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LIBRO DI TESTO ULTIMA VERSIONE 29 11 19

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Questo testo è il risultato di un lavoro di aggiornamento, revisione e, per certi versi, di semplificazione del libro di testo,
pubblicato nel 2009: Papa, R. (a cura di), Il Governo delle trasformazioni urbane e territoriali Metodi, tecniche e
strumenti. Milano, IT: FrancoAngeli. Si tratta di una versione in progress che dovrà essere rivista per configurare una
vera e propria II edizione del volume pubblicato nel 2009.
L’aggiornamento e la revisione sono stati realizzati dai docenti che, per l’anno 2019/2020, sono chiamati a tenere le
lezioni degli insegnamenti riconducibili al “Governo delle trasformazioni urbane e territoriali” dei corsi di studio della
Scuola Politecnica e delle Scienze di Base della Federico II. In linea con le strategie editoriali dell’Università Federico II,
il testo, in questa versione, è solo una copia di lavoro in bozza.
Come per il testo pubblicato del 2009, anche per queste pagine mi assumo la responsabilità della qualità scientifica
dell’impianto complessivo del volume e dei singoli argomenti trattati, con il beneficio di inventario per errori ed
omissioni che in un testo così ampio ed articolato possono essere presenti.
Rocco Papa
In copertina:
Schizzo sintetico del Piano Regolatore di Napoli redatto da Rocco Papa in occasione della presentazione dei contenuti
del Piano nella seduta conclusiva dell’iter di approvazione in Consiglio Comunale (2005)
Indice
Presentazione, di Rocco Papa
pag. 7
Parte prima
La città come sistema: un approccio multidimensionale
1.
Sistema Urbano e Complessità, di Carmela Gargiulo
1.1. Definizioni e paradigmi interpretativi della città
Le definizioni di città
I paradigmi interpretativi della città
1.2. La Teoria Generale dei Sistemi ed il paradigma della complessità
La Teoria Generale dei Sistemi
Il paradigma della complessità
Cenni sulla teoria del caos
1.3. La città come sistema spaziale, dinamico e complesso
L’articolazione del sistema urbano
Componenti, relazioni e invarianti del sistema urbano
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2.
Sistema Urbano e Sviluppo Sostenibile, di Adriana Galderisi
2.1. Risorse, ambiente, città
I limiti della crescita
Ambiente, risorse, sviluppo
2.2. Le dimensioni della sostenibilità
2.3. Sviluppo sostenibile e sistema urbano
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3.
Sistema Urbano e Mobilità, di Enrica Papa
3.1. Il sistema integrato trasporti-città
Sistema di trasporto e sottosistema fisico
Sistema di trasporto e sottosistema funzionale
Sistema di trasporto e sottosistema socio-antropico
Sistema di trasporto e sottosistema delle risorse naturali: la mobilità sostenibile
3.2. Gli elementi dell’offerta di trasporto e la città
Trasporto collettivo e città
Trasporto privato e città
Sistema della sosta e città
Terminal di trasporto e città
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4.
Sistema Urbano e Vulnerabilità, di Adriana Galderisi ed Andrea Ceudech
4.1. Rischi naturali e rischi antropici
Rischi
Durata dell’impatto
Estensione territoriale dell’impatto
Concetto di rischio
4.2. La vulnerabilità dei sistemi urbani
Resilienza
4.3. Prevenzione dei rischi e governo delle trasformazioni urbane:
dalla settorialità all’integrazione
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INDICE
5.
Sistema urbano e paradigma prestazionale, di Carmela Gargiulo
5.1. Le componenti e le fasi del paradigma prestazionale
5.2. La domanda e l’offerta come componenti del sistema urbano
5.3. L’equilibrio dinamico tra domanda e offerta per il governo
dei sistemi urbani
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Parte Seconda
Il governo delle trasformazioni urbane: metodi e tecniche
6.
7.
8.
9.
Il governo delle trasformazioni urbane, di Romano Fistola
6.1. Dalla pianificazione al governo delle trasformazioni urbane
6.2. Il governo delle trasformazioni urbane come processo ciclico
6.3. Le fasi del processo: la conoscenza, l’interpretazione,
la decisione, l’azione
Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e
l’interpretazione dei fenomeni urbani, di Andrea Ceudech ed Enrica Papa
7.1. Le fasi della conoscenza: lettura, misura, interpretazione e
modellizzazione
La lettura
La misura
L’interpretazione
La modellizzazione
7.2. Lettura e misura: fonti, scale e unità spaziali di riferimento
Caratteristiche e classificazione delle fonti
Le fonti iconografiche e fotografiche
Le foto aeree e le cartografie
Le fonti archivistiche, bibliografiche e le banche dati
Le indagini sul campo e le campionature
Le unità spaziali di riferimento
7.3. La lettura e la misura dei sottosistemi urbani
Il sottosistema socio-antropico
Il sottosistema fisico
Il sottosistema funzionale
Il sottosistema geomorfologico
7.4. Il sistema integrato trasporti-territorio: metodi e tecniche
per la conoscenza
Le misure e le forme di rappresentazione della mobilità
Le misure di accessibilità
I modelli di simulazione trasporti-territorio
7.5. La conoscenza delle condizioni di rischio degli insediamenti: metodi e tecniche
La conoscenza del rischio per la redazione dei piani
La misura della vulnerabilità dei sistemi territoriali: scale, indicatori, problemi operativi
Le tecniche di scenario per la prefigurazione del rischio
Scenari di rischio sismico a scala urbana
7.6. Tecniche di interpretazione delle informazioni
Le tecniche di statistica univariata
Le tecniche di statistica multivariata
7.7. I modelli come supporto alla conoscenza e alla previsione
dell’assetto del sistema urbano
Caratteristiche dei modelli territoriali
Tecniche per il governo delle trasformazioni: i metodi geocomputazionali,
di Romano Fistola
8.1. Le nuove tecnologie per il governo delle trasformazioni
territoriali: i GIS
8.2. Interpretazione sistemica e GIS
8.3. Esempi di applicazioni per il territorio
Tecniche per il governo delle trasformazioni: le decisioni,
di Carmela Gargiulo ed Adriana Galderisi
9.1. Decisione, complessità e incertezza
9.2. Dallo stato desiderato allo stato compatibile
La definizione dello stato desiderato
2
INDICE
Il confronto tra stato di fatto e stato desiderato per l’individuazione delle carenze
Le risorse disponibili e l’individuazione dello stato compatibile
9.3. Strumenti di supporto alle decisioni: la mappa della trasformabilità
Criteri e metodi per la messa a punto di uno strumento di supporto alle decisioni
La mappa della trasformabilità fisica e della compatibilità funzionale
10. Tecniche per il governo delle trasformazioni: le azioni, di Adriana Galderisi
10.1. La fase dell’azione nel processo di governo delle trasformazioni urbane
10.2. Individuare, programmare e implementare le azioni di governo
10.3. L’evoluzione del sistema urbano: tecniche di controllo
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Parte Terza
Le regole per il governo delle trasformazioni urbane
11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella
legislazione vigente, di Giuseppe Mazzeo
11.1. Principi generali e livelli di pianificazione nella Legge
Urbanistica Nazionale
La Legge Urbanistica Nazionale n. 1150/1942
Il processo di riforma della legislazione urbanistica nazionale
Dalla gerarchia alla copianificazione
Accordo di programma
Copianificazione
11.2. Strumenti generali e settoriali di pianificazione
11.3. Le legislazioni urbanistiche regionali: una lettura diacronica
Dalla nascita delle regioni alla fase matura
La normativa regionale recente e la sperimentazione in atto
12. I Piani per il governo delle trasformazioni territoriali,
di Giuseppe Mazzeo
12.1 Gli strumenti per la pianificazione/programmazione regionale
La pianificazione territoriale nella Legge 1150/42
La pianificazione regionale tra gli anni Settanta e gli anni Novanta
La pianificazione regionale dagli anni Novanta ad oggi
12.2 Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale
Il PTCP tra piano di previsione, piano di strategie e piano
di tutela ambientale
La pianificazione provinciale nella legislazione campana
12.3 La pianificazione nelle aree metropolitane
13. I Piani settoriali a scala territoriale, di Giuseppe Mazzeo ed
Enrica Papa
13.1. I piani sovracomunali per la tutela dell’ambiente
Il Piano di Bacino e il Piano di Assetto Idrogeologico
Il Piano del Parco
Il Piano Territoriale Paesistico
Dal Piano Paesistico al Piano Paesaggistico
13.2. I piani sovracomunali per il governo della mobilità
Il Piano Generale dei Trasporti e le Direttive Europee
sulla mobilità
Il Piano Regionale dei Trasporti
13.3. Verso un governo integrato delle trasformazioni territoriali
14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane,
di Romano Fistola
14.1. Il Piano Comunale: struttura e contenuti
La zonizzazione del PRG
14.2. I nuovi contenuti del Piano Comunale
14.3. Il PUC nella legge regionale campana
15. I piani settoriali a scala urbana, di Adriana Galderisi ed
Enrica Papa
15.1. I piani comunali per la tutela dell’ambiente
Dalla Zonizzazione Acustica ai Piani di Azione
3
INDICE
L’Elaborato Tecnico RIR
I Piani Energetici Comunali
I Piani di Azione per l’Energia Sostenibile
15.2. I piani comunali per il governo della mobilità
Il Piano Urbano della Mobilità
Il Piano Urbano del Traffico
Verso una pianificazione integrata trasporti-territorio
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16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA), di Rosa Anna La Rocca
16.1. La pianificazione attuativa: una lettura diacronica
16.2. I piani urbanistici di attuazione
Piani Particolareggiati
Piani di Zona per l’Edilizia Economica e Popolare
Piani di Lottizzazione
Piani per gli Insediamenti Produttivi
Piani di Recupero
16.3. Attuazione del piano e Programmi Complessi
Programmi Integrati di Intervento
Programma di Recupero Urbano
Programma di Riqualificazione Urbana
Contratti di Quartiere
Programma di Riqualificazione Urbana e Sviluppo
Sostenibile del territorio
16.4. I Piani Urbanistici Attuativi nella LUR della Campania
Procedimento di formazione dei PUA
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Parte Quarta
La redazione del piano come processo ciclico: tecniche e strumenti
17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale,
di Giuseppe Mazzeo ed Andrea Ceudech
17.1. Il carico urbanistico
17.2. Le dotazioni urbane
17.3. Il dimensionamento delle dotazioni urbane
Gli standard urbanistici
Dalle dotazioni standard a quelle prestazionali
Il Piano dei Servizi
17.4. Il disegno di piano
Il disegno strutturale e strategico
Il disegno prescrittivo: zonizzazione e distribuzione delle
funzioni sul territorio
17.5. La perequazione urbanistica
Definizioni di base
Utilità ed attualità delle tecniche perequative
Le tecniche perequative
Esempi di perequazione
17.6. La normativa di attuazione
18. La valutazione delle scelte del Piano, di Giuseppe Mazzeo e
Cristina Calenda
18.1. La Valutazione ambientale strategica
I riferimenti
Il ruolo della valutazione nei processi di governo delle
trasformazioni urbane e territoriali
18.2. Dalla normativa europea alla normativa regionale
La valutazione ambientale strategica nella Direttiva
Comunitaria 42/2001
Il Decreto Legislativo 152/2006
Contenuto del rapporto ambientale
La VAS in Campania
La VAS e la VIA
18.3. Strumenti: il modello DPSIR
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INDICE
Parte Quinta
L’attuazione del piano: strumenti, attori, risorse e best practices
19. L’attuazione del Piano Comunale, di Rosa Anna La Rocca
19.1. I procedimenti autorizzativi per gli interventi edilizi
Permesso a Costruire
Denuncia di Inizio Attività
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23. Transit Oriented Development: uno strumento di governo
integrato trasporti-territorio, di Enrica Papa
23.1. Il Transit Oriented Development (TOD)
23.2. Le applicazioni del TOD
TOD negli Stati Uniti
TOD in Inghilterra: le Transport Development Areas
TOD in Olanda: la città a rete dello Stadenbaan
TOD in Francia, Germania e Italia
23.3. Una metodologia per l’applicazione del TOD
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24. Evoluzione e Morfogenesi Urbana, di Romano Fistola
e Giuseppe Mazzeo
24.1. La città nella storia
Il sinecismo urbano e la civitas diabuli
Dal villaggio alla città medievale
Dalla città rinascimentale alla città moderna
24.2. Modelli e forme della città
Modelli di struttura
Modelli evolutivi
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20. Attori e risorse per l’attuazione del piano comunale,
di Rosaria Battarra
20.1. I soggetti per l’attuazione delle scelte urbanistiche
La ripartizione delle competenze degli enti locali
Il Comune
I soggetti privati
20.2. Gli strumenti di semplificazione e snellimento delle procedure:
Conferenza dei Servizi e Accordo di Programma
20.3. Rapporto pubblico/privato e strumenti operativi
Il Project Financing
Le Società di Trasformazione Urbana
20.4. Il ruolo della collettività: modi e forme della partecipazione
Parte Sesta
Focus e approfondimenti
21. Nuovi strumenti per il governo di sistemi urbani competitivi,
di Daniela Cerrone
21.1. Strumenti di pianificazione per la competizione tra territori:
il Piano Strategico
La SWOT Analysis
Decisione e Azione
21.2 Piano Strategico e Piano Urbanistico Comunale
21.3. Esempi di Piano Strategico
Torino Internazionale
Ba2015 Piano Strategico Metropoli Terra di Bari
Considerazioni conclusive
22. Innovazione tecnologica e governo delle trasformazioni
territoriali, di Romano Fistola
22.1. Nuove tecnologie e trasformazione dei “modi d’uso” della città
22.2. Verso nuovi sottosistemi urbani: la “virtualizzazione”
funzionale
22.3. Il Piano Digitale
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PRESENTAZIONE
Rocco Papa
Questo testo è il risultato di un lavoro di aggiornamento, revisione e, per certi versi, di semplificazione del
libro di testo, pubblicato nel 2009: Papa, R. (a cura di), Il Governo delle trasformazioni urbane e territoriali
Metodi, tecniche e strumenti. Milano, IT: FrancoAngeli. Si tratta di una versione in progress che dovrà
essere rivista per configurare una vera e propria II edizione del volume pubblicato nel 2009.
L’aggiornamento e la revisione sono stati realizzati dai docenti che, per l’anno 2019/2020, sono chiamati a
tenere le lezioni degli insegnamenti riconducibili al “Governo delle trasformazioni urbane e territoriali” dei
corsi di studio della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base della Federico II. In linea con le strategie
editoriali dell’Università Federico II, il testo, in questa versione, è solo una copia di lavoro in bozza.
Come per il testo pubblicato del 2009, anche per queste pagine mi assumo la responsabilità della qualità
scientifica dell’impianto complessivo del volume e dei singoli argomenti trattati, con il beneficio di
inventario per errori ed omissioni che in un testo così ampio ed articolato possono essere presenti.
Anni fa, nella presentazione alle “Lezioni di urbanistica” affermavo con convinzione che “viviamo, anche
nel campo della ricerca scientifica applicata, un periodo complesso e confuso in cui modelli e metodi,
procedure e algoritmi si “aggiornano” con velocità sconcertante tanto da rendere difficile la definizione di
processi di conoscenza (teorie) e di azioni (politiche e pratiche) validi e condivisi. Tra le prime discipline ad
essere investite da questo diverso clima, l’urbanistica o più propriamente i saperi connessi al governo delle
trasformazioni urbane e territoriali soffrono di una indeterminazione, che da intrinseca è diventata
strutturale, con gravissime conseguenze sia in sede accademica che amministrativa e professionale”.
Ad oggi le cose purtroppo non sono cambiate. Continuiamo a vivere in un contesto di indeterminatezza
scientifico-disciplinare che tanti guasti provoca in tutti i settori del nostro lavoro. Da questa constatazione
è discesa una convinzione che in questi ultimi tempi si è rafforzata: la necessità di definire un sistema di
conoscenze che possa essere trasmesso agli studenti universitari ed in cui siano formalizzati, in primo
luogo, i punti consolidati e quelli in evoluzione delle discipline che fanno riferimento al governo della città e
del territorio.
La sistematizzazione di questi “punti” ha l’obiettivo di definire un corpus disciplinare condiviso ed unitario
da trasferire agli studenti e ai giovani professionisti stimolando, al tempo stesso, la opportunità di
collegamenti esterni, di argomenti derivati e di acquisizioni tematiche flessibili.
Decenni di insegnamento universitario rappresentano un punto di vista privilegiato per osservare
l’evoluzione di una materia e la collocazione degli specifici argomenti nel gradimento (che è un valore
soggettivo e mutevole) e nella vita professionale (che è un valore oggettivo che cambia più lentamente).
Spesso i due ordini di preferenze sono diversi ed è compito del docente guidare i giovani nella
comprensione delle differenze.
Il settore scientifico-disciplinare della “tecnica e pianificazione urbanistica”, burocraticamente indicato con
il codice ICAR/20, contiene al suo interno campi di indagine e di conoscenza molto ampi. I suoi contenuti,
infatti, spaziano sull’«analisi e la valutazione dei sistemi urbani e territoriali, esaminati nel loro contesto
ambientale e nel quadro dei rischi naturali ed antropici cui sono soggetti e delle variabili socioeconomiche
dalle quali sono influenzati; i modelli ed i metodi per l’identificazione dei caratteri qualificanti le diverse
politiche di gestione e programmazione degli interventi, nonché per l’esplicitazione dei processi decisionali
che ne governano gli effetti sull’evoluzione dei sistemi in oggetto; le tecniche per gli strumenti di
pianificazione a tutte le scale».
L’ampiezza degli materie che fanno parte del settore fa sì che la tecnica urbanistica si configura come un
settore, vario e variegato, in continua evoluzione sia sul versante della ricerca che su quello applicativo.
Per questi motivi la redazione di un volume, indirizzato a studenti e giovani professionisti, che affronta le
materie dell’urbanistica nell’ottica della trasmissione della conoscenza in chiave teorico-metodologica
rappresenta una sfida impegnativa. In primo luogo perché un testo didattico deve avere una struttura
diversa da quelle che normalmente guida la redazione di un volume a carattere scientifico. In secondo
luogo perché la scelta dei codici comunicativi influisce in maniera determinante sulla qualità didattica del
testo e quindi sulla qualità complessiva dell’intero processo conoscitivo affidato al testo. Infine è
necessario un attento equilibrio tra gli argomenti proposti che debbono tener conto della necessità di
trasferire sapere consolidato, teorie e metodi ma anche codici, algoritmi e procedure, che costituiscono il
bagaglio “spendibile” della preparazione dei futuri ingegneri. Uno dei padri della facoltà di Ingegneria di
Napoli, Elio Giangreco recentemente scomparso, nel dare inizio al suo affollatissimo e seguitissimo corso di
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ROCCO PAPA
Presentazione
Tecnica delle Costruzioni era solito dire che molte delle cose assimilate nel suo corso potevano essere
considerate “moneta sonante”.
In altre parole, in un testo prevalentemente didattico è necessario definire e organizzare con attenzione il
sistema di informazioni in modo da fornire, al tempo stesso, il massimo di utilità accompagnato ai più alti
livelli di apprendimento. Per questo motivo il testo rappresenta un “laboratorio” dove organizzare e
trasmettere la conoscenza degli aspetti consolidati del settore e, al tempo stesso, proporre i contenuti più
avanzati della ricerca che da conoscenza scientifica diviene conoscenza applicata, e ciò senza nascondere il
rischio di sopravvalutare alcuni aspetti che oggi si ritengono più innovativi e che, invece col tempo, non
danno i frutti sperati e passano direttamente dalla originalità all’oblio.
Destinato prevalentemente a studenti e dottorandi delle Facoltà di Ingegneria e Architettura, il volume
raccoglie – in forma sistematica – il lavoro svolto in questi anni dal gruppo di ricerca del Dipartimento di
Ingegneria Civile, Edile e Ambientale dell’Università di Napoli “Federico II” sulla “città come sistema” e si
propone come una sintesi del dibattito scientifico più attuale, rivisto e semplificato in chiave didattica.
Per consentire una rapida consultazione dei temi trattati, sia nell’utilizzo del testo in chiave didattica che
nell’utilizzo come manuale per uso professionale, il volume è organizzato in sei sezioni che a loro volta si
articolano in capitoli. Ciascun capitolo affronta uno specifico argomento che viene sviluppato, per quanto
possibile, in modo autoconsistente sia sul piano scientifico che applicativo.
La prima sezione illustra, in forma organica, le premesse teorico-metodologiche della “città come sistema”
utilizzando un approccio multidisciplinare idoneo ad una rapida comprensione anche in chiave didattica.
Questa sezione si articola in cinque capitoli.
Il capitolo 1, dopo una breve illustrazione delle più significative definizioni di città, propone una descrizione
sull’evoluzione, nella disciplina urbanistica, dei modelli interpretativi adottati per descrivere e interpretare i
fenomeni urbani fino alla illustrazione del modello di riferimento che viene utilizzato, in questo volume, per
spiegare l’evoluzione e il comportamento del sistema urbano. L’approccio proposto fa riferimento alla
teoria Generale dei Sistemi e al paradigma della complessità.
Il capitolo 2 fornisce gli elementi necessari per la comprensione dei concetti di sostenibilità e di sviluppo
sostenibile e delle loro ricadute nell’ambito delle discipline dell’urbanistica. In particolare viene descritto il
divenire della “questione ambientale” e sono delineate le principali tappe che hanno condotto, alla fine
degli anni Ottanta, alla redazione del Rapporto Brundtland – Our Common Future – che propone la
definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile”. Illustrati i principali contenuti del Rapporto con particolare
riferimento ai concetti di equità intergenerazionale e infragenerazionale, capacità di carico e rapporto tra
crescita e sviluppo, viene infine proposto un sintetico excursus della evoluzione del concetto di sviluppo
sostenibile.
Obiettivo del capitolo 3 è l’illustrazione di un modello interpretativo, orientato al governo, del sistema
integrato trasporti-città e più in generale della stretta interdipendenza tra le trasformazioni della città e
l’evoluzione dei sistemi di trasporto. La prima parte, prevalentemente teorica, definisce il sistema integrato
trasporti-città e analizza gli elementi del sistema urbano, del sistema di trasporto e le relazioni che
esistono tra questi. Nella seconda parte si illustrano gli elementi del sottosistema dell’offerta di trasporto
come parte integrante della città.
Nel capitolo 4 vengono descritte le premesse teoriche e gli strumenti metodologici per favorire l’integrazione
delle tematiche relative ai rischi – naturali e antropici – nei processi di governo delle trasformazioni urbane.
Dalla definizione del rischio e delle sue classificazioni, si arriva alle componenti che concorrono a
determinarlo. Sono descritti gli orientamenti mirati alla integrazione delle analisi di rischio nei processi di
governo delle trasformazioni urbane e territoriali. Particolare attenzione è dedicata al concetto di vulnerabilità
sistemica, considerata come caratteristica fondamentale per la mitigazione, in chiave urbanistica, dei rischi
naturali e antropici.
Nel capitolo 5 l’adozione del paradigma prestazionale, nello studio dei fenomeni urbani, consente di fornire
un contributo per la definizione di nuovi metodi e tecniche per la conoscenza ed il governo delle
trasformazioni della città. Da una breve rassegna delle definizioni del paradigma prestazionale desunte
dall’ambito economico e produttivo, si passa alla lettura della città come sistema prestazionale, attraverso
l’individuazione delle principali caratteristiche e alla ridefinizione delle attività del processo di governo delle
trasformazioni urbane e territoriali. Il capitolo si chiude con la definizione dell’equilibrio dinamico tra la
domanda e l’offerta del sistema urbano e si individuano i principali fattori che, nell’ottica prestazionale,
influenzano il carico urbanistico.
La seconda sezione propone i principali elementi di metodo dell’analisi urbanistica articolata nelle fasi
canoniche della conoscenza, della interpretazione, della decisione e della azione. La sezione si articola in
cinque capitoli.
8
ROCCO PAPA
Presentazione
Il capitolo 6 affronta, in termini operativi, il governo delle trasformazioni territoriali, interpretando la città
come un sistema dinamicamente complesso. Attraverso un rapido excursus dello sviluppo della
pianificazione urbanistica, parallelamente all’evoluzione del sistema urbano, si descrive, attraverso
l’approfondimento delle diverse fasi, il passaggio da un approccio, connotato da una visione statica del
futuro assetto del territorio, ad una nuova visione di governo – dinamico – del sistema urbano.
Il capitolo 7 è incentrato sulla definizione di metodi e tecniche per la conoscenza dei sistemi urbani
finalizzate alla redazione degli strumenti di pianificazione. A partire dalla descrizione dei contenuti delle fasi
del processo della conoscenza, il testo propone metodi e tecniche per guidare gli studenti nel processo
conoscitivo dei diversi sottosistemi urbani, dal reperimento di dati al loro uso e, infine, alla loro efficace
interpretazione e rappresentazione. Specifici approfondimenti riguardano, inoltre, i modelli interpretativi, le
tecniche per la conoscenza del sistema integrato trasporti-territorio e delle condizioni di rischio degli
insediamenti, con particolare attenzione alla misura della vulnerabilità e la messa a punto di ipotesi di
scenario volte alla quantificazione del rischio in ambito urbano.
Il capitolo 8 descrive metodi, procedure e strumenti che l’innovazione tecnologica e lo sviluppo delle
tecnoscienze hanno reso disponibili ed oramai necessari nel governo delle trasformazioni territoriali. In
particolare vengono trattati i Sistemi Informativi Geografici (GIS) intesi, non solo come tecniche di
rappresentazione del territorio, ma come veri e propri strumenti di supporto alle decisioni nel governo dei
sistemi urbani. Attraverso la descrizione delle caratteristiche e delle principali funzionalità/possibilità di
implementazione si evidenzia come i GIS non devono più essere considerati come tecniche di trattamento
dei dati, ma debbano essere, al contrario, intesi come catalizzatori di nuovi processi conoscitivi e di
rappresentazione del territorio ed in tal senso come nuove forme della conoscenza/governo della città e
del territorio.
Il capitolo 9 illustra il ruolo e i contenuti della fase della assunzione delle decisioni, momento centrale del
processo ciclico di governo delle trasformazioni urbane. Vengono descritte le principali problematiche
connesse alla decisione in condizioni di incertezza e vengono evidenziate alcune questioni relative al
“contesto” della decisione (molteplicità di soggetti, conflittualità di interessi, ecc.). Con attenzione al ruolo che
i diversi soggetti – tecnici, decisori, collettività, ecc. – assumono in questa fase, vengono descritti i principali
passaggi, in chiave metodologica, per la definizione dello stato desiderato, inteso quale condizione che
soddisfa pienamente i bisogni e le aspirazioni della collettività, e per l’individuazione di uno stato compatibile,
che massimizza l’equilibrio domanda-offerta ovviamente in condizioni di risorse limitate. Sulla scorta di tali
implicazioni teoriche il capitolo si conclude con una parte di tipo operativo in cui viene descritta la
costruzione di uno strumento di supporto alle decisioni volto a definire lo stato compatibile sia per il
sottosistema fisico (trasformabilità fisica) che per il sottosistema funzionale (compatibilità funzionale).
Il capitolo 10 illustra il ruolo e i contenuti della fase dell’azione, che costituisce il momento conclusivo del
processo ciclico di governo delle trasformazioni urbane. Vengono delineati i criteri per la definizione e la
gerarchizzazione delle azioni e vengono forniti i principali elementi per l’impostazione del processo di
monitoraggio e controllo delle azioni implementate. Monitoraggio e controllo, in quanto passaggi chiave
per garantire la ciclicità del processo di governo, consentono la verifica “in itinere” del percorso di
evoluzione dei sistemi urbani, sia sotto la spinta di fattori endogeni che per effetto delle trasformazioni
attuate e costituiscono il supporto anche per le scelte relative ad eventuali “cambi di rotta” della traiettoria
di evoluzione, resi necessari da scostamenti tra traiettoria prefigurata e traiettoria effettivamente seguita
dal sistema.
La terza sezione illustra, in sei capitoli, regole e norme per il governo delle trasformazioni alle diverse scale
con particolare riferimento alla normativa della regione Campania.
Il capitolo 11 affronta l’evoluzione della legislazione urbanistica a partire dal 1942. L’obiettivo è mettere
ordine negli elementi principali del complesso sistema normativo effettuando una lettura su più livelli con
particolare attenzione agli aspetti connessi al governo delle trasformazioni urbane e territoriali. Il capitolo
analizza i principi e i livelli di pianificazione della legge urbanistica nazionale e regionale e con essi i
concetti di pianificazione generale e di pianificazione settoriale.
Il capitolo 12 descrive l’evoluzione degli strumenti di pianificazione e di programmazione a scala
territoriale, a partire dalla legge urbanistica del 1942 e dai criteri di indirizzo per la pianificazione
territoriale del 1952. L’obiettivo è approfondire gli aspetti principali della pianificazione territoriale regionale
e provinciale, in relazione sia alla loro evoluzione che al loro ruolo nella costruzione di strategie di sviluppo
del territorio. Nel testo si analizza la pianificazione regionale messa in atto prima e dopo gli anni Settanta e
i contenuti della pianificazione provinciale a partire dal 1990.
Il capitolo 13, tenendo conto che la pianificazione territoriale è strutturata, oltre che su un sistema di piani
generali, anche su strumenti di tipo settoriale, ossia relativi a specifici campi di pianificazione, illustra i
piani di settore alla scala territoriale sia quelli ambientali (Piani di Bacino, Piani di Parco, Piani
9
ROCCO PAPA
Presentazione
Paesaggistici) che quelli relativi alla mobilità. Per quanto riguarda, in particolare, la pianificazione
paesaggistica si analizza l’evoluzione normativa dello strumento a partire dal 1939 fino alle più recenti
novità legislative.
Il capitolo 14 descrive le caratteristiche ed i contenuti del piano urbanistico comunale con riferimento agli
aspetti tecnici, normativi e procedurali. Partendo dal concetto di “intensità d’uso” che si specializza nei
diversi indici urbanistici attraverso i quali è possibile “governare” le trasformazioni del territorio, viene
illustrata l’evoluzione della forma del piano fino a giungere ad un approfondimento relativo ai nuovi
contenuti del piano comunale (PUC), analizzato con riferimento alla recente legislazione regionale.
Il capitolo 15 descrive i principali strumenti di pianificazione settoriale alla scala urbana, con particolare
riferimento agli strumenti per la tutela della qualità ambientale e ai piani per il governo della mobilità.
Viene proposta una sintetica descrizione delle finalità, degli obiettivi e dei contenuti degli strumenti
individuati dalla normativa vigente come allegati obbligatori ai Piani Comunali: i Piani di Zonizzazione e
Risanamento Acustico, gli elaborati per la conoscenza dei possibili Rischi di Incidente Rilevante, i Piani
Energetici Comunali. In riferimento ai piani per il governo della mobilità, vengono descritte le finalità, gli
obiettivi e i contenuti dei principali strumenti sia per la programmazione degli investimenti infrastrutturali
(come il Piano urbano della Mobilità o il Programma urbano Parcheggi) sia per l’organizzazione dei servizi
di trasporto (come il Piano Urbano del Traffico).
Il contenuto del capitolo 16 è la costruzione di un quadro conoscitivo degli aspetti normativi della
pianificazione urbanistica attuativa in Italia. A tale scopo vengono evidenziati gli elementi che concorrono
alla costruzione del sistema di regole orientate al governo delle trasformazioni urbane e territoriali in
riferimento agli strumenti urbanistici esecutivi necessari per l’attuazione delle scelte del piano comunale. I
provvedimenti legislativi sono analizzati tenendo conto dei particolari momenti storici in cui hanno visto la
luce e con riferimento al contesto (politico, sociale, economico, storico) nel quale si sono sviluppati.
La quarta sezione tratta la pianificazione urbanistica comunale come processo ciclico e spiega le tecniche
per la redazione, la valutazione e l’attuazione del piano con riferimento agli attori coinvolti e alle risorse
disponibili. La sezione si compone di due capitoli.
Il capitolo 17 analizza le principali tecniche per la redazione degli strumenti di pianificazione comunale. Il
primo elemento preso in esame è il carico urbanistico, strumento fondamentale per la determinazione dei
bisogni in termini di dotazioni urbane. Queste ultime – standard, infrastrutture a rete, attrezzature di
interesse generale – determinano il sistema della città pubblica e la sua capacità di dare risposta ai cittadini; il
sistema delle dotazioni viene analizzato anche in relazione agli elementi evolutivi più recenti (concetto di
standard prestazionale e piano dei servizi). Il disegno di piano viene analizzato in relazione alle diverse
tipologie di disegno (disegno strutturale, disegno strategico, disegno prescrittivo e zonizzazione). La
costruzione della città pubblica si realizza anche mediante nuove relazioni con la città non pubblica: in questo
senso l’analisi della perequazione urbanistica evidenzia le nuove relazioni tra le due città nel tentativo di
superare strumenti autoritativi come ad esempio l’esproprio. Ultimo elemento analizzato sono le norme
tecniche di attuazione.
Il capitolo 18 illustra lo stato dell’arte nel campo della valutazione ambientale strategica che secondo la
normativa europea è momento integrante nella predisposizione di piani e programmi e, come tale, è
fattore capace di incidere sui risultati del processo di pianificazione. Il capitolo affronta il concetto di
valutazione ambientale, la sua recente evoluzione e, in particolare, il ruolo della valutazione nei processi di
governo delle trasformazioni urbane e territoriali, le normative ai diversi livelli (comunitario, nazionale e
regionale) e le differenze tra valutazione ambientale strategica e valutazione di impatto ambientale. Il
progetto Enplan, il cui obiettivo è la definizione di una metodologia condivisa per la realizzazione tecnica
della VAS, conclude il capitolo.
La quinta sezione illustra i processi di attuazione del piano – strumenti, attori, risorse e procedure – per la
realizzazione delle decisioni assunte nella fase delle scelte di piano. La sezione si compone di due capitoli.
Il capitolo 19 fornisce un approfondimento sulle modalità di attuazione del piano comunale. Nella prima
parte si descrivono le relazioni tra piani generali e piani attuativi, nella seconda parte si illustrano
sinteticamente le principali fasi che hanno modificato l’approccio al recupero della città, nella parte
conclusiva si descrivono i provvedimenti autorizzativi per la realizzazione degli interventi edilizi in
conformità con le disposizioni del piano urbanistico generale.
Il capitolo 20 illustra la fase conclusiva del processo di pianificazione che riguarda l’attuazione delle
previsioni degli strumenti urbanistici generali o attuativi. Partendo dai soggetti cui è demandato il compito
di realizzare gli interventi e dalle principali procedure amministrative si analizza la condivisione delle scelte
tra soggetto pubblico e collettività locale. La scarsità di risorse pubbliche da impiegare nell’attuazione del
Piano Comunale determina la necessità di definire, anche da un punto di vista normativo, nuove modalità
di collaborazione pubblico-privato come ad esempio il project financing.
10
ROCCO PAPA
Presentazione
La sesta, ed ultima, sezione riporta, alcuni focus su argomenti di attualità nel dibattito scientificodisciplinare, nazionale ed internazionale. Quattro sono i capitoli di questa ultima parte.
Il capitolo 21 affronta il tema del governo e dello sviluppo dei sistemi territoriali in contesti fortemente
dinamici e competitivi ponendo l’attenzione sul Piano Strategico. Individuati i principali fattori che hanno
favorito l’affermazione di questo nuovo strumento utilizzato per coordinare ed accelerare i fenomeni di
implementazione dei processi di sviluppo urbano e metropolitano, particolare attenzione è dedicata alla
descrizione del processo di Pianificazione Strategica, dalla fase di analisi alla sottoscrizione degli accordi,
dalla predisposizione delle forme di partecipazione e comunicazione dell’iniziativa all’attuazione degli
interventi. Dall’ana-lisi delle differenze tra Piano Urbanistico Comunale e Piano Strategico si evidenziano le
peculiarità del processo di Pianificazione Strategica e con esse gli elementi innovativi ma anche i limiti,
soprattutto nel processo di gestione.
Il capitolo 22 descrive i processi di trasformazione che le nuove tecnologie info-telematiche (NICT) stanno
producendo sul sistema urbano e territoriale. In forza dell’avanzamento tecnologico, all’interno della città,
cambiano le relazioni e si modificano le attività. Tali modificazioni producono trasformazioni che investono
l’intero sistema urbano per il quale vanno opportunamente ripensati i processi di governo alla luce degli
effetti, ma anche delle potenzialità, delle NICT. Elemento centrale del capitolo è la descrizione del
processo di “virtualizzazione” delle funzioni urbane per effetto delle NICT che produce una diversa forma e
intensità d’uso sul territorio. Viene infine proposta una procedura per la “misura” di questo fenomeno e si
prefigura uno strumento innovativo riconducibile al governo del territorio, il piano digitale, in grado di
leggere, prevedere e gestire queste trasformazioni e quindi governare il futuro assetto della città.
Obiettivo del capitolo 23 è un approfondimento sul governo delle trasformazioni del sistema integrato
trasporti-città, con un approccio metodologico-applicativo. Partendo da uno studio della letteratura
recente, vengono illustrati i modelli di sviluppo urbano orientati al trasporto su ferro definito Transit
Oriented Development, si descrivono le best-practices e l’analisi comparativa di casi di studio, con
l’identificazione di punti deboli e opportunità del TOD come strumento di governo integrato trasportiterritorio, si definisce infine una proposta metodologica per la trasformazione urbana delle aree di
stazione.
Nel capitolo 24 si approfondisce la città come elemento primario dell’organizzazione sociale dell’uomo e
come oggetto primario dei processi di pianificazione. Già prima della definizione dei principi e delle
tecniche di pianificazione, infatti, l’intervento sulla città aveva portato alla costruzione di organismi aventi
specifiche caratteristiche formali e relazionali. La città, a partire dalla sua prima comparsa, ha
rappresentato un terreno privilegiato per l’applicazione di forme sperimentali di relazioni, in parallelo con
quanto avveniva nella società. A partire dalla evoluzione del concetto di città nella storia, si analizzano i
modelli e le forme della città; alla città spontanea fa da contraltare la città pianificata. Nell’ultima parte si
analizzano alcuni dei più recenti modelli evolutivi di organizzazione urbana nonché le relazioni con i
processi economici e politici.
In conclusione si può affermare che se il governo delle trasformazioni urbane e territoriali rappresenta, ad
oggi, uno dei settori scientifici di maggiore interesse nel più ampio panorama delle discipline che fanno
riferimento allo studio della città e del territorio, la tecnica urbanistica è una materia in continua
evoluzione, non chiusa entro specifici recinti disciplinari, ma aperta ad apporti esterni che ne arricchiscono
il bagaglio conoscitivo e applicativo. Questo volume vuole presentare un approfondito stato dell’arte su
teorie, modelli e tecniche riconducibili al governo delle trasformazioni urbane e costituisce, almeno nella
intenzione degli autori, uno strumento di grande interesse per leggere e analizzare l’evoluzione di questi
sistemi e per orientarne i processi in atto.
11
1. SISTEMA URBANO E COMPLESSITÀ
Carmela Gargiulo
1.1.
Definizioni e paradigmi interpretativi della città
Le definizioni di città
Molte sono le definizioni che si possono attribuire alla città e tutte possono risultare corrette. La
molteplicità delle definizioni deriva dalla possibilità di mettere in evidenza solo alcune tra le numerose
caratteristiche che connotano la città: ad esempio, mettendo in evidenza la dimensione e la densità fisica,
la città può essere definita come un insediamento, di dimensioni rilevanti, di edifici posti gli uni vicini agli
altri; il luogo, cioè, in cui gli uomini hanno trasformato maggiormente e più densamente lo spazio al fine di
migliorare le proprie condizioni di vita; mettendo in evidenza il fare dell’uomo, la città può essere definita
come il luogo di massima concentrazione e specializzazione delle attività umane, il luogo, cioè, in cui
convivono, in relazione tra loro, una quantità straordinaria di attività da quelle più quotidiane e tradizionali
a quelle più specializzate ed innovative.
Le definizioni di città, nelle diverse epoche della storia dell’uomo, hanno seguito l’evoluzione del pensiero
filosofico e sociale. Ad esempio, per Platone la “polis” ideale «è composta da molti individui, con dei
compiti diversi, che formano una unità; ciascuno di questi uomini svolge una sola attività, ma essa è
rivolta al bene della collettività. Solo quindi l’interazione tra tutti garantisce questo bene» (Riva s.d.).
Per Aristotele la “polis” è una realtà naturale e costituisce la forma più alta di vita in comune, è la
comunità perfetta, in quanto solo la città, a differenza di comunità più piccole o della famiglia, raggiunge
la piena autosufficienza.
Le Corbusier (1946), sottolinea che nella città si può distribuire e scambiare l’autorità (amministrazione
pubblica, uffici), il pensiero attraverso il confronto ed il dibattito, le merci ed il denaro.
Per Mumford, uno dei pensatori che maggiormente ha influenzato gli studi sul fenomeno urbano in epoca
contemporanea, con la realizzazione della città ciò che avvenne fu «il riunire entro un’area limitata funzioni
precedentemente disseminate e disorganizzate, e il mantenere in una condizione di tensione dinamica e di
azione reciproca le varie componenti della comunità». La città storica «non soltanto divenne un mezzo per
esprimere in termini concreti l’esaltazione del potere sacro e profano ma allargò, ben al di là di ogni
intenzione consapevole, tutte le dimensioni dell’esistenza» (1963). La città, quindi, è il punto di massima
concentrazione del potere e della cultura di una comunità.
La città è tutto questo e molto altro ancora. Tuttavia, è possibile formulare una definizione sulla base di
una caratteristica essenziale della città, da sempre presente nella sua evoluzione storica, e sempre
individuabile – in maniera chiara o sottesa – in tutte le definizioni formulate, dalle più antiche alle più
recenti. Tale caratteristica, che in tal senso si configura come qualità imprescindibile della città, sembra
individuare l’essenza stessa della città e, contemporaneamente, il suo fine e la sua ragione: la città è il
luogo dello scambio; la città è il luogo privilegiato delle relazioni, degli scambi da quelli commerciali a
quelli culturali, da quelli economici a quelli sociali. Scambio, quindi, inteso in senso molto ampio: scambio
commerciale e produttivo, scambio di ogni tipo di relazioni, scambio di informazione, scambio nel senso di
cooperazione, premessa indispensabile per trovare più facilmente risposta ai bisogni di ogni individuo e
della collettività.
In altre parole, la città può essere anche definita come il luogo della massima organizzazione sociale, che
consente all’individuo di poter svolgere molti diversi ruoli. «La specializzazione delle funzioni e dei ruoli, i
mutamenti di status, di funzione e gratificazione, la struttura del potere, le relazioni tra individui e gruppi,
sia tra loro che di entrambi con gruppi più ampi (nazionali e sovranazionali) somiglia ad un mutevole
caleidoscopio estremamente ricco, differenziato e complesso» (McLoughlin 1973).
I paradigmi interpretativi della città
Le difficoltà, da sempre avvertite, nel definire una città trovano piena corrispondenza con la difficoltà di
costruire e restituire una idea unica e condivisa della città nei numerosi secoli della sua evoluzione.
«Il fatto è che, dopo non meno di cinque millenni di civiltà urbana e di un’assai più antica cultura di
villaggio, entrambe sviluppate in ambiti territoriali strutturati, ed in cui si sono avvicendati miliardi di esseri
umani, dopo eventi così determinanti per la civiltà come la concentrazione insediativa e dopo varie ripetute
vicende di impianto e formazione di città, di espansione e fioritura, di trapianto o di declino fino alla morte,
15
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
con o senza risurrezione, o ancora di persistente plurimillenario rinnovamento in sito e di ristrutturazione
territoriale, bisogna giungere fino a tempi estremamente ravvicinati perché l’idea stessa della città sia
rappresentata in tutta la sua evidenza e le funzioni degli insediamenti umani sul territorio appaiano in tutta
la loro dinamica complessità: in sintesi, per comprendere, come insegnò Patrick Geddes verso la fine del
secolo scorso, che un villaggio, una città, una regione non sono solo un “luogo nello spazio”, ma un
“dramma nel tempo”, inseriti dunque in un processo di sviluppo dinamico» (Astengo 1966).
Fig. 1 – Schematizzazione della polis greca (Fonte: www.share.dschola.it)
L’idea di città nel mondo antico, dagli insediamenti palaziali alla “polis”, è, infatti, sostanzialmente statica;
in tale concezione traspare l’aspirazione alla stabilità dimensionale, economica e sociale.
Aspirazione evidente anche nell’organizzazione del territorio in epoca romana, che veniva strutturato
«mediante impianto di città, creazione di relative aree economiche, dotazione di infrastrutture urbane e
territoriali e di istituzioni civiche, il tutto tipizzato secondo una costante, monotona e, quindi, universale
precettistica che è riuscita per un arco di tempo non lungo, ma decisivo per la storia urbana, a garantire
su estesa superficie l’equilibrio economico e sociale delle unità territoriali di base integrate in un sistema
politico centrale» (Astengo 1966).
Statica anche l’organizzazione della città medievale murata, chiusa ed autosufficiente nel suo rapporto con
il contado.
Lo è ancora tra il Cinquecento ed il Settecento. Le città sono, infatti, attorniate da sempre più poderosi
sistemi difensivi, che accentuano, su scala più vasta, la gerarchizzazione degli insediamenti sul territorio.
Ma è proprio in questa epoca che, sviluppandosi nuove idee urbanistiche, si teorizzano le “città ideali”,
possibili alternative alle città esistenti, che, sebbene producano innovazioni quasi sempre soltanto sul
piano formale e geometrico, tuttavia aprono gli orizzonti a nuove ricerche tecniche e sociali che
condurranno di lì a breve alle utopie dei primi riformatori sociali ottocenteschi.
Fig. 2 − Un esempio di città murata medievale: Monteriggioni
Dalla fine del Settecento, la città inizia a vivere una epoca completamente diversa dalla precedente, in cui
il dinamismo è l’aspetto nuovo e connotante; dinamismo dovuto a vere e proprie “rivoluzioni” in tutti gli
aspetti della vita: economico (mercantilismo, accumulazione capitalistica), politiche (centralizzazione del
potere, colonizzazione), scientifico (scoperte, nuovi sistemi scientifici, teorizzazione economica) industriale
e demografico (la popolazione europea passa dai 180 milioni del 1800 ai 400 milioni del 1900).
16
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
Tutto il mondo storico rapidamente si dissolve e si trasforma. Di conseguenza si ricerca una idea di città
che risponda ai continui cambiamenti in tutti i campi della vita e che si realizzi sulla base di un lavoro
coordinato e integrato tra aspetti sociali e soluzioni tecniche, tra aspirazioni ideali e pratica professionale.
«Dagli studi teorici e sperimentali, che ne sono scaturiti nei decenni successivi, è sorta una nuova e più
composita idea della città e del territorio urbanizzato, non più associata a forme astratte e statiche, ma
tendente ad una sintesi di fattori complessi ed eterogenei» (Astengo 1966).
Espressione significativa e, per alcuni aspetti, anticipatrice di molte delle posizioni attualmente diffuse e
condivise sulla città, maturata nel secolo scorso, è quella di Le Corbusier che afferma: «Per formulare le
risposte da dare ai formidabili problemi posti dal nostro tempo e riguardanti l’attrezzatura della nostra
società, vi è un unico criterio accettabile, che ricondurrà ogni problema ai suoi veri fondamenti: questo
criterio è l’uomo. (…) Occorre dunque cercare un equilibrio tra uomo e ambiente. Ma di quale uomo e di
quale ambiente si tratterà? … L’uomo inteso come organismo biologico, valore psico-fisiologico; l’ambiente
riscoperto nella sua essenza permanente, la natura (…) Ritrovare la legge di natura. (…) Ricercare,
ritrovare, riscoprire il principio unitario che governa le opere dell’uomo e quelle della natura. (…) (Nella
natura) si manifesta la vita, di cui la biologia raccoglie le leggi; tutto in essa ha una nascita, una crescita,
una fioritura, una decadenza. Il comportamento umano procede anch’esso per fasi analoghe. L’architettura
e l’urbanistica, che sono i mezzi con i quali gli uomini inquadrano in modo utile la propria vita, esprimono
nella maniera più esatta i valori materiali e morali di una società. (…) Il termine «biologia» è quanto mai
appropriato all’architettura e all’urbanistica: in esso si riassumono le qualità di un’architettura e di
un’urbanistica vive» (1946).
L’idea di città formulata da Charles Edouard Jeanneret (Le Corbusier) è espressione della cultura
razionalista. Egli pensa ad una città che, come una macchina, può essere messa al servizio del benessere
dell’uomo.
Fig. 3 − Un esempio di città fortificata del Cinquecento: Palmanova
Anche la città, grazie al progresso raggiunto con la rivoluzione industriale, “nella civiltà macchinista” può
aiutare a sollevare l’uomo dalla miseria e dalle difficoltà del duro lavoro fisico e restituirgli una vita in cui,
nell’arco delle 24 ore, il tempo lavorativo dovrebbe essere un terzo del tempo libero. Attraverso una
organizzazione urbana in unità spaziali, l’uomo può ritrovare la joie de vivre. Infatti, tali unità
rappresentano le attrezzature utili, da un lato, a facilitare, come delle macchine, la vita dell’uomo e,
dall’altro, a ricollocare l’uomo nel suo ambiente naturale liberando il suolo da inutile edificazione e
minimizzandone lo spreco. La città che egli prefigura è la ville radieuse, (Le Corbusier 1937): «(…) nel
campo dell’urbanistica porto, con la semplicità di un professionista che ha dedicato la vita allo studio del
primo ciclo dell’età macchinista, delle proposte che si richiamano a tutte le tecniche moderne, ma il cui
ultimo scopo è di superare la pura e semplice utilità. Questo scopo indispensabile è di dare agli uomini
della civiltà macchinista le gioie del cuore e della salute. Un simile programma non è né europeo né
americano. È umano e universale. Costituisce un impegno urgente». Pur condividendo dagli stessi principi
razionalisti e meccanicisti di Le Corbusier, F.L. Wright (1963) adotta una tecnica di composizione
dell’architettura e della città che può essere definita “organicista”.
Dei nove principi dell’architettura organica che egli individua, uno in particolare può far comprendere,
meglio degli altri, anche la sua idea di composizione urbana; tale principio fa riferimento alla necessità di
17
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
adottare un sistema modulare e proporzionale che avrebbe mantenuto ogni cosa alla propria scala,
avrebbe assicurato un’armonica proporzionalità tra le parti di un edificio (o di una città) che in tal modo
sarebbe divenuto −come un arazzo− un tessuto coerente di unità interdipendenti, e sempre in relazione
l’una all’altra, per quanto varie. In altri termini, si tratta di una trama edilizia che si stendeva su un ordito
predeterminato.
Fig. 4 − L’organigramma della città ideale di Le Corbusier (Fonte: www.beniculturali. polimi.it)
Tale tecnica, che si può riconoscere quale tratto caratteristico presente nell’architettura organica,
garantisce l’unità proporzionale nel tessersi della composizione; garantisce, quindi, armonia della tessitura
riscontrabile tanto alla scala dei singoli edifici che nell’effetto complessivo del loro insieme.
Fig. 5 – La ville radieuse di Le Corbusier (Fonte: www.anovademocratica.com.br)
Allo stato attuale delle conoscenze, è condivisa tra gli studiosi dei fenomeni urbani e territoriali la posizione
secondo cui la città ed il suo comportamento possono essere assimilati e spiegati secondo una logica di
tipo sistemico. In altri termini, si è superato il concetto di città come un “meccanismo”; la città è qualcosa
di molto più articolato, vario e diversificato, in una parola “complesso”, e per gestire tale complessità è
necessario rivedere radicalmente i modi, gli strumenti e le procedure di lettura, interpretazione, progetto,
governo e gestione della città. La città non è una macchina, non è quindi un sistema deterministico in cui,
note le condizioni di partenza, è possibile definire, con certezza e affidabilità, non solo gli stati futuri ma
anche i tempi in cui questi stati si realizzeranno. Essa, invece, si presenta come un sistema complesso non
deterministico in cui sono noti gli stati desiderati (le intenzioni) ma non è possibile definire con certezza i
possibili percorsi per raggiungerli tenendo presente solo le condizioni di partenza. Tra i primi a intendere in
questi termini il territorio è McLoughlin (1973): «In termini di comportamento umano identifichiamo le
componenti del sistema (città) come attività localizzate nello spazio (…) Il comportamento di individui e
gruppi è chiaramente competitivo ed è motivato da una costante investigazione dell’ambiente, che di volta
in volta si esprime in azioni per modificare le attività, gli spazi, le comunicazioni, i canali o una qualche
combinazione di questi, o loro relazioni. Ovviamente questi processi sono complessi, sia in se stessi (cioè
per individuo o gruppo) sia nel modo in cui possono essere interrelati; ma una certa semplificazione
strutturale è possibile».
18
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
Fig. 6 – Broadacre City, la città ideale di Frank Lloyd Wright (Fonte: www.fabiofemi-nofantascience.org)
1.2.
La Teoria Generale dei Sistemi ed il paradigma della complessità
La Teoria Generale dei Sistemi
Il concetto di sistema pervade da alcuni anni tutte le discipline scientifiche a tal punto da comportare di
fatto una “rivoluzione di pensiero”.
Gli approcci metodologici ed operativi che ciascuna disciplina ha rielaborato in base al nuovo pensiero
scientifico hanno, di volta in volta, prodotto ri-orientamenti, in molti casi anche radicali. A fondamento
della nuova “visione” del mondo ed, in generale, dei fenomeni naturali e sociali vi è una considerazione
che oggi può apparire semplice e naturale, ma che costituisce il frutto di revisioni e riaggiustamenti
continui nella speculazione filosofica e scientifica.
Al concetto di “oggetto” si sostituisce il concetto di “sistema”; si sono superati, cioè, il modello aristotelico
in cui l’oggetto è composto di due sole parti “forma/sostanza” ed il modello cartesiano in cui l’oggetto è
semplificabile e decomponibile, per approdare al concetto di sistema inteso come “unità complessa”.
La Teoria Generale dei Sistemi, messa a punto da von Bertalanffy, definisce le proprietà e le caratteristiche
principali dei sistemi. Un sistema può essere chiuso o aperto; la differenza è data dalla capacità del
sistema di stabilire relazioni con l’esterno. In realtà, sistemi chiusi in natura non esistono: ogni sistema ha
scambi di energia con il contesto in cui è inserito. Ogni sistema è sempre parte di un sistema di ordine
superiore (sovrasistema) ed al suo interno sono sempre individuabili sistemi di ordini inferiori
(sottosistemi). Il sistema è un insieme di elementi e di relazioni tra gli elementi che ne definiscono la sua
organizzazione. Se, tuttavia, un sistema come un insieme è composto da elementi, le regole di
composizione non sono semplicemente additive come nel caso di un insieme, ma sono relazionali.
Un sistema può essere concepito come il prodotto delle interrelazioni tra gli elementi che lo costituiscono,
dell’organizzazione interna, ma anche delle condizioni, dei condizionamenti, dei vincoli dell’ambiente di cui
è parte.
L’organizzazione rappresenta, quindi, la proprietà costituente di un sistema ed è questa che, attraverso le
tipologie di relazioni/interazioni che si stabiliscono tra gli elementi del sistema, determina il funzionamento
del sistema stesso. In tal senso, per organizzazione si intende la forma, la distribuzione e l’intensità delle
relazioni tra le componenti che producono una unità sistemica; in altre parole l’organizzazione, ovvero il
sistema delle relazioni tra gli elementi che compongono un sistema, determina la “struttura” del sistema.
Per conoscere il comportamento, il funzionamento e tentare di prevedere una possibile evoluzione di un
sistema è necessario utilizzare un approccio di tipo olistico. Secondo tale approccio, non è possibile
conoscere ed interpretare un sistema e coglierne le caratteristiche principali del suo funzionamento
(elementi e relazioni) se si tenta di conoscerne alcune sue parti (seppure importanti) o se si tenta di
costruire una rappresentazione del sistema come somma della conoscenza di tutte le singole e infinite
parti in cui può essere suddiviso.
Per comprendere il funzionamento di un sistema bisogna conoscerlo nella sua interezza, nella sua totalità;
la somma dei funzionamenti, dei comportamenti delle singole parti di un sistema non è uguale al
funzionamento del sistema nella sua interezza. In altri termini «l’organizzazione connette in maniera
19
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
interrelazionale elementi, o eventi, o individui diversi che di conseguenza diventano componenti di un
tutto» (Morin 1983).
La Teoria Generale dei Sistemi offre un utile e attinente supporto teorico per spiegare e interpretare anche
il territorio e la città, soprattutto in momenti storici come quello che attraversiamo, in cui la velocità dei
processi di trasformazione che caratterizzano la città ed il territorio, la compresenza di fenomeni
apparentemente in contraddizione, la sempre crescente diffusione dei prodotti della tecnologia –per
ricordare solo uno degli effetti indotti sulla “forma urbana” dalla telematica e l’informatica– modificano le
logiche localizzative delle attività e contribuiscono a rendere sempre più difficili la lettura e l’interpretazione
dei fenomeni urbani.
Per tali motivi da qualche tempo nel mondo della ricerca scientifica è condivisa l’affermazione secondo la
quale anche la città può essere considerata come un “sistema” definito dagli elementi e dalle interazioni e
relazioni tra le sue molteplici componenti che sul suo territorio si esplicano e che producono, con intensità
e modalità differenti, effetti difficilmente individuabili su tutte le parti della città.
In altri termini, si guarda alla città ed al territorio attraverso la “lente” dell’approccio sistemico-processuale
che consente di leggere la città (la sua vita ed il suo sviluppo) non solo come “fenomeno fisico” (la sua
forma, le sue strade, i suoi edifici, le sue piazze, ecc.) ma anche come “fenomeno funzionale” (le relazioni
che si stabiliscono tra i suoi elementi e le leggi che regolano queste relazioni) (Papa 1992). Attraverso,
quindi, tale approccio si assegna importanza prioritaria, nella conoscenza e nella interpretazione della città
e del territorio, alla individuazione ed alla trasformazione delle influenze reciproche fra gli elementi del
sistema e fra sistema e sue componenti.
Il paradigma della complessità
Come accennato nel paragrafo precedente, il particolare momento storico che stiamo attraversando, la
generale situazione di perturbazione e di difficoltà delle nostre città spinge a ricercare un nuovo modello di
riferimento concettuale del territorio e della città, che si adegui alla rapida evoluzione del contesto sociale
e culturale. Da alcuni decenni, infatti si sta ridefinendo il metodo organizzativo della conoscenza; si sta,
cioè, tentando di mettere a punto un nuovo sistema di regole con cui si organizza il sapere secondo un
diverso ideale di conoscenza che trae le sue origini dallo sgretolarsi di alcuni capisaldi della scienza
moderna: la certezza, la completezza, l’esaustività.
Il sistema di regole che, attualmente, fa da supporto alla speculazione filosofica, alla biologia, alla fisica,
ecc., fa riferimento sia alla Teoria Generale dei Sistemi che al paradigma della complessità.
La sfida che quest’ultimo paradigma pone può essere espressa esaurientemente con le parole di Edgar
Morin (1990) quando esorta alla costituzione di un metodo della complessità: «Così il metodo della
complessità ci richiede di pensare senza mai chiudere i concetti, di spezzare le sfere chiuse, di ristabilire le
articolazioni fra ciò che è disgiunto, di sforzarci di comprendere la multidimensionalità, di pensare con la
singolarità, con la località, con la temporalità, di non dimenticare mai le totalità integratrici».
A porre come necessità improcrastinabile la costruzione di un nuovo modello concettuale di supporto
all’interpretazione ed al governo delle trasformazioni della città e del territorio hanno concorso molti fattori
di cui tre principali fanno più specificamente riferimento all’oggetto di interesse di questa disciplina:

il primo è in stretta relazione alla complessità della città e del territorio;

il secondo fa riferimento al passo accelerato del cambiamento e dell’evoluzione della città;

il terzo dipende dalla novità degli eventi che si verificano nella città.
Tra gli infiniti sistemi in cui può essere articolata la realtà fisica vi è la città, che è riconducibile ad un
sistema dinamico ad elevata complessità.
Da quanto affermato in precedenza dare una tale definizione alla città, riconduce, in primo luogo, la città
ad un insieme di componenti tra loro in relazione (sistema), in secondo luogo, presuppone che l’evoluzione
futura del sistema-metropoli non è prevedibile linearmente sulla base della conoscenza delle condizioni
iniziali e, infine, significa che i processi del sistema non sono gestibili e controllabili con strumenti
deterministici (Ruelle 1992; Bertuglia, La Bella 1991).
Il grado di complessità raggiunto dalla città ed, in particolar modo, dalle conurbazioni metropolitane è tale
che allo stato attuale i decisori e gli amministratori non sono in grado di dare una soluzione compatibile ed
adeguata ai problemi di gestione e di governo che un sistema come quello urbano, sottoposto anch’esso ai
processi di massimizzazione dell’entropia, pone.
Fino ad alcuni decenni fa la città è riuscita a svilupparsi conservando, in molti casi, armonia e compatibilità
tra le sue parti; oggi il verificarsi di eventi estremamente variabili e mutevoli, difficilmente riconducibili ad
una ed un sola causa, ma quasi sempre frutto di concause di difficile lettura e l’incapacità di controllare e
gestire questi fenomeni, dovuta anche alla inadeguatezza degli approcci utilizzati, delle procedere adottate
e degli strumenti disponibili, sta determinando condizioni di invivibilità e di congestione.
20
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
La realtà urbana e soprattutto metropolitana è caratterizzata, negli ultimi decenni, da fenomeni che
possono ascriversi al dominio della “città fisica” quali il forte inurbamento, la crescita incontrollata di un
gran numero di centri urbani, la enorme espansione della città madre e la conseguente progressiva
saldatura con i comuni satelliti (Gargiulo 1990).
Insieme a fenomeni di tipo fisico si verificano altri fenomeni riconducibili al dominio della città funzionale o
delle relazioni (Beguinot, Cardarelli 1992) che, estremamente variabili e difficilmente riferibili ad una ed
una sola causa, portano ad innalzare il grado di complessità del sistema.
Tra questi si possono individuare: l’elevato numero di variabili che entrano a far parte del sistema, il
convergere degli interessi, delle attività e della domanda dei comuni limitrofi, l’aumento incontrollato del
numero delle relazioni rispetto alla città tradizionalmente intesa (Gibelli et alia 1993), il tipo ed il grado di
relazioni che intercorrono tra gli elementi, ed, infine, la diffusa incapacità di controllo e di gestione,
riferibile non solo alla difficoltà di affrontare il governo di una area così fortemente antropizzata e di così
elevate dimensioni, ma anche alla inadeguatezza delle tradizionali procedure adottate e degli strumenti
disponibili.
In diretta relazione alla prima è la seconda delle cause sopra individuate. Ci si riferisce in particolare
all’accelerato cambiamento della città funzionale o delle relazioni.
Tale accelerazione ha provocato disfunzioni nell’adattamento della città fisica al contesto relazionale che
muta troppo in fretta.
La terza causa fa riferimento alle novità introdotte sul tessuto urbano dal portato delle nuove tecnologie,
soprattutto quelle della telematica, che incidono più o meno profondamente sulla nuova organizzazione
della città delle relazioni.
Da quanto detto in precedenza, il paradigma che sembra, allo stato attuale, più attinente ed efficace in
relazione sia agli orientamenti ultimi della conoscenza scientifica, teorica e metodologica, sia alle
caratteristiche dell’oggetto della pianificazione territoriale è quello della “complessità”.
L’assunzione di questo paradigma impone ri-orientamenti, a volte anche sostanziali, nelle attività di
conoscenza del sistema e soprattutto nelle attività di governo dello stesso (Gargiulo, Papa 1993). In tale
ottica i problemi legati al territorio, inteso come sistema dinamicamente complesso, e, quindi, alla sua
pianificazione richiedono sia risposte non rigidamente prestabilite, in relazione alle esigenze in continuo
mutamento e alle innovazioni in accelerata diffusione, e sia soluzioni non univocamente definite, rispetto
alle innumerevoli possibilità di risposta.
In questo contesto una pianificazione che sembra possibile è la pianificazione “in fieri” e “in simpatia”, cioè
la pianificazione che si adegua e segue il ritmo dell’evoluzione della città, che si evolve, nelle procedure e
negli strumenti ma anche negli obiettivi, con la stessa velocità con cui si evolvono la città ed il territorio.
Cenni sulla teoria del caos
Al determinismo laplaciano la ricerca scientifica del primo Novecento ha lentamente sostituito un approccio
problematico che nel corso degli anni si è venuto a configurare in termini rigorosi: la teoria del caos.
Sistemi deterministici1 anche molto semplici e costituiti da pochi elementi possono manifestare un
comportamento “aleatorio”, tale aleatorietà è una qualità intrinseca al sistema stesso e non dipende dal
tipo o dalla quantità di informazioni di cui si dispone.
La prima intuizione sull’aleatorietà è attribuibile ad Henri Poincaré (1908), cui si deve l’osservazione che in
un sistema possono verificarsi fenomeni “fortuiti”2. A questo genere di aleatorietà è stato dato, in epoche
successive, il nome di “caos”.
1
2
«Un sistema è deterministico se la conoscenza esatta del suo stato iniziale permette di prevedere il suo futuro con
certezza. ... Supponiamo che le leggi della fisica siano deterministiche; potremo prevedere nei minimi dettagli il futuro
dell’universo, come sostiene Laplace? In pratica questa affermazione non è né verosimile, né vera. Si può ammettere che
l’universo, che è un sistema estremamente complesso, presenti il fenomeno della dipendenza sensibile dalle condizioni
iniziali. Se la nostra conoscenza dello stato iniziale del sistema è anche di poco incompleta, le nostre previsioni saranno
rapidamente soggette a un errore considerevole: il determinismo, quindi, non implica la predicibilità e il rigore delle leggi
fisiche non è in contraddizione con la contingenza dei fatti della vita quotidiana» (Ruelle 1984).
«Una causa piccolissima che sfugga alla nostra attenzione determina un effetto considerevole che non possiamo mancar
di vedere, e allora diciamo che l’effetto è dovuto al caso. Se conoscessimo esattamente le leggi della natura e la
situazione dell’universo allo stato iniziale, potremmo prevedere esattamente la situazione dello stesso universo in un
istante successivo. Ma pure se accadesse che le leggi naturali non avessero più alcun segreto per noi, anche in tal caso
potremmo conoscere la situazione iniziale solo approssimativamente.
Se questo ci permettesse di prevedere la situazione successiva con la stessa approssimazione, non ci occorrerebbe di più
e dovremmo dire che il fenomeno è stato previsto, che è governato da leggi. Ma non è sempre così; può accadere che
piccole differenze nelle condizioni iniziali ne producano di grandissime nei fenomeni finali. Un piccolo errore nelle prime
produce un errore enorme nei secondi. La previsione diviene impossibile e si ha un fenomeno fortuito».
21
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
Uno dei principi su cui si fonda la teoria del caos è il principio di indeterminazione di Heisenberg (1944)3
secondo il quale “l’esattezza, con la quale i concetti classici possono venire sensatamente applicati alla
descrizione della natura, è limitata dalle cosiddette relazioni di indeterminazione”. Tale principio, divenuto
uno dei fondamenti della meccanica quantistica, fornisce una convincente spiegazione di alcuni fenomeni
aleatori a scala piccolissima (atomica). Ad una scala più grande le ragioni dell’imprevedibilità raramente
hanno trovato una verifica scientifica valida; il moto aleatorio dei fluidi costituisce una eccezione che
conferma la regola. Tuttavia non è necessario ricorrere a sistemi così complicati per verificare l’esistenza di
comportamenti aleatori che si riscontrano anche in sistemi relativamente semplici.
In generale, la caratteristica preminente di un sistema caotico è la sua elevata sensibilità anche alle più
piccole azioni che possono verificarsi in ogni punto del suo essere e del suo divenire. Così il grado di
indeterminazione che può raggiungere un sistema caotico è estremamente elevato ed, in più, qualunque
fenomeno, anche poco significativo, può raggiungere molto rapidamente proporzioni macroscopiche. In
altri termini, in presenza del caos qualsiasi previsione può raggiungere imprecisioni rilevanti.
La teoria dei sistemi dinamici può essere considerata come il supporto indispensabile nella messa a punto
del quadro concettuale di riferimento per lo studio del “caos”4. La definizione di un sistema dinamico è
data dagli elementi e dalle relazioni tra gli elementi del sistema nonché dalle leggi e dai criteri di
evoluzione (dello stato) nel tempo.
Lo spazio di esistenza dell’evoluzione del sistema è detto spazio degli stati o spazio delle fasi; tale spazio è
una astrazione puramente concettuale le cui coordinate sono le componenti dello stato. Naturalmente le
coordinate dello spazio delle fasi mutano con il contesto; ad esempio per un sistema meccanico
potrebbero essere individuate nella posizione e nella velocità, per un sistema ecologico nelle popolazioni
delle varie specie. Anche se è riconosciuto che il comportamento dei sistemi dinamici caotici è
imprevedibile, lo spazio degli stati può essere utile a rappresentare tale comportamento in forma
geometrica.
Attualmente le teorie del caos non permettono di dare soluzione al problema della previsione
dell’evoluzione dei sistemi soprattutto perché esistono ancora molte incognite sulla effettiva incidenza e sul
significato del caos. Tuttavia, si concorda univocamente che una misura del caos è rappresentata
dall’entropia.
Il concetto di entropia trova i suoi presupposti nella seconda legge della termodinamica: ogni volta che
l’energia viene trasformata da uno stato in un altro si riduce l’energia disponibile a vantaggio dell’energia
non disponibile. Per usare una definizione di Rifkin (1982) si può dire che la trasformazione dell’energia
impone di “pagare uno scotto”. E ancora che «questo scotto è rappresentato da una perdita di energia
disponibile per eseguire in futuro lavoro di un certo tipo. Il termine che descrive questo fatto è l’entropia.
(…) Un aumento di entropia, quindi significa una diminuzione di energia disponibile»5. Quando l’energia (e
la materia) diventano non disponibili si giunge al maggiore disordine possibile e quindi al caos.
3
4
5
«Così la scienza odierna, più che la precedente, è stata imposta dalla natura, e l’antico problema di afferrare la realtà
mediante il pensiero deve essere posto di nuovo e risolto in maniera alquanto differente. Prima il modello della scienza
esatta poteva condurre a sistemi filosofici nei quali una determinata verità -quale il cogito, ergo sum di Cartesio- formava
il punto di partenza dal quale dovevano essere affrontate tutte le questioni riguardanti la concezione del mondo. Ma ora,
nella fisica moderna, la natura ci ha ricordato ben chiaramente che non ci è lecito sperare di comprendere tutto lo scibile
partendo da una simile salda base di operazioni. Anzi, di fronte ad ogni conoscenza sostanzialmente nuova, dovremo
ritrovarci sempre nella situazione di Colombo, che ebbe il coraggio di abbandonare tutta la terra fino allora nota, nella
quasi folle speranza di trovare altra terra al di là dai mari».
«Un paradosso apparente è che il caos è deterministico, cioè generato da regole fisse che, di per sé, non contengono
alcun elemento casuale. In linea di principio il futuro è determinato completamente dal passato, ma in pratica le piccole
indeterminazioni vengono amplificate; quindi, benché il comportamento sia prevedibile a breve scadenza, alla lunga
risulta imprevedibile. Nel caos vi è ordine: soggiacenti al comportamento caotico vi sono eleganti forme geometriche che
creano aleatorietà così come il cartaio mescola il mazzo di carte o un cuoco mescola l’impasto di un dolce. La scoperta del
caos ha creato un paradigma nuovo fra i modelli scientifici. Da una parte comporta l’esistenza di nuove limitazioni
fondamentali alla nostra capacità di compiere previsioni; dall’altra, il determinismo inerente al caos implica che fenomeni
aleatori sono più prevedibili di quanto si pensasse. Informazioni apparentemente aleatorie raccolte in passato (e
archiviate perché ritenute troppo complicate) oggi possono essere spiegate in termini di leggi semplici. Il caos ci consente
di scoprire l’ordine in sistemi diversissimi fra loro come l’atmosfera, un rubinetto che gocciola e il cuore. Ne è conseguita
una rivoluzione che sta coinvolgendo molte branche diverse della scienza» (Crutchfield et alia 1987).
Nelle stesse pagine Rifkin, esplicitando i termini delle sue affermazioni, ribadisce: «Prendiamo in considerazione ad
esempio il motore di un’automobile. L’energia contenuta nella benzina è uguale al lavoro compiuto dal motore a benzina,
più il calore generato, più l’energia presente nei prodotti di scarico. Anche in questo caso, la cosa più importante da
ricordare è che non è possibile creare energia. Nessuno è mai riuscito a crearla e nessuno vi riuscirà mai. La sola cosa
che si può fare è trasformare energia da uno stato all’altro. E’ difficile comprendere questo concetto se non si considera
che qualsiasi cosa è costituita da energia. L’aspetto, la forma e il movimento di qualsiasi cosa esistente è in realtà
soltanto una espressione delle diverse concentrazioni e trasformazioni dell’energia. Una persona, un grattacielo,
un’automobile e un filo d’erba rappresentano tutti energia che è stata trasformata da uno stato all’altro».
22
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
Il secondo principio della termodinamica6 si riferisce non solo all’energia ma anche all’ordine e soprattutto
all’organizzazione dei sistemi; in tal senso questo (principio) applicato ad un sistema fisico si definisce
come principio statistico di degradazione dell’energia, di disordine degli elementi costitutivi e quindi di
disorganizzazione. Emerge, così ancora una volta, la centralità dell’organizzazione come qualità intrinseca
dei sistemi complessi (Ruelle 1992)7. In definitiva la capacità di organizzarsi è una delle proprietà
fondamentali di un sistema e può essere espressa come l’evoluzione delle interazioni di carattere
relazionale in organizzazione (Morin 1983)8.
La varietà e la molteplicità dei sistemi esistenti consente di costruire una gerarchia e una categorizzazione
dei sistemi. La determinazione del livello gerarchico di un sistema dipende sostanzialmente dalle scelte e
dalle decisioni dell’osservatore, da cui dipende, in definitiva, la concettualizzazione stessa di un sistema. In
altre parole, nella definizione di un sistema vi sono sempre, alla base, decisioni e scelte di un soggetto,
che opera nell’interno polisistemico delle selezioni in relazione alle proprie finalità, agli strumenti disponibili
ed al contesto sociale e culturale.
Peraltro, la teoria del caos implica gradi di complessità anche all’interno del metodo scientifico di verifica di
una teoria; finora il metodo classico consisteva nel fare previsioni e, in seguito, nel confrontarle con i dati
sperimentali. Per i sistemi caotici l’impossibilità di fare previsioni a lungo termine, comporta che la verifica
di una teoria diviene un’attività molto delicata e piena di insidie, che fa riferimento a proprietà statistiche e
geometriche piuttosto che a previsioni particolareggiate e puntuali.
1.3.
La città come sistema spaziale, dinamico e complesso
Tra i sistemi in cui può essere articolata la realtà fisica è possibile, per le rinnovate ed ampliate finalità
della più recente “ricerca” sul territorio, considerare anche la città come un sistema dinamico ad elevata
complessità.
Dire che la città è un sistema dinamicamente complesso, significa affermare che la città è riconducibile ad
un insieme di componenti tra loro in relazione (sistema), che i processi del sistema non sono gestibili e
controllabili con strumenti deterministici (sistema complesso) ed, infine, che l’evoluzione futura del
sistema-città non è prevedibile linearmente sulla base della conoscenza delle condizioni iniziali (sistema
dinamicamente complesso). Il grado di complessità raggiunto dalla città, come moderna espressione della
vita collettiva, è tale che non si è in grado di dare una soluzione compatibile ed adeguata ai problemi del
“sistema-città” sottoposto, come tutti i sistemi, ai processi di massimizzazione dell’entropia.
Se in alcuni periodi della storia urbana la città si è sviluppata conservando armonia e compatibilità tra le
sue parti, da alcuni decenni il verificarsi, sul tessuto urbano, di eventi estremamente variabili e mutevoli,
difficilmente riconducibili ad una ed una sola causa, sta determinando insopportabili condizioni di
invivibilità e di congestione. Queste condizioni sono quasi sempre frutto di concause di difficile lettura a cui
si accompagna l’incapacità di controllare e gestire fenomeni complessi, dovuta non solo alla inadeguatezza
delle procedure adottate ma anche alla indisponibilità di strumenti efficaci.
A tutto ciò si aggiungono gli effetti della introduzione delle nuove tecnologie che, coinvolgendo tutti i livelli
e tutti i settori della vita associata, generano nuova conoscenza e nuovo progresso. Grazie a queste
caratteristiche così spiccatamente autopropulsive, la capacità di affermazione e diffusione del progresso
tecnologico oltrepassa i limiti ristretti delle attività economico-produttive, arrivando ad incidere
profondamente sui modi di essere e di pensare e, quindi, sugli aspetti sociali, politici e naturalmente
6
7
8
La pervasività di questo principio e, in generale, la crescente diffusione di alcuni concetti fondamentali delle principali
teorie scientifiche sono testimoniate dalle innumerevoli citazioni e richiami presenti nella recente letteratura scientifica di
divulgazione. Fra tutte si richiama l’attenzione sulla efficace banalizzazione che L. De Crescenzo (1992, 57 segg.), in un
testo divulgativo a larghissima diffusione ha dato del vincolo dell’entropia: «Quando Dio cacciò Adamo ed Eva dal
paradiso terrestre ... disse: Tu uomo lavorerai con sudore e tu donna partorirai con dolore! Poi, quando li vide uscire dal
cancello, gettò loro l’ultimo anatema: E tutti e due sarete perseguitati nei secoli dei secoli dal Secondo Principio della
Termodinamica!».
«Noi siamo circondati da oggetti complessi, ma che cos’è la complessità? Gli organismi viventi sono complessi, le
matematiche sono complesse e la costruzione di una sonda spaziale è complessa. Ma che cos’hanno in comune queste
cose? Probabilmente il fatto di racchiudere molta informazione difficile da ottenere. Noi siamo attualmente incapaci di
creare ex novo degli organismi viventi, abbiamo molta difficoltà a dimostrare certi teoremi matematici e abbiamo bisogno
di molto lavoro per concepire e realizzare una sonda spaziale.» Si può concludere che «un oggetto (fisico o intellettuale)
è complesso se contiene informazioni difficili da ottenere».
«Che cos’è l’organizzazione? In prima definizione: l’organizzazione è la sistemazione di relazioni fra componenti o individui
che produce un’unità complessa o sistema, dotata di qualità ignote al livello delle componenti o individui. L’organizzazione
connette in maniera interrelazionale elementi, o eventi, o individui diversi che di conseguenza diventano componenti di
un tutto. Essa garantisce una solidarietà e una solidità relativa a tali legami, e garantisce quindi al sistema una certa
possibilità di durata nonostante le perturbazioni aleatorie. L’organizzazione dunque: trasforma, produce, connette,
mantiene».
23
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
territoriali. In definitiva la molteplicità, la multiformità e la varietà dei rapporti esistenti, in una parola la
complessità, all’interno del sistema società-città richiede metodi di lettura e di analisi adeguati, nonché
strumenti e tecniche di controllo innovativi.
Da alcuni anni, la ricerca scientifica nel campo urbano e territoriale concorda nel considerare la città come
un “sistema” definito dagli elementi (le diverse attività e funzioni urbane) e dalle interazioni e relazioni tra
le sue molteplici componenti (comunicazioni materiali e immateriali) che producono, con intensità e
modalità differenti, effetti difficilmente individuabili su tutte le parti della città (McLoughlin 1973)9. In
questa prospettiva il “paradigma della complessità” sembra offrire maggiori garanzie di attinenza e
relazione nell’interpretazione della varietà e dell’interdipendenza dei fenomeni urbani e può assumere un
ruolo centrale anche nella definizione degli strumenti e dei metodi di soluzione dei problemi. Una sfida cui
è affidato il futuro della città. La lettura della città orientata ad individuare non solo gli aspetti fisici (la sua
forma, le sue strade, le sue case) ma anche gli aspetti funzionali (le relazioni che esistono tra le sue
componenti e le leggi che regolano queste relazioni), spinge ad adottare e fare proprio l’approccio
sistemico-processuale, orientato, appunto, alla definizione del divenire delle influenze reciproche fra gli
elementi del sistema e fra sistema e componenti.
Il supporto teorico cui fare riferimento può ricondursi, tra l’altro, alla teoria delle catastrofi di Thom
(Camagni 1992)10 ed alla filosofia dell’eterogeneità di Morin, considerando il sistema città come una
struttura il cui stato è continuamente modificato dall’apporto di “energia” che riceve dall’esterno e che
consuma incessantemente. Da ciò si deduce che il suo stato di equilibrio è solo apparente poiché, in
realtà, è in equilibrio stazionario o a stabilità dinamica; la città, cioè, è un sistema caratterizzato da una
inestricabile complementarità tra “fenomeni disordinati” e “fenomeni organizzatori”, che si autoregolano in
un successivo stato di equilibrio (solo) stazionario.
Per governare un sistema di questo tipo è necessario, in prima istanza, ricondurre la sua struttura
complessiva ad un modello interpretativo costituito da elementi e da relazioni intelligibili. Definito il criterio
di approccio è necessario conoscere quali sono gli elementi costitutivi e quali le relazioni principali del
sistema (modellizzato). Infine è necessario determinare le caratteristiche degli elementi e le leggi che ne
regolano l’integrazione, senza i quali (elementi, leggi e integrazione) non si può nemmeno pensare ad una
modellizzazione del “sistema-città”.
La caratteristica essenziale che permette l’esistenza di un generico sistema è ciò che Edgar Morin (1977)11
definisce “antagonismo organizzazionale”. Ogni interrelazione organizzazionale presuppone l’esistenza ed il
gioco di attrazioni, di affinità, di possibilità di connessioni o di comunicazioni fra gli elementi. Ma la
conservazione delle differenze presuppone allo stesso modo l’esistenza di forze di esclusione, di
repulsione, di dissociazione, senza le quali tutto si confonde e non è concepibile nessun sistema. In altre
parole ogni sistema, e anche il sistema urbano, produce al suo interno contemporaneamente antagonismo
e complementarità; per governare un sistema bisogna quindi conoscere le regole (per quanto rinvenibili)
con cui si organizzano gli antagonismi e le complementarità.
Al pari e prima di Morin, von Bertalanffy (1968) aveva affermato che ogni totalità è basata sulla
competizione fra i suoi elementi e presuppone la lotta fra le sue parti. Non si può, quindi, parlare di
sistema senza presupporre l’idea di antagonismo; ma tale idea porta come implicita e diretta conseguenza
la “disorganizzazione potenziale” o disordine. Infatti nel momento in cui il sistema entra in crisi si diffonde
9
10
11
«La nostra esperienza quotidiana conferma che i rapporti tra uomo e ambiente possono venire intesi in termini di sistema
ecologico o eco-sistema. In termini di comportamento umano identifichiamo le componenti del sistema come attività
localizzate nello spazio. Le attività interagiscono o sono connesse tra loro attraverso comunicazioni fisiche, o immateriali,
che fluiscono lungo determinati canali. Il comportamento di individui e gruppi è chiaramente competitivo ed è motivato
da una costante investigazione dell’ambiente, che di volta in volta si esprime in azioni per modificare le attività, gli spazi,
le comunicazioni, i canali o una qualche combinazione di questi, o loro relazioni. Ovviamente questi processi sono
complessi, sia in se stessi (cioè per individuo o gruppo) sia nel modo in cui possono essere interrelati; ma una certa
semplificazione strutturale è necessaria e possibile».
«Gli approcci quali-quantitativi più innovativi e rilevanti, dal punto di vista metodologico ed euristico, sono l’approccio
topologico di René Thom della “teoria delle catastrofi” e la teoria delle “biforcazioni”. Entrambe le teorie studiano (la
prima in ambito più ristretto, ma con intenti tassonomici; la seconda in un ambito più generale) i sistemi dinamici
caratterizzati da equilibri multipli, in cui il passaggio da un equilibrio all’altro può implicare una discontinuità, un salto
improvviso, una “catastrofe”, e in cui i percorsi temporali delle variabili possono in certe condizioni presentare una
biforcazione, una netta alternativa fra traiettorie che successivamente seguono una storia differente. In entrambi i casi, le
traiettorie temporali appaiono largamente irreversibili e il sistema non ritorna allo stato iniziale quando si inverte la
direzione del tempo, diversamente dalla dinamica newtoniana che ipotizza sistemi armonici e traiettorie reversibili.
L’elemento essenziale che scaturisce da questi approcci teorici è la criticità delle condizioni iniziali del sistema, che
discende dal fatto che un certo percorso non può essere replicato che per caso e che, come ora detto, non può essere
effettuato in senso (temporalmente) inverso».
«A differenza degli equilibri termodinamici di omogeneizzazione e di disordine, gli equilibri organizzazionali sono equilibri
di forze antagoniste. Ogni relazione organizzazionale, e dunque ogni sistema, comporta e produce quindi antagonismo
nello stesso tempo in cui produce complementarità. Ogni relazione organizzazionale necessita e attualizza un principio di
complementarità, necessita e virtualizza in misura più o meno grande un principio di antagonismo».
24
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
il disordine. Ma il sistema entra in crisi quando le differenze si trasformano in opposizioni e le
complementarità in antagonismi.
Alla luce di queste considerazioni e per meglio chiarire i termini della questione è opportuno, a questo
punto, richiamare l’approccio sistemico-funzionale della città, che qui si propone di adottare. Tale
approccio si riconduce direttamente alla teoria generale dei sistemi, che, applicato al fenomeno urbano,
consente la costruzione di un modello conoscitivo utile alla interpretazione ed alla decodificazione della
complessità urbana. In tal senso, già nella lettura e nell’analisi del sistema-città è necessario coniugare le
caratteristiche delle singole parti alle caratteristiche dell’intero sistema, con l’obiettivo di definire le
interrelazioni che legano le singole parti al tutto e viceversa.
Il percorso (circuito) su cui si innesca il passaggio dalle parti al tutto e da questo di nuovo alle parti è di
tipo polirelazionale in quanto gli elementi devono essere definiti nei loro caratteri, nelle relazioni alle quali
prendono parte, nella complessiva organizzazione in cui esistono ed in definitiva in quel particolare
“terreno di coltura” in cui sono inseriti (quel particolare sistema); viceversa il sistema deve essere definito
nelle sue caratteristiche peculiari, nelle relazioni esistenti tra i suoi elementi e nelle relazioni con ciascuno
dei suoi elementi.
Con riferimento a tale impostazione scientifica e dall’osservazione del sistema urbano, si può affermare
che la città è senz’altro un sistema dinamicamente complesso. Sulla scorta delle considerazioni precedenti
e dalla teoria dei sistemi dinamici si deduce che l’evoluzione della città non può essere prevista
linearmente sulla base delle condizioni iniziali. Dire, quindi, che una città è un sistema dinamicamente
complesso significa dire che tale sistema è definito, oltre che da caratteristiche proprie, da leggi e criteri di
evoluzione dello stato che si modificano nel tempo.
La complessità dinamica che caratterizza la città dipende essenzialmente da quattro variabili principali:

i livelli di gerarchia,

il tipo e la qualità delle relazioni,

il numero degli elementi,

la velocità e le leggi del mutamento.
I vari livelli di gerarchia permettono di leggere la struttura urbana secondo vari punti di vista. Il tipo e la
qualità dei possibili percorsi di relazione si riferiscono alla interconnessione tra i vari elementi del sistema e
dipendono dalla capacità di conoscenza del ventaglio degli effetti che ciascuna azione compiuta, anche su
una singola parte del sistema, può generare su di una o più parti differenti e sulle altre relazioni. Così
definiti i concetti di riferimento per una “modellizzazione” del sistema urbano che consenta di individuare
metodi di lettura e tecniche di analisi, il passo successivo deve essere orientato alla definizione di
procedure tese al governo della “organizzazione” del sistema. Tali procedure devono consentire la
definizione di strumenti e tecniche di controllo orientati alla ri-funzionalizzazione del sotto-sistema
relazionale ed al recupero ed al riuso del sotto-sistema fisico (Papa et alia 1992).
L’articolazione del sistema urbano
L’attività di governo delle trasformazioni urbane e territoriali, essendo rivolta alla conoscenza ed alla
previsione dei possibili futuri assetti di un sistema che abbiamo definito complesso (per la numerosità e la
diversità degli elementi in gioco, per la numerosità e tipologie delle relazioni tra gli elementi del sistema si
stabiliscono all’interno e all’esterno del sistema stesso), dinamico (per la sua evoluzione nel tempo) e
caotico (avvenimenti apparentemente insignificanti possono produrre conseguenze molto rilevanti sul
sistema), è un’attività molto complicata e ricca di insidie.
«Quando, in un primo approccio al fenomeno urbano, in qualsiasi tempo e luogo, anche remoti, si constati
la sua indissociabile, attiva compartecipazione, come struttura portante, alle molteplici manifestazioni di
civiltà, o se ne osservino le impetuose esplosioni in atto, o quando si tenti, avventurandosi nel futuro,
qualche prima sommaria interpretazione della sua dinamica o qualche incerta anticipazione morfologica,
mentre da un lato il fascino della straordinaria ampiezza e varietà del fenomeno allarga l’orizzonte
dell’esplorazione, dall’altro non ci si può sottrarre al corrispettivo sgomento per la palese inadeguatezza
degli strumenti conoscitivi» (Astengo 1966).
Allo stato attuale delle conoscenze, come abbiamo già accennato, il modello sistemico appare quello che
maggiormente offre garanzie per più rispondente interpretazione del fenomeno urbano.
Alla città, come a qualsiasi altro sistema, possono essere applicati i principi generali della Teoria dei
Sistemi, così come è stato sintetizzato nelle pagine precedenti. Tra questi il principio secondo cui ogni
sistema può essere discretizzato in sottosistemi che lo compongono.
Una volta definito il modello di approccio, è necessario conoscere quali sono gli elementi costitutivi e quali
le relazioni principali del sistema (modellizzato). Infine è necessario determinare le caratteristiche degli
25
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
elementi e le leggi che ne regolano l’integrazione, senza i quali (elementi, leggi e integrazione) non si può
nemmeno pensare ad una modellizzazione del “sistema-città”.
In tal senso, fin dalla fase iniziale del “lavoro” sulla sistema-città e sul sistema-territorio (la conoscenza) è
necessario coniugare le caratteristiche delle singole parti alle caratteristiche dell’intero sistema, con
l’obiettivo di definire le interrelazioni che legano le singole parti al tutto e viceversa.
La città si trasforma al fine di garantire una migliore qualità della vita agli uomini che la utilizzano. Gli
uomini trasformano e adattano gli spazi presenti sul territorio urbano al fine di consentire il migliore
espletamento delle attività e delle funzioni in cui sono impegnati. Nella città, quindi, coesistono non solo gli
aspetti “fisici” (la sua forma, le sue strade, le sue case, ecc.) ma anche gli aspetti “funzionali” (le relazioni
che esistono tra le sue componenti e le leggi che regolano queste relazioni). Sulla base di queste
considerazioni ed in ragione delle finalità (eminentemente sociali) e degli obiettivi propri (la conoscenza ed
il governo delle trasformazioni fisiche) della disciplina che studia la città ed il territorio, il sistema urbano
può essere discretizzato in quattro sottosistemi:

sottosistema antropico,

sottosistema funzionale,

sottosistema fisico,

sottosistema geomorfologico.
Gli elementi principali dei sottosistemi elencati sono rispettivamente:

gli uomini, ovvero coloro che vivono e utilizzano la città ed il territorio in maniera costante o
temporanea; al soddisfacimento dei loro bisogni e delle loro richieste è rivolta l’attività di governo
delle trasformazioni urbane;

le attività e le comunicazioni che rappresentano il fare dell’uomo ovvero le occupazioni degli abitanti
e degli altri utenti della città che hanno effetti e ricadute rilevanti sul territorio e sulla sua
organizzazione;

gli spazi ed i canali definibili come i luoghi in cui gli uomini svolgono le proprie attività e che
trasformano per adattarli allo svolgimento delle diverse attività;

i territori e le reti intesi come il supporto fisico su cui si stabiliscono, nel loro complesso, le relazioni e
le connessioni tra le attività espletate dagli uomini.
Bisogna sottolineare che l’articolazione della città e del territorio nei quattro sottosistemi costituisce
un’utile facilitazione nel lavoro di conoscenza e di governo delle trasformazioni urbane e territoriali che
risulta estremamente complicato da condurre in ragione della, più volte ribadita, complessità del sistema
città.
Il primo sottosistema è formato dalla popolazione che abita in una determinata città (abitanti) e da quanti
svolgono attività definite in un tempo limitato nella città.
Come già accennato, in ragione della finalità generale di massimizzazione dell’utile collettivo, è necessario
conoscere i comportamenti più rilevanti e diffusi degli individui che vivono e utilizzano un sistema urbano o
territoriale. Infatti, l’interpretazione dei comportamenti più diffusi di una data comunità permette di
comprendere le esigenze, i bisogni, le richieste da soddisfare al fine di garantire il miglioramento della
qualità della vita.
In generale, i comportamenti sono strettamente correlati a caratteriste della popolazione quali le fasce
d’età, l’occupazione, il reddito, il livello di istruzione, ma anche a caratteriste esterne al sottosistema
stesso, quali le condizioni climatiche, l’innovazione tecnologica, ecc..
Il sottosistema antropico può essere inteso nella duplice accezione sociale ed economica. Nell’accezione
sociale può essere definito come l’insieme organizzato di individui che condividono (o dovrebbero) fini e
comportamenti e si relazionano congiuntamente per costituire una comunità.
Gli uomini che compongono tale comunità condividono uno stesso territorio geograficamente limitato e
interagiscono sia tra loro, all’interno di tale sistema, che con il sovrasistema di riferimento.
Nell’accezione economica può essere definito come l’insieme organizzato di individui che utilizzano le
stesse risorse, limitate, per soddisfare al meglio i bisogni individuali e collettivi contenendo la spesa.
In tal senso, gli attori principali che compongono il sistema urbano e territoriale possono essere individuati
nei tre seguenti gruppi: le famiglie, le imprese e le istituzioni.
Ciascun gruppo, all’interno del sistema urbano, tende ad affermare come prioritari i propri bisogni, i propri
interessi, spesso in conflitto con quelli degli altri gruppi. In particolare:

le famiglie tendono a perseguire interessi legati al benessere;

le imprese tendono a perseguire interessi di profitto economico;

le istituzioni tendono a perseguire interessi di tipo generale e diffuso.
In tale ottica, la città si configura quale luogo di organizzazione e mediazione tra interessi in conflitto.
26
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
Il sottosistema funzionale comprende le attività che hanno forti effetti sul sistema urbano e territoriale e
sulla sua organizzazione; le attività cioè che per volume, frequenza e intensità definiscono gli usi prevalenti
delle aree urbane. Tra le moltissime attività che godono delle proprietà accennate, in altre parole, si
prendono in considerazione quelle che tendono a strutturare in maniera regolare e persistente (Chapin
1965) il suolo urbano; «si prenderanno in considerazione soltanto quelle attività dell’uomo che sono più o
meno strettamente connesse al suolo, attribuendo maggiore attenzione a quelle che lo sono di più e
minore a quelle che sono meno direttamente collegate» (McLoughlin 1973).
Gli elementi del sottosistema funzionale possono essere raggruppati in due principali insiemi: il primo si
riferisce alle attività che si svolgono in spazi ad esse dedicati; il secondo si riferisce alle attività che si
svolgono attraverso lo spazio e che si definiscono comunicazioni.
Questi due insiemi sono strettamente collegati tra loro in quanto le prime possono trovare localizzazioni
separate sul territorio in virtù dell’esistenza delle comunicazioni. In particolare, le comunicazioni possono a
loro volta essere classificate in ragione dell’oggetto che si sposta e in ragione del modo di trasporto. Le
quattro categorie di oggetti sono: le persone, i beni, l’informazione e l’energia; i modi di trasporto: su
strada, su ferro, in aria, su etere, su cavo, su acqua, ecc..
Il sottosistema fisico è costituito dagli spazi che l’uomo, in ragione dei modelli di comportamento adottati
(che, come è stato accennato, dipendono da fattori spesso apparentemente distanti quali cultura,
condizioni climatiche, razza, reddito, ecc.), trasforma per adattarli alle attività da espletare. Gli spazi, in
altre parole, vengono adattati per accogliere e svolgere le attività.
Il concetto di spazio adattato può chiarirsi se si fa riferimento al concetto di spazio specializzato. Quanto
più uno spazio è adattato tanto più esso è specializzato ad accogliere un numero molto ridotto di attività:
negli spazi fortemente adattati si può svolgere anche una unica attività.
Si può affermare che il livello di adattamento dello spazio è inversamente proporzionale al numero di
attività che possono svolgersi al suo interno.
La relazione che lega il sistema antropico con il sistema fisico è quindi una relazione che passa attraverso il
sistema delle attività. «Le particolari caratteristiche del sistema di cui si occupano specificamente i
pianificatori sono i suoi aspetti spaziali o localizzativi. (…) Ne segue allora che il sistema da noi considerato
deve essere descritto in termini spaziali e localizzativi. (…) Questo fatto per due ragioni.
In primo luogo il sistema è trasformato dai comportamenti degli attori nell’organizzazione spaziale delle
attività. (…) In secondo luogo le comunicazioni si verificano sempre tra il punto a e il punto b; inoltre, per
il pianificatore, le comunicazioni avvengono tra l’attività che si trova all’interno dell’area A e l’attività che si
trova all’interno dell’area B» (McLoughlin 1973).
Come per gli elementi del sottosistema funzionale, anche gli elementi di quello fisico possono essere
raggruppati in due sottosistemi: il primo si riferisce a superfici e volumi (spazi) adattati allo scopo di
svolgere le attività cui sono dedicati; il secondo si riferisce a superfici e volumi (canali) adattati allo scopo
di consentire le comunicazioni. Come le comunicazioni, anche i canali possono essere classificati in ragione
dell’oggetto che si sposta e in ragione del modo in cui avviene il trasporto.
Il quarto sottosistema, quello geomorfologico, è il supporto fisico, alla scala vasta, – il territorio – su cui si
distribuiscono l’insieme degli spazi, adattati e “non adattati”, e su cui le diverse tipologie di canali si
strutturano in reti. Nel territorio non operano e si spostano soltanto gli uomini, non è solo l’insieme degli
spazi alla scala vasta, non è il «fondale inerte delle attività degli uomini, ma un campo fisico su cui trovano
esistenza forze in movimento collegate in forma sistemica» (Bevilacqua 2008).
Tuttavia, per quanto i sottosistemi allo studio costituiscano un unico sistema, essi hanno ritmi diversi di
evoluzione che dipendono dalle caratteristiche connotanti di ciascuno dei tre sottosistemi. Tali
caratteristiche determinano, quindi, un maggiore o minore grado di predisposizione al cambiamento.
In particolare, il sistema antropico evolve a ritmi molto sostenuti impressi dai cambiamenti sociali,
culturali, scientifici e tecnologici; tale sottosistema è caratterizzato, quindi, da una elevata flessibilità al
cambiamento, che è possibile cogliere nella straordinaria capacità dell’uomo a modificare velocemente i
suoi comportamenti.
Il sottosistema funzionale evolve ad una velocità comparabile con il primo sottosistema in ragione della
circostanza che il fare dell’uomo (le attività) è strettamente condizionato dall’evoluzione dei
comportamenti.
Il sottosistema fisico è caratterizzato, invece, da una notevole inerzia alla trasformazione rispetto ai primi
due sottosistemi dovuta agli elementi stessi che lo costituiscono, alla notevole quantità di risorse da
impegnare per la sua trasformazione ed, infine, alla condizione di scarsità di risorse.
Componenti, relazioni e invarianti del sistema urbano
L’articolazione in sottosistemi proposta non deve essere considerata come una “partizione” del sistema
urbano in quattro unità distinte, ma queste vanno considerati, secondo un approccio olistico, come parti
27
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 1. Sistema urbano e complessità
del tutto, come i diversi aspetti di un’unica realtà, di un sistema unitario. La comprensione
dell’organizzazione attuale e le previsioni sull’assetto futuro della città non possono essere condotte sulla
scorta della conoscenza del funzionamento di uno solo dei sottosistemi o in base alla sommatoria dei
funzionamenti distinti dei quattro sottosistemi. La conoscenza del sistema urbano va ricercata sicuramente
a partire dagli elementi e dalle caratteristiche dei singoli sottosistemi, ma deve considerare come elemento
prioritario le relazioni e le integrazioni che esistono tra i diversi sottosistemi, che esistono tra le diverse
parti in cui è articolato il sistema urbano. In altre parole, oltre a conoscere le diversi componenti
(sottosistemi) di un sistema urbano e gli elementi e le caratteristiche di ciascuna di esse, occorre
individuare i legami (le relazioni tra i diversi sottosistemi) che tengono insieme in maniera integrata il
sistema urbano e che quindi ne definiscono l’organizzazione e la struttura. Sono proprio tali relazioni, tali
legami che definiscono, quindi, un particolare sistema e lo differenziano dagli altri.
E’ necessario individuare le relazioni che si stabiliscono tra gli elementi del sottosistema antropico e quelli
del sottosistema funzionale, tra gli elementi del sottosistema funzionale e quelli del sottosistema fisico ed,
infine tra gli elementi del sottosistema fisico e del sottosistema geomorfologico.
In particolare, la relazione principale che si stabilisce tra gli uomini e le attività è una relazione di tipo
prevalentemente culturale, che va dalla pluralità degli aspetti che si tramandano all’interno di una
comunità (tradizioni, educazione, storia, religione, consuetudini), alla sua capacità di innovarsi sia dal
punto di vista sociale che tecnologico che scientifico, alla disponibilità economica fino agli aspetti geoclimatici del territorio su cui essa è insediata. La relazione principale che si stabilisce tra le attività e gli
spazi fa riferimento alla necessità di adattamento degli spazi ad accogliere e favorire una particolare
attività; in tal senso la relazione tra questi due sottosistemi può essere definita di destinazione d’uso.
Fig. 7 – Le relazioni principali tra i sottosistemi urbani
La relazione tra spazi e territorio può essere espressa come la quantità di attività che si svolge in un’area o
intensità d’uso; tale quantità può essere espressa e misurata in diversi modi, in riferimento alle differenti
tipologia di attività che si espletano sul territorio. Per molte attività l’intensità d’uso trova un indicatore
significativo nella misura del rapporto tra superfici o volumi di spazio adattato per ettaro; per altre
tipologie di attività, invece, bisogna ricorrere a rapporti diversi quali utenti per unità di superficie; per le
comunicazioni bisogna ricorrere a rapporti quali flusso di utenti nell’unità di tempo opportunamente scelta
in ragione del modo di trasporto oppure quantità di merci (colli ad esempio) al giorno o, ancora, quantità
di informazioni al secondo. La relazione che si stabilisce tra i diversi spazi adattati definisce come si
conforma e configura lo spazio territoriale; in altre parole questa relazione costituisce la forma d’uso, la
forma che lo spazio assume in relazione ad una particolare destinazione d’uso cui è dedicata una porzione
di territorio. Tra le relazioni principali che si stabiliscono tra i diversi sottosistemi vi è, infine, la
distribuzione d’uso che può essere definita come l’articolazione sul territorio delle unità d’offerta (spazi) di
una determinata attività al fine di consentire il più adeguato funzionamento.
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CARMELA GARGIULO
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29
2. SISTEMA URBANO E SVILUPPO SOSTENIBILE
Adriana Galderisi
A partire dagli anni Settanta si assiste ad una sostanziale revisione del modello di approccio allo studio della
città e del territorio, alla luce di due principali riferimenti teorici: la Teoria dei Sistemi e il paradigma della
complessità. Questi riferimenti costituiscono i fondamenti anche per comprendere il percorso che ha
condotto, negli stessi anni, all’affermarsi del concetto di sviluppo sostenibile.
Rispecchiando gli assunti del pensiero sistemico, lo studioso Fritjof Capra ha introdotto nel 1996 il suo testo
“La rete della vita” con la seguente citazione:
(…) Tutto ciò che accade alla terra accade ai figli e alle figlie della terra. L’uomo non tesse la trama della
vita; in essa egli è soltanto un filo. Qualsiasi cosa fa alla trama, l’uomo la fa a se stesso.
La citazione pone l’accento su una duplice consapevolezza: la prima relativa allo stretto legame di
interdipendenza tra Uomo e Natura, troppo a lungo ignorato; la seconda relativa alla conseguente necessità
di adottare nuovi paradigmi interpretativi che tenessero conto dei rapporti di interdipendenza tra le varie
componenti.
Dagli anni Novanta, si assiste alla piena affermazione dei concetti di sostenibilità e di sviluppo sostenibile
anche nell’ambito della disciplina urbanistica e, con la seconda metà degli anni Novanta, essi vengono
diffusamente assunti quali principi informatori dei processi di governo delle trasformazioni urbane e
territoriali.
2.1.
Risorse, ambiente, città
Per meglio comprendere cosa si intende oggi con i termini sostenibilità e sviluppo sostenibile, e soprattutto
quali implicazioni questi termini hanno nella disciplina urbanistica, vengono descritte in questo paragrafo le
principali questioni che hanno portato alla crisi del modello di sviluppo che ha a lungo guidato (e in parte
ancora guida) l’evolversi delle società dell’Occidente industrializzato, facendo emergere, di contro, la
necessità di un nuovo modello di sviluppo. Inoltre, si focalizza l’attenzione su due concetti centrali per la
definizione di un nuovo modello di sviluppo: Ambiente e Risorsa.
I limiti alla crescita
Il ventennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta ha rappresentato, per la gran parte dei paesi
industrializzati, un ventennio di crescita economica molto sostenuta. L’espansione delle economie industriali
ha determinato anche una crescita del benessere sociale ed individuale: in particolare, la fine del secondo
conflitto mondiale ha segnato, per tutti i paesi dell’Occidente industrializzato, il punto di inizio di un periodo
di benessere economico, caratterizzato anche da una rilevante crescita demografica.
La crescita economica rappresenta in questi anni l’obiettivo prioritario di tutte le politiche nazionali, mentre
scarsa attenzione viene posta alle conseguenze e agli effetti collaterali di tale crescita.
È solo con la fine degli anni Sessanta che cominciano a manifestarsi le prime e indesiderate conseguenze di
un modello di crescita basato sulla separazione tra economia e natura, su una ridotta attenzione alle leggi di
natura  considerata un illimitato serbatoio di risorse da utilizzare  e sull’assoluta fiducia nelle capacità
dell’uomo di dominare la natura attraverso la tecnologia.
Fino ad allora, la visione predominante nelle società occidentali era stata quella secondo cui il benessere
umano dipendeva dalla crescente capacità dell’uomo di controllare le forze di natura. In questa prospettiva,
la natura appariva come una risorsa da sfruttare a beneficio dell’uomo stesso e una fonte di pericoli da
contenere o da contrastare (Haley 2003).
La visione della Natura come serbatoio illimitato di risorse viene messa in discussione solo tra la fine degli
anni Sessanta e gli anni Settanta, quando affiora la consapevolezza che la rilevante crescita economica ha
comportato non pochi effetti indesiderati e, soprattutto, inattesi. Tra questi, ad esempio, il consumo e il
deterioramento delle risorse naturali a causa di un eccessivo sfruttamento delle stesse o, anche, la
produzione di rifiuti in quantità tali da non poter essere completamente assorbiti dall’ambiente naturale. In
questi anni comincia ad affiorare, la consapevolezza che le risorse naturali costituiscono un capitale
esauribile.
31
ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
Il primo studio sui pericoli connessi al modello di sviluppo improntato sulla descritta visione della natura e,
soprattutto, sui limiti che l’“esauribilità” delle risorse naturali avrebbe imposto ai sostenuti ritmi di crescita
economica che avevano contraddistinto quel periodo storico, fu pubblicato proprio nei primi anni Settanta. Il
volume, dal titolo “The limits to growth” (Meadows et alia 1972), delineava le possibili evoluzioni del Pianeta
Terra, effettuando una modellizzazione delle possibili conseguenze della rapidissima crescita della
popolazione mondiale a fronte della limitatezza delle risorse disponibili. Lo studio proponeva, in particolare,
un esame dei trend di crescita di alcune variabili  tra cui la popolazione, i livelli di industrializzazione, la
produzione di cibo, ecc.  evidenziando come, se i livelli di crescita fossero rimasti invariati, le risorse
necessarie a soddisfare la domanda sarebbero divenute insufficienti nell’arco di soli cento anni,
determinando il collasso del Pianeta Terra.
Il principale merito dello studio è da identificarsi non nella veridicità e affidabilità delle proiezioni proposte
quanto, piuttosto, nell’aver portato all’attenzione di tutti i governi nazionali dell’Occidente industrializzato i
limiti e i rischi connessi ad un modello di sviluppo poco attento alle leggi di natura.
L’attenzione della collettività alle questioni della scarsità ed esauribilità delle risorse venne rafforzata in
quegli anni da un altro evento di rilevanza internazionale: nel 1973 una grave crisi petrolifera evidenziò in
modo drammatico l’elevata dipendenza dei paesi dell’Occidente industrializzato e dei suoi ritmi di crescita da
una risorsa limitata quale il petrolio. Tale crisi fu l’esito della decisione assunta dai paesi arabi esportatori di
petrolio durante la guerra del Kippur  tra Israele e gli Stati arabi  di interrompere le esportazioni verso i
paesi che sostenevano Israele (America, Europa occidentale e Giappone). Ciò determinò un immediato e
significativo innalzamento del costo del petrolio che costrinse i diversi Paesi ad introdurre misure fortemente
restrittive per ridurne i consumi. Questo evento costituì un passaggio fondamentale per la revisione del
modello di sviluppo dominante, poiché costrinse il mondo intero a focalizzare l’attenzione sull’elevatissima
dipendenza delle società dell’Occidente industrializzato da una risorsa limita: il petrolio.
Ed è su queste problematiche, l’esauribilità di alcune risorse e l’elevata dipendenza del modello di crescita
dei paesi dell’Occidente industrializzato da tali risorse, che si avvia la ricerca di un nuovo modello di
sviluppo, improntato ad una più elevata compatibilità tra attività dell’uomo e disponibilità di risorse.
Ambiente, risorse, sviluppo
La definizione del termine Ambiente è variabile in funzione dei diversi approcci disciplinari: nel campo delle
scienze naturali e dell’ecologia, esso viene definito come l’insieme dei fattori biotici (viventi) e abiotici (non
viventi, ossia fisici e chimici) in cui vivono i diversi organismi e, in particolare, l’uomo. Nel campo delle
scienze sociali, la centralità dell’uomo e della società umana conduce ad una definizione dell’ambiente come
complesso di condizioni sociali, culturali, morali in cui un individuo si trova.
Forse proprio a causa delle diverse accezioni disciplinari, il concetto di ambiente presenta ancora oggi una
notevole ambiguità.
La radice del termine è il participio presente del verbo latino “ambire” ovvero stare intorno; la nozione base
è dunque riferibile a ciò che è intorno, che circonda, anche nel senso di ciò in cui si è immersi. In senso
stretto, il termine indica l’insieme delle condizioni esterne e interne a un organismo e, in senso estensivo e
figurato, le condizioni materiali, sociali, culturali in cui vive ed opera un essere umano. Ancora, in senso
figurato, il termine individua un gruppo di persone che hanno i medesimi interessi o le medesime idee
mentre, in senso materiale, definisce uno spazio delimitato da pareti.
Integrando i diversi significati del termine, l’ambiente può essere definito come l’insieme delle condizioni
materiali e immateriali, determinate da processi naturali e antropici, che consentono lo svolgimento delle
attività di tutte le specie viventi, in particolare di quella umana.
Alla luce delle considerazioni precedenti, l’ambiente può quindi essere considerato un sistema, articolato in
due sottosistemi principali:
 l’ambiente naturale, costituito dall’insieme delle risorse non create dall’uomo, ma da questi utilizzate e
modificate (aria, acqua, suolo, ecc.); tale sottosistema è caratterizzato da elementi biotici e abiotici
connessi mediante una fitta rete di flussi di materia, energia, ecc.;
 l’ambiente antropico, costituito dall’insieme delle risorse più direttamente riferibili all’azione dell’uomo;
tale sottosistema può essere oggetto di una ulteriore articolazione in ambiente costruito, caratterizzato
dalle risorse realizzate dall’uomo (edifici, infrastrutture, coltivazioni, ecc.), e ambiente sociale, costituito
dalle componenti immateriali che caratterizzano l’ambiente antropico (sistemi di organizzazione sociale e
politica, sistemi economici, ecc.).
Questi diversi sottosistemi sono in stretta interrelazione, pur presentando differenti velocità di cambiamento.
In particolare, l’ambiente sociale, caratterizzato da una più elevata rapidità di cambiamento, fornisce gli
input alle trasformazioni che investono sia l’ambiente costruito che l’ambiente naturale. L’ambiente costruito,
caratterizzato da una più elevata inerzia alla trasformazione, viene modificato dall’uomo sulla base dei
32
ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
cambiamenti culturali, sociali, politici, economici, tecnologici di una collettività in un dato contesto spaziotemporale. L’ambiente naturale è contraddistinto da tempi di rigenerazione molto lunghi: pertanto,
preservare tale sottosistema, richiede vincoli, limiti e condizioni alle attività trasformative dell’uomo.
Fig. 1 – Le interrelazioni tra le componenti del sistema Ambiente
Per lungo tempo la disciplina urbanistica ha prestato scarsa attenzione all’ambiente naturale e alle sue leggi
e, soprattutto, ai possibili impatti che le trasformazioni dell’ambiente costruito potevano indurre sul sistema
ambiente nel suo complesso. Ciò costituiva l’ovvia conseguenza di un modello di sviluppo che, affermatosi
con la Rivoluzione Industriale, era improntato al massimo sfruttamento delle risorse naturali e alla minima
attenzione alla compatibilità tra azioni dell’uomo e leggi che regolano il funzionamento dell’ambiente
naturale: un modello di sviluppo che ha determinato, a breve termine, fenomeni di degrado e di
incontrollato consumo delle risorse e che potrebbe indurre, a lungo termine, alterazioni irreversibili ed
esaurimento delle risorse.
I concetti di crescita, sviluppo, sviluppo sostenibile sono definibili, essenzialmente, in rapporto alla
caratterizzazione delle risorse e alla loro “sostituibilità” (Scandurra 1995).
Il concetto di risorsa risulta variabile nel tempo e nello spazio: una risorsa è tale solo quando  in un dato
contesto sociale, economico, culturale, tecnologico  essa è riconosciuta come tale; quando si manifesta,
cioè, uno specifico bisogno e una conseguente domanda. In linea generale, è possibile affermare che
costituisce risorsa tutto ciò che un individuo o una collettività utilizza per soddisfare un proprio bisogno,
materiale o immateriale.
Sembra utile sottolineare, inoltre, che le possibili classificazioni delle risorse sono molteplici e generalmente
funzione di specifici obiettivi. Una prima macro-suddivisione, probabilmente la più diffusa, è quella tra
risorse naturali e risorse antropiche, che distingue il capitale naturale dal capitale prodotto dall’uomo.
Quest’ultimo è costituito sia da risorse materiali (insediamenti, strade, ecc.) sia da risorse immateriali
(cultura, informazioni, ecc.). «Questo capitale contribuisce, da una parte (mediante investimento) al
processo economico di produzione, dall’altra, ad aumentare il capitale a disposizione delle future
generazioni» (Scandurra 1995).
Il capitale naturale è costituito dall’insieme delle risorse non “prodotte” dall’uomo, ma da questi utilizzate per
generare un’utilità: dal supporto stesso alla vita dell’uomo sul Pianeta, al benessere economico. Quindi,
anche il capitale naturale concorre al processo economico di produzione, oltreché rappresentare un
elemento essenziale per la vita e il benessere dell’uomo.
In riferimento alla suddivisione tra risorse antropiche e risorse naturali, sembra utile sottolineare che le
prime includono l’insieme delle risorse che sono state prodotte nel corso dei secoli dall’uomo: si tratta,
evidentemente, di una definizione ampia che include, ad esempio, non solo i prodotti dell’agricoltura, ma
anche gli insediamenti, le infrastrutture, ovvero tutto ciò che l’uomo ha realizzato per migliorare la qualità
del proprio ambiente di vita.
È evidente che queste risorse, accanto a quelle naturali, costituiscono un capitale di estrema rilevanza per
garantire il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo e che un uso attento del capitale di risorse antropiche
consente, indirettamente, di limitare l’utilizzo delle risorse naturali: ad esempio, il riutilizzo di insediamenti
preesistenti consente di limitare l’impiego della risorsa suolo a fini insediativi.
33
ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
Per quanto riguarda le risorse naturali, è la centralità stessa di tali risorse nei processi di sviluppo che ne
rende particolarmente rilevante la classificazione in funzione delle loro modalità di riproduzione o di
rigenerazione: in altre parole, della “rinnovabilità” o meno di tali risorse (Fig. 2). Le risorse non rinnovabili,
tra cui i minerali o i combustibili fossili, sono quelle che si formano grazie a processi geologici della durata di
migliaia di anni: esse, pertanto, vanno considerate disponibili in quantità limitata o, comunque, in grado di
ricostituirsi in tempi così lunghi da travalicare la scala dei tempi “umani”. Il loro utilizzo implica quindi una
riduzione irreversibile, almeno in riferimento ad una scala temporale accettabile per l’uomo, del quantitativo
complessivo disponibile. Tra le risorse rinnovabili possiamo menzionare, ad esempio, l’aria, l’acqua, il suolo:
pochissime  tra queste il sole e il vento  sono però quelle che non pongono alcun limite o condizione per il
loro utilizzo. Nella gran parte dei casi, si tratta di risorse rinnovabili “a condizione”: ovvero purché il loro
utilizzo risulti compatibile con le capacità di rigenerazione, con i cicli biologici della risorsa stessa. Un
esempio, in tal senso, è costituito dalle foreste: esse costituiscono una riserva di legno, da secoli ricavato dal
taglio degli alberi e si rigenerano naturalmente attraverso la nascita di nuovi alberi. Tuttavia, quando i ritmi
di utilizzo superano la capacità di rigenerazione della foresta, si rischia la perdita, l’estinzione della risorsa
stessa. In sintesi, un utilizzo “incondizionato”, anche di una risorsa rinnovabile, può determinare l’alterazione
irreversibile, o anche la perdita, di tali risorse.
Fig. 2 – La classificazione delle risorse
2.2.
Sviluppo sostenibile: un concetto multidimensionale
La prima definizione ufficiale del concetto di sviluppo sostenibile risale invece al 1987, riportata nel rapporto
finale della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo il cui titolo originale è “Our Common future”,
meglio conosciuto come Rapporto Brundtland. In questo rapporto lo sviluppo sostenibile viene definito come
“uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti, senza compromettere la possibilità
delle generazioni future di soddisfare i propri”.
Le due principali questioni sollevate dal Rapporto Brundtland sono riferibili all’equità inter-generazionale e
infra-generazionale e alla capacità di carico delle risorse naturali. In particolare, esso evidenzia che la
sostenibilità dello sviluppo richiede, in primo luogo, che vadano soddisfatti i bisogni primari di tutti i popoli
sulla terra contemporaneamente (equità infra-generazionale) e che il ritmo di diminuzione delle risorse non
rinnovabili non deve precludere le opportunità, per le generazioni future, di soddisfare i propri bisogni
(equità intergenerazionale). Tali criteri non sono, evidentemente, di semplice e immediata applicabilità:
bisogna tener conto, ad esempio, che ogni risorsa ha un proprio limite di sfruttamento, variabile da risorsa a
risorsa ma, anche, che le risorse, nell’ecosistema planetario, si riproducono in forma strettamente interrelata
l’una all’altra, rendendo impossibile analizzarle separatamente.
A seguito della pubblicazione del Rapporto, gli organismi internazionali cominciarono ad adoperarsi non
soltanto per promuovere la diffusione del concetto di sviluppo sostenibile ma, soprattutto, per favorire la
transizione da un’affermazione teorica e di principi verso una strategia operativa. È evidente, infatti, che il
concetto di sviluppo sostenibile così come formulato nel Rapporto Brundtland non presenta connotati
immediatamente operativi: “si tratta, piuttosto  proprio come per la pace e la democrazia  di una linea
guida per l’evoluzione della società” (Sachs 2001).
La prima tappa di rilievo in questo percorso di specificazione in chiave operativa dello sviluppo sostenibile è
la Conferenza ONU tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 che coinvolse i rappresentanti di 178 Stati e più di
1.000 Organizzazioni non Governative. Obiettivo della Conferenza era l’elaborazione di concrete strategie per
far fronte al degrado ambientale a scala mondiale e, soprattutto, il coordinamento degli sforzi che i singoli
paesi dovevano mettere in campo per perseguire uno sviluppo sostenibile. La necessità di individuare un
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ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
percorso comune per ri-orientare lo sviluppo in chiave di sostenibilità aveva evidenziato, infatti, l’importanza
di affrontare le problematiche ambientali in maniera condivisa e integrata, da parte di tutti gli Stati della
Terra. Nella Conferenza di Rio vengono quindi poste le basi per dare avvio ai programmi di risanamento
ambientale del pianeta e vengono enunciati i principi su cui impostare le politiche nazionali ed internazionali.
Dalla Conferenza scaturiscono due documenti: la Dichiarazione di Rio e l’Agenda 21. Il primo, la
Dichiarazione di Rio, è articolato in 27 principi, tra cui:
 l’obbligo per tutti i paesi di non causare danni ambientali transfrontalieri e di non dislocare presso altri
stati attività o sostanze potenzialmente nocive;
 l’impegno degli stati a cooperare in caso di attività o eventi in grado di provocare effetti negativi di
portata internazionale, specie in caso di disastri naturali;
 la necessità che i cittadini prendano parte ai processi decisionali, al fine di perseguire uno sviluppo
socialmente condiviso;
 l’impegno di tutti gli stati ad applicare misure di prevenzione/mitigazione in tema di protezione
ambientale;
 l’obbligo per tutti gli stati a valutare preventivamente gli impatti ambientali delle principali attività
nazionali e di predisporre le conseguenti eventuali misure di mitigazione/compensazione.
L’altro Documento di rilievo messo a punto nell’ambito della Conferenza di Rio, è l’Agenda 21 che riconosce
alle autorità locali un ruolo fondamentale per la costruzione di uno sviluppo sostenibile. Proprio i contesti
locali, e le città in particolare, possono giocare un ruolo fondamentale nel ri-orientare l’attuale modello di
sviluppo verso principi di sostenibilità. Ciò dipende, anzitutto, dalla crescente concentrazione della
popolazione mondiale nelle aree urbane  più della metà della popolazione della terra si concentra oggi in
agglomerati urbani e questa aliquota raggiunge il 75% se si fa riferimento alla sola Europa  ma anche dagli
impatti che le aree urbane producono sull’equilibrio complessivo di territori assai più vasti. In particolare, va
considerato che tra il 1950 e i primi anni del Duemila la popolazione urbana si è più che triplicata, superando
i quattro miliardi nel 2018, e si prevede che tale aliquota continuerà a crescere fino al 2050, superando
anche i sei miliardi (United Nations 2018). La crescente aliquota di popolazione urbana, specie nei paesi in
via di sviluppo, determina significativi innalzamenti sia dei livelli di consumo delle risorse naturali che della
quantità di rifiuti prodotta: la città consuma, spesso in modo inefficiente, grandi quantità di risorse naturali
prelevandole in territori esterni e spesso molto distanti dai propri confini amministrativi e, nel contempo,
produce elevate quantità di rifiuti, il cui smaltimento costituisce un problema di sempre maggiore rilevanza.
La città assume una duplice valenza in relazione alla sostenibilità dello sviluppo: da un lato, essa
rappresenta il luogo della massima insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo; dall’altra, in essa si
concentrano risorse culturali, tecnologiche e finanziarie tali da poter supportare processi innovativi mirati a
invertire le tendenze in atto. La stessa concentrazione di popolazione, che costituisce un rilevante problema
in ragione degli impatti prodotti, può invece rappresentare una risorsa preziosa ai fini della diffusione di
modelli di comportamento alternativi e maggiormente consapevoli della limitatezza delle risorse di cui
disponiamo. Ecco perché, a seguito dell’affermarsi a scala mondiale del concetto di sviluppo sostenibile,
l’attenzione viene focalizzata sulla dimensione urbana.
Un’altra tappa rilevante all’interno di questo percorso è la Conferenza di Aalborg del 1994, Conferenza
Europea sulle città sostenibili, mirata a promuovere progetti ed iniziative per la sostenibilità urbana in
Europa. Il Documento conclusivo di tale Conferenza, la Carta di Aalborg, sottoscritta da oltre 300 autorità
locali, definisce i principi base per uno sviluppo sostenibile delle città, riconoscendo la specificità dei singoli
contesti urbani e la necessità, per ciascuno di essi, di delineare il proprio percorso verso la sostenibilità.
Particolare attenzione viene posta al rispetto della capacità di carico dell’ambiente naturale. La Carta precisa
infatti che la sostenibilità ambientale implica, anzitutto, la conservazione del capitale naturale.
Ne consegue che il tasso di consumo delle risorse rinnovabili, di quelle idriche e di quelle energetiche non
deve eccedere il tasso di ricostituzione assicurato dai sistemi naturali e che il tasso di consumo delle risorse
non rinnovabili non deve superare il tasso di sostituzione delle stesse. Perseguire la sostenibilità ambientale
implica, quindi, garantire che il tasso di emissione degli inquinanti non superi la capacità dell’atmosfera,
dell’acqua e del suolo di assorbire e trasformare tali sostanze e che vengano preservate la biodiversità, la
salute umana e la qualità dell’atmosfera, dell’acqua e dei suoli a livelli sufficienti a sostenere nel tempo la
vita e il benessere degli esseri umani, oltre che delle specie animali e vegetali. Uno dei passaggi
fondamentali della Carta di Aalborg è il riconoscimento, da parte delle città firmatarie, del fatto che il
capitale di risorse naturali, atmosfera, suolo, acqua e foreste, è divenuto il fattore limitante del loro sviluppo
economico e che risulta pertanto necessario investire in questo capitale.
Il Documento individua quale priorità per uno sviluppo urbano sostenibile l’incentivazione di forme di
mobilità urbana sostenibili, assegnando priorità a mezzi di trasporto ecologicamente compatibili
(spostamenti a piedi, in bicicletta e mediante mezzi pubblici) e promuovendo, nel contempo, sostanziali
limitazioni al trasporto individuale e il miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici. Si riconoscono,
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ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
inoltre, le rilevanti responsabilità che le città hanno sia nelle modificazioni climatiche a livello planetario che
nell’innalzamento dei livelli di inquinamento e degrado delle principali risorse naturali.
Infine, le città firmatarie, in accordo con i principi già espressi a Rio de Janeiro, evidenziano la necessità che
un processo di sviluppo sostenibile costituisca il risultato di un’ampia partecipazione delle collettività locali e
della massima cooperazione tra le istituzioni locali.
L’operatività dei principi introdotti dalla Carta di Aalborg è stata ulteriormente precisata nella Conferenza di
Lisbona del 1996, mediante la promozione di strumenti operativi (indicatori, gestione ambientale, VIA,
EMAS, ecc.) e sociopolitici (partecipazione, consenso, cooperazione).
Una ulteriore tappa nel percorso di affermazione e diffusione dello sviluppo sostenibile è rappresentata dal
Vertice Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile svoltosi a Johannesburg nell’estate del 2002. In quella sede
vennero confermati i principi già sanciti a Rio e stabiliti alcuni obiettivi fondamentali da perseguire.
Inoltre, venne posto l’accento sulle politiche da mettere in campo e sugli strumenti da utilizzare per
promuovere modelli di produzione e consumo improntati a criteri di sostenibilità, per favorire la solidarietà in
ambito internazionale, in particolare verso i paesi in via di sviluppo, per sostenere forme di governo e
gestione delle risorse improntate a criteri di sostenibilità. Infine, a dieci anni di distanza dall’approvazione
della Carta di Aalborg, nel 2004, in occasione della quarta Conferenza Europea delle Città Sostenibili,
vengono approvati gli Aalborg Commitments, un decalogo di impegni strategici che le amministrazioni locali
europee adottano al fine di compiere un ulteriore passo da una fase programmatica, avviata alla metà degli
anni Novanta, ad una strategica e operativa. Gli Aalborg Commitments vengono individuati come una risorsa
dalla quale selezionare le priorità specifiche per i singoli contesti locali attraverso processi il più possibile
partecipati.
L’insieme dei Documenti che ha fatto seguito al Rapporto Brundtland ha contribuito ad enfatizzare la
multidimensionalità del concetto di sostenibilità, caratterizzato dalla interazione tra almeno tre dimensioni
fondamentali (Fig. 3):
 quella sociale, che pone al centro dell’attenzione i bisogni delle generazioni presenti e future e la
necessità di superare le diseguaglianze tra i popoli della Terra;
 quella economica, volta a delineare nuovi orizzonti di integrazione tra economia ed ecologia, tra i
fenomeni di medio o breve periodo propri del tempo economico e quelli di lungo periodo propri del
mondo naturale (Tiezzi 1984);
 quella ambientale, che riafferma la centralità delle risorse naturali per la vita stessa dell’uomo sulla
Terra.
Il dibattito sulla sostenibilità ha inoltre contribuito a sollevare questioni fino ad allora largamente trascurate
nell’analisi dei bisogni, delle domande e della distribuzione dei beni materiali e immateriali; a richiamare
l’attenzione su responsabilità morali per quanti non possono parlare per se stessi, per le altre specie e le
future generazioni; a considerare con maggiore attenzione le strette interrelazioni tra attività economiche,
modi di produzione e di consumo e ambiente naturale (Haley 2003).
Nel 2012, con la Conferenza ONU Rio+20 tenutasi a Rio de Janeiro venti anni dopo quella sull’ambiente e lo
sviluppo del 1992, gli Stati membri hanno ulteriormente ribadito il loro impegno per lo sviluppo sostenibile.
La Conferenza si è concentrata principalmente sul concetto di “green economy” come elemento fondante per
alleviare gli effetti sull’ambiente di modelli di sviluppo insostenibili (esaurimento delle risorse naturali,
cambiamenti climatici, perdita di biodiversità) e, parallelamente, promuovere il benessere sociale ed
economico. La Conferenza Rio+20 ha, inoltre, evidenziato la necessità di prevedere un approccio unitario alle
politiche messe in campo per lo sviluppo sostenibile considerando che l’efficacia di tali politiche può essere
assicurata solo attraverso l’integrazione fra le tre dimensioni della sostenibilità (ambientale, economica e
sociale). Per tale motivo è emersa la necessità di considerare un quarto pilastro dello sviluppo sostenibile,
ovvero quello istituzionale da intendersi come il sistema di governance globale per sviluppare, attuare e
monitorare le politiche di sviluppo sostenibile.
Il Documento conclusivo della Conferenza Rio+20, “The Future We Want”, avvia il processo di definizione
degli Obiettivi Globali per lo Sviluppo Sostenibile.
Con riferimento a quanto espresso dal Documento del 2012, infatti, gli Stati membri dell’Assemblea Generale
dell’ONU hanno adottato nel 2015 il documento “Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable
Development”. Tale Documento individua 17 Obiettivi (Sustainable Development Goals – SDGs), fondamentali
per affrontare le sfide globali connesse alle diverse dimensioni della sostenibilità, e per ciascun obiettivo
individua specifici target da raggiungere entro il 2030.
I 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile riguardano tutte le dimensioni della sostenibilità e sono organizzati
intorno a cinque aree tematiche (5P): Persone, Pianeta, Prosperità, Pace e Partnership. L’articolazione degli
obiettivi generali in target e indicatori consente di monitorare annualmente il loro graduale raggiungimento,
sia a livello globale che per ogni singolo stato.
36
ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
Per declinare a livello nazionale i principi e gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile adottata
nel 2015, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) ha elaborato la Strategia
Nazionale di Sviluppo Sostenibile (SNSvS), pubblicata nel 2017.
La SNSvS si articola in tre punti: la valutazione del “posizionamento” dell’Italia rispetto agli obiettivi
dell’Agenda 2030, l’individuazione dei punti di forza e di debolezza su cui costruire gli obiettivi da perseguire,
il sistema degli obiettivi nazionali organizzati intorno alle 5 aree tematiche individuate dall’Agenda.
Oltre ai Documenti internazionali che hanno contribuito ad estendere e, soprattutto, a specificare in chiave
operativa il concetto di sviluppo sostenibile, quest’ultimo è stato oggetto di numerosi studi che hanno
condotto a declinazioni eterogenee, anche in funzione dei diversi approcci disciplinari.
Tra le principali declinazioni della sostenibilità vanno senz’altro menzionate quelle, per molti aspetti
contrapposte, di matrice “economica” ed ecologica:
 la prima pone l’accento sulla necessità di rendere la crescita economica maggiormente compatibile con
l’ambiente, al fine di soddisfare i bisogni essenziali della popolazione mondiale;
 la seconda pone l’accento sulla necessità di perseguire la soddisfazione dei bisogni umani all’interno dei
limiti posti dalla capacità di carico del pianeta.
La prima deriva essenzialmente dall’economia neoclassica e, basandosi su una visione dell’ambiente come
“magazzino di punti di forza”, interpreta la sostenibilità come mantenimento o rafforzamento di tale
deposito. Ciò consente allo sviluppo economico di procedere fino a che tutte le perdite di questo magazzino
sono compensate dalla creazione di nuove risorse (Haley 2003). In quest’ottica di mera compensazione delle
perdite ambientali che lo sviluppo economico determina, si pongono alcuni problemi: il primo ha a che fare
con la dimensione spaziale del magazzino di beni cui si attinge; il secondo, con il valore o la “criticità” di
alcuni beni che rendono questi ultimi difficilmente sostituibili.
Fig. 3 – Le dimensioni della sostenibilità
In relazione al primo punto, sembra utile ricordare che le risorse naturali indispensabili per lo sviluppo (dalle
materie prime per la produzione di beni alle risorse per la produzione di energia) sono in larga misura
provenienti da aree molto distanti dal punto di utilizzo. Diventa pertanto estremamente complesso ipotizzare
misure compensative in quanto i benefici derivanti dal loro utilizzo sono a vantaggio di aree territoriali e
comunità generalmente non coincidenti con quelle che, al contrario, sostengono i costi connessi al consumo
di tali risorse.
In relazione al secondo punto, vale la pena sottolineare quanto complessa può risultare la valutazione di
“sostituibilità” di un bene che si basa, sia pure implicitamente, su una valutazione del “valore” del bene
stesso. Nascono quindi legittime domande sulla possibilità di sostituire determinati beni; ci si può ad
esempio interrogare sulla possibilità di sostituire un bosco con un campo sportivo o, ancora, sul fatto che
alcuni beni possano risultare “critici” per la sopravvivenza stessa del genere umano. Inoltre, in riferimento
ad un approccio sistemico, sembra opportuno sottolineare che la perdita o l’alterazione di un bene naturale
può indurre una complessa e intricata rete di effetti su altri elementi del sistema, difficilmente controllabili e,
probabilmente, anche difficilmente compensabili.
L’altra declinazione del concetto di sostenibilità, di matrice ecologica, si concentra essenzialmente sulle
capacità di carico naturali critiche di ambienti locali e regioni urbane (Haley 2003). Pertanto, l’attenzione si
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ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
sposta dai possibili meccanismi per compensare le eventuali perdite dello stock di risorse complessivamente
disponibili, all’identificazione delle soglie di carico, dei limiti di utilizzabilità delle risorse stesse: le
trasformazioni ammissibili sono, in questo caso, quelle che non superano la capacità dei sistemi naturali di
assorbirne le conseguenze e che consentono una complessiva riduzione, non solo a scala locale, del
consumo e dell’alterazione delle risorse disponibili. Idea centrale, implicita in questa declinazione del
concetto di sostenibilità, è quella di affiancare agli obiettivi di minimizzazione del consumo e delle possibili
alterazioni delle risorse naturali anche obiettivi di ripristino della qualità delle risorse disponibili.
Un altro aspetto di rilievo è l’adozione del principio “precauzionale” ogniqualvolta non risultino chiaramente
identificabili le soglie di carico delle risorse coinvolte in una data trasformazione. In altre parole, la
declinazione del concetto di sostenibilità in chiave ecologista mira ad identificare, laddove possibile, le
conseguenze delle trasformazioni ed a valutare la capacità delle risorse di assorbire, senza subire danni, tali
trasformazioni. In caso di impossibilità di stabilire l’entità dei possibili danni e/o alterazioni, si suggerisce di
adottare il principio precauzionale e, quindi, di non dare corso alla trasformazione.
Uno dei principali punti di criticità della declinazione in chiave ecologista del concetto di sostenibilità è da
individuarsi nella difficoltà di stabilire le soglie di carico per le diverse risorse: va infatti considerato che i
sistemi naturali, al pari di quelli antropici, sono sistemi complessi. Ciò implica, da un lato, che la fitta rete di
relazioni tra gli elementi del sistema rende difficile la valutazione delle conseguenze che il danno o
l’alterazione di una singola risorsa possono determinare sulle altre componenti del sistema; dall’altro, che le
caratteristiche di dinamicità, proprie dei sistemi complessi, rendono ancora più difficile la valutazione di tali
conseguenze, trattandosi di sistemi in continua evoluzione, sotto la spinta di fattori sia endogeni che
esogeni.
Il concetto di Sviluppo sostenibile è stato oggetto, però, anche di significative critiche. Serge Latouche
(2006) e i movimenti facenti capo alla teoria della Decrescita, ad esempio, hanno messo in luce le
contraddizioni tra uno sviluppo economico basato sui continui incrementi di produzione di merci e la tutela
dell'ambiente naturale. In particolare, essi evidenziano come i comportamenti delle società occidentali, in
teoria improntati a modelli di sviluppo sostenibile, abbiano condotto al paradossale problema di dover
consumare più del necessario per non scalfire la crescita dell’economia di mercato, con evidenti implicazioni
ambientali: sovra sfruttamento delle risorse naturali, aumento dei rifiuti, mercificazione dei beni. Lo sviluppo
sostenibile, come sottolinea Latouche, costituisce «un ossimoro al livello del contenuto (…) perché lo
sviluppo non è né sostenibile né durevole».
Altri studiosi (Woo 2014) evidenziano invece come lo sviluppo sostenibile venga in molti casi inteso quale
sviluppo “neutrale”, volto a ridurre o azzerare nella migliore delle ipotesi gli impatti negativi delle attività
antropiche, in un contesto in cui però la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni risulta
già fortemente compromessa e condizionata alla nostra capacità di riparare consapevolmente un ambiente
alterato e degradato. Si enfatizza, di contro, la necessità di spostare l’accento dalla riduzione/azzeramento
degli impatti delle attività antropiche sulle risorse naturali al miglioramento/ricostituzione di tali risorse
attraverso approcci rigenerativi (Newmann et al. 2017).
2.3.
Sviluppo sostenibile e sistema urbano
Dopo aver esaminato le ragioni che hanno condotto in sede internazionale ad una maturazione del concetto
di sviluppo sostenibile, in questo paragrafo si esamineranno le principali ricadute che il dibattito, sulla
questione ambientale prima e sulla sostenibilità poi, ha avuto sulla disciplina urbanistica e sui processi di
governo delle trasformazioni urbane, con particolare riferimento al contesto italiano.
È evidente che tale dibattito non poteva non avere conseguenze proprio su una disciplina che ha come
scopo precipuo quello di delineare le traiettorie future per lo sviluppo dei sistemi insediativi e, soprattutto, di
definire “regole” d’uso del suolo, una delle principali risorse naturali con problemi di “rinnovabilità”. Le
innovazioni e le sperimentazioni che si sono registrate nell’ambito disciplinare e soprattutto nella
strumentazione urbanistica, sono riconducibili a due filoni principali:
 il primo, che ha caratterizzato soprattutto gli anni Ottanta, è stato improntato all’individuazione di metodi
e tecniche di pianificazione ambientale alle diverse scale e ha condotto all’introduzione di strumenti di
pianificazione a carattere settoriale (piani di bacino, piani dei parchi, piani paesistici, ecc.);
 il secondo, che si è avviato negli anni Ottanta ma ha avuto una decisa accelerazione nella seconda metà
degli anni Novanta, è stato improntato alla ricerca di una convergenza tra ecologia ed urbanistica e ha
condotto verso la definizione e sperimentazione di nuovi strumenti di piano in grado di integrare gli
obiettivi di sostenibilità, soprattutto ambientale.
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ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
Per quanto riguarda il primo filone, sembra utile anzitutto sottolineare che proprio a metà degli anni Ottanta,
precisamente nel 1986, contemporaneamente al consolidarsi in sede internazionale dei concetti di
sostenibilità e di sviluppo sostenibile, in Italia viene istituito il Ministero dell’Ambiente. È evidente che si
tratta di una svolta rilevante che segna un fondamentale passaggio per l’evoluzione della normativa in
materia ambientale e per la definizione di specifiche politiche ambientali nel nostro Paese. Va però
evidenziato che proprio tale istituzione sembra riflettere l’approccio maggiormente diffuso in quegli anni,
specie in Italia, e mirato ad affrontare gli aspetti ambientali privilegiando una logica settoriale e non un
approccio sistemico.
Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati, almeno in Italia, dal proliferare di normative e strumenti volti alla
tutela dell’ambiente naturale: dalla Legge Galasso del 1985 (L. 431) che introduceva l’obbligatorietà dei
Piani Paesistici, alla Legge 183 del 1989 che istituiva i Piani di Bacino, alla Legge 394 del 1991 relativa ai
Piani del Parco, solo per citare alcuni esempi rilevanti.
Si tratta di strumenti settoriali che affrontano il tema della tutela delle aree di maggiore rilevanza dal punto
di vista ambientale o di specifiche risorse (come nel caso della risorsa acqua e della risorsa suolo per quanto
riguarda i Piani di Bacino), le cui relazioni con gli strumenti “tradizionali” della pianificazione sono solo in
parte definite e risolte.
Il secondo filone, quello della pianificazione “ecologicamente” orientata ha assunto rilevanza nel corso degli
anni Novanta: in quegli anni, infatti, sulla base dell’evoluzione disciplinare e a fronte dei ritardi e della
frammentarietà del quadro normativo nazionale, alcune Regioni italiane hanno avviato una nuova fase
legislativa mirata a conferire maggiori “certezze”, oltre che una maggiore rispondenza ai mutati paradigmi
interpretativi, alla pianificazione territoriale e urbanistica. Si registra un deciso superamento dell’approccio
settoriale e prevalentemente improntato alla tutela ambientale, a favore di un approccio che individua nella
sostenibilità uno dei criteri informatori delle scelte di governo delle trasformazioni urbane. Tra i più
significativi elementi di innovazione introdotti dalla generazione di leggi urbanistiche regionali che prende
avvio alla metà degli anni Novanta si evidenzia la scelta di orientare l’insieme delle azioni di governo del
territorio al perseguimento di condizioni di sviluppo sostenibile, inteso quale sviluppo in grado di assicurare
uguali potenzialità di crescita del benessere dei cittadini, salvaguardando nel contempo il diritto delle
generazioni presenti e future a fruire delle risorse del territorio.
L’assunzione del principio di sostenibilità come principio informatore delle scelte di pianificazione determina
non solo una maggiore attenzione, già in sede legislativa, alla definizione e classificazione delle risorse,
naturali e antropiche, del territorio e l’introduzione di strumenti volti a garantire una valutazione della
sostenibilità delle scelte di piano, ma soprattutto una profonda revisione degli obiettivi e dei contenuti degli
strumenti di pianificazione, in particolare alla scala urbana. Come già evidenziato, infatti, si riconosce la
duplice valenza della dimensione urbana per il conseguimento di uno sviluppo sostenibile: quella di luogo
della massima insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, ma anche quella di punto di concentrazione di
risorse  tecnologiche, culturali e finanziarie  tali da poter supportare processi innovativi mirati a invertire le
tendenze in atto.
La centralità della dimensione urbana viene riconosciuta anche nell’Agenda 2030 che individua tra gli
Obiettivi di Sviluppo Sostenibile quello di “rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e
sostenibili”. Nell’obiettivo 11 la città viene riconosciuta come il luogo in cui adottare politiche volte all’
inclusione sociale, alla riduzione dei consumi delle risorse naturali, all’efficientamento energetico,
all’adattamento ai cambiamenti climatici e alla resistenza ai disastri.
La traduzione in chiave operativa dell’obiettivo 11 richiede la necessaria assunzione della sostenibilità quale
elemento fondante di tutte le strategie di sviluppo e trasformazione delle città: dall’attivazione di politiche
volte alla riduzione degli impatti delle azioni antropiche sulle componenti naturali (aria, acqua, suolo),
all’implementazione di processi di rigenerazione urbana volti a migliorare sia le condizioni di vita (sociali ed
economiche) che la qualità dell’ambiente naturale. Inoltre, l’obiettivo 11 rappresenta un’opportunità, prima
ancora che per un effettivo conseguimento degli obiettivi di sostenibilità, per la crescita di consapevolezza
da parte delle amministrazioni locali sui temi della sostenibilità e, soprattutto, per l’innesco di processi di
partecipazione delle collettività locali alle scelte relative al proprio ambiente di vita.
In sintesi, la diffusione e l’evoluzione del concetto di sviluppo sostenibile hanno avuto riflessi significativi
sulla disciplina e sulla pratica urbanistica degli ultimi decenni, determinando mutamenti rilevanti sia nelle
modalità di approccio ai fenomeni urbani che nei contenuti stessi degli strumenti di pianificazione,
soprattutto alla scala urbana.
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ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 2. Sistema urbano e sviluppo sostenibile
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3. SISTEMA URBANO E MOBILITÀ
Enrica Papa
Oggetto di questo capitolo è lo studio della mobilità di persone e merci nei sistemi urbani. La mobilità
costituisce una componente fondamentale della città, che si può definire come il luogo di maggiore
concentrazione degli spostamenti. La città è, infatti, caratterizzata dalla presenza di un elevato numero di
persone che svolgono varie attività durante la giornata in luoghi diversi, per raggiungere i quali è
necessario spostarsi. La mobilità nel sistema urbano, ovvero l’insieme degli spostamenti che le persone
compiono per svolgere le attività, è molto complessa per diversi fattori: la serie di modi di spostamento
(auto, metropolitana, bus, bicicletta, a piedi), la moltitudine delle origini e delle destinazioni, i diversi
motivi di spostamento. Per facilitare la comprensione della mobilità e delle relazioni tra il sistema urbano e
la mobilità, nel paragrafo 3.1 si definisce il sistema integrato trasporti-città, ovvero si analizzano gli
elementi del sistema urbano e del sistema di trasporto e le relazioni che esistono tra questi. Nel paragrafo
3.2 si fornisce un approfondimento sugli elementi del sottosistema dell’offerta di trasporto e la loro
integrazione nella città.
3.1.
Il sistema integrato trasporti-città
Per comprendere la complessa realtà urbana è necessario utilizzare un modello interpretativo ricorrendo
alla Teoria Generale dei Sistemi (vedi paragrafo 1.2), che consente di definirne le parti, le relazioni e le
leggi che la costituiscono. Se si considera la città come un sistema è possibile individuare una serie di
sottosistemi che la compongono. Il sottosistema che si riferisce alla mobilità, che definiamo sottosistema di
trasporto può essere interpretato come una parte del sistema urbano. Il sistema urbano è quindi
schematizzato come costituito da vari sottosistemi, tra cui il sottosistema di trasporto.
Il sistema di trasporto a sua volta può essere articolato in due elementi principali: il sottosistema della
domanda e il sottosistema dell’offerta1. Per sottosistema dell’offerta si intende l’insieme delle
infrastrutture, dei veicoli, delle tecnologie di controllo ma anche di regole per l’organizzazione dei servizi e
delle tariffe. Tutti elementi che, nel loro insieme, concorrono a fornire opportunità di trasporto per
soddisfare la domanda di spostamento di persone e merci espressa da un territorio. Per sottosistema della
domanda s’intende l’insieme degli utenti che utilizza un servizio di trasporto in tempo prefissato. I
viaggiatori e le merci che si spostano in una determinata area costituiscono la domanda del servizio di
trasporto offerto (Cascetta 1990). È importante rilevare come uno spostamento sia un’attività
complementare allo svolgimento di attività in luoghi diversi da quello in cui ci si trova: in altri termini la
domanda di trasporto è una domanda “derivata”, risultato dall’azione congiunta dell’assetto del territorio e
del sottosistema di offerta di trasporto.
Fig. 1 − Il sottosistema di trasporto come sottosistema del sistema urbano
1
Per un approfondimento confronta Cascetta (1998), capitolo 1 “I Sistemi di Trasporto”.
43
ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
Il sottosistema di trasporto, come già detto, può essere considerato come parte di un sovrasistema: il
sistema urbano, cui è legato da una serie di relazioni. Il sottosistema di trasporto è quindi definito come
sottosistema del sistema urbano «i cui elementi determinano la domanda di spostamenti tra punti del
territorio e l’offerta dei servizi di trasporto per il soddisfacimento di tale domanda» (Cascetta 1998). È
evidente che i diversi elementi del sistema urbano interagiscono tra loro e con il sottosistema di trasporto:
l’intensità d’uso, la distribuzione e la specializzazione delle attività sul territorio sono correlate in modo
rilevante alla accessibilità relativa tra le varie zone, accessibilità fornita dal sottosistema di trasporto.
Il sistema urbano e il sottosistema di trasporto possono in sintesi essere interpretati come un unico
sistema integrato (Fig. 1). Le frecce del diagramma a blocchi rappresentano le interazioni che esistono tra
le diverse parti del sistema urbano: se si modifica un elemento, gli elementi correlati a questo si
modificano a loro volta.
Fig. 2 − Il ciclo trasporti-territorio secondo Wegener e Fürst
In altre parole a ogni variazione dei sottosistemi antropico, fisico, funzionale e geomorfologico, ne
consegue una variazione del sottosistema di trasporto e viceversa.
In maniera più sintetica le relazioni che esistono tra il sottosistema di trasporto e il sistema urbano sono
evidenziate nello schema messo a punto da Wegener e Fürst, chiamato “ciclo trasporti-territorio”, in cui
sono descritti i fenomeni e le relazioni che legano il sistema della mobilità e le caratteristiche di uso del
suolo. Il ciclo trasporti-territorio rappresentato in Figura 2, evidenzia come ogni variazione del sottosistema
di trasporto (costruzione di nuove infrastrutture, riduzione o aumento dei tempi di percorrenza, chiusura di
un’asse viario, ecc.) comporta una variazione delle condizioni di accessibilità di una area territoriale.
L’accessibilità può essere definita come la misura della capacità di un luogo di essere raggiunto2. La
capacità e la struttura del sottosistema dell’offerta di trasporto sono elementi chiave per la misura
dell’accessibilità di un luogo.
Se varia l’accessibilità di un luogo, si modifica anche la propria attrattività, cui consegue un cambiamento
delle proprie caratteristiche fisiche e funzionali. Al variare della distribuzione delle attività sul territorio
consegue una variazione della domanda di trasporto. Si dimostra in questo modo la dipendenza ciclica tra
il sottosistema di trasporto e il sistema territoriale.
Una volta evidenziata la stretta interdipendenza tra il sottosistema di trasporto e il sistema urbano, nei
paragrafi seguenti si approfondiscono i legami che esistono tra il sottosistema di trasporto ed i quattro
sottosistemi, così come definiti nel paragrafo 1.2, in cui è stato articolato il sistema urbano (sottosistema
antropico, sottosistema fisico, sottosistema funzionale, sottosistema geomorfologico).
Sistema di trasporto e sottosistema fisico
Come definito nel capitolo 1, gli elementi del sottosistema fisico sono gli spazi adattati ed i canali localizzati
sul territorio.
È evidente la stretta interdipendenza tra le caratteristiche del sottosistema fisico e il sottosistema di
trasporto, dato che le infrastrutture di trasporto ovvero i canali costituiscono parte integrante del
sottosistema fisico.
2
Per un approfondimento sul concetto di accessibilità confronta paragrafo 7.5.
44
ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
D’altra parte a una variazione delle tipologie infrastrutturali dei canali discende una variazione della forma
urbana ovvero della distribuzione degli spazi adattati sul territorio. In particolare si può parlare di
un’interdipendenza tra la distribuzione degli spazi adattati sul territorio, ovvero della forma della città, e le
diverse tecnologie dei mezzi di trasporto. Questa relazione è ancora più evidente se si studia l’evoluzione
della forma urbana come conseguente alla diffusione di nuove tecnologie e modi di trasporto.
Fig. 3 − Le relazioni tra il sottosistema fisico ed il sottosistema dell’offerta di trasporto
L’evoluzione dei sistemi di trasporto nel corso della storia delle città è stata accompagnata da consistenti
cambiamenti della forma e della struttura urbana. Più radicali sono stati i cambiamenti nelle tecnologie di
trasporto, maggiormente è stata alterata la forma urbana. In particolare si possono rilevare tre grandi
passaggi nella storia evolutiva delle città, che sono strettamente riconducibili all’evoluzione delle tecnologie
legate al campo dei trasporti e alla costruzione di particolari infrastrutture di trasporto. Il primo modello
urbano è quello della walking city ovvero la città dei pedoni, caratterizzata da densità elevate (100-200
ab/ha), da mix funzionale3 e da una forma organica in cui tutte le destinazioni potevano essere raggiunte
a piedi. La morfologia della città dei pedoni, le caratteristiche fisiche dei canali, come la sezione ridotta, la
tortuosità, l’assenza di una gerarchia, sono tutte conseguenze della mobilità pedonale che si svolgeva.
Fig. 4 − La walking city
La “città dei pedoni”, caratterizzata da alte densità, mix funzionale e struttura organica
La walking city corrisponde ai centri storici delle attuali aree metropolitane che si sono sviluppate intorno
ai propri nuclei originari con caratteristiche fisiche e funzionali differenti.
Gli anni della rivoluzione industriale segnano un punto di passaggio cruciale nella storia delle città: la
costruzione di reti ferroviarie urbane condiziona lo sviluppo economico e l’assetto geografico degli
insediamenti (dell’Orto et alia 1997) La nuova offerta di mobilità su ferro ridisegna il territorio e sostiene in
maniera determinante il fenomeno dell’urbanesimo. Questo modello urbano industriale può essere
denominato transit city (Newmann e Kenworthy 1996).
Come schematizzato in Figura 5, la rete su ferro struttura il tessuto e l’espansione urbana. La costruzione
delle nuove linee infrastrutturali è affiancata, infatti, dalla nascita di piccoli centri urbani in corrispondenza
3
Per mix funzionale si intende la compresenza di attività, ovvero di funzioni diverse per unità territoriali. Il principio del mix
funzionale si contrappone alla separazione degli usi del suolo prevalenti, come prevista dalla zonizzazione, è consiste nella
compresenza di diverse attività (residenziale, commerciale, ecc.) nella stessa unità territoriale.
45
ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
delle nuove stazioni e dal rafforzamento dell’area centrale caratterizzata da media densità e compresenza
di diverse attività.
Dal secondo dopoguerra in poi la struttura delle grandi metropoli urbane cambia drasticamente a causa di
numerosi fattori. L’aumento di popolazione, la diffusione dell’uso della vettura privata, la crescita della
domanda di spostamenti, nuovi modelli culturali ed economici provocano la decentralizzazione e la nascita
dell’automobile city (Newmann e Kenworthy 1996), caratterizzata da diffusione urbana4, basse densità
residenziali e separazione spaziale delle attività sul territorio (Figura 6).
Fig. 5 − La transit city (Fonte: Newmann e Kenworthy 1996)
La “città del ferro”, caratterizzata da medie densità, mix funzionale e forte centralizzazione
Fig. 6 − L’automobile city (Newmann e Kenworthy 1996)
La “città dell’auto”, caratterizzata da basse densità, specializzazione funzionale e decentralizzazione, ovvero dalla
nascita dello sprawl urbano
Dallo studio dei tre modelli urbani si evidenzia come alla costruzione di nuove infrastrutture di trasporto, al
variare delle tecnologie di trasporto, ovvero al diminuire dei tempi di spostamento, corrisponde una
variazione della forma urbana.
Questo è ancora più evidente in Figura 7, in cui si definiscono i contorni evolutivi della forma urbana in
quattro epoche successive, ciascuna corrispondente al mezzo di trasporto prevalente utilizzato e alla
costruzione di nuove infrastrutture di trasporto: la città pedonale, la città del ferro, la città dell’auto e la
città delle autostrade. Nello schema sono infatti riconoscibili i contorni degli antichi nuclei storici pedonale
(1800-1890) attorno ai quali si è sviluppata la città del ferro (1890-1920).
La diffusione delle prime infrastrutture ferroviarie ha infatti contribuito alla ricucitura di piccoli centri e alla
espansione urbana lungo le linee ferrate. La città dell’auto (1920-1946) coincide la fase dell’esplosione
urbana e la crescita incontrollata degli insediamenti. I fenomeni di sprawl e la realizzazione di grandi
4
Per sprawl urbano o città diffusa, si intende una rapida e disordinata crescita di un’area metropolitana, caratterizzata da
basse densità di uso del suolo, separazione funzionale e uso dell’autovettura privata.
46
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CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
infrastrutture autostradali per la mobilità individuale meccanizzata hanno quindi dato luogo alla città
dell’autostrada (1945-oggi), caratterizzata anche dalla nascita di nuclei suburbani in corrispondenza delle
intersezioni autostradali.
Fig. 7 − L’evoluzione della forma urbana in funzione del mezzo di trasporto (Fonte: Rodrigue et alia 2006)
Sistema di trasporto e sottosistema funzionale
Il sottosistema funzionale ha come elementi le attività e gli spostamenti che si svolgono negli spazi
adattati e nei canali. Un altro termine utilizzato per specificare il sottosistema delle attività è l’uso del
suolo. L’uso del suolo può essere definito da due principali caratteristiche:
 il tipo di attività e di spostamenti;
 l’intensità d’uso ovvero la densità delle attività sul territorio e degli spostamenti sui canali.
Il sottosistema funzionale, attraverso la quantificazione di queste caratteristiche, fornisce una
rappresentazione del “come” sono utilizzati gli spazi adattati e i canali. In particolare l’uso dei canali,
ovvero la distribuzione e l’intensità degli spostamenti sui canali è una conseguenza diretta della
distribuzione delle attività sul territorio. Infatti, la diversa localizzazione delle attività sul territorio implica
una serie di relazioni con altre attività. D’altra parte l’esistenza di relazioni tra le attività comporta una
domanda di mobilità, che si traduce in spostamenti e flussi di traffico. Per esempio attività commerciali
implicano relazioni con fornitori e clienti: la relazione con i fornitori implica uno spostamento di merci, la
relazione con i clienti implica uno spostamento di persone. Al contrario, poiché ogni tipo di attività ha i
propri requisiti specifici di mobilità, l’accessibilità offerta dal sottosistema di trasporto è un fattore
importante per la localizzazione delle attività nello spazio. Le interazioni che esistono tra la localizzazione
delle attività e le possibilità di spostamento sono molto complesse e includono una serie di interdipendenze
tra il sotto sistema di trasporto, le interazioni spaziali e l’uso del suolo.
Gli impatti del sottosistema delle attività sul sottosistema di trasporto avvengono nel breve periodo e sono
oggetto di studio dell’ingegneria dei sistemi di trasporti5. Gli impatti del sottosistema di trasporto sul
sottosistema delle attività avvengono nel lungo periodo e sono riconducibili prevalentemente ad una
ridistribuzione delle attività sul territorio, ad una variazione dell’intensità d’uso ed ad una variazione della
specializzazione delle attività.
A un cambiamento dell’accessibilità variano, infatti, le caratteristiche funzionali di un’area urbana, in
termini di variazione di attrattività dell’area.
Una zona maggiormente accessibile è, infatti, più desiderabile per la localizzazione di residenze o uffici o
attività commerciali. Naturalmente in base al mezzo di trasporto con cui un’area è più o meno
raggiungibile, variano le tipologie di attività e di categorie economiche che sono maggiormente attratte.
5
Per un approfondimento si rimanda a Cascetta (1998).
47
ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
Fig. 8 − Relazioni tra il sottosistema funzionale ed il sottosistema di trasporto
Sistema di trasporto e sottosistema socio-antropico
Secondo la classificazione effettuata nel paragrafo 1.2, per sottosistema socio-antropico s’intende quella
componente del sistema urbano i cui elementi sono gli attori. Gli attori del sistema urbano si possono
caratterizzare secondo particolari attributi socio economici, ad esempio l’età, il tipo di occupazione, lo stato
di famiglia, il livello d’istruzione, il reddito.
Esiste una relazione tra le caratteristiche degli attori e gli spostamenti che questi compiono, ovvero esiste
una relazione tra le caratteristiche del sottosistema socio-antropico e le caratteristiche della domanda di
trasporto (motivo dello spostamento, mezzo utilizzato, tipo di tariffa pagata).
In sintesi il sottosistema socio-antropico può condizionare la domanda di trasporto e in generale i
comportamenti di mobilità.
A mo’ di esempio si riporta la relazione tra il reddito pro-capite ed il numero di spostamenti che si
compiono al giorno per motivo di spostamento (Fig. 10).
Gli spostamenti sistematici che si compiono per motivo lavoro hanno una piccola elasticità e sono
indipendenti dal reddito; al contrario il numero degli spostamenti che si compiono per motivi meno
essenziali (shopping, servizi) aumentano all’aumentare del reddito.
Fig. 9 − Le relazioni tra il sottosistema antropico e la domanda di mobilità
48
ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
Fig. 10 − Relazioni tra una delle caratteristiche del sottosistema antropico (reddito pro capite) e il numero di
spostamenti effettuato al giorno per motivo di spostamento (Fonte: Rodrigue et alia 2006)
Sistema di trasporto e sottosistema delle risorse naturali: la mobilità sostenibile
Per sottosistema geomorfologico si intende l’insieme delle risorse e delle componenti ambientali tra cui il
suolo e il sottosuolo, l’acqua, l’aria, etc. Le relazioni tra il sottosistema di trasporto e il sottosistema
geomorfologico o delle risorse naturali sono molto forti: il sottosistema di trasporto ha un elevato impatto
sul sottosistema ambientale in termini di inquinamento atmosferico, inquinamento acustico, consumo di
suolo, variazione delle caratteristiche del sottosuolo, del regime delle acque superficiali e sotterranee.
Gli impatti sono evidenti sia nella fase di realizzazione di una nuova infrastruttura (elemento di offerta di
trasporto) sia nella fase di utilizzo delle infrastrutture, ovvero nella distribuzione dei flussi di mobilità e del
tipo di mezzo di trasporto utilizzato.
Il notevole incremento di domanda di passeggeri e merci ha avuto notevoli conseguenze sul sottosistema
geomorfologico e delle risorse naturali, proprio in conseguenza della forte crescita del grado di
motorizzazione, che le discipline trasportistiche hanno prestato maggiore attenzione ai temi di tutela
dell’ambiente (OECD 1998).
È stato a questo fine introdotto il concetto di mobilità sostenibile. Secondo l’OECD, la mobilità di tipo
sostenibile è quella «che non mette in pericolo la salute della popolazione o degli ecosistemi e concilia la
soddisfazione del bisogno di accessibilità con l’uso di risorse rinnovabili in un tempo uguale o inferiore a
quello che esse impiegano per riformarsi, l’uso di risorse non rinnovabili in misura uguale o inferiore al
tasso di sviluppo di risorse alternative che siano rinnovabili».
In altri termini la mobilità sostenibile si può definire come «un sistema organizzativo dei trasporti che offre
i mezzi e le opportunità per soddisfare i bisogni economici, ambientali e sociali in modo efficiente ed equo,
minimizzando gli impatti negativi che possono essere evitati o ridotti e i relativi costi, e prendendo in
considerazione un ampio contesto spazio-temporale».
Al fine di misurare, governare e verificare l’efficacia delle strategie e delle azioni sul tema della mobilità è
quindi necessario tenere in conto gli impatti che il sistema di trasporto ha sul sottosistema delle risorse
naturali. I principali impatti del sistema di trasporto sull’ambiente si possono schematizzare come segue:
 cambio climatico: l’industria trasportistica e l’utilizzo di vettori motorizzati comporta la produzione e
l’emissione di numerosi inquinanti nell’atmosfera, tra cui piombo (Pb), monossidi di carbonio (CO),
anidride carbonica (CO2), metano (CH4), ossidi di nitro (NOx), biossido di nitro (N2O),
cloroflorurocarboni (CFCs), benzene e particelle volatili (BTX), metalli pesanti (zinco, cromo, cadmio) e
particolati. In particolare il settore stradale è responsabile del 72% rispetto ad altri settori del
trasporto dell’emissione totale di anidride carbonica, che è strettamente connessa alle problematiche
di cambio climatico (Agenzia Europea dell’Ambiente 2016);
 qualità dell’aria6: le emissioni inquinanti legate al settore trasportistico (in particolare il monossido di
carbonio e il biossido di nitro) hanno degli effetti notevoli sulla qualità dell’aria e di conseguenza sulla
salute umana nonché sulle concentrazioni di inquinanti nelle piogge acide;
6
Per un approfondimento sull’inquinamento atmosferico da traffico si rimanda a Cascetta (1998) appendice 2A.
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ENRICA PAPA





CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
rumore7: l’inquinamento acustico costituisce un altro effetto significativo sull’ambiente e sulla salute
umana, alti livelli di rumore possono avere inoltre effetti su qualità ambientali urbane, con
conseguenti variazioni dei valori dei suoli;
qualità dell’acqua: le infrastrutture e l’utilizzo delle stesse possono avere inoltre impatti negativi sulle
condizioni idrologiche superficiali e sotterranee di aree territoriali;
qualità del sottosuolo: un’altra componente ambientale che viene intaccata dal sistema di trasporto è
la struttura e le caratteristiche geomorfologiche di un’area in termini di erosione e contaminazione;
biodiversità: il sistema di trasporto può avere inoltre un impatto sulla vegetazione naturale e
sull’habitat sia in fase di cantiere di nuove infrastrutture con la conseguente necessità di materie
prime, sia in fase di manutenzione delle infrastrutture con il conseguente utilizzo di materie inquinanti
ha un impatto sulle specie naturali della flora e della fauna;
consumo di suolo: per consumo di suolo si intende l’utilizzo di aree per la costruzione di infrastrutture
per il trasporto.
Fig. 11 − Relazioni tra il sottosistema geomorfologico ed il sistema di trasporto
3.2.
Gli elementi dell’offerta di trasporto e la città
Dopo aver evidenziato le relazioni che esistono tra il sistema urbano e il sottosistema di trasporto, nel
presente paragrafo si analizzano i diversi elementi del sottosistema dell’offerta di trasporto considerandoli
come elementi integrati del sistema urbano.
In generale l’offerta di trasporto si può classificare in due macrocategorie:
 sistemi di trasporto per persone, che comprendono sistemi di trasporto pubblico e sistemi di trasporto
individuale;
 sistemi di trasporto per le merci: questi sistemi comprendono la mobilità delle merci dai centri di
produzione e distribuzione.
Sia i sistemi di trasporto per passeggeri che i sistemi di trasporto per merci si possono articolare in
funzione della scala territoriale: lunga percorrenza, media percorrenza e locale. In questa sede si propone
un approfondimento sulla scala locale ovvero sugli elementi dell’offerta di trasporto in ambito urbano:
trasporto collettivo, trasporto privato, sistema della sosta e grandi terminal di trasporto.
Trasporto collettivo e città
Lo scopo dei trasporti collettivi è quello di fornire mobilità pubblica e la propria efficienza si basa proprio
sul trasportare un grande numero di persone. Il trasporto collettivo è il sistema maggiormente diffuso nelle
aree urbane, che forniscono le condizioni essenziali per il suo funzionamento, ovvero alte densità e
domanda di mobilità a breve raggio.
7
Per un approfondimento sull’inquinamento acustico da traffico si rimanda a Cascetta (1998) appendice 2B.
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ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
Fig. 12 − Gli elementi del sistema di trasporto pubblico multimodale
I sistemi di trasporto collettivo si differenziano per le caratteristiche di servizio di trasporto offerto:
 capacità dei convogli: numero massimo di posti in un convoglio;
 capacità oraria del sistema: numero massimo di persone in un’ora per senso di marcia;
 velocità massima e commerciale;
 frequenza: numero di corse in un’ora.
È importante evidenziare che i diversi sistemi sono tra loro complementari e la loro progettazione deve
avvenire in maniera coordinata al fine di costruite un sistema di trasporto multimodale integrato. È inoltre
necessario evidenziare come la scelta di un sistema di trasporto collettivo sia strettamente legato alle
caratteristiche del sottosistema fisico, funzionale, socio antropico e ambientale del sistema urbano in cui è
inserito. D’altra parte la scelta di un particolare sistema di trasporto collettivo può avere impatti sulla
struttura funzionale e sulla forma fisica della città in cui è costruito. A tale proposito Cervero (1998),
propone una classificazione dei sistemi urbani secondo il grado di relazione che esiste tra il trasporto
pubblico e la struttura del sistema urbano:
 città orientate al trasporto pubblico, in questi sistemi urbani la costruzione di sistemi di trasporto
pubblico è strettamente coordinato con le scelte di trasformazione urbanistica. Le aree centrali di
queste città sono servite da servizio di trasporto su ferro e sono prevalentemente pedonali, mentre le
aree periferiche sono sviluppate lungo le linee di ferrovia metropolitana;
 città orientate al trasporto privato, in questi sistemi urbani il trasporto pubblico ha un ruolo marginale
e residuale e la maggior parte degli spostamenti avviene con il mezzo privato;
 città ibride, in questi sistemi urbani esiste una sorta di equilibrio tra lo sviluppo orientato al trasporto
pubblico e la dipendenza dall’auto. Nelle aree centrali è garantito un adeguato livello di servizi di
trasporto pubblico, mentre le aree periferiche sono orientate all’auto.
Le scelte di governo delle trasformazioni territoriali dovrebbero essere coordinate con la pianificazione dei
sistemi di trasporto pubblico, al fine di ridurre la dipendenza dell’auto e i conseguenti impatti negativi sul
sottosistema ambientale8.
Trasporto privato e città
Per trasporto privato s’intendono tutti i modi di trasporto in cui la mobilità è il risultato di una scelta
individuale. I mezzi di trasporto privato si distinguono in mezzi motorizzati (moto, autovetture, autocarri) e
non motorizzati (mobilità dolce: piedi e bicicletta).
Le aree urbane dedicate al trasporto privato sono le reti stradali costituite da assi viari che si differenziano
per caratteristiche fisiche (larghezza, presenza di marciapiedi, etc.) e per caratteristiche funzionali relative
al tipo di flusso di traffico che vi svolge (ad esempio flusso motorizzato o non motorizzato). In particolare
secondo caratteristiche fisiche e funzionali è possibile definire una gerarchia della rete stradale. I livelli
della rete viaria classificati in base a caratteristiche funzionali, ovvero alla tipologia prevalente di
spostamenti individuali che vi si compiono in:
 strade primarie, con funzioni di entrata e di uscita dalla città ed al servizio del traffico di scambio fra il
territorio urbano ed extraurbano e del traffico di transito rispetto all’area urbana;
8
Per un approfondimento, consulta il capitolo 23 “Transit Oriented Development”.
51
ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità

strade di scorrimento, la cui funzione è quella di garantire la fluidità degli spostamenti veicolari con
scambio anche all’interno della rete viaria cittadina, nonché di consentire un elevato livello di servizio
degli spostamenti a più lunga distanza interni all’ambito urbano;
 strade di quartiere, con funzioni di collegamento tra quartieri limitrofi, spostamenti a minore distanza
sempre interni alla città o, per le aree urbane di più grandi dimensioni, tra i punti estremi di un
medesimo quartiere, tra gli insediamenti principali urbani e di quartiere e i servizi e le attrezzature;
 strade locali, al servizio diretto degli insediamenti.
Una classificazione di tipo fisico, come individuata dal Codice della Strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285),
definisce le seguenti tipologie di assi viari:
 autostrada: strada extraurbana o urbana a carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico
invalicabile, ciascuna con almeno due corsie di marcia, priva di intersezioni a raso e di accessi privati,
dotata di recinzione e di sistemi di assistenza all’utente lungo l’intero tracciato, riservata alla
circolazione di talune categorie di veicoli a motore e contraddistinta da appositi segnali di inizio e fine.
Deve essere attrezzata con apposite aree di servizio ed aree di parcheggio, entrambe con accessi
dotati di corsie di decelerazione e di accelerazione;
 strada extraurbana principale: strada a carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico
invalicabile, ciascuna con almeno due corsie di marcia e banchina pavimentata a destra, priva di
intersezioni a raso, con accessi alle proprietà laterali coordinati, contraddistinta dagli appositi segnali
di inizio e fine, riservata alla circolazione di talune categorie di veicoli a motore; per eventuali altre
categorie di utenti devono essere previsti opportuni spazi. Deve essere attrezzata con apposite aree di
servizio, che comprendano spazi per la sosta, con accessi dotati di corsie di decelerazione e di
accelerazione;
 strada extraurbana secondaria: strada ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di
marcia e banchine;
 strada urbana di scorrimento: strada a carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico, ciascuna
con almeno due corsie di marcia, ed una eventuale corsia riservata ai mezzi pubblici, banchina
pavimentata a destra e marciapiedi, con le eventuali intersezioni a raso semaforizzate; per la sosta
sono previste apposite aree o fasce laterali esterne alla carreggiata, entrambe con immissioni ed
uscite concentrate;
 strada urbana di quartiere: strada ad unica carreggiata con almeno due corsie, banchine pavimentate
e marciapiedi; per la sosta sono previste aree attrezzate con apposita corsia di manovra, esterna alla
carreggiata;
 strada locale: strada urbana od extraurbana opportunamente sistemata ai fini di cui al comma 1 non
facente parte degli altri tipi di strade;
 itinerario ciclopedonale: strada locale, urbana, extraurbana o vicinale, destinata prevalentemente alla
percorrenza pedonale e ciclabile e caratterizzata da una sicurezza intrinseca a tutela dell’utenza
debole della strada.
L’organizzazione gerarchica della rete viaria, ovvero dei flussi di traffico prevalenti su ciascun ramo della
rete, è strettamente interrelato all’organizzazione delle attività sul territorio e sulle condizioni ambientali di
un’area (in termini di inquinamento da emissioni e acustico).
Per quanto concerne la mobilità privata non motorizzata, ovvero la mobilità dolce, questa comprende tutti
gli spostamenti che avvengo a piedi o in bicicletta.
Lo spazio urbano dedicata alle aree pedonali è in generale condiviso con lo spazio occupato dalle strade: i
marciapiedi occupano circa il 10 ÷ 20% dell’intero spazio dedicato agli assi stradali. Nelle aree centrali,
sono invece presenti ampi spazi urbani dedicati solo ai pedoni.
Si definiscono aree pedonali in generale le sedi viabili proprie dedicate esclusivamente ai pedoni, realizzate
in ambito urbano ed extraurbano e le sedi viarie e gli altri spazi liberi antistanti le zone edificate
complessivamente riorganizzate in funzione del prevalente uso pedonale, con particolare riferimento alla
ricreazione ed alla sosta.
Tuttavia si possono assimilare a zone pedonali anche le aree urbane in cui sono stati imposti dei limiti di
velocità come le “strade residenziali” dove i mezzi motorizzati devono circolare ad una velocità ridotta e le
“strade a velocità moderata”, dove i mezzi motorizzati, attraverso opportune modificazioni fisiche della
sede stradale, devono circolare ad una velocità non superiore ai 30 chilometri orari (zone 30).
Per mobilità dolce si intende anche la mobilità ciclistica che in molti contesti urbani ha un ruolo
determinate come mezzo di trasporto alternativo alla diffusione dell’automobile e che offre un equilibrio tra
accessibilità delle aree urbane e qualità ambientale. La rete ciclabile, se efficiente, sicura e ben strutturata
può diventare l’opportunità per una riorganizzazione generale della mobilità. Gli itinerari ciclabili, posti
all’interno del centro abitato o di collegamento con i centri abitati limitrofi, possono comprendere le
52
ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
seguenti tipologie riportate in ordine decrescente rispetto alla sicurezza che le stesse offrono per l’utenza
ciclistica (art. 4 del D.M. 30 novembre 1999, n. 557):
 piste ciclabili in sede propria;
 piste ciclabili su corsia riservata;
 percorsi promiscui pedonali e ciclabili;
 percorsi promiscui ciclabili e veicolari.
Sistema della sosta e città
Il sistema della sosta costituisce un elemento fondamentale del sistema di trasporto urbano perché
comprende tutti i luoghi di origine e destinazione degli spostamenti che avvengono con l’auto. Le aree
destinate alla sosta si possono classificare in base al tempo di fruizione, in base alla tipologia costruttiva o
in base alla tipologia di sosta. In particolare, rispetto a quest’ultimo criterio i parcheggi si possono
classificare in:
 parcheggi di scambio: aree per la sosta finalizzate a ridurre l’afflusso dei veicoli privati nel centro
urbano, anche a fini turistici, attraverso l’interscambio con sistemi di trasporto collettivo, urbano o
extraurbano. A questa categoria appartiene un tipo di parcheggio delle grandi città collocato ai
margini del centro urbano, in prossimità di nodi del trasporto collettivo i (terminal metropolitana,
ferrovia, terminal autobus, aeroporto, porto etc.), o ai margini del nucleo storico, a servizio di
quest’ultimo, per incentivare e permettere l’uso del mezzo pubblico all’interno dell’area urbana più
antica. In questo modo l’utenza che proviene dalle direttrici di traffico maggiori dovrebbe trovare il
parcheggio ai limiti della zona storica e quindi abbandonare l’auto per recarsi al posto di lavoro o per
sbrigare una serie di commissioni all’interno del nucleo urbano più antico dove, di norma, sono ancora
collocati i più importanti uffici pubblici e privati di una città;
 parcheggi di relazione: aree per la sosta che hanno l’obiettivo di favorire la fluidità del traffico
veicolare, soprattutto dei mezzi di trasporto pubblico, sulla principale viabilità cittadina, eliminando
dalla stessa la sosta veicolare, e ad agevolare la fruizione di aree pedonali urbane o di zone a traffico
limitato, ovvero di aree o zone alle stesse assimilabili, mediante la sosta dei veicoli privati per periodi
di tempo limitati. Sono i parcheggi per chi compie brevi soste sia all’interno dell’area urbana storica,
sia in presenza di attività di servizio quali quelle commerciali, culturali, terziarie;
 parcheggi stanziali: aree per la sosta pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel sottosuolo
delle stesse. A questa categoria appartengono i parcheggi che vengono utilizzati per soste molto
lunghe; tra questi si segnala quelli al servizio della residenza, al servizio di uffici, di poli di attrazione
commerciale, turistica e culturale (mercati, centri commerciali, fiere, teatri, biblioteche, cinema etc.);
 parcheggi misti: aree per la sosta da destinare in parte alla sosta di relazione e in parte alla sosta
stanziale;
 parcheggi integrati: aree per la sosta in cui, all’interno dello stesso manufatto, siano realizzati volumi
o aree per la sosta (di scambio, di relazione, stanziali o misti) e, contestualmente, volumi o aree da
destinare ad attrezzature pubbliche e/o di uso pubblico.
Nella definizione delle aree da destinare alla sosta si devono tenere in conto alcuni elementi legati non solo
ad assicurare gli spostamenti con l’auto, ma a costruire un ambiente urbano sostenibile e di qualità.
Terminal di trasporto e città
Per grandi hub o terminal s’intendono gli aeroporti, i porti, le stazioni principali di una città, i grandi
interporti e i depositi per lo smistamento delle merci. Un terminal può essere definito come una
infrastruttura dove merci o passeggeri sono assemblati o distribuiti. Entrambi non possono viaggiare
individualmente, ma per raggiungere o allontanarsi dai terminal sono prima raggruppati e veicolati con
mezzi di trasporto feeder. I terminal sono quindi punti di interscambio tra lo stesso modo di trasporto o tra
modi di trasporto differenti. Le principali caratteristiche legate all’importanza e alla performance dei
terminal di trasporto sono:
 localizzazione: il principale fattore del terminal di trasporto è quello di servire una larga
concentrazione di persone o attività industriali;
 accessibilità: l’accessibilità ad altri terminal (alla scala locale, regionale e globale) è un altro fattore
importante per il funzionamento del terminal;
 infrastrutture: la principale funzione del terminal è quella di assicurare l’interscambio di merci e servizi
ai passeggeri; in questo senso è importante che i terminal siano caratterizzati da appropriate
infrastrutture per svolgere tale funzione.
53
ENRICA PAPA
CAPITOLO 3. Sistema urbano e mobilità
Bibliografia
Beguinot C. (cur.) (1995), Urbanistica e mobilità, DIPIST - Università di Napoli “Federico II”, Napoli.
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Victoria Transport Policy Institute (2002), Automobile Dependency, Transport Demand Management
Encyclopedia.
Nota
Questo capitolo è stato aggiornato nel novembre 2019 da Gerardo Carpentieri.
54
4. SISTEMA URBANO E VULNERABILITÀ1
Adriana Galderisi ed Andrea Ceudech
Anche se la rilevanza di politiche preventive necessarie a garantire la sicurezza degli insediamenti rispetto
ad eventi calamitosi di matrice naturale o antropica e il ruolo che gli strumenti di governo delle
trasformazioni urbane possono rivestire sono ormai largamente riconosciuti, la problematica dei rischi
viene ancora troppo spesso affrontata in chiave prevalentemente settoriale e risulta ancora scarsamente
integrata nei processi ordinari di governo del territorio, se non in forma di verifiche a posteriori.
A partire dalla definizione del rischio e dalle sue possibili classificazioni, in questo capitolo vengono
individuate e descritte le componenti che concorrono a determinarlo, l’interdisciplinarietà necessaria per
un’adeguata conoscenza dei rischi e la centralità delle analisi di vulnerabilità per la messa in campo di
politiche di prevenzione e mitigazione, specie negli insediamenti esistenti. Particolare attenzione è dedicata
al concetto di vulnerabilità, e specificamente alla vulnerabilità sistemica, considerata quale caratteristica
fondamentale per la mitigazione dei rischi naturali e antropici.
4.1.
Rischi naturali e rischi antropici
Numerosissimi sono nella storia gli eventi naturali come terremoti, frane, eruzioni vulcaniche che, per la
rilevanza dei danni provocati, si trasformano in catastrofi. In Italia, l’intero territorio nazionale è classificato
come sismico, sia pure con diversi livelli di pericolosità, e il 91% dei comuni è a rischio per frane e/o
alluvioni (Trigila et al. 2018). Come evidenziato dal Rapporto sulla Promozione della sicurezza dai Rischi
naturali del Patrimonio abitativo, le caratteristiche del nostro Paese lo rendono particolarmente sensibile a
fenomeni sismici, franosi e alluvionali e negli ultimi 70 anni si sono registrati danni economici pari a circa
290 miliardi di euro (Presidenza del Consiglio dei Ministri - Struttura di Missione Casa Italia, 2017).
Il rischio, però, può essere definito tale solo quando un agente o un fattore di pericolo investe un territorio
che non è in grado di assorbirne l’impatto: esso si genera, dunque, solo quando un evento, di origine
naturale o antropica, produce un danno su una popolazione o su una qualsivoglia risorsa del territorio. Gli
eventi (eruzioni, terremoti, esondazioni, ecc.), soprattutto quelli di matrice naturale, non costituiscono in
sé “rischi”: è l’uomo che, ignorando le dinamiche naturali del territorio, trasforma gli eventi naturali in
rischi.
Nella letteratura scientifica il concetto di rischio è riconducibile, infatti, al danno atteso, ovvero al danno (in
termini di perdita di vite umane, di risorse ambientali, economiche, ecc.) che deriva ad una popolazione o
ad un ambito territoriale sottoposto all’azione di un agente di pericolo. L’entità del danno dipende, quindi,
sia dalle caratteristiche proprie dell’agente di pericolo, dalla sua localizzazione spaziale, dall’intensità e
dalla durata della sua azione, sia dalle caratteristiche degli elementi investiti. Operativamente, il rischio
viene quindi diffusamente interpretato come risultante della sollecitazione che interessa un dato ambito
territoriale (pericolosità), della quantità e del tipo degli elementi potenzialmente investiti (esposizione) e
della propensione al danno di tali elementi (vulnerabilità) (Fig. 1).
Fig. 1 − Le componenti del rischio
1
Questo capitolo è stato redatto da Adriana Galderisi per i §§ 4.1 e 4.3 e da Andrea Ceudech per il § 4.2.
55
ARIANA GALDERISI - ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 4. Sistema urbano e vulnerabilità
Tale interpretazione consente una netta distinzione tra le caratteristiche dell’evento e le caratteristiche dei
sistemi territoriali potenzialmente interessati da questo. In virtù di tale definizione è anche possibile
affermare che, a parità di evento, sistemi territoriali diversi potranno subire danni diversi, in ragione della
quantità e delle caratteristiche degli elementi territoriali esposti.
Ciò evidenzia non solo la rilevanza dell’analisi territoriale ai fini della misura del rischio, ovvero del danno
atteso, ma anche la centralità dell’azione urbanistica ai fini della riduzione del rischio stesso o, più
precisamente, delle caratteristiche di esposizione e vulnerabilità dei sistemi territoriali potenzialmente
investiti dall’agente di pericolo.
Prima di procedere ad una più puntuale definizione dei tre elementi che concorrono alla generazione del
rischio, sembra opportuno soffermarsi sulle differenti tipologie di rischio che possono interessare il
territorio.
È possibile effettuare differenti classificazioni dei rischi, in funzione dei differenti approcci disciplinari: il
nostro obiettivo, in questa sede, è quello di evidenziare solo alcuni degli elementi rilevanti, dal punto di
vista urbanistico.
Classificazione dei rischi
Il primo elemento da tenere in considerazione è il tipo di agente di pericolo o, meglio, la natura della
sorgente di pericolo: in riferimento alla sorgente è possibile, infatti, distinguere i rischi in “naturali” e
“antropici” (Galderisi 2004). I “rischi naturali” sono riconducibili all’insieme degli eventi in cui l’agente di
pericolo è determinato da dinamiche naturali quali fenomeni geologici, idrogeologici o meteorologici.
Rientrano dunque in questa prima classe eventi quali terremoti, eruzioni vulcaniche, frane, uragani, ecc.
Con l’espressione “rischi antropici” si fa invece riferimento all’insieme degli eventi in cui l’agente di pericolo
è riconducibile ad attività dell’uomo: a questa categoria sono riconducibili, ad esempio, i grandi incidenti
industriali ma, anche, i fenomeni di inquinamento (Fig. 2).
Pur facendo riferimento a tale suddivisione, va sottolineato che in molti casi le attività dell’uomo non
risultano del tutto estranee al determinarsi di rischi naturali: alcuni tra i fenomeni idrogeologici più diffusi,
quali frane o alluvioni, vengono spesso definiti, ad esempio, come rischi “indotti” dall’uomo.
La classificazione dei rischi in naturali e antropici consente però di mettere in luce la sostanziale differenza
tra tipologie di rischio per le quali è ipotizzabile un intervento diretto sull’agente di pericolo e quelle per le
quali tale possibilità è molto limitata: in particolare, in presenza di rischi antropici è in genere possibile
agire direttamente sulla sorgente di pericolo, mettendo in campo azioni in grado di prevenire il verificarsi
di un evento; nel caso di rischi naturali è possibile soltanto, nella maggior parte dei casi, mettere in campo
azioni volte a ridurre il danno provocato dall’evento, ovvero le sue conseguenze, agendo sulle
caratteristiche del territorio investito.
Durata dell’impatto
Un altro elemento significativo ai fini della classificazione dei rischi è, indipendentemente dalle
caratteristiche dell’agente di pericolo, la “durata” dell’impatto. Caratteristica comune di gran parte dei
rischi, siano essi naturali o antropici, è l’istantaneità dell’evento e, conseguentemente, dell’impatto. Tale
caratteristica contraddistingue, infatti, sia alcuni rischi naturali, quali i terremoti, sia alcuni eventi di
matrice antropica, quali, ad esempio, alcuni incidenti industriali.
Connotazione del tutto differente hanno, invece, alcuni “rischi antropici” quali, ad esempio, i fenomeni di
inquinamento: pur essendo ormai riconosciuti come rischi ed essendo ormai provata la loro incidenza in
termini di danno alla salute per la popolazione, gli effetti dell’inquinamento sono generalmente lenti,
graduali nel tempo e, in molti casi, il danno da essi provocato aumenta con l’aumentare del tempo di
esposizione.
Anche in riferimento a tale classificazione è bene chiarire che non sempre un tipo di rischio è nettamente
riconducibile ad una delle due classi: vi sono fenomeni  come la contaminazione da sostanze tossiche 
che, in relazione alle caratteristiche proprie dell’evento (tipologia e quantità della sostanza rilasciata), può
generare impatti immediati, talvolta anche letali, o effetti a lungo termine sulla salute.
Tuttavia, una distinzione dei rischi in relazione all’istantaneità o gradualità del fenomeno e, soprattutto, dei
suoi effetti, appare rilevante: tale caratteristica incide infatti in misura sostanziale sia sulle azioni atte a
prevenire e/o mitigare gli impatti del fenomeno sia su quelle finalizzate ad ottimizzare la risposta degli
ambiti territoriali o delle popolazioni investite dall’evento.
56
ARIANA GALDERISI - ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 4. Sistema urbano e vulnerabilità
Fig. 2 - Classificazione dei rischi
Estensione territoriale dell’impatto
Ancora, ai fini di una classificazione dei rischi significativa dal punto di vista urbanistico, va considerata
l’estensione territoriale dell’impatto o, più specificamente, l’areale d’impatto dell’evento. È evidente, infatti,
che mentre alcune delle tipologie di rischio finora considerate possono interessare vasti ambiti territoriali,
altre generano impatti spazialmente concentrati. I terremoti, ad esempio, interessano generalmente areali
molto vasti, anche se con differenti intensità del fenomeno, mentre le frane presentano areali di impatto
generalmente di limitata estensione.
Va però chiarito che, pur riconoscendo l’utilità di individuare e classificare le diverse tipologie di rischio in
ragione di criteri utili alla messa a punto di strategie urbanistiche volte alla prevenzione e alla mitigazione
dei rischi, l’efficacia di un’azione preventiva richiede anzitutto il riconoscimento della caratterizzazione
“multipla” del rischio: gran parte degli insediamenti sono infatti potenzialmente interessati da differenti
tipologie di rischio che, in molti casi, possono interagire e sovrapporsi generando complesse catene di
eventi, con effetti sinergici difficilmente prevedibili.
A questa dimensione multipla del rischio va posta particolare attenzione, soprattutto nelle grandi aree
urbane e metropolitane, territori ad elevata stratificazione di attività, in cui ai fattori di pericolosità di
origine naturale si sovrappongono fattori di pericolosità determinati da attività antropiche, esse stesse
agenti di pericolo o “amplificatori” di eventi di origine naturale. Ignorare la dimensione multipla del rischio
significa non tener conto degli effetti amplificativi o a catena che possono innescarsi né, in positivo, delle
sinergie che è possibile attivare tra azioni orientate alla prevenzione/mitigazione degli impatti determinati
da diverse tipologie di rischio sui sistemi urbani o territoriali.
Anche se queste affermazioni appaiono attualmente un patrimonio acquisito e condiviso sul piano teorico,
si registra ancora una diffusa tendenza ad affrontare la questione del rischio utilizzando approcci settoriali.
Un attento esame delle possibili concatenazioni di eventi, danni e guasti sembra, di contro, di gran lunga
più rispondente anche all’avvenuta revisione dei paradigmi interpretativi dei fenomeni urbani: la diffusione
di un approccio olistico-sistemico ha reso palese, infatti, la ridotta efficacia di indagini volte a considerare
separatamente singoli aspetti o componenti di un sistema urbano o territoriale, trascurando o tralasciando
la fitta rete di interrelazioni che caratterizzano ciascun sistema. Sono tuttavia molto recenti, e non solo in
Italia, gli studi volti ad esplorare le possibili catene di eventi, danni e guasti che, a partire da un singolo
evento, possono generarsi, indagando sulle relazioni tra diversi agenti di pericolo e tra questi e le diverse
componenti del sistema territoriale investito.
Concetto di rischio
Dopo la individuazione di alcuni criteri rilevanti per la definizione, in chiave urbanistica, di strategie di
prevenzione, sembra opportuno tornare sul concetto di rischio per esaminare più in dettaglio i fattori che
concorrono alla sua generazione.
Il rischio può essere interpretato quale risultante dell’azione combinata di tre fattori: pericolosità,
esposizione e vulnerabilità. In tale concetto si combinano, dunque, le caratteristiche dell’evento, naturale o
antropico, le caratteristiche degli elementi territoriali che possono essere impattati e le conseguenze che
tale impatto può determinare o, in altre parole, i danni che si possono determinare.
Il primo fattore, quello della pericolosità, viene generalmente definito in termini di probabilità che, in un
dato luogo, si verifichi un certo evento in un dato intervallo di tempo. Più in generale, è possibile
affermare che il concetto di pericolosità racchiude tutto ciò che caratterizza un evento calamitoso: la
probabilità che si verifichi, la severità o intensità con cui l’evento potrà manifestarsi e che può essere
espressa in vari modi in ragione della tipologia del fenomeno cui si fa riferimento, la frequenza o tempo di
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ARIANA GALDERISI - ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 4. Sistema urbano e vulnerabilità
ritorno con cui l’evento può manifestarsi ma, anche, la probabile localizzazione e il possibile sviluppo
spaziale dell’evento stesso (areale di impatto). La caratterizzazione di tale fattore è tuttavia generalmente
improntata ad un’elevata “incertezza”, in quanto piuttosto incerta a tutt’oggi è la definizione del quando e
con quale intensità un dato fenomeno può manifestarsi.
Una specificazione del concetto e, soprattutto, una più chiara individuazione degli elementi e delle
procedure per la misura della pericolosità vanno definiti in ragione della tipologia del fenomeno in esame e
richiedono competenze specialistiche.
Va sottolineato che, nonostante i significativi avanzamenti tecnici che riguardano le analisi di pericolosità
perdura una significativa difficoltà di “comunicazione” tra i differenti ambiti specialistici: tale difficoltà
ostacola sia la comunicazione tra gli stessi analisti esperti dei diversi fenomeni calamitosi (vulcanologi,
studiosi di fenomeni idrogeologici o sismici, ecc.) ma anche tra questi e gli esperti in grado di valutare la
eventuale capacità di risposta di singoli manufatti o del territorio nel suo complesso ai diversi fenomeni.
Ciò determina non soltanto difficoltà o incompletezze nella misura del rischio e soprattutto dei diversi rischi
che possono investire un dato territorio ma anche, conseguentemente, nella messa a punto di efficaci
strategie di prevenzione e/o mitigazione di tali rischi.
Tali difficoltà hanno condotto, in molti casi, ad una marginalizzazione delle analisi di pericolosità o di
rischio in fase di redazione degli strumenti di pianificazione ma hanno anche rappresentato un freno alla
costruzione di efficaci meccanismi di cooperazione tra enti preposti, seppure con ruoli e competenze
diverse, a garantire la salvaguardia del territorio rispetto a tali fenomeni.
La presenza di fattori di pericolosità è però, come accennato in precedenza, condizione necessaria ma non
sufficiente perché un dato territorio o una data popolazione possano essere definiti a rischio:
vi possono essere aree interessate, ad esempio, da intensi fenomeni geodinamici che non comportano
però nessun problema all’uomo e alle attività umane: il pericolo è elevato ma il rischio è nullo o quasi. (…)
Ne consegue che il fenomeno fisico espresso attraverso la pericolosità, perché sia dannoso, deve essere
confrontato con tutto ciò che è presente sul territorio in termini di presenze umane, attività, infrastrutture,
ecc. (Gisotti e Benedini 2000).
La misura del rischio deve quindi tener conto, oltre che della pericolosità, della quantità e delle
caratteristiche degli elementi esposti. Il concetto di esposizione è generalmente riferito alla localizzazione,
alla consistenza e al valore dei beni (naturali o antropici) e delle attività presenti sul territorio che possono
essere influenzate, direttamente o indirettamente, dall’evento catastrofico. Inoltre, pur trattandosi di un
fattore essenziale nella misura del danno atteso, esso non tiene conto della differente risposta che ciascun
elemento potrà avere, in ragione delle sue caratteristiche, qualora interessato da un fattore di pericolosità.
Va però sottolineato che, in riferimento alla definizione fornita, il concetto di esposizione implica sia una
stima quantitativa degli elementi potenzialmente investiti dall’agente di pericolo, che una stima qualitativa:
esso, infatti, fa riferimento sia alla consistenza che al valore dei beni e delle attività presenti (numero di
persone o di manufatti potenzialmente coinvolti da un evento calamitoso, pregio o ruolo dei manufatti
esposti, risorse naturali potenzialmente investite e loro pregio, ecc.). In tal senso, alcuni studi hanno
distinto un’esposizione fisica, relativa alla quantità di elementi esposti, e un’esposizione di sistema, relativa
alla rilevanza, o al ruolo, dei diversi elementi all’interno del sistema urbano di riferimento.
Il concetto di vulnerabilità, forse il più complesso nell’analisi di rischio, indica la propensione degli elementi
esposti a subire alterazioni o danni al verificarsi di un evento: la vulnerabilità rappresenta, dunque, una
misura della propensione al danneggiamento dell’esposto. Tale concetto è stato a lungo utilizzato come
sinonimo di danno, tralasciando la sottile, ma sostanziale, differenza tra la predisposizione o propensione a
subire danno e il danno stesso, anche se risulta oggi largamente condivisa in ambito scientifico l’idea che
la vulnerabilità rappresenti una caratteristica propria degli elementi o dei sistemi territoriali esposti ad un
dato evento calamitoso da valutare, analogamente all’esposizione, in funzione della tipologia dell’evento
ma non della sua intensità.
A partire dagli anni Settanta il concetto di vulnerabilità si è significativamente ampliato: il termine,
introdotto nel campo degli studi sismici e inizialmente utilizzato per indicare la capacità dei singoli
manufatti edilizi a resistere all’impatto di un sisma, si è progressivamente esteso, anche grazie agli apporti
di ambiti disciplinari come la sociologia, l’economia e l’urbanistica, alla più generale capacità di risposta dei
sistemi  sociali, territoriali, ecc.  ad un evento calamitoso.
Riconoscendo che il comportamento di un sistema non equivale alla sommatoria dei comportamenti dei
singoli elementi che lo costituiscono, la vulnerabilità viene oggi sempre più diffusamente intesa come
misura dell’incapacità di assorbire l’impatto dell’evento sia di singoli elementi che del sistema territoriale
nel suo complesso. All’interno di quest’ampia definizione della vulnerabilità come propensione al danno,
58
ARIANA GALDERISI - ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 4. Sistema urbano e vulnerabilità
come “fragilità” di un sistema di fronte ad un evento, il termine viene generalmente specificato in ragione
dell’agente di pericolosità considerato e dell’oggetto o sistema cui il termine stesso viene riferito.
4.2.
La vulnerabilità dei sistemi urbani
Il termine “vulnerabilità”, così come oggi generalmente inteso in ambito scientifico, costituisce uno degli
esiti dell’applicazione dell’approccio sistemico allo studio delle calamità naturali.
La definizione del concetto di vulnerabilità come predisposizione di beni, persone, manufatti, attività, ecc.,
ad essere colpiti da un fattore di perurbazione, offrendo scarsa resistenza, emerse da alcuni studi
geografici che, analizzando gli eventi catastrofici a grande scala, facevano coincidere la vulnerabilità di un
sistema geografico con il sistema di variabili capace di determinare esiti diversi tra analoghe catastrofi
verificatesi in contesti socialmente, economicamente e tecnologicamente differenziati, in ambiti centrali e
marginali. La stessa impostazione concettuale che identifica la vulnerabilità con la propensione a subire
danno al verificarsi di un evento è stata ripresa nell’ambito dell’ingegneria sismica che è riuscita a darne
una definizione quantitativa. In altre parole, in tale settore si è definita l’incidenza di vari elementi di un
edificio sulla risposta complessiva del manufatto ad un evento sismico, allargando successivamente il
campo di attenzione anche alle infrastrutture a rete e, quindi, agli agglomerati edilizi.
Molte sono state le accezioni del termine “vulnerabilità” che a partire dagli anni Ottanta i ricercatori hanno
messo a punto nell’analisi degli effetti indotti da eventi calamitosi sui sistemi urbani e territoriali: gli studi,
sviluppati soprattutto nel campo della sismica, hanno teso in una fase iniziale a trasferire in campo
urbanistico metodi e procedure messe a punto per l’analisi della vulnerabilità dei singoli manufatti edilizi.
Solo alcune ricerche hanno posto l’accento sul nesso tra modalità di uso del territorio e propensione al
danno dei sistemi analizzati, contribuendo a far emergere la necessità di un approccio integrato al governo
delle trasformazioni urbane e territoriali orientato al conseguimento di obiettivi di mitigazione dei rischi. In
tali esperienze, viene posta l’attenzione su aspetti della vulnerabilità dei sistemi urbani principalmente
connessi alla perdita di organizzazione di tali sistemi.
L’adozione del concetto di vulnerabilità in riferimento ai sistemi sociali o territoriali fa registrare
l’introduzione di termini derivati che approfondiscono il concetto stesso (Ceudech 2004). La peculiarità dei
sistemi analizzati comporta, infatti, un’articolata derivazione di concetti secondari tesi a rendere
congruente l’accezione adoperata del termine “vulnerabilità” con le caratteristiche di complessità dei
sistemi sociali e territoriali.
La definizione di vulnerabilità oggi maggiormente utilizzata è quella fornita dall’Ufficio delle Nazioni Unite
per la riduzione del rischio di disastri, che individua la vulnerabilità come l’insieme delle condizioni
determinate da fattori o processi fisici, sociali, economici e ambientali che aumentano la suscettibilità di un
individuo, una comunità, beni o sistemi a subire danni a seguito degli impatti indotti dai diversi fattori di
pericolosità (UN, 2016). Tale definizione riconosce la multidimensionalità del concetto di vulnerabilità,
evidenziando i molteplici fattori (fisici, sociali, economici, ambientali) che concorrono a determinare la
vulnerabilità. Va inoltre sottolineato che, data la sua dipendenza da diverse variabili che si modificano nel
tempo e nello spazio, la vulnerabilità varia significativamente in un dato territorio e nel corso del tempo. In
termini del tutto generali e in riferimento ad un approccio sistemico allo studio della città e del territorio, è
possibile affermare che la vulnerabilità dei sistemi urbani e territoriali può essere interpretata come
funzione di una vulnerabilità fisica, riconducibile al concetto di resistenza e riferibile alle caratteristiche
fisiche e/o tecnologiche dei manufatti che li rendono più o meno propensi a danneggiarsi a seguito della
sollecitazione di un evento calamitoso, di una vulnerabilità funzionale e di una vulnerabilità organizzativa
riferibili, la prima, a fragilità del sistema derivanti dalle relazioni che si instaurano tra le sue diverse
componenti (spazi, attività, attori, ecc.), la seconda a fragilità derivanti dal sistema di norme e
dall’organizzazione delle strutture operative che rendono un territorio capace di prevenire, fronteggiare e
riprendersi dalla crisi post-evento.
Ulteriori e più recenti definizioni del concetto di vulnerabilità sistemica la definiscono come l’opposto della
capacità di un sistema (sociale, territoriale, ecc.) di assorbire perturbazioni, ovvero come l’opposto della
resilienza di tali sistemi.
Resilienza
Per comprendere meglio tale affermazione, è opportuno sottolineare che il concetto di resilienza,
introdotto nei primi anni Settanta nel campo degli studi ecologici, definisce la capacità dei sistemi naturali
di assorbire perturbazioni, conservando le proprie funzioni e la propria struttura. Essa viene espressa come
funzione del “carico” che un sistema naturale può assorbire prima che il sistema stesso cambi la sua
struttura, mutando variabili e processi che ne controllano il comportamento. Un sistema resiliente è,
59
ARIANA GALDERISI - ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 4. Sistema urbano e vulnerabilità
dunque, un sistema in grado di assorbire l’azione perturbatrice, ripristinando il precedente stato di
equilibrio.
Il concetto di resilienza è stato successivamente mutuato dalle scienze sociali che hanno largamente
contribuito ad arricchirne l’interpretazione: in particolare, in riferimento ai sistemi sociali, è stata
largamente evidenziata la riduttività di un’interpretazione della resilienza come resistenza. Alla resistenza,
concetto che richiama una “passività” dell’oggetto, la resilienza affianca una dimensione attiva e,
soprattutto, dinamica: la capacità di fronteggiare e ricostruire ma, anche, la capacità di utilizzare
l’esperienza e la memoria delle difficoltà connesse ad eventi passati per costruire il futuro. Nell’indagare il
concetto di resilienza in riferimento ai sistemi sociali viene considerata, inoltre, la capacità dell’uomo di
anticipare e pianificare il futuro che può accrescere, evidentemente, la capacità del sistema di resistere o
di riprendersi dai cambiamenti.
La definizione oggi maggiormente utilizzata è quella fornita dall’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione
del rischio di disastri, che individua la resilienza come la capacità di un sistema, di una comunità o di una
società esposta a pericoli di resistere, assorbire, adattarsi e riprendersi dagli impatti di un evento
calamitoso in modo tempestivo ed efficiente, anche attraverso la conservazione e il ripristino delle sue
strutture e funzioni di base essenziali (UN, 2016)
4.3.
Prevenzione dei rischi e governo delle trasformazioni urbane:
dalla settorialità all’integrazione
Al ripetersi di eventi di eccezionale gravità, alla diffusione del paradigma della sostenibilità e alla sempre
più diffusa collocazione del tema della mitigazione dei rischi naturali nella griglia teorico-concettuale della
sostenibilità è da attribuirsi il sostanziale cambio di rotta, verificatosi nel corso degli anni Novanta sia in
ambito internazionale che italiano, da una cultura dell’emergenza, essenzialmente fondata su interventi
post-evento, ad un approccio preventivo alla problematica del rischio.
Numerosi documenti internazionali (Rapporto Brundtland 1987, Dichiarazione di Johannesburg 2002,
Rapporto Rio +20, etc.) hanno individuato nella prevenzione dei rischi, in particolare di quelli naturali, uno
dei temi centrali per il perseguimento di condizioni di sostenibilità degli insediamenti. In particolare, il
Rapporto RIO +20 del 2012, ha evidenziato con chiarezza la necessità di strategie coordinate, capaci di
integrare la riduzione del rischio di catastrofi e l’adattamento ai cambiamenti climatici in tutti gli
investimenti pubblici e privati e, soprattutto, nei processi decisionali orientati a governare le trasformazioni
di lungo periodo. Con la diffusione del paradigma della sostenibilità, ha assunto dunque centralità il tema
della mitigazione degli impatti dei rischi naturali facendo emergere la necessità, nei processi di governo
delle trasformazioni urbane e territoriali, di una più spiccata attenzione ai rapporti tra dinamiche naturali e
attività dell’uomo sul territorio, tra insediamento antropico e caratteristiche “naturali” del sito.
L’affermarsi del paradigma della sostenibilità ha evidenziato, inoltre, la necessità che, in un’ottica di equità
intergenerazionale, una comunità si interroghi sugli effetti che le attuali scelte di uso del suolo potranno
avere sulle generazioni future.
È evidente, infatti, che gran parte dei danni odierni conseguenti ad eventi calamitosi di matrice naturale
sono il frutto di una mancata visione a lungo termine che ha, da sempre, contraddistinto l’agire dell’uomo
sulla terra: il principio precauzionale suggerisce, di contro, di astenersi da azioni che potrebbero avere
effetti seri, durevoli e potenzialmente irreversibili, anche laddove si tratti di effetti a lungo termine e ad
elevato grado di incertezza e di imprevedibilità. Si tratta, evidentemente, di un principio chiave per
affrontare efficacemente la questione della mitigazione dei rischi naturali: solo adottando tale principio
sarebbe stato possibile, e sarà possibile in futuro, evitare numerose catastrofi.
I passi più significativi a livello internazionale sul tema della gestione dei rischi sono: la Yokohama Strategy
pubblicata a valle della prima Conferenza mondiale sulla riduzione delle catastrofi naturali (UN, 1994); la
Hyogo Framework che ha definito il quadro di azione per ridurre il bilancio delle perdite dovute alle
catastrofi per il periodo 2005-2015 (UN, 2005); la Sendai Framework for Disaster Risk Reduction che
definisce il quadro degli obiettivi globali in materia di gestione dei rischi da raggiungere entro il 2030 (Un,
2015). Quest’ultimo documento invita a concentrare gli sforzi a livello globale e locale sul rafforzamento
delle conoscenze disponibili, dei sistemi di “governance” dei rischi, della preparazione agli eventi e delle
caratteristiche di resilienza dei sistemi urbani e viene esplicitamente richiamato anche nell’Agenda 2030
per lo Sviluppo Sostenibile del 2015, in particolare con l’Obiettivo 11 - rendere le città e gli insediamenti
umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili – che sottolinea la necessità di adottare politiche urbane che
promuovono un approccio olistico al tema del rischio per ridurre i danni dovuti agli eventi disastrosi.
60
ARIANA GALDERISI - ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 4. Sistema urbano e vulnerabilità
Anche in Italia, l’assunzione del principio di sostenibilità dello sviluppo come criterio informatore delle
scelte di pianificazione alle diverse scale (confermata da gran parte delle leggi urbanistiche regionali di
ultima generazione) ha condotto a porre la salvaguardia dell’integrità fisica del territorio come priorità
indiscussa dell’azione di governo alle diverse scale.
La gran parte dei piani di ultima generazione individua nella tutela e/o rigenerazione delle risorse naturali
e nella salvaguardia e/o ripristino dell’integrità fisica degli insediamenti gli obiettivi prioritari per orientare,
in chiave di sostenibilità, lo sviluppo urbano. Perseguire tali obiettivi richiede però, come già evidenziato in
precedenza, sia l’affinamento del bagaglio di metodi, tecniche e strumenti per la conoscenza dei rischi che
possono investire un dato insediamento, che la ridefinizione degli strumenti oggi disponibili per la
prevenzione e mitigazione dei rischi.
Fino ad oggi, infatti, prevenzione e mitigazione dei rischi sono state affidate prevalentemente a strumenti
settoriali e scarsamente integrati con i processi di governo delle trasformazioni urbane e territoriali.
L’approccio ai rischi è ancora prevalentemente incentrato su singoli fattori di pericolosità, con una
marginale considerazione delle possibili sinergie tra questi.
Risulta pertanto indispensabile acquisire un’adeguata conoscenza non solo dei diversi agenti di pericolo che
possono investire un territorio (probabilità di occorrenza, possibile intensità sinergie che possono innescarsi
tra più fattori di pericolo) ma, anche, delle caratteristiche del territorio potenzialmente investito (elementi
esposti e loro vulnerabilità) e della più generale preparazione all’evento di un dato sistema territoriale.
La conoscenza costituisce, dunque, il primo e imprescindibile passo per accrescere la sicurezza degli
insediamenti urbani ai rischi, consentendo di guidare con maggiore efficacia la messa a punto di strategie
di intervento integrate  in grado cioè di agire sulle molteplici componenti che determinano il rischio  e di
spezzare la “catena” che ancora oggi lega eventi calamitosi e danni (Galderisi 2004).
È evidente che le strategie per la prevenzione e la mitigazione dei rischi sono da definirsi in funzione delle
tipologie di rischi che possono verificarsi in un dato territorio: per alcuni eventi naturali o tecnologici
(frane, alluvioni o anche incidenti industriali) è possibile mettere in campo azioni specifiche volte alla
messa in sicurezza del territorio o dell’impianto produttivo, mirando in tal modo a prevenire l’evento
stesso. In altri casi (terremoti o eruzioni vulcaniche, ad esempio), pur non essendo possibile mettere in
campo misure volte a prevenire l’evento, possono essere tuttavia implementate misure preventive atte non
solo ad evitare o ridurre i danni conseguenti ma, anche, ad accrescere la capacità di fronteggiare
l’emergenza, ad esempio attraverso lo sviluppo di sistemi di “early warning”, l’adeguata preparazione della
collettività all’evento, la preventiva organizzazione delle attrezzature necessarie a fronteggiare
l’emergenza, ecc. La limitata attenzione alle analisi di rischio nei processi di governo delle trasformazioni
urbane e territoriali e il limitato contributo delle scelte di uso del suolo alla messa in campo di strategie di
prevenzione non sono tuttavia da imputare esclusivamente alla pianificazione. Le indagini fornite dai
tecnici sono spesso troppo focalizzate sulla pericolosità e non orientare a supportare scelte di piano.
Ancora poco diffuse sono le procedure e gli strumenti atti a “tradurre” le caratteristiche dei fenomeni
calamitosi in ventagli di usi compatibili o ad evidenziare come erronee decisioni localizzative possano
determinare un incremento dei livelli di pericolosità “naturali” o incidere sulle caratteristiche di esposizione
e vulnerabilità di un dato territorio concorrendo, in ogni caso, ad incrementarne i livelli di rischio.
Le analisi di rischio, quando effettuate, forniscono dettagliate analisi di pericolosità e, laddove si perviene
ad una effettiva misura del rischio, si tratta spesso di indici sintetici, espressi sotto forma di costi o di
vittime, troppo aggregati per supportare scelte urbanistiche finalizzate alla riduzione dei danni attesi,
attraverso la scelta di destinazioni d’uso compatibili o di azioni in grado di incidere sulle caratteristiche di
intensità e forma d’uso, che costituiscono gli strumenti fondanti della pratica urbanistica.
Tuttavia, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la gran parte delle leggi urbanistiche regionali di
nuova generazione, nel ridefinire le finalità e i contenuti dei piani alle diverse scale, ha introdotto elementi
volti a ricondurre nell’alveo delle competenze della pianificazione territoriale e urbanistica il tema della
mitigazione dei rischi, delineando processi decisionali, in cui l’insieme delle indagini e delle valutazioni
relative ai fattori di pericolosità e alle caratteristiche di esposizione e vulnerabilità degli insediamenti viene
assunto quale parte integrante del processo decisionale in materia di assetto del territorio alle diverse
scale. La diffusione del principio di “sostenibilità” ha indotto, infatti, una più specifica attenzione ai rapporti
tra dinamiche naturali (di cui i fattori di pericolosità di matrice naturale costituiscono un elemento
rilevante) e attività dell’uomo sul territorio e, in particolare, con quelle attività che possono costituire esse
stesse sorgenti di pericolo. Questa rinnovata attenzione può e deve tradursi nella costruzione di processi
decisionali integrati in cui l’insieme delle indagini e delle scelte, anche di carattere settoriale, interagiscano
con le più generali scelte che riguardano l’organizzazione delle attività e degli spazi sul territorio
configurandosi, nel contempo, come opportunità per la riqualificazione dei contesti urbani piuttosto che
come vincoli ad un equilibrato sviluppo delle attività umane sul territorio.
61
ARIANA GALDERISI - ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 4. Sistema urbano e vulnerabilità
Bibliografia
Ceudech A. (2004), La vulnerabilità dei sistemi urbani al rischio sismico, in A. Galderisi, Città e terremoti.
Metodi e tecniche per la mitigazione del rischio sismico, Gangemi, Roma.
Galderisi A. (2004), La mitigazione dei rischi naturali per la sostenibilità dello sviluppo, in A. Galderisi, Città
e terremoti. Metodi e tecniche per la mitigazione del rischio sismico, Gangemi, Roma.
Gisotti G., Benedini M. (2000), Il dissesto idrogeologico, Carocci, Roma.
Menoni S. (1997), Pianificazione e incertezza. Elementi per la valutazione e la gestione dei rischi
territoriali, FrancoAngeli, Milano.
Presidenza del Consiglio dei Ministri - Struttura di Missione Casa Italia (2017), Rapporto sulla Promozione
della sicurezza dai Rischi naturali del Patrimonio abitativo. Testo disponibile al sito:
http://www.casaitalia.governo.it/media/1317/casa-italia_rapporto-online.pdf
Trigila A., Iadanza C., Bussettini M., Lastoria B. (2018), Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e
indicatori di rischio, Edizione 2018, ISPRA Rapporti 287/2018.
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https://www.preventionweb.net/files/50683_oiewgreportenglish.pdf
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Testo
disponibile
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https://www.unisdr.org/files/8241_doc6841contenido1.pdf
UN (2005), Hyogo Framework for Action 2005-2015: Building the Resilience of Nations and Communities
to Disasters, Testo disponibile al sito: https:// www.unisdr.org/2005/wcdr/intergover/official-doc/Ldocs/Hyogo-framework-for-action-eng lish.pdf
UNDRR (2015), Sendai Framework for Disaster Risk Reduction 2015-2030. Testo disponibile al sito:
https://www.unisdr.org/files/43291_sendaiframeworkfordrren.pdf
62
5. SISTEMA URBANO E PARADIGMA PRESTAZIONALE
Carmela Gargiulo
La finalità generale della pianificazione, che può essere sintetizzata come il miglioramento della qualità
della vita, offre la possibilità di guardare alle trasformazioni della città e del territorio in termini esigenziali
o prestazionali.
Il paradigma prestazionale, tuttavia, ha trovato fino ad ora poche e non approfondite formulazioni teoriche
ed applicative allo studio del fenomeno urbano.
Questo capitolo ha l’obiettivo di fornire un contributo utile all’aggiornamento dei “ferri del mestiere”, alla
definizione di nuovi metodi e tecniche per la conoscenza ed il governo delle trasformazioni della città che
l’adozione di tale paradigma sembra garantire.
L’obiettivo enunciato pone certamente non poche difficoltà, di tipo tanto metodologico che operativo,
legate sia alla natura dei fenomeni urbani, sia alla notevole accelerazione che in questi ultimi decenni si è
registrata nella diffusione di “esigenze” più o meno indotte, sia, ancora e soprattutto, alla matura
consapevolezza che molte questioni, soprattutto ambientali, non possono più essere differite tanto da farle
percepire sempre più prepotentemente come “bisogni”.
Dopo una breve sintesi sulle definizioni di base del paradigma prestazionale desunte dall’ambito economico
e produttivo, si cerca di trasfonderne i concetti al governo delle trasformazioni urbane, specificando
conseguenti adattamenti e significato che una operazione di questo tipo comporta, nel tentativo di
ricercare nuove modalità operative a molte delle attività del processo di governo delle trasformazioni
urbane.
Il passaggio da un singolo prodotto industriale o edilizio al contesto urbano impone, in primo luogo,
l’assunzione di una prospettiva più ampia cui applicare il paradigma prestazionale: se la città, infatti, è
vista come un sistema dinamicamente complesso, bisogna riferirsi alle prestazioni della città nella sua
interezza.
Bisogna, quindi, costruire e/o riformulare indicatori di prestazioni economiche integrati, in grado di
restituire lo stato del sistema a tutti i livelli di descrizione opportuni (Calafati 2006), anziché indicatori di
prestazione per singole parti del sistema urbano. Città in crisi economica e strutturale con indicatori di
prestazione lusinghieri, ad esempio, esclusivamente per i centri storici rivitalizzati da interventi di
riqualificazione restano città in declino.
5.1.
Le componenti e le fasi del paradigma prestazionale
Il paradigma prestazionale, nell’ambito delle materie che fanno riferimento all’ingegneria e all’architettura,
è prevalentemente applicato alla produzione industriale ed è diffusamente utilizzato anche nella ricerca
sulla produzione edilizia, dalla tecnologia dei materiali al restauro dei monumenti. Tale paradigma è
orientato a garantire la rispondenza, in termini di prestazioni, di un prodotto alla domanda di qualità da
parte degli utenti secondo criteri stabiliti. In tale ottica, la qualità del prodotto fa riferimento ai livelli di
prestazione del prodotto, definiti in relazione alle richieste ed alle aspettative dell’utenza. Le due
componenti essenziali del paradigma prestazionale sono, quindi, la domanda e l’offerta. La domanda
rappresenta ciò che l’utenza richiede ed è individuabile attraverso le necessità irrinunciabili (i bisogni) e le
eventuali occorrenze (le esigenze) che l’utenza esprime al fine di utilizzare un prodotto o un servizio.
L’offerta rappresenta ciò che un prodotto o un sistema è in grado di mettere a disposizione in ragione delle
sue caratteristiche fisiche (requisiti) e in ragione delle sue possibilità di comportamento (prestazioni) al
fine di soddisfare la domanda.
Il paradigma si basa sulla concatenazione concettuale che lega le sue due componenti principali e che si
può sintetizzare nella successione di quattro elementi: “bisogni-esigenze-requisiti-prestazioni”, più il
controllo.
Per maggiore chiarezza può essere utile riportare i concetti di prestazione e requisito cui si fa riferimento
in campo economico e produttivo. Il concetto di prestazione va inteso «come comportamento in servizio di
un prodotto, componente o sistema» (Costantini 2001). In definitiva, le prestazioni richieste ad un
prodotto o ad un sistema indicano i modi in cui questo risponde alla domanda.
Connesso al concetto di prestazione è il concetto di requisito inteso come caratteristica richiesta, «come
ciò che di norma si richiede per soddisfare un’esigenza» (ibidem); il requisito a sua volta dipende dalle
esigenze, dalle domande dell’utenza. Le prestazioni, quindi, di un qualsiasi oggetto fanno riferimento al
63
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 5. Sistema urbano e paradigma prestazionale
suo funzionamento, cioè al modo con cui esso risponde a una data richiesta compatibilmente con le
proprie potenzialità.
In molti ambiti disciplinari il paradigma prestazionale è giunto da qualche anno non solo alla maturazione
della fase di tipo metodologico ma anche alla fase dell’applicazione pratica a vari processi produttivi, tra i
quali quello edilizio.
A livello teorico-metodologico, molti autori ed operatori in campo edilizio affermano che «un processo
edilizio nasce da un’esigenza, ossia da ciò che viene richiesto da parte della committenza per lo
svolgimento di una attività o di una funzione tecnologica. L’esigenza deve poi essere tradotta in fattori, i
quali permettano di individuare i termini di soddisfacimento in determinate condizioni d’uso; questi fattori
sono chiamati requisiti» (Lenzi 2006). In altre parole, si può affermare che il requisito rappresenta la
trasposizione a livello tecnico di una esigenza in un insieme di caratteri che la connotano; l’analisi delle
esigenze, sulla base dei fattori ambientali ed economici che condizionano il processo edilizio, costituisce
pertanto la fase iniziale del processo stesso.
Fig. 1 − Schema di approccio prestazionale adottato nello sviluppo del progetto Stazione Termini di Roma (Fonte
www.insic.it/eventi/forumai2008/relazioni/leonardi.pdf)
Nell’ambito delle applicazioni pratiche sulle strutture edilizie che si occupano di sicurezza, la definizione dei
requisiti si amplia e arricchisce. Infatti, alcuni autori affermano che i requisiti di un sistema edilizio devono
soddisfare le esigenze anche quando agenti esterni (condizioni ambientali, attività degli utenti, ecc.)
tenderebbero a impedire o limitare il soddisfacimento delle stesse esigenze. Uno dei possibili agenti, ad
esempio, è il fuoco.
«La resistenza al fuoco viene pertanto a delinearsi proprio come requisito, nel senso che dall’esigenza
sicurezza si possono derivare serie logiche di caratteri tecnici, tra i quali è possibile isolare quelli connessi
con la conservazione durante l’evento incendio, entro limiti determinati e durante un intervallo di tempo
determinato, le prestazioni fornite dal sistema o subsistema tecnologico, o anche dal singolo elemento»
(Lenzi 2006).
Una volta determinati i requisiti, sulla scorta di questi, si passa alla definizione delle prestazioni, a
considerare ciò che il sistema è in grado di garantire, cioè il suo comportamento in condizioni determinate
d’uso e di sollecitazione. In altri termini, una volta individuata l’esigenza della sicurezza all’incendio, ad
esempio, si definiscono tra i requisiti che il sistema tecnologico dovrà possedere quello della resistenza al
fuoco. La progettazione del nuovo sistema dovrà, quindi, fare in modo che questo riesca ad offrire
prestazioni adeguate alle richieste anche nel caso in cui si verifichi una sollecitazione da parte di un agente
esterno come il fuoco. Infine, si passa alla fase finale del controllo e valutazione della rispondenza del
sistema modificato in base alle richieste dell’utenza. Il successo dell’attività progettuale si estrinseca,
infatti, nella rispondenza ai requisiti specificati. Se il risultato di questa fase evidenziasse, invece, il
mancato soddisfacimento della richiesta bisognerebbe modificare uno dei punti del percorso-processo che
è stato definito in base alla concatenazione “bisogni-esigenze-requisiti-prestazioni”. In altre parole,
bisognerebbe individuare l’esigenza effettiva, oppure riformulare i requisiti dell’oggetto, o ridefinire la
rispondenza delle prestazioni fornite.
64
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 5. Sistema urbano e paradigma prestazionale
Fig. 2 − Diagramma di flusso del processo di progettazione per la resistenza al fuoco degli edifici secondo il paradigma
prestazionale (Fonte Lenzi 2006)
5.2.
La domanda e l’offerta come componenti del sistema urbano
Il paradigma prestazionale non ha trovato larga diffusione nelle applicazioni alla disciplina urbanistica. Tra i
primi autori che pongono l’attenzione sulla costruzione di strumenti basati sull’approccio prestazionale per
il progetto della città e del territorio è Gordon Cullen, che nel corso degli anni Sessanta elabora una
matrice per lo studio del tessuto urbano, in cui liste di prestazioni e dimensioni progettuali sono suddivise
secondo i due campi relativi a Human e Physical Factors1. Cullen traduce i requisiti prestazionali in scala di
valori e in simboli di rappresentazione2 (Marchigiani 2003). L’obiettivo è costruire un vero e proprio
vocabolario visivo, «una griglia di concetti ordinati sistematicamente» (Tonti 1975), di ausilio alla
costruzione del progetto.
Cullen non fornisce codici univoci, ma suggestioni ed esempi. Non aspira a fondare modelli quanto
piuttosto a stabilire i principi di una nuova arte, assumendo un approccio prestazionale che rende esplicito
l’obiettivo perseguito e il valore cui questo è teso; lascia il percorso progettuale aperto all’innovazione e
alle specificità del caso (Marchigiani 2003).
Sotto la lente del paradigma prestazionale, la finalità principale del processo di governo delle
trasformazioni della città può esprimersi come il perseguimento dell’equilibrio tra due componenti: ciò che
l’utenza urbana richiede per soddisfare propri bisogni ed esigenze (domanda) e la capacità/possibilità di
adattamento del sistema città in termini di spazio (requisiti) ed in termini di funzionamento (prestazioni) al
fine di soddisfare tali richieste (offerta). Il trasferimento del paradigma prestazionale da un singolo
oggetto, da un qualsiasi singolo bene al sistema urbano conduce a considerare le due componenti come
sottosistemi in cui può essere articolata la città. In altri termini, secondo un approccio di tipo sistemico3 e
in base a questo paradigma, la città può essere considerata come un sistema prestazionale, come un
sistema, quindi, articolabile nel sottosistema della domanda e nel sottosistema dell’offerta. Il sottosistema
1
2
3
The Scanner, Alcan Industries Ltd., London 1966.
Notation: The Observant Layman’s Code for His Environment, Alcan Industries Ltd, London 1967.
L’approccio sistemico applicato alla città ed al governo delle sue trasformazioni è trattato più approfonditamente nel
primo capitolo di questo volume.
65
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 5. Sistema urbano e paradigma prestazionale
della domanda è composto dai bisogni e dalle esigenze che una data collettività esprime per innalzare il
livello di qualità urbana e, quindi, il livello di qualità della vita e che si concretizzano, secondo l’approccio
sistemico adottato, in attività, servizi, infrastrutture, ecc.. Il sottosistema dell’offerta rappresenta ciò che il
sistema urbano riesce ad offrire per rispondere alle richieste degli abitanti. Quest’ultimo è composto dai
requisiti, rappresentati dalle risorse e dalle caratteristiche fisiche esistenti o che il sistema città deve
assumere per adattarsi alla domanda, e dalle prestazioni, che rappresentano il funzionamento richiesto per
soddisfare le esigenze della collettività urbana.
Un esempio può chiarire quanto sopra. Se appare probabile un incremento della popolazione con età
superiore ai 70 anni, l’utilità sociale, definibile come assistenza agli anziani, richiede che, nei limiti
economici consentiti, si debba provvedere alla realizzazione delle attrezzature proporzionate alle domande
dei destinatari. Conoscendo le caratteristiche future di questa popolazione anziana, i provvedimenti
richiesti potranno essere localizzati, dimensionati ed attrezzati in maniera da rispondere meglio alla
domanda. Per valutare l’impegno finanziario richiesto dall’attuazione del piano, si possono utilizzare tre
indicatori: bisogno, costo e realizzazione. (Il primo) quantifica (…) il deficit di un bene o di un servizio
necessario per il conseguimento di una finalità e, quindi, il relativo obiettivo di spazio (numero di alloggi e
di stanze, posti letto ospedalieri, campi sportivi, numero di posti di parcheggio, incremento della portata
oraria di una linea di trasporto pubblico, ecc.). L’indicatore è riferito ad una unità dell’utenza. (…)
L’indicatore di costo esprime il costo unitario per ogni tipo di spazio unitario o per ogni unità di servizio.
L’indicatore di realizzazione, misurato in euro/utenti, deriva dalla combinazione dei primi due. La somma
dei prodotti degli indicatori di realizzazione per le relative popolazioni destinatarie dà il totale dell’impegno
finanziario occorrente per la realizzazione di un piano (Fuccella, 1995).
Le singole fasi ed attività del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali, in relazione
anche alle finalità descritte, dovrebbero essere orientate ad innalzare il livello di capacità del sistema
urbano a soddisfare le esigenze espresse non solo da chi abita la città ma anche da quanti la vivono per
attività e tempi limitati. In particolare, le attività del processo di governo delle trasformazioni urbane e
territoriali nell’ottica prestazionale (Fig. 3), possono essere individuate in:
1.
individuazione della domanda, in base ai bisogni ed alle esigenze dei fruitori della città che
richiedono l’organizzazione di determinate attività urbane;
2.
analisi delle risorse esistenti (spazi, infrastrutture, attrezzature, canali, ecc.), ovvero del sistema
dell’offerta disponibile;
3.
adozione di criteri di compatibilità e sostenibilità delle trasformazioni delle risorse disponibili (spazi
naturali e spazi antropizzati) ovvero del sistema dell’offerta;
4.
definizione degli obiettivi di trasformazione perseguibili;
5.
sulla scorta della domanda, definizione dei requisiti (caratteristiche di spazio) necessari per
soddisfare bisogni ed esigenze individuati;
6.
sulla scorta della domanda, definizione delle prestazioni (caratteristiche d’uso e di relazione)
necessari per soddisfare bisogni ed esigenze individuati;
7.
previsione delle trasformazioni che soddisfano il sistema della domanda e compatibili con il sistema
dell’offerta;
8.
analisi dei risultati della trasformazione del sistema urbano;
9.
confronto per verifica della rispondenza tra sistema urbano modificato, nei requisiti e nelle
prestazioni, e domanda.
In effetti le prime tre attività possono essere raggruppate nella fase conoscitiva dello stato attuale del
sistema urbano; le successive quattro nella fase decisionale sullo stato futuro del sistema urbano; le ultime
due nella fase di verifica, controllo e monitoraggio della rispondenza tra sistema della domanda e sistema
dell’offerta.
Per perseguire l’equilibrio tra la domanda e l’offerta l’attività prioritaria da compiere è il confronto tra il
livello di prestazioni fornite dal sistema urbano e quello di soddisfacimento delle esigenze dell’utenza.
L’utenza è costituita dalla globalità dei cittadini e dei fruitori dello spazio urbano nel suo complesso. «I
destinatari di un piano per la città fisica non sono tanto precisi gruppi sociali ed economici, bensì tutti gli
abitanti che hanno con essa un rapporto d’uso; non sono solo gli utenti di oggi, ma anche quelli di domani
(...) gli abitanti in senso stretto» (Gabellini 1989).
Per definire la quantità di spazi (offerta) da dedicare alle specifiche attività che gli utenti richiedono
(domanda) è utile riportare le categorie in cui può essere suddivisa l’utenza.
Le tre categorie che, in relazione alle tipologie di attività, possono essere utilizzate per dimensionare gli
spazi da adattare sono: l’utenza specifica, gli operatori specifici e l’utenza generica.
66
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 5. Sistema urbano e paradigma prestazionale
Fig. 3 − Le attività del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriale
secondo il paradigma prestazionale
La prima si riferisce a quella fetta di popolazione cui è rivolto il servizio offerto: gli allievi per la scuola, gli
atleti per i centri sportivi, gli ammalati per gli ospedali. La seconda si riferisce al personale addetto allo
svolgimento dello specifico servizio: gli insegnanti per la scuola, gli atleti per i centri sportivi ma anche gli
allenatori, i massaggiatori, ecc., i medici per gli ospedali. La terza, infine, si riferisce all’intera popolazione
dell’unità territoriale dotata di quel particolare servizio. Riferire l’approccio di tipo prestazionale al sistema
urbano comporta, inoltre, che il concetto di qualità non può limitarsi alla qualità delle singole risorse, ma
va ad ampliarsi fino ad includere il funzionamento, la struttura delle relazioni di un particolare sistema
urbano. I sottosistemi individuati seguendo il paradigma prestazionale non contrastano con i sottosistemi
antropico, funzionale e fisico individuati e descritti nel primo capitolo di questo volume. In effetti, questi
ultimi possono essere facilmente ricondotti ai precedenti attraverso due semplici considerazioni.
Il sottosistema della domanda può ricondursi al sottosistema antropico ed al sottosistema funzionale se si
considera che di questi interessa sostanzialmente conoscere i comportamenti/attività più diffusi e frequenti
in maniera da modificare e adattare gli spazi della città.
Infatti, la conoscenza dei comportamenti di una data collettività consente di comprendere quali sono i
bisogni e le necessità che questa esprime (che, come si è detto, sono gli elementi del sottosistema della
domanda). La domanda, quindi, può essere definita come l’insieme delle prestazioni che i cittadini
richiedono al sistema urbano affinché questi possano svolgere in modo idoneo le attività (Papa 1996). Il
sottosistema dell’offerta può ricondursi al sottosistema fisico. Il sottosistema fisico, infatti, composto dagli
spazi e dai canali della città, in termini prestazionali, deve assumere i requisiti adatti a soddisfare la
domanda. Così come forti sono le interdipendenze tra comportamenti/attività nel sottosistema della
domanda, è necessario ottimizzare le relazioni/organizzazione tra gli spazi così da ottimizzare le prestazioni
fornite dal sottosistema dell’offerta. In altri termini, occorre ottimizzare le relazioni che si stabiliscono tra
gli elementi del sistema urbano dal momento che queste ne determinano il funzionamento; funzionamento
che, secondo il paradigma trattato in questo capitolo, può essere espresso in termini di prestazioni
(definite, appunto, come il funzionamento richiesto per soddisfare le esigenze di una collettività urbana).
Come sostiene Astengo (1966) e come, in linea teorica, ciascun pianificatore urbano condivide,
«l’urbanistica, scienza del futuro, è dovunque impegnata, sotto tutte le latitudini ed i regimi politici, a
predisporre in modo creativo e consapevole le condizioni di vita per il futuro, prossimo e lontano, dei vari
popoli prefigurando la dimensione, la struttura e la forma della loro distribuzione territoriale; per questo
suo compito corale essa ambisce al riconoscimento di “arte collettiva” per eccellenza ed i suoi successi
sono necessariamente legati alla misura con cui essa stessa riuscirà nei vari paesi a diventare abito non
67
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 5. Sistema urbano e paradigma prestazionale
secondario di comportamento collettivo adulto». Tuttavia, gli enti preposti alla pianificazione «possono
elaborare e proporre belle visioni di futuri sperati, ma non significa che essi siano in grado di influenzare
gli altri attori al di là del disegno dei singoli di conseguire un accomodamento. La pianificazione può
facilitare la ricerca di accordi collettivi, le visioni di successo possono contribuire a far sì che gli attori
impegnati nella negoziazione percepiscano i reciproci vantaggi, ma la relativa assenza di incentivi
rappresenta un grave fattore di inerzia (…) Ma anche gli obiettivi collettivi più ampi potrebbero essere
utilizzati per remunerare le prestazioni» (Benveniste 1999).
Se si creano e condividono incentivi collettivi per il perseguimento di obiettivi sociali è molto probabile che
ciascun attore riorienti la propria azione in una direzione data. Benveniste afferma che l’efficacia
dell’azione dei pianificatori sarà sempre più determinata dall’adozione di approcci prestazionali, piuttosto
che normativi e procedurali e individua come cuore del problema la definizione della struttura dei
parametri prestazionali per valutare compiti la cui realizzazione richiede il concorso congiunto di molte
organizzazioni e il proporzionamento delle remunerazioni in denaro, prestigio o altro al conseguimento dei
traguardi collettivi. Questa soluzione appare quella capace di limitare la dispersione delle azioni di
differenti attori e di ricondurre l’agire collettivo verso il bene comune, piuttosto che verso interessi limitati
e parziali.
Fig. 4 − Le relazioni tra approccio sistemico e paradigma prestazionale
5.3.
L’equilibrio dinamico tra domanda e offerta per il governo dei
sistemi urbani
Nell’ottica prestazionale, il lavoro del pianificatore consiste in buona parte nel ricercare l’equilibrio tra il
sottosistema della domanda ed il sottosistema dell’offerta e, quindi, la prima azione da compiere è il
confronto tra il livello di soddisfacimento delle esigenze dell’utenza e quello delle prestazioni fornite dal
sistema urbano.
Per chiarire il concetto potremmo fare riferimento al dimensionamento delle strutture portanti di un
edificio. Ad esempio, per realizzare adeguatamente una trave bisogna conoscere i carichi che il solaio
dovrà sopportare. Per consentire, in altre parole, che siano soddisfatte le esigenze di realizzare, ad
esempio, una biblioteca (domanda) bisogna realizzare una trave (offerta) che abbia i requisiti adatti a
rispondere alle sollecitazioni dovute ai carichi cui dovrà essere sottoposta. Bisogna, quindi, conoscere la
domanda, cioè le prestazioni richieste in relazione ai carichi da sopportare, in modo da riuscire a
progettare una trave (offerta) che abbia i requisiti adeguati a rispondere a tale domanda di carico.
Anche nella città occorre trovare un equilibrio compatibile e realizzabile tra la domanda e l’offerta ed è
attività sicuramente più complicata di quella dell’esempio di una struttura edilizia, in ragione di molti fattori
tra cui: la complessità del sistema urbano, la sua continua evoluzione nel tempo, la scelta delle
trasformazioni da prevedere.
Rispetto al primo fattore, basta richiamare la definizione di sistema complesso ampiamente descritta nel
primo capitolo di questo volume. Rispetto al secondo fattore, è chiaro che la città è soggetta al continuo
divenire perché è il luogo in cui si sviluppano e mutano il sistema sociale, il sistema economico, il sistema
culturale, ecc. Peraltro da sempre la pianificazione ha impostato la sua attività sulla previsione dell’assetto
futuro della città che ancora oggi stenta a configurarsi come processo “in divenire” che attua
trasformazioni in ragione dei mutamenti sociali, culturali, economici, ecc. degli abitanti. Rispetto al terzo
fattore, la pianificazione è una attività che per sua natura è parte della gestione politico-amministrativa
della città e come tale è influenzata, più o meno, dalla ricerca del “consenso” che non sempre si accorda
con finalità eminentemente sociali collettive.
L’equilibrio da perseguire nel sistema urbano, inoltre, va realizzato in gran parte con le risorse (fisiche,
finanziarie, economiche, culturali, sociali, ecc.) di cui già la città dispone. In particolare, per le risorse
68
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 5. Sistema urbano e paradigma prestazionale
fisiche bisogna considerare che queste, molto spesso, sono state realizzate per rispondere ad esigenze
passate diverse dalle attuali e che il principio di sostenibilità ambientale ci consiglia di “risparmiare”
territorio non antropizzato; per queste ragioni il perseguimento dell’equilibrio tra la domanda e l’offerta va
operato attraverso l’attento dimensionamento della domanda, individuando anche i diversi stati di
necessità (dal più elevato a quello voluttuario) in cui si può articolare la domanda generica. Si passa,
infatti, dai bisogni alle esigenze, alle aspirazioni ed ai desideri, tutti condizionati dall’evoluzione culturale,
sociale ed economica. Se evolvono i comportamenti sociali, culturali, la gente esprime bisogni ed esigenze
diverse e vuole soddisfare aspirazioni e desideri sempre nuovi che si ripercuotono sul “fare”, sulle attività.
A loro volta le attività hanno necessità di spazi adatti al loro svolgimento. L’approccio prestazionale,
inoltre, offre maggiori garanzie di attinenza con la teoria della complessità, di rispondenza con il concetto
di governo delle trasformazioni urbane e di coerenza con il principio imprescindibile della qualità
ambientale dei luoghi, essendo orientato alla individuazione di obiettivi piuttosto che di soluzioni
predefinite.
In un’ottica di qualità complessiva della città è indispensabile considerare gli effetti delle singole
trasformazioni sul sistema urbano. L’effetto positivo di una trasformazione, infatti, è strettamente
connesso alla rispondenza delle prestazioni dei singoli elementi urbani alla domanda dell’utenza, ma è
anche funzione delle interazioni che si stabiliscono tra le singole parti. Una volta definiti gli obiettivi di
trasformazione da perseguire, possono essere individuate le prestazioni richieste agli spazi lasciando la
possibilità di articolare l’assetto fisico dei luoghi in base alle necessità/opportunità che nel tempo saranno
più “convenienti” e di prevedere soluzioni di trasformazione diverse ma compatibili con gli obiettivi
prefissati e sostenibili dal punto di vista ambientale.
Se in campo industriale la qualità è definita in relazione ai caratteri del bene prodotto che soddisfano le
esigenze richieste, nel caso dell’ambiente urbano la qualità si identifica con l’insieme delle caratteristiche
fisiche e ambientali del contesto, che permettono di fornire, in termini di prestazioni, una risposta
adeguata alle esigenze dell’utenza (Colarossi 1992).
La valutazione delle prestazioni dell’ambiente urbano in base al livello di soddisfacimento dei requisiti
richiesti avviene, per quanto detto, in base a parametri fra loro diversi, che dipendono da aspetti di vario
tipo: funzionali, percettivi, morfologici, socio-economici. Alcuni di essi sono riconducibili a valori numerici,
altri, non misurabili, fanno riferimento ad indicazioni, criteri e soluzioni compatibili, basati anche su
valutazioni soggettive dei luoghi in questione (Campofredano s.d.).
Anche quindi nella città, una volta individuate le esigenze da soddisfare, definito il carico che questa deve
sopportare per rispondere a tali esigenze, si passa alla previsione della dimensione e della distribuzione
degli spazi necessari a soddisfare la domanda e alla previsione delle modalità di trasformazione in ragione
degli usi richiesti.
Il carico che la città deve sopportare non può essere calcolato in maniera semplice ed immediata come
quello che sopportano le strutture edilizie. Il carico urbanistico è una funzione che esprime le conseguenze
sul sistema fisico di una domanda di prestazioni necessarie allo svolgimento di attività.
Ogni attività che si intende insediare definisce un carico urbanistico, in ragione della necessità di spazi e
canali utili al suo funzionamento. Il carico urbanistico è, quindi, funzione del tipo di attività da svolgere ed
è rappresentato dall’insieme degli spazi e dei canali necessari allo svolgimento adeguato dell’attività:
Cu = f1(A)
Se volessimo, ad esempio, soddisfare le esigenze di nuova residenzialità, bisognerebbe fare riferimento
non solo agli spazi che occorre trasformare per realizzare le nuove abitazioni, ma anche agli spazi
necessari per consentire che l’attività residenziale possa svolgersi in maniera adeguata, quali gli spazi per
realizzare la rete dell’accessibilità e gli spazi per l’istruzione, i servizi di base, i parcheggi, ecc.. Il carico
urbanistico, quindi, fa riferimento non solo agli spazi ed ai canali connessi con l’attività principale ma anche
agli spazi ed ai canali connessi alle attività di supporto a quella principale. Inoltre, il carico urbanistico è
funzione anche del numero di utenti coinvolti nell’attività:
Cu = f2(U)
Ad esempio, più abitanti sono insediati in un’area maggiore è il carico urbanistico cui è sottoposta l’area,
poiché servizi, attrezzature, infrastrutture (attività di supporto) dovranno essere dimensionati per un
numero elevato di utenti. La definizione del carico urbanistico, infine, dipende dall’intensità d’uso, vale a
dire dalla quantità di attività che si svolge nell’unità di spazio:
Cu = f3(I)
69
CARMELA GARGIULO
CAPITOLO 5. Sistema urbano e paradigma prestazionale
In ragione delle diverse attività occorrerà determinare i parametri che meglio esprimeranno l’intensità
d’uso. Soprattutto nelle aree urbane delle grandi città ci si trova spesso ad affrontare problemi dovuti alla
elevata concentrazione di attività e, quindi, all’aumento incontrollato di carico urbanistico. Quando questo
supera i valori di soglia limite (per valori elevatissimi di intensità d’uso) nel sistema urbano si produce
congestione. In altre parole, al superamento di certi limiti di carico urbanistico il sistema urbano entra in
crisi e collassa. In conclusione, la domanda è intesa come l’insieme delle richieste degli attori mirate a
svolgere attività sul territorio; l’offerta è definibile come la risposta del sistema urbano alla domanda in
termini di spazi per lo svolgimento delle attività. Al fine di confrontare domanda e offerta e quindi arrivare
a definire la condizione di equilibrio tra i due sistemi è necessario esprimere entrambi in termini di
dotazione: vale a dire l’insieme delle attrezzature, opere e spazi attrezzati pubblici o di pubblico interesse
che rendono “luogo” uno spazio e che ne determinano la qualità in risposta ad una data domanda di
attività.
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70
6. IL GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI URBANE
Romano Fistola
6.1.
Dalla pianificazione al governo delle trasformazioni urbane
Questo paragrafo fornisce alcuni sintetici riferimenti per affrontare, in chiave scientifica, l’evoluzione della
pianificazione urbanistica di matrice novecentesca nel governo delle trasformazioni territoriali. L’assunto di
fondo è che, interpretando la città come un sistema dinamicamente complesso, sia possibile porre in
essere una serie di azioni per orientare e controllare le trasformazioni, connaturate ai processi evolutivi
sistemici, e guidare il sistema verso opportuni stati futuri.
Pare tuttavia necessario premettere alcuni brevi richiami allo sviluppo della pratica di pianificazione
urbanistica cosi come si è andata evolvendo nel corso del tempo. La necessità di introdurre indicazioni,
norme e tecniche per prefigurare ed implementare l’assetto che la città avrebbe dovuto avere
nell’immediato futuro viene comunemente associato con la costruzione delle città greche. Va tuttavia
osservato che, almeno fino ai primi del ‘900 la città ha sempre rispecchiato nel suo assetto l’articolazione
socio-funzionale della collettività che la abitava.
Al fine di fornire una tassonomia che possa consentire una schematizzazione mnemonica del fenomeno
evolutivo urbano (consapevoli dei rischi connessi alla semplificazione) tentando una sintesi estrema degli
scritti dei più noti studiosi dell’urbanesimo fra i quali Lavedan, Mumford, Ragon, Benevolo, Chiodi ed altri e
rimandando ad una più approfondita disamina dell’evoluzione storica della città, che verrà proposta nella
parte finale del testo, pare possibile proporre le seguenti dieci tipologie urbane:

la città spontanea;

la città gerarchica;

la città organizzata;

la città regolare;

la città chiusa;

la città ideale;

la città nuova;

la città pianificata;

la città industriale.
Ad ognuna di queste tipologie corrisponde un’epoca storica ed in particolare: la città spontanea è il
modello riconducibile ai primi villaggi ed alle primitive forme di organizzazione umana collettiva di tipo
stanziale fino alla costruzione di UR, in Mesopotamia, che può forse ritenersi la prima effettiva città
dell’antichità.
La città gerarchica è quella nella quale l’assetto funzionale e la contiguità delle attività derivavano dal
rigido ordinamento gerarchico e dinastico. Chiodi ricorda come tale schema fosse rinvenibile in città come
Tebe, Ninive, Babilonia, etc..
La città organizzata è quella di fondazione greca, la polis, nella quale lo schema del tessuto riprendeva
l’andamento clivometrico o nasceva ex-novo su un impianto a moduli regolari. Si è intorno al V secolo a.C.
e si comincia a formalizzare il processo di edificazione urbana a seguito di piani come quelli redatti da
Ippodamo di Mileto le cui regole cominciano ad essere formalizzate ed applicate in tutte le città elleniche.
L’impianto, a scacchiera, caratterizzerà anche la città romana nella quale grande rilevanza era ricoperta dai
canali di mobilità che consentivano il rapido movimento delle truppe ed il raggiungimento delle diverse
attività urbane. Nel medioevo la città si chiude entro le mura per esigenze difensive e si compatta
riducendosi in popolazione rispetto alle grandi città romane ed in particolare rispetto alla Roma imperiale
del I secolo a.C. che contava 46.622 insulae.
La città ideale è il modello urbano al quale gli architetti rinascimentali si ispirano, caratterizzato dallo
schema radiocentrico recuperato dalle teorie classiche ed antropocentriche, e nella quale grande rilevanza
assumono le fortificazioni che ora devono resistere alla potenza delle nuove armi da fuoco (si pensi alle
opere di Francesco di Giorgio Martini, Leonardo da Vinci, Vincenzo Scamozzi, etc.).
In questo periodo si diffonde il trattatismo urbano, con le opere di Leon Battista Alberti, Giorgio Vasari,
Pietro Cattaneo ed altri, che può ritenersi un'altra forma di codifica di regole e norme edificatorie ed
urbanistiche.
Alla fine del ‘500 fioriscono in Italia i piani di espansione fra i quali i più famosi sono quelli per Roma,
Napoli (1536) e Torino.
73
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 6. Il governo delle trasformazioni urbane
Fig. 1 – La città ortogonale
Il piano di Londra ad opera di C. Wren che riarticola il tessuto cittadino secondo geometrie ortogonali e radiali dopo il
devastante incendio del 1666
La città nuova nasce fra ‘600 e ‘700 sulle fastose edificazioni delle residenze reali francesi e tedesche fino al
piano di ricostruzione di Londra (Fig. 1), rasa al suolo dal devastante incendio del 1666 che aveva ridotto in
cenere l’intero tessuto edilizio della capitale inglese realizzato prevalentemente da strutture in legno.
La rivoluzione Hausmaniana della metà dell’800 disegnerà una nuova Parigi recuperando in parte le regole
urbane della Roma imperiale e concretizzandosi nell’apertura di grandi viali di mobilità, diagonali e
circolari, che ricamano sul tessuto urbano a volte forme radiali ed a volte figure regolari a scacchiera,
quella che John Friedman identificherà con il nome di: “pianificazione ortogonale”.
Gli Statuti Murattiani per la città di Bari (1814) rappresentano probabilmente uno degli esempi di norme
urbanistiche, sottese alla pianificazione, che hanno guidato la nuova edificazione urbana di maggiore
interesse. Un documento di riferimento per la nascita della moderna pianificazione urbanistica in Italia è la
relazione al piano regolatore di ampliamento di Bologna del 1885 nella quale si ritrovano interessanti
concetti sulla destinazione e distribuzione d’uso che verranno successivamente ripresi e sviluppati.
La rivoluzione industriale ottocentesca rappresenta il punto di svolta per la città che si trasforma
radicalmente richiamando vaste masse di popolazione per il lavoro in fabbrica e ridefinisce il suo assetto
cominciando ad osservare i prodromi di alcuni fenomeni di degrado che acquisteranno consistenza nel
secolo successivo.
È a questo punto che si avverte un’esigenza ordinatrice nella città motivata anche dalle disastrose
condizioni igieniche di molti quartieri. Il piano urbanistico (regolatore) ottocentesco risponde a questa
domanda rintracciando la viabilità urbana, associando ad essa i tracciati delle principali reti di distribuzione
idrica e fognaria, riarticolando la città intorno ai fuochi delle grandi opere (pubbliche) e guidando le
espansioni urbane che caratterizzarono i grandi “ampliamenti” dell’epoca. In Italia il riferimento legislativo
di questo passaggio dell’urbanistica è probabilmente da rinvenirsi in una legge del 1865. È interessante a
tal riguardo riproporre quanto scritto in merito da Paolo Avarello (2000): «in questa legge, secondo le
logiche del tempo, si distinguono per la verità due piani: quello propriamente “regolatore” destinato
appunto a regolare gli allineamenti stradali nella città esistente e quello di “ampliamento” che traccia più
liberamente l’ossatura infrastrutturali delle espansioni, in proporzione generalmente multipla
dell’esistente».
Il punto di cerniera e di passaggio fra l’urbanistica del piano ottocentesco ed una concezione moderna
della pianificazione strutturata a nuove codificazioni metodologiche e disciplinari è da ricondursi ai
contributi di Patrick Geddes e Camillo Sitte dei primi del Novecento. Nei loro saggi prende corpo una prima
definizione disciplinare dell’urbanistica moderna sorretta da procedure di analisi territoriale, di studio dei
fenomeni socio economici e demografici, di riconsiderazione del valore dell’ambiente e del verde urbano,
nel definitivo superamento della visione hausmaniana.
Nella prima metà del novecento è collocabile anche la nascita dello “zoning” riconducibile alla procedura di
suddivisione del tessuto urbano in zone all’interno delle quali viene individuata una destinazione d’uso
prevalente (residenziale, industriale, agricola, etc.).
In estrema sintesi è possibile far coincidere la nascita dell’urbanistica moderna con le due definizioni
appena descritte: da una parte la formalizzazione disciplinare del processo pianificatorio (derivante anche
dalle definizioni tecniche dell’ingegneria igienico-sanitaria), dall’altra l’adozione della tecnica di
caratterizzazione funzionale delle diverse parti del tessuto urbano proposta dallo zoning.
74
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 6. Il governo delle trasformazioni urbane
Fig. 2 – Il piano di Amsterdam del 1936
Nell’immagine il piano di ampliamento di Amsterdam con l’evidenziazione delle diverse destinazioni d’uso
previste nello zoning
La diffusione dello zoning caratterizzerà tutti i piani successivamente elaborati.
Il piano di Amsterdam, redatto nella prima metà degli anni ‘30 (Fig. 2) e che succedeva al piano di H. P.
Berlage del 1917, ed i grandi piani per le città nord americane definiranno i contorni della pratica
urbanistica che nel 1942 vedrà, in Italia, la definitiva codificazione legislativa con la nota Legge Urbanistica
Nazionale n. 1150.
L’urbanistica dei piani è quella che fino ad oggi ha caratterizzato lo sviluppo del territorio del paese. Il
piano della 1150/42 consente la definizione di un assetto futuro del sistema urbano ma staticamente
concluso in un’immagine singola. Tale rappresentazione contrasta fortemente con il dinamismo che il
sistema urbano e territoriale evidenziano e si è compreso come il piano regolatore statico non fosse in
grado di governare i mutamenti della città. La crisi del controllo ha aperto la via alle nuove forme di
indirizzo sistemico attuato attraverso un complesso gioco di ruoli (pubblici e privati), di partecipazioni e di
mediazione dei conflitti, di definizione di obiettivi e politiche “dal basso” che hanno caratterizzato la nascita
del nuovo concetto di governance1.
La crisi dell’urbanistica dei piani ha dato la stura allo sviluppo di nuove forme e sperimentazioni di
pianificazione della città e del territorio che hanno caratterizzato le recenti vicende urbanistiche anche in
Italia. È oramai matura la convinzione che la città, interpretabile come un sistema dinamicamente complesso,
debba essere governata, nel suo spontaneo divenire, utilizzando tecniche, procedure e protocolli che mettano
in atto un governo delle trasformazioni che possa ciclicamente ricorreggere le traiettorie evolutive del sistema
urbano. Le caratteristiche di tale processo saranno descritte nell’immediato seguito.
6.2.
Il governo delle trasformazioni urbane come processo ciclico
Già negli anni ’40 la ricerca scientifica metteva a disposizione di tecnici e amministratori nuove teorie e
metodi che verranno successivamente “importate” nelle scienze urbane. Fra queste assume un ruolo di
assoluta rilevanza la cibernetica che si era diffusa in particolare nelle applicazioni di tipo bellico,
parallelamente ed a volte all’interno, della ricerca operativa e che nell’immediato dopoguerra, con un
primo massiccio sviluppo dei sistemi di elaborazione elettronica, diviene una delle scienze di riferimento
per molte discipline. La cibernetica si occupa del controllo e della regolazione dei sistemi.
1
Il concetto di governance non è di immediata definizione e necessiterebbe di uno specifico approfondimento; tuttavia,
alfine di fornire un sintetico riferimento, appare di particolare efficacia la definizione di governance fornita da Edoardo
Salzano (2003) che la riconduce ai «procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il
consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati».
75
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 6. Il governo delle trasformazioni urbane
La “filosofia dei sistemi”, per dirla con Thomas Kuhn (1962), rappresenterà il nuovo paradigma scientifico
degli anni ’60 e proporrà un nuovo modo di concepire la realtà fisica e tutte le entità che in essa
partecipano ad un comune processo evolutivo. Molti studiosi si sono occupati di questa nuova possibilità di
interpretazione della realtà fisica e di codificazione matematica dei comportamenti delle parti in relazione
tra loro; tuttavia il contributo di riferimento in tal senso va ricondotto alla pubblicazione nel 1967 della
Teoria Generale dei Sistemi (TGS) ad opera di un biologo austriaco i cui interessi scientifici e filologici si
estendevano dalla epistemologia, alla fisiologia fino alla psicologia: Ludwig von Bertalanffy.
Come sempre nulla si genera dal nulla ed anche la TGS trovava le sue origini in un movimento scientifico
di molti studiosi, di diversa formazione e campo disciplinare, che avvertirono la necessità di elaborare un
nuovo paradigma di riferimento che fosse in grado di consentire l’interpretazione della complessità e del
dinamismo evolutivo della realtà. Si pensi, ad esempio che nel 1954 viene fondata la Società per la Ricerca
Generale sui Sistemi che si pone l’obiettivo di «far progredire lo sviluppo di sistemi teorici che siano
applicabili a più di uno dei settori tradizionali della conoscenza» (von Bertanlaffy 1969). Per completezza
d’informazione va tuttavia segnalato che il primo contributo che affrontava complessivamente il tema
dell’interpretazione sistemica della città fu pubblicato da B. J. Berry nel 1964. Ma torniamo alla cibernetica.
Il primo saggio di riferimento è sicuramento il testo pubblicato nel 1948 da Norbert Wiener con il titolo
Cybernetics.
La cibernetica va considerata, almeno in buona parte, una tecnoscienza, cioè una scienza nata grazie allo
sviluppo di nuove tecnologie (nella fattispecie i calcolatori elettronici). La cibernetica studia la regolazione ed
il controllo dei sistemi e la possibilità di indirizzarne lo sviluppo verso stati, in qualche modo, prefigurati
(desiderati).
Fig. 3 – Il processo ciclico del Governo delle Trasformazioni Territoriali
Evitando di riproporre concetti già esposti sembra utile soffermarsi proprio sulle specifiche del controllo del
sistema urbano riconducibili alle teorie di applicazione dell’approccio sistemico alla pianificazione
urbanistica contenute nel volume di J. Brian Mc Loughlin Urban and Regional Planning: A Systems
Approach, del 1969. Il processo di governo e controllo del sistema urbano si articola principalmente nelle
fasi di: conoscenza-decisione-azione (Fig. 3). Come già affermato la città può essere interpretata come un
sistema dinamico e complesso.
Tale sistema muta e si sviluppa nello spazio e nel tempo cioè si muove diacronicamente ed evolve “in sé”.
In altri termini il sistema urbano si modifica, istante per istante, per fattori endogeni, a causa della
modificazione delle sue parti e delle relazioni che le legano. In altre parole la città è in grado di attivare
processi di autoregolazione, definiti come “la capacità di adattamento”, ciò significa che le componenti
(parti e relazioni) si organizzano e si modificano, rispondendo (anche) a sollecitazioni esterne, secondo
processi endogeni.
Se all’interno di una città vengono chiuse al traffico veicolare alcuni tratti stradali si assiste ad un generale
riorganizzazione della mobilità su gomma attraverso una modificazione in direzione ed intensità dei flussi.
Tale riorganizzazione produce un impatto sull’intero sistema proprio per effetto della diversa composizione
dei flussi. Analogamente una modificazione sistemica si verifica quando un’attività urbana cessa di operare
(anche temporaneamente).
Considerando le innumerevoli attività presenti in una città, le modificazioni che subiscono continuamente e
le relazioni che ne definiscono l’interazione, si riesce forse a comprendere il livello di difficoltà nella
definizione di procedure in grado di governare l’evoluzione sistemica. Per implementare un processo di
controllo di tale evoluzione è necessario in primo luogo indagare le parti e la struttura (insieme delle
relazioni) del sistema definendo le leggi di variazione che determinano (o producono) l’evoluzione e lo
spostamento. Successivamente vanno individuate le strategie (politiche) che, fissando una serie di obiettivi
perseguibili in specifici intervalli temporali, possono consentire il controllo del sistema ed il suo
orientamento verso stati futuri compresi in un certo range di configurazioni ottimali. (Fig. 4).
76
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 6. Il governo delle trasformazioni urbane
Fig. 4 – Il trend evolutivo del sistema urbano
Nello schema concettuale si evidenzia l’andamento di evoluzione spazio-temporale del sistema urbano che deve essere
mantenuto, mediante il processo di Governo delle Trasformazioni Territoriali,
entro il range angolare delle traiettorie compatibili.
L’implementazione delle strategie per il perseguimento degli obiettivi caratterizza la terza fase del
processo. Va tuttavia segnalato che il sistema potrebbe non rimanere all’interno del range evolutivo
prefigurato e, anche a causa di un’errata ipotesi strategica o di un’azione che ha prodotto risultati non
previsti, evolvere verso spazi esterni al campo di esistenza delle soluzioni compatibili. (Fig. 5).
Fig. 5 – Il trend evolutivo entropico del sistema urbano
La figura mostra l’eversione del sistema urbano dal range angolare delle traiettorie attese.
Quando si verificano tali condizioni è necessario riconfigurare le strategie e soprattutto modificare gli
interventi in atto e riconfigurarli per riportare la traiettoria all’interno dei programmi stabiliti. Quando gli
scostamenti sono incolmabili e soprattutto quando il sistema è investito da modificazioni non previste è
necessario riavviare il processo di governo.
In altre parole ove, attraverso la fase di verifica si constati un andamento eversivo del sistema (fuori dalle
evoluzioni ipotizzate) è necessario riavviare il processo di governo del sistema e quindi ri-analizzarne le
parti e le relazioni, ri-definire gli obiettivi e le strategie di perseguimento e ri-agire sulle componenti
sistemiche alfine di ricondurlo all’interno delle traiettorie attese.
77
ROMANO FISTOLA
6.3.
CAPITOLO 6. Il governo delle trasformazioni urbane
Le fasi del processo: la conoscenza, l’interpretazione, la decisione,
l’azione
Prima di descrivere con maggior dettaglio le caratteristiche delle fasi del processo di GTT, ma rimandando
per la specifica disamina delle sub componenti ad un successivo paragrafo, appare utile rimarcare la
peculiarità e la matrice dell’approccio.
È forse possibile affermare che lo sviluppo teorico, qui proposto, del governo delle trasformazioni territoriali
nasca dall’incontro e dalla fusione di due grandi proposizioni teorico-metodologiche dell’urbanistica: quella
dell’approccio sistemico, di cui si sono descritti i tratti fondamentali, e quella della pianificazione cognitiva che
è possibile riferire alla scuola olandese, sviluppatasi sull’esperienza del piano di Amsterdam del 1936 e
successivamente teorizzata negli scritti di Andreas Faludi, John Friedmann ed altri (Fig. 7).
In altri termini l’approccio disciplinare che si intende proporre nasce principalmente dalle teorie sul
controllo e la regolazione dei sistemi, recuperando il contributo di Mc Loughlin, Chapin ed altri sulla
possibilità di interpretare la città come un sistema (dinamico e complesso) e sull’interpretazione del piano
come processo, ma si sviluppa riflettendo anche sull’apporto del Planning considerato come conoscenza
nell’azione che caratterizzerà gran parte degli approfondimenti e delle esperienze operative di
pianificazione del nord Europa a partire dagli anni ‘60. Il punto di collegamento fra i due campi teorici va
ritrovato nella considerazione del GTT come processo ciclico ed in particolare, secondo la definizione di
Humberto Varela, nell’intendere la cibernetica come «the science and art of understanding» nella quale
quindi la conoscenza acquista un valore determinante.
Fig. 7 – Il Governo delle Trasformazioni Territoriali
L’immagine mostra l’apporto dell’approccio cognitivo all’interpretazione sistemica per definire il Governo delle
Trasformazioni Territoriali
È appena il caso di sottolineare che, come afferma Friedmann (1993), esiste una doppia tipologia di
conoscenza: la conoscenza derivante dalla ricerca scientifica e tecnica e la conoscenza operativa derivante
dalla pratica, la cui ontologia è stata codificata nell’interessante contributo di Donald Schön (1999).
Nell’approccio proposto, considerando le sottofasi del momento conoscitivo, tali due tipologie possono
considerarsi sovrapposte e compenetrate.
La necessità di trasferire gli elementi derivati nella fase della conoscenza, sottoponendoli prioritariamente
alla verifica della fase della decisione (in cui vengono individuati gli obiettivi e le politiche generali per il
loro perseguimento), nelle definizioni “tecniche” (o operative) della fase dell’azione, caratterizza l’intero
processo del governo delle trasformazioni territoriali (GTT).
Pare tuttavia rilevante chiarire che tale processo, generandosi dalla scienza cibernetica (dal greco
kubernesis, termine che descrive l’atto di governo e guida della nave), attribuisce, in prima istanza, al
pianificatore il ruolo di elaboratore delle strategie di conduzione e guida dell’evoluzione del sistema
urbano; ma, successivamente, anche quello di “attore cognitivo” e mediatore delle istanze (o dei conflitti)
che si generano dall’interazione delle diverse parti (individui, attività, gruppi sociali, imprese,
organizzazioni territoriali, etc.) che compongono il sistema.
Il pianificatore assume quindi il ruolo di tecnico che prefigura le azioni di indirizzo del sistema basandosi
anche sulle istanze e le forme (anche partecipative) dei diversi attori coinvolti nel processo.
Passando ad una più dettagliata descrizione delle fasi del GTT, riconducendosi agli approfondimenti teorico
disciplinari di Fuccella (1992) e Papa (1996), si può considerare l’articolazione proposta in Fig. 8.
La fase della conoscenza si articola in una serie di momenti (o sottofasi) che consentono di comporre il
quadro dello stato e delle caratteristiche del sistema.
In particolare è possibile individuare quattro sottofasi:

la fase della lettura;

la fase della misura;

la fase della interpretazione;

la fase della modellizzazione.
78
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 6. Il governo delle trasformazioni urbane
Fig. 8 – Le sottofasi del Governo delle Trasformazioni Territoriali
Nella fase della lettura il sistema urbano viene osservato, nelle sue articolazioni sub-sistemiche (sistema
fisico, sistema funzionale, etc.), esaminato attraverso i dati grafici ed alfanumerici che ne descrivono
l’assetto e analizzato attraverso specifici metodi di indagine. Successivamente, nella fase di misura, si
passa a formalizzare i fenomeni e gli enti osservati attraverso una codifica degli stessi.
Nella fase della interpretazione, che con la modellizzazione può costituire un segmento autonomo del
processo, si cerca di estrarre dal sistema delle “leggi di comportamento” utilizzando specifiche tecniche in
generale riconducibili alla statistica univariata o multivariata.
Infine, con la modellizzazione, si tenta di costruire un “modello” del sistema che ne possa riprodurre il
comportamento all’interno di un ambiente esterno a quello di collocazione del sistema stesso. In altri
termini, modellizzando le principali leggi che regolano il sistema e compiendo quindi un’operazione
riduzionistica che trascura necessariamente alcune variabili e fenomeni, si costruisce una riproduzione del
sistema che possa consentirne un più attento studio dei comportamenti.
Nella fase della decisione vengono individuati gli obiettivi di stato del sistema e le strategie che consentono
di portare il sistema verso tale stato in un determinato segmento temporale. In particolare,
schematizzando il processo, è possibile affermare che nella decisione vengono definite:

la definizione dello stato desiderato (SD);

l’individuazione delle carenze;

la valutazione delle risorse disponibili per raggiungere lo stato compatibile (SC);

l’individuazione dello stato compatibile.
Lo stato desiderato è rappresentato dalle diverse configurazione di assetto che il sistema dovrebbe
assumere al tempo t1 e che entrano a far parte del range di possibili stati positivi (o neghentropici) di cui si
è detto in precedenza. Successivamente si valutano le carenze sistemiche, sostanzialmente riconducibili a
ciò che manca al sistema (in termini di dotazioni fisiche, di dotazioni funzionali, di insufficienze sistemiche,
etc.), e le risorse disponibili (di tipo economico, territoriale, di capitale sociale, etc.) che consentono al
sistema di raggiungere lo stato compatibile (cioè quello perseguibile con le risorse a disposizione). Infine,
nella fase dell’azione, vengono determinati gli obiettivi intermedi da perseguire per l’opportuno
indirizzamento del sistema, la gerarchizzazione nelle priorità di perseguimento, la temporalizzazione per il
perseguimento e i processi per l’implementazione.
Il monitoraggio, o la verifica di traiettoria sistemica, potrebbe essere opportunamente inclusa all’interno di
quest’ultima fase. Per una chiarezza concettuale si è scelto di raffigurarla in maniera distinta per
enfatizzare il carattere di retroazione ciclica dell’intero processo.
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80
7. TECNICHE PER IL GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI
LA CONOSCENZA E L’INTERPRETAZIONE DEI FENOMENI URBANI
Andrea Ceudech ed Enrica Papa
Il processo ciclico di governo delle trasformazioni urbane mira a governare l’evoluzione del sistema
urbano, sulla base di una conoscenza costantemente aggiornata, per verificarne l’entità dello scarto tra
l’esistente e la traiettoria prefigurata, proponendo, se necessario, correttivi.
I metodi, le tecniche e le analisi per costruire la conoscenza dei sistemi urbani e territoriali non sono
codificabili a priori, in quanto dipendono dall’insieme delle caratteristiche che rendono unico il territorio
oggetto di analisi.
Obiettivo di questo capitolo è la descrizione dei principali metodi e tecniche per ciascuna attività della fase
della conoscenza, lettura e misura, interpretazione, modellizzazione, all’interno del quadro più generale del
governo dei sistemi urbani.
7.1.
Le fasi della conoscenza: lettura, misura, interpretazione e
modellizzazione
La lettura
La lettura è un processo che permette di recuperare e comprendere dati e informazioni rispetto ad un
sistema o a un fenomeno territoriale. Essa è finalizzata alla definizione del sistema oggetto di indagine e
alla scelta delle variabili significative per lo studio in corso. La lettura è l’attività più semplice della
conoscenza, in quanto l’osservatore si limita a leggere “i segni offerti dalla realtà”.
La lettura dei sottosistemi in cui è possibile articolare il sistema urbano può essere di tipo diretto o
indiretto. La lettura diretta del territorio si effettua attraversandolo, guardandolo da determinati punti di
vista, sorvolandolo a quote diverse e così via. La lettura indiretta avviene, invece, utilizzando supporti
come le cartografie, le foto, le mappe digitali, i dati statistici, gli studi effettuati in precedenza, ecc.
La lettura può, inoltre, essere di tipo sincronico, se è incentrata sulle variabili di un fenomeno o di un
sistema territoriale in un istante prefissato, oppure diacronico se è finalizzata a cogliere l’evoluzione delle
variabili considerate nel tempo.
La misura
Il termine misura definisce «il valore numerico attribuito a una grandezza, ottenuto ed espresso come
rapporto tra la grandezza data e un’altra della stessa specie assunta come unità e determinato con
opportuni metodi o strumenti di misurazione»1. La misurazione definisce «l’operazione del misurare,
consistente nel confrontate una determinata grandezza fisica con la sua unità di misura, allo scopo di
determinare il valore (o misura) della grandezza stessa (…)».
Nella fase di conoscenza, la misura è finalizzata a individuare i dati e le informazioni utili allo scopo
dell’indagine, in relazione alle variabili individuate durante la precedente attività di lettura. Particolare
rilievo assume la misura, di tipo qualitativo e quantitativo, finalizzata alla determinazione della domanda e
dell’offerta di spazi e attività poste alla base dei piani urbanistici.
I dati devono possedere coerenza e comparabilità, per essere facilmente utilizzabili e confrontabili. Essi
inoltre devono essere omogenei, ovvero devono avere la stessa fonte di provenienza, modalità di raccolta,
numerosità, periodo di raccolta, ecc. Infine, i dati devono essere facilmente aggiornabili ed accessibili e
devono presentare la trasparenza sulle modalità di raccolta. Molto utili risultano i dati di tipo disaggregato,
difficili però da reperire, per poter elaborare successivamente quelli aggregati utili alle finalità delle analisi
condotte. I dati possono essere, quindi, divisi in qualitativi e quantitativi. Ad esempio se consideriamo
come unità di base l’edificio i dati qualitativi possono essere riferiti al suo stato di conservazione (buono,
sufficiente, ecc.), quelli quantitativi possono essere continui se assumono un qualsiasi valore reale
(superficie, volume, ecc.), discreti se possono assumere solo valori interi (numero di piani, di alloggi, ecc.).
Raccolti i dati, questi possono essere misurati attraverso parametri, indici e indicatori. I parametri sono
costituiti da una misura unica (ad esempio la lunghezza o la quantità di popolazione), l’indice è un
rapporto tra valori numerici di due grandezze, spesso espresso in termini percentuali (Borri 1985) (ad
1
Definizioni tratte da Il vocabolario Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1997.
81
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
esempio la percentuale di maschi sul totale della popolazione residente), gli indicatori si costruiscono
mettendo in relazione più parametri. In generale però il termine indicatore è anche impiegato per
designare la misura, qualitativa o quantitativa, di un dato o di un fenomeno territoriale, rilevata
analiticamente ed empiricamente, utile nei processi di pianificazione (Borri 1985). L’indicatore, quindi,
attraverso l’elaborazione di più grandezze può mettere in relazione tra loro due o più sottosistemi
appartenenti allo stesso sistema. Una volta raccolti i dati e le informazioni ricavate attraverso la misura è
necessario rappresentarli coerentemente ed in modo efficiente, al fine di comunicare i risultati ottenuti e
porre delle basi adeguate per la fase dell’interpretazione.
L’interpretazione
L’interpretazione permette di estrarre un significato dai dati raccolti attraverso l’osservazione condotta
nella prima fase di lettura.
Nella fase dell’interpretazione l’osservatore elabora, una traduzione personale del fenomeno, attraverso
l’analisi dei dati e delle informazioni emersi dalle due fasi precedenti.
L’interpretazione è una fase delicata della conoscenza, in quanto è una costruzione mediata della realtà,
effettuata sulla base delle conoscenze dell’osservatore, dell’esperienza, del livello culturale, etc. Essendo,
quindi, un’operazione suscettibile di influenze soggettive dell’osservatore, è necessario fare riferimento a
tecniche scientifiche che consentano di verificare l’attendibilità e l’accuratezza dell’interpretazione proposta
del fenomeno indagato. A tale scopo si utilizzano tecniche statistiche capaci di supportare l’analisi di un
numero anche notevole di dati, permettendo di ottenere indicazioni sulla correttezza dell’interpretazione.
Le tecniche statistiche impiegate nella fase dell’interpretazione dei dati ricavati nella fase della lettura e
della misura, sono sia procedure di statistica univariata, che procedure di statistica multivariata. Mentre
con le prime è possibile effettuare confronti ed ordinamenti di elementi di una stessa classe rispetto a
singole caratteristiche (ad esempio la media o la deviazione standard), con quelle multivariate è possibile
confrontare elementi aventi caratteristiche differenti ed appartenenti a diverse classi.
Le tecniche multivariate rappresentano una famiglia di strumenti statistici molto utili per la conoscenza
delle relazioni esistenti all’interno di un sistema territoriale. Solo tecniche che utilizzano dati corrispondenti
a più variabili contemporaneamente consentono di poter individuare le potenziali relazioni tra tali elementi
al fine di comprendere quale sia la struttura ed il funzionamento del sistema territoriale indagato. Queste
tecniche analizzano contemporaneamente molti dati qualitativi e quantitativi (dati di input) e restituiscono
un numero ridotto di variabili significative (dati di output). Il loro limite si ritrova proprio nella restituzione
di un numero di variabili minori rispetto a quello dei dati considerati, il che comporta la necessità
d’individuare tra le variabili emerse dai dati quelle che consentono una interpretazione affidabile del
funzionamento del sistema.
La modellizzazione
Un modello è uno schema teorico che descrive un fenomeno o un insieme di fenomeni mettendone in
evidenza le caratteristiche strutturali più rilevanti. Per definire un modello è necessario estrapolare dalla
realtà e dal fenomeno che si vuole modellizzare i tratti e le caratteristiche che ne spiegano il
comportamento e il funzionamento in riferimento ad uno specifico obiettivo di conoscenza (nel nostro caso
il governo delle trasformazioni territoriali). La fase di modellizzazione è, quindi, finalizzata a costruire uno
schema di riferimento, una rappresentazione astratta e semplificata della realtà, che descrive un fenomeno
o evidenzia le caratteristiche principali ed essenziali di un sistema territoriale (Borri 1985).
I modelli che si applicano allo studio del territorio e della città tendono, quindi, a spiegarne
l’organizzazione ed il comportamento partendo dalle caratteristiche strutturali del sistema territoriale
(popolazione, servizi, flussi, ecc.). In ogni modo, la finalità dell’applicazione dei modelli nel campo della
pianificazione territoriale può essere ricondotto a due principali motivazioni: descrivere e spiegare il
comportamento dei modelli territoriali, prevedere l’evoluzione dei sistemi urbani e territoriali per
governarne l’evoluzione (Lee 1974).
7.2.
Lettura e misura: fonti, scale e unità spaziali di riferimento
Caratteristiche e classificazione delle fonti
Le fonti dell’analisi urbana e territoriale sono costituite dalle raccolte di dati utili per strutturare processi di
conoscenza relativi a fenomeni territoriali.
82
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Le fonti della conoscenza possono essere articolate in base al tipo di documento in cui è racchiusa
l’informazione, distinguendo le fonti iconografiche, fotografiche, cartografiche, e alle modalità di raccolta di
tali documenti, distinguendo le fonti archivistiche, bibliografiche, banche dati e statistiche.
Tali classificazioni non sono esclusive, potendo una fonte essere allo stesso tempo, ad esempio,
iconografica e archivistica.
Le fonti iconografiche e fotografiche
Le fonti iconografiche comprendono tutti quei documenti storici (quadri, stampe, disegni, ecc.) che
forniscono la descrizione di una città o di un territorio attraverso immagini. Tali fonti sono di grande
importanza poiché spesso costituiscono l’unica fonte informativa per ricostruire un ambiente urbano
storico o i caratteri di un territorio attraverso il tempo, come ad esempio per la ricostruzione dei paesaggi
agrari (Natali 1998).
Le fonti fotografiche possono essere articolate in storiche ed attuali; prospettiche da terra ed aeree.
Queste ultime sono trattate a parte e messe in diretta relazione con le fonti cartografiche. Le fonti
fotografiche storiche sono di notevole interesse soprattutto per ricostruire lo stato dei luoghi in un
determinata data oppure l’evoluzione di un territorio e dei centri urbani dalla metà dell’Ottocento in avanti.
Generalmente, le foto storiche sono reperibili presso archivi, sia pubblici che privati, e su pubblicazioni
tematiche. In dettaglio, le fotografie storiche sono utili per (Natali 1998):

effettuare una ricostruzione storica dell’evoluzione degli insediamenti anche nel rapporto con l’ambiente
circostante, con particolare attenzione all’evolu-zione dei tessuti edilizi e degli spazi aperti;

effettuare una ricostruzione dell’evoluzione del territorio rurale in relazione ad alcuni temi di interesse,
ad esempio l’uso del suolo o le trasformazioni della morfologia del territorio anche in relazione ad eventi
naturali.
Le foto aeree e le cartografie
La fotografia aerea costituisce una fonte diretta importantissima per la lettura dei sistemi territoriali,
poiché registra l’assetto fisico anche di territori difficilmente accessibili, nell’istante dello scatto fotografico.
La foto aerea può essere obliqua o nadirale. La foto nadirale2 è scattata verso il centro della terra e può
essere considerata ortogonale al territorio se ipotizziamo un volo perfetto su una superficie terrestre piana.
La foto nadirale è eseguita, in genere, nel formato quadrato, in bianco e nero o colore, con stampa a
contatto al fine di garantire un’elevata qualità dell’immagine. Ogni fotogramma è individuato mediante dati
identificativi (committente, strisciata e numero progressivo di scatto, data e ora dello scatto).
Dalle fotografie aeree, soprattutto nadirali, si realizzano le ortofotocarte e le aerofotogrammetrie.
Le ortofotocarte sono riprodotte nelle stesse scale delle cartografie e con gli stessi sistemi di riferimento.
In molti casi le ortofoto sono utilizzate come strumento con cui costruire forme di rappresentazione e di
trasmissione della conoscenza, ma il loro uso è connesso alla possibilità del loro trattamento grafico che è
comunque difficile.
La cartografia è uno strumento fondamentale per l’analisi del territorio, essendo contemporaneamente una
banca dati, cartacea o digitale, delle caratteristiche fisiche e morfologiche del territorio, un supporto per
l’elaborazione di analisi disciplinari ed interdisciplinari, un supporto per la rappresentazione delle analisi
condotte e dei risultati ottenuti. Le cartografie sono state costruite in tutte le epoche per rappresentare e
descrivere il territorio e costituiscono lo specchio delle conoscenze e degli strumenti tecnici dell’epoca in
cui sono state redatte (Natali 1998).
Oggi, le cartografie disponibili su tutto il territorio nazionale sono quelle dell’Istituto Geografico Militare
(IGM) e quella catastale. Mentre la prima comprende una serie di informazioni rappresentate con una
uguale importanza, la seconda è tematica, ossia mette in evidenzia solo un aspetto legato al territorio (in
particolare, la proprietà). Dal 1875 l’IGM inizia la costruzione, mediante triangolazioni da terra, della
cartografia del nuovo stato italiano unitario, terminata nel 1900. La carta è eseguita nelle scale 1:25.000
(3356 tavolette) e 1:50.000 e 1:100.000. Essa costituisce una fonte storica importantissima poiché grazie
ai suoi periodici aggiornamenti è possibile leggere l’evoluzione del territorio italiano (Fig. 1).
Il catasto è l’inventario generale di tutti i beni immobili esistenti nel territorio dello Stato, redatto allo scopo
di tassare il reddito prodotto da terreni e fabbricati, consentendo anche di monitorare l’uso del suolo
agricolo classificando le colture in base al diverso reddito prodotto.
2
Il nadir è il punto all’infinito verso il centro della terra, opposto allo zenit.
83
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 1 – Stralcio IGM (25.000) dell’area urbana di Napoli (fonte: www.sito.regione.campania.it/)
Pertanto, il catasto ci fornisce sia informazioni geometriche che descrittive sul territorio. Il nuovo Catasto
Terreni Italiano, istituito nel 1861 e completato nel 1956, è di tipo geometrico e non probatorio. In
particolare il catasto contiene la mappa particellare comunale che registra gli edifici, le strade, le servitù, i
fiumi, i laghi, i luoghi di culto, le proprietà pubbliche e gli schedari delle particelle e quello delle partite
(tutti i beni appartenenti ad un unico possessore), permettendo quindi di ricostruire le variazioni occorse
nel tempo della proprietà e reddito. La carta catastale è organizzata per comune a cui è riferito un quadro
dei fogli di mappa, sui fogli di mappa sono individuate le particelle, entità minima rappresentata e punto di
contatto con i documenti scritti. Il Nuovo Catasto Edilizio Urbano, istituito nel 1939, prende in
considerazione invece ogni unità edilizia immobiliare o parte di essa appartenente ad un proprietario. Il
catasto determina la effettiva consistenza delle unità immobiliari ai fini della determinazione della rendita
catastale e quindi della relativa tassa. Esso ci da informazioni relative al tipo di abitazione alla qualità alle
rifiniture alle trasformazioni subite, classificazione delle unità immobiliari in classi catastali, ecc.
Al contrario della foto aerea, la cartografia è una rappresentazione mediata della realtà in quanto eseguita
attraverso segni e simboli che consentono di selezionare alcune informazioni in maniera finalizzata. Tale
operazione richiede però la semplificazione del territorio in relazione alla scala di rappresentazione. La
scala di rappresentazione della cartografia è il rapporto di riduzione lineare tra la rappresentazione
cartografica e la realtà. È espressa in unità di misura sulla carta rispetto alla corrispondente misura reale
e/o graficamente. Le carte si possono suddividere, in funzione della loro scala, in:

carte a grande scala (1:500, 1:1.000, 1:2.000);

carte a media scala (1:10.000, 1:5.000);

carte a piccola scala (1:25.000, 1:50.000, 1:100.000, 1:200.000).
Rispetto alla modalità di produzione, le cartografie possono essere distinte in carte eseguite con rilievo da
terra e aerofotogrammetriche. Il rilievo da terra
Per lungo tempo tutte le cartografie erano eseguite con tale metodo che oggi è impiegato soltanto per
scopi particolari, come ad esempio per la cartografia catastale.
Le aerofotogrammetrie sono le cartografie più diffuse e si ottengono mediante la fotogrammetria di una
serie continua e ordinata di strisciate di foto aeree del territorio. Ogni punto del territorio è contenuto in
almeno due foto e, pertanto, due foto consecutive hanno una parte di sovrapposizione.
Conoscendo l’altitudine di volo e la distanza percorsa tra i due scatti è possibile determinare l’altezza dei
diversi punti e costruire le linee di quota da rappresentare. La definizione della cartografia dipende
dall’altezza del volo e dalla scala di restituzione.
Rispetto alle modalità di archiviazione e restituzione delle informazioni è possibile distinguere la
rappresentazione cartografica tradizionale e quella numerica o digitale. La prima consiste nella
rappresentazione del territorio mediante un disegno su un supporto cartaceo; la seconda, invece, consiste
in un insieme di dati numerici e alfanumerici memorizzati, con un’opportuna struttura, su supporti
elaborabili dal calcolatori che conferiscono una totale univocità al contenuto metrico della cartografia.
Esistono due formati di cartografie digitali, quello raster e quello vettoriale. Nel formato raster, l’immagine
è discretizzata mediante una griglia di punti (pixel) di cui è individuata la posizione e a cui si assegna una
serie di caratteristiche (luminosità, colore, gamma, contrasto, ecc.) definite attraverso un set numerico.
84
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Tali tipi di file hanno un problema di uso pratico legato alla quantità di memoria occupata per le
elaborazioni anche con risoluzioni medie.
Le cartografie generalmente utilizzate in urbanistica sono quelle vettoriali, in cui gli enti geometrici sono
rappresentati attraverso punti, di cui vengono individuate le coordinate, e i loro segmenti di congiunzione,
definiti vettori. Per il minor numero di informazioni da archiviare tali cartografie risultano occupare meno
memoria. La costruzione del formato vettoriale di una cartografia tradizionale avviene mediante la
vettorializzazione, utilizzando scale appropriate di digitalizzazione e di restituzione, al fine di aumentare
l’accuratezza e far rientrare eventuali errori nella tolleranza della cartografia.
In alternativa, la vettorializzazione è effettuata su una scansione della cartografia tradizionale, la quale
viene successivamente vettorializzata attraverso dei software. La cartografia numerica costituisce
l’immagine speculare della cartografia tradizionale e quindi, nonostante la diversità di aspetto formale, ne
mantiene i requisiti e i contenuti.
Le fonti archivistiche, bibliografiche e le banche dati
Le fonti archivistiche sono costituite da tutti i documenti raccolti in varie tipologie di archivi. Esse
rappresentano le fonti storiche per eccellenza, poiché descrivono, attraverso documenti di vario tipo,
l’evento come si è verificato e, pertanto, costituiscono la base della ricerca scientifica in campo storico
(Natali 1998).
Esistono diversi tipi di archivi di interesse per la disciplina urbanistica:

Archivio di Stato, presente in tutti i capoluoghi di provincia e contenente tutti i documenti prodotti a
vario titolo da Enti pubblici o di proprietà pubblica;

archivi parrocchiali e diocesani, contenenti i documenti della funzione amministrativa che in passato la
chiesa svolgeva;

archivi di enti territoriali amministrativi o di settore (IGM, enti locali, ecc.);

archivi di fondazioni e privati;

i musei storici e storico-topografici.
Ad eccezione per la semplice pubblicazione di iconografie e documenti di archivio, le fonti bibliografiche
costituiscono estremamente mediate poiché sono il prodotto di studi e ricerche di un autore.
Le banche dati sono raccolte sistematiche di dati e informazioni tematiche estese ad ambiti territoriali
determinati e finalizzate ad uno specifico uso (Carbonara 1992) e costituiscono, quindi, uno strumento
importantissimo per l’analisi e la gestione continua dei processi di governo dei sistemi urbani (Borri 1985).
Esse possono essere cartacee e, più di frequente, digitali e sono organizzate in record suddivisi in campi.
Nelle banche dati:

tutti i record sono omogenei nelle informazioni contenute;

le informazioni sono raccolte in maniera organica e secondo una determinata metodologia scientifica e
raggruppate secondo una logica che ne permetta il confronto anche su base territoriale;

eventuali errori possono essere corretti e possono essere effettuati periodici aggiornamenti.
Per le analisi territoriali sono di notevole interesse le banche dati che impiegano metodologie di tipo
statistico per la rilevazione ed il trattamento dei dati. La principale banca dati statistica è l’Istat, ma di
grande importanza sono anche i servizi anagrafici dei comuni, i dipartimenti di elaborazione dati e statistici
regionali e di altri enti territoriali, le associazioni di categoria, le società di servizi come ENEL e del gas,
della metropolitane, ecc..
L’Istat è l’istituto specificamente preposto alla rilevazione di dati statistici al loro trattamento al fine di
evidenziare e comprendere le trasformazioni sociali in atto nel territorio italiano. Esso è dunque un
“osservatorio” del sistema antropico italiano che effettua un continuo monitoraggio. Ogni dieci anni l’Istat
effettua i censimenti: Censimento Generale della Popolazione; Censimento Generale dell’Industria, del
Commercio, dei Servizi e dell’Artigianato; Censimento Generale dell’Agricoltura.
In riferimento alla popolazione dal 1861 al 2001 sono stati eseguiti 14 censimenti. Gli altri censimenti sono
in numero inferiore essendo partiti dagli anni Cinquanta e Sessanta. Gli Enti Locali e Territoriali effettuano
rilevazioni più settoriali e mirate ai loro specifici compiti di amministrazione e di pianificazione del territorio
(anagrafe, servizi elettorali, ecc).
Le indagini sul campo e le campionature
Nelle analisi territoriali si ricorre spesso al rilievo sul campo al fine di ottenere dati aggiornati, ottenere un
maggiore grado di dettaglio dei dati rispetto a quello fornito da altre fonti, raccogliere dati altrimenti non
reperibili (Carbonara 1992). I dati rilevati mediante sopralluoghi a vista oppure interviste vengono annotati
in schede di rilievo localizzate su una cartografia. Prima di operare sul campo è necessario pianificare il
85
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
lavoro dei rilevatori cercando di ottimizzarlo e di omogeneizzarlo. In genere, dopo aver identificato l’area
oggetto di rilievo su una cartografia in scala adeguata, si suddivide tale area in zone di rilievo. Tale
suddivisione deve tener conto dei caratteri di omogeneità presenti, del tempo necessario per effettuare il
rilievo, della forza lavoro disponibile, del sistema di raccolta e archiviazione delle informazioni. Inoltre, è
opportuno riferirsi ad unità territoriali già analizzate in passato o a quelle usate per altre rilevazioni, come
ad esempio le sezioni censuarie, per poter relazionare più facilmente le informazioni raccolte a quelle già in
nostro possesso o facilmente reperibili. A questo punto occorre definire quali dati devono essere rilevati,
cercando di restringere il rilievo a quelli realmente utili allo scopo dell’analisi. A ciascun dato da rilevare è
utile associare un codice alfanumerico per renderlo facilmente identificabile sia in fase di rilievo che di
immissione nel data-base. La definizione della scheda del rilevatore e delle modalità di registrazione delle
informazioni è un aspetto che richiede grande attenzione. Essa va progettata minimizzando le difficoltà del
rilevatore nel riportare i dati e massimizzando la facilità di lettura e di trasferimento dei dati in opportuni
data-base. I dati raccolti nel rilievo possono essere annotati direttamente su una mappa nel luogo in cui
sono rilevati nel caso di pochi dati semplici, oppure possono essere raccolti tramite schede riferite alla
mappa nel caso di molti dati articolati da raccogliere. Tali schede possono anche essere informatizzate e
compilate sul posto dai rilevatori con palmari per immettere in maniera automatica i dati nel data-base. I
dati raccolti vanno comunque controllati dopo aver effettuato il sopralluogo.
Il sopralluogo può essere integrato da interviste alla popolazione presente nel luogo in cui si effettua il
sopralluogo che consentono di acquisire informazioni aggiuntive sullo stato di manutenzione, le attività
svolte, gli impianti presenti, ecc.
Un’operazione delicata nel sopralluogo sul campo è la definizione delle unità di misura qualitative che i
rilevatori devono usare, come nel caso del degrado strutturale degli edifici e, soprattutto, nella valutazione
dello stato manutentivo del patrimonio edilizio. In questo caso è opportuno riferirsi ad una lista di
caratteristiche dell’edificio che determinano diversi stati di manutenzione espressi mediante giudizi
qualitativi (medio, buono, ecc.), definendo però chiaramente il meccanismo di valutazione da impiegare
per evitare giudizi non omogenei.
Nel caso di ambiti territoriali di analisi estesi in cui siano presenti molti elementi da analizzare sul campo,
può essere opportuno circoscrivere, almeno in un primo momento, l’indagine su una parte degli elementi
del sistema analizzato, ovvero su un campione opportunamente selezionato. Un campione è un’entità
opportunamente selezionata, attraverso tecniche statistiche, per rappresentare con essa un insieme più
ampio di entità esprimenti la realtà di un processo o di un fenomeno. Le tecniche di campionatura, a
fronte della riduzione dei tempi della rilevazione, dall’altro necessitano di una corretta applicazione, al fine
di ottenere un campione statistico significativo. Il principio di base di queste tecniche è che se un sistema
possiede specifiche caratteristiche, anche un campione estratto deve possedere tali caratteristiche purché
il metodo per l’estrazione di tali elementi sia definito in modo appropriato. A tal fine non basta solo che il
campione sia formato da un numero di elementi adeguato, ma è anche necessario che il campione estratto
sia scelto in relazione ad una classificazione delle caratteristiche generali di tutti gli elementi del sistema, o
in altre parole che tutti gli elementi del sistema abbiano la stessa probabilità di appartenere al campione
selezionato. Ad esempio, per la scelta di un campione riferito alla popolazione residente, bisogna compiere
un’indagine pilota caratterizzando la popolazione attraverso tutte le informazioni già disponibili.
Successivamente, è possibile estrarre il campione mediante campionamento semplice, ovvero casuale da
tutta la popolazione, o stratificato, ovvero estratto da una parte specifica della popolazione. In questo caso
si dovrà articolare la popolazione in classi e il campione sarà formato da individui appartenenti in
proporzione alle classi determinate. Le classi (o strati) possono essere definite in base a una o più
caratteristiche (età, sesso, sto civile, ecc) significative per l’indagine da svolgere. Inoltre, occorre definire il
grado di esattezza che si vuole ottenere, poiché sussiste una relazione tra ampiezza del campione e
affidabilità dell’indagine, ma più il campione è grande più aumentano i costi ed i tempi per l’analisi. Nel
caso di ambiti territoriali complessi è utile il campionamento stratificato, per ambiti caratterizzati da
maggiore semplicità è utile quello semplice o stratificato sulla base di classi elementari.
In alcuni casi, dati e informazioni possono essere recuperate mediante questionari, soprattutto per
acquisire informazioni su abitudini e comportamenti degli attori per integrare i dati statistici già disponibili
(Carbonara 1992). Le domande, che devono essere formulate in modo da non far trasparire l’argomento
dell’indagine per non orientare le risposte dell’intervistato, sono di due tipi: aperta, se l’intervi-stato
risponde liberamente, o chiusa, se la risposta è data scegliendo delle alternative. Le domande primarie
costituiscono l’ossatura del questionario e operano su questioni di base, quelle derivate forniscono dettagli
sugli argomenti di base. È utile spostare alla fine del questionario le domande che possono generare
diffidenza o trattano argomenti personali, come ad esempio la disponibilità a pagare e a condurre
un’indagine di prova prima di effettuare il rilievo. Infine, è necessario un sistema di codifica delle risposte
in segni o simboli, per agevolare la fase di classificazione delle risposte e di visualizzazione dei risultati
86
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
ottenuti. L’immissione dei dati in data-base digitali assume particolare rilevanza perché trasporta il dato in
un formato utile all’archiviazione e al suo trattamento.
Le unità spaziali di riferimento
La misura delle caratteristiche dei sistemi urbani e territoriali, è in genere effettuata sovrapponendo al
territorio considerato delle griglie formate da unità spaziali di riferimento su cui applicare i parametri e gli
indicatori considerati nel corso dell’indagine effettuata. Tali griglie spaziali, ovviamente, variano per tipo e
dimensione in ragione sia della scala di analisi, sia del tipo di analisi svolta. Le unità spaziali di riferimento
devono essere coerenti con i dati necessari alla misura da effettuare e di dimensione appropriata.
In genere, è utile associare il criterio delle partizioni amministrative e censuarie del territorio a criteri
inerenti la morfologia del territorio, l’uso del suolo, l’omogeneità tipologica dei tessuti urbani, i diversi usi
del suolo per determinare unità spaziali significative per l’indagine da svolgere e a cui possono essere
associate facilmente i dati statistici che spesso costituiscono i dati principali delle indagini territoriali.
Dovendo svolgere analisi a diverse scale, è opportuno definire griglie spaziali scalari che ad esempio
supportino l’analisi da svolgere dalla scala di dettaglio (ad esempio le sezioni censuarie), alla scala urbana
(ad esempio i quartieri o le aggregazioni di censuarie) e territoriale (ad esempio i comuni), mantenendo
una coerenza e una sovrapponibilità delle indagini svolte.
7.3.
La lettura e la misura dei sottosistemi urbani
Il sottosistema socio-antropico
I dati per la lettura del sottosistema socio-antropico possono essere ottenuti o mediante inchieste e
sondaggi o mediante le banche dati di enti che trattano tali informazioni per le loro attività. Il Censimento
della Popolazione, effettuato ogni 10 anni dall’Istituto nazionale di statistica (Istat), è la fonte principale
per la lettura del sistema socio-antropico. Il reperimento dei dati avviene articolando il territorio nelle unità
amministrative regioni, province e comuni e dividendo il territorio comunale in sezioni di censimento o
censuarie che costituiscono l’unità in cui vengono raccolti ed aggregati i dati raccolti dai rilevatori con le
schede di censimento.
L'Istat mette a disposizione degli utenti i dati geografici delle diverse unità amministrative (dai confini
regionali alle singole sezioni di censimento, in formato shapefile utilizzabile in ambiente GIS) e le relative
variabili associate che possono essere dati sia qualitativi che quantitativi (Fig 2). Attraverso i dati qualitativi
si analizza l’età della popolazione, lo stato civile, il grado di istruzione, l’assetto occupazionale, l’ampiezza
delle famiglie. I dati quantitativi permettono di misurare la distribuzione della popolazione su di un
territorio.
Fig. 2 – Alcune variabili Istat associate alle sezioni censuarie
Il parametro di misura principale è, ovviamente, il numero di abitanti, spesso però si utilizza la densità
abitativa o residenziale, ovvero il rapporto tra il numero di abitanti e la superficie della sezione censuaria o
dell’area comunale considerata.
La popolazione censita è quella che viene registrata all’atto del censimento in un territorio. La popolazione
residente è la somma degli individui che hanno residenza in un dato territorio, presenti all’atto del
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
censimento o assenti per periodo transitorio. La popolazione presente, detta a volte reale, conta invece
tutti i residenti e i non residenti presenti in un dato territorio. Tale differenza risulta significativa in realtà
territoriali caratterizzate da forti fenomeni migratori o dove in alcuni periodi dell’anno risulta rilevante
l’apporto delle presenze turistiche o, ancora, dove la presenza di attrezzature determina la rilevante
presenza di utenti.
La struttura della popolazione si riferisce alla composizione della popolazione di un dato territorio per
sesso, età, stato civile. La dinamica della popolazione può essere descritta attraverso la variazione nel
tempo del movimento totale o saldo sociale, somma algebrica del movimento naturale, o saldo naturale,
(nati e morti) e del movimento migratorio (immigrati ed emigrati), o saldo migratorio. I dati sul movimento
della popolazione sono anche disponibili annualmente presso gli uffici dell’anagrafe comunale. Il
movimento della popolazione è influenzato da fattori sia interni alla struttura sociale, economica e
produttiva del sistema analizzato, sia da fattori esterni che determinano immigrazioni all’interno del
sistema, pertanto esso va letto in relazione ad altri parametri di tipo socio-economico perché ha importanti
ripercussioni sull’uso del suolo sulla domanda di abitazioni e servizi, sul degrado del territorio, ecc. Data la
popolazione in un dato tempo iniziale P0, la popolazione Pt al tempo t può essere espressa come:
Pt = P0 + [N(0-t) – M(0-t)] + [I(0-t) – E(0-t)]
La prima differenza relativa ai nati (N) e ai morti (M) costituisce il saldo naturale, mentre la seconda,
relativa a emigrati (E) ed immigrati (I) costituisce il saldo migratorio. Il movimento naturale della
popolazione può essere espresso mediante alcuni indicatori:

indice di natalità, o di mortalità: è il rapporto tra il numero dei nati, o dei deceduti, in un determinato
arco temporale e il numero di abitanti nello stesso periodo per 1000 ed esprime il numero dei nati, o dei
morti, ogni mille abitanti nel periodo considerato;

indice di fertilità: è il rapporto tra i nati in un determinato periodo di tempo e il numero delle donne
statisticamente fertili nello stesso periodo per mille e rappresenta, nell’arco temporale considerato, il
numero dei nati ogni mille donne statisticamente feconde, ovvero di età compresa tra i 15 ed i 44 anni;

tasso di incremento naturale, o di natalità, della popolazione: è dato dal rapporto in percentuale o per
migliaia tra numero dei nati in un periodo di tempo, di solito un anno, e popolazione media dell’arco
temporale. Esso è analogo al tasso di mortalità e a quello di incremento migratorio. I tassi possono
anche essere applicati al valore della popolazione iniziale del periodo.
L’età della popolazione è fondamentale per leggere la struttura della popolazione di un sistema territoriale.
L’Istat fornisce 16 classi di età quinquennali, individuando la popolazione al di sotto dei 5 anni e poi classi
di 5 anni fino 75 anni, o per aggregazioni particolari (per esempio l’età scolastica).
La distribuzione per sesso e per classi di età della popolazione di un dato territorio è rappresentata
attraverso grafici di forma approssimativamente piramidale (Fig. 3). Le piramidi dell’età sono in genere
realizzate mediante due istogrammi realizzati in maniera simmetrica rispetto all’asse verticale che riporta le
classi di età della popolazione. L’asse orizzontale riporta, invece, l’ammontare della popolazione espressa
in numero medio annuale o in percentuale sulla popolazione totale, una volta nel senso crescente verso
destra, quadrante della popolazione femminile, e una volta in senso opposto, quadrante della popolazione
maschile. La piramide a seconda dello scopo può essere costruita per classi quinquennali o particolari
aggregazioni ed essere riferita a particolari sottoinsiemi della popolazione maschile e femminile (stato
civile, titolo di studio, condizione lavorativa, ecc.).
La piramide dell’età consente di valutare l’apporto delle diverse generazioni maschili e femminili alla
dimensione demografica complessiva della popolazione di un territorio. Dalla forma della piramide si può
leggere in maniera sincronica la struttura della popolazione e individuare le sue caratteristiche generali o
eventuali anomalie. La piramide di un sistema caratterizzato da elevata mortalità infantile si presenta, ad
esempio, con una base larga che si restringe prima molto velocemente e poi meno velocemente. L’elevata
mortalità generale presenta la tipica forma piramidale. La ridotta mortalità con nascite costanti determina
una forma tendente al rettangolo, la ridotta mortalità con nascite in calo tende invece alla forma
trapezoidale con la base inferiore più corta. Le singolarità simili a incisioni indicano improvvisi e brevi cali
di natalità dovuti alle guerre o altri eventi particolari, immigrazioni o emigrazioni in età lavorativa, e
possono, a seconda del fenomeno che le ha generate, essere simmetriche per uomini e donne e
interessare più fasce di età contigue.
Pur presentando caratteristiche costanti, come ad esempio la presenza maggiore delle donne nelle classi
di età più elevate per la loro aspettativa di vita più alta, le piramidi si presentano come combinazioni più o
meno articolate di forme tipiche. Tra queste, l’arnia indica un numero della popolazione pressoché
invariato e ogni nuova generazione è simile alla precedente, solo quelle più vecchie diminuiscono
costantemente.
88
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 3 − Piramidi dell’età
I tassi di natalità e di mortalità sono bassi e i fenomeni migratori non sono rilevanti in quanto si
armonizzano in tutte le fasce di età e di sesso. L’urna indica una popolazione in diminuzione. I tassi di
natalità e di mortalità sono bassi, in particolare questi ultimi sono in ulteriore regresso e l’aspettativa di
vita è alta. Nella forma a goccia si legge una diminuzione repentina della popolazione, con tassi di natalità
e mortalità molto bassi, il che può essere accompagnato da forti tendenze migratorie della popolazione
giovanile. In altri casi, nei territori con forte immigrazione, finché le immigrazioni compensano i decessi la
popolazione rimane stabile nonostante il decremento naturale. In alcuni casi la piramide dell’età si
presenta con una forma irregolare, detta anche conifera, che può caratterizzare piccole popolazioni, o, nel
caso di popolazioni più grandi, essere causa di un evento di tipo traumatico, o, ancora, essere causata di
errori statistici o di costruzione.
Una serie di indicatori possono essere impiegati per analizzare in dettaglio le caratteristiche di età della
popolazione. Tra questi i più impiegati sono:

l’indice di vecchiaia: è il rapporto percentuale tra popolazione al di sopra dei 65 anni e giovani sotto i 15
anni;

l’indice di dipendenza: è il rapporto percentuale tra la somma del numero di anziani oltre 65 e dei
giovani al di sotto dei 15 anni e il numero di popolazione in età lavorativa;

l’indice di ricambio della popolazione attiva: è il rapporto percentuale tra la popolazione in procinto di
uscire dall’attività lavorative e numero di quelli che entrano;

l’indice di mascolinità: è il rapporto percentuale tra maschi e femmine.
L’Istat fornisce dati anche in relazione alla struttura delle famiglie, determinante per conoscere le
caratteristiche della domanda di alloggi: il numero di celibi/nubili, sposati, separati, vedovi, divorziati.
Fornisce, inoltre, il numero di famiglie ed articola le famiglie per numero di componenti (da 1 a 6 e oltre).
Nel tempo, la famiglia ha subito una forte mutazione riferita soprattutto al numero medio dei componenti
e un aumento del numero delle famiglie a parità di popolazione con un incremento anche delle famiglie di
un solo componente. Tali mutamenti incidono nella tipologia di alloggi da fornire alla popolazione e cioè
determinano diverse caratteristiche della domanda di alloggi. Si tratta in sostanza di cambiamenti sociali
rilevanti avvenuti dal Dopoguerra ad oggi.
Un altro set importante di dati è relativo all’occupazione. I dati Istat definiscono la forza lavoro totale che è
composta da occupati3, disoccupati e in cerca di occupazione; la popolazione attiva, ovvero lavoratori,
disoccupati, temporaneamente impediti a svolgere attività lavorativa (militari, detenuti, ecc.), in cerca di
prima occupazione; i non appartenenti alla forza lavoro (casalinghi, studenti, ritirati dal lavoro, altra
condizione). I dati relativi all’occupazione possono essere indagati attraverso tre indicatori principali:

tasso di attività: è il rapporto percentuale tra la popolazione oltre 15 anni appartenente alla forza lavoro
e quella totale della stessa classe di età;
3
Gli occupati comprendono le persone di 15 anni e più hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuito, hanno svolto
almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente, sono assenti dal
lavoro (ad esempio, per ferie o malattia).
89
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi

tasso di disoccupazione: è il rapporto percentuale tra popolazione con più di 15 anni in cerca di

tasso di disoccupazione giovanile: è il rapporto percentuale tra i giovani di età compresa tra 15 e 24
occupazione e il totale della forza lavoro della stessa classe di età;
anni in cerca di occupazione e la forza lavoro della stessa classe di età.
Una corretta analisi dell’occupazione deve relazionare tali indicatori con i dati relativi alla struttura delle
attività economiche e produttive, ovvero imprese, unità locali e addetti, forniti dal Censimento
dell’Industria e dei Servizi.
Un ultimo gruppo di dati è quello relativo al grado di istruzione. L’Istat definisce sei classi in riferimento al
titolo di studio posseduto, in cui il livello più basso è quello dell’analfabeta.
Il sottosistema fisico
Le indagini sul sottosistema fisico sono eterogenee e molteplici e anche all’interno dello stesso tipo di
indagine possono assumere connotati ed articolazioni assai diverse, variando di scala o dovendo essere
applicate a insediamenti dalle differenti caratteristiche. È, comunque, possibile distinguere due gruppi
principali di indagini, quelle quantitative e quelle tipologiche, da articolare in riferimento a tre scale: quella
territoriale, considerando gli insediamenti localizzati nel territorio, quella urbana considerando i tessuti che
formano le città nel loro complesso, quella di dettaglio focalizzando l’attenzione in specifiche partizioni
urbane sui manufatti edilizi e in particolare gli edifici residenziali e sulle unità abitative. In questa
articolazione di scale spaziali, le aree edificate che strutturano gli insediamenti presenti su un territorio
sono formati dall’aggregazione dei tessuti edificati o urbani che, a loro volta, sono determinati
dall’aggregazione dei manufatti edilizi, strade, spazi aperti, mentre, infine, gli edifici residenziali sono
costituiti dagli alloggi e dalle parti comuni.
Le indagini di tipo quantitativo tendono a classificare alle diverse scale gli insediamenti, i tessuti ed i
manufatti edilizi in relazione alla loro diversa consistenza in termini di superfici urbanizzate o di densità
edilizia, sulla base dei diversi parametri ed indicatori edilizi ed urbanistici.
A tale scopo vengono in genere distinte, a scala territoriale, le aree naturali e agricole, le aree con diversi
livelli di urbanizzazione e le parti residuali che presentano un carattere ibrido tra le prime due, potendosi
determinare, a seconda della finalità dell’indagine, diversi livelli di dettaglio delle classi. Frequentemente
tali analisi puntano a definire:

il grado di urbanizzazione del territorio: è il rapporto tra aree urbanizzate e somma delle aree naturali,
agricole e residuali);

il grado di frammentazione dell’insediamento: è il rapporto tra la superficie complessiva dei frammenti e
la superficie del nucleo centrale o dei nuclei più importanti.
A scala urbana e di dettaglio, l’indagine quantitativa punta alla definizione di classi di tessuti urbani ed
edilizi caratterizzati dalla diversa consistenza o alla definizione di mappe tematiche riferite ad ambiti urbani
che evidenziano la variazione dei volumi costruiti o delle densità edilizie, oppure riferite agli edifici
evidenziando l’articolazione dei diversi parametri edilizi.
I principali parametri edilizi sono il volume, la superficie coperta, ovvero la proiezione a terra dell’inviluppo
dell’edificio, l’altezza, il numero di piani, la superficie utile, ovvero la superficie complessiva di un edificio al
netto delle murature ovvero quella realmente utilizzata per lo svolgimento di un’attività, definita superficie
utile lorda se contiene anche lo spessore delle murature, le distanze dai fabbricati o dai confini dei lotti, il
numero di vani o il vano medio espresso in metri cubi.
I parametri urbanistici sono in genere relativi al sottosistema geomorfologico e sono rappresentati dalla
superficie territoriale, ovvero totale, di un’area, dalla superficie fondiaria, ovvero dalla superficie territoriale
decurtata di tutte le superfici pubbliche. Molto spesso, soprattutto nella definizione delle norme tecniche
dei piani comunali, nei parametri urbanistici vengono inclusi alcuni indicatori riferiti alla misura delle
relazioni esistenti tra sottosistemi diversi o tra diverse caratteristiche dello stesso sottosistema, di cui i
principali sono:

densità territoriale o fondiaria, definito dal rapporto tra volume e superficie territoriale o fondiaria
dell’area considerata, relativo al rapporto tra elementi del sottosistema fisico e geomorfologico e riferito
all’intensità d’uso;

densità abitativa o residenziale, rapporto tra numero di abitanti e superficie territoriale di un’area,
riferito all’intensità d’uso del territorio e al rapporto tra sottosistema socio-antropico (o funzionale) e
geomorfologico;

rapporto di copertura fondiario, relativo al rapporto tra la superficie coperta di un’area fondiaria e la sua
superficie, relativo alla forma d’uso ed al rapporto tra caratteristiche del sottosistema fisico e
geomorfologico;
90
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA

CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
indice di utilizzazione territoriale o fondiario, definito dal rapporto tra superficie utile e superficie
fondiaria, riferito quindi a una relazione tra sottosistema fisico e socio-antropico e relativo all’intensità
d’uso;

indice di affollamento, definito dal rapporto tra numero di utenti e volume di cui quello residenziale è in
genere espresso dal rapporto tra abitanti e vano medio, riferito a una relazione tra attività residenziale
(o sottosistema socio-antropico) e sottosistema fisico.
Più in generale, i parametri edilizi tendono a misurare le caratteristiche quantitative o qualitative dei
manufatti edilizi e sono inerenti la forma d’uso, ovvero come si conforma lo spazio dove si svolge una
determinata attività, e l’intensità d’uso, relativo alla quantità di spazio adattato considerato. I parametri
urbanistici sono, invece, riferiti principalmente ai rapporti tra manufatti edilizi e territorio, ovvero
all’intensità d’uso.
Per quanto riguarda le indagini tipologiche, queste sono finalizzate ad ottenere classificazioni degli
insediamenti umani sul territorio per tipi, anche sulla base di una indagine statistica. I tipi rappresentano
esemplari singoli o schemi ideali a cui può essere ricondotta una molteplicità di oggetti sulla base di
caratteristiche comuni fisse.
Le analisi tipologiche sono finalizzate, in genere, ad individuare tipologie di tessuti in base a caratteristiche
particolari formazione ed evoluzione storica, esplicitare le regole che hanno determinato l’attuale assetto
degli insediamenti attraverso processi di formazione e trasformazione dei tessuti, definire regole di
intervento, norme di piano, interventi puntuali di trasformazione in relazione alle tipologie di tessuti ed
edilizie individuate.
A scala territoriale, la tipologia di un insediamento è definita dalle modalità di aggregazione spaziale degli
elementi fisici che costituiscono gli insediamenti antropici in relazione al territorio in cui essi si vengono a
formare. A seconda del punto di vista utilizzato, è possibile distinguere quattro tipologie principali di
classificazioni degli insediamenti:

classificazione tipologica dimensionale: il parametro di riferimento può essere la dimensione
demografica (popolazione residente o presente), l’estensione (superficie) geografica o amministrativa
dei centri urbani o, in alcuni casi, il loro incrocio attraverso la densità territoriale;

classificazione tipologica geografica: distingue gli insediamenti in relazione al loro contesto geografico,
ad esempio i centri urbani montani o costieri di una regione, i borghi di crinale o fluviali.

classificazione tipologica funzionale: fa riferimento al tipo ed al rango delle attività che connotano un
territorio, un insediamento o anche parti di un centro urbano (per esempio centro produttivo, quartiere
residenziale, ecc.).

classificazione tipologica morfologica: è riferita alla forma dell’insediamento e alle sue modalità di
sviluppo e aggregazione nel territorio. Esistono delle forme tipiche degli insediamenti, ricorrenti nella
lettura della sequenza degli insediamenti su un dato territorio. Gli insediamenti di forma lineare si
sviluppano in prevalenza lungo gli assi stradali, quelli nucleari si presentano come nuclei separati tra
loro, quelli radiali o a stella si sviluppano lungo gli assi che partono da un centro, anulare ovvero
disposto secondo cerchi concentrici, reticolare sono gli insediamenti che crescono secondo un reticolo
pressoché regolare. Tra questi ultimi vi sono le tipiche forme a scacchiera caratterizzate da assi verticali
e orizzontali perpendicolari (Fig 4). Ancora gli insediamenti possono essere definiti come monocentrici,
laddove si distingua un nucleo centrale ben definito, policentrici, laddove non sia possibile individuare
un unico centro. Naturalmente, le classificazioni tipologiche descritte vengono incrociate al fine di
caratterizzare con precisione i tipi di insediamenti presenti in un territorio (per esempio i centri urbani
lineari di fondo valle).
Accanto a queste classificazioni è utile riportarne altre di uso frequente, utili ai fini delle indagini territoriali,
che utilizzano gli aspetti formali, dimensionali e funzionali in maniera integrata, definendo, ad esempio: gli
insediamenti sparsi, ovvero molto diffusi sul territorio e privi di punti di agglomerazione; il nucleo abitato,
ovvero aggregato di residenze contigue, con almeno cinque famiglie e privo dello spazio pubblico di
incontro; centro abitato, ovvero aggregato di edifici con un sistema coerente di spazi pubblici; città, ovvero
insediamento caratterizzato da una elevata popolazione, dotazione di servizi e che svolge un ruolo
attrattivo rispetto al suo territorio; conurbazione, ovvero insediamenti formati da più città contigue o un
centro più grande che ingloba la sua periferia; area metropolitana, ovvero sistema territoriale
caratterizzato da un centro di grande dimensione demografica e spaziale che esercita un potere attrattivo
su un vasto territorio limitrofo, con servizi rari di livello nazionale.
Alla scala urbana, le analisi tipologiche dei tessuti fanno riferimento all’epoca di formazione e alle
caratteristiche morfologiche. Le indagini relative all’epoca di formazione dei tessuti sono utili per
comprendere sia le trasformazioni che gli insediamenti hanno subito nel tempo (analisi diacronica), sia le
relazioni esistenti tra assetti sociali, economici, culturali e normativi e formazione delle diverse parti
urbane.
91
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 4 – Esempi di forme tipiche degli insediamenti (Fonte: Google maps)
Tali analisi hanno particolare rilievo se vengono integrate con indagini riferite agli assetti economici, sociali
e culturali che hanno prodotto le trasformazioni analizzate.
Naturalmente, non è possibile fornire una periodizzazione da applicare nella classificazione dei tessuti,
poiché la scelta dei periodi storici di riferimento dipende dalla specificità del sistema territoriale o urbano
analizzato. Alcuni testi forniscono però una periodizzazione di massima applicabile alle città italiane
(Piroddi e Rubeo 1996), distinguendo un primo periodo preromano, qualora presente nella formazione
dell’insediamento studiato; romano, riferibile principalmente all’impianto delle città qualora esso si sia
mantenuto leggibile, alto medievale, leggibile come ampliamenti dei tracciati originari o ristrutturazioni di
questi ultimi secondo modelli spaziali più aderenti alla morfologia naturale, tardo-medievale,
rinascimentale, barocco e neo-classico fino alla formazione dello stato unitario, post unitario caratterizzato
da espansioni e ristrutturazioni consistenti, tra il 1920 e il 1940 con realizzazione di opere pubbliche e
ristrutturazioni di notevole portata soprattutto sui centri storici, contemporaneo caratterizzato da grande
crescita urbana e formazione delle attuali periferie.
Le classificazioni morfologiche sono orientate ad analizzare la forma dei tessuti mediante l’individuazione di
elementi utili per la interpretazione della forma urbana di tipo puntuale o lineare, oppure a classificare i
tessuti attraverso le modalità di aggregazione degli edifici tra di loro, le relazioni esistenti tra manufatti,
spazi aperti e canali. Nel primo caso si individua la natura e il ruolo degli elementi strutturanti la forma
urbana e le loro relazioni: ad esempio, assi e nodi strutturanti quali strade, piazze, parchi, etc.)
Nel secondo caso, le parti degli insediamenti vengono classificate in base alle modalità di aggregazione
degli elementi che li costituiscono, ottenendo, ad esempio, varie classificazioni di tessuti (Fig 5). A seconda
della dimensione degli edifici e delle loro aggregazioni un tessuto sarà a grana fine o grossa, a seconda
dell’impianto stradale sarà reticolare, organico o intricato; se costituito da unità edilizie standardizzate, il
tessuto sarà modulare, sarà infine più o meno compatto a seconda del grado di continuità o di densità
dell’edificato.
Oltre ai tessuti possono essere individuate delle zone a morfologia definita o conclusa, parti della città
organizzate in modo compiuto sulla base di un impianto autonomo derivante spesso da una progettazione
unitaria, e zone a morfologia aperta, in cui l’impianto edilizio, di tipo lineare, organico, nucleare,
tentacolare, ecc., è caratterizzato prevalentemente dalla scelta, dall’aggregazione e dalla disposizione dei
tipi edilizi e si distingue dalla forma tessuto per una più labile interdipendenza tra rete stradale, edifici e
spazio urbano. Le forme aperte, possono essere zone a morfologia indefinita, quando sono di formazione
recente e l’urbanizzazione si è realizzata senza un preciso e identificabile disegno, come pura addizione di
quantità edificate.
Alla scala di dettaglio, grande rilevanza assumono le indagini svolte sul patrimonio abitativo. Le indagini
sulla tipologia edilizia sono state usate per lo studio dell’evoluzione della città e costituiscono un utile
strumento per definire le norme tecniche dei piani esecutivi. La tipologia edilizia è definita sulla base della
struttura distributiva e l’impianto architettonico degli edifici. Essa può essere esito di scelte urbanistiche,
della stratificazione storica della città, dell’innesto sull’esistente di nuovi edifici. Essa può essere riferita sia
ai singoli edifici che agli aggregati edilizi costituiti dagli edifici.
92
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 5 – Esempi di tipologie di tessuto (Fonte: Google maps)
L’indagine tipologica assume particolare rilevanza per gli edifici residenziali, classificandoli in relazione alla
loro somiglianza ai tipi edilizi residenziali più ricorrenti in un ambito urbano. Le classificazioni tipologiche
sono molteplici e dipendono dal tipo di edilizia presente nell’ambito di studio. In generale, i tipi edilizi
residenziali possono essere articolati in case plurifamiliari o collettiva, costituita da una pluralità di alloggi
serviti da uno o più gruppi scala e in genere l’alloggio non dispone di accessi diretti dallo spazio pubblico
esterno, e case unifamiliari.
In queste due classi ricadono alcuni tipi edilizi più diffusi come:

casa a ballatoio, tipo edilizio abitativo plurifamiliare caratterizzato dalla aggregazione di più alloggi in
linea disimpegnati da un ballatoio e serviti da una o più scale;

casa in linea, tipo edilizio abitativo plurifamiliare caratterizzato dalla aggregazione di più alloggi in fila
per ciascun punto scala a formare un edificio lineare (linea rotta, continua, spezzata, circolare) servito
da più corpi scala ed in cui la dimensione longitudinale prevale su quella trasversale e sull’altezza (Fig.
6);

casa a torre, tipo edilizio abitativo isolato costituito da una pluralità di alloggi aggregati
planimetricamente e in alzato attorno al collegamento verticale in cui risulti prevalente l’altezza sulle due
dimensioni di pianta (Fig. 6);

casa a corte, tipo edilizio unifamiliare o plurifamiliare, disposto funzionalmente attorno ad uno spazio
aperto centrale, racchiuso anche parzialmente dal volume edilizio con corpi scala multipli e distribuzione
di più alloggi per piano;

casa isolata, tipo edilizio abitativo unifamiliare costituito da un singolo alloggio isolato all’interno di un
lotto di pertinenza con rapporto di copertura minore dell’unità;

edificio a blocco, edificio multipiano costituito dall’aggregazione di più unità abitative intorno a gruppi
scala, di forma planimetrica tendenzialmente quadrata, con assenza di spazi aperti interni strutturanti
l’edificio (Fig. 6);

palazzo, residenza storica nobiliare talvolta con corte;

palazzina e villino plurifamiliare edificio a moderno costituito da un blocco articolato alto contenente più
alloggi;

casa a schiera, tipo edilizio abitativo unifamiliare costituito da una pluralità di alloggi unifamiliari
associati a schiera, ciascuno dei quali è separato dagli adiacenti da muri ciechi comuni disposti sul
confine dei rispettivi lotti.
Nelle indagini sulle tipologie edilizie si distinguono, di solito, le tipologie storiche da quelle recenti e quelle
residenziali da quelle speciali, ovvero tutte le unità edilizie non residenziali comprendenti chiese, scuole,
ospedali, ecc. Le mappe tematiche contenenti le sintesi grafiche delle indagini condotte sulle tipologie edilizie,
sono di solito accompagnate da abachi esplicativi che per ciascun tipo forniscono una descrizione testuale,
una caratterizzazione planimetrica, grafica e fotografica, al fine di facilitare la comprensione delle diverse
tipologie individuate e localizzate nella mappa.
Gli aggregati possono essere classificati in base ai tipi edilizi prevalenti che lo compongono e in base alla
forma. Ad esempio è possibile distinguere aggregati a corte, chiusa o aperta, costituiti da case in linea,
oppure aggregati di tipi a blocco secondo una direzione prevalente, oppure aggregati eterogenei ed
irregolari.
93
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 6 – Esempi di tipologie edilizie (Fonte: Google maps)
Sempre alla scala di dettaglio, le analisi sul patrimonio edilizio degradato sono fondamentali per definire
interventi finalizzati al recupero edilizio e alla riqualificazione di contesti degradati per caratteri del
costruito o per assenza di manutenzione edilizia. In alcuni casi il degrado è accompagnato da condizioni di
sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie e quindi c’è bisogno anche di ridefinire standard abitativi
adeguati. Tali indagini vanno comunque associate a indagini sulle attrezzature per definire azioni capaci di
innescare processi di riqualificazione complessiva della città.
L’ambito territoriale di applicazione è caratterizzato, in genere, da aree di edilizia storica o edificazioni
recenti caratterizzate da scarsa manutenzione e qualità di realizzazione (edilizia economica e popolare). Le
indagini vengono svolte in sito e vengono realizzati data-base associati agli edifici di cui si rilevano le
caratteristiche fisiche principali, soprattutto i caratteri strutturali, morfologici e tecnologici e la presenza di
elementi architettonici di pregio.
Generalmente per la valutazione dello stato manutentivo si costruiscono delle matrici di valutazione in cui
sulle righe sono riportate le diverse parti dell’edificio considerate (murature verticali, balconi, chiusure
esterne, ecc.) e sulla prima colonna il valore dell’indicatore, variabile tra 0 e 1, riferito al livello di
manutenzione dell’elemento (0 in ottimo stato e 1 completamente da rifare). Il livello di ottimo di
riferimento è, in genere, l’edificio come era all’atto della sua realizzazione adeguato alle normative vigenti.
Sulla seconda colonna si riporta l’incidenza, variabile tra 0 e 1, dell’elemento sul costo di costruzione
complessivo dell’edificio. Il livello di manutenzione dell’edificio è data dalla sommatoria dei prodotti
ottenuti per ciascuna riga (Piroddi e Rubeo 1996).
Infine, è utile segnalare che molte delle indagini elencate possono essere condotte alle diverse scale anche
con l’impiego di dati Istat riferiti agli edifici residenziali.
I dati infatti ci forniscono, per ciascuna sezione censuaria, il numero di edifici per tipologia costruttiva
(muratura o calcestruzzo) e per epoca di realizzazione4. Viene fornita poi una classificazione degli edifici
per numero di piani (1-4 e oltre) e per numero di interni (1, 2, 3-10, oltre dieci). Attraverso i dati Istat è
possibile definire alcuni indicatori utili per chiarire le relazioni tra spazi residenziali e popolazione come:

superficie/occupanti (standard abitativo);

superficie/alloggi (taglio medio degli alloggi);

epoca di costruzione/stanze (evoluzione del taglio degli alloggi);

n. abitazioni/n. famiglie;

composizione delle famiglie/abitazioni per numero di stanze (sovraffollamento specifico).
L’analisi sulle abitazioni può avere molti esiti. Innanzitutto conoscendo il numero degli alloggi non
occupati, il motivo della non occupazione e la loro localizzazione è possibile ipotizzare che tale risorsa
rientri nella risposta al fabbisogno di vani del territorio.
Conoscendo la dotazione impiantistica e l’epoca di costruzione è possibile decidere in merito ad una ipotesi
di recupero del patrimonio edilizio. Nel caso di una grande quantità di abitazioni non occupate per motivi
turistici è possibile prevedere una diversa politica dei servizi e delle attrezzature, sia in termini qualitativi
che quantitativi.
4
Le classi considerate nei dati Istat comprendono gli edifici realizzati prima del 1919, 1919-1945, 1946-61, 1962-1971,
1972-1981, 1982-1991, dopo il 1991.
94
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Il sottosistema funzionale
Le analisi del sotto sistema funzionale sono finalizzate ad analizzare nel dettaglio le diverse attività
presenti in un territorio. Nell’indagine urbanistica ci si riferisce a quelle macro-attività caratterizzate da una
durata, frequenza, specializzazione e valenza territoriale tale da renderle capaci di forte ricadute nei
processi di trasformazione territoriale, date le innumerevoli attività umane presenti su un territorio,
Naturalmente, si prendono in considerazione quelle attività che hanno incidenza sulla trasformazione della
città e del territorio e che, più in generale, presentano le caratteristiche di:

durata, ovvero attività prolungate nel tempo e che quindi possono incidere maggiormente rispetto ad
attività concentrate temporalmente;

frequenza, ovvero attività che si ripetono molte volte in un arco di tempo prefissato;

specializzazione, ovvero attività uniche che sono auto referenziate e che pertanto incidono di più nel
territorio in cui sono collocate;

valenza territoriale, ovvero attività capaci di trasformare fortemente il territorio in cui sono inserite
richiedendo particolari tipologie di spazi adattati.
È possibile raggruppare attività che prese singolarmente non possiedono tutte queste caratteristiche in
macroattività che, invece, possiedono tutte le caratteristiche citate, come ad esempio l’attività residenziale
o quella produttiva.
Le indagini possono essere condotte a scala territoriale, urbana e di dettaglio e le diverse articolazioni dei
tipi di attività considerati saranno più fini man mano che si scende verso la scala di dettaglio, presentando
al contrario aggregazioni consistenti a scala regionale o provinciale.
Anche se è possibile ricavare molte informazioni da fonti indirette come le cartografie e i piani urbanistici, tali
indagini si conducono con rilievi diretti e vanno condotte sia nell’area urbanizzata che nei margini della città.
In genere, le analisi sul sistema funzionale sono orientate a valutare l’offerta esistente (tipologia,
localizzazione, intensità di servizi e attrezzature), la relazione esistente tra offerta e caratteristiche della
domanda (caratteristiche e bisogni della popolazione che influenzano e definiscono la domanda e la
rispondenza dell’offer-ta a tale domanda), classificare il territorio in aree caratterizzate da diversi livelli di
attrazione in ragione del numero e del tipo di attività presenti.
Le attività sul territorio si caratterizzano per tipologia o destinazione d’uso, localizzazione e intensità d’uso.
La tipologia definisce in cosa consiste l’attività, ovvero la destinazione d’uso prevalente dello spazio.
Naturalmente possiamo riferirci sia a una zonizzazione funzionale di aree urbane considerando la
destinazione d’uso prevalente presente nell’area, oppure, alla scala di dettaglio, possiamo riferirci alla
destinazione d’uso prevalente di un edificio o alle puntuali destinazioni d’uso dei diversi livelli di un edificio,
come avviene ad esempio per l’indagine dettagliata delle attività ai piani terra.
Più in generale, le diverse destinazioni d’uso sono in genere articolate in classi che dipendono dalla scala a
cui è svolta l’indagine e dalla finalità per cui le analisi sono svolte. In genere, è utile distinguere le attività:

residenziale;

produttiva, comprendente le attività produttive artigianali (con meno di 15 addetti), industriali e
agricole;

terziaria, comprendente il commercio all’ingrosso e quello al dettaglio, credito e assicurazioni, studi
professionali, ricezione e attività turistiche, attività direzionali, ecc.;

servizi e attrezzature collettive, che possono essere distinte in attrezzature di interesse generale,
comprendenti scuole superiori, parchi urbani di interesse sovra locale, università, ospedali, sedi
giudiziarie, ecc., e di servizio alla residenza o locali, come istruzione dell’obbligo, parcheggi, verde
attrezzato di quartiere, interesse comune, ecc.;

infrastrutture per la mobilità, comprendenti le sedi ferroviarie, i depositi, la viabilità carrabile, ecc.
La localizzazione definisce, invece, la distribuzione spaziale dei diversi tipi di attività. La definizione della
distribuzione sul territorio delle attività necessita di indagini sul campo per individuare con precisioni la
localizzazione delle diverse destinazioni d’uso.
L’intensità d’uso dello spazio definisce la quantità di una data attività presente su un determinato spazio.
Tale misura è effettuata mediante una serie di indicatori di densità, ad esempio per l’attività residenziale
abbiamo la densità residenziale (ab./ha) o l’indice di affollamento (ab./vani), per l’uso industriale il numero
di addetti per settore o per unità di superficie, ecc.
Per quanto riguarda l’analisi dell’attività residenziale, è possibile partire dai dati Istat relativi alle abitazioni
che rappresentano gli spazi adattati di base utili per svolgere tale attività. L’abitazione è definita come
alloggio costituito da un solo o da un insieme di locali (stanze e vani accessori), adatto ad essere dimora
stabile di una o più persone, anche nel caso in cui una parte sia adibita ad ufficio (studio professionale,
ecc.) separato dalle altre unità abitative da pareti e inserito in un edificio. Esso deve essere dotato di
almeno un accesso indipendente, che non comporti il passaggio attraverso altre abitazioni, o da spazi di
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
disimpegno comune. Sono considerati altri tipi di alloggio tutti gli alloggi non classificabile come abitazione
che, al momento del censimento, risultano occupati (tende, camper, baracche, garage, soffitte, ecc.).
I dati Istat forniscono, per ciascuna sezione censuaria, il numero di abitazioni totali, quello delle abitazioni
occupate da residenti e non, le abitazioni vuote e, infine, il numero di abitazioni occupate in fitto o in
proprietà. Rispetto alla tipologia, le abitazioni vengono articolate in classi a secondo del numero di stanze
(1-6 e oltre). La stanza è un locale che riceve aria e luce diretta dall’esterno e ha dimensioni tali da
consentire la collocazione di un letto per un adulto, lasciando lo spazio utile per il movimento di una
persona. Le abitazioni sono poi articolate anche in riferimento agli impianti presenti. Infine, è fornita la
superficie delle abitazioni totali.
Per quanto riguarda l’analisi delle attività produttive, è possibile partire dai dati del Censimento
dell’Industria e dei Servizi forniti dall’Istat, ovvero imprese, unità locali e addetti. L’impresa è un’unità
giuridico-economica che produce beni e servizi destinabili alla vendita e che, in base alle leggi vigenti o a
proprie norme statutarie, ha facoltà di distribuire i profitti realizzati ai soggetti proprietari, siano essi privati
o pubblici (ad esempio le imprese individuali, le società di persone, le società di capitali, le cooperative, le
aziende speciali di comuni o province o regioni, ecc.). Sono considerate imprese anche i lavoratori
autonomi e i liberi professionisti. L’unità locale è il luogo fisico, identificato da un indirizzo e da un numero
civico, nel quale un’unità giuridico-economica (impresa, istituzione) esercita una o più attività economiche
(ad esempio gli alberghi, i bar, i depositi, i garage, i laboratori, i negozi, gli stabilimenti, gli studi
professionali, ecc.) Gli addetti sono persone occupate in un’unità giuridico-economica, come lavoratori
indipendenti o dipendenti (a tempo pieno, a tempo parziale o con contratto di formazione), anche se
temporaneamente assenti dal lavoro. Essi possono anche non risiedere nel comune di appartenenza della
impresa. Il rapporto tra occupati e addetti va quindi vagliato attentamente per capire se una struttura
produttiva trova in loco le risorse umane o se genera flussi di spostamento da altre realtà territoriali cioè
se si verificano fenomeni di pendolarismo in entrata o in uscita dal territorio analizzato e che in futuro
possono generare movimenti della popolazione.
Ai fini della caratterizzazione delle attrezzature, risulta molto importante definire i diversi livelli di
accessibilità al servizio da parte dell’utenza, mediante la definizione di alcuni parametri utili anche per il
dimensionamento dei servizi in fase di redazione degli strumenti urbanistici comunali: il raggio di influenza,
l’area di influenza e il bacino di utenza. Il raggio d’influenza (Ri) di una data attrezzatura è la distanza
massima teorica, espressa generalmente in metri, a cui si deve trovare l’utente per poter utilizzare una
particolare attrezzatura ed è funzione del tipo di attrezzatura considerata (Fig. 7).
Fig. 7 – Esempio di raggio di influenza
Il raggio di influenza può anche essere misurato in termini temporali, facendo variare la distanza se il
percorso dell’utente è fatto a piedi, con mezzo pubblico o privato. Nel caso del trasporto pubblico va
inoltre considerato il tipo di trasporto e la sua frequenza, privilegiando la misura effettuata considerando il
trasporto su ferro poiché essa rappresenta un con orari definiti e non influenzabile dal traffico veicolare
che rende più incerta la valutazione. L’area di influenza (Ai), generalmente espressa in mq, rappresenta
l’area del cerchio di raggio Ri, ovvero l’area entro la quale deve risiedere l’utente della attrezzatura
considerata.
Il bacino di utenza (Bu) rappresenta, invece, il numero di utenti realmente serviti da una data attrezzatura
e contenuti nell’area di utenza (Au), ovvero l’area contenuta o meno nell’Ai, in cui risiedono effettivamente
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
gli utenti del servizio. La differenza tra area di utenza e di influenza è determinata da diversi fattori di cui
tener conto in fase di redazione dei piani, come ad esempio la presenza di reti di trasporto su ferro, la
presenza di barriere geomorfologiche, la presenza di altre attività ravvicinate dello stesso tipo, ecc.
In alcuni casi, può essere utile, nelle indagini di dettaglio, effettuare analisi riguardanti le modalità d’uso
delle attrezzature urbane o degli spazi pubblici, al fine di evidenziare le modalità temporali di uso (ciclo del
servizio), la frequenza e altri aspetti riguardanti il come gli utenti utilizzano uno spazio. Tali indagini sono
importanti ad esempio per la progettazione degli spazi pubblici o la caratterizzazione di attività che
polarizzano l’utenza in particolari fasce orarie, come ad esempio i locali pubblici, ecc. Molto spesso, sia per
gli spazi pubblici che per determinate attività, è utile indicare i tipo di proprietà, ovvero se essi sono
pubblici, privati o privati ad uso pubblico come ad esempio i cinema o le attività ricettive. I servizi possono
essere anche classificati in ragione della tipologia di utenza, distinguendo, ad esempio, i servizi alle
imprese o alle famiglie.
Nel caso delle attrezzature pubbliche, può essere necessario condurre indagini di dettaglio per ciascuna di
esse in riferimento all’idoneità rispetto al contesto geografico, alla struttura urbana, all’ambiente e alla
popolazione servita; l’idoneità rispetto alla dimensione dell’area di pertinenza, alle condizioni statiche,
all’epoca di costruzione o ristrutturazione; l’idoneità della sede rispetto all’organizzazione degli spazi usati
per lo svolgimento dell’attività; l’idoneità di esercizio rispetto al tipo di conduzione e alla normativa
vigente.
Le indagini sulle attrezzature pubbliche non possono essere disgiunte da quelle che riguardano la
definizione della domanda di attrezzature della popolazione, soprattutto in relazione alle strutture
scolastiche, sanitarie, di distribuzione e per la mobilità. Ad esempio, per le strutture scolastiche è
importante avere la distribuzione per classi di età al fine di definire il fabbisogno reale legato alla
popolazione oltre le quantità previste dallo standard generalmente riferito alle scuole dell’obbligo. Per le
grandi attrezzature urbane sovracomunali è necessario inoltre raccogliere e valutare altri aspetti quali il
loro carattere istituzionale, finanziario, la struttura di personale, l’ampiezza e consistenza del bacino di
utenza. Ad esempio per le strutture sanitarie le analisi riguarderanno: la condizione socio-sanitaria, ovvero
i caratteri strutturali della popolazione; l’incidenza di mortalità per tipo di malattia, per classi di età per
condizioni sociali; l’incidenza delle malattie soggette a denuncia obbligatoria, professionali, e degli
infortuni.
Il sottosistema geomorfologico
Le analisi su tale sottosistema presentano uno spiccato carattere multidisciplinare e richiedono
competenze relative non solo al campo urbanistico, ma anche geologico e idrogeologico, botanico,
zoologico, ecc. Tali analisi non sono univocamente determinate ma devono essere interpretate a seconda
delle caratteristiche del territorio da analizzare ed alla scala a cui è condotta l’analisi.
Un primo gruppo di analisi è riferito ai caratteri qualitativi e strutturali del territorio e comprendono, tra le
altre, indagini riguardanti la geololitologia, la pedologia e la geomorfologia del territorio.
Le carte geolitologiche riportano i litotipi presenti in un territorio. La fonte principale di queste carte è la
Carta Geologica d’Italia redatta alla scala 1:100.000, la quale viene integrata da rilievi sul campo e studi di
dettaglio. Le indagini pedologiche vengono sintetizzate in carte dei suoli che definiscono per i diversi tipi di
suolo presenti nel territorio analizzato la genesi dei terreni e la loro evoluzione in chiave pedogenetica,
indicando potenzialità e limitazioni d’uso ai fini di pianificazione territoriale e agronomica. Le carte
geomorfologiche evidenziano le relazioni che sussistono tra la forma del territorio localizzata nello spazio e
il processo che l’ha determinata, permettendo di evidenziare alcune caratteristiche del territorio analizzato
(affioramenti rocciosi, aree soggette ad azioni erosive, aree di deposito di materiali trasportati, terrazzi
alluvionali, dorsali, pianure, ecc.).
Un secondo gruppo di indagini riguarda i caratteri geometrici e morfologici del territorio e comprende, tra le
altre, analisi riferite all’altimetria, alle pendenze ed esposizione dei versanti, alle indagini sulle modifiche
artificiali dei versanti.
Molti degli elementi di base per la costruzione delle carte viene desunto dalle aerofotogrammetrie che
forniscono, in relazione alle loro scale, le quote assolute del suolo, le isoipse ed alcuni elementi di dettaglio
come scarpate, affioramenti rocciosi, ecc.
Con l’altimetria cambiano le condizioni ambientali e climatiche del territorio, le coperture vegetali, ecc.
Nelle carte altimetriche il territorio è ripartito in fasce altimetriche delimitate dalle isoipse ovvero dalla
stessa escursione di quota sul livello del mare. È una carta semplice ma molto utile per capire la
morfologia e per l’incrocio con altre analisi. L’aspetto più delicato della costruzione della carta è la
definizione delle classi. Il criterio degli intervalli regolari può risultare poco significativo essendo le
differenze altimetriche più significative più rilevanti nelle zone di bassa quota che in quelle montuose.
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
È spesso utile definire le classi in relazione alle diverse aree geografiche presenti nel territorio di analisi
(pianura, collina, montagna, ecc.), al fine di definire tipi di aree da relazionare ad altre indagini, come ad
esempio le analisi geologiche.
La pendenza del suolo condiziona molti degli interventi antropici sul territorio, incide sulla stabilità dei
versanti e influenza nelle aree di pianura il deflusso delle acque superficiali. L’analisi delle pendenze è
dunque rilevante per comprendere i problemi di instabilità dei versanti, la compatibilità del suolo con
pratiche agrarie, le criticità del deflusso delle acque. La clivometria è la pendenza media di un terreno
rispetto all’orizzonte. Le carte clivometriche e di acclività o pendenza dei versanti e del territorio si
costruiscono dalle isoipse della carta aerofotogrammetria definendo la pendenza tra di esse attraverso la
loro distanza. La pendenza è il rapporto tra la differenza di quota e la distanza tra due isoipse contigue
moltiplicato per cento. Il territorio è così ripartito in classi di pendenza, determinate in base alla loro
significatività rispetto al territorio ed allo scopo dell’indagine.
Molto utili risultano anche le indagini volte a individuare le modifiche di matrice antropica dell’assetto dei
versanti. La pendenza è concentrata solo in alcuni punti o meglio linee come muri a secco, o ciglionamenti
per ottenere pendenze inferiori a quelle del versante originario. Molto diffusi sono i terrazzamenti realizzati
per variare le forti pendenze di alcuni versanti e renderli così utilizzabili a fini agricoli. Tali interventi
interagiscono con la stabilità del versante e con il drenaggio delle acque. Le mappe tematiche costruite
sulla base di tali indagini sono prodotte a partire dall’aerofotogrammetria e vanno verificate con foto aeree
e con sopralluoghi. La carta dell’esposizione dei versanti visualizza l’esposizione prevalente (punti cardinali
e loro intermedi) di parti omogenee dei versanti. L’esposizione influisce sul microclima e quindi interagisce
con l’uso del suolo e le sue potenzialità d’uso.
Tali carte vengono oggi prodotte in maniera automatica attraverso l’elaborazione del Digital Elevation
Model (DEM), un modello digitale di elevazione del territorio che rappresenta la distribuzione delle quote di
un territorio, o di un’altra superficie, in formato digitale (Fig. 8). Il modello digitale di elevazione viene in
genere prodotto in formato raster associando a ciascun pixel l’attributo relativo alla quota assoluta. I DEM
possono essere prodotti con tecniche diverse. I modelli più raffinati sono in genere realizzati attraverso
tecniche di telerilevamento. Una tecnica più semplice consiste nell’interpolazione delle isoipse e punti
quotati desunti da aerofotogrammetrie o rilevati direttamente sul campo. Dal DEM è possibile ricavare
carte di acclività o di orientazione del versante, carte di visibilità da un punto ecc. Un altro gruppo di
analisi riguarda l’uso del suolo e comprende indagini sugli usi anche passati del territorio, spesso associate
ad analisi riferite alle varie forme di degrado in atto. La carta dell’uso del suolo è un elaborato finalizzato a
descrivere i diversi usi in atto su un territorio. In senso stretto, tale carta dovrebbe essere inserita nella
lettura del sottosistema funzionale, poiché descrive i diversi usi di un territorio, ma essendo in genere
orientata non tanto a cogliere le differenze tra i diversi usi urbani, quanto piuttosto ad approfondire le
attività agricole e gli aspetti legati alla vegetazione essa viene riportata nella manualistica tecnica tra le
carte tematiche per la lettura del sottosistema geomorfologico.
Tale carta, la cui redazione richiede apporti multidisciplinari, si ottiene attraverso la decodifica delle
aerofotogrammetrie e la fotoidentificazione da ortofoto georeferenziate. Mediante tali operazioni è
possibile, infatti, perimetrare e classificare il territorio in base all’uso in atto identificando i diversi usi con
sigle alfanumeriche e/o campiture. Generalmente, dopo la stesura di massima, la carta viene verificata
mediante una campagna sistematica di sopralluoghi. I contenuti della carta, ovvero le classi di uso del
suolo e le loro aggregazioni, variano in riferimento agli scopi per cui è redatta la carta ed alla sua scala di
elaborazione. Le informazioni della carta devono essere quelle necessarie al raggiungimento dello scopo
per cui è stata redatta e non contenere altre informazioni che potrebbero renderla di difficile impiego.
Inoltre, proprio per facilitare la lettura, la legenda deve essere chiara e ordinata per gruppi omogenei di
usi. In alcuni casi la carta dell’uso del suolo può contenere anche indicazioni qualitative sulle colture in atto
e la loro efficienza produttiva. Dall’analisi diacronica di carte dell’uso del suolo effettuate in tempi diversi
possono essere desunte informazioni riguardanti i cambi di colture, la variazione delle aree a bosco,
l’espansione delle aree edificate, ecc.
Altre carte si riferiscono alla fauna e individuano i biotopi ovvero gli areali tipici delle specie viventi, al fine
di individuare l’integrità dell’ambiente naturale nei confronti delle specie viventi e definire, di conseguenza
diversi livelli di protezione. Tra queste carte vi sono, ancora, le carte della naturalità del territorio, esito di
analisi finalizzate a definire il livello di integrità dei biotopi. La naturalità della vegetazione esprime il livello
di integrità di un ecosistema ed è, in genere, stimata attraverso il confronto tra lo stato attuale e la
vegetazione potenziale, ovvero quella che si sviluppa in un dato territorio qualora si elimini il degrado
presente. In tal modo è possibile determinare una misura del degrado ambientale dell’area e di
conseguenza valutare, zona per zona, l’entità ed il tipo di azioni di riqualificazione.
98
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 8 – Esempio di Digital Elevation Model (Fonte: http://amb.portici.enea.it/)
Un ultimo cenno va fatto alle carte relative all’analisi del paesaggio. Le carte paesaggistiche comprendono
diversi tipi di carte tematiche orientate a sintetizzare aspetti del paesaggio, ovvero a identificare diversi
ambiti territoriali caratterizzati da differenti tipologie di paesaggio, e sono ottenute integrando dati
omogenei e in alcuni casi combinando dati di tipo diverso. Si tratta, quindi, di processi di sintesi o
interpretativi che delimitano zone del territorio omogenee per caratteri funzionali e strutturali. Altre
indagini rivestono, invece, un ruolo originale nella definizione del paesaggio come, ad esempio, le carte
finalizzate a definire, alle diverse scale, la percezione visiva statica o dinamica del territorio da parte degli
utenti. Tra queste carte, ad esempio, sono comprese: le carte della visibilità assoluta, riferite agli elementi
paesaggistici caratterizzanti da ogni punto di vista il territorio o ai punti di vista ciechi del territorio; le
carte della visibilità relativa, ovvero connessa all’indi-viduazione di elementi o di parti del paesaggio visibili
solo da determinati percorsi o punti panoramici; le carte di intervisibilità consistenti nell’individuazione per
ogni ambito territoriale di tutti i punti significativi da esso visibili e dei punti di osservazione da cui esso è
visto e legate alle caratteristiche di panoramicità di un punto o di un ambito e ai diversi livelli di visibilità
attiva e passiva; carte di visibilità condizionata, che evidenziano la visibilità di elementi o ambiti di
paesaggio attraverso indagini statistiche sulla popolazione e lo studio del rapporto di una popolazione con
il proprio paesaggio (caratteri identitari del paesaggio).
7.4.
Il sistema integrato trasporti-territorio: metodi e tecniche per la
conoscenza
L’obiettivo di questo paragrafo consiste nel definire metodi e tecniche per misurare la mobilità nello spazio.
Nel primo sottoparagrafo si riportano le principali tecniche e strumenti per la misura e la rappresentazione
della mobilità nei sistemi urbani. Il secondo sottoparagrafo è dedicato ai metodi e alle tecniche per la
misura dell’accessibilità. Il terzo sottoparagrafo fornisce un approfondimento sui modelli di simulazione
trasporti-territorio.
Le misure e le forme di rappresentazione della mobilità
I flussi di persone, di cose, di idee, di informazioni, di pratiche culturali danno forma all’organizzazione
dello spazio geografico. È proprio lo studio di questi flussi di cose e persone che costituisce il cuore del
funzionamento e dell’evoluzione dei sistemi urbani e territoriali.
Per misurare la mobilità nei sistemi urbani sono stati messi a punto dei sistemi di indicatori sintetici per
descrivere le caratteristiche del sotto-sistema della domanda e dell’offerta di mobilità nelle aree urbane.
L’utilizzo di indicatori descrittivi è fondamentale per conoscere lo stato del sistema in diversi istanti
temporali e di verificarne l’andamento nel tempo rispetto agli obiettivi di piano prefissati. Lo scopo
principale della misurazione e del monitoraggio di questi indicatori è di definire i diversi stati temporali del
sistema di trasporto e di verificare l’efficacia delle politiche messe in atto. In base alla classificazione
fornita dalla Commissione Europea è possibile individuare diversi set di indicatori come riportato in tabella
seguente, articolati nelle seguenti classi:

impatti ambientali del sistema di trasporto;

domanda di trasporto;

accessibilità;
99
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi




offerta di trasporto;
costi del trasporto;
efficienza del sistema;
gestione.
Gli indicatori più comuni sono quelli relativi all’offerta e alla domanda di trasporto, come quello
rappresentato in Tabella 1, relativo al numero di passeggeri trasportato per modo di trasporto in quattro
città mondiali. In questo esempio gli indicatori sono relativi ad una intera area urbana, e definiscono lo
stato complessivo del sistema di trasporto di una particolare area geografica. Per definire un maggior
grado di conoscenza di un sistema di trasporto è possibile misurare determinati indicatori anche per subaree urbane, come ad esempio i quartieri o le particelle censuarie e, grazie all’utilizzo dei GIS
rappresentare e visualizzare la distribuzione nello spazio di un particolare indicatore.
Classe
Indicatore
Consumo energetico
Impatti ambientali del sistema di
Qualità dell’aria (emissioni)
Esposizione al rumore da traffico
trasporto
Impatti sull’ecosistema
Consumo di suolo
Numero di incidenti
Domanda di
trasporto
Passeggeri trasportati per modo di trasporto e motivo dello
spostamento (numero di spostamenti, numero di spostamentikm, ecc)
Merce trasportata per modo di trasporto e tipo di merce
(tonnellate, tonnellate-km, ecc)
Media dei tempo dello spostamento e lunghezza degli
Accessibilità
spostamenti per modo e motivo di spostamento
Accesso ai servizi di trasporto (numero di veicoli motorizzati,
numero di persone che hanno accesso ai nodi di trasporto
pubblico in 500 m, ecc.)
Offerta di
trasporto
Costi del
trasporto
Capacità delle infrastrutture di trasporto, per modo e per tipo
di infrastruttura
Investimenti in infrastrutture di trasporto
Costo del carburante
Costo del trasporto pubblico
Sussidi
Tab. 1 − Classi e set di indicatori per la misura della mobilità (Fonte: European Commission 2001)
In base all’indicatore utilizzato e al tipo di elemento geometrico (punto, area o linea) cui l’indicatore è
associato, è possibile creare delle mappe tematiche descrittive dello stato del sistema trasporti-territorio.
Una delle più comuni rappresentazioni è quella relativa ai flussi di traffico in cui a ciascun asse viario si
associa la densità dei flussi di traffico che lo attraversano.
Un’altra rappresentazione utilizzata per visualizzare il numero di spostamenti sul territorio, ovvero la
matrice origine-destinazione, è quella che utilizza le “linee di desiderio”, che costituiscono un efficace
metodo grafico di rappresentazione della distribuzione spaziale della domanda di mobilità. Una linea di
desiderio è una linea astratta che rappresenta la distanza in linea d’aria tra un’origine ed una destinazione,
e che mostra dove le persone vogliono recarsi. Lo spessore della linea rappresenta il valore della domanda
di mobilità.
Un altro metodo per la rappresentazione della mobilità nello spazio è che visualizza l’insieme dei luoghi
attraversati da un individuo nel corso di un periodo temporale. L’insieme dei luoghi visitato da una stessa
persona nel corso della giornata, di un anno forma uno spazio d’interazione (Hägerstrand 1970) che si può
rappresentare per ciascun individuo.
Per esempio l’insieme dei luoghi visitato in un giorno da un abitante della periferia urbana, che lavora al
centro città si può rappresentare su una cartografia come un triangolo o un trapezio che ha come vertici il
luogo del suo domicilio, il luogo di lavoro ed i servizi localizzati in prossimità dell’uno o dell’altro.
L’aggregazione di questi spazi di attività individuali definisce un’area collettiva d’interazione.
100
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 9 − Indicatori della domanda di trasporto (Fonte: http://www.urban-age.net/ endless_city/_ELC.html)
Numero di passeggeri trasportati per modo di trasporto in quattro città mondiali
Fig. 10 − La rappresentazione della domanda di mobilità nel territorio del Comune di Napoli attraverso le linee di
desiderio (Fonte: Istat 2001)
Fig. 11 − Percorsi spazio-tempo (Fonte: http://geog-www.sbs.ohio-state.edu/faculty/mkwan/ Gallery/STPaths.htm)
101
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Le misure di accessibilità
Come definito nel capitolo 3, l’accessibilità costituisce un elemento per conoscere le relazioni che esistono
tra il territorio e il sistema di trasporto. L’acces-sibilità deriva infatti dalla connessione tra le due principali
componenti della struttura urbana: la componente spazio-funzionale (le attività urbane) e la componente
spazio-temporale (le reti di trasporto e di comunicazione che collegano le varie attività e ne rendono
possibile l’interazione). L’esistenza di questa doppia componente nella definizione dell’accessibilità è
responsabile di una certa confusione della nozione di accessibilità. In diverse applicazioni il termine
accessibilità, enfatizzando a volte l’una o a volte l’altra componente della struttura spaziale, viene spesso
utilizzato indistintamente per intendere la prossimità o la facilità di interazione, oppure l’intensità della
possibilità di interazione (Occelli 1999). Come riportato in Tabella 2, sono state proposte alcune definizioni
di accessibilità, raggruppate secondo il principale approccio di appartenenza:
1.
approccio “fisico-deterministico” dove i fattori di interazione sono rappresentati dalle masse delle
attività localizzate e l’impedimento è una funzione della “distanza” fisica che intercorre fra le diverse
masse;
2.
approccio “economico-funzionalista) dove i fattori di interazione sono le opportunità esistenti nelle
diverse localizzazioni e l’impedimento è assimilabile a un costo – monetizzabile – dello sforzo
(spostamento) necessario per fruire di quelle opportunità;
3.
approccio “probabilistici-comportamentali” dove l’accessibilità è considerata come l’esito di una
pluralità di comportamenti individuali risultanti da un processo di scelta fra alternative diverse;
4.
approccio “informazionale” secondo il quale l’accessibilità è assimilabile ad una risorsa associata alle
molteplici reti di relazioni nelle quali gli individui sono inseriti.
L’approccio “probabilistico comportamentale” è quello che è utilizzato maggiormente nell’ingegneria dei
sistemi di trasporto. Secondo tale approccio l’accessibilità può essere attiva, che misura la facilità con cui
gli attori che si trovano in quella zona possono raggiungere le funzioni presenti nei diversi punti del
territorio, oppure passiva, che misura la facilità con cui le funzioni (produttive, commerciai, residenziali) di
una zona possono essere raggiunte da utenti localizzati in diversi punti del territorio. In termini analitici
l’indicatore di accessibilità è composto da due funzioni, del tipo:
Ai = Σjg(Wj) * f(Cij)
iI jJ
Dove Ai è l’accessibilità della regione i, Wj sono le attività presenti nella regione j, Cij è il costo
generalizzato per arrivare alla regione j dalla regione i. Le funzioni g(Wj) e f(Cij) sono chiamate funzione
attività e funzione impedenza. In base alla specificazione di queste due funzioni si definiscono diversi
indicatori per misurare l’accessibilità. Attraverso l’utilizzo del GIS è possibile visualizzare sul territorio la
distribuzione degli indicatori di accessibilità sul territorio (Fig. 12).
Definizioni
Approcci
Il potenziale delle opportunità d’interazione (Hansen
1959)
Le caratteristiche di un luogo rispetto all’impedenza
spaziale che deve essere superata per accedervi (Ingram
1971)
Fisico- deterministico (approccio
gravitazionale)
Le qualità di condizioni dell’offerta di trasporto in un
luogo (Vickerman 1979)
Economico – funzionalista (approccio
antropico)
L’esito delle scelte fra un insieme di alternative (BenAkiva 1979)
Economico – comportamentale (approccio
microeconomico, teoria della utilità
causale)
Un aspetto della libertà di azione degli individui,
rispetto a vincoli temporali e spaziali (Hagerstrand
1975)
Una risorsa associata alle molteplici reti di relazione
stabilite dalle persone e dalle organizzazioni del sistema
urbano (Castells 1989)
Spazio-temporale (approccio
comportamentale)
Informazionale
Tab. 2 – Alcune definizioni di accessibilità (Fonte: Occelli 1999)
102
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 12 – Accessibilità ai luoghi di lavoro in meno di 45 minuti (Fonte: Geurs, Ritsema van Eck 2001)
I modelli di simulazione trasporti-territorio
Quanto riportato nei precedenti paragrafi fa riferimento alla misura e alla rappresentazione della mobilità
sul territorio, ovvero a metodi descrittivi dello stato del sistema di trasporto e dei suoi effetti sul territorio
in un particolare istante.
Oltre questi metodi di rappresentazione del sistema di trasporto, sono stati sviluppati modelli analitici
attraverso i quali è possibile simulare il comportamento del sistema integrato trasporti-territorio.
Questi modelli prendono il nome di modelli di simulazione trasporti-territorio e sono utilizzati non solo per
descrivere lo stato del sistema integrato in un particolare istante temporale, ma per rappresentare le
relazioni dinamiche tra le trasformazioni del territorio e le trasformazioni del sistema di trasporto, ovvero
per simulare gli effetti dell’evoluzione del sistema di trasporti sul territorio e viceversa.
In generale i modelli matematici utilizzati in ingegneria dei sistemi di trasporto (modello del sistema
domanda/offerta) sono in grado di simulare gli effetti sul sistema di trasporto di una serie di interventi
proposti (realizzazione di una nuova strada, ecc).
I modelli di simulazione trasporto-territorio permettono di simulare anche gli effetti che un nuovo
intervento infrastrutturale può avere sul sistema delle attività, ovvero che una variazione dell’accessibilità
conseguente al progetto di sistema di trasporto può avere sulla rilocalizzazione delle attività e degli spazi
adattati sul territorio.
In generale i modelli di simulazione trasporti-territorio sono una combinazione di modelli di simulazione
spaziale5 con i modelli trasportistici6 e le principali componenti che sono tenute in conto nei modelli di
simulazione trasporti-territorio:

sottosistema fisico. Questa è la componente più stabile, dato che variazioni sul sistema delle attività si
possono considerare che avvengano nel lungo periodo. Il principale impatto di una variazione della
localizzazione delle attività e della propria intensità d’uso è sulla propria capacità di attrarre e produrre
spostamenti;

sottosistema dell’offerta di trasporto, ovvero delle infrastrutture. Anche questa componente si può
ritenere stabile. La costruzione di una strada o di una ferrovia avviene infatti nel lungo periodo. Una
variazione dell’offerta infrastrutturale, come ad esempio la costruzione di una nuova stazione ferroviaria,
provoca una variazione delle condizioni di accessibilità e di conseguenza variazioni di domanda di
spostamento.
5
6
Per modelli di simulazione di uso del suolo, sviluppati nell’ambito delle scienze geografiche, si intendono delle funzioni
analitiche che permettono la simulazione nel tempo di caratteristiche spaziali (come l’evoluzione dell’uso del suolo).
Per un approfondimento ai modelli trasportistici si rimanda a Cascetta (1998).
103
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi

sottosistema della domanda di spostamento. Questa componente è quella più dinamica, dato che la
mobilità di persone o merci riflette cambiamenti immediati. La domanda di spostamento è quindi una
diretta conseguenza della dinamica urbana, piuttosto che un fattore che la condizione.

sottosistema delle attività, ovvero la localizzazione e l’intensità d’uso delle attività, misurato di solito in
termini di densità di residenti e addetti per tipologia economica. La distribuzione delle origini e delle
destinazioni degli spostamenti è conseguenza diretta della localizzazione dei residenti e degli addetti sul
territorio.
I modelli di simulazione trasporti-territorio si basano su tre ipotesi di base: la domanda di trasporto è
derivata da scambi economici tra le diverse attività; la localizzazione delle attività è influenzata dalla
accessibilità; l’equilibrio tra trasporto e uso del suolo è dato dall’interazione tra domanda e offerta. In altri
termini uso del suolo ed offerta di trasporto si influenzano reciprocamente: la presenza di popolazione e di
attività economiche e la loro distribuzione territoriale determinano la domanda di spostamenti degli
individui e delle merci, mentre a sua volta l’offerta di trasporto influenza le scelte di localizzazione delle
famiglie, delle imprese e, in generale, degli operatori economici. Questi modelli, a differenza dei classici
modelli trasportistici, non considerano la domanda di trasporto come fissa, ma variabile nel tempo in
funzione della configurazione dell’offerta, ovvero delle politiche di trasporto messe in atto e delle variazioni
di uso del suolo. Tra i modelli di simulazione trasporti-territorio più utilizzati sono il TRANUS e il
MEPLAN, di cui si riporta lo schema di funzionamento in figura seguente.
Fig. 13− Il funzionamento del modello MEPLAN (Fonte: Echenique et alia 1988)
7.5.
La conoscenza delle condizioni di rischio degli insediamenti:
metodi e tecniche
Il paragrafo affronta il tema della conoscenza del rischio degli insediamenti fornendo metodi e tecniche sia
per la misura delle caratteristiche di esposizione e di vulnerabilità, sia esemplificazioni di analisi di rischio.
Nella prima parte del paragrafo si esaminano i principali requisiti che le analisi di rischio devono possedere
per supportare efficacemente la redazione di strumenti urbanistici alle diverse scale, evidenziando,
peraltro, il nodo problematico del passaggio dalla costruzione del bagaglio conoscitivo del rischio alla
formulazione dei piani urbanistici. Successivamente, vengono forniti spunti e riferimenti metodologici ed
operativi per la definizione di indicatori di misura dell’esposizione e della vulnerabilità dei sistemi urbani.
Affianco alla misura più tradizionale dell’esposizione e della vulnerabilità, nell’ultima parte del capitolo,
vengono forniti elementi di metodo per la definizione di scenari di rischio finalizzati alla quantificazione
degli impatti fisici e sistemici sui sistemi urbani, dei quali viene fornita una breve esemplificazione in
relazione ad uno scenario di evento sismico su un sistema urbano di grandi dimensioni.
La conoscenza del rischio per la redazione dei piani
Le analisi di rischio, pur essendo state oggetto di significativi approfondimenti nel corso degli ultimi
decenni, solo in pochi casi sono orientate a dialogare efficacemente con le regole e le norme della
strumentazione urbanistica ordinaria, configurandosi quale effettivo supporto alle scelte di governo delle
trasformazioni urbane e territoriali.
Le pur accurate analisi di pericolosità generalmente disponibili consentono certamente di supportare la
definizione di future destinazioni d’uso, così come la disponibilità di indici sintetici di rischio rappresenta un
utile strumento per la programmazione degli interventi e l’allocazione delle risorse ma, entrambe queste
104
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
informazioni, risultano di dubbia utilità non solo per graduare l’intensità e definire la forma d’uso dei futuri
insediamenti ma, soprattutto, per definire e implementare adeguate strategie di mitigazione del rischio
negli insediamenti esistenti.
In altre parole, è ancora recente e maturata prevalentemente sul piano teorico, la consapevolezza che la
messa a punto di efficaci strategie per la prevenzione e la mitigazione dei rischi naturali richiede, anzitutto,
informazioni disaggregate sui diversi fattori che concorrono alla generazione del rischio, in grado di
indirizzare le scelte di governo delle trasformazioni alle diverse scale verso obiettivi di prevenzione e
mitigazione. La disponibilità di informazioni disaggregate risulta di particolare rilevanza quando le
condizioni di pericolosità investono insediamenti esistenti: in questi casi, infatti, le scelte di piano sono
chiamate a concorrere alla riduzione del rischio attraverso strategie urbanistiche volte ad incidere sia,
laddove possibile, sugli elementi che generano o amplificano la pericolosità di una data area sia,
soprattutto, sulle caratteristiche di esposizione e vulnerabilità degli insediamenti.
La misura della vulnerabilità dei sistemi territoriali: scale, indicatori, problemi operativi
In generale, le maggiori criticità insite nella valutazione di vulnerabilità dei sistemi urbani e territoriali
possono essere così riassunte:

necessità di tenere in conto, contemporaneamente, differenti tipi di vulnerabilità (fisica, organizzativa,
sistemica, sociale, ecc.);

la mancanza di metodi e tecniche condivise per la misura e in particolare di parametri di misura
condivisi sia a scala territoriale che urbana;

la necessità di tenere in conto l’evoluzione temporale dell’esposto vulnerabile;

la difficoltà di definire un indicatore aggregato di vulnerabilità per aree sottoposte all’azione di più fattori
di pericolosità.
Il primo punto è riferito alla necessità di tenere in conto contemporaneamente di più tipi di vulnerabilità
riferibili allo stesso o a più fattori di pericolosità, evidenziata in molti studi scientifici ed affrontato mediante
il tentativo di mettere a punto una griglia di analisi generale della vulnerabilità. Nel caso della presenza di
più fattori di pericolo che possono innescarsi nello stesso periodo temporale sulla stessa area, è necessario
considerare i diversi elementi esposti e le differenti caratteristiche di vulnerabilità. Il secondo punto è
legato al fatto che non esistono metodi e tecniche condivise per la misura della vulnerabilità alle diverse
scale per i diversi fattori di pericolosità. Solo per alcuni di essi, ad esempio il rischio sismico, è possibile
rintracciare un insieme consistente di metodi e tecniche di valutazione alle diverse scale. Due sono i
problemi che maggiormente influenzano tale circostanza: la mancanza di indicatori di vulnerabilità sia
fisica che sistemica per hazard diversi da quello sismico, la necessità di impiego di dati dettagliati ma
facilmente accessibili nelle procedure di misura proposte. Molto spesso, infatti, sono proposte in letteratura
procedure di misura basate su dati statistici che, però, alla scala urbana risultano spesso troppo
semplificative. Un elemento comune di queste procedure può essere, invece, rintracciato nell’uso del GIS
come strumento in grado di supportare la valutazione e gestirne in modo adeguato i risultati, anche
mediante l’implementazione di strumenti di supporto alla decisione.
In riferimento alla difficoltà di tener conto della evoluzione temporale dell’esposto vulnerabile nella
valutazione, i problemi sono da ricondurre alla possibilità di verificarsi sullo stesso areale di più eventi che
determinano la variazione dell’esposizione durante il tempo che intercorre tra i due fenomeni e la
variazione della vulnerabilità fisica sugli elementi colpiti dal primo fenomeno e successivamente impattati
dal secondo (ad esempio le frane conseguenti ad un terremoto). In tal caso il danno, non solo fisico ma
anche sistemico, non può essere espresso come somma dei danni determinati dai due eventi. Tale
circostanza evidenzia il limite di molte procedure di misura multi-rischio incentrate sulla tecnica
dell’overlapping di singole mappe di rischio o vulnerabilità e determina la necessità di esplorare metodi di
misura basati su un approccio “integrato” alla valutazione di vulnerabilità.
Per quanto riguarda la difficoltà di definire indici aggregati di vulnerabilità per le aree soggette a più fattori
di pericolosità, passando cioè a valutazioni di vulnerabilità a valutazioni di rischio, va segnalato che se la
finalità della valutazione è produrre informazioni utili per il processo di governo dei sistemi urbani e
territoriali, sono necessarie sia informazioni aggregate che dati disaggregati. Le prime aiutano a definire
aree critiche con priorità di azione, le seconde, invece, supportano la definizione di azioni di mitigazione da
implementare attraverso gli strumenti di pianificazione. In generale, la struttura dei metodi di misura della
vulnerabilità prevede la costruzione di una griglia spaziale di riferimento, definibile a partire da diverse
aggregazioni di sezioni censuarie determinate, in relazione alla scala di analisi, sulla base di caratteristiche
geomorfologiche, di uso del suolo e urbanistiche. La base delle sezioni censuarie permette, soprattutto a
scala territoriale, di utilizzare i dati statistici all’interno delle procedure di misura. A seconda dei diversi
fattori di pericolosità presenti ed alla scala di riferimento, si determinano gli elementi esposti e in relazione
105
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
ai diversi tipi di vulnerabilità di definiscono i parametri e gli indicatori per la misura di esposizione e
vulnerabilità. Gli elementi esposti possono essere articolati in elementi puntuali (ad esempio attrezzature
strategiche), lineari (ad esempio la rete stradale) e areali (ad esempio le aree urbane, i tessuti, ecc.). I
parametri e indicatori dell’esposizione fanno riferimento al numero, quantità e ruolo territoriale degli
elementi spesso rapportato alla dimensione dell’unità territoriale di riferimento. Per quanto riguarda la
vulnerabilità, si determinano innanzitutto gli indicatori riferiti alla vulnerabilità fisica degli elementi esposti
significativi per una valutazione di tipo urbanistico in riferimento al tipo di hazard considerato ed alla scala
di riferimento. Molto spesso si affiancano gli indicatori riferiti alla vulnerabilità della popolazione relativi
all’età ed alla autosufficienza in caso di evento. Infine, si definiscono gli indicatori per la misura della
vulnerabilità sistemica, riferiti alle dotazioni per l’emergenza, l’accessibilità del territorio in caso di evento, il
livello di infrastrutturazione del territorio, ecc. Altri tipi di vulnerabilità sono raramente prese in
considerazione nelle misure finalizzate a supportare la redazione di piani urbanistici. Va infine sottolineato
che a scala di maggiore dettaglio corrisponde un maggiore approfondimento dei parametri e degli
indicatori considerati che, ovviamente, utilizzano dati a grana più fine, spesso rilevati sul campo.
Infine, un’ultima notazione va riservata al passaggio dalle analisi di vulnerabilità a quelle di rischio.
Essendo il rischio generalmente espresso in termini di sofferenze umane (vittime e feriti) e in termini di
danni attesi, il passaggio formale è possibile solo laddove siano state sviluppate curve di vulnerabilità
affidabili in riferimento ai diversi fattori di pericolo. Le curve individuano per ciascun hazard e per ciascun
elemento esposto il livello di danneggiamento al crescere dell’intensità dell’evento. Tali curve sono state
sviluppate solo per alcuni singoli fattori di pericolo (ad esempio rischio sismico). Più semplicemente, in
alcuni casi vengono utilizzate delle matrici di danno che individuano per diversi livelli di pericolosità la
corrispondenza con differenti livelli descrittivi di danno per gli elementi classificati in una data classe di
vulnerabilità (Bernardini 2000; Cosenza e Manfredi 2000), sulla base di rilevazioni statistiche e di pochi
parametri di riferimento.
Le tecniche di scenario per la prefigurazione del rischio
In ambito urbano e soprattutto nel caso di sistemi ad elevata complessità, per indirizzare le politiche di
mitigazione del rischio può essere utile non soltanto una valutazione della vulnerabilità, ma anche la
conoscenza in termini spaziali e dinamici delle concatenazioni di eventi e danni che potrebbero verificarsi a
seguito di un evento. Le tecniche di scenario, presupponendo uno “specifico” evento di riferimento, ci
consentono di leggere le relazioni esistenti tra i danni subiti dagli elementi colpiti, di concatenazioni e
influenze reciproche tra gli elementi danneggiati, le relazioni tra elementi fisici colpiti ed attività
influenzate, ecc.
Lo scenario, inoltre, può rivestire anche un ruolo fondamentale come strumento di supporto alla
comunicazione e alla partecipazione, sia tra i tecnici chiamati a concorrere alla definizione stessa dello
scenario, sia nella comunicazione del rischio alla popolazione. In tal senso, la possibilità di comunicare
cosa concretamente potrebbe accadere in caso di evento, può favorire la presa di coscienza della
collettività e la conseguente consapevole partecipazione alle decisioni ed alla condivisione del rischio. Lo
scenario si presenta, quindi, come uno strumento interdisciplinare dalle notevoli capacità comunicative, in
grado di concorrere alla costruzione di conoscenze condivise tra più ambiti disciplinari ed alla maggiore
consapevolezza del rischio nella società. Inoltre, le tecniche di scenario possono rivestire un ruolo
importante anche ai fini della pianificazione di emergenza per definire azioni efficaci per ottimizzare la
risposta del sistema in emergenza in relazione ad una distribuzione realistica degli effetti di un evento su
un sistema urbano o territoriale.
Le tecniche di scenario sono state maggiormente sviluppate in relazione a eventi sismici, e sono orientate
a valutare gli effetti su un territorio di uno specifico evento di una data intensità, caratterizzando i diversi
tipi di danno che l’evento può determinare. Anche tali tecniche analizzano il fenomeno in termini di
pericolosità, esposizione e vulnerabilità, ma tali caratteristiche vengono determinate in funzione di un
evento preciso, fissato nel tempo e nello spazio. Nella costruzione di scenari la disciplina urbanistica non
ha ancora affermato con forza un proprio campo di azione significativo.
Molto spesso, infatti, l’apporto urbanistico resta limitato alla gestione delle informazioni e alla loro
trasposizione in sistemi informativi che visualizzano sul territorio la distribuzione dei danni edilizi e delle
sofferenze umane. Solo di recente sono state messe a punto tecniche di scenario che, a partire da una
distribuzione del danno fisico, ottenuta con tecniche ormai consolidate, ricostruiscono ed evidenziano i
danni e guasti sistemici susseguenti al sisma non riconducibili direttamente al danno fisico. In tali
esperienze il contributo urbanistico è fondamentale poiché tali danni e guasti sono riferibili alla domanda di
particolari attività urbane in emergenza e alla possibilità da parte del sistema urbano di soddisfare tale
domanda. Gli scenari sismici sono basati sulla trasformazione della pericolosità sismica e della vulnerabilità
edilizia e delle infrastrutture nel danno atteso. La traduzione in possibili danni di un evento sismico di una
106
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
data intensità su una città i cui edifici sono caratterizzati da una data vulnerabilità, è stato infatti l’aspetto
più approfondito degli scenari di danno. Tra questi studi spiccano quelli relativi alla definizione e
applicazione del software HAZUS della Federal Emergency Management Agency (FEMA), strumento di
supporto per tutti i piani di mitigazione del rischio e di gestione dell’emergenza degli Stati Uniti.
In alcuni casi tale strumento è stato integrato per definire i danni attesi ai sistemi a rete di una città o di
un territorio. In Italia, il metodo proposto dal Servizio Sismico Nazionale (Bramerini et alia 1995) per la
costruzione dello scenario di danno sismico prevede di tradurre l’evento sismico di riferimento in danno
edilizio sulla base del metodo messo a punto da Benedetti e Petrini (1984). Tale metodo è incentrato sulla
valutazione della vulnerabilità condotta mediante analisi e schedatura di alcune caratteristiche metriche,
tipologiche e strutturali degli edifici. Successivamente è stimata la popolazione coinvolta e quindi i morti ed
i feriti.
Recentemente, sono state a punto particolari tecniche di scenario finalizzate all’analisi di aspetti
dell’emergenza post-evento scarsamente considerati. In tali studi si sono in particolare approfondite le
relazioni esistenti tra danno fisico agli edifici ed alle infrastrutture e situazioni di crisi funzionale, di
mancanza di erogazione di prestazioni in emergenza, contribuendo ad estendere le tecniche di scenario
verso un aspetto ancora non indagato dell’impatto sismico sui sistemi urbani: la prima emergenza post
evento.
Tali studi hanno messo a punto tecniche di scenario per determinare le sofferenze umane che si possono
verificare a seguito di un terremoto non direttamente imputabili al danno diretto degli edifici.
Scenari di rischio sismico a scala urbana
A titolo esemplificativo, può essere sinteticamente descritta la costruzione di uno scenario sismico a scala
urbana che tenga in conto danni e guasti di natura sistemica, non tutti riconducibili al danno edilizio
diretto. Per definire i diversi danni susseguenti un sisma e le loro relazioni si è costruito un diagramma ad
albero che descrive le catene di danni e guasti in relazione sia alla domanda di attività che un evento
specifico può generare, sia alla fase temporale in cui eventi e domanda di attività iniziano a manifestarsi.
La costruzione del diagramma è stata effettuata sulla base della ricostruzione di una casistica di eventi
sismici accaduti nel passato in varie tipologie di sistemi urbani (Ceudech 2006).
Tale diagramma, che rappresenta la struttura dello scenario di evento, fornisce un quadro sinottico degli
avvenimenti post-evento e delle diverse domande di attività che vengono a generarsi a seguito del sisma.
È opportuno sottolineare che la tecnica di costruzione di alberi di guasti e di danni è stata applicata a
diversi campi scientifici ed anche al problema della definizione dei danni edilizi e dei sistemi a rete, in
particolare gas ed acquedotti.
Nel diagramma sono stati individuati i “bersagli”, manufatti ed attività urbane che potrebbero essere colpiti
dall’evento sismico. La diversificazione di elementi appartenenti a identiche tipologie di bersagli (ad
esempio le attività diffuse o polarizzanti) è tesa ad evidenziare il diverso comportamento che elementi
appartenenti ad una stessa categoria possono manifestare in caso di sisma e le diverse relazioni che tali
elementi hanno con gli altri bersagli.
La scansione temporale adottata prevede tre fasi: il terremoto, la prima emergenza a ventiquattrore dal
sisma, la prima settimana post-evento.
Nell’istante del terremoto si verificano i danni fisici ai manufatti edilizi, alle infrastrutture viarie ai sistemi a
rete che determinano subito un’aliquota di sofferenze umane, morti e feriti, e un’eventuale aliquota di
riduzione di efficienza alle attrezzature per l’emergenza direttamente dovuta al danno edilizio. In questa
fase la rottura di alcuni sistemi a rete, in particolare il gas, può comportare un incremento dei danni fisici.
Nelle prime 24 ore dal sisma, si verifica la congestione della rete viaria che presenta importanti risvolti
sugli altri bersagli, anche su quelli già colpiti, potendo, infatti, influire sulle operazioni di soccorso. Inoltre,
si manifesta la domanda di accoglienza della popolazione in spazi aperti sicuri.
Dalla fine delle 24 ore post sisma, diverse attività urbane iniziano a manifestare una ridotta efficienza,
potendo talvolta raggiungere il proprio limite di esercizio. Il diagramma così costruito individua le relazioni
tra danni e guasti sistemici, evidenziando le sequenze temporali in cui essi si manifestano. Ciascun
elemento della struttura dello scenario è oggetto di una valutazione specifica basata su apposite
procedure.
7.6.
Tecniche di interpretazione delle informazioni
In questo paragrafo vengono forniti cenni sull’applicazione delle tecniche statistiche al trattamento e
all’interpretazione dei dati territoriali. In particolare, si affrontano le tecniche statistiche uni variate e
multivariate, fornendo indicazioni sulle loro applicazioni in campo territoriale.
107
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Le tecniche di statistica univariata
Le tecniche di statistica univariata per mettono di classificare gli elementi di una popolazione statistica
attraverso una sola caratteristica, descrivendola e rappresentandola mediante indicatori. Una prima
operazione consiste nell’ordinamento dei dati raccolti in ordine crescente o decrescente ottenendo una
serie, ovvero un ordinamento di dati numerici.
In pratica, le curve più impiegate nelle previsioni dei fenomeni territoriali sono la retta (y = ax + b), la
parabola (y = ax2 + bx + c) e la curva esponenziale (y = abx). Con il metodo dei minimi quadrati la nuvola
viene approssimata mediante una retta (regressione lineare). I coefficienti della retta (a e b) devono
essere tali da minimizzare lo scarto tra i valori della retta e i valori registrati, ovvero si impone che la
somma dei quadrati degli scarti verticali sia minima. L’uso dei quadrati permette di lavorare anche con gli
scarti negativi (la somma degli scarti può essere nulla anche con scarti reali diversi da zero).
Pertanto:
Affinché tale equazione venga soddisfatta le derivate parziali della funzione rispetto ad a e b devono
essere pari a zero. Impostando e risolvendo il sistema di equazioni, si ha: a = σxy / σ2; b = My – a Mx
Il coefficiente angolare della retta a, detto anche coefficiente di regressione lineare, indica quanto varia la
y al variare di una unità della x, per cui se a = 0, allora y è indipendente da x, è dato dal rapporto tra
covarianza e varianza. Il coefficiente b è invece determinato dalla differenza tra la media dei valori di y e il
prodotto tra a e la media dei valori di x.
L’analisi di correlazione ci indica quanto strettamente le due variabili si muovono insieme, ovvero quanta
variabilità di un fenomeno è da mettere in relazione con la variabilità dell’altro fenomeno.
Le tecniche di statistica multivariata
L’applicazione dell’analisi multivariata a campi di ricerca come quello territoriale risulta essere molto valida,
grazie alla sua capacità di elaborare e sintetizzare notevoli quantità di informazioni e dati, legati da
complesse relazioni di interdipendenza, che caratterizzano i fenomeni territoriali, altrimenti difficilmente
governabili.
I punti di forza di queste tecniche possono essere, in pratica, ricondotti a due aspetti principali: da un lato,
la capacità di ridurre grandi quantità di dati ad un numero contenuto di variabili, garantendo una perdita di
informazione minima e misurabile, e, dall’altro, la possibilità di applicarle anche in assenza di ipotesi
predefinite riguardo le relazioni tra le variabili che descrivono il fenomeno oggetto di studio (Gargiulo
1995). In pratica, si tratta di definire in che misura ciascuna delle n variabili prese in esame costituisce una
ripetizione statistica delle rimanenti n-1 variabili e, quindi, se è possibile raggiungere la stessa efficacia
descrittiva con un numero di variabili non osservate p, minore di n, dette “fattori” che indicano le
dimensioni principali del fenomeno analizzato. A fronte di una perdita di informazioni che può essere
comunque trascurabile, l’analisi fattoriale può essere usata come tecnica per far emergere evidenze latenti
di un fenomeno oppure come tecnica di riduzione delle variabili di un dato problema. I fattori
costituiscono, quindi, nuove variabili non osservate che contengono un’informazione compattata capace di
rendere evidente la «struttura latente di un territorio» (Fuccella 1995).
L’analisi fattoriale delle componenti principali (ACP), tra le più impiegate in campo territoriale, è un metodo
geometrico che permette di ridurre il numero di variabili che descrivono le unità (o individui) oggetto di
studio e di rappresentare le caratteristiche di questi ultimi attraverso un numero ristretto di nuove variabili,
le componenti principali appunto, scomponendo il fenomeno secondo gli assi strutturali di importanza
decrescente (Fig. 14). In pratica, si effettua una trasformazione lineare delle variabili che proietta quelle
originarie in un nuovo sistema cartesiano nel quale la nuova variabile con la maggiore varianza viene
proiettata sul primo asse, la variabile nuova seconda per dimensione della varianza sul secondo asse e così
via. La cluster analysis è una tecnica molto utilizzata nella analisi territoriali, che ha per obiettivo la
formazione di classi omogenee all’interno di ciascuna di esse, rispetto simultaneamente ad un numero
prefissato di variabili, ed il più possibile eterogenee tra loro. La tecnica si basa sulla definizione della distanza
(o similarità) fra gli elementi in un iperspazio a p dimensioni, dove p sono le caratteristiche considerate. In
alcuni casi, i gruppi esistono realmente e l’analisi riesce ad individuarli (ad esempio le città collinari e
montane). In altri casi, i gruppi non corrispondono a situazioni reali, in questo caso la tecnica effettua
un’analisi tipologica ricercando gruppi omogenei indipendentemente dalla loro effettiva esistenza. Tali
analisi sono particolarmente utili per la definizione di aree omogenee, ambiti, ecc. in questo caso possiamo
parlare di cluster territoriali caratterizzati da determinati livelli degli indicatori considerati.
108
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CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Fig. 14 – Rappresentazione grafica dell’ACP (Fonte: http://www.federica.unina.it/)
Le operazioni principali per la cluster analysis sono la scelta delle variabili, cercando di evitare variabili con
valori numerici estremamente diversi, variabili molto correlate tra loro; la definizione dell’algoritmo; la
scelta del numero dei gruppi e l’interpretazione delle classi. In genere, gli algoritmi possono utilizzare
criteri di scissione, più sofisticati e utili per poche variabili, e quelli aggregativi o di agglomerazione, più
semplici, utili con molte variabili e più utilizzati in campo urbanistico. In ogni caso, i cluster sono definiti
mediante il computo delle distanze, organizzato in matrici quadrate che nelle celle contengono la
differenza tra i valori delle unità statistiche in riferimento alle variabili considerate.
Successivamente, si accorpano le unità statistiche più vicine tra loro (o più lontane) e si procede per
successive iterazioni. I metodi gerarchici, più utili in campo urbanistico, operano raggruppando le unità più
vicine. Questi metodi conducono ad una struttura gerarchica per le unità, in quanto ad ogni step le classi
sono ottenute dalla fusione di due classi dello step precedente, che può essere visualizzata con un
diagramma ad albero, denominato dendrogramma (Fig. 15). Sull’asse orizzontale sono rappresentati le
unità statistiche e su quello verticale le distanze o similarità.
Un esempio di applicazione sia dell’ACP che della cluster analysis, riguarda lo studio delle relazioni tra
variabili urbane e consumi energetici, effettuato dal gruppo di ricerca del TeMALab. L’applicazione dell’ACP
ha permesso di individuare le componenti principali all’interno delle numerose variabili fisiche, edilizie,
ambientali e socio-economiche oggetto di studio, permettendo di capire quali siano i determinanti dei
consumi.
Fig. 15 – Dendrogramma (Fonte: http://www.federica.unina.it/)
Gli output forniti dall’ACP hanno messo in luce la maggiore influenza delle caratteristiche fisiche rispetto a
quelle socio-economiche, definendo gli assi principali della nuvola di punti considerati.
Sui risultati dell’ACP è stata effettuata la cluster analysis che ha permesso di articolare l’area oggetto di
studio in tre classi di tessuto, sulla base dei valori dei consumi energetici.
109
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
7.7.
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
I modelli come supporto alla conoscenza e alla previsione
dell’assetto del sistema urbano
Caratteristiche dei modelli territoriali
I modelli impiegati nello studio della città e del territorio sono orientati a spiegarne l’organizzazione ed il
comportamento partendo dalle caratteristiche strutturali del sistema territoriale (popolazione, servizi,
flussi, ecc.). I modelli urbani e territoriali possono essere classificati in diversi modi. Una prima
classificazione si basa sulle modalità di rappresentazione schematica, distinguendo i modelli iconici, quelli
analogici e quelli matematici.
I modelli iconici rappresentano la forma della realtà territoriale, evidenziandone le caratteristiche formali.
Un esempio di modello iconico è costituito dai plastici che riducono la scala degli edifici evidenziandone la
struttura, l’involucro, la rete dei servizi, i sistemi connettivi, ecc. I modelli analogici sono rappresentazioni
di fenomeni territoriali o urbani che utilizzano le analogie con fenomeni appartenenti ad altri campi
disciplinari. La costruzione di questi modelli prevede la sostituzione, per analogia, di una proprietà del
fenomeno da modellizzare con una simile. I modelli matematici sono rappresentazioni simboliche della
realtà, in cui ad elementi reali sono associati simboli. Si tratta di modelli basati su espressioni matematiche
che individuano le relazioni tra gli oggetti al fine di spiegarne e prevederne il funzionamento. I modelli
matematici possono essere di tipo descrittivo se descrivono ed interpretano il territorio così come si
manifesta all’osservatore, mediante un insieme di equazioni. Sono, invece, di tipo previsionale se
contengono ipotesi sul probabile andamento di un fenomeno. Essi sono di difficile realizzazione perché da
un lato descrivono il sistema analizzato, dall’altro tentano di prevederne la sua evoluzione. Sono di
proiezione se proiettano ad un tempo futuro l’andamento di un sistema, ipotizzando l’assenza di cause
perturbatrici tali da influenzarne l’andamento.
Una classificazione dei modelli può essere effettuata in funzione del parametro temporale, distinguendo
modelli di tipo statico e dinamico. I primi presuppongono uno stato di equilibrio finale verso cui tende il
sistema territoriale, quelli dinamici, invece, cercano di definire la legge di evoluzione temporale di alcune
variabili significative del sistema senza la prefigurazione di una condizione di equilibrio finale e pertanto
risultano più difficili da mettere a punto.
Ancora, possiamo articolare i modelli in deterministici e probabilistici. I modelli deterministici si basano su
relazioni di causa-effetto e su rapporti di causalità. Essi sono semplici ma non rispecchiano il
comportamento complesso di un sistema territoriale. I modelli probabilistici interpretano i fenomeni in
base alla probabilità che essi possano verificarsi. Per costruire questi modelli si ricorre a tecniche di analisi
probabilistica. L’analisi non è finalizzata alla ricerca dei fenomeni realmente verificabili ma quello che con
più probabilità potrà verificarsi.
La regola rango-dimensione (rank-size rule) cerca di spiegare e modellizzare i processi di agglomerazione
delle città e lo stabilirsi di gerarchie tra centri urbani in un territorio sulla base della loro dimensione
demografica assunta quale indicatore di sintesi del loro ruolo territoriale. La regola trova una prima
formulazione nel lavoro di Auerbach del 1913 ma essa è stata successivamente sviluppata da diversi
autori. La definizione della regola rango-dimensione partono da osservazioni di carattere sperimentale
condotte su ampi territori che mostrano una correlazione statistica tra i centri ordinati in modo
decrescente rispetto alla loro dimensione demografica e la distanza esistente tra essi. Se in un dato
territorio misuriamo la popolazione dei centri urbani, generalmente si verifica la presenza di poche città
con elevata popolazione e molte città piccole. Per analizzare l’organizzazione spaziale dei centri urbani di
un territorio basta quindi stabilire delle classi di ampiezza demografica, misurare la popolazione dei centri
urbani e ordinare le città in maniera decrescente. La dimensione demografica di un centro (Pi) è data dal
rapporto tra la popolazione del centro più grande (P1) e la sua posizione (ri). Poiché P1 è costante, la
relazione può essere espressa come:
Tale equazione rappresenta una iperbole equilatera in cui K è il valore della popolazione più grande del
sistema territoriale, cioè quella di rango pari a 1.
A seguito delle applicazioni sperimentali condotte sulla regola rango-dimensione in varie realtà territoriali,
nel 1925 Lokta introdusse un coefficiente q al rango ri. Pertanto, la regola assume la forma:
110
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
Il parametro q è caratteristico del sistema territoriale analizzato e permette di calibrare la relazione
gerarchica esistente tra i centri urbani. Il parametro oscilla tra valori superiori allo zero (condizione in cui
tutti i centri hanno la stessa dimensione pari a quella della città più grande) e valori poco superiori all’unità
(per q tendente all’infinito si ottiene un’unica città in cui è concentrata tutta la popolazione del sistema).
Esso rappresenta, quindi, la forma della distribuzione del rapporto rango-dimensione, ovvero fornisce
indicazioni sul tipo di gerarchia presente nel sistema territoriale. In generale, per sistemi territoriali a valori
elevati di q corrispondono centri con divario dimensionale più grande e sistemi di centri dipendenti da
un’unica grande città (primate-rule).
Viceversa, a valori più bassi di q corrisponde una gerarchia che decresce più lentamente e una gerarchia
strutturata su più sistemi che dipendono da più città primato (struttura oligarchica).
Molto importante è la rappresentazione grafica della regola, attraverso un diagramma cartesiano che
riporta sulle ascisse il valore del rango e sulle ordinate la corrispondente dimensione demografica dei
centri. Posto q uguale a 1 si ottiene una iperbole equilatera. Se il parametro q è posto minore dell’unità si
ottiene una curva che tende ad andare verso l’esterno cioè alla città con la stessa popolazione corrisponde
un rango più elevato, viceversa se q è posto maggiore dell’unità, alla stessa città corrisponde un rango
meno elevato. Nel primo caso si tende ad appiattire la gerarchia, nel secondo caso, invece, ad enfatizzarla.
Fig. 16 − La regola rango-dimensione (Fonte: Scandurra 1987)
Molto spesso, per semplicità di rappresentazione, la regola rango-dimensione viene rappresentata in un
diagramma logaritmico attraverso la retta:
log Pi = log K-q log ri,
ovvero, essendo K costante, log Pi = K1 – q log ri.
La rappresentazione della regola mediante una retta permette di evidenziare facilmente condizioni
anomale riferite a centri urbani che si posizionano al di sopra della retta, mostrando un rango minore di
quello che dovrebbero avere (centro sotto urbanizzato) o, viceversa, al di sotto della retta (centro sovra
urbanizzato). La regola rango-dimensione è uno strumento che permette di comprendere le relazioni
esistenti tra i centri a scala territoriale e le diverse dipendenze e relazioni funzionali che si stabiliscono tra
le città e quindi per definire ambiti di dominanza di città, ambiti regionali sub regionali di programmazione.
Tali analisi possono essere svolte attraverso comparazioni diacroniche (cioè attraverso il tempo) e
sincroniche (cioè allo stesso istante) delle curve o delle rette interpolatrici delle equazioni citate ed anche
attraverso l’andamento nel tempo del parametro q. Inoltre, l’analisi della curva può evidenziare distorsioni
rispetto alla regola, manifestando zone concave o convesse, le cui cause vanno indagate in dettaglio. Nella
pratica la legge viene verificata in sistemi territoriali caratterizzati da condizioni equilibrate di sviluppo e
quando l’area presa in considerazione è congruente con la dimensione della città più grande, poiché
prendendo un’area troppo piccola posso non cogliere l’insieme delle relazioni gerarchiche tra i centri e
quindi ottenere dei risultati non corretti. Inoltre, spesso un centro di grandi dimensioni deborda dai propri
confini amministrativi su cui si rileva la popolazione, rendendo difficile stabilire la sua popolazione reale. In
questi casi, per determinare i confini di un centro urbano si adotta in genere il criterio della contiguità
dell’edificato. Spesso la regola non si verifica per alcuni tipi di città, dette primaziali o macrocefale, in cui il
divario enorme di popolazione tra la prima e la seconda città determinano valori molto elevati del
parametro q. A partire dalla seconda città, è possibile verificare un andamento orientato sulla regola
rango-dimensione. La spiegazione della regola rango-dimensione va ricercata nell’interazione di spinte che
tendono alla concentrazione delle città e forze che tendono, invece, alla dispersione delle attività sul
territorio. Le prime dipendono principalmente dalla necessità di limitare i costi di trasporto e dalle
economie di scala o di agglomerazione; le seconde dipendono dalla minimizzazione dei costi di trasporto, o
111
ANDREA CEUDECH - ENRICA PAPA
CAPITOLO 7. Tecniche per il governo delle trasformazioni: la conoscenza e l’interpretazi
dalla presenza di risorse nelle aree decentrate. La regola rango-dimensione è, dunque, uno strumento
delineato a partire da osservazioni sperimentali, semplice dal punto di vista della sua formulazione
matematica ma efficace nello studio delle dipendenze gerarchiche tra centri urbani. Per cui nel corso del
tempo sono stati fatti molti tentativi di riformulazione basati su impianti teorici più solidi, come ad esempio
nella riformulazione condotta da Wilson e Berry. In base a tale formulazione, un sistema territoriale è
tanto più vicino alla regola quanto più è sviluppata la sua vita economica, ovvero quanto più è elevato il
suo grado di organizzazione urbana.
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Nota
Questo capitolo è stato aggiornato nel novembre 2019 da Floriana Zucaro.
112
8. TECNICHE PER IL GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI
I METODI GEOCOMPUTAZIONALI
Romano Fistola
8.1.
Le nuove tecnologie
territoriali: i GIS
per
il
governo
delle
trasformazioni
Il termine “geocomputazione” (derivato dall’inglese geocomputation) non si presta ad una comprensione
immediata. In generale utilizzando tale vocaboli ci si riconduce allo sviluppo di metodi, procedure e
tecniche che hanno fortemente inciso nelle definizioni teoriche e disciplinari delle scienze geografiche e
territoriali degli ultimi trent’anni.
Il termine geocomputazione fu coniato, nei primi anni novanta, dal geografo inglese Stan Openshaw che
avvertì la necessità di indicare, con un neologismo, la considerevole mole di avanzamenti tecnicoscientifici, in campo geografico, che circa venti anni fa, aveva raggiunto una prima identificazione
disciplinare. Secondo Openshaw e Abrahart (2004):
GeoComputation offers a new perspective and a paradigm for applying science in a geographical context
(…). GeoComputation involves four leading edge technologies:

GIS creates the data;

Artificial Intelligence provides smart tools;

high performance computers provides the power, science provides the philosophy.
Dal passo appena riportato, tratto da una conferenza del geografo britannico, si evince come la
geocomputazione comprenda in sé molte delle teorie, dei metodi, dei processi e delle tecniche che
attualmente informano l’applicazione delle nuove tecnologie dell’informazione allo studio dei fenomeni
territoriali1.
Volendo fornire una definizione riassuntiva, si dirà che le tecniche ed i metodi geocomputazionali
rappresentano un campo di approfondimento di vaste dimensioni all’interno del quale si indagano le
possibilità di applicazione dell’innovazione di processo e di prodotto consentita dalle nuove tecnologie infotelematiche all’analisi, alla modellizzazione ed al governo delle trasformazioni urbane e territoriali. Anche in
campo urbanistico i processi per l’analisi, la rappresentazione e la pianificazione della città e del territorio si
sono radicalmente trasformati per effetto delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Un grande contributo è stato offerto, all’approfondimento geocomputazionale, dagli studi, originati dalla
diffusione della cibernetica, sull’applicazione spaziale delle tecniche dell’intelligenza artificiale.
In generale è possibile affermare che i metodi e le tecniche geocomputazionali rappresentano oggi degli
insostituibili sistemi di supporto alla decisione per il governo delle trasformazioni territoriali. Fra i diversi
metodi e tecniche vanno menzionati: i sistemi esperti, i sistemi multiagente, gli automi cellulari, le reti
neurali ed, in particolare, i Sistemi Informativi Geografici (GIS).
Restringendo il campo allo studio della città e del territorio è possibile affermare che un GIS (in questo
caso indicato anche con l’acronimo SIT – Sistema Informativo Territoriale) è un sistema informatico nel
quale dati di tipo alfanumerico (numeri, informazioni testuali, documenti) possono essere elaborati,
organizzati, archiviati e soprattutto collegati a specifici enti territoriali (aree urbane, reti infrastrutturali, reti
di mobilità, edifici, etc.) rappresentati su cartografie digitali (numeriche).
I GIS sono oramai giunti ad una fase matura del loro sviluppo ed impiego nel campo dello studio e della
gestione delle trasformazioni urbane e territoriali.
Nel corso degli anni sono emerse due tendenze principali nell’interpretazione d’uso dei GIS: la prima, che è
possibile definire strumentale, è riconducibile all’uso delle potenzialità del software per l’organizzazione, la
tematizzazione e l’interrogazione dei dati e delle informazioni geografiche georeferenziare sul territorio; la
seconda, che potrebbe definirsi “intelligente”, per la quale i GIS rappresentano un “ambiente per lo
sviluppo di nuove elaborazioni, metodologie e procedure per il governo delle trasformazioni territoriali
(Fistola 2000).
1
Esistono altre definizioni del termine GeoComputation fra le quali pare utile riportarne alcune. Per Couclelis (1998): «The
computational theory of complex sociotemporal processes»; per Longley e Brooks (1998): «Geocomputation is the way in
which new computational tools and methods are used»; per Turton e Rees (1998) «The process of applying computing
technology to geographical problems».
113
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 8. Tecniche per il governo delle trasformazioni: i metodi geocomputazionali
In estrema sintesi, riprendendo la definizione condivisa in letteratura (Longley et alia 2004), un GIS è
costituito da sei componenti:

un sistema hardware di processazione;

un programma (software) per l’elaborazione ed il trattamento dei dati;

i dati cartografici e alfanumerici (data-base) quali input del software;

l’operatore umano che progetta, struttura e gestisce il sistema interpretando i risultati delle analisi
effettuate;

le procedure e le funzionalità del sistema;

la rete che consente di condividere le conoscenze, distribuire i risultati, pubblicare i GIS on-line, etc.
La conoscenza territoriale e la sua rappresentazione sono elementi fondanti del processo di governo delle
trasformazioni territoriali.
Le possibilità offerte in tal senso dai Sistemi Informativi Geografici (GIS) aprono dimensioni innovative per
il controllo delle evoluzioni ambientali e la gestione del sistema urbano e territoriale. Con i GIS e con la
possibilità di realizzare cartografie numeriche, rappresentazioni elettroniche del territorio nelle quali i
singoli enti territoriali possono essere identificati attraverso le coordinate reali (georeferenziazione),
modificati in tempo reale, misurati nella loro superficie o estensione, riprodotti in diverse scale di
rappresentazione, stampati secondo le diverse esigenze, etc. ha aperto nuove possibilità di
approfondimento nello studio dello spazio fisico. Parallelamente la possibilità di archiviare informazioni e
dati relativi alle caratteristiche della popolazione, ai settori di attività economica, alle caratteristiche
geomorfologiche e, soprattutto, la possibilità di elaborarle utilizzando metodi statistici, ha consentito di
prefigurare lo sviluppo di fenomeni territoriali difficilmente conoscibili attraverso le tecniche di analisi
classiche non informatizzate.
Volendo fornire una rapida descrizione delle principali caratteristiche e funzionalità dei GIS, si dirà che il
GIS si configura come un “ambiente operativo” hardware/software all’interno del quale è possibile
sviluppare strumenti di gestione e di supporto alle decisioni per l’analisi, la trasformazione e la gestione del
territorio (Fistola 2009).
L’architettura del GIS può essere sinteticamente descritta pensando ad un sistema composto da due
componenti strettamente connesse ed interrelate (Fig. 1).
Fig. 1 – Le parti componenti del GIS
La prima componente è costituita dalla base cartografica rappresentativa degli elementi territoriali
posizionati secondo specifici riferimenti e coordinate.
La seconda componente fa riferimento all’insieme delle informazioni e dei dati che possono essere collegati
ad ogni singolo elemento rappresentato. Attraverso procedure specifiche è possibile realizzare la
connessione fra le entità delle componenti al fine di definire un sistema in grado di fornire non solo
informazioni sui singoli elementi in maniera statica, ma anche la descrizione evolutiva dei fenomeni
territoriali o di evidenziare gli ambiti in cui si manifestano valori comuni.
Per realizzare la base cartografica del GIS è necessario disporre o realizzare una cartografia in formato
digitale nella quale siano rappresentati tutti gli elementi territoriali dell’ambito oggetto del sistema
informativo. Esistono diversi formati in cui la cartografia può essere prodotta. Tuttavia in estrema sintesi, ci
si può ricondurre a due formati principali: il formato “raster” (griglia) in cui l’immagine è ottenuta
attraverso una matrice di punti che assumono colore diverso a seconda dell’oggetto da rappresentare, ed il
formato “vector” (vettoriale) nel quale i contorni degli elementi sono rappresentati attraverso sequenze di
vettori che formano linee, spezzate e poligonali chiuse.
114
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 8. Tecniche per il governo delle trasformazioni: i metodi geocomputazionali
In genere il formato raster (Fig. 2) è utilizzato per rappresentazioni fotografiche del territorio
(aerofotogrammetria, ortofoto, foto da satellite, etc.) nelle quali è importante far emergere le
caratteristiche del contesto compresi gli elementi ambientali, clivometrici, della vegetazione, etc..
Fig. 2 – Immagine da satellite della città di Venezia (Fonte: IKONOS)
La ripresa del capoluogo veneto, effettuata nel 2000, ha una risoluzione di 1 metro a terra
Tali immagini vengono georeferenziate attraverso l’assegnazione di coordinate ad ognuno dei pixel
rappresentati. Si intuisce come riprese di tale formato richiedano consistenti quantità di memoria
all’interno del sistema di elaborazione.
Le rappresentazioni vettoriali, realizzabili attraverso i più diffusi software di progettazione tecnica di tipo
CAD (computer aided design), sono composte da un insieme di vettori che formano linee, curve e poligoni
e che, godendo delle proprietà dei vettori, possono essere sommate, misurate e moltiplicate. Tali basi
grafiche impegnano una quantità di memoria del sistema assai più ridotta rispetto alle rappresentazioni
raster e garantiscono un’elevata precisione ed una scalabilità illimitata.
Una volta costruita la cartografia digitale, il compito di uno strumento come il GIS è quello di collegare gli
elementi che la compongono con la serie di informazioni che saranno utilizzate per le successive analisi. In
altri termini lo scopo del GIS è quello di collegare ad entità geografiche rappresentate sulla cartografia
digitale, secondo specifici sistemi di riferimento e proiezione delle coordinate, un insieme di informazioni
alfanumeriche contenute nel database (Fig. 3). In tal senso si dice che in un GIS i dati e le informazioni
sono: “georeferenziati”.
Un altro elemento fondante del GIS è la topologia. La “topologia” è una procedura per definire
esplicitamente le relazioni tra gli elementi grafici elementari per formare figure complesse. In altre parole
attraverso la topologia si definiscono le “regole” attraverso le quali le entità geometriche si articolano nella
rappresentazione.
La topologia è basata su tre regole principali:

gli archi possono essere connessi soltanto agli estremi;

gli archi hanno un verso, e quindi un lato destro e sinistro;

le aree sono definite come porzioni di superficie racchiuse da poligonali chiuse formate da archi.
Una volta ricostruita l’immagine grafica come insieme di elementi, attraverso la topologia, una figura
formata da poligonali chiuse viene rappresentata da una tabella nella quale al numero di identificazione di
ogni poligonale si associano i numeri di identificazione dei singoli archi che compongono la poligonale
stessa.
Si ottiene, in tal modo, la rappresentazione di un’immagine attraverso una serie di dati raccolti in una
tabella.
115
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 8. Tecniche per il governo delle trasformazioni: i metodi geocomputazionali
Fig. 3 – Il GIS del progetto Traiano
Nel sistema informativo alle diverse entità geometriche (edifici, sondaggi geognostici, etc.) sono collegati i dati
strutturali, gli accelerogrammi sismici, le immagini fotografiche dei manufatti
Al fine di associare ad un elemento del disegno una qualsiasi serie di dati basta creare una tabella nella
quale i dati siano associati allo stesso numero di identificazione scelto per rappresentare gli elementi
grafici e stabilire il collegamento tra questa tabella e quella che racchiude i dati topologici del disegno.
Per quanto riguarda le immagini raster è possibile associare ad ogni cella elementare, rappresentativa di
una certa area sul territorio, un numero definito di attributi a cui collegare ulteriori informazioni. Il
collegamento sarà comunque diretto e quindi non presenterà particolari problemi di connessione essendosi
instaurata una relazione biunivoca tra il singolo pixel e i dati ad esso associati nella banca dati. Dopo aver
creato la connessione tra il disegno e il database si potrà operare su entrambi mantenendo tale
connessione. Si può, infatti, procedere a correzioni grafiche che, attraverso la definizione topologica degli
elementi del disegno, non perdono la loro connessione con il database.
Una modifica di alcuni punti del disegno viene contemporaneamente registrata nella tavola che ad ogni
coppia coordinata associa il numero di identificazione di un punto. In tal modo tutte le altre connessioni
che si basano sul numero di identificazione sono salve.
Allo stesso modo è possibile operare sui database senza perdere la connessione con il disegno: a tale
scopo sarà sufficiente non alterare la colonna contenente i numeri di identificazione.
La maggiore potenzialità di un GIS risiede nella possibilità di evidenziare, in tempo reale, determinati
aspetti relativi ad una certa area geografica che difficilmente possono essere contenuti in un’unica
rappresentazione cartografica.
Con maggior dettaglio si dirà che i GIS offrono la possibilità di creare carte tematiche relative ad un
determinato aspetto precedentemente analizzato e i cui dati siano stati archiviati in appositi database.
Il GIS non si limita soltanto a riportare il dato collegato ad un particolare elemento grafico ma offre anche
la possibilità di analizzare e confrontare i dati e di evidenziare gli aspetti che maggiormente interessano
all’utente.
Potrebbe essere necessario, ad esempio, evidenziare tutte le zone che presentano un valore di una certa
caratteristica (per esempio la popolazione o l’epoca di costruzione degli edifici) superiore a quello stabilito
dall’utente; oppure si può interrogare il sistema, analizzando una rete stradale, sulla quale sono i tratti
dove il limite di velocità è superiore ad un valore dato o, ancora, si può richiedere la suddivisione di una
zona in fasce omogenee, comprendenti quelle parti di territorio che presentano una caratteristica
compresa tra due valori limite.
Le operazioni di interrogazione del GIS, dette query, sono riconducibili alla fase di “analisi spaziale” dei
sistemi informativi e sono il risultato dei processi che permettono di connettere la cartografia alla banca
dati; in altri termini, utilizzando il supporto cartografico, riescono ad evidenziare e a creare le informazioni
complesse contenute nella banca dati.
Oltre all’estrazione dal database di determinati valori per le analisi dell’utente, tra le funzioni (tools)
predefinite nella maggioranza dei software, vi sono quelle di sovrapposizione (overlay), di generazione di
116
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 8. Tecniche per il governo delle trasformazioni: i metodi geocomputazionali
aree a distanza specifica da un particolare oggetto (buffer) e quelle del confronto parallelo di vari dati. È
possibile, ad esempio, richiedere al GIS l’evidenziazione di tutte le aree edificabili comprese in una certa
fascia di distanza da un’autostrada oppure la creazione delle fasce di rispetto intorno ad un corso d’acqua,
ecc.. Il confronto parallelo di dati permette di ottenere una rappresentazione di tutte le zone o degli
elementi grafici che presentano determinati valori relativi a varie caratteristiche.
In conclusione del paragrafo è utile accennare ad una delle tecniche, tra le più diffuse, per ottenere
rappresentazioni georeferenziate del territorio in tempo reale: il telerilevamento. Il telerilevamento (remote
sensing), cioè la ripresa da satellite di porzioni del territorio terrestre, è nato in campo militare (come
molta parte della ricerca e dell’implementazione dell’innovazione tecnologica) per controllare i territori e le
installazioni militari del nemico.
Il funzionamento di tali sistemi si basa sull’uso di sensori, montati su satelliti geo-stazionari (Fig. 4) in
grado di recepire determinate bande di onde che rientrano all’interno dello spettro elettromagnetico, sia
nel campo delle frequenze visibili che infrarosse e termiche.
Fig. 4 – Una rappresentazione del satellite Landsat elaborata dalla NASA
Ogni sensore analizza una certa banda di frequenza e assegna alla particolare onda analizzata un valore
compreso tra 0 e 225; la combinazione dei valori assegnati dai vari sensori alla stessa onda, confrontata
con i valori memorizzati e relativi ai vari materiali, permette di individuare l’uso del suolo. I valori di
frequenza rappresentativi dei diversi materiali definiscono la cosiddetta: “firma spettrale”. Anche in questo
caso l’immagine risulta composta dai diversi pixel.
L’uso delle immagini rilevate da satellite è molto importante in quanto, attraverso un confronto periodico
delle immagini stesse è possibile effettuare sull’area il controllo delle variazioni avvenute in un dato
intervallo di tempo. Su questa tecnica si vanno sviluppando, anche in Italia, alcuni sistemi che, attraverso
un controllo periodico del territorio, permettono di individuare abusi edilizi e monitorare costantemente
l’uso del suolo.
Va comunque segnalato che solo da poco le immagini telerilevate offrono una risoluzione a terra utile ad
applicazioni in campo urbanistico. Attualmente si riesce ad ottenere immagini telerilevate con una
risoluzione a terra di circa un metro, utili quindi per redigere cartografie elettroniche in scala 1:10.000.
Precedentemente i satelliti per uso civile, quali il francese SPOT (Système Probatoire d’Observation de la
Terre), restituivano immagini con risoluzioni a terra di 20x20 metri (in multispettrale) o 10x10 metri (in
pancromatico).
Molti GIS prevedono, tra i vari software applicativi, programmi per il trattamento delle immagini. Si tratta
di procedure che consentono, partendo da una immagine raster, la trasformazione automatica o assistita
in formato vettoriale.
8.2.
Interpretazione sistemica e GIS
In questo paragrafo si vuole dimostrare come il GIS possa costituire una rappresentazione del modello
interpretativo della città (come sistema complesso).
117
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 8. Tecniche per il governo delle trasformazioni: i metodi geocomputazionali
In particolare, riconsiderando i tre sotto-sistemi decritti in precedenza (fisico, funzionale e psicopercettivo), è possibile identificare nel GIS 3D una parte fisica, una parte funzionale ed una percettiva.
In altre parole la nuova dimensione tridimensionale del sistema informativo contiene una rappresentazione
del sotto-sistema fisico identificabile nella parte cartografico numerica che riproduce gli spazi ed i canali
della città; una rappresentazione del sistema funzionale, conservando i dati descrittivi dell’intensità delle
attività sul territorio nella parte alfanumerica; una rappresentazione percettiva dello spazio urbano in
quanto le nuove modellazioni tridimensionali consentono l’esplorazione della spazialità e l’analisi
multivisuale così come avviene nella percezione della città reale.
Fig. 5 – Una rappresentazione di GIS 3D
Nell’immagine una tematizzazione GIS 3D del rischio sismico nel centro storico di Benevento
elaborata all’interno del Progetto Traiano
Inoltre il modello GIS 3D conserva l’interazione con l’osservatore e la possibilità di fornire ed evidenziare,
in tempo reale, l’andamento e l’estensione di fenomeni che interessano la variazione nell’intensità,
distribuzione e destinazione d’uso delle attività nel tessuto urbano (Fig. 5).
L’intensità d’uso del territorio, che verrà descritta in seguito in modo dettagliato, descrive il “quantum”
funzionale di ciascun ambito urbano. In altri termini, attraverso l’intensità d’uso è possibile definire il “peso”
(in senso urbanistico) che una attività (o gruppi di attività) esercita su di uno specifico territorio. Esistono
parametri urbanistici in grado di esprimere tale intensità e sono principalmente riconducibili ad indici quali la
densità fondiaria, l’indice di utilizzazione, il rapporto di copertura, etc. (Fistola 2001).
La possibilità di evidenziare tale caratteristica del sistema funzionale in un modello tridimensionale che
rappresenti, sincronicamente, l’assetto fisico della città consentirebbe l’analisi, in tempo reale, dei pesi
funzionali, rispetto agli spazi fisici urbani ed, in particolare la rappresentazione di quanto una funzione urbana
(per esempio quella residenziale) caratterizzi un determinato contesto e quali siano i rapporti con le altre
attività presenti. Esistono tuttavia due “limiti” a tale proposizione, uno di natura teorica, l’altro di tipo
strumentale. Da un punto di vista teorico, va osservato che la logica sistemica consente di costruire un
“modello interpretativo” della città (il sistema urbano) di cui il GIS costituirebbe una rappresentazione
(quindi una ulteriore modellizzazione).
Il limite strumentale risiede nel fatto che, comunque, non è possibile includere in un GIS tutte le variabili
ed i sottosistemi componenti il sistema urbano, per cui si rappresenterebbe solo una certa parte, anche se
consistente, del sistema.
L’evoluzione tecnologica ha sempre aperto dimensioni nuove per l’analisi scientifica e, in generale, per la
conoscenza. Da questa prima analisi altri studi potrebbero essere effettuati sul GIS 3D attraverso le
interrogazioni (query) implementabili sul sistema informativo. Accanto a tali possibilità di indagine ve ne sono
altre che vanno sviluppandosi grazie alla nuove rappresentazioni tridimensionali dello spazio urbano. Anche
queste sono interessanti per le potenzialità che mostrano in particolare considerando la connessione
interattiva fra diverse tipologie di rappresentazione ed interazione nello spazio urbano.
Molte sono le nuove implementazioni e gli aggiornamenti che si stanno attualmente sviluppando per
l’ambiente GIS utilizzando anche, come accennato in precedenza, operatori derivati dal campo
dell’intelligenza artificiale. Resta ferma, comunque, la considerazione di fondo che vede questo strumento
come un validissimo supporto per la decisione e per l’utilizzo della risorsa territoriale, troppe volte mal
utilizzata per scarsa conoscenza o per deliberata volontà di mancata diffusione dell’informazione.
L’innovazione tecnologica consente oggi nuove possibilità di trasparenza nei processi di governo e gestione
ed il GIS appare l’ambiente ideale per la messa a punto e lo sviluppo (partecipato) delle strategie di
intervento sul territorio.
118
ROMANO FISTOLA
8.3.
CAPITOLO 8. Tecniche per il governo delle trasformazioni: i metodi geocomputazionali
Esempi di applicazioni per il territorio
A partire dagli anni ‘80, l’uso del GIS si è diffuso in un elevato numero di settori dell’attività umana. In
particolare, il GIS è stato implementato per la gestione delle reti tecnologiche, per il monitoraggio
dell’inquinamento ambientale, per gli studi epidemiologici, per l’analisi geologica e geochimica, per la
pianificazione urbanistica, per la gestione delle risorse agricole, per applicazioni di meteorologia, per il
geomarketing2, per il controllo e l’ottimizzazione del traffico urbano, per la gestione dei flussi turistici, etc..
In particolare per quanto riguarda la pianificazione urbanistica ed in generale il governo delle
trasformazioni territoriali, si sono registrati, negli ultimi anni, considerevoli passi avanti nello sviluppo di
GIS dedicati a tale specifico settore disciplinare. È evidente che il GIS, per le caratteristiche descritte,
rappresenta lo strumento ideale per la gestione amministrativa del territorio; inoltresi intuisce come il GIS
rappresenti l’ambiente ideale per la definizione degli strumenti di governo del territorio alle diverse scale.
I piani urbanistici, infatti, indicano prescrizioni sulla tipologia, sull’intensità d’uso, sulla possibilità di
trasformazione, sulla distribuzione delle attività nelle diverse aree in cui si suddivide il territorio comunale
(zoning). In sostanza si hanno un certo numero di poligonali chiuse (zone omogenee) alle quali sono
associate norme che regolano la destinazione, l’intensità e la forma d’uso. Realizzando un Piano
Regolatore Generale (PRG) in ambiente GIS, si potrà disporre di un potente strumento sia per la decisione
ed il controllo della trasformazione territoriale che per la futura gestione del territorio.
Esistono numerosi esempi di piani per il governo del territorio (PRG, Piani Paesistici, Piani di Recupero,
ecc.) riportati o realizzati direttamente in ambiente GIS. Il supporto GIS consente notevoli accelerazioni
nella gestione burocratica degli strumenti di governo del territorio riuscendo a produrre in tempo reale
informazioni per l’esperimento delle pratiche. Fra le realizzazioni più interessanti pare utile segnalare la
Variante Generale al Piano Regolatore Generale di Napoli, costruita totalmente su cartografia numerica ed
all’interno della quale è stato realizzato un GIS per il governo delle trasformazioni relative al centro antico.
La particolarità di tale elaborazione risiede nel fatto che gli elementi grafici a cui sono collegati i dati (nel
caso specifico rappresentati dalle norme che regolano i possibili interventi sugli stabili) sono rappresentati
dai singoli edifici dell’intero centro storico. Più in dettaglio si dirà che, nella volontà di predisporre una
puntuale verifica della trasformazione delle unità edilizie (rappresentate da edifici di rilevante valore
storico-architettonico), si è costruita la topologia su poligonali chiuse rappresentanti i confini dei singoli
contenitori edilizi o degli spazi aperti all’interno del tessuto storico urbano. In totale sono state classificate
e “topologizzate” 16.124 “unità di spazio” tra edifici e spazi scoperti. Le unità di spazio edilizio sono state
classificate in 53 diverse tipologie mentre una classificazione a parte è stata realizzata per i chiostri, i
cortili, i giardini, le piazze, etc. (Fig. 6).
È facile intuire come utilizzando uno strumento del genere si possa effettuare un controllo puntuale della
trasformazione degli elementi del tessuto storico fornendo utili riferimenti per l’intervento sia ai cittadini
proprietari del bene sia ai tecnici chiamati ad intervenire. La pubblicazione su rete Internet di tali dati e la
possibilità di interrogare il sistema in remoto rappresenterà il momento conclusivo, che aggiungerà quel
carattere di trasparenza, indispensabile nella gestione delle trasformazioni territoriali.
Lo sviluppo della progettazione del PRG in ambiente GIS può quindi aggiungere nuovi elementi di
conoscenza e di analisi già in fase redazionale favorendo un migliore impiego della risorsa territoriale. Il
PRG-GIS fungerà da supporto conoscitivo alla programmazione e successivamente alla gestione, fornendo
quell’elemento di interscambio che alimenta, con informazioni immediate ed aggiornate, lo stesso
strumento pianificatorio, che lo renderà elastico e nello stesso tempo modificabile nella logica del governo
delle trasformazioni territoriali. Governare un sistema dinamicamente complesso, come la città, utilizzando
uno strumento di conoscenza in grado di descrivere in tempo reale i fenomeni di trasformazione in atto
diviene sempre più una necessità, utile ad evitare rischi di utilizzo entropico della risorsa territorio.
In conclusione è necessario sottolineare che quello della progettazione e sviluppo del GIS è un settore in
continua evoluzione che spesso combina tecniche di rappresentazione innovative con dati provenienti da
altre metodologie di “trattamento” come nel caso del telerilevamento o della realizzazione di modellazioni
solide del suolo (DTM - Data Terrain Modelling). È opinione di chi scrive che la prossima era di evoluzione
del GIS verrà caratterizzata da una serie di fattori quali:

lo sviluppo delle modellizzazione 3D;

l’applicazione e lo sviluppo, sempre più spinto, dei metodi dell’intelligenza artificiale;
2
Il geomarketing è una tecnica di analisi commerciale riferita al territorio. In sintesi, disponendo di GIS nei quali sono
contenuti dati georeferenziati di vario tipo (riguardanti le caratteristiche distributive della popolazione, le imprese
concorrenti presenti sul territorio, i punti di vendita, ecc.) è possibile costruire delle query che evidenzino quali sono le
zone migliori per la vendita di uno specifico prodotto oppure qual è il sito ideale per insediare una nuova attività
commerciale.
119
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 8. Tecniche per il governo delle trasformazioni: i metodi geocomputazionali
Fig. 6 – Il GIS del PRG di Napoli
Il GIS individua come entità elementari le singole unità immobiliari del centro antico. Una volta costruito il data-base
relazionale è stato possibile realizzare un’interfaccia di visualizzazione che per ogni unità di spazio in pianta mostra il
riferimento normativo specifico, ma anche la scheda tipologica di rilevamento dell’unità,
il dettaglio del rilievo tipologico ed anche un’immagine fotografica
Fig. 7 – Il Web GIS 3D della Provincia di Roma




la caratterizzazione temporale;
la connessione con gli apparati di Global Positioning System;
le nuove potenzialità (in campo geografico) offerte dalla rete Internet;
la diffusione dei software GIS Open Source.
Quella dell’Open Source, che consente di utilizzare software non proprietario e quindi senza costi di
acquisizione per gli utenti, rappresenta il maggior elemento propulsore dei GIS nell’immediato futuro.
Bibliografia
Fistola R. (2000), “I Sistemi Informativi Geografici: definizione sviluppi e prospettive di utilizzo per il
governo e la gestione della città”, in R. Papa, Lezioni di Urbanistica, DIPIST - Università di Napoli
“Federico II”, Napoli.
Fistola R. (2001), M.E-tropolis funzioni innovazioni trasformazioni della città, Giannini, Napoli.
Fistola R. (2009), GIS. Teoria ed applicazioni per la pianificazione, la gestione e la protezione della città,
Gangemi, Roma.
Longley P., Goodchild M.F., Maguire D.J., Rhind D.W. (2004), Geographic Information Systems and
Science, John Wiley and Sons, New York.
Openshaw S., Abrahart R.J. (2004), GeoComputation, Routledge, New York.
120
9. TECNICHE PER IL GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI:
LE DECISIONI1
Carmela Gargiulo ed Adriana Galderisi
La fase della decisione costituisce il momento centrale del processo ciclico di conoscenza-decisione-azione
finalizzato al governo delle trasformazioni dei sistemi urbani. In questo capitolo viene proposta una
descrizione del ruolo e dei contenuti della fase della decisione. In particolare, nella prima parte vengono
introdotte alcune questioni generali riguardanti la decisione in condizioni di incertezza (generate dalle
caratteristiche proprie dei sistemi complessi) e vengono evidenziate alcune problematiche relative al
“contesto” della decisione (molteplicità di soggetti, conflittualità di interessi, ecc.). Nella seconda parte si
descrivono i principali passaggi per la definizione dello stato desiderato e per l’individuazione di uno stato
compatibile. Lo stato compatibile viene definito come stato che soddisfa i bisogni e le aspirazioni della
collettività; lo stato desiderato corrisponde allo stato in grado di massimizzare l’equilibrio domanda-offerta,
in condizioni di risorse limitate.
Nella parte conclusiva del capitolo, viene descritta la costruzione di uno strumento di supporto alle
decisioni che consente di definire lo stato compatibile sia sotto il profilo del sottosistema fisico
(trasformabilità fisica) che sotto il profilo del sottosistema funzionale (compatibilità funzionale).
Fig. 1 − Il processo ciclico di governo delle trasformazioni urbane
9.1.
Decisione, complessità e incertezza
La fase della decisione costituisce il punto di congiunzione tra la fase della conoscenza e la fase
dell’azione. La prima (decisione) è finalizzata all’individuazione e alla descrizione dello stato di fatto del
sistema urbano. La seconda (azione) è rivolta alla definizione e implementazione delle azioni atte a
consentire, operativamente, l’evoluzione del sistema urbano verso lo stato desiderato. Tale stato (stato
desiderato) viene definito in ragione delle aspirazioni della collettività.
Il momento della decisione è finalizzato a delineare lo stato futuro del sistema sulla base della conoscenza
dello stato di fatto del sistema urbano che può essere espresso sia attraverso i bisogni e le aspirazioni di
una data collettività, sia dell’offerta di spazi, attività e servizi presenti.
Prima di procedere può essere opportuno soffermarsi sul concetto di decisione e sul significato che esso
assume in relazione al sistema urbano. Tale concetto, in linea generale, si riferisce alla attuazione di una
scelta razionale tra diverse alternative possibili effettuata all’interno di un contesto interamente
conoscibile.
«Presupposto generale della Teoria della Decisione è che l’agire razionale sia l’habitus del decisore»
(Fuccella 1995). In riferimento alla Teoria della decisione, inoltre, si ipotizza che
(…) nell’agire un uomo, un gruppo, un’organizzazione venga a trovarsi di fronte a diverse prospettive di
azione. Queste prospettive, ognuna alternativa rispetto alle altre, si presentano ogni volta che si debba
individuare, tra più mosse e contromosse possibili, quella più efficace verso l’avversario; o si debba
scegliere una azione, tra quelle possibili, che consenta di ottenere, con il minimo sforzo, il massimo
risultato (…). La teoria delle decisioni non è applicabile agli atti obbligati (…). I limiti di validità di una
qualunque decisione sono (…) determinati dal grado di completezza dei dati conoscitivi a disposizione del
decisore: una scelta razionale impone che si abbia l’assoluta e piena certezza del possesso di tutte le
informazioni necessarie (ibidem 1995).
1
Questo capitolo è stato redatto da Adriana Galderisi per i §§ 9.1 e 9.2 e da Carmela Gargiulo per il § 9.3.
121
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
Il concetto di decisione implicherebbe, dunque, che il “decisore” possa individuare uno stato futuro
ottimale in ragione di una completa conoscenza dello stato di fatto e delle esigenze della collettività. La
selezione tra diversi futuri possibili, avviene in condizioni di consapevolezza riguardo alle conseguenze,
positive o negative, che ciascuna scelta comporta.
Nella maggior parte dei casi, però, la complessità dei sistemi urbani e territoriali non rende possibile né
una completa conoscenza dello stato iniziale del sistema né, tantomeno, una valutazione certa delle
possibili conseguenze che una data scelta comporta: l’elevata “sensibilità” dei sistemi complessi alle
condizioni iniziali implica una altrettanto elevata difficoltà di prevedere con certezza le possibili evoluzioni
del sistema, che potrebbero essere significativamente influenzate da elementi marginali scarsamente
considerati nella fase di conoscenza.
Va inoltre evidenziato che, le conseguenze delle scelte effettuate, a loro volta, sono difficilmente
prefigurabili. Ad esempio, le scelte effettuate ad una scala locale possono avere esiti molto significativi per
il sistema nel suo complesso o per altri sistemi territoriali che con esso intessono relazioni. Per le
caratteristiche proprie dei sistemi complessi, quindi, qualunque decisione non potrà che essere presa in
condizioni di incertezza. D’altro canto, pur ammettendo la possibilità di un agire razionale sulla base delle
conoscenze effettivamente disponibili, accettando cioè che esista un grado di “incertezza” su cui fondare le
scelte, numerose sono le altre questioni di cui bisogna tener conto per comprendere il difficile passaggio
della decisione nell’ambito del processo ciclico di governo dei sistemi urbani e territoriali.
Ad esempio, la scelta delle finalità di un piano urbanistico, che comporta l’individuazione e la selezione dei
bisogni e delle aspirazioni della collettività, non è compito agevole: la collettività è costituita da una
molteplicità di individui che ricoprono ruoli diversi che hanno aspettative differenti, spesso, conflittuali.
Si pone dunque il problema che le scelte potrebbero privilegiare alcuni elementi o gruppi della collettività
ed avere conseguenze o ripercussioni, anche negative, su altri elementi o gruppi.
Si tratta di un problema non di poco conto se si considera che l’attività di governo delle trasformazioni
urbane e territoriali ha come finalità prioritaria quella di massimizzare l’utile sociale: ciò presuppone che
tutti i soggetti vedano massimizzati i propri bisogni e le proprie aspirazioni e che non vi siano soggetti o
gruppi sfavoriti rispetto ad altri.
Inoltre, se si fa riferimento ad un processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali improntato
a criteri di sostenibilità, si tratta di “bilanciare” bisogni ed aspirazioni della collettività in un’ottica di equità
infragenerazionale e intergenerazionale che tiene conto della necessità di non compromettere la
possibilità, per le generazioni future, di soddisfare i propri bisogni ed aspirazioni.
Pertanto, nel processo di governo, la decisione costituisce un momento estremamente delicato, durante il
quale devono essere “bilanciati” interessi talvolta divergenti o addirittura conflittuali in una prospettiva
temporale che sia sufficientemente ampia ed aperta alle esigenze della popolazione futura. Tale fase
(decisione), per le caratteristiche proprie dei sistemi allo studio, viene effettuata in un contesto che,
presenta elevata dinamicità ed elevata incertezza, nel quale le risorse effettivamente disponibili sono, in
genere, limitate.
Va evidenziato che in condizioni di risorse limitate, la piena soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni
della collettività è un obiettivo difficilmente perseguibile che richiede l’identificazione di priorità secondo
criteri condivisi e il più possibile trasparenti.
Un argomento largamente dibattuto nel corso degli ultimi anni in ambito disciplinare riguarda il ruolo del
tecnico (pianificatore) nella fase della decisione. Questa fase afferisce prevalentemente ad una sfera
politica prima ancora che tecnica: i rappresentanti politici eletti da una collettività, sono i soggetti
legittimati a prendere decisioni che riguardano il futuro della stessa collettività e sono delegati a definire le
esigenze da soddisfare prioritariamente.
Nella decisione il ruolo del tecnico è allo stesso tempo “istruttorio” ed “esplorativo”. Nel primo caso, il
tecnico fornisce le informazioni necessarie al processo decisionale. Nel secondo caso, il tecnico svolge il
compito di indagare le diverse soluzioni possibili e le conseguenze che tali soluzioni possono generare (Hall
1992). Il tecnico, quindi, svolge un ruolo di supporto alle scelte che la collettività, attraverso i suoi
rappresentanti politici, è chiamata a compiere per la evoluzione/trasformazione del sistema urbano.
Tuttavia, il suo ruolo non è mai neutrale bensì è determinante per l’individuazione possibili traiettorie di
evoluzione del sistema fortemente orientate al raggiungimento degli scopi prefissi.
Diverse visioni del ruolo del tecnico, del pianificatore, si siano avvicendate e contrapposte nel corso degli
anni: da quella che lo individua come “timoniere” del percorso di evoluzione/trasformazione del sistema
urbano  visione cui è stata improntata la pianificazione razionale degli anni Settanta  a quella, più
recente, che individua il pianificatore come «(…) partecipante di un complesso gioco politico refrattario ad
un coordinamento monocratico» (Faludi 2000).
A queste differenti visioni del ruolo del tecnico corrisponde, evidentemente, anche un diverso modo di
organizzare la partecipazione della collettività al momento decisionale.
122
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
9.2.
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
Dallo stato desiderato allo stato compatibile
La fase della decisione consente il passaggio dall’individuazione dello stato attuale del sistema urbano alla
definizione di uno stato desiderato, ovvero di uno stato compatibile, che costituisce l’esito finale della fase
della decisione.
In riferimento ad un’interpretazione della città e del territorio come sistemi prestazionali, che forniscono
spazi ed erogano servizi in funzione di una domanda posta dalla collettività, lo stato desiderato costituisce
lo stato futuro del sistema oggetto di studio: Tale stato si caratterizza quale condizione di equilibrio, sia
pure dinamico, tra la domanda di prestazioni posta dalla collettività e l’offerta di spazi, attività e servizi da
parte del sistema urbano.
Si fa riferimento ad una condizione di equilibrio dinamico in quanto sia la domanda che l’offerta sono
variabili nello spazio e nel tempo: pertanto, la condizione di equilibrio tra la domanda e l’offerta varia al
mutare dello spazio e del tempo e andrà verificata in ragione di una data localizzazione spaziale e di un
dato istante temporale.
Una volta determinata questa condizione ottimale, verificata nello spazio e riferita ad un preciso istante
temporale, bisogna interrogarsi, relativamente a ciascun punto del sistema spaziale allo studio, su quanto
tale condizione dista da quella attuale. In altre parole, bisognerà verificare qual è il gap da colmare per
trasferire, nell’arco temporale fissato, il sistema urbano dallo stato attuale allo stato futuro desiderato.
Definito lo stato desiderato, ovvero il futuro assetto del sistema, bisognerà confrontarlo con lo stato
attuale per individuare le carenze da colmare per consentire la transizione del sistema dallo stato attuale
allo stato desiderato.
Per garantire che lo stato desiderato sia realmente conseguibile è necessario verificare la effettiva
disponibilità di risorse necessarie per colmare le carenze identificate.
È questo il momento centrale della fase della decisione in cui, a partire dallo stato desiderato e attraverso
l’individuazione delle risorse disponibili, si perviene alla definizione di uno stato compatibile, ovvero di uno
stato in grado di massimizzare l’equilibrio domanda-offerta, sulla base delle risorse disponibili.
Al fine di schematizzare i principali contenuti della fase della decisione è possibile articolare tale fase nelle
seguenti sottofasi:

definizione dello stato desiderato, attraverso la formulazione di finalità e obiettivi;

confronto tra stato di fatto e stato desiderato, al fine di individuare le carenze;

determinazione dello stato compatibile, attraverso l’individuazione delle risorse disponibili.
La definizione dello stato desiderato
Lo stato desiderato può essere espresso in termini di finalità e obiettivi: le prime rappresentano i
miglioramenti fondamentali e strategici per il sistema urbano in esame; i secondi si configurano come una
prima specificazione in chiave operativa delle finalità (fig. 2). Finalità ed obiettivi derivano direttamente
dalla conoscenza del sistema in esame e, più specificamente, della domanda di attività e di spazi che la
collettività pone.
Fig. 2 – Relazioni finalità - obiettivi
Per meglio comprendere i due concetti e soprattutto il rapporto che tra essi intercorre è possibile ricorrere
a qualche esempio.
Immaginiamo che la conoscenza di un dato sistema urbano abbia fatto emergere con chiarezza una
domanda insoddisfatta di una qualità più elevata, rispetto a quella attuale, dell’abitare: tale esigenza può
indubbiamente costituire un’importante finalità verso cui orientare la futura evoluzione del sistema urbano.
Il perseguimento di tale finalità può essere affidato ad obiettivi molteplici, da definire sulla base di una
conoscenza puntuale e articolata, spazialmente e temporalmente, della domanda stessa.
Il mancato soddisfacimento della domanda può dipendere da differenti cause: eccessiva densità
residenziale attuale, scarsa qualità edilizia dell’attuale offerta residenziale, elevata carenza di servizi alla
residenza.
123
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
Sulla base della conoscenza del sistema allo studio, quindi, la finalità può essere articolata in una serie di
obiettivi quali, ad esempio:

realizzare nuovi vani residenziali;

recuperare il patrimonio edilizio degradato;

accrescere la dotazione di servizi alla residenza.
Tutti gli obiettivi elencati possono concorrere alla medesima finalità, costituendone una specificazione in
chiave operativa, da definire sulla base della conoscenza delle caratteristiche della domanda e dell’offerta
attuale e in ragione delle aspirazioni della collettività.
Sembra opportuno sottolineare che diverse finalità, o diversi obiettivi volti al conseguimento di una
medesima finalità, possono rivestire un’importanza differente per i diversi gruppi sociali e potrebbero
persino risultare conflittuali tra loro.
Ad esempio, l’obiettivo di accrescere la dotazione di vani residenziali può risultare rispondente ad alcune
esigenze della collettività o può soddisfare alcuni gruppi sociali ma può risultare del tutto conflittuale con
altre finalità o altri obiettivi, rilevanti per altri gruppi sociali, quale ad esempio il contenimento dell’utilizzo a
fini insediativi dei pochi suoli ancora non edificati in ambito urbano.
Un altro esempio di finalità può essere espressa dalla massimizzazione dell’accessibilità alle attrezzature di
interesse generale (parchi urbani, scuole superiori, ospedali, ecc.). Per il conseguimento di tale finalità, è
possibile definire obiettivi di miglioramento dei servizi di trasporto pubblico e di realizzazione di aree per la
sosta in grado di favorire l’accesso a tali attrezzature mediante il trasporto privato su gomma. Se la
localizzazione di tali attrezzature è in aree centrali della città o in aree già altamente congestionate, il
secondo degli obiettivi indicati potrebbe risultare conflittuale con l’obiettivo di ridurre la congestione da
traffico veicolare nelle aree urbane centrali.
Questi esempi evidenziano la necessità, una volta definite le finalità e gli obiettivi, di effettuarne una prima
gerarchizzazione, sia per limitare le conflittualità che possono insorgere che per garantire una maggiore
trasparenza nei criteri di scelta delle priorità.
Il confronto tra stato di fatto e stato desiderato per l’individuazione delle carenze
L’individuazione delle carenze presenti nel sistema scaturisce dal confronto tra lo stato di fatto e lo stato
desiderato. Tale confronto, può essere rappresentato da un diagramma cartesiano dove sulle ascisse si
riportano i diversi istanti temporali (t0, t1, …tn) e sulle ordinate si raffigurano i diversi stati del sistema
urbano (fig. 3).
Fig. 3 − La rappresentazione degli stati del sistema urbano nei diversi istanti temporali
In particolare, nello schema rappresentato in fig. 3:

il punto t0 corrisponde all’istante temporale in cui si effettuano le scelte, (per es. l’anno in cui si avvia
la redazione di un piano urbanistico);

il punto t1 corrisponde all’orizzonte temporale per la realizzazione delle scelte che si effettuano (per
es. l’anno di proiezione del piano).
Le caratteristiche del sistema nei due istanti temporali identificati consentono di individuare sul diagramma
cartesiano due punti:

un punto A, che rappresenta lo stato di fatto del sistema nell’istante t0;

un punto B, che rappresenta lo stato desiderato del sistema nell’istante t1.
124
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
È possibile definire in tal modo il Δ tra A e B che rappresenta la distanza tra lo stato attuale e lo stato
desiderato. Tale distanza è rappresentativa delle carenze che è necessario colmare per trasferire il sistema
urbano dal punto A, in cui si trova attualmente, al punto B, nell’arco temporale predeterminato.
I due stati del sistema devono essere tra loro “confrontabili”. Poiché il processo decisionale è
essenzialmente orientato a garantire un’offerta di spazi adeguata alla domanda di attività posta dagli
utenti, i termini confrontabili possono essere espressi in:

dotazioni;

numero di utenti.
Le dotazioni fanno riferimento alla l’aliquota di spazi, volumi, superfici già disponibili o necessari per offrire
un’adeguata risposta alle diverse domande di attività poste dagli utenti.
Il numero di utenti fa riferimento alle persone che esprimono una domanda di attività all’istante attuale
(t0) o nell’arco temporale fissato (t1).
In riferimento nello stato attuale (istante t0), le dotazioni saranno quelle già disponibili individuate e
quantificate nella fase della conoscenza. Esse possono essere espresse in termini di dotazioni pro-capite o
dotazioni complessive.
Analogamente, il numero di utenti riferito all’istante t0 è stato determinato nella fase della conoscenza in
riferimento alle diverse tipologie di attività considerate.
Per quanto riguarda lo stato futuro, invece, sarà indispensabile tradurre le finalità e gli obiettivi in termini
di “dotazioni obiettivo”, che esprimeranno l’offerta di spazi, volumi, superfici da predisporre per soddisfare
la domanda nell’intervallo temporale considerato.
In ragione delle diverse attività, sarà necessario determinare il numero di “utenti futuri”, ovvero gli utenti
delle diverse attività all’istante t1.
Pertanto, il confronto tra stato attuale e stato desiderato consentirà di individuare il Δ tra dotazioni attuali e
dotazioni obiettivo espressione e, quindi, permetterà di conoscere quali carenze colmare per conseguire lo
stato desiderato.
Le carenze cui si fa riferimento, in questo caso, sono carenze di carattere quantitativo, riferibili cioè al
deficit di volumi e/o superfici indispensabili allo svolgimento di determinate attività per un dato numero di
utenti.
In altre parole, il confronto tra dotazioni attuali e dotazioni obiettivo consente di evidenziare le carenze
quantitative, o dimensionali, all’interno del sistema oggetto di studio: tali carenze rappresentano, però,
solo una parte delle carenze complessive che un dato sistema urbano potrebbe presentare.
È infatti possibile evidenziare almeno altre due tipologie di carenze che potrebbero emergere dalla
conoscenza di un sistema urbano:

carenze distributive;

carenze di sistema.
Le carenze distributive si verificano allorquando le dotazioni attuali, pur non risultando quantitativamente
inferiori a quelle obiettivo, non sono equamente ed efficacemente distribuite sul territorio. Ad esempio, con
riferimento alle scuole dell’obbligo, si può verificare che tali dotazioni risultino soddisfacenti in termini di
superfici per numero di utenti attuali e futuri, tuttavia è possibile che esse siano distribuite in modo tale da
risultare di difficile accesso per una parte dell’utenza.
Le carenze di sistema, si verificano nei casi in cui la distribuzione delle dotazioni sia stata effettuata senza
tener conto di possibili economie di scala. Ad esempio, considerando ancora il caso delle scuole
dell’obbligo, esse possono essere disperse sul territorio e distanti da altre attrezzature quali aree verdi,
parcheggi, attrezzature sportive.
Appare evidente che la concentrazione di alcune tipologie di attrezzature può consentire, al contrario, non
solo delle significative economie di scala (p.e. la creazione di un unico grande parcheggio a servizio di un
nucleo integrato di attrezzature scolastiche e sportive) ma, anche, un significativo miglioramento
dell’efficienza complessiva del sistema urbano (ridotta necessità di spostamenti per consentire agli utenti
di fruire di una molteplicità di attrezzature).
Una volta individuato l’insieme delle carenze (quantitative, distributive e di sistema) da colmare per il
conseguimento dello stato desiderato, ovvero per rendere nullo il Δ che separa lo stato attuale dallo stato
desiderato, è necessario verificare la “fattibilità” di tale operazione. Si tratta di verificare se, in ragione
delle risorse effettivamente disponibili (o acquisibili nell’arco temporale prefissato), è possibile realizzare, o
anche solo riorganizzare, le dotazioni necessarie al fine di azzerare le carenze, nell’intervallo temporale
prefissato.
125
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
Le risorse disponibili e l’individuazione dello stato compatibile
L’ultima delle sottofasi della decisione è finalizzata all’individuazione delle risorse effettivamente disponibili
e alla definizione dello stato compatibile.
Il concetto di risorsa è un concetto ampio, variabile nel tempo e nello spazio: in termini generali, è
possibile affermare che una risorsa è tale quando può essere effettivamente utilizzata all’interno di un dato
sistema urbano e può risultare tale in un sistema e non in un altro, in funzione della capacità del sistema
stesso di utilizzarla per i propri scopi ed i propri obiettivi di sviluppo.
Con l’espressione risorse disponibili si fa generalmente riferimento ad un’ampia gamma di risorse, da
quelle territoriali a quelle economico-finanziarie, da quelle tecnologiche a quelle culturali.
Più specificamente, l’effettiva possibilità di conseguire lo stato desiderato, va valutata in ragione della
disponibilità di una molteplicità di risorse.
Tra queste è indispensabile tenere conto almeno delle:

risorse territoriali, con riferimento sia a quelle antropiche, quali il patrimonio di manufatti e
infrastrutture già esistenti ma non pienamente utilizzato, che a quelle naturali, quali i suoli
effettivamente disponibili per accogliere nuovi spazi;

risorse economico-finanziarie, con riferimento, ad esempio, all’effettiva disponibilità o alla possibilità
di acquisire nell’arco temporale prefissato i capitali pubblici e/o privati necessari a supportare gli
interventi volti al conseguimento dello stato desiderato;

risorse tecnologiche, qualora il conseguimento di alcuni obiettivi richieda ad esempio l’utilizzo di
tecnologie avanzate non disponibili in loco determinando costi aggiuntivi;

risorse temporali, con riferimento ad esempio all’effettiva congruenza tra l’arco temporale nel quale si
prevede di conseguire lo stato desiderato e il tempo necessario alla realizzazione degli interventi volti
a colmare il deficit individuato.
Va sottolineato che il confronto con le risorse effettivamente disponibili o acquisibili per il conseguimento
dello stato desiderato costituisce un passaggio chiave per garantire che l’esito della decisione non sia,
come è a lungo accaduto, la prefigurazione di uno stato futuro “desiderato”, ma difficilmente conseguibile.
L’individuazione di uno stato futuro in cui possa essere effettivamente colmato lo squilibrio tra la domanda
di prestazioni posta dagli utenti attuali e futuri e l’offerta del sistema urbano va effettuata, dunque, alla
luce della sua reale “fattibilità”.
Il confronto con le risorse disponibili consente di individuare lo stato “compatibile”, ovvero quello stato
che, in ragione delle risorse effettivamente disponibili, consente di minimizzare il Δ tra stato attuale e stato
desiderato.
In riferimento al diagramma cartesiano su cui sono stati precedentemente rappresentati i diversi stati del
sistema urbano, lo stato compatibile può essere individuato in un punto C, corrispondente allo stato del
sistema effettivamente raggiungibile, sulla base delle risorse disponibili o acquisibili, all’istante t1 (fig. 4).
Fig. 4 – Il rapporto tra stato desiderato e stato compatibile
La fase della decisione, illustrata in questo paragrafo, rappresenta un momento centrale del processo di
governo delle trasformazioni urbane e territoriali. Tale fase è successiva alla fase della conoscenza nella
quale viene definito lo stato di fatto del sistema urbano oggetto di studio.
Nella fase della decisione, attraverso successive sottofasi, si perviene alla definizione di uno stato
desiderato e, successivamente, di uno stato compatibile.
126
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
Il primo è espressione dei bisogni e delle aspirazioni della collettività, prefigura, cioè un assetto futuro
pienamente rispondente ai bisogni e alle aspirazioni di una collettività, nel quale la domanda (di attività, di
spazi, di servizi) posta dalla collettività risulta pienamente soddisfatta dall’offerta del sistema urbano.
Il secondo rappresenta quello stato che, in condizioni di risorse limitate, minimizza il divario tra stato di
fatto e stato desiderato. In particolare, lo stato compatibile costituisce l’esito finale della fase della
decisione e viene delineato sulla base di criteri di fattibilità delle scelte, ovvero sulla base dell’insieme delle
risorse (territoriali, economico-finanziarie, tecnologiche, temporali, ecc.) effettivamente disponibili per il
conseguimento delle finalità e degli obiettivi fissati.
9.3.
Strumenti di
trasformabilità
supporto
alle
decisioni:
la
mappa
della
La messa a punto di strumenti di supporto alle decisioni costituisce la parte affidata al tecnico urbanista
per coadiuvare la complicata fase decisionale propria del decisore pubblico che ha la responsabilità,
politica e sociale, di assumere le scelte di trasformazione.
Infatti, il tecnico, concluse le fasi della conoscenza e dell’interpretazione, ha tutti gli elementi per delineare
la griglia entro cui poter assumere scelte, il più possibile razionali, di trasformazione e di assetto della città.
L’importanza della costruzione di uno strumento di supporto al decisore è tanto più indispensabile se si
considerano le caratteristiche dell’oggetto cui è rivolta l’attenzione: un sistema dinamicamente complesso.
L’aver compreso che la città ed il territorio sono sistemi di questo tipo ha costretto le attività di governo del
sistema urbano nello spazio dell’incertezza.
In altre parole, si è passati da una miope baldanzosa fiducia di operare scelte che portassero a risultati
certi ad una razionale coscienza di muoversi in un mondo incerto, il cui futuro non è prevedibile
linearmente sulla scorta della conoscenza delle condizioni iniziali del sistema.
Ciò non significa che non si debba agire, la prassi è la sostanza della vita. L’impredicibilità non vieta,
nell’ambito della prassi, il ricorso all’apprezzamento probabilistico assistito dal raffronto tra diverse e
contrastanti opportunità. (…) In tal senso si può affermare che i sistemi complessi sono proprio quelli che
richiedono necessariamente l’adozione di scelte (Fuccella 1995).
Lo scopo degli strumenti di supporto alle decisioni, in generale, è quello di consentire di estrarre in tempi
brevi ed in modo flessibile, da una grossa mole di dati le informazioni che servono a supportare e
migliorare in termini di efficacia il processo decisionale (Lazzerini 2004). I Sistemi di Supporto alle
Decisioni possono essere definiti anche come una metodologia atta a supportare un processo decisionale,
orientato a individuare una soluzione per un problema non completamente strutturato. Tali strumenti si
avvalgono di dati misurati e conoscenze proprie del decisore per supportare tutte le fasi decisionali
(Mocenni 2006).
Sulla base di tali considerazioni, si possono facilmente individuare i due obiettivi prioritari, strettamente
interrelati fra loro, di questo paragrafo.
Il primo, di tipo metodologico, è la descrizione di un metodo e dei criteri utilizzati per la costruzione di uno
strumento di supporto alle decisioni al fine di aiutare le scelte di destinazione (tipologia delle nuove
attività) e intensità d’uso (quantità di attività) da insediare nelle diverse aree della città.
Il secondo, di tipo professionale, è la descrizione della procedura da adottare per la costruzione di tale
strumento di supporto alle decisioni.
La finalità principale della costruzione di tale strumento è garantire che le scelte di trasformazione operate
dal decisore pubblico siano ammissibili con la qualità fisica dell’area (definita attraverso le caratteristiche
degli spazi esistenti) e compatibili con la struttura del sistema di riferimento (definita attraverso tipologia e
quantità di attività e relazioni presenti).
È opportuno precisare, fin da ora, che la messa a punto di uno strumento di supporto alla decisione trova
il suo campo di validità e di applicazione tanto nella fase propedeutica alla redazione di un Piano Comunale
per la previsione delle trasformazioni quanto nella fase di valutazione ex-post delle scelte di trasformazione
operate da un Piano.
Per individuare le trasformazioni compatibili e convenienti delle aree della città, quindi, viene messa a
punto una mappa della trasformabilità fisica e della compatibilità funzionale, costruita attraverso una
procedura che consente di individuare, tra le alternative di trasformazione possibili, quelle praticabili nel
rispetto della compatibilità ambientale, storica, geomorfologica anche in ragione della “domanda” espressa
nel contesto urbano di riferimento.
127
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
Criteri e metodi per la messa a punto di uno strumento di supporto alle decisioni
In un contesto territoriale ed ambientale caratterizzato da risorse sempre più rare, le politiche di
espansione urbana hanno lasciato spazio alle pratiche di recupero della città consolidata, in cui la qualità
urbana e la salvaguardia dell’ambiente occupano un ruolo fondamentale. In altri termini, si è diffusa una
nuova cultura della trasformazione, finalizzata a ridurre lo spreco di risorse, rispettando e valorizzando le
vocazioni naturali e ripristinando il valore dei luoghi.
in questa parte, Si propone un metodo finalizzato alla definizione di uno strumento di supporto alle
decisioni per individuare il ventaglio di trasformazioni possibili e di usi compatibili delle aree urbane. Tale
metodo, messo a punto dal prof. Rocco Papa dell’Università di Napoli Federico II, è finalizzato alla
definizione di azioni di trasformazione sostenibili2. Una prima formalizzazione del metodo è contenuta nel
contributo di Papa e Fistola (1996) dal titolo “Strumenti di supporto al governo dell’evoluzione della città:
la mappa della trasformabilità urbana” cui si fa riferimento.
La condizione essenziale per il perseguimento della sostenibilità nelle azioni di trasformazione è la
conservazione dell’insieme di risorse che formano il capitale, naturale ed antropizzato, di cui dispone una
generazione e che contribuisce al suo livello di benessere (non solo economico).
Inoltre, conservare il capitale di risorse disponibili significa che a qualsiasi trasformazione rilevante delle
risorse esistenti devono corrispondere misure compensative in grado di riportare il patrimonio di risorse
disponibili a livelli almeno simili a quelli dello stato precedente alla trasformazione.
Il metodo di costruzione di uno strumento di supporto al decisore, descritto in questo capitolo, ha come
punto di partenza la individuazione del “capitale critico” rappresentato da tutte le risorse, naturali o
antropiche, intangibili da conservare sempre ed in ogni caso. In altri termini, per garantire la sostenibilità
delle azioni di trasformazione, si procede seguendo due fasi di lavoro.
La prima è l’individuazione delle risorse la cui capacità rigenerativa è limitata e che, quindi, rappresentano
quel capitale non facilmente rinnovabile ma che è necessario per garantire adeguati livelli di qualità della
vita alle generazioni future.
Per individuare il capitale critico bisogna definire il sistema di limiti, vincoli e condizioni alla trasformazione
del territorio. In particolare, per limite si intende il termine che non si può o non si deve superare, il
termine oltre il quale un’azione di trasformazione non può essere effettuata per motivi legati alle
caratteristiche intrinseche territoriali o in ragione del superamento dei limiti amministrativi in cui tale
azione trasformativa è consentita; per vincolo si intende l’impossibilità a trasformare una particolare area
in conseguenza di un obbligo morale o normativo; per condizione si intende la circostanza che si deve
verificare perché sia possibile effettuare una trasformazione.
Nella seconda fase, Una volta individuato il capitale critico da conservare, si procede alla definizione delle
azioni di trasformazione possibili e compatibili su quella parte di risorse considerata trasformabile e che
costituisce il “capitale non critico”.
In tale fase bisogna affrontare alcune rilevanti difficoltà.
La prima è l’individuazione del “valore” delle risorse, anche perché questo può essere di natura economica
o di natura non economica.
Non si fa riferimento esclusivamente al valore d’uso ma ad un concetto più ampio di valore, il “valore
urbano complesso” (Papa, Fistola 1996), che tiene conto non solo delle risorse che sono oggetto di
compravendita ma anche delle risorse a cui il mercato non attribuisce un prezzo ma che presentano un
valore elevato legato al loro rilievo culturale, sociale ed ambientale.
Un paesaggio, un monumento, un ecosistema sono alcuni dei beni per i quali una stima puramente
economica può risultare inutile, dal momento che la determinazione di un valore economico riguarda, in
genere, le cose e gli oggetti riproducibili e commerciabili, mentre un valore culturale o ambientale assegna
al bene il significato di patrimonio sociale, di fonte di conoscenza e cultura, assai difficile da monetizzare
(Ruscelli 2005).
La seconda riguarda alla individuazione delle risorse storiche, architettoniche e ambientali presenti
all’interno di un ambito territoriale e quindi il riconoscimento, attraverso il loro pregio, della loro
insostituibilità e, conseguentemente, della loro non trasformabilità.
La terza difficoltà si riferisce alla individuazione della capacità di carico della struttura insediativa e, quindi,
alla compatibilità di contenitori, spazi, infrastrutture puntuali ed a rete rispetto alla quantità ed alla
attrattività delle attività, già insediate e da insediare, all’interno del sistema urbano.
Il valore urbano complesso di un ambito territoriale può essere individuato sulla base delle caratteristiche
e dalla qualità degli elementi che compongono l’ambito.
2
Nel 1987 il rapporto Bruntland ha definito: «sviluppo sostenibile, quello sviluppo capace di soddisfare i bisogni dell’attuale
generazione senza compromettere il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni future» (WCED 1987).
128
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
In particolare, ci si può basare sull’individuazione degli elementi che costituiscono la struttura insediativa
dell’ambito territoriale, sulla misura delle loro qualità fisico/funzionali ed, infine, sulla definizione del valore
complesso degli elementi.
Ciascun ambito, secondo l’approccio di tipo sistemico adottato, può essere discretizzato in sottosistemi,
quali il sottosistema fisico e quello funzionale. Di ciascun sottosistema possono essere individuati una serie
di elementi in grado di esprimere in maniera più o meno diretta la qualità intrinseca.
Dal punto di vista operativo, quanto finora detto si traduce nella individuazione di alcune variabili di base
che consentono di delineare un quadro della dimensione fisica e funzionale dell’ambito e si basano sul
rilevamento di dati sia quantitativi che qualitativi.
La qualità intrinseca del sottosistema fisico
Per valutare le qualità intrinseche del sottosistema fisico (densità edilizia, dotazione infrastrutturale, qualità
architettonica, ecc.), a ciascuna qualità è associato un dato numerico complessivo che può esprimersi in
funzione di alcune caratteristiche, quali la consistenza e lo stato del patrimonio edilizio, la presenza di
elementi di pregio, la dotazione di attrezzature, la consistenza e la tipologia della rete dei canali.
Queste caratteristiche, a loro volta, possono essere disaggregate in variabili.
Per esempio, la consistenza del patrimonio edilizio può essere espressa dal numero di abitazioni oppure
dal volume costruito; lo stato del patrimonio edilizio può essere espresso attraverso l’epoca di costruzione,
oppure attraverso le condizioni statiche, oppure attraverso il grado di conservazione; la dotazione di
attrezzature può essere valutata attraverso il numero oppure i metri quadrati di attrezzature presenti
(scuole, aree verdi, parcheggi, attrezzature sociali, ecc.).
A partire da tali variabili si costruiscono, quindi, degli indici sintetici che esprimono le qualità intrinseche
del sottosistema fisico. Ad esempio, la densità edilizia può essere determinata come rapporto tra il numero
di abitazioni (o il volume costruito) e la superficie territoriale di riferimento.
A questo punto, combinando opportunamente gli indici sintetici ed utilizzando i classici metodi di
standardizzazione, si ottiene un numero sintetico rappresentativo del valore del sottosistema fisico.
La qualità intrinseca del sottosistema funzionale
Analogamente, si valuta il valore del sottosistema funzionale.
In questo caso le variabili di base a cui fare riferimento possono essere, per esempio, le destinazioni d’uso
prevalenti, la presenza di destinazioni d’uso particolari, il numero di funzioni (sanità, commercio, credito,
ecc.), la presenza di funzioni centrali, la presenza di servizi generali, il numero di addetti per unità d’offerta
presente.
Anche per questo sottosistema si costruiscono degli indici sintetici, quali l’intensità d’uso per tipologia di
servizio (pari al rapporto tra la sommatoria degli addetti per unità d’offerta afferenti alla stessa funzione e
la sommatoria delle superfici coperte), oppure l’indice di affollamento (pari al rapporto tra il numero di
abitanti e il vano medio).
La combinazione lineare dei valori del sottosistema fisico e del sottosistema funzionale fornisce, in
definitiva, un numero sintetico rappresentativo del valore urbano complesso dell’ambito territoriale.
La qualità intrinseca di un ambito territoriale
Da quanto detto, risulta che il valore di un ambito territoriale è funzione delle qualità (fisiche e funzionali)
intrinseche dell’ambito stesso, qualità che possono essere modificate sia dalle azioni di trasformazione
dovute alle componenti biocenotiche (fenomeni di tipo naturale) sia da quelle indotte dagli interventi
dell’uomo (fenomeni di tipo antropico).
In campo urbanistico, quelle che suscitano un maggiore interesse sono le azioni di trasformazione di tipo
antropico, che in una logica di sostenibilità devono tener conto del valore dell’ambito territoriale sul quale
sono realizzate e, quindi, della sua diversa utilizzabilità.
In quest’ottica, dunque, la metodologia di riferimento propone un’articolazione degli ambiti territoriali in
quattro tipologie definite anche sulla base delle loro qualità intrinseche (Fig. 5).
La prima tipologia, “aree del degrado”, è caratterizzata da un valore insediativo e/o ambientale basso,
determinato da qualità intrinseche dell’area modeste, che possono essere dovute anche alla carenza o
all’inadeguatezza delle azioni di trasformazione.
La seconda tipologia, “aree della compromissione”, è caratterizzata da un valore insediativo o ambientale
alto, determinato da qualità intrinseche dell’area elevate che sono state compromesse da trasformazioni
eccessive.
La terza tipologia, “aree della conservazione”, è caratterizzata da un valore insediativo e/o ambientale alto,
determinato da qualità intrinseche dell’area elevate in cui la trasformazione è stata orientata a preservare
tali caratteristiche riuscendo a non comprometterle.
129
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
Fig. 5 – Articolazione degli ambiti territoriali tra valore e trasformazioni
La quarta tipologia, “aree della trasformazione”, è caratterizzata da un valore insediativo o ambientale
basso, determinato da qualità intrinseche dell’area modeste e da azioni di trasformazioni consistenti, rese
possibili dalla scarsa qualità dell’area.
Dalle definizioni delle quattro tipologie di ambiti territoriali, si evince come nel caso delle aree del degrado
e della compromissione le azioni di trasformazioni operate, in un caso per carenza, nell’altro per eccesso,
hanno abbassato la qualità delle aree. Viceversa, nelle aree della conservazione e della trasformazione le
azioni di trasformazione operate, in un caso hanno preservato la qualità intrinseca delle aree, nell’altro ne
hanno migliorato la qualità senza superare la capacità di carico dell’area, realizzando, così, una
trasformazione urbana sostenibile.
La relazione tra valore dell’ambito e grado di trasformabilità
Da quanto detto, mettendo in relazione il valore di un ambito territoriale con le azioni di trasformazione di
tipo antropico, si comprende come tra valore e trasformabilità esista una relazione di tipo inverso e, di
conseguenza il valore di un ambito territoriale rappresenta una misura inversa della sua trasformabilità.
Questo legame evidenzia la sostenibilità delle azioni ad elevato grado di trasformazione su ambiti di valore
ridotto, che presentano, di conseguenza, più alti livelli di trasformabilità; analogamente, sono definite
sostenibili quelle azioni orientate alla conservazione ed al recupero, e quindi al trasferimento alle
generazioni future delle risorse presenti negli ambiti di valore elevato, e quindi meno trasformabili.
Il concetto di trasformabilità in parte è presente in alcuni strumenti per la gestione della fase della
conoscenza, introdotti di recente in alcune leggi urbanistiche regionali.
Per esempio, nella Carta Regionale dei Suoli, prevista nella Legge Regionale n. 23/1999 della Basilicata,
sono riportati (art. 10) i livelli di trasformabilità del territorio regionale, determinati attraverso
l’individuazione e la perimetrazione dei regimi di intervento (conservazione, trasformazione e nuovo
impianto) che tengono conto dell’esistenza dei vincoli derivanti dalla legislazione statale e di quelli ad essi
assimilabili.
Analogamente, nella Carta dei Luoghi e dei Paesaggi, prevista nel disegno di legge della Regione Abruzzo
del 2004, sono perimetrati e classificati i sistemi naturali ed insediativi esistenti, e per ciascuna classe è
indicato il livello di trasformabilità, in relazione alla sua compatibilità con le caratteristiche dei luoghi e dei
paesaggi (Travascio 2007).
In questi esempi, il termine trasformabilità indica una caratteristica del territorio che ne misura le
intrinseche capacità modificative, in genere finalizzate ad accogliere funzioni ed attività antropiche.
Il concetto di trasformabilità, quindi, è legato alla possibilità di un elemento di assumere stati diversi da
quello attuale, totalmente o parzialmente differenti dallo stato precedente, e racchiude in sé l’idea del
cambiamento e del mutamento (Papa, Fistola 1996).
La mappa della trasformabilità fisica e della compatibilità funzionale
La messa a punto di uno strumento di supporto alle decisioni, definito come mappa della trasformabilità,
risponde alla convinzione che per governare l’evoluzione dei fenomeni urbani, piuttosto che predisporre un
sistema di regole rigide di trasformazione e di usi prefissato, che può risultare inadeguato rispetto a
fenomeni “non attesi” che possono verificarsi sul sistema urbano e che ne possono modificare l’evoluzione
in maniera imprevista, bisogna individuare il sistema delle trasformabilità, il ventaglio cioè di
trasformazioni, di configurazioni fisiche che non compromettano il pregio del patrimonio di risorse
130
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
disponibili in una area e siano compatibili con gli usi esistenti tanto nella singola area che nel territorio
circostante.
La città ed il territorio vanno calati, inoltre, all’interno di condizioni di contesto che fanno riferimento a
vincoli, condizioni e limiti alla trasformazione.
La griglia di limiti, vincoli e condizioni dipende sia da valori universalmente riconosciuti (sostenibilità,
irriproducibilità delle risorse territoriali, ecc.) ma anche dai modi di pensare, dalle risorse disponibili di
ciascun sistema urbano, dai bisogni espressi in quella particolare città; in altre parole tale griglia non può
essere unica per tutti i contesti urbani ma deve essere costruita in relazione a ciascun sistema urbano.
Fig. 6 – Interventi compatibili nelle aree della conservazione e della trasformazione
È sulla base dei valori e delle vocazioni riconosciuti dalla collettività, delle risorse presenti in quel
particolare contesto urbano, dei bisogni espressi da quella specifica collettività che la costruzione della
griglia consente di individuare la trasformabilità delle aree di ciascun sistema urbano. Tale impostazione fa
riferimento ad un piano che non ha valenza di piano vincolante ma valenza di piano di strategie, all’interno
del quale, garantita la conservazione del capitale critico di risorse da non trasformare, sia tracciato, per
ciascuna tipologia di area, il ventaglio delle possibilità di trasformazione, che definisca il sistema delle
azioni possibili per ciascuna tipologia di area.
Il metodo decritto quindi, una volta definito il “valore urbano complesso” degli ambiti territoriali, passa alla
loro classificazione operata in ragione del loro valore.
A ciascuna classe di valore associa un set di categorie di intervento di trasformazione possibili e sostenibili.
In altri termini, a ciascuna tipologia di ambito, definita sulla scorta del valore delle risorse fisiche in esso
presenti, viene associato un ventaglio di trasformazioni che è possibile operare nel rispetto del principio di
sostenibilità.
Quanto più è elevato il pregio delle risorse fisiche diffuse all’interno di un’area, quanto più, cioè, è elevato
il valore di un’area, tanto più è ridotto il set di interventi di trasformazione che è possibile operare;
viceversa, quanto più è basso il pregio delle risorse presenti in un’area, tanto più è ampio il ventaglio delle
trasformazioni possibili.
Infatti, nel caso delle aree della conservazione sono definiti possibili e sostenibili gli interventi di
manutenzione e/o di restauro; mentre, nel caso delle aree della trasformazione non solo sono possibili tutti
gli interventi previsti nelle aree di pregio via via più elevato, ma sono compatibili interventi che includono
anche l’abbattimento e la ricostruzione o la nuova edificazione (Fig. 6).
Facendo riferimento alle definizioni degli interventi edilizi riportate nel testo unico dell’edilizia3 è possibile
proporre la seguente classificazione di interventi anche in ragione dei livelli di trasformabilità connessi:
3
DPR n. 380 del 6 giugno 2001, art. 3 “Definizione degli interventi edilizi”.
131
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
a.
b.
c.
d.
e.
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
gli interventi di manutenzione comprendono l’insieme di operazioni ed azioni destinate al controllo
delle condizioni degli elementi naturali ed antropici presenti nell’area, nonché al mantenimento della
loro integrità, efficienza funzionale ed identità, senza comportarne modifiche o alterazioni;
gli interventi di restauro e di risanamento comprendono l’insieme di operazioni ed azioni finalizzate
ad assicurare la funzionalità degli elementi naturali ed antropici presenti nell’area ed il loro recupero,
nonché la protezione, conservazione e trasmissione dei valori culturali, storici ed architettonici, senza
comportare alterazioni e senza introdurre nuovi elementi, a meno che non sia ripristinata la
situazione originaria;
gli interventi di ristrutturazione e di riconversione comprendono l’insieme di azioni di trasformazione
necessarie a modificare, totalmente o parzialmente, l’organizzazione e la distribuzione degli elementi
antropici e naturali presenti nell’area, senza variazioni delle superfici coperte o degli indici di
utilizzazione (territoriale e fondiaria) o delle densità edilizie (territoriale e fondiaria);
gli interventi di ricostruzione e di sostituzione comprendono l’insieme di operazioni di demolizione dei
manufatti preesistenti, seguite dal ripristino delle stesse volumetrie e forme (ad eccezione delle
innovazioni necessarie per l’adeguamento tecnologico e normativo) oppure dall’ampliamento dei
manufatti originari, con la realizzazione di infrastrutture ed impianti che comportino la trasformazione
dell’area;
gli interventi di nuova edificazione, infine, comprendono l’insieme di operazioni che comportano la
costruzione di nuovi manufatti e la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria,
e quindi che determinano la trasformazione in via permanente dei suoli inedificati.
La costruzione della mappa della trasformabilità si completa con l’individuazione del livello di compatibilità
tra domanda e offerta d’uso (compatibilità funzionale).
Il livello di compatibilità funzionale di un’area si determina attraverso l’individuazione delle tipologie di
attività (destinazioni d’uso) e delle quantità di attività (intensità d’uso) che quella determinata area può
sopportare in relazione a sue qualità fisiche intrinseche (pregio), alle attività già presenti nell’area ed alle
attività presenti nel contesto urbano di riferimento.
Rispetto alla prima caratteristica si può intervenire con un cambiamento di destinazione d’uso, nel caso di
degrado funzionale, di incompatibilità funzionale con la struttura fisica, di abbandono dell’area e di carenza
di servizi, oppure con il mantenimento dell’identica destinazione d’uso, nel caso di compatibilità funzionale
delle attività e dei flussi con la struttura fisica.
Usi compatibili
Trasformazioni possibili
1
2
3
4
a. Restauro
a1
a2
a3
a4
b. Recupero
b1
b2
b3
b4
c. Ristrutturazione ‐ riconversione
c1
c2
c3
c4
d. Ricostruzione ‐ sostituzione
d1
d2
d3
d4
e. Nuova edificazione
e1
e2
e3
e4
Tab. 1 – Classi di trasformabilità fisica e compatibilità funzionale: matrice di incrocio
Rispetto all’intensità d’uso si può intervenire con una sua riduzione, nel caso di aree caratterizzate da
congestione di attività e flussi, oppure con un suo incremento, nel caso di aree caratterizzate da basse
densità di attività e flussi.
In ragione delle caratteristiche funzionali delle attività e dei flussi presenti nell’ambito urbano e nel
contesto di riferimento, la metodologia, quindi, individua quattro gradi di compatibilità funzionale:
1.
il mantenimento della destinazione originaria;
2.
la riduzione dell’intensità d’uso;
3.
l’incremento dell’intensità d’uso;
4.
il cambiamento della destinazione d’uso.
Dopo aver determinato la trasformabilità del sistema fisico e la compatibilità del sistema funzionale, gli
ambiti urbani sono suddivisi in categorie di aree, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso indice (a1,
a2, a3, a4, b1, …, c1, …, d1, …, e1, e2, e3, e4), indicativo del livello di disponibilità alla trasformazione
fisica e del grado di compatibilità funzionale (Tab. 1).
132
CARMELA GARGIULO - ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 9. Tecniche per il governo delle trasformazioni
Fig. 7 – Mappa della trasformabilità fisica e della compatibilità funzionale
Dire ad esempio che un’area appartiene alla categoria b2 equivale a dire che sono possibili interventi di
risanamento, conservando la stessa destinazione d’uso prevalente ma con una riduzione dell’intensità
d’uso.
In definitiva, la metodologia determina una classificazione del territorio in base al concetto di
trasformabilità, che può essere considerata come una articolazione del territorio in aree a diversi livello di
pregio (determinato sulla base della qualità delle caratteristiche fisiche in esse presenti), a cui
corrispondono diversi livelli di disponibilità e, quindi, di utilizzabilità.
La mappa della trasformabilità articola il territorio in aree differenziate in funzione dell’indice di
trasformabilità fisica e di compatibilità funzionale (fig. 7). La restituzione grafica è rappresentata da una
carta in cui sono riportati i valori dei singoli ambiti urbani, a ciascuno dei quali sono associate le categorie
di intervento possibili e la tipologia di uso compatibile.
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Openshaw S., Abrahart R.J. (2004), GeoComputation, Routledge, New York.
133
10. TECNICHE PER IL GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI
LE AZIONI
Adriana Galderisi
Questo capitolo illustra il ruolo della fase dell’azione all’interno del processo ciclico di governo delle
trasformazioni urbane e ne descrive i principali contenuti metodologici. In particolare, la prima parte del
capitolo illustra i principali criteri per la definizione delle azioni, ovvero per la traduzione in azioni degli
obiettivi individuati nella fase della decisione, e per la loro successiva gerarchizzazione; la seconda parte
evidenzia l’importanza del monitoraggio e della verifica “in itinere” del percorso di evoluzione dei sistemi
urbani. Si tratta di un passaggio chiave per caratterizzare il processo di governo delle trasformazioni
urbane e territoriali quale processo di apprendimento continuo: il monitoraggio consente, infatti, una
costante verifica della traiettoria di evoluzione del sistema urbano dallo stato attuale verso lo stato
compatibile prefissato, supportando così le scelte relative ad eventuali “cambi di rotta” della traiettoria di
evoluzione, resi necessari da possibili scostamenti tra traiettorie prefigurate e traiettorie effettivamente
seguite dai sistemi oggetto di studio.
10.1.
La fase dell’azione nel processo di governo delle trasformazioni
urbane
La pianificazione, così come tradizionalmente intesa, si è a lungo strutturata come sequenza lineare che, a
partire dalla conoscenza del sistema urbano oggetto di studio all’istante temporale t0 (anno di redazione
del piano urbanistico) delinea un assetto futuro del sistema stesso al tempo t1 (anno di proiezione del
piano) (Hall 1992).
Essa era prevalentemente orientata a definire la meta, il punto di arrivo, ponendo una limitata attenzione
sia al percorso da seguire, sia alla verifica in itinere e/o a posteriori dell’esito delle azioni implementate.
Alla luce dei mutati paradigmi interpretativi dei fenomeni urbani e territoriali, i principali elementi che
caratterizzano il processo di governo dei sistemi urbani e territoriali possono essere individuati, da un lato,
nella definizione di un assetto futuro in termini di stato compatibile piuttosto che di stato desiderato;
dall’altro, nell’introduzione della fase dell’azione come parte integrante del processo che consente di
caratterizzarlo come processo ciclico. Tale fase è orientata a definire azioni, soggetti, strumenti e tempi
per guidare la transizione del sistema urbano dallo stato di fatto allo stato compatibile e a monitorare la
traiettoria di evoluzione del sistema oggetto di studio per verificarne eventuali scostamenti rispetto alla
traiettoria prefigurata e delineare possibili modifiche delle scelte effettuate (Fig. 1).
Fig. 1 − La fase dell’azione nel processo di governo delle trasformazioni urbane
La fase dell’azione permette, dunque, di definire l’insieme dei fattori atti a favorire la transizione del
sistema oggetto di studio dal punto A (stato attuale) al punto C (stato compatibile) e individua condizioni
per rendere operative le scelte effettuate nella fase della decisione.
Gli elementi che concorrono a trasferire il sistema oggetto di studio dallo stato attuale (punto A) allo stato
compatibile (punto C) sono molteplici. Tra questi, possono essere individuati in particolare:

le azioni da mettere in campo per il conseguimento degli obiettivi prefissati;

il tempo e le risorse necessarie per l’implementazione delle singole azioni;

i soggetti che possono concorrere all’attuazione delle diverse azioni;

gli strumenti necessari per dare corso alle azioni previste.
É opportuno sottolineare che la traiettoria evolutiva del sistema, anche in ragione delle caratteristiche di
complessità di quest’ultimo, non sarà univocamente determinata, ma dovrà essere configurata quale
“campo di esistenza” dell’insieme delle possibili traiettorie di evoluzione.
135
ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 10. Tecniche per il governo delle trasformazioni: le azioni
Fig. 2 − Il campo di esistenza delle traiettorie di evoluzione del sistema urbano
Tale campo di esistenza sarà delimitato verso l’alto dalla traiettoria di congiunzione tra stato attuale e
stato desiderato; al di sotto dello stato compatibile, sarà invece necessario fissare uno scarto “accettabile”
(ε) entro il quale si ritiene che lo scarto tra l’effettiva traiettoria evolutiva del sistema e quella prefigurata
sia accettabile, ovvero non richieda correttivi agli obiettivi e alle azioni previste (Fig. 2).
Lo stato compatibile (punto C) individua lo stato più vicino a quello desiderato dove è possibile condurre il
sistema nell’arco temporale fissato e sulla base delle risorse disponibili o acquisibili. Tuttavia, si potrebbero
verificare anche condizioni (ad es. una disponibilità di risorse non previste al tempo t0) in grado di mutare
la traiettoria evolutiva del sistema, avvicinandola allo stato desiderato o, viceversa, condizioni che
potrebbero provocare uno scostamento rispetto alla traiettoria prefigurata per raggiungere il punto C. Se
lo scostamento non determina variazioni significative può essere ritenuto accettabile anche in assenza di
interventi correttivi. In generale, quindi, è possibile affermare che, per le caratteristiche proprie dei sistemi
complessi, potrebbero verificarsi condizioni, non previste inizialmente, in grado di determinare uno scarto
tra traiettoria prefigurata e traiettoria reale: questo scarto può essere tale che la traiettoria reale sia
ancora interna campo di esistenza prefissato o che si collochi all’esterno di questo.
Nel caso in cui la traiettoria risulti esterna al campo di esistenza sarà necessario apportare dei “correttivi”
in grado di riportare la traiettoria evolutiva del sistema verso quella prefigurata o, in casi estremi, ridefinire
lo stato compatibile, ovvero ripensare il sistema di obiettivi e azioni inizialmente delineato.
In questo processo il monitoraggio della traiettoria evolutiva del sistema in ciascuno degli istanti temporali
tx che separano t0 da t1 ha un ruolo fondamentale poiché consente di individuare eventuali difformità tra
evoluzione reale ed evoluzione prefigurata e, conseguentemente, di vagliare i necessari interventi
correttivi. Il costante monitoraggio delle traiettorie evolutive di un sistema urbano o territoriale
caratterizza, dunque, con chiarezza il passaggio dalla “staticità” della pianificazione tradizionale, volta alla
determinazione di un assetto futuro, alla “dinamicità” di un processo di governo delle trasformazioni
urbane e territoriali.
In ragione di quanto fin qui affermato, la fase dell’azione si articola in tre differenti momenti sequenziali
che prevedono rispettivamente:

la definizione e programmazione delle azioni;

l’implementazione delle azioni;

il monitoraggio e la verifica in itinere della traiettoria di evoluzione del sistema.
10.2.
Individuare, programmare e implementare le azioni
Nella fase della decisione vengono delineate le finalità e gli obiettivi del piano urbanistico e viene
effettuata una prima gerarchizzazione degli obiettivi.
Nella fase dell’azione è necessario effettuare un’ulteriore specificazione degli obiettivi in sistemi di azioni.
La sequenza finalità-obiettivi-azioni può essere visualizzata come una struttura gerarchica ad albero in cui
ogni livello costituisce una specificazione, in chiave di crescente operatività, del livello precedente (Fig. 3).
Percorrendo la struttura dall’alto verso il basso avremo un crescente livello di disaggregazione: ad ogni
finalità di carattere generale corrisponderanno più obiettivi, cui saranno associate diverse azioni mirate al
loro conseguimento.
136
ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 10. Tecniche per il governo delle trasformazioni: le azioni
Fig. 3 − La struttura finalità-obiettivi-azioni
In alcuni casi, è opportuno fare riferimento, più correttamente, a sistemi di azioni, ovvero ad azioni
correlate e orientate, nel loro insieme, al conseguimento di un medesimo obiettivo. In altri casi, è possibile
che le azioni possano invece risultare alternative tra loro.
Per meglio comprendere il rapporto che intercorre tra finalità, obiettivi e azioni, è possibile ricorrere a
qualche esempio.
Ipotizziamo che la conoscenza di un dato sistema urbano abbia fatto emergere una significativa domanda
di riduzione della congestione da traffico veicolare nell’area centrale della città: quest’ultima può
indubbiamente costituire una delle finalità verso cui orientare l’evoluzione di un sistema urbano, anche per
favorirne, ad esempio, una fruizione in chiave turistica penalizzata, allo stato attuale, dai rilevanti flussi
veicolari. Tra gli obiettivi che possono essere correlati a tale finalità si può considerare la riduzione degli
spostamenti casa-lavoro: è evidente che tale obiettivo può essere perseguito attraverso azioni molteplici e
tra loro correlate. Tra queste, ad esempio, la delocalizzazione di alcuni rilevanti attrattori localizzati
nell’area centrale (grandi sedi di uffici o altre attività produttive) verso le aree periferiche o, anche, la
realizzazione di una linea su ferro che consenta un più agevole collegamento tra le aree periferiche
(prevalentemente residenziali) e l’area centrale (dove si concentra prevalentemente l’offerta di lavoro).
Ancora, è possibile ipotizzare azioni soft volte, ad esempio, a potenziare il trasporto pubblico su gomma, a
favorire il car-sharing su alcune percorrenze particolarmente congestionate o, anche, all’introduzione di
specifici disincentivi al traffico veicolare nelle aree urbane centrali.
Si tratta quindi di un sistema correlato di azioni, che possono essere implementate attraverso strumenti
urbanistici eterogenei o anche attraverso specifici provvedimenti.
Anche per le azioni, così come per le finalità e gli obiettivi, è opportuno procedere ad una gerarchizzazione
in ragione della rilevanza che ciascuna azione riveste ai fini del conseguimento di uno o più obiettivi. A
differenza della gerarchizzazione delle finalità e obiettivi prevalentemente affidata alla sfera politica, la
gerarchizzazione delle azioni attiene alla sfera tecnica, risultando prevalentemente orientata a definire, tra
le azioni possibili, quelle in grado di massimizzare il conseguimento di un dato obiettivo con i minori costi
oppure ad individuare quelle azioni la cui attuazione risulta preferibile o prioritaria rispetto ad altre.
Una volta definite e gerarchizzate le azioni, sarà opportuno indicare per ciascuna di esse tutti gli elementi
che concorrono alla sua effettiva implementazione. In altre parole, non è sufficiente definire quali azioni
sia necessario mettere in campo per conseguire un dato obiettivo, ma è indispensabile definire quali
soggetti possono essere coinvolti nell’attuazione, quali sono le risorse che è possibile utilizzare per la sua
implementazione, quali tempi ciascuna azione richiede per il suo completamento.
Una volta individuate le azioni e definiti i soggetti e le risorse necessarie per la loro attuazione, è
opportuno procedere ad una loro programmazione nell’arco temporale prefissato. Tale programmazione
deve tener conto della gerarchizzazione delle azioni precedentemente effettuata, delle possibili
“propedeuticità” tra le diverse azioni, dell’effettiva disponibilità di risorse o dei tempi per la loro
acquisizione e, infine, deve risultare in linea con gli orizzonti temporali dello strumento di piano all’interno
del quale l’azione viene prevista, ovvero nell’arco temporale che separa t0 da t1.
In questa fase di programmazione, sarà opportuno non solo articolare l’implementazione di ciascuna
azione prevista in tranche di intervento da attuare in differenti intervalli temporali, ma andranno anche
individuati appropriati parametri per consentire il monitoraggio dello stato di attuazione delle azioni.
In altre parole, l’individuazione delle azioni o dei sistemi di azioni da mettere in campo per il
conseguimento di un dato obiettivo, richiede anche la predisposizione di parametri atti, da un lato, a
verificare l’effettivo stato di implementazione dell’azione rispetto a predeterminati stati di avanzamento
dell’intervento complessivo; dall’altro, a valutare il grado di effettivo conseguimento dell’obiettivo
prefissato nei diversi intervalli temporali.
È evidente che nel corso del tempo potrebbero insorgere delle difficoltà nell’implementazione dell’azione
oppure verificarsi dei mutamenti delle condizioni di contesto che potrebbero inficiare il raggiungimento
dell’obiettivo prefissato.
In tali casi, sarà necessario mettere in campo eventuali correttivi rispetto all’azione prevista o, anche,
procedere ad una rideterminazione dell’obiettivo stesso.
137
ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 10. Tecniche per il governo delle trasformazioni: le azioni
La programmazione delle azioni e l’individuazione di appropriati parametri di monitoraggio, dunque,
costituiscono indispensabili presupposti per il monitoraggio della traiettoria evolutiva del sistema e dei suoi
eventuali scostamenti dal “campo di esistenza” prefigurato.
10.3.
Il monitoraggio dell’evoluzione del sistema urbano
Momento chiave della fase dell’azione è la messa in campo di sistemi atti a garantire un efficace
monitoraggio della reale traiettoria di evoluzione che il sistema segue nell’arco temporale che separa t0 da
t1 e dei suoi eventuali scostamenti dalla traiettoria prefigurata o, meglio, dal campo di esistenza delle
possibili traiettorie di evoluzione del sistema in precedenza individuato.
L’impossibilità di determinare con certezza la traiettoria evolutiva del sistema sulla base della conoscenza
delle condizioni di partenza richiede la messa in campo di procedure e strumenti che consentano di
monitorare nel tempo l’evoluzione del sistema, di verificare in itinere gli eventuali scostamenti tra
traiettoria reale e traiettoria prefigurata e di definire opportuni correttivi atti a ricondurre il sistema lungo
la traiettoria individuata in precedenza. Tra le principali caratteristiche dei sistemi complessi vi è, infatti, la
non prevedibilità delle traiettorie di evoluzione: i sistemi complessi presentano punti di instabilità in
corrispondenza dei quali anche minimi cambiamenti di una variabile all’interno del sistema stesso
producono differenze rilevanti nello stato del sistema in un dato arco temporale. Pertanto, l’evoluzione di
un siffatto sistema verso un assetto futuro prefigurato può essere certamente delineata, ma la sua
aderenza alla traiettoria di evoluzione deve essere monitorata istante per istante al fine di mettere in
campo eventuali correttivi.
I fattori che possono determinare uno scostamento della traiettoria di evoluzione del sistema rispetto a
quella prefigurata sono molteplici. Accanto alla stessa implementazione delle azioni previste, che
modificano il sistema e possono indurre effetti o esiti non previsti inizialmente, numerosi altri fattori, di
natura esogena, possono infatti modificare significativamente la traiettoria evolutiva prevista: rivolgimenti
economici, rilevanti trasformazioni tecnologiche, eventi calamitosi, ecc.
Scopo del processo di monitoraggio e verifica è, dunque, quello di valutare gli effetti degli eventuali fattori
di disturbo sulla traiettoria di evoluzione del sistema e reagire appropriatamente (McLoughlin 1973). In che
modo? Mettendo in campo azioni volte a contrastare l’effetto del fattore di disturbo, così da ridurre lo
scarto tra traiettoria reale e traiettoria prefigurata, oppure valutando l’opportunità di ridefinire la méta
prefigurata, rivedendo l’intero sistema di finalità e obiettivi messo a punto nella fase della decisione
(qualora si sia verificato, ad esempio, un evento catastrofico di portata tale da rimettere complessivamente
in discussione le scelte fondamentali che erano state assunte per guidare l’evoluzione del sistema).
Tale processo deve essere caratterizzato dalla massima continuità possibile: esso ha efficacia, infatti,
quando il confronto tra lo stato di fatto e lo stato desiderato e la valutazione degli eventuali scostamenti è
tale che, individuate le cause di questi ultimi, si ha la possibilità di esercitare azioni correttive. Gli
scostamenti possono essere anche causati da fattori talmente rilevanti da richiedere una sostanziale
rimodulazione delle finalità e degli obiettivi di partenza.
Le attività di monitoraggio e verifica in itinere richiedono, evidentemente, informazioni costantemente
aggiornate sulle caratteristiche del sistema in ogni istante tx che separa t0 da t1: ciò è reso attualmente
possibile dall’evoluzione delle tecnologie e dalla sempre più diffusa disponibilità di sistemi informativi
geospaziali che consentono di disporre di informazioni costantemente aggiornate, spesso anche in tempo
reale, sullo stato del territorio.
Monitoraggio e verifica in itinere della traiettoria evolutiva del sistema in esame consentono di
caratterizzare il processo di governo delle trasformazioni urbane come un processo di apprendimento
continuo, in cui i feedback informativi sulle reali trasformazioni del sistema permettono un costante
adattamento delle scelte, favorendo così una più efficace guida dell’evoluzione del sistema verso lo stato
compatibile, delineato nella fase della decisione.
In sintesi, attraverso le fasi della conoscenza, della decisione e dell’azione, il processo di governo delle
trasformazioni urbane è orientato a:

definire uno stato compatibile verso cui orientare l’evoluzione del sistema;

monitorare, istante per istante, il processo di evoluzione e trasformazione del sistema stesso;

individuare eventuali scostamenti tra evoluzione prefigurata ed evoluzione reale;

apportare, laddove necessario, i correttivi necessari a ricondurre la traiettoria di evoluzione del
sistema all’interno del campo di esistenza prefigurato.
Si tratta, quindi, di un processo che, fondando su un’interpretazione dei sistemi urbani quali sistemi
complessi e dinamici, mira a “governarne” l’evoluzione sulla base di una conoscenza costantemente
aggiornata della reale evoluzione del sistema e opportuni meccanismi di verifica in itinere atti ad
138
ADRIANA GALDERISI
CAPITOLO 10. Tecniche per il governo delle trasformazioni: le azioni
evidenziare eventuali scostamenti dalla traiettoria di evoluzione prefigurata e a supportare l’introduzione di
eventuali correttivi.
La fase dell’azione è orientata a definire l’insieme dei fattori (azioni, soggetti, risorse, strumenti, tempi)
che concorrono ad innescare l’evoluzione del sistema dallo stato attuale verso lo stato compatibile e alla
messa a punto di adeguate procedure di monitoraggio e verifica atte a connotare il governo delle
trasformazioni urbane come processo di apprendimento continuo, in cui l’implementazione delle azioni
previste si configura quale necessario momento di verifica della traiettoria di evoluzione del sistema al fine
di predisporre eventuali correttivi.
Bibliografia
Hall P. (1992), Urban and Regional Planning, Routledge, New York.
McLoughlin J.B. (1973), La pianificazione urbana e regionale, Marsilio, Padova.
139
11. LIVELLI E STRUMENTI DI GOVERNO DELLE
TRASFORMAZONI NELLA LEGISLAZIONE VIGENTE
Giuseppe Mazzeo
11.1.
Principi generali e livelli di pianificazione nella Legge Urbanistica
Nazionale
Il capitolo approfondisce il sistema della pianificazione come si è venuto a formare nel corso degli anni, a
partire dal 1942. Il contenuto della legge urbanistica nazionale rappresenta ancora oggi la struttura
portante della normativa urbanistica, ma attorno ad essa si sono andati strutturando una serie di
innovazioni in termini di piani e di procedure che ne hanno modificato in profondità il disegno originale. La
rilevanza assunta dalle normative regionali, ad esempio, ha rappresentato, a partire dagli anni Settanta, un
elemento fondamentale di innovazione che ha permesso l’attuazione di processi anche sperimentali di
grande rilievo urbanistico.
La Legge Urbanistica Nazionale n. 1150/1942
La Legge Urbanistica Nazionale, la 1150 del 1942, rappresenta una delle norme più longeve tra quelle
presenti nel panorama legislativo nazionale. È una legge che risente della particolare condizione politica
presente nel momento in cui è stata emanata, ossia dell’ultima fase del periodo fascista, ma anche delle
influenze della pianificazione urbanistica più avanzata in atto in Europa; ne discende una rigida
organizzazione della pianificazione, centralizzata e scarsamente flessibile, anche se con un impianto molto
razionale e lineare. I giudizi su di essa sono contrastanti e vanno da chi la considera uno strumento ormai
invecchiato (Oliva 2004), a quelli che individuano elementi di positività nella organizzazione della norma,
interpretabile e adeguabile all’evoluzione della realtà territoriale (Salzano 1997).
Oltre alla matrice politica originaria, questa legge ha avuto la sfortuna di essere emanata in piena Seconda
guerra mondiale. Questi due fattori hanno inciso sulla sua iniziale applicazione in quanto, al momento di
porre mano alla ricostruzione post-bellica, essa è stata ignorata a vantaggio di norme di tipo emergenziale,
di più veloce attuazione, da applicare alla ricostruzione delle città italiane. Inoltre, alcuni suoi istituti
pianificatori (in particolare la pianificazione territoriale) hanno tardato a dare i loro frutti in quanto sono
rimasti a lungo sostanzialmente disapplicati.
Comunque la si consideri, la Legge 1150/42 ha rappresentato lo strumento con il quale si è sviluppata la
pianificazione comunale in Italia e la successiva conformazione che il sistema urbano ha assunto nel corso
dei decenni successivi.
A causa dei suoi “peccati di origine” la Legge 1150/42 è stata continuamente oggetto di progetti di
riforma, anche se l’unica innovazione di rilievo è avvenuta nel 1967, con la Legge n. 765 (Legge Ponte),
che ha introdotto nella formulazione originaria una serie di innovazioni come premessa ad una nuova
organica normativa nazionale in materia (che però non è mai stata realizzata).
Ispirata ai modelli più avanzati a livello europeo, la 1150/42 introduce norme di grande modernità, se
relazionate al periodo della sua emanazione; strumento centrale nella struttura della pianificazione è il
Piano Regolatore Generale, alla cui redazione vengono obbligati i Comuni inseriti all’interno di appositi
elenchi elaborati dal Ministero per i lavori pubblici, che ha lo scopo di assicurare il migliore assetto
urbanistico degli insediamenti determinando la loro futura configurazione e fissando norme e prescrizioni
necessarie ad attuare tali finalità.
Tutto il territorio comunale viene assoggettato a pianificazione sulla base di zone funzionali differenti,
individuate in base alla loro destinazione d’uso. Viene quindi superata la differenza tra “piano di
ricostruzione” e “piano di ampliamento” introdotto dalla legge 2248 del 1865. Inoltre si afferma un
principio di limitazione nei diritti di proprietà in relazione all’uso del suolo, limitazione qualitativa sulla
destinazione e quantitativa sulla edificabilità (Fiale, Fiale 2006), in quanto si assegna all’amministrazione
una funzione di garanzia e di controllo sulla trasformazione del territorio e sul controllo degli insediamenti.
Il processo di riforma della legislazione urbanistica nazionale
Le prospettive di riforma in campo urbanistico vanno inquadrate in relazione a tre aspetti principali: il
primo relativo all’applicazione delle norme costituzionali, il secondo connesso ad una serie di innovazioni
introdotte nella normativa nazionale e il terzo in riferimento alle diverse proposte di riforma urbanistica.
143
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
Il sistema della pianificazione urbanistica è in uno stato di continua evoluzione procedurale e strumentale e
nel novero delle innovazioni normative rientra in pieno la riforma del Titolo V della Costituzione. Ai sensi
dell’articolo 114 della Costituzione Italiana, così come riformulato dalla Legge Costituzionale n. 3 del 18
ottobre 2001, «la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con
propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (…)». In questa formulazione è
possibile riscontrare una attenzione particolare alle autonomie locali, con un rovesciamento di ottica
rispetto alla rilevanza precedentemente attribuita prima allo Stato e poi alle Regioni. In questo
rovesciamento di ottica viene accentuato il ruolo attribuito ai Comuni, al primo posto nell’elenco dei
soggetti istituzionali che costituiscono l’organizzazione dello Stato.
Il successivo articolo 117 definisce le materie nelle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva e quelle
che rientrano nella legislazione concorrente, tra le quali rientra il “governo del territorio”.
Con l’espressione “materie a legislazione concorrente” si indicano quelle materie nelle quali la legislazione
è demandata alle Regioni sulla base di principi fondamentali fissati dallo Stato.
Sempre in relazione al nuovo ruolo attribuito ai Comuni, l’articolo 118 introduce i concetti di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza quando afferma che «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni
salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e
Stato (…)» sulla base dei principi citati in precedenza.
Per quanto concerne il secondo aspetto, l’evoluzione dei principi e delle pratiche in campo urbanistico è
strettamente connessa con l’evoluzione delle norme o delle proposte di nuove norme in materie
direttamente collegate. A questo proposito è da considerare positivamente il processo di semplificazione e
razionalizzazione del sistema normativo nazionale che ha condotto alla emanazione di testi unici quali:

il testo unico sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 con le successive
modificazioni);

il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità (D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 con le successive modificazioni);

il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n.
380 con le successive modificazioni);

il testo unico in materia ambientale (D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 con le successive modificazioni);

il codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 con le successive
modificazioni).
Ciascuna di queste norme ha l’obiettivo di unificare la legislazione nei settori di riferimento accorpando
norme sparse; in molti casi le indicazioni normative in esse contenute incidono su aspetti urbanistici anche
rilevanti.
Per quanto riguarda il processo ormai decennale che avrebbe dovuto portare alla nuova legge urbanistica
nazionale, il ragionamento da fare necessita di un più ampio approfondimento.
L’analisi dei contenuti delle proposte di riforma susseguitesi nel tempo, rappresenta un utile esercizio per
comprendere l’evoluzione del pensiero in campo urbanistico, evoluzione che può essere sintetizzata in un
percorso che va dalle ipotesi riformiste degli anni Sessanta, alle ipotesi neoliberiste degli anni Ottanta, alla
forte incidenza degli aspetti ambientali odierni. L’analisi delle diverse proposte è utile anche per
estrapolare quelle innovazioni che non sono mai divenute realtà all’interno di schemi di riforma complessivi
ma che si sono riversate molto parzialmente in altre norme.
Con lo Stato in una fase di evoluzione regionalista ci si ritrova in una situazione in cui le risposte alle nuove
esigenze di governo del territorio vengono ad essere contenute sia nella normativa nazionale che in quella
regionale: dal punto di vista costituzionale, questo processo di regionalizzazione delle politiche territoriali è
perfettamente lecito in quanto compito dello Stato è definire i principi e le linee guida della pianificazione
territoriale, la cui effettiva applicazione spetta alle regioni.
In alcuni testi degli anni Novanta (INU 1995; INU 1998; Barbieri, Oliva 1995) si sottolineava la necessità di
un sistema normativo basato su una legge urbanistica quale norma di indirizzo per la successiva attività
regolativa delle Regioni e non più quale norma di contenuto diretto.
Alla luce delle recenti modifiche alla Costituzione, quindi, la nuova legge urbanistica nazionale non potrà
che essere una legge di indirizzo, ossia una norma che, nel demandare alle Regioni il compito di emanare
leggi urbanistiche autonome, delinea elementi che orientino ed indichino le direzioni in merito a tutta una
serie di temi fondamentali per la crescita razionale del sistema territoriale nazionale (Carabba 2002).
Questa considerazione elementare discende dalla necessità di dover dotare lo Stato di una traccia comune
che permetta alle Regioni di legiferare in modo da rendere effettivo il principio di eguaglianza di tutti i
cittadini, principio attualmente messo in dubbio dalla diversità delle leggi urbanistiche regionali, dai loro
diversi gradi di efficacia, dalle diverse forme di innovazione normativa di cui sono portatrici. «Pur
ammettendo il presupposto che il differente regime di governo del territorio risponde anche (e soprattutto)
144
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
a peculiarità locali, le profonde disparità tra sistemi di pianificazione regionali appare tema che andrebbe
affrontato soprattutto per ridurre i gradi di difformità che si stanno producendo non solo a livello di
strumentazione operativa, ma anche su materie “delicate” che ancora non vengono trattate con attenzione
a livello nazionale» (Indovina, Savino 2003, 169).
Un campo che occorre ancora definire con attenzione è quello del “governo del territorio” e della sua
differenza con l’urbanistica. Secondo uno schema concettuale riconosciuto in diritto l’”urbanistica” si
interessa sostanzialmente di disciplinare l’assetto e lo sviluppo dei centri urbani, mentre il “governo del
territorio” si occupa della gestione di una serie molto più ampia di interessi quali lo sviluppo delle grandi
infrastrutture, le politiche di sviluppo economico, le politiche agricole, quelle ambientali, ecc. (Cerulli Irelli
2003). All’interno del progetto di legge di riforma del 2014 il “governo del territorio” consiste nella
conformazione, nel controllo e nella gestione del territorio, quale bene comune di carattere unitario e
indivisibile e comprende l’urbanistica e l’edilizia, i programmi infrastrutturali e di grandi attrezzature di
servizio alla popolazione e alle attività produttive, la difesa, il risanamento e la conservazione del suolo.
Inoltre, le politiche connesse al “governo del territorio” garantiscono la graduazione degli interessi in base
ai quali possono essere regolati gli assetti ottimali del territorio e gli usi ammissibili degli immobili – suoli e
fabbricati – in relazione agli obiettivi di sviluppo e di conservazione e ne assicurano la più ampia fruibilità
da parte dei cittadini.
Il governo del territorio diviene quindi una funzione che postula un trattamento unitario di tutti gli ambiti
di azione agenti nel territorio e di tutte le attività che guidano le trasformazioni territoriali. In questa
struttura la pianificazione è lo strumento utilizzato per la conoscenza, la decisione e l’intervento.
In questa differenziazione l’urbanistica è funzione demandata alla legislazione concorrente e deve
rispettare le funzioni ed i principi fondamentali stabiliti dallo Stato, in quanto parte del governo del
territorio. Tale legislazione concorrente dovrà anche occuparsi della messa in coerenza delle diverse norme
al fine di sviluppare la convergenza dei territori e la loro qualità.
In ordine di tempo l’ultima proposta di riforma della normativa urbanistica, anche essa non andata a buon
fine, è contenuta nel testo del 2014 dal titolo “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e
trasformazione urbana”.
Obiettivi della legge erano: stabilire i principi fondamentali in materia di “governo del territorio”, in
attuazione dell’articolo 117, comma 3 della Costituzione; attuare gli articoli 117 e 119 della Costituzione in
modo da definire idonee misure fiscali che assicurino l’effettività delle politiche territoriali; definire e
coordinare le politiche territoriali che incidono sull’assetto del territorio nazionale e sulla conformazione
della proprietà; determinare nell’ambito delle politiche pubbliche territoriali le dotazioni territoriali
essenziali del territorio e dei centri urbani.
Dalla gerarchia alla copianificazione
La Legge 1150 introduce nella normativa nazionale tre livelli di pianificazione. Il primo livello è quello
territoriale, connesso ad ampie porzioni del territorio nazionale non precisamente definite, il secondo è
quello relativo alla pianificazione comunale, che si attua all’interno del territorio di un singolo Comune, il
terzo è relativo alla pianificazione di ambito che specifica ed attua le previsioni della pianificazione
comunale.
La previsione di questa sequenza rigida di piani rappresenta il modello definito di “pianificazione a
cascata”. Il sistema di relazioni tra i piani appartenenti ai tre livelli viene costruito sulla base di un rigido
vincolo gerarchico tra di essi e corrisponde ad una chiara gerarchia di interessi, nel senso che l’interesse
connesso alla dimensione più ampia prevale su quello connesso alla dimensione più locale.
Ciò vale sia per la pianificazione territoriale rispetto a quella comunale che per la comunale rispetto a
quella attuativa.
La pianificazione a cascata presuppone, quindi, la piena rispondenza delle previsioni dei piani di livello
inferiore alle indicazioni dei piani di livello superiore. Presuppone anche che i piani di livello inferiore
trovino in quelli di livello superiore tutte le premesse giuridiche e procedurali per poter agire, oltre che una
coerente previsione delle indicazioni e dei tempi. È proprio quest’ultimo aspetto che è venuto a mancare.
La scarsa flessibilità degli strumenti di piano, oltre alla lentezza nel processo di fomazione, non si è
adattata alla velocità di mutamento dei sistemi urbani e al conseguente rapido invecchiamento dei piani
approvati.
Una prima rottura della rigida relazione tra livelli di pianificazione (e relativi strumenti) si ebbe con
l’introduzione dei Piani di Edilizia Economica e Popolare (Legge 167/1962) che, data la loro obbligatorietà
per alcune categorie di comuni, potevano costituire una variante al PRG quando le previsioni di questi
ultimi non consentivano la realizzazione dell’intervento di edilizia sociale. La successiva Legge 47/1985
avrebbe generalizzato tale possibilità assegnando alle leggi regionali il compito di introdurre procedure
semplificate di approvazione dei piani attuativi in variante agli strumenti regolatori comunali.
145
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
La Legge 167 certifica un fenomeno vastissimo e lo istituzionalizza per la prima volta nelle procedure
urbanistiche italiane, laddove le previsioni dei piani regolatori vengono modificate in relazione a
sopravvenute necessità ricorrendo alla variante al piano. Il ricorso alla riformulazione parziale del piano dà
luogo ad una vera e propria urbanistica parallela che non tiene in alcun conto del sistema urbano nel suo
complesso per concentrarsi su singoli cambiamenti di stato in parti limitate della città. Inoltre, la lentezza
esasperante delle procedure di formazione del piano hanno ulteriormente favorito questa pratica.
Accordo di programma
La necessità di rendere più veloce e più trasparente la modifica di alcune previsioni di piano ha avuto una
successiva evoluzione con l’introduzione dell’accordo di programma, che rappresenta una convenzione tra
enti territoriali, ossia regione, provincia e comune, e altri soggetti pubblici e privati, per la determinazione
coordinata di attività concernenti la realizzazione di opere o programmi di intervento. Lo strumento viene
introdotto dall’art. 27 della L. 142/1990, anche se esso è presente in alcune normative settoriali degli anni
’80. Attualmente esso è disciplinato dall’art. 34 del D.Lgs. 267/2000 “Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali”. Anche la legislazione regionale ha legiferato su questo istituto.
Secondo il testo di legge è possibile ricorrere all’accordo di programma quando è necessaria «la definizione
e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa
realizzazione, l’azione integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni statali e di
altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti predetti».
L’accordo consiste nel consenso unanime del presidente della regione, del presidente della provincia, dei
sindaci e delle altre amministrazioni interessate ed è approvato con atto formale del soggetto che ha
indetto l’accordo stesso. L’interesse specifico del settore urbanistico consiste nella previsione che l’accordo,
«qualora adottato con decreto del presidente della regione, produce gli effetti della intesa di cui all’art. 81
del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, determinando le eventuali e conseguenti variazioni degli strumenti
urbanistici e sostituendo le concessioni edilizie, sempre che vi sia l’assenso del comune interessato». In
questo caso l’adesione del sindaco deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena
di decadenza dell’accordo stesso.
Nella Regione Campania l’accordo di programma è regolato dall’articolo 12 della legge 16/2004. Secondo il
comma 1 «per la definizione e l’esecuzione di opere pubbliche o di interesse pubblico, anche di iniziativa
privata, di interventi o di programmi di intervento, nonché per l’attuazione dei piani urbanistici comunali –
Puc – e degli atti di programmazione degli interventi, se è necessaria un’azione integrata tra Regione,
provincia, comune, amministrazioni dello Stato e altri enti pubblici, si procede alla stipula dell’accordo di
programma …».
Ulteriori indicazioni in merito sono riportate nell’articolo 5 del Regolamento n. 5 del 4 agosto 2011 delle
Regione Campania “Regolamento di attuazione per il governo del territorio”.
Copianificazione
Con il termine copianificazione si indica la possibilità di costruire le previsioni di uno strumento urbanistico
(a qualunque scala) sulla base di atti che non siano né autoritativi, né gerarchici, bensì su processi di
condivisione delle decisioni dei diversi livelli territoriali coinvolti nella stessa scelta.
La legge regionale dell’Emilia-Romagna n. 20 del 2000 “Disciplina generale sulla tutela e l’uso del
territorio” è stata una delle prime ad incidere fortemente sugli aspetti connessi alla formazione ed
all’approvazione degli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica ai diversi livelli. La legge
introduce lo strumento delle Conferenze di pianificazione, con lo scopo di costruire un quadro conoscitivo
condiviso del territorio e dei conseguenti limiti e condizioni per il suo sviluppo sostenibile, nonché con
l’obiettivo di esprimere valutazioni preliminari in merito agli scopi e alle scelte di pianificazione prospettate
dal documento preliminare. All’interno di questo documento vanno inseriti gli obiettivi generali che si
intendono perseguire con il piano e con le scelte strategiche di assetto del territorio, in relazione alle
previsioni degli strumenti di pianificazione di livello sovraordinato. In esso, inoltre, vanno definiti i limiti di
massima e le condizioni per lo sviluppo sostenibile del territorio. In questo modo si sperimentano processi
innovativi di pianificazione e forti interazioni sotto il profilo istituzionale, in quanto il sistema decisionale è
incentrato sulla concertazione e sulla condivisione delle strategie e sulla motivazione di scelte che sono
operate sotto forma di valutazioni che devono essere esplicite e trasparenti.
I processi di interazione che vanno sotto il nome di copianificazione rispondono ad un altro processo in
atto, ossia alla evoluzione nelle relazioni interistituzionali che viene definito con il termine di sussidiarietà.
Tale principio si basa sulla convinzione che le esigenze e le necessità dei cittadini possono essere meglio
conosciute e gestite dalle amministrazioni che sono più prossime ad essi. Questo vuol dire che nella
146
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
distribuzione dei poteri tra le amministrazioni appartenenti a diversi livelli territoriali si parte dal basso e
non dall’alto come normalmente succede con una organizzazione di tipo gerarchica.
Da un punto di vista dell’organizzazione amministrativa dello Stato l’ente locale ha a capo tutte le funzioni
amministrative che è capace di svolgere in relazione alla sua dimensione e alla sua organizzazione.
Quando esse non consentono l’esercizio di una funzione subentra l’ente gerarchicamente superiore con un
processo che arriva fino allo Stato centrale. Nel concetto di sussidiarietà, quindi, è insita la valutazione
delle capacità dell’ente a svolgere le funzioni e della opportunità che esso non estenda eccessivamente le
proprie competenze, pena la nascita di conflitti di attribuzione che l’attuale normativa non è ancora riuscita
a dipanare.
11.2.
Strumenti generali e settoriali di pianificazione
Il sistema della pianificazione si realizza per mezzo di piani urbanistici e territoriali. Questi strumenti
vengono catalogati, indipendentemente dalla estensione dello spazio pianificato, in due categorie: piani
generali e piani settoriali.
Sono piani generali quegli strumenti mediante i quali un ente territoriale (Comune, Provincia, Città
Metropolitana, Regione) avente giurisdizione su un determinato territorio detta la disciplina di tutela e di
uso dello stesso per l’intero ambito di propria competenza e per l’insieme dei settori che incidono sui
mutamenti territoriali.
Sono piani settoriali quegli strumenti mediante i quali un ente territoriale avente giurisdizione su un
determinato territorio e/o un soggetto pubblico preposto alla tutela di uno specifico interesse, definiscono
la disciplina di tutela e di uso dello spazio solo per uno specifico settore inerente le proprie funzioni.
È evidente, quindi, che le differenze esistenti tra le due tipologie di piano sono rilevanti e fanno capo
principalmente a tre caratteristiche sostanziali:

il soggetto titolare della pianificazione;

il contenuto dello strumento;
–
il sistema di relazioni che intercorrono tra piano generale e settoriale.
Per quanto concerne il soggetto titolare, i piani generali afferiscono tutti a soggetti che derivano la propria
titolarità dalla sovranità popolare, ossia da elezioni democratiche.
La situazione è diversa per quanto concerne i piani settoriali, alcuni dei quali fanno capo a soggetti non
direttamente eletti dai cittadini; è il caso delle autorità che gestiscono i parchi regionali e nazionali o degli
enti preposti ai bacini idrografici. Per quanto concerne i piani a capo di questi enti è necessario
sottolineare un ulteriore aspetto, ossia che la perimetrazione degli ambiti interessati da detti piani può non
coincidere con delimitazioni amministrative ufficiali, basandosi altresì su determinate caratteristiche
morfologiche, geografiche e paesaggistiche del territorio.
Il contenuto di un piano assume un rilievo specifico in relazione al tipo di strumento. In un piano generale
sono analizzati e posti in essere sistemi di azioni coerenti che interessano più settori; gioco forza tali
strumenti presentano un minor livello di approfondimento rispetto agli strumenti di livello settoriale,
impegnati a lavorare su un ambito ristretto e quindi capaci di pervenire ad un livello di approfondimento
maggiore. D’altra parte il piano generale rappresenta lo strumento di sintesi all’interno del quale il quadro
complessivo si precisa ed in cui gli elementi di azione si coordinano tra di loro.
Per quanto concerne gli spetti connessi al sistema di relazioni esistente tra piani è da sottolineare che, in
linea di principio, spetta ai piani generali di livello territoriale coordinare e portare a sistema l’insieme delle
previsioni che dovranno essere messe in atto dalla pianificazione sotto-ordinata (pianificazione comunale e
di ambito). Spetta ai piani generali, inoltre, definire gli obiettivi e le funzioni della pianificazione settoriale.
Ne deriva un rapporto subordinato tra piano generale e piano settoriale con prevalenza del primo sul
secondo.
In alcuni casi, però, non è così. È il caso dei piani settoriali di protezione ambientale (Piano Paesaggistico,
Piano di Bacino, Piano di Parco) per i quali sussiste una inversione delle relazioni di prevalenza, con i piani
settoriali a dettare norme che i piani generali dovranno recepire.
Uno degli elementi più interessanti introdotto negli anni Ottanta è stata la possibilità di pervenire alla
redazione di piani coordinati che, all’interno di un unico contenitore, potessero avere significati e valenze
diverse.
Il Decreto Legislativo 112 del 1989, all’articolo 57, ha introdotto una norma relativa al coordinamento tra
la pianificazione territoriale provinciale e le pianificazioni di settore; in questo articolo si sostiene che le
Regioni, mediante specifiche leggi, prevedano che il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale possa
assumere «il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela
dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la
147
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni,
anche statali, competenti».
Nel caso in cui venga a mancare l’intesa i piani di tutela di settore conservano il valore e gli effetti ad essi
assegnati dalla rispettiva normativa nazionale e regionale. Resta comunque fermo quanto disposto dall’art.
149, comma 6, ossia che sono riservate allo Stato le funzioni e i compiti statali in materia di beni
ambientali di cui all’articolo 82 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, come modificato dalla Legge 8 agosto
1985, n. 431.
Una corretta ed estesa applicazione della norma a livello regionale renderebbe possibile un maggiore
coordinamento tra strumenti di piano generali e settoriali che agiscono sullo stesso territorio; al limite
potrebbe portare alla formazione di un solo piano provinciale, contenente sia indicazioni generali che
settoriali.
La possibilità di coordinamento tra i piani sussiste anche nella normativa sulla pianificazione paesaggistica.
Il D.Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) ha riformato lo strumento del Piano
Paesaggistico, dando ad esso una forte connotazione territoriale. Il livello territoriale cui il piano viene
redatto è quello regionale e lo strumento assume valenza particolare in quanto sussiste la possibilità,
mediante una intesa, di redigere lo strumento in collaborazione con il Ministero dei beni culturali e con il
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio.
L’articolo 145 introduce la possibilità di coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti
di pianificazione; il comma 2 prevede, infatti, che «i piani paesaggistici possono prevedere misure di
coordinamento con gli strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché con i piani, programmi e
progetti nazionali e regionali di sviluppo economico».
Resta la rilevanza della pianificazione ambientale di settore; il comma 3, infatti, recita che «le previsioni
dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e
progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni,
delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi
eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in
attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per
quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti
sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di
settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette».
11.3.
Le legislazioni urbanistiche regionali: una lettura diacronica
La Costituzione della Repubblica Italiana, emanata nel 1946, riconosceva alle regioni la competenza
amministrativa e legislativa in materia urbanistica nell’ambito dei principi della legislazione nazionale di
settore. Gli articoli 117 e 118, infatti, stabilivano un rapporto tra Stato e Regioni incentrato sulla
emanazione di principi fondamentali da parte del primo e sulla conseguente possibilità di legiferare da
parte del secondo.
L’attuazione di tale norma costituzionale ha richiesto molti anni, sia perché l’istituto regionale non era
formalizzato, sia per la forte inerzia centralista dell’apparato statale. Questo nonostante la parte più
avanzata della cultura urbanistica spingesse per un effettivo passaggio di competenze ritenendo che la
costituzione delle regioni avrebbe reso più rapida ed efficace lo svolgimento del processo di pianificazione
(soprattutto territoriale) e la sua connessione con la programmazione economica.
Il processo di formazione degli organismi regionali inizia negli anni Cinquanta con la creazione di cinque
regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige), alle
quali viene data precedenza per motivi di ordine politico, per l’esistenza di specifici accordi internazionali e
per le peculiarità dei territori. Per la formazione delle regioni a statuto ordinario bisogna aspettare il 1970,
anno in cui vengono tenute le prime elezioni per i consigli regionali, mentre l’effettivo passaggio di poteri
avviene a partire dal 1972, sulla base di una serie di decreti presidenziali. Tra le norme che hanno reso
possibile l’adeguamento dei rapporti tra Stato e regioni si segnala la Legge n. 281 del 16 maggio 1970 che
stabilì, tra le altre cose, la possibilità da parte delle regioni di legiferare dopo l’emanazione di un decreto
legislativo che indicasse le materie trasferite. Tale decreto venne emanato nel 1972 (D.P.R. n. 8 del 15
gennaio).
Per quanto concerne l’urbanistica questo decreto trasferiva alle regioni le funzioni amministrative nel
settore e in particolare l’approvazione degli strumenti urbanistici generali e settoriali di qualunque livello e
dei piani per l’edilizia economica e popolare, oltre al controllo e alla vigilanza sull’attività edilizia ed
urbanistica degli enti locali. Alle regioni a statuto ordinario era trasferita anche la redazione e
l’approvazione dei piani territoriali paesistici. Agli organi centrali dello Stato veniva riservata una funzione
di coordinamento ed indirizzo delle attività amministrative, oltre che le competenze in una serie di settori
di rilevanza nazionale.
148
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
Il trasferimento delle competenze si completa nel 1977 con il D.P.R. 616. In questo testo l’urbanistica,
materia di competenza regionale, è definita come «la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti
gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione
del suolo nonché la protezione dell’ambiente». Resta allo Stato la «identificazione, nell’esercizio della
funzione di coordinamento (…), delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale, con
particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela
ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo».
Dalla nascita delle regioni alla fase matura
La legislazione regionale in materia urbanistica inizia a muovere i suoi passi intorno agli inizi degli anni
Settanta; nel 1975 Umbria e Lombardia emanarono le prime leggi regionali in materia, nel 1977 è la volta
del Piemonte e, di seguito, delle altre regioni. Le prime normative si caratterizzano, in genere, come leggi
che trasferiscono a livello regionale le disposizioni nazionali, specificandone il contenuto soprattutto sotto il
profilo delle procedure amministrative. Pur in mancanza di grandi innovazioni, la produzione legislativa
degli anni Settanta ed Ottanta inizia a diversificare strumenti e procedure sulla base delle condizioni locali
e delle diversità presenti tra regione e regione in termini di sistemi insediativi, di struttura della
popolazione, di interazione tra città e territorio. In questa prima fase sono riscontrabili tre momenti
evolutivi nella produzione normativa.
In un primo momento vengono emanate norme di tipo organizzativo che vanno dalla formazione degli
istituti regionali al 1973, anno in cui la macchina regionale sembra pienamente strutturata nella
distribuzione delle competenze, nella organizzazione e nelle modalità attuative della legge urbanistica
nazionale, oltre che nella definizione dei compiti attribuiti ai comuni.
In un secondo momento (fino al 1975, termine della prima legislazione) vengono emanate norme per la
pianificazione urbanistica comunale e per la salvaguardia del territorio e dei centri storici, nello specifico
leggi relative alla redazione dei piani regolatori generali, alla concessione dei contributi per la formazione
dei piani, agli standard urbanistici, al sistema delle deleghe, alla difesa dei centri storici, alla pianificazione
delle zone agricole.
Un terzo momento, che comprende tutta la seconda legislatura (1975-1980) si caratterizza per una azione
programmatica estesa all’intero territorio regionale (predisposizione di programmi di sviluppo), per la
delega di funzioni agli enti locali (mediante istituzione di organismi sub-regionali come comprensori,
comunità montane, consorzi, ecc.) e per la emanazione delle prime leggi urbanistiche generali (L.R. n.
40/1975 dell’Umbria, L.R. n. 51/1975 della Lombardia). Altre regioni (Veneto, Toscana, Calabria,
Abbruzzo) presentano proposte organiche approvate successivamente o norme urbanistiche non inserite in
leggi organiche (Lazio e Liguria).
I punti cardine delle norme regionali nella fase iniziale sono:

la programmazione economica e la pianificazione territoriale come fondamenti di base per la
costruzione di politiche di sviluppo regionale e sub-regionale, in connessione con quelle nazionali;

la pianificazione urbanistica comunale come strumento fondamentale di controllo del territorio;

la salvaguardia del territorio tramite la tutela dei beni storico-architettonici, dei centri storici e per la
difesa delle risorse naturali;

la programmazione di settore relativa a tematiche quali la casa, le infrastrutture, le opere pubbliche e
così via, come strumento di spesa a fini sociali.
A partire dagli inizi degli anni Novanta la pianificazione si arricchisce di nuovi strumenti, soprattutto di
matrice ambientale ed economica, e di una maggiore attenzione alla efficacia e alla efficienza dei processi
e delle scelte di piano. Nel linguaggio urbanistico entrano a far parte forme di cooperazione nelle scelte,
oltre che di sussidiarietà, di autonomia, di sostenibilità economica e ambientale.
A questo periodo è possibile far risalire l’inizio della seconda fase nel processo di costruzione della
normativa regionale, caratterizzata da una maggiore originalità nei caratteri e dalla ricerca di percorsi più
innovativi. Le Regioni iniziano ad ispirarsi a quanto proposto dalla ricerca di settore e alle sperimentazioni
tecniche in corso in alcune realtà territoriali, inserendo nella legislazione, in maniera sempre più decisa,
caratteri cooperativi, consensuali e strategici.
La produzione di leggi regionali e di piani a tutti i livelli è connessa ad altre innovazioni normative e
giuridiche che introducono figure quali le società ad economia mista (Legge 127/1997, art. 17), i
programmi di riqualificazione urbana, gli elementi di fiscalità immobiliare locale (l’imposta comunale sugli
immobili), la riforma del catasto, gli strumenti di programmazione negoziale e gli accordi tra pubblico e
privato (Mazza 1997).
Del 1998 è il D.Lgs. n. 112 che, all’art. 56, conferisce alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni
amministrative statali non espressamente conferite allo Stato, ai sensi della medesima normativa. Essa
149
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
conferma la competenza dello Stato nella «identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio
nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali, alla difesa del suolo e alla articolazione territoriale
delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché al sistema delle città e delle aree
metropolitane, anche ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno e delle aree depresse del paese» (art. 52).
Nella specifica attività legislativa, le Regioni fanno propri indirizzi culturali molto ampi e sperimentano forti
differenziazioni nella articolazione delle norme, anche in relazione alle caratteristiche locali, alla forza delle
amministrazioni, alla diffusione e all’accettazione culturale e politica della pianificazione e dei suoi
strumenti.
In questo periodo l’evoluzione della normativa urbanistica regionale subisce una brusca accelerazione, con
la sperimentazione a livello locale di innovazioni e prassi che, proposte a livello nazionale, non riescono a
trovare una trasposizione in una nuova legge urbanistica. Quanto detto è riferito, in particolare:

alla suddivisione degli strumenti di pianificazione in una parte contenente prescrizioni di tipo
strutturale e in una contenente prescrizioni di tipo operativo, con differenziazioni minime sulle
caratteristiche da associare a ciascuna tipologia;

alla attenzione agli aspetti ambientali che si estendono dalla compatibilità dei singoli interventi alla
compatibilità e alla sostenibilità complessiva del piano;

alla previsione di meccanismi tendenti ad incrementare l’equità complessiva del piano rispetto alla
proprietà e alla destinazione di uso pubblica o privata del territorio, mediante meccanismi
compensativi o perequativi;

alla trasposizione in campo urbanistico di meccanismi di accelerazione e snellimento del processo
decisionale, quali gli accordi, le conferenze, i processi di copianificazione e l’applicazione del principio
di sussidiarietà, allo scopo di sperimentare nuove modalità nella fase di impostazione e di decisione
sui principi e sulle previsioni di piano;

alla attenzione alla qualità delle informazioni sulle quali basare il processo di pianificazione, da
ottenere mediante la costruzione di sistemi informativi su base geografica.
I caratteri generali cui si è fatto cenno sono stati coniugati in modo diversificato dalle diverse regioni.
Alcune hanno tradotto le diverse sollecitazioni in leggi urbanistiche organiche ed innovative che
coniugavano le indicazioni contenute nella Legge n. 142/1990 – poi confluita nel D.Lgs. 267/2000, Testo
Unico sull’ordinamento degli enti locali – con le innovazioni nella forma e nel significato del piano, altre
hanno redatto leggi urbanistiche “tradizionali” recependo in maniera semplificata e tradizionale le
indicazioni della Legge n. 142 (Barbieri, Giaimo 2003).
Legge simbolo di questo periodo è la n. 5/1995 della Regione Toscana, capostipite delle successive norme
che sperimentano le innovazioni citate.
È da sottolineare il fatto che, anche se i sopracitati concetti sono generalmente accettati, la declinazione
degli stessi fatta dalle singole regioni conduce ad esiti diversificati, al punto che nelle varie normative del
periodo è possibile ritrovare almeno tre posizioni differenti, riconducibili al dibattito sulla forma e sul
significato del piano:

una posizione di innovazione spinta nelle procedure e negli strumenti in cui il ruolo centrale nel
sistema della pianificazione spetta alle indicazioni strutturali e strategiche. Esempio tipico di questo
tipo di normativa è quello toscano;

una posizione deregolativa tendente al depotenziamento degli strumenti urbanistici come, ad
esempio, quella contenuta nella normativa lombarda (Oliva 2003);

una posizione più tradizionalista, basata sulla riproposizione di procedure di pianificazione basate
sulla organizzazione spaziale e sul rispetto delle previsioni dimensionali; esempio di tale posizione è la
normativa in vigore nella Regione Lazio.
Le tre posizioni propongono concezioni urbanistiche che ancora oggi sono tema di dibattito: tendere verso
un controllo accentuato dei diversi tipi di pianificazione o tendere verso una applicazione spinta del
principio di sussidiarietà; privilegiare l’azione pubblica di guida o tendere ad espandere il campo di azione
dei soggetti privati; privilegiare una visione a cascata della pianificazione o mettere in pratica principi di
collaborazione. Si deve sottolineare che la prima delle tre posizioni rappresenta quella che ha ispirato il
maggior numero di leggi urbanistiche regionali e che è riproposta in modo più diretto nelle indicazioni
contenute nelle diverse proposte di riforma della legge urbanistica nazionale che si sono susseguite negli
ultimi vent’anni.
Se il processo di revisione delle leggi urbanistiche regionali si basa su principi di elevata condivisione, tale
attività si è venuta evolvendo senza la guida di una legge quadro nazionale per cui, accanto a principi
condivisi (che discendono da proposte abortite a livello nazionale), si ritrovano sistemi scoordinati di figure
giuridiche e soluzioni tecniche. Le opinioni a riguardo sono diverse, in quanto a chi sostiene che la
mancanza di una legge nazionale abbia favorito la creatività e la originalità delle soluzioni, si contrappone
l’opinione di chi sostiene che essa abbia favorito il disgregarsi di una linea univoca nel governo del
150
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
territorio, quasi che le differenze esistenti tra le diverse regioni italiane fossero talmente accentuate da
consigliare queste pratiche.
È evidente però che l’idea di governo del territorio insita nelle scelte del nuovo Titolo V della Costituzione,
che basa la responsabilità del governo del territorio con la prossimità spaziale, avrebbe potuto essere più
forte in presenza di un percorso fondato sulla necessità di una forte base comune negli strumenti e nelle
pratiche. Le diverse legislazioni regionali, invece, non potendo discendere da una normativa quadro, sono
discese dalla storia e dalla stratificazione del sapere urbanistico locale, dalla capacità amministrativa
regionale, dalla elaborazione che la disciplina ha portato avanti nel corso degli ultimi anni ed, infine, anche
dal recepimento delle soluzioni sperimentate in regioni che avevano innovato in precedenza il proprio
corpus iuris.
La normativa regionale recente e la sperimentazione in atto
La riforma del Titolo V della Costituzione, riformulato dalla Legge Costituzionale n. 3 del 18/10/2001
rappresenta la fonte normativa più importante, insieme al D.Lgs. 42/2004 (codice dei beni culturali e del
paesaggio), alla base della redazione delle leggi regionali più recenti.
Ai sensi del nuovo art. 114 della Costituzione «la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle
Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». In questa formulazione, come già detto in precedenza, si
riscontra una rinnovata attenzione alle autonomie locali.
Ai sensi del successivo articolo 117, all’interno delle materie a legislazione concorrente tra lo Stato e le
Regioni (ossia l’insieme delle materie nelle quali la legislazione è demandata alle Regioni sulla base di
principi fondamentali fissati dallo Stato) è da annoverare il “governo del territorio”, espressione introdotta
per la prima volta dalla legge urbanistica toscana nel 1995 ed entrata di diritto nella riforma costituzionale.
Per governo del territorio «si intende l’insieme delle attività finalizzate alla tutela, alla valorizzazione e alla
trasformazione del territorio. Il governo del territorio comprende quindi tutto ciò che attiene alla
regolazione dell’uso del suolo e alla localizzazione di opere, interventi o attività. Rientrano nella materia del
governo del territorio l’urbanistica e la pianificazione d’area vasta, l’edilizia privata, l’edilizia residenziale
pubblica, la programmazione, localizzazione e realizzazione delle opere e lavori pubblici, le espropriazioni
per pubblica utilità, gli interventi di riqualificazione e la disciplina dei centri storici» (Regione EmiliaRomagna 2008).
L’articolo 118 introduce i concetti di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza quando afferma che «le
funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano
conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato».
Questa nuova fase ha posto in essere una serie di questioni importanti tra cui quello del rapporto tra la
legislazione regionale e la legislazione nazionale. La materia del governo del territorio è tra le più delicate
in quanto non sono stati ancora individuati in modo compiuto i principi fondamentali che delineano la
cornice entro la quale le Regioni possono esercitare la propria potestà legislativa concorrente.
In fase di attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, la Legge n. 131 del 2003 ha ribadito che
«nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa
nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili
dalle leggi statali vigenti» (art. 1, comma 3). Inoltre la Corte Costituzionale ha sostenuto che le leggi che
contengono i principi fondamentali di una materia non possono essere di per sé fonte unica alla base della
legislazione regionale, quindi vanno integrate con le norme vigenti (sentenza n. 482 del 1995).
Pur non essendoci una definizione precisa, può essere condivisibile il concetto generale secondo il quale
una legge di principi si configura come una norma che esprime valori comuni e condivisi, oltre che scelte
che coinvolgono tutti i cittadini in relazione agli obiettivi, ai mezzi e alle garanzie; su queste scelte
successivamente le Regioni costruiscono le proprie regole differenziandole in relazione alle specificità
territoriali. Ne deriva che, in mancanza di una legge di principi, le Regioni continuano a legiferare
utilizzando altre fonti giuridiche ed altri principi più o meno condivisi.
A partire dalla completa vigenza delle modifiche costituzionali si sviluppa una terza fase del processo di
costruzione della normativa regionale che si sostanzia nella introduzione dei nuovi principi costituzionali nel
corpus legislativo locale.
Possono essere ascritte a questa categoria le leggi di più recente emanazione (a partire da quella del
Veneto, la L.R. 11/2004) che, significativamente, riportano nel loro titolo l’espressione “governo del
territorio”. Questa similitudine si ripropone anche nella elencazione dei principi alla base delle diverse
normative, tra cui spicca quello della sussidiarietà che sembra rappresentare il nuovo totem dell’urbanistica
italiana.
Altre norme appartenenti a questo ultimo periodo sono la L.R. 1/2005 della Regione Toscana, la L.R.
11/2005 della Regione Umbria, la L.R. 12/2005 della Regione Lombardia e la L.R. 16/2004 della Regione
Campania, anch’essa emanata con il titolo di “norme per il governo del territorio”.
151
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 11. Livelli e strumenti di governo delle trasformazioni nella legislazione vigente
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152
12. I PIANI PER IL GOVERNO
DELLE TRASFORMAZONI TERRITORIALI
Giuseppe Mazzeo
12.1.
Gli strumenti per la pianificazione/programmazione regionale
La pianificazione territoriale, sia quella generale che quella settoriale, ha visto crescere nel tempo la sua
importanza, oltre che il numero di soggetti che svolge pianificazione; nel contempo, sono state introdotte
una serie di innovazioni di rilievo. Il riferimento va, in particolare, alla tendenza della pianificazione
regionale a divenire pianificazione strategica, all’attenzione agli aspetti ambientali e di sostenibilità, alla
necessità di una attenta tutela e valorizzazione del paesaggio. Da ultimo, il livello metropolitano che
necessita di una pianificazione che è di area vasta.
Il testo propone una lettura temporale parallela alla lettura settoriale che sarà proposta nel seguito; con
essa si vuole ripercorrere l’evoluzione degli strumenti e delle relazioni tra i piani territoriali a partire dal
1942. Si può pensare, su questa base, di schematizzare l’evoluzione della pianificazione individuando
quattro generazioni di strumenti:

una prima generazione, fino agli anni Settanta, in cui l’attore primario è lo Stato;

una seconda generazione, dagli anni Settanta agli anni Novanta, in cui gli attori primari sono le
Regioni ed al cui interno si sviluppa l’esperienza comprensoriale;

una terza generazione, dagli anni Novanta ad oggi, in cui gli attori primari sono le Province;

una quarta generazione, contestuale alla terza, nella quale si sviluppa e si consolida l’esperienza della
pianificazione settoriale, in particolare di matrice ambientale.
A ciascuno di questi momenti competono particolari caratteristiche relativamente al sistema analitico di
base, agli obiettivi, agli strumenti attuativi, ai settori di competenza del piano.
La lettura evolutiva che si propone è rappresentativa anche di una evoluzione concettuale e strumentale in
cui a strumenti di tipo razionalistico incentrati sul sistema delle trasformazioni fisiche, relazionate a precisi
obiettivi di sviluppo, si sostituiscono strumenti in cui la componente strategica assume un rilievo superiore
legato alla complessificazione dei fenomeni (ambientali, economici, tecnologici, e così via) e alla
differenziazione delle possibili risposte.
La suddivisione in periodi delineata in precedenza mette in luce alcuni aspetti che influenzano il piano e il
suo significato. Vi è, innanzitutto, un aspetto istituzionale, rispetto al quale il percorso che vede coinvolti
prima lo Stato, poi le Regioni e, successivamente, le Province, rappresenta una precisa traiettoria in
direzione del trasferimento verso gli enti più prossimi al cittadino dei poteri di scelta nelle politiche
territoriali, altrimenti nota con il termine di sussidiarietà. Vi è poi un aspetto metodologico che ha a che
fare con gli obiettivi di piano e con gli strumenti utilizzati per la sua redazione. Vi è infine un aspetto
contenutistico da cui si evince un processo evolutivo che va dalla pianificazione fisica dei bisogni di base e
dei sistemi economico-industriali, alla pianificazione qualitativa relativa ai bisogni dell’economia
dell’informazione, alla tutela e conservazione delle aree a forte valenza ambientale, alla attenzione alla
vulnerabilità del territorio.
La pianificazione territoriale nella Legge 1150/42
La Legge 17 agosto 1942, n. 1150  con le diverse modificazioni ed integrazioni succedutesi  e la Legge 8
giugno 1990, n. 142 (modificata nel 1999 dalla Legge n. 265) rappresentano le fonti giuridiche
fondamentali per la pianificazione territoriale. Entrambe queste leggi si occupano, in punti specifici del loro
impianto, di tale livello della pianificazione indicando, in linea generale, le aree tematiche cui essa deve
occuparsi. Notevoli sono le diversità tra le due norme, dovute sostanzialmente all’evoluzione culturale della
materia urbanistica tra il 1942 e 1990: differenze di linguaggio, differenze nella filosofia di impostazione,
differenze nella utilizzabilità degli spazi fisici, differenze di priorità e di peso tra i settori da pianificare.
Secondo l’articolo 5 della Legge 1150, il Ministero dei lavori pubblici ha facoltà di redigere piani territoriali
di coordinamento determinando il perimetro dell’area compresa in ciascuno di essi. Il Ministero agisce su
parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Il piano in oggetto ha l’obiettivo di «orientare o
coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale». Tali piani hanno
lo scopo di stabilire direttive da seguire nel territorio sottoposto a pianificazione. Tali direttive interessano,
principalmente:

l’individuazione di zone da riservare a speciali destinazioni e di zone soggette a speciali vincoli e
limitazioni di legge;
153
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali

l’individuazione delle località sede di nuovi nuclei edilizi o impianti di particolare natura ed
importanza;

la determinazione delle rete relativa alle principali linee di comunicazione stradali, ferroviarie,
elettriche, navigabili esistenti e da realizzare.
Da quanto detto e dalla lettura della relazione di accompagnamento alla legge urbanistica, deriva che lo
strumento di pianificazione territoriale avrebbe dovuto essere redatto «solo nei casi in cui se ne
manifestasse la necessità: ad esempio, per e in conseguenza di grandi localizzazioni industriali o di grandi
insiemi di opere pubbliche (di bonifica, irrigazione, ecc.) e rilevanti interventi infrastrutturali, che
interessassero più Comuni, anche se non necessariamente l’intero territorio di ciascuno dei Comuni
coinvolti» (Avarello 2000, 6). È da sottolineare che, relativamente al problema della dimensione spaziale
del piano territoriale il dibattito che si sviluppò dopo il 1946 fu lungo e registrò posizioni contrapposte,
ciascuna delle quali rappresentava il risultato di una interpretazione comunque parziale.
La formulazione del piano era affidata alle strutture centrali del Ministero dei lavori pubblici e a quelle
periferiche dei Provveditorati alle opere pubbliche. Per estensione anche agenzie speciali − come, ad
esempio, la Cassa per il Mezzogiorno − potevano essere dotate di poteri pianificatori di dimensione
territoriale. Nel suo insieme la pianificazione territoriale avrebbe dovuto coprire solo in parte il territorio
nazionale, agendo come strumento di coordinamento in aree critiche relativamente alla maggiore
concentrazione demografica e ai processi di sviluppo industriale e terziario riscontrabili in essi.
A partire dal 1950 il Ministero dei lavori pubblici iniziò ad istituire comitati tecnico-scientifici che avevano la
funzione di portare avanti il lavoro di raccolta e classificazione dei dati propedeutici alla redazione dei piani
avendo come livello territoriale di riferimento quello regionale. Il risultato di tale lavoro si concretizzò in
una serie di studi e di strumenti di piano (Ministero dei lavori pubblici, 1952). «Piani regionali di spiccata
importanza sono stati quelli relativi a regioni a statuto autonomo (Sicilia e Sardegna) e ad altre regioni di
limitato sviluppo (Campania, Molise, Calabria, Umbria) ma tanto questi piani quanto quelli per le regioni
più sviluppate (Piemonte, Lombardia, Liguria) e per le altre, sono stati studiati in assenza di un piano o di
un programma nazionale e hanno pertanto risentito della tendenza di ogni regione verso una certa
autonomia» (Dodi 1978, 155). Comunque, nonostante il lavoro effettuato e gli studi prodotti, non si arrivò
alla approvazione di alcun piano territoriale.
Questi studi, però, hanno avuto grossi riflessi in campo urbanistico in quanto hanno messo in evidenza
una serie di problematiche connesse alla pianificazione territoriale. Tra quelle ancora oggi all’ordine del
giorno se ne segnalano due:

quelle connesse alla natura del piano, con le due possibili opzioni; da un lato il piano come semplice
luogo di coordinamento di azioni proposte da altri soggetti, dall’altra il piano come contenitore
strutturato di azioni localizzate, a sua volta declinato con accenti diversi in relazione alla preminenza
degli aspetti fisici o di quelli strategici;

quelle connesse alle relazioni tra pianificazione territoriale e programmazione economica statale,
regionale e, in ultimo, comunitaria.
Questi due aspetti sono ancora oggi dibattuti e, con variazioni terminologiche, sono presenti anche nelle
discussioni relative alla pianificazione provinciale. Resta il fatto che nel periodo che va dal 1950 al 1970,
periodo nel quale si pongono le basi dello sviluppo economico italiano, nessuno dei grandi progetti
nazionali (il piano delle autostrade, i nuclei industriali del Mezzogiorno, e così via), nonostante il loro
rilevante impatto territoriale, viene impostato in coerenza con la pianificazione territoriale, per il semplice
fatto che quest’ultima è inesistente, dando il via ad una prassi di tipo emergenziale che non è stata ancora
accantonata.
La pianificazione regionale tra gli anni Settanta e gli anni Novanta
La parte della Legge 1150/1942 relativa alla pianificazione territoriale è rimasta sostanzialmente
inapplicata per molti anni a causa di una serie di motivi: dalla mancata emanazione di un regolamento di
attuazione, alla mancata definizione di un criterio di perimetrazione o delle condizioni socio-economiche
che rendessero necessaria una pianificazione di livello territoriale, dal mutamento di sistema politico
avvenuto dopo i drammi del fascismo e della Seconda Guerra Mondiale, alla preferenza accordata alle
politiche territoriali portate avanti mediante progetti autonomi relativi a determinati ambiti territoriali o a
specifici ambiti settoriali, come quello della programmazione socio-economica (Cutini 1997).
La mancanza di indicazioni sul livello territoriale, a differenza di quanto successo nella pianificazione
comunale, ha di fatto reso impossibile la costruzione e la sperimentazione di modelli di piano da applicare
alle diverse realtà del territorio italiano, per cui le varie scale territoriali (regionale, provinciale,
comprensoriale) sono state via via utilizzate come campi di sperimentazione (pur in presenza di
metodologie differenti e spesso non condivise) che non sono quasi mai pervenuti a risultati definitivi.
154
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali
Una fase di grande interesse ha preso inizio in occasione della costituzione delle Regioni e del passaggio
ad esse delle funzioni in campo urbanistico. Tale passaggio ha portato con sé un rinnovato interesse per la
pianificazione territoriale di livello regionale, anche se ha favorito un aumento delle distanze tra realtà
territoriali a pianificazione consolidata e realtà territoriali a pianificazione debole, ossia tra Regioni nelle
quali gli strumenti di pianificazione territoriale sono applicati di diritto e di fatto e Regioni nelle quali ciò
non si è avverato per lungo tempo.
Ciò è avvenuto nonostante le aspettative secondo le quali «la riforma regionale del governo del territorio,
avviata nel 1972 con il primo trasferimento di poteri in materia urbanistica dallo Stato alle Regioni a
statuto ordinario, doveva essere la grande occasione per sperimentare il concetto di pianificazione e
programmazione dello sviluppo regionale. Le singole Regioni si cimentarono, nel primo periodo della loro
attività, nella riorganizzazione delle proprie competenze di governo del territorio, precisandone i contenuti
e i rapporti con gli altri livelli di amministrazione e di gestione urbanistica» (Erba, Pogliani 1993, 134).
In alcune realtà la stagione di avvio dell’esperienza regionale vede svilupparsi un nuovo livello
territoriale; in Lombardia, in Piemonte e in Emilia-Romagna il piano regionale viene articolato sulla base
di aree più piccole, di livello comprensoriale, individuate come articolazioni intermedie tra quello
regionale e quello comunale. Su questo livello e sulla sua pianificazione peserà fortemente (e ne
decreterà la fine quando la Legge 142/90 ribadirà il ruolo delle Province) l’assenza di un preciso
riconoscimento legislativo. Altre Regioni, come l’Umbria e il Friuli-Venezia Giulia, scelsero la strada del
piano territoriale a dimensione regionale, dando ad esso funzioni di quadro di riferimento per il governo
del territorio nel quale ricomprendere la tutela ambientale, le scelte infrastrutturali, la localizzazione
degli interventi di maggiore rilevanza.
La fine degli anni Settanta segna la fine delle prime esperienze di pianificazione regionale e lo
spostamento di attenzione verso esperienze di pianificazione settoriale, anche in conseguenza
dell’emanazione di una serie di leggi nazionali che andavano in questa direzione. Questa fase segna un
forte momento di conflitto tra chi riteneva necessaria la prevalenza del piano territoriale come piano
generale e chi vedeva realizzabili solo piani settoriali, anche in assenza di una visione d’insieme delle
dinamiche territoriali.
Dell’esperienza degli anni Settanta si vogliono sottolineare alcuni elementi di fondo che influenzeranno
anche i successivi processi di pianificazione. Si fa rifermento alla crescente sensibilità alle problematiche
territoriali, alla impostazione di sistemi informativi regionali, allo sviluppo della pianificazione di settore,
ancorché separata da una chiara visione complessiva di integrazione tra problematiche territoriali,
ambientali ed economiche. Resta la differenziazione che, se possibile, si aggrava, tra regioni attente agli
aspetti connessi alla pianificazione del territorio e regioni, in particolare quelle meridionali, allergiche a
tale vocazione.
Nel 1985 viene approvata la Legge n. 431/1985, detta anche Legge Galasso, a parziale compensazione
della Legge n. 47/1985 che introduceva nella normativa nazionale il primo condono edilizio. La Galasso,
oltre a vincolare d’ufficio vaste estensioni del territorio nazionale appartenenti ad una serie di ambienti
morfologicamente definiti, stabilisce che le regioni hanno il compito di redigere i piani paesistici, strumenti
già previsti dalla Legge n. 1497 del 1939, nelle aree nelle quali sono presenti beni naturali di rilevante
estensione territoriale.
L’obbligo di redigere piani paesistici è stato attuato in maniera diversificata da regione a regione, sia per
quanto concerne l’estensione territoriale (che in alcuni casi ha compreso l’intero territorio regionale), che
per le metodologie di redazione. La scelta di una dimensione vasta, in particolare, ha reso possibile
l’applicazione di norme ambientali restrittive anche per ambiti territoriali non compresi in aree di rilevante
interesse paesistico. Non vi è dubbio, d’altra parte, che tale arma è stata utilizzata per estendere la
superficie “non trasformabile”, visto l’obbligo per i piani comunali di recepire le indicazioni del piano
paesistico, a meno di costose ed approfondite indagini atte a dimostrare l’inconsistenza del vincolo.
La pianificazione paesistica ha comportato un’altra conseguenza notevole nel campo della pianificazione
territoriale: il prevalere delle finalità ambientali su qualunque altra finalità; la giustificazione addotta,
confermata anche da sentenze della Corte Costituzionale, si basa sull’assunto che l’ambiente è un bene
tutelato costituzionalmente che non accetta compromissioni e non giustifica attacchi e riduzioni.
I piani paesistici redatti dopo il 1985 hanno rappresentato un momento nodale nella pianificazione di area
vasta e una occasione per la costruzione metodologica di uno strumento di piano, anche se settoriale. Non
bisogna dimenticare, inoltre, che la Legge 457 riconosceva alle Regioni la facoltà di redigere un unico
piano contenente sia indicazioni di tipo urbanistico-territoriale che indicazioni di tipo paesistico. In questo
modo veniva posto in evidenza, implicitamente, la necessità di pervenire ad una riunificazione del processo
di pianificazione in un unico processo di governo del territorio.
155
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali
La pianificazione regionale dagli anni Novanta ad oggi
L’attuale situazione della pianificazione territoriale regionale vede la ricerca di una diversa forma-piano
all’interno di un sistema di regole di grande complessità. Lo strumento regionale si ritrova a dover agire tra
una pianificazione paesaggistica che ha assunto una forza rilevante e una pianificazione provinciale che ne
ha eroso una serie di campi di azione. Inoltre il piano regionale è stretto tra strumenti di pianificazione
settoriale che, come per il caso precedente, ne riducono ulteriormente la portata. Per cercare di
mantenere un ruolo significativo la più recente forma piano assunta da questo livello sembra essere quella
strategica.
Un piano strategico è uno strumento di governo del territorio indirizzato alla evoluzione e allo sviluppo di
un dato sistema territoriale. Esso può essere descritto come una struttura politica e programmatica in cui
sono descritte scelte e strategie generali che siano definite e stabili. Da ciò discendono progetti selezionati
e coordinati, realizzabili in base ad un clima altamente cooperativo (Mazza 1996; Mazza 2003). In
definitiva, esso definisce gli obiettivi e le linee di azione della pianificazione senza entrare nel merito delle
interazioni tra soggetti e nella formulazione dei dettagli progettuali e gestionali (Gibelli 2003).
I caratteri e gli elementi che compongono gli strumenti di pianificazione strategica derivano da una grande
varietà di fonti, in particolare connesse all’economia.
Se il piano tradizionale è uno strumento che si connota per il contenuto (atto amministrativo che contiene
le forme di regolazione degli interessi e di trasformazione degli spazi pubblici e privati), il piano a carattere
strategico si connota per la costruzione di una ipotesi condivisa, spesso neanche disegnata, di percorso
verso un obiettivo di futuro. Quindi esso non si occupa di regolare il sistema dei diritti e degli obblighi che
si creano sul territorio, bensì di prefigurare in modo flessibile un campo di azione in cui agiscono attori
diversi in campi diversi indirizzati verso obiettivi di sviluppo.
Gli aspetti strategici riguardano le previsioni globali di cambiamento e trasformazione di un territorio. Esse
sono più o meno realistiche, più o meno libere dall’obbligo del rispetto delle strategie precedenti e dai
vincoli del mercato, e sono indirizzate a delineare un futuro possibile e desiderato.
Caratteri fondamentali di uno strumento strategico sono connessi al processo di costruzione del piano, in
relazione, soprattutto:

agli obiettivi, ossia a dove si vuole andare;

agli strumenti operativi necessari a definire la strada da percorrere per raggiungere gli obiettivi;

al controllo e al monitoraggio delle prestazioni in relazione al perseguimento degli obiettivi.
È necessario considerare la differenza esistente tra piano strategico, come esso è applicato nelle realtà
territoriali italiane, e strumentazione territoriale a carattere strategica, in relazione soprattutto alla
dimensione e alla qualità della partecipazione necessaria alla costruzione del piano. Nel caso degli
strumenti regionali si è nel secondo caso e la partecipazione è delegata a conferenze di pianificazione e a
consultazione di enti territoriali quali province, comuni ed altri soggetti.
Il Piano Territoriale Regionale della Campania, approvato dal Consiglio Regionale il 16 settembre 2008, è
un tipico strumento di pianificazione territoriale di quest’ultimo tipo: nell’introduzione, infatti, è
esplicitamente definito il carattere “processuale e strategico” del piano, tendente alla costruzione di
“immagini di cambiamento” e, quindi, scarsamente incidente sul lato delle previsioni.
È evidente che tale assunto guida il piano verso una precisa direzione, identificabile nella costruzione di un
canovaccio sul quale impostare successivamente politiche localizzate da attuare mediante gli strumenti più
diversi, da quelli classici della pianificazione a quelli più innovativi della concertazione e della negoziazione.
Ne discende che le modalità di tipo strategico sono fondate su processi di copianificazione che si
sostituiscono alle classiche logiche di tipo prescrittivo per insistere sulla definizione di scenari di intervento
basati sull’azione coordinata della Regione e degli altri soggetti presenti sul territorio.
Queste azioni si basano sull’analisi della realtà regionale, sul suo inserimento all’interno del gruppo delle
regioni europee in ritardo di sviluppo e sulla rilevanza che la realizzazione delle misure definite all’interno
del Programma Operativo Regionale Campania assume per lo sviluppo regionale. All’interno di questo
quadro assumono grande rilievo le procedure negoziali da mettere in campo per l’effettivo passaggio alla
fase attuativa e per consentire la realizzazione di un processo di sviluppo dal basso.
La forma del PTR Campania è simile a quella che stanno sperimentando negli ultimi tempi la maggior parte
delle Regioni italiane, ossia un piano regionale con natura di indirizzo, di inquadramento strategico,
strumento attento alla compatibilità nell’uso delle risorse, con pochi vincoli e prescrizioni, con gli aspetti
attuativi assegnati agli strumenti settoriali regionali e, in parte, alla pianificazione di livello provinciale, che
assume natura più prescrittiva e vincolistica, con particolare attenzione alla tutela ambientale e
paesaggistica.
156
GIUSEPPE MAZZEO
12.2.
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali
Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale
La riforma dei livelli amministrativi che ha portato all’emanazione della Legge 142 del 19901 discende da
un dibattito molto lungo e approfondito; uno dei temi che maggiormente hanno accompagnato
l’emanazione di questa legge è stato quello della sorte del livello amministrativo provinciale, del quale
molti chiedevano la soppressione o la sostituzione con ambiti territoriali più limitati e più legati alle realtà
locali, quali, ad esempio, i comprensori o le comunità montane (Giannini 1988). La Legge 142 sceglie di
confermare il livello provinciale, scartando definitivamente le ipotesi di sostituzione con aggregazioni
territoriali diverse, e di incrementare i settori e le competenze ad esso spettanti, facendo compiere a
questo ente un salto qualitativo di grande rilevanza.
Alle Province spettano, secondo l’articolo 14, le funzioni amministrative di interesse provinciale che
riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale in una serie di settori, quali la difesa del
suolo, la tutela e valorizzazione dell’ambiente e la prevenzione dalle calamità naturali; la tutela e
valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche; la valorizzazione dei beni culturali; la viabilità e i
trasporti; la protezione della flora e della fauna, i parchi e le riserve naturali; la caccia e la pesca nelle
acque interne; l’organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, il rilevamento, la disciplina
e il controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore; i servizi sanitari, di igiene e
profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale; i compiti connessi alla istruzione
secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l’edilizia scolastica,
attribuiti dalla legislazione statale e regionale; la raccolta e l’elaborazione dati, l’assistenza tecnicoamministrativa agli enti locali.
La provincia, inoltre, «in collaborazione con i comuni e sulla base di programmi da essa proposti,
promuove e coordina attività nonché realizza opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore
economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo». Alla provincia
vengono demandati specifici compiti di programmazione e di pianificazione, in precedenza prerogativa
specifica delle regioni. In relazione ai compiti di programmazione la provincia raccoglie e coordina le
proposte avanzate dai comuni, ai fini della programmazione economica, territoriale ed ambientale della
regione, concorre alla determinazione del programma regionale di sviluppo e degli altri programmi e piani
regionali secondo le indicazioni normative dettate dalle singole leggi regionali, formula e adotta, con
riferimento alle previsioni e agli obiettivi del programma regionale di sviluppo, propri programmi pluriennali
sia di carattere generale che settoriale e promuove il coordinamento dell’attività programmatoria dei
Comuni.
Ad essa viene demandato il compito di redigere il Piano Territoriale di Coordinamento, precisando però in
maniera esplicita che tale prerogativa deve essere esercitata «ferme restando le competenze dei comuni
ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali». Il piano individua:
a) la destinazione del territorio provinciale suddividendolo in relazione alla prevalente vocazione delle
sue parti;
b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione;
c)
le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale, oltre che per il
consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;
d) le aree nelle quali la provincia ritiene opportuno istituire parchi o riserve naturali.
Il PTCP tra piano di previsione, piano di strategie e piano di tutela ambientale
Se si effettua un confronto tra quanto contenuto nella Legge n. 1150 del 1942 e nella Legge n. 142 del
1990 viene fuori in maniera chiara come la formulazione letterale e il significato complessivo del piano
territoriale mutano completamente in quanto muta il modo di intendere lo strumento di pianificazione e gli
obiettivi di fondo per il quale viene redatto.
Da un confronto tra di esse si evidenziano numerose differenze di impostazione e di linguaggio da cui si
possono derivare alcune considerazioni relative ai percorsi evolutivi del piano territoriale; in particolare si
vuole sottolineare quella che sembra una netta cesura “filosofica” esprimibile attraverso le seguenti
considerazioni:

la Legge 142 introduce il concetto di vocazione del territorio quale fattore discriminante per
l’individuazione delle diverse destinazioni cui esso può essere indirizzato. Tale caratteristica rende
1
La Legge 142 del 1990 è confluita successivamente nel testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, contenuto
nel Decreto Legislativo n. 267 del 2000. A differenza di altre parti della 142, le norme relative alla pianificazione
provinciale non hanno subito mutamenti.
157
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali
necessario uno screening di base relativo alle potenzialità dei diversi ambiti territoriali e alle
caratteristiche di trasformabilità e di incidenza della pianificazione sui territori;

la 142 dà alla pianificazione territoriale il compito di individuare le aree nelle quali istituire parchi e
riserve naturali. Tale indicazione è ribadita anche da altre disposizioni contenute nella stessa norma
ed è confermata sia dall’articolo 1bis della Legge n. 431/1985, nella quale si precisa che «con
riferimento ai beni e alle aree elencati (…) le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso e di
valorizzazione ambientale il relativo territorio mediante la redazione di piani paesistici o di piani
urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali …», che
dall’articolo 57 del Decreto legislativo n. 112/1998 nel quale si precisa che «la regione, con legge
regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale (…) assuma il valore e gli
effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle
acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle
relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali,
competenti»;

accanto alle azioni di tutela e di valorizzazione, un altro aspetto relativo alle problematiche ambientali
è da ricercarsi nell’applicazione del concetto di vulnerabilità territoriale e di sicurezza antropica. In
questa direzione va letta la disposizione che prevede all’interno del piano territoriale di
coordinamento provinciale la definizione di linee guida per la sistemazione idrica, idrogeologica e
boschiva del territorio. L’aspetto della sicurezza, di vitale importanza per il territorio, non era
assolutamente preso in considerazione nella 1150/42;

la Legge 142 riafferma le indicazioni della 1150 in relazione al compito di localizzazione delle
principali infrastrutture e delle principali linee di comunicazione, anche se il cambiamento di
linguaggio (localizzazione di massima) è congruente al passaggio da una fase decisionale
unidirezionale (dall’alto verso il basso) ad una fase di maggiore complessità nella quale diventa
fondamentale la concertazione tra i diversi soggetti, amministrativi e non, coinvolti;

scompare, infine, l’indicazione relativa alla localizzazione dei nuovi nuclei edilizi. Ciò a testimonianza
di come in un cinquantennio siano completamente mutate le risposte connesse alle problematiche
demografiche ed insediative; non si parla più di costruzione di nuove città ma di azioni sul territorio
che da una parte continuano a consumare suolo (l’espansione urbana nel territorio circostante),
dall’altra cercano di agire sugli spazi di risulta o sulle aree intercluse con azioni di recupero e di
riqualificazione del territorio già urbanizzato.
I piani territoriali di coordinamento provinciali, come definiti dalla Legge 142, sono, in definitiva, piani
territoriali influenzati da alcuni dei temi urbanistici più recenti, in particolare quelli ambientali. La loro sfida
è riuscire ad incidere su un sistema nel quale da un lato ci sono i poteri di indirizzo regionali, dall’altra i
poteri di pianificazione comunale; entrambi sono poteri solidi, restii a forme di condivisione. Ad essi si
aggiungono i poteri che nel corso degli ultimi anni sono stati distribuiti ad altri soggetti ai quali è stata
affidata la possibilità di pianificare su ambiti anche di una certa dimensione territoriale e in relazione a
specifici aspetti settoriali.
A margine di questa considerazione è la constatazione che nessuna norma ha escluso la possibilità da
parte delle Regioni di pianificare direttamente. Anche se i piani territoriali regionali «(…) risultano del tutto
cancellati, in via di principio, dalla stessa legge 142/1990 − che a supporto della programmazione
regionale prevede solo un “quadro di riferimento territoriale” (e non un vero e proprio piano territoriale) −
guarda caso proprio nella seconda metà degli anni Ottanta (…) in molte Regioni si è risvegliata una
intensa volontà di pianificazione a carattere generale. E in ogni caso restano alle Regioni molte
pianificazioni settoriali, che si sono anzi addirittura incrementate dalla metà degli anni Ottanta in poi, per
numero e per possibile incidenza − anche diretta − sul territorio e sui suoi usi» (Avarello 2000, 119).
Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale ha rappresentato, tra gli strumenti di pianificazione di
area vasta, uno dei più vivaci, anche se esso è andato riducendo la propria forza a seguito del processo di
che ha trasformato le province in enti territoriali non elettivi a suffragio universale.
In linea generale è evidente lo sforzo di “fare” pianificazione territoriale messo in atto negli anni passati
dalle amministrazioni provinciali, anche in presenza di condizioni che ne hanno ostacolato l’azione, non
ultimo gli atteggiamenti attendistici degli altri enti territoriali (Campos Venuti, Oliva 1999).
Se si osservano i risultati della pianificazione provinciale si constata un suo notevole sbilanciamento nella
direzione della tutela ambientale, quasi a configurarsi come un piano di settore sui generis (Mazzeo 2001).
Tale constatazione è derivata dal fatto che il pianificatore provinciale, sulla base della normativa vigente e
dalla necessità di dare maggiore visibilità all’ente provinciale, si è indirizzato verso l’inclusione di parti
rilevanti del territorio nella categoria dei beni a vario titolo indisponibili, ritrovandosi poi nella incapacità di
trasformare in azioni concrete una giusta necessità di tutela e di salvaguardia di spazi altrimenti soggetti a
continui depauperamenti. Questo atteggiamento è derivato anche da una linea di pensiero che considera,
158
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali
non a torto, ambiente e paesaggio «valori scarsamente negoziabili o, addirittura, non negoziabili» (Zassi
2000, 75), in risposta ad un’altra linea di pensiero più permissivista che, in nome dello sviluppo e di una
tutela “attiva” travasata anche nella più recente prassi legislativa, assume un atteggiamento nel complesso
più “elastico”2.
Per quanto concerne i modelli di piano territoriale di coordinamento, l’analisi delle esperienze maturate ha
portato a riconoscere due tipologie prevalenti. La prima incentra il piano su una rigorosa ricognizione e
descrizione delle risorse del territorio, da cui spesso discendono indicazioni vincolistiche e regolative; la
seconda incentra il piano su caratteri strategici e, quindi, su indicazioni qualitative che fanno capo
all’efficacia delle azioni di piano (Seassaro 2000).
Nel primo caso scopo del piano è disciplinare l’uso del territorio, mediare gli interessi in campo e
ottimizzare l’uso della risorsa territorio. Questo modello ha come ispiratore il piano comunale, come si è
venuto a conformare nella pratica degli ultimi anni, e può essere considerato come una estensione sui
generis di quest’ultimo. Nel secondo caso il modello di piano è inquadrabile utilizzando il termine
“strategico”. In esso sono presenti sia la funzione regolatrice che la determinazione delle traiettorie di
mutamento che l’amministrazione si prefigge di raggiungere; in esso, inoltre, il raggiungimento degli
obiettivi viene sottoposto ad azioni di valutazione delle alternative e di monitoraggio dei risultati. Questo
modello si presenta con caratteri di flessibilità, da cui discende anche una più facile aggiornabilità ed una
forte attenzione al progetto di comunicazione continua con la cittadinanza e con gli altri enti.
Una variabile forte del piano territoriale di derivazione strategica è quella che è possibile definire come
“strutturale”. Essa rappresenta probabilmente la risposta più efficace alla necessità di pianificazione a
livello intermedio in quanto non insegue il dettaglio proprio del piano di livello comunale ma tende ad
individuare le scelte che determinano l’effettiva evoluzione del territorio e che sono valide per tutti i
soggetti pubblici e privati che agiscono su di esso. In questo modello sono presenti sia le componenti
ambientali (i vincoli non indennizzabili ed atemporali) che quelle relative ai vincoli paesaggistici e ai parchi,
che le scelte strategiche relative alle infrastrutture e alle attrezzature di rilievo sovracomunale. Esso,
inoltre, adotta il metodo della copianificazione per la definizione delle scelte che interessano più soggetti,
le quali pur essendo raramente prescrittive, diventano, una volta accettate, impegnative per tutti i
partecipanti.
La pianificazione provinciale nella legislazione campana
Il Capo II della legge urbanistica regionale della Campania (L.R. 16/2004) è relativo alla pianificazione
territoriale provinciale. L’articolo 18 ne delinea le caratteristiche principali.
Secondo l’art. 18, la a pianificazione provinciale si articola nel Piano Territoriale di Coordinamento
Provinciale (PTCP) e nei piani settoriali provinciali. Obiettivi della pianificazione provinciale sono:

individuare e definire gli elementi costitutivi dell’assetto del territorio provinciale. Tra questi elementi,
particolare rilievo assumono le caratteristiche naturali, culturali, ambientali, geologiche, rurali,
antropiche e storiche;

definire i criteri generali da rispettare nella valutazione dei carichi insediativi ammissibili nel territorio,
con l’obiettivo di assicurare lo sviluppo sostenibile della provincia nel rispetto del Piano Territoriale
Regionale. La determinazione dei carichi insediativi rappresenta un momento di forte criticità nel
processo di costruzione dei piani provinciali; le possibili strade per la fissazione di questi carichi
possono essere diverse potendo variare dalla fissazione di valori di soglia quantitativi che i comuni
dovranno rispettare, alla predisposizione di criteri metodologici senza utilizzazione di parametri
quantitativi; tali criteri metodologici potrebbero essere definiti sulla base di valutazioni per ambiti
territoriali definiti a livello regionale o provinciale;

definire gli elementi necessari alla prevenzione dei rischi derivanti da calamità naturali;

dettare disposizioni per la tutela e la valorizzazione dei beni ambientali e culturali presenti sul
territorio della provincia;

indicare le caratteristiche generali delle infrastrutture, delle vie di comunicazione e delle attrezzature
di interesse intercomunale e sovracomunale;

indicare le linee generali per conservare, recuperare e riqualificare gli insediamenti esistenti e per
realizzare gli interventi previsti.
Il PTCP è composto da previsioni strutturali e da previsioni programmatiche. Le previsioni strutturali fanno
riferimento:
2
A proposito della sufficienza complessiva degli ultimi governi nei confronti del territorio, Gerundo (2005, 7) scrive che «la
prima legislatura del 2000, porta, nel governo del territorio, un immaturo ed egoistico senso comune al potere». In cui il
“senso comune” è l’opposto della cultura e della sensibilità nei confronti dell’ambiente e del paesaggio.
159
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali


alla determinazione delle strategie di programmazione della pianificazione urbanistica;
agli indirizzi e ai criteri di dimensionamento dei piani urbanistici comunali, con indicazione dei livelli di
sostenibilità delle previsioni;

alla individuazione del valore e delle potenzialità dei sistemi naturali ed antropici presenti;

alla individuazione di zone nelle quali è possibile ed opportuno istituire aree naturali protette di
interesse locale;

alla individuazione delle prospettive di sviluppo del territorio, in continuità con le previsioni a livello
regionale;

alla determinazione della rete infrastrutturale, delle opere di interesse provinciale, compresi i criteri
per la localizzazione e il dimensionamento delle stesse, in coerenza con le previsioni settoriali di
livello nazionale e regionale;

alla definizione degli indirizzi di compatibilità territoriale degli insediamenti industriali.
Le previsioni programmatiche fanno invece riferimento alla costruzione di norme relative alle modalità e ai
tempi di attuazione delle previsioni strutturali, alla stima di massima delle risorse economiche necessarie
alla realizzazione delle previsioni strutturali, alla determinazione temporale delle azioni di adeguamento
delle previsioni dei piani urbanistici comunali alla disciplina dettata dal Ptcp, adeguamento che comunque
dovrà essere completato entro 18 mesi.
Il comma 7 dell’art. 18 richiama, inoltre, sia l’articolo 143 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, che l’articolo
57 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112. Ne deriva che il PTCP ha valore e portata di Piano Paesaggistico e di
piano di tutela nei settori della protezione della natura, dell’ambiente, delle acque, della difesa del suolo e
della tutela delle bellezze naturali. Inoltre, nelle zone interessate da pianificazione di bacino (L. 18 maggio
1989, n. 183 e L.R. Campania 7 febbraio 1994, n. 8) e in quelle interessate da pianificazione relativa a
parchi naturali (L. 6 dicembre 1991, n. 394 e L.R. Campania 1 settembre 1993, n. 33), il PTCP può
assumere al suo interno anche le indicazioni e le prescrizioni proprie di questi piani settoriali. Per definire
contenuti, indicazioni e prescrizioni del PTCP nelle precedenti materie, la provincia promuove specifiche
intese con tutte le amministrazioni statali competenti e con altre autorità ed organi preposti alla tutela
degli interessi di settore3.
Da quanto detto in precedenza, il PTCP ha valore e portata di Piano Paesaggistico, ai sensi del D.Lgs. 22
gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni. Secondo quanto prescritto dalla normativa nazionale la
competenza per l’elaborazione e l’adozione del Piano Paesaggistico è assegnata alla Regione; ne discende
che sorge quanto meno il dubbio che l’aver assegnato alla pianificazione territoriale di livello provinciale
compiti spettanti a quella regionale possa rappresentare un ostacolo alla corretta applicazione sia della
norma sulla pianificazione paesaggistica che degli strumenti di pianificazione territoriale.
Il comma 9, infine, assegna al PTCP anche valore e portata di Piano Regolatore delle aree e dei consorzi
industriali, ai sensi della L.R. Campania 13 agosto 1998, n. 16. Anche in questo caso, per la definizione
delle relative disposizioni del PTCP, la Provincia promuove intese con i consorzi per le aree di sviluppo
industriale (A.S.I.) e con tutti gli altri soggetti previsti dalla legge regionale citata. Tale intesa dovrebbe
valere, una volta definita, anche per le successive fasi di aggiornamento dei piani territoriali di
coordinamento. Resta confermato quanto disposto dall’articolo 149, comma 6, del D.Lgs. 31 marzo 1998,
n. 1124.
La normativa regionale campana, pur affidando al PTCP nuovi compiti rispetto a quelli prescritti dalla
normativa nazionale, sembra indirizzata alla costruzione di un piano in larga parte ricognitivo. Lo
strumento che viene fuori dalla lettura dell’articolo 18 sembra diretto a configurare un contenitore in cui è
presente una sistematica raccolta di informazioni e di interventi, mentre la parte relativa alla elaborazione
di strategie di sviluppo assume una rilevanza secondaria, anche in considerazione del fatto che a questo
compito viene demandato principalmente il Piano Territoriale Regionale.
Interessanti indicazioni in merito alla pianificazione provinciale derivano dal regolamento di attuazione 5
del 2011 ed, in particolare dall’articolo 9, che si occupa di attuazione dell’articolo 3 della legge regionale
n.16/2004 (piano strutturale e piano programmatico).
Secondo questo articolo, tutti i piani disciplinati dalla legge regionale n. 16/2004 si compongono del piano
strutturale, a tempo indeterminato, e del piano programmatico, a termine, come previsto all’articolo 3
della legge regionale n. 16/2004.
3
4
Le problematiche di metodo e di contenuto che si porranno nel momento in cui il Ptcp vorrà assumere valore e portata
dei piani settoriali ambientali saranno rilevanti, soprattutto perché le previsioni dovranno essere condivise con altre
istituzioni. Ciò significa la necessità di intese preventive.
D.Lgs. 112/1998, art. 149, comma 6: «Restano riservate allo Stato le funzioni e i compiti statali in materia di beni
ambientali di cui all’articolo 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, come modificato dalla
legge 8 agosto 1985, n. 431».
160
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali
Il Piano strutturale del PTCP ha valenza di piano di valorizzazione paesaggistica, di piano stralcio
dell’Autorità di Bacino con le intese di cui all’articolo 8.
Il PTCP definisce, oltre agli elementi strutturali a scala provinciale, anche una serie di componenti
strutturali a scala comunale, come:
a) l’assetto idrogeologico e della difesa del suolo;
b) la perimetrazione dei centri storici;
c)
la perimetrazione indicativa delle aree di trasformabilità urbana;
d) la perimetrazione delle aree produttive (aree e nuclei ASI e aree destinate ad insediamenti produttivi)
e destinate al terziario e quelle relative alla media e grande distribuzione commerciale;
e) la individuazione delle aree a vocazione agricola e gli ambiti agricoli e forestali di interesse strategico;
f)
la ricognizione e la individuazione delle aree vincolate;
g) le infrastrutture e le attrezzature puntuali e a rete esistenti.
La parte programmatica del PTCP contiene i limiti massimi e minimi dei carichi insediativi e le azioni rivolte
a perseguire gli obiettivi di valorizzazione paesaggistica, di diminuzione dei rischi di cui al primo quadro
territoriale di riferimento del PTR, specificando le risorse e gli strumenti finanziari di supporto alle azioni.
12.3.
La pianificazione delle aree metropolitane
Il processo di revisione del sistema amministrativo italiano, in corso, trova le sue motivazioni fondamentali
nella tematica della semplificazione amministrativa. Il raggiungimento di tale obiettivo sembra essere
necessario sia per rendere più efficiente la macchina dello Stato che per ridurre il suo peso complessivo sul
sistema economico e produttivo. A questo scopo erano indirizzate norme non attuate negli anni sorsi,
come la soppressione delle Province o la trasformazione del Senato in camera non elettiva.
All’interno di questo processo rientra la costituzione delle Città metropolitane, le cui fonti normative sono
la Carta costituzionale e la Legge 7 aprile 2014, n. 56, “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle
province, sulle unioni e fusioni di comuni”.
La prima, all’articolo 114 e seguenti, individua la Città metropolitana come ente intermedio ed attribuisce
ad essa generiche potestà statutarie, regolamentari, amministrative e finanziarie. La seconda, dal comma
2 al 50, struttura il nuovo ente e attribuisce ad esso sia funzioni specifiche che funzioni trasferite dalle
province nell’ambito del processo di riordino previsto dai commi da 85 a 97, nonché ai sensi dell’articolo
117 della Costituzione.
In relazione alla Città metropolitana e, in particolare, agli aspetti connessi alla pianificazione, la Legge 56,
al comma 44, prevede due strumenti distinti.
Il Piano strategico triennale del territorio metropolitano (PST), che costituisce atto di indirizzo per l’ente
nell’esercizio delle funzioni dei Comuni e delle Unioni di comuni compresi nel territorio metropolitano,
anche in relazione all’attuazione di funzioni delegate o assegnate dalle regioni sulla base di apposite leggi
emanate nelle materie di loro competenza. Il PST ha una durata di 3 anni e può prevedere una revisione
annuale.
Il Piano territoriale generale (PTG), che si occupa nello specifico di:

strutture di comunicazione;

reti di servizi ed infrastrutture di competenza della comunità metropolitana;

vincoli ed obiettivi all’attività e all’esercizio delle funzioni dei comuni compresi nel territorio
metropolitano.
Vi sono altre funzioni fondamentali elencate dalla Legge 56, che, per loro caratteristiche intrinseche,
possono rientrare in un processo di pianificazione di dimensione metropolitana. Si fa riferimento, in
particolare, a:

mobilità e viabilità;

compatibilità e coerenza della pianificazione urbanistica comunale in ambito metropolitano;

promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale che prevedano anche il sostegno e il
supporto ad attività innovative di ordine economico e di ricerca e che siano coerenti con le vocazioni
della Città metropolitana, come delineate nel Piano strategico del territorio;

promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito
metropolitano.
Altro settore non direttamente di competenza del PTG che, per sue caratteristiche specifiche, può farne
parte, è la organizzazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici di interesse generale e di
ambito metropolitano.
In relazione alla pianificazione metropolitana la Legge regionale 16/2004 della Campania è stata arricchita
nel 2018 dell’articolo 18 bis, “Piano Territoriale Metropolitano”.
161
GIUSEPPE MAZZEO
CAPITOLO 12. I piani per il governo delle trasformazioni territoriali
Esso ribadisce che le funzioni di pianificazione generale attribuite alla Città Metropolitana di Napoli dall’art.
1, c. 44, lett. b) della Legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle
unioni e fusioni di comuni) sono assicurate dal Piano Territoriale Metropolitano, in quale ha funzione di
coordinamento e di pianificazione territoriale generale.
Inoltre, il Piano Territoriale Metropolitano «è approvato con le procedure definite dallo Statuto della Città
Metropolitana nel rispetto dei principi fondamentali derivanti dalla legislazione statale, di copianificazione e
di partecipazione, nel perseguimento degli obiettivi di tutela dell’ambiente, di riduzione del consumo di
suolo e dello sviluppo sostenibile».
Bibliografia
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Campos Venuti G., Oliva F. (1999), “Relazione introduttiva”, in Provincia di Perugia, Piano Territoriale di
Coordinamento Provinciale. Atlante del sistema infrastrutturale insediativo, Perugia.
Cutini A. (1997), Normativa urbanistica e gestione del territorio. Guida alla legislazione urbanistica, DEI,
Roma.
Dodi L. (1978), Città e Territorio. Urbanistica tecnica, Masson Italia Editori, Milano.
Erba V., Pogliani L. (1993), “Il fallimento della pianificazione regionale”, in G. Campos Venuti, F. Oliva,
Cinquant’anni di urbanistica in Italia 1942-1992, Laterza, Bari.
Gerundo R. (2005), “La città infinita…mente abusiva”, areAVasta, 8/9, 6-11.
Giannini M. S. (1988), Manuale dell’amministrazione locale, Edizioni delle Autonomie, Roma.
Gibelli M.C. (2003), “Flessibilità e regole nella pianificazione strategica: buone pratiche alla prova in ambito
internazionale” in A. Spaziante e R. Pugliese (cur.), Pianificazione strategica per le città: riflessioni
dalle pratiche, FrancoAngeli, Milano.
Mazza L. (1996), “Difficoltà della pianificazione strategica”, Territorio, 2, 176-182.
Mazza L. (2003), Pianificazione a Milano. Introduzione alla tecnica urbanistica. Clup, Milano.
Mazzeo G. (2001), Note sulla pianificazione territoriale alla scala provinciale, IPIGET - Consiglio Nazionale
delle Ricerche, Giannini, Napoli.
Ministero dei Lavori Pubblici (1952), I piani regionali. Criteri di indirizzo per lo studio dei Piani Territoriali di
coordinamento in Italia, Vol. I, Roma.
Seassaro L. (cur.) (2000), “Sperimentare, apprendere, innovare. La difficile strada della pianificazione
verso il governo del territorio”, Urbanistica Dossier, 34.
Zassi M. (2000), “La retorica ambientale dei piani urbanistici”, paesaggio urbano, 5/6, 72-77.
162
13. I PIANI SETTORIALI A SCALA TERRITORIALE1
Giuseppe Mazzeo ed Enrica Papa
13.1.
I piani sovracomunali per la tutela dell’ambiente
La pianificazione territoriale è strutturata su un sistema di piani di tipo generale (strumenti di pianificazione
regionale, provinciale e di città metropolitana) e su strumenti di tipo settoriale, ossia relativi a specifici
campi di pianificazione che, per la loro complessità e/o specificità, hanno necessità di un maggior dettaglio
analitico e previsionale.
I piani a carattere settoriale approfondiscono aspetti delicati di un sistema territoriale; per tale motivo
devono, in linea di massima, discendere da indirizzi e prescrizioni che solo i piani di livello generale
possono dare. Tale logica viene a decadere quando si ha a che fare con la pianificazione settoriale
ambientale (Piani di Bacino, Piani di Parco e Piani Paesaggistici); in questo ambito, sia per specifiche
indicazioni normative che per particolari pronunciamenti della Corte Costituzionale, è sancita la prevalenza
della pianificazione di settore su quella generale.
Il Piano di Bacino e il Piano di Assetto Idrogeologico
La Legge n. 183 del 1989, relativa alle norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del
suolo, definisce come bacino idrografico il territorio «dal quale le acque pluviali o di fusione delle nevi e dei
ghiacciai, defluendo in superficie, si raccolgono in un determinato corso d’acqua direttamente o a mezzo di
affluenti, nonché il territorio che può essere allagato dalle acque del medesimo corso d’acqua, ivi compresi
i suoi rami terminali con le foci in mare ed il litorale marittimo prospiciente». Nel caso in cui un territorio
ricada in più bacini esso si intende ricadente nel bacino idrografico il cui bacino imbrifero montano ha la
superficie maggiore.
Ne discende che il bacino idrografico non ha alcuna connessione con il territorio di competenza di un ente
territoriale (regione o provincia) ma può estendersi su una superficie minore o maggiore di esso senza
alcuna considerazione dei confini amministrativi.
Nei bacini idrografici è istituita l’Autorità di Bacino, il cui obiettivo di mantenimento dell’unitarietà
ambientale ed ecosistemica dei bacini è perseguito tramite la redazione del Piano di Bacino. Questo piano
ha valore di piano territoriale di settore ed è strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo. Esso
pianifica e programma le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla
valorizzazione del suolo, oltre che alla corretta utilizzazione della acque.
Il Piano di Bacino contiene:

il quadro conoscitivo aggiornato del sistema fisico, delle utilizzazioni del territorio previste dagli
strumenti urbanistici comunali ed intercomunali, nonché dei vincoli relativi al bacino;

la individuazione e la quantificazione delle situazioni, in atto e potenziali, di degrado del sistema fisico
e delle relative cause;

le direttive alle quali devono uniformarsi la difesa del suolo, la sistemazione idrogeologica ed idraulica
e l’utilizzazione delle acque e dei suoli;

l’indicazione delle opere necessarie ad evitare i pericoli di inondazione, a prevenire l’estensione del
dissesto e a perseguire obiettivi di sviluppo sociale ed economico o di riequilibrio territoriale;

la programmazione e l’utilizzazione delle risorse idriche, agrarie, forestali ed estrattive;

l’individuazione delle prescrizioni, dei vincoli e delle opere idrauliche, idraulico-agrarie, idraulicoforestali, di forestazione, di bonifica idraulica, di stabilizzazione e consolidamento dei terreni e di ogni
altra azione o norma d’uso o vincolo finalizzati alla conservazione del suolo ed alla tutela
dell’ambiente;

le opere di protezione, consolidamento e sistemazione dei litorali marini che sottendono il bacino
idrografico;

la valutazione preventiva del rapporto costi-benefici, dell’impatto ambientale e delle risorse finanziarie
per i principali interventi previsti;
1
Questo capitolo è stato redatto da Giuseppe Mazzeo per i §§ 13.1, 13.3 e da Enrica Papa per il § 13.2.
163
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA
CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale

la normativa e gli interventi rivolti a regolare l’estrazione dei materiali litoidi dal demanio fluviale,
lacuale e marittimo e le relative fasce di rispetto, specificatamente individuate in funzione del buon
regime delle acque e della tutela dell’equilibrio geostatico e geomorfologico dei terreni e dei litorali;

l’indicazione delle zone da assoggettare a speciali vincoli e prescrizioni in rapporto alle specifiche
condizioni idrogeologiche, ai fini della conservazione del suolo, della tutela dell’ambiente e della
prevenzione contro presumibili effetti dannosi di interventi antropici;

le prescrizioni contro l’inquinamento del suolo ed il versamento nel terreno di discariche di rifiuti civili
ed industriali che comunque possano incidere sulla qualità dei corpi idrici superficiali e sotterranei;

le misure per contrastare i fenomeni di subsidenza;

il rilievo conoscitivo delle derivazioni in atto con specificazione degli scopi (energetici, idropotabili,
irrigui od altri) e delle portate;

il rilievo delle utilizzazioni diverse (pesca, navigazione od altre);

il piano delle possibili utilizzazioni future sia per le derivazioni che per altri scopi, distinte per tipologie
d’impiego e per quantità;

le priorità degli interventi ed il loro organico sviluppo nel tempo, in relazione alla gravità del dissesto.
I Piani di Bacino sono coordinati con i programmi nazionali, regionali e sub-regionali di sviluppo economico
e di uso del suolo. Le disposizioni hanno carattere immediatamente vincolante per amministrazioni locali,
enti pubblici e per i soggetti privati, ove trattasi di prescrizioni dichiarate di tale efficacia dallo stesso Piano
di Bacino. Gli enti territorialmente interessati sono comunque tenuti a rispettarne le prescrizioni nella
predisposizione dei rispettivi strumenti urbanistici.
Fig. 1 – Carta del rischio idraulico del PSAI dell'Autorità di Bacino Regionale della Campania Centrale che si estende su
una vasta area di 183 (fonte: http://www.adbcampaniacentrale2.it/)
I Piani di Bacino, secondo il D.Lgs. 398/1993, possono essere redatti ed approvati anche per sotto-bacini o
per stralci relativi a settori funzionali, rispettando comunque il disegno complessivo di piano. Un particolare
stralcio è il Piano di Assetto Idrogeologico (PAI) che ha come obiettivo la difesa del territorio, attraverso
l’individuazione delle linee generali di assetto idraulico ed idrogeologico. Il PAI, in altri termini, è finalizzato
alla tutela del territorio e delle acque, valutando la pericolosità e il rischio idrogeologico e fornendo le
possibili metodologie d'intervento finalizzate alla mitigazione del rischio.
Nel 2015 la Regione Campania ha adottato il Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrogeologico (PSAI),
quale “strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e
programmate le azioni, le norme d’uso del suolo e gli interventi riguardanti l’assetto idrogeologico del
territorio”.
Questo piano definisce, in un’ottica di sostenibilità ambientale, una strategia di assetto idrogeologico nel
quadro della prevenzione/mitigazione del rischio idrogeologico, in linea con la pianificazione e
programmazione regionale. La strategia di difesa dal rischio idrogeologico fa riferimento ad un sistema di
azioni strutturato in rapporto al periodo di formalizzazione, ossia:
164
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA



CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale
azioni da attuarsi nel breve periodo, relative all’attivazione di un efficiente sistema di Protezione
Civile, all’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali al PSAI, all’approfondimento delle
conoscenze di tutte le aree soggette a rischio;
azioni di medio e lungo periodo, consistenti per lo più nell’attuazione di Programmi di intervento
prioritari volti a mitigare il rischio frana e rischio alluvione;
azioni a regime, volte ad incidere sulla “pericolosità” e sul “rischio idrogeologico”, attraverso la tutela
del suolo e delle risorse idriche.
Nel 2006 la Legge 183/89 è confluita nel D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, «Testo Unico Ambiente». Nel 2015 la
Legge 221 ha ulteriormente aggiornato la materia contenuta nel D.Lgs. 152/2006.
Ai sensi dell’articolo 64 sono stati istituiti i “distretti idrografici” che prendono il posto dei “bacini
idrografici” accorpandoli territorialmente. Il distretto idrografico dell’Appennino meridionale, con superficie
di circa 68.200 Kmq, comprendente i precedenti bacini idrografici nazionali e regionali che interessavano il
territorio della regione Campania.
Ai sensi dell’articolo 63 le precedenti Autorità di bacino sono state soppresse e sono state sostituite dalle
Autorità di bacino distrettuale.
Uno specifico decreto ministeriale disciplinerà l’organizzazione delle nuove strutture. Al fine di garantire un
efficiente esercizio delle funzioni delle Autorità di bacino distrettuali è possibile prevederne una
articolazione territoriale a livello regionale, utilizzando le strutture delle soppresse Autorità di bacino
regionali e interregionali.
Il Piano del Parco
La legge quadro sulle aree protette (Legge 394 del 1991) detta i principi fondamentali per l’istituzione e la
gestione di aree naturali protette, al fine di garantire e promuovere la conservazione e la valorizzazione del
patrimonio naturale del paese; fanno parte del patrimonio naturale le formazioni fisiche, geologiche,
geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale e che
possono costituire aree naturali protette. La tutela di tali aree è finalizzata alla:

conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità
geologiche, di formazioni paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e
panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici;

applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra
uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici,
storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali o di altre attività tradizionali;

promozione di attività di educazione, di formazione e di ricerca scientifica, anche interdisciplinare,
nonché di attività ricreative compatibili;

difesa e ricostruzione degli equilibri idraulici e idrogeologici.
Nelle aree naturali protette sono promosse la valorizzazione e la sperimentazione di attività produttive
compatibili.
Sono aree naturali protette:

i parchi nazionali costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono uno o più
ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici, oppure una o più formazioni
fisiche, geologiche, geomorfologiche, biologiche, di rilievo internazionale o nazionale per valori
naturalistici, scientifici, estetici, culturali, educativi e ricreativi;

i parchi naturali regionali costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali ed eventualmente da tratti di mare
prospicienti la costa, di valore naturalistico e ambientale, che costituiscono, nell’ambito di una o più
regioni limitrofe, un sistema omogeneo individuato dagli assetti naturali dei luoghi, dai valori
paesaggistici ed artistici e dalle tradizioni culturali delle popolazioni locali;

le riserve naturali costituite da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono una o più
specie naturalisticamente rilevanti della flora e della fauna, ovvero presentino uno o più ecosistemi
importanti per le diversità biologiche o per la conservazione delle risorse genetiche; esse possono
essere statali o regionali, in base alla loro rilevanza;

le aree protette marine individuate ai sensi del protocollo di Ginevra relativo alle zone del
Mediterraneo che necessitano di particolare protezione.
L’inserimento dei territori all’interno dei parchi viene incentivato prevedendo priorità nella concessione di
finanziamenti statali e regionali in relazione ad una serie di opere quali:

il restauro dei centri storici e degli edifici di particolare valore storico e culturale;

il recupero dei nuclei abitati rurali;
165
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA
CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale


le opere igieniche, idropotabili e di risanamento dell’acqua, dell’aria e del suolo;
le opere di conservazione e di restauro ambientale del territorio, ivi comprese le attività agricole e
forestali;

le attività culturali nei campi di interesse del parco;

le attività agrituristiche;

le attività sportive compatibili;

le strutture per la utilizzazione di fonti energetiche a basso impatto ambientale quali il metano e altri
gas combustibili nonché interventi volti a favorire l’uso di energie rinnovabili.
La tutela dei valori naturali ed ambientali è affidata ad una struttura amministrative appositamente create,
chiamata Ente Parco, e viene programmata attraverso lo strumento del Piano per il Parco. Scopo di questo
piano è:

organizzare il territorio in aree caratterizzate da forme differenziate di uso, godimento e tutela;

determinare vincoli, destinazioni di uso e norme di attuazione relative alle diverse aree del piano;

individuare i sistemi di accessibilità veicolare e pedonale;

determinare i sistemi di attrezzature e servizi per la gestione e la funzione sociale del parco (musei,
centri di visite, uffici informativi, aree di campeggio, attività agro-turistiche e così via);

individuare gli indirizzi e i criteri per gli interventi sulla flora, sulla fauna e sull’ambiente naturale in
genere.
Il piano suddivide il territorio del parco in base al diverso grado di protezione, prevedendo quattro
tipologie di aree:
a) le riserve integrali nelle quali l’ambiente naturale, per le sue caratteristiche di unicità ecosistemica, è
conservato nella sua integrità;
b) le riserve generali orientate, nelle quali è vietato realizzare nuove opere edilizie, ampliare le
costruzioni esistenti, eseguire opere di trasformazione del territorio. In esse possono essere
consentite le utilizzazioni produttive tradizionali, la realizzazione delle infrastrutture strettamente
necessarie, nonché interventi di gestione delle risorse naturali a cura dell’Ente Parco. Sono altresì
ammesse opere di manutenzione delle opere esistenti;
c)
le aree di protezione nelle quali possono continuare, secondo gli usi tradizionali e i metodi di
agricoltura biologica, le attività agro-silvo-pastorali, di pesca e di raccolta di prodotti naturali ed è
incoraggiata la produzione artigianale di qualità. Sono ammessi gli interventi di manutenzione
ordinaria, straordinaria e di restauro e risanamento conservativo degli edifici;
d) le aree di promozione economica e sociale che fanno parte del medesimo ecosistema ma che sono
state già modificate dai processi di antropizzazione; in esse sono consentite attività compatibili con le
finalità istitutive del parco, finalizzate al miglioramento della vita socio-culturale delle collettività locali
e al miglior godimento del parco da parte dei visitatori.
Il piano ha effetto di dichiarazione di pubblico generale interesse e di urgenza e di indifferibilità per gli
interventi in esso previsti e sostituisce ad ogni livello i piani paesistici, i piani territoriali o urbanistici e ogni
altro strumento di pianificazione.
Accanto al Piano del Parco è previsto il Piano Pluriennale Economico e Sociale, il cui obiettivo è la
promozione delle attività compatibili con il territorio protetto e la individuazione dei soggetti che possono
realizzare gli interventi previsti eventualmente anche attraverso accordi di programma.
Il Piano Territoriale Paesistico
Il Piano Territoriale Paesistico viene introdotto dalla L. 1497/1939 sulla protezione delle bellezze naturali,
che si basa su una concezione essenzialmente estetica dell’oggetto paesaggistico, ed è disciplinato dal
Regolamento approvato con R.D. 1357/1940 (artt. 23, 24, 25, 26, 27).
Per l’art. 5 della L. 1497 il Piano Territoriale Paesistico riguarda le «bellezze d’insieme ovvero i complessi di
cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale nonché le
bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere,
accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze», ovvero:

aree e immobili con cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica;

ville, giardini e parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d'interesse artistico o
storico (L. 1089/1939), si distinguono per la loro non comune bellezza;

aree e immobili con cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica.

ville, giardini e parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d'interesse artistico o
storico (L. 1089/1939), si distinguono per la loro non comune bellezza;
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GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA
CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale
Per tali aree, ritenute di notevole interesse pubblico, è emanato e notificato alle proprietà interessate il
decreto ministeriale di vincolo, ai sensi dell’art. 6.
Il Piano Paesistico ha il compito di tracciare i lineamenti dell’assetto territoriale impedendo che l’evoluzione
del territorio rechi pregiudizio ai beni ambientali presenti e prevedendo anche operazioni di recupero e di
restauro ambientale; per questo motivo è vincolante per i piani regolatori comunali e deve indicare le
modalità con le quali questi ultimi adeguano i propri contenuti urbanistici.
Nel 1972 Il D.P.R. n. 8 ha stabilito che le funzioni amministrative riguardanti la redazione e l’approvazione
dei Piani Territoriali Paesistici sono trasferite alle Regioni, indicazione che è stata ribadita qualche tempo
dopo dalla Legge Galasso (Legge 431/1985).
Questa legge ha creato i presupposti per un forte rilancio della pianificazione paesistica, sottoponendo a
vincolo paesaggistico, ai sensi della Legge 1497/1939:

i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per
i terreni elevati sul mare;

i territori contermini ai laghi compresi in una fascia di 200 metri dalla linea di battigia, anche per i
territori elevati sui laghi;

i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge
sulle acque ed impianti elettrici (R.D. 1775/1939) e le relative sponde o piedi degli argini per una
fascia di 150 metri ciascuna;

le montagne per la parte eccedente 1600 metri s.l.m. per la catena alpina, e 1200 metri s.l.m. per la
catena appenninica e per le isole;

i ghiacciai e i circhi glaciali;

i parchi e le riserve nazionali e regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi;

i territori coperti da foreste e da boschi, anche se percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti
a vincolo di rimboschimento;

le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici;

le zone umide incluse nell’elenco di cui al D.P.R. 448/1976;

i vulcani;

le zone di interesse archeologico.
La legge Galasso imposta la tutela settoriale sulla base dell’azione delle Regioni e sulla successiva
eventuale avocazione allo Stato. In questo senso va considerata l’azione degli organi centrali del Ministero
dell’Ambiente che, di fronte all’inerzia di una serie di Regioni (ad esempio, la Campania), si sono sostituiti
ad esse nella costruzione dei Piani Paesistici.
In seguito all’emanazione della legge Galasso gli ambiti sottoposti a vincolo paesaggistico possono essere
ricondotti a tre categorie:

gli immobili singoli sottoposti a vincolo ai sensi della L. 1497/42;

le bellezze d’insieme di cui ai punti 3 e 4 dell’art. 1 della L. 1497/42;

i beni individuati come appartenenti alle categorie dalla L. n. 431/85.
In particolare, l’art. 1-bis della 431/85 prevede la possibilità di poter scegliere tra “Piano Paesistico” e
“Piano Territoriale che contenga una specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” anche di
ambiti non vincolati.
In definitiva, il Piano Territoriale Paesistico, nell’accezione più ampia, deve:

salvaguardare le aree di più rilevante interesse naturalistico, ambientale e storico-artistico;

assicurare la prevalenza degli interessi ambientali e paesistici rispetto ad altri interessi presenti nei
piani dello stesso livello o di livello inferiore e rispetto a qualsiasi intervento che modifichi lo stato
dell’ambiente, da chiunque formulato.
Tale piano, infine, può contenere indirizzi, direttive e norme immediatamente prescrittive.
Il Piano Paesistico assume il compito di strumento di definizione e specificazione di vincoli altrimenti
generici al fine di «ridurre l’aleatorietà e l’eventuale arbitrarietà dei criteri di valutazione di compatibilità
degli interventi: individuando più esattamente i beni da tutelare, le loro caratteristiche specifiche (quelle in
sostanza che li rendono “meritevoli” di tutela), ed anche rendendo espliciti ex ante limiti e prescrizioni da
tutelare» (Avarello 2000, 117).
Dal Piano Paesistico al Piano Paesaggistico
L’insieme di norme citate nel paragrafo precedente è confluito nel D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice
dei beni culturali e del paesaggio” al fine di ridisegnare in una logica unitaria materie inerenti il patrimonio
storico, artistico, archeologico e il paesaggio.
167
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA
CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale
Dal punto di vista del governo del territorio, l’importanza della norma risiede nella trasformazione del Piano
Territoriale Paesistico in Piano Paesaggistico e nella rilevante modifica delle sue caratteristiche e delle sue
disposizioni.
Tra gli atti e i documenti preliminari su cui il Codice fonda le sue basi, si ricorda l’accordo del 19 aprile 2001
tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano
sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio. Sulla base di questo accordo, il Ministero individua le linee
fondamentali dell’assetto del territorio nazionale in relazione alla tutela del paesaggio, con finalità di
indirizzo della pianificazione (articolo 145), mentre le Regioni assicurano l’adeguata protezione e
valorizzazione del paesaggio tramite l’approvazione di Piani Paesaggistici (o piani urbanistico-territoriali con
specifica considerazione dei valori paesaggistici) estesi a tutto il territorio regionale.
Novità rilevante del Codice è la previsione che Regioni e Ministero stipulino accordi per l’elaborazione
d’intesa dei Piani Paesaggistici o per la verifica e l’adeguamento dei Piani Paesaggistici già approvati ai
sensi dell’articolo 149 del testo unico. Le previsioni dei Piani Paesaggistici sono cogenti per gli strumenti
urbanistici di comuni, città metropolitane e province e sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni
difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, che devono essere adeguati entro due anni.
Altro documento fondante il nuovo Codice è la Convenzione Europea del Paesaggio, approvata dal
Consiglio d’Europa il 20 ottobre 2000, che pone l’accento su una serie di principi che devono guidare la
tutela paesaggistica del territorio, quali:

lo sviluppo sostenibile fondato su un rapporto equilibrato tra i bisogni sociali, l’attività economica e
l’ambiente;

le diverse funzioni del paesaggio (di interesse generale, culturale, ecologico, ambientale e sociale) e il
fatto che esso costituisca una risorsa che favorisce l’attività economica e che, se salvaguardato,
gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di lavoro;

il suo ruolo fondamentale nella formazione delle culture locali, al punto da rappresentare una
componente di base del patrimonio culturale e naturale europeo e da contribuire al benessere dei
cittadini e al consolidamento dell’identità continentale;

il paesaggio come elemento importante della qualità della vita delle popolazioni in tutti gli ambienti
antropizzati (aree urbane, campagne, territori degradati, territori di elevata qualità);

la necessità di tener conto dell’accelerata trasformazione del territorio dovuta all’evoluzione delle
tecniche di produzione agricola, forestale, industriale e mineraria e alle prassi in materia di
pianificazione territoriale, di reti di trasporto, di turismo, del tempo libero e, più in generale,
relazionati ai cambiamenti economici mondiali.
Nella Convenzione vengono definiti in maniera innovativa alcuni termini in uso nel linguaggio tecnico del
settore. In particolare, si definisce “paesaggio” una determinata parte di territorio, così come è percepita
dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.
Di conseguenza le politiche per il paesaggio sono la formulazione, da parte delle autorità pubbliche
competenti, dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti che consentano l’adozione di misure
specifiche finalizzate a salvaguardare gestire e pianificare il paesaggio.
Gli obiettivi di qualità paesaggistica sono incentrati sul soddisfacimento delle aspirazioni delle popolazioni
per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita; essi vengono perseguiti
mediante:

la salvaguardia dei paesaggi, ossia mediante le azioni di conservazione e di mantenimento dei suoi
aspetti significativi o caratteristici, azioni giustificate dal valore patrimoniale derivante dalla
configurazione naturale e/o dal tipo d’intervento umano;

la gestione dei paesaggi, in una prospettiva di sviluppo sostenibile che deve mirare a garantire il
governo degli stessi al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni (provocate dai processi
di sviluppo sociali, economici ed ambientali);

la pianificazione dei paesaggi, ossia il sistema di azioni che nel tempo sono messe in atto per
valorizzare, ripristinare o creare nuovi paesaggi.
Ai sensi dell’art. 135 la pianificazione paesaggistica viene posta in essere dallo Stato e dalle Regioni in
modo che tutto il territorio regionale sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in
relazione ai valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono.
A questo fine le Regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante «Piani
Paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici» che
hanno contenuto descrittivo, prescrittivo e propositivo.
Il Piano Paesaggistico viene elaborato «limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1,
lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143» ed ha il compito di riconoscere gli
aspetti e i caratteri peculiari del territorio, oltre alle sue caratteristiche paesaggistiche; esso deve essere
168
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA
CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale
suddiviso in ambiti, all’interno dei quali vanno predisposte specifiche normative d’uso e attribuiti adeguati
obiettivi di qualità. In ciascun ambito devono essere definite prescrizioni relative:

alla conservazione degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni paesaggistici tutelati, tenendo
conto anche delle tipologie architettoniche, delle tecniche e dei materiali costruttivi, delle esigenze di
ripristino dei valori paesaggistici;

alla riqualificazione delle aree compromesse o degradate;

alla salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche degli ambiti territoriali non sottoposti a tutela,
con l’obiettivo del minor consumo del territorio;

alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità
con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei
paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO.
Secondo l’articolo 143 il Piano Paesaggistico comprende, “almeno”:
a) la ricognizione del territorio oggetto di pianificazione, mediante l’analisi delle caratteristiche
paesaggistiche, impresse dalla natura, dalla storia e dalle loro interrelazioni, ai sensi degli articoli
1312 e 135;
b) la ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’articolo
1363, la loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea, nonché determinazione delle specifiche
prescrizioni d’uso;
c)
la ricognizione delle aree di cui all’articolo 1424, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea
alla identificazione, nonché la determinazione di prescrizioni d’uso intese ad assicurare la
conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione;
d) la eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree, di notevole interesse pubblico (art. 134);
e) la individuazione di eventuali, ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all’articolo 134, da sottoporre
a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione;
f)
l’analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio ai fini della individuazione dei fattori di rischio e
degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, anche in relazione ad altri atti di programmazione, di
pianificazione e di difesa del suolo;
g) l’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente
compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della
tutela;
h) l’individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli
interventi di trasformazione del territorio, al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile delle aree
interessate;
i)
l’individuazione dei diversi ambiti e dei relativi obiettivi di qualità, così come definiti dall’articolo 135.
Il piano può, inoltre, prevedere:
a) l’individuazione di aree soggette a tutela (articolo 142) e non interessate da specifici procedimenti o
provvedimenti; in esse la realizzazione di interventi può avvenire sulla base di un preventivo
accertamento della conformità degli interventi medesimi alle previsioni del Piano Paesaggistico e dello
strumento urbanistico comunale;
b) l’individuazione delle aree gravemente compromesse o degradate nelle quali la realizzazione degli
interventi effettivamente volti al recupero ed alla riqualificazione non richiede il rilascio
dell’autorizzazione di cui all’articolo 146.5
2
3
4
5
L’articolo 131 definisce il “paesaggio” come «il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori
naturali, umani e dalle loro interrelazioni». Il codice tutela il paesaggio per quanto concerne gli aspetti e i caratteri che
costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale ed espressione di valori culturali. «La
valorizzazione del paesaggio concorre a promuovere lo sviluppo della cultura. A tale fine le amministrazioni pubbliche
promuovono e sostengono, per quanto di rispettiva competenza, apposite attività di conoscenza, informazione e
formazione, riqualificazione e fruizione del paesaggio nonché, ove possibile, la realizzazione di nuovi valori paesaggistici
coerenti ed integrati. La valorizzazione è attuata nel rispetto delle esigenze della tutela.».
L’articolo 136 individua gli immobili e le aree di notevole interesse pubblico, ossia le aree individuate dall’art. 5 della L.
1497 il Piano Territoriale Paesistico (vd. paragrafo precedente).
L’articolo 142 elenca le aree tutelate per legge, quali aree di interesse paesaggistico, ossia, le aree sottoposte a vincolo
paesaggistico dalla Legge Galasso (vd. paragrafo precedente).
L’articolo 146 regola il procedimento di autorizzazione paesaggistica. Esso prescrive che «I proprietari, possessori o
detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell’articolo 142, o
in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157, non possono distruggerli, né introdurvi
modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. I soggetti di cui al comma 1 hanno
l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato
della prescritta documentazione, ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta
l’autorizzazione».
169
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA
CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale
Le Regioni, il Ministero per i beni e le attività culturali ed il Ministero dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare possono stipulare intese per la definizione delle modalità di elaborazione congiunta
dei Piani Paesaggistici. Resta ferma la distinzione di funzioni tra i due soggetti, per cui il MIBAC ha il
compito di individuare le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la
tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione (articolo 145), mentre le Regioni
approvano i Piani Paesaggistici.
Inoltre, l’entrata in vigore delle disposizioni precedenti non è derogabile ed è cogente per gli altri strumenti
di pianificazione territoriale ed urbanistica, generale e settoriale, in quali devono adeguare il loro
contenuto alle prescrizioni del Piano Paesaggistico (articolo 145). Il Piano Paesaggistico può individuare
anche specifiche linee-guida relative ai progetti di conservazione, recupero, riqualificazione, valorizzazione
e gestione di specifiche aree regionali, indicandone gli strumenti di attuazione, comprese le misure di
incentivazione.
Dalla data di adozione del Piano Paesaggistico non sono consentiti sugli immobili e nelle aree di cui
all’articolo 134, interventi in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel piano stesso.
13.2.
I piani sovracomunali per il governo della mobilità
I piani sovracomunali per il governo della mobilità sono gli strumenti per il governo delle trasformazioni del
sistema di trasporto a scala nazionale, regionale e provinciale. A ciascun livello amministrativo spetta una
particolare funzione cui corrispondono determinati strumenti di piano. Come le funzioni amministrative e di
pianificazione per il governo delle trasformazioni territoriali, anche le funzioni ed i compiti in materia di
trasporto pubblico locale e di pianificazione dei trasporti sono state conferite dallo Stato alle Regioni. Allo
Stato spetta soltanto definire gli indirizzi di base al fine di assicurare un indirizzo unitario alla politica dei
trasporti nonché di coordinare ed armonizzare l’esercizio delle competenze delle singole regioni. Alle
Regioni spettano le funzioni amministrative, di pianificazione e di programmazione di settore.
Pianificazione
Pianificazione
degli investimenti
dei servizi
Piani generali
dei trasporti
amministrativo
Livello
PGTL
Piani
di settore
Trasporto
stradale
individuale
Piano Generale
dei Trasporti e
della Logistica
Piani Settoriali
Nazionali
Piano Nazionale
della Sicurezza
Stradale
Regione
PRT
Piano Regionale
dei Trasporti
Piani Settoriali
Regionali
=
PGTVE
Provincia
Piano Provinciale
dei Trasporti
Piani Settoriali
Provinciali
pubblico
PNSS
Stato
PPT
Trasporto
Piano Generale del
Traffico per la
Viabilità
Extraurbana
=
Linee direttive
del trasporto
pubblico
Programmazione
triennale dei
servizi minimi
(Piano di
Bacino)
Tab. 1 - Strumenti per il governo dei sistemi di trasporto a scala sovracomunale
Per la suddivisione degli strumenti regionali e provinciali si fa riferimento
alla L.R. della Regione Campania n. 3/2002
Nella Tabella 1 seguente viene proposta una schematizzazione degli strumenti per il governo della mobilità
in base al livello amministrativo.
I principali piani a livello nazionale e regionale per il governo della mobilità sono rispettivamente il Piano
Generale dei Trasporti e della Logistica ed il Piano Regionale dei Trasporti, di cui si forniscono degli
approfondimenti nei seguenti sottoparagrafi. Gli altri piani per il governo della mobilità a scala
sovracomunale si distinguono in strumenti per la programmazione degli investimenti e strumenti per la
programmazione dei servizi, la cui redazione spetta alla Regione e alla Provincia. Mentre gli strumenti per
la pianificazione degli investimenti sono orientati alla definizione di interventi infrastrutturali (sul sistema
fisico dei canali, ad esempio costruzione di nuove strade o ferrovie), i piani per la programmazione dei
170
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA
CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale
servizi intervengono sull’offerta di trasporto in termini di servizi per la mobilità (ad esempio introduzione di
nuove linee bus).
Per quanto riguarda le competenze regionali, tra gli strumenti per la pianificazione degli investimenti, la
legge definisce oltre al PRT i piani Settoriali Regionali, relativi ad un particolare “settore” che, in conformità
alle linee strategiche contenute nei piani generali, definiscono gli interventi relativi soltanto ad una
particolare tematica (ad esempio trasporto pubblico e privato, di persone o di merci, su strada, su ferro,
via mare, aereo sul territorio regionale).
Sono invece di competenza delle Province i “Piani Provinciali dei Trasporti”, che costituiscono i principali
strumenti per la pianificazione degli investimenti nel settore dei trasporti delle Province. I Piani Provinciali
dei Trasporti sono adottati ogni cinque anni dalle singole Province, sulla base di linee guida elaborate dalla
Giunta Regionale ed in coerenza al Piano Regionale dei Trasporti. Ad integrazione dei PPT, la legge
definisce i Piani Provinciali Settoriali, relativi ad un particolare settore. Un altro piano di competenza
Provinciale è il Piano del Traffico per la Viabilità Extraurbana (P.T.V.E.), istituito dal decreto legislativo n.
285 del 30 aprile 1992 “Nuovo codice della strada”, che all’art. 36, comma 3, ne affida la predisposizione
alle Province: «Le Province provvedono all’adozione di piani del traffico per la viabilità extraurbana d’intesa
con gli altri enti proprietari delle strade interessate”. Le finalità del piano sono “ottenere il miglioramento
delle condizioni di circolazione e della sicurezza stradale, la riduzione degli inquinamenti acustico ed
atmosferico ed il risparmio energetico, in accordo con gli strumenti urbanistici vigenti e con i piani di
trasporto e nel rispetto dei valori ambientali, stabilendo le priorità e i tempi di attuazione degli interventi».
Infine la legge regionale definisce gli Studi di fattibilità, come quegli strumenti di programmazione degli
investimenti che riguardano un singolo intervento o un insieme organico e coordinato di interventi e
contengono le verifiche funzionali, tecniche, amministrative, economiche, commerciali, finanziarie ed
ambientali necessarie alla sua realizzazione. Gli Studi di fattibilità possono avere contenuti integrativi
rispetto ai Piani generali e ai Piani di settore e possono essere approvati anche in loro assenza.
Il Piano Generale dei Trasporti e le Direttive Europee sulla mobilità
Il piano nazionale che regola le strategie e gli indirizzi per il governo della mobilità è stato introdotto dalla
L. 245/1984 con il nome di “Piano Generale dei Trasporti – P.G.T.” “al fine di assicurare un indirizzo
unitario alla politica dei trasporti nonché di coordinare ed armonizzare l’esercizio delle competenze e
l’attuazione degli interventi amministrativi dello Stato, delle Regioni e delle Province autonome di Trento e
di Bolzano” (art. 1). Il primo P.G.T. è stato approvato con D.P.C.M. del 10 aprile 1986, e aggiornato con
D.P.R. del 29 agosto 1991. Per l’elaborazione del P.G.T. è costituito un Comitato interministeriale,
integrato da cinque presidenti delle Regioni designati dalla conferenza permanente dei presidenti delle
Regioni. “Il Comitato conclude i suoi lavori sulla base dei quali il Ministro dei trasporti predispone lo
schema del piano generale dei trasporti. Lo schema del piano, previo esame del CIPE, è trasmesso al
Parlamento per l’acquisizione del parere delle competenti commissioni permanenti che si pronunciano nei
termini fissati dai regolamenti parlamentari. Il piano generale dei trasporti è approvato dal Consiglio dei
Ministri ed adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri”. Il P.G.T. attualmente in vigore,
Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (PGTL), è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 marzo
2001 e adottato con D.P.R. 14 marzo 2001. Nel 2016 con l’allegato al Documento di Economia e Finanza
“Connettere l’Italia - Strategie per le infrastrutture di trasporto e logistica” è stato definito il primo passo
con cui il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti intende avviare il dibattito sugli obiettivi e sulle
strategie per le politiche infrastrutturali nazionali, che saranno oggetto del prossimo Piano Generale dei
Trasporti e della Logistica.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, fin dall’inizio, l’UE è stata incaricata di attuare una politica comune
dei trasporti, come già stabilito nel trattato di Roma del 1957. Tuttavia, soltanto nel 1985, con l’impulso
dato al completamento del mercato unico, gli Stati membri dell’UE hanno iniziato a prestare particolare
attenzione a questo aspetto. Infine, il trattato di Maastricht del 1992 ha conferito all’UE la capacità
concreta di intervenire nel settore dei trasporti, orientata in particolare all’apertura della concorrenza del
trasporto stradale e aereo. Le priorità dell’Unione europea nel settore dei trasporti sono elencate nel libro
bianco “Trasporti 2050: Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti” pubblicato dalla
Commissione europea nel 2011, e puntano a ridurre sensibilmente la dipendenza dell’Europa dalle
importazioni di petrolio, nonché a ridurre le emissioni di anidride carbonica nei trasporti del 60% entro il
2050. Gli obiettivi essenziali contenuto in questo documento sono:

esclusione delle auto ad alimentazione tradizionale nelle città;

uso pari al 40% di carburanti sostenibili a bassa emissione di anidride carbonica nel settore
aeronautico, riduzione di almeno il 40% delle emissioni del trasporto marittimo;
171
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA


CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale
trasferimento del 50% dei viaggi intercity di medio raggio di passeggeri e merci dal trasporto su
gomma a quello su rotaia e per via fluviale;
tutto questo porterà ad una riduzione del 60% delle emissioni nel settore dei trasporti entro la metà
del secolo.
Il Piano Regionale dei Trasporti
Il Piano Regionale dei Trasporti (PRT) è stato istituito dalla Legge n. 151 del 10 aprile 1981 e costituisce
lo strumento per la definizione della politica regionale sul tema dei trasporti. Secondo tale legge, «le
Regioni, nell’ambito delle loro competenze:

definiscono la politica regionale dei trasporti in armonia con gli obiettivi del piano generale nazionale
dei trasporti e delle sue articolazioni settoriali;

predispongono piani regionali dei trasporti in connessione con le previsioni di assetto territoriale e
dello sviluppo economico, anche al fine di realizzare l’integrazione e il coordinamento con i servizi
ferroviari ed evitare aspetti concorrenziali con gli stessi;

adottano programmi poliennali o annuali di intervento, sia per gli investimenti sia per l’esercizio dei
trasporti pubblici locali».
Le funzioni che spettano alle Regioni sul tema della pianificazione dei trasporti sono state definite dal
decreto legislativo n. 422 del 19 novembre 1997 “Conferimento alle Regioni ed agli enti locali di funzioni e
compiti in materia di trasporto pubblico locale.”. Tale decreto precisa infatti che le Regioni:

definiscono gli indirizzi per la pianificazione dei trasporti locali ed in particolare per i piani di bacino;

redigono i piani regionali dei trasporti e loro aggiornamenti tenendo conto della programmazione
degli enti locali ed in particolare dei piani di bacino predisposti dalle Province e, ove esistenti, dalle
città metropolitane, in connessione con le previsioni di assetto territoriale e di sviluppo economico e
con il fine di assicurare una rete di trasporto che privilegi le integrazioni tra le varie modalità
favorendo in particolar modo quelle a minore impatto sotto il profilo ambientale”.
Il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (PGTL) del 2001 ha inoltre definito le Linee guida per la
redazione e la gestione dei PRT, «al fine di promuovere un effettivo rinnovamento nelle modalità di
predisposizione dei Piani Regionali dei Trasporti (PRT), di assicurare il massimo di coordinamento con le
scelte del PGT, di consentire una chiara confrontabilità tra le proposte dei vari PRT».
Il PGTL, indicando obiettivi, vincoli, metodologie e strategie per la pianificazione dei trasporti a livello
regionale, sottolinea la necessità che i PRT «non vengano più intesi come mera sommatoria di interventi
infrastrutturali, ma si configurino come progetti di sistema con il fine di assicurare una rete di trasporto
che privilegi le integrazioni tra le varie modalità favorendo quelle a minore impatto sotto il profilo
ambientale».
Il PGTL del 2001 definisce i PRT come un “processo di pianificazione” e cioè una costruzione continua nel
tempo del disegno di riassetto dei sistemi di trasporto regionali (tutti i modi, collettivi ed individuali,
pubblici e privati) attraverso azioni che tendano a superare la tradizionale separazione fra una
programmazione tipicamente settoriale, qual è quella trasportistica, e le politiche territoriali. La
metodologia proposta, viene suggerita alle Regioni in nome della funzione di coordinamento che spetta
allo Stato in campi di primario interesse collettivo come quello della mobilità. Per garantire l’efficacia di
questa importante funzione, è necessario il contributo attivo delle Regioni nelle fasi di attuazione del PGT.
In generale gli obiettivi diretti del PRT sono:

garantire accessibilità per le persone e le merci all’intero territorio di riferimento, anche se con livelli
di servizio differenziati in relazione alla rilevanza sociale delle diverse zone;

rendere minimo il costo generalizzato della mobilità individuale e collettiva;

assicurare elevata affidabilità e bassa vulnerabilità al sistema, in particolare nelle aree a rischio;

contribuire al raggiungimento degli obiettivi di Kyoto;

garantire mobilità alle persone con ridotte capacità motorie e con handicap fisici.
Gli obiettivi indiretti devono essere orientati a:

ridurre gli attuali livelli di inquinamento;

proteggere il paesaggio e il patrimonio archeologico, storico e architettonico;

contribuire a raggiungere gli obiettivi dei piani di riassetto urbanistico e territoriale e dei piani di
sviluppo economico e sociale.
Le principali strategie da adottare sono:

strategie istituzionali che consistono nella promozione del coordinamento e dell’integrazione di
competenze, nell’introduzione di procedure moderne di pianificazione ed istituzione di Enti e uffici
172
GIUSEPPE MAZZEO - ENRICA PAPA
CAPITOLO 13. I piani settoriali a scala territoriale
specifici (uffici di Piano, osservatori sulla mobilità) e nell’attivazione di procedure di controllo
sull’attuazione del piano;

strategie gestionali che vanno adottate ai sensi del Decreto legislativo 400/99;

strategie infrastrutturali che consistono nel riequilibrio della ripartizione della domanda tra le diverse
modalità, sia per i passeggeri sia per le merci, nell’integrazione fra le diverse componenti del sistema
(intermodalità), nella utilizzazione massima delle infrastrutture esistenti con il recupero di quelle
divenute obsolete o sottoutilizzate.
In Regione Campania il Piano Regionale dei Trasporti (come definito dalla L.R. della Regione Campania n.
3/2002) contiene le linee strategiche per la configurazione del sistema dei trasporti e le scelte generali per
il riassetto organizzativo ed economico del settore. Il piano è coordinato con gli altri strumenti di
pianificazione e programmazione territoriale e dei trasporti di lungo periodo, alla stessa scala territoriale ed
a scala territoriale maggiore. Il Piano Regionale dei Trasporti in Regione Campania è adottato ogni cinque
anni su proposta della Giunta regionale e approvazione del Consiglio Regionale.
13.3.
Verso un governo integrato delle trasformazioni territoriali
Le pianificazioni che si sono analizzate sono pianificazioni settoriali con livelli di autonomia dai piani
generali differenziati in funzione del settore di azione. La loro incidenza sulle trasformazioni territoriali ha
fatto parlare di “pianificazioni separate”, come di un fenomeno dai forti caratteri negativi.
Negli ultimi anni il sistema delle pianificazioni separate si è arricchito di nuovi strumenti, soprattutto
nell’ambito dell’area vasta, con sempre maggiori sovrapposizioni con la pianificazione ordinaria e con la
strumentazione amministrativa corrente. Ciò crea conflitti crescenti tra strumenti aventi diverse finalità.
Le pianificazioni separate incrementano la frammentarietà connaturata alle nuove forme del sistema
decisionale (il federalismo più o meno strisciante) ed alla varietà degli obiettivi perseguiti; è da considerare
con preoccupazione il numero crescente di soggetti titolari di atti di pianificazione, soggetti che non sono
solo enti territoriali, nel quadro di un tendenziale rafforzamento delle autonomie locali e della
moltiplicazione dei centri decisionali e delle tendenze autonomistiche. Ciò determina situazioni di conflitto
tra le amministrazioni e incertezza degli operatori, con un rallentamento dei processi decisionali e nascita
di conflitti latenti o espliciti.
L’analisi sulle pianificazioni separate può essere condotta anche da un altro punto di vista. Esse sono nate
sia per rispondere ad esigenze emergenti sia per la necessità di ricorrere a conoscenze e professionalità in
specifici settori, diversi da quelli dell’urbanistica tradizionale; esse sono anche la conseguenza di una
scarsa efficienza ed efficacia delle procedure di pianificazione tradizionali, soprattutto in relazione ai tempi
e al processo di costruzione della decisione. Questo fenomeno può assumere connotati estremamente
negativi: «Il rafforzarsi e l’estendersi di queste logiche di separatezza impoverisce i contenuti, ma prima
ancora limita l’efficacia e la credibilità degli strumenti tradizionali e “generali” della pianificazione
territoriale e anche quella delle complesse procedure di consultazione e di verifica attraverso cui esse si
formano» (Regione Piemonte 2002, 10).
Il problema esiste ma la sua risoluzione può consistere o nella riduzione ad uno degli strumenti di
pianificazione o nella individuazione di nuove modalità di collaborazione che salvino la peculiarità delle
pianificazioni generali ma evitino la perdita e l’appiattimento dei patrimoni conoscitivi propri delle
pianificazioni di settore. Ciò significa ragionare non tanto sulla tipologia degli strumenti o sui contenuti
specifici dei piani, quanto sui procedimenti di costruzione delle pianificazioni (e delle decisioni in genere),
sulla loro implementazione, sugli effetti che producono e sulla loro efficacia complessiva.
Bibliografia
Avarello P. (2000), Il Piano comunale. Evoluzione e tendenze, Il Sole 24 Ore, Milano.
Commissione Europea (2001), La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte, COM
(2001)370, Bruxelles.
Consiglio d’Europa (2000), Convenzione Europea del Paesaggio, www.conventions.coe.eu, STCE 176.
Regione Piemonte (2002), “Pianificazioni separate in Piemonte”, in Quaderni della pianificazione, 12,
http://www.regione.piemonte.it/sit/argomenti/pianifica.
Nota
Il §§ 13.2 è stato aggiornato nel novembre 2019 da Gerardo Carpentieri.
173
14. I PIANI PER IL GOVERNO
DELLE TRASFORMAZIONI URBANE
Romano Fistola
14.1.
Il Piano Comunale: struttura e contenuti
La legge urbanistica nazionale 1150 del 1942 ha introdotto il Piano Regolatore Generale (PRG) come
principale strumento che stabilisce le direttive per l’assetto e lo sviluppo urbanistico dell’intero territorio
comunale, valide a tempo indefinito. I contenuti del PRG, secondo tale legge e secondo le modificazioni
introdotte dalla successiva Legge Ponte e dal D.M. 1444/68 rappresentano, a più di 65 anni di distanza, il
riferimento urbanistico generale per il Paese.
In realtà, come sottolineato da molti autori, il PRG, rappresenta sostanzialmente uno strumento di indirizzo
dell’attività di trasformazione del territorio, che rimanda ai successivi piani attuativi la definizione operativa
di tali modificazioni (Avarello 2000).
La Legge 1150/42 fra i contenuti del PRG individua:

la rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e, laddove occorra, navigabili, concepita
per la sistemazione e lo sviluppo dell’abitato, in modo da soddisfare alle esigenze del traffico, dell’igiene
e del pubblico decoro;

la divisione in zone del territorio, con precisazione di quelle destinate all’espansione dell’aggregato
urbano, e i caratteri e i vincoli di zona da osservare nell’edificazione;

le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciale servitù;

le aree da riservare a sede della casa comunale, alla costruzione di scuole e chiese e ad opere e impianti
d’interesse pubblico in generale.
Il contenuto tecnico del PRG riguarda, in generale, un certo numero di elaborati tecnico-cartografici
all’interno dei quali vengono rappresentate, attraverso cartografie tematiche, le destinazioni d’uso, le
allocazioni delle attrezzature, le infrastrutture esistenti e di progetto, la rete cinematica e la nuova viabilità,
possibili destinazioni speciali, le aree vincolate, gli standard urbanistici, etc.
Gli elaborati contenuti in un PRG, anche se possono variare a seconda delle caratteristiche del piano che si
intende evidenziare, possono essere divisi in tre grandi categorie:

documentazione relativa allo stato di fatto;

documentazione relativa al progetto di PRG;

relazione descrittiva del piano e Norme Tecniche di Attuazione.
In particolare, gli elaborati relativi allo stato di fatto riguardano:

tavola di inquadramento regionale (1:25.000);

stralcio dei piani di area vasta all’interno dei quali figura il territorio comunale in oggetto;

rappresentazione dello stato di fatto del territorio comunale (1:25.000);

planimetrie dello stato di fatto, quali rappresentazioni della clivometria, della consistenza del patrimonio
edilizio, delle aree e gli immobili sottoposti a vincolo, tutela o speciali servitù o di proprietà demaniale,
delle reti dei servizi canalizzati e dei vari impianti tecnologici;

zonizzazione con l’indicazione delle zone omogenee esistenti (1:5.000 o inferiore);

elaborati di studio e localizzazione delle zone urbanizzate, parzialmente urbanizzate e non urbanizzate;
della rete commerciale esistente che può rappresentare il prodromo della formazione, obbligatoria, del
“Piano della Rete di Vendita” le cui indicazioni dovranno essere recepite dal PRG.
Le tavole di progetto del PRG comprendono:

piano di azzonamento (Fig. 1) con la suddivisione in zone del territorio comunale in riferimento alla
destinazione d’uso, l’individuazione degli edifici pubblici o di uso pubblico e delle aree di uso pubblico,
le opere e gli impianti di interesse collettivo, la strutturazione dell’apparato distributivo (scala non
inferiore a 1:10.000); all’interno del piano vanno anche perimetrale le “aree di degrado” per le quali
sarà successivamente possibile redigere i Piani di Recupero.

piano della viabilità e rete cinematica con l’indicazione di tutte le reti di mobilità esistenti e di progetto
(scala non inferiore a 1:10.000);

schema di organizzazione del territorio comunale (1:25.000) nel quale va riportato il complesso delle
proposizioni del piano con la distinzione delle caratteristiche delle aree (residenziali, industriali,
attrezzature, etc.);
175
ROMANO FISTOLA






CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
tavola e computo delle aree residenziali, produttive e di uso pubblico per il calcolo e la verifica degli
standard urbanistici;
tavola delle zone omogenee di cui al D.M. 1444/68 utile alla verifica degli standard ed al controllo delle
distanze fra i fabbricati;
tabella di verifica degli standard computati per singola zona omogenea e per l’intero edificato;
planimetria delle zone da assoggettare a pianificazione attuativa obbligatoria (1:10.000);
azzonamento con l’indicazione delle aree, esistenti e di progetto, destinate ad accogliere attrezzature
scolastiche con l’indicazione dell’ambito residenziale servito da ciascuna attrezzatura;
planimetrie specifiche volte ad evidenziare particolari destinazioni d’uso o zone destinate a speciali
sistemazioni e trasformazioni.
Fig. 1  Estratto della tavola di zonizzazione del Comune di Napoli
In figura è riportata una delle tavole di zonizzazione relative al piano regolatore di Napoli, approvato nel 2004, nella
quale è possibile rinvenire, leggendo le diverse gradazioni di colore, i diversi tessuti urbani che connotano
l’insediamento. Il piano prevede il governo delle trasformazioni articolandolo per quattro tipologie di città: la città
storica (nucleo centrale), la città consolidata (riconoscibile nel tessuto intorno all’insediamento più antico), la città
diffusa (che si disperde nella campagna circostante) e la città della trasformazione che include le aree dove è
possibile realizzare i nuovi insediamenti.
Le relazioni e le norme riguardano:
relazione tecnica illustrativa del PRG;
dimensionamento dei fabbisogni residenziali e dei servizi alla residenza;
stima generale dei costi per la formulazione di una valutazione di attendibilità delle previsioni di piano;
Normativa Tecnica di Attuazione: questo documento contiene le prescrizioni da osservare negli
interventi di trasformazione del territorio comunale. In particolare, la NTA, per ciascuna area
individuata all’interno del PRG, definisce: quale attività vi è insediata: destinazione d’uso; all’interno di
quale tipologia spaziale viene svolta l’attività: forma d’uso; quanta attività, in termini volumetrici, è
insediata sull’area ed in che modo è utilizzato il volume: intensità d’uso; le modalità di attuazione del
piano (diretta e/o indiretta).
Per quanto riguarda il procedimento di approvazione del PRG, è possibile schematizzarlo come segue, in
accordo con le indicazioni della Legge 1150/42 (art. 9) e della manualistica.
L’Amministrazione Comunale (AC) decide di redigere un PRG (o una variante generale se è già vigente un
PRG). In generale l’AC formula un documento di indirizzi ed obiettivi per lo sviluppo del territorio che il piano
deve perseguire. Il piano viene redatto, in generale, dall’ufficio tecnico comunale, a volte affiancato da uno
o più esperti esterni. Il progetto di PRG, dopo attente valutazioni dell’AC, viene sottoposto dalla Giunta
Comunale al Consiglio Comunale per l’atto di “adozione”.
Successivamente all’adozione il PRG viene reso pubblico per chiunque voglia prenderne visione e depositato,
per trenta giorni, presso la segreteria comunale; di tale atto viene data pubblicità in vari modi principalmente
attraverso affissione nell’Albo pretorio e diffusione a mezzo stampa e rete Internet.
Nei successivi trenta giorni è possibile formulare, da parte dei privati, degli enti e delle associazioni, delle
“osservazioni” al piano «ai fini di un apporto collaborativo dei cittadini al perfezionamento del PRG».




176
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
Trascorso il periodo complessivo di sessanta giorni dall’adozione, nei successivi centottanta giorni il Consiglio
Comunale formula le proprie “controdeduzioni”.
Nel caso di accoglimento di osservazioni le modifiche andranno riportate su elaborati grafici di correzione.
Successivamente il piano viene inoltrato alla Provincia (o alla Regione nel caso di comuni capoluogo) per la
verifica di conformità e per il controllo della regolarità della documentazione.
Dopo tale azione dell’organo consultivo la Regione ha le seguenti alternative: approvare il piano, non
approvarlo, proporne delle modifiche. In generale il piano viene approvato con Decreto del Presidente della
Giunta Regionale e tale atto viene pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione o sulla Gazzetta Ufficiale.
Il PRG entra in vigore alla data di pubblicazione ed ha validità illimitata nel tempo. Un nuovo piano regolatore
potrà essere successivamente approvato solo in forma di variante.
Va in ultimo segnalato che nel corso dell’iter di approvazione del piano, valgono le cosiddette “misure di
salvaguardia” che rappresentano dei vincoli atti a bloccare richieste di modificazione del territorio in contrasto
con le destinazioni d’uso e gli orientamenti del piano. Il procedimento di cui alla legge statale è stato in più
parti modificato dalle leggi urbanistiche regionali che hanno tentato di snellire il percorso di approvazione.
La zonizzazione del PRG
Tra i documenti cartografici del PRG la zonizzazione rappresenta la suddivisione dell’intero territorio
comunale in “zone omogenee”, introdotte e regolamentate dal D.M. 1444/68. La definizione di zone
omogenee, deriva dalla caratteristica di omogeneità di tali aree rispetto alla destinazione d’uso prevalente.
In altri termini in ciascuna area è indicata l’attività (residenziale, produttiva, di servizio, agricola)
prevalentemente caratterizzante la zona (Colombo et alia 2001).
Di seguito si descrivono le principali caratteristiche di ciascuna zona omogenea, considerando anche
l’indicazione degli indici urbanistici che le caratterizzano:

Zone A - destinazione d’uso residenziale: sono le parti del territorio interessate da agglomerati urbani
che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi,
comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli
agglomerati stessi. In generale, sono le zone relative a tessuti urbani esistenti ed in particolare
coincidenti con i nuclei originari e più antichi della città la cui morfologia denuncia una prevalenza dei
pieni sui vuoti ed una elevata tortuosità della rete cinematica che evidenzia una sezione stradale
ristretta (vicoli). In queste zone si ritrovano anche gli edifici più importanti che presentano rilevante
valore storico-architettonico.

Zone B - destinazione d’uso residenziale: sono le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate,
diverse dalle zone A: si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli
edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali
la densità territoriale sia superiore a mc/mq 1,5. In generale, sono le zone perimetranti le parti del
tessuto urbano esistente che accolgono quella parte del patrimonio edilizio urbano che ha avuto origine
con la ricostruzione post-bellica, priva di un preciso disegno per l’ampliamento, e che si distingue per
l’irregolarità morfologica del tessuto edilizio.

Zone C - destinazione d’uso residenziale esistenti o di progetto: sono le parti del territorio destinate a
nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali la edificazione preesistente non
raggiunga i limiti di superficie e densità di cui alla precedente zona B. In generale, queste zone
omogenee coincidono con quelle aree parzialmente edificate o da edificare totalmente nel quale si
distingue un tessuto dalla morfologia regolare con una rete cinematica costituita da rami stradali
rettilinei e di ampia sezione trasversale. In generale coincidono con gli ambiti periferici della città dove
viene allocata la nuova edificazione per le necessità residenziali connesse allo sviluppo della
popolazione.

Zone D - destinazione d’uso produttiva: sono le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per
impianti industriali o ad essi assimilati. In generale, sono le zone che accolgono gli insediamenti
produttivi, di tipo artigianale o industriale, che supportano l’economia urbana.

Zone E - destinazione d’uso agricola: sono le parti del territorio destinate ad usi agricoli, escluse quelle
in cui − fermo restando il carattere agricolo delle stesse −il frazionamento delle proprietà richieda
insediamenti da considerare come zone C. In generale, sono le zone che perimetrano tutte le aree
extra-urbane, non edificate, nelle quali è insediata l’attività agricola che può essere di tipo intensivo o
estensivo.

Zone F - accolgono le attrezzature di interesse comunale e sovracomunale: sono le parti del territorio
destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale. In generale, in queste zone si ubicano le
grandi attrezzature comunali che richiamano un utenza anche dall’esterno del comune (parco urbano,
stadio, università, etc.).
177
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
In ciascuna delle zone omogenee, fatta eccezione per quelle a destinazione d’uso agricola, devono essere
computate e perimetrate le aree destinate ad accogliere i servizi alla residenza, secondo quanto indicato
all’interno del D.M. 1444/681. In particolare, per le zone A e B nei casi in cui la conformazione o densità del
tessuto urbano non consenta un rinvenimento diretto, il decreto recita: «Zone A: l’amministrazione
comunale, qualora dimostri l’impossibilità – per mancata disponibilità di aree idonee, ovvero per ragioni di
rispetto ambientale e di salvaguardia delle caratteristiche, della conformazione e delle funzioni della zona
stessa – di raggiungere le quantità minime di cui al precedente art. 3, deve precisare come siano altrimenti
soddisfatti i fabbisogni dei relativi servizi ed attrezzature. Zone B: quando sia dimostrata l’impossibilità –
detratti i fabbisogni comunque già soddisfatti – di raggiungere la predetta quantità minima di spazi su aree
idonee, gli spazi stessi vanno reperiti entro i limiti delle disponibilità esistenti nelle adiacenze immediate,
ovvero su aree accessibili tenendo conto dei raggi di influenza delle singole attrezzature e delle organizzazioni
dei trasporti pubblici. Le aree che verranno destinate agli standard urbanistici nell’ambito delle zone A) e B)
saranno computate, ai fini della determinazione delle quantità minime prescritte dallo stesso articolo, in
misura doppia di quella effettiva».
14.2.
I nuovi contenuti del Piano Comunale
La crescente consapevolezza della difficile prevedibilità dei modi e delle forme di evoluzione della città, così
come la crescente rilevanza della problematica ambientale, hanno reso necessaria una riflessione matura
nei primi anni ‘90 sulla struttura del PRG, che appariva assolutamente inadeguato e poco flessibile per
riuscire nel suo scopo (Talia 2003).
Nel congresso dell’INU del 1995 a Bologna, è stata formulata una proposta di legge generale urbanistica che
individua un nuovo assetto di Piano Urbanistico, articolato su due diversi livelli: quello fondante del “Piano
Strutturale” che raccoglieva le indicazioni strategiche di lungo periodo all’interno, stabilendo le “invarianti”
strutturali del territorio e quello di intervento del “Piano Operativo” che segnala le azioni da implementare
nel breve termine.
In termini generali:
a.
il Piano Strutturale definisce le scelte strategiche di assetto e sviluppo, tutelando l'integrità fisica,
ambientale e culturale del territorio comunale; individua le Unità Territoriali Organiche Elementari
(U.T.O.E) che rappresentano “gli ambiti di riferimento per la definizione dell’entità delle trasformazioni
fisiche e funzionali ammissibili” (Eddyburg). In altri termini, sono le unità urbanistiche elementari in cui
è articolato il territorio comunale per garantire un’equilibrata distribuzione delle dotazioni necessarie
alla qualità dello sviluppo territoriale. Il Piano strutturale ha un carattere interpretativo e programmatico
del territorio, non prescrittivo e non conformativo dei diritti proprietari, se non per quanto riguarda la
cogenza dei vincoli ricognitivi; la sua durata è a tempo indeterminato;
b.
il Piano Operativo riguarda le trasformazioni urbanistiche, disciplinando le diverse parti del territorio
urbano; è prescrittivo e conformativo dei diritti proprietari; ha una scadenza quinquennale per le
previsioni pubbliche e per quelle private; mette a sistema gli elementi positivi dell’esperienza condotta
con i “programmi complessi”;
c.
la parte regolativa (un Regolamento urbanistico-edilizio) riguarda la gestione dell’esistente,
insediamenti storici compresi; il Regolamento è prescrittivo e conformativo (diritti esistenti) e ha validità
a tempo indefinito.
Questa articolazione del piano sarà comunque specificata dalle leggi regionali, che, confermandone
l’impostazione fondamentale, potranno comunque introdurre soluzioni diverse come, per esempio, nel caso
dei piccoli Comuni, quando la stessa articolazione possa essere giudicata non necessaria nella sua
componente operativa, o riconducibile in approfondimenti del PTCP, per la componente strutturale.
Queste indicazioni sono riprese nella definizione di alcune leggi regionali, benché nel 2016 si attende ancora
una legge urbanistica quadro che possa compiutamente indirizzare l’attività di governo delle trasformazioni
territoriali nel nostro paese.
Fra i nuovi Piani Comunali proposti assume particolare interesse il Piano di Governo del Territorio (PGT)
introdotto in Lombardia dalla Legge Regionale n. 12 dell’11 marzo 2005. Il PGT rappresenta in Lombardia lo
1
–
–
–
–
Il D.M. 1444/68 introduce gli standard urbanistici che sono rappresentati da superfici, dedicate ai servizi alla residenza,
previste e riportate graficamente negli elaborati del piano comunale (D’Angelo 2003). La quantità minima di superficie da
dedicare a standard è 18 mq per abitante. Tale quantità viene ripartita in quattro sub-quote superficiali:
mq 4,50 di aree per l’istruzione: asili nido, scuole materne e scuole dell’obbligo;
mq 2,00 di aree per attrezzature di interesse comune: religiose, culturali, sociali, assistenziali, sanitarie, amministrative, per
pubblici servizi (uffici poste e telegrafi, protezione civile, ecc.) ed altre;
mq 9,00 di aree per spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili per tali impianti con
esclusione di fasce verdi lungo le strade;
mq 2,50 di aree per parcheggi tali aree – in casi speciali – potranno essere distribuite su diversi livelli.
178
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
strumento di pianificazione urbanistica a livello comunale; la legge lombarda prescrive che tutti i comuni
lombardi si dotino di un PGT entro Marzo 2009. Ciò che rende interessante il nuovo strumento di governo
delle trasformazioni territoriali della Lombardia è la sua articolazione in tre documenti che governano in
maniera specifica, ma integrata, tre aspetti dell’attività pianificatoria; essi sono:

il documento di piano;

il piano dei servizi;

il piano delle regole.
Il documento di piano (Fig. 2) rappresenta il primo elaborato del PGT, definisce il quadro generale della
programmazione urbanistica tenendo conto anche delle indicazioni e proposizioni formulate dalle parti
sociali, dalle associazioni di cittadini, di organizzazioni, etc.. Per la formazione di tale documento è quindi
fondamentale la partecipazione della collettività che contribuisce attivamente, fin da subito, alla definizione
del piano comunale. Questo processo partecipativo, ove correttamente messo in essere, assicura anche della
condivisione delle scelte e del conseguente consenso e supporto al piano nella fase di approvazione.
All’interno di tale documento vanno incluse tutte le analisi urbanistiche, ambientali, demografiche,
infrastrutturali, di individuazione dei beni storico-architettonici rilevanti, etc., utili alla definizione del PGT.
Fig. 2 − Il Piano di Governo del Territorio di Bergamo (2008)
Nell’immagine è riportata la tavola del Documento di Piano (Struttura e Strategie) del PGT di Bergamo
Il piano dei servizi determina le strutture pubbliche o di interesse pubblico che il comune individua come
supporto. In termini demografici il piano considera la popolazione attualmente residente nel comune o che,
in qualche modo, gravita su di esso e tiene conto dello sviluppo residenziale previsto dal documento di piano.
A livello economico il piano considera i costi operativi delle strutture e infrastrutture pubbliche esistenti e dei
costi di realizzazione di quelle previste, valuta la loro fattibilità e indica le la modalità ed i tempi di
realizzazione dei servizi.
Le definizioni contenute nel piano dei servizi relative alle aree indicate come di interesse pubblico sono
prescrittive e vincolanti per 5 anni a partire dall’entrata in vigore del PGT; i vincoli decadono qualora il
servizio non sia inserito entro questo termine nel Programma Triennale delle Opere Pubbliche.
Un’interessante definizione della LUR n. 12 del 11 marzo 2005 riguarda la possibilità, per comuni con
popolazione inferiore a 20.000 abitanti, di elaborare e redigere un piano dei servizi intercomunale. Tale
possibilità richiama il principio che fu alla base dei Piani Intercomunali che hanno trovato però scarsa
applicazione nel nostro Paese.
Il piano delle regole indica la “trasformabilità” e richiama, nella strutturazione, il vecchio PRG in quanto
definisce una zonizzazione del territorio comunale indicando la destinazione d’uso delle aree.
Nel piano vengono segnatamente considerate quelle aree che devono essere tutelate o escluse da interventi
di trasformazione, fra le quali: le aree agricole, le aree di interesse paesaggistico, le zone di rilevante valore
storico o ambientale, etc.. Nel piano vengono anche definite le modalità, le caratteristiche e le quantità
relative alle azioni di trasformazione consentite sul territorio.
In sintesi è possibile affermare che il PGT si richiama e tenta di rendere operative quelle indicazioni in
generale riconducibili al concetto di governance.
Fra queste vanno segnalate: la partecipazione dei cittadini, la perequazione, la compensazione,
l’incentivazione urbanistica.
Relativamente a tali principi nella documentazione normativa disponibile in rete si legge:
179
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
«Progettazione partecipata: Il primo atto che l’amministrazione comunale è tenuta a fare quando decide di
iniziare la stesura del PGT è informare la cittadinanza che il processo è iniziato. I cittadini o le associazioni
di cittadini sono invitati già da questa fase a formulare proposte in merito». La differenza rispetto al Piano
regolatore generale sta nel fatto che in quel caso i cittadini erano chiamati ad esprimersi solo dopo la prima
adozione sotto forma di osservazioni al PGT già adottato.
«Compensazione: La compensazione è il principio secondo cui l’amministrazione comunale in cambio della
cessione gratuita di un’area sulla quale intende realizzare un intervento pubblico può concedere al
proprietario del suolo un altro terreno in permuta o della volumetria che può essere trasferita su altre aree
edificabili. Questa volumetria è liberamente commerciabile». Ovviamente il privato può realizzare in proprio
l’intervento pubblico stipulando un’apposita convenzione con l’amministrazione comunale. I commi 3 e 4
articolo 11 della suddetta legge 12 normano le possibilità di compensazione.
«Perequazione: Per perequazione urbanistica si intendono due concetti tra loro distinti. Il principio secondo
cui i vantaggi derivanti dalla trasformazione urbanistica devono essere equamente distribuiti tra i proprietari
dei suoli destinati ad usi urbani e il principio secondo cui questi vantaggi debbano essere condivisi con la
comunità dotandola, senza espropri e spese, di un patrimonio pubblico di aree a servizio della collettività».
Questo concetto è introdotto dal comma 2 articolo 11 della suddetta legge 12.
«Incentivazione urbanistica: Qualora l’intervento urbanistico introduca rilevanti benefici pubblici aggiuntivi a
quelli previsti è possibile incentivare l’intervento concedendo un maggiore volume edificabile fino ad arrivare
ad un aumento del 15%. In pratica il privato può chiedere all’amministrazione comunale una maggiorazione
del volume assegnato dando in cambio qualche vantaggio per la cittadinanza». Questa possibilità è prevista
dal comma 5 articolo 11 della suddetta legge 12.
Di particolare interesse risulta anche il caso del Comune di Firenze che, adottando lo stesso approccio al
governo delle trasformazioni territoriali della regione, ha approvato, nel 2014, un Piano strutturale finalizzato
a salvaguardare, conservare e valorizzare il territorio, realizzando “uno sviluppo dentro la città, cioè senza
neanche un incremento di un metro quadro in più”. Ad esempio, nelle UTOE relative al centro storico, sono
presenti circa 200.000 mq di superficie da dismettere e da destinare ad attività residenziali, valutando, caso
per caso, le funzioni che si intendono escludere, le funzioni di cui si auspica l’insediamento, e “rimandando
ad una valutazione specifica nell’ambito della definizione del Regolamento Urbanistico l’attribuzione delle
destinazioni d’uso specifiche”.
La riduzione del consumo di suolo rappresenta, in pratica, sia un obiettivo che un principio a cui si sono
ispirate regione e comune.
14.3.
Il PUC nella legge regionale campana
Il piano comunale ha subito considerevoli evoluzioni nella struttura e nei contenuti in particolare all’interno
delle leggi urbanistiche regionali.
La legislazione urbanistica regionale ha rappresentato il tentativo, in molti casi riuscito, molte volte riuscito,
di superare l’empasse e l’inerzia del PRG della LUN sperimentando, come avvenuto per le LUN Toscana e
Emilia Romagna, nuove possibilità dello strumento di pianificazione comunale. Al fine di fornire
un’indicazione relativa alle definizioni dei nuovi Piani Urbanistici Comunali (PUC) si riporteranno le indicazioni
della Legge Urbanistica Regionale della Campania (Mazzeo 2005).
La Legge Urbanistica Regionale (LUR) della regione Campania (L.R. 16/2004), con le modifiche apportate
dalla legge regionale n. 15 dell’11 agosto 2005, n. 1 del 19 gennaio 2007 e n. 1 del 30 gennaio 2008,
definisce il Piano Urbanistico Comunale (PUC) come lo strumento urbanistico generale del Comune che
disciplina la tutela ambientale, le trasformazioni urbanistiche ed edilizie dell’intero territorio comunale, anche
mediante disposizioni a contenuto conformativo del diritto di proprietà.
Appare utile riportare uno stralcio del testo della LUR relativo alle caratteristiche, ai contenuti ed alle
procedure di formazione ed approvazione del PUC.
«Il PUC, in coerenza con le disposizioni del Piano Territoriale Regionale (PTR) e del Piano Territoriale di
Coordinamento Provinciale (PTCP):
a) individua gli obiettivi da perseguire nel governo del territorio comunale e gli indirizzi per l’attuazione
degli stessi;
b) definisce gli elementi del territorio urbano ed extraurbano raccordando la previsione di interventi di
trasformazione con le esigenze di salvaguardia delle risorse naturali, paesaggistico-ambientali, agrosilvo-pastorali e storico-culturali disponibili, nonché i criteri per la valutazione degli effetti ambientali
degli interventi stessi;
c)
determina i fabbisogni insediativi e le priorità relative alle opere di urbanizzazione in conformità a
quanto previsto dall’articolo 18, comma 2, lettera b);
180
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
d)
stabilisce la suddivisione del territorio comunale in zone omogenee, individuando le aree non suscettibili
di trasformazione;
e) indica le trasformazioni fisiche e funzionali ammissibili nelle singole zone, garantendo la tutela e la
valorizzazione dei centri storici nonché lo sviluppo sostenibile del territorio comunale;
f)
promuove l’architettura contemporanea e la qualità dell’edilizia pubblica e privata, prevalentemente
attraverso il ricorso a concorsi di progettazione;
g) disciplina i sistemi di mobilità di beni e persone;
h) tutela e valorizza il paesaggio agrario attraverso la classificazione dei terreni agricoli, anche vietando
l’utilizzazione ai fini edilizi delle aree agricole particolarmente produttive fatti salvi gli interventi realizzati
dai coltivatori diretti o dagli imprenditori agricoli;
i)
assicura la piena compatibilità delle previsioni in esso contenute rispetto all’assetto geologico e
geomorfologico del territorio comunale, così come risultante da apposite indagini di settore preliminari
alla redazione del piano».
Per quanto riguarda le previsioni di tipo “strutturale”, queste “sono tese a individuare le linee fondamentali
della trasformazione a lungo termine del territorio, in considerazione dei valori naturali, ambientali e storicoculturali, dell’esigenza di difesa del suolo, dei rischi derivanti da calamità naturali, dell’articolazione delle reti
infrastrutturali e dei sistemi di mobilità” (art. 3). Tali previsioni, a carattere strategico, riguardano in
particolare:
a) l’assetto idrogeologico e la difesa del suolo;
b) la perimetrazione dei nuclei storici;
c)
la perimetrazione (indicativa, non su base catastale) delle aree di trasformazione urbana;
d) la perimetrazione delle aree produttive (manifatture, media e grande distribuzione commerciale,
terziario);
e) l’individuazione delle aree a vocazione agricola e degli ambiti, agricoli e forestali, d’importanza
strategica;
f)
la ricognizione delle aree vincolate;
g) le infrastrutture a rete e puntuali.
Le previsioni di tipo “operativo” sono, invece, orientate “a definire gli interventi di trasformazione fisica e
funzionale del territorio in archi temporali limitati, correlati alla programmazione finanziaria dei bilanci annuali
e pluriennali delle amministrazioni interessate” (art. 3).
Il piano operativo deve contenere gli “atti di programmazione degli interventi” (art. 25), individuando per
determinate porzioni di territorio:
a) le destinazioni d’uso ammissibili;
b) gli indici di utilizzazione territoriale e fondiaria delle aree;
c)
i parametri edilizi ed urbanistici di riferimento;
d) la localizzazione degli standard urbanistici;
e) a localizzazione delle attrezzature e dei servizi.
Per quanto attiene alla formazione del piano l’intero iter viene articolato nei seguenti passaggi (Fig. 3):
«1. La giunta comunale, previa consultazione delle organizzazioni sociali, culturali, economicoprofessionali, sindacali ed ambientaliste di livello provinciale, di cui all’articolo 20, comma 5, predispone
la proposta di Puc. La proposta, comprensiva degli elaborati previsti dalla vigente normativa statale e
regionale e delle Nta, è depositata presso la segreteria del comune e delle circoscrizioni. Del deposito
è data notizia sul bollettino ufficiale della regione Campania e su due quotidiani a diffusione provinciale.
2.
Nel termine di sessanta giorni dalla pubblicazione chiunque può presentare osservazioni in ordine alla
proposta di Puc. Nei comuni con popolazione inferiore a cinquemila abitanti il termine è ridotto a
quaranta giorni.
3.
Entro novanta giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 2, il consiglio comunale esamina le
osservazioni, adegua, la proposta di Puc alle osservazioni accolte ed adotta il Puc. Nei comuni con
popolazione inferiore a cinquemila abitanti il termine è ridotto a sessanta giorni.
4.
Il piano adottato è trasmesso alla provincia per la verifica di compatibilità con gli strumenti di
pianificazione territoriale sovraordinati e di conformità con la normativa statale e regionale vigente.
5.
La verifica è affidata all’assessorato provinciale competente nella materia dell’urbanistica, ed è conclusa
entro novanta giorni dalla data di ricezione del piano, corredato di tutti gli allegati previsti dalla
normativa vigente. Trascorso tale termine, la verifica si intende positivamente conclusa.
6.
In caso di esito negativo della verifica, il Presidente della provincia, nei quindici giorni successivi alla
scadenza di cui al comma 5, convoca una conferenza di servizi alla quale sono invitati a partecipare il
sindaco, o un assessore da lui delegato, e i dirigenti delle strutture provinciali e comunali competenti.
La conferenza è presieduta dal presidente della provincia o da un assessore da lui delegato.
181
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
Fig. 3  Il processo di formazione del PUC
Le fasi di formazione e approvazione del PUC secondo la LUR Campania 16/2004 e s.m.i.
7.
La conferenza apporta, ove necessario, modifiche al Puc, al fine di renderlo compatibile con gli atti di
pianificazione territoriale sovraordinati e conforme alla normativa statale e regionale vigente. La
conferenza conclude i lavori nel termine di trenta giorni dalla convocazione.
8.
Il Presidente della conferenza, se ne ravvisa l’opportunità, e nel rispetto del principio di flessibilità di
cui all’articolo 11 e nei limiti ivi indicati, trasmette il Puc al consiglio provinciale o al consiglio regionale
per la eventuale variazione, rispettivamente, del Ptcp, del Ptr, dei Psr e dei Psp, nelle parti in cui sono
incompatibili con il piano adottato dal comune. Il consiglio provinciale e il consiglio regionale
provvedono entro trenta giorni dalla trasmissione degli atti. Decorso tale termine, le proposte di
variazione si intendono respinte.
9.
Nelle ipotesi di cui al comma 8, il termine di trenta giorni per la conclusione dei lavori della conferenza
di cui al comma 6 rimane sospeso.
10. Gli esiti della conferenza di cui al comma 6 sono ratificati dal consiglio comunale entro venti giorni dalla
loro comunicazione, pena la decadenza dei relativi atti.
11. Il Puc è approvato con decreto del presidente della provincia, previa delibera di giunta provinciale, ed
è pubblicato sul bollettino ufficiale della regione Campania. Della pubblicazione è data notizia mediante
avviso su due quotidiani a diffusione provinciale. Decorsi quindici giorni dalla pubblicazione, il Puc entra
in vigore ed acquista efficacia a tempo indeterminato».
Dall’emanazione della LR.16/2004 in poi, nuove indicazioni normative sono intervenute a modificare in
modo marginale o sostanziale le indicazioni e gli articoli della legge. In modo prioritario va considerato
il Manuale operativo del Regolamento 4 agosto 2011 n. 5 di attuazione della L.R. 16/2004 in materia
di Governo del territorio pubblicato nel primo Quaderno del Governo del Territorio. Fra le altre
indicazioni quelle relative al preliminare di piano ed al doppio livello di pianificazione del piano
urbanistico comunale recitano: “Il preliminare di piano specifica come si perseguono finalità e obiettivi
contenuti negli art. 1 e 2 della l.r. n.16/2004. Il preliminare è composto da elementi conoscitivi del
territorio e da un documento strategico, formato con la procedura ritenuta idonea dall’Amministrazione
procedente. L’accertamento di conformità rispetto ai piani sovraordinati e di settore si svolge sulla base
del preliminare di piano, del relativo documento strategico o di ogni altro documento che
l’Amministrazione ritiene utile ai fini dell’attività di pianificazione. Il documento strategico, in particolare,
prevede linee d’azione interattive, dedicate al rafforzamento del tessuto urbano e territoriale tramite
interventi migliorativi per l’aspetto fisico, funzionale e ambientale della città”. Relativamente al piano
strutturale si riporta: “La componente strutturale dei Piani approfondisce i temi del preliminare di piano,
integrato dai risultati delle consultazioni con i portatori di interessi e le amministrazioni competenti, e
definisce il quadro strutturale delle “invarianti” del territorio, in relazione all’integrità fisica, ambientale
e all’identità culturale dello stesso. La componente strutturale dei piani non contiene previsioni che
producono effetti sul regime giuridico dei suoli e, pertanto, è efficace a tempo indeterminato. Infatti le
disposizioni strutturali sono tese a individuare le linee fondamentali della trasformazione a lungo
termine del territorio, in considerazione dei valori naturali, ambientali e storico-culturali, dell'esigenza
di difesa del suolo, dei rischi derivanti da calamità naturali, dell'articolazione delle reti infrastrutturali e
182
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
dei sistemi di mobilità. I contenuti del piano strutturale del Ptcp, individuati all’art. 9 del Regolamento,
sono conformi sia alle disposizioni dell’art. 20 del TUEL n.267/2000 che agli indirizzi della strategia
comunitaria contenuti nella Carta Europea dell’assetto del territorio adottata a Torre Molinos nel 1983.
Soltanto nel caso in cui il Comune, in sede di copianificazione, condivida con la Provincia le componenti
strutturali riguardanti il territorio comunale interessato, si ha coincidenza tra le disposizioni strutturali
del Ptcp e la parte strutturale del Puc. Le disposizioni strutturali del piano possono essere definiti
appunto come il piano strutturale comunale (Psc), con ampi contenuti strategici e tempi lunghi di
attuazione, che fornisce indirizzi per trasformazioni che saranno poi attivate da altri strumenti.
Introduce innovazioni decisive, come il passaggio ad un regime dei suoli governato da regole
perequative, compensative ed incentivanti, la dimensione strutturale della sostenibilità ambientale, una
forma di attuazione processuale basata su monitoraggio e valutazione. Può utilizzare il progetto urbano
e l’esplorazione progettuale, come materiale importante per la valutazione e l’indirizzo delle
trasformazioni della città”. Successivamente per quanto attiene al cosiddetto Piano Operativo (o piano
del sindaco) si riporta: ”Le disposizioni programmatiche/operative sono tese a definire gli interventi di
trasformazione fisica e funzionale del territorio in archi temporali limitati, correlati anche alla
programmazione finanziaria dei bilanci annuali e pluriennali delle amministrazioni interessate. Le
disposizioni programmatiche/operative possono essere definite appunto come il Piano operativo
comunale (Poc), infatti, in relazione agli obiettivi di sviluppo, recepisce il dimensionamento del piano,
la disciplina delle aree individuate con l'indicazione di: destinazioni d'uso, indici fondiari e territoriali,
parametri edilizi, standard urbanistici, residenziali ed ambientali, attrezzature e servizi, nonché gli atti
di programmazione degli interventi da attuare nell’arco dei successivi tre anni”.
Negli anni successivi alla svolta urbanistica campana del 2004 assume particolare rilievo la definizione
del nuovo Piano Territoriale Regionale di cui alla LR. 13/2008 con la quale si introduce il nuovo
strumento di governo del territorio relativo all’area vasta campana. In generale è possibile identificare
nella legge regionale 22 giugno 2017, n. 19: “Misure di semplificazione e linee guida di supporto ai
Comuni in materia di governo del territorio” e nella legge regionale 2 agosto 2018, n. 26: “Misure di
semplificazione in materia di governo del territorio e per la competitività e lo sviluppo regionale. Legge
annuale di semplificazione 2018” le due norme di maggior interesse nel campo del governo del territorio
e segnatamente per quanto attiene allo strumento di pianificazione urbanistica comunale/metropolitano.
Per quanto attiene alla 19/2017 e relativamente alle indicazioni inerenti il Piano Urbanistico Comunale
l’Art. 4 introduce sostanziali modifiche alla legge regionale 22 dicembre 2004, n. 16 – Norme sul
governo del territorio) in particolare per quanto riguarda il supporto offerto dai comuni che intendano
avviare il procedimento di formazione del PUC. Nello specifico si riporta: “La direzione generale per il
Governo del territorio della Giunta regionale, ai Comuni che ne fanno richiesta, fornisce per la redazione
del PUC supporto tecnico e amministrativo anche mettendo a disposizione la cartografia regionale
disponibile. La Regione assegna periodicamente ai Comuni, con priorità per i Comuni che si associano
coordinati in ambiti territoriali sovracomunali, contributi per la redazione del PUC. […] Con
provvedimento della direzione generale per il Governo del territorio della Giunta regionale sono
approvati i bandi per l’attribuzione delle risorse ai fini di cui al comma 2, con suddivisione di Comuni
per le seguenti fasce demografiche: fino a 5.000 abitanti, fino a 15.000 abitanti, fino a 50.000 abitanti.
I Comuni adottano il Piano urbanistico comunale (PUC) entro il termine perentorio del 31 dicembre
2018 e lo approvano entro il termine perentorio del 31 dicembre 2019. Alla scadenza dei suddetti
termini perentori, si provvede ai sensi dell'articolo 39 e del relativo regolamento regionale di attuazione
per l’esercizio dei poteri sostitutivi. Alla scadenza del termine del 31 dicembre 2019, nei Comuni privi
di PUC approvato si applica la disciplina dell’articolo 9 del d.p.r. 380/2001. Sono fatti salvi gli effetti dei
piani urbanistici attuativi (PUA) vigenti. […] Nei Comuni sprovvisti di strumento urbanistico comunale,
nelle more dell’approvazione del Piano urbanistico comunale, per edifici regolarmente assentiti, adibiti
ad attività manifatturiere, industriali e artigianali, sono consentiti ampliamenti che determinano un
rapporto di copertura complessivo fino ad un massimo del 60 per cento.”
Per quanto attiene alla L. 26/2018 va osservato che viene definito lo strumento di pianificazione della
nuova entità territoriale della Città Metropolitana di Napoli i cui confini coincidono con quelli della
precedente provincia di Napoli. In particolare all’art.1 del Capo 1 si introduce il Piano Territoriale
Metropolitano relativo al territorio della Città Metropolitana, di cui alla legge 54/2016, e che ha funzione
di coordinamento e di pianificazione territoriale generale. Il Piano Territoriale Metropolitano è approvato
con le procedure definite dallo Statuto della Città Metropolitana nel rispetto dei principi fondamentali
derivanti dalla legislazione statale, di copianificazione e di partecipazione, nel perseguimento degli
obiettivi di tutela dell’ambiente, di riduzione del consumo di suolo e dello sviluppo sostenibile.
Nell’immediato seguito, al fine di fornire un più ampio riferimento dei nuovi strumenti di governo del
183
ROMANO FISTOLA
CAPITOLO 14. I piani per il governo delle trasformazioni urbane
territorio comunale (recentemente proposti e inglobati nelle LR) si illustrerà un piano che contiene
considerevoli avanzamenti derivanti dalle proposte di superamento della rigidezza del PRG.
Bibliografia
Avarello P. (2000), Il Piano Comunale. Evoluzione e tendenze, Il Sole 24 Ore, Milano.
Colombo G., Pagano F., Rossetti M. (2001), Manuale di urbanistica, Il Sole 24 Ore, Milano.
D’Angelo G. (2003), Diritto dell’edilizia e dell’urbanistica, CEDAM, Padova.
Fuccella R. (1992), Note di tecnica urbanistica, S.E., Napoli.
INU (1995), Atti del XXI Congresso Inu, Bologna 23-25 novembre 1995.
Mazzeo G. (2005), L.R. 16/2004 la nuova legge urbanistica regionale della Campania, DIPIST - Università di
Napoli “Federico II”, Elio De Rosa, Napoli.
Papa R. (1996), Corso di Tecnica Urbanistica (appunti dalle lezioni), DIPIST - Università di Napoli “Federico
II”, Napoli.
Salzano E. (2008), Sull’articolazione dei
burg.it/article/articleview/11014/0/95/.
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urbanistici
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due
componenti,
http://eddy-
Talia N. (2003), La Pianificazione del Territorio, Il Sole 24, Milano.
Sitografia
Quaderno di Governo del Terriotrio n.1
www.regione.campania.it/assets/documents/Quaderni_governo_territorio.pdf
Legge Regionale n. 13 del 13 ottobre 2008
www.sito.regione.campania.it/burc/pdf08/burc48bis_08/indexburc48bis_08.asp
Legge Regionale 28 dicembre 2009, n. 19
"Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione
del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa".
www.regione.campania.it/normativa/item.php?pgCode=G19I231R248&id_doc_type=1&id_tema=6
184
15. I PIANI SETTORIALI A SCALA URBANA1
Adriana Galderisi ed Enrica Papa
Questo capitolo propone un focus su alcuni strumenti di settore che affrontano specifiche tematiche alla
scala urbana, con particolare riferimento agli strumenti per la tutela della qualità ambientale e per il
governo della mobilità. Si evidenziano, in entrambi i casi, le significative interrelazioni tra problematiche
ambientali e scelte relative all’evoluzione/trasformazione dei contesti urbani e al governo della mobilità e la
conseguente necessità di una più stretta integrazione tra strumenti generali e settoriali, difficilmente
conseguibile attraverso il solo coordinamento a posteriori tra strumenti elaborati separatamente e sulla
base di approcci settoriali.
Più specificamente, il primo paragrafo propone una descrizione di alcuni dei principali strumenti per la
tutela dell’ambiente, così come definiti dalla normativa nazionale vigente.
Il secondo paragrafo descrive i principali strumenti per il governo della mobilità. Tali strumenti,
analogamente ai piani per il governo della mobilità di area vasta, hanno come principale obiettivo quello di
ampliare le opportunità di spostamento delle persone, ovvero assicurare le condizioni di accessibilità, ma si
differenziano dai primi per l’estensione dell’area sulla quale agiscono.
15.1.
I piani comunali per la tutela dell’ambiente
Il tema della tutela e riqualificazione dell’ambiente naturale all’interno dei contesti urbani è divenuto un
obiettivo prioritario dei Piani Comunali di ultima generazione: la progressiva assunzione, nelle Leggi
Urbanistiche Regionali emanate a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, della sostenibilità come
principio informatore delle scelte di governo del territorio ha indotto una sostanziale revisione dei
tradizionali contenuti dei piani comunali, orientandoli verso l’integrazione delle tematiche ambientali nei
contenuti propri del piano.
D’altro canto, la stretta correlazione che sussiste tra le principali problematiche di degrado ambientale 
dall’inquinamento atmosferico e acustico al consumo e all’alterazione della risorsa suolo; dai consumi
energetici alla sicurezza della città e dei cittadini rispetto ai fenomeni calamitosi di matrice naturale e
antropica  e le scelte di localizzazione e distribuzione delle attività e di governo della mobilità in ambito
urbano è sempre più largamente riconosciuta in ambito scientifico, pur se ancora non del tutto recepita in
sede normativa.
Vengono qui descritti alcuni strumenti di settore che affrontano il tema della tutela dell’ambiente, con
specifico riferimento alla scala urbana. Si fa riferimento, in particolare, alla Zonizzazione Acustica e ai Piani
di Azione in materia di inquinamento acustico; all’elaborato “Rischio di Incidente Rilevante” e ai Piani
Energetici Comunali.
Dalla Zonizzazione Acustica ai Piani di Azione
L’inquinamento acustico costituisce un problema di crescente rilevanza, specie nelle grandi aree urbane:
accanto alla dimostrata incidenza dei fenomeni di fonoinquinamento sulla salute dei cittadini, essi
presentano un rilevante impatto anche sui più generali livelli di qualità dell’ambiente urbano, riducendo in
molti casi la fruibilità stessa di alcune aree.
Numerose e concentrate sono le sorgenti di rumore in ambito urbano  dalle attività produttive ai trasporti
 anche se sono le sorgenti mobili, e in particolare i trasporti, ad essere stati identificati, già da tempo,
quali principali responsabili delle emissioni di rumore in ambito urbano.
Nonostante la gravità dei fenomeni di inquinamento acustico nelle città italiane, la regolamentazione delle
emissioni di rumore è avvenuta con rilevante ritardo rispetto ai Paesi Europei e, in particolare, NordEuropei: i limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno sono stati
fissati, infatti, nel 1991 con un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri mentre la prima legge
organica in materia di rumore è stata emanata nel 1995: la Legge Quadro sull’inquinamento acustico
(Legge 447/95). Quest’ultima fornisce una definizione dell’inquinamento acustico, introduce valori di
qualità da conseguire nel breve, medio e lungo periodo e rende obbligatoria per tutti i comuni la redazione
dei Piani di Zonizzazione Acustica (PZA). Tale strumento costituisce un indispensabile supporto conoscitivo
per la predisposizione di strategie d’area finalizzate al contenimento e alla prevenzione dei fenomeni di
1
Questo capitolo è stato redatto da Adriana Galderisi per il § 15.1 e da Enrica Papa per il § 15.2.
185
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
fonoinquinamento: esso introduce, infatti, una suddivisione del territorio comunale in sei classi acustiche,
definite in sede normativa, cui sono attribuiti differenti valori limite di rumorosità ammissibile (Galderisi e
Gargiulo 2001). Tale suddivisione viene effettuata in relazione a parametri urbanistici, riconducibili alle
destinazioni e alle intensità d’uso, attuali e previste, delle diverse parti del territorio comunale.
Le classi acustiche identificate in sede normativa sono:
 classe I, aree particolarmente protette, per le quali la quiete sonica rappresenta un elemento di base per
la fruizione;
 classe II, aree ad uso prevalentemente residenziale, caratterizzate da bassa densità di popolazione, con
limitata presenza di attività commerciali ed assenza di attività industriali ed artigianali;
 classe III, aree di tipo misto, interessate da traffico veicolare locale o di attraversamento, con media
densità di popolazione, con presenza di attività commerciali, uffici, con limitata presenza di attività
artigianali e con assenza di attività industriali o, anche, aree agricole interessate da attività che
impiegano macchine operatrici;
 classe IV, aree di intensa attività umana, interessate da intenso traffico veicolare, con alta densità di
popolazione, con elevata presenza di attività commerciali e uffici, con presenza di attività artigianali o,
anche, le aree in prossimità di strade di grande comunicazione e di linee ferroviarie, le aree portuali e
quelle con limitata presenza di piccole industrie;
 classe V, aree prevalentemente industriali, interessate da insediamenti industriali e con scarsità di
abitazioni;
 classe VI, aree industriali, interessate esclusivamente da attività industriali e prive di insediamenti
abitativi.
La classificazione del territorio comunale proposta in sede legislativa è finalizzata, dunque, alla definizione
di ambiti omogenei per l’applicazione dei limiti massimi, diurni e notturni, di rumore, espressi in decibel
(dB). Inoltre, la Legge Quadro introduce una definizione del termine inquinamento acustico di gran lunga
più ampia rispetto a quella fornita dal DPCM del ‘91 per il termine “rumore”. In particolare, l’inquinamento
acustico viene inteso come l’introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno, tale da
provocare fastidio o disturbo al riposo e alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento
degli ecosistemi, dei beni materiali e dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno o tale
da interferire con le esigenze di fruizione degli ambienti stessi. Inoltre, rispetto al DPCM del 1991 che
fissava esclusivamente i limiti massimi di immissione in riferimento alle classi di destinazione d’uso del
territorio, la Legge Quadro introduce i concetti di valori di attenzione e valori di qualità. Viene effettuata,
inoltre, una puntuale ripartizione delle competenze tra Stato, Regioni e Comuni.
In particolare, ai Comuni sono affidati compiti molteplici, tra cui:
 la zonizzazione acustica del territorio comunale, da effettuarsi secondo i criteri fissati in sede regionale;
 il coordinamento tra la strumentazione urbanistica già adottata e le determinazioni della zonizzazione
acustica;
 la predisposizione e l’adozione dei piani di risanamento acustico;
 l’adeguamento dei regolamenti di igiene e sanità e di polizia municipale;
 il coordinamento tra il Piano di Risanamento Acustico, il Piano Urbano del Traffico e gli altri piani previsti
dalla legislazione vigente in materia ambientale.
Classi acustiche
Intervalli temporali
diurno (6.00-22.00)
notturno (22.00-6.00)
I aree particolarmente protette
45
35
II aree prevalentemente residenziali
50
40
III aree di tipo misto
55
45
IV aree di intensa attività umana
60
50
V aree prevalentemente industriali
65
55
VI aree esclusivamente industriali
65
65
Tab. 1 − Valori limite di emissione, Leq in dB(A)
186
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
Con la Legge Quadro viene evidenziata la necessità di integrare le esigenze di protezione dal rumore e le
scelte in materia urbanistica e di governo della mobilità: si riconosce quindi, anche in sede normativa, la
stretta interrelazione tra distribuzione delle attività sul territorio, traffico veicolare e inquinamento acustico.
Classi acustiche
Intervalli temporali
diurno (6.00-22.00)
notturno (22.00-6.00)
I aree particolarmente protette
50
40
II aree prevalentemente residenziali
55
45
III aree di tipo misto
60
50
IV aree di intensa attività umana
65
55
V aree prevalentemente industriali
70
60
VI aree esclusivamente industriali
70
70
Tab. 2 − Valori limite assoluti di immissione, Leq in dB(A)
Ciò comporta anche una transizione da un sistema di norme prevalentemente orientate alla riduzione delle
emissioni sonore attraverso interventi puntuali (impiego di materiali fonoassorbenti nelle pavimentazioni
stradali; introduzione di sistemi di protezione passiva dei singoli manufatti; impiego di barriere acustiche;
ecc.), ad un approccio volto a promuovere strategie d’area, attraverso interventi che, agendo
contemporaneamente e contestualmente sull’organizzazione delle attività e dei flussi di spostamento,
possano efficacemente contribuire al contenimento dei fenomeni di inquinamento acustico in ambito
urbano.
Tuttavia, l’integrazione risulta ancora affidata ad un generico coordinamento tra la zonizzazione acustica
stessa e le scelte effettuate per il territorio comunale dagli strumenti urbanistici e di governo della
mobilità.
Alla Legge 447/95 hanno fatto seguito numerosi decreti attuativi che ne hanno specificato i principi
generali, tra i quali il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 novembre 1997 relativo alla
“Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore”. Quest’ultimo fissa, in relazione alle sei classi
acustiche individuate in sede normativa:
 i valori limite di emissione delle singole sorgenti sonore, siano esse fisse o mobili (Tab. 1);
 i valori limite di immissione – che restano invariati rispetto a quelli fissati dal DPCM del 1991 – riferiti al
rumore immesso nell’ambiente esterno dall’in-sieme di tutte le sorgenti sonore (Tab. 2);
 i valori di qualità, inferiori di tre decibel rispetto ai valori limite assoluti di immissione;
 i valori di attenzione, espressi come livelli continui equivalenti di pressione sonora ponderata A, riferiti a
specifici intervalli temporali.
La Legge 447/1995 introduce inoltre, in caso di superamento dei valori di attenzione in una data area, i
Piani di Risanamento Acustico. Tali Piani, da adottarsi ad opera delle Amministrazioni Comunali che ne
devono garantire il coordinamento con il Piano Urbano del Traffico e con gli altri piani previsti dalle norme
in materia ambientale, sono finalizzati a:
 individuare tipologia ed entità dei rumori presenti, incluse le sorgenti mobili, nelle zone da risanare;
 individuare i soggetti cui compete l’intervento;
 indicare le priorità, le modalità e i tempi per il risanamento;
 stimare gli oneri finanziari e dei mezzi necessari;
 individuare eventuali misure cautelari a carattere d’urgenza per la tutela dell’ambiente e della salute
pubblica.
A dieci anni di distanza dall’emanazione della Legge Quadro, a seguito della Direttiva Europea 2002/49/CE
relativa alla determinazione e gestione del rumore ambientale, è stato approvato il Testo Coordinato del
Decreto Legislativo 194 del 2005. Quest’ultimo, al fine di prevenire o ridurre gli effetti nocivi
dell’esposizione al rumore ambientale, compreso il fastidio, definisce le competenze e le procedure per:
a.
l’elaborazione della mappatura acustica e delle mappe acustiche strategiche;
b.
l’elaborazione e l’adozione dei piani di azione (…) volti a evitare e a ridurre il rumore ambientale
laddove necessario, in particolare, quando i livelli di esposizione possono avere effetti nocivi per
la salute umana (…);
187
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
c.
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
assicurare l’informazione e la partecipazione del pubblico in merito al rumore ambientale e ai
relativi effetti (D.Lgs. 194/2005).
Le nuove norme, almeno per le grandi aree urbane, ovvero per gli agglomerati con popolazione superiore
ai 100.000 abitanti, configurano un vero e proprio processo finalizzato alla riduzione del rumore
ambientale, delineando compiti da
espletare entro precise scadenze temporali e richiedendo la periodica
revisione e l’aggiornamento delle scelte effettuate. In particolare, la nuova legge introduce:
 la mappatura acustica, ovvero «la rappresentazione di dati relativi a una situazione di rumore esistente o
prevista in una zona, relativa ad una determinata sorgente, in funzione di un descrittore acustico che
indichi il superamento di pertinenti valori limite vigenti, il numero di persone esposte in una determinata
area o il numero di abitazioni esposte a determinati valori di un descrittore acustico in una certa zona»;
 la mappa acustica strategica, ovvero «una mappa finalizzata alla determinazione dell’esposizione globale
al rumore in una certa zona a causa di varie sorgenti di rumore ovvero alla definizione di previsioni
generali per tale zona»;
 i piani di azione, intesi quali strumenti per «gestire i problemi di inquinamento acustico ed i relativi
effetti, compresa, se necessario, la sua riduzione».
Più specificamente, le mappe acustiche strategiche sono riferite all’intero agglomerato urbano e al rumore
complessivo presente in una data area, mentre la mappatura acustica  redatta ad opera delle società o
enti che gestiscono i servizi pubblici di trasporto e le relative infrastrutture  riguarda il rumore prodotto in
una data area da una specifica sorgente ed è specificamente riferita ai grandi assi stradali e ferroviari.
Entrambe devono descrivere la condizione acustica di un’area attraverso l’impiego di opportuni descrittori
acustici, individuare e quantificare sia i manufatti (edifici residenziali, scuole, ospedali, ecc.) che le persone
esposte al rumore ed essere assoggettate a revisione ed aggiornamento con cadenza quinquennale.
Infine, vengono introdotti i Piani di Azione, che recepiscono ed aggiornano i piani di contenimento e
abbattimento del rumore prodotto per lo svolgimento dei servizi pubblici di trasporto, i piani comunali di
risanamento acustico ed i piani regionali triennali di intervento per la bonifica dall’inquinamento acustico
adottati ai sensi della legge 447/1995. A tali strumenti è affidato il compito di delineare strategie di medio
e lungo periodo prevedendo sia interventi di pianificazione del territorio e dei trasporti, sia accorgimenti
tecnici sulle sorgenti o sulla propagazione del rumore sia, ancora, l’introduzione di misure di
regolamentazione o incentivazione economica.
L’Elaborato Tecnico RIR
La sicurezza degli insediamenti ai rischi connessi alla presenza di alcune tipologie di stabilimenti industriali
 i cosiddetti stabilimenti “Seveso”  costituisce un tema di grande rilevanza per la tutela dell’ambiente
urbano. È noto infatti che numerosi impianti produttivi che stoccano o trattano sostanze ad elevata
pericolosità sia per l’uomo che per l’ambiente naturale, sia pure originariamente sorti a distanza dai centri
abitati, sono stati successivamente inglobati dalla crescita urbana, trovandosi oggi molto spesso in contesti
ad elevata urbanizzazione. Tale questione costituisce solo da pochi anni oggetto di attenzione da parte
degli strumenti di pianificazione sia a scala territoriale che urbana: in Italia, infatti, è solo nel 2001 che
sono stati fissati in sede normativa i requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione urbanistica e
territoriale nelle zone interessate da stabilimenti individuati dalla normativa come impianti a Rischio di
Incidente Rilevante.
Tali requisiti sono stati introdotti dal DM 9 maggio 2001, in attuazione dell’art. 14 del Decreto Legislativo
334/99, relativo al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose.
Il DM del 2001 è finalizzato a regolamentare il processo di integrazione tra le scelte di pianificazione
territoriale e urbanistica e le norme relative agli stabilimenti “Seveso”, con particolare riferimento a:
 l’insediamento di nuovi impianti produttivi;
 le modifiche relative ad impianti esistenti;
 i nuovi insediamenti o infrastrutture attorno agli stabilimenti esistenti quali, ad esempio, vie di
comunicazione, luoghi frequentati dal pubblico, zone residenziali, qualora l’ubicazione, l’insediamento o
l’infrastruttura possano aggravare il rischio o le conseguenze di un incidente rilevante.
Per individuare le eventuali aree da sottoporre a specifica regolamentazione e di conseguenza i vincoli e le
prescrizioni per le scelte relative allo sviluppo urbano, il D.M. 9 maggio 2001 prevede che gli strumenti
urbanistici vengano integrati con un Elaborato Tecnico “Rischio di Incidenti Rilevanti (RIR)” (art. 4).
Quest’ultimo, che ai sensi della normativa vigente costituisce parte integrante del Piano Comunale, deve
contenere:
 le informazioni fornite dal gestore dell’impianto produttivo, relativamente alle tipologie di scenari
incidentali, alla loro probabilità di accadimento per ciascun impianto e alle aree di danno;
188
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana

l’individuazione e la rappresentazione su base cartografica tecnica e catastale aggiornate degli elementi
territoriali e ambientali vulnerabili;
 la rappresentazione su base cartografica tecnica e catastale aggiornate all’invi-luppo geometrico delle
aree di danno per ciascuna delle categorie di effetti (elevata letalità, inizio letalità, lesioni irreversibili,
lesioni reversibili) e, per i casi previsti, per ciascuna classe di probabilità;
 l’individuazione e la disciplina delle aree sottoposte a specifica regolamentazione risultanti dalla
sovrapposizione cartografica degli inviluppi e degli elementi territoriali e ambientali vulnerabili di cui
sopra;
 le eventuali ulteriori misure che possono essere adottate sul territorio, tra cui gli specifici criteri di
pianificazione territoriale, la creazione di infrastrutture e opere di protezione, la pianificazione della
viabilità, i criteri progettuali per opere specifiche nonché, ove necessario, gli elementi di correlazione con
gli strumenti di pianificazione dell’emergenza e di protezione civile.
Il Decreto fornisce indirizzi puntuali per la redazione dell’Elaborato Tecnico RIR. Più specificamente il testo
normativo, attraverso un Allegato, fornisce i criteri guida per verificare la compatibilità tra gli stabilimenti a
rischio di incidente rilevante e il tessuto urbano circostante o, meglio, per individuare le aree da sottoporre
a regolamentazione nel caso in cui tale compatibilità non sia verificata. La verifica di compatibilità, così
come delineata dall’Allegato al Decreto, si articola in tre fasi:
 identificazione degli elementi territoriali e ambientali vulnerabili;
 definizione del rischio associato ad un determinato impianto produttivo;
 valutazione della compatibilità territoriale ed ambientale.
CATEGORIA A
1.
Aree con destinazione prevalentemente residenziale, per le quali l’indice fondiario di edificazione
sia superiore a 4,5 m3/m2.
2.
Luoghi di concentrazione di persone con limitata capacità di mobilità - ad esempio ospedali, case di
cura, ospizi, asili, scuole inferiori, ecc. (oltre 25 posti letto o 100 persone presenti).
3.
Luoghi soggetti ad affollamento rilevante all’aperto - ad esempio mercati stabili o altre destinazioni
commerciali, ecc. (oltre 500 persone presenti).
CATEGORIA B
1.
Aree con destinazione prevalentemente residenziale, per le quali l’indice fondiario di edificazione
sia compreso tra 4,5 e 1,5 m3/m2.
2.
Luoghi di concentrazione di persone con limitata capacità di mobilità - ad esempio ospedali, case di
cura, ospizi, asili, scuole inferiori, ecc. (fino a 25 posti letto o 100 persone presenti).
3.
Luoghi soggetti ad affollamento rilevante all’aperto - ad esempio mercati stabili o altre destinazioni
commerciali, ecc. (fino a 500 persone presenti).
4.
Luoghi soggetti ad affollamento rilevante al chiuso, ad esempio centri commerciali, terziari e
direzionali, per servizi, strutture ricettive, scuole superiori, università, ecc. (oltre 500 persone
presenti).
5.
Luoghi soggetti ad affollamento rilevante con limitati periodi di esposizione al rischio - ad esempio
luoghi di pubblico spettacolo, destinati ad attività ricreative, sportive, culturali, religiose, ecc. (oltre
100 persone presenti se si tratta di luogo all’aperto, oltre 1000 al chiuso).
6.
Stazioni ferroviarie ed altri nodi di trasporto (movimento passeggeri superiore a 1000
persone/giorno).
CATEGORIA C
1.
Aree con destinazione prevalentemente residenziale, per le quali l’indice fondiario di edificazione
sia compreso tra 1,5 e 1 m3/m2.
2.
Luoghi soggetti ad affollamento rilevante al chiuso - ad esempio centri commerciali, terziari e
direzionali, per servizi, strutture ricettive, scuole superiori, università, ecc. (fino a 500 persone
presenti).
3.
Luoghi soggetti ad affollamento rilevante con limitati periodi di esposizione al rischio - ad esempio
luoghi di pubblico spettacolo, destinati ad attività ricreative, sportive, culturali, religiose, ecc. (fino
a 100 persone presenti se si tratta di luogo all’aperto, fino a 1000 al chiuso; di qualunque
dimensione se la frequentazione è al massimo settimanale).
189
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
4.
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
Stazioni ferroviarie ed altri nodi di trasporto (movimento passeggeri fino a 1000 persone/giorno).
CATEGORIA D
1.
Aree con destinazione prevalentemente residenziale, per le quali l’indice fondiario di edificazione
sia compreso tra 1 e 0,5 m3/m2.
2.
Luoghi soggetti ad affollamento rilevante, con frequentazione al massimo mensile, ad esempio
fiere, mercatini o altri eventi periodici, cimiteri, ecc..
CATEGORIA E
1.
Aree con destinazione prevalentemente residenziale, per le quali l’indice fondiario di edificazione
sia inferiore a 0,5 m3/m2.
2.
Insediamenti industriali, artigianali, agricoli, e zootecnici.
CATEGORIA F
1.
Area entro i confini dello stabilimento.
2.
Area limitrofa allo stabilimento, entro la quale non sono presenti manufatti o strutture in cui sia
prevista l’ordinaria presenza di gruppi di persone.
Tab. 3 − Categorie di elementi territoriali vulnerabili (DM 12 maggio 2001)
Per quanto riguarda il primo punto, l’Allegato include una tabella degli elementi territoriali considerati
vulnerabili e ne effettua una categorizzazione in ragione delle tipologie di elementi e di precisi parametri
quantitativi (Tab. 3).
In particolare, l’insieme degli elementi territoriali vulnerabili viene articolato in sei categorie (A, B, C, D, E,
F) a vulnerabilità decrescente. Inoltre, tra gli elementi territoriali vulnerabili vengono considerate anche le
infrastrutture di trasporto e tecnologiche, lineari e puntuali, per le quali, qualora rientrassero nelle aree di
danno individuate, dovrebbero essere predisposti idonei interventi di protezione e gestionali. Per tali
elementi non è prevista però alcuna categorizzazione.
Per quanto riguarda gli elementi ambientali, l’Allegato al DM 12 maggio 2001 distingue:
 beni paesaggistici e ambientali;
 aree naturali protette;
 risorse idriche superficiali e profonde;
 uso del suolo (aree coltivate di pregio, aree boscate).
La vulnerabilità di ciascun elemento va valutata, però, in relazione allo scenario incidentale cui si fa
riferimento (per esempio, si potrà ritenere trascurabile l’effetto prodotto da un’esplosione o da un incendio
nei confronti dell’acqua e del sottosuolo), al danno specifico che può essere arrecato all’elemento
ambientale, alla rilevanza sociale e ambientale della risorsa considerata e alla possibilità di mettere in atto
interventi di ripristino in seguito all’eventuale incidente.
In riferimento al secondo punto della verifica di compatibilità, ovvero la definizione del rischio associato ad
un determinato impianto produttivo, il Decreto fornisce i criteri per stimare le conseguenze degli incidenti
rilevanti e la probabilità di accadimento degli stessi. La stima delle conseguenze si basa sulla
determinazione delle distanze di danno, cioè delle distanze dal punto in cui si ipotizza il verificarsi
dell’incidente entro le quali il parametro associato (radiazione termica per gli incendi, dose assorbita per
rilascio tossico, ecc.) è superiore al livello di soglia corrispondente. L’Allegato al Decreto include una
tabella che definisce i valori di soglia ovvero, per ogni scenario incidentale (incendio, rilascio tossico,
esplosione), i valori al di sopra dei quali sono possibili danni a persone o strutture, suddividendo questi
ultimi in cinque classi: elevata letalità, inizio letalità, lesioni irreversibili, lesioni reversibili, danni alle
strutture/effetti domino.
L’individuazione delle aree di danno deve essere effettuata dal gestore dell’impianto, in considerazione
della specificità della propria situazione, valutando tali aree in funzione della tipologia di danno e dei valori
di soglia della tabella inclusa nell’Allegato al Decreto in esame.
Il gestore deve indicare inoltre, per ognuno degli scenari incidentali individuati, la probabilità di
accadimento, calcolata attraverso analisi di sicurezza che devono essere obbligatoriamente effettuate sugli
impianti.
Infine, la terza fase consiste nella valutazione della compatibilità territoriale e ambientale da parte delle
autorità competenti. Tale valutazione viene effettuata separatamente per gli elementi territoriali e per
quelli ambientali.
190
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
La compatibilità dell’impianto produttivo con i primi viene valutata attraverso una sovrapposizione tra gli
elementi territoriali presenti, categorizzati secondo la Tabella 3, e l’inviluppo delle aree di danno
individuate per ciascuno scenario incidentale. L’Allegato al Decreto include, dunque, due ulteriori tabelle
(Tabb. 4 e 5) che definiscono le categorie territoriali compatibili con gli stabilimenti per ogni classe di
probabilità degli eventi e nelle diverse aree di danno.
In particolare, la prima tabella definisce le categorie territoriali compatibili con gli stabilimenti per la
predisposizione degli strumenti di pianificazione urbanistica, mentre la seconda, più restrittiva, deve essere
utilizzata per il rilascio di concessioni o autorizzazioni edilizie in assenza di una Variante al Piano
Regolatore Generale che abbia già recepito le indicazioni del Decreto.
Le aree di danno corrispondenti alle categorie di effetti considerate individuano le distanze minime
misurate dal centro di pericolo interno allo stabilimento, entro le quali sono ammessi, per ogni classe di
probabilità degli eventi, le categorie di elementi territoriali vulnerabili riportati (A, B, C, D, E, F).
Ad integrazione dei criteri di compatibilità presentati in tabella, le autorità preposte alla pianificazione
territoriale ed urbanistica devono inoltre tener conto della presenza di elementi di particolare rilevanza
sotto il profilo sociale, economico, culturale e storico tra cui le reti tecnologiche, le infrastrutture di
trasporto, il patrimonio storico-architettonico.
In questi casi, se nelle aree di danno individuate dal gestore sono presenti elementi di questo tipo, si
introducono negli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica prescrizioni per la loro tutela.
Classe di
probabilità
degli eventi
Categorie di effetti
Elevata
letalità
Inizio
letalità
Lesioni
irreversibili
Lesioni
reversibili
 106
DEF
CDEF
BCDEF
ABCDEF
104106
EF
DEF
CDEF
BCDEF
F
EF
DEF
CDEF
F
F
EF
DEF
10 10
3
10
4
3
Tab. 4 − Categorie territoriali compatibili con gli stabilimenti
Classe di
probabilità
degli eventi
Categorie di effetti
 106
Elevata
letalità
Inizio
letalità
Lesioni
irreversibili
Lesioni
reversibili
EF
DEF
CDEF
BCDEF
10 10
6
F
EF
DEF
CDEF
10 10
4
F
F
EF
DEF
F
F
F
EF
4
3
103
Tab. 4 − Categorie territoriali compatibili con gli stabilimenti
(per il rilascio di concessioni e autorizzazioni in assenza di variante urbanistica)
Le autorità competenti dovranno inoltre effettuare una valutazione di compatibilità tra stabilimenti ed
elementi ambientali, prendendo in considerazione la specifica situazione del contesto ambientale.
Al fine di effettuare tale valutazione di compatibilità, devono essere esaminati anche i fattori che, nell’area
considerata, possono provocare scenari incidentali, come la sismicità o il rischio idrogeologico.
La valutazione di compatibilità ambientale viene effettuata definendo una categoria di danno ambientale
sulla base dei possibili rilasci incidentali di sostanze pericolose. Questa operazione avviene, per gli elementi
ambientali vulnerabili definiti in precedenza, a seguito di valutazioni effettuate dal gestore sulle quantità e
sulle caratteristiche delle sostanze, nonché sulle specifiche misure tecniche di mitigazione degli impatti
ambientali provocati dallo scenario incidentale.
Le categorie di danno ambientale proposte dall’Allegato sono così definite:
 danno significativo, ovvero il danno per il quale le operazioni di bonifica e ripristino ambientale dei siti
inquinati possono essere portate a termine nell’arco di due anni dall’inizio dell’intervento;
 danno grave, ovvero il danno per il quale le operazioni suddette possono essere portate a termine in un
periodo superiore a due anni.
Nell’ipotesi di danno grave la presenza di stabilimenti risulta incompatibile con gli elementi ambientali
vulnerabili. In questo caso il gestore è tenuto ad adottare misure tecniche complementari atte a ridurre il
rischio di danno ambientale e a trasmetterle all’Autorità competente che ha il compito di esaminarle
(art.14, D.M. 334/99). Nel caso invece di danno significativo devono essere introdotte nello strumento
urbanistico prescrizioni edilizie e urbanistiche ovvero misure di prevenzione e di mitigazione con interventi
191
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
di tipo territoriale, infrastrutturale e gestionale per la protezione dell’ambiente circostante e finalizzate alla
riduzione della categoria di danno.
In sintesi, rimandando ad un più approfondito esame della letteratura di settore (Colletta, Manzo,
Spaziante 2002; Colletta, Manzo 2008) e della normativa vigente per gli aspetti non trattati in questo
paragrafo, si intende sottolineare in questa sede la rilevanza del Decreto 2001 che, per la prima volta, ha
reso obbligatoria una valutazione del rischio di incidente rilevante nell’ambito della redazione dei Piani
urbanistici comunali.
I Piani Energetici Comunali
La riduzione dei consumi energetici e l’incentivazione di fonti energetiche rinnovabili costituisce un altro
tassello rilevante per il perseguimento di obiettivi di miglioramento della qualità ambientale e, più in
generale, per il perseguimento di obiettivi di sostenibilità dello sviluppo.
I consumi energetici e il prevalente ricorso a fonti energetiche tradizionali, basate cioè prevalentemente
sull’impiego di combustibili fossili, alimentano infatti non poche preoccupazioni sia sul peggioramento della
qualità dell’aria sia sulla possibile incidenza sui fenomeni di cambiamento climatico in atto (Fig. 1).
Fig. 1 − Emissioni nazionali complessive di gas serra. Anni 1990-2013 (ISPRA 2015)
È inoltre da rilevare che è proprio nelle città, in particolare nelle grandi agglomerazioni urbane, che i
consumi di energia raggiungono picchi elevatissimi.
D’altro canto, le città si sono sviluppate sulla base di un presupposto che si è poi rivelato del tutto illusorio:
l’illimitata disponibilità delle risorse e, in particolare, delle risorse energetiche.
Per meglio comprendere le relazioni tra caratteristiche dei sistemi urbani e domanda energetica, sembra
utile sottolineare, ad esempio, che l’elevata dispersione urbana che caratterizza molte aree periferiche
delle grandi città, comporta un’elevatissima domanda di mobilità e, conseguentemente, specie se tale
domanda viene soddisfatta attraverso l’uso prevalente dell’auto privata, incrementa in misura significativa
il consumo energetico. Ancora, le caratteristiche costruttive (materiali, orientamento, ecc.) del patrimonio
edilizio, ad esempio, la maggiore o minore densità abitativa, la presenza di spazi verdi interni al contesto
urbano incidono in misura significativa sul microclima urbano e, conseguentemente, sulla domanda
energetica connessa alle esigenze di riscaldamento/raffrescamento degli ambienti interni.
A fronte della crescente attenzione ai temi della sostenibilità dello sviluppo, di cui le questioni energetiche
costituiscono un tassello di rilevanza strategica, già nel 1991 è stato introdotto in Italia l’obbligo di
redigere Piani Energetici sia a scala regionale che a scala comunale (Legge 10/91, art. 5).
I Piani Energetico-Ambientali Regionali, sono stati concepiti quali strumenti di programmazione degli
interventi regionali in campo energetico, di coordinamento delle decisioni rilevanti assunte a scala
regionale o locale (piani per lo smaltimento dei rifiuti, piani dei trasporti, piani di sviluppo territoriale, piani
di bacino, ecc.) e di indirizzo per l’azione degli Enti Locali.
Lo stretto legame, presente già nella denominazione di tali strumenti, tra pianificazione energetica ed
ambientale è frutto dei rilevanti effetti, diretti e indiretti, che produzione, trasformazione, trasporto e
consumo delle diverse fonti energetiche tradizionali hanno sulla qualità dell’ambiente.
Ancora con la Legge 10/91 sono stati introdotti i Piani Energetici Comunali (PEC) quale strumento da
predisporre obbligatoriamente, all’interno del Piano Regolatore Generale, per i Comuni con popolazione
superiore ai 50.000 abitanti. Si tratta, in sostanza, di un obbligo che coinvolge 136 Comuni, anche se da
192
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
indagini al 2004 risultava che solo 35 (meno del 30% del totale) avevano predisposto tale Piano (ENEAAPAT 2004).
Compito prioritario dei PEC è quello di promuovere e sostenere l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e,
nel contempo, favorire un uso più razionale dell’energia nei diversi settori. Punto di partenza
dell’elaborazione dei PEC è la redazione di un bilancio energetico comunale, in grado di evidenziare, anche
in chiave diacronica, i seguenti aspetti:
 la domanda attuale di energia in relazione ai diversi settori di utilizzazione e consumo;
 l’offerta attuale in termini di struttura di approvvigionamento energetico, caratteristiche della rete di
distribuzione, efficienza di trasformazione degli impianti che operano sul territorio, ecc.;
 gli effetti ambientali associati alla produzione, alla distribuzione e all’uso delle diverse fonti energetiche
(emissioni inquinanti, emissioni di CO2, ecc.).
Obiettivo finale di tale bilancio è supportare la predisposizione di scenari futuri in grado di ridurre la
domanda attuale, massimizzare in termini di efficienza ed efficacia l’offerta attuale e minimizzare, nel
contempo, gli effetti ambientali negativi, anche mediante il ricorso a fonti energetiche alternative.
I Piani di Azione per l’Energia Sostenibile
Nella lotta contro i cambiamenti climatici l’Unione Europea si è impegnata a ridurre entro il 2020 le proprie
emissioni totali di almeno il 20% rispetto al 1990. Le autorità locali hanno un ruolo di primo piano nel
raggiungimento degli obiettivi climatici ed energetici fissati dall’UE. Per raggiungere e superare questi livelli
è nato il Patto dei Sindaci, una iniziativa in base alla quale Paesi, città e regioni si impegnano su base
volontaria a ridurre le proprie emissioni di CO2 oltre l’obiettivo del 20%.
Questo impegno formale deve essere perseguito attuando i Piani di Azione per l’Energia Sostenibile
(PAES). La struttura del Piano è formata da due documenti:
 l’Inventario di Base delle Emissioni (IBE);
 Il Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile (PAES).
Il Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile (PAES) è un documento che indica come i firmatari del Patto
svilupperanno gli obiettivi che si sono prefissati per il 2020. Sulla base dei dati dell’Inventario di Base delle
Emissioni, il documento identifica i settori di intervento più idonei e le opportunità più appropriate per
raggiungere l’obiettivo di riduzione di CO2.
Inoltre esso definisce le misure concrete di riduzione, insieme ai tempi e alle responsabilità, in modo da
tradurre la strategia di lungo termine in azioni realizzabili.
Gli enti firmatari del Patto dei Sindaci si impegnano a consegnare il proprio PAES entro un anno
dall’adesione.
Da sottolineare che il PAES non è un documento rigido e vincolante, per cui il mutare delle circostanze e
l’evoluzione dei risultati possono rendere utile o necessario una revisione del piano. Inoltre, ogni nuovo
progetto di sviluppo approvato dall’autorità locale rappresenta un’opportunità per ridurre il livello di
emissioni. È quindi importante valutare l’efficienza energetica e la riduzione delle emissioni per tutti i nuovi
progetti, anche in caso il PAES non sia stato ancora finalizzato o approvato.
L’orizzonte temporale del Patto dei Sindaci è il 2020. Di conseguenza il PAES deve indicare le azioni
strategiche che l’autorità locale intende intraprendere per raggiungere gli obiettivi previsti per il 2020. Ciò
non esclude che esso possa estendersi ad un periodo più lungo. In questo caso deve comunque contenere
gli obiettivi intermedi per il 2020.
L’autorità locale può distinguere tra:
 una visione di lungo periodo con obiettivi sino al 2020, che comprenda un impegno formale in aree
come pianificazione territoriale, trasporti e mobilità, appalti pubblici, standard per edifici nuovi o
ristrutturati, ecc.;
 misure dettagliate per periodi limitati (3-5 anni) che traducono strategie e obiettivi a lungo termine in
azioni temporalmente limitate.
Sia la visione a lungo termine, sia le misure dettagliate devono essere parte integrante del PAES.
L’attuazione del PAES è la fase che richiede più tempo, sforzi e mezzi finanziari. Per questa ragione la
mobilitazione delle parti interessate e dei cittadini è fondamentale.
Il PAES ha bisogno di essere gestito da un’organizzazione. Durante la fase di attuazione, è essenziale
garantire una buona comunicazione interna così come una buona comunicazione esterna (cittadini e
stakeholder).
Il monitoraggio dei progressi ottenuti, il risparmio energetico e la riduzione delle emissioni di CO2 sono
parte integrante dell’attuazione del PAES. A questo scopo si utilizzano appositi indicatori di valutazione.
193
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
L’Inventario di Base delle Emissioni (IBE) quantifica la CO2 emessa nel territorio di riferimento nell’anno di
riferimento. Esso permette di identificare le principali fonti antropiche di emissioni di CO2 e di assegnare le
opportune priorità alle misure di riduzione.
L’autorità locale può includere anche le emissioni di CH4 e N2O all’interno dell’IBE. La loro eventuale
inclusione dipende dal fatto che siano previste delle misure per ridurre tali gas serra nel PAES e
dall’approccio scelto per la determinazione del fattore di emissione (standard o valutazione del ciclo di vita,
LCA).
L’elaborazione dell’IBE è di importanza cruciale poiché l’inventario sarà lo strumento che consentirà alle
autorità locali di misurare l’impatto dei propri interventi relativi al cambiamento climatico. L’IBE mostrerà la
situazione di partenza e i successivi inventari di monitoraggio rendendo esplicito il progresso rispetto
all’obiettivo.
L’elaborazione dei bilanci deriva dalla determinazione dei fattori di emissione, ossia dei coefficienti che
quantificano le emissioni per unità di attività. Le emissioni sono stimate moltiplicando il fattore di
emissione per i corrispondenti dati di attività. I fattori di emissione possono essere calcolati in due modi.
I fattori di emissione «Standard» (IPCC) comprendono tutte le emissioni di CO2 derivanti dall’energia
consumata nel territorio comunale, sia direttamente (combustione di carburanti nel territorio comunale),
che indirettamente, (combustione di carburanti associata all’uso dell’elettricità e di calore/freddo nel
territorio comunale). I fattori di emissione standard si basano sul contenuto di carbonio di ciascun
combustibile, come avviene per gli inventari nazionali dei gas a effetto serra redatti nell’ambito della
Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e del Protocollo di Kyoto.
Secondo questo approccio il gas a effetto serra più importante è la CO2, mentre le emissioni di CH4 e N2O
non vengono considerate. Inoltre, le emissioni di CO2 derivanti dall’uso sostenibile della biomassa e dei
biocombustibili, così come le emissioni derivanti da elettricità verde certificata, sono considerate pari a
zero. I fattori di emissione standard forniti in queste linee guida si basano sulle linee guida IPCC del 2006.
L’autorità locale può comunque decidere di utilizzare anche altri fattori di emissione in linea con le
definizioni IPCC.
I fattori di emissione «LCA», ossia mediante Valutazione del Ciclo di Vita, prendono in considerazione
l’intero ciclo di vita del vettore energetico. Tale approccio tiene conto non solo delle emissioni derivate
dalla combustione finale, ma anche di tutte quelle emissioni che si originano all’interno della catena di
approvvigionamento dei carburanti, come quelle dovute allo sfruttamento, al trasporto, ai processi di
raffinazione. Ne calcolo sono incluse anche emissioni che si verificano al di fuori del territorio in cui il
combustibile è utilizzato.
Nell’ambito di questo approccio sono considerate le emissioni di gas a effetto serra derivanti dall’uso di
biomasse/biocombustibili, così come le emissioni connesse all’uso di elettricità verde certificata. In questo
caso possono svolgere un ruolo importante altri GHG diversi dalla CO2. In questo caso le emissioni
possono esprimersi come emissioni CO2 equivalenti.
L’approccio LCA è un metodo standardizzato a livello internazionale (serie ISO 14040). Esso è la base
tecnico-scientifica usata nell’ambito delle Strategie tematiche sulle risorse naturali e sui rifiuti, della
direttiva sulla progettazione ecocompatibile e del Regolamento sul marchio di qualità ecologica.
15.2.
I piani comunali per il governo della mobilità
I piani comunali per il governo della mobilità hanno come principale obiettivo l’ampliamento delle
opportunità di spostamento delle persone, ma si differenziano dai piani sovracomunali per il governo della
mobilità (confronta par. 13.2) per le dimensioni dell’area sulla quale essi agiscono.
Gli strumenti descritti in questo paragrafo si possono suddividere in piani per la programmazione degli
investimenti infrastrutturali (come il PUMS, il PUP, ecc) ed in piani per l’organizzazione dei servizi di
trasporto (PUT, ecc).
Mentre i primi programmano gli investimenti infrastrutturali da realizzare in un periodo temporale
predefinito, indicando le risorse necessarie, i secondi intervengono sull’organizzazione e la gestione dei
servizi di trasporto esistenti. Una articolazione degli strumenti per il governo della mobilità a scala
comunale come proposta dalla Regione Campania è schematizzata in Tabella 6.
Come evidenziato in tabella, i principali piani a livello comunale sono il Piano Urbano della Mobilità PUM e il
Piano Urbano del Traffico PUT, di cui si fornisce un approfondimento nei sottoparagrafi che seguono. Altri
piani per il governo della mobilità a scala comunale sono i “Piani di Settore” a scala comunale, e sono
strumenti integrativi al piano urbano della mobilità. I piani di Settore contengono, in conformità alle linee
strategiche contenute nei PUM, gli interventi relativi ad una determinata tematica, ovvero al trasporto
pubblico e privato, di persone e di merci, su strada, su ferro, via mare sul territorio comunale.
194
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
Pianificazione
degli investimenti
Pianificazione dei servizi
per la mobilità
Piani generali dei
trasporti
Piani di settore
Piani per la gestione del
Traffico stradale individuale
Piani per la gestione dei
servizi di Trasporto
pubblico
PUMS
Piano Urbano
della Mobilità Sostenibile
Piani Settoriali
Comunali
ad es. PUP, Programma
Urbano Parcheggi
PUT
Piano Urbano del
Traffico
Programmazione triennale
dei servizi minimi
Tab. 5 − Strumenti per il governo dei sistemi di trasporto a scala comunale
(L.R. della Regione Campania n. 3 del 2002 e successive modifiche)
Sono ad esempio piani di settore a livello comunale il Programma Urbano Parcheggi, il Piano della Rete
Viaria, ecc. In particolare il Programma Urbano dei Parcheggi (PUP), istituito dalla legge n. 122 del 24
marzo 19892, indica le localizzazioni, i dimensionamenti, le priorità di intervento ed i tempi di attuazione
delle aree per la sosta. Il PUP deve privilegiare le realizzazioni volte a favorire il decongestionamento dei
centri urbani mediante la creazione di parcheggi finalizzati all’interscambio con sistemi di trasporto
collettivo, nonché le disposizioni necessarie per la regolamentazione della circolazione e dello
stazionamento dei veicoli nelle aree urbane.
Il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile
Il Piano Urbano della Mobilità (PUM) è stato introdotto dalla Legge 24 novembre 2000 n. 340 ed è uno
strumento di programmazione di medio-lungo periodo, con un orizzonte temporale di dieci anni. Con
decreto del 4 agosto 2017 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit), pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 233 del 5 ottobre 2017, ha definito le linee guida per la redazione dei Piano Urbano della
Mobilità Sostenibile (PUMS).
Il PUMS viene definito come un progetto “del sistema della mobilità comprendente l’insieme organico degli
interventi sulle infrastrutture di trasporto pubblico e stradali, sui parcheggi di interscambio, sulle
tecnologie, sul parco veicoli, sul governo della domanda di trasporto attraverso la struttura dei mobility
manager, i sistemi di controllo e regolazione del traffico, l’informazione all’utenza, la logistica e le
tecnologie destinate alla organizzazione della distribuzione delle merci” (art. 22, comma 1, Leg. 24/200).
Con l’aggiornamento introdotto nel 2017 è stato introdotto un nuovo approccio alla pianificazione
strategica della mobilità urbana che recepisce le “Guidelines. Developing and Implementing a Sustainable
Urban Mobility Plan (Linee Guida Eltis)”, approvato nel 2014 dalla Direzione generale per la mobilità e i
trasporti della Commissione europea. Le Linee Guida Eltis, definiscono quale finalità principale di un PUMS
quella di creare un sistema urbano dei trasporti che persegua almeno i seguenti obiettivi:
 garantire a tutti i cittadini soluzioni di trasporto che permettano loro di accedere alle destinazioni e ai
servizi chiave;
 migliorare le condizioni di sicurezza;
 ridurre l’inquinamento atmosferico e acustico, le emissioni di gas serra e i consumi energetici;
 migliorare l’efficienza e l’economicità dei trasporti di persone e merci;
 contribuire a migliorare l’attrattività del territorio e la qualità dell’ambiente urbano e della città in
generale a beneficio dei cittadini, dell’economia e della società nel suo insieme.
Inoltre, il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile (PUMS) è uno strumento di programmazione sulla base
del quale lo Stato assegna finanziamenti per obiettivi, da raggiungere mediante programmi integrati di
realizzazione di infrastrutture di trasporto pubblico, parcheggi, viabilità e applicazione di tecnologie
innovative. Infatti con i PUMS gli enti locali possono richiedere finanziamenti allo Stato per interventi atti a
conseguire gli obiettivi di miglioramento delle condizioni di mobilità.
I soggetti beneficiari possono essere le città metropolitane, gli enti di area vasta, i comuni e le
associazioni di comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti. Per accedere ai finanziamenti −
ottenuto il parere favorevole dalla Regione − le richieste possono essere attivate in a cadenza annuale. La
Regione Campania, con la Legge Regionale 3/2002 ha approvato la Riforma del Trasporto Pubblico Locale
e dei Sistemi di Mobilità che definisce all’articolo 14, il PUMS come un piano generale dei trasporti dei
2
“Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate, nonché
modificazioni di alcune norme del testo unico sulla disciplina della circolazione stradale, approvato con Decreto del
Presidente della Repubblica 15 giugno 1959, n. 393”.
195
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
Comuni o dei Comuni Associati. Secondo tale legge il PUMS deve contenere le linee strategiche per la
configurazione del sistema di trasporti e le scelte generali per il riassetto organizzativo ed economico del
settore a scala comunale. Il piano, che i comuni devono adottare ogni 5 anni, deve essere coordinato con
gli altri strumenti di pianificazione e programmazione territoriale e dei trasporti di lungo periodo alla scala
territoriale comunale, provinciale e regionale.
Fig. 2 – PUM: gli interventi infrastrutturali sul sistema di trasporto su ferro (Fonte: comune di Milano)
Il Piano Urbano del Traffico
Lo strumento principale per l’organizzazione e la gestione della mobilità in ambito urbano è il Piano Urbano
del Traffico PUT. Questo strumento viene definito3 come uno strumento tecnico amministrativo di breve
periodo (due anni) finalizzato a migliorare le condizioni della circolazione e della sicurezza stradale, la
riduzione dell’inquinamento acustico ed atmosferico, il contenimento dei consumi energetici, stabilendo le
priorità ed i tempi di attuazione degli interventi. Sono tenuti a redigere il PUT tutti i comuni con
popolazione superiore ai 30.000 abitanti, più altri comuni che presentano particolare affluenza turistica,
elevati fenomeni di pendolarismo o alti livelli di congestione sono obbligati ad adottare questo strumento.
Il PUT definisce gli interventi realizzabili nel breve periodo e nell’ipotesi di dotazioni di infrastrutture
sostanzialmente invariate. Si tratta quindi di uno strumento che, non prevedendo nuovi interventi
infrastrutturali, non richiede ingenti risorse economiche e può essere attuato in un arco temporale breve
(2-3 anni). Il PUT, per sua definizione limita il proprio campo d’azione alle soluzioni possibili con le
infrastrutture viarie e di mezzi di trasporto esistenti e che perciò hanno un tempo di attuazione limitato.
Per i nodi maggiormente critici, la cui soluzione definitiva non è possibile con le infrastrutture esistenti, il
PUT si limita a proporre l’intervento infrastrutturale necessario demandando la sua definizione ed
attuazione al PUC e ad altri strumenti di pianificazione dei trasporti (PUMS).
È importante evidenziare che i PUM non si pongono in contrapposizione né in sovrapposizione con i PUT.
Si tratta di due strumenti di pianificazione che si integrano tra di loro, avendo i medesimi obiettivi finali,
anche se con archi temporali e tipologie di interventi di attuazione diversi. In sintesi si tratta di un
processo costituito da due livelli di pianificazione distinti ma integrati tra di loro che richiedono una
medesima cabina di regia.
3
I riferimenti normativi relativi al PUT sono il D.Lgs. 30 aprile 1992, n.285. l’art. 36 del Codice della
Strada Decreto legislativo 30 aprile 1992, n.285 e le Direttive del Ministero dei Lavori Pubblici per la
redazione, adozione ed attuazione dei Piani Urbani del Traffico, del 24 giugno 1995.
196
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana
Verso una pianificazione integrata trasporti-territorio
Il sistema urbano ed il sistema di trasporto possono essere considerati come un unico sistema integrato, i
cui elementi sono in stretta relazione reciproca. Una variazione degli elementi dei sistema di trasporto
provoca una variazione sul sistema urbano e viceversa.
Naturalmente la tipologia di impatti e l’intensità degli stessi varia in base all’arco temporale di riferimento.
Nel breve periodo una variazione delle caratteristiche dell’offerta e della domanda di trasporto provoca
piccoli cambiamenti sul sistema urbano. Ma nel lungo periodo la costruzione di una nuova infrastruttura ed
un incremento o decremento di accessibilità può provocare consistenti trasformazioni del sistema urbano
(variazione di localizzazione degli addetti e dei residenti, variazione dei valori immobiliari, ecc.).
Nella fase di pianificazione degli investimenti e dei servizi del sistema di trasporto è quindi fondamentale
tenere in conto gli impatti che una nuova infrastruttura può avere sul sistema territoriale in cui si inserisce.
D’altro canto gli strumenti per il governo delle trasformazioni territoriali devono tenere in conto le
specifiche dei piani per la mobilità.
Fig. 3 – PUT del Comune di Napoli. La classificazione funzionale degli assi viari
Nonostante l’evidente interrelazione tra il sistema di trasporto e l’evoluzione del sistema urbano, nella
pratica la pianificazione dei trasporti e la pianificazione urbanistica seguono spesso due strade distinte.
Nelle prassi, per la pianificazione dei trasporti, l’assetto del territorio esistente e futuro rappresenta un
input per la programmazione dell’offerta di trasporto, intesa come standard da assicurare alla distribuzione
delle attività (Hanson 1999). La pianificazione urbanistica, d’altro canto spesso accetta passivamente il
progetto del sistema di trasporto come vincolo esterno dal piano e non come elemento fondante da
coordinare con la distribuzione futura dell’uso del suolo.
Inoltre la programmazione infrastrutturale e le politiche urbane fanno spesso riferimento a soggetti
istituzionali differenti (assessorati alla mobilità e assessorati all’urbanistica) che spesso non portano avanti
azioni coordinate. Il successo di alcune pratiche è in generale riconducibile alla iniziativa personale,
piuttosto che alla presenza di un insieme di strumenti, regole e procedure che assicurino la integrazione
tra i processi di pianificazione urbana e della mobilità.
In sintesi, sebbene venga riconosciuto il ruolo strategico che la pianificazione dei trasporti ha per il
raggiungimento di obiettivi di qualità ambientale, di equità spaziale e di “efficienza” del territorio (de Luca
2000), nella pratica sembra ancora difficile mettere in atto una vera integrazione tra le politiche di governo
del territorio e investimenti per la pianificazione e gestione dei sistemi di trasporto.
Già a partire dalle linee Guida del Piano Generale della Mobilità del 2007, emerge un cambiamento di
tendenza. Viene infatti evidenziato come «la pianificazione della mobilità e dei trasporti e la definizione per
gli interventi infrastrutturali deve essere effettuata in stretta connessione con le scelte per la
trasformazione del territorio nelle sue diverse componenti: insediativa, ambientale, paesaggistica». Nello
stesso documento viene sottolineato come gli obiettivi alla base della redazione degli strumenti per il
governo della mobilità devono essere innanzitutto quelli di:
197
ADRIANA GALDERISI – ENRICA PAPA
CAPITOLO 15. I piani settoriali a scala urbana

frenare la dispersione urbana e consolidare la rete del trasporto pubblico; come struttura urbanistica
primaria;
 ridurre l’uso del trasporto privato e incentivare quello pubblico;
 ridurre inquinamento, congestione e incidentalità;
 migliorare l’accessibilità alle funzioni urbane primarie per creare efficienza nell’uso della città;
 modificare le politiche urbane in una più moderna visione urbanistica integrata considerando le differenti
condizioni territoriali: dalle aree urbane di piccole dimensioni alle grandi realtà metropolitane, dai bacini
omogenei a quelli più complessi e disarticolati sino ai distretti industriali regionali ed interregionali.
Sebbene si faccia riferimento a principi di integrazione tra gli strumenti per il governo della mobilità ed il
governo delle trasformazioni territoriali, risulta fondamentale fare ancora dei passi avanti al fine di definire
approcci, metodi e strumenti rivolti ad una forma più collaborativa e di coordinazione tra le strategie
urbanistiche e quelle trasportistiche.
Questa forma di coordinamento deve essere finalizzata al raggiungimento di un equilibrio tra le politiche
urbanistiche come input per la programmazione dei sistemi di trasporto, mantenendo salda l’ipotesi che il
sistema di trasporto è un determinante per l’evoluzione del sistema territoriale.
Bibliografia
Colletta P., Manzo R., Spaziante A. (2002), Pianificazione del territorio e rischio tecnologico. Il DM 9
maggio 2001, CELID, Torino.
Colletta P., Manzo R. (2008), Governo del territorio e rischio tecnologico. DM 9 maggio 2001. Esperienze di
pianificazione e prospettive future, CELID, Torino.
de Luca M. (2000), Manuale di pianificazione dei Trasporti, FrancoAngeli, Milano.
Galderisi A., Gargiulo C. (cur.) (2001), “Un approccio integrato al governo delle trasformazioni urbane:
l’esperienza del Piano di Zonizzazione Acustica di Napoli”, Urbanistica DOSSIER, marzo-aprile.
Hanson S. (cur.) (1999), The Geography of Urban Transportation, Guilford Press, New York.
ISPRA (2015), Annuario dei dati ambientali, 59/2015, ISPRA, Roma.
Bibliografia
Questo capitolo è stato aggiornato nel novembre 2019 da Gerardo Carpentieri.
198
16. I PIANI URBANISTICI ATTUATIVI (PUA)
Rosa Anna La Rocca
Il contenuto di questo capitolo è finalizzato alla costruzione di un quadro conoscitivo relativo alla
pianificazione attuativa in Italia.
A tale scopo nella prima parte si propone una lettura attraverso le fasi temporali che hanno caratterizzato
la produzione degli strumenti urbanistici attuativi in Italia a partire dalla Legge Urbanistica Nazionale del
1942. La lettura che si propone, seppure in maniera sintetica, è indicativa di un mutamento negli approcci
e nei contenuti degli strumenti operativi della pianificazione attuativa.
Nel percorso evolutivo descritto si possono individuare due fasi principali. Una prima fase, nella quale la
produzione dei piani urbanistici è strettamente connessa alla esigenza di dare attuazione alle indicazioni
del piano comunale. Una seconda fase nella quale si modifica il rapporto con il piano comunale generale e
si manifesta l’esigenza di trasformare aree urbane già esistenti attraverso strumenti operativi orientati alla
riqualificazione fisica, sociale ed ambientale privilegiando nell’intervento le aree urbane degradate e
periferiche. In questo passaggio, muta sostanzialmente anche la relazione tra gli attori pubblici e gli
operatori privati, secondo una visione che privilegia l’integrazione tra le parti, non solo per esigenze di
carattere economico.
In riferimento a tali fasi, il capitolo si conclude con la descrizione tecnica dei singoli strumenti,
“tradizionali” e “innovativi”, della pianificazione attuativa.
16.1.
La pianificazione attuativa: una lettura diacronica
La pianificazione urbanistica in Italia ha come principale riferimento la Legge Urbanistica Nazionale (LUN)
n. 1150 del 1942 con le sue successive modificazioni. Concepita a metà degli anni Trenta, tale legge viene
elaborata e definitivamente approvata in pieno periodo bellico (1942). L’impianto della legge rispecchia la
scarsa flessibilità della politica fascista introducendo una visione gerarchica, dal governo centrale a quello
locale. Per molti versi, contiene indicazioni innovative soprattutto in riferimento alla concezione
dell’urbanistica come materia di “governo del territorio”. L’impostazione gerarchica della legge, in
particolare, si ritrova nella disposizione “a cascata” (dal più grande al più piccolo) degli strumenti urbanistici
previsti. Procedendo, cioè, per livelli, la legge stabilisce che la disciplina urbanistica si attui per mezzo di piani
regolatori territoriali, di piani regolatori comunali e di norme sull’attività costruttiva edilizia (art. 4).
Le previsioni del piano regolatore generale sono attuate per mezzo di piani particolareggiati di esecuzione
(art. 13). I piani particolareggiati, dunque, sono il solo strumento di attuazione del piano regolatore e devono
contenere indicazioni tecniche di dettaglio relative all’intervento da realizzare.
A differenza delle precedenti leggi1, la LUN sottopone a pianificazione l’intero territorio comunale (art. 7) da
suddividere in aree funzionali differenti in ragione delle loro destinazioni d’uso. La regolazione delle
modifiche relative all’attività costruttiva edilizia, invece, viene demandata alla formulazione di un’apposita
richiesta al sindaco da parte di chiunque intenda intervenire nell’ambito del territorio comunale (art. 31licenza di costruzione).
La proposta della legge fa riferimento all’idea di coordinare l’azione pianificatoria sia sul territorio comunale
che sul territorio nazionale. Attraverso una gerarchia di piani, cioè, si procede all’attuazione di un disegno
stabilito nello strumento urbanistico generale.
Nella ripartizione delle competenze tra Stato e Comuni viene riprodotta la stessa impostazione gerarchica
che caratterizza tutta l’impronta della LUN. L’applicazione della legge, però, viene rimandata sulla base di
esigenze ritenute prioritarie e, per diversi anni, si è continuato ad operare sul territorio in maniera
disorganica. Con il pretesto che non fosse rispondente alle urgenze sollevate dall’evento bellico (ricostruzione,
salubrità, espansione, ecc.) si è preferita la strada del “non-controllo” orientato allo sfruttamento del territorio
e alla speculazione fondiaria, lasciando inattuato, per lungo tempo, il dettato della legge.
1
Si fa riferimento alla Legge 20 marzo 1865 n. 2248 che rappresenta il primo provvedimento normativo dello Stato unitario
in materia urbanistico-edilizia e alla successiva Legge n. 2359 del 25 giugno 1865 sulle espropriazioni, che introduceva
una distinzione tra piano di ricostruzione e piani di ampliamento da applicarsi esclusivamente nei centri abitati (Fiale,
2007).
199
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
La tendenza che si afferma nel periodo successivo alla guerra predilige la ricostruzione edilizia a quella
urbanistica, nonostante si manifesti l’esigenza di affidare la ricostruzione del paese a strumenti urbanistici,
seppure una ristretta classe intellettuale2.
In questo periodo, per rispondere all’emergenza di ricostruire in tempi rapidi gli abitati particolarmente
danneggiati dalla guerra, tra gli strumenti tecnico giuridici, si introducono i piani di ricostruzione3. Con
valore di piani particolareggiati esecutivi, questi piani avrebbero dovuto avere una validità quinquennale.
In realtà, la loro efficacia è stata prolungata fino agli anni Settanta e, di fatto, per il loro carattere di
eccezionalità, hanno accresciuto lo sviluppo incontrollato delle aree urbane soprattutto periferiche.
L’istituzione di una legge successiva, che introduce le misure di salvaguardia4, tenta di marginare, per
quanto possibile, la tendenza all’uso incontrollato del territorio. Fissando le regole relative al periodo
intercorrente tra l’adozione e l’approvazione del piano regolatore generale, questa legge si pone l’obiettivo
di operare un controllo sul rilascio delle licenze edilizie5.
In questo periodo, si verifica il cosiddetto “boom economico” che, sebbene sia stato espressione di
sviluppo, ha avuto forti ripercussioni sul territorio e ha contribuito alla crescita della città, ma in mancanza
di regole e di un ordine che potesse, almeno in parte, indirizzarne la trasformazione.
Alla crescente domanda abitativa concentratasi nelle città per effetto dello sviluppo industriale si tenta di
dare risposta solo agli inizi degli anni Sessanta con l’istituzione dei Piani di Zona per l’Edilizia Economica e
Popolare (PEEP) introdotti con la Legge n. 167 del 19626. Sebbene solo per uno specifico settore (l’edilizia
a costo contenuto) con questa legge si tenta di coordinare gli obiettivi della pianificazione urbanistica con
quelli della programmazione edilizia.
Attraverso l’istituzione dell’esproprio preventivo7, viene consentito ai Comuni di acquisire le aree necessarie
alla costruzione delle abitazioni e dei servizi sulla base di un fabbisogno decennale. L’impostazione della
legge, quindi, oltre a regolamentare l’intervento sul territorio, consente anche di operare una
programmazione dell’intervento in un arco temporale medio-lungo (dieci anni).
La necessità di garantire alloggi a basso costo e la possibilità che viene data ai Comuni di acquisire le aree
mediante esproprio, anche in anticipo rispetto ai tempi effettivi dell’attuazione del piano e ad un valore di
mercato bloccato a due anni precedenti alla sua adozione8, diventa un obiettivo prevalente che
caratterizza la gran parte delle scelte operate in quegli anni.
In altri termini, più che una reale necessità di dare attuazione alle indicazioni del Piano Regolatore
Generale, in alcuni casi, è prevalsa la scelta di disciplinare l’uso del territorio secondo principi di equità
sociale. La quota di territorio da destinare ad interventi di edilizia economica poteva variare in ragione
della maggiore sensibilità delle amministrazioni locali di rispondere alla esigenza di abitazione da parte
delle fasce sociali meno agiate9.
Non sempre però tale strumento fu utilizzato per controllare la rendita urbana: nella maggior parte dei
casi, infatti, gli interventi PEEP erano sovradimensionati rispetto alle reali tendenze di crescita demografica
del comune. Alla legge n. 167, comunque, va riconosciuto il merito di aver introdotto uno strumento che,
almeno negli intenti, doveva funzionare come opportunità per orientare l’intervento urbanistico verso la
realizzazione di aree a maggiore vivibilità, anche per i ceti meno abbienti. In realtà, tranne che per
sporadici casi, l’intervento sul territorio continuò ad attuarsi secondo principi politici piuttosto che tecnici,
seguendo logiche più clientelari che effettivamente rispondenti alle reali esigenze delle comunità locali.
2
3
4
5
6
7
8
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Si fa riferimento al gruppo di intellettuali guidato da Adriano Olivetti che imprime una svolta innovativa anche nella
rifondazione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica su base democratica.
Introdotti con Decreto Legislativo del 1 marzo 1945 n. 154, abrogato dalla legge 27/10/1951, n. 1402, sostituita dalla
legge 12/08/1993, n. 317.
L. 3 novembre 1952 n. 1902 “Misure di salvaguardia in pendenza dei piani regolatori”.
La licenza edilizia era il provvedimento attraverso il quale il sindaco autorizzava le trasformazioni edilizie. È stato sostituito
dalla Concessione Edilizia (L 10/77) successivamente sostituita dal Permesso a costruire (DPR 380/2001).
L. 18 aprile 1962, n. 167 “Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree per l’edilizia economica e popolare”.
La disciplina dell’esproprio è complessa ed interessa differenti settori (economico, giuridico, estimativo, urbanistico). Tale
disciplina incide sulla limitazione del diritto di proprietà ed è sostanzialmente centrata sulla definizione di criteri da
applicare per la determinazione della indennità di esproprio. L’introduzione dell’esproprio per motivi di pubblica utilità
viene introdotto dal testo costituzionale nel 1948, ma è stato oggetto di ampie interpretazioni nel corso degli anni
nell’ambito delle discipline giuridiche. Attualmente il riferimento legislativo è costituito dalla Legge 327/2001 Testo Unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità.
La Corte Costituzionale ha poi dichiarato incostituzionale tale principio adottando i criteri previsti dalla Legge di Napoli.
Secondo tale norma l’indennità di esproprio è data dalla media tra il valore di mercato dell’area e la somma dei fitti
percepiti nell’ultimo decennio.
Il PEEP consentiva all’amministrazione di sottrarre alla speculazione edilizia di privati anche aree “pregiate” del territorio
comunale. Poteva, in teoria, essere interpretato come uno strumento di equità sociale che consentiva di non concentrare
l’intervento esclusivamente in aree periferiche della città, molto meno redditizie di quelle centrali. La “167” rappresentava
l’opportunità di scegliere aree più centrali ad un costo ridotto regolato dal meccanismo espropriativo, di realizzare servizi,
di pianificare l’intervento in modo coordinato (Erba 1976).
200
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
Il tentativo di arrestare tale meccanismo attraverso una riforma urbanistica generale che consentisse di
operare una programmazione dell’uso del territorio oltre che regolare i rapporti tra pubblico e privato non
ebbe successo10 e l’intervento sul territorio continuò ad essere orientato verso la speculazione edilizia
carente di servizi primari e secondari.
La risposta per arginare questa condizione attraverso l’introduzione di modifiche alla Legge Urbanistica
Nazionale è rappresentato dalla così detta “legge ponte”11 n. 765 del 1967 che introduce alcuni altri aspetti
innovativi. Tra questi, l’istituzione dei Piani di Lottizzazione (PL) equiparati ai Piani Particolareggiati (PP).
Preferibilmente di iniziativa privata, i PL interessano le aree che il Piano Regolatore Generale destina agli
insediamenti residenziali. In tali aree, i privati, attraverso convenzione con il Comune, possono eseguire
interventi, facendosi carico anche degli oneri relativi alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria
e, in parte, di quelle di urbanizzazione secondaria12.
Particolarmente innovativa è stata la previsione di standard minimi di servizi da dimensionare sulla base
delle necessità dell’area dell’intervento. Quasi contemporaneo alla legge ponte, il Decreto Ministeriale 2
aprile 1968, infatti, fissa le quantità minime di attrezzature e servizi da garantire a tutti gli abitanti rispetto
all’area di residenza. Nel periodo tra l’enunciato della legge e la sua applicazione (poco più di un anno) si
continuò, però, a procedere secondo criteri speculativi attraverso il rilascio da parte dei Comuni di un gran
numero di licenze edilizie.
La produzione legislativa negli anni Settanta è stata caratterizzata da una serie di leggi orientate a
“tamponare” la situazione generata dalle precedenti scelte. In particolare, l’attenzione maggiore è stata
rivolta verso la messa a punto di norme che potessero tutelare le aree urbane destinate a servizi pubblici
nel periodo intercorrente tra l’adozione e l’approvazione dei piani attuativi. In questi anni, la cosiddetta
“legge sulla casa” (legge 22 ottobre 1971, n. 865) introduce alcune indicazioni anche di carattere
urbanistico. Tale legge, infatti, stabilisce le regole di indennizzo per l’esproprio dei suoli nell’ambito dei
PEEP ed introduce un ulteriore piano esecutivo da applicare nelle aree destinate agli insediamenti
produttivi. Il Piano per gli Insediamenti Produttivi (PIP) ha valore di Piano Particolareggiato con durata
decennale ed interessa le aree che il piano regolatore generale destina ad attività produttive ed artigianali.
Pur non introducendo specifici elementi di novità tecniche e procedurali, questi piani rappresentano per
l’operatore pubblico una possibilità per operare un controllo dell’uso del territorio. Molto simili nella
struttura ai PEEP introdotti dalla legge 167, questi piani consentono un controllo programmato degli
interventi finalizzati alla realizzazione di aree per attività di produzione, commercio, artigianato e turismo.
In questo periodo, vengono emanate una serie di leggi particolarmente significative per la disciplina
urbanistica.
La legge Bucalossi del 28 gennaio 1977 n. 10 “Norme per l’edificabilità dei suoli” ha valore di norma
quadro e regola la partecipazione dei privati alle opere di trasformazione del territorio attraverso la
modifica della Licenza Edilizia in Concessione Edilizia onerosa secondo il principio che “qualsiasi attività che
comporta trasformazione urbanistica o edilizia deve partecipare agli oneri relativi” (art. 1). L’elemento al
tempo stesso più innovativo e discusso di questa legge riguarda proprio la separazione tra il diritto di
proprietà ed il diritto di edificazione. Il privato può operare trasformazioni sul territorio solo dietro richiesta
di concessione, sebbene tale territorio sia di sua proprietà. La concessione, inoltre, può essere rilasciata
solo se la trasformazione è conforme con le indicazioni del piano regolatore generale.
Tale ragionamento sottende un principio di equità secondo il quale il proprietario pagando per il diritto di
costruire sulla sua proprietà tutela l’interesse della collettività.
La legge, inoltre, stabilisce che gli interventi sul territorio siano eseguiti sulla base di Programmi Pluriennali
di Attuazione (PPA), per i quali l’attuazione delle trasformazioni indicate dallo strumento generale devono
realizzarsi in un arco temporale compreso da un minimo di tre ad un massimo di cinque anni.
Il PPA consente all’amministratore pubblico di indirizzare e, in parte, controllare l’azione dei privati sul
territorio. Tale strumento introduce un’ulteriore condizione alla possibilità di edificare da parte dei privati.
Solo se l’area sulla quale si vuole costruire o operare una trasformazione è inserita anche nel PPA, oltre ad
essere indicata nel Piano Regolatore Generale come area di trasformazione, è possibile richiedere la
concessione e, dunque, operare la trasformazione entro i termini stabiliti.
10
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La proposta di riforma elaborata dall’allora ministro ai Lavori Pubblici Fiorentino Sullo fu molto avversata soprattutto
perché proponeva una profonda revisione della rendita fondiaria. In tale disegno di legge i piani particolareggiati esecutivi
avrebbero avuto durata illimitata.
La definizione fa riferimento al fatto che la legge costituiva una soluzione transitoria tra un precedente e un successivo
ordinamento urbanistico. Il titolo della legge è “Modificazioni ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n.
1150”.
L’urbanizzazione primaria comprende opere che rendono possibile l’edificazione del suolo (strade, parcheggi impianti a
rete, ecc.); le opere di urbanizzazione secondaria si riferiscono alla realizzazione di strutture e servizi che accrescono la
vivibilità dell’area urbana (aree verdi, scuole, istituzioni sanitarie, ecc.).
201
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
La successiva legge n. 457 del 1978 sulle “Norme per l’edilizia residenziale” (piano decennale per l’edilizia)
introduce un ulteriore strumento di attuazione individuato nel Piano di Recupero (PdR) di iniziativa sia
pubblica che privata.
Per la prima volta oltre a porre l’attenzione sulla nuova edificazione, si fa riferimento anche al recupero del
patrimonio edilizio esistente degradato.
Con questa legge, tra gli altri provvedimenti, vengono precisati i poteri delegati alle Regioni per la
programmazione dell’edilizia, sia nuova che di recupero, da attuarsi nell’arco di un decennio.
Attraverso specifici programmi, alle Regioni viene data la possibilità di accedere a finanziamenti statali
sulla base del fabbisogno edilizio locale. In altri termini, la legge ripartisce i finanziamenti dello Stato per
l’edilizia agevolata, convenzionata e sovvenzionata in un arco temporale di dieci anni sulla base del
fabbisogno espresso dalle Regioni.
Definendo le tipologie degli interventi edilizi (manutenzione ordinaria; manutenzione straordinaria;
restauro e risanamento conservativo; ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica) la legge 457
stabilisce che le trasformazioni minori possano essere sgravate dal regime concessorio ed assoggettate
alla richiesta di un’autorizzazione gratuita da ritenersi accordata, attraverso il meccanismo del silenzioassenso, entro il termine perentorio di novanta giorni.
Negli stessi anni, si presenta la necessità di sanare una serie di opere edilizie ed urbanistiche realizzate in
maniera illegittima. Il periodo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, infatti,
sarà caratterizzato dalla produzione di norme relative a sanatorie e condoni.
La legge 28 febbraio 1985 n. 47 è rivolta proprio a risanare una condizione diffusa di illegalità imponendo
le “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero sanatoria delle opere
edilizie”. Tale legge regolamenta le opere realizzate fino a prima del 1 ottobre 1983 introducendo anche la
possibilità di ricorrere a varianti dello strumento urbanistico vigente, finalizzate alla sanatoria.
Nel corso degli anni Ottanta13 si susseguono una serie di norme e decreti dedicati al condono edilizio e, a
livello amministrativo, si prefigurano ulteriori cambiamenti inerenti ruoli e compiti delle autonomie locali.
La legge 8 giugno 1990 n. 142 sulla “riforma delle autonomie locali” introduce innovazioni sulle
competenze degli enti locali in materia di gestione del territorio.
Le innovazioni più significative fanno riferimento alla precisazione delle competenze delle Province in
materia di pianificazione territoriale (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale); la definizione delle
aree metropolitane e delle rispettive città metropolitane (capo IV, art. 17 e 18); alla introduzione
dell’Accordo di Programma come strumento di intervento che integra l’azione di più soggetti pubblici.
Per quanto riguarda la definizione dell’ente Provinciale e della città metropolitana si dovrà aspettare la
“legge Delrio” n. 56 del 2014.
Dagli anni Novanta in poi, per la pianificazione urbanistica in Italia, le tematiche della valorizzazione
ambientale e della riqualificazione urbana diventano centrali: si assiste, cioè, ad un radicale mutamento
concettuale che all’espansione urbana sostituisce principi di recupero e riuso dei sistemi insediativi
esistenti.
Sul piano legislativo le tematiche del recupero urbano acquistano una particolare attenzione attraverso la
creazione di appositi piani che possono operare in variante agli strumenti urbanistici generali, anche
attraverso l’uso di nuovi strumenti di concertazione (Accordi di Programma e Conferenza di Servizi).
In tale contesto, si inquadra l’istituzione dei Programmi Integrati di Intervento (legge 17 febbraio 1992 n.
179) finalizzati alla realizzazione di interventi di riqualificazione urbanistica, edilizia e ambientale che
interessano aree del territorio comunale in tutto o in parte edificate o destinate a nuova edificazione.
Nello stesso periodo, si evidenzia una nuova tendenza all’interno della disciplina urbanistica che ha come
questione centrale la crisi del modello di pianificazione introdotto dalla LUN del 1942 (tuttavia ancora
vigente).
L’obiettivo è di sostituire il criterio ordinatore gerarchico tra i livelli della pianificazione e i rispettivi piani
attraverso interventi di trasformazione basati sul “progetto urbano”.
La pratica urbanistica di questi anni fa riferimento alla convinzione che una maggiore facilità di attuazione
delle previsioni di trasformazione urbana possa avvenire attraverso progetti che riguardano singole parti
urbane e che si ritiene siano ina risposta più efficace alla richiesta di adeguamento della pianificazione ai
tempi della trasformazione (Imbesi, 2014).
Si tratta di un radicale mutamento nell’approccio all’intervento urbano che si ritiene non possa più essere
dettato da principi di espansione bensì debba intervenire attraverso la trasformazione dell’esistente,
recuperando aree e spazi necessari, talvolta attraverso il loro riuso o la loro riconversione.
13
Durante questo periodo la Legge Galasso n.431/1985 dà il via ad una serie di norme sulla tutela dei beni ambientali e
paesistici e riconosce un ruolo molto più autorevole al Piano Paesistico.
202
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
Tale mutamento ha determinato la duplice esigenza, da un lato, di modificare i “tradizionali” strumenti
della pianificazione; dall’altro, di innovare le modalità attuative del piano urbanistico.
Sul piano operativo, tale esigenza ha comportato la creazione di una serie di “nuovi strumenti” di
pianificazione definiti programmi complessi (tab.1) che, di fatto, rappresentano il tentativo di riformare il
dettato di una legge nazionale per certi versi anacronistica. Il cambiamento tuttavia, avviene a livello
regionale, una volta acquisito il potere legislativo dell’ente Regionale in materia urbanistica; ancora oggi
non vi è una riforma nazionale unitaria in materia urbanistica.
I programmi complessi contengono già nella terminologia la forte richiesta di cambiamento. Il termine
programma, infatti, si riferisce alla volontà di porre una maggiore attenzione alla tempistica degli
interventi, alla esigenza di indicare le condizioni della loro fattibilità, alla corretta individuazione delle
risorse finanziarie.
In tal senso, questi strumenti si differenziano notevolmente da quelli “tradizionali” della pianificazione
attuativa, caratterizzati da lunghi tempi e da un differente rapporto con il piano comunale.
D’altra parte, il periodo storico è caratterizzato dalla presenza di grandi aree urbane dismesse risultanti
dalla conflittualità di attività (industriali, militari, portuali) all’interno del contesto urbano che
l’amministrazione pubblica deve gestire con risorse economiche scarse. Il coinvolgimento dell’intervento
dei privati all’interno del processo di trasformazione urbana, quindi, diviene, fondamentale.
Nel quadro di tali condizioni sinteticamente delineate, i programmi complessi possono essere definiti come
strumenti di intervento prioritariamente orientati alla trasformazione urbana. Essi contengono elementi di
programmazione progettuale, gestionale e di utilizzazione economica volti al recupero di aree urbane
(dismesse o degradate) attraverso l’integrazione di risorse economiche pubbliche e private.
PROGRAMMA
AREE INTERESSATE
Programmi Integrati di Intervento
(PII)
Programmi di Recupero urbano
(PReU)
Programmi di Riqualificazione Urbana
(PRiU)
Contratti di Quartiere
(CdQ)
Programmi di Riqualificazione Urbana e di
Sviluppo
Sostenibile
del
Territorio
(PRUSST)
* Aree con valenza urbana strategica
* Quartieri di edilizia pubblica
* Aree dismesse
* Aree periferiche di edilizia pubblica
* Aree abusive
* Grandi reti infrastrutturali.
* Sistemi urbani e metropolitani
Tab. 1 − Programmi complessi ed aree urbane interessate
Più che di una produzione esclusivamente di norme, i programmi complessi sono il risultato di un sistema
di politiche pubbliche finalizzate alla riqualificazione e alla rigenerazione urbana ed ambientale attuatesi
attraverso una proficua produzione di decreti ministeriali.
Il processo di trasformazione del territorio viene demandato anche alla capacità di reperimento delle
risorse economiche necessarie per la sua realizzazione. In tale transizione, l’integrazione tecnica e
finanziaria tra soggetti pubblici (regioni e comuni) ed operatori privati (i portatori di interesse locali,
cosiddetti stakeholder: proprietari, operatori immobiliari, imprese di costruzione, ecc.) diviene un elemento
costituente del successo o, per inverso, dell’insuccesso dell’intervento sulla città.
La maggiore innovazione, rispetto al modo di operare in Italia negli anni precedenti, consiste
nell’affermazione di un approccio integrato alle tematiche della trasformazione urbana, attuate mediante
un progetto unitario di riqualificazione, secondo una visione ampia che considera gli aspetti fisici,
economici, sociali ed ambientali.
La produzione dei programmi complessi ha rappresentato un momento di significativo di cambiamento, sia
nella disciplina che nella prassi urbanistica, così come sarà meglio specificato nei successivi paragrafi.
L’attenzione alla trasformazione della città in termini di valorizzazione e di recupero dagli anni novanta in
poi rappresenterà una costante delle politiche di sviluppo economiche nazionali.
In realtà, l’attenzione verso la trasformazione urbana avviene a livello europeo, con la consapevolezza che
per definire condizioni di sviluppo sostenibile bisogna agire sui principali elementi di consumo di risorse
individuati nelle città, appunto. La possibilità di accedere a finanziamenti del Fondo Europeo di Sviluppo
Regionale (FESR) 2014-2020, di fatto, ha obbligato all’inserimento delle politiche di intervento urbane
all’interno della programmazione economica di sviluppo delle singole regioni.
Con riferimento alle tematiche del recupero delle aree urbane degradate, un provvedimento più recente è
costituito dal Contratto di Valorizzazione Urbana (CVU). Più che uno strumento di attuazione, il Contratto
203
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
rappresenta un’occasione per le amministrazioni pubbliche di attivare processi di riqualificazione sul
proprio territorio, in presenza di condizioni critiche di degrado.
L’insieme dei Contratti di Valorizzazione costituisce il Piano Nazionale per la riqualificazione sociale e
culturale delle aree urbane degradate predisposto dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con
decreto del 2015 (DPCM 15/10/2015) “Interventi per la riqualificazione sociale e culturale delle aree
urbane degradate”. In base alle indicazioni del bando previsto dal decreto, i Comuni possono presentare14
progetti di riqualificazione costituiti da un insieme coordinato di interventi diretti alla riduzione di fenomeni
di marginalizzazione e degrado sociale, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del
tessuto sociale ed ambientale.
Con gli strumenti della programmazione complessa, quindi, in Italia, si inaugura un periodo nel quale le
tematiche della riqualificazione urbana diventano un obiettivo prioritario delle politiche pubbliche a livello
nazionale ed europeo con la predisposizione di risorse finanziarie dedicate.
La fattibilità degli interventi diventa fortemente dipendente dalla capacità delle amministrazioni locali sia di
coinvolgere gli operatori del settore privato, sia di farsi promotrici per accedere ai finanziamenti previsti
per contrastare il degrado fisico, ambientale e sociale nelle aree urbane.
16.2.
I piani urbanistici di attuazione
Il Piano Comunale definisce le regole generali di intervento su tutto il territorio urbano, demandando alla
fase di attuazione l’applicazione di tali regole, non essendo un piano di dettaglio. I Piani urbanistici
attuativi, quindi, costituiscono un approfondimento tecnico e contengono un livello di informazione più
approfondito (Salzano 1998).
Tali strumenti sono finalizzati alla realizzazione delle previsioni del piano comunale, all’individuazione delle
modalità con le quali è possibile effettuare la trasformazione sul territorio; a contribuire alla costruzione di
un disegno urbano coerente e significativo.
Gli interventi edilizi realizzabili sul territorio comunale, invece, sono regolati da procedure autorizzative
finalizzate a verificare la conformità degli interventi di trasformazione con le indicazioni del piano
comunale.
Il ricorso a piani attuativi o a specifiche procedure autorizzative corrisponde a due distinte modalità di
attuazione del piano comunale.
La prima modalità che potremmo definire “indiretta”, avviene attraverso l’utilizzo di piani attuativi che
consentono la trasformazione del territorio attraverso procedure proprie dei piani urbanistici (redazione,
pubblicizzazione, adozione, controllo di conformità, approvazione).
La seconda modalità che potremmo definire “diretta”, consente di dare seguito alla trasformazione
attraverso l’utilizzo di procedure autorizzative finalizzate alla verifica (da parte dell’amministrazione
pubblica) della conformità dell’intervento di trasformazione, presentato dal singolo o da gruppi di
proprietari, alle indicazioni del piano urbanistico e, contestualmente, alle disposizioni di vincoli (se presenti)
gravanti sul territorio e che ne limitano o ne impediscono la trasformazione.
Piani Particolareggiati
La Legge Urbanistica Nazionale individua come principale strumento il Piano Particolareggiato (art. 13) di
iniziativa pubblica per rendere operativa la realizzazione degli interventi indicati dal piano regolatore
generale.
Tale piano ha la funzione di regolamentare l’attività edificatoria nelle aree urbane e deve garantire la
copertura finanziaria per la realizzazione degli interventi previsti.
I principali obiettivi del Piano Particolareggiato possono essere individuati nei seguenti punti:

attuare le previsioni del piano comunale (piano regolatore generale) che vanno realizzate entro un
periodo di tempo, fissato in un massimo di dieci anni;

regolare l’attività edificatoria nella zona interessata.
14
In attuazione della L. 190/2014 (Legge di Stabilità 2015) il bando stabilisce modalità di presentazione dei progetti di
riqualificazione fissando un termine entro il novembre 2015. La costituzione del fondo finanziario per la realizzazione dei
progetti segue una programmazione triennale (2015-2017) per circa 195 milioni d euro totali. Condizione per la
presentazione dei progetti di riqualificazione è il calcolo degli indici di disagio edilizio (IDE) e sociale (IDS) rispettivamente
espressi in funzione delle caratteristiche del patrimonio edilizio esistente (stato di conservazione e numero totale degli
edifici residenziali presenti nell’area considerata) e delle caratteristiche della popolazione residente (tasso di
disoccupazione, tasso di occupazione, tasso di concentrazione giovanile, tasso di scolarizzazione).
204
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
Essendo un piano di dettaglio, il Piano Particolareggiato deve introdurre tutti gli elementi progettuali non
contenuti nel piano comunale.
Atraverso il Piano Particolareggiato, quindi, si stabilisce l’assetto definitivo dell’area interessata, i limiti e i
vincoli imposti all’edificazione privata e si individuano le aree destinate alle opere pubbliche. Le prescrizioni
del piano, infatti, riguardano sia l’attività edilizia privata, sia le opere e le attività di interesse pubblico.
Nel primo caso, il piano disciplina gli interventi in riferimento alle masse, alle altezze delle costruzioni lungo
le strade principali e lungo le piazze, alla lottizzazione degli isolati, alla indicazione delle tipologie edilizie,
all’individuazione delle proprietà da espropriare
Nel secondo caso, le indicazioni riguardano la definizione delle reti stradali e delle aree destinate ad opere
e servizi pubblici.
Gli elaborati tecnici del piano, oltre alle planimetrie di dettaglio del progetto (dalla scala 1:5000, fino alla
scala 1:200, in ragione dell’estensione dell’area interessata) riportate su mappa catastale al fine di
individuare le singole proprietà interessate dall’intervento, devono contenere anche una relazione tecnica
illustrativa ed una relazione finanziaria di massima.
Fig. 1 – Schema degli elaborati tecnici del Piano Particolareggiato
Il procedimento di approvazione del piano particolareggiato si sviluppa in successive fasi:

elaborazione del piano da parte dell’ufficio tecnico comunale competente o per incarico esterno;

delibera di adozione del piano della Giunta Comunale ( L. 106/2011);

pubblicazione della delibera di adozione del piano attraverso deposito presso la segreteria comunale con
successivo avviso nell’albo pretorio;

possibilità di presentare osservazioni o opposizioni al piano15;

delibera di approvazione del piano una volta trascorso il termine necessario all’esame delle osservazioni
e delle opposizioni presentate;

deposito della delibera di approvazione nella segreteria comunale con conseguente notifica ai proprietari
interessati dal piano mediante affissione nell’albo pretorio del Comune.
A seguito della pubblicazione su bollettino ufficiale, il Piano Particolareggiato può ritenersi vigente.
In seguito allo snellimento delle procedure di formazione dei piani attuativi (adozione e approvazione) si è
modificato il ruolo delle Regioni che conservano una funzione di supervisione sulle amministrazioni locali. È
previsto, infatti, che i Comuni, entro un termine fissato nelle leggi regionali, debbano trasmettere una
copia del Piano Particolareggiato adottato alle Regioni che possono esprimersi attraverso osservazioni.
15
La possibilità di presentare osservazioni o opposizioni al piano è una forma di partecipazione al processo di formazione
del piano stesso. La differenza tra le due modalità di partecipazione consiste nel grado di coinvolgimento dei soggetti
rispetto all’interesse “personale, diretto o attuale”. Sia le opposizioni che le osservazioni non costituiscono mezzi di
impugnativa (Fiale, Fiale 2007). Nel primo caso il privato partecipa al miglioramento nell’interesse collettivo delle
indicazioni del piano; nel secondo caso, il privato agisce per tutelare il proprio interesse.
205
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
Il termine per l’attuazione del Piano Particolareggiato è fissato in dieci anni ai sensi dell’art. 16 della LUN
(1150/1942), stabilito nella delibera di approvazione del Piano Particolareggiato.
L’entrata in vigore di un Piano Particolareggiato comporta la dichiarazione di pubblica utilità delle opere e,
quindi, l’esproprio delle aree necessarie alla realizzazione delle opere previste.
Si può verificare il caso in cui il Comune imponga di procedere alla formazione di comparti edificatori e
indicare per questi specifiche prescrizioni.
Il “comparto edificatorio” definisce ambiti territoriali minimi entro i quali l’intervento deve essere realizzato
in modo unitario da più aventi titolo. Viene introdotto per superare la difficoltà di attuazione del piano
dovuta alla eccessiva frammentazione della proprietà fondiaria.
Allo scadere del termine di validità, il Piano Particolareggiato diventa inefficace per la parte ancora da
realizzare. La scadenza di validità annulla sia gli obblighi di trasformazione che i proprietari dei terreni e
degli immobili avrebbero dovuto rispettare, sia le espropriazioni previste.
Resta illimitato, invece, per i proprietari privati, l’obbligo di rispettare le prescrizioni di zona e gli
allineamenti stabiliti dal piano, nella costruzione di nuovi edifici o nella trasformazione di quelli esistenti
(art. 17 della LUN).
Piani di Zona per l’Edilizia Economica e Popolare
Il Piano di Zona per l’Edilizia Economica e Popolare (PEEP) è previsto e disciplinato dalla Legge n.
167/1962. Per disposto della norma, il PEEP è equiparato al Piano Particolareggiato.
Lo scopo di questo strumento urbanistico di attuazione consiste nel regolare la trasformazione di aree del
territorio da destinare alla realizzazione di edilizia abitativa a basto costo comprensiva dei servizi
complementari ad esse necessari.
L’istituzione di tali piani ha rappresentano il tentativo di contrastare la tendenza ad accentrare la
realizzazione di edilizia a basso costo nelle aree periferiche carenti di qualsiasi tipo di servizio.
Queste caratteristiche rendono il PEEP un piano attuativo specializzato che ha come principali obiettivi:

reperire aree all’interno del territorio comunale a basso costo per interventi di edilizia residenziale
pubblica;

consentire un intervento coerente e coordinato con le indicazioni del piano comunale su tutto il
territorio;

realizzare un meccanismo di finanziamento delle opere di urbanizzazione necessarie alla realizzazione di
aree da destinare alla residenza a basso costo.
In riferimento a questo ultimo punto, particolare rilievo veniva assunta dal Programma Pluriennale di
Attuazione16 che obbligatoriamente accompagna il PEEP per dettato della L. 865/1971. Tale strumento
deve indicare la disponibilità finanziaria da parte del Comune o dei consorzi di privati per la realizzazione
delle opere di urbanizzazione primarie e secondarie.
Inizialmente la legge istitutiva del piano (L. 167/1962) ne prevedeva l’obbligo per i comuni con più di
50.000 abitanti e per i comuni capoluoghi di provincia, lasciando tutti gli altri comuni liberi di procedere,
con deliberazione del Consiglio Comunale, alla formazione del PEEP motivandone la necessità.
Tale obbligo è stato successivamente esteso a tutti i Comuni (L. 10/1977) consentendo anche a più
comuni limitrofi di riunirsi in consorzio per la formazione di un Piano di Zona Consortile.
Pur essendo un piano di attuazione delle indicazioni del piano comunale generale, la legge che disciplina il
piano di zona per l’edilizia economica e popolare non esclude la possibilità che tale piano possa avere
effetti di variante. Qualora, infatti, non sia possibile reperire aree all’interno del territorio comunale dove
realizzare edilizia a basso costo, è possibile procedere attraverso varianti al piano regolatore generale. (L.
167/1962, art. 3). In questo caso, il piano di zona per l’edilizia economica e popolare assume natura ed
effetti propri del piano comunale.
Oltre alla scelta localizzativa delle aree, il Piano deve considerare il dimensionamento degli interventi e
l’analisi dei costi per la realizzazione delle scelte.
Il dimensionamento del piano viene calcolato in base al fabbisogno di vani pregresso e di quello presunto
per il decennio successivo alla sua realizzazione.
Essendo un piano finalizzato all’acquisizione di aree edificabili da destinare alla costruzione di alloggi il cui
numero è calcolato in relazione al fabbisogno abitativo previsto per un arco temporale di dieci anni, deve
rispondere a specifici parametri per rendere attendibili i dati e le valutazioni effettuate.
16
I Programmi Pluriennali di Attuazione, introdotti dalla L. 10/1977 individuano i settori di territorio e le aree su cui
intervenire con priorità. Sono atti di programmazione di attuazione delle previsioni urbanistiche sul territorio (Fiale 2007).
A seguito della Legge 136/1999 hanno la funzione di coordinare gli interventi previsti dai piani attuativi per nuovi
insediamenti o di rilevanti ristrutturazioni urbanistiche.
206
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
I riferimenti legislativi (L. 167/1962 e la successiva L. 10/1977) per il dimensionamento del PEEP
evidenziano due principali criteri:

l’estensione dell’area da calcolare sulla base del prevedibile incremento del fabbisogno abitativo nel
decennio successivo all’adozione del piano;

la quota da destinare a tale fabbisogno deve essere compresa tra un minimo di 40% e un massimo di
70% del fabbisogno abitativo complessivo.
Se, quindi, il primo criterio presuppone la determinazione certa della dimensione dell’area sulla base di dati
rispondenti alle effettive necessità del Comune nel quale il PEEP deve essere realizzato, il secondo criterio
impone limiti specifici che il piano deve soddisfare attraverso la realizzazione di edilizia economica e
popolare. Sul dimensionamento degli interventi influiscono anche altri fattori: la densità edilizia (mc/mq) e
la dotazione di aree da destinare ad attrezzature e a servizi.
Valori troppo alti di densità edilizia comportano una concentrazione elevata di volumi sul territorio,
viceversa una bassa densità edilizia incide sui costi delle aree, sulla realizzazione delle opere di
urbanizzazione e, quindi, sul costo dell’abitazione.
Per la definizione delle aree da destinare ad attrezzature e servizi il riferimento normativo è relativo alle
opere e servizi complementari agli insediamenti residenziali (art. 1 L. 167/1962). La norma di riferimento,
dunque, può essere individuata nelle indicazioni del decreto ministeriale relativo alla definizione degli
standard urbanistici (DM 1444/1968).
L’analisi dei costi è fondamentale per la realizzazione dell’intervento e deve considerare tre aliquote
principali:

indennità di esproprio del terreno;

costo delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria in proporzione al volume edificabile;

interessi sugli anticipi delle spese di gestione proporzionati alla volumetria e alle destinazioni d’uso.
Nella realizzazione del PEEP le aree vengono espropriate dal Comune e cedute a soggetti pubblici o privati
(cooperative, consorzi, imprese) per la realizzazione degli interventi.
La cessione delle aree inizialmente avveniva in diritto di proprietà o in diritto di superficie17 attraverso la
stipula di convenzioni con i conseguenti vincoli e restrizioni per gli assegnatari degli alloggi.
Tali vincoli sono stati successivamente modificati attraverso la possibilità di mutare il diritto di superficie in
proprietà e di reinvestire i ricavi derivanti dal riscatto della proprietà in interventi di recupero per le stesse
aree. In tal modo, da un lato, si conserva l’obiettivo insito nell’intervento di piano di perseguire finalità di
interesse pubblico, dall’altro si consente all’ente pubblico di poter manutenere un vasto patrimonio
immobiliare di difficile gestione.
Assimilato al Piano Particolareggiato, il PEEP si compone degli stessi elaborati tecnici.
L’esigenza di dare seguito all’attuazione del PEEP in tempi contenuti consente di distinguere due momenti
differenti dell’elaborazione del piano.
Il primo fa riferimento alla individuazione delle aree e alla successiva definizione delle linee generali
dell’intervento.
Il secondo si riferisce alla definizione del progetto.
La validità del piano approvato è fissata in diciotto anni18.
Gli interventi, attuati dal Comune o dalle Agenzie territoriali per la Casa, da cooperative, consorzi o
imprese, sono finalizzati alla realizzazione di edilizia sovvenzionata, edilizia convenzionata ed edilizia
agevolata.
L’edilizia sovvenzionata è realizzata a totale carico dello Stato attraverso le Regioni e gli Enti Locali,
mediante intervento diretto del Comune o delle Aziende Territoriali per l’Edilizia Residenziale (A.T.E.R.).
L’edilizia convenzionata viene attuata da operatori privati (imprese di costruzione, cooperative, ecc.) che
stipulano una convenzione con il Comune accordandosi soprattutto sul prezzo di cessione (o affitto) degli
alloggi da realizzare.
L’edilizia agevolata si riferisce soprattutto agli interventi destinati a prima abitazione, favoriti dall’azione
statale. Una certa quantità di contributi vengono destinati alle singole famiglie in misura proporzionale al
reddito, in conto interessi e a fondo perduto.
17
18
Il diritto di proprietà è un diritto reale che ha per contenuto la facoltà di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed
esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi previsti dall'ordinamento giuridico. Il diritto di superficie è un
diritto reale minore di godimento che consiste nell'edificare e mantenere una costruzione al di sopra (o al di sotto) di un
fondo di proprietà altrui. La concessione del diritto di superficie ha una durata non inferiore a 60 anni e non superiore a
99 anni ed è rinnovabile una volta. L’alloggio costruito su un’area ceduta con diritto di proprietà non può essere alienato
a nessun titolo, per un periodo di 10 anni dalla data del rilascio della certificazione di abitabilità.
Il termine iniziale di 10 anni fissato dalla L. 167/1962 è stato successivamente prolungato a 15 anni dalla L. 865/1971 e
ulteriormente prolungato di altri tre anni dalla L. 457/1978.
207
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
La realizzazione di un PEEP è fortemente dipendente da finanziamenti pubblici nel processo di acquisizione
delle aree e gestione del patrimonio edilizio; tale condizione talvolta ha complicato fino a vanificare il
ricorso a tali interventi.
Le successive leggi sulla edilizia residenziale pubblica in Italia, modificheranno il ricorso ai PEEP per dare
inizio ad una nuova stagione urbanistica che culminerà nella produzione di programmi (programmi
complessi) che rivoluzioneranno il rapporto con il piano comunale.
Piani di Lottizzazione
Il piano di lottizzazione19 (PL), disciplinato dalla Legge ponte n. 765/1967, è uno strumento di attuazione
attraverso il quale è possibile intervenire a fini urbanizzativi su zone del territorio comunale destinate ad
insediamenti residenziali o produttivi.
È un piano di iniziativa privata, ovvero consente l’intervento dei privati nella realizzazione degli interventi
previsti dal piano urbanistico generale, sotto il controllo dell’amministrazione comunale attraverso una
convenzione nella quale si stabiliscono gli oneri che i proprietari si impegnano a sostenere e i tempi di
esecuzione degli interventi. In particolare nella convenzione vengono stabiliti:

le modalità di urbanizzazione dell’area che si intende lottizzare;

l’indicazione dei terreni necessari per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria;

i tempi per la realizzazione delle opere che non devono comunque superare i dieci anni dalla stipula
della convenzione;

l’obbligo da parte dei proprietari a cedere gratuitamente al Comune le aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle aree per l’urbanizzazione secondaria;

l’assunzione degli oneri finanziari da parte dei proprietari (lottizanti) per la realizzazione di tutte le opere
di urbanizzazione primaria;

l’assunzione degli oneri finanziari da parte dei proprietari (lottizanti) per la realizzazione di una quota
parte delle opere di urbanizzazione secondaria;

l’assunzione degli oneri finanziari da parte dei proprietari (lottizanti) per la realizzazione degli
allacciamenti ai pubblici servizi se già esistenti;

le sanzioni a carico dei proprietari nel caso di inosservanza degli obblighi di convenzione e modalità di
esecuzione forzata da parte del Comune, delle opere non realizzate.
La stipula della convenzione di lottizzazione rappresenta il momento conclusivo dell’iter formativo del piano
di lottizzazione ed avviene in una fase successiva alla approvazione del piano da parte della
amministrazione pubblica. Naturalmente costituisce un presupposto indispensabile alla attuazione del
piano.
Il Piano di Lottizzazione è equiparato al Piano Particolareggiato e, quindi, gli elaborati tecnici sono
sostanzialmente simili.
Il progetto di lottizzazione e la relativa convenzione hanno una validità di dieci anni oltre i quali le sue
indicazioni perdono di validità.
Le difficoltà economiche, attuative e gestionali hanno lentamente messo in crisi il ricorso ai PEEP da parte
delle amministrazioni pubbliche. Le difficoltà sono sostanzialmente dovute alla disciplina dell’esproprio e
alla rivalutazione dell’indennizzo necessario.
Piani per gli Insediamenti Produttivi
Introdotto dalla L. 865/1971, questo piano definisce la struttura e le caratteristiche delle aree destinate dal
piano regolatore generale all’insediamento di attività:

industriali;

artigianali;

commerciali;

terziarie.
La previsione dei piani per gli insediamenti produttivi risponde ad esigenze di tipo economico che possano
essere coerenti con le previsioni di trasformazione urbana previste dal piano urbanistico comunale
disponendo una pianificazione organica e coordinata per le attività produttive.
La sua funzione, quindi, è di incentivare le imprese che, previa espropriazione ed urbanizzazione, possono
usufruire di aree comunali ad un prezzo contenuto.
19
Per lottizzazione si intende l’operazione che consiste nel frazionamento di un terreno in lotti edificabili, ovvero in superfici
minori idonee ad una edificazione sistematica (Centofanti 2012, 300).
208
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
Il meccanismo di attuazione di un PIP si basa sull’acquisizione delle aree e della loro urbanizzazione da
parte dell’amministrazione comunale per poi procedere alla concessione in proprietà (per una quota non
superiore al 50% della volumetria complessiva prevista nel Piano) o in diritto di superficie (per la parte
rimanente) a privati o enti pubblici.
La concessione del diritto di superficie ad enti pubblici per la realizzazione di impianti e servizi pubblici è a
tempo indeterminato; in tutti gli altri casi, ha una durata non inferiore a 60 anni e non superiore a 99 anni;
tale concessione, inoltre, viene disciplinata da una convenzione nella quale si stabiliscono oneri e modalità
di attuazione degli interventi. Tra le domande di concessione si privilegiano quelle presentate da enti
pubblici o da imprese a partecipazione statale.
Il piano per gli insediamenti produttivi, per i contenuti e le modalità di attuazione rappresenta un
particolare piano di zona realizzabile esclusivamente se esistono sul territorio interessato accertate
condizioni economico-sociali e produttive che abbiano una concreta prospettiva di utilizzazione.
Da un punto di vista giuridico, infatti, ai piani per gli insediamenti produttivi viene riconosciuta funzione di
strumenti di politica economica, di promozione ed incentivazione. Tuttavia, la loro realizzazione deve
essere accuratamente programmata sulla base di una documentata valutazione delle condizioni e del
fabbisogno esistente sul territorio (Centofanti et al. 2012, 382).
Essendo un piano di dettaglio, i contenuti tecnici del Piano per gli insediamenti produttivi riguardano:

la rete stradale e la delimitazione degli spazi da destinare ad opere o impianti di pubblico interesse;

la suddivisione in lotti e la loro utilizzazione;

l’ubicazione, la tipologia e le modalità costruttive dei vari edifici che si intendono realizzare (tra le quali
anche i servizi a supporto dell’attività principale, p.e.: mense, asili nido, parcheggi privati, ecc.);

la relazione di spesa e gli elenchi catastali delle proprietà comprese nell’area interessata dal piano per
gli insediamenti produttivi.
Piani di Recupero
Alla fine degli anni Settanta la legge n. 457/1978 introduce le norme per il recupero del patrimonio edilizio
ed urbanistico esistente. Il momento storico sottolinea il passaggio dalla tutela della città storica al
progetto della città esistente attraverso l’affermarsi del principio del recupero del patrimonio edilizio o
urbanistico esistente per contrastare gli interventi di “consumo” del territorio che fino a qualche anno
prima erano prevalsi.
L’istituzione dei piani di recupero rappresenta la prima espressione di associazione tra una riconosciuta
condizione di degrado ed il corrispondente sistema di azioni necessarie per eliminarlo.
La redazione di un Piano di Recupero (PdR) è direttamente connessa al verificarsi della condizione di
degrado del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente (art. 27, L. 457/78). I comuni provvedono alla
perimetrazione delle zone nelle quali, per particolari condizioni di degrado, si rendono necessari interventi
di recupero edilizio ed urbanistico. Le zone di recupero sono individuate in sede di formazione dello
strumento urbanistico generale, oppure possono essere individuate successivamente dall’amministrazione
comunale qualora decida di operare mediante piano di recupero.
Gli interventi di recupero degli immobili, dei complessi edilizi, degli isolati e delle zone di degrado si
attuano all’interno di Unità Minime di Intervento (art. 28 L. 457/78). Tali unità minime sono costituite da
uno o più organismi edilizi la cui trasformazione viene considerata in maniera unitaria20.
A differenza degli altri piani attuativi, il PdR non è uno strumento meramente attuativo delle indicazioni del
piano regolatore generale; può costituire una variante al piano almeno per gli aspetti che riguardano gli
interventi di recupero dell’edilizia esistente.
In riferimento alle tipologie di intervento, il Piano di Recupero può assumere un duplice ruolo: da un lato,
specifica gli interventi di recupero applicabili ai singoli edifici o a gruppi di edifici; dall’altro definisce gli
interventi di ristrutturazione urbanistica che possono modificare la forma e il disegno di aree urbane più
ampie. Nel primo caso il PdR individua gli edifici e/o i complessi edilizi da recuperare e, per ciascuno di
essi, specifica l’intervento edilizio consentito. Nel secondo caso, il PdR indica gli interventi che possono
modificare in parte o in tutto il tessuto urbano. Sul piano tecnico gli interventi si riferiscono a cinque
tipologie21 :

manutenzione ordinaria;

manutenzione straordinaria;

restauro e risanamento conservativo;
20
21
L’istituto delle Unità Minime di Intervento (UMI) presenta molte analogie con quello dei comparti edificatori.
Il Testo Unico dell’Edilizia DPR 380/2001 ha parzialmente modificatole definizioni introdotte dalla L. 457/78.
209
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)


ristrutturazione edilizia;
ristrutturazione urbanistica.
La prima tipologia riguarda le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e
quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
La seconda tipologia riguarda le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle
destinazioni di uso.
La terza tipologia fa riferimento ad interventi rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili. Tali interventi
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento
degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi
estranei all'organismo edilizio.
La quarta tipologia fa riferimento ad interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
La quinta tipologia fa riferimento ad opere per sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro
diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei
lotti, degli isolati e della rete stradale.
I Piani di Recupero possono essere di iniziativa privata o pubblica, possono essere attuati:

dai proprietari singoli o riuniti in consorzio, dagli Istituti Autonomi di Case Popolari (IACP), da imprese e
cooperative;

dai Comuni direttamente o tramite i soggetti di cui al punto precedente previa stipula di convenzione.
La convenzione deve definire:

gli interventi che si intendono eseguire;

l’adeguamento delle opere di urbanizzazione;

gli interventi da parte dell’ente pubblico nel caso di inerzia dei proprietari privati (ad esempio la diffida o
l’esproprio).
Il costo delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria è a carico del Comune che ne può affidare la
realizzazione a privati.
Il progetto di Piano di Recupero, quindi, può essere elaborato dal Comune oppure dai proprietari degli
immobili e/o delle aree interessate. In questo secondo caso, i proprietari devono rappresentare almeno i
tre quarti del valore degli immobili (art. 30, Legge 457/1978).
Quando il PdR è di iniziativa privata, la proposta viene sottoposta al Consiglio Comunale per l’adozione con
delibera22. Alla proposta va allegata una convenzione nella quale i privati si assumono gli oneri della
realizzazione degli interventi. Tale convenzione è simile a quella che si presenta per i Piani di Lottizzazione,
ma in questo caso, le aree sono già urbanizzate e i Comuni si assumono una parte dei costi di
adeguamento per le opere di urbanizzazione.
Nei comuni con popolazione residente superiore a 50.000 abitanti, nella convenzione i privati si impegnano
a dare in locazione una parte degli immobili a categorie di popolazione individuate dal Comune.
Terminata la fase di redazione, il PdR viene depositato presso la Segreteria Comunale per le eventuali
osservazioni o opposizioni.
Trascorsi trenta giorni23, il piano viene approvato dalla Giunta Comunale24 con delibera. L’approvazione
costituisce dichiarazione di pubblica utilità.
16.3.
Attuazione del piano e Programmi Complessi
I “programmi complessi” si configurano come strumenti di intervento che oltre alle indicazioni di natura
prettamente urbanistica contengono anche elementi di programmazione, di progettazione e di gestione
degli interventi (Avarello 2000). Oggetto dei programmi complessi sono le aree urbane da riqualificare e/o
da recuperare.
22
23
24
La legge urbanistica regionale 16/2004 della Campania stabilisce che sia la Giunta Comunale ad adottare il piano.
La tempistica può variare nell’ambito delle singole leggi urbanistiche regionali.
Come disposto dalla Legge 12 luglio 2011, n. 106, i piani attuativi, come denominati dalla legislazione regionale, conformi
allo strumento urbanistico generale vigente, sono approvati dalla giunta comunale (art. 13).
210
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
La complessità di tali strumenti è riferita ad una serie di fattori tra i quali la possibilità di coinvolgere una
pluralità di soggetti, pubblici e privati, in interventi che prevedono anche destinazioni d’uso differenziate e
il tentativo di proporre un sistema di azioni finalizzate alla riqualificazione tale da costituire anche una
variante alle indicazioni del piano regolatore generale. L’azione di integrazione che i programmi complessi
si prefiggono di attuare fa riferimento a:

compresenza di più attori e di differenti forme di finanziamento;

presenza di differenti funzioni all’interno di una stessa area;

riqualificazione e sostenibilità (economica, sociale, ambientale).
Gli attori preposti alla loro composizione sono:

soggetti proponenti pubblici e/o privati;

soggetto promotore identificato nel Comune;

soggetto gestore istituzionale (Ministero dei Lavori Pubblici).
Gli aspetti innovati dei programmi complessi in relazione al piano regolatore generale tradizionale possono
essere sintetizzati nei seguenti punti:

superamento della zonizzazione monofunzionale;

tendenza al mix funzionale (residenza, produzione, terziario, tempo libero);

intervento urbano come strumento di rivalutazione delle risorse sul territorio;

individuazione contestuale dei soggetti attuatori, delle competenze, delle risorse finanziarie, della
definizione dei tempi di attuazione (predeterminati e certi);

coinvolgimento dei privati;

iter di approvazione snello e veloce che può avvalersi dell’Accordo di Programma con gli enti territoriali
titolari degli strumenti urbanistici vigenti;

valutazione dell’utilità pubblica e privata;

meccanismi decisionali “dal basso”

ruolo centrale dell’amministrazione comunale che ha il compito di individuare le strategie in grado di
ottenere migliori risultati sul piano della fattibilità e del coinvolgimento degli investitori;

coinvolgimento dei privati non solo imprenditori ma anche proprietari di immobili generalmente molto
più inerti.
La produzione intensa degli strumenti complessi concentratasi nel corso degli anni Novanta ha consentito
di individuare diverse generazioni di programmi complessi. La prima generazione coincide con gli inizi degli
anni Novanta. I programmi complessi di questo primo gruppo sono:

Programmi Integrati di Intervento (L. 179/1992);

Programmi di Recupero Urbano (L. 493/1993);

Programmi di Riqualificazione Urbana (DM 21/12/94).
Sono strumenti generati soprattutto dalla possibilità di accedere a specifici finanziamenti che promuovono
la trasformazione urbana come motore della riqualificazione.
La seconda generazione si sviluppa nella metà degli anni Novanta ed è caratterizzata da una maggiore
complessità delle proposte che fanno riferimento anche alla volontà di recuperare l’identità dell’area
oggetto di intervento, oltre che alla necessità di operare una riqualificazione fisica dell’area urbana.
I “Contratti di quartiere” (Legge 662/1996), per esempio rivolgono attenzione soprattutto alla
riqualificazione di aree urbane periferiche nelle quali il recupero non è più solo riferito al sistema fisico ma
interessa anche gli aspetti della sicurezza urbana, del recupero sociale, degli elementi identitari, della
partecipazione e, anche se in maniera marginale, dell’occupazione.
La terza generazione di programmi complessi coincide con la fine degli anni Novanta e comprende i
Programmi di Riqualificazione e Sviluppo Sostenibile del Territorio (D.M. LLPP/1998). Tali programmi
assumono una differente dimensione soprattutto in riferimento alle forme di finanziamento ed introducono
una serie di concetti innovativi, tra questi:

l’elevata concertazione con i privati (è richiesta la presenza minima, non inferiore a 1/3, degli
investimenti totali);

la congruenza tra il livello comunale e il livello regionale;

l’introduzione della tematica della sostenibilità dello sviluppo;

la necessità di dimostrare la capacità da parte delle amministrazioni di cofinanziare la realizzazione del
progetto.
I PRUSST possono avere un’estensione variabile, dalla scala comunale a quella regionale e metropolitana.
In particolare, i sistemi interessati sono: sistemi metropolitani; distretti insediativi; sistema delle
attrezzature; sistema degli spazi di transizione e di integrazione. Tali sistemi sono individuati sulla base di
caratteristiche fisiche, morfologiche, culturali e produttive.
211
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
Nei paragrafi che seguono vengono sinteticamente descritti i contenuti degli strumenti della
programmazione complessa seguendo l’ordine temporale dei riferimenti legislativi che li hanno introdotti.
Programmi Integrati di Intervento
Il Programma Integrato di Intervento (PII) è introdotto dalla Legge 17 febbraio 1992, n. 179 “Norme per
l’edilizia residenziale pubblica” (art. 16) con la finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed
ambientale. Tale programma è caratterizzato da: pluralità di funzioni; integrazione di diverse tipologie
d’intervento; incidenza sulla riorganizzazione urbana e concorso di operatori pubblici e privati.
L’ambito territoriale interessato è composto da aree che necessitano di riqualificazione urbanistica o
ambientale, da attuarsi attraverso un insieme coordinato di interventi con il concorso di risorse private.
La legge non impone contenuti particolari, ma richiede che il programma:

integri diverse modalità di intervento (nuova edificazione, opere di urbanizzazione, risanamento
ambientale, ecc.);

garantisca la compresenza di diverse funzioni nell’area;

preveda il concorso tra più operatori e, in particolare, la partecipazione di soggetti privati.
L’attuazione del Programma Integrato di Intervento è disciplinata nelle leggi regionali ed interessa zone in
tutto o in parte edificate o da destinare a nuova edificazione. In generale, il Programma Integrato di
Intervento è:

redatto da soggetti pubblici o privati, singoli o associati tra loro e presentato al Comune;

approvato dal Consiglio Comunale se concorde con le previsioni della strumentazione urbanistica
vigente;

trasmesso alla Regione entro quindici giorni dalla sua esposizione all’albo pretorio corredato di eventuali
osservazioni se in contrasto con la strumentazione urbanistica vigente;

modificato o approvato dalla Regione se in contrasto con la strumentazione urbanistica vigente;

è equiparato dal Comune al permesso a costruire;

non subordinato all’inclusione nei programmi pluriennali di attuazione;

è attuato mediante stipula di convenzioni dove sono puntualmente stabiliti obblighi e oneri per la
realizzazione degli interventi.
Programma di Recupero Urbano
La legge 4 dicembre 1993 n. 493 definisce i Programmi di Recupero Urbano come un “insieme sistematico
di opere finalizzate alla realizzazione, alla manutenzione e all’ammodernamento delle urbanizzazioni
primarie e secondarie, alla edificazione di completamento e integrazione dei complessi urbanistici esistenti,
all’inserimento di elementi di arredo urbano, alla manutenzione ordinaria e straordinaria, al restauro e al
risanamento conservativo, alla ristrutturazione edilizia degli edifici” (art. 11, comma 2).
L’istituzione di tali strumenti ha avuto come obiettivo principale il finanziamento di opere di riqualificazione
in aree urbane periferiche attraverso progetti realizzabili con il ricorso di risorse pubbliche e private
(Francini e Viapiana 2009).
Pur conservando la stessa natura di strumento esecutivo, il programma di recupero è sostanzialmente
differente dal piano di recupero del patrimonio edilizio esistente introdotto dalla legge 457/1978. Il
programma di recupero, infatti, attraverso l’accordo tra operatori pubblici e privati è finalizzato alla
riqualificazione urbanistica e dei servizi dei quartieri periferici degradati.
L’intervento di recupero, quindi, si riferisce ad una visione più ampia che oltre ad intervenire sugli elementi
fisici del degrado persegue anche obiettivi di rivalutazione sociale ed ambientale.
In sintesi, i programmi di recupero urbano sono indirizzati alla riqualificazione edilizia, urbanistica e
ambientale degli insediamenti residenziali pubblici inseriti nei piani di zona per l’edilizia economica e
popolare (ex L. 167/1962) oppure che sono di proprietà pubblica (stato, comuni, Istituti Autonomi di Case
Popolari, ecc.) e prevedono un insieme coordinato di interventi:

urbanizzativi (realizzazione, manutenzione e ammodernamento delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria; connessione e integrazione con il contesto urbano, attenzione all’accessibilità degli impianti
e dei servizi a rete);

ambientali (miglioramento qualitativo del paesaggio urbano anche attraverso l’inserimento di adeguati
elementi di arredo);

edilizi (manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo e ristrutturazione
edilizia degli edifici).
212
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
I PRU, nell’ambito della programmazione regionale sono proposti al Comune da soggetti pubblici e privati,
anche associati tra di loro. Per la individuazione degli interventi, il Comune definisce le priorità sulla base
di criteri oggettivi.
Per l’approvazione dei PRU, può essere promossa la conclusione di un Accordo di Programma. Nella
procedura di approvazione Comune e Regione hanno ruoli e compiti definiti, in particolare:

i comuni individuano gli insediamenti di edilizia residenziale pubblica oggetto di proposte di PRU;

le Regioni ripartiscono i finanziamenti anche mediante Accordi di Programma e stabiliscono un termine
di dieci mesi entro il quale gli interventi devono iniziare, in mancanza, il presidente della Giunta
Regionale può revocare i fondi e destinarli ad altre proposte.
Le modalità di finanziamento possono essere differenti tra soggetti pubblici e privati.
In particolare, possono essere a totale contributo per i soggetti pubblici e a contributo a parziale copertura
del costo convenzionale per gli interventi privati.
Per poter accedere ai finanziamenti la proposta di PRU deve contenere:

relazione illustrativa dell’intero programma e descrizione degli interventi;

relazione descrittiva sullo stato degli immobili e degli eventuali vincoli;

relazione relativa alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria esistenti e di progetto;

elaborati grafici (perimetrazione, norme di PRG, eventuali difformità, elenchi catastali, progetto di
massima);

stima analitica delle famiglie interessate dall’intervento di alloggi parcheggio;

comparazione economica di massima;

programma temporale;

piano di fattibilità giuridico-amministrativo (vincoli, procedure, ecc.).
La valutazione delle proposte è effettuata dai comuni sulla base di criteri determinati dal comune stesso
che fanno riferimento prioritariamente alla comparazione economica, la qualità dell’offerta tecnica ed il
conseguimento degli obiettivi prefissi.
Come per gli altri strumenti della programmazione complessa, la fattibilità dei PRU è strettamente
dipendente dalla disponibilità finanziaria che in tempi di risorse limitate risulta difficilmente perseguibile.
Inoltre, il sistema messo a punto dalla normativa per la definizione di questi programmi si è verificato
particolarmente complesso sia in riferimento alla suddivisione dei finanziamenti, sia ai criteri di selezione
delle proposte.
Tale complessità ha rappresentato spesso un ostacolo, soprattutto in riferimento alla celerità di spesa
richiesta per l’utilizzo dei finanziamenti.
Programma di Riqualificazione Urbana
Introdotti con decreto del Ministero delle Infrastrutture nel 1994 (DM 21/12/1994), tali programmi si
propongono di avviare il recupero edilizio e funzionale di ambiti urbani specificatamente identificati
attraverso proposte unitarie che riguardano):

parti significative delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;

interventi di edilizia non residenziale che contribuiscono al miglioramento della qualità della vita;

interventi di edilizia residenziale che inneschino processi di riqualificazione fisica.
I soggetti ammessi a finanziamento sono i comuni con popolazione superiore a 300.000 abitanti ricadenti
in:

aree metropolitane da definire (L. 142/1990);

comuni capoluogo di provincia;

altri comuni, se la proposta riguarda aree industriali dismesse;

comuni inseriti in ambiti con rilevanti trasformazioni economiche.
L’ambito di intervento è definito in ragione dell’ampiezza e della consistenza del degrado edilizio,
urbanistico, ambientale, economico e sociale, del raggio di influenza delle urbanizzazioni primarie e
secondarie e del ruolo strategico del programma nel contesto urbano e metropolitano.
Gli interventi ammissibili a carattere unitario fanno riferimento ad un insieme sistematico e coordinato di
interventi pubblici e privati in regime di convenzione.
213
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
Contratti di Quartiere
I Contratti di Quartiere25 sono stati un’occasione per stimolare le amministrazioni comunali ad individuare
modalità integrate di intervento particolarmente attente alla comunicazione e alla partecipazione della
popolazione interessata dall’intervento di recupero. I CdQ, infatti, sono particolari programmi di recupero
urbano destinati ai comuni con quartieri segnati da diffuso degrado delle costruzioni e dell’ambiente
urbano e da carenze di servizi in un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato disagio abitativo.
Il Decreto Ministeriale che li introduce (DM 22/10/1997) prevede che gli ambiti di applicazione siano
compresi nelle aree interessate da:

piani per l’edilizia economica e popolare (L. 167/62), aventi o meno valore di piano di recupero (L.
457/78);

zone di recupero (L. 457/78);

comparti di edifici particolarmente degradati (art. 18 L. 392/78 “equo canone”);

aree assoggettate a recupero urbanistico di insediamenti abusivi;

aree aventi analoghe caratteristiche eventualmente individuate dalla legislazione regionale.
Le leggi finanziarie nel biennio 96-97 hanno provveduto allo stanziamento di fondi per la realizzazione di un
programma di recupero del patrimonio residenziale pubblico innovativo in relazione a sperimentazioni sia di
nuove tecniche costruttive, sia di processi partecipativi sino ad allora ancora poco utilizzati.Gli interventi di
sperimentazione si sono orientati verso obiettivi di:

qualità tecnico progettuale;

risparmio energetico;

soddisfazione delle esigenze delle categorie sociali deboli;

diffuso sistema di qualità.
I comuni sono i principali soggetti legittimati alla presentazione di un CdQ; un ruolo di rilievo è svolto
anche da altri soggetti pubblici che possono contribuire alla presentazione del progetto (ATERP26, aziende
erogatrici di trasporto pubblico, aziende di servizi pubblici, ecc.). L’esperienza dei CdQ è ritenuta
particolarmente rispondente alla richiesta di qualità urbana anche nelle aree periferiche delle città.
Particolare attenzione viene dedicata alle tematiche della sostenibilità e dell’ecologia urbana nella
definizione delle tematiche del bando per la presentazione dei progetti.
Programma di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile del Territorio
Fra gli strumenti della programmazione complessa, l’esperienza dei Programmi di Riqualificazione Urbana e
Sviluppo Sostenibile del Territorio (PRUSST)27 si differenzia soprattutto in riferimento alla scala
dell’intervento che interessa ambiti territoriali ampi, comunque interessati da fenomeni di degrado.
In particolare, possono essere oggetto di PRUSST:

sistemi metropolitani caratterizzati da un deficit infrastrutturale relativo alla gestione dei grandi bacini di
mobilità e dalla criticità delle interconnessioni tra nodi dei sistemi di trasporto internazionali, nazionale e
interregionali;

distretti insediativi che richiedono una migliore strutturazione della loro articolazione infraregionale;

sistema delle attrezzature sia a rete che puntuali di livello territoriale e urbano;

sistema degli spazi di transizione e di integrazione.
Gli obiettivi del PRUSST possono essere sintetizzati nei seguenti punti:

realizzare, adeguare e completare attrezzature (a rete e puntuali) di livello territoriale e urbano per
promuovere e orientare occasioni di sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, ambientale e sociale;

tutelare i valori ambientali, valorizzare il patrimonio storico, artistico e architettonico, garantire
l’aumento del benessere della collettività;

realizzare un sistema integrato di attività finalizzate all’ampliamento e alla costruzione di insediamenti
industriali, commerciali e artigianali, alla promozione turistico-ricettiva e alla riqualificazione di zone
urbane centrali e periferiche interessate da fenomeni di degrado.
Le aree interessate dal PRUSST possono avere estensione variabile dalla scala comunale a quella
regionale.
25
26
27
Sono stati introdotti dalla L.662/96, integrata con DM 22/10/1997 (Ministero dei Lavori Pubblici) come interventi
sperimentali nel settore dell’edilizia residenziale sovvenzionata (e urbanizzazioni) da includere nei PRU. Successivamente,
sono stati previsti ulteriori finanziamenti per un secondo bando nel 2001, istitutivo di contratti di Quartiere di seconda
generazione (L. 21/2001).
Agenzia Territoriale Edilizia Residenziale Pubblica.
Istituiti con Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel 1998.
214
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
I soggetti promotori sono i Comuni e, di intesa con essi, le Province e le Regioni.
Sono soggetti proponenti gli Enti pubblici territoriali (regione, provincia, comunità montana); le Altre
amministrazioni pubbliche (p. e. università, camere di commercio, ecc.); soggetti privati (associazioni di
categoria, imprenditori, istituti bancari, ecc.).
I soggetti promotori e i soggetti proponenti individuano gli interventi pubblici da comprendere nel
programma, anche in base alla possibilità che i medesimi interventi possano essere realizzati con risorse
private sulla base di piani finanziari e di corrispettivi di gestione.
La partecipazione del privato è possibile sia per opere di iniziativa privata, sia per opere pubbliche o di
interesse pubblico. I soggetti privati devono concorrere al finanziamento delle opere pubbliche o di
interesse pubblico per una quota significativa da stabilirsi secondo i criteri di convenienza del soggetto
promotore. Il decreto stabilisce anche che gli investimenti per interventi privati debbano coprire almeno
1/3 dell’intervento complessivo.
16.4.
I Piani Urbanistici Attuativi nella LUR della Campania
Le leggi regionali urbanistiche riconoscono i tradizionali piani di attuazione come strumenti esecutivi del
piano comunale (Oliva 2004). Anche per quel che concerne la situazione campana i piani urbanistici
attuativi (PUA) assumono valore di strumenti esecutivi delle previsioni del piano urbanistico comunale.
In particolare, all’art. 26 della L.R. 16/2004 si precisa che: «i PUA, in relazione al contenuto, hanno portata
e valore dei seguenti strumenti:

piani particolareggiati e piani di lottizzazione di cui alla L. 1150/1942, artt. 13 e 28;

piani per l’edilizia economica e popolare di cui alla L. 167/1968;

piani delle aree da destinare ad insediamenti produttivi di cui alla L. 865/1971 art. 27;

programmi integrati di intervento di cui alla L 179/1992 art. 17 e alle L. R. 3/1996 e L. R. 26/2002;

piani di recupero di cui alla L. 457/1978;

programmi di recupero urbano di cui al D.L. 398/1993, art. 11, convertito in L. 493/1993».
Tali piani non possono modificare le indicazioni del piano urbanistico comunale. Può verificarsi l’eventualità
di dover operare alcune modifiche che riguardano (art. 26, L.R. 16/2004):

la verifica di perimetrazioni conseguenti alla diversa scala di rappresentazione grafica del piano;

la precisazione dei tracciati viari;

le modificazioni del perimetro del Pua rese necessarie da esigenze sopravvenute quali ritrovamenti
archeologici, limitazioni connesse all’imposizione di nuovi vincoli, problemi geologici;

le modifiche delle modalità di intervento sul patrimonio edilizio esistente di cui al D.L. 380/2001 art. 3;

la diversa dislocazione, nel perimetro del Pua, degli insediamenti, dei servizi, delle infrastrutture e del
verde pubblico senza aumento delle quantità e dei pesi insediativi.
L’amministrazione comunale deve motivare le modifiche sia per dimostrare che esse apportano un
miglioramento della situazione prefigurata dal piano comunale, sia per garantire che vengano rispettati i
valori di carico urbanistico previsti. Il procedimento di formazione dei Pua viene disciplinato all’art. 27 della
L.R. 16/2004. In particolare, i soggetti preposti alla redazione di un piano urbanistico attuativo sono:

il comune;

le società di trasformazione urbana (STU)28;

i proprietari dei suoli se previsto dalla normativa vigente o nel caso in cui il Comune non abbia
provveduto alla attuazione del Pua, pur avendone prevista la redazione29;

l’amministrazione comunale nel caso in cui i privati siano inadempienti o nel caso in cui il comune
respinga le proposte avanzate dai privati.
Procedimento di formazione dei PUA
L’amministrazione comunale verifica, prima dell’adozione, che il PUA è compatibile con il PUC e con i piani
di settore comunali. Dopo l’adozione del PUA da parte della Giunta, il Comune garantisce il rispetto degli
strumenti di partecipazione procedimentale stabiliti dalla normativa vigente.
28
29
Le STU (L. 127/1999 e DLgs n.267/2000) sono orientate a sostenere l’azione degli enti pubblici nella realizzazione delle
indicazioni degli strumenti urbanistici. Sono Società per Azioni prevalentemente composte da soggetti pubblici (Comune,
Provincia, Regione); possono essere anche composte da una percentuale di soggetti privati con una comprovata
esperienza nel campo della progettazione e riqualificazione urbanistica ed edilizia.
I proprietari devono rappresentare il 51% del valore complessivo dell’area interessata dagli interventi.
215
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 16. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA)
Successivamente, si procede alla pubblicizzazione del PUA che viene pubblicato nel BURC e sul sito web
del Comune nonché all’albo pretorio (30 giorni).
Fig. 2 – Iter di approvazione dei Piani Urbanistici Attuativi nella Legge Regionale n. 16 della Campania
La Giunta comunale approva il PUA valutando le eventuali osservazioni presentate in fase di
partecipazione. Al fine di garantire la funzione di coordinamento dell’attività pianificatoria,
l’amministrazione comunale prima dell’approvazione trasmette il PUA a l’amministrazione provinciale per
eventuali osservazioni da rendere entro trenta giorni dalla trasmissione del piano completo di tutti gli
elaborati. Decorso tale termine la Giunta comunale procede all’approvazione del PUA. Il piano approvato è
pubblicato nel BURC e sul sito web del Comune ed entra in vigore il giorno successivo a quello della sua
pubblicazione.
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Salzano, E. (1998), Fondamenti di Urbanistica, Laterza, Bari.
216
17. LE TECNICHE PER LA REDAZIONE DEL PIANO COMUNALE1
Giuseppe Mazzeo ed Andrea Ceudech
Le azioni di piano sono la trasposizione operativa del sistema di obiettivi fissati all’inizio del processo di
costruzione dello stesso. Queste azioni devono essere sostenibili per il territorio e per la comunità che vive
su di esso. Per questo motivo il piano deve contenere una valutazione preliminare sulla quantità e sulla
qualità delle dotazioni e dei carichi che possono essere ragionevolmente previsti, nell’ipotesi che essi non
stravolgano il sistema territoriale di partenza ma che, anzi, ne migliorino le prestazioni. I successivi
processi di distribuzione dei carichi e di disegno di piano ne rappresentano il risultato naturale, pur avendo
di per sé una forte incidenza sugli esiti complessivi del processo di pianificazione.
17.1.
Il carico urbanistico
La città è una struttura fisico-funzionale che deve rispondere con un sistema di offerta alla domanda che
perviene da un insieme di utenti. L’offerta, oltre che da parametri quantitativi come i volumi o le superfici,
può essere caratterizzata da parametri qualitativi come l’adeguatezza del servizio, l’affidabilità e la sua
efficacia. L’obiettivo da realizzare è un sistema domanda-offerta in uno stato di equilibrio dinamico
relazionato ad un arco temporale sufficientemente lungo. A questo scopo si introduce il “carico
urbanistico”, una funzione complessa che individua e quantifica le conseguenze sul sistema urbano della
domanda di servizi.
Per domanda si intende l’insieme delle prestazioni richieste dagli attori cui il sistema urbano deve far
fronte. In particolare si può dire che la domanda è l’insieme delle prestazioni che gli attori chiedono al
sistema urbano affinché una serie di attività si possano svolgere in modo idoneo. Dunque le attività
definiscono la domanda. Il campo di esistenza su cui agiscono domanda, offerta e carico sono
rappresentati dal territorio e dalla città in quanto elementi fisicamente definiti. Questo perché il piano
mette in atto, in prevalenza, trasformazioni degli spazi per rispondere alla domanda della collettività. Tale
domanda si configura in richiesta di spazi.
Fig. 1 - Le attività e il carico urbanistico
Il carico urbanistico è funzione non solo dell’attività primaria considerata, ma anche delle attività secondarie ad essa
connessa e del sistema degli spazi e dei canali.
Il carico urbanistico (Cu) è funzione del tipo di attività (A) ed è rappresentato dall’insieme degli spazi
adattati e dei canali necessari affinché questa attività possa svolgersi in maniera adeguata.
Cu = f1(A)
(1)
Nell’attività residenziale, ad esempio, il carico urbanistico è generato dagli spazi e dai volumi residenziali.
Oltre a questi, però, esso è generato anche dalle attività secondarie ad essa connesse (istruzione,
commercio di prossimità, servizi alla residenza, verde e attrezzature sportive, ecc.) o necessarie allo
svolgimento dell’attività primaria, come, ad esempio, i servizi a rete, le strade, ecc. Ne discende che nella
valutazione del carico urbanistico devono essere inclusi non solo gli elementi (spazi, canali, …)
1
Questo capitolo è stato redatto da Giuseppe Mazzeo per i §§ 17.1, 17.2, 17.3, 17.4, 17.6 e da Andrea Ceudech per il §
17.5.
219
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
direttamente connessi con l’attività primaria ma anche quelli connessi con le attività secondarie collegate
alla primaria, senza le quali quest’ultima non può essere effettuata.
Ad ogni attività si associa il relativo carico urbanistico.
Come già detto gli attori urbani pongono domande di attività e di spazi alla città e l’insieme coordinato
delle domande degli attori rappresenta il sistema della domanda. A tale sistema della domanda
corrisponde un sistema dell’offerta che consente di raggiungere un equilibrio (comunque dinamico) da
garantire per un periodo di tempo non breve. Compito specifico del pianificatore è organizzare gli spazi,
ovvero definire l’insieme degli interventi sul sistema fisico.
In tale organizzazione, quindi, il carico urbanistico è anche funzione del numero di utenti che si serve di
quella attività (U).
Cu = f2(U)
(2)
Ciò vuol dire che, definita una certa attività, il carico urbanistico varia al variare del numero di utenti, con
un andamento crescente che assume caratteri estremamente negativi laddove la concentrazione antropica
è molto elevata, ossia nei grandi sistemi urbani; in questi casi l’intensità d’uso relativa ad una determinata
funzione può superare specifici valori limite. In questi casi si parla di congestione di stato, da cui può
derivare una fase di snervamento durante la quale il sistema perde la capacità di recupero ed, infine, il
collasso del sistema. Quanto detto può essere spiegato anche in termini di sostenibilità ambientale,
ricordando che l’uso degli elementi ambientali (acqua, suolo, …) viene relazionato a specifici limiti, superati
i quali l’ambiente non ha più capacità rigenerativa.
Si può quindi affermare che il carico urbanistico è funzione anche dell’intensità di uso dello spazio (I).
Cu = f3(I)
(3)
Le espressioni 1, 2 e 3 possono essere combinate insieme in modo da ottenere un’unica funzione che
racchiude al suo interno i contributi dei tre termini.
Cu = f1(A), f2(U), f3(I) = f4(A, U, I)
(4)
Essa può essere semplificata in considerazione del fatto che, per una data attività, si può individuare una
relazione tra il numero di utenti U e la dotazione D; essa è una caratteristica dell’offerta ed è
rappresentata dai volumi, dalle superfici e dalle altre dimensioni fisiche necessarie a soddisfare una
domanda. In questa ottica la dotazione può essere considerata come una funzione dell’attività A e
dell’intensità di uso I, per cui la (4) diviene:
Cu = f4(U, D)
(5)
L’espressione (5) può essere, a sua volta, capovolta definendo la dotazione in funzione del carico
urbanistico. Ad esempio, alla domanda di mobilità è associata una offerta di trasporto che si compone di
più elementi funzionali, come, ad esempio, l’offerta di spazi per la sosta; questo elemento funzionale è un
elemento dell’offerta di mobilità (dotazione) cui è associata una domanda (carico) che può essere valutata
in termini di superficie di sosta per utente. Lo stesso ragionamento può essere condotto per altri elementi
funzionali della stessa attività o di altre attività.
Al di là delle considerazioni teoriche, il concetto di carico urbanistico viene comunemente utilizzato nella
pratica urbanistica e nella risoluzione di controversie amministrative. Da questo punto di vista la nozione di
carico urbanistico deriva «dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento
cosiddetto primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in
genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione
del gas) che deve essere proporzionato all’insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati
ed alle caratteristiche dell’attività da costoro svolte. Quindi, il carico urbanistico è l’effetto che viene
prodotto dall’insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del
numero delle persone insediate su di un determinato territorio» (Corte di Cassazione, sentenza 12878 del
20 marzo 2003).
Sebbene non sia definito dalla legislazione in vigore, il concetto giuridico di carico urbanistico può farsi
derivare da alcune considerazioni specifiche associate a norme di legge e a pratiche comunemente
utilizzate. In particolare:

è connesso al concetto di standard urbanistico di cui al D.I. 1444/68 che richiede l’inclusione, nella
formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle
220
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
varie zone. L’obbligo di tali superfici minime riduce la superficie territoriale a disposizione della
trasformazione fondiaria in quanto vincola in modo rigido un quota rilevante di spazio alla realizzazione
di attrezzature e spazi pubblici;

è insito nella procedura di richiesta di permesso di costruzione e, quindi, nel contributo di
urbanizzazione derivante dal costo di produzione degli edifici e dalle sue superfici utili. La costruzione di
nuovi vani produce nuovo insediamento, quindi la previsione di un corrispettivo per ottenere questa
possibilità ha lo scopo di mettere in evidenza il fatto che tale attività ha un costo per la società che può
essere risarcito (non si sa se totalmente o parzialmente) solo monetariamente;

è insito nel parallelo esonero da tale contributo di quelle opere che non comportano nuovo
insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;

è insito nell’esonero da ogni autorizzazione (e contributo) per le opere interne (art. 26, Legge 47/1985 e
art. 4, c. 7, Legge 493/93) che non comportano la creazione di nuove superfici utili, fermo restando il
vincolo d’uso dell’immobile.
La quantificazione del carico urbanistico si determina attraverso il sistema degli indici urbanistici previsti
zona per zona. La definizione delle densità edilizie territoriali e fondiarie, dei rapporti di copertura e degli
indici di utilizzazione, combinata con le previsioni relative agli standard e agli spazi di connessione della
mobilità, definisce il limite massimo teorico previsto per l’insediamento e, quindi, il carico parziale e totale
che graverà sul sistema dei servizi e delle infrastrutture a rete.
17.2.
Le dotazioni urbane
Il sistema delle dotazioni urbane rappresenta un fattore distintivo della città. La qualità, oltre alla quantità,
dei servizi pubblici definisce il sistema dei beni pubblici urbani e il suo impatto reale sul complessivo livello
di qualità urbana.
Il dibattito sulle dotazioni urbane è connesso con quello della “città pubblica”. A partire dagli esiti poco
felici della pianificazione basata sugli standard urbanistici, esso ha ampliato il suo raggio d’azione fino a
comprendere elementi molto lontani da quelli originari come, ad esempio, l’inclusione nelle dotazioni di
parametri a carattere ecologico ed ambientale; inoltre il concetto di dotazione si intreccia con altri concetti
relativi alla sfera pubblica, quali la riforma del welfare, la coesione sociale, la sostenibilità della gestione
dei servizi e l’incidenza sulle politiche urbane della sempre più scarsa disponibilità di risorse finanziarie
pubbliche, con il necessario ricorso a forme di cooperazione e concertazione pubblico-privato.
Quando si parla di dotazioni urbane si intendono tipi diversi di attrezzature e servizi. Da un punto di vista
tecnico appartengono alle dotazioni urbane:
1. le infrastrutture urbane, ossia l’insieme delle reti e degli impianti che strutturano il territorio
consentendo il soddisfacimento delle necessità connesse alla vita urbana. Rientrano in questa categoria
reti ed impianti:

per la distribuzione dell’energia;

per il prelievo, il trattamento e la distribuzione dell’acqua potabile;

per l’incanalamento, la depurazione, il trattamento dei reflui e la canalizzazione delle acque meteoriche;

per le comunicazioni e le telecomunicazioni;

per la mobilità urbana, veicolare, ciclabile e pedonale;

per il trasporto pubblico (su strada, su ferro, …);

di arredo urbano;

connesse al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti;

per il riscaldamento e il condizionamento esteso ad ambiti urbani;
2. le attrezzature e gli spazi collettivi, ossia l’insieme delle opere e degli spazi pubblici destinati a servizi di
interesse collettivo e a garantire la qualità della vita individuale e collettiva; alcune di queste dotazioni
fanno parte del limitato insieme che per la normativa nazionale devono essere obbligatoriamente
presenti nelle previsioni di piano. Comprendono:

l’istruzione;

l’assistenza e i servizi sociali, igienici e sanitari;

la pubblica amministrazione, la sicurezza pubblica e la protezione civile;

le attività culturali, associative e politiche;

il culto;

gli spazi attrezzati a verde, per il gioco, il tempo libero e per le attività sportive;

gli spazi aperti che consentono la libera fruizione per usi pubblici e collettivi;

i parcheggi pubblici;
221
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
3. i servizi privati, ossia l’insieme delle dotazioni, in massima parte in proprietà e/o in gestione privata,
che rivestono un interesse collettivo o che arricchiscono la qualità e le opportunità presenti sul
territorio. L’elenco riveste un valore indicativo per la variabilità della categoria e per le specificità
territoriali relative all’insediamento di tali servizi, oltre che per la presenza di servizi che rientrano
anche in altre categorie, come ad esempio quelle della produzione. Ne fanno parte:

i servizi sociali privati;

il commercio, sia quello di vicinato che quello specializzato e di attrazione;

i pubblici esercizi (bar, ristoranti, …);

i servizi ricettivi (alberghi, pensioni, …);

i servizi di artigianato alla persona e alla casa;

i servizi professionali, di intermediazione immobiliare, finanziari, di ricerca e sviluppo;
4. le dotazioni ecologiche ed ambientali, ossia l’insieme degli spazi (anche privati), delle opere e degli
interventi che contribuiscono a migliorare la qualità dell’ambiente urbano e a mitigarne le
caratteristiche negative in termini di impatto complessivo. Tali dotazioni possono essere elencate in
relazione agli obiettivi che si prefiggono, quali:

tutela e risanamento dell’aria e del microclima;

tutela e risanamento delle acque;

gestione integrata del ciclo idrico;

riduzione dell’inquinamento acustico;

riduzione dell’inquinamento elettromagnetico;

mantenimento della permeabilità dei suoli;

manutenzione ambientale;

riequilibrio ambientale dell’ambiente urbano e dell’intorno;

raccolta differenziata dei rifiuti;

risparmio energetico e fonti rinnovabili.
In una delle ultime proposte di riforma della legge urbanistica nazionale, dal titolo “Principi in materia di
politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana” (2014, mai approvata), si sosteneva che «la
pianificazione e la programmazione del territorio devono prevedere la dotazione di attrezzature pubbliche,
e di servizi di interesse pubblico, collettivo e generale per garantire, sul territorio nazionale, la dotazione
delle reti e delle infrastrutture che consentono l’accessibilità alle attrezzature urbane e territoriali e la
mobilità delle persone e delle merci».
Avrebbero dovuto far parte di questo sistema di “dotazioni territoriali essenziali”, indispensabili per il
raggiungimento di migliori livelli di qualità urbana e per la realizzazione di interventi organici di
riqualificazione dei tessuti edilizi, nonché di infrastrutturazione del territorio, gli immobili e le attività
gestionali finalizzati alla fornitura dei servizi relativi ai seguenti diritti di cittadinanza:
a) salute, assistenza sociale e sostegno delle famiglie;
b) istruzione, innovazione e ricerca;
c)
fruizione del tempo libero, del verde pubblico, della cultura, sport e spettacolo;
d) mobilità e accessibilità, trasporto delle persone e delle merci e collettivo, infrastrutture immateriali a
rete;
e) godimento del paesaggio, del patrimonio storico-artistico e dell’ambiente;
f)
sostegno dell'iniziativa economica in coerenza con l’utilità sociale e la sicurezza del lavoro;
g) esercizio della libertà di religione e di espressione etico-sociale, di associazione a fini comunitari e
culturali;
h) servizio abitativo ed edilizia residenziale sociale.
Per la stessa proposta, lo Stato avrebbe dovuto definire i livelli quantitativi e qualitativi delle dotazioni
territoriali essenziali, tenendo conto della differenziazione delle amministrazioni comunali per soglia
demografica, per condizioni economiche e sociali e per ulteriori elementi di diversificazione o di
omogeneità stabiliti d’intesa con le Regioni e le autonomie locali.
Le Regioni avrebbero poi dovuto garantire che gli strumenti del “governo del territorio” comprendessero la
programmazione e la pianificazione della dotazione e della gestione dei servizi primari, secondari e di
interesse generale incluse le aree o gli immobili necessari per il soddisfacimento dei fabbisogni di edilizia
residenziale sociale, nonché il coordinamento della disciplina relativa alla gestione dei servizi sociali e delle
attività di assistenza alla persona. Le previsioni delle dotazioni territoriali avrebbero dovuto basarsi su
approfondite e adeguate analisi di contesto documentando il fabbisogno pregresso e futuro, lo stato
effettivo di accessibilità e di fruibilità dei servizi pubblici, di interesse pubblico e generale, determinando le
modalità, i criteri e i parametri tecnici ed economici attraverso i quali avrebbe dovuta essere assicurata la
222
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
fornitura e la qualità di tali servizi, in relazione alle politiche sociali, locali e sovralocali, anche tramite il
concorso di soggetti privati.
17.3.
Il dimensionamento delle dotazioni urbane
Le dotazioni urbane sono elementi fisici e funzionali che connotano e caratterizzano la città. La loro
dimensione quantitativa e qualitativa deriva dal rapporto tra domanda ed offerta all’interno di un sistema
urbano e, quindi, dalla determinazione di un livello ottimale di equilibrio.
Nel dimensionare tali dotazioni occorre sempre considerare il livello di servizio che si vuole raggiungere e
rapportarlo con le risorse a disposizione, in modo tale che esse siano utilizzate in modo efficace. Ne deriva
che il dimensionamento non è solo un problema di tipo quantitativo e localizzativo, ma anche di tipo
qualitativo, in relazione all’uso e alla gestione che della dotazione viene fatta.
Gli standard urbanistici
Nel suo significato originario, il termine standard indicava il vessillo dei cavalieri medievali usato in
battaglia o nei tornei. Oggi il termine si utilizza «per indicare qualcosa di noto, di non discutibile e che può
essere usato come elemento di paragone in numerosi campi delle tecnologie e delle scienze. La
caratteristica dello standard, di essere legato a una prestazione, ad un livello di funzionamento raggiunto e
sperimentato, è evidente in numerosi ambiti disciplinari, nei quali il termine è appunto usato in questo
significato» (Falco 1978, 23).
In urbanistica gli standard sono stati introdotti nella legislazione nazionale in seguito all’emanazione della
Legge 6 agosto 1967, n. 765 (c.d. legge ponte) e al successivo Decreto Interministeriale 1444 del 4 aprile
1968.
Con il termine “standard urbanistici” si vogliono indicare le quantità minime di spazi pubblici o di uso
pubblico che devono essere individuate obbligatoriamente nei piani urbanistici generali di livello comunale
e realizzati successivamente anche mediante piani attuativi. L’obbligo di programmare nei piani una
dotazione minima di servizi pubblici derivò dalla constatazione che le città italiane erano cresciute nel
dopoguerra avendo come solo obiettivo la massimizzazione della rendita fondiaria. Ciò si traduceva nella
previsione e nella realizzazione di nuovi insediamenti privi o scarsamente dotati di attrezzature pubbliche,
di spazi verdi, di parcheggi, di scuole.
La quantificazione e la distribuzione di questi standard si traduce, all’interno del piano urbanistico
comunale, nella individuazione delle aree e nella imposizione di vincoli dedicati alla loro acquisizione al
patrimonio pubblico. L’obbligo imposto nel 1968 ha avuto come conseguenza primaria la crescita del
patrimonio di beni pubblici, accompagnata da un massiccio incremento degli esborsi conseguenti agli
espropri e da una generalizzata mancanza di qualità delle attrezzature realizzate e del loro sistema di
gestione e manutenzione.
Negli insediamenti residenziali, secondo il D.I. 1444/1968, per ogni abitante insediato o da insediare è
fissata una dotazione minima, inderogabile, di 18 metri quadrati per spazi pubblici o riservati ad attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggio, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie. Il decreto
ripartisce tale quantità complessiva in:

4,50 mq di aree per l’istruzione: asili nido, scuole materne e scuole dell’obbligo;

2,00 mq di aree per attrezzature di interesse comune: religiose, culturali, sociali, assistenziali, sanitarie,
amministrative, per pubblici servizi (uffici postali, protezione civile, ecc.) ed altre;

9,00 mq di aree per spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili
per tali impianti con esclusione di fasce verdi lungo le strade;

2,50 mq di aree per parcheggi che, in casi speciali, potranno essere distribuiti su più livelli.
Le quantità minime di spazi devono essere articolate nelle diverse zone territoriali omogenee, anche se
con diverse peculiarità:

nelle zone A), nel caso in cui si dimostri l’impossibilità di raggiungere le quantità minime a causa della
mancanza di spazi o per necessità di tutela ambientale e di salvaguardia delle caratteristiche, della
conformazione e delle funzioni della zona stessa, è necessario precisare come le stesse sono comunque
soddisfatte;

nelle zone B), nel caso in cui si dimostri l’impossibilità di raggiungere le quantità minime (sottratti i
fabbisogni comunque già soddisfatti), gli spazi devono essere reperiti nelle adiacenze immediate o su
aree accessibili in relazione ai raggi di influenza delle singole attrezzature e alla organizzazione dei
trasporti pubblici. Comunque, sia per le zone A che per le zone B) le aree destinate a standard devono
essere calcolate al doppio della dimensione effettiva;
223
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale

nelle zone C) la quantità di spazi destinati a standard deve essere assicurata integralmente. Nei Comuni
per i quali la popolazione prevista non superi i 10.000 abitanti, la quantità minima di spazio passa da 18
a 12 mq, dei quali 4 riservati alle attrezzature scolastiche. Questo valore si applica anche ai nuovi
insediamenti residenziali nei Comuni con popolazione prevista superiore a 10.000 abitanti nei quali però
la densità fondiaria non superi 1 mc/mq. Nel caso in cui le zone C) sono contigue o direttamente in
rapporto visivo con specifici elementi morfologici territoriali (coste marine, laghi, lagune, corsi d’acqua
importanti, singolarità orografiche di rilievo) o con preesistenze storico-artistiche ed archeologiche, la
quantità minima di spazio passa a 15 mq. La disposizione non si applica quando le zone sono contigue
ad attrezzature portuali di interesse nazionale;

nelle zone E) la quantità minima è stabilita in 6 mq, da riservare solo ai servizi per l’istruzione e alle
attrezzature di interesse comune;

nelle zone produttive D di nuovo insediamento a carattere industriale la superficie destinata a spazi
pubblici o ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (ad esclusione delle sedi viarie) non può
essere inferiore al 10% dell’intera superficie destinata a tali insediamenti;

nelle zone produttive D di nuovo insediamento a carattere commerciale e direzionale, ad ogni 100 mq di
superficie lorda di pavimento prevista deve corrispondere la quantità minima di 80 mq di aree, escluse
le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi. Questi si aggiungono alle aree di sosta
previste dall’art. 18 della Legge n. 7652.
Le zone F, espressamente destinate ad attrezzature di interesse generale, non prevedono l’insediamento di
standard urbanistici. In esse, quindi, vanno insediate attrezzature di livello urbano o superiore, sulla base di
un dimensionamento che deriva dalla effettiva necessità di tali attrezzature. La norma stabilisce che esse
debbano essere previste in relazione a valori minimi per abitante rapportati alla popolazione del territorio
servito, ossia 1,5 mq/ab. per le attrezzature per l’istruzione superiore all’obbligo, ad esclusione delle strutture
universitarie, 1 mq/ ab. per le attrezzature sanitarie ed ospedaliere e 15 mq/ ab. per i parchi pubblici urbani e
territoriali.
Dalle dotazioni standard a quelle prestazionali
Il significato corrente di standard urbanistico è quello di una quantità di spazi pubblici da individuare e
realizzare obbligatoriamente in ogni centro abitato, con caratteristiche uniformi su tutto il territorio
nazionale.
Questa definizione è caratterizzata da una forte rigidità e, nello stesso tempo, da una tendenza a
semplificare la realtà urbana esistente e quella prevista dal piano. Essa, inoltre, manca dei parametri di
controllo fondamentali per definire l’efficacia delle previsioni e delle realizzazioni, vale a dire i tempi ed i
modi di accesso e di uso, il rapporto tra attrezzatura e sito, le dimensioni ottimali di ogni attrezzatura,
l’opportunità di integrazione e diversificazione delle dotazioni pro-capite in rapporto alle diverse situazioni
territoriali.
Nonostante ciò l’applicazione di questa norma ha avuto un effetto positivo sulla pianificazione e sulla
dotazione di servizi urbani, in quanto «la legge ponte e il decreto sugli standard proponevano per il piano
obiettivi di qualità sociale ed ambientale», (Campos Venuti 2001, 43), anche se «la legge del ‘42 non
risolveva la sperequazione fra destinazioni pubbliche e destinazioni private del piano, rendendo sempre più
difficile la realizzazione di quegli obiettivi» (Ibidem). Inoltre, le prime leggi regionali emanante negli anni
Settanta non hanno inciso sull’argomento, preferendo adeguarsi alla norma nazionale con eventuali piccole
variazioni quantitative.
La disciplina degli standard urbanistici è stata spesso sottoposta a numerose critiche; «unica nei paesi
almeno europei per i suoi effetti reiterativi di durata, tendente a discriminare tra proprietari il godimento
della proprietà, in presenza di beni immobili determinati aventi potenzialmente identica capacità
edificatoria, attraverso la previsione espropriativa per pubblica utilità delle aree incise dai vincoli» (Urbani
2008).
Di fronte a problematiche strettamente connesse con l’equità dei cittadini nei confronti del piano è
necessario pensare a nuove procedure per la realizzazione delle dotazioni pubbliche che annullino le
discriminazioni tra i cittadini e portino ad un miglioramento qualitativo delle stesse. A questo scopo è
2
L’art. 18 della L. 765 (divenuto art. 41-sexies della L. 1150/1942) prescrive che nelle nuove costruzioni ed anche nelle
aree di pertinenza delle costruzioni stesse, devono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad
1 mq per ogni 10 mc di costruzione (così modificato dall’art. 2, L. n. 122 del 1989). Inoltre questi spazi per
parcheggi non sono gravati da vincoli pertinenziali né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e
sono trasferibili autonomamente da esse (come aggiunto dall’art. 12, c. 9 della L. n. 246 del 2005). Per le zone A) e B)
tale quantità è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate attrezzature integrative.
224
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CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
necessario ripensare alle dotazioni pubbliche legandole, da una parte, all’effettiva necessità di spazi e
dotazioni, dall’altra, alla predisposizione di strumenti certi di gestione e di uso. In questo modo si
trasforma la dotazione quantitativa in una dotazione qualitativa basata su precisi livelli prestazionali.
Se il significato tradizionale delle dotazioni presuppone il soddisfacimento delle necessità mediante livelli
minimi di spazi e funzioni quantificati dimensionalmente, una accezione più attuale dovrebbe basarsi su
considerazioni differenziate in funzione di fattori territoriali e funzionali. Non una novità, visto che da
tempo si sottolineava che gli standard dovessero essere sì una presenza diffusa all’interno delle strutture
urbane, ma anche che essi dovessero assumere caratteri di elevata qualità e modificabilità affinché
potessero mantenere inalterato il loro ruolo e il loro valore (Tutino 1965).
Nel passaggio verso questa seconda accezione l’interesse del pianificatore si sposta da una concezione
tecnico-normativa autoconclusa ad una concezione maggiormente connessa con i comportamenti dei
soggetti che agiscono nel sistema urbano. A questo scopo assumono grande rilevanza gli aspetti di qualità
urbana che si intende raggiungere e soddisfare estendendo il concetto di standard dai servizi tradizionali
ad altre caratteristiche funzionali del sistema della pianificazione, quali quelli di tipo ecologico ed
ambientale.
Secondo la L.R. 20/2000 dell’Emilia-Romagna per standard di qualità urbana «si intende il livello
quantitativo e qualitativo del sistema delle infrastrutture per l’urbanizzazione degli insediamenti e di quello
delle attrezzature e spazi collettivi, idonei a soddisfare le esigenze dei cittadini». Questi standard sono
funzione della tipologia di dotazioni, della loro quantità e delle caratteristiche prestazionali determinate in
termini di accessibilità, fruibilità, sicurezza, equilibrata e razionale distribuzione sul territorio, funzionalità
ed adeguatezza tecnologica, semplicità ed economicità di gestione. Ad essi si aggiungono gli standard di
tipo ecologico che hanno la funzione di ridurre la pressione dell’insediamento sull’ambiente naturale ed
incrementare la vivibilità dell’ambiente urbano; per ottenere il raggiungimento di questi standard è
necessario disciplinare gli usi e le trasformazioni, limitare il consumo di risorse, prevedere azioni di
riequilibrio ambientale e di mitigazione, potenziare le dotazioni infrastrutturali a carattere ecologico ed
ambientale.
Ne discende che il concetto di standard si collega direttamente ad altri concetti quali quelli di prestazione e
di carico urbanistico e si sostanzia in un uso sempre più sofisticato dei dati e degli indicatori di valutazione,
ai quali vengono ricondotti i risultati delle politiche e dei progetti sia in relazione alla loro efficacia che in
relazione alla loro sostenibilità (sociale, economica, ambientale, …) complessiva; questa affermazione è
evidente analizzando norme e procedure di livello comunitario (ad esempio, quelle relative alla
programmazione dei fondi), nazionale e regionale.
L’indicatore come valore numerico puro può essere declinato in modo molto diversificato, soprattutto in
relazione all’utilizzo di scale di misurazione qualitativa come parte integrante di questo sistema. Da ciò
deriva che il valore numerico semplice che misura lo standard si trasforma in un concetto più complesso in
cui è presente una sempre maggiore attenzione agli aspetti prestazionali del sistema territoriale e delle sue
singole parti, anche in una ottica valutativa e concertativa. D’altra parte, fattori come l’accessibilità, la
sicurezza, la vitalità, la coerenza, l’efficienza, la giustizia sono difficilmente misurabili, sono interconnessi
ed assumono un rilevante valore argomentativo in rapporto alla mutabile sensibilità dei soggetti che
agiscono sul territorio.
Territorio e città possono quindi essere visti come un sistema prestazionale, cioè come sistema nel quale la
legge della domanda e dell’offerta stabilisce il punto di incontro tra i due fattori e tale punto d’incontro è
flessibile ed è influenzato dal livello dell’evoluzione sociale, culturale ed economica del territorio in un dato
momento; inoltre questo punto di incontro è il valore più elevato potenzialmente raggiungibile in quel
momento.
Un sistema prestazionale è un sistema che fornisce prestazioni, ovvero risponde in termini di servizio alle
sollecitazioni che gli pervengono in termini di domanda. Aspetti fondamentali di un sistema prestazionale
sono la domanda e l’offerta; l’incontro di questi due termini definisce il livello di equilibrio o di disequilibrio
presente nel sistema, in relazione al soddisfacimento di quella domanda.
L’obiettivo da raggiungere è che il sistema domanda-offerta sia in uno stato di equilibrio (dinamico), ossia
che il sistema, preso in considerazione un arco sufficientemente lungo, tenda ad essere in equilibrio il più a
lungo possibile; ciò perché esso deve comunque rapportarsi alla fisicità delle trasformazioni urbane, quindi
a condizioni di maggiore resistenza alle trasformazioni.
Al concetto di sistema prestazionale si connette quello di carico urbanistico, definibile come una funzione
complessa che determina le conseguenze sul sistema urbano della domanda di prestazioni. Tipo di attività,
numero di utenti ed intensità di uso di queste funzioni rappresentano i fattori di base che determinano il
livello di carico urbanistico e quindi l’efficienza prestazionale del sistema.
Il passaggio da standard numerici a standard prestazionali necessita di nuove modalità di approccio e di
valutazione.
225
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
Nel caso degli standard numerici l’analisi è strettamente quantitativa e deriva dalla valutazione degli
obblighi, dalla ricognizione dell’esistente e dalla conseguente determinazione del deficit presente sul
territorio, relativamente a quella dotazione.
Nel caso degli standard prestazionali l’analisi è più complessa. Ad esempio, alla domanda di mobilità è
associata una offerta di trasporto che si compone di più segmenti, tra i quali, ad esempio, si può
considerare l’offerta di spazi per la sosta (superficie di sosta per utente). Più in generale è associata una
dotazione di spazi pro-capite per soddisfare quella particolare tipologia di domanda. Il dilemma non è
tanto quali siano le dotazioni quanto, piuttosto, quale è il livello qualitativo che occorre associare ad esse
in corrispondenza di una data domanda.
La scelta delle soluzioni da adottare per i vari subsistemi che compongono il sistema fisico della città viene
effettuata analizzando, per ogni subsistema, i requisiti che lo connotano.
Ogni requisito presenta dei livelli prestazionali che definiscono le specifiche di prestazione che gli interventi
devono garantire per soddisfare il requisito stesso, in relazione al livello prestazionale indicato. Il numero
dei livelli prestazionali varia in funzione del requisito. Preso in esame un sub-sistema e definito il suo ruolo
all’interno della città è possibile determinare i livelli prestazionali che si ritiene possano garantire il
soddisfacimento di tutti i requisiti. Tra le varie soluzioni viene scelta quella che meglio risponde in termini
di prestazioni ai livelli richiesti.
Di alcuni subsistemi possono essere individuati livelli prestazionali diversi in base alla collocazione spaziale
sul territorio. La scelta delle soluzioni più appropriate viene effettuata sulla base di analisi comparative
delle soluzioni (ad esempio, mediante un confronto a due) il che consente di assegnare un punteggio per
ogni requisito e di pervenire alla soluzione più idonea.
Il Piano dei Servizi
Il passaggio da standard semplicemente numerici a standard qualitativi e prestazionali e il significato
sempre più complesso dei concetti di dotazione e di soddisfacimento della domanda ha reso necessario la
messa a punto di nuovi e più sofisticati strumenti di indagine e di previsione del sistema dei servizi. In
quest’ottica è stato introdotto nella pratica urbanistica il Piano dei Servizi, strumento con il quale si
determina la dotazione di spazi fisici organizzati in rapporto alla quantità e alla localizzazione, alla intensità
e alla distribuzione della domanda, alla capacità gestionale dell’amministrazione, con l’obiettivo di
assicurare la giusta quantità e qualità di spazi urbani connessi alla vita sociale e, contemporaneamente, di
incrementare il loro livello qualitativo e la loro incidenza sul benessere della popolazione.
Il Piano dei Servizi si occupa non solo della funzionalità degli spazi fisici ma anche della presenza e della
dimensione delle funzioni non connesse a specifici spazi fisici; inoltre, poiché si ha a che fare con funzioni
di uso collettivo, le aree relazionate alle funzioni saranno prevalentemente pubbliche, pur in presenza di
attività gestionali su aree non pubbliche gestite da soggetti privati.
La struttura di un Piano dei Servizi si compone di quattro elementi:

gli oggetti (tipologia di aree, opere, previsioni, azioni, …) di cui il piano si occupa;

le strategie e gli obiettivi derivanti da norme, da piani sovraordinati o definite dal piano stesso;

i metodi e gli strumenti che piano utilizza per determinare il quadro conoscitivo;

le indicazioni progettuali previste dal piano.
Il Piano dei Servizi è previsto da alcune recenti normative regionali. La L.R. n. 1 del 2001 della Lombardia
istituisce questo nuovo piano in relazione alla dotazione di aree per attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale. L’obiettivo è definire un nuovo approccio alla tematica dei servizi pubblici, da inserire
in un più esteso progetto di riqualificazione dello spazio urbano in modo che gli standard non restino solo
elementi di tipo quantitativo ma che ne sia definita la realizzabilità e la gestione.
Il nuovo strumento è concepito come documento allegato al Piano Regolatore Comunale; è uno strumento
programmatico che parte dalla ricognizione dello stato di fatto sia in termini dimensionali che in termini di
fruibilità, di accessibilità e di fattibilità e, sulla base delle risultanze cui si perviene, definisce le strategie di
evoluzione e sviluppo del sistema delle attrezzature pubbliche all’interno della pianificazione comunale.
Esso ha quindi una dimensione analitica ed una dimensione progettuale.
La fase di indagine è finalizzata sia a quantificare le aree destinate a servizi di interesse pubblico che a
sviluppare l’analisi delle prestazioni fornite dai servizi, in relazione alle condizioni di fruibilità ed
accessibilità. La prima viene compiuta in relazione alla idoneità dei siti ad accogliere il servizio, la seconda
in relazione alla ubicazione razionale dei servizi sul territorio; a queste due caratteristiche possono
aggiungersene altre, con l’obiettivo di definire meglio i caratteri qualitativi dei servizi.
Anche la dimensione progettuale del piano affronta il problema dei servizi dal punto di vista qualitativo e
prestazionale. Il piano, infatti, deve garantire la qualità delle scelte in termini di servizi in modo che essi
non siano solo fruibili ed accessibili, ma anche fattibili.
226
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
La fattibilità è condizione essenziale nella previsione di nuovi servizi ed ha a che fare con una valutazione
economico-finanziaria delle previsioni, oltre che con la predisposizione di strumenti innovativi per
l’acquisizione delle aree al patrimonio pubblico e per l’associazione dei privati nelle fasi di realizzazione e
gestione dei servizi sulla base della estensione della nozione di interesse pubblico.
17.4.
Il disegno di piano
Il piano non è stato disegnato sempre allo stesso modo.
Oggi il disegno di piano si realizza su restituzioni cartografiche digitali realizzate a seguito di voli aerei. Su
questa cartografia viene costruita la planimetria di piano − elemento fondamentale per la sua trasmissione
e la sua conoscenza −, ossia la rappresentazione bidimensionale delle previsioni di piano trasformate in
elementi oggettivi quali aree, linee e punti. Ad essa è spesso associata una base dati aggiornabile che
consente di collegare gli oggetti grafici alle principali caratteristiche dimensioni e non. Ne deriva una
visione d’insieme dello spazio territoriale che ha come base gli elementi morfologici presenti sul territorio
(la città, la campagna, la montagna, i volumi, …).
È possibile analizzare il percorso evolutivo che ha caratterizzato il disegno di piano, con l’avvertenza che
esso non è lineare, ossia che in ciascun momento sono individuabili tendenze predominanti ma non
univoche.
Il piano urbanistico nasce quando la trasformazione della città si tramuta da atto eccezionale ad atto
ordinario negli Stati europei. Tale trasformazione viene sancita da leggi e normative che introducono
questa nuova forma di azione spaziale. In Italia la Legge 2359 del 1865 “sulla espropriazione per pubblica
utilità” introduce il “piano regolatore edilizio” nei comuni con più di 10.000 abitanti. Essi potranno, «per
causa di pubblico vantaggio determinata da attuale bisogno di provvedere alla salubrità ed alle necessarie
comunicazioni, fare un piano regolatore, nel quale siano tracciate le linee da osservarsi nella ricostruzione
di quella parte dell’abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifizi, per raggiungere
l’intento» (art. 86).
La stessa legge, all’articolo 93, introduce i “piani regolatori di ampliamento”, da realizzarsi nei comuni «pei
quali sia dimostrata la attuale necessità di estendere l’abitato». Questi strumenti avranno lo scopo di
tracciare «le norme da osservarsi nella edificazione di nuovi edifizi, a fine di provvedere alla salubrità
dell’abitato, ed alla più sicura, comoda e decorosa sua disposizione».
Nel 1885 venne emanata la “legge pel risanamento della città di Napoli”, all’interno della quale viene
introdotto un nuovo tipo di piano, il “piano di risanamento igienico ed edilizio”, da realizzare nei comuni
che evidenzino condizioni critiche di salubrità. Questo piano rappresenta uno strumento particolarmente
efficace che, partendo dalla realizzazione delle idriche e fognarie, arriva ad incidere su altri aspetti quali la
riduzione di densità nei centri urbani, la demolizione e ricostruzione di aree malsane, la costruzione di
nuovi quartieri per la popolazione trasferita dalle aree da risanare o per la nuova popolazione.
In questa prima fase il disegno evidenzia la trasformazione dell’esistente o l’espansione della città
utilizzando le basi catastali. Di norma viene utilizzato il colore rosso per indicare le nuove costruzioni e il
giallo per le demolizioni.
La nuova struttura urbana si basa sulla previsione dei nuovi assi stradali e sulla geometrizzazione dello
sviluppo urbano che restituisce una città fisicamente chiusa; tale geometrizzazione, inoltre, può essere o
una estensione della struttura urbana esistente o la previsione di una struttura completamente diversa
che, generalmente, si esemplifica nella proposizione di schemi a scacchiera o di schemi radiocentrici.
La forma della città trasformata non restituisce l’immagine della città che sarà. Per questo motivo alla
planimetria di piano si aggiungono spesso vedute a volo d’uccello, planimetrie di dettaglio, immagini non
tecniche della città futura.
Nel complesso si può affermare che la rappresentazione della città restituisce una ipotesi di trasformazione
attenta all’efficienza delle funzioni primarie (comunicazioni e un minimo di attrezzature urbane), alla
separazione delle classi sociali (città borghese e città operaia), all’igiene urbana (dimensione delle strade,
reti idriche e fognarie, localizzazione delle industrie), alla massimizzazione del profitto privato (dimensione
e forma dei lotti), alla composizione urbana derivante dalla creazione di quinte, sfondi e facciate.
Fino alla Seconda Guerra Mondiale questo modo di disegnare il piano tenta di dare una risposta alla
costruzione di una struttura urbana e alla sua prefigurazione architettonica, a testimonianza del fatto che
non si è ancora creata una divisione tra i due campi. Resta il fatto che l’applicazione estesa del piano
mette in campo nuovi problemi che non vengono completamente risolti, in particolare per quanto concerne
la importanza del sistema delle reti, l’introduzione della zonizzazione, la diversificazione funzionale e la
densità del costruito.
Il dopoguerra inizia con una nuova legge urbanistica e con un clima culturale orientato verso una forte
separazione tra urbanistica e architettura.
227
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
Gli urbanisti si trovano per la prima volta in una condizione di forza: hanno premesse teoriche di rilievo
basate sulla tecnica dello zoning funzionale, hanno una legge che definisce precisi livelli di pianificazione e
vivono in un clima culturale permeato di fiducia in un futuro di sviluppo crescente e continuo (Gabellini
1996). Ne è testimonianza diretta il progetto di simbologia messo a punto da Giovanni Astengo nel 1949 e
la definizione di metodologie scientifiche per l’analisi e la rappresentazione di dati statistici (Ministero dei
Lavori Pubblici 1952).
La proposta di Astengo è contenuta in una serie di schede che riportano simboli e segni da applicare nella
redazione di strumenti di piano, ed è una proposta aperta a successivi arricchimenti e cambiamenti.
Per l’autore la rappresentazione di un piano «non può realizzarsi unicamente attraverso la semplice
proiezione planimetrica bidimensionale, ma esige la integrazione di questa mediante segni grafici e
simboli, atti a definire in modo preciso e simultaneo tutti gli elementi qualitativi e quantitativi del piano. La
unificazione dei simboli e segni convenzionali, e cioè la creazione di un comune linguaggio grafico, è una
premessa assolutamente indispensabile per la facile leggibilità dei testi» (Astengo 1949), in quanto le
tradizionali modalità di rappresentazione non riescono a restituire la complessità del piano come esso si è
andato configurando a partire dal semplice disegno degli allineamenti o dalla anticipazione di assetti di tipo
fisico.
Per definire razionalmente la simbologia si effettua una operazione di smontaggio e di successivo
rimontaggio della struttura della pianificazione. Elementi di base sono la esplicitazione dei tre livelli di
pianificazione (pianificazione territoriale, pianificazione comunale e pianificazione particolareggiata) e la
determinazione di quattro fasi di formazione del piano (analisi geografica e topografica, analisi dello stato
di fatto, progetto delle trasformazioni, attuazione del piano). A questa struttura logica fanno capo gli
elementi di fondo dello spazio fisico, ossia le principali zone funzionali della città (che Astengo pone in
numero di quattro, ossia residenza, industria, attrezzature e verde) e gli elementi complementari quali
confini amministrativi, strade, ferrovie, e così via. Il sistema degli elementi utilizzato si differenzia in
relazione al livello territoriale e al dettaglio che si vuole raggiungere, a partire dalle dodici combinazioni
che si ottengono relazionando livelli e fasi formative a cui si aggiungono le regole di combinazione delle
informazioni appartenenti allo spazio fisico e agli elementi complementari.
Un successivo approfondimento riguarda l’uso dei dati e delle informazioni statistiche nella costruzione del
piano e nella sua rappresentazione, in particolare per quanto concerne la pianificazione di livello
territoriale.
L’applicazione di queste regole vede situazioni ed esiti diversi. Ad esempio, il piano come sistema di aree a
diversa colorazione, ad indicare le diverse funzioni, non evidenzia le relazioni tra piano e mobilità; per
questo, accanto allo zoning, la struttura del sistema della mobilità viaria e ferroviaria assume spesso un
rilievo autonomo, mentre la forma della città diviene campo di scontro politico tra i fautori delle strutture a
scacchiera, regolari e democratiche, e quelli delle strutture radiocentriche, più autoritarie, nelle quali si
evidenzia maggiormente la differenza tra centro e periferia. Sempre di questo periodo sono le
contrapposizioni tra piano razionale e piano organico, tra città come macchina per abitare e città come
corpo umano (Secchi 1984).
A partire dagli anni Ottanta si assiste al tentativo del piano di smarcarsi dalla rigidità del modello razionale
e riproponendo un rapporto più stretto tra disegno urbanistico e disegno architettonico.
Ciò avviene sulla base di due considerazioni che si fanno strada in quella fase. La prima è la constatazione
della scarsa qualità degli esiti della pianificazione del dopoguerra, con il suo impatto negativo
sull’immagine della città italiana, la seconda è l’accento posto alla programmazione complessa e al disegno
di dettaglio per ambiti di estensione ridotta posizionati spesso in luoghi cruciali all’interno della struttura
urbana. Questi due aspetti hanno rimesso in gioco, accanto alla zonizzazione e alla configurazione della
struttura urbana, l’attenzione agli esiti formali e alla loro capacità di trasmettere informazione positiva già
in fase di pianificazione.
L’enfasi posta sul concetto di disegno urbano rientra all’interno di questo processo di superamento dello
zoning come documento fondamentale del piano e di individuazione di nuove modalità di trasmissione
dell’idea dello spazio trasformato. Uno degli esiti possibili è la tendenza del disegno urbano a divenire una
espansione del disegno architettonico alla scala micro-territoriale, mettendo in secondo piano processi e
significati tecnici propri del dimensionamento e della distribuzione. Vi è anche da dire, infine, che a tale
risultato non è stato estraneo il successo che hanno avuto specifici interventi di ricomposizione urbana
affidati, spesso, alla matita di nomi famosi dell’architettura internazionale.
L’analisi del disegno di piano non può fare a meno di considerare le caratteristiche dei due modelli di
pianificazione attualmente utilizzati, diversificati in relazione alle loro forme e alle loro finalità (Barbieri
2003):
228
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
a)
il modello strategico, di derivazione economica, che si sviluppa per visioni in relazione ad uno spazio
della competizione che è in parte uguale, in parte diverso rispetto al territorio fisico, e che si esplicita
attraverso il marketing (urbano o territoriale) e il progetto;
b) il modello urbanistico prescrittivo, fondato sulla regolazione dell’uso del suolo. Una sua specificazione
è il modello vincolistico-ricognitivo che indirizza e coordina gli interventi soprattutto alla dimensione
di area vasta.
Il primo modello ha una natura soprattutto politico-programmatica. In esso si forma una relazione
dinamica tra stato del presente e visione del futuro, con obiettivi, strategie di sviluppo e livelli di qualità in
continuo mutamento e con aspetti più di ordine funzionale che di ordine fisico. Esso non è concorrente
rispetto all’altro modello in quanto può affiancare strumenti di pianificazione appartenenti al secondo
modello, avendo, in generale, un effetto migliorativo sull’insieme delle previsioni. Ciò vuol dire che devono
esserci precisi riferimenti incrociati tra strumenti strategici e strumenti strutturali ed operativi.
Il modello prescrittivo deriva dalla forma tradizionale di piano, soprattutto comunale. Su di esso si è agito
di recente mediante leggi urbanistiche regionali di seconda e terza generazione che lo hanno arricchito di
nuovi elementi quali le “descrizioni fondative”, i “piani strutturali”, i “piani operativi”, i “regolamenti
urbanistici” e così via.
Il disegno strutturale e strategico
La previsione di un piano composto da una parte strutturale e da una operativa è una delle modalità più
sperimentate sul versante delle pratiche di pianificazione. Consacrato nel XXI Congresso nazionale
dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (1995) fa riferimento alla suddivisione del piano (sia quello territoriale
che urbanistico) in due parti, in relazione all’efficacia delle disposizioni previste e alla loro durata
temporale.
Mentre il primo ha efficacia sui caratteri peculiari e caratterizzanti il territorio, oltre ad avere durata
illimitata, il secondo ha efficacia su parti specifiche del territorio, segnatamente quelle da sottoporre a
trasformazione, ed ha durata temporale limitata. In questo modo si perviene ad un risultato non
secondario, ossia ad una semplificazione della parte strutturale del piano (che può spingersi fino ad avere
connotati strategici) e una sua focalizzazione su elementi primari di grande rilevanza; se correttamente
attuato, tale suddivisione può portare ad un rilancio del significato del piano e ad una forte riaffermazione
della sua utilità (Oliva 2004).
Gli aspetti strutturali del piano hanno a che fare con le condizioni attuali del territorio; le disposizioni
conseguenti hanno lo scopo di preservare il territorio o guidarne le trasformazioni caratterizzandosi per un
elevato tasso di certezza e per una loro validità pressoché illimitata. Il piano strutturale è il piano dei
vincoli incontrovertibili e non negoziabili che discendono dalla natura dei luoghi, dalle leggi economiche e
da disposizioni di ordine superiore su cui l’amministrazione locale non può interferire. Si tratta di principi
fisici, di principi giuridici, ma anche dell’espressione degli orientamenti politici e culturali fondamentali che
la società civile ha assunto “una volta per tutte” o, meglio, per tempi molto lunghi. Di conseguenza il
contenuto strutturale del piano può cambiare solo se si modificano i connotati del reale o se una
collettività abbandona i principi in cui si era precedentemente riconosciuta.
Un piano strategico è uno strumento di governo indirizzato alla evoluzione e allo sviluppo di un dato
sistema territoriale. Esso può essere descritto «come un documento politico-programmatico che esprime
scelte/strategie generali, semplici, stabili, selettive, non comprensive» (Mazza 2003, 126). Inoltre esso
«non definisce i progetti, li seleziona e li coordina con un processo negoziale per renderli congruenti,
cooperativi, realizzabili» (Mazza 1996, 180), quindi definisce gli obiettivi e le linee di azione della
pianificazione senza entrare nel merito delle interazioni tra soggetti e senza entrare nella formulazione dei
dettagli progettuali e gestionali (Gibelli 2003).
Se il piano urbanistico è uno strumento che si connota per il contenuto (atto amministrativo che contiene
le forme di regolazione degli interessi e di trasformazione degli spazi pubblici e privati), il piano strategico
si connota per la costruzione di una ipotesi non disegnata né imposta di percorso verso il futuro di una
comunità, con tutti i suoi aspetti di volontarietà e di implementazione continua.
A differenza di un piano urbanistico, il piano strategico non si occupa di regolare il sistema dei diritti e
degli obblighi che si creano sul territorio, bensì di prefigurare in modo flessibile un sistema in cui agiscono
attori diversi in campi diversi indirizzati verso obiettivi di sviluppo.
D’altra parte, però, uno strumento di pianificazione strategica ha maggiori possibilità di successo se alle
sue spalle agisce un documento (o un sistema di documenti) regolativo delle trasformazioni fisiche del
territorio. Ciò è maggiormente vero quando lo strumento strategico agisce in aree di livello metropolitano
nelle quali sono presenti già in origine reti complesse di relazioni tra soggetti molteplici. D’altra parte,
«anche nello spazio dei diversificati sistemi metropolitani europei (e delle articolate forme di governo e
governance che presentano) va rilevato l’affermarsi (a seguito di ampie sperimentazioni ed in un
229
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
consistente arco di tempo) della coppia piano strategico/progetto urbano e politiche rispetto a quella più
tradizionale piano territoriale-urbanistico/strumento attuativo e vincoli» (Barbieri 2003).
Fig. 2 – Piano Strutturale Comunale di Bologna, 2007: le sette città
Fig. 3– Linee strategiche per il territorio della Provincia di Napoli. PTCP 2008
Gli aspetti strategici riguardano le previsioni globali di cambiamento e trasformazione di un territorio. Esse
sono più o meno realistiche, più o meno libere dall’obbligo del rispetto delle strategie precedenti e dai
vincoli del mercato, disegnano un futuro possibile e desiderato, diverso dal presente. Fino a quanto esse
non si trasformano in disposizioni operative sono caratterizzate da un alto tasso di incertezza.
Le scelte strategiche non sono né principi né regole. Esse quindi non sono direttamente vincolanti per i
cittadini e per gli operatori; sono però vincolanti per la pubblica amministrazione fino a che questa non
decida, manifestamente, di cambiarle. Sono infatti suscettibili di essere variate perché dipendono dal
mutare continuo delle condizioni economiche, politiche e sociali, il che significa che in molti casi non
derivano dalla sola volontà della comunità locale, bensì anche dal concorso delle volontà di una pluralità di
soggetti pubblici e privati. Si potrebbe dire, per assurdo, che è strategico tutto ciò che non si è nelle
condizioni o non si ha il potere di stabilire in maniera giuridicamente valida.
Per le sue caratteristiche intrinseche non è possibile individuare uno specifico modello di piano strategico,
bensì solo alcune regole che caratterizzano un piano di questo tipo, così come le modalità con le quali esso
viene proposto e comunicato:

deve essere proiettato sul lungo periodo, anche se può prefigurare azioni nel breve e nel medio
termine;

deve individuare obiettivi certi e fattibili da perseguire attraverso tutte le azioni potenzialmente utili allo
scopo;
230
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale


deve coinvolgere tutti gli attori rappresentativi presenti all’interno dello spazio strategico;
deve individuare azioni simboliche il cui perseguimento rappresenti una novità o una rottura e che
diventino un volano per espandere innovazione nel tessuto urbano e metropolitano.
La struttura della pianificazione strategica comprende obiettivi, strategie, politiche, azioni e progetti. Su
ciascuno di essi le alleanze e le possibilità realizzative vanno di volta in volta ricostruite, anche se in una
visione unitaria. Inoltre, per le sue caratteristiche, la pianificazione di tipo strategica ha maggiore
possibilità di guidare le azioni di governance del soggetto che deve gestire la realtà territoriale.
Il disegno prescrittivo: zonizzazione e distribuzione delle funzioni sul territorio
Il disegno di piano prescrittivo è legato alla tecnica della zonizzazione. Questa tecnica costituisce un
principio che ha come obiettivo la ottimizzazione della distribuzione degli interessi pubblici e privati sul
territorio.
Lo zoning discende dalle indicazioni contenute nell’articolo 7 della legge urbanistica nazionale (Legge
1150/1942) e dalle indicazioni contenute nel D.I. 1444 del 1968.
Nella prima norma si dice che il piano regolatore generale deve indicare, tra le altre cose, «… 2) la
divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all’espansione
dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona; 3) le
aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciali servitù; 4) le aree da riservare ad
edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale».
Fig. 4– La zonizzazione come disegno prescrittivo
La seconda norma specifica il concetto di zone territoriali omogenee e le specifica in sei tipologie
specifiche, ossia:
A) le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di
particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono
considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi;
B) le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A). Le zone parzialmente
edificate che ricadono in B) sono quelle parti del territorio urbanizzato in cui la superficie coperta
degli edifici esistenti è superiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle
quali la densità territoriale è superiore ad 1,5 mc/mq;
C) le parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali
l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità di cui alla precedente lettera
B);
D) le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati;
231
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
E)
F)
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
le parti del territorio destinate ad usi agricoli, escluse quelle in cui – fermo restando il carattere
agricolo delle stesse – il frazionamento delle proprietà richieda insediamenti da considerare come
zone C);
le parti del territorio destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale.
Nella formulazione del processo di pianificazione dopo la fase di dimensionamento del piano segue la fase
di distribuzione delle reti, delle attrezzature e dei volumi connessi alle diverse destinazioni d’uso.
La fase di distribuzione ha il compito fondamentale di rispondere alle esigenze di sviluppo e di
riqualificazione della città e tale compito può essere fatto in modo tradizionale, con una zonizzazione dello
spazio, o in modo più innovativo, mediante la predisposizione di procedure flessibili che prevedano un uso
integrato del territorio e che si adattino ai mutamenti socio-economici che lo investono.
La prima tecnica si è rivelata di forte rigidità e di lenta modificabilità, la seconda non è ancora definita, o
meglio ancora, si appoggia a tecniche varie, tali da non formare un preciso corpus procedurale.
La zonizzazione prefigura un disegno basato sulla offerta di funzioni mediante una distribuzione che si
presuppone equilibrata e di lungo termine. Il suo superamento prefigura uno schema strategico di
evoluzione e inserisce in esso, di volta in volta, i tasselli che si vengono a maturare individuando le
modalità amministrative e lo strumento più opportuno per la loro realizzazione.
La distribuzione delle funzioni sul territorio avviene sulla base di scelte compiute dal sistema dei soggetti
agenti su di esso. Per giungere ad una distribuzione ottimale è necessario ragionare sulla utilizzabilità delle
diverse parti del territorio.
La definizione della parte strutturale del piano individua, all’interno dello spazio territoriale ST, le aree non
negoziabili il cui utilizzo è vincolato (ST1). Queste aree, matematicamente si potrebbero chiamare una
partizione, possono accogliere un sottoinsieme ridotto di usi possibili che escludono, in particolare, gli usi
che prevedono una trasformazione di tipo distruttiva.
Lo spazio rimanente (ST2) può essere, a sua volta, suddiviso in due categorie:

lo spazio urbanizzato, su cui sono possibili modificazioni anche rilevanti (ST21);

lo spazio non urbanizzato ma di qualità tale da rientrare nella categoria dello spazio disponibile (ST22).
All’interno dei sottoinsiemi territoriali ST21 e ST22 sono possibili ulteriori partizioni e specificazioni.
Per ottenere una distribuzione ottimale un processo di tal genere non basta. È necessario, infatti, mettere
in campo tre altri elementi.
a) il sistema delle previsioni, quantificate ma non ancora localizzate;
b) il sistema delle reti di comunicazione esistenti e di progetto;
c)
le esigenze che emergono dall’insieme dei soggetti in relazione alla disponibilità a realizzare interventi
modificativi dello spazio e alla necessità di dar luogo a procedure negoziali tra pubblico e privato o tra
pubblico e pubblico.
Questi tre elementi rappresentano vincoli e condizioni funzionali che possono condurre a localizzazioni
alternative e ad esiti differenti. In particolare, le reti (stradali, ferroviarie, fluviali) sono assi che creano
inevitabilmente corridoi territoriali preferenziali lungo i quali la localizzazione funzionale viene favorita.
Nello stesso tempo possono sussistere condizioni specifiche che favoriscono una localizzazione rispetto ad
un’altra in quanto specifici soggetti sono maggiormente disponibili ad investire in determinate aree
piuttosto che in altre.
17.5.
La perequazione urbanistica
Definizioni di base
Il termine “perequazione” indica una distribuzione effettuata in base a dei criteri di equità.
Una prima definizione del termine in ambito urbanistico può essere desunta dal Dizionario di Urbanistica di
Guido Colombo (1987), che indica la perequazione come «l’insieme di provvedimenti normativi,
pianificatori, procedurali ed economico-finanziari attraverso cui più proprietà cointeressate all’attuazione di
un determinato intervento urbanistico-edilizio vi concorrono ripartendosene equamente sia i vantaggi sia
gli oneri».
Più recentemente, con il termine perequazione si è inteso indicare quel principio la cui attuazione è
finalizzata ad ottenere sia la giustizia distributiva nei confronti dei proprietari di suoli da trasformare, sia la
formazione della “città pubblica” senza espropri e con il minimo di risorse impiegate (Pompei 1998). In
altri termini, se il termine indica in generale un’azione pratica di distribuzione, nel campo urbanistico esso
si trasforma in un principio ispiratore di una serie di possibili operazioni pratiche che, sebbene diverse tra
232
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
loro, rispondono tutte all’assunto generale di voler mitigare, se non annullare, le disuguaglianze generate
dalla pianificazione comunale, al fine di tendere ad un comune concetto di equità.
Le pratiche perequative devono essere dunque intese come sistemi coordinati di azioni definite sulla base
di tecniche finalizzate a riequilibrare gli effetti della pianificazione urbanistica sui suoli. La pianificazione,
infatti, crea differenze tra suoli in termini di destinazioni d’uso (ad esempio, aree fabbricabili e aree
destinate all’esproprio) e di intensità d’uso (ad esempio, suoli con indici di fabbricabilità diverse) che, di
fatto, determinano diseguaglianze tra i proprietari.
Dall’applicazione del principio perequativo, dunque, si attendono due principali risultati: l’equità distributiva
nei confronti dei proprietari dei suoli soggetti a trasformazione e la formazione, senza espropri e spese, di
un patrimonio pubblico di aree a servizio della collettività (Pompei 1998).
L’applicazione del principio della perequazione utilizza una serie di tecniche che vanno dalla ridistribuzione
delle volumetrie fino alla semplice compensazione economica; esse tendono all’individuazione di un “valore
di scambio” il cui obiettivo è ripagare il privato delle limitazioni imposte al suo diritto ad esercitare lo ius
edificandi, limitazioni imposte da decisioni urbanistiche che rispondono al perseguimento dell’interesse
della collettività, quali ad esempio la tutela del territorio ed il suo corretto sviluppo, la dotazione di
attrezzature pubbliche, ecc. L’equità del piano è, quindi, legata al tema del regime dei suoli, e in
particolare al tentativo di controllare la distribuzione delle rendite fondiarie.
I presupposti fondamentali della perequazione possono essere così riassunti: 1) il progetto di equità
consiste in una distribuzione equilibrata di vantaggi e svantaggi derivanti dall’azione di pianificazione; 2) gli
svantaggi possono essere individuati e valutati; 3) esiste la possibilità di costruire meccanismi di
compensazione accettabili dai privati e concretamente realizzabili.
In generale, ci riferiamo ad una perequazione urbanistica se il principio della perequazione è attuato
attraverso i mezzi propri dell’urbanistica (volumi, proprietà dei suoli, …), oppure ci riferiamo alla
perequazione dei valori laddove esso sia attuato mediante transazioni finanziarie per compensare oneri e
rendite, profitti e perdite, costi e benefici con prelievi di tipo fiscale, sconti e riconoscimenti.
La logica perequativa può essere applicata sia nelle nuove aree di trasformazione, sia in quelle già
trasformate soggette a conservazione. Nel primo caso, affinché il piano risulti giuridicamente inattaccabile
la perequazione urbanistica deve essere applicata a tutte le aree di trasformazione in modo da
salvaguardare il principio costituzionale che presuppone la validità della limitazione della proprietà solo per
intere categorie di beni (Pompei 1998). La perequazione di questo tipo si ha, in genere, nei suoli agricoli
liberi.
Se, invece, ci si trova in una situazione di territorio già parzialmente urbanizzato, si riconosce al suolo,
oltre alla quantità di edificazione convenzionale, una quota aggiuntiva tendente al rispetto della realtà di
fatto, al fine della conservazione o del recupero dell’esistente.
Il Regolamento di attuazione per il governo del territorio (Reg. 5/2011 della L.R. Campania 16/2004)
all’articolo 12 tratta di perequazione urbanistica ed ambiti di trasformazione urbana. Secondo il
regolamento il piano urbanistico può essere attuato anche con sistemi perequativi, compensativi e
incentivanti.
Il piano programmatico del Puc può delimitare gli ambiti di trasformazione urbana da attuare con
procedure perequative mediante la formazione di comparti edificatori, seguendo gli indirizzi della
perequazione territoriale previsti dal Piano territoriale regionale approvato con legge regionale n. 13/2008,
ed attraverso convenzione.
La quantità di aree e le quantità edilizie insediabili negli ambiti di trasformazione, in conformità alle
previsioni del piano programmatico di natura operativa, che non sono riservate agli usi pubblici o di
interesse pubblico sono attribuite ai proprietari di tutti gli immobili compresi negli stessi ambiti.
I diritti edificatori sono ripartiti tra tutti i proprietari degli immobili compresi negli ambiti, in relazione al
valore dei rispettivi immobili. Tale valore è determinato tenendo conto della qualificazione e valutazione
dello stato di fatto e di diritto in cui si trovano gli stessi immobili all’atto della formazione del Puc. I diritti
edificatori sono espressi in indici di diritto edificatorio (Ide) che fissano il rapporto tra la superficie
fondiaria relativa al singolo immobile e le quantità edilizie che sono realizzabili con la trasformazione
urbanistica nell’ambito del processo di perequazione. L’ambito comprende aree edificate e non edificate,
anche non contigue.
A ciascun proprietario degli immobili compresi nel comparto è attribuita una quota delle complessive
quantità edilizie realizzabili, determinata moltiplicando la superficie fondiaria degli stessi immobili per i
rispettivi indici di diritto edificatorio (Ide). Le quote edificatorie, espresse in metri quadrati o in metri cubi,
sono liberamente commerciabili, ma non possono essere trasferite in altri comparti edificatori.
Il comparto edificatorio può essere attuato dai proprietari, anche riuniti, degli immobili inclusi nel comparto
stesso, dal comune o da società miste, anche di trasformazione urbana.
233
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
Nel caso di attuazione di un comparto da parte di soggetti privati, devono essere, in via prioritaria, stabiliti
tempi e modalità di cessione a titolo gratuito al comune, o ad altri soggetti pubblici, degli immobili
necessari per la realizzazione nel comparto di infrastrutture, attrezzature, aree verdi, edilizia residenziale
pubblica e altre opere pubbliche o di interesse pubblico così come localizzate dal comune attraverso i Pua.
Ai proprietari che cedono gratuitamente gli immobili è riconosciuto il diritto di edificazione pari al valore
delle proprietà cedute.
I detentori della maggioranza assoluta delle quote edificatorie complessive attribuite ad un comparto
edificatorio possono procedere all’attuazione dell’ambito nel caso di rifiuto dei rimanenti proprietari.
Utilità e attualità delle tecniche perequative
A partire dagli anni Novanta le leggi urbanistiche regionali hanno introdotto la la perequazione urbanistica
come elemento centrale non solo nell’attuazione del piano, ma anche nella sua costruzione.
Ad esempio, la Legge Urbanistica della Regione Campania (LR n. 16 del 2004), pone la perequazione
urbanistica tra i sistemi di attuazione della pianificazione urbanistica. Il piano comunale, gli atti di
programmazione degli interventi e i piani attuativi «ripartiscono le quote edificatorie e i relativi obblighi tra
i proprietari degli immobili ricompresi nelle zone oggetto di trasformazione mediante comparti
indipendentemente dalla destinazione delle aree interessate». Il regolamento urbanistico stabilisce le
modalità per la definizione dei diritti edificatori dei proprietari, sulla base dello stato di fatto e di diritto dei
suoli all’atto della formazione del piano comunale.
In generale, è possibile affermare che l’introduzione del principio perequativo è finalizzata al
raggiungimento di quattro obiettivi: 1) indifferenza della proprietà; 2) eliminazione dei vincoli temporali di
inedificabilità stabiliti dal piano comunale; 3) costruzione della città pubblica; 4) collaborazione tra soggetti
pubblici e privati.
L’indifferenza della proprietà deve essere raggiunta nell’ambito del territorio urbano da trasformare
affinché il piano produca esiti equivalenti. Tale circostanza, unita alla perdita della natura di vincolo
coercitivo di non edificabilità, determina la possibilità di costruire la città pubblica con maggiore certezza e
con un disegno urbanistico svincolato dal regime di proprietà dei suoli, perseguendo in maniera più
efficace gli interessi generali della collettività e riducendo la conflittualità tra soggetti pubblici e privati.
Inoltre, va segnalato come il tema della perequazione si colleghi ad altri significati del piano. In particolare
a quello della sostenibilità dello sviluppo urbano (Fusco Girard 1997), in senso non solo ecologico, ma
anche economico-finanziario e sociale, a quello dello sviluppo di nuove forme di definizione e di risoluzione
del rapporto conflittuale pubblico/privato e a quello dell’efficacia stessa del piano (Barbieri 1998).
Le tecniche perequative
La definizione dei diritti edificatori può essere effettuata secondo due modalità.
La prima prevede il riconoscimento dei diritti edificatori come potenziale implicito non negoziabile alle
condizioni di fatto e di diritto dei suoli, indipendentemente dalle scelte di piano per il futuro assetto
territoriale. La seconda, invece, prevede che l’insieme di tutte le quantità edilizie previste dal piano
vengano equamente ripartite, indipendentemente dalle destinazioni d’uso, fra tutti i terreni interessati e
sono negoziabili tra il comune e gli operatori privati.
La quantità di edificazione dei suoli in aree di trasformazione è indifferente alle destinazioni d’uso previste
dal piano comunale, ma dipende invece dallo stato di fatto e di diritto in cui essi si trovano al momento
della formazione del piano. A uguale stato di fatto e di diritto corrisponde uguale misura del diritto
edificatorio.
Ogni altra quantità edificatoria prevista dal piano che eccede la misura della quantità di edificazione
spettante al suolo, è riservato, gratuitamente o a prezzo agricolo, al comune che lo utilizza per le finalità di
sviluppo economico, sociale e di tutela ambientale. I privati possono, secondo le indicazioni del piano,
realizzare in loco la volumetria assegnata cedendo gli spazi liberi al comune, oppure possono cedere al
comune il proprio suolo e realizzare la propria quantità di edificazione su suoli di proprietà pubblica o di
proprietà privata ma vincolati ad ospitare le volumetrie degli altri suoli. Ad essi, in alternativa, resta la
possibilità di realizzare altrove la propria volumetria.
In tal modo il comune può acquisire senza espropri al pubblico patrimonio tutto il suolo necessario per
realizzare le proprie previsioni. Inoltre è possibile evitare di assoggettare i suoli a vincolo di inedificabilità,
perché a tutti i terreni è riconosciuto un minimo contenuto edificatorio che il proprietario può sfruttare o
lasciare inutilizzato fino all’esproprio.
Da un punto di vista di tecnica urbanistica, i meccanismi perequativi si basano sulla definizione di alcuni
indici specifici. La quantità di edificazione spettante ai suoli (Q1), dipendente solo dal loro stato di fatto e
di diritto, cioè dalla loro classe, si ottiene moltiplicando l’indice convenzionale di edificabilità (ICE) per la
234
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
superficie territoriale. L’ICE, generalmente espresso in termini di superficie utile lorda, nella perequazione
è uguale per ogni terreno appartenente ad una data classe. Se l’ICE è dell’ordine di 0,10 mq/mq si parla di
una perequazione verso il basso, se, invece, è superiore si definisce una perequazione urbanistica verso
l’alto.
La quantità di edificazione pubblica (Q2) è variabile e dipende, in genere, dalle scelte strategiche della
Pubblica Amministrazione.
La quantità di edificazione totale da realizzare in ciascun comparto attuativo (QTT) è data dalla somma di
Q1 e di Q2.
Il comparto attuativo viene spesso definito comparto edificatorio. Esso è uno strumento ordinario di
disciplina dei diritti/doveri della proprietà fondiaria nelle trasformazioni del territorio previste dal piano
comunale, ed è stato introdotto dalla legge urbanistica del 1942 e dal Codice civile dello stesso anno.
Spesso ci si riferisce al comparto urbanistico per indicare aree soggette a particolare prescrizioni di piano,
al fine di garantire sia la funzionalità che l’unitarietà delle trasformazioni previste.
Il comparto perequativo rappresenta, d’altra parte, un’area la cui trasformazione viene attuata con
modalità di tipo perequativo, cioè al cui interno risultino conclusi i trasferimenti di diritti edificatori, le
cessioni e le permute di aree. È attraverso i comparti che vengono attuati i meccanismi perequativi previsti
dal piano comunale.
Le definizioni possono coincidere allorquando il comparto urbanistico e quello perequativo sono gli stessi.
Il ricorso al comparto legale è necessario se quello urbanistico e quello perequativo non coincidono.
Esempi di perequazione
La gran parte dei piani comunali di ultima generazione adotta tecniche perequative, seppure con diverse
finalità e con differenti declinazioni dei meccanismi perequativi esposti. In corrispondenza dei nodi del
sistema della mobilità, il piano regolatore di Roma, approvato nel 2006, utilizza tecniche perequative per
ottenere il trasferimento dei diritti edificatori in altre aree edificabili di proprietà sia comunale che privata,
per la quota considerata incompatibile con la costruzione del Sistema ambientale e con la riorganizzazione
del sistema insediativo.
Il piano strutturale comunale di Bologna, adottato nel 2008, individua nella perequazione urbanistica il
principale strumento di gestione della trasformazione. A tutte le aree di trasformazione, sia di
ristrutturazione urbanistica sia di nuova edificazione, è assegnato uno stesso indice indipendentemente
dalla destinazione d’uso pubblica o privata dell’area. L’uso dei diritti edificatori da parte dei privati è però
regolato dal piano. Le aree rimaste libere vengono acquisite al patrimonio pubblico gratuitamente per la
costruzione della città pubblica. La classificazione dei suoli in base alle condizioni di fatto e di diritto rende
necessaria una attenta analisi delle caratteristiche di infrastrutturazione e di dotazione dei servizi al fine di
non generare sperequazioni rispetto alle condizioni reali dei suoli.
Adottato nel 1989 e approvato nel 1992, il piano regolatore di Casalecchio sul Reno è uno dei primi e più
noti esempi di perequazione urbanistica (Micelli 1997a; Pompei 1998).
Il principio di base del piano è quello per cui tutti i proprietari che si trovano in una uguale situazione di
fatto e di diritto devono essere oggetto dello stesso regime edificatorio. Il piano articola il territorio in
quattro classi:
1) territorio consolidato;
2) territorio marginale con aree prive di edificazione o aree da trasformare;
3) territorio periurbano non edificato;
4) territorio aperto in cui si trovano le aree agricole e le aree destinate ad altri usi.
Nel primo le volumetrie esistenti sono ratificate dal piano, nel territorio marginale e in quello periurbano si
applicano i meccanismi perequativi.
Nelle aree periurbane il piano assegna un ICE di 0,115 mq sul/mq, mentre in quello marginale l’ICE è
posto pari a 0,23 mq/mq, riconoscendo, quindi, la diversa rendita fondiaria contenuta nelle due categorie
di suoli. I proprietari delle aree destinate ad attrezzature pubbliche non possono sfruttare il diritto di
edificazione loro attribuito sul terreno di proprietà, ma possono cedere tale diritto ad un proprietario la cui
area è suscettibile di essere trasformata secondo modalità economicamente vantaggiose o scambiare con
quest’ultimo una congrua porzione di suolo per potere utilizzare i diritti di cui sono titolari.
Il piano individua i comparti perequativi al cui interno sono comprese aree a destinazione collettiva e suoli
per interventi destinati al mercato. Il caso più semplice è quello di un unico proprietario per il comparto. Il
piano individua anche l’effettiva area sulla quale è previsto l’intervento mentre il resto della superficie è
ceduto dal proprietario al comune al prezzo agricolo o gratuitamente. Le modalità di cessione dei suoli
sono contenute in una apposita convenzione sottoscritta tra amministrazione e privati.
Più complicato è il caso di un comparto con più proprietari. Infatti di solito esiste un proprietario che si
trova nella condizione di non poter sfruttare in parte o del tutto i diritti di cui è titolare. L’attuazione con
235
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
comparti formati da molti proprietari risulta difficile, pertanto il disegno dei comparti è stato orientato a
minimizzare il numero dei proprietari coinvolti e associando proprietari di cui si anticipa l’accordo.
Per la determinazione dell’indice convenzionale si è proceduto ad analisi di mercato, pur riconoscendo la
dimensione “politica” di tale operazione. Essa, infatti, consiste nel quantificare la rendita assoluta che va
riconosciuta al proprietario, e cioè consiste nel definire quanta ricchezza va riconosciuta al proprietario e
quanto può essere acquisito a prezzi nulli o agricoli per la costruzione della città pubblica. L’uniformità
dell’ICE sulle zone di trasformazione permette di annullare le rendite differenziali legate alla diversa
accessibilità e qualità dei suoli, semplificando il meccanismo e accentuandone la natura egualitaria, pur
rischiando di livellare il valore dei suoli in modo non accettabile per la proprietà fondiaria.
Nei comparti con più proprietari vengono promosse forme cooperative tra attori con diverse finalità e i cui
conflitti possono essere una minaccia al meccanismo di compensazione, mentre in alcuni casi un soggetto
terzo, ad esempio una banca, acquista i diritti edificatori e li gestisce. In alternativa, la compensazione è
affidata alla disponibilità dei proprietari ad effettuarla principalmente attraverso la permuta dei suoli.
L’attuazione del piano ha consentito al comune di acquisire una notevole quantità di suoli.
Il piano regolatore di Ravenna, approvato nel 1996, rappresenta un esempio paradigmatico di utilizzo di
tecniche perequative finalizzato alla soluzione di un problema di pianificazione urbanistica.
Il piano intendeva stabilire una relazione tra il recupero della Darsena urbana (136 ha), area centrale
dismessa destinata ad ospitare residenze e terziario, e l’acquisizione, senza esproprio, con successiva
sistemazione del parco urbano di cintura (Micelli 1997b).
Il piano riconosceva al comune un diritto edificatorio pari al prodotto della superficie delle strade pubbliche
della darsena per un indice di 0,6 mq/mq. Tale diritto veniva trasferito ai proprietari dei suoli si cui doveva
sorgere la cintura verde in cambio della cessione dei terreni. Poiché non era possibile costruire né sulle
strade né nella cintura verde, i proprietari della darsena dovevano impegnarsi, in cambio di incentivi, ad
ospitare la volumetria ceduta dal comune ai proprietari dei suoli della cintura verde.
Nella versione finale i proprietari della cintura hanno un indice di 0,1 mq/mq trasferibile nella darsena o in
altre aree di trasformazione urbana. Successivamente il meccanismo perequativo è stato esteso a tutte le
zone di espansione, consentendo l’acquisizione di altre aree da destinare a verde ed evitando di incappare
in forme di incostituzionalità determinate dal diverso trattamento dei proprietari delle aree di
trasformazione.
Il piano formalizza, dunque, una perequazione parziale perché non attribuisce a tutti i suoli destinati
all’espansione un medesimo indice ma ammette che all’interno dei suoli permangano alcune differenze. In
questa esperienza, dunque, il principio perequativo è usato come specifico strumento di una politica
fondiaria per l’attuazione del piano, esito di una riflessione orientata prioritariamente a garantire l’efficacia
del piano.
17.6.
La normativa di attuazione
Da un punto di vista amministrativo lo strumento di pianificazione comunale è un provvedimento a
contenuto precettivo con effetti di conformazione per quanto riguarda i beni immobili ricadenti nel
territorio comunale. Esso quindi si considera un atto di pianificazione a carattere generale «contenente
prescrizioni intese a qualificare e a regolare il territorio (come bene giuridico immateriale), con riflessi
indiretti nei riguardi dei soggetti che sono in relazione con tali beni» (Fiale, Fiale 2006, 183). Ne discende
che il piano comunale «incide più o meno direttamente – anche se non necessariamente nel senso voluto
dall’estensore o dall’amministrazione – non solo sui contenuti della proprietà degli immobili, ma anche sui
comportamenti degli operatori economici e, in definitiva, di tutti i cittadini» (Avarello 2000, 185).
Ai sensi dell’articolo 7 della legge urbanistica nazionale (Legge n. 1150 del 1942) il Piano Regolatore
Generale contiene, oltre agli elementi di base della pianificazione (la rete della mobilità, la divisione in
zone, le aree destinate a spazi pubblici, le aree vincolate), anche la normativa per l’attuazione del piano.
Tale normativa disciplina le modalità di attuazione delle previsioni del piano urbanistico. Essa completa le
indicazioni contenute nella cartografia di piano ed è relazionata con le prescrizioni contenute nel
Regolamento Urbanistico ed Edilizio Comunale. Normalmente essa si presenta come un testo suddiviso in
titoli, capi ed articoli e le indicazioni in essa contenute sono considerate prevalenti sul disegno di piano.
All’interno della normativa di attuazione del piano vengono riportate tutte le prescrizioni che consentono
l’attuazione delle previsioni del piano, in relazione:

alla definizione delle diverse zone e sottozone urbanistiche, in funzione delle trasformazioni possibili e
delle destinazioni urbanistiche primarie e secondarie;

agli indici urbanistici, architettonici ed ambientali che sono assegnati a ciascuna zona urbanistica (indici
di edificabilità volumetrici o superficiali a carattere territoriale o fondiario, altezze minime e massime
236
GIUSEPPE MAZZEO – ANDREA CEUDECH
CAPITOLO 17. Le tecniche per la redazione del Piano Comunale
degli edifici, numero dei piani fuori terra o complessivi, distacchi dai confini, dai fili o dagli assi stradali e
da altri edifici, rapporti di copertura) (Colombo, Pagano, Rossetti 2008);

alla definizione delle categorie di intervento relative alla trasformazione edilizia ed urbanistica del
patrimonio edilizio esistente (dalla manutenzione ordinaria alla ristrutturazione urbanistica, dal cambio
di destinazione d’uso agli interventi di demolizione, …) e di quello di nuova realizzazione, in relazione
alla loro incidenza sulle trasformazioni urbane e sul carico urbanistico consequenziale;

alle prescrizioni da inserire per la salvaguardia dei settori urbani più delicati dal punto di vista insediativo
e storico-architettonico.

alla strumentazione derivata che realizza le previsioni di piano per ciascuna zona (attuazione diretta o
indiretta del piano) o in relazione a specifici settori di intervento (parcheggi, commercio, …).
Tali prescrizioni sono generalmente suddivise in una parte generale, in una dedicata alle singole zone
urbanistiche e in una che contiene prescrizioni specifiche. Ciascuna prescrizione deriva o ha a che fare con
specifiche norme nazionali e regionali o con indicazioni giurisprudenziali e le traspone a livello locale
combinandole in relazione agli obiettivi e alle necessità riscontrate.
È evidente che la zonizzazione e le prescrizioni ad essa connesse assumono una rilevanza particolare, in
relazione alla loro capacità di direzionare l’evoluzione del centro urbano.
Il riferimento resta il D.I. 1444 del 1968 nel quale sono individuate le diverse zone urbanistiche, i valori
minimi di standard da inserire in ciascuna zona, le dimensioni da associare alle attrezzature di interesse
generale, i limiti relativi alle densità edilizie, alle altezze e alle distanze tra edifici o tra edifici e fronte
strada. I limiti di densità edilizia, in particolare, relativi a ciascuna zona edilizia, «fanno riferimento alla
densità fondiaria che, pur coincidendo in valore assoluto alla cubatura riferibile a ciascuna zona territoriale
omogenea, individua la cubatura realizzata o realizzabile su ciascun lotto edificabile» (Gallia 2007, 53).
Le norme tecniche costituiscono parte integrante del piano, per cui esse sono idonee, come il piano, a
dettare sia prescrizioni di carattere meramente programmatico che norme immediatamente e direttamente
operative su posizioni giuridiche concrete. Questo vuol dire che, una volta approvate, non sono ammissibili
ricorsi su di esse, connessi a specifici atti autorizzativi.
Il carattere regolativo delle norme tecniche è confermato dalla posizione della giurisprudenza in merito ad
essa. Sono illegittime le norme tecniche che omettono di indicare uno specifico limite di densità edilizia per
i nuovi edifici residenziali e non. Inoltre, nel caso in cui le norme tecniche di attuazione dettino per la
stessa disciplina disposizioni diverse ed in apparente contrasto, l’antinomia va risolta sulla base di criteri
generali, in particolare utilizzando il criterio secondo il quale le disposizioni speciali prevalgono su quelle
generali.
Oltre agli strumenti di pianificazione comunale, norme tecniche di attuazione sono previste anche per gli
strumenti appartenenti agli altri livelli di pianificazione.
In relazione alle definizioni a carattere urbanistico ed edilizio contenute all’interno delle norme tecniche di
attuazione si ricorda che in sede di Conferenza Unificata Stato Regioni, il 20 ottobre 2016 sono state
approvate le “definizioni uniformi”. Tali definizioni sono state recepite dalla Regione Campania nell’Allegato
B alla Delibera della Giunta Regionale n. 287 del 23/05/2017, delibera che contiene anche lo schema del
regolamento edilizio tipo (RET).
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30.
238
18. LA VALUTAZIONE DELLE SCELTE DEL PIANO1
Giuseppe Mazzeo e Cristina Calenda
18.1.
La valutazione ambientale strategica
La tutela delle risorse territoriali ed il perseguimento dello sviluppo sostenibile sono ormai diventati un
tema trasversale della normativa, da quella europea a quella regionale, relativa ai processi ed alle pratiche
per il governo del territorio.
Da molti anni gli organismi internazionali, anche attraverso la redazione di documenti, rapporti, atti e
raccomandazioni, richiamano l’attenzione dei governi sul problema ambientale e sulla necessità di rendere
compatibili le attività antropiche con le specificità del territorio su cui si opera.
In un tale contesto, il passaggio da una politica ambientale vincolistica, fondata sulla conservazione dei
beni ambientali esistenti senza alcuna modifica del loro stato, ad una politica di protezione “attiva”
finalizzata alla messa a punto di interventi migliorativi della qualità delle risorse territoriali, unita alla
volontà di promuovere iniziative che consentano una concreta applicazione dei principi dello sviluppo
sostenibile, ha spinto nel 2001 l’Unione Europea ad estendere l’attività valutativa dai soli progetti,
sottoposti a valutazione d’impatto ambientale (VIA), ai piani e programmi, introducendo nell’ordinamento
normativo comunitario la valutazione ambientale strategica (VAS), al fine di realizzare strumenti di governo
del territorio più attenti alle ricadute ambientali delle scelte insediative.
I riferimenti
Nel 1969 venne emanata negli Stati Uniti la National Environmental Protection Act, che prevedeva per ogni
raccomandazione, report, proposta di legge o altri atti federali aventi effetti significativi sulla qualità
dell’ambiente umano, l’elaborazione di un documento dettagliato di valutazione.
Da quella data in poi il dibattito sulla VAS si è arricchito di molti contributi e riflessioni da parte di diversi
studiosi che, nel corso degli anni, si sono interrogati sulle caratteristiche e sulle effettive potenzialità
dell’attività valutativa nell’ambito del governo delle trasformazioni urbane e territoriali.
I primi processi di valutazione di piani, politiche e programmi erano proposti come una estensione a livello
strategico della valutazione d’impatto ambientale; solo in un secondo momento si è posta maggiore
attenzione sulle differenze esistenti tra i due procedimenti ed sulla necessità di elaborare specifici metodi
per l’esecuzione della valutazione strategica.
Per quanto concerne l’Europa, già nel 1971, in occasione della redazione del primo programma di azione
ambientale, la Commissione Europea aveva discusso l’eventuale introduzione di una valutazione
ambientale da applicare ai piani per prevenirne gli effetti sull’ambiente; tale proposito fu però
abbandonato per cui nel 1985 venne introdotta, con la Direttiva Comunitaria 337/1985, la sola valutazione
d’impatto ambientale (VIA) applicata ai progetti.
Il periodo 1969-1989 è conosciuto come fase formativa (Sadler 2000) in quanto in alcuni paesi, come
l’Australia, la Gran Bretagna ed il Canada, vengono proposti processi di valutazione d’impatto ambientale
nei quali è possibile riconoscere i caratteri peculiari della valutazione ambientale strategica.
Nel 1989 l’espressione valutazione ambientale strategica compare ufficialmente per la prima volta in un
report redatto da Wood e Djeddour (1992) per la Comunità Economica Europea e consegnato nella sua
versione definitiva nel 1990. Si comincia a prendere atto della necessità di impostare la valutazione di
politiche, piani e programmi secondo modalità differenti rispetto a quelle impiegate per la VIA. Sempre nel
1989 Sadler e Jacobs affermano che «nella pianificazione e gestione del territorio, dobbiamo muoverci dal
“reagire e curare” all’”anticipare e prevenire”, dal “controllare gli elementi negativi” al “realizzare gli
elementi positivi”. Ciò si traduce in una modalità di processo decisionale interattiva e mirata, nella quale gli
obiettivi specifici di protezione ambientale e le priorità sono stabiliti e collegati ad obiettivi economici
attraverso la preparazione di strategie di conservazione e selezione (…). La valutazione ambientale deve
essere collocata a monte del processo politico ed a valle delle procedure di auditing e monitoraggio, in
modo da consentire l’apprendimento ed il feedback del processo. Ciò richiede, innanzitutto, la
strutturazione di nuove forme di analisi che consentono alle politiche e programmi di essere riviste ed
analizzate in termini comprensibili per i decisori politici».
1
Questo capitolo è stato redatto da Giuseppe Mazzeo per il § 18.1 e da Cristina Calenda per i §§ 18.2 e 18.3.
239
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
Nei primi anni Novanta inizia la fase di formalizzazione (1990-2000) della VAS, caratterizzata dall’adozione
di specifiche disposizioni normative da parte di alcuni Paesi. È possibile distinguere diverse modalità di
integrazione della valutazione nei sistemi normativi: il Canada e la Danimarca, ad esempio, emanano
norme per la VAS distinte da quelle relative alla valutazione d’impatto ambientale (VIA); altre nazioni come
l’Australia e la Nuova Zelanda includono la valutazione all’interno delle norme relative alla gestione delle
risorse ed alla conservazione della biodiversità; infine, alcuni Paesi (Repubblica Ceca, Slovacchia)
riadattano il quadro di riferimento esistente per la VIA in funzione delle peculiarità della VAS.
Questa fase è anche caratterizzata dall’elaborazione di definizioni differenti di valutazione ambientale
strategica. Solo per citarne una, si ricorda quella elaborata nel 1996 da Sadler e Werheem, secondo la
quale «la valutazione ambientale strategica è un processo sistematico per valutare le conseguenze
ambientali di politiche, piani o programmi al fine di assicurare che esse siano pienamente incluse ed
indirizzate in modo appropriato nel primo stadio del processo decisionale alla pari delle considerazioni
economiche e sociali». Tale definizione risalta il ruolo della VAS come strumento di indirizzo delle scelte di
piano e come strumento per realizzare i principi di sostenibilità e pervenire alla determinazione di un
“bilancio” multidimensionale (ambientale, sociale ed economico).
Nel 1993 la Commissione Europea presentò un rapporto sulla verifica dell’efficacia della Direttiva VIA e sul
suo stato di applicazione negli Stati membri. In essa si evidenziava come la maggior parte delle decisioni
che incidevano sulla qualità ambientale fossero definite prima del livello progettuale e che di conseguenza,
applicando solo la VIA, non venivano prese adeguatamente in considerazione possibili soluzioni alternative
per la realizzazione e la localizzazione dei progetti. Di conseguenza era necessario effettuare la valutazione
ambientale ad un livello decisionale superiore (quello della pianificazione o della programmazione) in modo
da considerare tutti gli aspetti rilevanti indotti dalle azioni sull’ambiente.
Nel 1996 la Commissione adotta una proposta di direttiva per la VAS che viene definitivamente approvata
nel 2001 (Direttiva Comunitaria 42/2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e
programmi sull’ambiente).
A partire da questa data inizia la fase di applicazione della valutazione ambientale strategica. Gli Stati
dell’Unione Europea iniziano a recepire nel loro ordinamento normativo le disposizioni della Direttiva
42/2001, vengono promossi progetti di ricerca sulla VAS ed elaborati documenti più specifici sulla
valutazione degli impatti ambientali e sulle modalità di divulgazione delle informazioni. L’obbligo di
esecuzione della VAS favorisce lo sviluppo di applicazioni e progetti di ricerca in materia, soprattutto in
relazione all’elaborazione di un metodo per la valutazione di piani e programmi che sia in grado di
assicurare un’efficace integrazione della VAS nel processo di governo delle trasformazioni urbane e
territoriali e di incrementare la trasparenza del processo decisionale.
Il ruolo della valutazione nei processi di governo delle trasformazioni urbane e territoriali
In generale, con il termine valutazione s’intende un’attività finalizzata ad esprimere un giudizio sui risultati
di una politica, di un insieme di azioni oppure di una singola azione sulla base di criteri valutativi
prestabiliti; in particolare, nel settore del governo delle trasformazioni urbane e territoriali l’oggetto di
applicazione della valutazione è il piano o il programma in fase di elaborazione. Sulla base del principio di
precauzione, la VAS è stata concepita come una valutazione che prende l’avvio nella fase di elaborazione
di un piano o di un programma e che si sviluppa anche nella fase successiva all’approvazione, ossia
durante e dopo l’attuazione degli interventi. Pertanto essa si presenta come un processo di supporto alla
redazione dello strumento e come una parte integrante dell’iter di redazione e gestione di un piano o di un
programma.
È possibile riconoscere tre momenti principali:

la valutazione ex-ante, che viene eseguita in sede di elaborazione del piano o del programma, con lo
scopo di individuare preventivamente gli impatti sociali, economici ed ambientali indotti dalle scelte di
piano o programma e di orientare, sulla base dei risultati ottenuti, le scelte dei decisori. In questo senso
la valutazione, se condotta correttamente, contribuisce ad individuare nuovi obiettivi, criteri valutativi ed
alternative di intervento, così da pervenire ad un piano i cui contenuti rispettino maggiormente le
caratteristiche sociali, ambientali ed economiche del territorio su cui si andrà ad agire.

la valutazione in itinere o monitoraggio, nel corso della quale si procede alla valutazione delle
conseguenze ambientali degli interventi realizzati, si verifica la loro coerenza con le previsioni fatte
durante la valutazione ex-ante ed il grado di conseguimento degli obiettivi del piano (o del programma);

la valutazione ex-post, che, eseguita quando tutti gli interventi sono stati realizzati, consiste nella
verifica e controllo dei risultati del piano e nell’analisi dei successi ed insuccessi raggiunti, al fine di
apportare miglioramenti nella successiva redazione di altri piani o programmi.
240
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
Fig. 1 - Articolazione del processo di valutazione di un piano: le fasi ex ante, in itinere ed ex post
Come mostra la Figura 1 l’esecuzione della VAS di un piano innesca, durante la sua elaborazione, un
meccanismo di controllo per il quale la bozza di piano può essere rivista e modificata sulla base dei risultati
emersi dalla sua valutazione fino al raggiungimento di una proposta finale ritenuta ottimale.
Da quanto detto, si possono riconoscere alla valutazione applicata a piani e programmi tre diversi ruoli
nell’ambito del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali:

una funzione razionalizzatrice, ossia la capacità di organizzare efficientemente il patrimonio informativo
disponibile e di stimare gli effetti degli interventi di trasformazione sul territorio, garantendo così che le
scelte di piano siano il risultato di un’operazione di misura e di confronto delle conseguenze sul territorio
delle alternative d’intervento considerate;

una funzione di legittimazione, in quanto la valutazione, attraverso la quantificazione degli effetti
ambientali, sociali ed economici delle scelte di piano, è in grado di dimostrarne la correttezza e quindi di
legittimare le ragioni delle decisioni finali nei confronti dell’opinione pubblica;

una funzione partecipativa, ossia la valutazione come processo che, attraverso un’attiva partecipazione
dei soggetti coinvolti, rende pubblico l’intero percorso che ha portato alle scelte finali, garantendo la
trasparenza del processo decisionale e contribuendo alla costruzione di consenso attorno al piano.
18.2.
Dalla normativa europea alla normativa regionale
Prima dell’entrata in vigore della Direttiva Comunitaria 42/2001 il quadro europeo risultava piuttosto
eterogeneo: alcune nazioni come l’Olanda, la Danimarca, la Finlandia e la Svezia avevano già predisposto
leggi nazionali specifiche sulla valutazione; altri Stati come la Spagna e l’Italia si erano dotati di una
legislazione regionale che, solo in un secondo momento, è stata affiancata da provvedimenti normativi
nazionali; in altri Paesi come l’Austria e la Francia era stato sviluppato un modello istituzionale di
valutazione fondato su specifici meccanismi e strumenti di integrazione ambientale quali tavole rotonde,
comitati di auditing e rapporti sullo stato dell’ambiente; nel Regno Unito, invece, la valutazione dei piani
era applicata in assenza di una legislazione specifica di riferimento.
L’emanazione della Direttiva 42/2001 ha dato il via ad una complessiva riorganizzazione ed
omogeneizzazione delle procedure nazionali di valutazione.
La valutazione ambientale strategica nella Direttiva Comunitaria 42/2001
La Direttiva Comunitaria 42/2001 applica la valutazione ambientale strategica agli strumenti di
pianificazione e programmazione, consolidando il ruolo dei temi della sostenibilità nell’ambito dei processi
di governo del territorio e di programmazione degli interventi.
La valutazione ambientale si configura, pertanto, come uno strumento chiave attraverso il quale la
pianificazione e la programmazione vengono orientati al perseguimento di obiettivi di sostenibilità. La
Direttiva mira, infatti, proprio a garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente attraverso
l’integrazione degli aspetti ambientali in piani e programmi che possono avere effetti significativi su di
esso.
Con l’espressione “piani e programmi” la Direttiva fa riferimento a tutti quegli strumenti ed alle loro
modifiche, compresi quelli finanziati dall’Unione Europea, che sono elaborati e/o adottati da un’autorità
pubblica (nazionale, regionale, locale, …), oppure predisposti per essere approvati, mediante una
procedura legislativa, dal Parlamento o dal Governo, e che sono previsti da disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative.
241
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
L’inserimento del processo di valutazione nell’iter di costruzione del piano o del programma deriva da due
considerazioni fondamentali: la presa di coscienza che gli obiettivi dello sviluppo sostenibile possono
essere meglio perseguiti integrando gli aspetti ambientali a monte e non a valle del processo decisionale e
la consapevolezza che la ricerca di soluzioni compatibili con la tutela ambientale dipenda dal grado di
coinvolgimento dei diversi soggetti nel processo decisionale.
La valutazione ambientale strategica si presenta quindi come uno strumento in grado di colmare le lacune
dei piani e dei programmi, dovute alla mancata attenzione alla qualità dell’ambiente naturale ed alla
sostenibilità dello sviluppo nel lungo periodo. La procedura di VAS assicura che gli aspetti ambientali siano
inclusi in modo appropriato sin dalle prime fasi del processo decisionale, alla pari degli elementi economici
e sociali. In tale contesto le variabili ambientali diventano elementi essenziali sia per la definizione dei
contenuti del piano o del programma, sia per l’analisi degli effetti della loro implementazione, effetti sui
quali si basano anche i criteri per stabilire se e quando sia opportuno revisionare il piano o il programma
e/o apportare varianti ad esso.
La valutazione si applica durante l’elaborazione e prima dell’adozione dei piani e li accompagna per tutta la
loro vita utile. Piani e programmi da valutare sono relativi a diversi settori, elencati nella direttiva, come
l’agricoltura, la pesca, le foreste, l’energia, l’industria, i trasporti, la gestione dei rifiuti e delle acque, le
telecomunicazioni, il turismo, la pianificazione territoriale e la destinazione dei suoli.
Sono da sottoporre a VAS anche i piani e programmi che definiscono il quadro di riferimento per
l’autorizzazione dei progetti elencati negli allegati I e II della Direttiva Comunitaria 337/1985 (Direttiva
VIA), oppure per i quali, in considerazione dei possibili effetti sui siti, si ritiene necessaria una valutazione
ai sensi degli articoli 6 e 7 della Direttiva Comunitaria 43/19922, ossia una valutazione d’incidenza
ambientale (VincA).
È a discrezione degli Stati membri includere ulteriori piani o programmi qualora lo ritengano necessario. In
ogni caso, non sono sottoposti a valutazione ambientale strategica i piani destinati a scopi di difesa
nazionale o di emergenza civile ed i piani e programmi finanziari o di bilancio.
La Direttiva precisa, inoltre, che se il piano va ad incidere localmente su piccole aree, oppure se le
modifiche da apportare sono di lieve entità, spetterà agli Stati membri determinare la necessità o meno
della valutazione, rendendola obbligatoria solo in presenza di effettivi impatti potenziali sull’ambiente.
Nel caso di strumenti gerarchicamente ordinati gli Stati membri definiscono le scale territoriali alle quali la
procedura valutativa dovrà essere più opportunamente applicata al fine di evitare inutili duplicazioni. In
altre parole, se un piano o un programma fanno riferimento ad un altro strumento di pianificazione o
programmazione di livello superiore per il quale è stata redatta la VAS non è necessario farne un duplicato,
a patto che sia verificata l’accuratezza e la pertinenza degli esiti della precedente valutazione rispetto
all’attuale contesto. Se tali condizioni non sono soddisfatte, il piano o il programma successivo potrebbe
richiedere una valutazione nuova o aggiornata, anche se si occupa della stessa materia che era oggetto
del piano o del programma precedente.
Con la Direttiva Comunitaria 42/2001 la Commissione Europea ha obbligato i soggetti titolari dei poteri di
piano a modificare alcune fasi fondamentali nel processo di pianificazione, integrando in esse
l’elaborazione di un rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del suddetto
rapporto e dei risultati delle consultazioni e la messa a disposizione dei risultati finali della valutazione.
Il rapporto ambientale si configura, secondo quanto previsto dall’art. 2 della Direttiva, come parte
integrante della documentazione del piano o del programma; il suo scopo è individuare, descrivere e
valutare gli effetti significativi sull’ambiente del piano o del programma. In particolare, nell’allegato 1 della
Direttiva, si stabilisce che il rapporto ambientale deve contenere:
a) l’illustrazione dei contenuti, degli obiettivi principali del piano o programma e del rapporto con altri
piani o programmi attinenti;
b) gli aspetti relativi allo stato attuale dell’ambiente e la descrizione della sua evoluzione probabile senza
l’attuazione del piano o del programma;
c)
le caratteristiche ambientali delle aree che potrebbero essere significativamente interessate dalle
scelte di piano o di programma;
d) qualsiasi problema ambientale esistente, in relazione alle caratteristiche del piano o del programma,
compresi quelli relativi ad aree di particolare rilevanza ambientale, quali le zone designate ai sensi
delle Direttive 409/1979 (Direttiva Comunitaria sulla conservazione degli uccelli selvatici) e 43/1992
(Direttiva Comunitaria relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e
della fauna selvatiche);
2
Direttiva Comunitaria relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche.
242
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
e)
gli obiettivi di protezione ambientale stabiliti a livello internazionale, comunitario o nazionale,
pertinenti al piano o al programma, ed il modo in cui, durante la sua preparazione, si è tenuto conto
di detti obiettivi e di ogni considerazione ambientale;
f)
i possibili effetti significativi sull’ambiente, compresi aspetti quali la biodiversità, la popolazione, la
salute umana, la flora e la fauna, il suolo, l’acqua, l’aria, i fattori climatici, i beni materiali, il
patrimonio culturale, architettonico ed archeologico, il paesaggio e l’interrelazione tra i suddetti
fattori;
g) le misure previste per impedire, ridurre e compensare, nel modo più completo possibile, gli eventuali
effetti negativi significativi sull’ambiente dovuti alla attuazione del piano o del programma;
h) una sintesi delle ragioni della scelta delle alternative individuate ed una descrizione di come è stata
effettuata la valutazione, nonché le eventuali difficoltà incontrate (ad esempio carenze tecniche o
mancanza di know-how) nella raccolta delle informazioni richieste;
i)
la descrizione delle misure previste in merito alle operazioni di monitoraggio;
l)
una sintesi non tecnica delle informazioni contenute nel rapporto ambientale.
Gli elementi da considerare per determinare se il piano o il programma debba essere sottoposto o meno a
valutazione sono riportati nell’allegato 2 della Direttiva e prendono in considerazione, in funzione delle
caratteristiche specifiche dello strumento di piano o programma oggetto di valutazione, i seguenti
elementi:

in quale misura il piano o il programma stabilisce un quadro di riferimento per azioni derivate (progetti
ed altre attività) o per quanto riguarda l’ubicazione, la natura, le dimensioni, le condizioni operative o la
ripartizione delle risorse; infatti, quanto più è ampio il quadro di riferimento contenuto in un piano o un
programma, maggiore è la probabilità che sia necessaria la valutazione;

in quale misura il piano o il programma influenza altri piani o programmi, inclusi quelli gerarchicamente
subordinati;

la pertinenza del piano o del programma per l’integrazione delle considerazioni ambientali, al fine di
promuovere lo sviluppo sostenibile, ossia in che modo il piano o il programma contribuisce alla riduzione
dei danni sull’ambiente naturale;

i problemi ambientali pertinenti al piano o al programma, includendo sia i casi in cui i piani o i
programmi causano o acuiscono problemi ambientali, sia i casi in cui contribuiscono alla loro risoluzione
e riduzione, oppure i casi in cui li evitano;

la rilevanza del piano o del programma per l’attuazione della normativa comunitaria nel settore
dell’ambiente (ad esempio piani e programmi connessi alla gestione dei rifiuti o alla protezione delle
acque).
In funzione delle caratteristiche degli effetti sull’ambiente, le variabili da tenere in considerazione sono:

probabilità, durata, frequenza e reversibilità degli effetti;

carattere cumulativo degli effetti;

natura transfrontaliera degli effetti;

rischi per la salute umana o per l’ambiente (ad esempio in caso di incidenti industriali o tecnologici);

entità ed estensione nello spazio degli effetti e popolazione potenzialmente interessata;

valore e vulnerabilità dell’area che potrebbe essere interessata, in funzione delle sue caratteristiche
naturali, storiche o antropiche;

effetti su aree o paesaggi riconosciuti come protetti a livello nazionale, comunitario o internazionale.
La valutazione ambientale strategica, in quanto applicata ad azioni aventi impatto diretto sulla qualità della
vita dei soggetti interessati, si basa su un attivo processo di collaborazione e di partecipazione di tutti gli
attori coinvolti e della collettività in modo da accrescere il livello di consenso intorno alle scelte di piano o
di programma.
Gli Stati membri designano le autorità che devono essere consultate e che, per le loro competenze
ambientali, potrebbero essere interessate agli effetti dei piani o programmi. Inoltre, essi individuano i
soggetti pubblici e privati (tra quelli che promuovono la tutela dell’ambiente ed altre organizzazioni
interessate) che dovranno essere coinvolti nell’iter decisionale o che ne sono interessati direttamente. Il
rapporto ambientale e la proposta di piano devono essere messi a disposizione delle autorità e del
pubblico interessato. Gli Stati membri determinano le modalità per l’informazione e la consultazione delle
autorità e del pubblico.
La Direttiva Comunitaria pone l’accento anche sulla dimensione spaziale degli effetti ambientali che molto
spesso non risultano circoscrivibili nei confini amministrativi di uno Stato. Per tale ragione, l’Unione
Europea evidenzia l’importanza di eseguire adeguate consultazioni transfrontaliere quando gli effetti di un
piano o programma interessano anche altre nazioni e sottolinea la necessità di un coordinamento delle
procedure di valutazione tra i diversi Stati membri. Per garantire una maggiore trasparenza dell’iter
243
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
decisionale le Autorità responsabili per l’ambiente ed i diversi soggetti interessati devono essere consultati
durante la valutazione dei piani e dei programmi e devono essere fissate scadenze adeguate per
consentire lo svolgimento di questa fase e per la formulazione dei pareri.
Il rapporto ambientale, i pareri espressi dalle autorità coinvolte e dai soggetti interessati ed i risultati delle
consultazioni transfrontaliere devono essere presi in considerazione durante la preparazione del piano o
del programma e prima della sua adozione o prima di avviarne il procedimento legislativo.
All’atto dell’adozione di un piano o di un programma gli Stati membri devono assicurare che le autorità, i
diversi soggetti interessati e gli Stati membri eventualmente consultati ne siano informati e che venga
messo a loro disposizione:

il piano o il programma adottato;

una dichiarazione di sintesi in cui si illustra in che modo le considerazioni ambientali sono state integrate
nel piano o programma e come si è tenuto conto del rapporto ambientale, dei pareri espressi e dei
risultati delle consultazioni, nonché le ragioni della scelta adottata, alla luce delle alternative possibili
che erano state individuate;

le misure adottate in merito al monitoraggio.
Il recepimento della Direttiva doveva avvenire entro il 21 luglio 2004, pertanto dovevano essere
obbligatoriamente sottoposti a VAS i piani e i programmi il cui primo atto preparatorio formale fosse stato
successivo a tale data. I piani e i programmi il cui primo atto preparatorio formale era antecedente a tale
data e che erano stati approvati o sottoposti all’iter legislativo più di ventiquattro mesi dopo la stessa data
erano soggetti all’obbligo di valutazione, a meno che gli Stati membri non ne avessero decretato, caso per
caso, l’impossibilità di esecuzione, informando il pubblico in merito alla decisione presa.
Il Decreto Legislativo 152/2006
In Italia il recepimento della Direttiva VAS è avvenuto con notevole ritardo rispetto al termine comunitario
del 21 luglio 2004. Il principale atto normativo sulla VAS è il D. Lgs. n. 152/2006 (Testo Unico
sull’ambiente), che nella parte II disciplina la VAS, la VIA e l’autorizzazione integrata ambientale. Questo
decreto ha subito nel corso degli anni una serie continua di modifiche e di integrazioni. A seguito di questo
processo di adeguamento il testo attualmente in vigore è conforme alla Direttiva 42/2001.
La nuova norma individua quattro differenti autorità coinvolte nel processo di valutazione strategica:

autorità procedente: è la pubblica amministrazione che elabora il piano o il programma oppure, nel caso
sia un altro soggetto pubblico o privato a redigere il piano o il programma, è l’autorità che recepisce,
adotta o approva il piano o programma sottoposto a VAS;

autorità competente: adotta il provvedimento di verifica di assoggettabilità sui piani e programmi,
sceglie con l’autorità procedente i soggetti da consultare, ed esprime un parere motivato sulla proposta
di piano o di programma, sul rapporto ambientale, sul piano di monitoraggio e sulla sussistenza delle
risorse finanziarie disponibili, tenendo conto delle osservazioni emerse in seguito alle consultazioni (Tab.
1);

autorità proponente: il soggetto pubblico o privato che elabora il piano o il programma soggetto alle
verifiche di compatibilità ambientale:

soggetti competenti in materia ambientale: le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici che, per le
loro specifiche competenze o responsabilità in campo ambientale, possono essere interessate agli
impatti sull’ambiente dovuti alla attuazione dei piani, programmi o progetti.
VAS
di
programmi
statali
Autorità
competenti
piani
e
Ministero dell’Ambiente
in collaborazione con il
Ministro dei Beni Culturali
VAS di piani e programmi
regionali,
provinciali
comunali
L’amministrazione pubblica
regionale
provinciale
comunale avente funzioni
tutela,
protezione
valorizzazione ambientale
e
o
di
e
Tab. 1 - Autorità competenti per la VAS in sede statale e regionale
Secondo l’articolo 11 del decreto, il processo di valutazione si articola nelle seguenti fasi:

svolgimento della verifica di assoggettabilità limitatamente ai piani e ai programmi di dimensione
limitata;

elaborazione del rapporto ambientale;

svolgimento di consultazioni;
244
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano




valutazione del rapporto ambientale e degli esiti delle consultazioni;
decisione;
informazione sulla decisione;
monitoraggio.
Di seguito le fasi del processo di valutazione ambientale strategica vengono analizzate in dettaglio.
1)
Verifica di assoggettabilità
La verifica di assoggettabilità è una fase propedeutica all’avvio della valutazione; si applica per i piani e
programmi (di seguito indicati con P/P) che incidono su piccole aree a livello locale, o per modifiche di
minima entità a piani e programmi esistenti, o per P/P che definiscono il quadro di riferimento per progetti
per i quali la VIA non è prevista. Essa ha l’obiettivo di verificare la necessità o meno della valutazione
ambientale strategica.
L’autorità procedente inoltra all’autorità competente un rapporto preliminare comprendente una
descrizione del piano o programma e le informazioni e i dati necessari alla verifica degli impatti significativi
sull’ambiente dell’attuazione del piano o programma. Successivamente l’autorità competente, in
collaborazione con l’autorità procedente, individua i soggetti aventi competenze ambientali da consultare e
trasmette ad essi il rapporto.
Entro 30 giorni i soggetti con competenze ambientali trasmettono le loro osservazioni in merito al P/P
all’autorità competente la quale, sentita anche l’autorità procedente, nei successivi 90 giorni elabora il
parere di assoggettabilità con il quale si stabilisce se il P/P debba essere sottoposto a VAS. Tale parere,
una volta adottato è reso pubblico nel sito web dell’autorità competente.
2)
Elaborazione del rapporto ambientale
Sulla base del contenuto della relazione preliminare sugli effetti ambientali del P/P l’autorità procedente,
l’autorità competente ed i soggetti con competenze ambientali, individuati in precedenza, iniziano la
consultazione che si conclude entro 90 giorni; tramite questa consultazione si definisce la portata ed il
dettaglio delle informazioni da includere nel rapporto ambientale, considerando le indicazioni della
Direttiva VAS in merito ed eventualmente facendo riferimento ad informazioni ottenute da altre valutazioni
eseguite in precedenza.
La redazione del rapporto ambientale spetta al proponente o all’autorità procedente, senza nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Il rapporto ambientale costituisce parte integrante del piano
o del programma e ne accompagna l’intero processo di elaborazione ed approvazione.
Nel rapporto ambientale debbono essere individuati, descritti e valutati gli impatti significativi che
l’attuazione del piano o del programma proposto potrebbe avere sull’ambiente e sul patrimonio culturale,
nonché le ragionevoli alternative che possono adottarsi in considerazione degli obiettivi e dell’ambito
territoriale del piano o del programma stesso. La proposta di piano o di programma è comunicata
all’autorità competente. La comunicazione comprende il rapporto ambientale e una sintesi non tecnica
dello stesso.
3)
Consultazioni
Una volta elaborato il P/P, l’autorità procedente deposita la proposta di P/P, il rapporto ambientale ed una
sintesi non tecnica presso gli uffici dell’autorità competente e delle amministrazioni interessate anche solo
parzialmente dagli interventi di piano o dagli effetti che derivano dalla sua attuazione; trasmette la
suddetta documentazione anche all’autorità competente.
L’autorità procedente divulga la notizia dell’avvenuto deposito attraverso la pubblicazione di un avviso sulla
Gazzetta Ufficiale o sul Bollettino Ufficiale della regione interessata che riporti il titolo della proposta di P/P,
l’identità dell’autorità proponente e dell’autorità procedente e le sedi degli uffici presso i quali è possibile
consultare i documenti relativi. Dalla data di pubblicazione dell’avviso sulla Gazzetta Ufficiale chiunque
volesse presentare osservazioni in merito al P/P può farlo entro il termine di 60 giorni.
4)
Valutazione del rapporto ambientale e degli esiti delle consultazioni
L’autorità competente in collaborazione con l’autorità procedente, acquisite le osservazioni, le obiezioni ed
i suggerimenti pervenute ed analizzata la documentazione, svolge l’istruttoria tecnica che si conclude con
l’elaborazione di un parere motivato sulla proposta di P/P. Tale parere deve essere espresso anteriormente
all’adozione ed approvazione del P/P ed entro i successivi 90 giorni dal termine ultimo per la presentazione
delle osservazioni. L’autorità procedente, in collaborazione con l’autorità competente, provvede, prima
della presentazione del piano o programma per l’approvazione e tenendo conto delle risultanze del parere
motivato di cui al comma 1 e dei risultati delle consultazioni transfrontaliere, alle opportune revisioni del
piano o del programma.
245
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
5)
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
Decisione
L’intera documentazione (il piano o programma ed il rapporto ambientale, insieme con il parere motivato e
la documentazione acquisita nell’ambito della consultazione) è trasmessa all’autorità competente per la sua
adozione ed approvazione.
6)
Informazione sulla decisione
La decisione è pubblicata sui siti web delle autorità interessate unitamente alla indicazione sugli uffici in cui
è possibile consultare i documenti. Inoltre, sui siti web delle autorità interessate al processo decisionale
sono pubblicati:

il parere motivato espresso dall’autorità competente;

una dichiarazione di sintesi che illustra come le considerazioni ambientali sono state integrate nel piano
o programma e come si è tenuto conto del rapporto ambientale e degli esiti delle consultazioni, nonché
le ragioni per le quali è stato scelto il piano o il programma adottato, alla luce delle alternative possibili
che erano state individuate;

le misure adottate per il monitoraggio del P/P.
7)
Monitoraggio
Il monitoraggio assicura il controllo sugli impatti significativi sull’ambiente derivanti dall’attuazione dei P/P
approvati, la verifica del raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità prefissati e la individuazione
tempestiva degli impatti negativi imprevisti allo scopo di adottare le opportune misure correttive. Il
monitoraggio è effettuato dall’autorità procedente in collaborazione con l’autorità competente anche
avvalendosi del sistema delle agenzie ambientali e dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca
Ambientale. Il P/P individua le risorse necessarie per la realizzazione e la gestione del monitoraggio. Delle
modalità di svolgimento del monitoraggio, dei risultati e delle eventuali misure correttive adottate ai sensi
del comma 1 è data adeguata informazione attraverso i siti web dell’autorità competente, dell’autorità
procedente e delle agenzie ambientali interessate.
Le informazioni raccolte attraverso il monitoraggio sono utilizzate nel caso di eventuali modifiche al P/P e
comunque sempre incluse nel quadro conoscitivo dei successivi atti di pianificazione o programmazione.
Contenuto del rapporto ambientale
Il contenuto del Rapporto Ambientale, secondo le indicazioni del D.Lgs. 152/2006, è compreso nell’allegato
VI. Le informazioni da fornire con i rapporti ambientali che devono accompagnare le proposte di piani o
programmi sottoposti a Valutazione Ambientale Strategica, si compongono delle seguenti parti:
a) illustrazione dei contenuti, degli obiettivi principali del piano o programma e del rapporto con altri
piani o programmi pertinenti;
b) aspetti pertinenti dello stato attuale dell’ambiente e sua evoluzione probabile senza l’attuazione del
piano o programma;
c)
caratteristiche ambientali delle aree che potrebbero essere significativamente interessate;
d) qualsiasi problema ambientale esistente, pertinente al piano o programma, ivi compresi in particolare
quelli relativi ad aree di particolare rilevanza ambientale, culturale e paesaggistica, quali le zone
designate come Zone di Protezione Speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli
classificati come Siti di Importanza Comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e
della fauna selvatica, nonché i territori con produzioni agricole di particolare qualità e tipicità, di cui
all’articolo 21 del D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228;
e) obiettivi di protezione ambientale stabiliti a livello internazionale, comunitario o degli Stati membri,
pertinenti al piano o al programma, e il modo in cui, durante la sua preparazione, si è tenuto conto
dei detti obiettivi e di ogni considerazione ambientale;
f)
possibili effetti significativi (anche secondari, cumulativi, sinergici, a breve, medio e lungo termine,
permanenti e temporanei, positivi e negativi) sull’ambiente, compresi aspetti quali la biodiversità, la
popolazione, la salute umana, la flora e la fauna, il suolo, l’acqua, l’aria, i fattori climatici, i beni
materiali, il patrimonio culturale, anche architettonico e archeologico, il paesaggio e l’interrelazione
tra i suddetti fattori;
g) misure previste per impedire, ridurre e compensare nel modo più completo possibile gli eventuali
effetti negativi significativi sull’ambiente a seguito dell’attuazione del piano o del programma;
h) sintesi delle ragioni della scelta delle alternative individuate e descrizione di come è stata effettuata
la valutazione, nonché le eventuali difficoltà incontrate (per carenze tecniche o mancanza di dati)
nella raccolta delle informazioni richieste;
i)
descrizione delle misure previste in merito al monitoraggio e controllo degli impatti ambientali
significativi derivanti dall’attuazione del piano o del programma proposto definendo, in particolare, le
246
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
modalità di raccolta dei dati e di elaborazione degli indicatori necessari alla valutazione degli impatti e
del misure correttive da adottare;
j)
sintesi non tecnica delle informazioni di cui alle lettere precedenti.
Il contenuto elencato ricalca in maniera quasi del tutto fedele le indicazioni contenute nell’Allegato I alla
Direttiva CE/42/2001.
La VAS in Campania
La legge urbanistica della Regione Campania (L.R. 16/2004), in conformità con quanto stabilito dalla
Direttiva Comunitaria 42/2001, ha introdotto l’obbligo di esecuzione della valutazione degli effetti di
determinati piani e programmi sull’ambiente. In particolare, all’art. 47, si stabilisce che la valutazione
scaturisce da un rapporto ambientale in cui sono individuati, descritti e valutati gli effetti significativi
dell’attuazione del piano sull’ambiente e le alternative, alla luce degli obiettivi e dell’ambito territoriale di
riferimento del piano. La proposta di piano ed il rapporto ambientale sono messi a disposizione delle
autorità interessate e del pubblico con le procedure di cui al regolamento di attuazione previsto. Ai piani è
allegata una relazione che illustra come le considerazioni ambientali sono state integrate nel piano e come
si è tenuto conto del rapporto ambientale.
Nel luglio 2007, con l’emanazione della delibera di Giunta Regionale 834/2007 “Norme tecniche e direttive
riguardanti gli elaborati da allegare agli strumenti di pianificazione”, sono state definite ulteriori
disposizioni in materia di VAS. La delibera individua le seguenti direttrici della pianificazione territoriale ed
urbanistica: sviluppo socio-economico, sostenibilità, concertazione e partecipazione, ribadendo che la
redazione degli strumenti di pianificazione debba avvenire nel rispetto dei principi indicati dall’articolo 2
della Legge Regionale 16/20043. Affinché la realizzazione dei suddetti obiettivi si verifichi concretamente e
non si limiti ad enunciazioni teoriche, la delibera prevede la selezione e l’utilizzo di indicatori di efficacia
nella redazione dei documenti di piano (compreso il rapporto ambientale). Tali indicatori hanno lo scopo di
rappresentare le condizioni iniziali del territorio, di fornire informazioni sul valore delle azioni di
pianificazione, sui risultati attesi e sui tempi per il loro conseguimento.
La delibera si distingue per l’attenzione dedicata alla tutela delle risorse territoriali, stabilendo che gli
interventi di trasformazione del territorio siano eseguiti attraverso un uso responsabile delle risorse tale da
non comprometterne le loro qualità intrinseche, ed in modo che le modificazioni indotte nelle componenti
(radiazioni, rumori, ecc) e nei fattori (acqua, aria, suolo, ecc.) ambientali siano di entità tale da mantenere
i suddetti elementi in una “condizione elastica”, ossia che non vengano superati i valori limite di utilizzo
consentiti.
In particolare, in riferimento al processo di VAS, la delibera, secondo quanto già stabilito dalla L.R.
16/2004, prevede di allegare ai documenti di piano il rapporto ambientale ed una relazione ambientale non
tecnica che illustra in che misura sono stati tenuti in considerazione gli aspetti ambientali, quali sono stati i
criteri di tutela seguiti e le soluzioni adottate.
Come illustrato in precedenza, il rapporto ambientale descrive l’iter di elaborazione dei P/P riportando i
criteri, le motivazioni delle scelte e le modalità di esecuzione delle consultazioni, e deve essere strutturato
facendo riferimento agli indicatori di efficacia, ossia ad un insieme di indicatori, appartenenti a varie
categorie (popolazione e territorio, tutela e protezione ambientale, sviluppo sostenibile, acqua, mobilità,
aria e rifiuti) differenziati sulla base del tipo di strumento di pianificazione che si sta valutando (piani di
livello provinciale oppure un di livello comunale). Gli indicatori di efficacia sono stati desunti dalle
disposizioni della Direttiva Comunitaria 42/2001, dal progetto Indicatori Comuni Europei e dall’Agenda 21
locale del comune di Pavia. A ciascuno di essi è stato associato un valore limite ricavato dalla letteratura o
da disposizioni normative che rappresenta un valore di riferimento per la valutazione degli effetti e
dell’efficacia degli interventi.
In fase di elaborazione del piano o del programma, l’indicazione dei risultati attesi per ognuno degli
indicatori consentirà, durante la successiva fase di monitoraggio, il confronto tra i valori degli indicatori
previsti in sede di elaborazione del piano o del programma ed i risultati ottenuti in seguito all’attuazione
degli interventi. Tutti i piani e programmi che ricadono nei settori elencati a livello comunitario devono
3
L’articolo 2 della L.R. della Campania n. 16/2004 stabilisce che «la pianificazione territoriale e urbanistica persegue i
seguenti obiettivi: promozione dell’uso razionale e dello sviluppo ordinato del territorio urbano ed extraurbano mediante il
minimo consumo di suolo; salvaguardia della sicurezza degli insediamenti umani dai fattori di rischio idrogeologico,
sismico e vulcanico; tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio attraverso la valorizzazione delle risorse
paesistico-ambientali e storico-culturali, la conservazione degli ecosistemi, la riqualificazione dei tessuti insediativi
esistenti e il recupero dei siti compromessi; miglioramento della salubrità e della vivibilità dei centri abitati; potenziamento
dello sviluppo economico regionale e locale; tutela e sviluppo del paesaggio agricolo e delle attività produttive connesse;
tutela e sviluppo del paesaggio mare-terra e delle attività produttive e turistiche connesse».
247
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
essere sottoposti a valutazione che deve concludersi anteriormente alla loro adozione; l’unica eccezione
contemplata dalla D.G.R. 834/2007 riguarda la redazione di quei piani urbanistici attuativi, redatti in
conformità a piani urbanistici comunali che si sono dotati di valutazione, e per i quali quindi la VAS non è
necessaria.
In precedenza, la Regione Campania, con la D.G.R. n. 421/2004, aveva approvato il “Disciplinare delle
procedure di valutazione di impatto ambientale, valutazione di incidenza, screening, sentito e valutazione
ambientale strategica” ed aveva istituito, tra l’altro, il Comitato Tecnico per l’Ambiente, con il compito di
esprimere il parere sulla valutazione ambientale strategica di piani e programmi. In particolare per quanto
riguarda la VAS, gli organismi coinvolti nel processo sono:

il Comitato Tecnico per l’Ambiente (CTA), nominato dal Presidente della Giunta Regionale, individua i
piani e programmi da sottoporre a VAS; esamina e verifica i rapporti ambientali presentati; controlla le
consultazioni delle autorità e del pubblico ed i relativi strumenti di informazione utilizzati; monitora lo
stato di attuazione dei piani e dei programmi.

il Servizio VIA, già operante nella regione Campania, ha essenzialmente il compito di ricevere le
richieste presentate dai soggetti proponenti e di istruirne il procedimento, aggiornare il database dei
dati ambientali e curare i rapporti con il servizio cartografico regionale e con tutti gli altri servizi
necessari per l’implementazione della banca dati ambientale; predispone l’atto amministrativo relativo al
giudizio di compatibilità ambientale in base al parere della Commissione VIA e del CTA e cura i rapporti
con i soggetti proponenti, con il Ministero dell’Ambiente, con le autorità locali e con il pubblico.
Il suddetto disciplinare ha stabilito che i soggetti pubblici o privati, proponenti piani e programmi o
interventi in piccole aree (art. 3, comma 3 della Direttiva 42/2001), devono inoltrare le proprie richieste al
Servizio VIA, corredate dalla documentazione tecnica amministrativa prevista dalle vigenti normative in
materia (artt. 4, 5, 6, 7, 8, 9 e 10 della Direttiva 42/2001), in formato cartaceo e su supporto informatico
per la costituzione della banca dati di settore e per consentire al Servizio VIA la successiva trasmissione dei
documenti al Comitato tecnico per l’ambiente, che a sua volta deve concludere le procedure valutative
entro 60 giorni (termine fissato dalla D.G.R. 834/2007) dal deposito del rapporto ambientale, emettendo
un giudizio di compatibilità ambientale.
Il Regolamento di attuazione per il governo del territorio (Regolamento n. 5 del 4 agosto 2011), all’articolo
2, si occupa della sostenibilità ambientale dei piani e riconduce la procedura di valutazione ambientale
della Regione Campania all’interno del Decreto legislativo n. 152 del 2006, pur con alcune novità di rilievo.
L’amministrazione procedente avvia contestualmente al procedimento di pianificazione la valutazione
ambientale strategica o la verifica di assoggettabilità secondo le disposizioni dell’articolo 6 del D.Lgs. n.
152/2006 e nel rispetto dei casi di esclusione previsti dal medesimo decreto legislativo.
In relazione alle competenze di regolamento stabilisce una innovazione di rilievo, nel senso che la Regione,
le province ed i comuni sono autorità competenti per la VAS dei rispettivi piani e varianti nonché per i piani
di settore dei relativi territori.
L’amministrazione procedente predispone il rapporto preliminare (RP) contestualmente al preliminare di
piano composto da indicazioni strutturali del piano e da un documento strategico e lo trasmette ai soggetti
competenti in materia ambientale (SCA) da essa individuati. I soggetti competenti in materia ambientale si
esprimono entro 30 giorni, decorsi inutilmente i quali i pareri si intendono acquisiti. Sulla base del rapporto
preliminare e degli esiti delle consultazioni con gli SCA, l’amministrazione procedente redige il rapporto
ambientale che costituisce parte integrante del piano da adottare in Giunta.
Il rapporto ambientale, integrato nel piano adottato dalla Giunta è pubblicato contestualmente sul
bollettino ufficiale della regione Campania (BURC) e sul sito web dell’amministrazione procedente ed è
depositato presso l’ufficio competente e la segreteria dell’amministrazione procedente ed è pubblicato
all’albo dell’ente.
Le consultazioni di cui all’articolo 14 del D. Lgs. 152/2006 avvengono nei termini previsti all’articolo 7,
ossia entro 60 giorni dalla pubblicazione del piano o della variante. Il parere, sulla base dell’istruttoria
svolta dall’amministrazione procedente e della documentazione di cui al comma 1 dell’articolo 15 dello
stesso D. Lgs., è espresso, come autorità competente:
a) dall’amministrazione comunale per i comuni con popolazione superiore ai quindicimila abitanti;
b) dall’amministrazione provinciale per i comuni con popolazione inferiore ai quindicimila abitanti per i
piani urbanistici comunali e loro varianti e per i piani di settore a scala comunale e loro varianti;
c)
dalla Regione Campania per le varianti al piano territoriale regionale, per i piani territoriali di
coordinamento provinciale e loro varianti e per i piani di settore a scala regionale e provinciale e loro
varianti.
L’ufficio preposto alla valutazione ambientale strategica è individuato all’interno dell’ente territoriale. Tale
ufficio è obbligatoriamente diverso da quello avente funzioni in materia urbanistica ed edilizia. Per i comuni
al di sotto dei cinquemila abitanti la funzione in materia di VAS viene svolta in forma associata anche con i
248
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
Comuni aventi popolazione superiore, secondo gli ambiti di cui all’articolo 7 comma 2 della legge regionale
16/2004.
Acquisito il parere il procedimento prosegue e si conclude, per quanto riguarda la VAS, secondo le
disposizioni degli artt. 16, 17 e 18 del D. Lgs. 152/2006.
La VAS e la VIA
La Direttiva Comunitaria sulla VAS si è venuta ad affiancare alla Direttiva 337/1985, modificata dalle
Direttive 11/1997 e 35/2003, relativa alla valutazione d’impatto ambientale di determinati progetti pubblici
e privati.
Nonostante i due processi presentino origini comuni in quanto concepiti come strumenti di azione basati
sul principio di precauzione e finalizzati alla salvaguardia delle risorse ed al perseguimento dello sviluppo
sostenibile, le differenze tra VIA e VAS sono così radicali che è difficile considerare, come a volte
erroneamente accade, la VAS come una semplice estensione della procedura di VIA ai piani e programmi.
In particolare, la VIA e la VAS differiscono per ambito di applicazione (“cosa” si valuta), per lo stadio
temporale in cui s’inseriscono nel processo decisionale (“quando” si esegue la valutazione) e per
articolazione strutturale (“come” è svolta la valutazione).
Relativamente al primo aspetto, a differenza della VIA, che si applica a progetti ed è finalizzata al
conseguimento di un’autorizzazione in merito, la VAS valuta piani o programmi ed è finalizzata al
conseguimento di un parere di compatibilità ambientale che comunque è interno ad «un processo di
autovalutazione, di un’argomentazione tecnica interna al processo decisionale» (Brunetta 2002).
Inoltre, la collocazione della VAS in una fase in cui le decisioni sono ancora in via di definizione comporta
un maggiore coinvolgimento dei soggetti interessati. Attraverso lo svolgimento di momenti di
partecipazione del pubblico, di consultazione delle autorità competenti e di divulgazione delle informazioni
sul piano (o programma) che si sta elaborando e sui suoi effetti, la VAS si propone, fin dall’inizio del
processo di pianificazione, di pervenire ad una visione comune e condivisa di sviluppo del territorio.
La differenza nell’oggetto di valutazione si ripercuote nelle stesse modalità di svolgimento della VAS: la
valutazione di un piano (o un programma) risulta essere più complessa dal momento che essa si basa su
un insieme di azioni che interessano in genere scale geografiche più ampie rispetto ad un progetto che,
invece, si riferisce a siti di minore dimensione e che disciplina un singolo intervento. Infatti, la vastità della
scala geografica di intervento e la meno dettagliata definizione degli interventi di piano, unita alla minore
specificità del patrimonio informativo disponibile, rende più difficile la quantificazione degli effetti
ambientali delle azioni previste, che, in alcuni casi, si risolve in stime per lo più di carattere qualitativo.
18.3. Strumenti: il modello DPSIR
Le disposizioni contenute nella Direttiva VAS rappresentano un’innovazione significativa nel processo di
pianificazione, sia di livello comunale che di area vasta. In un contesto normativo nel quale la
pianificazione è guidata ancora dalla Legge 1150/1942 e dalle successive integrazioni, l’introduzione della
VAS rappresenta una rilevante innovazione: valutare gli effetti delle scelte di piano sull’ambiente costringe
a modificare l’azione del pianificatore, almeno per evitare l’insorgenza di situazioni di incompatibilità nella
fase di attuazione e gestione del piano.
La Direttiva 42/2001, pur definendo alcuni aspetti caratteristici del processo di VAS, non ha indicato una
metodologia per la valutazione dei piani e programmi, affidando agli Stati membri il compito di
individuarne una.
A tale proposito, gli studi scientifici hanno evidenziato, nel tempo, la necessità di sviluppare nuovi metodi e
tecniche per la valutazione ambientale strategica, in quanto la complessità dei contenuti di piani e
programmi rispetto ai progetti, la molteplicità dei soggetti coinvolti nel processo decisionale, la maggiore
estensione dell’ambito di scelta rendono inadatti i metodi applicati nella valutazione d’impatto ambientale.
Il metodo per la VAS deve conformarsi al contesto decisionale e di elaborazione di piani e programmi;
pertanto, «le tecniche, i processi, i tempi e le esigenze amministrative per implementare la valutazione
devono essere “cuciti” sulle specifiche circostanze del piano o del programma» (Brown, Thérivel 2000).
Solitamente, i metodi proposti per l’esecuzione della VAS si basano sull’uso di indicatori opportunamente
selezionati. Con il termine “indicatore” si intende un parametro o un valore derivato da più parametri
capace di fornire informazioni su un determinato fenomeno, consentendo una rappresentazione sintetica
di realtà complesse, tra cui quella ambientale.
249
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
Fig. 2 – Il modello DPSIR (Fonte: Regione Piemonte, 2004)
Gli indicatori possono essere utilizzati sia per descrivere lo stato dell’ambiente al momento
dell’elaborazione del piano, sia per stimare gli impatti delle azioni di piano; infatti, attraverso il confronto
tra i valori misurati, relativi alla situazione all’atto della redazione del piano, e quelli ipotizzati in un dato
scenario futuro, si possono ricavare informazioni utili per orientare la decisione finale.
Nelle valutazioni è diffuso l’uso del modello DPSIR (acronimo di Driving Forces, Pressure, State, Impact,
Responses), che consente di mettere a punto una lettura dello stato dell’ambiente in base alle interazioni
con i principali settori di sviluppo. Adottato dall’European Environment Agency e dall’Istituto Superiore per
la Protezione e la Ricerca Ambientale Agenzia (ISPRA), è costituito da un insieme di relazioni causali che
legano una serie definita di momenti caratterizzanti il processo di implementazione di una specifica azione,
ossia: determinanti (settori economici, attività umane), pressioni (rifiuti ed emissioni prodotte), stato
(qualità dell’atmosfera, qualità chimiche, fisiche e biologiche), impatti (sull’ambiente, sulla salute) e
risposte (politiche, azioni di pianificazione ed iniziative legislative)4.
Secondo la logica del modello DPSIR, le attività antropiche generano pressioni sull’ambiente che ne
alterano lo stato producendo impatti a cui le autorità rispondono attraverso la realizzazione di interventi o
l’adozione di provvedimenti che agiscono sulle fonti, sulle pressioni, sullo stato dell’ambiente o sugli impatti
(Fig. 2). Lo schema è strutturato in modo da fornire informazioni sullo stato e sul livello di qualità
ambientale, sull’entità delle correlazioni tra pressioni e cambiamenti e sugli effetti prodotti dagli interventi
realizzati. Altrettanto diffuso nelle valutazioni di piani e programmi è l’uso di software in grado di fornire
una rappresentazione sintetica dello stato qualitativo del territorio studiato. Sono software strutturati come
Dashboard che calcolano, usando come dati di input una serie di indicatori, un indice sintetico differenziato
per ambito territoriale relativo allo stato di uno specifico sottosistema (ad esempio il sistema della mobilità,
quello insediativo oppure quello ambientale).
Questi software, attraverso un’operazione di confronto tra i valori misurati e quelli di riferimento definiti
dalla normativa o dalla letteratura scientifica, restituiscono i risultati delle elaborazioni all’interno di grafici,
esprimendo i valori finali degli indici mediante una scala cromatica che va dal rosso (per valutazioni molto
negative) al verde (per valutazioni molto positive).
Bibliografia
Brunetta G. (2002), “Valutazione ambientale strategica e grandi eventi. Riflessioni a partire dall’esperienza
di Torino 2006”, Bollettino della Società Geografica Italiana, XII/VII, 4.
4
In relazione a momenti del processo di analisi DPSIR, alcuni esempi di indicatori sono: indicatori di fonti di pressione:
produzione totale e pro capite di rifiuti urbani, produzione di rifiuti speciali pericolosi; indicatori di pressione: numero di
siti contaminati, numero di cave, emissioni di CO2, quantità di rifiuti urbani smaltiti in discarica; indicatori di stato: km di
costa dichiarati balenabili, temperatura media dell’aria, eventi pluviometrici intensi, stato ambientale delle acque
sotterranee, indice di esplosività vulcanica; indicatori di impatto: km di costa interessati a fenomeni di erosione, numero
di incendi; indicatori di risposta: numero di centraline fisse per il monitoraggio dell’aria, numero di siti bonificati, numero
di impianti di compostaggio, numero di piani paesistici approvati.
250
GIUSEPPE MAZZEO – CRISTINA CALENDA
CAPITOLO 18. La valutazione delle scelte del Piano
Dalal-Clayton B., Sadler B. (2005), A Sourcebook and Reference Guide to International Experience, IIED,
http://www.iied.org/Gov/spa/docs.html#sea.
INU (2006), Rapporto nazionale dal territorio 2005, INU Edizioni, Roma.
Regione Piemonte (2004), “La valutazione ambientale di piani e programmi”, Rivista dell’urbanistica, 3, 80.
Sadler B. (2000), “A Framework Approach to Strategic Environmental Assessment: Aims, Principles and
Elements of Good Practice”, Public Participation and Health Aspect in Strategic Environmental
Assessment, International Workshop, Szentendre, Ungheria.
Sadler B., Jacobs P. (1989), Sustainable Development and Environmental Appraisal Perspectives on
Plannings for a Common Future, Canadian Environmental Assessment Research Council.
Sadler, B., Verheem. R. (1996), Strategic Environmental Assessment: Status, Challenges and Future
Directions, Ministry of Housing, Spatial Planning and the Environment, 53, The Hague, Netherlands.
Wood C., Djeddour M. (1992). “Strategic Environmental Assessment: EA of Policies, Plans and
Programmes”. Impact Assessment Bulletin, 10, 3-22.
251
19. L’ATTUAZIONE DEL PIANO COMUNALE
Rosa Anna La Rocca
Il Piano Comunale definisce le regole generali di intervento su tutto il territorio urbano, demandando alla
fase di attuazione l’applicazione di tali regole, non essendo un piano di dettaglio. I piani urbanistici
attuativi hanno la finalità di rendere concrete (attuare) le indicazioni del piano comunale. Tali strumenti
sono finalizzati alla realizzazione delle previsioni del piano comunale, all’individuazione delle modalità con
le quali è possibile effettuare la trasformazione sul territorio; a contribuire alla costruzione di un disegno
urbano coerente e significativo. A questi strumenti si affiancano procedure autorizzative finalizzate a
monitorare gli interventi edilizi sul territorio comunale.
Il ricorso a piani attuativi o a specifiche procedure autorizzative corrisponde a due distinte modalità di
attuazione del piano comunale.
La prima, indiretta, ricorre all’utilizzo di specifici piani (piani attuativi) che consentono la trasformazione del
territorio attraverso procedure proprie dei piani urbanistici (redazione, adozione, approvazione).
La seconda, diretta, consente di dare seguito alle indicazioni del piano comunale attraverso l’utilizzo di
procedure finalizzate alla verifica (da parte dell’amministrazione pubblica) della conformità tra l’intervento
dei privati con gli strumenti urbanistici e le disposizioni di particolari vincoli gravanti sul territorio.
L’attuazione del piano comunale, quindi, si articola e si differenzia in una serie di provvedimenti di varia
natura in parte tecnico-amministrativa, in parte progettuale, in parte anche legati alla capacità delle
amministrazioni comunali di coinvolgere altri soggetti nella fase di realizzazione delle scelte operate in sede
di definizione del piano.
Questo capitolo descrive i principali provvedimenti autorizzativi per la realizzazione degli interventi edilizi in
conformità alle disposizioni del piano urbanistico generale.
19.1.
I procedimenti autorizzativi per gli interventi edilizi
Il Piano urbanistico comunale contiene gli elementi di assetto del territorio comunale per il quale fornisce
indicazioni e modalità di utilizzazione. È uno strumento a validità indeterminata le cui previsioni possono
essere realizzate attraverso strumenti di pianificazione (piani attuativi) o procedimenti autorizzativi che
hanno una scadenza dei tempi e delle modalità di realizzazione.
Il piano urbanistico comunale (PUC ha un ruolo di indirizzo programmatico delle scelte da operare sul
territorio urbano e rappresenta il principale strumento di governo delle trasformazioni del territorio
comunale.
L’attuazione delle previsioni del piano comunale avviene attraverso due modalità:
 diretta;
 indiretta.
La prima modalità fa riferimento all’utilizzo di strumenti che disciplinano il diritto di proprietà e l’attività
edilizia. La seconda modalità, invece, fa riferimento a strumenti di pianificazione (piani esecutivi o
attuativi) che definiscono la trasformazione delle aree urbane interessate.
La fase di attuazione del piano urbanistico comunale è finalizzata a:
 realizzare le previsioni del PUC;
 indicare le modalità con le quali effettuare la trasformazione;
 costruire un disegno urbano coerente e significativo.
La fase di attuazione presenta livelli di complessità differenti, legati a fattori che possono essere individuati
in:
 dimensione dell’intervento;
 livello di coinvolgimento e capacità propositiva dei soggetti interessati;
 necessità d’integrazione delle analisi del PUC;
 tipologia progettuale e programmaticità degli interventi.
L’intervento diretto è rivolto all’utilizzo di procedure amministrative che disciplinano il diritto di proprietà e
l’attività edilizia sul territorio. Sono, cioè, provvedimenti autorizzativi che consentono al singolo proprietario
di intervenire direttamente sempre in maniera conforme alle indicazioni del piano urbanistico generale.
Negli ultimi anni, la disciplina dei titoli abilitativi è stata oggetto di rilevanti modifiche. Dal 2010 ad oggi
sono intervenuti numerosi provvedimenti che hanno rivisto la classificazione degli interventi edilizi e il
relativo regime normativo.
Da un sistema improntato sostanzialmente su due titoli abilitativi (permesso di costruire e denuncia di
inizio attività) e su un’attività prettamente autorizzatoria della pubblica amministrazione, si è passati ad un
255
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 19. L’attuazione del Piano Comunale
regime di maggiore liberalizzazione degli interventi edilizi e responsabilizzazione dei professionisti
incaricati.
La norma di riferimento è il Testo Unico per l’Edilizia (D.P.R. n. 380/2001) e le successive modifiche che
sono state apportate sino ad oggi.
Le diverse tipologie di titoli abilitativi sono fissati in ragione degli interventi che possono essere attuati sul
patrimonio edilizio esistente così come definiti nel TU dell’edilizia, ovvero (art. 3):
a) interventi di manutenzione ordinaria, ovvero interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione,
rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in
efficienza gli impianti tecnologici esistenti;
b) interventi di manutenzione straordinaria, ovvero le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e
sostituire parti anche strutturali degli edifici e per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e
tecnologici; interventi di frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari anche con esecuzione
di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del
carico urbanistico; tutti gli interventi compresi in questa categoria non devono alterare la volumetria
complessiva degli edifici e comportare modifiche delle destinazioni di uso;
c)
interventi di restauro e di risanamento conservativo, ovvero interventi edilizi rivolti a conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere e
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio,
l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione
degli elementi estranei all'organismo edilizio;
d) interventi di ristrutturazione edilizia, ovvero interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente; in questa categoria sono compresi anche interventi di demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria dell’edificio preesistente;
e) interventi di nuova costruzione, ovvero interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio
non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti; sono da considerarsi tali: la costruzione
di manufatti edilizi fuori terra o interrati, gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria
realizzati da soggetti diversi dal Comune; la realizzazione di infrastrutture e di impianti; l’installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili;
f)
interventi di ristrutturazione urbanistica, ovvero quelli rivolti a sostituire l'esistente tessuto
urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con
la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.
A seguito dei diversi interventi legislativi, il sistema dei titoli abilitativi è oggi così articolato (art. 6 e segg.
del TU e s.m.):
 Attività Libera;
 Comunicazione di Inizio Lavori (CIL) e Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata (CILA);
 Permesso di Costruire.
 Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA).
Il soggetto preposto alla cura di qualsiasi rapporto tra privato e amministrazione in merito al tipo di
intervento che si vuole realizzare è lo Sportello Unico per l’Edilizia che si pronuncia in ordine all'intervento
edilizio oggetto della richiesta di permesso o di segnalazione certificata di inizio attività.
A partire dal 2015 con la Legge n. 124 dal titolo “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche” sono stati previsti alcuni decreti legislativi che hanno introdotto una serie di
semplificazioni relative alle procedure abilitative per gli interventi edilizi. In particolare, a seguito
dell’introduzione del decreto “SCIA 2” (DL 222/20161), entrato definitivamente in vigore nel dicembre
2016, sono state apportate modifiche sostanziali al testo unico per l’edilizia (D.P.R. n. 380/2001). La
principale innovazione del decreto è consistita nella definitiva abolizione della Dichiarazione di Inizio
Attività e nell’introduzione di un allegato (tabella A – Sezione II) che riporta le indicazioni della procedura
da seguire in ragione del tipo di intervento da effettuare. All’introduzione di tale decreto sono succedute le
integrazioni dovute all’entrata in vigore, nel 2017, del DPR 31/2017, che definisce le nuove regole per
l’Autorizzazione Paesaggistica e che ha, in parte rinnovato, la tabella allegata al DL 222/2016.
Nella tabella 1 a titolo di esempio e in maniera non esaustiva vengono indicate alcune corrispondenze tra
tipologia di intervento e titolo abilitativo necessario per la sua attuazione.
1
Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio
assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti,
ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124.
256
ROSA ANNA LA ROCCA
CAPITOLO 19. L’attuazione del Piano Comunale
Tipologia di intervento
-
-
-
-
Regime amministrativo
Manutenzione ordinaria (Art. 3, comma 1, lettera a del TU).
Installazione delle pompe di calore aria-aria di potenza termica utile nominale
inferiore a 12 kW.
Interventi per eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la
realizzazione di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma
dell’edificio.
Opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere
geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi, e che siano
eseguite in aree esterne al centro edificato.
Movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le
pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari.
Serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo
svolgimento dell’attività agricola.
Opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad
essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro
un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori
all’amministrazione comunale.
Opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta,
che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento
urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente
interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati.
Installazione di pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici non in area
storica.
Aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali
degli edifici.
Manutenzione straordinaria (leggera), interventi che:
˗
non alterino la volumetria complessiva degli edifici;
˗
non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni
d’uso;
˗
non modifichino la sagoma e i prospetti dell’edificio;
˗
non riguardino le parti strutturali dell’edificio.
Restauro e risanamento conservativo (leggero), interventi che siano coerenti
con la tipologia e la funzionalità dell’edificio anche in caso di cambio della
destinazione d’uso. In particolare comprendono interventi di:
˗
consolidamento;
˗
il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio;
˗
inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle
esigenze dell’uso;
˗
l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio.
Manutenzione straordinaria (pesante):
˗
opere interne che riguardano la parte strutturale degli edifici
Restauro e risanamento conservativo (pesante), interventi che rientrano nella
precedente categoria ma che riguardano le parti strutturali dell’edificio.
Interventi di ristrutturazione edilizia che:
˗
non portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente
˗
non comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei
prospetti
˗
limitatamente alle zone omogenee A (DL 1444/68), non comportino
mutamenti della destinazione d’uso,
˗
non comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli
ai sensi del dlgs 42/2004
Le varianti a permessi di costruire che:
˗
non incidono su parametri urbanistici e volumetrie;
˗
non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia;
˗
non alterano la sagoma dell’edificio sottoposto a vincolo (dlgs 42/2004);
˗
non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire.
Gli interventi non riconducibili a edilizia libera, a SCIA o a permesso di
costruire (artt. 6, 10 e 22 del dpr 380/2001) sono realizzabili previa
comunicazione asseverata di inizio lavori. In questo caso il tecnico assicura
la coerenza con le previsioni degli strumenti urbanistici. In particolare,
l’interessato trasmette al Comune l’elaborato progettuale e la
comunicazione di inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato. Il
tecnico attesta sotto la propria responsabilità che i lavori sono conformi
agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti e che
sono compatibili con la normativa in materia sismica e con quella sul
rendimento energetico nell’edilizia e che non vi è interessamento delle
parti strutturali dell’edificio.
Attività edilizia libera
CILA
CILA
SCIA
CILA
Tab. 1 − Tipologie di intervento e s
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