuori dalle forze di lavoro (inattivi):
individui in età lavorativa non in cerca di un’occupazione
Tasso di partecipazione:
rapporto tra le forze di lavoro e la popolazione in età lavorativa
Tasso di disoccupazione:
rapporto tra il numero di disoccupati e le forze di lavoro
Nel 2014 la popolazione totale italiana era di 60,4 milioni di persone. Il numero di persone potenzialmente disponibili
per l’impiego, la popolazione in età lavorativa (o popolazione attiva) era pari a 39,2 milioni. Le forze lavoro erano 25,5
milioni. I restanti 13,6 erano inattivi cioè fuori dalla forza lavoro. Il tasso di partecipazione (definito come il rapporto
tra le forze lavoro e la popolazione attiva) era pari al 65%. In Europa, il tasso di partecipazione è aumentato di
continuo nel tempo anche a causa del rapido incremento della partecipazione femminile. Di coloro nelle forze lavoro,
22,3 milioni erano occupati e 3,2 milioni no perciò il tasso di disoccupazione era del 12,5%.
80
Un certo tasso di disoccupazione può riflettere due realtà diverse. Esso può riferirsi ad un mercato del lavoro attivo,
con frequenti interruzioni dei rapporti di lavoro e nuove assunzioni e quindi con molti lavoratori in entrata e in uscita
dalla disoccupazione; o, al contrario, può essere relativo a un mercato del lavoro sclerotico dove raramente nascono
nuovi rapporti di lavoro o cessano quelli preesistenti e la disoccupazione è di lungo periodo.
Per scoprire se si tratti della prima o della seconda realtà, occorre disporre di informazioni cir ca i flussi di lavoratori.
Questi dati in Europa sono raccolti tramite l’Indagine sulle Forze di Lavoro trimestrale. Riguardo l’Italia, conosciamo
tre importanti caratteristiche:
•
In media, in ogni trimestre del 2014 ci sono state circa 22,2 milioni di interruzioni di rapporti di lavoro in Italia,
21,2 cambi di lavoro, 606 mila lavoratori sono usciti dall’occupazione e diventati inattivi, 366 mila sono invece
passato dallo stato di occupati a quello di disoccupati. Siccome 21,2 milioni su 22,2 sono state dimissioni, il
restante milione è costituito da licenziamenti. In un qualunque momento, alcune imprese subiscono cali nella
domanda dei propri beni e sono costrette a ridurre il personale mentre altre beneficiano di un incremento di
domanda e creano posti di lavoro.
•
I flussi di entrata e uscita dalla disoccupazione sono molto elevati, se pensati in termini di numero di
disoccupati. Il flusso medio trimestrale di uscita dalla disoccupazione è pari a 1,6 milioni di individui: 417 mila
trovano un lavoro e i restanti smettono di cercarlo ed escono dalla forza lavoro. In altre parole la quota di
disoccupati che abbandona la disoccupazione è pari a 1,6/3,2=50% ogni trimestre. In altre parole ancora, la
durata della disoccupazione media è pari a 2 trimestri.
•
Anche i flussi in entrata e uscita dalle forze lavoro sono elevati. In media, in ciascun trimestre del 2014 1,8
milioni di lavoratori sono uscite dalle forze lavoro e circa 1,9 milioni vi sono entrati. Una persona potrebbe
ritenere che si tratti di lavoratori che vanno in pensione e studenti che, terminando gli studi, entrano nel
mondo del lavoro ma in realtà questi costituiscono solo una piccola parte. Questo implica che molti individui
classificati come fuori dalle forze lavoro sono, di fatto, desiderosi di entrare e uscire da essa.
Possiamo trarre una conclusione → alcune delle persone classificate fuori dalle forze di lavoro sono di fatto
equiparabili ai disoccupati: si tratta di lavoratori scoraggiati i quali, pur non essendo attivamente alla ricerca di un
lavoro, lo accetterebbero se si presentasse un’occasione. Per questo gli economisti preferiscono considerare il tasso di
occupazione.
Per analizzare il mercato del lavoro e la sua «salute», è importante capire la dinamica dei suoi flussi.
Un certo tasso di disoccupazione può indicare situazioni diverse:
•
un mercato del lavoro vivace, con molte interruzioni dei rapporti di lavoro, ma molte assunzioni.
81
•
un mercato del lavoro asfittico, con una disoccupazione di lungo periodo.
N.B. 1,2 milioni da disoccupati a
inattivi comprende la fascia dei
lavoratori scoraggiati (cercano
ma non trovano)
Tasso di partecipazione ue:
-
Più alto: Norvegia, Danimarca, Svezia e Finlandia
-
Più basso: Italia (discrepanza tra tasso di partecipazione maschile e femminile), Ungheria, Grecia
2. MOVIMENTI ALL’INTERNO DELLA DISOCCUPAZIONE
Quando l’economia è in recessione, le imprese reagiscono alla riduzione della domanda in due modi:
1. riducendo le assunzioni di nuovi lavoratori
2. licenziando i lavoratori attualmente occupati
Dato che le imprese agiscono in entrambi i modi, quando la disoccupazione è elevata:
•
è più probabile che i lavoratori occupati
perdano il loro lavoro
•
è meno probabile che i lavoratori disoccupati
trovino un lavoro (la durata della disoccupazione
aumenta)
Ora tratteremo degli USA anziché dell’Italia per
svariate ragioni (in poche parole la situazione degli
USA si presta meglio all’analisi che intendiamo
affrontare).
RICORDA: la disoccupazione aumenta in fase di
recessione e diminuisce in fase di espansione.
le righe grigie in figura rappresentano le fasi di recessione.
Dalla figura possiamo concludere:
•
Fino alla metà degli anni 80, sembrava quasi che il tasso di disoccupazione statunitense fosse in costante
ascesa. Dagli anni 80 questo tasso ha, però, cominciato a diminuire progressivamente per più di due decenni.
Tuttavia, il tasso medio di disoccupazione negli USA aumentò molto con la crisi recente.
•
Tralasciando la questione se esistano o meno tendenze nel livello medio del tasso di disoccupa zione, è chiaro
che fluttuazioni annuali nel tasso sono fortemente associate a periodi di recessione ed espansione economica.
In che modo queste fluttuazioni nel tasso di disoccupazione impattano i singoli lavoratori? questa è una domanda a
cui è importante rispondere perché la riposta determina:
•
Sia gli effetti dei movimenti nel tasso di disoccupazione sul benessere dei singoli lavoratori.
•
Sia gli effetti del tasso di disoccupazione sui salari. Vediamo ora le implicazioni che toccano sia gli occupati che
i disoccupati:
82
•
Se l’aggiustamento avviene attraverso una riduzione delle assunzioni, la possibilità che un disoccupato trovi
lavoro si riduce.
•
Se l’aggiustamento avviene con maggiori licenziamenti, allora quelli in pericolo sono gli occupati.
In generale, un’impresa adotta entrambe le soluzioni: sono tutti in pericolo. In conclusione, quando la disoccupazione
è elevata la situazione dei lavoratori peggiora in due sensi:
a) È più probabile che i lavoratori occupati perdano il lavoro.
b) È meno probabile che i lavoratori disoccupati trovino un lavoro.
3. LA DETERMINAZIONE DEI SALARI
I salari possono essere fissati in molti modi. A volte sono stabiliti dalle contrattazioni collettive (contrattazioni tra
imprese e sindacati). Le negoziazioni possono avvenire a livello aziendale, settoriale o nazionale. Gli accordi talvolta si
estendono solo alle aziende che vi hanno aderito, altre volte si estendono automaticamente a tutte le imprese e a
tutti i lavoratori del settore o dell’economia. La contrattazione collettiva è la principale tecnica di negoziazione dei
salari nella maggior parte dei paesi europei a differenza di USA e Giappone. Il Regno Unito, tuttavia, si distingue per
l’incidenza piuttosto limitata della contrattazione collettiva, in particolare nel settore non manifatturiero. Al di fuori
dell’ipotesi delle contrattazioni collettive, i salari vengono per lo più fissati dai datori di lavoro o in seguito a
contrattazioni bilaterali tra datori e singoli lavoratori. Quanto maggiori sono le competenze richieste, tanto più
frequente è l’accordo bilaterale ed è ovvio che i campioni dello sport o gli amministratori possono contrattare molto
di più rispetto ad un lavoro meno qualificato come potrebbe essere il cameriere di McDonald’s.
Date queste differenze, possiamo sperare di costruire una sorta di teoria generale della determinazione dei salari? sì.
E questo perché ci sono 2 fatti rilevanti:
1) I lavoratori di solito percepiscono un salario superiore al loro salario di riserva, cioè il salario che li rende
indifferenti tra lavorare ed essere disoccupati.
2) Quanto più è basso il tasso di disoccupazione, tanto più alti soni i salari.
In periodi di recessione economica i salari tendono ad essere più bassi e viceversa. Nella maggior parte dei paesi
europei, la contrattazione collettiva rappresenta la principale tecnica di negoziazione dei salari. Anche in assenza di
contrattazioni collettive, i lavoratori hanno una certa forza contrattuale che usano per ottenere salari più elevati.
Allora cominciamo con introdurre le basi di questa teoria.
Contrattazione del salario → la forza contrattuale di un lavoratore dipende da 2 fattori. Il primo è il costo che, in caso
di dimissioni, l’impresa dovrebbe pagare per sostituirlo. Il secondo è la difficoltà che egli incontrerebbe nel trovare un
altro lavoro. Due sono le conseguenze:
•
La forza contrattuale di un lavoratore dipende chiaramente dalla natura del lavoro.
•
Le condizioni prevalenti nel mercato del lavoro influenzano anch’esse la forza contrattuale dei lavorat ori. Per
esempio, Quando il tasso di disoccupazione è basso, per il lavoratore è più facile trovare un altro impiego ma
per l’impresa è più difficile trovare dei sostituti.
83
Salari di efficienza → prescindendo dalla forza contrattuale dei lavoratori, le imprese potrebbero voler pagare un
salario superiore a quello di riserva. Esse, infatti, vogliono che i lavoratori siano produttivi, e il salario può essere una
leva per raggiungere tale obiettivo. La maggior parte delle imprese vuole che i propri lavoratori siano ben disposti
verso il lavoro e verso l’impresa. Sentirsi bene incentiva a lavorare bene, il che a sua volta fa aumentare la
produttività. Oppure per non farli andare via, aumentano il salario, Diminuendo il tasso di avvicendamento. Gli
economisti chiamano le teorie che legano la produttività o l’efficienza dei lavoratori al salario percepito teorie dei
salari di efficienza. Come le teorie basate sulla contrattazione, le teorie dei salari di efficienza suggeriscono che i salari
dipendono sia dalla natura del lavoro sia dalle condizioni del mercato del lavoro:
•
Le imprese, per esempio quelle ad alta tecnologia, che considerano il morale e l’impegno dei lavoratori come
elementi essenziali per la qualità del lavoro, pagheranno più delle imprese in cui i lavoratori svolgono attività
di routine.
•
Il salario è influenzato anche dalle condizioni prevalenti nel mercato del lavoro. Un ridotto tasso di
disoccupazione rende più conveniente per i lavoratori dare le dimissioni: quando il tasso di disoccupazione è
basso è più facile trovare una nuova occupazione.
•
Quando il tasso di disoccupazione è più basso, è più facile per i lavoratori trovare una nuova occupazione. le
imprese che vogliono evitare un aumento delle dimissioni pagheranno un salario più alto man mano che la
disoccupazione scende.
Salari, prezzi e disoccupazione → la nostra precedente discussione suggerisce un’equazione dei salari nella forma:
W = Pe F(u,z)
(-, +)
Dove il salario nominale aggregato, W, dipende da tre fattori:
1. il livello atteso dei prezzi, Pe: Pe  W (poiché i lavoratori sono interessati al salario reale)
2. il tasso di disoccupazione, u: u  W (perché riduce il potere contrattuale dei lavoratori)
3. una generica variabile, z, che rappresenta tutte le altre variabili che influenzano la determinazione dei salari.
Vediamo una variabile alla volta:
•
Il livello atteso dei prezzi Pe → perché il livello dei prezzi influenza i salari nominali? Molto semplicemente
perché le imprese e i lavoratori sono interessati ai salari reali e non a quelli nominali. I lavoratori non sono
interessati a quanto denaro ricevono ma al salario, W, che percepiscono relativamente al prezzo dei beni che
acquistano, P. In altre parole, essi sono interessati al salario in termini di beni, W/P.
Allo stesso modo, alle imprese non interessa il salario nominale che pagano ai lavoratori, W, ma il salario in termini del
prezzo della produzione venduta, cioè anch’esse sono interessate a W/P.
In altre parole, se i lavoratori si aspettassero che il livello futuro dei prezzi raddoppiasse, richiederebbero un salario
nominale doppio. Se le imprese si aspettassero che il livello dei prezzi raddoppiasse, sarebbero disposte a raddoppiare
i salari nominali. Se entrambi si aspettassero che il livello dei prezzi raddoppiasse, concorderebbero nell’aumentare i
salari nominali in misura proporzionale, mantenendo costante il salario reale.
Nota bene → perché i salari dipendono dal livello atteso dei prezzi e non dal livello effet tivo? Perché i salari sono
fissati in termini nominali, per esempio in euro e, nel momento in cui vengono fissati, il livello dei prezzi a cui fare
riferimento non è ancora noto.
•
Il tasso di disoccupazione u → come indicato dal segno meno sotto u, un aumento del tasso di disoccupazione
riduce i salari.
84
•
Gli altri fattori indicati da una generica variabile z → consideriamo, per esempio il sussidio di disoccupazione,
un trasferimento monetario versato ai lavoratori che hanno perso il proprio posto di lavoro. Non c’è alcun
dubbio sul fatto che la prospettiva di percepire un’indennità in caso di disoccupazione faccia aumentare i
salari a parità di tasso di disoccupazione. Per fare un esempio limite, supponiamo che l’indennità di
disoccupazione non esista. In questo caso, i lavoratori sarebbero disposti ad accettare salari molto bassi pur di
evitare la disoccupazione. L’esistenza di quel sussidio consente ai lavoratori di spuntare salari maggiori. Ci
sono altri fattori. Ad esempio, un aumento di salario minimo aumenta non solo il salario minimo stesso ma
anche i salari al di sopra di esso. Un ulteriore fattore che influenza i salari è rappresentato dal livello di
protezione dei lavoratori (legislazione sulla protezione dell'occupazione): una maggiore protezione da parte
dello Stato rende più costoso il licenziamento da parte delle imprese → ciò fa aumentare il potere
contrattuale dei lavoratori
Definiamo positivamente la relazione tra z e il livello dei salari:
z  W
4. LA DETERMINAZIONE DEI PREZZI
i prezzi fissati dalle imprese dipendono dai costi. A loro volta i costi dipendono dalla natura della funzione di
produzione (la relazione tra i fattori produttivi impiegati nella produzione e la qtà di prodotto ottenuto, e dai prezzi di
tali fattori). Per il momento, assumiamo che le imprese producano beni usando il lavoro come unico fattore
produttivo, in base alla seguente funzione di produzione:
Y = AN dove Y è la produzione, N l’occupazione e A la produttività.
Questa forma funzionale implica che la produttività del lavoro (il rapporto tra produzione e numero di lavoratori
impiegati) sia costante e uguale ad A. Dovrebbe essere chiaro che questa è una semplificazione molto forte. In realtà,
le imprese utilizzano altri fattori produttivi oltre al lavoro: capitale e materie prime. Inoltre, nella realtà la produttività
del lavoro non è costante, ma aumenta stabilmente nel tempo per effetto del progresso tecnologico. In ogni caso,
questi fattori produttivi verranno introdotti più avanti nella trattazione.
Data la nostra ipotesi di produttività del lavoro costante, possiamo semplificare ulteriormente la notazione. In
particolare, possiamo scegliere l’unità di misura della produzione in modo tale che un lavoratore produca un’unità di
prodotto, cioè A=1. Perciò:
Y=N
la funzione di produzione Y=N implica che il costo di realizzare un’unità aggiuntiva di prodotto è uguale al costo di
impiegare un lavoratore in più e, quindi, è uguale al salario, W. Quindi il costo marginale di produzione è uguale a W.
Se nel mercato ci fosse concorrenza perfetta, il prezzo di un’unità di produzione sarebbe uguale al costo: P sarebbe
uguale a W.
Ma molti mercati dei beni non sono concorrenziali e le imprese caricano un prezzo superiore al costo marginale. Un
modo semplice per descrivere questo fatto è assumere che le imprese fissino il prezzo nel modo seguente:
P = (1+m)W
dove m è il ricarico del prezzo sul costo di produzione, indicato generalmente con il termine inglese “markup”.
Se i mercati dei beni fossero perfettamente concorrenziali, il prezzo P sarebbe semplicemente uguale al costo W e m
sarebbe uguale a zero. Poiché non lo sono, e poiché le imprese hanno potere di mercato (prezzo più alto del costo
marginale), m sarà positivo e il prezzo P sarà superiore al costo W di un fattore uguale a (1+m).
85
3.5IL TASSO NATURALE DI DISOCCUPAZIONE
Vediamo ora quali sono gli effetti della determinazione dei prezzi e dei salari sulla disoccupazione.
Data l’ipotesi che i salari nominali dipendono dal livello effettivo dei prezzi (poi vedremo tra poco perché assumiamo il
livello effettivo e non quello atteso) , l’equazione che descrive la determinazione dei salari, diventa:
W=PF(u,z)
Dividiamo entrambi i lati per il livello dei prezzi, otteniamo:
W/P = F(u,z)
La determinazione dei salari implica una relazione negativa tra il salario reale, W/P. E il tasso di disoccupazione, u:
quanto maggiore è il tasso di disoccupazione, tanto minore sarà il salario reale scelto da chi fissa i salari. Chiamiamo
questa relazione tra salario reale e tasso di disoccupazione equazione dei salari e la vediamo rappresentata nella
figura sotto. Il salario reale è misurato sull’asse verticale, il tasso di disoccupazione sull’asse orizzontale. L’equazione
dei salari è una curva decrescente contrassegnata Con WS (Wage setting).
Se dividiamo entrambi i lati dell’equazione evidenziata in giallo per il salario nominale, otteniamo:
P/W = 1 + m
la fissazione dei prezzi da parte delle imprese comporta che il rapporto tra il livello dei prezzi e il livello dei salari sia
uguale a 1 più il markup. Ora invertiamo entrambi i lati di questa equazione per ottenere il salario reale:
W/P = 1/ 1 + m → equazione dei prezzi PS (price setting).
Il salario reale derivante dalla determinazione dei prezzi è 1/1 + m che non dipende dal tasso di disoccupazione questa
equazione ci dice che il salario reale fissato dalle imprese è in funzione delle decisioni di prezzo. Un aumento del
markup fa aumentare i prezzi a parità di salari, facendo in tal modo diminuire il salario reale. Il modo in cui la
fissazione dei prezzi di fatto determina il salario reale pagato dalle imprese potrebbe non essere molto intuitivo.
Supponiamo che l’impresa per la quale lavorate aumenti il suo markup e quindi il prezzo dei suoi prodotti. Il vostro
salario reale non cambia di molto: continuerete a percepire lo stesso salario nominale e i prodotti venduti dall’impresa
rappresentano al massimo una piccola fetta del vostro paniere di consumo. Supponiamo ora che tutte le imprese
dell’economia aumentino il proprio markup → il vostro salario reale scende.
SALARI REALI DI EQUILIBRIO E DISOCCUPAZIONE
L’equilibrio nel mercato del lavoro richiede che il salario reale risultante dalla determinazione dei salari sia uguale al
salario reale derivante dalla determinazione dei prezzi. Perciò, l’equilibrio si trova nel punto A e il tasso di
disoccupazione è un. Algebricamente:
F(u,z) = 1/1 + m
86
Il tasso di disoccupazione di equilibrio un deve essere tale per cui il salario reale scelto nella determinazione dei sal ari
sia uguale al salario reale derivante dalla fissazione dei prezzi. Il tasso di disoccupazione di equilibrio un è chiamato
tasso naturale di disoccupazione. Adesso vediamo due esempi:
• Un aumento dei sussidi di disoccupazione. Tale variazione può essere rappresentata da un aumento di z: poiché
l’aumento dei sussidi rende meno dolorosa la prospettiva di restare disoccupati, esso fa aumentare il salario reale
scelto nelle contrattazioni a parità di tasso di disoccupazione.
In corrispondenza di un dato tasso di disoccupazione, maggiori sussidi di disoccupazione portano a un salario reale più
alto. È necessario un tasso di disoccupazione superiore per riportare il salario reale al livello che le imprese sono
disposte a pagare.
• Una legislazione antitrus meno restrittiva. Questa legislazione meno restrittiva consente alle imprese di colludere
più facilmente e aumentare il proprio potere di mercato, tale legislazione fa aumentare il markup.
Un aumento del markup provoca una riduzione del salario reale e un aumento del tasso naturale di disoccupazione. È
necessaria una disoccupazione più alta per costringere i lavoratori ad accettare questo minor salario e questo fa
aumentare il tasso di disoccupazione.
Nota bene → un termine migliore di tasso naturale di disoccupazione è tasso strutturale di disoccupazione perché una
legislazione antitrus meno restrittiva o maggiori sussidi sono tutt’altro che situazioni naturali. Ma questo termine per
ora non ha avuto molto successo. Nel modello IS-LM avevamo trascurato l’aggiustamento dei prezzi e dei salari nel
tempo e come tutto ciò influenza Y. Ma un aumento della domanda induce le imprese ad aumentare la produzione,
aumenta anche l’occupazione, i salari aumentano e perciò anche i prezzi..
87
A CHE PUNTO SIAMO E DOVE STIAMO ANDANDO:
1. Abbiamo appena visto come l'equilibrio nel mercato del lavoro determina il tasso naturale di disoccupazione.
2. fissata la dimensione delle forze di lavoro e data una funzione di produzione, il tasso naturale di
disoccupazione determina il livello naturale della produzione.
3. nel breve periodo Il mercato del lavoro potrebbe non essere in equilibrio, poiché le aspettative sui prezzi
potrebbero essere sbagliate.
4. le determinanti dell'equilibrio nel breve periodo sono quindi quelle discusse nei capitoli precedenti (C,I,NX).
5. Nel medio periodo i fattori che determinano la disoccupazione e la produzione sono invece quelli appena
descritti.
Nel modello IS-LM avevamo trascurato l’aggiustamento dei prezzi e dei salari nel tempo e come tutto ciò influenza Y.
Ma un aumento della domanda induce le imprese ad aumentare la produzione, aumenta anche l’occupazione, i salari
aumentano e perciò anche i prezzi…
Il punto principale di questo capitolo è:
il tasso naturale di disoccupazione è il tasso a cui le richieste salariali dei lavoratori sono compatibili con le decisioni di
prezzo delle imprese.
88
Nel modello IS-LM avevamo trascurato l’aggiustamento dei prezzi e dei salari nel tempo e come tutto ciò influenza Y.
Ma un aumento della domanda induce le imprese ad aumentare la produzione, aumenta anche l’occupazione, i salari
aumentano e perciò anche i prezzi… IZ imprese TY tu TW I P
:
Il punto principale di questo capitolo è:
il tasso naturale di disoccupazione è il tasso a cui le richieste salariali dei lavoratori sono compatibili con le decisioni di
prezzo delle imprese.
1 87
N
Capitolo 8 – LA CURVA DI PHILLIPS, IL TASSO NATURALE DI
DISOCCUPAZIONE E L’INFLAZIONE- NEL MEDIO PERIODO
1. INFLAZIONE, INFLAZIONE ATTESA E DISOCCUPAZIONE
La relazione tra disoccupazione e inflazione, conosciuta come Curva di Phillips, ha un ruolo centrale nel pensiero
economico
Osservazioni annuali per il tasso di disoccupazione e
di inflazione per gli usa. Ogni simbolo corrisponde ad
un anno diverso.
I triangolini a dx rappresentano gli anni 30: alto tasso
di disoccupazione e inflazione vicino-sotto lo zero.
L’economia americana era caratterizzata da
recessione/depressione della crisi del 29.
Tassi disoccupazione È, tassi di inflazione Ç
Nel capitolo precedente abbiamo ricavato che:
Sostituendo il salario nominale nella seconda equazione con la sua espressione nella prima, abbiamo:
P = Pe (1+m)F(u,z)
tpetvvtpiimprese)
tu / Wdp
Un aumento del livello atteso dei prezzi conduce ad un aumento dei salari nominali, che a sua volta porta le imprese
ad aumentare i prezzi. Un aumento del tasso di disoccupazione porta a una riduzione dei salari nominali, che a sua
volta porta le imprese a diminuire i prezzi. Ci sarà utile assumere una specifica forma funzionale per la funzione F:
F(u,z) = 1 – αu + z
tu / W
tztw
Questa funzione esprime l’idea che, quanto maggiore è il tasso di disoccupazione, tanto minore è il salario e, quanto
maggiore è z, tanto maggiore è il salario. Il parametro α (costante) esprime l’ampiezza dell’effetto della
disoccupazione sul salario== sensibilità dei salari ai tassi di disoccupazione. Sostituendo F con questa specifica forma
funzionale nell’equazione sopra otteniamo:
P = Pe (1+m) (1 – αu + z)
2
Ad
88
Questo ci dà una relazione tra il livello dei prezzi, il livello atteso dei prezzi e il tasso di disoccupazione. Il passo
successivo sarà derivare una relazione tra l’inflazione con π e l’inflazione attesa con π e . Possiamo riscrivere
l’equazione nel seguente modo:
π = πe + (m + z) – αu
Nota bene → d’ora in avanti semplifichiamo la lettura, dicendo inflazione al posto di tasso di inflazione e
disoccupazione al posto di tasso di disoccupazione.
Ricavare tale equazione non è difficile ma noioso, per vedere tutto il procedimento si guardi l’appendice. L’importante
è comprendere ciascuno degli effetti:
x
Un aumento dell’inflazione attesa porta ad un aumento dell’inflazione effettiva. Per capirlo, occorre osservare
l’equazione precedente. Un aumento del livello atteso dei prezzi Pe , porta a un aumento uno a uno del livello
effettivo dei prezzi P: se chi fissa i salari si aspetta un maggior livello dei prezzi, richiederà un maggior salario
nominale determinando, di conseguenza un aumento del livello effettivo dei prezzi. Si noti che, dato il livello
dei prezzi del periodo precedente, un maggiore livello dei prezzi nel periodo corrente significa un maggior
tasso di crescita del livello dei prezzi rispetto allo scorso periodo, cioè un’inflazione maggiore. Analogamente,
dato il livello dei prezzi dello scorso periodo, prezzi attesi più elevati significano un maggior tasso di crescita
del livello atteso dei prezzi rispetto allo scorso periodo, cioè una maggiore inflazione attesa.
x
Data l’inflazione attesa πe , un aumento del markup (m) scelto dalle imprese o un aumento dei fattori che
influiscono sulla determinazione dei salari (z), porta ad un aumento dell’inflazione π.
x
Data l’inflazione attesa πe , un aumento del tasso di disoccupazione u, porta a una riduzione dell’inflazione π.
Manca ancora un passaggio prima di tornare alla discussione della curva di Phillips: nel resto del capitolo, nel
considerare le variazioni dell’inflazione e della disoccupazione, sarà spesso utile usare degli indici temporali per
riferirci a variabili come l’inflazione, l’inflazione attesa e la disoccupazione in un dato anno. Pertanto, riscriviamo
l’equazione:
πt = πe t + (m + z) – αut
Non ci sono indici temporali per m e z perché sebbene possano variare nel tempo, lo fanno molto lentamente,
specialmente in paragone a inflazione e disoccupazione. Perciò, per il momento, le trattiamo come delle costanti.
2. LA CURVA DI PHILLIPS E LE SUE RIFORMULAZIONI
2.1 LA PRIMA FORMULAZIONE ĺ
Iniziamo con la relazione tra disoccupazione e inflazione, nella formulazione scoperta in origine da Phillips, Samuelson
e Solow intorno al 1960.
Assumiamo che l’inflazione fluttui di anno in anno intorno a un certo valore π*. Assumiamo inoltre che l’inflazione non
sia persistente, così che l’inflazione quest’anno non sia un buon indicatore dell’inflazione l’anno prossimo. Questa, in
realtà, è una buona caratterizzazione del comportamento dell’inflazione nel periodo studiato da Phillips, Solow e
Samuelson. Ha senso, quindi, in fase di determinazione salariale, qualunque fosse l’inflazione lo scorso anno,
assumere che l’inflazione quest’anno sia semplicemente uguale a π*. E così, πeAHt = π*. Perciò, la nostra equazione
diventa:
πt = π* + (m+z) – αut
⑧3 89
E’ questa la curva di Phillips nella sua formulazione originaria.
Dovremmo quindi osservare una relazione negativa tra disoccupazione e inflazione. Questo fu precisamente quello
che rilevò Phillips nel Regno Unito e gli altri due Negli USA.
Dopo il 65 il tasso di disoccupazioen
scende molto, ma il tasso di inflazione
tende ad aumentare. Del 1969: u=3.4%,
inflazione=5.5%--> da un anno all’altro il
livello generale dei prezzi è aumentato
del 5.5%
1961: u=6.8%, inflazione1%
Costante declino del tasso
disoccupazione negli usa negli anni 60,
crescita moderata del tasso d’inflazione.
Nota bene → quando la disoccupazione è elevata, l’inflazione è bassa, persino negativa a volte. Quando la
disoccupazione è bassa, l’inflazione è positiva.
2.2 L’APPARENTE TRADE – OFF E LA SUA SCOMPARSA ĺ
quando questi risultati furono pubblicati, sembrò che i policy maker dovessero giungere a un trade-off tra inflazione e
disoccupazione. Il costante declino della disoccupazione statunitense negli anni 60 è stato associato ad un aumento
costante dell’inflazione, in altre parole l’economia statunitense si è spostata lungo la curva di Phillips. Tuttavia, dal
1970 in poi la relazione tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione venne meno (crisi petrolifere che hanno spinto
le aziende ad aumentare il markup). Perché la curva di Phillips originaria è scomparsa?
9 Il tasso di inflazione divenne più persistente (se oggi osservo che infl è positiva con un certo valore, mi aspetto
che domani sia ancora positiva e possa essere costante o maggiore)
9 Divenne più probabile che un’elevata inflazione in un anno fosse seguita da elevata inflazione l’anno
successivo
9 Individui e imprese iniziarono a tenere conto della persistenza dell’inflazione (probabile che un’elevata
inflazione nell’anno t, sia seguita da alta inflazione nell’anno dopo)
9 Il meccanismo di formazione delle aspettative cambiò, alterando la relazione stessa tra inflazione e
disoccupazione
inflazione: misura velocità con cui il livello generale dei prezzi
cresce nel tempo.
Variazione dell’inflazione: Crescono e accelerano..
\
Mutazioni successive della curva dipendono da come gli
agenti cambiano le loro ASPETTATIVE
Perché cambiò il modo di formulare le aspettative sull’inflazione in fase di determinazione salariale. A sua volta,
questo cambiamento fu il risultato di un cambiamento nel comportamento dell’inflazione. Il tasso di inflazione
divenne più persistente, così che divenne più probabile che elevata inflazione in un anno fosse seguita da elevata
inflazione nell’anno successivo. Supponiamo che le aspettative si formino in base alla relazione seguente:
π e t = (1 – θ)π* +θπt-1
θ: TETA
4
Ht
go
A parole: l’inflazione attesa quest’anno dipende in parte da un valore costante π*, con peso (1 – θ), e in parte
dall’inflazione effettiva dello scorso anno, che denoteremo con πt-1 con peso θ. Quanto più è maggiore θ, tanto più
l’inflazione passata spinge i lavoratori e le imprese a rivedere le proprie aspettative sull’inflazione futura, e quindi
tanto maggiore sarà l’inflazione attesa. Possiamo, quindi, pensare a quanto è accaduto dal 1970 in poi come a un
progressivo aumento del valore di θ. Concentriamoci ora sulle conseguenze di valori diversi di θ sulla relazione tra
inflazione e disoccupazione. Partiamo sostituendo πe t con l’equazione appena trovata nell’equazione evidenziata in
azzurro:
x
Quando θ è uguale a zero, otteniamo la curva di Phillips originaria= Se l’inflazione è bassa e non persistente, è
ragionevole pensare che T = 0 e che quindi l’inflazione attesa sia costante.
x
Quando θ è positivo, il tasso di inflazione dipende non solo dal tasso di disoccupazione ma anche dal tasso di
inflazione dell’anno precedente= . n influenza la variazione del tasso d' inflazione@
-
Quando θ è uguale a 1= Se l’inflazione è alta e persistente, T = 1, come accadde a partire dagli anni Settanta
negli Stati Uniti. l’equazione di offerta aggregata (spostando il tasso di inflazione dell’anno precedente sul lato
sinistro dell’equazione) diventa:
u moderata
u elevata
πt – πt-1 = (m + z) – αut
tl crescente
E decrescente
Quindi, quando θ è uguale a 1, il tasso di disoccupazione non influenza il tasso di inflazione, ma piuttosto la variazione:
⑦una disoccupazione elevata comporta un’inflazione decrescente; una disoccupazione moderata comporta
un’inflazione crescente; Questa relazione ci viene mostrata nella figura sotto. Per distinguerla dalla curva di Phillips
originaria, l’equazione è spesso chiamata curva di Phillips modificata, curva di Phillips corretta per le aspettative
oppure curva di Phillips accelerata (per indicare che un basso tasso di disoccupazione fa aumentare il tasso di
inflazione e quindi provoca un’accelerazione del
livello dei prezzi).
x
Questo consente di comprendere quanto accaduto
dal 1970 in poi. Con l’aumento di θ da 0 a 1, la
semplice relazione tra disoccupazione e inflazione
individuata da Phillips ha perso la
sua validità ed è scomparsa.
Retta di regressione (quella obliqua): tra tasso u e
variazione di inflazione, relazione negativa
5
@
91
3. LA CURVA DI PHILLIPS E IL TASSO NATURALE DI DISOCCUPAZIONE
aEszoasE§Egeeesoz
Ios↳_-oosogzEEoEE
⇐
La storia della curva di Phillips è strettamente collegata alla scoperta del concetto di tasso naturale di disoccupazione.
La curva di Phillips originaria implicava l’assenza del tasso naturale di disoccupazione: se le autorità di politica
economica fossero state disposte a tollerare un tasso di inflazione maggiore, avrebbero potuto mantenere un ridotto
tasso di disoccupazione per sempre. E, come abbiamo visto, questa considerazione sembrò corretta negli anni 60.
Tuttavia, alla fine degli anni 60, quando la curva di Phillips originaria forniva ancora una buona descrizione dei dati,
due economisti (Friedman e Phelps) si interrogarono sull’esistenza di un trade-off tra disoccupazione e inflazione. Essi
affermarono che tale trade-off poteva esistere solo in presenza di una sottostima sistematica dell’inflazione nella
determinazione dei salari e che una una situazione del genere non poteva continuare a lungo. Essi sostenevano anche
che, se il governo avesse tentato di sostenere un’occupazione elevata, accettando una maggiore inflazione, il trade off
alla fine sarebbe scomparso e il tasso di disoccupazione non sarebbe sceso al di sotto di un certo livello detto tasso
naturale di disoccupazione.
Cerchiamo di esplicitare la relazione tra la curva di Phillips e il tasso naturale di disoccupazione.
Ripartiamo dalla seguente equazione → πt = πe t + (m + z) – αun
Imponendo la condizione di uguaglianza tra inflazione effettiva e attesa (π=πe ) otteniamo: 0 = (m + z) – αut
Risolvendo per il tasso naturale, otteniamo: un = m+z/α
Quanto più è elavato il markup o gli altri fattori che influiscono sulla determinazione,
tanto maggiore è il tasso naturale di disoccupazione.
Un
Riscriviamo ora l’equazione come:
e
πt – π t = – α(ut – (m+z/α))
Nell’equazione, la frazione sul lato destro è uguale a un, perciò possiamo riscrivere
l’equazione nel seguente modo:
πt – π e t = – α(ut – un)
Se, come sembra essere il caso degli USA, il tasso atteso di inflazione πe è ben
approssimato dal tasso di inflazione dell’anno precedente πt-1, la relazione diventa:
πt – πt-1= – α(ut – un)
se ut > un , allora πt <πt-1 Æ disinflazione
se ut < un , allora πt >πt-1 Æ aumento dell’inflazione
Questa equazione, è importante per due motivi:
x
Ci permette di pensare alla curva di Phillips in modo diverso, come a una relazione tra tasso effettivo di
disoccupazione, ut e tasso naturale di disoccupazione, un e variazione del tasso di inflazione → la variazione
dell’inflazione dipende dalla differenza tra tasso effettivo e tasso naturale di disoccupazione. Per esempio,
Quando il tasso effettivo di disoccupazione eccede il tasso naturale, l’inflazione diminuisce.
x
L’equazione ci fornisce un modo alternativo di pensare al tasso naturale di disoccupazione → è il tasso di
disoccupazione che mantiene costante l’inflazione. Per questo il tasso naturale è anche chiamato tasso di
disoccupazione non inflazionistico o Nairu (non accelerating inflation rate of unemployment).
⑧
6
gz
4. UN RIASSUNTO E NUMEROSI AVVERTIMENTI
Riassumiamo quanto abbiamo imparato finora:
x
Il legame tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione negli Stati Uniti oggigiorno è ben descritto
dall’ultima equazione individuata.
x
Generalmente, quando il tasso di disoccupazione è maggiore del tasso naturale di disoccupazione, il tasso di
inflazione si riduce. Al contrario, quando il tasso di disoccupazione è minore del tasso naturale di
disoccupazione, il tasso di inflazione aumenta.
Ut > Un
Tito
Adesso prendiamo in considerazione una serie di avvertimenti. Tutti hanno una cosa in comune: la relazione tra
inflazione e disoccupazione può variare ed effettivamente varia tra paesi e negli anni.
4.1 VARIAZIONI DEL TASSO NATURALE DI DISOCCUPAZIONE TRA PAESI ĺ
il tasso naturale di disoccupazione dipende da tutti i fattori rilevanti nella determinazione dei salari, ovvero la variabile
z e la variabile m la risposta dell’inflazione alla disoccupazione α. Qualora questi fattori fossero differenti tra paesi, non
avremmo ragione di aspettarci che il tasso naturale sia lo stesso tra i diversi paesi. Per esempi, il tasso di
disoccupazione nell’Eurozona è stato in media del 10% dal 1990 ad oggi. Un elevato tasso di disoccupazione per
qualche anno può riflettere deviazioni della disoccupazione dal tasso naturale. un’elevata disoccupazione per 25 anni,
accompagnata da un’inflazione stabile, riflette sicuramente un elevato tasso naturale di disoccupazione. Questo ci
suggerisce che, per spiegare differenze dei tassi naturali di disoccupazione tra paesi, è necessario analizzare i fattori
che influenzano la determinazione dei salari e dei prezzi.
-
Alcuni paesi europei registrano tassi di disoccupazione (a tassi di inflazione stabili) più bassi rispetto agli Stati Uniti:
‡
Olanda e Svezia.
Altri invece registrano una disoccupazione elevata:
‡
Finlandia e Francia.
Possibile spiegazione: un elevato tasso di disoccupazione riflette un altrettanto elevato tasso naturale di
disoccupazione e non uno scostamento del tasso di disoccupazione dal tasso naturale.
Infatti, m e z potrebbero variare tra paesi e, con essi, il tasso naturale.
Gli economisti quando parlano di “rigidità del mercato del lavoro” che affligge l’Europa, di solito, si riferiscono:
9 a un generoso sistema di sussidi di disoccupazione; (aumenta il salario di riserva)
9 a un elevato livello di tutela del lavoro; (aumenta il costo del licenziamento, riduzione assunzioni, aumenta
durata disoccupazione)
9 al minimo salariale; (aumenta rischio di disoccupazione per i lavoratori meno qualificati)
9 alle regole di contrattazione. (differenze di potere contrattuale dei sindacati e delle imprese)
4.2 VARIAZIONI DEL TASSO NATURALE DI DISOCCUPAZIONE NEL TEMPO ĺ
prima abbiamo considerato m e z come due variabili costanti nel tempo ma in realtà, non è così. Le variazioni del tasso
naturale di disoccupazione nel tempo sono difficili da misurare. La ragione sta semplicemente nel fatto che non siamo
in grado di osservare il tasso naturale di disoccupazione ma solo quello effettivo. Tuttavia, è possibile stabilire a grandi
linee l’evoluzione del tasso naturale confrontando i tassi medi di disoccupazione nel corso dei decenni. Le
determinanti del tasso naturale di disoccupazione sono numerose. Possiamo identificarne una grande parte, ma
conoscere il loro specifico ruolo e trarre suggerimenti per la politica economica non è per nulla semplice.
9 Abbiamo trattato sia z che il markup m come costanti, ma non c’è alcuna ragione per credere che siano
costanti nel tempo.
9 Il grado di potere monopolistico delle imprese, la struttura della contrattazione salariale, il sistema di sussidi di
disoccupazione ecc. cambiano nel tempo, facendo variare il tasso naturale di disoccupazione.
9 In altre parole, non c’è alcuna ragione per cui il tasso naturale di disoccupazione debba essere costante nel
tempo.
9 Tuttavia, identificare correttamente tutte le determinanti del tasso naturale di disoccupazione e trarne
suggerimenti per la politica economica non è affatto facile
7
Bg
}
4.3 INFLAZIONE ELEVATA E CURVA DI PHILLIPS ĺ
Avendo visto cosa è successo negli USA intorno agli anni 70, abbiamo imparato un’importante lezione ossia che la
relazione tra disoccupazione e inflazione tende a cambiare al variare del livello e della persistenza dell’inflazione.
Quando il tasso di inflazione diventa elevato, l’inflazione tende anche a risultare più variabile. Di conseguenza, i
lavoratori e le imprese sono più riluttanti a firmare contratti di lavoro che fissano i salari nominali per un lungo
periodo di tempo: se l’inflazione risultasse più alta del previsto, i salari reali scenderebbero e i lavoratori perderebbero
potere d’acquisto; se l’inflazione risultasse più bassa del previsto, i salari reali aumenterebbero, le imprese potrebbero
non essere in grado di pagare i lavoratori e rischierebbero di fallire. Per questo motivo, le condizioni delle
contrattazioni salariali cambiano al variare del livello di inflazione. I salari nominali vengono così fissati per periodi di
tempo più brevi, fino a un anno o un mese o anche meno.
L’indicizzazione dei salari, un meccanismo che adegua automaticamente i salari all’inflazione, diventa una condizione
imprescindibile. Consideriamo un’economia con due tipi di contratti di lavoro. Una proporzione°
λ di contratti è
indicizzata: i salari nominali fissati in essi si muovono alla stessa misura del livello effettivo dei prezzi. Una proporzione
(1 – λ) di contratti non è indicizzata: in essi, i salari nominali sono fissati sulla base dell’inflazione attesa. Sotto questa
o
ipotesi, abbiamo:
πt = (λπt + (1 – λ)πe t) – α(ut – un)
Se assumiamo che l’inflazione attesa quest’anno sia uguale all’inflazione dell’anno scorso otteniamo:
πt = (λπt + (1 – λ)πt-1) – α(ut – un)
Quando λ = 0, tutti i salari sono fissati sulla base dell’inflazione attesa (che è uguale a quella dell’anno scorso) e
l’equazione si riduce a:
πt – πt-1 = – α(ut – un)
Tuttavia, quando λ è positivo, una proporzione λ dei salari è fissata sulla base dell’inflazione effettiva e non di quella
attesa. Per valutarne le implicazioni, riorganizziamo la penultima equazione: spostiamo il termine tra parentesi (1 – λ)
a sx e dividiamo entrambi i lati per (1 – λ) per ottenere:
πt – πt-1 = – (α/1 – λ)(ut – un)
Proporzione di
contratti con
indicizzazione
Effetto del tasso di
sulla
fai disoccupazione
variazione di
a
L’indicizzazione dei salari aumenta l’effetto della disoccupazione sull’inflazione. Quanto maggiore è la proporzione di
contratti salariali che contiene un meccanismo di indicizzazione (ossia quanto maggiore è λ) tanto maggiore sarà
l’effetto del tasso di disoccupazione sulla variazione dell’inflazione, ossia quanto maggiore è il coefficiente (α/1 – λ).
Nota bene → senza indicizzazione salariale, una minor disoccupazione fa aumentare i salari, determinando a sua volta
un aumento dei prezzi. Ma poiché i salari non rispondono direttamente ai prezzi, nel corso dell’anno non c’è ulteriore
aumento dei prezzi. In presenza di indicizzazione salariale, invece, un aumento dei prezzi porta un ulteriore aumento
dei prezzi e così via, cosicché l’effetto della disoccupazione sull’inflazione nel corso dell’anno è maggiore. Se λ si
avvicina a 1 (cioè quando la maggior parte dei contratti di lavoro prevede l’indicizzazione salariale) allora anche
piccole variazioni della disoccupazione possono portare a variazioni molto ampie dell’inflazione. In altre parole,
possono verificarsi ampie variazioni dell’inflazione associata a variazioni quasi nulle della disoccupazione.
8
£4
risultato di questa rincorsa: consistente inflazione dei
prezzi e dei salari. Come se sfuggisse la situazione di
mano
4.4 DEFLAZIONE E CURVA DI PHILLIPS ĺ
per tassi di inflazione molto bassi o negativi, la relazione di Phillips sembra indebolirsi. Durante la Grande Depressione,
tassi di disoccupazione molti alti generarono una deflazione piuttosto limitata (vedi pag. 224).
9 In presenza di un elevata disoccupazione ci aspetteremo quindi una forte deflazione
9 Tuttavia, durante la Grande Depressione degli anni Trenta, un’elevata disoccupazione fu accompagnata
solamente da qualche episodio di moderata deflazione. Perché?
9 Una ragione è che la Grande Depressione portò con sé anche un aumento del tasso naturale di
disoccupazione
9 Una seconda ragione è che in episodi di deflazione la curva di Phillips non vale più (o vale meno),
probabilmente a causa della riluttanza dei lavoratori ad accettare riduzioni dei propri salari nominali
9 Questo ragionamento può essere applicato anche alla crisi recente
9
0095
PERCHÉ LA DEFLAZIONE È UN MALE?
-
Prima di tutto, se i prezzi calano significa che tendenzialmente caleranno anche gli stipendi e i salari, anche se
non quelli dei lavoratori protetti da contratti collettivi. Scenderanno quelli degli autonomi, dei commercianti e
dei professionisti.
-
Inoltre, in caso di lunghi periodi di deflazione pronunciata, si crea un disincentivo a spendere. Perché
comprare un televisore oggi quando tra tre mesi costerà molto meno? Oppure, perché fare un costoso
investimento nella propria azienda, quando si può aspettare ancora un po' per farlo a prezzi più vantaggiosi?
Cosi le spese vengono rimandate, causando ulteriore deflazione, che a sua volta disincentiva ancora di più
consumi e investimenti.
-
L’altro problema della deflazione è che non fa calare gli interessi sul debito, che in genere sono fissi e stabiliti
all’inizio del contratto. La deflazione non favorisce i debitori mentre favorisce i creditori, all’opposto
dell’inflazione.
-
In un periodo di deflazione, i prezzi e i salari tendono a ridursi, ma le rate che bisogna pagare sul proprio
mutuo\debito restano stabili. È un problema in particolare per il più grand debitore di tutti, lo stato
distribuzione delle variazioni nei salari in Portogallo, in tempi di alta
inflazione (riquadro sopra) e bassa inflazione (inferiore)
il punto principale di questo capitolo è : una bassa disoccupazione fa aumentare l’inflazione, ma questa relazione
dipende molto da come le persone e le imprese formulano le loro aspettative
Mi
10
96
Capitolo 9 – DAL BREVE AL MEDIO PERIODO: IL MODELLO IS-LM-PC
1. IL MODELLO IS-LM-PC
Il modello IS-LM-PC mette insieme il breve e il medio periodo. Nel capitolo 6 abbiamo presentato il modello IS-LM che
analizza congiuntamente il mercato dei beni e i mercati finanziari nel breve periodo.
Nel capitolo 8 abbiamo analizzato il mercato del lavoro e abbiamo presentato la curva di Phillips che mette in
relazione l’inflazione e la disoccupazione.
Mettiamo ora tutto insieme.
In precedenza, abbiamo derivato la seguente equazione che descrive il comportamento della produzione nel breve
periodo:
Il modello IS-LM è caratterizzato dalle relazioni IS e LM:
Relazione IS:
Y = C(Y – T) + I(Y, r + x) + G
Relazione LM: r = r*
in economia chiusa
La curva di Phillips è rappresentata dalla seguente relazione:
S – Se = – α(u – un)
Ut Un 1T >delle aspettative
Quando il tasso di disoccupazione è al di sotto del suo livello naturale, l’inflazione risulta essere maggiore delle
aspettative. Quando il tasso di disoccupazione è al di sopra del suo livello naturale, l’inflazione risulta essere minore
delle aspettative. Dobbiamo scrivere la curva di Phillips in termini della produzione e non in termini della
disoccupazione. Consideriamo la definizione del tasso di disoccupazione: è il rapporto tra il numero di disoccupati e le
forze lavoro.
Il primo passo sarà quello di riscrivere la curva di Phillips in termini del livello della produzione, invece che del tasso di
disoccupazione.
Nel breve periodo la produzione è determinata dalla domanda. La domanda è data dalla somma di consumo,
investimento e spesa pubblica. Il consumo dipende dal reddito disponibile, che è pari al reddito al netto delle imposte.
l’investimento dipende dalla produzione e dal tasso reale sui prestiti. Quest’ultimo è il tasso di interesse reale
rilevante per le decisioni di investimento ed è pari alla somma del tasso reale di policy r, scelto dalla banca centrale, e
del premio per il rischio x. La spesa pubblica è esogena (non dipende dalle variabili presenti nel modello).
-
Sia U la disoccupazione, N l’occupazione e L le forze di lavoro:
u
U
L
→
disoccupazione
L N
L
N
1
L
→
occupazione
→
forze di
lavoro
L’occupazione è uguale alle forze di lavoro moltiplicate per 1 meno il tasso di disoccupazione:
N = L (1 – u)
L’occupazione è uguale alla dimensione delle forze lavoro moltiplicate per 1 meno il tasso di disoccupazione.
Cerchiamo ora di collegarci alla produzione e per farlo manteniamo la stessa ipotesi che abbiamo fatto nel capitolo 7,
cioè che la produzione è semplicemente uguale all’occupazione:
ut-umbnm-LG.vn)
Y = N = L (1 – u)
↳ 4m11s
-
un)
Quando il tasso di disoccupazione è pari al tasso naturale l’occupazione è data dall’occupazione naturale Nn = L(1 – un)
e la produzione è uguale alla produzione naturale (o potenziale) Yn = L(1 – un) . Abbiamo ora tutto quello che ci serve
per poter esprimere le deviazioni del tasso di disoccupazione dal suo livello naturale in termini della produzione:
Y – Yn = L((1 – u) – ( 1 – un)) = –L(u – un)
differenza tra produzione corrente e potenziale
Questo ci offre una semplice relazione tra le deviazioni della produzione dal suo livello potenziale e le deviazioni della
disoccupazione dal suo livello potenziale. La differenza tra produzione e produzione potenziale è chiamata output gap.
Quando il tasso di disoccupazione è al suo livello naturale, la produzione è al suo livello potenziale e l’output gap è pari
a zero. Quando il tasso di disoccupazione è al di sopra del suo livello naturale, la produzione è inferiore al suo livello
00Mt Un → Y=Ym →
-_
• Ut > Un →
YLYM
→
UTCUM
Y > yn
→
•
→
OUTPUTGAP
=D
OUTPUTGAP
LO
OUTPUTGAP
>o
11
Iga
potenziale e l’output gap è negativo. Quando il tasso di disoccupazione è al di sotto del suo livello naturale, la
produzione è superiore al suo livello potenziale e l’output gap è positivo. Sostituendo (u – un) all’interno della curva di
Phillips, otteniamo:
S – Se = (α/L)(Y – Yn)
Pil scende sotto livello potenziale, inflazione scende e viceversa
Ci siamo quasi. In precedenza, abbiamo visto come il modo in cui vengono formate le aspettative durante la
determinazione salariale sia mutato nel corso del tempo. In questo capitolo assumeremo che le aspettative siano
formate nel seguente modo: l’inflazione attesa per quest’anno è pari all’inflazione osservata lo scorso anno
(discuteremo in seguito cosa succede in presenza di ipotesi differenti sulle aspettative). In ogni caso, questa ipotesi
implica che la curva di Phillips sia data da:
A parole:
9 quando la produzione è superiore al suo livello potenziale, quando c’è quindi un output gap positivo,
l’inflazione aumenta. (sopra il tasso d’inflazione del periodo precedente)
9 Quando la produzione è al di inferiore al suo livello potenziale, quindi quando c’è un output gap negativo,
l’inflazione diminuisce. (sotto il tasso d’inflazione del periodo precedente)
La relazione positiva tra produzione e variazioni dell’inflazione è rappresentata dalla curva con pendenza positiva
nel riquadro inferiore. Quando la produzione è al suo livello potenziale, cioè quando l’output gap è nullo, la
variazione dell’inflazione è nulla. Per questa ragione la curva di Phillips interseca l’asse orizzontale nel punto in cui
la produzione è uguale al suo livello potenziale.
quando tasso di inflazione ancorato, inflazione può stare sopra
o sotto l’obiettivo:
- Output gap positivo: sopra obiettivo
- Output gap negativo: sotto obiettivo
Con le nostre equazioni, siamo pronti per descrivere cosa accadrà all’economia nel breve e nel medio periodo.
1^ figura: is decrescente, lm fissata da bc orizzontale. A:
equilibrio quando r è =a quello fissato dalla banca centrale
2^ figura: variazione % annuale del tasso d’inflazione sulle
ordinate. All’ > output gap, inflazione >
Yn in corrispondenza dello zero (PIL= suo livello
potenziale)
Y> livello potenziale: curva cresce (inflazione aumenta)
Y< livello potenziale: inflazione diminuisce
A: tasso d’inflazione sta aumentandoÆ livello gnerale
dei prezzi aumenta e accelera
2. LA DINAMICA DI AGGIUSTAMENTO E L’EQUILIBRIO DI MEDIO PERIODO
Torniamo alla figura precedente. Supponiamo che la banca centrale adotti un tasso di policy pari a r. Il riquadro
superiore della figura ci dice che, in corrispondenza di questo tasso di interesse, il livello della produzione è pari a Y. Il
riquadro inferiore ci dice che questo livello della produzione implica una variazione dell’inflazione pari a π – π( –1).
12
Adios
Dato il modo in cui abbiamo disegnato la figura, Y è maggiore di Yn e quindi la produzione è al di sopra del suo livello
potenziale. Questo implica che l’inflazione è in aumento. In termini meno formali, diciamo che l’economia si sta
surriscaldando, mettendo pressione verso l’alto all’inflazione. Questo è l’equilibrio di breve periodo. Cosa succede con
il passare del tempo assumendo che non ci siano variazioni nel tasso di policy o nelle altre variabili che determinano la
posizione della curva IS? La produzione rimane al di sopra del suo livello potenziale e l’inflazione aumenta. A un certo
punto, tuttavia, è probabile che la politica economica reagisca a questo aumento dell’inflazione (aumento non è un
bene). Se ci concentriamo sulla banca centrale (politica monetaria), prima o poi essa aumenterà il tasso di policy
(prima che si destabilizzino le aspetattive) per riportare la produzione al suo livello potenziale ed eliminare la
pressione sull’inflazione. Il tasso di interesse in corrispondenza del quale la produzione è al livello potenziale e
l’inflazione costante è il tasso di interesse naturale. Nel medio periodo quindi la produzione torna al suo livello
potenziale.
Spiegazione con grafico (quello sopra): bisogna far in modo di < la produzione, spostiamo in alto la curva LM=
aumenta tasso policy. Se y va verso yn, la differenza dei pigreco è a 0
Il processo di aggiustamento e l’equilibrio di medio periodo sono rappresentati nella seguente figura.
Supponiamo che l’equilibrio iniziale sia in A, sia nel
riquadro superiore che in quello inferiore. Possiamo
immaginare che la banca centrale aumenti, dopo un certo
tempo, il tasso di policy e, come risultato, l’economia si
muove lungo la curva IS, dal punto A al punto A’. La
produzione diminuisce. Concentriamoci ora sul riquadro
inferiore. La diminuzione della produzione fa spostare
l’economia lungo la curva PC, da A a A’ . In corrispondenza del punto A’, il tasso
di policy è uguale a rn, la produzione è uguale a Yn e, di conseguenza,
l’inflazione è costante: questo è l’equilibrio di medio periodo. La produzione è al
suo livello potenziale e, quindi, non c’è alcuna pressione sull’inflazione, che
rimane quindi costante. Il tasso di interesse rn associato a Yn è spesso chiamato
tasso di interesse naturale. A volte, è anche chiamato tasso di interesse neutrale
o anche tasso di interesse di Wicksell.
In a’ il tasso d’inflazione è più alto
che in A, perché sulla curva
misuriamo la variaizone, non il
suo livello
Vediamo la dinamica di aggiustamento e l’equilibrio di medio periodo più attentamente. Potremmo avere la seguente
reazione alla descrizione che vi abbiamo offerto della dinamica di aggiustamento. Se la banca centrale vuole
mantenere l’inflazione stabile e il livello naturale della produzione Y n perché non aumenta il tasso di policy rn
immediatamente, in modo tale che l’equilibrio di medio periodo venga raggiunto senza ritardi? Infatti, la banca
centrale vorrebbe mantenere il livello della produzione pari a Y n. Tuttavia, sebbene appaia semplice, la realtà è più
complicata. Prima di tutto, è spesso difficile per la banca centrale sapere quale sia esattamente quale sia esattamente
il livello della produzione potenziale, e quanto la produzione attuale sia lontana dal suo potenziale.
-
La variazione dell’inflazione fornisce così un semplice segnale della dimensione dell’output gap, la distanza tra livello
attuale e potenziale della produzione, ma a differenza di quanto troviamo nell’ultima equazione evidenziata in viola
questo segnale non è così chiaro nella realtà. La banca centrale potrebbe quindi preferire un lento aggiustamento del
tasso di policy per vedere cosa succede nell’economia. In secondo luogo, la reazione dell’economia richiede tempo. Le
imprese hanno bisogno di tempo per aggiustare le proprie decisioni di investimento. La spesa per l’investimento
rallenta in risposta a un maggior tasso di policy, causando una diminuzione della domanda, della produzione e del
reddito, ma ci vuole tempo prima che i consumatori aggiustino il loro consumo alla riduzione del loro reddito, e ci
vuole altresì tempo prima che le imprese aggiustino il loro comportamento in risposta alla riduzione nelle vendite che
ne consegue. In altre parole, anche se la banca centrale reagisse tempestivamente, ci vorrebbe comunque tempo
13
B
99
prima che l’economia torni al livello naturale della produzione. Il fatto che sia necessario tempo prima che la
produzione ritorni al suo livello naturale solleva una questione riguardo l’inflazione. Durante il processo di
aggiustamento la produzione è costantemente al di sopra del suo livello potenziale, e così l’inflazione aumenta
costantemente. Di conseguenza, quando l’economia raggiunge il punto A’ l’inflazione è più elevata di quanto non
fosse in corrispondenza del punto A. se la banca centrale si preoccupasse non solo di ottenere un’inflazione stabile,
ma anche del livello dell’inflazione, potrebbe benissimo decidere non solo di stabilizzarla ma anche di ridurla. Per
farlo, dovrebbe aumentare il tasso di policy oltre rn per ottenere una riduzione del tasso di inflazione, fino a un rientro
a livelli considerati accettabili dalla banca centrale.
In questo caso, il processo di aggiustamento sarebbe più complicato. L’economia, partendo dal punto A, supererebbe
il punto A’ raggiungendo, per esempio, il punto C. A quel punto, la banca centrale comincerebbe a diminuire il tasso di
policy fino a rn. In altre parole, se la banca centrale volesse mantenere un costante livello di inflazione nel medio
periodo, l’espansione iniziale dell’economia dovrebbe essere seguita da una recessione. Facciamo due importanti
considerazioni:
se numeratore aumenta, il denominatore deve aumentare dello stesso tasso.
nel medio periodo la politica monetaria non ha effetto
2.1 UNA RIVISITAZIONE DELLE ASPETTATIVE ĺ
l’analisi condotta finora dipende Crucialmente dal modo in cui gli individui formano le loro aspettative e dalla forma
specifica della curva di Phillips. Per fare ciò, anziché assumere che l’inflazione attesa sia uguale a quella passata, π( –
1), assumiamo che gli individui si aspettino che l’inflazione sia uguale ad un certo valore costante, π*,
indipendentemente da quale fosse il valore dell’inflazione passata. Sotto questa ipotesi, avremo:
π – π* = (α/L)(Y – Y n)
9 In questo caso diciamo che le aspettative sono ancorate.
Per capire cosa succede in questo caso possiamo ancora fare riferimento alla figura precedente, eccetto che non
misureremo π – π(-1)
Ama sull’asse verticale ma π – π*. Un output gap positivo produce ora un maggior tasso di inflazione,
invece che un tasso di inflazione crescente. Supponiamo che l’economia si trovi nel punto A, in corrispondenza del
livello di produzione Y. Dato che la produzione è al di sopra del suo livello potenziale, l’inflazione è maggiore
dell’inflazione attesa cioè π – π* > 0. La banca centrale aumenta il tasso di policy per riportare la produzione al suo
livello naturale e l’economia si muove lungo la curva IS, dal punto A al punto A’. Quando l’economia raggiunge il punto
A’ e il policy rate è uguale a rn, la produzione è tornata al suo livello potenziale e l’inflazione torna ad essere pari a π*.
La differenza rispetto al caso in cui l’inflazione attesa era pari all’inflazione passata è chiara. Per tornare al tasso di
inflazione π*, non è necessario che la banca centrale aumenti il tasso di policy oltre r n, come era invece necessario
prima. In questo scenario, il lavoro della banca centrale è più semplice. Fino a che le aspettative sull’inflazione
rimangono ancorate, non è necessario che la banca centrale compensi la fase di espansione con una di recessione.
14
Minoo
2.2 LO ZERO LOWER BOUND E LA SPIRALE DEFLAZIONISTICA ĺ
consideriamo ora un altro caso rappresentato dalla
figura sotto.
In questo caso l’economia si trova in una fase di
recessione (pil significativamente più basso del
livello potenziale). In corrispondenza dell’attuale
tasso di policy r la produzione è pari a Y,
significativamente al di sotto del suo livello naturale
Y n. L’output gap è negativo e l’inflazione è in
diminuzione. Questo equilibrio iniziale si trova in
corrispondenza del punto A, sia nel riquadro superiore che in quello
inferiore della figura. La banca dovrebbe diminuire il tasso di policy fino
a che la produzione aumenti fino al suo livello potenziale. A livello
grafico, dovrebbe ridurre il tasso di policy da r a rn. Con un tasso di
policy pari a rn, la produzione è uguale a Yn e l’inflazione è nuovamente
stabile. Notate che, qualora l’economia fosse in forte recessione, il tasso
reale di policy necessario per riportare la produzione al suo livello
potenziale potrebbe benissimo essere negativo. Abbiamo disegnato la
figura sopra proprio per evidenziare questo scenario. La limitazione
imposta dallo zero lower bound potrebbe rendere impossibile per la
banca centrale raggiungere un tasso di policy reale negativo.
Ipotizziamo che il tasso di inflazione iniziale sia pari a zero. A causa dello zero lower bound, la banca centrale non può
portare il tasso di policy nominale sotto lo zero e, in presenza di inflazione nulla, questo implica un tasso di policy reale
pari a 0%. Con riferimento alla figura sopra, la banca centrale può ridurre il tasso di policy reale solo fino allo 0%, in
corrispondenza di un livello della produzione pari a Y’. In quel punto la produzione è ancora al di sotto del suo livello
potenziale e l’inflazione è quindi in diminuzione, facendo aumentare il tasso di policy reale. Un aumento del tasso di
policy reale aggrava ulteriormente la recessione. Questo dà inizio a quella che li economisti definiscono
spirale/trappola deflazionistica. Continuiamo ad assumere che le aspettative sull’inflazione si formino sulla base
dell’inflazione dell’anno precedente, così che un output gap negativo comporti un’inflazione in diminuzione. Se
inizialmente l’inflazione fosse stata zero, sarebbe diventata negativa. Così, un’inflazione nulla si tramuta in deflazione.
A sua volta, questo implica che, anche se il tasso di policy nominale rimane pari a zero, il tasso di policy reale aumenta,
portando persino a una minore domanda e una minore produzione. La deflazione e la ridotta produzione si
alimentano reciprocamente.
Una minore produzione conduce a più deflazione, e più deflazione conduce a un maggior tasso di interesse reale e a
una minor produzione. Come indicato dalle frecce della figura sopra, invece che convergere all’equilibrio di medio
periodo, l’economia si allontana
da esso: la produzione è in
costante diminuzione e la
deflazione diviene sempre più
significativa. c’è poco che la
banca centrale può fare, e lo
stato di salute dell’economia
non fa altro che peggiorare. (per
approfondire vedi pag. 240).
COMMENTO GRAFICO: valore
potenziale del pil sulla dx,
l’economia invece si trova
originariamente sul pt A (molto
al di sotto del valore potenziale, per farlo crescere dobbiamo fare una politica monetaria espansiva, <r). ci spostiamo
15
Benon
verso A’, ma, in teoria per spingere verso l’alto la produzione rn deve essere negativo, ma non si può fare per lo ‘0
lower bond
3. CONSOLIDAMENTO FISCALE: UNA RIVISITAZIONE
È giunto il momento di mettere alla prova il modello IS-LM-PC. In questo paragrafo esaminiamo l’operazione di
consolidamento fiscale che abbiamo visto nel capitolo 5. Analizziamo ora non solo gli effetti di breve periodo, ma
anche quelli di medio.
Supponiamo che l’economia si trovi al suo
livello potenziale in corrispondenza del punto
A, sia nel riquadro inferiore che in quello
superiore. La produzione Y è pari a Y n, il tasso
di policy è pari a rn e l’inflazione è stabile.
Supponiamo ora che il governo, il cui bilancio
era in disavanzo, abbia deciso di ridurlo
attraverso, ad esempio, un aumento delle
imposte. Come possiamo vedere dalla figura, nel breve periodo il
consolidamento fiscale porta a una riduzione della produzione nel breve
periodo (IS vs sx).se la produzione si trovava inizialmente al livello
potenziale, ora l’output gap è negativo, inflazione diminuisce. Nel breve
periodo, il consolidamento fiscale appare decisamente poco attraente: sia il
consumo sia l’investimento si riducono. Consideriamo, però, la dinamica di
aggiustamento e il medio periodo. Dato che la produzione è troppo bassa e
l’inflazione sta diminuendo, la banca centrale probabilmente interverrà
riducendo il livello di policy in modo da riportare la produzione al livello
potenziale. In termini della nostra figura, l’economia si muove verso il basso
lungo la curva IS nel riquadro superiore, e la produzione aumenta. Dato che la produzione aumenta, l’economia si
muove verso l’alto lungo la curva PC nel riquadro inferiore, fino a che la produzione non ritorna al suo livello
potenziale. Come risultato, l’equilibrio di medio periodo si trova in corrispondenza del punto A’’ sia nel riquadro
superiore che in quello inferiore della figura. La produzione torna a Y n e l’inflazione è nuovamente stabile. Il tasso di
policy necessario per mantenere la produzione la produzione al suo potenziale è ora minore e pari a r’n . Vediamo ora
la composizione della produzione in questo nuovo equilibrio. Dato che il reddito è lo stesso di prima del
consolidamento fiscale, ma le imposte sono maggiori, il consumo è minore (ma più alto rispetto al breve periodo).
Dato che la produzione è la stessa di prima, ma il tasso di interesse è minore, l’investimento è maggiore di prima del
consolidamento fiscale. Perciò la riduzione del consumo è bilanciata dall’aumento dell’investimento. Il massimo che
potremmo ottenere sarebbe un corretto mix tra politica monetaria e politica fiscale ma questo non è sempre possibile
→ per lo zero lower bound!
COMMENTO GRAFICO: modello IS-LM nel grafico sopra: nel breve periodo in pt A (equilibrio), curva LM= tasso naturale
rn. In A il livello del pil= livello potenziale (nel grafico sotto vedo che Y=Y’).
Governo > imposte (x risanare conti pubblici): curva is vs sx, IS’ e A’: tasso di interesse rn resta uguale e diminuisce
produzione d’equilibrio; sotto livello potenzialeÆ output gap negativo
Lungo la curva PC A’ il tasso d’inflazione È; per portare produzione al livello potenziale, bc È tasso d’interesse da rn a
rn’. Riduzione del tasso sufficiente per riportare la produzione, eliminando output gap e stabilizzando tasso d’inflazione.
16
Idun
GLI EFFETTI DI UN AUMENTO DEL PREZZO DEL PETROLIO
Finora abbiamo analizzato shock della domanda, cioè shock in grado di produrre uno spostamento della curva IS, ma
che lasciano invariate la produzione potenziale e, quindi, la posizione della curva PC. Esistono, tuttavia, anche altri tipi
di shock che producono un effetto sia sulla domanda che sul livello potenziale della produzione e che hanno un ruolo
centrale nelle fluttuazioni economiche. I movimenti nel prezzo del petrolio sono uno di questi shock. Il grafico sul libro
a pag. 244 riporta due serie storiche che riporta i prezzi del petrolio dal 1970 (in dollari e in termini reali). Bisogna notare
che il prezzo reale costruito dal libro è un numero indice, normalizzato a 100 nel 1970. Esso è misurato nell’asse verticale
destro. Quello che ci colpisce della figura è l’ampiezza delle fluttuazioni del prezzo reale del petrolio. In due occasioni
(negli ultimi 40 anni) il prezzo del petrolio, negli USA, è aumentato di 5 volte: negli anni 70 e duemila. Potremmo
chiederci cosa si nasconde dietro a questi due grandi aumenti. Negli anni 70, i fattori principali sono stati la formazione
dell’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), un cartello di produttori di petrolio che è stato in grado di
monopolizzare il mercato e aumentare i prezzi, e le interruzioni nella produzione a causa di guerre e rivoluzioni nel
medio-oriente. Negli anni duemila, il fattore principale è stato la forte crescita delle economie emergenti, in particolare
della Cina, che ha portato un rapido aumento della domanda mondiale di petrolio e, di conseguenza, a un costante
aumento del prezzo reale del petrolio. Cosa si nasconde, invece, dietro ai due grandi crolli del prezzo del petrolio degli
ultimi anni? Il rapido crollo del prezzo alla fine del 2008 è stato il risultato della crisi, che ha portato a una grave
recessione che, a sua volta, ha ridotto la domanda di petrolio. Le cause del più recente calo dal 2014 sono ancora
oggetto di dibattito. La maggior parte degli osservatori ritiene che sia dovuto alla combinazione di un aumento
dell’offerta di petrolio a causa dell’aumento della produzione di petrolio di scisto negli USA e della parziale rottura del
cartello Opec. Tornando agli aumenti di prezzi, ci chiediamo quali siano gli effetti di breve e medio periodo di tali
aumenti? È chiaro però che per poter rispondere a questa domanda ci troviamo di fronte a un problema: il prezzo del
petrolio non appare da nessuna parte nel nostro modello IS-LM-PC! La ragione è che, finora, abbiamo ipotizzato che la
produzione fosse realizzata utilizzando solamente il fattore produttivo lavoro. Un modo per estendere il nostro modello
sarebbe quello di riconoscere esplicitamente che la produzione è realizzata utilizzando sia lavoro che altri fattori;
successivamente, potremmo capire quale sarebbe l’effetto di un aumento del prezzo del petrolio sui prezzi stabiliti dalle
imprese e sulla relazione tra produzione e occupazione. Seguiremo qui una strada semplice: cattureremo l’effetto di un
aumento del prezzo del petrolio attraverso un aumento di m, il markup di prezzo sui salari nominali. La ragione è
semplice. Dati i salari, un aumento del prezzo del petrolio aumenta il costo di produzione, spingendo le imprese ad
aumentare i prezzi per mantenere lo stesso tasso di profitto. Sotto questa ipotesi, possiamo tracciare li effetti dinamici
di un aumento del markup sulla produzione e inflazione.
ti:&:: -1m
:
Hp turn
Dalla figura capiamo bene che un aumento del prezzo del petrolio è equivalente a un aumento del markup. Esso conduce
a salari reali più bassi e a un tasso naturale di disoccupazione maggiore. L’aumento del tasso naturale di disoccupazione
conduce, a sua volta, a una diminuzione del livello naturale di occupazione. Se assumiamo che la relazione tra
occupazione e produzione rimanga invariata (cioè che un’unità aggiuntiva di prodotto richieda ancora un lavoratore
aggiuntivo), allora la diminuzione del tasso naturale di occupazione porta a una pari diminuzione della produzione
potenziale.
Tuttavia, ci sono una serie di questioni importanti da considerare circa le ipotesi che abbiamo fatto. Ad esempio, la curva
IS potrebbe spostarsi perché un maggior prezzo del petrolio potrebbe portare le imprese a cambiare i loro piani di
investimento, annullando alcuni progetti e orientandosi verso l’acquisto di macchinari a minor consumo energetico.
17
BAO
3
L’aumento del prezzo del petrolio, inoltre, redistribuisce reddito da coloro che acquistano petrolio a coloro che lo
producono. Questi ultimi potrebbe spendere meno dei primi e ciò fa diminuire la domanda. Potrebbe benissimo essere
che la curva IS si sposti a sinistra portando a una diminuzione della produzione non solo nel medio periodo, ma anche
nel breve. Una seconda questione ha a che fare con l’evoluzione dell’inflazione. Notiamo che, fino a che la produzione
non diminuisce fino al suo nuovo livello naturale, l’inflazione continua ad aumentare. Così, quando l’economia raggiunge
il punto A’’ , l’inflazione è più alta di quanto non fosse prima dell’aumento del prezzo del petrolio. Se la banca centrale
vuole riportare l’inflazione al suo livello precedente, deve ridurre la produzione al di sotto del suo livello potenziale per
un po’. In questo caso, la riduzione della produzione durante il processo di aggiustamento sarà più grave della riduzione
dovuta al nuovo equilibrio di medio periodo. In termini più semplici, l’economia potrebbe affrontare una profonda
recessione, con una ripresa solo parziale. La terza questione si collega alla seconda e riguarda la formazione delle
aspettative sull’inflazione. Supponiamo che invece di avere un’inflazione attesa pari all’inflazione dell’anno passato, in
fase di determinazione salariale ci si attenda un tasso costante di inflazione. In questo caso una produzione al di sopra
del livello potenziale porta a un maggior tasso di inflazione piuttosto che a un’inflazione crescente. In questo modo,
quando la produzione diminuisce, ritornando al suo livello potenziale, anche l’inflazione diminuisce → in questo caso
l’intervento della banca centrale non è necessario!
-
Ci possono essere shock indipendenti dall’economia, come è stato il 2020 con il covid-19. La maggior parte delle imprese
per permettere il distanziamento, hanno fermato le loro lavorazioni. Ciò ha avuto grandi effetti su imprese e lavoratori.
Breve e medio periodo a confronto → effetti di schock o di cambiamenti della politica economica sono generalmente
diversi nel breve e nel medio periodo. Alcuni economisti ritengono che l’economia si sposti rapidamente verso il suo
equilibrio di medio periodo ed enfatizzano le implicazioni di medio periodo della politica economica. Altri ritengono che
18
Mona
il meccanismo sia più lento. Ad esempio, un’operazione di consolidamento non è il massimo per il breve periodo mentre
è più adeguata per il medio.
Shock e meccanismo di propagazione → questo capitolo ci ha fornito anche uno schema per pensare alle fluttuazioni
della produzione (detta anche ciclo economico) cioè a movimenti della produzione attorno al suo trend (vedremo il
significato di trend più avanti). Possiamo pensare all’economia come costantemente colpita da shock. Questi shock
potrebbe essere variazioni del consumo, variazioni dell’investimento… ogni shock ha degli effetti dinamici sulla
produzione e sui suoi componenti. Questi effetti dinamici sono definiti meccanismo di propagazione dello shock. Le
fluttuazioni economiche sono il risultato di un flusso continuo di shock dell’offerta aggregata o della domanda aggregata
e degli effetti dinamici di ciascuno di questi shock della produzione. A volte, tali shock sono sufficientemente negativi,
da soli o in combinazione ad altri, da condurre l’economia in recessione.
Il punto principale di questo capitolo è nel breve periodo, la domanda determina la produzione; nel medio periodo, con
l’aiuto della politica economica, la produzione ritorna al suo livello potenziale.
19
banos
Capitolo 10 – CRESCITA I FATTORI PRINCIPALI
La nostra percezione di come stia andando l’economia tende spesso a essere influenzata dalle fluttuazioni annuali
dell’attività economica. un’espansione infonde ottimismo, una recessione porta con sé malessere e disappunto. Ma
osservando l’attività economica su lunghi periodi (diciamo nel corso di molti decenni), il quadro cambia radicalmente.
Le fluttuazioni perdono importanza e la crescita (costante aumento della produzione aggregata nel tempo) diventa il
fattore dominante. L’evoluzione del PIL reale e del PIL reale pro capite italiani dal 1861 viene mostrato nella figura
sottostante. La scala usata per misurare il PIL nell’asse verticale della figura è chiamata scala logaritmica. In una scala
logaritmica lo stesso aumento proporzionale del valore di una variabile è rappresentato da segmenti della stessa
lunghezza sull’asse verticale. I due crolli della produzione italiana si trovano in corrispondenza della prima e della
seconda guerra mondiale. Inoltre si intravede una diminuzione anche con la crisi recente. Possiamo dire che questi 3
episodi sono del tutto irrilevanti rispetto al costante aumento della produzione che ha caratterizzato gli ultimi 50 anni.
Tenendo presente questi dati, spostiamo ora l’attenzione dalle fluttuazioni alla crescita. In altre parole, passiamo dallo
studio delle determinanti della produzione nel breve periodo e nel medio periodo – quando dominano le fluttuazioni
– alla determinazione della produzione nel lungo periodo – quando domina la crescita. Il nostro obiettivo è quello di
capire quali siano i fattori che determinano la crescita, perché alcuni paesi crescono ed altri no e perché alcuni di essi
sono ricchi e altri poveri.
La ragione per cui ci preoccupiamo della crescita è da ricondurre al nostro interesse per il tenore di vita. Osservando
anni differenti siamo interessati a sapere di quanto il tenore di vita sia aumentato con il passare del tempo. Osservando
paesi differenti, ci interessa sapere quanto sia maggiore il tenore di vita in un paese rispetto a un altro. In altre parole,
la variabile sulla quale ci concentriamo nel tempo e nello spazio è il PIL pro capite anziché quello aggregato. Però
abbiamo un problema pratico: come possiamo confrontare il prodotto pro capite tra paesi? Paesi diversi usano valute
diverse! Una soluzione potrebbe essere quella di usare i tassi di cambio ma questo semplice metodo non funziona per
due ragioni:
• Innanzitutto, i tassi di cambio possono variare molto, persino in brevi periodi di tempo. Per esempio, dall’estate del
2008, la sterlina è scesa del 30% rispetto al dollaro statunitense. Ma questo non significa che il tenore di vita nel Regno
Unito è diminuito del 30% rispetto agli USA e altri paesi europei nel corso dell’ultimo anno.
• La seconda ragione va ben oltre le fluttuazioni dei tassi di cambio. Nel 2006 il PIL pro capite in india, usando il tasso
di cambio corrente, era di 820 dollari, rispetto ai 40660 dollari nel Regno Unito. Nel Regno Unito non è possibile vivere
con 820 dollari all’anno ma in India sì (certo, non benissimo) in quanto i beni di prima necessità sono molto più bassi
rispetto al Regno Unito. Questa osservazione vale anche confrontando altri paesi: in generale, quanto minore è il livello
del prodotto pro capite in un paese, tanto minori saranno i prezzi dei beni alimentari e dei servizi essenziali di quel
paese. Per queste due ragioni, quando vogliamo confrontare il tenore di vita in paesi diversi, otteniamo comparazioni
più significative correggendo per i due effetti che abbiamo appena discusso → le fluttuazioni del tasso di cambio e le
differenze sistematiche dei prezzi tra paesi. Anche se il procedimento è complicato, il principio di costruzione è
semplice: nel misurare il PIL e quindi il PIL pro capite, si usa un insieme di prezzi comune per tutti i paesi. Questi dati
106
aggiustati del PIL reale, che possono essere considerate misure del potere d’acquisto nel corso del tempo o in paesi
diversi, sono detti parità dei poteri d’acquisto (Ppp). Concludiamo questo paragrafo con 3 osservazioni:
• Quello che conta per il benessere delle persone è il loro livello di consumo e non il loro reddito. Per questo motivo
potrebbe essere preferibile usare il consumo pro capite come misura del tenore di vita. Poiché il rapporto tra consumo
e reddito è abbastanza simile tra paesi, la graduatoria dei paesi è la stessa sia che usi il consumo pro capite sia che si
usi il prodotto pro capite.
• Consideriamo il lato della produzione: potremmo essere interessati alle differenze di produttività invece che alle
differenze del tenore di vita tra paesi. In questo caso, la misura appropriata è il prodotto per lavoratore, o meglio
ancora, il prodotto per ora lavorata. Nota bene → prodotto per lavoratore e prodotto per ora lavorata saranno diversi
nella misura in cui il rapporto tra il numero dei lavoratori rispetto alla popolazione è diverso tra pesi. Per esempio, i
lavoratori tedeschi sono più produttivi di quelli Statunitensi ma lavorano meno ore, cosicché il loro prodotto pro capite
e quindi tenore di vita) è inferiore.
• La ragione per la quale siamo interessati al tenore di vita è capire se gli individui sono felici. Il denaro può comprare
la felicità?
La tabella mostra l’andamento del prodotto pro capite in Francia, Giappone, Italia, Regno Unito e USA dal 1950.
Abbiamo scelto questi 5 paesi non solo perché oggi sono alcune tra le maggiori potenze economiche del mondo, ma
anche perché la loro esperienza è rappresentativa della storia dei paesi avanzati nel corso degli ultimi 50 anni. La
tabella suggerisce due conclusioni: 1. Si è registrato un forte aumento del Prodotto pro capite nel corso del tempo →
dal 1950 il PIL pro capite è aumentato di 3,3 volte, di 4,6 in Francia e di 11,3 in Giappone. Questi dati riflettono la forza
della capitalizzazione. Per esempio, reinvestendo gli interessi ogni anno con un tasso di interesse del 4% all’anno, un
investimento di 1 euro rende circa 11 euro dopo 61 anni. La stessa logica si applica ai tassi di crescita. 2. C’è stata
convergenza tra i livelli di prodotto pro capite di diversi paesi → dalla seconda e terza colonna emerge una tendenziale
convergenza dei livelli di produzione pro capite nel corso del tempo. I paesi ritardatari sono cresciuti più velocemente,
riducendo in tal modo il divario tra loro e la maggiore potenza economica mondiale, Gli USA. Un modo migliore per
analizzare la convergenza è definire un insieme di paesi, non sulla base della loro posizione attuale ma della loro
posizione in passato.
REGOLA DEL POLLICE
107
UNA PANORAMICA NEL TEMPO E NELLO SPAZIO
Scindiamo la nostra analisi in due paragrafi: tempo e spazio.
➔ Uno sguardo su due millenni. Dalla fine dell’impero romano fino a circa il 1500, In Europa si è registrata una crescita
del prodotto pro capite quasi nulla: la maggior parte dei lavoratori era impiegata in agricoltura, dove si verificava uno
scarso progresso tecnologico. Dato che la quota nell’agricoltura nella produzione era molto elevata, le invenzioni con
applicazioni al di fuori del settore agricolo contribuivano in misura limitata alla produzione aggregata. Nonostante ci
sia stata una modesta crescita della produzione, un aumento all’incirca proporzionale della popolazione ha portato a
un prodotto pro capite più o meno costante. Questo periodo di stagnazione, dove l’Europa era incapace di aumentare
il suo prodotto pro capite, è spesso chiamato era malthusiana (un economista chiamato T.R. Malthus sosteneva che
questo aumento proporzionale della produzione e della popolazione non erano una coincidenza. Ogni aumento della
produzione, secondo Malthus, porta a una riduzione della mortalità,e quindi a un aumento della popolazione fino a
quanto il prodotto pro capite non torna al suo livello iniziale). L’Europa è riuscita a uscire da questa trappola → dal
1500 al 1700 la crescita del prodotto pro capite è diventata positiva. A partire dalla rivoluzione industriale, i tassi di
crescita sono aumentati.
➔ Uno sguardo ai vari paesi. Abbiamo visto che i paesi Ocse sembrano convergere nel tempo, in termini di prodotto
pro capite. Ma cosa ne è degli altri paesi del mondo? Dalla figura possiamo trarre le nostre conclusioni. La convergenza,
oltre che per i paesi ricchi, è evidente anche per i paesi asiatici. Il Giappone è stato il primo a crescere e oggi registra il
più elevato reddito pro capite nel continente. Ma altri paesi asiatici si stanno avvicinando. A partire dal 1960, 4 paesi
(Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud → le 4 tigri asiatiche) hanno iniziato a crescere velocemente. Un paese
che negli ultimi tempi è cresciuto molto è la Cina (sia per via dei suoi tassi di crescita sia per la sua dimensione assoluta)
con un tasso medio di crescita del 5,2% nello stesso periodo. Tuttavia, poiché, è partita con livelli molto bassi, il suo
prodotto pro capite è ancora un 1/6 di quello degli USA. Il quadro è molto diverso per i paesi africani. Nel 1960, gran
parte dei paesi africani era molto povera e da allora molti hanno attraversato fasi di crescita negativa del prodotto pro
capite – un declino assoluto del loro tenore di vita. Molti dei paesi africani hanno sofferto economicamente per via di
numerosi conflitti esterni ed interni. Qualche speranza sta però arrivando dai dati recenti: la crescita del PIL nell’africa
sub-sahariana, la cui media era di solo 1,3% negli anni 90, si è lentamente avvicinato al 5,5% negli anni Duemila.
UNO SCHEMA INTRODUTTIVO PER PENSARE ALLA CRESCITA
Per studiare la crescita, gli economisti utilizzano uno schema logico sviluppato da Robert Solow Del Mit. Il punto di
partenza nella formulazione di una teoria della crescita deve essere una funzione di produzione aggregata. L’abbiamo
già incontrata in precedenza e abbiamo assunto che ci fosse un unico fattore produttivo. Adesso ne prendiamo in
considerazione due: Lavoro e capitale.
Y = F(K,N)
→ La produzione aggregata (Y) dipende dallo stock aggregato di capitale (K) e dall’occupazione aggregata (N) Pur
considerando due fattori produttivi e non più uno, è comunque un modello semplificato della realtà perché per
esempio macchinari e uffici hanno un ruolo diverso nella produzione e ci sono diversi tipi di lavoratori (specializzati o
meno). Che cosa determina l’ammontare di prodotto che può essere ottenuto date le qtà di capitale e lavoro? La
risposta è lo stato della tecnologia. Come potremmo definire lo stato della tecnologia? Dovremmo considerare lo stato
della tecnologia come l’insieme dei progetti che definiscono sia la gamma di beni che possono essere prodotti
nell’economia, sia le tecniche disponibili per produrli? O dovremmo interpretarlo in un senso più esteso come le
modalità attraverso cui l’economia è organizzata, includendo l’organizzazione delle imprese, le norme legislative e la
loro efficace applicazione, il clima politico, e così via? Nei prossimi 2 capitoli considereremo lo stato della tecnologia
come l’insieme dei progetti e delle tecniche disponibili. Ora che abbiamo introdotto la funzione di produzione
aggregata, la prossima domanda è: quali restrizioni dovremmo imporre a questa funzione? Consideriamo dapprima
un esperimento in cui raddoppiamo sia il numero dei lavoratori sia l’ammontare di capitale nell’economia.
Che cosa vi aspettate che succeda alla produzione?
Potremmo ragionevolmente supporre che la produzione raddoppierà → questa proprietà è chiamata rendimenti di
scala costanti (raddoppiando la scala di produzione anche il prodotto raddoppia). Più in generale, per ogni valore x:
xY=F(xK,xN) Abbiamo visto cosa succede quando entrambi i fattori produttivi aumentano, vediamo cosa succede
108
quando ne aumenta solo uno. Anche con rendimenti di scala costanti, ciascun fattore presenta rendimenti decrescenti,
a parità dell’altro fattore:
• Rendimenti decrescenti del fattore capitale: dato il lavoro, aumenti del capitale portano ad aumenti sempre più
piccoli della produzione.
• Rendimenti decrescenti del fattore lavoro: dato il capitale, aumenti del lavoro portano ad aumenti sempre più piccoli
della produzione.
Per la funzione di produzione che abbiamo presentato, le 2 proprietà appena illustrate comportano una semplice
relazione tra prodotto per lavoratore e capitale per lavoratore.
Poniamo x uguale a 1/N nell’equazione, cosicché:
Y/N = F(K/N, N/N) = F(K/N, 1)
Notiamo che Y/N è il prodotto per lavoratore e K/N è il capitale per lavoratore. Quindi l’equazione suggerisce che la
qtà di prodotto per lavoratore dipende dalla qtà di capitale per lavoratore. La relazione ci viene mostrata nella figura
sotto. C’è una curva crescente che ci dice che all’aumentare del capitale per lavoratore, anche il prodotto per
lavoratore aumenta però aumenti del capitale per lavoratore generano aumenti sempre più piccoli della produzione
per lavoratore, al crescere del livello di capitale per il lavoratore. Ora, possiamo tornare alla nostra domanda iniziale:
da che cosa è generata la crescita? Perché il prodotto per lavoratore – o il prodotto pro capite, se assumiamo che la
quota di lavoratori sulla popolazione totale rimanga più o meno costante nel tempo – aumenta nel corso del tempo?
l’ultima equazione che abbiamo ricavato prima ci fornisce una prima risposta:
• Aumenti del prodotto per lavoratore derivano da aumenti del capitale per la lavoratore.
• Gli aumenti del prodotto per lavoratore possono derivare anche da miglioramenti dello stato di tecnologia che
spostano verso l’alto la funzione di produzione e permettono di ottenere una maggior qtà di prodotto per lavoratore
con lo stesso capitale per lavoratore.
Nota bene → gli aumenti del capitale per lavoratore comportano movimenti lungo la funzione di produzione.
Miglioramenti dello stato di tecnologia comportano spostamenti della funzione di produzione.
Possiamo quindi pensare che le fonti di crescita siano costituite
dall’accumulazione del capitale e dal progresso tecnologico.
Vedremo, tuttavia, che questi due fattori hanno ruoli molto diversi
nel processo di crescita:
• L’accumulazione di capitale da sola non può sostenere la crescita
→ a causa dei rendimenti decrescenti del capitale. Tuttavia,
quando un paese risparmia è molto importante perché il tasso di
risparmio determina il livello del prodotto pro capite, ma non il suo
tasso di crescita.
• Una crescita economica sostenuta richiede un progresso
tecnologico sostenuto.
Il punto principale di questo capitolo è: su lunghi periodi di tempo, la crescita annulla le fluttuazioni. La (complessa) chiave per una
crescita sostenuta è il progresso tecnologico.
109
Capitolo 11 – RISPARMIO, ACCUMULAZIONE DI CAPITALE E PRODUZIONE
Alla base della determinazione della produzione nel lungo periodo ci sono due relazioni tra produzione e capitale:
• L’ammontare di capitale nell’economia determina il livello della produzione che è possibile ottenere → nel capitolo
precedente, quando abbiamo iniziato a studiare la prima di queste relazioni, l’effetto del capitale sulla produzione,
abbiamo introdotto la funzione di produzione aggregata e osservato che, nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti,
possiamo scrivere la seguente relazione tra produzione e capitale per lavoratore: Y/N=F(K/N,1) Il prodotto per
lavoratore (Y/N) è una funzione crescente del capitale per lavoratore (K/N). Sotto l’ipotesi di rendimenti decrescenti
del capitale, l’effetto di un dato aumento del capitale per lavoratore diventa sempre più piccolo all’aumentare del suo
livello iniziale. Quando il capitale è già molto elevato, ulteriori aumenti esercitano solo un modesto effetto sulla
produzione per lavoratore. Per semplificare la nostra notazione, sarà utile riscrivere la relazione tra produzione e
capitale per lavoratore: Y/N = f(K/N) dove la funzione f descrive la stessa relazione tra produzione e capitale per
lavoratore rappresentata dalla funzione
F: f(K/N) =F(K/N,1)
In questo capitolo, faremo due ipotesi. La prima è che la dimensione della popolazione, il tasso di partecipazione e il
tasso naturale di disoccupazione siano costanti. Conseguenza di questa ipotesi è che anche il numero di lavoratori, N,
lo sia. Per capire perché, pensiamo al fatto che le forze di lavoro sono uguali alla popolazione moltiplicata per il tasso
di partecipazione. Se la popolazione e il tasso di partecipazione sono costanti, le forze di lavoro sono anch’esse
costanti. L’occupazione è uguale alle forze lavoro moltiplicate per (1 – tasso di disoccupazione). Quindi se le forze
lavoro sono costanti e lo è anche il tasso di disoccupazione, allora anche l’occupazione è costante. Sotto queste ipotesi,
la produzione per lavoratore, pro capite e aggregata, variano in misura proporzionale. D’ora in avanti diremo capitale
e produzione al posto di dire capitale per lavoratore o produzione per lavoratore. Assumendo che N sia costante, ci
concentriamo su come l’accumulazione di capitale influenzi la crescita: se N è costante, il solo fattore di produzione
che varia nel tempo è il capitale. Questa ipotesi non è tuttavia realistica e la abbandoniamo più avanti. La seconda
ipotesi è che non ci sia progresso tecnologico di modo che la funzione di produzione f non cambi nel tempo. Questa
ipotesi ci permette di concentrarci sull’accumulazione di capitale ma non è comunque reale. Sotto queste ipotesi, la
nostra prima relazione tra produzione e capitale per lavoratore, dal lato della produzione, è data da: Y t /N= f(Kt/N)
dove abbiamo introdotto gli indici temporali per la produzione e il capitale (ma non per il lavoro N che per ipotesi è
costante e quindi non ha bisogno di alcun indice temporale). In altre parole, un maggior capitale per lavoratore porta
a un maggior prodotto per lavoratore.
• Il livello della produzione determina a sua volta il livello del risparmio e dell’investimento, e quindi l’ammontare di
capitale accumulato nel tempo → per derivare la seconda relazione tra produzione e accumulazione di capitale,
procediamo in 2 tempi: prima deriviamo la relazione tra produzione e investimento e poi la relazione tra investimento
e accumulazione di capitale. Cominciamo dal primo passo, assumendo 3 ipotesi.
La prima ipotesi che facciamo è che l’economia sia chiusa (I=S + (T-G)). Per concentrarci sul comportamento del
risparmio privato, assumiamo che il risparmio pubblico sia pari a zero (I=S) → l’investimento è quindi uguale al
risparmio privato. Assumiamo, infine, che il risparmio privato sia uguale al reddito (S=sY). Il parametro s è il tasso di
risparmio. Esso ha un valore compreso tra 0 e 1. Questa ipotesi descrive due caratteristiche importanti del risparmio:
la prima è che il tasso di risparmio pare aumentare o diminuire sistematicamente quando un paese diventa più ricco.
La seconda è che i paesi più ricchi non sembrano avere tassi di risparmio sistematicamente maggiori o minori degli
altri paesi. Combinando queste due relazioni e introducendo gli indici temporali, otteniamo una semplice relazione tra
investimento e produzione: It = sYt → l’investimento è proporzionale alla produzione: quanto maggiore è la
produzione, tanto maggiore è il risparmio e quindi tanto più alto è l’investimento. Il secondo passo mette in relazione
l’investimento, che è un flusso con il capitale che è uno stock. Assumiamo che il tempo sia misurato in anni e il capitale
sia misurato all’inizio di ogni anno. Assumiamo inoltre che il capitale si deprezzi ogni anno per un tasso δ (ogni anno
una porzione δ dello stock diventa inutilizzabile) . Allo stesso modo, una porzione (1 – δ) rimane intatta. L’andamento
dello stock di capitale è dato da: Kt+1 = (1-δ)Kt + It Possiamo ora combinare la relazione tra produzione e investimento
e la relazione tra investimento e accumulazione di capitale per ottenere la seconda relazione che ci serve per analizzare
110
la crescita: la relazione tra produzione e accumulazione di capitale. Sostituendo l’investimento con la sua espressione
precedente e dividendo per N, otteniamo:
Kt+1 /N= (1-δ)Kt/N + sYt/N
A parole: il capitale per lavoratore all’inizio dell’anno t +1 è uguale al capitale per lavoratore all’inizio dell’anno t,
tenuto conto del deprezzamento, più l’investimento per lavoratore effettuato nell’anno t, che a sua volta è uguale al
tasso di risparmio moltiplicato per il prodotto per lavoratore nell’anno t. Espandendo il termine
(1-δ)Kt/N a Kt/N – δKt/N,
spostando Kt/N sul lato sinistro dell’equazione e riordinando i termini, possiamo riscrivere l’equazione precedente
come:
Kt+1/N – Kt/N=sYt/N – δKt/N
A parole: la variazione dello stock di capitale per lavoratore (lato sinistro) è uguale al risparmio per lavoratore meno il
deprezzamento del capitale per lavoratore.
L’EFFETTO DI TASSI DI RISPARMIO DIFFERENTI
Dopo aver ricavato le equazioni evidenziate in azzurro(sono due importanti relazioni, in quanto la prima ci mostra dal
lato della produzione, in che modo il capitale la determini e la seconda ci dice, dal lato del risparmio in che modo la
produzione determini a sua volta l’accumulazione di capitale) siamo pronti a compiere il passo successivo. Dividiamo
la nostra analisi in 3 step:
1. La dinamica del capitale e della produzione. Sostituendo il prodotto per lavoratore (Y t/N) nella seconda
equazione con la prima, otteniamo:
Kt+1/N – Kt/N = sf(Kt/N) – δKt/N
(variazione del capitale da t a t+1 , investimento anno t, deprezzamento anno t). Questa relazione descrive cosa
succede al capitale per lavoratore: la sua variazione da un anno all’altro dipende dalla differenza tra due termini.
Il primo termine (quello in viola) è l’investimento per lavoratore. Il livello di capitale per lavoratore di un dato anno
determina la produzione per lavoratore di quell’anno. Dato il tasso di risparmio, il prodotto per lavoratore
determina l’ammontare di risparmio per lavoratore e quindi l’investimento per lavoratore di quello stesso anno.
Il secondo termine è il deprezzamento per lavoratore. Lo stock di capitale per lavoratore determina l’ammontare
del deprezzamento per lavoratore dell’anno in corso. Se l’investimento per lavoratore eccede il deprezzamento
per lavoratore, la variazione è positiva (esso aumenta) altrimenti è negativa. La prima equazione e questa che
abbiamo appena scritto contengono tutte le informazioni necessarie per comprendere la dinamica del capitale e
della produzione nel tempo. Il modo migliore per interpretare il tutto è attraverso un grafico.
Nella figura, il prodotto per lavoratore è misurato sull’asse
verticale e il capitale per il lavoratore sull’asse orizzontale.
Consideriamo innanzitutto la curva che descrive il prodotto per
lavoratore, f(K/N), come funzione del capitale del lavoratore. La
relazione è la seguente: il prodotto per lavoratore cresce
all’aumentare del capitale del lavoratore ma – a causa dei
rendimenti decrescenti del capitale – l’effetto è tanto minore
quanto più elevato è il livello di capitale per lavoratore.
Consideriamo ora le 2 curve che descrivono le 2 componenti sul
lato destro dell’equazione. La prima componente ha la stessa
forma della funzione di produzione, benché sia più bassa nella
misura del tasso di risparmio (s).
111
Supponiamo che nella figura il livello di capitale per lavoratore sia uguale a Ko/N. Il prodotto per lavoratore è dato
dalla distanza AB e l’investimento dalla distanza AC, che è pari a s volte la distanza AB. Quindi, proprio come il prodotto
per lavoratore, l’investimento per lavoratore cresce all’aumentare del capitale per lavoratore, ma in misura
decrescente man mano che quest’ultimo aumenta. Quando il capitale per lavoratore è già molto elevato, l’effetto di
un ulteriore incremento del capitale per lavoratore sulla produzione, e sua volta sull’investimento, è molto piccolo. La
seconda componente è rappresentata da una linea retta. Esso aumenta in proporzione al capitale per lavoratore.;
perciò la relazione è rappresentata da una retta con inclinazione pari a δ. Al livello di capitale per lavoratore Ko/N, il
deprezzamento è dato dalla distanza AD. La variazione di capitale per lavoratore è data dalla differenza tra
investimento e deprezzamento per lavoratore. Al livello K0/N essa è positiva e è rappresentata dalla distanza CD=ACAD, cosicché il capitale per lavoratore aumenta. Muovendosi verso destra lungo l’asse orizzontale e guardando a livelli
di capitale per lavoratore sempre più elevati, l’investimento aumenta sempre meno, mentre il deprezzamento
continua ad aumentare in proporzione al capitale. Per un livello del capitale per lavoratore pari a K*/N (nella figura),
l’investimento è appena sufficiente a coprire il deprezzamento e il capitale per lavoratore rimane costante. Alla sinistra
di K*/N, l’investimento eccede il deprezzamento e il capitale per lavoratore aumenta. Ciò è rappresentato dalle frecce
che puntano verso sinistra lungo la curva che descrive la funzione di produzione. A questo punto è facile caratterizzare
l’evoluzione del capitale per lavoratore e del prodotto per lavoratore nel tempo. Si consideri un’economia che inizia
con un basso livello di capitale per lavoratore per esempio K0/N (nella figura) poiché in questo punto l’investimento
eccede il deprezzamento il capitale per lavoratore aumenta. Inoltre, poiché la produzione varia con il capitale, anche
il prodotto per lavoratore aumenta. Alla fine il capitale per lavoratore raggiunge K*/N, il livello in corrispondenza del
quale l’investimento è pari al deprezzamento. Una volta raggiunto tale livello K*/N, il prodotto per lavatore e il capitale
per lavoratore rimangono costanti rispettivamente a Y*/N e K*/N, i loro livelli di equilibrio di lungo periodo. Si pensi
ad un paese che ha perso parte del suo stock di capitale in seguito a una guerra. Il meccanismo appena presentato
suggerisce che, se tale paese ha subito perdite di capitale superiori a quelle umane, esso uscirà dal conflitto con un
basso livello di capitale per lavoratore, in altre parole si situerà su di un punto a sinistra di K*/N. Esso attraverserà un
periodo di forte crescita sia del capitale sia del prodotto per lavoratore. Se un paese inizialmente riporta un elevato
livello di capitale per lavoratore, in corrispondenza di un punto a destra di K*/N, allora il deprezzamento sarà maggiore
dell’investimento e il capitale e il prodotto per lavoratore diminuiranno: il livello iniziale di capitale per lavoratore è
troppo alto per essere mantenuto, dato il tasso di risparmio. Tale riduzione del capitale per lavoratore continuerà
finché l’economia raggiungerà nuovamente il punto in cui l’investimento è uguale al deprezzamento e il capitale per
lavoratore è pari a K*/N. Da allora in poi, il capitale e il prodotto per lavoratore rimarranno costanti. Definiamo ora i
livelli di prodotto e il capitale per lavoratore ai quali l’economia converge nel lungo periodo. La situazione nella quale
prodotto e capitale per lavoratore sono costanti è chiamata stato stazionario dell’economia. Eguagliando a zero il lato
sinistro dell’equazione, il valore di stato stazionario del capitale per lavoratore, K*/N, è dato da:
sf(K*/N)=δ K*/N
il valore di stato stazionario del capitale per lavoratore è tale per cui l’ammontare del risparmio per lavoratore (il lato
sinistro) è esattamente sufficiente a coprire il deprezzamento dello stock di capitale per lavoratore esistente (il lato
destro). Dato il capitale per lavoratore (K*/N), il valore di stato stazionario del prodotto per lavoratore (Y*/N) è dato
a sua volta dalla funzione di produzione: Y*/N=f(K*/N)
• Il tasso di risparmio e produzione. In che modo il tasso di risparmio influenza il livello del prodotto per lavoratore?
L’analisi condotta finora ci porta a una triplice risposta:
1. Il tasso di risparmio non ha alcun effetto sul tasso di crescita di lungo periodo del prodotto per lavoratore, che è pari
a zero. Questa conclusione è abbastanza evidente: abbiamo visto che, nel lungo periodo, l’economia converge a un
livello costante di prodotto per lavoratore. In altre parole, nel lungo periodo il tasso di crescita della produzione è
uguale a zero, a prescindere dal tasso di risparmio. Si pensi a cosa sarebbe necessario per sostenere un tasso di crescita
positivo e costante del prodotto per lavoratore nel lungo periodo. Il capitale per lavoratore dovrebbe aumentare più
velocemente del prodotto per lavoratore. Di conseguenza, ogni anno l’economia dovrebbe risparmiare una frazione
sempre maggiore della produzione e destinarla all’accumulazione del capitale. A un certo punto, anche risparmiare
l’intera produzione non basterebbe a sostenere l’accumulazione di capitale, e quindi la crescita. Per questo motivo è
impossibile sostenere un tasso di crescita positivo e costante del prodotto per lavoratore per sempre. Nel lungo
periodo capitale e prodotto per lavoratore devono essere costanti.
112
2. Tuttavia, il tasso di risparmio determina il livello del prodotto per lavoratore nel lungo periodo. A parità di altri
fattori, i paesi con un tasso di risparmio più elevato raggiungeranno un maggiore livello del prodotto per lavoratore
nel lungo periodo.
Consideriamo due paesi con la stessa funzione di produzione, lo stesso livello di occupazione e lo stesso tasso di
deprezzamento ma con diversi tassi di risparmio dove so è maggiore di s1. In ogni caso, dobbiamo notare che la prima
proposizione è un’affermazione relativa al tasso di crescita del prodotto per lavoratore mentre la seconda è
un’affermazione relativa al livello del prodotto per lavoratore. 3. Un aumento del tasso di risparmio porterà a una
crescita maggiore del capitale per lavoratore per un certo periodo di tempo, ma non per sempre → questa conclusione
segue dalle due precedenti proposizioni. Dalla prima deriva che un aumento del tasso di risparmio non influenza il
tasso di crescita del prodotto per lavoratore nel lungo periodo, che rimane uguale a zero. Dalla seconda deriva che un
aumento del tasso di risparmio provoca un incremento del livello del prodotto per lavoratore nel lungo periodo.
Quindi, al crescere della produzione verso il suo nuovo livello in seguito all’aumento del tasso di risparmio, l’economia
attraverserà un periodo di crescita positiva, destinato comunque a finire quando l’economia avrà raggiunto il suo
nuovo stato stazionario. Per vedere il tutto anche a livello grafico, si guardi la figura precedente ipotizzando un
aumento da s0 a s1 dovuto, per esempio, da variazioni dell’imposizione fiscale che rendono più conveniente
risparmiare o da una riduzione del disavanzo di bilancio. Abbiamo ricavato questi tre risultati in un’economia senza
progresso tecnologico ma sono comunque validi per una che abbia tale progresso tecnologico. In tale economia vi è
un tasso di crescita della produzione per lavoratore positivo, anche nel lungo periodo. Quest’ultimo è indipendente
dal tasso di risparmio. Il tasso di risparmio determina però il livello della produzione per lavoratore. Un aumento del
tasso di risparmio porta a una crescita maggiore rispetto a quella di stato stazionario per un certo periodo di tempo,
fino al punto in cui l’economia raggiunge un nuovo punto di equilibrio.
Il governo può utilizzare vari strumenti per influenzare il tasso di risparmio. Può modificare il risparmio pubblico. Dato
il risparmio privato, un aumento di risparmio pubblico positivo fa aumentare il risparmio totale. Un risparmio pubblico
negativo (disavanzo di bilancio) riduce il risparmio totale. Il governo può usare le imposte per influenzare il risparmio
privato. Per esempio, può introdurre sgravi fiscali per i risparmiatori, incentivando così il risparmio e aumentando il
risparmio privato. Qual è il tasso di risparmio a cui dovrebbe ambire il governo? Per rispondere a questa domanda,
dobbiamo spostare l’attenzione dal comportamento della produzione al comportamento del consumo. È chiaro che
un aumento del risparmio, riduce inizialmente il consumo (per alleggerire il resto del testo parleremo di consumo
anziché di consumo per lavoratore, di capitale anziché di capitale per lavoratore e così via…). Una variazione del tasso
di risparmio quest’anno non ha effetto sulla produzione e sul reddito di quest’anno. Quindi, un aumento del risparmio
è inizialmente associato a una riduzione del consumo di ugual misura. Un aumento del risparmio provoca un aumento
113
del consumo nel lungo periodo? La risposta è: non necessariamente. Il consumo può diminuire non solo nel breve, ma
anche nel lungo periodo. Potreste trovare questo risultato sorprendente: dopotutto la seconda figura di questo
capitolo mostra che un aumento del tasso di risparmio produce sempre un aumento del livello di prodotto per
lavoratore nel lungo periodo. Ma la produzione non coincide con il consumo. Per capire perché, consideriamo due
valori estremi del tasso di risparmio:
1. Un’economia nella quale il tasso di risparmio sia (e sia sempre stato) uguale a zero è un’economia in cui il capitale
è uguale a zero. In questo caso, la produzione è anch’essa uguale a zero e così pure il consumo. Quindi un tasso di
risparmio uguale a zero comporta un consumo nullo nel lungo periodo.
2. Consideriamo invece un’economia nella quale il tasso di risparmio sia uguale ad 1. Gli individui risparmiano tutto il
loro reddito. Il livello del capitale, e quindi della produzione, sarà molto alto. Ma poiché gli individui risparmiano tutto
il proprio reddito, il consumo è sempre uguale a zero. L’economia sostiene un livello eccessivo di capitale:
semplicemente mantenere quel livello richiede che tutta la produzione sia destinata a compensare il deprezzamento!
Quindi anche un tasso di risparmio uguale a 1 comporta un consumo nullo nel lungo periodo. Questi due casi estremi
indicano che esiste un valore del tasso di risparmio, compreso tra 0 e 1, in corrispondenza del quale il livello di consumo
di stato stazionario è massimo. Aumenti del tasso di risparmio al di sotto di quel valore riducono il consumo nel breve
periodo, ma portano a un suo aumento nel lungo periodo. Aumenti del tasso di risparmio oltre quel valore riducono il
consumo non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo. Infatti l’aumento di capitale associato all’incremento del
tasso di risparmio produce solo un piccolo aumento di produzione, troppo piccolo per coprire il più elevato livello di
deprezzamento. In altre parole, l’economia mantiene uno stock di capitale eccessivo. Il livello di capitale associato a
questo valore critico del tasso di risparmio è chiamato livello di capitale nella regola aurea (golden rule) → aumenti di
capitale oltre la regola aurea non fanno altro che ridurre il consumo. In un’economia con uno stock di capitale
superiore al livello di regola aurea, un ulteriore aumento del risparmio ridurrà il consumo non solo attuale ma anche
quello futuro. Tuttavia, tale preoccupazione non è molto fondata perché nella realtà nessun paese (o quasi) si trova in
una situazione simile. Ciò significa che, in pratica, il governo fronteggia un tradeoff: un aumento del tasso di risparmio
riduce il consumo nel breve ma lo fa aumentare nel lungo. Dipende, quindi, se il governo preferisce tener conto delle
generazioni future o di quelle correnti.
Qual è la misura dell’effetto di una variazione del tasso di risparmio sulla produzione nel lungo periodo? Per quanto
tempo e in quale misura un aumento del tasso di risparmio influenza la crescita? Per rispondere a questa domanda,
dobbiamo fare ipotesi più specifiche, inserire un po’ di dati e vedere che cosa ci dicono. Assumiamo che la funzione di
produzione sia data da:
Y= √K√N (funzione di Cobb-Douglas)
Dividiamo entrambi i lati per N, siamo infatti interessati al prodotto per lavoratore e con opportuni passaggi si ottiene:
Y/N=√(K/N) → il prodotto per lavoratore è uguale alla radice quadrata del capitale per lavoratore. In altre parole, la
funzione di produzione f che mette in relazione il prodotto per lavoratore al capitale per lavoratore è data da:
f(Kt/N)=√(Kt/N) Sostituendo f(Kt/N) nell’equazione Kt+1/N – Kt/N= sf(Kt/N)– δKt/N otteniamo: Kt+1/N – Kt/N =
s√(Kt/N)– δKt/N Questa equazione descrive l’evoluzione del capitale nel tempo, vediamo che cosa comporta:
Gli effetti del tasso di risparmio sulla produzione di stato stazionario → quanto è grande l’effetto di un aumento del
tasso di risparmio sul livello del prodotto per lavoratore di stato stazionario? Iniziamo dall’ultima equazione ricavata.
In stato stazionario il capitale per lavoratore è costante, per cui il lato sinistro dell’equazione è uguale a zero. Perciò:
s√(K*/N)=δK*/N (Abbiamo omesso gli indici temporali, perché in stato stazionario K/N è costante. L’asterisco indica il
livello di capitale di stato stazionario). Elevando al quadrato otteniamo: s 2 (K*/N)=δ2 (K*/N)2 Dividendo entrambi i
membri per K/N e riordinando i termini, si ha: K*/N=(s/δ)2 → il capitale per lavoratore in stato stazionario è uguale al
quadrato del rapporto tra il tasso di risparmio e il tasso di deprezzamento. Dall’equazione di CobbDouglas e dall’ultima
che abbiamo ricavato, possiamo dire che il prodotto per lavoratore in stato stazionario è dato da (dopo opportuni
passaggi): Y*/N=s/δ Concludiamo che un tasso di risparmio maggiore e un tasso di deprezzamento minore portano
entrambi a un maggior capitale per lavoratore di stato stazionario e a un maggior prodotto per lavoratore in stato
stazionario.
Gli effetti dinamici di un aumento del tasso di risparmio → abbiamo appena visto che un aumento del tasso di risparmio
porta a un aumento del livello della produzione di stato stazionario. Ma quanto tempo ci vuole prima che l’economia
114
raggiunga il maggior livello di produzione? O in altri termini, in quale misura e per quanto tempo un aumento del tasso
di risparmio influenza il tasso di crescita? Per rispondere a queste domande dobbiamo usare la seguente equazione:
Kt+1/N – Kt/N = s√(Kt/N)– δKt/N e risolverla per il capitale al tempo 0, al tempo 1 e così via. Assumiamo che al tempo
0 il tasso di risparmio, fino ad allora pari al 10%, aumenti fino al 20% e rimanga a questo nuovo livello per sempre. Al
tempo 0, allo stock di capitale non succede nulla (ricordiamo che deve passare un anno prima che il maggior risparmio
e il maggior investimento si traducano in maggior capitale). Quindi il capitale per lavoratore sarà uguale al valore di
stato stazionario associato a un tasso di risparmio uguale al 10%. Perciò si ottiene: K0/N=(0,1/0,1)2= 12=1 dopo di che
andiamo a sostituire tutti i dati nella nostra equazione: K1/N – K0/N = s√(K0/N)– δK0/N e otteniamo 1,1. Allo stesso
modo, possiamo risolvere per K2/N, e così via. Una volta determinati i valori del capitale per lavoratore nell’anno 0,
nell’anno 1, e così via., possiamo usare l’equazione di Cobb-Douglas per calcolare il prodotto per lavoratore al tempo
0, al tempo 1 e così via. I risultati di questi calcoli ci vengono presentati nella seguente figura divisa in 2 parti: a e b. la
prima parte riguarda il livello del prodotto per lavoratore nel corso del tempo e la seconda riguarda il tasso di crescita
del prodotto per lavoratore nel tempo. Dopo un aumento del tasso di risparmio, l’aggiustamento della produzione al
suo nuovo livello richiede un lungo periodo di tempo. In altre parole, un aumento del tasso di risparmio comporta un
un lungo periodo di crescita più elevata.
Il tasso di risparmio e la regola aurea → qual è il tasso di risparmio che massimizza il consumo per lavoratore di stato
stazionario? Ricordiamo che, in stato stazionario, il consumo è uguale a quello che resta dopo che si è provveduto a
mantenere un livello di capitale costante. Più formalmente, in stato stazionario il consumo per lavoratore è uguale al
prodotto per lavoratore meno il deprezzamento per lavoratore:
C/N=Y/N – δ K/N
Usando le varie equazioni che conosciamo (e che sono riportate sopra) per i valori di stato stazionario del prodotto
per lavoratore e del capitale per lavoratore, il consumo per lavoratore è dato da: C/N=s/δ -δ(s/δ)2= s(1 – s)/δ.
115
4. CAPITALE FISICO E CAPITALE UMANO A CONFRONTO
Finora ci siamo concentrati sul capitale fisico. Le economie hanno anche un altro tipo di capitale: L’insieme delle
abilità dei lavoratori di quell’economia, che gli economisti chiamano capitale umano. Un’economia in cui gran parte
dei lavoratori sono altamente qualificati sarà più produttiva di un’economia in cui gran parte dei lavoratori non sa né
leggere né scrivere. Negli ultimi due secoli, l’aumento del capitale umano è stato imponente quanto l’accumulazione
del capitale fisico. All’inizio della rivoluzione industriale, solo il 30% della popolazione degli attuali paesi Ocse sapeva
leggere ora il tasso di alfabetismo super il 95%.
Il modo più naturale di estendere la nostra analisi per tener conto del capitale umano è modificare la funzione di
produzione come segue:
𝑌
𝐾 𝐻
= 𝑓( , )
𝑁
𝑁 𝑁
(+) (+)
Il livello del prodotto per lavoratore dipende adesso sia dal livello del capitale fisico per lavoratore sia dal livello di
capitale umano per lavoratore. Lavoratori più qualificati possono usare macchinari più complessi, far fronte più
facilmente a complicazioni impreviste e adattarsi più velocemente a nuove mansioni → ciò porta a un maggior
prodotto per lavoratore. In precedenza abbiamo ipotizzato che gli aumenti di capitale fisico per lavoratore facessero
aumentare il prodotto per lavoratore, ma che l’effetto fosse tanto minore quanto maggiore era il livello di capitale per
lavoratore. La stessa ipotesi si applica al capitale umano. Per paesi ricchi, per esempio, l’istruzione elementare e quella
secondaria non rappresentano più il margine cruciale, il margine rilevante è oggi costituito dall’istruzione universitaria.
Per costruire la misura del capitale umano, basta sommare i diversi stipendi che è diverso per un lavoratore qualificato
e uno che non lo è. Il capitale fisico si costruisce sommando i valori dei vari macchinari.
Come cambia la nostra analisi dei paragrafi precedenti con l’introduzione del capitale umano? Le nostre conclusioni
circa l’accumulazione di capitale fisico rimangono valide: un aumento del tasso di risparmio aumenta il capitale per
lavoratore di stato stazionario e quindi il prodotto per lavoratore. Ma le nostre conclusioni si estendono anche
all’accumulazione di capitale umano. Un aumento di quanto una società risparmia in termini di capitale umano –
attraverso l’istruzione e la formazione sul lavoro – fa aumentare il capitale umano per lavoratore in stato stazionario e
quindi il prodotto per lavoratore. Quindi, il nostro modello esteso offre un quadro più ricco della determinazione del
prodotto per lavoratore. Nel lungo periodo, il prodotto per lavoratore dipende sia da quanto una società risparmia sia
da quanto spende per l’istruzione. Qual è l’importanza relativa del capitale fisico e quale quella del capitale umano
nella determinazione del prodotto per lavoratore? Possiamo iniziare confrontando la spesa in istruzione scolastica con
quanto investito in capitale fisico. Negli USA, la spesa per l’istruzione scolastica è pari a circa il 6,5% del PIL. Questo
dato include sia la spesa pubblica sia la spesa privata. Esso è pari a un valore compreso tra un terzo e un mezzo del
tasso di investimento lordo in capitale fisico (che è circa il 16%). Ma questo confronto è solo un primo passo,
consideriamo altre implicazioni:
•
L’istruzione, soprattutto quella universitaria, rappresenta in parte consumo e in parte investimento. Noi
consideriamo solo investimento, tuttavia il dato riportato sopra (6,5%) comprende entrambi.
•
Almeno per l’istruzione post-secondaria, il costo opportunità dell’istruzione deve anche tener conto della
mancata percezione del salario. Questo non è incluso in 6,5%.
•
L’istruzione scolastica è solo una parte dell’istruzione. Bisogna tener conto di quanto si apprende anche sul
lavoro e della formazione informale (per esempio) e il 6,5% non ne tiene conto.
•
Dovremmo confrontare l’investimento al netto del deprezzamento. Il deprezzamento del capitale fisico,
soprattutto macchinari, è di solito maggiore del deprezzamento del capitale umano. È vero che anche le
capacità invecchiano, ma molto lentamente. A differenza del capitale fisico, le capacità non solo si deteriorano
ma spesso migliorano con il tempo quanto più sono applicate.
Quello che abbiamo capito finora è che un paese che risparmia di più e/o spende di più in istruzione genererà un
maggior livello del prodotto per lavoratore in stato stazionario. Ma non ci dice che in questo modo un paese potrà
sostenere per sempre una crescita maggiore del prodotto per lavoratore. Negli ultimi due decenni, tuttavia, questa
seconda affermazione è stata messa in discussione. Secondo Robert lucas e Paul Romer, alcuni ricercatori hanno
analizzato la possibilità che l’accumulazione combinata di capitale fisico e capitale umano possa essere sufficiente per
sostenere la crescita. A parità di capitale umano, aumenti di capitale fisico comporteranno rendimenti di scala
decrescenti (e viceversa). Ma consideriamo il caso in cui il capitale fisico e il capitale umano crescano allo stesso
tempo. Un’economia non può crescere per sempre se ha un livello sempre maggiore di capitale e un numero sempre
più elevato di lavoratori qualificati?
I modelli che prevedono una crescita endogena anche senza progresso tecnologico sono chiamati modelli di crescita
endogena, per esprimere il fatto che in essi – al contrario dei modelli visti in questo capitolo – la crescita dipende da
variabili quali il tasso di risparmio e investimento in istruzione, anche nel lungo termine.
Il punto principale di questo capitolo è: l’accumulazione di capitale (fisico e umano) fa aumentare il livello di
produzione, ma da sola non può sostenere la crescita.
Capitolo 12 – PROGRESSO TECNOLOGICO E CRESCITA
La conclusione del capitolo precedente – l’accumulazione del capitale non può sostenere da sola la crescita – ha una
conseguenza immediata: una crescita sostenuta richiede il progresso tecnologico. E questo capitolo si concentra,
appunto, sul ruolo del progresso tecnologico sulla crescita.
1. PROGRESSO TECNOLOGICO E TASSO DI CRESCITA
A quale tasso crescerà la produzione in un’economia nella quale si realizzano accumulazione di capitale e progresso
tecnologico? Per rispondere a questa domanda dobbiamo includere il progresso tecnologico nel modello sviluppato
nel capitolo 11. il primo passo consiste nel ridefinire la funzione di produzione aggregata. Il progresso tecnologico si
può manifestare in diversi modi:
•
Può generare una maggiore produzione a parità di capitale e lavoro. Per esempio, un nuovo tipo di
lubrificante che consente ad un’automobile di viaggiare ad una velocità più elevata.
•
Può consentire di realizzare prodotti migliori. Per esempio, oggi le macchine sono più comode e sicure di un
tempo.
•
Può portare alla realizzazione di nuovi prodotti. Pensiamo all’introduzione dei CD, dei fax o dei telefoni
cellulari.
•
Può ampliare la gamma di prodotti disponibili. Tanto per capire, si pensi che il numero di articoli presenti in un
supermercato è aumentato da 2200 a 38700 negli Stati Uniti dal 1950 al 2010.
I Vari modi in cui si manifesta il progresso tecnologico sono più simili di quanto non si creda. Se riteniamo che i
consumatori non siano interessati ai prodotti in quanto tali, ma ai servizi forniti dai prodotti stessi, allora tutti gli
esempi appena citati hanno un elemento in comune: in ciascun caso, il progresso tecnologico offre più servizi ai
consumatori. Possiamo considerare il progresso tecnologico come un fattore che aumenta la produzione a parità di
fattori produttivi impiegati. Possiamo anche considerare lo stato della tecnologia come la variabile che indica quanto
prodotto può essere ottenuto dal capitale e dal lavoro in un dato periodo di tempo. Indichiamo lo stato della
tecnologia con la lettera A e riscriviamo la funzione di produzione come:
Y=F(K,N,A)
(+ + + )
Questa è la nostra funzione di produzione estesa. La produzione dipende sia dal capitale e dal lavoro sia dallo stato
della tecnologia: a parità di capitale e lavoro, un miglioramento nello stato della tecnologia consente un incremento
della produzione. Sarà utile in seguito usare una forma leggermente più compatta dell’equazione precedente:
Y=F(K,AN)
Questa equazione afferma che la produzione dipende dal capitale e dal lavoro moltiplicato per lo stato della
tecnologia. Questo modo di introdurre lo stato della tecnologia facilita l’analisi dell’effetto del progresso tecnologico
sulla relazione tra produzione, capitale e lavoro. Sulla base dell’ultima equazione, possiamo pensare al progresso
tecnologico in due modi equivalenti:
•
Il progresso tecnologico riduce il numero di lavoratori necessari per ottenere una data qtà di prodotto. Un
valore doppio di A produce la stessa qtà di prodotto con la metà dei lavoratori.
•
Il progresso tecnologico aumenta il prodotto ottenibile con un dato numero di lavoratori. Possiamo pensare
ad AN come l’ammontare di lavoro effettivo nell’economia. Il fatto che lo stato della tecnologia A raddoppi,
equivale a disporre di un numero doppio di lavoratori. In questo senso possiamo pensare che la produzione
sia ottenuta da due fattori: il capitale (K) da un lato e il lavoro effettivo (AN) dall’altro. AN è spesso chiamato
lavoro in unità di efficienza. L’uso del termine efficienza non ha nulla a che vedere con i salari di efficienza
introdotti nel capitolo 7.
Quali restrizioni dovremmo imporre sulla funzione di produzione estesa decritta dall’equazione Y=F(K,AN)? Possiamo
basarci direttamente su quanto affermato nel capitolo precedente!
È ancora ragionevole assumere che esitano rendimenti di scala costanti: per un dato stato della tecnologia (A),
raddoppiare sia la qtà di K e N consentirà di ottenere una qtà doppia di prodotto.
2Y=F(2K,2AN) e in generale per ogni numero x xY=F(xK,xAN)
È anche ragionevole assumere che entrambi i fattori, capitale e lavoro effettivo, abbiano rendimenti decrescenti. A
parità di lavoro effettivo, un aumento di capitale farà aumentare la produzione, ma a un tasso decrescente.
Analogamente, a parità di capitale, un aumento del lavoro effettivo farà aumentare l produzione, ma un tasso
decrescente. Nel capitolo 11 era utile pensare in termini di prodotto e capitale per lavoratore, in quanto lo stato
stazionario dell’economia corrispondeva ad una situazione caratterizzata da prodotto e capitale per lavoratore
costanti. Allo stesso modo, anche qui sarà utile ragionare in termini di prodotto e capitale per unità di lavoro effettivo
→ la ragione è che lo stato stazionario è caratterizzato da prodotto e capitale per unità di lavoro effettivo costanti nel
tempo. Per ottenere la relazione tra prodotto e capitale per unità di lavoro effettivo, poniamo x=1/AN nell’equazione
precedente e scriviamo:
𝑌
𝐾
= 𝐹(
, 1)
𝐴𝑁
𝐴𝑁
𝐾
Oppure, se definiamo una funzione f tale per cui 𝑓 (𝐴𝑁 , 1) :
𝑌
𝐾
= 𝑓( )
𝐴𝑁
𝐴𝑁
A parole: il prodotto per unità di lavoro effettivo (il lato sinistro) è una funzione del capitale per unità di lavoro
effettivo (l’espressione nella funzione sul lato destro).
Assomiglia molto alla relazione
(presente nel capitolo 11) tra il prodotto
e il capitale per lavoratore in assenza di
progresso tecnologico. In quel caso un
aumento di K/N faceva aumentare Y/N,
ma a un tasso decrescente. Qui, un
aumento di K/AN fa aumentare Y/AN,
ma a un tasso decrescente.
Cresce a tassi sempre più bassi
Siamo ora in possesso degli elementi essenziali per studiare le determinanti della crescita. L’analisi svolta in questo
paragrafo sarà analoga a quella contenuta nel capitolo 11: ma invece di considerare il prodotto per lavoratore e il
capitale per lavoratore, qui ci occuperemo della dinamica del prodotto per unità di lavoro effettivo e del capitale per
unità di lavoro effettivo. Andiamo per punti:
Interazioni tra produzione e capitale → nel capitolo 11, abbiamo descritto la dinamica per lavoratore, usando la
seguente figura:
Abbiamo disegnato tre importanti relazioni:
1.
La relazione tra il prodotto per lavoratore e il capitale per
lavoratore.
2.
La relazione tra l’investimento per lavoratore e il capitale per
lavoratore.
3.
La relazione tra il deprezzamento per lavoratore
(equivalentemente, l’investimento necessario a mantenere un livello
costante di capitale per lavoratore) e il capitale per lavoratore.
La dinamica del capitale per lavoratore, e di conseguenza del prodotto per lavoratore, era determinata dalla
relazione tra investimento per lavoratore e deprezzamento per lavoratore. Ciò dipendeva dalla condizione che
l’investimento per lavoratore fosse maggiore o minore del deprezzamento per lavoratore, nel qual caso il
capitale per lavoratore aumentava o diminuiva nel tempo, così come il prodotto per lavoratore.
Qui seguiamo lo stesso approccio nel costruire la figura sotto. La differenza è che qui ci concentriamo su
prodotto, capitale e investimento per unità di lavoro effettivo, invece che per lavoratore.
1. La relazione tra prodotto e capitale per unità di lavoro effettivo è stata derivata nella figura precedente. Questa
relazione è riportata anche nella figura sottostante: il prodotto per unità di lavoro effettivo aumenta all’aumentare del
capitale per unità di lavoro effettivo, ma a un tasso decrescente.
2. Sotto le stesse ipotesi del capitolo 11 (che l’investimento è uguale al risparmio privato e che il tasso di risparmio
privato è costante) l’investimento è dato da:
I=S=sY
Dividendo entrambi i lati per il numero di lavoratori effettivi, AN, otteniamo:
𝐼
𝑌
= 𝑠( )
𝐴𝑁
𝐴𝑁
Sostituendo il prodotto per unità di lavoro effettivo, Y/AN, con la sua espressione otteniamo:
𝐼
𝐾
= 𝑠𝑓 ( )
𝐴𝑁
𝐴𝑁
K/AN: stock di capitale per unità di lavoro effettivO
La relazione tra investimento per unità di lavoro effettivo e capitale per unità di lavoro effettivo è rappresentato nelle
figura. Essa è uguale alla curva
superiore (la relazione tra prodotto per
unità di lavoro effettivo e capitale per
unità di lavoro effettivo) moltiplicata
per il tasso di risparmio, s, ossia
coincide con la curva inferiore.
3.Infine, dobbiamo chiederci qual’è il
livello di investimento che mantiene
costante un dato livello di capitale per
unità di lavoro effettivo. Nel capitolo 11
la conclusione a cui siamo giunti
stabiliva che, affinché il capitale
rimanesse costante, l’investimento doveva essere uguale al deprezzamento dello stock esistente del capitale.
Qui la risposta è leggermente più complicata. La ragione è la seguente: introducendo il progresso tecnologico,
il numero di unità di lavoro effettivo (AN) aumenta nel tempo. Quindi, mantenere lo stesso rapporto
capitale/lavoro effettivo (K/AN) richiede un aumento dello stock di capitale (K) proporzionale all’aumento
delle unità di lavoro effettivo (AN). Vediamo in dettaglio questa condizione. Sia δ il tasso di deprezzamento del
capitale. Sia gA il tasso di progresso tecnologico. Sia gN il tasso di crescita della popolazione. Se assumiamo
che il rapporto tra occupazione e popolazione totale rimanga costante, il numero di lavoratori N cresce
anch’esso al tasso annuo gN. Insieme, queste ipotesi implicano che il tasso di crescita del lavoro in unità
effettive (AN) sia uguale a gA+gN. Per esempi: se il numero di lavoratori cresce dell’1% all’anno e il tasso di
progresso tecnologico è del 2% all’anno, allora il tasso di crescita delle unità di lavoro effettivo è uguale al 3%
annuo. Queste due ipotesi implicano che il livello di investimento necessario per mantenere un dato livello di
capitale per unità di lavoro effettivo è dato da:
I=δK + (gA + Gn)K (potremmo anche raccogliere K)
Per capire meglio il funzionamento di questa espressione, è meglio guardare il libro dove c’è un esempio
numerico a pag. 310
Per definire più precisamente l’ammontare di investimento per unità di lavoro effettivo necessario a
mantenere un livello costante del capitale per unità di lavoro effettivo, dividiamo l’espressione precedente
per il numero di unità di lavoro effettivo e otteniamo:
I/AN=I=(δK + (gA + Gn)K/AN
Il livello di investimento per unità di lavoro effettivo necessario per mantenere un dato livello del capitale per
unità di lavoro effettivo è rappresentato dalla retta indicata con “investimento necessario” che una
inclinazione pari a (δ + gA +gN).
Il valore di stato stazionario del capitale per unità di lavoro effettivo sarà:
𝐾𝑡
𝐾𝑡
= (δ + gA + gN) (
)
𝐴𝑡𝑁𝑡
𝐴𝑡𝑁𝑡
Dinamica di capitale e produzione → Ora possiamo fornire una descrizione grafica della dinamica del capitale e della
produzione per unità di lavoro effettivo. Nella figura precedente consideriamo un dato livello di capitale per unità di
lavoro effettivo, per esempio (K/AN)0 . A quel livello, il prodotto per unità di lavoro effettivo è pari alla distanza AB.
L’investimento per unità di lavoro effettivo è dato da AC. L’ammontare di investimento richiesto per mantenere costante
quel livello di capitale per unità di lavoro effettivo è pari ad AD. Poiché l’investimento eccede quanto richiesto per
mantenere costante il livello di capitale per unità di lavoro effettivo, K/N aumenta. Quindi, partendo da (K/AN)0,
l’economia si muove verso destra, con un livello crescente di capitale per unità di lavoro effettivo. Questo processo
continua fino a quando l’investimento è esattamente sufficiente a mantenere costante il livello di capitale per unità di
lavoro effettivo, cioè fino a quando il capitale per unità di lavoro effettivo raggiunge (K/AN)*. Nel lungo periodo il
capitale per unità di lavoro raggiunge un livello costante, e così pure il prodotto per unità di lavoro effettivo. In altre
parole, in stato stazionario il capitale e il prodotto per unità di lavoro effettivo sono costanti, pari rispettivamente a
(K/AN)* e (Y/AN)*. Ciò implica che, in stato stazionario, la produzione (Y) cresce allo stesso tasso di crescita del lavoro
effettivo (AN) (per cui il rapporto tra i due è costante). Poiché il lavoro effettivo cresce al tasso (gA + gN), in stato
stazionario la crescita della produzione è anch’essa uguale a (gA + gN). Lo stesso ragionamento vale per il capitale. Nota
bene → se Y/AN è costante, Y deve crescere allo stesso tasso di AN cioè (gA + gN). Possiamo concludere che: in stato
stazionario, il tasso di crescita della produzione è uguale al tasso di progresso tecnologico (gA) più il tasso di crescita
della popolazione (gN). Di conseguenza, il tasso di crescita della produzione non dipende dal tasso di risparmio. Per
rafforzare questo risultato, ricordiamo la logica che abbiamo seguito nel capitolo 11 per mostrare che, in assenza di
progresso tecnologico e di crescita demografica , l’economia non potrebbe sostenere una crescita positiva per sempre.
Il ragionamento era il seguente: supponiamo che l’economia cerchi di sostenere una crescita positiva della produzione.
A causa dei rendimenti decrescenti del capitale, quest’ultimo dovrebbe crescere più velocemente della produzione.
L’economia dovrebbe destinare una quota sempre maggiore di prodotto (e quindi del reddito) all’accumulazione di
capitale. A un certo punto non ci sarà più reddito da destinare all’accumulazione di capitale e la crescita si arresterà.
Qui si applica la stessa logica. Adesso il lavoro effettivo cresce al tasso (gA + gN). Supponiamo che l’economia cerchi di
raggiungere una crescita del prodotto superiore a (gA + gN). A causa dei rendimenti decrescenti del capitale,
quest’ultimo dovrebbe crescere più rapidamente del prodotto. L’economia dovrebbe destinare una quota sempre
maggiore del suo reddito all’accumulazione di capitale e a un certo punto questo risulterebbe impossibile. Quindi
l’economia non può crescere per sempre a un tasso superiore a (gA + gN). Finora ci siamo concentrati sulla produzione
aggregata. Per avere un’idea di quello che succede, invece, al tenore di vita nel corso del tempo, dobbiamo prendere in
considerazione il comportamento del prodotto per lavoratore (nota bene → non del prodotto per unità di lavoro
effettivo). Poiché la produzione cresce al tasso (gA + gN) e il numero di lavoratori cresce al tasso gN, il prodotto per
lavoratore cresce al tasso gA → il tasso di crescita Y/N è uguale al tasso di crescita di Y meno il tasso il tasso di crescita
di N.
Quindi il tasso di crescita Y/N è dato da gy – gN = (gA + gN) – gN = gA.
In altre parole, in stato stazionario, il prodotto per lavoratore cresce al tasso di progresso tecnologico. Poiché la
produzione, il capitale e il lavoro effettivo in stato stazionario crescono tutti allo stesso tasso (gA + gN), lo stato
stazionario di questa economia è anche chiamato di crescita bilanciata: in stato stazionario, la produzione e i due fattori
produttivi (capitale e lavoro effettivo) crescono in misura equilibrata (cioè allo stesso tasso).
Nota bene → sul sentiero di crescita bilanciata (ovvero, in stato stazionario o nel lungo periodo):
• Il capitale per unità di lavoro effettivo e il prodotto per unità di lavoro effettivo sono costanti.
• In altre parole, il capitale per lavoratore e il prodotto per lavoratore crescono al tasso di progresso tecnologico, gA.
• Oppure, in termini di lavoro, capitale e produzione: il lavoro cresce al tasso di crescita demografica, gN; il capitale e la
produzione crescono a un tasso pari alla somma del tasso di incremento demografico e del tasso di progresso
tecnologico (gA + gN).
Effetti del tasso di risparmio → in stato stazionario il tasso di crescita della produzione dipende SOLTANTO dal tasso di
crescita demografica e dal tasso di progresso tecnologico. Le variazioni del tasso di risparmio NON influenzano il tasso
di crescita stazionario ma il livello di prodotto per unità di lavoro effettivo. Questo è evidente nella figura sottostante
che mostra l’effetto dell’aumento di risparmio da s0 a s1. L’aumento del tasso di risparmio sposta la curva
dell’investimento (facendola alzare). Ne segue che un aumento del tasso di risparmio provoca un aumento dei livelli di
stato stazionario del prodotto per unità di lavoro effettivo e del capitale per unità di lavoro effettivo.
In seguito all’aumento del tasso di risparmio, il capitale e il prodotto per unità di lavoro effettivo aumentano per qualche
tempo prima di convergere al loro nuovo livello. La figura sotto ci mostra proprio l’andamento del prodotto e del capitale
nel tempo. Sia il prodotto sia il capitale sono misurati in scala logaritmica (quando si usa la scala logaritmica, una variabile
che cresce a un tasso costante si muove lungo una linea retta. La pendenza della retta è uguale al tasso di crescita della
variabile). Inizialmente l’economia si trova sul sentiero di crescita bilanciata AA: il capitale e il prodotto crescono al tasso
(gA + gN) (per cui l’inclinazione della retta AA è pari a gN + gA). Dopo l’aumento del tasso di risparmio al tempo t, il
prodotto e il capitale crescono più rapidamente per un certo periodo di tempo. Alla fine il capitale e il prodotto
raggiungono un livello maggiore di quello che avrebbero mantenuto senza l’aumento del tasso di risparmio, ma il loro
tasso di crescita rimane (gA + gN). Nel nuovo stato stazionario, l’economia cresce allo stesso tasso, ma su un sentiero di
crescita più elevato, BB. La retta BB, parallela alla retta AA, ha una pendenza pari a (gA + gN).
LE DETERMINANTI DEL PROGRESSO TECNOLOGICO
Abbiamo visto che il tasso di crescita del prodotto per lavoratore è determinato dal progresso tecnologico. Ma da cosa
è determinato questo progresso tecnologico? L’espressione progresso tecnologico evoca l’idea di grande scoperte
scientifiche (come la scoperta della struttura del DNA). E queste scoperte, a loro volta, sembrano trainate più che altro
dalla ricerca scientifica piuttosto che dalle forze economiche. In realtà, oggi (nelle economie moderne), la maggior parte
del progresso tecnologico è il risultato di un processo molto più banale: l’attività di ricerca e sviluppo svolta delle
imprese. Le spese in R&S rappresentano tra il 2 e il 3% del PIL in 4 dei paesi più avanzati (USA, Giappone, Francia e Regno
unito) mentre rappresentano solo l’1% in Italia. È ragionevole pensare che la ridotta crescita economica italiana (il tasso
di risparmio è in linea con quello degli altri paesi) negli ultimi due decenni sia dovuta a questa mancanza di investimenti
in R&S. Le imprese investono in R&S per gli stessi motivi per cui comprano macchinari e impianti → per aumentare i
profitti: infatti, investendo nella ricerca si alza la probabilità di scoprire e sviluppare un nuovo prodotto e se il prodotto
avrà successo, i profitti aumenteranno. La differenza tra l’investimento in un macchinario e uno in ricerca e sviluppo è
che il secondo è dato fondamentalmente dalle idee → un’impresa che scopre e sviluppa un nuovo prodotto non può
essere certa che nessun’altra impresa lo utilizzi. Quest’ultimo punto implica che il livello di spesa in R&S dipende non
solo dalla fertilità del processo di ricerca ma anche dall’appropriabilità dei risultati della ricerca.
Vediamo questi due elementi alla volta.
• La fertilità del processo di ricerca: se la ricerca è molto fertile allora, a parità di altri fattori, le imprese avranno più
incentivi a investire in R&S. La fertilità della ricerca dipende da una buona interazione tra la ricerca di base (la ricerca di
principi e risultati generali) e la ricerca applicata e lo sviluppo (applicazione di questi risultati ad usi specifici e allo
sviluppo di nuovi prodotti). La ricerca di base non porta da sola al progresso tecnologico ma offre una base, un supporto
per lo sviluppo di quella applicata.
Alcuni paesi conseguono successi maggiori nella ricerca di base, altri in quella applicata → ciò dipende dai sistemi
scolastici. Ad esempio, il sistema di istruzione francese è caratterizzato da un’elevata attenzione verso il ragionamento
astratto e produce ricercatori migliori nel campo della ricerca di base. Altri studi evidenziano l’importanza della cultura
dell’imprenditorialità, in cui gran parte del progresso tecnologico deriva dall’abilità degli imprenditori nell’organizzare
un efficace sviluppo e marketing di nuovi prodotti. Nel capitolo 11 abbiamo considerato il ruolo del capitale umano
come fattore produttivo: persone più istruite possono usare macchine più complesse o svolgere compiti più difficili. Qui
vediamo un secondo ruolo del capitale umano: ricercatori e scienziati migliori permettono un maggior tasso di progresso
tecnologico. Uno dei timori più diffusi è che la ricerca diventi sempre meno fertile, che la maggior parte delle scoperte
siano state realizzate e che il progresso tecnologico inevitabilmente rallenti.
• L’appropriabilità dei risultati della ricerca: il termine appropriabilità si riferisce alla misura in cui le imprese beneficiano
dei risultati della propria attività di ricerca. Se le imprese non riescono a appropriarsi dei profitti generati dai nuovi
prodotti, non investiranno in R&S e il progresso tecnologico subirà un rallentamento. Anche in questo caso dobbiamo
considerare molti fattori. In primo luogo, la natura del processo di ricerca. Per esempio, se è ampiamente condivisa
l’idea che la scoperta di nuovo prodotto aprirà, in breve tempo, la strada alla scoperta di molti altri prodotti migliori,
non è molto conveniente innovare per primi. In altre parole, un alto grado di fertilità della ricerca potrebbe anche non
incentivare le imprese a investire pesantemente nella R&S. È un esempio estremo ma illuminante. Ancora più
importante è la protezione legale accordata ai nuovi prodotti. Senza tale protezione, i profitti derivanti dallo sviluppo di
nuovi prodotti saranno modesti. Tranne nei rari casi in cui il prodotto è basato su un segreto industriale (coca cola e
nutella), di solito non è necessario molto tempo prima che le altre imprese producano lo stesso prodotto, annullando
in tal modo il vantaggio iniziale dell’impresa innovatrice. I brevetti danno all’impresa che ha scoperto un nuovo prodotto
il diritto di escludere chiunque altro dalla realizzazione o dall’uso di tale prodotto per un certo tempo. Da un lato, la
protezione è necessaria per fornire alle imprese gli incentivi a investire in ricerca e sviluppo. Dall’altro lato, una volta
che le imprese hanno scoperto nuovi prodotti, per la società nel suo complesso, sarebbe meglio se la conoscenza
incorporata in quei prodotti fosse resa disponibile senza restrizioni alle altre imprese e agli individui. Le leggi sui brevetti
devono bilanciare questi due effetti. Scarsa protezione → livello insufficiente di R&S. Eccessiva protezione → rende più
difficile per la nuova R&S basarsi sui risultati di quella passata e potrebbe anche portare a un livello ridotto di ricerca e
sviluppo.
Sebbene la R&S sia un elemento chiave per il progresso, sarebbe sbagliato concentrarsi esclusivamente su di essa in
quanto anche altri aspetti sono rilevanti. Ogni tecnologia può essere usata in modo più o meno efficiente. Innanzitutto
serve una forte competizione tra le imprese per costringerle a diventare più efficienti. Inoltre, buone pratiche
manageriali fanno la differenza in termini di produttività di un’impresa. Inoltre in alcuni paesi la R&S potrebbe essere
meno importante che in altri. In questo contesto, recenti studi sulla crescita hanno sottolineato la distinzione tra crescita
per innovazione e crescita per imitazione. Per sostenere la crescita economica, i paesi avanzati (che definiamo avanzati
proprio perché hanno raggiunto la frontiera tecnologica) devono necessariamente innovare , e questo richiede grossi
investimenti in R&S. I paesi più poveri invece, che sono ancora lontani dalla frontiera tecnologica, possono continuare
a crescere limitandosi ad imitare, piuttosto che innovare, importando e adattando le tecnologie esistenti invece che
svilupparne di nuove. L’importazione e l’adattamento di tecnologie esistenti è un fattore importante per capire l’elevato
tasso di crescita economica in Cina nel corso degli ultimi tre decenni. La differenza tra imitazione e innovazione spiega
anche perché spesso i paesi meno avanzati abbiano spesso una legislazione insufficiente in materia di brevetti. La Cina,
per esempio, è un paese in cui vi è scarsa protezione della proprietà intellettuale. La nostra analisi ci aiuta a
comprendere il perché → questi paesi tipicamente sono utilizzatori e non produttori di nuove tecnologie. Gran parte
del loro aumento di produttività non deriva da invenzioni all’interno del paese ma dall’adattamento di tecnologie
sviluppate altrove. In questo caso, i costi di una scarsa protezione dei brevetti sono ridotti, perché esisterebbero in ogni
caso poche invenzioni nazionali da proteggere. D’altra parte, i benefici di una scarsa protezione dei brevetti sono chiari:
permettono alle imprese nazionali di usare e adattare la tecnologia importata (o copiata) senza doverne pagare i relativi
diritti alle imprese estere che l’hanno sviluppata.
Capitolo 14 – I MERCATI FINANZIARI E ASPETTATIVE
VALORE PRESENTE SCONTATO ATTESO
Supponiamo che un imprenditore deve decidere se acquistare un nuovo macchinario per la sua azienda. Da un lato,
comprare e installare il macchinario comporta dei costi oggi. D’altra parte, il nuovo macchinario permetterà di
aumentare la produzione, di aumentare le vendite e quindi di ottenere profitti maggiori in futuro. È importante ora
introdurre il concetto di VALORE ATTESO SCONTATO → Il valore scontato atteso di una sequenza di pagamenti è il valore
che questa sequenza attesa assume oggi. Quindi, una volta calcolato il valore presente della sequenza dei profitti, il
problema dell’imprenditore diventa semplice: se il valore eccede il costo iniziale, conviene acquistare il macchinario; in
caso contrario, non conviene. Come nel caso del tasso di interesse reale, il problema pratico è che i valori attuali non
sono direttamente osservabili. Devono essere calcolati partendo dalle informazioni disponibili sulla sequenza dei
pagamenti e sui tassi di interesse attesi. Vediamo come procedere in questo calcolo: se il tasso di interesse nominale è
it 1 euro oggi vale (1+it) domani. Allo stesso tempo prendere a prestito un euro oggi comporta restituire domani (1+it)
il prossimo anno. Invertendo il ragionamento: 1 euro domani quanto vale oggi? La risposta è 1/(1+it). Possiamo
ragionare in questo modo → se prestiamo 1/(1+it) domani riceveremo (1/(1+it)) (1+it) domani cioè 1. Mentre se
prendiamo a prestito 1/(1+it) euro oggi, dovremo ripagare un euro l’anno prossimo. Più formalmente, il valore presente
scontato atteso di un euro l’anno prossimo è 1/(1+it). Il termine “presente” deriva dal fatto che stiamo guardando il
valore in termine di euro oggi. Il termine “scontato” deriva dal fatto che il valore futuro è scontato per un fattore di
sconto 1/(1+it) e it è il tasso di interesse nominale a un anno, spesso chiamato tasso di sconto. Nota bene → tanto più
alto è il tasso di interesse nominale, tanto minore è il valore presente di un euro percepito l’anno prossimo. Se
applicassimo la stessa logica al valore presente di un euro tra due anni. Per il momento ignoriamo la presenza di
incertezza e assumiamo che i tassi di interesse nominali a un anno – presenti e futuri – siano noti con certezza. Sia it il
tasso di interesse nominale a un anno quest’anno e it+1 il tasso di interesse nominale a un anno l’anno prossimo. Se
prestiamo un euro per due anni, otterremo (1+it) (1+it+1) euro tra due anni. Qual è il valore di un euro tra due anni?
Con la stessa logica di prima, la risposta è 1/(1+it) (1+it+1) . Più precisamente, il valore scontato atteso di un euro tra
due anni è uguale a 1/(1+it)(1+it+1).
A questo punto è facile derivare il valore presente scontato atteso nel caso in cui sia i pagamenti sia i tassi di interesse
possano cambiare nel tempo. Consideriamo una serie di pagamenti in euro, che iniziano oggi e continuano in futuro.
Assumiamo, per il momento, che i pagamenti futuri siano noti con certezza. I pagamenti li indichiamo con €zt, €zt+1 e
così via. Il valore presente scontato atteso di questa seria di pagamenti lo indichiamo con €Vt è definito da questa
formula:
Ogni pagamento futuro è moltiplicato per il suo fattore di sconto. Quanto più distante è il pagamento, tanto minore
sarà il fattore di sconto e tanto minore sarà quindi il valore del pagamento oggi. Tuttavia, generalmente, le decisioni
correnti sono prese in condizioni di incertezza e perciò basate su aspettative e non su valori effettivi. Nel nostro esempio,
l’imprenditore non sa quali saranno i profitti futuri con certezza. Il meglio che possa fare è fare previsioni che siano le
più accurate possibili e calcolare il valore presente scontato atteso dei profitti sulla base di queste previsioni. Come si
calcola il valore presente scontato atteso quando i pagamenti sono futuri e incerti? Come prima ma sostituendo i tassi
di interesse e i pagamenti futuri noti con i tassi di interesse e i pagamenti futuri attesi (è la seconda formula
dell’immagine sopra).
Valore presente scontato atteso è una definizione pesante da portarci dietro, per cui spesso diremo semplicemente
valore presente scontato, o ancora più semplicemente valore attuale indicato con V(€zt) o semplicemente €Vt. Questa
equazione ha delle importanti implicazioni:
1. Il valore attuale dipende positivamente dal pagamento corrente effettivo e dai pagamenti futuri: un aumento di questi
due fa aumentare il valore attuale.
2. Il valore attuale dipende negativamente dai tassi di interesse, presenti e futuri attesi: un aumento del tasso di
interesse presente o atteso comporta una riduzione del valore attuale.
Ora facciamo una serie di esempi:
• Tassi di interesse costanti: per concentrarci sugli effetti della sequenza dei pagamenti sul valore attuale, assumiamo
che i tassi di interesse attesi siano costanti nel tempo. Per cui avremo:
Il valore attuale è una somma ponderata dei pagamenti correnti e futuri attesi: i pesi diminuiscono geometricamente
nel tempo. In altre parole il peso assegnato a un pagamento oggi è 1 mentre a un pagamento tra n anni è 1/(1+i)n . Con
un tasso di interesse i pesi si avvicinano sempre più a zero nel tempo.
Il valore attuale è una somma ponderata dei pagamenti correnti e futuri attesi: i pesi diminuiscono geometricamente
nel tempo. In altre parole il peso assegnato a un pagamento oggi è 1 mentre a un pagamento tra n anni è 1/(1+i)n .
Con un tasso di interesse i pesi si avvicinano sempre più a zero nel tempo.
• Tassi di interesse e pagamenti costanti: in alcuni casi, le sequenze di pagamenti delle quali vogliamo calcolare il
valore sono particolarmente semplici. Si pensi ad un mutuo trentennale. Consideriamo una serie di pagamenti identici,
chiamandoli €z senza alcun indice temporale, su n anni, compreso l’anno corrente. In tal caso la formula si semplifica
ulteriormente:
• Tassi di interesse e pagamenti costanti perpetui: Assumiamo che i pagamenti non solo siano costanti ma anche
perpetui. Trovare dei riscontri nel mondo reale non è facile. Un esempio potrebbero essere i consols, titoli che
L’Inghilterra emetteva nel 19esimo secolo e che pagavano un ammontare annuale fisso per sempre. Assumiamo che i
pagamenti inizino l’anno prossimo invece che l’anno corrente e avremo:
• Tassi di interesse pari a zero: in questo caso, il valore presente di una sequenza di pagamenti attesi è semplicemente
uguale alla somma di questi pagamenti attesi. Dato che il tasso di interesse normalmente è positivo, assumere che il
tasso di interesse sia pari a zero è solo un’approssimazione. Finora, abbiamo calcolato il valore atteso di una sequenza
di pagamenti in euro usando i tassi di interessi in termine di euro (i tassi di interesse nominali). Supponiamo invece di
voler calcolar il valore attuale di una sequenza di pagamenti reali cioè in termini di beni piuttosto che in euro. Seguendo
la logica di prima dobbiamo usare il tasso di interesse appropriato cioè il tasso di interesse reale. Possiamo scrivere il
valore attuale di una serie di pagamenti come:
dove rt, re t+1 è la sequenza del tasso di interesse
corrente e quelli attesi. Zt,ze t+1 è la sequenza
del pagamento reale corrente e di quelli attesi e
Vt è il valore attuale reale dei pagamenti futuri.
Nota bene → usare questa formula o la 14.1 è uguale: il valore attuale ottenuto calcolando €Vt con la 14.1 e dividendo
per Pt (livello dei prezzi) è uguale al valore reale Vt, ottenuto nell’ultima equazione che abbiamo riportato. Cioè €Vt/P
= Vt A parole: possiamo calcolare il valore attuale in 2 modi: come sequenza dei pagamenti espressi in euro, scontati
usando tassi di interesse nominali e come sequenza di pagamenti espressi in termini reali, scontati usando tassi di
interesse reali. Il risultato è lo stesso! A seconda dei contesti, useremo una o l’altra formula. Meglio usare la prima
formula nel caso dei titoli e nel caso in cui debbano essere prese delle decisioni di investimento/consumo meglio usare
la seconda.
PREZZO DEI TITOLI E CURVA DEI RENDIMENTI
I titoli differiscono per due aspetti principali:
1. La maturità dei titoli (detta anche scadenza) cioè il periodo di tempo durante il quale il titolo promette di effettuare
pagamenti al suo possessore. Se un titolo promette un pagamento tra 3 mesi, la sua maturità è 3 mesi.
2. Il rischio, che può essere il rischio di insolvenza, cioè il rischio che l’emittente del titolo (stato o semplicemente una
società) non rimborsi l’intero ammontare promesso dl titolo stesso; oppure rischio di prezzo, cioè il rischio legato
all’incertezza circa il prezzo a cui sarà possibile rivendere il titolo qualora lo si volesse vendere prima della scadenza.
Questi due fattori sono entrambi importanti per la determinazione nei tassi di interesse sui titoli. Ci concentriamo per
ora sul ruolo della scadenza. Tutti i titoli con maturità diverse hanno un loro prezzo, a cui è associato un tasso di
interesse chiamato rendimento alla scadenza o semplicemente rendimento. I rendimenti dei titoli con maturità a breve
termine, di solito fino a un anno, sono chiamati tassi di interesse a breve termine. I rendimenti dei titoli con maturità
a lungo termine sono detti tassi di interesse a lungo termine. Nota bene: ora possiamo classificare i tassi di interesse
in reali/nominali, di policy/sui prestiti e infine di breve termine/lungo termine. Osservando in un dato giorno i
rendimenti dei titoli con maturità diverse, possiamo tracciare la relazione tra rendimento di un titolo e maturità del
titolo → curva dei rendimenti o struttura a termine dei tassi di interesse. La curva dei rendimenti assume inclinazione
negativa se i tassi di interesse a lungo sono inferiori rispetto a quelli e breve e avrà inclinazione positiva se quelli a
breve sono più bassi di quelli a lungo.
Queste due figure rappresentano rispettivamente gli USA e l’Italia(riferita al 1996). Notiamo che inizialmente negli
USA l’inclinazione è negativa ma poi dopo poco diventa positiva. Potremmo chiederci il perché di questo, in sostanza
perché i tassi a lungo erano leggermente inferiori di quelli a breve in un primo momento mentre nel 2001 erano
superiori a questi ultimi. Perché la curva dell’Italia era leggermente inclinata negativamente nel 1996? in ciascuna di
queste date cosa si aspettavano i mercati finanziari? Per rispondere a queste domande occorre procedere per fasi
successive:
• Deriviamo il prezzo dei titoli per titoli con maturità diverse.
• Passiamo dal prezzo dei titoli al rendimento dei titoli ed esaminiamo le determinanti della curva dei rendimenti,
nonché la relazione tra tassi di interesse a breve e a lungo termine.
In questa parte, consideriamo due titoli: uno annuale e uno biennale senza cedola con valore di rimborso pari a 100. I
prezzi di questi titoli OGGI ci vengono indicati dalle seguenti figure. Scriviamo i1 per indicare che il tasso è a un anno.
Prima formula → Il prezzo di un titolo annuale varia
inversamente al tasso di interesse nominale corrente a un
anno (prima figura).
Seconda formula → Siccome il titolo biennale è una
promessa di pagamento di 100 euro tra due anni, il suo
prezzo deve essere uguale al valore attuale di 100 tra due
anni. i1t indica il tasso di interesse a un anno quest’anno e ie
1t+1 indica il tasso a un anno atteso dai mercati finanziari per
l’anno prossimo. Il prezzo di un titolo biennale dipende sia
dal tasso corrente a un anno sia dal tasso a un anno atteso
per l’anno prossimo.
Arbitraggio e prezzo dei titoli → prima di capire quali siano le implicazioni di queste due relazioni appena individuate,
occorre vedere una derivazione alternativa della seconda che ci consentirà di capire il concetto di arbitraggio.
Supponiamo che dobbiate scegliere se tenere titoli annuali o biennali e che ciò che vi interessa è quanto ne ricaverete
a un anno da oggi. Quale dei due titoli dovreste tenere?
• Supponiamo che decidiate di tenere titoli annuali. Per ogni euro che investite in questi titoli, l’anno prossimo avrete
(1+i1t)€.
• Supponiamo, invece, che decidiate di tenere titoli biennali. Poiché il prezzo di un titolo biennale è €P2t , ogni euro
che investite in questi titoli vi permette di acquistare 1/€P2t oggi. L’anno prossimo, al titolo resterà solo un anno alla
scadenza e sarà quindi equivalente a un titolo annuale. Quindi, il prezzo a cui potete aspettarvi di venderlo l’anno
prossimo è €Pe 1t+1 moltiplicato per 1€/€P2t o equivalentemente €Pe 1t+1/ €P2t. In quale dei due titoli dovete
investire?
Supponiamo che voi, come altri investitori finanziari, vi preoccupiate soltanto del rendimento atteso e ignoriate il
rischio (questa ipotesi è molto forte ed è nota come ipotesi sulle aspettative). Ipotizzando che voi, come gli altri
investitori finanziari, siate solo interessati al rendimento atteso, i 2 titoli devono avere lo stesso rendimento. Se ciò
non fosse vero, cioè se ad esempio il rendimento atteso del titolo annuale fosse inferiore a quello del titolo biennale,
nessuno domanderebbe titoli annuali. Il mercato dei titoli annuali non sarebbe in equilibrio . Solo a parità di
rendimento atteso gli investitori finanziari saranno disposti a detenere sia titoli annuali che biennali:
Il lato sx dà il rendimento per euro che si ottiene investendo in un titolo annuale per un anno. Il lato destro dà il
rendimento atteso per euro che si ottiene investendo per un anno in titolo biennale. Equazioni come quella sopra
riportata vengono chiamate CONDIZIONI DI ARBITRAGGIO e sono equazioni che affermano che i rendimenti attesi di
2 attività devono essere uguali.
Nota bene! → usiamo il termine arbitraggio per indicare la condizione secondo la quale i rendimenti attesi di due
attività devono essere uguali. Alcuni economisti finanziari utilizzano il termine arbitraggio per la condizione più
restrittiva secondo la quale le opportunità di profitto a rischio zero devono sempre essere sfruttate dal mercato.
L’arbitraggio comporta quindi che il prezzo oggi di un titolo biennale sia pari al valore attuale del prezzo atteso del
titolo l’anno prossimo:
Ci manca solo un problema da risolvere: da cosa dipende il prezzo atteso
per l’anno prossimo di un titolo annuale (€Pe 1t+1)? La risposta è
semplice! Così come il prezzo oggi di un titolo annuale dipende dal tasso
di interesse corrente a un anno, il prezzo di un titolo annuale l’anno
prossimo dipenderà dal tasso di interesse a un anno l’anno prossimo.
Scrivendo l’equazione per l’anno prossimo (t+1) e indicando le
aspettative nel solito modo, otteniamo:
Ci aspettiamo che il prezzo del titolo l’anno prossimo sia uguale al pagamento finale, 100€, scontato per il tasso di
interesse annuale atteso per quell’anno. Sostituendo €Pe 1t+1 abbiamo:
Questa espressione è la stessa dell’equazione che abbiamo mostrato all’inizio per un titolo biennaale. Abbiamo
pertanto dimostrato che l’arbitraggio tra titoli annuali e biennali comporta un prezzo dei titoli biennali pari al valore
attuale del pagamento ricevuto dopo 2 anni, cioè 100, scontati usando il tasso di interesse corrente a un anno e quello
atteso per l’anno prossimo.
Ora è il momento di passare dai prezzi ai rendimenti → la cosa principale da capire è che tutti e due ci danno delle
informazioni sui tassi di interesse ma il prezzo dà un’informazione più chiara. Il rendimento alla scadenza di un titolo
a n anni o, equivalentemente, il tasso di interesse a n anni, è definito come il tasso di interesse costante che uguaglia
il prezzo del titolo oggi al valore attuale dei pagamenti futuri. Per esempio consideriamo il titolo biennale introdotto
in precedenza. Indichiamo il suo rendimento con i2t dove il pedice 2 ci ricorda che il titolo è biennale. Seguendo la
definizione di rendimento alla scadenza, questo rendimento è definito come il tasso di interesse che, se mantenuto
costante nel biennio considerato, eguaglierebbe il valore attuale di 100 tra due anni al prezzo di titolo oggi. Esso
soddisfa pertanto la seguente relazione. Supponiamo che il titolo oggi sia in vendita a 90€. Allora il tasso a due anni è
dato da (100/90)1/2 – 1 cioè 5,4%. In altre parole, tenere un titolo biennale – fino alla scadenza – rende un tasso
annuale del 5,4%. Qual è la relazione tra tasso di interesse a due anni, tasso di interesse corrente a un anno e tasso di
interesse atteso a un anno? Per rispondere a questa domanda dobbiamo confrontare l’ultima equazione con la
penultima. Eliminando €P2t in entrambe e riordinando i termini abbiamo:
€P2t= 100/(1 + 𝑖)2
Questa relazione rappresenta la relazione esatta tra il tasso a due anni i2t e i tassi – corrente e atteso – a un anno,
rispettivamente i1t ie 1t. Un’utile approssimazione della precedente è:
Noi in questo esempio ci siamo concentrati sulla relazione tra prezzo dei titoli e rendimento dei titoli nel caso di titoli
annuali e biennali, ma i nostri risultati possono essere generalizzati a titoli di qualsiasi maturità. Avremmo potuto
considerare titoli con maturità inferiore a un anno. Per esempio, il rendimento di un titolo a sei mesi è
(approssimativamente) uguale alla media del tasso di interesse corrente a tre mesi e del tasso atteso tra tre mesi che
prevarrà nel prossimo trimestre. Oppure, avremmo potuto considerare un titolo a 10 anni, in questo caso il
rendimento è (approssimativamente) uguale alla media del tasso di interesse corrente a un anno e dei tassi di interesse
a un anno attesi nei prossimi 9 anni.
Ora abbiamo tutte le conoscenze necessarie per interpretare le figure prima riportate riguardanti gli USA e l’Italia.
Ricordate che quando gli investitori si aspettano che i tassi di interesse rimangano costanti nel tempo, la curva dei
rendimenti è leggermente inclinata positivamente come conseguenza del fatto che il premio per il rischio aumenta
con la maturità del titolo. Così, il fatto che la curva dei rendimenti fosse inclinata negativamente era un evento raro →
ciò ci dice che gli investitori pensavano che i tassi di interesse sarebbero diminuiti leggermente nel corso del tempo,
con la diminuzione attesa nei tassi di interesse maggiore dell’aumento del premio per il rischio associato a scadenze
lunghe. E se analizziamo la situazione macroeconomica all’epoca, gli investitori avevano valide ragioni per pensarla
così. Alla fine del novembre del 2000, l’economia statunitense stava rallentando. Gli investitori si aspettavano quello
che definivano un “atteraggio dolce”. Credevano che per preservare la crescita, la Fed avrebbe diminuito
gradualmente il tasso di policy e questa convinzione sta alla base dell’inclinazione negativa della curva dei rendimenti.
Alla fine del giugno del 2001, tuttavia, la crescita economica era diminuita molto più di quanto si aspettassero nel 2000
e, conseguentemente, la fed aveva diminuito il tasso di policy molto più del previsto. Gli investitori cominciarono
quindi a pensare che, quando l’economia si fosse ripresa, la Fed avrebbe cominciato ad aumentare il tasso di policy.
Conseguentemente la curva dei rendimenti acquisì nuovamente la sua pendenza positiva. Notate però come la curva
dei rendimenti fosse praticamente piatta per scadenze fino a un anno. Questo ci dice che i mercati finanziari non si
aspettavano un aumento dei tassi prima di un anno, cioè prima del giugno del 2002. Avevano ragione? Non proprio
perché la ripresa dell’economia fu più debole del previsto e la Fed non aumentò il tasso di policy fino al giugno del
2004, due anni più tardi del previsto.
Passiamo ora alla figura dell’Italia. Durata l’avvicinamento alla data prevista per l’introduzione della moneta unica, il
tasso di interesse dei titoli italiani (in lire) con scadenza prossima l’1/1/99 convergeva al tasso di interesse dei titoli
tedeschi (particolarmente basso). Quanto rapida fosse questa convergenza dipendeva dalla credibilità dell’impegno
dell’Italia di aderire all’Unione Monetaria. Più passava il tempo, più diventava credibile l’ingresso dell’Italia nell’euro e
più il tasso di interesse di titoli italiani con scadenza prossima l’1/1/99 si avvicinava al corrispettivo tedesco. I tassi di
interesse fino a quella dat erano quindi decrescenti. Tuttavia, dopo il 1/1/99 sarebbero entrati in gioco altri fattori di
rischio e questo è riflesso nel maggior livello del tasso di interesse sui titoli a 5 anni (avevano scadenza posteriore al
1/1/99) rispetto a quelli a 3 anni.
Capitolo 15 – aspettative, consumo e investimento
Le decisioni dell’investimento dipendono dal tasso di interesse reale corrente e dalle vendite correnti ma anche da
altri fattori. Supponiamo che un’impresa debba decidere se acquistare o meno un macchinario. Per calcolare il valore
attuale dei profitti attesi, l’impresa deve stimare la durata della vita utile di tale macchinario perché col passare del
tempo diventerà meno affidabile e più costoso da mantenere. Assumiamo che un macchinario perda la sua utilità a
un tasso δ ogni anno. In altre parole, un macchinario nuovo quest’anno vale solo (1 – δ) macchinari l’anno prossimo,
(1 – δ)2 macchinari tra due anni e così via. Il parametro δ, chiamato tasso di deprezzamento, misura quanta efficacia
viene persa dal macchinario da un anno all’altro. Quali sono i valori ragionevoli di δ? Gli statistici incaricati di vedere
come varia lo stock di capitale nel tempo ci hanno riportato i seguenti dati: 4 – 15% per i macchinari e 2 – 4%per
costruzioni e stabilimenti.
L’impresa deve calcolare il valore attuale dei profitti attesi. Assumiamo che un macchinario acquistato nell’anno t
diventi operativo – e inizi a deprezzarsi – soltanto un anno dopo, nell’anno t+1. Indichiamo i profitti del macchinario
in termini REALI con ∏ (usiamo pertanto i tassi reali). Se l’impresa acquista un macchinario nell’anno t, essa genera i
primi profitti attesi nell’anno t+1. Indichiamo questi profitti attesi con ∏e t+1. Il valore attuale nell’anno t, di questi
profitti per l’anno t+1 è dato da: (cerchio verde) Indichiamo i profitti attesi per ogni macchinario nell’anno ∏e t+2. A
causa del deprezzamento solo (1 – δ) del macchinario acquistato nell’anno t rimarrà nell’anno t+2 per cui i profitti
attesi del macchinario sono uguali a (1 – δ)∏e t+2. Nell’anno t il valore attuale di questi profitti attesi è uguale a:
(cerchio lilla)
Lo stesso ragionamento si applica ai profitti attesi negli anni successivi. Mettendo insieme tutti i pezzi, si ottiene il
valore attuale dei profitti attesi dall’acquisto del macchinario nell’anno t, che chiamiamo V( ∏e t).
Questo valore attuale è uguale al valore attuale scontato dei profitti attesi l’anno prossimo, più il valore scontato dei
profitti attesi tra 2 anni (tenendo in considerazione il deprezzamento del macchinario), e così via.
L’impresa a questo punto deve decidere se acquistare o meno il macchinario. Questa scelta dipende dalla relazione
tra il valore attuale dei profitti attesi e il prezzo del macchinario stesso. Per semplificare la notazione, assumiamo che
il prezzo reale di un macchinario – cioè il prezzo in termini del paniere di beni prodotti nell’economia – sia uguale a 1.
Tutto ciò che l’impresa deve fare è confrontare il valore attuale dei profitti con 1. Se il valore attuale dei profitti è
minore di 1 (il costo del bene sarebbe più alto di quanto si aspetta di ricevere dall’acquisto del bene stesso in termini
di profitti futuri), all’impresa non conviene comprare il macchinario viceversa se è maggiore di 1. Passiamo ora dal
nostro esempio con una sola impresa e un solo macchinario all’analisi dell’investimento dell’intera economia:
Indichiamo con It l’investimento aggregato, con ∏ i profitti per unità di capitale (considerando l’economia nel suo
insieme e prendendo quindi in considerazione non solo un macchinario ma anche altri beni) e infine indichiamo con
V(∏e t) il valore attuale atteso dei profitti per unità di capitale. Otteniamo una funzione di investimento nella forma:
It=I[V(∏e t)] (+)
l’investimento dipende positivamente dal valore attuale dei profitti futuri (per unità di capitale). Quanto più elevati
sono i profitti correnti o attesi, tanto maggiore sarà il livello di investimento. Tanto maggiore è il tasso di interesse
reale corrente o futuro, tanto minore sarà il valore attuale e quindi minore sarà l’investimento.
Consideriamo ora un utile caso speciale.
Supponiamo che le imprese si aspettino che sia i profitti futuri sia i tassi di interesse futuri rimangano costanti allo
stesso livello di oggi: ∏t = ∏e t+1 = ∏e t+2 rt=rt+1=rt+2
Gli economisti chiamano queste aspettative – aspettative per cui il futuro sarà uguale al presente – aspettative
statiche. Sulla base della nostra ipotesi il valore attuale dei profitti attesi è uguale al rapporto tra il tasso di profitto (il
profitto per unità di capitale) e la somma di tasso di interesse reale e tasso di deprezzamento
→ V(∏e t) = ∏t /rt +δ
Sostituendo ciò nella funzione di investimento otteniamo: It=I[∏t /rt +δ] L’investimento è una funzione del rapporto
tra il tasso di profitto e la somma del tasso di interesse e del tasso di deprezzamento. Tanto maggiori sono i profitti
tanto maggiore sarà l’investimento, tanto maggiore è il denominatore (costo d’uso) tanto più basso sarà
l’investimento. Il denominatore è detto costo d’uso o di affitto del capitale. Infatti se noi prendessimo in affito un
macchinario dovremmo pagare un interesse pari a rt volte il prezzo del macchinario (che nella nostra trattazione è pari
a 1 in termini reali) di modo che chi affitta il macchinario ottiene almeno tanto quanto otterrebbe se detenesse titoli.
Chi affiitta deve poi mettere in conto il deprezzamento: δ volte il prezzo del macchinario che è sempre uguale a 1.
Costo d’uso o di affitto del capitale = (rt +δ) Generalmente le imprese non prendono in affitto i loro macchinari, (rt +δ)
rappresenta il costo implicito (talvolta chiamato prezzo ombra) dell’uso del macchinario per un anno. L’evidenza
empirica ci suggerisce che gli investimenti non vengono influenzati solo dl valore attuale dei profitti attesi ma anche
dai profitti correnti. Perché i profitti correnti influenzano le decisioni di investimento? La nostra precedente
discussione sul perché il consumo dipenda direttamente dal reddito corrente, ci può aiutare. Se i profitti correnti sono
bassi, un’impresa che voglia acquistare un nuovo macchinario può ottenere i fondi necessari solo ricorrendo a un
prestito. L’impresa potrebbe però essere riluttante a seguire questa via: anche se i profitti attesi sembrano alettanti,
le cose potrebbero andare per il verso sbagliato e l’impresa potrebbe non riuscire a onorare il suo debito. Se invece i
profitti correnti sono alti, l’impresa può permettersi di finanziare l’investimento attingendo fondi dai propri fondi,
senza dover chiedere denaro a prestito. Quindi elevati profitti correnti possono indurre un’impresa a investire di più.
Anche se un’impresa volesse investire potrebbe trovare delle difficoltà nel reperire credito. I creditori potenziali
potrebbero non essere convinti della bontà del progetto e potrebbero temere che l’impresa non riesca a ripagare il
debito. Se l’impresa ha profitti correnti elevati, non deve ricorrere a un prestito e quindi non deve convincere i
potenziali creditori della profittabilità dei suoi investimenti. Può investire quanto e quando le sembra opportuno e,
con elevati profitti correnti, sarà incentiva a farlo. Perciò la funzione di investimento diventa
→ It=I[V(∏e t),∏t]
Da cosa sono determinati a loro volta i profitti per unità di capitale? Da due fattori fondamentali:
1) il livello delle vendite. (supponiamo che produzione e vendite coincidano)
2) Lo stock di capitale.
∏t = ∏(Y t /Kt )
→ il profitto per unità di capitale è una funzione crescente del rapporto tra vendite e stock di capitale. Dato lo stock
di capitale, quanto maggiori sono le vendite, tanto più alto sarà il profitto per unità di capitale. Date le vendite, quanto
maggiore è lo stock di capitale, tanto minore sarà il profitto per unità di capitale. C’è una stretta relazione tra le
variazioni del profitto per unità di capitale e le variazioni del rapporto produzione/capitale. Dato che la maggior parte
delle variazioni annuali di questo rapporto è generata da fluttuazioni della produzione e che la maggior parte delle
variazioni annuali dei profitti per unità di capitale è generata da variazioni dei profitti (il capitale cambia lentamente
nel tempo; la ragione è che il capitale è grande rispetto all’investimento annuale, per cui anche ampie fluttuazioni
dell’investimento portano a variazioni modeste dello stock di capitale), possiamo affermare che il profitto aumenta
nelle fasi di espansione e diminuisce nelle fasi di recessione. Perché mai questa relazione tra produzione e profitti
dovrebbe essere rilevante? Perché genera un legame tra produzione corrente e produzione futura attesa, da un lato
e investimento, dall’altro: la produzione corrente influenza i profitti correnti, la produzione attesa futura i profitti futuri
attesi e i profitti correnti e futuri attesi l’investimento. Per esempio: maggior produzione attesa → maggiori profitti
attesi → maggior investimento corrente.
LA VOLATILITÀ DEL CONSUMO E DELL’INVESTIMENTO
Ci sono diverse analogie tra consumo e investimento. Per esempio, quanto meno i consumatori considerano duraturo
l’aumento del reddito, tanto meno aumenteranno il loro consumo. Lo stesso vale per le imprese, il fatto che le imprese
percepiscano le fluttuazioni delle vendite correnti come transitorie piuttosto che come permanenti influenza le loro
decisioni di investimento. È per questa ragione, per esempio, che l’aumento delle vendite che si verifica ogni anno nel
periodo natalizio non induce le imprese ad aumentare gli investimenti perché sanno che si tratta di un aumento
temporaneo. Ci sono tuttavia delle differenze tra le decisioni di investimento e le decisioni di consumo. A fronte di un
incremento del reddito percepito come permanente, i consumatori rispondono al massimo con un aumento del
consumo di pari ammontare. Il carattere permanente dell’aumento del reddito consente loro di aumentare il consumo
oggi e in futuro in misura pari alla variazione del reddito. Aumentare il consumo più che proporzionalmente oggi
richiede una riduzione del consumo futuro e non c’è ragione perché i consumatori vogliano modificare in tal senso i
loro piani di consumo. Al contrario, nel caso in cui un’impresa percepisca come permanente un incremento delle
vendite, essa potrebbe decidere di aumentare gli investimenti più che proporzionalmente. L’aumento iniziale delle
vendite porta a un incremento di Y, per cui aumenta pure il rapporto Y/K – il rapporto tra la produzione dell’impresa
e lo stock di capitale. Ne risulta un profitto maggiore, che induce le imprese a effettuare più investimenti. Col passare
del tempo, il livello degli investimenti più elevato si traduce in uno stock di capitale superiore, K, per cui Y/K ritorna al
suo livello normale. Il profitto per unità di capitale ritorna al livello di prima e così pure l’investimento. Quindi, in
seguito a un aumento permanente delle vendite, l’investimento può aumentare in misura notevole all’inizio e poi
tornare pian piano al suo livello iniziale. Ci sono diverse conclusioni da fare:
• Il consumo e l’investimento di solito si muovono insieme. Per esempio, le recessioni sono associate a riduzioni sia di
C e sia di I.
• L’investimento è molto più volatile del consumo. Le variazioni relative dell’investimento vanno da - 29 a +26%,
mentre le fluttuazioni relative del consumo vanno da -5 a +3%.
• Mentre l’investimento costituisce una parte minore del PIL rispetto al consumo, le variazioni assolute nei livelli delle
due variabili sono più o meno della stessa ampiezza.
Il punto principale di questo capitolo è: sia le decisioni di consumo che quelle d’investimento dipendono molto dalle
aspettative sul futuro.
Capitolo 22- la politica fiscale
Il vincolo di bilancio del governo: disavanzo, spese e imposte
(perché ci dobbiamo preoccupare del nostro debito pubblico: il debito pubblico frena l’accumulazione di
capitale, mette a rischio la stabilità dell’intero sistema economico e rende estremamente difficile condurre la
politica monetaria punto non tutto il mare vien per nuocere! I disavanzi aperta parentesi tonda e gli avanzi
chiusa parentesi tonda di bilancio servono per ridistribuire nel tempo l’onere della tassazione appunto i
disavanzi iniziano a rappresentare un problema nel momento in cui si traducono in una rapida
accumulazione di debito, poiché ridurre un elevato debito pubblico, una volta che questo sia accumulato,
può richiedere un periodo di tempo protratto a volte di molti decenni.)
Bt-1= debito pubblico in termini reali alla fine dell’anno t-1
r = tasso di interesse reale (costante)
r Bt-1= tassi di interesse reali corrisposti sui titoli pubblici in circolazione Gt = spesa pubblica in beni e servizi
nell’anno t
Tt = imposte al netto di trasferimenti
Supponiamo che il governo partendo da una situazione di bilancio in pareggio riduca le imposte generando un
disavanzo di bilancio. Che cosa accadrà al debito nel corso del tempo? Il governo dovrà aumentare le imposte in
futuro? Se sì di quanto? Di più di quanto le aveva ridotte?
Occorre definire il concetto di DISAVANZO DI BILANCIO (o semplicemente disavanzo):
•
•
•
Bt-1 è il debito pubblico alla fine dell’anno t -1, cioè all’inizio dell’anno t; r è il tasso di interesse reale, che qui
considereremo costante. Ne segue che rBt-1 rappresenta gli interessi reali corrisposti sui titoli pubblici in
circolazione.
Gt è la spesa pubblica in beni e servizi nell’anno t.
Tt sono le imposte al netto dei trasferimenti nell’anno t.
Il disavanzo di bilancio è quindi uguale alla spesa in beni e servizi, più gli interessi, meno le imposte al netto dei
trasferimenti.
L’equazione ha 2 caratteristiche:
1. Misuriamo la spesa per interessi in termini reali – cioè consideriamo non la spesa effettiva per interessi (debito
esistente*tasso di interesse nominale) ma il prodotto di tasso di interesse reale per il debito esistente. Tuttavia
le misure ufficiali del disavanzo si basano sulla spesa effettiva (nominale) per interessi e pertanto non sono
corrette. Quando l’inflazione è elevata, le misure ufffciali possono risultare particolarmente ingannevoli. La
misura corretta del disavanzo di bilancio prende il nome di disavanzo corretto per l’inflazione.
2. Siccome all’inizio del corso di Macroeconomia abbiamo definito G come la spesa pubblica in beni e servizi,
continuiamo ad assumere che G non includa i trasferimenti e li togliamo da T. Le misure ufficiali della spesa
pubblica contengono i trasferimenti e definiscono le entrate dello stato come imposte e non come imposte
nette. Si tratta di convenzioni contabili non rilevanti per la misurazione del disavanzo ma rilevanti per la
misurazione di G e T.
IL VINCOLO DI BILANCIO DEL GOVERNO
Ha due caratteristiche:
1. La spesa per interessi è misurata in termini reali aperta parentesi tonda la misura corretta del disavanzo e
chiamata disavanzo corretto per l’inflazione.
2. La spesa pubblica non include i trasferimenti punto i trasferimenti vengono sottratti dalle imposte.
Il vincolo di bilancio del governo afferma semplicemente che la variazione del debito pubblico nel corso dell’anno t
deve essere uguale al disavanzo nell’anno t.
Bt – Bt-1 = disavanzot
Non bisogna pertanto confondere i termini debito e disavanzo. Il debito è una variabile di stock che rappresenta
quanto il governo deve ai finanziatori come risultato dei disavanzi di bilancio passati. Il disavanzo è una variabile di
flusso: rappresenta quanto il governo ha preso a prestito durante un certo anno.
Se il governo incorre in un disavanzo, il debito pubblico aumenta poiché il governo prende a prestito per finanziare la
parte di spesa pubblica che eccede le entrate fiscali. Se invece il governo registra un avanzo, il debito pubblico
diminuisce poiché il governo utilizza l’avanzo di bilancio per ripagare parte del debito esistente.
Il vincolo di bilancio può essere riscritto come:
Bt – Bt-1 =rBt-1 + Gt – Tt (equazione 22.2)
(il lato destro indica il disavanzo TOTALE di bilancio. Il lato sinistro indica la variazione dello stock di debito. B indica
l’ammontare complessivo del debito
è spesso conveniente decomporre il disavanzo di bilancio nella somma di due termini:
• Il pagamento per interessi sul debito, rBt-1.
• La differenza tra spesa pubblica e imposte Gt-Tt . Questo termine è chiamato disavanzo primario (allo stesso
modo Tt – Gt avanzo primario).
Possiamo distinguere due tipi di disavanzo:
- Disavanzo TOTALE: include le
spese per interessi
- Disavanzo PRIMARIO: questo
no
Oppure, spostando Bt-1 sul lato destro dell’equazione e riordinando i termini, otteniamo:
Bt = (1+r)Bt-1 + (Gt – Tt)
Il debito alla fine dell’anno t è uguale a (1+r) per il debito alla fine dell’anno t-1, più il disavanzo primario che è uguale
a Gt – Tt. Il vincolo di bilancio mette in relazione la variazione del debito pubblico con il livello del debito pubblico
all’inizio del periodo con la spesa pubblica e le imposte raccolte nel periodo corrente.
2.2 IMPOSTE PRESENTI E FUTURE
PER ↓ TASSE
Se la spesa pubblica resta invariata, una riduzione delle imposte oggi deve essere compensata da un aumento delle
imposte future. Quanto più tempo il governo aspetta ad aumentare le imposte per pagare il debito o quanto
maggiore è il tasso di interesse reale, tanto maggiore sarà l’aumento delle imposte future necessarie per ripagare il
debito.
Il rapporto debito PIL è uguale alla somma di due termini: la spesa per interessi virgola in termini reali, corretta per la
crescita della produzione; Rapporto tra il disavanzo primario e il PIL
L’equazione precedenti implica che l’aumento del rapporto debito PIL sarà maggiore quando: il tasso di interesse
reale maggiore; Il tasso di crescita della produzione minore; il livello iniziale del rapporto debito PIL maggiore; Il
rapporto tra disavanzo primario e pil è maggiore.
L’EQUIVALENZA RICARIDIANA
Supponiamo che, a parità di spesa pubblica, quest’anno il governo riduca le imposte di uno, finanziandosi con
un’emissione di debito. Il governo annuncia che l’anno prossimo aumenterà le imposte di (1+r) per rimborsare il
debito. Qual è l’effetto sul consumo dal taglio delle imposte?
I consumatori si rendono conto che minori imposte quest’anno verranno ricompensate da maggiori imposte l’anno
prossimo i risparmiano il maggior reddito disponibile derivante dalle minori imposte: il valore presente scontato del
reddito da lavoro rimane invariato. Secondo il teorema di equivalenza ricardiana, finanziare la spesa pubblica con
tasse o con debito non influenza le scelte di consumo degli agenti economici. Questo perché i consumatori non
considerano il proprio aumento del reddito disponibile come permanente! Quindi perché dovrebbero consumare di
più oggi?
Come dovremmo considerare l’equivalenza ricardiana? Nella realtà, quanto più lontani nel tempo e in certi
sembrano gli aumenti delle imposte future agli occhi dei consumatori, tanto più è probabile che essi li ignorino. In
questo caso l’equivalenza ricardiana è destinata a fallire.
In generale: il disavanzo pubblico ha effetti rilevanti sull’ attività economica
-
Nel breve periodo: forti disavanzi fanno aumentare la domanda e la produzione
Nel lungo periodo: un maggior debito pubblico riduce l’accumulazione di capitale e quindi la produzione
I PERICOLI DI UN DEBITO PUBBLICO MOLTO ELEVATO
Torniamo all’ equazione che descrive l’andamento del debito/PIL:
Supponiamo che per qualche ragione gli investitori inizino a
dubitare della solvibilità del governo. Inizieranno così a
chiedere rendimenti più alti per compensare il rischio e il tasso
di interesse r aumenterà.
Per stabilizzare il debito, il governo intraprende una stretta
fiscale. Questa riduce il tasso di crescita g. L’aumento di r la
riduzione di g rendono ancora più difficile la stabilizzazione del
debito.
Il rapporto debito/pil aumenterà, con esso gli interessi sul debito e così via, dando vita ad una spirale del debito
appunto notate che anche qualora i timori di un’eventuale insolvenza del governo fossero inizialmente infondati,
potrebbero facilmente autorealizzarsi. Una situazione del genere si è verificata nell’estate del 2012 nell’eurozona.
Cosa accade se il governo non riesce a stabilizzare il debito e si innesca una spirale del debito?
La storia ci insegna che possono accadere due cose:
-
il governo fa default sul suo debito, cioè non lo rimborsa agli investitori: il governo potrebbe scegliere di
diventare inadempiente. Tuttavia, d’inadempienza e spesso parziale e gli investitori subiscono un haircut. Un
haircut del 30% significa che gli investitori ricevono solamente 70% di quanto loro dovuto. Il default
potrebbe essere imposto unilateralmente dal governo (ripudio del debito), oppure potrebbe essere il
risultato di negoziazioni con i creditori
-
Il governo ricorre al finanziamento monetario: in questo caso il governo emette titoli che vengono
forzatamente acquistati dalla banca centrale in cambio di moneta. Tuttavia, c’è un limite al disavanzo che il
governo è in grado di finanziare attraverso la monetizzazione. Tale limite deriva dal fatto che quando la
crescita della moneta aumenta, con esso aumenta anche l’inflazione appunto presto l’inflazione si trasforma
in iperinflazione rendendo necessaria un drastico miglioramento della politica fiscale e l’eliminazione del
disavanzo punto ma a quel punto i danni saranno ormai Stati fatti.
Il punto principale di questo capitolo è: la politica fiscale può essere uno strumento di forte politica
macroeconomica; nell’usarla bisogna pensare sia ai suoi effetti di breve periodo, sia a quelli di medio-lungo
periodo
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