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Tecnologie digitali e processi cognitivi 1-72 (794 pag)

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TECNOLOGIE
DIGITALI
E PROCESSI
COGNITIVI
L-20
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Carlo Infante - Tag cloud della Digital Transformation
Indice
1.
IL LINGUAGGIO E LA TECNOLOGIA..................................................................................................... 3
2.
CONVERGENZA DEI MEDIA .................................................................................................................. 6
3.
RIVOLUZIONE DEL WEB 2.0 ................................................................................................................... 8
4.
INNOVAZIONE ADATTIVA................................................................................................................... 10
5.
URBAN EXPERIENCE ............................................................................................................................ 13
6.
PERFORMING MEDIA .......................................................................................................................... 15
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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1. Il linguaggio e la tecnologia
In questa area tematica della ricognizione sulla digital transformation si percorre la via
d’accesso culturale ed educativa alle tecnologie digitali, sorvolando i temi trattati nelle lezioni:
mediamorfosi della scrittura, il medium è il messaggio, dal mass media al personal media, sviluppo
di Internet, interattività, ipermedialità, connettività, interfaccia come soglia, ipermedialità
combinatoria, edutainment, cittadinanza educativa, cooperazione ludico-educativa in rete,
culture digitali, etica open source.
Il nostro cervello è come un mixer: coniughiamo un'informazione ad una immagine e a
un'emozione già vissuta con una dinamica associativa straordinaria. È ciò che definiamo processo
cognitivo. Dopotutto qualsiasi percezione sensoriale viene tradotta dal cervello e transcodificata,
interpretata. Il fatto che ora, attraverso le nuove tecnologie della comunicazione multimediale,
certi procedimenti si stiano formalizzando all'esterno del nostro corpo, non è altro che una tappa
ulteriore dell'evoluzione umana. È già successo con il libro, poi con il cinema, ora con
l'ipermedialità, secondo un processo progressivo di mediamorfosi della scrittura.
La condizione digitale, già con l’ipertesto, e ancor più con lo sviluppo del web ha ridefinito il
concetto di scrittura. È sempre più ibrida: si confonde con l’energia propria dell’oralità per andare
oltre le specificità sedimentate in secoli di perfezionamento di una tecnologia che è passata dalla
mera funzionalità di gestione della memoria degli ordinamenti (religiosi, politici ed economici) a
quella creativa della produzione d’immaginario, nelle diverse forme della poesia, della prosa, delle
sceneggiature ed ora del web.
Quando Marshall McLuhan espresse il concetto "il medium è il messaggio", nel 1967, i mass
media non avevano ancora impattato le coscienze di tutti. In quell'assioma si rileva quanto sia
importante la specifica struttura comunicativa di ogni medium, a tal punto da non renderlo
neutrale, non solo mezzo di comunicazione ma significante di per sé.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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La nostra evoluzione è direttamente proporzionale all’evoluzione tecnologica e oggi con il
web l’idea stessa di televisione cambia, supera la logica dell’uno a molti, propria del broadcast e
delle strategie dei mass media, per esprimersi da molti a molti. Inizia ora (anche se il dibattito s’è
aperto almeno trent’anni anni fa) l’era del personal media che, attraverso l’interattività del web e
oggi del mobile, sta superando l’esclusività dello schermo televisivo, relativizzando il ruolo del mass
media nel sistema della comunicazione.
Ci sono tre parole chiave che stanno alla base della digital transformation, sono
interattività, ipermedialità, connettività.
L’interattività riguarda principalmente il corpo in azione nell’ambiente digitale attraverso
l’uso di interfacce.
L’ipermedialità è l'articolazione dell’ipertesto con più media, quella che sottende le forme
non lineari del linguaggio e che sostiene il principio associativo sul quale si basa la nostra memoria.
La connettività è il valore che determina la condivisione nell’interrelazione comunicativa.
L’interfaccia è ciò che ci permette di attuare l'interattività: è sia lo strumento per intervenire
in questo ambiente, con estensioni fisiche (le cosiddette periferiche, come il mouse), sia la soglia
da attraversare per entrare in relazione percettiva e cognitiva con lo schermo del computer o di
altro device.
L'evoluzione ipertestuale permette di combinare tra loro diversi media (visivi, sonori oltre che
alfabetici) immette nello spazio interattivo in un assetto ipermediale che esercita soluzioni
combinatorie, organizzate in modo reticolare per associazioni continue.
Il principio basilare su cui si sviluppa la nostra intelligenza è quello della connettività
neuronale attraverso le sinapsi del nostro cervello. Il fatto che il web possa essere concepito come
un’estensione dei nostri processi cognitivi ispira l’insorgenza di una intelligenza connettiva.
La cittadinanza educativa implica di riconoscere il principio fondante del concetto di
educazione: un’azione che comporta il fatto di “tirar fuori”, come rivela l’etimo latino educere.
Significa fondamentalmente esplicitare conoscenza associata all’esperienza (a partire dalle
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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condizioni abilitanti dei processi multimediali) e non solo acquisirla, “mettendo dentro” cognizioni
secondo i procedimenti didattici ordinari.
Navigare nel web ci trasporta nello spazio-tempo interno della nostra conoscenza (non
quella che c’è già ma quella in divenire) e tutto questo tende a creare un nuovo ambientamento
cognitivo. Il punto nodale è liberare il miglior potenziale dell'apprendimento, quello della
cooperazione ludico-educativa per cui la rete è di certo l'ambiente ideale, senza sottrarre valore
all'esperienza di prossimità sociale.
L’edutainment è uno dei principi attivi dell’apprendimento nei nuovi ambienti digitali.
Questa
definizione
mixa
il
termine
inglese
education
(educazione)
ed
entertainment
(intrattenimento) ma il miglior modo per intenderla è in un concetto-chiave semplice: imparare
giocando. Si tratta di una tensione pedagogica universale che esiste da sempre, che però si
esplicita al miglior grado nell'impatto multimediale.
Le culture digitali riguardano l’ambito che s’attesta tra l’invenzione tecnologica e l’impatto
sociale dell’innovazione, intesa come applicazione diffusa delle opportunità offerte dalle nuove
tecnologie della comunicazione.
Si tratta dello spazio di ricerca in cui vengono sondati i termini culturali, sia sensoriali sia
epistemologici, delle nuove tecnologie per tradurle in linguaggi a tutti gli effetti.
L’etica open source è una condizione cardine delle culture digitali, ha creato la possibilità
di vedere come è fatto un software per migliorarlo nella condivisione e nella sua ottimizzazione,
connettendo tra loro diverse competenze e conoscenze. Si è sviluppata grazie a pionieri hacker
che hanno partecipato all’invenzione di Internet, creando i primi protocolli di interconnessione che
si emanciparono dalla logica gerarchica dei server chiusi nella loro potenza di calcolo circoscritta.
Il loro impegno si è poi contraddistinto nel rendere libero il software, aperto e interoperabile.
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2. Convergenza dei media
Questa seconda area tematica della digital transformation riguarda le peculiarità dei
sistemi interattivi, approfondendo la condizione immersiva del virtuale, per cui si tratta di:
interaction design, nuovo paradigma cognitivo, simulazione come apprendimento esperienziale,
vertigine immersiva, realtà virtuali, Active Worlds e Second Life, realtà aumentate.
L’evoluzione tecnologica del circuito di input-output si svolge sotto il segno della
convergenza dei media. Ciò accade sia sulla base di strategie crossmediali sia nell’interaction
design, che si è evoluto nell’ambito delle realtà virtuali affinando l’interazione con gli scenari di
simulazione tridimensionale per cui si può agire all’interno della visione.
L'evoluzione digitale ci pone di fronte a una nuova consapevolezza globale, nel coniugare
l'opportunità tecnologica con l'espansione della coscienza umana. Le condizioni abilitanti delle
tecnologie ipermediali, interattive e connettive sono tali da delineare un nuovo paradigma
cognitivo. È come se si cambiasse la chiave davanti al pentagramma evolutivo, cambiando tutto,
o quasi, di registro.
È in questo rapporto dinamico che si rifondano le nostre categorie interpretative se non
addirittura quegli assetti cognitivi che determinano il nostro rapporto con il mondo, aiutandoci a
rendere comprensibile il possibile che ci attende.
L’interaction design determina le procedure in un ambiente interattivo, per cui il cosiddetto
high tech si sta rivelando sempre più hi touch: si tocca evolvendo l'intelligenza aptica delle mani,
ma si può interagire anche con tutto il corpo, con riconoscimenti biometrici e interfacce vocali.
Le realtà virtuali hanno rivoluzionato trent'anni fa il rapporto uomo-macchina. Si superò la
soglia dell'interfaccia per agire all'interno di una simulazione infografica, ovvero in un ambiente
digitale che esiste solo nella memoria di un computer. Ciò è possibile creando una potente
esperienza immersiva attraverso un visore stereoscopico e ambienti soggetti ad un'interazione sia
con i movimenti del capo, per cambiare i punti di vista, sia del corpo, con diverse periferiche
(data-glove o esoscheletri).
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Nella vita siamo multisensoriali anche se l'educazione monomediale ci ha abituato a
procedere in modo lineare. L’esperienza in una realtà virtuale è disruptive (dirompente), perché in
quella vertigine immersiva si riscontra la stessa simultaneità dei piani percettivi dell'esperienza
reale, riconfigurando i processi cognitivi nella inedita esperienza della simulazione virtuale.
Selezionare le informazioni sulla base di un input percettivo in ambiente virtuale, comporta
un nuovo ambientamento nello spazio-tempo della simulazione. Nella simulazione ci si forma per
apprendimento esperienziale, misurandosi con le condizioni generative dell'imparare a imparare,
sperimentando la reciprocità con i sistemi interattivi.
Mondi Attivi (la versione italiana di Active Words) ha sviluppato, già nei primi anni del 2000,
un sistema di formazione on line che ha coniugato la realtà virtuale in rete con chat e Voice IP,
coniugando l’immediatezza di una telefonata con l'immersione tridimensionale. Second Life
qualche anno dopo arriva con un simile, ma più seducente, multi-user virtual environment
(ambiente virtuale multiutente) che impatta globalmente.
In molte applicazioni (non in tutte) di ciò che viene definita realtà aumentata (augmented
reality) si rileva un dato emblematico: la realtà virtuale con le sue simulazioni tridimensionali si
remixa con la realtà percepita in tempo reale. Ciò comporta un'ulteriore complessità, per cui i
nostri processi cognitivi devono alternare l'assetto immersivo nella simulazione a quello nello
scenario reale che si sta osservando.
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3. Rivoluzione del web 2.0
Il XXI secolo si è aperto con una rivoluzione non solo tecnologica ma antropologica,
liberando un potenziale partecipativo che aperto la strada ai social network, per cui qui si tratta
l'avvento dei social media, i blog in cui si diventa autori di sé stessi, rivelando che l'informazione
siamo noi, e poi l’instant blogging, disintermediazione, web come nuovo spazio pubblico,
reputation capital, long tail, la nuova rete del valore, open innovation.
Il web 2.0 è stato una rivoluzione culturale da cui è nata una nuova era che ha rimodellato
sia la società sia i mercati, dopo il crash della new economy che cercava in Internet un nuovo
settore editoriale. L'idea dei portali telematici che cercavano di portare in rete i modelli dei
massmedia fallirono e il web si è rilanciato diventando piattaforma partecipativa, a partire dai
blog.
La parola blog nasce dal mix tra web e log che significa diario. In questa parola semplice si
condensa la genialità del web 2.0 che dopo la grave crisi economica del 2001 rinasce sulla base
della spinta autonoma degli utenti. Sembra una favola ma è la realtà. Un gesto culturale rimette in
pista un assetto tecnologico che si rivelerà il cardine economico del pianeta, più del petrolio.
È sull'onda montante del web 2.0 che inizia un protagonismo degli utenti in rete, aprendo la
strada ai social media. Ambienti digitali che diffondono in modalità esponenziale la
comunicazione web, con una connotazione partecipativa che cambia le regole del gioco. Dal
2003 la pista è battuta da MySpace che nell'arco di pochi anni sarà soppiantata da Facebook.
Nel flusso dei social media, la profilazione degli utenti in rete con il loro orientamento ai
consumi, rende evidente che la compravendita non riguarda più solo le merci tradizionalmente
dette, ma le informazioni che produciamo nella scia lasciata nel web. Il prodotto siamo noi.
Tra il mondo dei blog e l'avvento dei social media c'è il fenomeno dell'instant blogging
(definito anche microblogging) che ricombina la scrittura soggettiva propria del blog con una
sorta di messaggistica istantanea. In questo ibrido, espresso al miglior grado da Twitter, si crea una
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situazione di straordinario impatto mediale grazie allo sharing, evoluto nella pertinenza tematica
grazie agli hashtag.
La disintermediazione, concetto che comporta il superamento dell'intermediario con
competenze bypassabili, è diventata la condizione principale del web 2.0 in cui gli utenti della rete
sono diventati protagonisti. Prende forma il ruolo del prosumer (il produttore-consumatore
d'informazione) e, con il tempo, market place digitali come Amazon creano piattaforme in cui si
mettono in relazione direttamente venditori e acquirenti, sottraendo progressivamente le figure
degli intermediari.
L’open innovation è un processo che interpreta l’intelligenza connettiva disseminata
dappertutto, promuovendo l’innovazione progettuale in relazione a idee, risorse e competenze
tecnologiche che arrivano dall’esterno delle aziende o delle comunità.
Il reputation capital è quella reputazione personale che ciascuno di noi porta con sé nella
rete attraverso il cosiddetto personal publishing, nei forum, nei blog, nei social network.
Il concetto di long tail (coda lunga) coniato da Chris Anderson nel 2004, descrive un
modello statistico per cui il successo nel web di un'idea o di un prodotto non si basa solo
sull’impatto immediato ma nel corso del tempo, lungo la scia di attenzione che rilascia. Questo
aspetto riguarda anche l’asset commerciale per cui la vendita di grandi quantità di un prodotto
può essere raffrontata al fatto di vendere poche unità di tanti prodotti diversi.
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4. Innovazione adattiva
In quest’area tematica si tratta di: intelligenza artificiale, machine learning, sentiment
analysis, big data, cloud computing, cyber security, open data, digital divide, technology for all,
topologia della rete, smart home, smart grid, internet delle cose, trusted computing e neutralità
della rete, swarm intelligence, quantum computing.
L'innovazione deve essere adattiva, è una strategia evolutiva. Siamo in un mondo in cui le
nuove interrelazioni sociali indotte dall’uso delle tecnologie della comunicazione sono sempre più
importanti nello scambio sociale. È proprio questo valore, quello connettivo, che libera un
potenziale che i dispositivi devono cogliere, adattandosi. Ciò non è scontato, sta a noi perché
accada, anche perché i mercati non si fanno se non si fa società.
L’intelligenza artificiale permette la programmazione di sistemi digitali, hardware e
software, capaci di interpretare l’intelligenza nella sua articolazione più complessa. Non si tratta
solo di intelligenza come capacità di calcolo o di conoscenza di dati astratti e simbolici ma
elaborazione di percezioni, cognizioni spazio-temporali e atti decisionali.
Il machine learning si occupa di creare sistemi che apprendono o migliorano le
performance in base ai dati che utilizzano.
La sentiment analysis rappresenta l’ambito di elaborazione del linguaggio esercitato nei
processi di estrazione di informazioni in un testo. Vengono adottati diversi metodi sia di analisi
computazionale e di interpretazione testuale.
I big data sono un mondo di informazione così esteso da richiedere processori e metodi
analitici complessi per l'estrazione del valore di pertinenza che si sta rivelando come la materia
prima della ricchezza futura.
Gli open data (dati aperti) sono quei dati messi a disposizione in una modalità tale da
essere aperti e riutilizzabili. I dati liberi possono essere utilizzati e distribuiti da chiunque, in conformità
con le regole di attribuzione.
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Il cloud computing è la distribuzione di servizi di calcolo, come server, risorse di
archiviazione, database, rete, software, analisi e relazioni sociali rilasciate in Internet, nel cloud.
La cybersecurity permette di difendere da attacchi insidiosi computer, infrastrutture di rete
come i server, dispositivi mobili, sistemi elettronici, l’insieme delle reti e i dati che vi sono conservati.
L’internet delle cose (internet of things) rappresenta un’evoluzione di Internet, per cui le
"cose" si connettono tra loro, comunicando dati relativi a funzioni e informazioni che possono
essere condivise.
Nel web la topologia di rete è un modello organizzato e finalizzato a rappresentare le
relazioni di connettività tra gli elementi costituenti la rete stessa (detti anche nodi). Il concetto di
topologia è determinante nel concepire quelle mappe attraverso cui si applicano soluzioni come
l’internet delle cose.
La smart home si basa sulle modalità della domotica che per tanto tempo ha coniugato
l’interior design con l’interaction design che permette di controllare le funzioni di molteplici
dispositivi (dagli elettrodomestici alla telesorveglianza) anche da remoto.
La smart grid è una rete intelligente, un insieme di reti elettriche e di tecnologie che, grazie
allo scambio reciproco d’informazioni, permettono di gestire e monitorare la distribuzione di
energia elettrica da tutte le fonti di produzione e soddisfare le diverse richieste di elettricità degli
utenti collegati, produttori e consumatori in maniera più efficiente, razionale e sicura.
L'ambito di ricerca digitale definito swarm intelligence (l’intelligenza dello sciame) è ispirato
dall’osservazione degli sciami, analizzando i vasti insiemi destrutturati di individui che riescono a
portare a termine degli obiettivi sfruttando meccanismi di cooperazione. È su questo stesso
processo che si basa la procedura in parallelo dei sistemi informatici che utilizzano
contemporaneamente tutte le unità di calcolo dei processori disponibili come quelli utilizzati per le
smart grid.
Il trusted computing significa computazione fidata ed è concepita per rendere più sicuri i
dispositivi digitali connessi in rete, per cui si usano chip di controllo che permettono di utilizzare i
dispositivi esclusivamente con software "fidato" (trusted).
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La net neutrality è il principio per cui la comunicazione digitale non deve essere trattata in
modo discriminatorio e lesivo delle libertà personali.
Il knowledge management è costruzione e applicazione sistematica della conoscenza per
massimizzare l’efficacia legata alla conoscenza stessa di un sistema, sociale o imprenditoriale che
sia. La conoscenza assume un ruolo centrale, fonte intangibile di valore in grado di creare
vantaggi sia competitivi sia co-operativi.
Il concetto di technology for all riguarda il potenziale delle nuove tecnologie per migliorare
la qualità della vita e ridurre l’esclusione sociale
Il digital divide è il divario che c’è tra chi ha accesso a Internet e chi non ce l’ha. Ne deriva
una esclusione dai vantaggi della società digitale.
Il quantum computing è una nuova generazione di dispositivi che permettono di gestire i
dati non solo attraverso i bit ma con i quantum bit o qubit, elementi più complessi che sfruttano
alcune proprietà peculiari della fisica quantistica come la sovrapposizione di stati, l’entanglement
e l’interferenza quantistica.
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5. Urban experience
Urban Experience è un ambito di progettazione culturale per giocare le città attraverso le
pratiche creative del performing media. Una condizione abilitante perché la creatività sociale
delle reti possa reinventare spazio pubblico tra web e territorio.
Le mappe esperienziali permettono di rilevare non solo ciò che c’è già in un territorio ma
ciò che diviene, non solo ciò che c’è da rappresentare ma ciò che viene tracciato dalla
partecipazione, dalle azioni e dalle esperienze svolte in un territorio. È questo aspetto evolutivo
delle tecnologie che risulta strategico. L’innovazione dopotutto è il valore d’uso sociale e culturale
delle opportunità tecnologiche, declinate nelle migliori condizioni possibili per migliorare le nostre
condizioni di vita, a partire dalla pre-visione, funzione che da sempre svolgono le mappe.
Intendere il web come nuovo spazio pubblico sottende l’evoluzione dell’idea stessa di
spazio pubblico, dall’invenzione del teatro nella polis greca alle piazze del rinascimento. È in
questo quadro che si inserisce la necessità di progettare format ludico-partecipativi per creare
anche nel web le condizioni per attuare dinamiche di cittadinanza educativa in via direttamente
proporzionale all’interazione tra reti e territorio.
La cittadinanza digitale è sia l’insieme di diritti/doveri che, supportata da tecnologie digitali,
tende a qualificare il rapporto tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione, sia le condizioni
abilitanti per promuovere consapevolezza della società dell'informazione e nuove forme d'iniziativa
sociale resilienti.
Il changemaking è l'attivazione di processi d'innovazione adattiva per intraprendere
sperimentazioni di governance multistakeholder, coinvolgendo sia comunità territoriali sia imprese
sociali per affrontare la transizione in corso. In questo contesto sono fondamentali metodi con
l'obiettivo di affrontare sia cambiamenti normativi e socio-economici, sia liberare il potenziale delle
comunità creative impegnate nell'innovazione sociale.
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La resilienza urbana traduce nell’ambito sociale ciò che è stato rilevato nell'ambito della
fisica dei materiali, ovvero la capacità di reagire a urti rimodellandosi. Nella psicologia si usa per
definire l'adattamento in relazione ad eventi traumatici e da un po' di tempo è fortemente entrata
nel dibattito su smart city e smart community.
La smart city è una città intelligente che gestisce le risorse in modo sostenibile e
performante, mira a diventare energeticamente autosufficiente, ed è attenta alla qualità della
vita e ai bisogni dei propri cittadini. È una città intelligente quella che sa interpretare l’innovazione
digitale creando le condizioni abilitanti per la partecipazione dei cittadini senzienti e infrastrutture
intelligenti, dagli incroci regolati da semafori sincronizzati, ai sistemi di monitoraggio ambientale.
A differenza della smart city, la smart community è più fluida e dinamica, tesa verso lo
sviluppo dell’innovazione sociale, con lo scopo di migliorare la qualità dei cittadini, coinvolgendoli
attivamente. La co-progettazione di particolari forme di governance, tendono ad attivare dei
modelli di sviluppo sostenibile del territorio, secondo i principi della resilienza urbana.
La geolocalizzazione si basa sulla definizione della posizione geografica nello spazio fisico di
un dispositivo digitale, secondo diverse tecniche come quelle del GPS (Global Positioning System).
Geolocalizzare è il primo atto, quello conseguente, più importante, è quello della georeferenziare
per cui si realizza l'attribuzione di un metadato geografico ad un insieme di dati. Queste
applicazioni sono importanti per lo sviluppo di mappe interattive, strategiche per l’innovazione
territoriale.
La social innovation è una risorsa strategica per chi pensa allo sviluppo della società in
termini d’innovazione, coniugando tecnologie e inclusione sociale. La social innovation è fatta di
ispirazione ideale, creatività, metodologie di design thinking per la co-progettazione per dare
forma alla partecipazione dei cittadini. L’obiettivo è quello di trasformare principi teorici e ricerca
nella armonizzazione sociale delle comunità, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile.
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6. Performing media
Intelligenza connettiva
Pensiero-azione glocal
Politica e la poetica delle reti
Ecologia della mente
Tutto è già interconnesso
Ambienti sensibili Corpo esteso
Meme Postumano
Il performing media è un campo di ricerca che trova origine nell’ambito delle culture
digitali, ma riguarda sempre più la condizione antropologica data dallo sviluppo delle tecnologie
abilitanti, di per sé performanti. I nuovi media interattivi, mobili e personalizzati, determinano un
nuovo rapporto uomo-macchina, sempre più simbiotico, reso fluido dalla semplicità d’uso e dalla
sollecitazione percettiva e sensoriale delle soluzioni evolute dell’interaction design. Questa nuova
condizione comporta nuove capacità d'interazione sociale, creative e resilienti, tese a
riconfigurare l'uso delle tecnologie digitali come innovazione adattiva, rivolta a valorizzare le forme
più evolute di cittadinanza digitale.
L’intelligenza connettiva rilancia nel campo dell’iniziativa sociale e culturale la potenzialità
espressa dalla connessione propria della rete che induce una dinamica di scambio serrato di
informazioni e relazioni tese ad evolversi nell’interattività che presuppone feedback e
nell’ipertestualità che espande il sistema informativo su struttura non lineare. In questa connettività
si attiva un processo tecnologico che di fatto si traduce in un processo psicologico e una nuova
sensibilità che riscopre il senso naturale delle cose naturalmente interconnesse.
Tutto è già interconnesso e l’evoluzione digitale, con applicazioni avanzate come l’internet
delle cose, ci pone di fronte alla scoperta di ciò che esiste da sempre in natura. Tutto è già
interconnesso. Il concetto di performing media è rivelatore rispetto alla potenzialità che esprimono
i dispositivi, liberando una condizione abilitante che può qualificare l’interagire umano con gli
ambienti digitali. Si parla di osmosi digitale, intesa come reciprocità e compenetrazione, capace di
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gestire i processi tecnologici in uno sviluppo sostenibile. Si tratta di una particolare presa di
coscienza responsabile, secondo le indicazioni dell’innovazione adattiva per cui le tecnologie di
commisurano con le strategie di resilienza.
Viene definito meme, un’informazione ironica e virale, diffusa sui social media, quasi sempre
connotata da un'impronta umoristica. Spesso è la risultante di una di rielaborazione grafica di
immagini già riconosciute, come alcune scene di film o di serie televisive. A volte questi sketch
grafici esercitano divertenti parodie di opera d’arte e immagini cult dell’immaginario collettivo. Il
meme che appare come un semplice bricolage sarcastico nel web ha comunque una genesi
decisamente più complessa, risale al 1976 quando Richard Dawkins pubblico “Il gene egoista”.
Quel saggio aprì un fronte teorico importante, associando l’unità di informazione culturale definita
meme a ciò che è il gene per la genetica. La sua teoria di biologo neodarwinista sostiene infatti
che accanto all’evoluzione genetica esiste una un'evoluzione culturale. La nostra storia evolutiva si
sviluppa quindi non solo per via genetica, biologica e fisica, ma anche per via memetica,
ideologica e immaginaria.
Tra le diverse interpretazioni del concetto di postumano si pone attenzione come ci stia
cambiando l’evoluzione digitale che, con l'intelligenza artificiale sta divaricando la forbice tra la
dimensione umana e quella di un sistema pervasivo che non è più solo allocato nel computer, ma
nella complessità delle reti che contemplano la nostra stessa vita. Non si tratta di ipotizzare cyborg
(nella integrazione tra cibernetica e organismo) ma di pensare ad un’osmosi digitale dove la
nostra consapevolezza arrivi a stabilire una condizione inedita di interazione sensibile con i sistemi
digitali, secondo i principi dell’innovazione adattiva.
La metodologia del design thinking dinamizza i processi creativi di co-progettazione e
sollecita la capacità delle organizzazioni e delle comunità ad affrontare, incrociandole tra loro,
criticità e opportunità intervenendo sulle decisioni. L’obiettivo è quello di sviluppare il pensiero
creativo, visualizzando con pratiche di action writing il processo collaborativo di progettazione che
si basa sui principi dell’intelligenza connettiva.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Il pensiero-azione glocal è globale come la rete e locale come la soggettività degli utenti
che vi agiscono, scrivendo di ciò che fanno nei loro ambiti di riferimento. La parola glocal ha avuto
un suo sviluppo negli anni Ottanta in Giappone, poi ripresa dal sociologo inglese Roland Robertson
e rilanciata da Zygmunt Bauman, ma è Edgar Morin a definirla nel senso più compiuto. Morin parla
di “un pensiero capace di non rinchiudersi nel locale e nel particolare, ma in grado di concepire
gli insiemi, adatto a favorire il senso della responsabilità e il senso della cittadinanza”. La parola
coniuga globale e locale, nel tentativo di ammortizzare l'urto della globalizzazione che tende ad
uniformare in logiche standard, astratte e disumanizzanti, con le peculiarità, sociali, culturali
nonché economiche, delle particolarità territoriali.
Il corpo esteso si esplicita attraverso le potenzialità dell’interaction design che estende le
pratiche del corpo attraverso protesi-interfacce, Un processo di trasformazione che è stato
sondato, esplorando i nuovi confini antropologici da performance multimediali che hanno
inventato nuove possibilità interattive dei sistemi digitali. Secondo la legge di Moore (l’inventore del
microprocessore per Intel) ogni 18 mesi i computer raddoppiano le loro possibilità. C’è quindi da
domandarsi: e noi? La questione dell’evoluzione digitale riguarda noi tutti, corpi compresi. Una
delle risposte è nell’interazione sensibile, con quelle tecnologie cognitive (dall’alfabeto al web)
che in questi secoli hanno scandito la nostra evoluzione culturale. È quindi strategico tradurre la
tecnologia in linguaggio, progettando lo sviluppo delle tecnologie come condizioni abilitanti per
estendere le nostre possibilità evolutive, inventando azioni creative con cui rilanciare il nostro
desiderio di cambiamento. Le pratiche e teorie del performing media sono indirizzate su questo,
creando un campo di ricerca che negli ultimi trent’anni s’è sviluppato nell’ambito delle culture
digitali.
La politica e la poetica delle reti è tesa ad ammortizzare l’urto della pervasività digitale, per
cui si corre il rischio di essere controllati e parametrati più sull’offerta tecnologica che sulla propria
domanda psicologica di crescita. Per questo è necessaria una strategia culturale che interpreti le
nuove tecnologie della comunicazione come opportunità evolutiva. Opportunità attraverso cui
liberare un’energia creativa secondo il principio della via ludico-partecipativa alla cittadinanza
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
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digitale. Per interpretare le potenzialità di un sistema-Paese che sappia fare della Società
dell’Informazione una società della conoscenza basata sulla partecipazione attiva e consapevole,
per fare dell’opportunità digitale un bene comune.
Le tecnologie abilitanti della partecipazione esprimono una condizione che va al di là delle
diverse forme di governance amministrativa e di democrazia rappresentativa, per liberare un ruolo
attivo che per troppo tempo è rimasto inespresso. Una città, il suo essere spazio pubblico, ha
bisogno delle idee e delle competenze di chi la abita, di cittadini che siano in grado di
interpretarne, da diversi punti di vista, le dinamiche. Il punto sostanziale è nello sviluppo di
piattaforme web utilizzate per dare forma alla partecipazione, riconoscendo in primo luogo il
modello multistakeholder, che contempla la molteplicità dei punti di vista dei vari portatori
d’interesse, sulla base di una visione e una competenza più orizzontale (quale il radicamento in un
territorio) piuttosto che verticale (i professionisti e i politici).
Gli ambienti sensibili, termine usato per definire le installazioni interattive di Studio Azzurro, si
sono sviluppati nei primi anni Ottanta con le sperimentazioni delle arti elettroniche e in particolare
nella grande mostra “Les Immateriaux” curata al Centre Pompidou da Jean-François Lyotard,
sull'onda del dibattito sul postmoderno. Un'evoluzione degli ambienti sensibili, concepiti come
ambiti di sperimentazione percettiva e cognitiva, si ha con le realtà virtuali e oggi con particolari
progetti connessi all’intelligenza artificiale.
L’ecologia della mente di cui scrive Gregory Bateson nel suo “Verso un’ecologia della
mente” ispira le nuove strategie evolutive di cui abbiamo bisogno per affrontare criticità e
opportunità della nostra società in transizione. C’è bisogno di creare un ecosistema di idee, tanto
più affrontando le culture digitali che ci pongono di fronte ad una scommessa antropologica,
giocata sulla relazione tra tecnologie e processi cognitivi.
Uno dei presupposti di Bateson è che le idee siano in certo modo esseri viventi, soggette a
una peculiare selezione naturale e a leggi economiche che regolano e limitano il loro moltiplicarsi
entro certi processi di relazione sociale. Questo può aiutarci a capire perché “le cose finiscono in
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disordine” e scoprire come si possa arrivare a quella “domanda dietro le domande” come
suggerisce la cultura Zen.
Un'ulteriore chiave di lettura del concetto di ecologia della mente è quella relativa il motto
ora, lege et labora che sta alla base della regola monastica benedettina, per cui nel silenzio dei
chiostri, nei secoli, a partire dall'alto medioevo del VI secolo, si è costruita l'identità europea
coniugando la cultura greco-romana con tutte le nuove culture di transizione, dal medioevo ad
oggi.
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Indice
1.
IL MEDIUM NON È NEUTRALEO........................................................................................................... 3
2.
L’ESPLOSIONE DEL SISTEMA DEI MASS MEDIA ................................................................................... 4
3.
I PRESAGI DI MARSHALL MCLUHAN................................................................................................... 6
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................. 9
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1. Il medium non è neutraleo
Quando Marshall McLuhan espresse il concetto “il medium è il messaggio”, nel 1967, i mass
media non avevano ancora impattato le coscienze di tutti. In quell'assioma si rileva quanto sia
importante la specifica struttura comunicativa di ogni medium, a tal punto da non renderlo
neutrale, non solo mezzo di comunicazione ma significante di per sé.
McLuhan concepiva la televisione come un medium atto a confortare, consolare,
confermare, teso a inchiodare gli spettatori in una stasi fisica e mentale. Non a caso i
teledipendenti furono definiti “couch potatoes”.
Il focus è sul valore fondante della comunicazione intesa come tecnologia che scandisce
l’evoluzione umana. Per secoli la comunicazione si è basata sul modello alfabetico, inteso come
codice univoco di trasmissione, ancorato anche alla tecnologia a stampa che ne ha incardinato
la sua funzione istituzionale, relegando ai margini la popolazione analfabeta. Con l’avvento dei
sistemi audiovisivi, prima con la radio e poi con la televisione, le cose cambiano, si apre un varco:
la comunicazione radiotelevisiva impatta con tutti. È talmente pervasiva da infondere una
passività cognitiva, sufficiente ad indurre il desiderio di consumare ciò che è trasmesso dalla
pubblicità.
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2. L’esplosione del sistema dei mass media
Il Novecento è stato connotato dall'avvento di Radio e Televisione come mezzi di
comunicazione di massa. Prima di allora la comunicazione elettrica offriva trasmissione di segnali
punto-linea, come quella del telegrafo con fili, ideato da Morse, e poi del telegrafo senza fili
realizzato da Marconi. È lui che registra nel 1896 il primo brevetto per le trasmissioni radio,
concepite per garantire alle navi delle comunicazioni per l'emergenza, arrivando a creare il primo
servizio radio transatlantico.
Il passaggio è potente: si passa alla trasmissione della voce sul medium radiofonico. Non la
definì radio ma si fermò a quella di telegrafo senza fili, ipotizzando una informazione istantanea a
distanza tra un emittente e un ricevente. In un mondo in cui il trasporto a lunga distanza si svolgeva
esclusivamente via mare questa opportunità di comunicare per le navi in difficoltà fu una vera
rivoluzione.
Marconi non immaginò altre possibilità di comunicare, tant'è che considerava un problema
il fatto che il messaggio potesse essere “intercettato” da altri. In sintesi, il telegrafo non era stato
pensato e realizzato come mezzo di comunicazione di massa.
La radio esprime una notevole capacità di adattamento, proprio per le sue caratteristiche
strutturali, leggera e maneggevole. Negli anni '20 si predispone a diffondere suoni, ponendosi
come potenziale mezzo di comunicazione di massa.
Si profila la configurazione definita broadcasting che prospetta una comunicazione
unidirezionale da uno verso molti.
In Gran Bretagna nel 1920 si trasmise il primo regolare servizio radiofonico della storia, per
due ore consecutive al giorno, per un periodo di due settimane.
Negli Stati Uniti, nel 1922, si contano già 187 stazioni con un numero di ricevitori funzionanti
che alla fine di quell'anno toccherà quota 750 mila.
Nel 1922 viene fondata, in Gran Bretagna la più antica radio del mondo tuttora esistente: la
BBC.
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Alla fine del secondo conflitto mondiale, la radio si trova a fronteggiare la forte
concorrenza della televisione la cui tecnologia era già stata messa a punto negli anni Venti. Il
primo servizio televisivo regolare del mondo è inaugurato in Gran Bretagna il 2 novembre del 1936,
ma lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale blocca questa diffusione.
In Germania invece vanno avanti, per i Giochi della XI Olimpiade a Berlino si svolge la prima
diretta televisiva nell'estate del 1936. Le trasmissioni furono diffuse in 27 luoghi pubblici tra Berlino,
Lipsia e Monaco.
La televisione in quella fase si basa sulla trasmissione elettromeccanica, attraverso cavo
coassiale.
Il passaggio seguente è quello della televisione elettronica realizzata sia con apparecchi di
ripresa delle immagini sia con quelli di visione basati su dispositivi elettronici, con il tubo a raggi
catodici.
È la stessa tecnologia che stiamo ancora utilizzando per alcuni aspetti, anche se si è
evoluta con telecamere con sensori CCD e televisori al plasma, a cristalli liquidi (LCD), OLED, Smart
TV, etc.
La TV generalista ha segnato un’era che può trovare origine il 10 marzo 1947 con la
conferenza mondiale delle radiocomunicazioni di Atlantic City, anche se tecnologicamente è dal
1925 che gli inglesi iniziarono a sperimentare trasmissioni a distanza di immagini in movimento.
La televisione enfatizza il modello broadcast (unidirezionale, “da uno a molti”) ma dagli
anni Novanta si prospettano scenari sempre più articolati che associano all'offerta generalista altre
modalità, come quelle satellitari, tematiche, on demand e pay tv.
I due modelli principali, quello commerciale e quello pubblico, si diversificano con la
proliferazione dei canali in digitale terrestre.
I mass media iniziano a destrutturarsi, in una molteplicità d'offerta anche se le linee
emergenti sono quelle delle pay tv, prima con Sky e poi con tante altre, Netflix (nato come
distributore di DVD) in testa, realtà che conquistano progressivamente attenzione con la televisione
via IP (Internet Protocol).
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3. I presagi di Marshall McLuhan
Marshall McLuhan coniò un'espressione fenomenale “villaggio globale” intuendo già negli
anni '60 ciò che si sarebbe delineato solo trent’anni dopo: il World Wide Web.
Aveva capito che ogni medium è soggetto ad un insieme di fattori concomitanti, come
l’avvento di un nuovo medium che rende obsoleto quello precedente. Allo stesso tempo si
implementa sempre qualcosa del medium che aveva già acquisito la sua audience, cercando di
interpretare e poi amplificare alcune sue potenzialità. Le sue intuizioni furono folgoranti, connotate
da una disordinata creatività che più che visione prospettica ci appaiono come presagi
sorprendenti.
Oggi, dopo oltre un secolo d’impiego tecnologico dell’elettricità,
abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale
in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta,
abolisce tanto il tempo quanto lo spazio.
Ci stiamo rapidamente avvicinando
alla fase finale dell’estensione dell’uomo:
quella, cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica,
il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso
all’intera società umana,
proprio come, tramite i vari media
abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi
(Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 1964)
Un medium non è neutrale: non solo mezzo di comunicazione ma significante di per sé.
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McLuhan ci ha fatto capire che la tecnologia della comunicazione è un medium in quanto
estensione e potenziamento delle facoltà umane. Ciò esprime un valore in sé, un messaggio che
sta a monte di qualsiasi messaggio veicolato dai media. È sempre opportuno valutare l’impatto dei
media in termini di implicazioni sociologiche e psicologiche.
McLuhan rileva che ogni medium ha proprietà che coinvolgono gli spettatori in modo
diverso. In questo senso definiva come “freddi” quei media che avendo bassa definizione
sollecitano un’alta partecipazione dell'utente. Ciò comporta un'azione per completare le
informazioni non acquisite a pieno regime.
I media “caldi” altresì sono quelli che offrendo un'alta definizione inducono a una bassa
partecipazione.
McLuhan in queste differenziazioni tra media caldi e freddi produsse non poche ambiguità,
dalla discriminante emotiva suggerita dai termini caldo e freddo fino a quello più scientifico che
mette sullo stesso piano temperatura e quantità di informazione. Confrontare il calore della radio
con quello della televisione appare come una contraddizione, visto che l'una si basa sull'udito
mentre l'altra sulla visione.
Eppure, in quella sua metafora ontologica, ci sono aspetti intriganti che riguardano i
processi psicologici attivati dalla propaganda politica.
A proposito può essere utile questo aneddoto (di cui non abbiamo conferme di veridicità
ma troviamo utile usarlo come un apologo).
Negli anni Settanta, McLuhan consultato dal premier canadese su come arginare dei
disordini, gli rispose: “riempite le case di apparecchi televisivi”. Fu fatto. I conflitti scemarono.
La televisione come medium atto a confortare, consolare, confermare, teso a inchiodare
gli spettatori in una stasi fisica e mentale.
La televisione è stata come ogni nuova tecnologia una promessa, un'esperienza
desiderante che esercita sugli utenti una fascinazione potente che ipnotizza, inducendo uno stato
di “narcisistico torpore”, come diceva McLuhan.
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Senza anticorpi intellettuali adeguati, la televisione porta ad accettare tutto ciò che viene
trasmesso. Induce una condizione passiva che tende a confortare, a consolare, a confermare. In
un flusso elettronico che inchioda gli spettatori in una stasi fisica e mentale. Non a caso i
teledipendenti furono definiti “couch potatoes”, patate sedute, bollite, sprofondate su divani
schierati davanti al moloch televisivo.
Eppure si può usare quella tecnologia senza esserne usati, con il giusto distacco, cogliendo
le qualità audiovisive e la densità narrativa, ricordandoci che la percezione è un esercizio
intelligente.
Se pensiamo che almeno il cinquanta per cento della nostra corteccia cerebrale si occupa
della visione possiamo dedurre che la metà delle nostre funzioni mentali è dedicata al vedere, o
meglio: a interpretare i segnali luminosi che raccogliamo dal mondo esterno. Non è niente se
pensiamo che nelle mosche per la visione viene speso quasi il 90% della totalità dei neuroni. Va
anche detto però che a differenza della mosca con il suo milione di neuroni, l’uomo nel suo
cervello ne ha almeno cento miliardi. E non sempre ben spesi. Ma cosa ne facciamo di tutte
queste migliaia di milioni di neuroni?
“La visione non consiste nel riprodurre un’immagine all’interno del cervello, come se ci fosse
uno schermo televisivo...” - sostiene Tommaso Poggio in “L’occhio e il cervello”. La visione è
un’interpretazione delle immagini, una descrizione simbolica di ciò che si trova nell’ambiente. La
visione è molto più di un senso, è un’intelligenza.”
Si tratta quindi una complessa elaborazione che dopo aver misurato la quantità di luce
raccolta dall’esterno attraverso un centinaio di sensori della retina (i fotorecettori coni e
bastoncelli) crea una proiezione bidimensionale di cose che spesso, nel mondo esterno, sono
tridimensionali. Ma nonostante questa proiezione la nostra mente colma, interpreta, crea immagini
in un’“esplosione combinatoria”.
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Bibliografia

Marshall McLUHAN, Gli strumenti del comunicare (Understanding Media: The
Extensions of Man), Il Saggiatore, 1964

Marshall McLUHAN, Il medium è il messaggio (The Medium is the Message), Feltrinelli,
1967

Tommaso POGGIO, L’occhio e il cervello, Theoria, 1991

Alberto. ABRUZZESE, Alessandro DAL LAGO (a cura di), Dall'argilla alle reti.
Introduzione alle scienze della comunicazione, Costa & Nolan, 1999

Niklas LUHMANN, La realtà dei Mass Media (Die Realität der Massenmedien), Franco
Angeli, 2000

Carlo INFANTE, Performing Media 1.1. Politica e poetica delle reti, Memori, 2006

Michelangelo ANTONIONI, Zabriskie Point (scena finale), 1970

L’esplosione della società dei consumi, elettrodomestici e televisione compresa.
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Indice
1.
L’EVOLUZIONE DELL’IPERTESTO PER LA CONOSCENZA COME BENE COMUNE................................. 3
1.1
1.2
1.3
1.4
2.
L'ORIGINE DELL'IPERTESTO .................................................................................................................................... 3
LA CONOSCENZA COME BENE COMUNE .................................................................................................................... 4
L'EVOLUZIONE ESPONENZIALE DELLA POTENZA DI CALCOLO ............................................................................................ 5
CULTURA È “CIÒ CHE DIVIENE” ............................................................................................................................... 6
IL MIXER PER LE SINAPSI ..................................................................................................................... 8
2.1 AS WE MAY THINK (COME POTREMMO PENSARE) ........................................................................................................ 8
3.
L’ARCHIVIO DELL’INDETERMINATO .................................................................................................. 10
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 12
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1. L’evoluzione dell’ipertesto per la conoscenza come
bene comune
1.1
L'origine dell'ipertesto
“La civiltà non ha solo a che vedere
con le cose materiali
ma con gli invisibili legami
che legano una cosa a un’altra”
(Antoine de Saint-Exupery)
Questa illuminante citazione dell’autore del “Piccolo Principe” ispirò la “Literary Machine” di
Ted Nelson, l’inventore del concetto di hypertext, con il suo leggendario progetto Xanadu.
Un’avventura utopica per una “letteratura elettronica istantanea”, un temerario sistema
ipertestuale, che di fatto anticipò lo sviluppo del World Wide Web: il luogo privilegiato, nella sua
diffusione e relativa semplicità d’uso, per lo scambio di conoscenza.
Nelson c’invita a considerare un’analogia con l’acqua, al fatto che la sua distribuzione,
aprendo e chiudendo i rubinetti, ha contribuito non poco allo sviluppo della società civile. Così “la
letteratura che immaginiamo”, afferma, “deve essere pensata come un servizio, un bene comune,
un acquedotto per la mente”.
Il focus è quello di individuare nell’ipertesto la tecnologia cardine delle culture digitali, in
quanto nuova configurazione del linguaggio non lineare. L’ipertesto è un insieme di documenti
connessi tra loro attraverso dei link che è possibile associare anche a delle parole chiave (tag). È a
partire da questo principio che si sviluppa il web che è in fondo la forma ipertestuale applicata a
internet. Questa considerazione ci conduce a riconoscere nell’ipertesto la pietra angolare di una
nuova costruzione di senso che può condurre alla piena consapevolezza della conoscenza in
quanto bene comune.
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Concepire la letteratura, e il sapere scritto nel suo complesso, un bene comune e di
pubblico uso è senza dubbio il compito di chi (autori, editori, bibliotecari, librai, insegnanti e
fondamentalmente i lettori) nella Società dell’Informazione si sta interrogando su come salvare la
lettura (che non è solo letteratura, visto che stiamo trattando di ricombinazione non lineare) dal
rumore informativo indistinto.
In questo contesto alcuni editori stanno ridefinendo il proprio ruolo per trovare una loro
collocazione in un mercato difficile, con problemi legati alla distribuzione, alla promozione, al
magazzino.
Le domande da porre riguardano così la mutazione del libro in una condizione più
immateriale, come quella digitale veicolata dalle reti telematiche, arrivando a concepire nuovi
servizi culturali in grado di rilanciare l’amore per la lettura, inventando soluzioni editoriali, educative
e ludiche al contempo, che conquistino l’attenzione delle nuove generazioni e riqualifichino il
sistema editoriale scolastico.
1.2
La conoscenza come bene comune
Partire con quella metafora lanciata da Nelson, attraverso cui si va a paragonare la rete
come il sistema idrico attivato dagli antichi acquedotti romani ed oggi distribuito capillarmente
con i rubinetti in tutte le case, ci fa riflettere su come la diffusione tecnologica della cultura possa
rilanciare l’idea stessa di servizio pubblico.
Proprio come accade per l’acqua potabile, per cui all’interno della dimensione domestica
si esercita costantemente un diritto-dovere, un servizio espresso come bene comune, ogni volta
che apriamo il rubinetto. Avere l’acqua in casa è un dato scontato per quasi tutta la popolazione
mondiale, lo è anche avere risorse informative dalla rete ma sia chiaro, c'è stato un processo
evolutivo perché ciò si avverasse.
Al di là della diffusione del mercato delle telecomunicazioni ci sono stati in questi ultimi
vent’anni degli eventi che hanno scandito questa evoluzione tecnologica.
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In questo senso le biblioteche hanno svolto questa funzione pubblica di distribuzione sul
territorio di informazioni e conoscenze all'interno del sistema sociale con attività pubbliche che
hanno raccordato l’uso del web alla promozione della lettura.
Internet ha amplificato le possibilità di accesso alle informazioni, creando molte opportunità
in più rispetto a quelle già determinate dai sistemi editoriali. C’è da chiedersi quante altre soluzioni
per la diffusione culturale vanno ancora inventate?
Il fenomeno è aperto, prima di tutto perché vanno creati dei modi per utilizzare la rete e
farla corrispondere alle nostre domande: i nuovi valori d’uso.
Siamo in una fase fluida, perché invita a porci nuove domande: inventare soluzioni per
trarre il meglio dalla rete, intesa non solo come contenitore ma come generatore di informazioni.
Il digitale sta accelerando i processi di relazione tra cultura e comunicazione,
riconfigurando le filiere dell’editoria, intesa come asset imprenditoriale che non è più il fulcro della
diffusione della cultura.
La crossmedialità, intesa come convergenza dei diversi media, sta prospettando
continuamente nuovi canali di trasmissione. A questo punto c’è da porre un dato tecnologico,
molto legato al rapporto tra hardware e software.
1.3
L'evoluzione esponenziale della potenza di calcolo
Ogni 18 mesi c’è la possibilità di raddoppiare la potenza di calcolo di un computer (anche
se dal 2016 questa dinamica viene rivista perché all’aumento di potenza dei singoli processori, si è
preferito favorire il calcolo in parallelo di più processori).
Insomma, per dirla netta: nel chip di uno smartphone di nuova generazione c'è oggi la
potenza di calcolo dell'Apollo 11 che sbarcò sulla Luna, 50 anni fa. Nei chip che abbiamo adesso
a disposizione nelle nostre tasche ci sono delle funzioni, che fino a una ventina di anni fa avevano
bisogno di tutt'altra quantità di silicio, di hardware, di macchinario fisico, di spazio infinitamente
maggiore.
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È in corso un avanzamento tecnologico esponenziale che va da solo, in un grande gioco di
impresa proiettato nel riconvertire il sistema post industriale in una Società dell'Informazione ancora
tutta da compiersi. Ma perché questo accada l'offerta di tecnologia deve armonizzarsi con la
domanda di nuovi servizi avanzati, una domanda sia di funzionalità che d’immaginario.
Cosa intendo dire con questo? È che senza domanda culturale non ci sarà nessun reale
mercato futuro per le tecnologie. Perché sia chiaro un dato: il mercato delle tecnologie si sta
basando su un’offerta più forte della domanda. È evidente che è importante pensare a un
riequilibrio, con una domanda più evoluta, capace di rilanciare l’offerta, secondo il buon senso
dell’innovazione adattiva, il principio per cui le tecnologie possano adattarsi alle nuove domande
degli utenti, affinati alle pratiche della user experience.
1.4
Cultura è “ciò che diviene”
Bisogna però dare un valore diverso alla parola “cultura”, concependola come qualcosa in
cui sono innervati i nostri comportamenti oltre che i linguaggi.
La cultura è in un libro, certo, come in una performance, un film, una festa popolare,
un’esplorazione urbana...
Ciò che definiamo cultura (dal latino colere, “coltivare”, declinato nel participio futuro
della lingua latina, per intendere “ciò che diviene”) è un concetto dinamico che sottende la
nostra evoluzione, in una pratica che riguarda la cura di linguaggi e comportamenti, per
abbracciare l’insieme delle conoscenze trasmesse tra generazioni e le loro trasformazioni.
Ci stiamo occupando di culture digitali e il fatto stesso di declinare questo concetto al
plurale è, prima di tutto, basato sulla molteplicità degli ambiti attraverso cui si sta diffondendo una
mutazione radicale posta dall’avanzamento tecnologico, condizione che sta determinando una
revisione non solo degli assetti di linguaggio ma anche di quelli sociali ed economici.
Le biblioteche sono state, dal dopoguerra ad oggi, una grande opportunità culturale nel
territorio attraverso una funzione di aggregazione e di alfabetizzazione. Hanno di fatto svolto una
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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funzione istituzionale decisiva per la definizione di una civiltà urbana in grado di essere tale, in
grado di declinare la cultura in stretta relazione al Paese che stava cambiando.
È così, anche se poi purtroppo le statistiche ce lo confessano: la popolazione italiana legge
pochissimo. Senza le biblioteche avrebbe letto ancora meno.
Oggi le biblioteche possono rappresentare un luogo di riferimento preciso, un presidio
culturale aperto, pubblico: capace di garantire la maggiore e migliore diffusione della
multimedialità come nuova cultura digitale.
Un dato importante da acquisire, altrimenti l'evoluzione del web rimarrà solo qualcosa di
astratto, come un banale gadget tecnologico.
Potrei dire che le biblioteche sono importanti per promuovere una nuova alfabetizzazione.
Ma questo termine non mi piace, perché quando si parla di ipermedia il termine “alfabetizzazione”
è improprio. Non a caso c'è chi parla parla di alfamedialità.
Al di là delle terminologie facciamo in modo che ci si possa intendere.
La leva del discorso riguarda la specificità culturale dei nuovi media, affrontiamo quindi,
con più precisione, il concetto stesso di ipertesto.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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2. Il mixer per le sinapsi
Leggere è un’arte, ci fece notare a suo tempo Italo Calvino.
È, infatti, una qualità particolare, un artificio mirabile. È anche una questione di mobilità
immaginaria e di connessioni sinaptiche che durante la lettura di un testo avvincente fanno
funzionare il nostro cervello come un mixer. Coniughiamo un'informazione ad una immagine e ad
un’emozione già vissuta con una dinamica associativa straordinaria.
Dopotutto qualsiasi percezione sensoriale viene tradotta al cervello e transcodificata,
interpretata. Il fatto che ora, attraverso le nuove tecnologie della comunicazione multimediale,
certi procedimenti si stiano formalizzando all’esterno del nostro corpo non è altro che una tappa
ulteriore dell’evoluzione umana. È già successo con il libro, poi con il cinema, ora con l’ipermedia.
2.1 As We May Think (Come potremmo pensare)
Il fatto stesso di simulare i processi fisiologici, da quelli dell'apparato muscolare a quelli
mentali, dalla Telerobotica alle Reti Neurali passando per le Realtà Virtuali, è indicativo di questo
nuovo rapporto tra il naturale e l’artificiale.
Ma poniamoci ancora una volta la domanda.
È più naturale leggere un libro, decodificando la scrittura con tutte le sue sovrastrutture
culturali, o fare un’esperienza di conoscenza diretta?
In questo senso le tecnologie multimediali offrono delle opportunità determinanti: attraverso
l’interattività le modalità interpretative vengono combinate con un’azione diretta, cliccando con
un mouse agiamo dentro le informazioni.
L’ipertesto, il sistema di organizzazione associativa dei dati attraverso il computer, simula
quelle soluzioni combinatorie che la lettura produce, aprendo continuamente intorno ad una
parola, ad un concetto, un’area di riferimenti ulteriori. Offre insomma un potenziamento delle
nostre procedure mentali che vengono così sollecitate ad essere più dinamiche, più dirette.
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La multimedialità interviene sui processi originari della conoscenza, invera un paradosso:
una delle massime espressioni dell’artificialità tende così a riattivare le modalità naturali
dell’apprendimento.
Quando nel 1945 Vannevar Bush scrisse il famoso articolo sull'Atlantic Monthly dal titolo As
We May Think si presagì questa tendenza all'interattività: teorizzò il superamento delle logiche
sequenziali e classificatorie per ordinare le molteplici informazioni prodotte dalla ricerca
tecnoscientifica adottando un dispositivo, il Memex (Memory Extender).
Una macchina multimediale ante litteram che con microfilm, nastro magnetico (allora
appena scoperto) e tecniche della fotografia a secco avrebbe dovuto simulare i comportamenti
del cervello dove le classificazioni cognitive avvengono non gerarchicamente (per generi, o classi,
o ordini alfabetici) ma per associazioni mentali.
L’invenzione di Vannevar Bush servì (non solo a vincere la II Guerra Mondiale, partecipando
alla pianificazione dello sbarco in Normandia in quanto presidente del National Defense Research
Committee) ma ad aprire la nuova era delle tecnologie digitali.
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3. L’archivio dell’indeterminato
Il Memex inaugurò un ciclo di esperienze, quelle applicative, sviluppate poi da Douglas
Englebart (l’inventore del mouse) e quelle utopiche di Ted Nelson, che nel 1965 varò il progetto
Xanadu, la leggendaria rete ipertestuale, idealizzata come una futura “Biblioteca d'Alessandria”
digitale.
Il fatto di far riferimento all’antica città imperiale cinese - costruita nel XIII secolo da Kublai
Khan e idealizzata come emblema dell’esotismo irraggiungibile, da viaggiatori e scrittori, da Marco
Polo a Coleridge - fa riflettere di come negli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra, si sia sviluppata
una tale ingegnosità coniugata alla creatività più immaginifica.
L’ideatore di Xanadu aveva concepito un programma da far girare su tanti computer
collegati tra loro per superare tutte le altre modalità di archiviazione. Una molteplicità di
documenti avrebbero trovato collocazione su Xanadu per renderli disponibili sull’intera rete. Ogni
documento si sarebbe potuto collegare ad altri documenti, secondo le più libere associazioni.
Vi si poteva anche scrivere direttamente, salvando le versioni più aggiornate del
documento.
Nelson mise tutto a sistema nel saggio “A File Structure for the Complex, the Changing, and
the Indeterminate” (“Una struttura di archivio per l'insieme, per il cambiamento e per
l'indeterminato”, 1965), teorizzando che bisogna essere in grado di riprodurre la complessità, la
velocità e soprattutto l'imprevedibilità del ragionamento umano, con la sua particolare
caratteristica di creare analogie e operare secondo collegamenti ipertestuali, appunto.
Per quei tempi fu pura utopia, provate sono ad immaginarvi le querelle giuridiche in
relazione al copyright.
Eppure quell’utopia s’è realizzata, nei primi anni Novanta, ma non grazie a Nelson bensì a
Tim Berners-Lee, sviluppando al CERN di Ginevra il World Wide Web.
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Carlo Infante - Il linguaggio e la tecnologia digitale
Un’utopia che non solo ha quindi preso forma attraverso il web ma è stata superata, se non
logorata, dall’inconsapevolezza del fatto che alla base di tutta la diffusione esponenziale della
rete delle reti, qual è Internet, c’è l’ipertesto.
Siamo tutti connessi dentro quell’ipertesto. Ma quanti ne sono consapevoli?
Avete mai pensato cosa significa la prima lettera di quell’http:// che ritroviamo nella stringa
di navigazione di tutti i giorni? Quella h apre la parola hypertext.
TAG
Hypertext
Xanadu
bene comune
mutazione del libro
nuovi valori d’uso
domanda culturale
culture digitali
alfamedialità
connessioni sinaptiche
libro
ipermedia
ipertesto
Memex
utopia
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Carlo Infante - La mediamorfosi della scrittura
Indice
1.
BRAINFRAME ALFABETICO ................................................................................................................. 3
2.
SCRITTURA MUTANTE .......................................................................................................................... 4
3.
SCRITTURE DEL VISIBILE ....................................................................................................................... 8
4.
SCRITTURA CONNETTIVA .................................................................................................................... 9
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 13
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Carlo Infante - La mediamorfosi della scrittura
1. Brainframe alfabetico
La condizione digitale, già con l’ipertesto, e ancor più con lo sviluppo del web ha ridefinito il
concetto di scrittura.
È sempre più ibrida: si confonde con l’energia propria dell’oralità per andare oltre le
specificità sedimentate in secoli di perfezionamento di una tecnologia che è passata dalla mera
funzionalità di gestione della memoria degli ordinamenti (religiosi, politici ed economici) a quella
creativa della produzione di immaginario, nelle diverse forme della poesia, della prosa, del
romanzo, delle sceneggiature.
Il focus della questione in esame riguarda la mutazione della scrittura in ambiente digitale,
un dato che comporta il radicale cambiamento delle competenze, o perlomeno l’insorgenza di
nuove attitudini, nuovi comportamenti che si traducono in linguaggio. In tal senso vengono
affrontati quei processi cognitivi che sottendono queste modificazioni di impronta antropologica
ancor prima che culturale. La scrittura in una chat è prossima all’oralità con tutto il rischio di una
perdita della forma strutturata ma al contempo determina una presenza di spirito più evoluto.
Paradossalmente non si è mai scritto così tanto da quando c’è il web.
Siamo entrati nella Società dell’Informazione e la scrittura gioca un ruolo troppo importante
per lasciarla in custodia solo a scrittori e giornalisti. Scrivere è comunicare, anche se non è
scontato.
Chi l’esercita negli SMS, o su Whatsapp o Telegram, o in email o in un blog, lo sa
(tendenzialmente) e lo dimostra. Sa quanto il proprio pensiero tenda ad avvicinarsi all’azione.
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2. Scrittura mutante
La scrittura sta mutando si sta avverando il presagio di McLuhan per cui l’era elettrica (ora
digitale) pervade la condizione umana trasformandola, condizionando di conseguenza tutte le
sue espressioni.
È opportuno rilevare che la scrittura è una delle tecnologie più complesse tra quelle che
l’uomo ha inventato in questi millenni. Oggi sta superando la condizione alfabetica per comporre
una polisemia, attraverso le piattaforme ipermediali, che contempla suono ed immagine, in una
complessità che si avvicina alle forme più innate del linguaggio naturale.
L'ipermedialità supera il brainframe alfabetico (come lo ha definito Derrick de Kerckhove)
che è la cornice mentale attraverso cui interpretiamo la realtà che ci circonda, determinato dalla
frequentazione secolare con la scrittura alfabetica.
Questo superamento consente di espandersi ad una sfera comunicazionale più ampia, più
naturale (secondo il principio filogenetico della nostra essenza multisensoriale) rispetto a quella più
settoriale (più artificiale) dell’esercizio alfabetico.
Il dato che va rilevato è quello sociale, se non antropologico, che attraverso una serie di
nuovi comportamenti determina l’impatto di una generazione con un sistema educativo che
ancora non sa cogliere gli aspetti culturali di questa mutazione della scrittura.
Comunicare è “comunicare con” e non solo “comunicare a”
È qui che emerge una delle condizioni più interessanti dell’esperienza creativa in Rete:
coniugare la dimensione più particolare, più “locale”, dell’espressione, come quella della scrittura
soggettiva di un diario, ad esempio, con la dimensione più pubblica che c'è, quella globale del
web, accessibile da dovunque e da chiunque.
Il fatto che, attraverso le reti, in particolari ambienti come i blog si possa sviluppare una
scrittura immediata (meno mediata da sovrastrutture formali) e tesa a sollecitare partecipazione
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Carlo Infante - La mediamorfosi della scrittura
attiva e, ancor di più, scambio interumano ed empatia, proprio come in una conversazione, è da
considerarsi come qualcosa che ha trasformato radicalmente il processo della scrittura, rendendo
reale la potenzialità connettiva.
In questo senso ciò è accaduto in maniera deflagrante nei social network in questi ultimi
vent'anni, in modo talmente pervasivo da non lasciar traccia della filiera evolutiva di questo
comportamento indotto.
Ciò ha resettato la pratica della scrittura da esercizio di stile, letterario o giornalistico che
sia, spesso adagiato sull’autocompiacimento di una competenza conclusa, chiusa in sé stessa.
Si stanno insomma delineando fattori che caratterizzano una nuova espressione culturale
diffusa negli ambiti sociali.
Questa sta dando forma e sostanza ai modi della comunicazione, riscattandoli da un
sistema degradato dalla bulimia delle immagini televisive auto-referenziali, rilanciando il valore del
“comunicare con”, rispetto a quel “comunicare a”, cui ci ha viziati il sistema dei mass media.
Scrittura mutante
In questa ricognizione teorica sulla mediamorfosi della scrittura focalizziamo ora l’attenzione
su quelle progettualità che hanno aperto il fronte di attenzione su questi campi.
Una delle prime, non solo in Italia, è stata quella dell'Osservatorio scrittura mutante nato, nei
primi anni del 2000, in una biblioteca di un piccolo comune presso Torino, dove si è sviluppata una
delle prime esperienze di biblioteca multimediale in Italia.
L'Osservatorio non è stato solo una raccolta di link attivi, ma un luogo reale (la biblioteca) e
digitale (il web) dedicato alla ricerca, alla produzione e all'aggiornamento. Si è realizzata una
mappatura delle esperienze di scrittura mutante, assolutamente fluida, libera da rigide definizioni di
genere; una classificazione decisamente aperta ma utile a tracciare un quadro aggiornato della
nuova espressività digitale intesa anche come scoperta e appropriazione di un nuovo mondo, di
una nuova cultura.
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Carlo Infante - La mediamorfosi della scrittura
Per affrontare il tema della scrittura in ambiente digitale si è colto la peculiarità della
letteratura elettronica (con i primi ipertesti letterari) in tutte le sue sfaccettature e per approfondire i
nuovi modi di narrare che le nuove tecnologie della comunicazione rendono possibili.
L'intenzione è stata quella di promuovere la lettura e la scrittura attraverso i nuovi media,
liberando nella rete le potenzialità creative, la voglia di sperimentare e di mettersi in gioco
attraverso la multimedialità: senza mai dimenticare gli strumenti di comunicazione tradizionali.
L'obiettivo è stato quello di sperimentare le nuove modalità espressive attraverso
l'attivazione di laboratori di scrittura collaborativa (utilizzando le prime piattaforme wiki, prima della
nascita di Wikipedia) e concorsi per la scrittura creativa in ambiente digitale.
Contestualmente la biblioteca ha organizzato delle attività di formazione, rivolte sia al
mondo della scuola sia ai bibliotecari e agli operatori culturali, con una programmazione continua
di incontri in Biblioteca ma anche in rete, attraverso forum e mailing list.
Questo che segue è il Manifesto della Scrittura Mutante, scritto vent'anni fa.
La scrittura, come gran parte dei nostri rapporti con il mondo in accelerata trasformazione,
sta mutando.
È una condizione determinata non solo dalla velocità dello scambio comunicativo ma
dalla quantità di informazioni che ci pervadono.
Tutto questo tende a produrre una crisi dei modelli espressivi, senza dubbio, ma come tutte
le crisi può tradursi in una crescita e nella ricerca di nuove possibilità evolutive.
Rispetto a quella quantità e velocità emerge la necessità di una qualità in grado di
ristabilire un equilibrio tra il pensare e l'agire nel campo del linguaggio.
È di questo che si tratta: attivare una ricognizione sulle nuove modalità di espressione
all'interno di quell'ambiente digitale in cui la comunicazione, anche se rischia delle perdite (le
dinamiche logico-consequenziali, ad esempio), offre potenzialità straordinarie.
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Carlo Infante - La mediamorfosi della scrittura
L’espressione scrittura mutante è certamente generica, e anche un po’ ironica (lo
confessiamo), ma ci permette di affrontare le differenze di approccio alla sfera della parola e del
suo utilizzo nel contesto multimediale.
Ponendoci domande come: in che modo la narrazione, propriamente lineare, può misurarsi
con l'ipertestualità?
O ancora.
Come ridefinire il ruolo singolare dell’autore all’interno delle reti basate sulle proprietà
plurali, connettive e collaborative?
In che modo le tecniche dei software si riveleranno linguaggi capaci di attrarre le nostre
sensibilità?
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3. Scritture del visibile
Quel progetto dalla biblioteca dell'hinterland torinese approdò poi al Salone del Libro di
Torino, dove fu promosso il concorso “Scrittura Mutante”.
Qui si riaggregarono molte delle esperienze apripista già rilevate dall'Osservatorio, come i
primi esperimenti letterari su wiki, una piattaforma collaborativa che solo dopo sfociò in quella
straordinaria enciclopedia aperta chiamata Wikipedia, ormai universalmente riconosciuta come
una delle fonti più utilizzate nel web.
L'Osservatorio con il concorso nazionale all'interno della manifestazione culturale più
importante del Paese fu il focolaio iniziale di un fenomeno di trasformazione culturale.
Un processo in cui si sono promossi quegli spostamenti progressivi del piacere di comunicare
scrivendo il visibile, relativizzando l'ambito esclusivo della composizione alfabetica e il modello
logico-consequenziale della narrazione tradizionalmente detta, per investire attenzione su una
inedita (allora, era il 2003) espansione ipermediale.
Ora che ci pensiamo scritture del visibile era il titolo di un altro concorso promosso
all’interno del festival “Scenari dell’Immateriale” di Narni nel 1988. Vi si cercava di focalizzare
l’attenzione sugli storyboard intesi come scrittura progettuale per il video.
Lo storyboard è come un fumetto, il termine significa infatti storie su tavola, come nelle strip
disegnate. Una pratica esercitata nel mondo del cinema (era uno dei metodi più utilizzati da
Hitchcock, per definire i dettagli utili per istruire le riprese) e ancor più nel mondo della pubblicità
per gli spot audiovisivi e anche nei videoclip. Espressioni della videocreazione elettronica che
hanno di fatto inaugurato un fenomeno esteso per i nuovi linguaggi della narrazione audiovisiva.
Esistono infatti dei punti di contatto tra le pratiche della videocreazione e l’ipermedialità, si
tratta in entrambi i contesti linguistici di un’evoluzione delle culture elettroniche che oggi con la
dimensione digitale ha comunque fatto un paradigmatico salto di qualità verso l’interattività.
Ma facciamo dei passi indietro: sviluppiamo la riflessione sulla condizione connettiva della
scrittura.
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4. Scrittura connettiva
Non si può certo ignorare che i giovani e giovanissimi di oggi vivranno in un sistema in cui
sarà decisivo trovare il modo per creare modelli produttivi e sociali attraverso lo scambio di
informazioni in rete.
I nodi che portano con sé le nuove generazioni arrivano quindi al pettine, anche se molti
tendono a concentrarsi più sul pettine delle tecnologie piuttosto che sui nodi antropologici che
riguardano il valore base del processo formativo: mettere in circolo risorsa cognitiva, reattiva,
partecipativa.
Per liberare quelle risorse il processo educativo ha bisogno della dimensione creativa, è
evidente.
Non è un'affermazione scontata come può apparire a qualcuno, ciò che intendiamo per
creatività riguarda fondamentalmente la capacità umana di ambientarsi in nuovi contesti, trovare
risposte a domande mai poste, inventare nuove forme per rappresentare il mondo esterno ed
esprimere la propria soggettività.
Ambientarsi nel mondo telematico della molteplicità delle fonti informative significa, tra le
tante cose, reinventare il nostro rapporto con il linguaggio alfabetico, rendendolo meno lineare
come le pratiche dell’ipertesto in rete sottendono.
Ambientarsi nella Società dell’Informazione significa quindi trovare il modo più efficace per
trattare delle nuove forme di cittadinanza in stretta correlazione con il sistema formativo
(istituzionale e non).
Un elemento determinante perché gli studenti di oggi sono, a tutti gli effetti, protagonisti
della società in divenire, sentinelle di un cambiamento più che progressivo, esponenziale.
L’efficacia di cui si parlava prima, rispetto alle metodologie d'apprendimento, risiede
nell’approccio ludico con quegli ambienti interattivi che sollecitano la dinamicità dello sguardo
che le nuove generazioni comunque esprimono, anche se inconsapevolmente.
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Già Jeremy Rifkin scrisse che si sta passando dall’ homo faber della società industriale
all’homo ludens agile nel selezionare le informazioni per tradurle in valore.
Gioco, dopotutto, è una delle migliori parole chiave per interpretare quella flessibilità
psicologica che sottende la mutazione in corso sotto il segno dell’evoluzione tecnologica.
Gioco è una parola che possiamo quindi permetterci di porre in stretta relazione con la
“comunicazione”, nuova materia prima della società delle reti.
Mettersi in gioco è, infatti, il principio attivo di quella complessità interpersonale che
conduce verso il superamento dei ruoli prestabiliti e delle competenze stabilizzate in un mondo che
sta mutando attraverso le opportunità offerte dal web.
Lavorare in rete, per intenderci, non è solo telelavoro (“a distanza” o meno che sia o smart
working quanto si voglia...) ma introduce ad una nuova operatività fondata sulla cooperazione e
la condivisione: la connettività, il nuovo contatto. Meglio: una nuova sensibilità che tende ad
un’ibridazione dei diversi modi del comunicare, in presenza e in remoto.
È questa connettività, da intendere non solo come condizione tecnologica ma psicologica
a tutti gli effetti, ad esprimere una connessione sia interna (attraverso sinapsi più serrate) che
esterna, attraverso una nuova fluidità dello scambio interumano.
Stiamo trattando di una scrittura brada, selvaggia e veloce, che può permettere però una
straordinaria incidenza nei fatti stessi, andando oltre i commenti, producendo azione:
promuovendo quella autodeterminazione che si
estende nell’organizzazione dal basso,
autoconvocata.
Quando vedi, senti, pensi qualcosa tendi ad associare quei pensieri a qualcosa di simile.
Procedi per combinazioni analogiche, in un gioco sinaptico (lo scambio chimico ed elettrico dei
neuroni della nostra mente) che apre a ventaglio l'immaginario, l'intelligenza.
L'ipertesto ci ha dimostrato come una nuova tecnologia possa contribuire ad espandere
una nuova psicologia della comunicazione. La connettività, l'attitudine propria del libero scambio
di comunicazione telematica e della partecipazione collaborativa o human networking, può infatti
aprire ad un nuovo approccio con l'espressione creativa.
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Il dato più forte da rilevare è nella capacità di mettere in relazione le diverse specificità dei
linguaggi grazie a una tecnologia di comunicazione, qual è Internet, che si sta rivelando come un
medium vettore di nuova cultura e nuovi comportamenti.
Si tratta di un'evoluzione psicologica e cognitiva che attraverso il web crea condizioni
inedite di scambio sociale che vanno anche oltre lo stesso principio "collettivo" sul quale anni fa si
erano fondate molte buone utopie di nuova socialità creativa.
Si stanno insomma già delineando fattori che caratterizzeranno l'espressione culturale,
diffondendola negli ambiti sociali ed educativi, contribuendo di fatto ad una generalizzata
espansione della coscienza percettiva. In un processo che sta vedendo gli ambiti, dicotomici per
alcuni, della cultura e della comunicazione avvicinarsi sempre di più.
È emblematica questa citazione di Coover, scritta più di vent'anni fa:
Che i libri e gli altri tradizionali strumenti letterari sopravvivano o meno, il medium dominante
nel futuro che si prefigura sarà elettronico, digitale, con Internet come il probabile fornitore di
contenuti universale.
Prevedo che gli artisti letterari graviteranno attorno a questo potentissimo mezzo, ma se non
sarà così, se la letteratura non troverà un suo posto nella Rete, allora la maggior parte della razza
umana ne farà semplicemente a meno e, in questo modo, che le nuove generazione ne siano
consapevoli o meno, saranno (e lo saremo anche noi tutti), gravemente impoveriti da questa
perdita
Robert Coover, fondatore di Electronic Literature Organization, 1999
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ipertesto
ibrida
immaginario
mutazione
processi cognitivi
Società dell’Informazione
brainframe alfabetico
mediamorfosi
scrittura mutante
letteratura elettronica
scrittura collaborativa
scritture del visibile
videocreazione
culture elettroniche
homo ludens
telelavoro
smart working
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Carlo Infante - Dal mass media al personal media
Indice
1.
INTRODUZIONE ......................................................................................................................................... 3
2.
LA NOSTRA EVOLUZIONE È DIRETTAMENTE PROPORZIONALE ALL’EVOLUZIONE TECNOLOGICA ..... 4
3.
L’ERA DEL PERSONAL MEDIA ATTRAVERSO L’INTERATTIVITÀ RICONFIGURA L’ASSETTO DEL
CONSUMO DI INFORMAZIONI ........................................................................................................................ 5
4.
LA MOLTEPLICITÀ DEGLI SCHERMI ......................................................................................................... 7
5.
DALL’“UNO A MOLTI” DEL BROADCAST RADIO-TV AL “DA MOLTI A MOLTI” DEL WEB ...................... 9
6.
SOCIAL LIFECAST ................................................................................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 12
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Carlo Infante - Dal mass media al personal media
1. Introduzione
Per più di settant’anni la TV ha scandito lo sviluppo della società di massa, basata sul
modello industriale e sui consumi di massa, affermandosi di conseguenza come mass media. Dagli
anni Novanta con l'avvento del web inizia a cambiare qualcosa, radicalmente. Si era già
delineata, qualche decennio prima, una progressiva interazione tra sistemi televisivi e informatici,
quando i computer diventarono PC: personal computer. Con l'accelerazione crossmediale,
attraverso dispositivi sempre più personalizzati e connessi alla rete, si arriva ai personal media, un
passaggio chiave che sta ibridando ulteriormente i sistemi della comunicazione, fino al fenomeno
del cosiddetto social lifecast.
Il focus è nell’evidenziare come i sistemi di comunicazione riflettano le peculiarità del
sistema sociale e produttivo che li esprime. La società di massa fondata sullo sviluppo industriale e
sul consumismo ha espresso i mass media diffusi da una fonte (prima radio e poi televisione) verso
molti. Oggi la società post-industriale, definita già Società dell’Informazione, riflette una
disintegrazione sociale che presuppone un nuovo assetto evolutivo. Il dato principale da rilevare è
quello della società in transizione in cui i modelli sono soggetti a continue variazioni per cui il
sistema della comunicazione attraverso il web e le configurazioni ibride della crossmedialità, si
connota nella reciprocità tra personal media e social media, esprimendo una comunicazione da
molti a molti.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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2. La nostra evoluzione è direttamente proporzionale
all’evoluzione tecnologica
Televisione significa “vedere lontano”. Questo fatto del vedere lontano è molto più
importante di quanto si possa immaginare: ci siamo erti in piedi, emancipandosi da quadrupedi,
per innalzare lo sguardo. Vedere più in là, significa pre-vedere, vedere prima e avere più tempo
per pensare (e agire). Qui c’è la ricetta della nostra evoluzione.
Per vedere più lontano ci siamo arrampicati sugli alberi, sulle alture, sugli alberi delle navi
(“Laggiù soffia! È il motto dei balenieri di Moby Dick, quando quel grasso era fondamentale per
illuminare le città moderne, inglesi e americane). Abbiamo inventato cannocchiali, telescopi,
satelliti, televisioni.
Da sempre la nostra evoluzione è direttamente proporzionale all’evoluzione tecnologica e
oggi con il web è l’idea stessa di televisione che cambia, superando la logica dell’uno a molti,
propria del broadcast e delle strategie dei mass media, per esprimersi da molti a molti,
interconnessi in rete.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
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3. L’era del personal media attraverso l’interattività
riconfigura l’assetto del consumo di informazioni
Inizia ora (anche se il dibattito s’è aperto almeno quindici anni fa) l’era del personal media
(o my media come fu definito in alcuni contesti) che attraverso l’interattività del web e del mobile
sta superando l’esclusività dello schermo televisivo, relativizzando il ruolo del mass media nel
sistema della comunicazione.
Niente si distrugge ma tutto si trasforma: la TV rimane ma il suo consumo si ibrida con altri
schermi con cui si interagisce in tempo reale sui contenuti trasmessi.
Il gioco si fa crossmediale, semplice, ludico ma pertinente, come quando con un tweet si
partecipa a trasmissioni televisive che hanno imparato a riverberarsi nel web, amplificando la loro
audience. In questa integrazione di tecnologie mediali si percepisce una evoluzione dei linguaggi
che si qualifica del feedback degli utenti. Un approccio che a qualcuno può sembrare banale ma
presuppone uno straordinario salto evolutivo.
In teatro c'è il concetto di “quarta parete”, coniato da Bertolt Brecht per intendere, oltre le
tre pareti della scena, la quarta dove stanno gli spettatori senzienti, protagonisti del processo
teatrale. Sebbene la televisione sia nata dal teatro, con il suo evolversi ha fatto di tutto per
distanziarsene. Non tutti sanno che in TV tutto accadeva in diretta (si dovrà attendere la fine degli
anni Settanta per contare su sistemi di videoregistrazione) e buona parte dei format, come gli stessi
“carosello” pubblicitari si basavano su sketch teatrali. Si usava la pellicola (16 millimetri, più veloce
da sviluppare e più agile nella ripresa) quasi esclusivamente per i telegiornali, correndo contro le
ore per averla pronta per l'edizione del telegiornale, dove veniva proiettata su uno schermo e
ripresa per metterla in onda.
Tornando al principio attivo della quarta parete e all'idea di coinvolgere direttamente gli
spettatori, va detto, prima di tutto, dell'esperienza apripista in radio, quando nel 1969 nacque
“Chiamate Roma 3131”, il primo tentativo in Italia di effettuare un contatto diretto e senza filtri tra
l'ascoltatore ed il mezzo di comunicazione.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
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Un altro momento particolare, fu il gioco televisivo “Pronto, Raffaella?” condotto dalla
Carrà. Questa trasmissione era impostata sull'interazione con il pubblico in diretta, attraverso vari
giochi telefonici con i concorrenti da casa che rispondevano a semplici domande a fronte di
premi importanti. L'evento principale, nel 1984, divenne il gioco dei fagioli, durante il quale si
doveva indovinare il numero esatto di fagioli presenti all'interno di un barattolo di vetro. Puntata
dopo puntata si creò una tale suspense, anche per l'aumentare del montepremi, che cresceva ad
ogni tentativo errato. Durò mesi.
Quell'interattività alla buona dentro la cornice della televisione generalista segnò un
momento curioso nel quadro della mediamorfosi, per usare un neologismo coniato da Roger Fidler.
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4. La molteplicità degli schermi
Eppure a partire dagli anni Ottanta l'interattività digitale ha scandito l'innovazione del
medium TV superando l'idea stessa di televisore, moltiplicando gli schermi secondo i dispositivi
connessi a internet.
Facciamo un passo indietro. Tra i primi servizi televisivi interattivi spicca il teletext che
trasmette solo contenuti testuali e con grafica essenziale. In Italia viene trasmesso nel canale RAI
Televideo, per la prima volta nel 1984, quando di Internet ancora non si parlava. Vi si trovavano
informazioni sul palinsesto dei programmi televisivi, con informazioni di utilità sociale, come l'orario
dei treni.
Eppure l'interattività digitale effettiva, quella che condiziona il palinsesto, (richiedendolo ad
hoc e pagandolo di conseguenza) è quella della pay per view che non solo ha riguardato la RAI
(con l’esperimento di RAI Click) ma anche i privati, con Mediaset, in testa. Tuttavia il sistema
televisivo generalista, resiste, conta ancora su un mercato pubblicitario che gli dà garanzia.
Si sta profilando comunque un nuovo scenario tecnologico, si chiama Hybrid Broadcast
Broadband e prevede la trasmissione su banda larga ibrida, lo standard che progressivamente
sostituirà l'Mhp (Multimedia Home Platform) attraverso cui si vede anche il digitale terrestre e non
solo. Su questo nuovo standard si sta già sviluppando la catch up tv (quella che è già testata su Rai
Replay).
Ma torniamo a individuare le modalità della TV interattiva che oltre alla pay per view che
permette anche di gestire un archivio di contenuti messi a punto dal provider televisivo, ha come
focus principale il video on demand. Questo servizio interattivo permette agli utenti di fruire,
gratuitamente o a pagamento, di un programma televisivo in qualsiasi momento lo desiderino. Il
video on demand rappresenta un vero e proprio ribaltamento del concetto stesso di televisione
basata su palinsesto lineare.
Arriveranno quindi nuovi standard, ma al momento ci basta e avanza tutto quello che
arriva dall'ormai consolidato IPTV , ovvero il servizio televisivo fruito tramite Internet ( Internet
Protocol), raccogliendo una grande quantità di contenuti in streaming video, sia dai vari canali a
pagamento (da Sky a Netflix e tutti gli altri) sia dal web, gratuiti. Distribuiti sui tanti schermi che
abbiamo a disposizione: personal computer, tablet, smart phone o smart tv.
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5. Dall’“uno a molti” del broadcast radio-tv al “da molti
a molti” del web
Anni fa (nel 2007) in un progetto di studio dal titolo “Teleschermi” si analizzò come lo
scenario televisivo che allora si stava delineando nella diversificazione dei modi di trasmissione
televisiva (dalle pay tv via satellite e il digitale terrestre alle web tv) con uno sguardo di attenzione
alle potenzialità del mobile. La TV generalista rimane ancora arroccata sul suo zoccolo duro di
audience invecchiata e statica mentre gli spettatori più avvertiti diventano prosumer: consumatori
che producono comunicazione bidirezionale e personalizzata. Usano YouTube e altre piattaforme
basate sui cosiddetti user generated content e le web tv scalzano la funzione inespressa delle
emittenti televisive locali per garantire nel territorio un’informazione pertinente e partecipativa.
La condizione del my media permette alle comunità degli utenti auto-organizzati di
prendere voce, lasciare un’impronta geolocalizzata che inscrive storie nelle geografie dei territori e
liberare un’energia sociale connettiva che tratta l’informazione come un bene comune,
condividendola nel web.
Oggi la realtà dei social media si pone come condizione mainstream, è di fatto il corso
principale della comunicazione, per quanto in buona parte inaffidabile.
Eppure segna un
accesso sempre più di massa a cui corrisponde una pratica sempre più semplificata degli ambienti
digitali. E questo per alcuni aspetti è un bene.
Nel corso di questi ultimi vent’anni con il fenomeno dei blog si era già sviluppata questa
condizione di vitalismo partecipativo, con realtà straordinarie di innovazione culturale. Oggi,
superata quella fase di sperimentazione, connotata come un avamposto di ricerca evolutiva,
arriva l’onda montante della normalità.
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6. Social lifecast
Su piattaforme universali come Facebook (che nei primi mesi del 2020 ha superato i 2,5
miliardi di utenti) si sta delineando un forte consumo di massa, qualcosa che fa pensare anche a
un surrogato di televisione dove ci si ritrova a fare zapping tra i profili, facendo del newsfeed una
nuova dinamica per farsi il proprio palinsesto sia per informarci sia per divertirci o immergerci in
una visione.
I social media stanno diventando sempre più realtà che oltre a moltiplicare le relazioni, con
l’illusione di aumentare
il proprio capitale reputazionale (reputation capital), si offrono come
privilegiata finestra sul mondo, scalzando anche il re dei mass media, la TV.
Eppure i social media anche se diventano di massa non possono essere considerati mass
media, proprio perché il paradigma su cui si basa il loro modello di trasmissione è l’opposto di
quello radio-televisivo dell’uno a molti, per far esplodere quello che nel web s’era già prospettato
e che ora sta tracimando in un mosaico esponenziale di interrelazioni tra profili diversi, in una
globale giostra della personalizzazione.
Sta emergendo una sorta di inedito social broadcast dove si ricrea quel meccanismo
perverso di attrazione magnetica delle celebrità d'ordinanza, secondo un catalogo di star e
starlette di tutti tipi: star televisive (dove si gioca sistematicamente l'amplificazione dei personaggimaschera) agli opinionisti
di ogni campo, politici, giornalisti, medici, virologi, sportivi… e,
ovviamente quelle celebrità improbabili, sorte come funghi proprio nell’habitat dei social, secondo
le liturgie prevedibili dei cosiddetti influencer.
Viene messa in onda, a partire dai piccoli schermi degli smartphone, la vita, a pezzi,
frammentata come in uno specchio rotto. Siamo giunti alla retorica iperreale dell’accesso al
mondo intimo, al backstage della vita come simulacro di autenticità, con una sistematizzazione
spontanea, pervasiva e quasi virale, che si sta rivelando ben più di un format, nuovo palinsesto.
È ciò che è stato definito social lifecast dove il flusso corrente è garantito dalla quotidianità
della propria cerchia di amici o conoscenti con cui si mantiene un contatto costante che a volte
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sembra incredibilmente empatico anche se di fatto si fa, molto spesso, solo il surf sulla superficie di
alcuni post che spostano l’onda dell'attenzione. È un mosaico di intimità frammentate, connesse
sulla base di contatti spesso rapsodici in cui si ritrova qualcuno un po’ per caso, secondo
l’andamento dello stream su Facebook. Le combinazioni si susseguono per
colpi di notifiche
annunciando incontri ed epifanie che lasciano (anche se non sempre) il tempo che trovano.
Fa parte del gioco anche il rumore proprio dei social media, ovvero quei fenomeni
borderline come le bufale o fake news nonché le polemi
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Carlo Infante - Lo sviluppo di Internet
Indice
1.
L’EPICA DI ARPANET ........................................................................................................................... 3
2.
TRENINI DI DATI .................................................................................................................................. 6
3.
DA INTERNET SI PASSA AL WEB, LA SUA DECLINAZIONE IPERTESTUALE ............................................. 8
4.
IL RESET FINANZIARIO DELLA NET ECONOMY FA NASCERE IL WEB 2.0 ........................................... 10
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 13
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1. L’epica di Arpanet
La prima fase che vede la rete come esclusiva applicazione d’interesse militare ha una
storia emblematica, rasenta l’epica.
Il presidente Eisenhower, già al comando dello sbarco alleato in Normandia, nel 1957 in
apprensione per il rischio di perdere il primato tecnologico, dopo la missione spaziale del satellite
russo Sputnik, accolse un consiglio strategico di Vannevar Bush:
La ricerca di base porta a nuove conoscenze,
genera capitale scientifico,
crea la riserva dalla quale le applicazioni pratiche
del sapere devono essere attinte.
Vannevar Bush, Manifesto per la rinascita di una nazione
Bush, è il generale che inventò negli anni Trenta il Memex, un calcolatore analogico per
gestire informazioni archiviate (anche con microfilm), di fatto il prototipo del computer e dei
processi ipermediali. Una macchina per gestire le tattiche possibili, non solo militari.
È grazie a lui che il Sistema Paese statunitense ha sviluppato un processo virtuoso di
conoscenze scientifiche, coniugando lo sviluppo industriale a quello degli assetti militari,
coinvolgendo le Università. L’epica sta qui, una volta tanto senza guerra.
Va infatti detto che il principio di deterrenza reso dal fatto che in caso di attacco nucleare
non si sarebbe potuto “accecare” il sistema difensivo e quello di contrattacco, inibendo le
comunicazioni, grazie al fatto che Internet con il suo sistema distribuito e non gerarchico dei nodi di
comunicazione non si sarebbe potuto bloccare, è il dato più importante di come si possa evitare
un conflitto. Una nuova tecnologia ha espresso il deterrente, nell’evitare un attacco. Era
l’ideologia della Guerra Fredda. Si fece di tutto perché i sovietici ne fossero consapevoli, rendendo
pubblica la ricerca e non segreta (come tutti i protocolli militari).
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Internet nasce nel 1969 come rete militare degli Stati Uniti
L’intelligenza tecno-scientifica messa in campo da centri di ricerca come la Rand
corporation, lo Stanford Research Center, l’Augmentation research Center e lo Xerox Park,
avevano contribuito a fare di Internet un dispositivo più efficace di un’arma. Queste aziende
diventano protagoniste dello sviluppo di Internet come opportunità che reinventò il modo di
concepire e gestire i conflitti. Quella struttura garantiva la comunicazione militare anche durante
un attacco atomico, inventando il modo per superare i limiti delle comunicazioni allora utilizzate in
cui ogni nodo era col­legato nella configurazione gerarchica “stellare”.
Tutto questo complesso di ricerca tecnologica e militare trova il suo fulcro nell’ARPA
(Advanced Research Project Agency) che viene integrata nel Pentagono. L’ARPA, è quindi la
matrice di Internet, nasce nel 1958 per poi diventare DARPA (Defence Advanced Research Project
Agency).
È con il nome di Arpanet che nel 1969 si imposta il sistema attraverso il collegamento con i primi
due nodi della rete fra l’UCLA (University of California, Los Angeles) e lo SRI (Stanford Research
Institute).
ARPANET ha una struttura di connessione senza livelli gerarchici per consentire la
comunicazione anche in caso di spegnimento di un nodo di server.
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È interessante sapere che in questo gruppo di progettazione operavano anche degli
psicologi come Joseph Licklider, che aveva lavorato al MIT (Massachusetts Institute of Technology)
dove si erano inventati i sistemi di time sharing informatico, il metodo per cui più utenti
interagiscono con il processore di un mainframe (un grande computer con prestazioni di
elaborazione dati di alto livello).
Licklider era un teorico delle reti decentralizzate impegnato nella ricerca di nuove
interfacce uomo-macchina. Aveva collaborato con Norbert Wiener, l'inventore della cibernetica.
In quel periodo, negli anni Settanta, l’ARPA finanziava l’acquisto dei grandi mainframe per le
Università, computer grandi come delle stanze, agognati dagli studenti di informatica, i primi
hacker, che nell'utilizzarli senza permesso, ne ottimizzavano le funzioni. Fu importante fare di questi
potenti computer, programmati per processare un sistema informativo alla volta, un qualcosa per
cui le capacità computazionali venivano condivise in rete, con il nuovo metodo tecnologico del
time sharing. Questo processo permette la condivisione delle risorse di calcolo di un computer che
risponde alle richieste di più utenti, sottraendo i tempi morti tra differenti input.
Internet sostituì il nome Arpanet solo nel 1983 per differenziarla da Milnet, la rete
esplicitamente usata a scopi militari. Internet divenne così la più grande avventura tecnologica
collaborativa mai realizzata al mondo. Si configurò come uno straordinario ambiente di
comunicazione per far interagire più comunità di scienziati, creando le basi per la condivisione
globale delle più disparate comunità, non più solo scientifiche.
Il termine Internet si sviluppa in un secondo tempo come contrazione del termine
INTERconnected NETworks.
Il termine Internet fu coniato, nel 1973, da Robert Kahn, ricercatore dell’ARPA,
ricombinando i termini INTERconnected e NETworks. Si aprì così il percorso della comunicazione
distribuita, i protocolli liberi, le richieste di commento, la commutazione di pacchetto e i router che
sono le invenzioni di ciò che diventerà poi il web.
Invenzioni di ricercatori che si occuparono della guerra per non farla.
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2. Trenini di dati
I “vagoni” informatici di fronte a un nodo occupato o fuori uso, possono separarsi e poi
ricongiungersi a destinazione grazie ai metadati che indicavano il recapito. È la commutazione di
pacchetto.
In questa idea di rete si delineano tre punti cardine su cui ruota il web attuale.
Configurazione di una rete senza gerarchie che permette la comunicazione anche se si
guasta un nodo. Questo assetto permette di instradare il traffico in modo ottimale grazie ai router,
dispositivi che consentono di suddividere la rete in più segmenti.
Attuazione della commutazione di pacchetto, tecnica di accesso multiplo concepita per il
trasporto di dati tra più nodi, suddividendo l'informazione da trasferire in pacchetti trasmessi
individualmente e in sequenza, seguendo un particolare meccanismo di instradamento. Come su
un trenino di dati i cui “vagoni”, di fronte un nodo occupato o fuori uso, possono sganciarsi poi
ricongiungersi a destinazione grazie a dei metadati che indicano dove essere recapitati.
Interoperabilità tra mainframe (come i server che ospitano i dati) e i sistemi diversi dei
computer client connessi in rete.
Si trattava di realizzare non solo una rete di computer affidabile, bensì di promuovere
l’internet working, per connettere qualsiasi computer in rete. Per rendere tutto questo possibile,
Robert Kahn prima e Vinton Cerf poi, crearono l’Internet Protocol, proprio per far dialogare diversi
computer tra loro, innestando un protocollo di controllo, il Transmission Control Protocol (con
Internet Protocol nella sigla TCP/IP) che diverrà lo standard Internet, ma solo dal 1983.
Un protocollo unico per connettere tutta la rete galvanizza il mondo scientifico, per cui il
ruolo centrale nello sviluppo di Internet viene assunto dalla National Science Foundation (NSF),
aprendo la fase della rete per la comunità scientifica.
Nel contesto universitario Unix diventerà, prima dello sviluppo dei personal computer, la
piattaforma più diffusa in Internet, e il modello TCP/IP diventa di fatto lo standard per reti aperte,
email e sistemi di trasferimento di dati.
Internet nasce come un laboratorio che appare improbabile data la collaborazione
tra militari, accademici, hacker e industriali. Questa confederazione di computer è stata dominio
per oltre due decenni di militari e scienziati per poi arrivare nelle case di tutti nei primi anni
Novanta.
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Carlo Infante - Lo sviluppo di Internet
3. Da Internet si passa al web, la sua declinazione
ipertestuale
Nel 1987 erano stati già messi a punto due processi decisivi per lo sviluppo di Internet: l’HTTP
(HyperText Transfer Protocol) e l’HTML (HyperText Markup Language). Il primo consiste nel nuovo
protocollo per la trasmissione dei dati a pacchetti, mentre il secondo diventa lo standard per la
realizzazione dei documenti ipertestuali. Protagonista di questo salto di qualità è Tim Berners-Lee.
L'idea del World Wide Web nasce nel 1989, presso il CERN (Conseil Européen pour la
Recherche Nucléaire) di Ginevra, il più importante laboratorio di fisica europeo. Lo stesso BernersLee aveva presentato già una sua proposta di Information Management ai suoi superiori, fu
considerata vaga ma interessante. Ma si procede e sulla base della nuova definizione dei
protocolli già avviati per la gestione dei dati in rete, il linguaggio HTML e il protocollo di rete HTTP,
nel 1990 si ultimano gli update dei software per il server. Si realizzò anche il primo browser con il
WWW (World Wide Web).
La data di nascita del World Wide Web viene comunemente indicata nel 1991 quando
quelle pagine web del CERN divennero rese pubbliche nella nuova rete internet. Solo nel 1993 il
CERN decise di mettere il WWW a disposizione di tutti rilasciandone il codice sorgente in pubblico
dominio.
Nel 1994 nasce Netscape Navigator, il primo browser commerciale
Nel 1993 uscì nell’ambito del National Center for Supercomputing Applications (NCSA)
Mosaic, un browser che combinava una capacità grafica avanzata. Uno dei suoi programmatori,
fondò poi una propria società, la Netscape Communication Corporation e, nel 1984, fece uscire il
primo browser di successo, Netscape Navigator.
Tante grandi aziende dell'informatica rimangono spiazzate da questa accelerazione che
vede l’avvento del web e la stessa Microsoft si affaccia a questo nuovo mondo solo nel 1995.
Arriva con Internet Explorer, da installare su sistema operativo Windows 95. Nel 1998 Netscape fa la
mossa del cavallo: rilasciò in rete il codice sorgente di Navigator, la cultura open source che
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scintillava tra le migliori intelligenze del web aveva capito che l’accesso alle reti andava aperto il
più possibile.
Si inizia così a comprendere le potenzialità della rete nel condividere testi, immagini e file
musicali. Nel 1999 arriva Napster, il primo sistema di file sharing di massa. Gli utenti di Internet sono
200 milioni in tutto il mondo. Nasce eBay, il sito di aste che permette di vendere e comprare oggetti
tra privati ed ecco PayPal, il modo migliore per facilitare i pagamenti, la fonda Elon Musk. Tra l’altro
c’era già Amazon creato nel 1994 da Jeff Bezos che ha spianato la strada a tanti altri servizi del
web 2.0. È su questa onda che nel 1998 Larry Page e Sergey Brin fondano la più grande società
che opera nel web, allora in un garage: Google che nel 2019 si è rinominata Alphabet, diventando
con 568 miliardi di dollari di capitale azionario la società per azioni più grande del mondo.
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4. Il reset finanziario della net economy fa nascere il
web 2.0
Il passaggio al secondo millennio lascia il segno al web: una ferita finanziaria data
dall’esplosione della “bolla” della new economy e una conseguente rigenerazione.
Il web è ormai dappertutto e non può essere più concepito solo come asset editoriale per
nuovi industriali o commercianti delle transazioni on line con l’e-commerce.
Nel solco di questa rigenerazione nascono blog, dei diari online da cui la parola stessa: web
+ log (diario). Un fenomeno che esplode sancendo la nascita del web 2.0 che non è solo update
tecnologico, con l’invenzione del CMS (Content Management System), bensì antropologico,
scoprendo una soggettività glocal (coniugando la cosa più locale che c’è, la propria quotidianità,
nel contesto più globale che ci sia, il web). Gli utenti diventano autori di sé stessi, esprimendo
quella disintermediazione che stabilisce una forte modificazione delle modalità di relazione con le
informazioni. Si inizia a percepire il valore del reputation capital, quella reputazione personale che
diverrà con l'avvento dei social network la vera merce di scambio.
Acquista una valenza esplicita il fatto che una delle potenzialità della rete sia quella di
mettere in contatto le persone. Chi aveva ideato Internet agli albori lo aveva capito ma lo aveva
impostato come una connessione tra intelligenze tecno-scientifiche mentre ora inizia a riguardare
tutti.
È su questo scenario che si proiettano, già nel 2003, MySpace e Linkedin, per essere poi
raggiunti e ampiamente scavalcati da Facebook l’anno seguente. Tra questi social media spicca
poi Twitter che rende esplicita la funzione degli hashtag per condividere contenuti con precise
parole chiave. Nel 2005 arriva YouTube, piattaforma attraverso cui condividere e visualizzare video
sharing, ha un successo tale che l’anno dopo Google se lo compra per la somma record di un
miliardo e 650 milioni di dollari. Insieme sono i siti più consultati al mondo.
Stiamo parlando solo di rete e di software, ma l’hardware? Una forte accelerazione alla
questione arriva quando nel 2007 Steve Jobs della Apple cambia l’idea di telefonino facendolo
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Carlo Infante - Lo sviluppo di Internet
diventare smartphone. Quando viene presentato l’iPhone si impone come un game changer delle
tecnologie in campo. Telefono, computer, Internet, tutto in un solo dispositivo, si apre l’era
dell’always on, sempre connessi.
In questo mare magnum di connessioni emergono le prime grandi contraddizioni, a partire
dal fatto che i grandi poteri hanno spesso grandi responsabilità che non rispettano. E accadono
scandali come quello creato, nel 2010, da Wikileaks, la piattaforma ideata dall’hacker Julian
Assange, che pubblicò anonimamente dei documenti confidenziali, forniti dagli utenti, sui crimini di
guerra statunitensi svolti in Medio Oriente. O per altri versi lo scandalo Cambridge Analytica del
2018 in cui si violarono circa 87 milioni di profili Facebook, senza scomodare hacker ma investendo
in pieno le responsabilità di Mark Zuckerberg, il fondatore del più grande social media.
Abitare un nuovo ambiente come la rete comporta nuove responsabilità, per cui è stata
creato un regolamento sul trattamento dei dati, il GDPR (Regolamento Generale sulla Protezione
dei Dati). Un’azione dell'Unione europea in materia di trattamento dei dati personali e di privacy
del 2016, per rafforzare la protezione dei dati personali di cittadini dell'Unione europea anche
all'esterno dei confini dell'UE.
Internet è di fatto un nuovo mondo per cui c’è la necessità di ambientarsi, accogliendo le
trasformazioni sociali, se non antropologiche, che sono accadute in questi ultimi 50 anni.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Lo sviluppo di Internet
Tag
FTP
Time sharing
Milnet
Rete senza gerarchie
Commutazione di pacchetto
Interoperabilità
Transmission Control Protocol
http
html
CMS
Glocal
Disintermediazione
Reputation capital
Always on
GDPR
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
Indice
1.
L’INTERATTIVITÀ .................................................................................................................................. 3
2.
LA IPERMEDIALITÀ .............................................................................................................................. 6
3.
LA CONNETTIVITÀ............................................................................................................................. 10
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 14
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
1. L’interattività
L’interattività riguarda principalmente il corpo in azione nell’ambiente digitale attraverso
l’uso di interfacce. L’interfaccia è ciò che ci permette di svolgere quelle azioni: è sia lo strumento
per intervenire in questo ambiente con estensioni fisiche (le cosiddette “periferiche”, come un
mouse, o un joystick, un data-glove, un esoscheletro-datasuit), sia la soglia da attraversare per
entrare in relazione percettiva e cognitiva con lo schermo del computer.
Questa ultima è l’interfaccia grafica, che può essere individuata in tante forme di cui due
sostanziali: simbolica (quando è composta principalmente di parole e icone da decodificare nelle
loro funzioni) e immersiva (quando ricrea un ambiente, possibilmente tridimensionale, in cui si è
invitati ad “entrare”).
L'interfaccia è come una soglia, va attraversata per entrare nell’ambiente digitale.
Esperienza che oggi è ordinaria, qualche decina di anni fa appariva straordinaria, a tal punto di
aver concepito quello stare di fronte alla soglia come l'attraversamento dello specchio di Alice nel
paese delle meraviglie.
Nell'interazione uomo-macchina, si esprime un'azione verso un dispositivo che rilascia
feedback, tendenzialmente in tempo reale, attraverso delle interfacce definite anche periferiche.
Una unità periferica è qualsiasi dispositivo hardware che fa parte di un sistema di
interazione con il computer con cui è collegata, e può svolgere funzione sia di ingresso (input), sia
di uscita (output).
Le periferiche di input, come tastiere, mouse, tavolette grafiche, web cam, touch screen,
data-glove, etc., consentono di immettere dati nel computer.
Le periferiche di output, come monitor, stampante, plotter, stampante 3D, etc., ricevono
dati dal computer per tradurli in immagini e comandi di stampa.
Le periferiche di input/output immettono dati e al contempo ricevono dati da rielaborare,
trasformandoli per particolari sessioni operative, dispositivi di questo tipo sono modem, schede
video, schede audio, schede di rete, etc.
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
Le periferiche inoltre possono essere locali (quelle interne al computer o connesse
direttamente ad esso) e remote (quelle connesse al computer attraverso una rete locale o via
internet).
Ogni periferica è correntemente collegata all’hardware del computer via cavo, via wireless
o via rete, ed è controllata attraverso un driver gestito dal sistema operativo.
Altre forme d'interattività sono quelle che contemplano un intervento in rete, in una
comunicazione a distanza, anche quando interveniamo sui social o consultiamo un motore di
ricerca.
Altra interattività è quella in rete, come nel nel dialogo con un chatbot
Sulla base di quest'ultimo aspetto, si può considerare il fatto di trattare di interattività in
relazione ad un'interfaccia antropomorfa, quando si stabilisce una relazione con avatar, figure
realizzate in simulazione 3D, o un’interfaccia che simuli una intelligenza umana come nel caso dei
bot (agenti intelligenti, “robot” informatici) come avviene nelle sempre più diffuse chat bot e nelle
relative conversazioni vocali.
Il web induce velocità per cui si è sempre più alla ricerca di risposte immediate e
personalizzate. L’usabilità di un sito web, si misura in termini di facilità e velocità della navigazione,
basata anche sul numero di azioni necessarie a soddisfare la ricerca d’informazione. Un sito che fa
fare troppi passaggi esprime una cattiva esperienza-utente, tanto più ora in cui la navigazione è
maggiormente effettuata tramite smartphone. Molti siti oggi, già in home page, in alto a destra o
nel footer (a piè di pagina), indicano i contatti immediati. Se si tratta di e-commerce l’obiettivo è
quello di raggiungere velocemente la transazione, sollecitando l’acquisto d’impulso. In questo
senso agire sulla user experience è fondamentale.
L’evoluzione della progettazione web si misura sempre più sul fatto di entrare direttamente
in contatto con l’utente per fornire informazioni veloci e personalizzate. In questa direzione si
muovono le interfacce conversazionali (come chatbot oppure gli assistenti vocali); sono bot
intelligenti che si basano sull’interazione scritta o orale e simulano il comportamento umano
tramite software
di
intelligenza
conversazione con gli utenti.
artificiale
capaci
di
processare
in
tempo
reale
una
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
2. La ipermedialità
La ipermedialità è l’articolazione dell’ipertesto con più media
Altra parola chiave è ipermedialità, intesa come articolazione dell’ipertesto con più media,
quella che sottende le forme non lineari del linguaggio e che sostiene il principio associativo sul
quale si basa la nostra memoria. Costruire artefatti cognitivi è il compito di chi esercita il linguaggio
utilizzando le diverse tecnologie a disposizione, dal libro al cinema e ora al multimedia e alla
telematica.
Nell’ambito informatico, con i software ipermediali, il linguaggio trova finalmente la sua
forma più espansa, simile alla complessità psichica della mente sollecitata continuamente da
libere associazioni e rimandi analogici, secondo l’azione combinatoria dei link e integrando la
dimensione alfabetica con quella audiovisiva. In questo senso, l'ipermedia si apre alla mutazione
delle sensibilità che, in un futuro sempre più digitale, riscopriranno il valore originario della
comunicazione totale e sinestesica.
La sinestesia, intesa infatti come compresenza di più linguaggi e di conseguenza di più
approcci percettivi, libera le potenzialità sensibili, le apre alla dinamicità dello sguardo e del senso.
L’idea del dispositivo ipermediale Memex (prevedeva anche l’uso di microfilm, non solo di
testi) elaborata nel 1945 da Vannevar Bush, uno dei pionieri dell'informatica, pose sul campo la
questione di come trattare la complessità dell’informazione con una trasmissione rapida e una
consultazione dinamica e combinatoria.
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
Il Memex
Bush si interrogava su come superare i tradizionali metodi di classificazione gerarchica,
alfabetica o ad albero dell'informazione per creare un sistema che fosse prossimo al
funzionamento della mente umana, la quale procede nella conoscenza attraverso libere e
ricombinatorie associazioni di idee.
Un motore ipermediale per gestire il rapporto tra nodi e collegamenti deve contemplare
l'information retrieval (recupero informazioni) che si basa su un'architettura complessa che
contempla psicologia cognitiva, mappe mentali, ontologia filosofica, design e informatica.
I sistemi multimediali operano attraverso i media-object da visualizzare sullo schermo
dell'utente con differenti procedure-software genericamente definite Text Editor per scrivere testi,
Scanner Editor per acquisire le immagini, Painting Program per disegnare, Animation Editor per
realizzare delle animazioni digitali.
Il codice ipermediale ci pone di fronte alla struttura dell'immagine digitale che è composta
da pixel, puntini disposti in una griglia rettangolare formata da righe e colonne. La scala dei colori
specifica il numero massimo di colori disponibili. Sono possibili le seguenti scale di colori: bianco e
nero (1 bit per pixel), 16 colori (4 bit per pixel), 256 colori (8 bit per pixel) e 16,7 milioni di colori
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
(colore originale, corrispondente a 24 bit per pixel). Il numero reale di colori che appare sul monitor
dipende dal tipo di hardware e di relativo driver.
Tra i metodi per memorizzare le immagini ci sono quello vettoriale (draw), file che contiene
le istruzioni per creare l’immagine stessa e quello raster (paint) che usa informazioni relative a ogni
pixel.
L'occhio umano quando vede un'immagine la imprime sulla retina dove viene mantenuta
per alcuni millisecondi prima di svanire. Ogni sistema video sfrutta questo principio per produrre
immagini in movimento basate su almeno 30 immagini al secondo.
Se ogni fotogramma digitale a colori si compone di 480 pixel per 640 pixel, visto che
occorre un byte per ciascun pixel, l'intero fotogramma richiede ben 307.200 byte per cui, alla
frequenza di 30 Hz, occorre processare 9,2 milioni di byte in un secondo. Per una durata media di
10 secondi di trasmissione l'occupazione di memoria sale a 92 milioni di byte. Se si aumentasse il
numero di bit per pixel per rendere migliore la definizione, la pesantezza del file aumenterebbe a
dismisura.
Per questo è decisiva la compressione dei dati per la trasmissione multimediale con
algoritmi adeguati. Tutti i sistemi di compressione richiedono due algoritmi: uno per comprimere i
dati alla fonte e uno per decomprimerli alla destinazione (codifica e decodifica).
Lo standard JPEG (Joint Photographic Experts Group) è lo standard multimediale per le
immagini fisse, mentre per quelle in movimento c’è MPEG (Motion Picture Experts Group) che
comprime sia immagini che suoni.
Per produrre un ipermedia occorre gestire un archivio di informazioni in un database, che
richiama i record testuali e audiovisivi con una meta-struttura predefinita, che non separa la
struttura dal contenuto dei documenti multimediali dell’archivio da altri link che puntano ad esso.
L'insieme di questi forma l'architettura ipermediale.
In rete i sistemi ipermediali supportano una particolare interfaccia utente che è definita
browser (Chrome ad esempio è il browser più diffuso). In ciascuna azione di browsing (navigazione)
un nodo è visualizzato sullo schermo dell'utente così come sono visualizzati altri link per passare ad
altri nodi di destinazione. Tutti i browser si basano sull’HTML (HyperText Markup Language)
il linguaggio di formattazione che permette di visualizzare le pagine web. Connessi in rete è
l'HTML che supporta le strutture ipermediali, con suoni, immagini fisse e in movimento
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
3. La connettività
La connettività comporta l’interrelazione con la rete
Altra, fondamentale, parola chiave è connettività, il valore che determina la condivisione
nell’interrelazione comunicativa: l'interconnessione tra la rete e noi.
Il principio basilare su cui si sviluppa la nostra intelligenza è quello, interno, della connettività
neuronale attraverso le sinapsi del nostro cervello. Il fatto che la rete telematica possa essere
concepita come un isomorfismo della mente ci sostiene nella considerazione di un'emergente
intelligenza connettiva.
Il prefisso “inter” fa intendere ciò che rende l’interconnessione diversa dalla connettività di
una volta, come quella telefonica, da punto a punto, nel web si tratta di una connettività che
coinvolge diverse parti contemporaneamente. L’interconnessione collega numerose entità
separate e le rende non solo in grado di unirsi tra loro in ecosistemi digitali, ma anche di connettersi
come un’unica unità con altri ecosistemi digitali.
Questa è la connettività da molti a molti del web, che in quest’era interconnessa, ci mette
in grado di connetterci istantaneamente e contemporaneamente su più dispositivi e accedere a
varie fonti d’informazione.
Il punto che ci interessa porre all’attenzione è quello della creatività connettiva, per
esprimere un'idea precisa di cultura dell'innovazione e, grazie al web, il miglior modo possibile per
condividere conoscenza.
Questo termine è mutuato dalla straordinaria intuizione di Derrick de Kerckhove che già nel
1996 coniò il concetto di intelligenza connettiva, rispondendo alle teorie di Pierre Lévy
sull'intelligenza collettiva basata sui principi ipertestuali.
Un buon modo per definire la creatività è quello suggerito dal matematico francese JulesHenri Poincaré:
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
"Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili"
Questo suggerimento è decisivo per capire il fenomeno del mash up nel web,
implementando diverse applicazioni, plugin e le tante risorse informative a disposizione in rete. È in
fondo qualcosa che ha a che fare con l’economia circolare per cui è sempre più importante
porre attenzione a ciò che c’è da riusare, materiale o immateriale che sia. Si tratta di una
creatività connettiva che rilancia il principio open source nel senso lato del termine, un concetto
che deriva dalle nuove frontiere del free software per espandersi alle nuove metodologie della
cosiddetta open innovation, che riguarda la necessità di cooperare, superando i modelli
competitivi per esaltare quelli della condivisione.
La questione della creatività, infatti, non riguarda solo l’espressione artistica dei linguaggi
ma la capacità di ambientarsi in nuovi contesti, come oggi è quello del web, il nuovo spazio
pubblico.
È importante pensare che la creatività connettiva possa inventare i modi per antropizzare
questo ambiente digitale: dall’esplorazione delle interfacce evolute (come quelle vocali) alla
progettazione di nuove relazioni che sollecitino la partecipazione, in un contesto popolato da
soggetti disposti a comunicare per reinventare società.
Il dato sostanziale è nel fare di tutta questa comunicazione interconnessa un possibile
modello produttivo innervato nello scambio sociale. È questa la potenzialità, tutta da interpretare,
per ciò che chiamiamo Società dell’informazione, perché venga usata e reinterpretata in termini
sostenibili.
Stiamo vivendo in un sistema in transizione che non ha più al centro la produzione
industriale e che sta ridefinendo l'idea stessa di informazione, non più solo strutturata da
professionisti e intellettuali ma direttamente associata a quella creatività sociale capace di fare
delle reti di comunicazione una infrastruttura funzionale all'auto-organizzazione delle comunità che
agiscono nei territori.
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Carlo Infante - Interattività, ipermedialità, connettività
Nella creatività connettiva c'è il principio attivo per liberare quell'innovazione che può fare
delle tecnologie della comunicazione la migliore forma politica e poetica per coniugare coesione
sociale e sviluppo possibile.
Tag
Interfacce
Interazione uomo-macchina
Chat bot
User experience
Interfacce conversazionali
Ipermedialità
Azione combinatoria
Connettività
Mash up
Open Source
Economia circolare
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Carlo Infante - Interfaccia come soglia
Indice
1.
L’INTERFACCIA È SIA LO STRUMENTO SIA LA SOGLIA DA ATTRAVERSARE PER MISURARSI CON LO
SCHERMO ................................................................................................................................................... 3
2.
LA RELAZIONE PERCETTIVA E COGNITIVA CON LO SCHERMO DEL COMPUTER ............................... 4
3.
INTERFACCIARE SIGNIFICA INTERCONNETTERE PIÙ SISTEMI .............................................................. 8
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 13
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Carlo Infante - Interfaccia come soglia
1. L’interfaccia è sia lo strumento sia la soglia da
attraversare per misurarsi con lo schermo
L'ambiente digitale può essere quindi contemplato, a tutti gli effetti, come un nuovo spaziotempo con cui interagire, inventando forme nuove di relazione (interaction design) che vanno
oltre l'ergonomia (dal greco érgon: lavoro, forza e nomos: regola, legge) dell'interazione uomomacchina, per affermare i gradi di libertà del corpo in azione attraverso le interfacce.
Il fatto che l'interfaccia grafica di uno schermo interattivo possa essere quindi concepita
come una soglia d'entrata in un ambiente digitale entro cui fare esperienza, è decisivo per aprire
un fronte di riflessione culturale sulla condizione basilare della Società dell'Informazione.
È vitale investire attenzione su questo, per non correre il rischio di ritrovarsi in un mondo
indotto, automatico e pervasivo. Sì, perché è strategico avere coscienza di come stabilire una
relazione con i sistemi digitali. Tanto più quando l'evoluzione progressiva, se non esponenziale,
dell'interaction design crea modalità sempre più fluide, a tal punto da non rendere chiaro l'input,
come con le interfacce vocali o sistemi come RFID (radio frequenze identificative, come quelle
che usiamo con il Telepass ai caselli autostradali o ai varchi nelle zone a traffico limitato). Quei
varchi che s'aprono al nostro passaggio sono un caso plateale di soglia attraversata da un sistema
di interazione digitale. E in alcuni casi quei passaggi coincidono con trasferimenti del nostro denaro
dai nostri conti correnti a quelli di società di servizi.
Stiamo trattando di una realtà che si sta evolvendo molto velocemente, dove le nuove
generazioni (e non solo loro) senza la formazione adeguata, rischiano di cliccare “a vanvera”, in
un automatismo psichico che non prevede raccordi psicologici, cognitivi ed emozionali. C’è
bisogno di consapevolezza quindi, siamo qui proprio per questo: per affrontare il rapporto tra
tecnologie e processi cognitivi, indagando quelle dinamiche che sottendono le nostre azioni
interattive.
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2. La relazione percettiva e cognitiva con lo schermo
del computer
Traslare, ad esempio, il concetto di ergonomia dal design d'interni all'interaction design,
teso a progettare il rapporto quotidiano che intercorre tra la nostra percezione, la nostra azione e
gli ambienti digitali, è strategico in tal senso.
Proviamo a fare un passo indietro, senza fare la storia dell'interfaccia, per cogliere anche il
valore simbolico di questo fattore.
Nell'arco dei millenni si è presa coscienza del mondo, in via direttamente proporzionale alle
tecnologie che hanno espanso le nostre possibilità per agirlo, osservandolo e attraversandolo.
Dall'invenzione della ruota e del cannocchiale, per andare più veloce e per vedere più
lontano, ai vettori aerospaziali e alla telepresenza, abbiamo acquisito soluzioni fisiche e
immaginarie che hanno riconfigurato il nostro rapporto con il mondo.
Per secoli ci siamo basati sull'interfaccia-libro: con uno sviluppo lineare del testo, da sinistra
a destra (almeno per noi occidentali, a differenza degli utenti di cultura araba che procedono
nella lettura da destra verso sinistra, per non parlare di cinesi e giapponesi che leggono in
verticale), dall'alto in basso, nell'ambito della cornice del libro tipografico.
È dall'invenzione della stampa a caratteri mobili di Johannes Gutenberg, nella seconda
metà del Quattrocento, che la nostra civiltà si commisura con lo strumento principale di diffusione
della conoscenza, il libro.
Ciò di fatto ha svolto una funzione educativa a tutti gli effetti, insegnandoci ad acquisire le
informazioni attraverso un codice che ha avuto bisogno di molti altri secoli, per relativizzare quello
più diffuso, l'oralità.
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Va detto che quella rivoluzione tipografica ha fortemente delimitato ciò che era stato per
almeno due millenni lo spazio comune della conoscenza basato sull'integrazione tra uso del corpo
e della parola.
Lo scambio orale delle informazioni, sviluppato nel modo più significativo nel contesto della
civiltà greca, liberava un potenziale di comunicazione innato nell'uomo, potremmo dire
filogenetico, innescato dal fatto di agire con il corpo i suoni emessi dalla voce, affinati
progressivamente secondo l'evoluzione culturale.
È importante riflettere su come il teatro, 2800 anni fa, abbia svolto una funzione decisiva
nella diffusione alfabetica, proprio grazie al fatto di far interagire il corpo con parole che non tutti
conoscevano. Il fatto stesso di vedere accadere qualcosa che sperimentava una nuova
tecnologia (l'alfabeto a suo tempo è stato questo, una psicotecnologia) ha attivato un
apprendimento per imitazione, grazie ai cosiddetti neuroni specchio (atti a riconoscere ed imitare
l’agire umano), sviluppando una coscienza alfabetica, aiutando a decodificare le nuove parole
grazie alla mimesi teatrale. Il gesto supportava la parola e la aiutava ad essere decodificata.
Questa prerogativa del teatro come palestra di apprendimento e ambientamento sociale,
ci può essere d'aiuto nel concepire la condivisione di un nuovo spazio-tempo, come quello
digitale. Un ambiente inconcepibile fino a pochi decenni fa.
Una delle domande cruciali da porsi a questo punto è: in che termini il corpo, e tutto
l'insieme delle interrelazioni umane e sociali, si può mettere in gioco nella dimensione digitale?
Chi pensa che venga solo sottratta fisicità non intende cogliere la sottile modificazione che
produce l'interazione con i sistemi digitali, a partire dall'estensione protesica del mouse:
quell'estensione, sia fisica che mentale (pensate solo al coordinamento mano-occhio), attraverso
cui si articola l'interazione con il computer.
Sì, è proprio accettando la complessità data dal modo di estendere le funzioni sensomotorie che si può comprendere il senso reale, sia fisiologico che cognitivo, dell'evoluzione umana
in relazione con i nuovi media.
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L’interfaccia grafica simbolica, con parole e icone che delineano funzioni
Oggi in relazione agli ambienti digitali, tutti i giorni abbiamo a che fare con un'interfaccia
utente che facilita l'interazione con computer e altri device in una modalità visuale caratterizzata
da rappresentazioni grafiche che possiamo definire icone.
Una volta, fino a quarant'anni fa, si utilizzavano esclusivamente i comandi a tastiera, con
righe di comando.
La cosiddetta Graphical User Interface si diffonde negli anni Ottanta, con i primi Macintosh
di Apple e con le consolle Atari, ma anche queste interfacce grafiche erano ancora
monocromatiche.
Negli attuali sistemi operativi l'interfaccia grafica si basa su una metafora semplice: il
desktop, ovvero la scrivania, quel piano di lavoro con icone inconfondibili come il cestino e le
cartelle che rimandano alla directory dei nostri file e le finestre che rimandano alle applicazioni.
L’interfaccia grafica immersiva, dove si ricrea un ambiente tridimensionale, in cui “entrare”
Nel momento in cui si misura con le realtà virtuali, l'interfaccia utente si presenta come
interfaccia immersiva, una soglia da attraversare per entrare in un ambiente virtuale dove gli
oggetti tridimensionali possono rivelarsi accessori (astratti ma funzionali al contempo) per agire e
navigare.
Si ha a che fare con un browser 3D che permette di esplorare scenari fatti di contenuti,
concepiti in modo attrattivo per interazioni intuitive. Decenni fa fu paradossale e affascinante
passare dallo sfogliare le pagine di un libro al navigare in un mondo popolato di oggetti
tridimensionali fluttuanti nello spazio.
WYSIWYG ciò che vedi è ciò che ottieni
C'è un motto che sta alla base di questa funzione dell'interfaccia: “What you see is what
you get”, ovvero “ciò che vedi è ciò che ottieni”. Un concetto che è passato alla storia con il suo
acronimo dissonante WYSIWYG. Un principio che permette di operare sugli schermi con facilità,
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come accade con gli editor testuali (Word è il più noto) agendo sulle icone dell’interfaccia,
vedendo in tempo reale sullo schermo il risultato delle azioni e dei comandi dati.
Le interfacce utente tendono quindi a semplificare l'approccio con i computer, ricreando
un contesto di relazione che esiste da sempre. Quando tutto era WYSIWYG. Ovvero: vedo un
bicchiere e so che posso ottenere dell’acqua, vedo una finestra e so che posso affacciarmi...
Se si scrive a mano su un foglio o se si butta quel foglio in un cestino o si prende dalla
biblioteca un libro, si agisce con ciò che si vede e si riconosce la funzione di quell’oggetto per
svolgere delle azioni.
Agli albori dell'informatica tutto si basava sulla compilazione di stringhe di codice, solo
dopo con l’introduzione delle interfacce si è attivato uno sviluppo concepito sul riconoscimento di
comandi predefiniti in forma di icone. La strada l'hanno aperta i word processor, i programmi di
scrittura che hanno maggiormente beneficiato di questa modalità di rappresentazione in tempo
reale della formattazione del testo, come i corpi dei caratteri, i corsivi, per avere una
visualizzazione del risultato finale prima ancora di andare in stampa.
Un salto di qualità è con gli editor di pagine web che fino ad una ventina di anni fa si
dovevano impostare con misteriose righe di codice, operando con l'Hypertext Markup Language
(HTML). Tutto ciò si è evoluto con una straordinaria velocità all'avvento del web 2.0, con la
proliferazione dei blog, che ha richiesto l’adozione di una interfaccia più semplice, che
nascondesse all’utente la complessità del codice, permettendogli di poter gestire le pagine web in
autonomia, per diventare editore di sé stesso, della propria scrittura soggettiva, come quella di un
diario.
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3. Interfacciare significa interconnettere più sistemi
Con la nascita di Internet e poi del web si sono interconnessi in rete tra loro una molteplicità
di computer: hardware attivati da particolari software di commutazione, collegati l'uno con l'altro
da link. Ciò ha permesso uno scambio tra più dispositivi dove i dati vengono trasmessi sotto forma
di pacchetti dati secondo una regolazione di precisi protocolli di rete. Ciò è Internet, la rete delle
reti, e da questo modello si è esteso in questi ultimi trent'anni un sistema che permette di creare
nuove connessioni possibili.
Sta andando in questa direzione la cosiddetta Internet delle Cose (Internet of Things - IoT).
In questa accezione si palesa l'estensione del modello internet ad un insieme di oggetti e sistemi da
far interagire tra loro. Un ambito in cui si sta concentrando la massima attenzione non solo dei
mercati ma di quel fenomeno che definiamo Innovazione Adattiva (una condizione abilitante che
contempla l'intelligenza connettiva degli utenti, sempre più affinati alla user experience). Questa
interconnessione tra più sistemi da parte degli utenti comporta una dinamica convergenza tra
sensoristica, automatizzazione di apparati specializzati ed elaborazione di informazioni per
ottimizzare il funzionamento degli apparati stessi. Questi sistemi destinati a co-operare riguardano
spesso la sicurezza e la manutenzione basati su servizi in cloud. Uno dei contesti di maggior sviluppo
è quello della smart home, la casa intelligente, dove l'interconnessione tra elettrodomestici, sistemi
di condizionamento, di videosorveglianza, etc, viene gestita da interfacce sia da personal
computer, tablet e smartphone, che con interazioni vocali.
Una soglia da attraversare anche con la voce
Apriti Sesamo! Questa formula magica, ripescata dal nostro immaginario collettivo, si rivela
come un presagio magico che si sta facendo realtà nella quotidianità delle nuove interfacce
vocali. Un comando vocale oggi può aprire effettivamente delle porte, proprio come nella fiaba di
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Interfaccia come soglia
Alì Babà e i quaranta ladroni serviva ad aprire l'ingresso di una caverna dove quaranta banditi
avevano nascosto il loro tesoro.
La comunicazione verbale tra uomo e macchina sta aprendo ad un mondo di inedite
interazioni che prospetta un tesoro di opportunità per un'infinità di applicazioni, come quelle che si
stanno
moltiplicando
nel
comparto
dell'automotive.
Questi
cosiddetti
agent
sono
straordinariamente utili proprio quando stiamo guidando e magari dobbiamo cercare su google
map una destinazione.
La nostra voce diviene mouse, clicca.
Un'interfaccia vocale mette in atto due processi: il riconoscimento vocale e la sintesi
vocale.
La prima concerne il fatto di comprendere la voce dell'utente, secondo il sistema ASR
(Automatic Speech Recognition), per cui il dispositivo è in grado di interpretare l'ascolto di un
comando vocale. Questi sistemi di riconoscimento vocale sono stati sviluppati, già negli anni
Settanta, da istituti di ricerca come il MIT (Massachussetts Institute of Technology). Queste
applicazioni riconoscono parole isolate o intere frasi formulate in modo semplice.
La seconda è la sintesi vocale basata sul sistema TTS (Text To Speech), per cui è possibile la
conversione di un testo scritto in una voce artificiale prodotta digitalmente. Tra gli agent più usati ci
sono Alexa, l'assistente vocale di Amazon, Cortana di Microsoft, Siri di Apple e l’assistente vocale di
Google.
In molte case oggi ci sono altoparlanti intelligenti da utilizzare in soggiorno, non solo per
ascoltare musica ma anche per controllare le luci e altri elettrodomestici.
La smart home diventa il luogo in cui l'intelligenza artificiale diventa un pervasivo cavallo di
troia capace di alimentare i big data con le nostre profilazioni di utenti interconnessi. L'importante
è saperlo.
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Carlo Infante - Interfaccia come soglia
Le interfacce conversazionali
Molti ricercatori ritengono che l’Intelligenza Artificiale conversazionale sarà una delle
applicazioni più utilizzate dagli utenti. Li chiamano chatbot perchè sono delle chat condotte da
robottini (in realtà programmi) informatici.
Un’interfaccia utente conversazionale permette di dialogare con il computer, o altri
dispositivi, in termini umani. È uno straordinario salto di paradigma rispetto all’uso delle interfacce su
cui si basavano procedure con i comandi digitati sulla tastiera o cliccando sulle icone.
L’interfaccia utente conversazionale è paradossalmente più “sociale”, decisamente più
amichevole, visto che con la voce si attiva il comando che genera feedback. Un altro mondo
rispetto alle applicazioni informatiche di una volta.
Ad esempio, prima dell’arrivo dei chatbot c’erano i call center in cui ci si trovava assistiti da
addetti che spesso avevano una griglia di istruzioni predefinite per rispondere alle richieste degli
utenti. In molti siti web oggi troviamo chatbot conversazionali che interagiscono proprio come
quegli addetti di call center che spesso stabilivano relazioni come dei robot preordinati.
Major digitali come Amazon, Apple, Microsoft e Google stanno usando sistematicamente
gli assistenti vocali, operando per renderli sempre più intelligenti. Rispondono al nostro saluto: Ciao
Cortana di Microsoft, Ok Google di Google, Hey Siri di Apple, Echo di Amazon. Gli possiamo
chiedere di prenotare dei tavoli al ristorante, o di farci ascoltare la musica giusta nel momento
giusto, mostrarci il trailer del film da condividere con gli amici e magari dirgli di aumentare il
riscaldamento se abbiamo interfacciato il sistema con la nostra smart home.
Sono intelligenti queste interfacce, ma di che intelligenza si tratta? Certamente è basata sul
riconoscimento delle parole, in una decodifica che va prima guidata, ma già oggi l’evoluzione di
questi sistemi intelligenti li ha portati a comprendere anche le intenzioni del linguaggio naturale
dietro le parole pronunciate. Si ha sempre più a che fare con una intelligenza artificiale capace di
combinare il thesaurus alfabetico installato con procedure di data mining (estrazione di dati),
apprendimento automatico e consapevolezza contestuale.
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Carlo Infante - Interfaccia come soglia
L’interazione si fa sempre più sottile, sempre più impalpabile, immateriale: la soglia di cui
parlavamo all’inizio, quando era tutto molto più netto, nel rapporto con i computer (noi di fronte
ad uno schermo) era in fondo come un’architettura. Tutto aveva una sua progettazione grafica
che dall’idea del desktop che evoca le nostre scrivanie con scaffali, cartelle e cestini si è poi
evoluta in interfacce più sofisticate che a volte, come in certi siti web, ti invitavano ad entrare in un
edificio con i propri stili.
Le esperienze del virtuale ci hanno poi fatto capire che quella soglia ci può aprire mondi
fantasmagorici con simulazioni tridimensionali e immersive che oggi non ci fanno più impressione
ma qualche decennio fa stordivano.
Oggi le interfacce vocali rendono possibile un'interazione ancora più semplice, immediata
e proprio per questo più pervasiva: è dappertutto, difficilmente distinguibile, la soglia è sempre più
sfumata. Quella facilità di utilizzo ci apre ad una complessità inedita che presuppone una nuova
coscienza di relazione.
È dopotutto una scommessa antropologica che vale la pena giocare, ricordando che
superare quella soglia d’entrata ci apre a mondi e modi diversi dall'ordinario.
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Carlo Infante - Interfaccia come soglia
Tag
Ergonomia
Interazione uomo-macchina
Gradi di libertà
Interfacce vocali
RFID
Interaction Design
Psicotecnologia
Neuroni specchio
Mimesi
Estensione Protesica
Funzioni senso-motorie
Interfaccia utente
Icone
Desktop
Realtà virtuali
Interfaccia Immersiva
Interazioni intuitive
WYSYWYG
Word processor
Rete delle reti
Internet of Things (IoT)
Innovazione adattiva
Intelligenza connettiva
User experience
Smart home
Comando vocale
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Carlo Infante - Ipermedialità combinatoria
Indice
1.
I PERCORSI DELLA MEMORIA NON POSSONO ESSERE SOLO LINEARI ............................................... 3
2.
L’OPPORTUNITÀ COMBINATORIA RIVELA LA POTENZIALITÀ DEL PROCESSO COGNITIVO ............... 7
3.
LE BARRIERE TRA TESTI, IMMAGINI E SUONI SI DISSOLVONO NELLA RICOMBINAZIONE .................. 9
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 11
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Carlo Infante - Ipermedialità combinatoria
1. I percorsi della memoria non possono essere solo
lineari
L'idea che misurarsi con la memoria sia come abitare uno spazio è decisiva per capire cosa
si possa intendere per ipermedialità combinatoria.
In uno spazio si agisce: le nostre percezioni, di conseguenza, devono essere dinamiche,
interconnesse, capaci di associare i processi cognitivi a quelli percettivi. In tal senso l'evoluzione
ipertestuale che permette di combinare tra loro diversi media (visivi, sonori oltre che alfabetici)
immette nello spazio interattivo ciò che fino a qualche decennio fa era solo inscritto in un ambito
lineare, basato sullo sviluppo logico-consequenziale inscritto nel tempo, la scrittura.
I percorsi della memoria ipermediale non più solo lineari e sequenziali ma combinatori,
organizzati in modo reticolare per associazioni continue.
Nei millenni le tecnologie (qualsiasi estensione fisica o cognitiva è tale, dalla clava al libro)
hanno assunto una funzione fondamentale nella nostra evoluzione. Le tecnologie sono inscritte nei
processi naturali di trasformazione per adattarci ai diversi ambienti.
Il “saper fare” va di pari passo al “far sapere” anche perché la trasmissione della
conoscenza sta alla base del nostro sistema evolutivo, condiviso da individui di una stessa specie,
quella umana.
L'aspetto più interessante è che gran parte dell'invenzione tecnologica è spesso frutto di
processi casuali per cui una volta trovata la soluzione ad un problema quella tecnica va ricordata:
assimilata, decodificata, stabilizzata e richiamata quando servirà di nuovo.
Immaginate per quanti secoli, dopo l'originaria trasmissione orale delle conoscenze, quanto
impegno è stato speso da moltitudini di trascrittori e di manipolatori nel vagliare conoscenze scritte.
Quanti tomi e libri sono stati scritti, prima con certosina abilità amanuense e poi stampati e poi
posizionati in monumentali biblioteche. E quanti film e quante trasmissioni radio-tv sono state
trasmesse nei broadcast.
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Carlo Infante - Ipermedialità combinatoria
Oggi l'insieme delle tecnologie di cui è costituito il nostro sistema sono un nostro patrimonio
culturale: una sorta di patrimonio genetico fatto non solo di proteine-contenuti ma anche di
enzimi-media per processarli, metabolizzarli.
La questione della memoria si inserisce in questo quadro, fatto da una pluralità di media,
sistemi di interpretazione e oggi diremmo di navigazione ipermediale, come nel web.
Cercando di individuare la base di questi processi, non possiamo non pensare all’antica
tradizione delle mnemotecniche e dell’ars combinatoria come l'approccio più interessante alla
questione.
Non basta misurarsi con una memoria narrativa o consequenziale tipica della scrittura e
ancor più della stampa tipografica.
È importante rendersi conto che l'evoluzione ipermediale sta rivalutando alcuni processi
cognitivi propri della retorica antica, riscoprendo il testo di Frances Yates su “L'arte della memoria”
e i filoni di ricerca inaugurati da studiosi come Aby Warburg.
Insomma, siamo di fronte a un nuovo modo di concepire la testualità: il testo non è solo una
texture di simboli alfabetici e significati, ma oggi si rivela con una nuova potenzialità, in un insieme
di processi elaborati in piattaforme ipermediali on line dove si ricombinano tra loro significati e
significanti, forme e contenuti.
Arti della memoria
Nel corso dell'evoluzione del linguaggio emergono delle competenze, come la Retorica,
che permettono un incremento artificiale (nel senso lato di artificio) della memoria per gestire
lunghe oratorie dal vivo.
Retori romani come Cicerone si aiutavano nei loro lunghe orazioni con diversi artifici per
organizzare il discorso, utilizzando tecniche come quella dei “loci”, oggi chiamata anche “Journey
Method” (metodo del viaggio) o tecnica della “Roman Room” che funziona come una
memorizzazione di informazioni associate alla visualizzazione di elementi presenti nei luoghi (una
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Carlo Infante - Ipermedialità combinatoria
statua, una sequenza di finestre, una fontana...). Da qui, ad esempio modi di dire come “In primo
luogo”.
La tecnica dei loci è una tecnica immaginativa conosciuta dagli antichi Greci e Romani e
descritta da Yates nel suo libro The Art of Memory e da Lurija.
Tramite questa tecnica il soggetto memorizza la struttura di un edificio, oppure la
distribuzione di negozi in una via o una qualsiasi zona geografica composta da un numero di loci.
Durante il tentativo di ricordare un numero di elementi il soggetto si fa strada tra i loci e associa ad
ogni elemento un locus, creando un'immagine che mette in relazione l'elemento e una
caratteristica precisa del corrispondente locus. Il recupero delle informazioni si ottiene
camminando tra i loci e permettendo a questi ultimi di attivare gli elementi desiderati.
(John O'Keefe e Lynn Nadel, The Hippocampus as a Cognitive Map)
Nel Rinascimento tutto si evolve e in particolare Giordano Bruno scrive diversi trattati
sull’arte della memoria, evolvendo, nei termini dell’artificio mnemonico, il concetto di genius loci.
L'arte della memoria, scrive Bruno, ci sostiene per “intendere, discorrere, aver memoria,
formare immagini attraverso le facoltà della fantasia, avere appetiti, e talvolta anche a sentire
come vogliamo”.
Nel 1550 Giulio Camillo Delminio descrive il suo Teatro della Memoria e il gesuita Matteo
Ricci nel 1596 insegnò ai cinesi la costruzione di Palazzi della Memoria (nonché l'uso delle mappe,
un know how che lo rese l'unico occidentale ad essere considerato Mandarino).
Il teatro di Camillo era una struttura costruita secondo il modello vitruviano del teatro,
suddiviso quindi in ordini e gradi in cui erano sistemati i vari luoghi del sapere. Anche se non venne
mai realizzato nella sua interezza, ne venne costruito un modello in legno – oggi diremmo un
prototipo - in scala ridotta ma grande a sufficienza da poterci entrare, costellato di figure dipinte e
pieno di scatole contenenti oggetti che richiamavano alla memoria luoghi, situazioni ed idee.
Il palazzo della memoria di Matteo Ricci era simile in tecnologia, e venne adattato alla
cultura cinese che grazie agli ideogrammi usati nella scrittura, era già permeata dell’equazione
immagine = idea.
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Carlo Infante - Ipermedialità combinatoria
Un ultimo riferimento alle matrici del pensiero combinatorio per la gestione della memoria
(processo cognitivo che è alla base delle procedure ipermediali, ripetiamolo) è quello a John
Wilkins, vescovo e letterato inglese che nel XVII secolo costruì un complesso sistema per una lingua
filosofica universale.
Wilkins procedette poi a creare una grammatica e una scrittura simbolica che univa le
suddette idee in strutture regolari ed ortogonali, che avrebbero dovuto aiutare la memorizzazione
della sua lingua.
Senza entrare in ulteriori dettagli, Wilkins prevedeva come un concetto potesse fare parte
di diversi contesti, e che essi fossero tutti collegati tramite le tabelle e la grammatica peculiari del
suo sistema.
Egli fu perciò un pioniere della classificazione flessibile e multipla del sapere, un antesignano
dell’ipertesto.
(Umberto Eco)
Imagines agentes
Se la natura è fondamento di ogni cosa, come afferma Giordano Bruno, è legittimo
pensare che qualsiasi arte sia un'espressione della natura.
Le mnemotecniche utilizzano l’innata proprietà del cervello di ricordare una molteplicità di
eventi e parole, tramite la trasformazione delle informazioni in immagini. Tra le più efficaci
mnemotecniche ci sono, oltre quelle dei “loci”, le “imagines agentes”: scenette che tramite un
collegamento di immagini che evocano delle azioni, facilitano la ricostruzione della memoria.
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Carlo Infante - Ipermedialità combinatoria
2. L’opportunità combinatoria rivela la potenzialità del
processo cognitivo
Oggi, nell’era di Internet possiamo comprendere pienamente l'importanza dell'opportunità
combinatoria delle informazioni. Secoli fa, in un tempo in cui la stragrande maggioranza della
popolazione non sapeva leggere, processi cognitivi come questi dell’arte della memoria venivano
comunque esercitati non solo dagli eruditi ma da chi riconosceva il valore simbolico insito nelle
immagini, come le allegorie rappresentate negli affreschi in migliaia di chiese cristiane.
Nella navigazione ipermediale la modalità di lettura è decisamente diversa da quella che si
adotta di fronte ad un libro. È ovvio, d'accordo. Ma riflettete su questo: le interpretazioni si
modulano in via direttamente proporzionale alle diverse intenzioni del lettore-navigatore
interattivo.
Le dinamiche di un ipertesto non vengono percepite semplicemente come pagine dal
lettore ma come dei nodi. Si tratta di entità dinamiche soggette a modificarsi durante la lettura e
ad assumere significati differenti a seconda del contesto in cui vengono lette.
La sequenza di lettura delle pagine non è fissata dall’autore ma viene determinata dal
lettore, di conseguenza il significato di quella pagina sarà diverso perché diverso è il contesto di
lettura.
L'ipermedia è di fatto un oggetto spaziale a differenza del testo letterario che è
fondamentalmente temporale. Si sincronizza sulla base degli input di navigazione resi dall'utente
che si muove nell'ambiente reticolare in cui si delineano percorsi potenziali, in una struttura che
sarà attualizzata solo dall’attività dell'utente stesso.
Nell'interrogarci su cosa riveli, come esperienza cognitiva, un ipermedia può essere utile
prendere in considerazione questo aspetto che deriva dalla cultura ebraica.
In quella cultura che è all’origine del pensiero occidentale c'è un grande riconoscimento
della opportunità combinatoria della parola, un valore che affonda le sue radici nelle antiche
pratiche ebraiche del Talmud, il "commentario" della Torah, la bibbia ebraica, pensato per mettere
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in discussione i dogmi. Sui rimandi tra la parola del libro sacro e quella ipermediale, cogliamo un
pensiero di Rosen, autore di “Il Talmud e Internet”.
Oggi stiamo varcando, libri e persone allo stesso modo, la soglia dell'era informatica e ci
troviamo in una nuova condizione di diaspora globale in cui siamo potenzialmente dappertutto,
però mai a casa. La scrittura, qualsiasi forma essa assuma, ha sempre dentro di sé un non so ché di
fantasmatico, smaterializzato, una certa assenza, e sarebbe ingiusto attribuire ai computer o a
Internet la colpa di aver accentuato questo aspetto che in fondo, purtroppo, è insito nelle parole.
[…] Il Talmud ha offerto ospitalità immaginaria a una cultura sradicata, e ha avuto origine dal
bisogno tipicamente ebraico di riporre la cultura nelle parole come se si trattasse di bagagli ed
errare in lungo e in largo per il mondo [...] divennero il popolo del libro poiché non avevano nessun
altro luogo in cui vivere. [...] In quale altra condizione più che nella diaspora si ha un disperato
bisogno di una home page?
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Carlo Infante - Ipermedialità combinatoria
3. Le barriere tra testi, immagini e suoni si dissolvono
nella ricombinazione
Abbiamo detto più volte che l'ipermedia ha più sviluppo spaziale che temporale rispetto ai
testi lineari pubblicati su un libro. Questo è infatti l’epicentro del ragionamento.
Nell'ambiente digitale i testi gestiti tramite link (che, ricordiamolo, significa collegamento)
creano quelle combinazioni non sequenziali che ne irradiano le potenzialità comunicative.
L’idea posta a fondamento di questo sistema, che è ormai condizione corrente anche se
spesso non se ne coglie consapevolmente l'opportunità evolutiva per il linguaggio, è che vengono
superate le barriere tra testi, immagini e suoni.
La fruizione di un ipermedia
è come un’esplorazione spaziale
dove l'orientamento è alla base della conoscenza
Il concetto di ipermedialità va oltre l'aspetto addizionale di media differenti, o comunque di
prodotti generati da diverse fonti, come suoni, video e testi.
S'innerva ai principi combinatori dell'ipertesto che si sviluppa per link e nodi concettuali. Il
salto di qualità è quando tutto questo, dagli anni Novanta, trova il suo spazio nel web.
L'innovazione digitale ha permesso in questo modo la nascita di un nuovo tipo di Estetica,
architetture cognitive e forme di design che stanno influenzando l'immaginario collettivo.
È importante riconoscere quanto la tecnologia ipermediale possa accelerare un processo
evolutivo basato sulla capacità di interpretare un mondo accelerato nella transizione da modelli
ormai obsoleti (come i sistemi industriali gerarchici e lineari, basati sullo sfruttamento di energie
fossili) ad altri ancora indeterminati e ricchi di opportunità ancora da vagliare. È verso questo
scenario indeterminato che è opportuno intraprendere un training formativo evoluto per capire
per tempo come coniugare tecnologie e processi cognitivi.
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Carlo Infante - Ipermedialità combinatoria
Si prospetta una nuova frontiera del Sapere e il primo passo tocca a noi, alla nostra
capacità di apprendere in modo dinamico, non sequenziale, ricombinatorio, coraggioso.
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Memoria
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Carlo Infante - Intelligenza connettiva
Indice
1.
IL GIOCO ESPONENZIALE DEL RAPPORTO TRA INFORMAZIONI E RELAZIONI ................................... 3
2.
L’IPERTINENZA..................................................................................................................................... 5
3.
L’INTELLIGENZA CONNETTIVA MOLTIPLICA L’INTELLIGENZA COLLETTIVA ADDIZIONA ..................... 9
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 15
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Carlo Infante - Intelligenza connettiva
1. Il gioco esponenziale del rapporto tra informazioni e
relazioni
Nel 1996 a Firenze, nell’ambito di Mediartech, una delle prime manifestazioni realizzate in
Italia sul rapporto tra tecnologie e beni culturali, si realizzò il primo workshop di intelligenza
connettiva in Italia, uno dei primi al mondo. In questo progetto furono coinvolti autori multimediali,
studenti e docenti delle diverse università toscane e del McLuhan Program di Toronto di cui de
Kerckhove era direttore. Questo metodo prevedeva un’articolazione per gruppi di lavoro e la
configurazione di due ruoli emblematici: gli “shaker” che dovevano dinamizzare e motivare i
gruppi e i “mover” che dovevano ascoltare le idee emerse nei vari tavoli e riportarle, connettendo
i processi di elaborazione tra loro. È su questo principio di condivisione che si evolve l’idea di
intelligenza connettiva di de Kerckhove che a differenza delle teorie di Pierre Lévy sull’intelligenza
collettiva, esalta la dimensione combinatoria ed esponenziale del rapporto tra informazioni e
relazioni.
L’aspetto teorico di de Kerckhove è inscritto in quello procedurale: è nella qualità del
rapporto, nello scambio di informazioni e connessioni logiche, che l’intelligenza connettiva si
compie, come nel meccanismo della commutazione a pacchetto (packet switching) propria di
internet che permette di trasferire dati frammentati ma concatenati in un sistema di pertinenze.
La commutazione a pacchetto di internet e la concatenazione delle pertinenze cognitive
In quel contesto informatico le pertinenze riguardano i dati richiesti al server per associare il
pacchetto dati in uscita verso il nodo successivo. Nel contesto di quel laboratorio di intelligenza
connettiva, che oggi potremmo definire di design thinking, si svolgeva una sorta di staffetta delle
informazioni concatenate tra loro.
Impacchettare e spacchettare le idee era infatti una delle modalità di brainstorming,
inizialmente aggregarle tra di loro in relazione a pertinenze tematiche o geografiche e poi
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spacchettarle, cogliendo gli aspetti modulari di alcune progettualità, perché potessero essere
condivise e modellizzate in più contesti diversi. In vista della definizione ultima di alcuni obiettivi
progettuali, si cercava di nuovo di riaggregare le proposte sulla base della fattibilità, orientandosi
verso le attese e le committenze potenziali concentrate sull'applicazione di tecnologie ai beni
culturali e le nuove forme di apprendimento multimediale.
Un processo tecnologico si traduce in processo psicologico
Derrick de Kerckhove, partendo da una sua intuizione sulle psicotecnologie, frutto
dell’esperienza condivisa con Marshall McLuhan di cui era stato uno dei più stretti collaboratori,
mette in gioco un’energia creativa che rivela come i processi cognitivi possano modellare le
tecnologie in modo funzionale alle applicazioni di nuova strategia culturale ed educativa.
La connessione propria del web induce una dinamica di scambio serrato di informazioni e
relazioni tese ad evolversi nell’interattività che presuppone feedback, interazioni con ambienti
digitali in cui operare e nell’ipertestualità che espande il sistema informativo su struttura non
lineare, proprio come funziona il nostro cervello.
Emergono nuove opportunità di scambio tra soggetti nomadi che esprimono conoscenze
non più delimitate dai contesti accademici. Un nuovo modo di vedere le cose che deriva dalla
moltiplicazione di singole esperienze individuali che inverano nuove intelligenze.
Intelligenze che trovano la loro essenza nella reciprocità che arricchisce le relazioni.
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2. L’ipertinenza
Nell’intelligenza connettiva emerge il fattore dell’ipertinenza, un termine che nasce da un
gioco di parole, per cui la pertinenza riguarda la reciprocità del senso logico combinato con il
principio ipertestuale. Ciò sottende l’esercizio non lineare dell’informazione. Si tratta di una
capacità concettuale che associa il principio di pertinenza alle combinazioni generative di chi
opera in modo creativo nell’ecosistema dell’informazione.
In questo senso de Kerckhove apre una finestra sul concetto di ipertinenza:
Le cose scritte in un blog non vanno fuori così genericamente verso tutto il mondo, come
nell'informazione tradizionale.
Hanno invece una possibilità di connessione pertinente con le persone che hanno per esse
un interesse specifico.
Tutto il Web ora va verso l'ipertinenza.
Nella rete le menti connesse possono trovare opportunità di scambio che altrimenti è assai
difficile ottenere; non è solo un dato quantitativo ma qualitativo. Fenomeni come il blogging sono
stati indicativi di una tensione culturale basata sulla soggettività interconnessa che ora si sta
consolidando con un’espansione esponenziale.
Il social tagging, evidenziare la pertinenza con parole chiave-tag
L’esplosione del social tagging, negli anni Novanta, sull’onda del fenomeno dei blog
(quando ancora non erano arrivati i social network) aprì straordinarie potenzialità per la
condivisione sociale delle risorse, informazioni e conoscenze.
La diffusione del tagging dette forma al fenomeno della partecipazione diretta
all’elaborazione dell’informazione on line, operando sull’evidenza della pertinenza per parole
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chiave. Ciò rivelò la necessità di prospettare nuove e più compiute espressioni sociali dell’uso del
web. La possibilità per gli utenti di definire il senso condiviso, insita nel social tagging, impone il
riconoscimento dell’esistenza di sistemi di conoscenze diversificati e plurali a partire dal
superamento di un sistema di conoscenza eterodiretto ed imposto, proprio dei mass media che
palesavano un sistema di società ormai reso obsoleto dall’avvento dei personal media.
L'attività di tagging (dall'inglese tag inteso come contrassegno o etichetta) consiste
nell'attribuzione di una o più parole chiave, dette tag, che individuano l'argomento di cui si sta
trattando, in documenti, o meglio in file che orbitano in internet, che ricordiamo è l’ipertesto più
esteso del mondo.
È una procedura che riguarda tutti siti web per catalogarli, associare informazioni correlate
e, fondamentalmente, farli indicizzare correttamente dai motori di ricerca. Gran parte delle
piattaforme per gestire blog (Wordpress tra tutte) supportano queste procedure ormai standard,
attivando tag, per cui la gestione dei contenuti e strettamente connessa alla memorizzazione delle
parole chiave.
Questa interconnessione delle conoscenze, più forte e più ricca del solo confronto, è la
chiave per interpretare ed affrontare le sfide che la nuova società delle conoscenze impone.
Sfide rivolte alla capacità di mettere in rete tra loro i diversi sistemi di conoscenza, sia quelli
istituzionali (dalle università ai vari enti di ricerca) sia quelli d’impresa, sia quelli giornalistici sia quelli
disseminati nella rete, per costruire capacità e competenze socialmente condivise fondamentali
alla competizione globale.
L’intelligenza connettiva che possiamo intravedere nelle dinamiche in atto, necessita di
legami e interconnessioni tra le diverse tipologie di oggetti di conoscenza e tra i diversi portatori di
conoscenza, che non si esauriscono con il tagging e che non possono essere affidate alle sole
analisi statistiche di occorrenza.
C’è bisogno di connettere i diversi sistemi di conoscenza attraverso legami specifici e
contestualizzati tra le diverse risorse, non solo all’interno della stessa tipologia (come accade per le
immagini su Flickr, o per i video su YouTube o le georeferenziazioni sui geoblog) ma attraverso un
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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ulteriore approccio reticolare che interconnette le varie risorse tra loro, spaziando dai libri agli
oggetti e ai luoghi, transitando per immagini, materiale grigio, e tutte le altre forme di espressione.
C’è bisogno di creare le condizioni perché gli utenti contestualizzino e arricchiscano l’intero
patrimonio dei loro oggetti di conoscenza non solo con commenti, ma con, analisi, contributi
critici, vere e proprie forme di espressione ed organizzazione del loro pensiero, reso i-pertinente
rispetto al loro stesso patrimonio, ma anche rispetto al patrimonio di altri.
C’è bisogno di connettere pensiero reticolare, per proteggere il social tagging dal pericolo
cumulativo e dispersivo ed evidenziare i legami e le connessioni, che costituiscono le componenti
fondanti delle nuove forme di pensiero.
È importante sottolineare che l’intelligenza connettiva in azione nel social tagging
caratterizza con il valore aggiunto dell’ipertinenza le connessioni tematiche, coniugando le
dinamiche del tagging con i “legami ponte”, che costituiscono la palestra dove esercitare la
pluralità dei sistemi di conoscenza da mettere a disposizione degli altri.
La mutazione dei linguaggi e il potenziale creativo della soggettività interconnessa
Un’ulteriore considerazione sull’intelligenza connettiva riguarda il fatto che rispetto alla
struttura collettiva, quella connettiva tende ad andare oltre le appartenenze, la cooperazione
tende così ad affrancarsi dalle logiche identitarie che spesso delimitano le attività di gruppo.
In questo approccio con le informazioni, gestito, direttamente ed emozionalmente, dai
cittadini-attori degli eventi pubblici, si delinea un modello di società emancipata in cui possono
proiettarsi le nuove generazioni. Cittadini, ora giovanissimi, disposti a sperimentare in modo ludico
lo scambio sociale basato sull'interconnessione delle informazioni e delle sensibilità, per uno
sviluppo dell'intelligenza connettiva.
La questione cruciale non riguarda, quindi, solo la mutazione dei linguaggi (decenni di
multidisciplinarietà ci hanno predisposto a ciò) ma anche l’ambientazione in un nuovo contesto,
come quello espresso da Internet in cui non solo si legge, si agisce. Un nuovo ambiente da
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antropizzare:
dall’esplorazione
alla
progettazione
di
nuove
relazioni
per
giungere
alla
partecipazione in un contesto popolato da soggetti disposti a comunicare.
In questo senso l’aspetto cardine è nella personalizzazione dell’approccio con la Rete
mediata da personal computer, una condizione esplicitata da quando esiste l’interattività digitale
ma che solo negli ultimi anni sta liberando il potenziale creativo più importante, la soggettività,
certo, ma interconnessa.
Si stanno insomma delineando fattori che caratterizzano una nuova espressione culturale
diffusa negli ambiti sociali. Questa sta dando forma e sostanza ai modi della comunicazione,
riscattandoli da un sistema degradato dalla bulimia delle immagini televisive auto-referenziali,
rilanciando il valore del “comunicare con”, rispetto a quel “comunicare a”, cui ci ha viziati il
sistema dei mass-media.
Si può così iniziare a parlare di creatività connettiva: un’evoluzione psicologica e cognitiva
che, attraverso la Rete, crea condizioni inedite di scambio sociale che vanno anche oltre lo stesso
principio “collettivo” sul quale anni fa si erano fondate molte utopie di nuova socialità creativa.
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3. L’intelligenza connettiva moltiplica l’intelligenza
collettiva addiziona
Intelligenza collettiva è il concetto coniato da Pierre Lévy, nel 1994, con l’omonimo libro, in
cui descrive il nuovo paradigma secondo cui le tecnologie digitali aprono spazi antropologici
inediti, nell’attuazione di un’intelligenza capace di sviluppare una democrazia della rete.
Si tratta di un nuovo concetto di intelligenza:
un’intelligenza distribuita ovunque,
continuamente valorizzata,
coordinata in tempo reale,
che porta ad una mobilitazione effettiva delle competenze
L’intelligenza distribuita è ovunque, per cui la totalità del sapere risiede nell’umanità,
giacché nessuno sa tutto, ognuno di noi sa qualcosa, e il sapere non è nient’altro che l’insieme di
ciò che si sa.
Il punto cardine è nel principio dell’intelligenza “continuamente valorizzata”, condizione
resa possibile da una ricchezza umana che mette in relazione le diverse peculiarità dell’intelligenza
delle persone. Il coordinamento “in tempo reale” fa intendere una mobilitazione effettiva delle
competenze, resa abilitante dalle nuove tecnologie digitali dell’informazione, che permettono alle
comunità di coordinare le loro conoscenze in relazione diretta con le esperienze che conducono
sul campo della loro ricerca. In questa prospettiva si delinea un universo dinamico dove pensieri,
azioni e persone attivano contesti condivisi.
Mobilitare le competenze comporta una tensione sociale capace di riconoscere
l'espressione dell'intelligenza nella sua diversità. Valorizzare le intelligenze in base ai saperi
diversificati permette di sviluppare sensibilità cooperative in progetti collettivi. Il web in questo
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scenario può diventare “lo spazio mutevole delle interazioni tra le diverse competenze dei collettivi
intelligenti de-territorializzati”.
Questo pensiero tecno-filosofico di Lévy è nel ritenere la tecnologia capace di agire in
maniera positiva sulle comunità, in quanto gruppi di persone che sperimentano “collettivamente
forme di comunicazione alternative”.
La cybercultura, la nuova frontiera glocal
Si prospetta una cybercultura che “designa l’insieme delle tecniche (materiali e
intellettuali), delle pratiche, delle attitudini, delle modalità di pensiero e dei valori che si sviluppano
in concomitanza con la crescita del cyberspazio”
La cybercultura, a differenza di quanto è accaduto con i mass media, espressione della
cultura di massa trasmessa dalla televisione, configurando modelli omologanti, crea scambi
multidisciplinari, che presuppongono scelte libere. Da qui la possibile democratizzazione della
struttura della rete, dove “tutto è centro e tutto è periferia”, come suggerisce Tomas Maldonado.
Si va quindi oltre l’idea di culture locali estese globalmente, bensì culture globali inscritte
nelle particolarità locali, indipendenti nell’agire nello spazio glocal della rete.
Il confronto tra Lévy e Derrick de Kerckhove ha portato a un'evoluzione del concetto di
intelligenza collettiva verso quello di intelligenza connettiva. Un progetto ideale prossimo alla teoria
dello sciame intelligente, per cui la serrata reciprocità delle azioni umane in rete esprime
informazione e auto-organizzazione, proprio come accade in natura per gli sciami delle api o gli
stormi degli uccelli.
La rivoluzione tecnologica con il networking e la messa in relazione delle intelligenze, trova il
suo valore fondamentale nel rapporto di scambio, inscritto nel “qui ed ora” degli effetti psicologici
e cognitivi prodotti dall'interazione stessa.
Più una moltiplicazione di intelligenze plurali, connettive, piuttosto che un’addizione, propria
della dimensione dell’intelligenza connettiva.
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L’intelligenza collettiva è l’azione del pensare della moltitudine mentre l’intelligenza
connettiva è più dinamica, nomade e interconnessa, più aperta.
L’intelligenza connettiva è swarm intelligence
L’intelligenza connettiva è quindi strettamente connessa alla teoria dello sciame intelligente
(swarm intelligence) per cui la serrata reciprocità delle azioni produce informazione e autoorganizzazione, come accade per gli sciami delle api o gli stormi degli uccelli.
L’intelligenza connettiva espressa nel web ha qualcosa di simile all'intelligenza naturale
delle api, e non è solo una metafora.
La dimensione biologica ispira l'evoluzione delle reti e la invita ad osservare gli sciami delle
api e in particolare la “danza delle api” (modalità che le api esploratrici adottano nell’alveare per
istruire le bottinatrici su dove trovare il miglior polline) per capire come vasti insiemi di individui
danno luogo a meccanismi di cooperazione.
Uno degli aspetti interessanti che accomuna le api e le nuove dinamiche di relazione nel
web è nel fatto di coordinare attività complesse senza alcun coordinatore, in un'energia sociale
spontanea, contagiante. C’è una particolare intuizione del biologo francese Pierre-Paul Grassé ad
aiutarci in questa considerazione. È una teoria secondo cui un comportamento attivo induce
ulteriori atti, condividendo, modificando l'ambiente attraverso procedure che contagiano,
producendo una comunicazione performativa. Il concetto che ha coniato è stigmergia per cui si
afferma che lo stimolo al lavoro è la vera essenza del lavoro stesso. Il termine deriva da stigma:
marchio, impronta,ciò che distingue e che discrimina, ma anche sprone, pungolo, e si combina
con ergon, opera, lavoro: indica l’essere in atto, il principio attivo di un'azione, così come il tagliare
è l’ergon delle forbici o il combattere l’ergon di un guerriero o l'apprendere l'ergon di uno
studente.
È da questo approccio bioispirato dall’osservazione degli sciami, che ha trovato sviluppo
l'ambito di ricerca informatica definito swarm intelligence (l'intelligenza dello sciame), analizzando i
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vasti insiemi destrutturati di individui che riescono a portare a termine degli obiettivi sfruttando
meccanismi di cooperazione.
La struttura degli sciami rappresenta una straordinaria “parallelizzazione” che ottimizza tutti
gli individui della colonia sincronicamente: è su questo stesso processo che si basa la procedura in
parallelo dei sistemi informatici che utilizzano contemporaneamente tutte le unità di calcolo dei
processori disponibili.
Questo processo è così attivato da un comportamento virtuoso che induce ulteriori atti,
condividendo, modificando l'ambiente attraverso la comunicazione. È da questa considerazione
che la danza delle api può esprimere un modello biologico della intelligenza connettiva espressa
dalle reti, condizione che oggi si espande sia attraverso il web 2.0 sia con le smart grid, le reti
intelligenti che rilanciano il principio informatico degli assetti paralleli, come quelle che vengono
oggi utilizzate per l'ottimizzazione della distribuzione d'energia elettrica.
Un aspetto importante da rilevare sul rapporto tra intelligenza connettiva e lo sciame
intelligente riguarda il fatto che le conoscenze non si sommano, si moltiplicano o perlomeno sono
ben più ricche della semplice somma delle parti. Gli stessi errori all’interno di una comunità che
opera su questi principi connettivi vengono corretti immediatamente da processi come la peer
review, quella revisione paritaria in cui ogni membro è stimolato a partecipare senza timori e con
ciò che sa, con un risultato finale che può raggiungere livelli molto significativi, come la poliedricità
delle interpretazioni.
Il crowdsourcing, la vox populi
L’aspetto più interessante riguarda la qualità possibile di una comunicazione che si evolve
nella misura in cui l'energia connettiva riesce a raggiungere un andamento di conversazione che
può rasentare l'empatia e la solidarietà. Il termine più appropriato per questa conversazione on line
è crowdsourcing, una parola che sottende il rilancio dell'idea di vox populi che conosciamo anche
come passaparola.
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La parola combina il termine crowd (gente comune) e quello di outsourcing, quella pratica
per cui si tende ad esternalizzare alcune attività. Quali attività? Quelle della comunicazione che si
potrebbe definire, correntemente, pubblicitaria ma che rivela tutt'altra potenzialità: quella
partecipativa. E si scopre che il vero senso del comunicare è nel comunicare “con” piuttosto che
nel comunicare “a”. È nel valore connettivo, di scambio se non di contagio che si sviluppa il
grande gioco della comunicazione, dal passaparola al web.
Non è un caso che tale processo abbia dato luogo al cosiddetto buzz marketing. La parola
buzz è onomatopeica e richiama il ronzio delle api e la loro capacità di diffondere informazione. Il
buzz marketing tende quindi a esprimere uno "sciame" informativo che rilancia opinioni, scelte,
orientamenti che il mondo del marketing più avvertito sta imparando a intercettare. Una
condizione aperta a nuove potenzialità d'interazione tra società e mercati, non solo per vendere
prodotti ma per qualificare il rapporto con i consumatori più consapevoli.
L'intelligenza connettiva ha presagito le potenzialità dei social network, un fenomeno in
assoluta espansione che si basa sulla simultaneità di relazioni possibili tra l'individuo e la pluralità di
tanti altri soggetti e comunità. Da qui si può sviluppare quel trasferimento esponenziale di
conoscenze e buone pratiche che rivoluziona anche il paradigma dell'apprendimento, per
liberare quelle energie sociali che le comunità degli studenti conoscono da sempre: è l'elemento
esterno del gruppo che porta nuovo stile, nuova informazione. Ciò rompe gli equilibri ma li
riposiziona su un piano più ampio e articolato, secondo ciò che Silvano Tagliagambe definisce la
multiappartenenza per intendere quella connessione partecipativa che favorisce le possibilità di
scambio.
Il dato emblematico da rilevare, infine, è nel fatto che il web può riuscire a dare valore alle
istanze naturali del comunicare, rilanciando l'aspetto sociale dell'interagire umano. Ciò non è
scontato. È possibile se attiviamo sensibilità e metodologie prossime a ciò che abbiamo definito
intelligenza connettiva, interpretando l’evoluzione in corso attraverso l'interconnessione digitale:
un’opportunità da giocare in prima persona, recuperando quell’energia sociale che il sistema dei
mass media aveva indebolito.
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Tag
Intelligenza connettiva
Intelligenza collettiva
Design thinking
Ipertinenza
Blogging
Social tagging
Geoblog
Mutazione dei linguaggi
Cybercultura
Swarm intelligence
Stigmergia
Smart grid
Crowdsourcing
Buzz marketing
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Indice
1.
IL FLUSSO DI CONTENUTI E FORME SU PIÙ PIATTAFORME .................................................................. 3
2.
REMEDIATION. COMPETIZIONE E INTEGRAZIONE TRA MEDIA ........................................................... 5
3.
LA COLLISIONE DELLA CULTURA DELLA CONVERGENZA .................................................................. 8
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 12
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1. Il flusso di contenuti e forme su più piattaforme
Nicholas Negroponte è stato il primo a parlare di convergenza dei media prevedendo che
la tecnologia digitale avrebbe creato interfacce che avrebbero personalizzato in modo
automatico le informazioni funzionali alle interrogazioni dell’utente.
Nel suo libro “Essere digitali” (1990) Negroponte definiva una distinzione tra “i vecchi media
passivi” e “i nuovi media interattivi”, ipotizzando il fatto che si sarebbero contraddistinti nell’arco
del tempo in modo netto. Si era agli albori dell’effettiva convergenza dei media ma già
immaginava che attraverso interfacce in cui convergono più servizi di informazione, dall’ecommerce ai servizi bancari, dall'entertainment ai servizi educativi, si sarebbe creata una
emancipazione da consumatori a utenti dei sistemi informativi.
Questa convergenza dei media determina una condizione di radicale trasformazione del
flusso dei contenuti, acquisendo forme diverse secondo le piattaforme su cui vengono diffusi.
L’ambito educativo fu individuato come uno dei campi su cui investire, per cui il MIT
(Massachusetts Institute of Technology) Media Lab, di cui era direttore, partecipò alla realizzazione
di un progetto emblematico, il One Laptop Per Child (la cui sigla è OLPC) per realizzare un
computer che non costasse più di 100 dollari, per metterlo a disposizione dei bambini dei Paesi in
via di sviluppo. Il progetto fu presentato al Forum Economico Mondiale di Davos nel 2005. Questi
laptop si basavano su programmi open source, processori low-cost e modem (fondamentale per
usare la rete come piattaforma remota per software) e potevano essere alimentati con una
batteria interna ricaricabile con una manovella.
Nicholas Negroponte aveva delineato cinque leggi che regolano la convergenza: tutte le
informazioni possono essere convertite in forma digitale; la multimedialità elimina la distinzione fra i
mezzi di comunicazione; la natura stessa della convergenza rende obsoleta in partenza
l’imposizione di qualsiasi regola artificiale; la convergenza ha le sue proprie regole naturali; la
convergenza è indipendente dai confini dello Stato.
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Rileggendo queste regole colpisce questo riferimento alla natura, sembra paradossale in un
contesto digitale che esprime il massimo grado dell’artificialità. È interessante rilevare questa sua
attenzione ai processi naturali della conoscenza: nella convergenza dei media si attua ciò che è
già inscritto nella nostra percezione e che i modelli editoriali avevano separato, come nel caso
della stampa e della televisione, solo per citare i due casi più evidenti. Altro aspetto emblematico
è l’affermazione per cui la “convergenza è indipendente dai confini dello Stato”, aveva ben
capito come l’espansione mediatica on line non avrebbe riconosciuto più nessun confine.
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2. Remediation. Competizione e integrazione tra media
La remediation (rimediazione) è un concetto coniato da Jay David Bolter e Richard Grusin
nel 1999, per intendere come un nuovo medium, utilizzando alcune proprietà di media precedenti,
le reinventi.
In "Remediation: Understanding New Media", Bolter e Grusin hanno affrontato in anticipo la
convergenza dei media che si stava prospettando come un processo ineluttabile dei nuovi media
digitali che interagiscono in un continuo processo di integrazione, facendo sì che un medium sia in
realtà un ibrido di diversi elementi.
La rimediazione digitale nasce da una intuizione di Marshall McLuhan:
il contenuto di un medium
è sempre un altro medium
Le strategie crossmediali scandiscono un'evoluzione continua del circuito di input-output
delle informazioni
La questione della convergenza dei media ha un suo percorso stratificato, già i personal
computer avevano implementato videogiochi e i video in generale con i CD-ROM (Compact Disc
- Read-Only Memory) formato che aveva soppiantato altri lettori multimediali come il CD-i
(Compact Disc Interattivo) e il CDTV della Commodore.
È dagli anni Novanta che si esplicita il fatto che tutti i media avrebbero potuto convergere.
La connessione web attraverso i personal computer avvia le prime forme di televisione interattiva.
Ed oggi la pratica del multitasking (multiprocessualità) è una condizione corrente, nella
convergenza esponenziale che Internet permette.
I mercati generati dalla rivoluzione digitale si basavano su quattro settori fondamentali:
l’informatica, il comparto delle telecomunicazioni, il settore dei contenuti (o dei contents) e quello
consumer, l’insieme degli apparati domestici più prossimi alla popolazione.
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La convergenza si è sviluppata su queste 4 C: computer, communication, content,
consumer. È quest’ultima componente, i consumatori-utenti, a fare la differenza: in questo nuovo
assetto del sistema delle comunicazioni le strategie crossmediali scandiscono un'evoluzione
continua del circuito di input-output delle informazioni. È l'output attraverso i sistemi interattivi che
definisce il salto di qualità.
L'integrazione delle informazioni su modello IP (Internet protocol) crea convergenza tra reti
fisse e mobili
Il mondo delle tecnologie digitali sta accelerando la sua evoluzione con l’introduzione della
mobilità, introdotta dallo smartphone, che sta conformando nuove tipologie di servizi ad alto
valore aggiunto. Le specializzazioni per servizio (rete telefonica, rete dati, rete televisiva, streaming
on demand musicale...), in questa convergenza mediale si stanno riconfigurando su nuove
piattaforme multiservizi con trattamenti integrati basati sul modello IP (Internet Protocol).
In questi ultimi decenni si è così creato un mercato di dimensioni gigantesche, il più vasto
dopo quello dell’energia. Gli smartphone oggi catalizzano funzioni che prima appartenevano a
diversi dispositivi, integrando in un unico oggetto capacità di registrazione e riproduzione di foto e
video, telefono cellulare (con connettività wi-fi e bluetooth) e molte delle proprietà di un laptop.
Si è parlato di web integrated disruptive technology ovvero una tecnologia che sta
creando un tale andamento esponenziale di applicazioni integrate al web che in poco tempo ha
creato mercati inediti, spiazzando molti degli assetti predeterminati, con un effetto dirompente,
disruptive appunto.
Gli smartphone dominano gli scenari della comunicazione, si connettono ai social network,
al GPS satellitare, a soluzioni di telefonia VoIP (Voice over Internet protocol), oltre a tutto quello che
avevano fatto per tanto tempo: telefonare, fotografare, spedire messaggi.
Questi dispositivi stanno di fatto diventando anche nodi di rete, ossia terminali collegati a
internet tramite un indirizzo (IP address). Questa molteplicità di connessioni riguarda anche
particolari soluzioni di interaction design come la RFID (Radio Frequency Identification) dei
microcontroller usati, tra le tante altre funzioni possibili, per transitare nei varchi, come quelli
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autostradali, pagando automaticamente il pedaggio. Tutto in un dispositivo che fino a due
decenni fa serviva solo per telefonare e poco altro. Nello smartphone la convergenza dei media
ha raggiunto la sua apoteosi.
In questo contesto è strategico lo sviluppo dell’Internet delle Cose (Internet of Things) dove
le interconnessioni riguardano cose come gli elettrodomestici o interi edifici nei nuovi scenari della
domotica. Qui l’utilizzo di dispositivi come RFID (magari installati su uno smartphone), nella
connessione con oggetti forniti di indirizzi IP possono comunicare nella rete. La convergenza dei
media in questi settori sta creando applicazioni importanti, come nello sviluppo della Smart City,
nell’ottimizzare i consumi di risorse energetiche e nella riduzione delle emissioni nocive.
È tramontata l’era dei media associati a funzioni esclusive, come sono stati la televisione, la
radio, il telefono, centrati per decenni su un’impostazione unidirezionale. Oggi è il tempo di un
unico grande flusso informativo e mediale in grado di svolgere più funzioni contemporaneamente.
La convergenza mediale sta quindi trovando il miglior luogo nello smartphone in cui
convergono altri media come la fotocamera, la radio, la TV. Questa integrazione era stata già
definita nella remediation di Bolter secondo cui ogni nuovo medium non uccide i media già
esistenti ma ne rimedia, recuperandoli e reinventandoli, sia i contenuti sia le forme. Così come la
televisione è stata una rimediazione del cinema e in contraltare YouTube ha fatto lo stesso con TV
e tutto il sistema audiovisivo.
Pensare che tutta questa convergenza sia solo un dato tecnologico sarebbe un limite: è di
una convergenza culturale che si tratta, capace di riconfigurare linguaggi e comportamenti a tal
punto da creare anche nuovi modelli economici.
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3. La collisione della cultura della convergenza
Henry Jenkins in “Convergence Culture” (2006) affronta con lucidità questa trasformazione
dei modelli culturali che con la globalizzazione ha visto un’accelerazione fenomenale e che le
tecnologie digitali hanno sollecitato creando le condizioni abilitanti per una nuova elaborazione
connettiva del linguaggio e delle relazioni sociali.
Jenkins analizza come i consumi di informazioni culturali, come la musica, si siano rivelati
grazie alle procedure ipermediali come processi di nuova produzione da parte degli utenti. La rete
si alimenta di una crescente dimensione cooperativa, dando luogo a forme di costruzione
collettiva e connettiva del senso. La cultura della convergenza è molto differente dalla cultura di
massa, perché tende a ripristinare certe modalità proprie delle culture popolari che
comportavano un forte coinvolgimento individuale dal basso.
Nel titolo originale di quel libro c’è un sottotitolo “Where Old and New Media Collide”, in
quella collisione che Jenkins evoca non c’è solo la collisione tra i vecchi e i nuovi media ma tra i
produttori e i consumatori di informazioni culturali.
I palinsesti verticali
La cultura della convergenza è quella che attraverso il consumo simultaneo di più
informazioni culturali diverse, in un multitasking esercitato correttamente mentre si ascolta musica e
si scrive contemporaneamente, o si naviga nel web, si remixa il valore dei vari input per arrivare ad
esprimere degli output originali, ricombinanti. L’utente-consumatore diventa così prosumer, un
consumatore che diviene allo stesso tempo produttore, autore di un senso ulteriore. I sistemi on
demand per la fruizione dei contenuti musicali o filmici, si sviluppano così in palinsesti verticali,
profilati in playlist o addirittura in mashup, remixando tra loro frammenti diversi di una produzione
culturale che si rigenera attraverso l’uso creativo dell’utente.
È in fondo l’opportunità di quella democratizzazione dei mezzi di produzione comunicativa
di cui già parlava Manuel Castells in "La nascita della società in rete" del 1996.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Convergenza dei media
Si ha a disposizione un grande flusso di comunicazione con sempre meno barriere
all’entrata, che con lo sviluppo delle tecnologie e del web 2.0 in particolare ha visto crescere una
cultura convergente che vede protagonisti gli utenti.
User generated content e citizen journalism gli utenti-prosumer produttori di contenuti.
Senza competenze specifiche di editing multimediale sono molti i potenziali prosumer a
superare il confine tra produzione e consumo di prodotti culturali, è ciò che viene definito user
generated content, quel fenomeno che vede gli utenti della rete produrre contenuti direttamente,
sia per gioco sia per strategia partecipativa o il citizen journalism per cui cittadini attivi diventano
protagonisti delle informazioni prodotte dal loro impegno sociale, superando la mediazione
giornalistica.
Tutto questo prende la volata dai primi anni del 2000 con l’avvento del web 2.0, generato
da una crisi finanziaria gravissima, quella della net economy, che aveva cavalcato con
entusiasmo lo sviluppo di Internet e la sua ridefinizione nella forma del web, che inventò nuovi
mercati primi inimmaginabili. È emblematico il fatto di come possa generarsi opportunità da una
crisi. Accadde proprio questo, con la chiusura di tante web company che avevano impostato la
loro corsa all’oro del web con modelli ereditati dalla logica dei mass media, con portali informativi
e banner pubblicitari, si aprirono altri spazi per altre idee, più creative e più sostenibili. Si sviluppò
così il cosiddetto web 2.0 impostato su una rivoluzione più che tecnologica (fu determinante
l'invenzione del CMS, il Content Management System che permetteva di pubblicare contenuti sul
web senza essere programmatori informatici) bensì antropologica: le persone divennero
protagoniste, nacquero i blog scritti direttamente dagli utenti, dinamizzati dai commentari. Era
l’avvio di una nuova era, quella della grande esplosione dei social network.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Convergenza dei media
L’economia affettiva
La fortuna dell’impatto dei social network si basa su un paradossale modello economico.
È il frutto di una convergenza di fattori, a partire dai media in veloce mediamorfosi, che
nello slittamento progressivo dal sistema dei mass media incardinato sul paradigma da Uno a Molti
stava passando ad uno che avrebbe rivoluzionato tutto quell’universo mediale, secondo il
principio già avviato con il web, da Molti a Molti.
Questo moto centrifugo di energie, tecnologiche e sociali, con il fattore umano, sia
partecipativo e connettivo nonché personalistico, generò una sorta di economia affettiva, basata
sia su pulsioni emozionali sia su principi di effettivo impegno politico che si auto-organizza in forme
partecipative significative. Spesso queste dinamiche affettive sono semplicemente orientate verso
delle community di riferimento che si alimentano nel gioco personalistico nei social network, come
il fenomeno degli youtuber che su quella straordinaria piattaforma di streaming video che è
YouTube creano dei propri canali che a volte raggiungono incredibili successi con notevoli
visualizzazioni.
C’è poi un altro fenomeno correlato, di cui tratta Jenkins, è la fandom culture, una
sottocultura ancorata a quelle comunità di appassionati (fan) infervorati per una star musicale o
una saga o una moda. È un esempio emblematico di come possa funzionare questa collisione tra i
mondi della produzione dei contenuti culturali e quei consumatori che trasformati in fan riescono a
diventare protagonisti.
È un fenomeno che per quanto possa apparire banale riesce a configurarsi come una vera
e propria economia affettiva che molte aziende hanno saputo intercettare, facendo di una
cultura collaborativa delle intelligenti strategie di marketing e comunicazione.
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Carlo Infante - Convergenza dei media
Remix culture
La cultura convergente può essere considerata prossima alla remix culture, per cui l’utente,
che si pone come nuovo produttore di senso, attinge al suo patrimonio culturale mixando altre
informazioni culturali. Un protagonista di questa linea d’indirizzo culturale è Lawrence Lessig, il
giurista statunitense, professore di Harvard e fondatore di Creative Commons, l’organizzazione che
dal 2001 promuove la condivisione delle opere culturali in maniera legale, oltre gli stretti vincoli del
copyright.
La cultura della convergenza indotta da espressioni come la remix culture, il mash up, l’user
generated content, fa ben capire come ci possa essere collisione con i sistemi chiusi di molte
imprese che non hanno ancora colto le potenzialità dell’Open Innovation per cui lo sviluppo sarà
direttamente proporzionale all’apertura verso quelle potenzialità creative che le tecnologie della
rete mettono in campo.
In quegli scenari di convergenza culturale, come abbiamo già detto, risiede un modello
economico che può rivelarsi nei modi attraverso cui interagiscono media e utenti tra loro, aprendo
a nuovi mondi che non sono altrove ma tra noi, cambiando la prospettiva, con sguardi aperti a
360° che squadernino gli scenari preordinati.
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Carlo Infante - Interaction design
Indice
1.
L'INTERAZIONE UOMO-MACCHINA................................................................................................... 3
2.
HIGH TECH – HIGH TOUCH ................................................................................................................. 6
3.
L’INTELLIGENZA APTICA ..................................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 12
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Carlo Infante - Interaction design
1. L'interazione uomo-macchina
L’interaction design è la progettazione dell'interazione, un ambito di ricerca che deriva
dall'interazione uomo-macchina (disciplina scientifica che pre-esiste al contesto informatico). Nel
tempo questo concetto è stato definito Man-Machine Interface quando con l’avvento degli
schermi grafici connessi ai computer si è evoluta questa pratica di interazione.
Ivan Sutherland, collaboratore di Vannevar Bush, quello del Memex (uno dei prototipi del
computer) al Massachusetts Institute of Technology (MIT) realizzò (nel 1963!) la prima interfacciautente con modalità grafica e interattiva, si chiamava SketchPad e funzionava con una penna
ottica. Il laboratorio di ricerca della Xerox Parc fu l’epicentro di questa ricerca applicativa e nel
1981 si sviluppò lo Xerox Star, con il mouse e sistema di puntamento, che la Apple sviluppò
commercializzandolo nel 1984 con quel suo Macintosh che ha battuto la strada del personal
computer. Va ricordata, assolutamente, la figura di Douglas Engelbart (anche lui ispirato da
Vannevar Bush) che negli anni Sessanta sviluppò dei prototipi di mouse, poi brevettati nel 1967,
anche se la Xerox ne commercializzò alcuni, a brevetti scaduti. È riconosciuto come il papà del
mouse.
Le interfacce a finestre (windows)
L’impatto decisivo con il mercato consumer avverrà nel 1985 con il sistema Microsoft
Windows, quelle interfacce a “finestre” che rappresentano l’ambiente digitale di maggior utilizzo,
con cui tutt’oggi si tratta col computer.
L'interaction design ha come funzione quella di rendere usabili i sistemi digitali dagli utenti,
creando le condizioni abilitanti per orientarsi attraverso la progettazione dell'interfaccia, con il
design delle schermate, delle icone e l’impostazione dei menu di navigazione.
Emergono continuamente nuove tecnologie progettate dall’interaction design: come
l'Everywhere Display della IBM del 2005, che proietta immagini su qualsiasi superficie, trasformando
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Carlo Infante - Interaction design
oggetti di uso quotidiano in uno schermo interattivo, senza dover interagire direttamente con un
personal computer. Questa nuova concezione di display è basata su soluzioni wireless che
permettono di usare le dita come cursori anche sul muro o sulla scrivania, un’interazione resa
possibile attraverso un sensore ottico che rileva i movimenti dell'utente determinando l'interazione.
Gli schermi oltre la cornice
Oggi gli stessi schermi vanno oltre la loro cornice, si possono proiettare immagini su qualsiasi
superficie, non solo con videoproiezioni ma anche con soluzioni olografiche, con particolari
rappresentazioni visive di un oggetto in uno spazio 3D.
Si possono trasformare oggetti dei più disparati in uno schermo interattivo, senza dover
interagire con un computer. Queste nuove concezioni di display sono basate su soluzioni wireless
che permettono di usare le dita come cursori (molti ricorderanno le immagini del film “Minority
Report” con Tom Cruise che clicca nell’aria).
Questa interazione tra corpo e sistemi digitali riguarda sia l’interaction design rivolta agli
assetti industriali e commerciali sia quelle nuove forme della performance che hanno individuato,
prima dell’utilizzo standard dei prodotti messi sul mercato, delle sperimentazioni per testarne le
potenzialità. Pensiamo all’uso dei motion capture (l’impianto di sensori che rilevano il movimento
fisico e lo traducono in forma digitale) per alcune coreografie in ambienti interattivi.
L'infosfera non presuppone consumatori passivi con occhi contemplativi, ma soggetti
dinamici che frequentano la rete agendo in maniera tattile, prendendo informazioni: cliccando.
Così come lo spazio fisico lo si scopre attraversandolo con il corpo in azione, lo spazio digitale si
rivela in una navigazione caratterizzata da un’altra sensorialità per niente scontata. Tanto più che
è proprio la prossimità con il corpo dei diversi terminali digitali a caratterizzare questa condizione
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Carlo Infante - Interaction design
che di conseguenza si predispone alla nuova progettualità di forme ancora inesplorate
d’interazione, come la linea di ricerca dell’interaction design sta delineando.
È su questi fronti che possono essere investite le migliori energie creative, andando oltre la
sperimentazione dei linguaggi per creare contesti, ambienti, opportunità dove l’interazione tra noi
e l’infosfera produca innovazione culturale.
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Carlo Infante - Interaction design
2. High tech – high Touch
Nell'infosfera digitale si è sollecitati ad essere soggetti attivi, protagonisti di un ambiente
altamente tecnologico, high tech, in cui le informazioni tendono, secondo i principi
dell’interattività, ad avere un senso bidirezionale. In quel mondo informatico le informazioni
vengono trattate dalla nostra capacità d’essere hi-touch: il contatto espresso dal nostro potenziale
interattivo di utenti.
Il semplice giocare sull’assonanza delle parole High tech – high touch deriva dall’intuizione
di John Naisbitt che scrisse (in “Megatrends, le dieci nuove tendenze che trasformeranno la nostra
vita”, 1984):
High tech – high touch è la formula che uso
per descrivere il modo in cui rispondiamo alla tecnologia.
Ogni volta che una nuova tecnologia viene introdotta nella società,
ci deve essere il contrappeso di una spinta umana
che ristabilisce l'equilibrio – cioè high touch –
in caso contrario la tecnologia viene respinta.
Più c'è high tech, più occorre high touch.”
È esattamente quello su cui è il caso di focalizzare un’attenzione specifica, ovvero
l’innovazione adattiva, ciò che contempla il fatto di commisurare l’avanzamento tecnologico
all’evoluzione degli utenti, affinati alla user experience. È un dato importante perché presuppone il
fatto che l’evoluzione digitale (l’high tech) sarà sempre più scandita da quella di persone che
sapranno usare (high touch) e magari reinventare l’uso dei sistemi interattivi sulla base di ciò
sapranno immaginare.
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Carlo Infante - Interaction design
Performing media
Prossima all’innovazione adattiva c’è l’idea di performing media che tratta di come certe
esperienze creative siano in grado di far evolvere le potenzialità della convergenza dei media in
via direttamente proporzionale alla capacità d’uso e di gioco.
Con il tocco di un mouse clicchiamo sulle interfacce grafiche e sulle informazioni,
sviluppando dinamiche ipertestuali che danno l’idea di un’energia comunicazionale, una pratica
combinatoria che va ben oltre la semplice lettura delle parole o la visione di repertori audiovisivi.
La dinamica dei link incalza sia lo sguardo sia l’elaborazione cognitiva soggettiva e tutto ciò è
scandito dalla pratica manuale del mouse su cui corre la nostra mano.
Mano e mente tornano ad essere vicini, come nei più misteriosi mestieri artigiani (nell’etimo
di mestiere c’è una pista che porta verso il concetto di mistero...).
Questa condizione fa riflettere su come l’intera articolazione dei sistemi informativi abbia a
che fare sempre più con la dimensione personalizzata dell’utente, con il suo corpo (“esteso” con
smartphone e altri device) e di conseguenza con la sua potenzialità tattile del touch che
cliccando opera, naviga, sceglie, decide.
Ciò significa iniziare a valutare l'insorgenza di nuove interazioni, considerando l’infosfera
come il luogo scatenante non solo d’informazioni, ma di emozioni, intese come riflesso
dell’esperienza interpersonale, ovvero di azioni in cui si sperimenta vita e socialità.
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3. L’intelligenza aptica
Potrebbe essere spesa qui la parola aptico, che deriva dal greco haptikos indicando
l'abilità di venire a contatto con qualcosa che risponde all’azione del toccare. L’etimo della
parola è infatti “tocco” quel “touch” che oggi rappresenta la forma di interaction design più
utilizzata al mondo, quando si usa uno smartphone.
L’aptico è una funzione della pelle, come suggerisce Giuliana Bruno in “Atlante delle
emozioni”, costituisce il “mutuo contatto tra noi e l’ambiente”.
L’intelligenza aptica è la combinazione di due sensorialità: la percezione tattile, per cui gli
oggetti toccati suscitano sulla pelle una reazione e la propriocezione, che permette di riconoscere
la posizione del proprio corpo nello spazio e in stretta relazione con lo stato di contrazione dei
propri muscoli.
È su questi principi che nell’ambito delle Realtà Virtuali, già negli anni Novanta, si sviluppò
una ricerca importante di interaction design sulle interfacce con ritorno di forza, in alcuni
esperimenti di simulazione per interventi di emergenza in ambienti sottomarini. Il data glove che
veniva utilizzato in quei sistemi di realtà virtuale per agire all’interno della visualizzazione 3D, era
supportato da un sistema di servomeccanismi che permettevano di acquisire feedback sul peso di
ciò che veniva spostato, creando una fenomenale esperienza di apprendimento per l’operatore
che si stava formando per intervenire in contesti eccezionali, se non pericolosi, nelle profondità dei
mari.
Imparare a fare in ambiente virtuale per saper fare in ambiente fisico
Grazie a questa molteplicità sensoriale l’interaction design ci permette di avere una
coscienza piena degli ambienti e delle cose che ci circondano in un ambiente simulato, facendo
palestra cognitiva, imparando a fare in ambiente virtuale per poi saper fare in ambiente fisico.
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Carlo Infante - Interaction design
Ancora una volta le tecnologie digitali ci pongono di fronte ad una visione ulteriore delle
nostre potenzialità percettive assopite.
I processi cognitivi attivati da un'esperienza immersiva nel virtuale ci ricordano che la
conoscenza non è solo visiva e sonora, ma tattile, esprimendo un’intelligenza aptica che riguarda
direttamente la propriocezione: la funzione sensoriale che informa il cervello sulla posizione del
corpo nello spazio.
E non è finzione, è simulazione, un concetto molto più sottile. Si fanno le prove, come a
teatro, che è quella tecnologia (sì, è una tecnologia cognitiva che ha fatto della relazione tra
corpo e parola, il miglior dispositivo per apprendere l’alfabeto 2800 anni fa) che ci ha insegnato
ad estendere i confini del nostro corpo, espandendolo in una rappresentazione vista da molti.
Il coordinamento tra mano e mente
Dopotutto la stessa pratica interattiva stabilita ordinariamente con l’uso del mouse rende
evidente (anche se ormai nessuno ci fa caso) il fatto che tra mano e mente c’è un coordinamento
straordinario.
Quanto è importante ricordare che uno dei primi contatti tra uomo e tecnologia è, circa
due milioni di anni fa, con la selce scheggiata da colpi precisi, resi tali da una coordinazione tra
mano e mente che ha avviato il nostro processo evolutivo di Homo Abilis.
La realizzazione di quei chopper, fondamentali per tagliare carni e pellami, il primo
prodotto dell'industria umana, ha esteso il nostro corpo nel mondo esterno, per nutrirci e coprirci.
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Carlo Infante - Interaction design
Dal chopper al mouse
Dal chopper al mouse la nostra evoluzione transita attraverso una molteplicità di modalità
che ci fanno riflettere su quanto il corpo sia il fulcro di tutto, anche nella comunicazione
multimediale dove, per quanto si delinei una ridefinizione della relazione che intercorre tra corpi e
informazioni, il contatto conta.
Lo stesso McLuhan ci fa notare, nel suo libro “Understanding media” (“Gli strumenti del
comunicare”), quanto sia importante “investire il senso tattile della funzione di un sistema nervoso
per unificare tutti gli altri”.
L’azione del corpo attraverso l’intelligenza aptica ha programmato la nostra mente in
formazione continua, la dimensione artigiana l’ha affinata in questi millenni ed oggi con il touch su
sistemi interattivi stiamo assistendo ad una nuova fase evolutiva in cui la nostra mente si sta
riprogrammando.
Si tratta di una condizione che riguarda la complessità degli assetti antropologici e culturali
che nell’interaction design trova una linea di ricerca che affronta le diverse forme di interazione tra
il corpo e gli schermi, in una sorta di nuova ergonomia tra la dimensione fisica e quella immateriale.
McLuhan sarebbe stato contento dell'esperienza interattiva con i sistemi digitali, tanto più di
quella touch che non è un semplice toccare, come qualcuno può credere, ma scegliere e interoperare, mettendo in gioco la nostra sensibilità verso il mondo adiacente al nostro corpo.
La prossimità del corpo con i dispositivi digitali
Dopotutto l’infosfera digitale presuppone non più solo consumatori passivi con occhi
contemplativi, ma soggetti dinamici che frequentano la rete agendo in maniera tattile,
prendendo informazioni, cliccando.
Lo facciamo oggi con dispositivi che fanno della prossimità con il nostro corpo, un punto di
forza, un valore aggiunto, estendono le nostre funzionalità, aumentando le nostre capacità
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Carlo Infante - Interaction design
sensoriali e predisponendoci a nuove forme di interazione. Li portiamo in tasca, sono dentro le
nostre orecchie, li indossiamo.
È su questi fronti che possono essere investite le migliori energie creative di nuova
progettazione che si misura con un corpo da estendere. Superando, ma acquisendone il know
how, tutte quelle sperimentazioni di performing media che hanno tradotto le tecnologie in
linguaggi. Il punto strategico è nel creare contesti applicativi, ambienti sensibili, opportunità dove
l’interazione tra noi e l’infosfera digitale produca socialità e nuove opportunità produttive.
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Carlo Infante - Realtà virtuali
Indice
1.
UN MICROSCOPIO PER LA MENTE ..................................................................................................... 3
2.
UN AMBIENTE CHE ESISTE SOLO NELLA MEMORIA DI UN COMPUTER ............................................... 6
3.
L’ESPERIENZA IMMERSIVA E INTERATTIVA ........................................................................................ 10
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 13
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Carlo Infante - Realtà virtuali
1. Un microscopio per la mente
La realtà non basta a sé stessa. Sappiamo perfettamente che per misurarci con ciò che
definiamo reale c’è bisogno di competenza e conoscenza. Sappiamo anche che non basta
studiare, leggere libri o dispense, abbiamo bisogno di incrementare lo studio, basato sulla lettura o
l’ascolto di docenti, di esperienza diretta. In questo senso tutto il percorso pedagogico del
cosiddetto apprendimento esperienziale (experiential learning), che oltre ad avere un background
secolare ha trovato in questi ultimi decenni figure di riferimento come John Dewey (1859 – 1952) e
Jean Piaget (1896 – 1980), si proietta attraverso le nuove tecnologie nel creare opportunità di
apprendimento per simulazione digitale. Le realtà virtuali nascono per questo, per formare piloti
aerospaziali in contesti protetti prima di farli avventurare nel cosmo, per non parlare della
formazione militare per interventi molto rischiosi.
Il virtuale che per molti è ancora sinonimo di vaghezze dell’entertainment digitale è al
contrario a monte della nostra necessità del saper fare.
Per entrare dentro le specificità degli scenari digitali è opportuno descrivere in modo più
dettagliato la parola stessa, virtuale. Per cercare così di capire anche perché le realtà virtuali, nella
loro evoluzione tecnologica, possano essere considerate come un microscopio per la mente,
come le ha definite Howard Rheingold.
Realtà virtuale, un ossimoro
Il successo della parola virtuale, per cui vale la pena andare poi a scavare tra le sue radici
etimologiche, va comunque ricercata in quel fenomeno dirompente che contrassegnò le
cronache della fine anni Ottanta, la Realtà Virtuale. Già il fatto che questa parola fosse un
ossimoro, sparigliò, ponendoci di fronte ad una complessità ben più che semantica.
La cultura fantascientifica (William Gibson in particolare) aveva già predisposto molti ad
affrontare scenari come questi, ma spiazzò ancor di più il fatto che per definirla si usasse un
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Carlo Infante - Realtà virtuali
ossimoro, che è una soluzione retorica capace di accostare, nella medesima locuzione, parole
che esprimono concetti contrari.
Eppure individuandola come aggettivo sostantivato, la parola virtuale ha acquistato negli
ultimi anni una molteplicità di significati indeterminati. Vaghi. A tal punto da diventare in alcuni casi
persino il sinonimo di “vago”. Indebolendola non poco.
È in tal senso diventata un luogo comune che tende a definire in quanto “falsa”, o vaga
appunto, la condizione immateriale propria dell’elettronica. Un modo per generalizzare a
proposito della finzione delle interpretazioni del mondo prodotta dai nuovi sistemi di
comunicazione digitale.
Si tende cioè a contrapporre il virtuale al reale in una dicotomia talmente generica da
disorientare chi cerca un possibile rapporto con tecnologie inscritte di fatto nel corso evolutivo
dell’uomo. Secondo quell’approccio generico la Società dell’Informazione, già viziata dalla
pervasività del massmedia televisivo, crea una falsa coscienza della realtà. Ma va detto con
chiarezza: definire virtuale questa fenomenologia è improprio. O perlomeno è da riferire all’uso
sconsiderato delle parole che generano luogo comune.
Il virtuale, la condizione del possibile
Nel suo etimo latino virtus sottende virtù, facoltà, potenzialità, una qualità non ancora
espressa. La parola virtuale trova una sua più precisa definizione nel pensiero filosofico della
Scolastica medievale con il teologo domenicano Tommaso D’Aquino che traduce il concetto di
potenzialità in virtuale, concependo quindi come “esistente in potenza”, la condizione ideale del
possibile.
In Europa, il punto d’accesso al dibattito internazionale sul virtuale fu, già dai primi anni
Novanta, a Montecarlo per il forum internazionale “Imagina”, diretto da Philippe Quéau, che poi
divenne Direttore della ricerca all'Institut National de l'Audiovisuel (INA), membro del Comitato di
ricerca ministeriale del Ministero francese della cultura e della comunicazione e Direttore della
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Carlo Infante - Realtà virtuali
divisione Informazione e Informatica presso l'Unesco. È da lui che raccogliamo una definizione
molto chiara del virtuale.
Il virtuale è una nuova forma di realtà
che consente di comprendere il reale al meglio.
Si può affermare che il virtuale è simile
ad un nuovo mondo, ad una nuova America;
esso ci permette di accrescere
le nostre capacità di capire il reale.
Questa è la ragione per la quale
si parla di realtà amplificata.
Philippe Quéau
È da qui che è possibile trovare la chiave per affrontare, culturalmente, la riflessione aperta
agli sviluppi più avanzati di un concetto nuovo come il virtuale, che tende a scardinare molte
certezze scientifiche, mettendole di fronte ad aspetti considerati fino ad ora metafisici.
Quella amplificazione della realtà comporta una amplificazione del nostro sentire.
Il punto è nell’interrogarsi sulla necessità di una riconfigurazione degli assetti psicologici, che
l’uomo si è costruito a misura per arrivare a definire una soddisfacente interpretazione del mondo.
ll virtuale offre un nuovo paradigma cognitivo per rivedere molte di quelle teorie e pratiche
su cui si è fondata l’esperienza umana. È una nuova chiave interpretativa per comprendere e
tradurre in esperienza percettiva e cognitiva il fatto di stare dentro una visione ed agire per
commisurarla alla nostra azione di esplorazione, di navigazione interattiva.
A questo punto è opportuno individuare le caratteristiche proprie di ciò che è la realtà
virtuale, individuando le diverse applicazioni e gli hardware su cui si basa.
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Carlo Infante - Realtà virtuali
2. Un ambiente che esiste solo nella memoria di un
computer
La realtà virtuale rappresenta oggi lo stadio più avanzato del rapporto uomo-macchina. È
un sistema digitale con cui si può agire all'interno di una simulazione infografica, ovvero in un
ambiente che esiste solo nella memoria di un computer. Questo è possibile in primo luogo (sono
tanti gli approcci con tecnologie diverse) attraverso un visore stereoscopico che trasmette
immagini tridimensionali, soggette ad un'interazione (attraverso sensori magnetici) grazie ai
movimenti del capo di chi lo indossa e della mano che agisce con un mouse, o con un joystick o
che calza un guanto innervato di fibre ottiche, il data glove (o altri sistemi di trasmissione
elettromagnetica) interfacciate con il computer generatore dello scenario interattivo.
I primi esperimenti risalgono già alla seconda metà degli anni Settanta negli USA con Myron
Krueger sulla cosiddetta Realtà Artificiale e con Ivan Sutherland sulla stereoscopia.
Qualcosa di significativo era però già accaduto prima. Morton Heilig, già nel 1957 realizzò
una macchina adatta a vedere immagini in 3D. La chiamò Sensorama, la brevettò nel 1962. Era
una cabina con schermi stereoscopici, altoparlanti stereo e una sedia semovibile. La visione
futuristica di Heilig non trovò fondi sufficienti per essere sviluppata ed applicata al cinema come
voleva il suo inventore. Questo esperimento fu definito Experience Theater e poteva coinvolgere
tutti i sensi in maniera realistica, immergendo lo spettatore nell'azione filmica, con un apparato che
oltre a proiettare coinvolgeva tutti i sensi (vista, udito, olfatto, tatto).
Nel 1968 Ivan Sutherland creò un primitivo sistema immersivo con visore da indossare, così
pesante da dover essere appeso al soffitto.
Uno dei primi sviluppi ipermediali fu l'Aspen Movie Map, un dispositivo realizzato dal MIT nel
1977 con lo scopo di ricreare virtualmente Aspen, la cittadina del Colorado, con filmati
tridimensionali delle strade della cittadina.
Il concetto di cyberspazio fu coniato nel 1984 da William Gibson nel suo romanzo di
fantascienza “Neuromante” da cui cogliamo una visione profetica, inquietante e affascinante.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Cyberspazio: un'allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori
legali, in ogni nazione [...]
Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema
umano. Impensabile complessità.
Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le
luci di una città, che si allontanano...
William Gibson, Neuromante
Il vero salto di qualità della ricerca è però nel 1985 quando presso la NASA Scott Fisher
istituisce il Virtual Environment Workstation (VEW). Solo qualche anno dopo, nel 1989, Jaron Lanier
(un musicista sperimentale prestato al VEW) conierà il termine VR, Virtual Reality, per poi realizzare,
con la VPL Research (Virtual Programming Languages: linguaggi di programmazione virtuale) i
primi sistemi da commercializzare indipendentemente, quando fu sciolto il protocollo militare:
opportunità offerta dal post-Guerra Fredda, (è qui la vera risposta ai perché ci sia stata quella
accelerazione tecnologica negli anni Novanta).
Tra i vari sistemi di realtà virtuale (è per questo che usiamo il plurale per definire questo
campo applicativo) c’è quello basato sullo sviluppo del VEW che di fatto è quello che ha
conquistato per primo l’attenzione su questo fenomeno. L’hardware era così composto:
Il visore (head-mounted display), detto anche casco stereoscopico, può essere configurato
anche con una sorta di occhiali in cui gli schermi vicini agli occhi annullano il mondo reale dalla
visuale dell'utente. Il visore può inoltre contenere dei sistemi per la rilevazione dei movimenti, in
modo che girando la testa da un lato, ad esempio, si ottenga la stessa azione anche nell'ambiente
virtuale. Auricolari che trasferiscono i suoni all'utente, in alcuni casi anche con soluzione olofonica o
surround. Data glove, o wired glove, i guanti innervati di fibre ottiche o altri canali di trasmissione,
come quella elettromagnetica, che svolgono la funzione di periferica (ma che possono essere
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ovviati da joystick, trackball e altri sistemi manuali di input), per gestire i movimenti, impartire
comandi, digitare su tastiere virtuali, ecc. Data suit, o cybertuta, che avvolgendo interamente il
corpo, durante l’azione, grazie ai sensori di cui è fornita, può rilevare i movimenti del corpo e
trasferirli nell'ambiente virtuale.
Il sistema Cave evoca la Caverna di Platone
Uno dei problemi delle realtà virtuali era (oltre ai costi per lo sviluppo, allora decisamente
alti) quel casco stereoscopico che condiziona tutto in un'esperienza di assoluto isolamento
solipsistico. Ad Ars Electronica di Linz nella metà degli anni Novanta fu installato permanentemente
il sistema CAVE che permetteva di esplorare ambienti immersivi, permettendo un’azione libera
nello spazio, condizione importante da considerare per quanto riguarda l'evoluzione performativa
di queste tecnologie.
Il Cave evoca, non a caso, la Caverna di Platone, dove viene posta in essere la
contraddizione tra realtà e illusione, un ambiente in cui lo spettatore si fa attore della propria
esperienza sensoriale e cognitiva al contempo. Questo riferimento al Mito della Caverna di Platone
è una suggestione forte, decisamente efficace in quanto allegoria che in sostanza si articola come
una parabola.
Ci sono delle persone che vivono fin dall’infanzia rinchiuse in una caverna, incatenate così
strettamente da non poter neanche girare la testa. La caverna ha un’apertura che dà sull’esterno,
ma la gente che ci vive ha lo sguardo rivolto verso la parete in fondo, e non vede l’uscita. Alle loro
spalle, in alto e lontano da loro, c’è un fuoco acceso che fa luce. Fra il fuoco e i prigionieri c’è un
muro da cui spuntano degli oggetti che grazie alla luce del fuoco si proiettano come ombre sulla
parete di fronte ai prigionieri. Quelle ombre sono le uniche cose che i prigionieri abbiano mai visto,
costretti come sono a star lì fermi, senza potersi voltare. Dunque – afferma Socrate – quelle persone
credono che le ombre siano oggetti reali. Siano la realtà.
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Il filosofo contemplava il rapporto che intercorre tra percezione, realtà e illusione. Chissà
cosa avrebbe pensato provando un sistema di realtà virtuale come il CAVE.
Il Cave Automatic Virtual Environment (da cui l'acronimo CAVE) è costituito da una stanza
a forma di cubo con dei proiettori video diretti verso sei facce del cubo stesso. In questa
“caverna” digitale il sistema di realtà virtuale opera sui piani di visualizzazione ortogonali fissi con
immagini 3D che vengono proiettate su pareti e soffitto del cubo, in maniera tale da avvolgere
l’utente nel mondo virtuale, immersivo.
L’idea del CAVE, sviluppato presso la University of Illinois di Chicago e presentato per la
prima volta al SIGGRAPH del 1992, è quella di un dispositivo immersivo ma non solipsistico, per
condividere l'esperienza virtuale. Un’idea fenomenale che evoca il famoso holodeck (il ponte
olografico) della serie Star Trek: The Next Generation trasmessa nel 1987.
Altri sistemi virtuali come il Mandala System hanno, con altre procedure meno immersive
(sviluppando le intuizioni di Myron Krueger sulla Realtà Artificiale), reso ancora più performativo il
gioco di interazione tra il corpo e l'ambiente infografico, evolvendolo in performance ludiche e
partecipative dove gli utenti ripresi da una telecamera venivano tradotti nello scenario digitale,
cliccando con i loro movimenti. Il Mandala System si sviluppò nei primi anni Novanta e girava su
piattaforma Amiga 3000 (sistema operativo che va in dismissione dal 1993) ma gran parte delle sue
potenzialità d’uso vengono poi esercitate nell’ambito delle nuove interfacce per i videogiochi,
con il telecomando Wii di Nintendo, con il PlayStation Move di Sony e fondamentalmente con il
Kinect che dal 2010 (fino al 2017, quando cessa la sua produzione) ha fatto della XBox di Microsoft
la console più performante, perché consentiva al giocatore di controllare il sistema ripreso solo da
una telecamera.
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3. L’esperienza immersiva e interattiva
La caratteristica più importante della realtà virtuale è che è possibile agire in un ambiente
artificiale: si va quindi oltre la visione offerta dall’ennesima tecnologia della rappresentazione per
fare invece esperienza, immersiva e interattiva. Ecco la parola giusta: esperienza, agendo nella
visione.
È qui che risiede il dato cardine di tutta la fenomenologia del virtuale: l’interattività e
l’immersione sensoriale producono una simulazione tale da coniugarsi con l’azione fisica, reale a
tutti gli effetti.
Chi crede quindi che il virtuale sia solo uno strumento tecnologico molto probabilmente
non ha ancora colto la complessità delle sfumature psicologiche e cognitive determinate dalla
mutazione digitale in corso.
Il fatto stesso di svolgere talmente tante attività produttive e sociali attraverso le reti ha
ormai reso evidente quanto sia importante pensare in rete, attraverso un rapporto sempre più
stretto, grazie a interfacce sempre più amichevoli (friendly), tra la nostra mente, il nostro corpo, e le
tecnologie della comunicazione digitale a disposizione.
Le diverse interazioni uomo-macchina saranno così sempre meno meccaniche, sempre più
fluide, sempre più sensibili.
La mutazione dei linguaggi multimediali corre quindi di pari passo a quella dei nostri
comportamenti e delle nostre percezioni.
Sta
cambiando
il
nostro
sentire.
Potremmo
dire,
semplicisticamente
forse,
che
l’immaterialità della comunicazione digitale tende a sollecitare l’immateriale che è in noi.
Non a caso Howard Rheingold, uno dei primi ricognitori teorici del fenomeno del virtuale,
considerava le realtà virtuali come "un microscopio per la mente". Un dato su cui riflettere nel
momento in cui accettiamo il fatto che una simulazione può essere considerata a tutti gli effetti
azione.
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Le coordinate spazio-temporali possono essere decisamente relativizzate: la realtà che ci
circonda non è, infatti, solo quantizzabile in atomi ma anche in bit, l’unità minima del mondo
digitale.
Si è insomma sulla soglia di un superamento culturale dei positivismi e dei materialismi
nonché di tutta l’era meccanicista. È qui che si inserisce la riflessione sul virtuale in quanto ulteriore
stadio evolutivo dell’uomo, ovvero come nuova coscienza percettiva e cognitiva al contempo,
come nuova sensibilità in grado di relazionarsi alle cose immateriali, oltre che a quelle materiali.
È su questa espansione di coscienza che è importante riflettere, individuando un'attitudine
psicologica in grado di coniugarsi con la dimensione elettronica a tutti gli effetti, come una
quintessenza di sensorialità inedite, in grado di selezionare, e non solo consumare, le informazioni
digitali di cui è sempre più affollato il mondo. Qualsiasi interazione a distanza (già accadde all'inizio
del secolo per il telefono) tende a riconfigurare il nostro rapporto con il mondo esterno.
Con i programmi di modellizzazione tridimensionale possiamo però creare oggetti virtuali da
condividere anche con stazioni remote. L'impatto di realtà di questa azione è resa da un acronimo
che suona così': WYSIWIG (“What You See Is What You Get”: quello che vedi è quello che è).
Il salto paradigmatico è in questa nuova coscienza: vivere una simulazione come
un'esperienza reale e trovare nell'immaterialità di una visione interattiva, ovvero modificabile
secondo precise interazioni, uno spaziotempo da abitare.
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Il punto di vita
Questa esperienza invita anche a superare l’idea stessa di rappresentazione verso cui
comportarsi solo come attoniti spettatori passivi. È ormai possibile comprendere che il principio del
punto di vista fondato sulle categorie di rappresentazione visiva come quelle della Prospettiva
risultano sempre più relative. Emergono altri valori come quello del punto di vita (che è ben diverso
dal punto di vista). È la capacità di abitare e vivere (anche se sulla base di un’illusione cognitiva)
un ambiente simulato, uno scenario virtuale. Quell’ambiente viene abitato, vi si agisce, si esprime
una condizione vitale di ricerca e di avventura.
L’immersione stereoscopica nelle realtà virtuali è questo, come anche, per altri versi anche
se meno immersivi, qualsiasi navigazione ipermediale.
È in questi casi che si può riuscire ad impostare nuovi termini di riflessione, finalmente
scardinati dalle certezze epistemologiche del pensiero razionalista e disponibili a misurarsi con ciò
che abbiamo definito un nuovo paradigma cognitivo.
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Carlo Infante - Nuovo paradigma cognitivo
Indice
1.
LA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA .................................................................................................... 3
2.
LA NOOSFERA .................................................................................................................................... 7
3.
LA CHIAVE DAVANTI AL PENTAGRAMMA EVOLUTIVO ................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 14
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1. La società della conoscenza
Se le risorse fossili, combustibili come carbone e petrolio, sono state il fulcro del sistema di
trasformazione delle materie in merci, così le informazioni sono sempre più materia prima di un
sistema produttivo che attraverso le reti, il web in primo luogo, sta reimpostando il ciclo di
trasformazione delle risorse immateriali in valore, sia di scambio sia d’uso.
La Società della Conoscenza genera e condivide con tutti i cittadini il valore della
conoscenza da utilizzare per migliorare la condizione umana, come afferma un rapporto mondiale
dell'UNESCO del 2005.
In quel rapporto si sostiene la necessità di garantire diversità culturale, pari accesso
all'istruzione, accesso universale all'informazione (promuovendo dominio pubblico e open access,
per libera disponibilità online di contenuti digitali), libertà di espressione ed arginare il divario
digitale (digital divide) che impedisce a molti di accedere al web, per carenza di infrastrutture di
rete.
Già nel 1995 Jacques Delors in quanto presidente della Commissione Europea firmò un Libro
Bianco sulla Società della Conoscenza, nella previsione di lanciare nel 1996 l'Anno europeo
dell'istruzione e della formazione sull'arco di tutta la vita, in cui si affermava:
(...) Le tecnologie dell'informazione permeano fortemente sia le attività legate alla
produzione che quelle connesse all'istruzione e alla formazione. In tal senso, esse operano un
ravvicinamento fra i «modi di apprendimento» e i «modi di produzione». Le situazioni di lavoro e le
situazioni di apprendimento tendono a un reciproco ravvicinamento se non ad un'identificazione
sotto il profilo delle capacità poste in atto.
Questa mutazione legata alle tecnologie dell'informazione ha incidenze economiche e
sociali più generali: sviluppo del lavoro individuale indipendente, delle attività terziarie e di nuove
forme di organizzazione del lavoro, dette «qualificanti», pratiche di decentramento della gestione,
orari flessibili.
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La società dell'informazione induce infine a porsi il quesito se, prescindendo dalle nuove
tecniche conoscitive offerte, il contenuto educativo che essa trasmette sarà per l'individuo un
fattore di arricchimento culturale o meno. Finora l'attenzione si è concentrata sulle potenzialità
offerte dalle autostrade dell'informazione, dalla rivoluzione del «tempo reale» operata, ad esempio
da Internet, nelle relazioni fra imprese, ricercatori e universitari (…)
Era il 1995, la proiezione politica si era attivata, anche se con qualche riserva, ma purtroppo
non ha intrapreso quel percorso che avrebbe potuto vedere un ruolo più forte dell'Europa nello
scenario globale della società della conoscenza interconnessa.
La democratizzazione della conoscenza
La società della conoscenza non coincide con la società dell'informazione perché la prima
trasforma l'informazione in risorse che consentono alla società di evolversi, mentre la seconda
tende solo a diffondere i dati grezzi. Questa capacità di analizzare e qualificare le informazioni c’è
sempre stata nel corso dell’evoluzione umana, solo che una volta riguardava solo l’elite, le classi
dirigenti, gli eruditi.
Oggi la società della conoscenza è connotata da una molteplicità tale di dati che solo
l'innovazione digitale può metabolizzare. Non solo, la società della conoscenza che auspichiamo
riguarda la possibilità di condividere le informazioni in rete perché possano diventare un bene
comune capace d’essere utilizzato dalle più diverse componenti della società.
Il nuovo paradigma cognitivo di cui stiamo trattando investe anche questo aspetto: la
democratizzazione della conoscenza.
La conoscenza può quindi diventare una risorsa economica strutturale, ci sono lavoratori
della conoscenza che operano in contesti professionali che non esistevano fino a qualche anno
fa. Emerge una classe creativa in cui si mixano competenze tecnologiche e autoriali, in ambienti
ad alta intensità di conoscenze, dove la conoscenza genera conoscenza, sviluppando nuove
competenze che sono in grado di attuare anche quella innovazione adattiva per cui la condizione
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tecnologica tende ad adattarsi alla dimensione sociale, espandendo il valore d’uso delle
tecnologie, secondo le modalità della user experience. Una pratica diffusa, che riguarda
fondamentalmente l’ambito professionale dello User Experience Design (UX Design), ma allo stesso
tempo, per altri aspetti, vede coinvolti gli utenti più consapevoli e attivi, i cosiddetti prosumer (i
produttori-consumatori di informazione).
Il fatto stesso di trasformare l’informazione in conoscenza è il fulcro della questione, per
capire come i dati possano diventare risorsa.
Da sempre l'evoluzione delle società umane è basata sull'intelligenza che muove i processi
che determinano la conoscenza.
L'intelligenza è la capacità nel risolvere con efficacia situazioni e condizioni incognite, per
affrontare ambienti ostili e interpretare i processi di trasformazione, l’ambientamento sociale e
riuscire a dare un senso alla vita.
L’idea stessa di intelligenza sta cambiando in rapporto a tecnologie che hanno ridefinito il
rapporto con quelle informazioni che compongono il mondo esterno.
Il nuovo paradigma cognitivo riguarda queste nuove forme di intelligenza, capaci di
misurarci con la Complessità che ha un suo etimo latino in complector, per cui si intende: cingere,
tenere avvinto strettamente, comprendere... legame, nesso, concatenazione.
L’intelligenza collettiva
Lo sviluppo pervasivo del web ha fatto emergere concetti come intelligenza collettiva che,
secondo le teorie di Pierre Lévy sviluppate già nel 1992, ha affinato il valore della condivisione,
creando nuove opportunità di scambio sociale attraverso le reti, dando forma al cyberspazio, che
da ambito di ricerca si è espanso a tal punto da diventare società e sistema produttivo.
Internet, o meglio il web, è diventato un medium talmente diffuso che riguarda i governi, i
grandi player economici e fondamentalmente i cittadini, tra cui i più avvertiti si interrogano su
come giocare la partita in termini di nuova progettazione sociale. L’intelligenza collettiva trova
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luogo nel web, per pensare insieme e concentrare energie intellettuali e culturali, amplificando il
valore dell’immaginazione per trovare soluzioni inedite a condizioni incognite, ottimizzando le
intelligenze collettive che emergono dalle comunità di buona pratica.
L’intelligenza connettiva
A partire dal concetto di intelligenza collettiva di Lévy, qualche anno dopo, si evolve la
riflessione su come le reti accendono i processi di interazione intelligente, grazie alle intuizioni di
Derrick de Kerckhove sulla intelligenza connettiva. La teoria si basa sul principio attivo delle reti
come fonte di energia psichica (non a caso de Kerckhove la definisce psicotecnologia), più che
ambiente che accoglie contenuti da ridistribuire, interpretando al miglior grado il valore
dell’interconnessione. La messa in relazione delle intelligenze, non somma bensì moltiplica il fattore
creativo.
L'intelligenza connettiva mette in movimento le idee, metodologie di design thinking che
comportano brainstorming, modalità originali definite di i-pertinenza, dove il pensiero viene
squadernato, innervandosi di connessioni ipertestuali e creatività disruptive, dirompente.
De Kerckhove si focalizza sul principio aperto del concetto di intelligenza connettiva,
ipotizzandola come uno sciame intelligente (principio su cui c’è tutto uno sviluppo importante
relativo alla swarm intelligence) a differenza dell'idea di ambito chiuso nel contesto di comunità
circoscritte, a cui fa riferimento l'intelligenza collettiva.
La società della conoscenza è quindi basata principalmente sull'uso diffuso della
tecnologia connettiva, che si sviluppa lungo un percorso che sta portando verso nuovi modelli
economici in cui la conoscenza è in divenire.
Il nuovo paradigma cognitivo scaturisce da questa nuova energia sociale in cui la società si
apre alle opportunità di co-creazione, in cui la conoscenza, non è più solo allocata negli ambiti in
cui il sapere è già dato, stabilizzato e fissato, si rigenera in processi evoluti di scambio culturale,
intellettuale e scientifico.
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2. La noosfera
C’è un termine che affascina e che può aiutare, anche se complesso, a cogliere
l’ampiezza di questo fenomeno di trasformazione che in fondo attinge ad una matrice antica.
È noosfera, indica la "sfera del pensiero umano" e come parola ha il suo etimo nella parola
greca nous, che significa mente e sphâira (sfera).
Per Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), filosofo gesuita che influenzò non poco Marshall
McLuhan, la noosfera è una sorta di coscienza collettiva che nasce dall'interazione fra le
intelligenze. L’evoluzione umana si è sviluppata nell’organizzazione di reti sociali sempre più
complesse, espandendosi verso una crescente integrazione con la biosfera, trasformandola in
noosfera, dando una rilettura del pensiero neo-platonico di Plotino, per cui l'essere umano,
contestualizzando l'intero pianeta con il pensiero, si muoverà verso la comprensione del sistema
cosmico.
Sulla definizione di questa teoria è stato importante il ruolo di Vladimir Ivanovič Vernadskij
(1863-1945) chimico russo e pioniere delle scienze ambientali, per cui la noosfera è la terza fase
dello sviluppo della Terra, successiva alla geosfera (materia inanimata) e alla biosfera (vita
biologica).
La noosfera, secondo Vernadskij, si svilupperà nel momento in cui l'umanità, con la
capacità di realizzare reazioni nucleari sarà in grado di trasformare le sorti del pianeta.
Pensare globale per l'agire locale
La civiltà umana nei secoli s’è misurata con differenti concezioni dello spazio: per l’uomo
primitivo lo spazio era essenzialmente la terra che coltivava, mentre nelle prime civiltà urbane
acquistava importanza il territorio, spesso delimitato da frontiere se non da mura che separavano
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lo spazio urbano da quello extra-urbano. La rivoluzione mercantile che vide l’Europa protagonista
tra il X al XIII secolo concepiva lo spazio come una conquista continua di materie prime, magari
esclusive, per governare le rotte commerciali nei mari, fino ai nostri giorni in cui il web si rivela come
nuovo spazio immateriale.
È uno spazio della conoscenza su cui si sta ridefinendo l’intero assetto socio-economico e
dove la circolazione istantanea delle informazioni e delle relazioni tra le persone collegate tra loro
ridefinisce l’idea stessa di locale e globale.
In tal senso è importante mettere in relazione le politiche locali d’innovazione territoriale
con le strategie globali della conoscenza e delle competenze digitali. Il principio glocal è per
questo un indirizzo evolutivo, prima di tutto perché riequilibra le sorti della globalizzazione che ha
prodotto non pochi squilibri internazionali e poi perché permette di riconoscere le singolarità del
patrimonio culturale di tanti territori che necessitano di nuove soluzioni di valorizzazione, proiettate
nel globale delle reti informative.
La dimensione locale può quindi operare nel pensiero globale, portandoci dentro i climi, i
sapori, i suoni delle matrici popolari; così come nell'azione locale può trovar luogo l'aspetto globale
dell’interconnessione. Il cosmopolitismo migliore (quello per cui l'umanità non ha nazione) può
finalmente declinarsi anche nel desiderio di comunicare senza confini.
Il pensiero glocal è di fatto inscritto in quel nuovo paradigma cognitivo su cui stiamo
ragionando, perché mette al centro la particolarità, il patrimonio locale materiale e immateriale
della persona e delle comunità territoriali, senza perdere di vista il micro (locale) nella sua relazione
con il macro (globale).
“Think global, act local”, pensare globale e agire locale, esprime bene la sintesi tra il
pensiero globale, che tiene conto delle dinamiche planetarie di interrelazione tra popoli e culture
e l’agire locale, che interpreta le peculiarità territoriali dell’ambito in cui si vuole operare.
Edgar Morin rilanciò il principio glocal, evolvendo un termine già in circolazione negli anni
Ottanta, coniato in lingua giapponese (dochakuka), tradotto in glocal dal sociologo Roland
Robertson e poi elaborato dal sociologo Zygmunt Bauman.
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Parliamo di mondo e questo ci scorre sotto i piedi; va da sé, non aspetta nessuno. Una volta
si pensava di trasformarlo. Illusioni.
Stiamo prendendo atto che non è giusto considerare che l’uomo sia la misura del mondo,
secondo quell'immagine leonardesca ormai archetipizzata della figura umana inscritta nel
cerchio-mondo idealizzato dal Rinascimento sul modello vitruviano.
No, l’uomo non è al centro del mondo. Ne è una componente. Ecco anche questo aspetto
rientra in ciò che definiamo il nuovo paradigma cognitivo, per concepire l’innovazione digitale
come opportunità per uno sviluppo sostenibile e responsabile.
Lo iato tra il pensiero umanista e quello tecno-scientifico
L’avvento delle tecnologie digitali ha scardinato la dicotomia che per tanto tempo ha
separato il dibattito culturale da quello tecno-scientifico.
È una contraddizione che ha una lunga storia ma per inquadrare il problema in termini più
ravvicinati potremmo vedere come già nel XIX secolo, quando vi fu l'accelerazione dei progressi
nel campo scientifico, si creò la grave divaricazione tra cultura umanistica e scientifica.
Alla fine degli anni ’50 lo scienziato Charles Percy Snow, convinto che la cultura sia una
sola, si rese conto dell’assurda separazione che si prospettava tra cultura scientifico-tecnologica e
cultura umanistica, immaginando i salotti inglesi divisi in due, da una parte gli scienziati che non
conoscevano Dickens e dell’altra parte gli umanisti che non sapevano niente della
termodinamica. Eppure, la cultura è un insieme di conoscenze basate su un valore teorico, sia
contemplativo sia applicativo. Non esistono due culture, ma una sola. La distinzione che si
dovrebbe fare semmai è quella tra cultura e in-cultura.
In Italia la situazione è ancora più bloccata per il lungo predominio delle tendenze
idealistiche in filosofia che hanno trovato in Benedetto Croce il perno. I danni provocati da questo
iato tra il pensiero umanistico e quello scientifico li troviamo principalmente nel sistema scolastico
italiano, generato dalla concezione di Croce e Gentile.
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Molti problemi etici nascono in ambito scientifico e tecnologico, come per la bioetica. Gli
sviluppi tecnologici possono, per esempio, aiutare filosofi e umanisti ad affrontare problemi
fondamentali e la condivisione in rete del know how può qualificare la conoscenza, attraverso
confronti e comparazioni che rinvigoriscono il pensiero sia quello scientifico che umanistico.
Va superata quella dicotomia, è come se qualcuno dichiarasse di essere a favore di uno
dei due emisferi del cervello, ma non dell’altro. In realtà, così come abbiamo bisogno di entrambi
gli emisferi, abbiamo bisogno di entrambe le culture.
È evidente che l’avanzamento tecnologico sta producendo una mutazione culturale
radicale che attraversa sia l’ambito scientifico sia quello umanistico, creando modificazioni
psicologiche che investono entrambi gli ambiti, che insieme ci sosterranno a ridefinire il nuovo
rapporto tra uomo e mondo.
Si tratta a questo punto di comprendere che queste tecnologie multimediali sono dei nuovi
linguaggi in grado di modificare, come lo ha fatto la scrittura ad esempio, le nostre procedure
mentali. È attraverso questo approccio culturale e non solo meccanicistico (in cui si tende a
considerare le tecnologie solo come “strumenti”), che sarà possibile cogliere mutazioni che ora
sono solo ad uno stadio embrionale.
È necessaria infatti una consapevolezza globale che possa coniugare i "valori d'uso" delle
tecnologie con il potenziamento delle qualità umane. Attraverso la multimedialità, la simulazione
virtuale e la comunicazione telematica è quindi possibile individuare una nuova qualità culturale
che è opportuno definire come un nuovo paradigma cognitivo.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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3. La chiave davanti al pentagramma evolutivo
Quando pensiamo al nuovo paradigma cognitivo lo associamo al pentagramma musicale
dove la chiave imposta l’intero sviluppo della composizione sonora. La chiave (come quella di sol,
detta anche chiave di violino) è un simbolo posto all'inizio del pentagramma con la funzione di
fissare la posizione delle note e l'altezza dei relativi suoni. Ci piace pensare che il nuovo paradigma
cognitivo sia come una nuova chiave posta in testa al nostro pentagramma evolutivo che
sottende la nostra evoluzione nel suo complesso, reimpostando tutto attraverso le opportunità
digitali capaci di reimpostare il rapporto tra società e mercato, reinventando la misura di relazione
tra evoluzione psicologico-culturale e sviluppo economico.
Questa chiave non è data solo dalle tecnologie ma dal loro valore d’uso che l’intelligenza
delle comunità e delle imprese sapranno esprimere.
Perché ciò accada deve assolutamente impostarsi quella società della conoscenza che
permetta a tutti, nei vari contesti educativi e formativi, di affrontare in modo adeguato queste
nuove opportunità.
Attraverso i sistemi digitali si realizzano ipermedia che sollecitano le attività percettive,
ristabilendo un equilibrio con quelle funzioni di decodifica dei linguaggi alfabetici sin troppo
stabilizzate, armonizzandole con le più naturali combinazioni associative della mente.
È quindi possibile pensare una nuova qualità dei processi dell'apprendimento.
La questione del virtuale non è, come è stato già detto, da porre solo in termini tecnologici
ma psicologici: si tratta di arrivare a riconsiderare il rapporto tra uomo e mondo. Misurandoci con
esperienze percettive ai
confini
della realtà, condizioni
radicali
che sembrano
uscite
dall’immaginario fantascientifico eppure profilano inedite applicazioni su cui c’è bisogno di
innalzare il livello di attenzione. Nella comunicazione telematica ad esempio cambia la percezione
del tempo e dello spazio, un aspetto determinante per comprendere il senso di navigazione nelle
reti, di cui il fenomeno del net-surfing è solo l’aspetto più esplicito. Esperienze di nuova natura
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Carlo Infante - Nuovo paradigma cognitivo
percettiva che espanderanno non solo le coscienze ma il mercato del futuro: quello
dell'informazione e della conoscenza.
Comprendere il possibile
Al punto in cui siamo è decisivo proiettarsi verso questa riconfigurazione psico-cognitiva per
comprendere il possibile: ovvero coniugare le nuove chances evolutive con le pratiche in divenire
nei diversi campi applicativi, da quello dei nuovi modelli di apprendimento a quello dell’urbanismo
tattico della smart community in cui rilanciare i principi di resilienza urbana.
Da qui si può concepire un’iniziativa di carattere pedagogico per coniugare il pensiero
culturale in azione di comunicazione. L’ipertesto, o meglio l’ipermedia (con tutte le proprietà
dell’audiovisuale, espanse, aumentate), simula le dinamiche sinaptiche del nostro cervello, offre
l’opportunità di spaziare, navigare, tra un concetto, un suono e un’immagine con una mobilità
immaginaria e cognitiva straordinaria.
Navigando in un ipermedia è possibile infatti fare un’esperienza simile a quella di un’azione:
con un mouse, o altre interfacce, spostiamo (digitalmente) degli oggetti, apriamo degli spazi, delle
“finestre”, accogliamo delle risposte dall’ambiente informativo paragonabili a quelle provocate
da un’azione reale.
La multimedialità nella sua accezione estesa invita quindi le nostre percezioni a diventare
dinamiche, attivando un modo filogeneticamente primario di apprendere.
Si tratta di un approccio paragonabile a quello determinato dallo scambio di esperienza e
dell’apprendimento di abilità come è stata per millenni la trasmissione della conoscenza.
Questa radicale differenza cognitiva, rispetto alle modalità precedenti assiepate nel
consumo dei mass media, è paragonabile a quella provocata dall’avvento della Stampa nei
confronti dell’Oralità. Allora, in un percorso avviato in questi ultimi cinque secoli, si creò uno salto
evolutivo fortissimo che per secoli ha tagliato fuori dallo sviluppo della civiltà la massa vastissima di
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coloro che non decodificavano la scrittura, producendo uno strappo, un aumento delle
diseguaglianze.
Operare nel campo della multimedialità oggi è quindi importantissimo, proprio perché è in
gioco un ulteriore salto di qualità, per un apprendimento continuo nell’uso dei nuovi media, in una
condizione progressiva che stabilirà nuove forme di ambientamento e al contempo il rischio di una
difficoltà d'accesso a queste opportunità digitali che può produrre gravissime disparità culturali e
sociali. È assolutamente decisivo perciò affrontare la criticità del digital divide per arginare il divario
e la disfunzione che si crea per chi non può o non sa accedere alle reti e insieme progettare
applicazioni educative (e ciò non riguarda solo l’ambito scolastico ma la la formazione continua)
che sappiano coniugare i saperi con le proprietà digitali.
Ciò è fondamentale per rendere dinamici ed efficaci i modi dell’apprendimento per le
nuove generazioni (e non solo), rendendo accessibili i sistemi informativi pubblici alla cittadinanza.
Sarà proprio grazie alla predisposizione “naturale” espressa dai ragazzi nei confronti dei computer
che sarà possibile creare quei ponti culturali tra le sapienze umaniste e una sensibilità
contemporanea.
La
multimedialità
potrà
essere
(altro
ottimismo
di volontà)
un
antidoto
contro
l’inquinamento della mente, perché tende a sottrarsi al rumore dei mass media, offrendo un
approccio personalizzato al grande gioco combinatorio della comunicazione interattiva.
La caratteristica più evidente di questo nuovo rapporto è infatti nell’interattività che dà
senso dinamico e proattivo alla comunicazione, in uno scambio biunivoco con il computer, in una
corrispondenza fenomenale tra flusso informativo e nuovi processi cognitivi, ricombinanti, non
lineari.
È in questo rapporto dinamico che si fonda quello che viene definito nuovo paradigma
cognitivo, una strategia culturale in grado di rifondare le nostre categorie interpretative se non
addirittura quegli assetti mentali che determinano il nostro rapporto con il mondo.
Aiutandoci a rendere comprensibile il possibile che ci attende.
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Carlo Infante - Vertigine immersiva
Indice
1.
IL PERTURBANTE .................................................................................................................................. 3
2.
L'IMPATTO IMMERSIVO ....................................................................................................................... 7
3.
AGIRE NELLA VISIONE ...................................................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 15
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1. Il perturbante
La vertigine immersiva di cui stiamo trattando è a tutti gli effetti una distorsione della
percezione sensoriale, talmente destabilizzante da influire sul movimento della persona,
alterandole la percezione dello spazio in cui si trova. Ciò può essere caratterizzato da una perdita
di equilibrio ma anche dall’acquisizione di un’ulteriore coscienza percettiva.
Chi ha provato un sistema di realtà immersiva può capire in cosa consista quella
alterazione della percezione spaziale e di conseguenza quella perdita di equilibrio che può
comunque essere compensata dal fatto di fare un’esperienza significativa, per quanto
perturbante.
In quest’ultima parola c’è il focus della questione che sottende la vertigine immersiva. Il
perturbante è un aggettivo sostantivato coniato dal neurologo e psicoanalista Sigmund Freud per
intendere uno spaesamento che genera sia timori sia affascinazioni.
Nel concetto di perturbante si esprime qualcosa di attinente l’ambito culturale, prossimo
alla temperie di quel romanticismo tedesco che trovò nello “Sturm und Drang” (tempesta e
impeto) una particolare attitudine al sentimento dell’inquietudine. Per tutti gli altri aspetti, più
relativi al fatto di subire l'impatto emozionale verso una sovrabbondanza di bellezza, c’è il
fenomeno che è riconosciuto come la sindrome di Stendhal, cosiddetta per la vertigine vissuta da
quello scrittore francese in viaggio in Italia, nel 1817, in un Grand Tour tra le bellezze dell’arte
italiana che lo stordirono.
Il fatto interessante è che il processo cognitivo scatenato dai neuroni specchio durante la
contemplazione della bellezza può generare, nell'osservatore, degli stati emozionali inconsci, così
intensi da produrre vertigine. Le recenti scoperte sui neuroni specchio riconoscono che il provare
una emozione e condividerla con altri, possa attivare strutture neurali simili, in corrispondenza,
come per affinità. Attività neurologiche che arrivano a spiegare l'empatia.
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Carlo Infante - Vertigine immersiva
La dissonanza cognitiva
Una vertigine immersiva come quella virtuale può quindi essere associata alla
contemplazione della bellezza ma la questione non è d’ordine estetico bensì psicologico. Un altro
fattore è quella sensazione perturbante utilizzata nella letteratura (una figura di riferimento è, per lo
stesso Freud, E.T.A. Hoffmann) dove in racconti fantastici si tratta di automi e di sottili ibridazioni tra il
naturale e l'artificiale. La situazione perturbante scatena una condizione particolare, spiazzante e
dirompente, che è stata definita mezzo secolo fa dissonanza cognitiva.
La dissonanza cognitiva è una teoria della psicologia sociale che descrive la situazione di
complessa elaborazione cognitiva in cui nozioni, se non certezze, entrano in contrasto funzionale
tra loro nel corso di un evento disruptive. Il fatto stesso di vivere un’esperienza che si considerava
impossibile è una di queste. Decenni fa l’immersione in un sistema di realtà virtuale in cui ci si
ritrovava protagonisti di una visione a cui si stava assistendo, produceva dissonanza cognitiva,
quasi sempre.
Si entrava dentro ciò che si stava vedendo. Una vertigine che induceva dissonanza
cognitiva, affascinando.
Eppure la dissonanza cognitiva tende a produrre un effetto di disagio, per cui in molti
tendono a rigettare quelle condizioni d’inquietudine e di spiazzamento. Va infatti contemplato il
fatto che un’esperienza radicale che tende a sovvertire lo schema di gioco venga rifiutata. Una
famosa favola di Esopo esplicita questa situazione, è quella della volpe e l'uva, in cui la dissonanza
cognitiva fra il desiderio dell'uva e l'incapacità di arrivarvi conduce la volpe a elaborare la
conclusione che "l'uva è acerba".
Ecco un altro punto cardine: l’innovazione digitale per troppi anni è stata fatta passare
come “acerba”, sottraendo intelligenza applicativa ad un campo su cui oggi stiamo rilevando un
grave ritardo. Esperienze più avanzate come quelle delle realtà virtuali, capaci di disorientare per il
rischio di vertigine immersiva, sono state per troppo tempo messe da parte, rimosse.
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Carlo Infante - Vertigine immersiva
La vertigine immersiva produce un discrimine, è certo. Ciò non toglie che rappresenti una
delle condizioni limite, attraverso cui intraprendere particolari percorsi formativi funzionali allo
sviluppo di una consapevolezza complessa di ciò che riguarda le incognite del virtuale.
William Gibson, lo scrittore canadese che più di altri ha connotato il fenomeno letterario di
fantascienza cyberpunk, parla infatti della realtà virtuale come di una allucinazione consensuale,
tanto per spingere l’acceleratore sulla singolarità di queste esperienze. Il termine allucinazione è
però fuorviante, visto che è inteso come “falsa percezione in assenza di uno stimolo esterno reale”.
L’allucinazione a cui fa riferimento Gibson, nel momento in cui la associa al termine consensuale,
presuppone altre condizioni: è un’esperienza reale che si commisura con le realtà virtuali,
indossando visori stereoscopici e data glove, per cui si entra consapevolmente in un ambiente
digitale. Ripetiamo: si entra dentro un’altra dimensione, dove l'illusione cognitiva sollecitata dalla
simulazione digitale si sviluppa nella mente dell’utente che sta vivendo l’esperienza immersiva.
Dal punto di vista al punto di vita
Il fatto stesso di parlare di vertigine è sintomatico di questa particolare condizione
immersiva che sottende spiazzamento. Accettare il fatto di “essere dentro” la memoria di un
computer, per quanto oggi sia normale, garantiamo che decenni fa disorientava non poco.
L'aspetto più importante della navigazione ipermediale è quell’approccio personalizzato
che stabiliamo con i sistemi della comunicazione digitale attraverso l’interattività. In quegli
ambienti, videogame o web che sia, tutto risponde ai nostri interventi, si dimensiona alle nostre
richieste, ovvero agli input stabiliti dal nostro cliccare, dal nostro tocco.
Quelle informazioni organizzate nello schermo reagiscono alla nostra presenza mediata dal
cursore del mouse o da qualsiasi altra interfaccia, compresa la tastiera che rappresenta oggi il
piano, meglio l’ultima spiaggia per dare l’idea di rara opportunità, su cui si basa il rapporto tra la
nostra comprensione alfabetica dei linguaggi e quella essenzialmente visiva e sinestetica dei
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dispositivi digitali. Con una tastiera digiti dei comandi, scrivi, ma con un mouse, con un joystick o
con il touch il corpo si estende, l’interazione con il dispositivo si fa più diretta.
Quella nostra presenza ad ogni cliccata viene dichiarata nello schermo, espressa, agita. E
ottiene feedback immediato. È in questa situazione che c'è da considerare un fattore inusuale per
l'uomo abituato a stabilire il rapporto tra sé, il proprio corpo, e il mondo esterno. Oggi sembra
normale qualcosa che fino a trent’anni fa non lo era affatto. Il fatto stesso di muovere con un
mouse un oggetto dentro la cornice di un monitor, negli anni Ottanta, era sufficiente per capire
quanto fosse “impossibile” quell’azione.
Nel mondo agiamo, viviamo, lo abitiamo, nello schermo anche, ci viviamo, lo agiamo ed
abitiamo. Oggi è possibile concepire questo, un paradosso certo, ma credibile. Rendere
comprensibile il possibile è l’unico modo per superare le impossibilità immaginarie.
Impariamo a vivere il mondo. Impareremo a vivere lo schermo.
Dopotutto Marshall McLuhan, già negli anni Sessanta, lo aveva presagito: “In quest’era
elettrica ci vediamo sempre più trasformati in informazione, in marcia verso l’estensione
tecnologica della coscienza”.
Oggi però, in questa fase di passaggio epocale, stiamo assistendo ad un andamento
discontinuo, scisso tra entusiasmi e diffidenze, inibito paradossalmente da troppa offerta
tecnologica. Un problema quest’ultimo tutt’altro che secondario.
Perchè non pensare quindi al digitale come un nuovo ecosistema da cui cogliere le
opportunità per reinventare i nostri modelli di vita e di produzione?
Non è una domanda così peregrina se si vuole concepire l'ipermedia come un nuovo
ambiente e non solo come uno strumento.
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2. L'impatto immersivo
I sistemi dell'apprendimento hanno tradizionalmente, anteposto al mondo il libro, anche se
in questi ultimi decenni la televisione ha prodotto un fortissimo elemento di disturbo, determinando
una rivoluzione psicologica sul piano dei consumi culturali e a lungo andare sul complessivo
rapporto con la realtà.
Le informazioni, le immagini, i saperi tendono infatti ad essere consumati per automatismo,
con un approccio non più fondato sulla decodifica della scrittura ma sulla sensorialità. È un fatto
particolarmente significativo per la nostra civiltà occidentale, o meglio per quelle culture fondate
sul Libro (quelle legate alle tre grandi religioni: cristiana, islamica ed ebraica) che trovano nella
dimensione alfabetica e logico-lineare il loro perno cognitivo.
Quel perno si sta indebolendo.
Come ristabilire un equilibrio tra la relazione simbolica con la scrittura e quella percettiva
della dimensione audiovisiva? È nella risposta a questa domanda che emerge tutta la potenzialità
dell'evoluzione digitale.
Nei media interattivi riemergono le complessità dell'alfabeto coniugate all'impatto diretto
ed immersivo della visione e dell'ascolto. Per questo motivo è opportuno iniziare a relativizzare
alcuni assunti.
Con l’alfabeto nasce l’idea teorica del mondo: dare nome alle cose è stato ed è
fondamentale. Così come lo è la scrittura che formalizza all’esterno del corpo il pensiero e come lo
è la lettura che la ricostruisce in un'elaborazione interiore. Ma sono funzioni esclusive dell’emisfero
sinistro del cervello, quello che tende a ricomporre il tessuto cognitivo delle nostre esperienze.
Fondamentale,
ma
abbiamo
visto
che
quando
altre
tecnologie,
come
quelle
radiotelevisive, prendono il sopravvento le tecnologie scrittura e lettura, rischiano di essere
accantonate perché troppo faticose da esercitare.
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Lo sviluppo audiovisivo ha portato all'estrema conseguenza la dinamica lineare, logicoconsequenziale della descrizione del mondo, l'ha resa più facile e immediata coltivando
un'attitudine propria della cultura occidentale, quella del "punto di vista". Io sono qui, il mondo è là.
Tutto il sistema della rappresentazione visiva ce lo conferma, dai graffiti rupestri alla
televisione. Il cinema poi è il precipitato culturale di questo stesso principio psichico: fare della
narrazione una visione da ridistribuire sul piano mentale secondo sequenze.
Si esprime per “racconti esteriori”, racconti che portano fuori del corpo la percezione dello
spazio e del tempo. Entriamo in relazione con il punto di vista del regista e lo accettiamo o meno,
proiettandoci o identificandoci. È più semplice, è già risolto, la visione è compiuta al di fuori di noi,
la osserviamo dall'esterno piuttosto che processarla attraverso l'elaborazione interiore basata sulla
lettura che ci permette di formare un punto di vista seguendo le tracce disseminate dalla scrittura
di un autore letterario.
La televisione ha esaltato tutto ciò imponendolo nella quotidianità, traendone anche la
cifra immaginaria, quella che ritroviamo nell'ordinarietà dei serial.
E allora?
Il nuovo paradigma del virtuale ci invita a riflettere sul fatto che possiamo rimettere in gioco
una disponibilità intellettuale capace di far interagire l'aspetto percettivo con quello cognitivo,
iniziando a superare il punto di vista.
È infatti questo il primo anello della catena da far saltare, o perlomeno da relativizzare, nel
momento in cui entriamo in relazione con lo schermo e con l'immersione ipermediale.
Quando si naviga si è dentro lo schermo, non fuori a vedere.
Una questione sottile ma netta, precisa come una discriminante.
È questa la soglia tra la dimensione reale e quella virtuale. È il passaggio dal punto di vista
al "punto di vita" della navigazione nel nuovo spazio-tempo digitale. Ovvero quel cosiddetto
"punto di presenza" di cui parlò Derrick de Kerckhove nel definire la nostra azione nello schermo di
un computer.
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Il passaggio verso una condizione in cui riconsiderare le stesse categorie stabilite di spazio e
di tempo.
Il “Ma”, una misura armonica dello spazio-tempo
È nello studio del rapporto tra corpo e spazio, dall’invenzione rinascimentale della
Prospettiva al “modulor” (il design a misura d’uomo) di Le Corbusier, che le tecnologie
determinano il loro grado d’impatto con l’evoluzione umana.
Seguire questa traccia è quello che più mi interessa perché rivela l’entità psicologica del
problema e di conseguenza della risposta educativa da progettare.
In altre culture, diverse da quella eurocentrica, questa problematica gode di tutt’altre
sfumature, e può essere utile individuarle.
Nella tradizione giapponese, ad esempio, esistono condizioni particolari che permettono di
stabilire in forma rituale delle relazioni con l’ambiente. Tra queste la più emblematica è quella
definita "Ma": una parola per intendere la misura armonica dello spazio-tempo.
Per un occidentale non è facile comprendere una concezione che sottende l'estetica, le
arti marziali, le proporzioni dei giardini, la cerimonia del tè.
"Il Ma - sostiene Michel Random (uno dei maggiori studiosi di cultura giapponese) è
percepito dietro ogni cosa come un indefinibile accordo musicale, un senso dell'esatto intervallo
capace di provocare la risonanza perfetta".
Possiamo così individuare nel Ma un'attitudine psicologica in grado di coniugarsi con la
dimensione ambientale, al di là della sua connotazione naturale o artificiale. In questo senso può
essere utile alla nostra riflessione sull’ambientamento nello spazio del web.
La dimensione digitale sta producendo alterazioni profonde: cambia la velocità dei
movimenti ottici e ancor più la funzione sinaptica del nostro cervello. Si tratta quindi di capire in
che misura la nostra psicologia assume queste modificazioni come nuova fisiologia, come nuova
natura sensoriale.
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Per intenderci: qualsiasi interazione a distanza (già accadde all'inizio del secolo per il
telefono) tende a riconfigurare il nostro rapporto con lo spazio esterno. Ci costringe ad una
revisione radicale della nostra impostazione psichica ma dopo un po' tutto questo si riassorbe,
diventa naturale.
Oggi, attraverso diversi programmi di modellizzazione tridimensionale a basso costo, è
possibile creare oggetti virtuali da condividere anche con stazioni remote; per quanto digitali, non
fisici, quegli oggetti possono essere “toccati”, spostati via internet.
Il salto paradigmatico è in questa nuova coscienza: saper vivere una simulazione come
un'esperienza reale, abitando spazi-tempo digitali. Nell’immersione sensoriale all’ “interno” di un
ambiente telematico o virtuale accade infatti qualcosa di molto preciso: si è dentro. Non si sta a
guardare, si è lì, non c'è punto di vista prospettico a rassicurarci. È a questo punto che si stabilisce il
valore dell’esperienza: si agisce in prima persona, quel nostro cliccare è un atto che produce
effetti, feedback precisi. Non c'è più punto di vista ma punto di vita, in quell’ambiente digitale si
esiste: opera qualcosa di noi.
Il puntatore di un mouse è quindi un nostro simulacro, e questo acquista ancor più
pregnanza quando interviene l’avatar, una sorta di pupazzetto che - negli ambienti telematici
realizzati in VRML (il Virtual Reality Modelling Language) o Active Worlds, se non Second Life
(software che permettono la tridimensionalità interattiva) - svolge in tempo reale con le “cliccate”
le nostre funzioni on line.
Il nostro essere dentro l'ambiente digitale esprime così un punto di vita che ci permette di
agire nella visione. Ecco, agire nella visione, è questo il concetto forte.
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3. Agire nella visione
Questa azione nella visione è in qualche modo paragonabile a qualcosa che accade nello
spettatore teatrale quando seleziona i dettagli del movimento scenico, sinestetico per eccellenza.
Per concludere, chiudendo il cerchio del ragionamento iniziale, credo che questa nostra
presenza attiva nello schermo possa trovare la risposta al dilemma posto: come riequilibrare la
dimensione simbolica della decodifica alfabetica con quella percettiva della composizione
audiovisiva? Nella vita, sempre, siamo multisensoriali, la nostra educazione monomediale ci ha
però abituato ad operare settorialmente.
La multimedialità immersiva ci pone di fronte ad un'evidenza, i piani percettivi sono
simultanei, leggo, vedo, sento. È in questa sinestesia agìta consapevolmente che possiamo dare
luogo ad una fortissima interazione tra processi cognitivi e sensori, riscoprendo il valore della lettura
rispetto agli automatismi del consumo televisivo.
Vedo le parole, leggo le immagini. È un'attitudine che si sta evolvendo in chi naviga nel
web, dove la componente scritta è molto presente anche se estremamente graficizzata, resa
logo, immagine. In queste nuove sensibilità si colgono i segnali di una forte trasformazione
culturale, sottotraccia, non esplicita forse, ma presente. Segni di una metamorfosi del nostro
sentire. Un andamento che vale intraprendere.
Si tratta di mettere le ali, e non più solo le ruote, al nostro progetto evolutivo. Le ali, due,
quella sinistra, corrispondente all'emisfero cerebrale atto a ricostruire in modo sequenziale i principi
simbolico-ricostruttivi, e quella destra che rimanda all'emisfero che procede per sollecitazioni
sensoriali.
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La vita dentro lo schermo
La vita reale e quella sullo schermo sono quindi realtà? È intorno a domande come questa
che Sherry Turkle, ricercatrice del MIT (Massachusetts Institute of Technology), sviluppa la sua
ricerca antropologica dai tempi di “La vita nello schermo “(Life on the Screen) uscito già nel 1995.
Vi si tratta di “un nuovo senso d’identità, decentrata e multipla” reso possibile dall’interazione con il
computer inteso e usato come un “oggetto in grado di riportare con i piedi per terra il postmoderno”. Molte interviste raccolte in tutti questi anni fanno emergere un dato importante: il
confine tra la vita reale e quella sullo schermo diviene via via sempre più labile. E sempre più
indistinto, con tutte le criticità che ciò comporta, con effetti positivi e negativi.
C’è un altro dato empirico rilevato da Sherry Turkle: l’on line sconfina regolarmente nell’off
line, gli utenti digitali passano dalla vita dentro i social network agli appuntamenti in presenza,
coinvolti in attività di natura sociale sul territorio.
L’antropologa del cyberspazio, così fu definita all’uscita del suo libro Sherry Turkle, mette in
evidenza un aspetto strategico dell'evoluzione digitale, la condizione ibrida, tra naturale e
artificiale, tra on line e off line.
On Life
Luciano Floridi, filosofo italiano naturalizzato britannico e professore ordinario di filosofia ed
etica dell'informazione presso l'Oxford Internet Institute dell'Università di Oxford per spiegare questa
condizione ibrida tra quei due piani di realtà, evoca la botanica, parlando di mangrovie: “Vivono
in acqua salmastra, dove quella dei fiumi e quella del mare si incontrano. Un ambiente
incomprensibile se lo si guarda con l’ottica dell’acqua dolce o dell’acqua salata. On life è questo:
la nuova esistenza nella quale la barriera fra reale e virtuale è caduta, non c’è più differenza fra
“online” e “offline”, ma c’è appunto una “onlife”: la nostra esistenza, che è ibrida come l’habitat
delle mangrovie”.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Vertigine immersiva
È chiarissimo, ancora una volta dalla natura arrivano risposte ai quesiti più complessi.
Il fatto che questa diffidenza nei confronti del virtuale e del web sia così diffusa è data
dall’impostazione del sistema scolastico nel separare pensiero scientifico-tecnologico da quello
umanistico.
“Il nuovo crea incertezza. Ma c’è anche scoperta e possibilità. C’è un mondo nel quale
vivere, e non è solo fatto di pericoli mortali né è il paradiso in Terra”, ribadisce Floridi, chiarendo il
fatto che è necessario investire più coraggio culturale nel misurarci con esperienze da cui si teme
di essere spiazzati.
È diffuso un sentimento per cui ci si sente impreparati, anche perché l’offerta tecnologica è
molto più forte della domanda, vengono messe a disposizione “tecnologie straordinarie davanti
alle quali non siamo all’altezza”.
La questione cruciale quindi non può essere quella dell’adattamento e dell’adeguamento,
occorre una nuova strategia di formazione continua che espanda la creatività applicativa per
fare in modo che si sviluppi un’innovazione adattiva.
Ora siamo noi ad adattarci alle tecnologie, questo rapporto va ribaltato, evolvendo il
valore d’uso delle tecnologie, reinventando la funzione, creando le opportunità perché
l'innovazione digitale si adatti alla nostra tensione evolutiva.
Oggi le nostre decisioni sono viziate, quando scegliamo un albergo, la musica da ascoltare,
le scarpe da comprare o il film da guardare lo facciamo influenzati in base ai suggerimenti che
provengono da algoritmi che elaborano i big data che produciamo, come in una vasta scia nella
frequentazione dei social network.
Si tratta di una costante erosione dell’autonomia individuale.
Essere coscienti che la condizione in cui stiamo vivendo trova una delle migliori definizioni in
On Life può aiutarci a comprendere come stia radicalmente cambiando il nostro assetto vitale.
Una modificazione che è in corso da tempo ma su cui è decisivo porre più attenzione, senza aver
timore delle vertigini, per produrre e mettere in campo gli anticorpi adeguati.
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Carlo Infante - Vertigine immersiva
È una questione prioritaria per cui la Commissione Europea ha avviato un piano con sette
obiettivi di crescita da raggiungere entro il 2020. Uno di questi sette obiettivi riguarda l’Agenda
Digitale, e si propone di aiutare i singoli Stati membri a sfruttare meglio il potenziale delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione.
Tra queste azioni ce n’è una che prende proprio il nome di “On life Initiative” con il motto di
“ripensare agli spazi pubblici nella transizione verso il digitale”. È un progetto condotto da un
gruppo di 13 studiosi di antropologia, computer science, neuroscienze, scienze politiche, filosofia,
sociologia e psicologia, guidati proprio da Luciano Floridi.
È importante che si delinei una strategia istituzionale che intenda contestualizzare questa
transizione verso il mondo digitale, per rendere ancora più pubblico e condiviso lo spazio pubblico
della realtà che ci circonda. Accogliendo quelle esperienze immersive delle realtà virtuali,
traducendole in condizione vitale, dove l’essere on line diventa on life, in una vita che si evolve in
via direttamente proporzionale alla nostra intelligenza che non ha avuto timore delle vertigini
immersive, per ambientarsi nei nuovi contesti di relazione sociale.
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Carlo Infante - Simulazione come apprendimento esperienziale
Indice
1.
IMPARARE A IMPARARE. IL VALORE GENERATIVO DELL’AUTO-APPRENDIMENTO ............................ 3
2.
LA SIMULAZIONE COME LABORATORIO VIRTUALE ............................................................................ 5
3.
L'INTELLIGENZA ARTIFICIALE COME MAESTRO .................................................................................. 8
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 15
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Carlo Infante - Simulazione come apprendimento esperienziale
1. Imparare a imparare. Il valore generativo dell’autoapprendimento
Selezionare le informazioni sulla base di un input percettivo in ambiente digitale comporta
un nuovo ambientamento nello spazio-tempo della simulazione. In un ambiente ipermediale ci si
educa per auto-apprendimento, misurandosi con le condizioni generative dell'imparare a
imparare.
Navigare in ambienti multimediali e telematici può essere considerata un’esperienza
educativa tout court.
Il fattore di grande novità risiede nella capacità di selezionare le informazioni sulla base di
un input percettivo, da elaborare in modo funzionale nel processo cognitivo. Si tratta di valutare
questa esperienza come un nuovo ambientamento nello spazio-tempo della simulazione digitale,
secondo una progressiva facilità d'accesso nel trattare certe procedure sempre meno tecniche,
sempre più automatiche, in una nuova sensibilità culturale interattiva.
In
un
ambiente
fondamentalmente
per
multimediale
la
formazione
auto-apprendimento,
acquista
misurandosi
con
le
un
valore
potenzialità
generativo,
di
nuova
comunicazione e di trasmissione ipertestuale dei saperi.
L’educazione nel nuovo ambiente digitale si coniuga con la comunicazione, rilanciando il
senso che sta alla base del concetto stesso di navigazione interattiva, con una prerogativa non
indifferente: la personalizzazione del percorso, l’autonomia della scelta. È per questo che oggi, con
l’avvento delle nuove tecnologie digitali e delle reti telematiche in particolare, le procedure di
apprendimento stanno cambiando vertiginosamente. In questo senso è opportuno che vengano
riconfigurati gli assetti del sistema educativo perché l’istruzionismo non è più sufficiente a soddisfare
la domanda di formazione.
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Carlo Infante - Simulazione come apprendimento esperienziale
Educare, tirar fuori
È nel principio attivo che sta alla base della comunicazione che si può rilanciare il valore
portante dell’educazione oggi, trovando una stretta misura di relazione tra l’etimo della parola
latina educere (educare) per cui s’intende “tirar fuori” e in cui è insita l’idea del condurre fino ad
avvicinarla alla parola greca kyber per cui s’intende il pilota che conduce, appunto, per mare.
Pensando la rete come nuovo ambiente da esplorare, sarà infatti necessario riconfigurare il
concetto stesso di educazione permanente sempre più inscritta in un processo di esperienzialità,
considerando che in futuro occorrerà sempre più condividere le nostre azioni oltre che nello
spazio-tempo fisico anche in quello digitale.
Ricordiamoci poi che kyber è alla radice del termine cibernetica, nata negli anni Quaranta
del secolo scorso, come campo di studi comune tra l'ingegneria, la biologia e le scienze umane,
che è a monte di tutta la rivoluzione digitale e delle modalità di simulazione.
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Carlo Infante - Simulazione come apprendimento esperienziale
2. La simulazione come laboratorio virtuale
Per simulazione si intende un modello della realtà che consente di valutare e prevedere lo
svolgersi dinamico di una serie di eventi o processi susseguenti all’imposizione di certe condizioni
da parte dell’utente.
Un simulatore di volo ad esempio consente di prevedere il comportamento dell’aereo a
fronte delle sue caratteristiche e dei comandi del pilota. La simulazione infatti altro non è che la
trasposizione in termini procedurali (spesso logico-matematici) di un modello concettuale della
realtà che può essere definito come l’insieme di processi che hanno luogo nel sistema valutato e il
cui insieme permette di comprendere le logiche di funzionamento del sistema stesso.
La simulazione è assimilabile ad una sorta di laboratorio virtuale che consente spesso anche
un abbattimento dei costi di studio rispetto ad esperimenti complessi realizzati in laboratorio reale.
In ambito educativo le simulazioni hanno a volte carattere ludico o sono spesso dei veri e propri
software che riproducono esperienze simili a quelle reali, utili per apprendere, specie in quei campi
in cui è difficile, quando non addirittura impossibile, riprodurre fisicamente in laboratorio reale le
effettive condizioni da studiare (ambienti storico-geografici, esperimenti scientifici ecc.). Per la sua
natura laboratoriale, la simulazione consente quindi la riproposizione di una forma di
apprendimento per esperienza. Il termine simulazione in un’accezione più ampia viene visto come
anticipazione mentale di un processo da eseguire. Può essere considerato tale un processo
effettuato in fase di progettazione per comprendere come evolverà il sistema per effetto delle
azioni proposte.
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Simulare il possibile al di là del reale
Simulare il possibile al di là del reale può servire a capire il reale, perché creando il possibile
si allarga il campo di fenomeni con i quali mettere alla prova le nostre ipotesi e le nostre teorie sul
reale
Domenico Parisi
La simulazione è il terzo degli strumenti della scienza oltre i due tradizionali, gli esperimenti in
laboratorio e le teorie. Come teoria, essa non ricorre alle normali parole o a simboli della
matematica, ma si incorpora in un programma di computer. Girando nel computer in quanto
software, la simulazione digitale dà luogo a predizioni empiriche che derivano dalla teoria, e
funziona come un laboratorio virtuale nel quale, come nel laboratorio reale, il ricercatore osserva i
fenomeni in condizioni controllate, manipola le condizioni stesse e scopre le conseguenze di tali
manipolazioni. Il vantaggio è che una teoria espressa come simulazione deve essere
necessariamente esplicita, completa e dettagliata, vantaggio particolarmente attraente per le
scienze dell'uomo le cui teorie raramente hanno queste caratteristiche.
Solo le simulazioni consentono di affrontare la complessità dei fenomeni superando le tre
grandi separazioni che impediscono alle scienze dell'uomo di compiere veri progressi: tra mente e
natura, tra individuo e società, tra visione sincronica e visione storica dei fenomeni umani.
“Conoscere e comprendere la realtà è l’obiettivo che si cerca di raggiungere per vie
diverse con la simulazione digitale”, sostiene Domenico Parisi, già direttore dell’Istituto di Psicologia
del CNR.
Nell’ambiente digitale la realtà si può capire non solo nei modi da tempo famigliari alla
scienza (osservazione sistematica, esperimento di laboratorio, elaborazione di teorie) ma anche
ricreandola, simulandola all’interno di un computer.
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Carlo Infante - Simulazione come apprendimento esperienziale
3. L'intelligenza artificiale come maestro
La tecnologia digitale può creare ambienti di simulazione gestiti dal computer, ciò libera la
costruzione dei modelli ricostruiti sulla base di quelli della materialità per sperimentarne gli sviluppi in
ogni campo.
Il computer essendo una macchina interattiva è in grado di far svolgere perfettamente i
cicli di osservazione-azione che caratterizzano il lavoro esperienziale con i modelli simulati, sulla
base degli input stabiliti dall’utente che li utilizza nell’ambiente digitale.
È inoltre possibile incorporare quell'intelligenza artificiale che può svolgere il ruolo di
maestro, esercitando modalità di problem solving che abilitano l’utente ad affrontare la
simulazione in un contesto di apprendimento interattivo.
Tutto questo è incorporato in software del quale si possono fare infinite "copie" a costo
irrisorio, che possono essere diffuse ovunque.
La simulazione gestita dal computer può essere la nuova bottega completa di maestro e
modelli, che ha però caratteristiche editoriali, la filiera produttiva tipica della stampa. Questi
simulatori, con tutte le caratteristiche che abbiamo descritto, esistono già in nuce in tanti
videogame in circolazione, come quelli di simulazione dell’evolversi delle civiltà o di battaglie
storiche.
Meglio ancora: un simulatore gestionale può mettervi nella condizione di ritrovarvi a capo
di un'impresa che deve costruire e gestire le ferrovie di un intero Paese. Avrete a che fare con
progettisti, appaltatori, ambientalisti, banche, finanziatori, sindacati, amministratori nazionali e
locali che rispondono alle vostre richieste e alle vostre mosse. Dovrete elaborare strategie che vi
consentano di non fallire e progredire: nel fare questo s’apprende che cosa sono e come
funzionano cose come costi, investimenti, profitti, indebitamenti, interessi, e così via.
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La teoria dei sistemi
Nella teoria dei sistemi, definita sistemica, il settore di studi interdisciplinari, a cavallo tra
matematica e scienze naturali, la simulazione digitale ha determinato un epocale salto di qualità.
La simulazione nella teoria dei sistemi riproduce ogni procedimento atto a studiare il
comportamento di un sistema in determinate condizioni che si basi sulla riproduzione del sistema o
dell'ambiente in cui esso deve operare attraverso modelli (siano essi meccanici, analogici,
numerici, matematici o altro): per es., nella tecnica, si può realizzare la simulazione della sequenza
di montaggio di un dispositivo complesso utilizzando riproduzioni (in materiali più leggeri o in scala
ridotta) delle varie parti da assemblare... [da Il Vocabolario Treccani]
L'espressione cruciale è "la riproduzione del sistema attraverso modelli". Perché può essere
utile e vantaggiosa una simile riproduzione? Perché permette di operare sul sistema (ad esempio,
per vedere come funziona in particolari circostanze o per modificarlo, ecc) anche quando non è
possibile operare sul sistema reale. Ad esempio, perché è molto costoso: se si deve costruire
un'automobile o un aereo per vedere come si comporta aerodinamicamente conviene costruire
un modello che ne mantenga le proprietà rilevanti, e quindi permetta di sperimentarne il
comportamento, con costi lungamente inferiori. Oppure perché può essere pericoloso: se, ad
esempio, si tratta di un nuovo sistema per spegnere incendi nei pozzi di petrolio - materiali,
procedimento, ecc. - conviene certamente costruire un modello in scala ed effettuare, appunto,
una simulazione. Può anche trattarsi del fatto che sul sistema reale si possa operare una sola volta,
ed è quindi cruciale non sbagliare l'operazione che si vuole compiere: ad esempio, se si deve
montare un'apparecchiatura nello spazio - un telescopio o un'antenna - è necessario essere sicuri
che la procedura funzioni bene e dia il risultato voluto la prima e unica volta che può essere
applicata. Conviene quindi, anche qui, costruire un modello e operare una simulazione.
Quest'ultimo caso si presta anche a un altro uso altrettanto fondamentale: far apprendere
all'operatore, a colui che dovrà poi effettivamente montare l'apparecchiatura nello spazio, la
procedura stessa. Di fatto, anzi, gran parte dei modelli e delle simulazioni sono costruiti proprio per
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Carlo Infante - Simulazione come apprendimento esperienziale
far apprendere: anche la simulazione della tecnica e procedura di spegnimento di un incendio
appena citata può essere effettuata per insegnare agli operatori come eseguirla correttamente e
senza rischi. Esaminiamo ora come funziona quest'apprendimento: imparo facendo. Si opera sul
modello con la propria azione, il modello reagisce, si osserva il risultato, su questa base si effettua
l'azione successiva: o andando avanti, se il risultato osservato è conforme alla aspettativa, oppure
correggendo l'azione appena fatta, se il risultato non è soddisfacente, e così via. Si prova e riprova;
probabilmente interverrà anche un "maestro": qualcuno che farà vedere come si fa o che
orienterà e correggerà opportunamente l’azione. Alla fine di questo processo si sarà imparato:
prima non si era a conoscenza di come fosse fatta, né come si montasse un'antenna, adesso lo si è
appreso. Dovrebbe essere evidente come questa descrizione corrisponda perfettamente a quello
che abbiamo chiamato apprendimento esperienziale.
Se qualcuno non fosse stato convinto da questo ragionamento, proprio quegli esempi
mostrano la superiorità dell'apprendimento esperienziale rispetto a quello tradizionale, basato sul
principio simbolico-ricostruttivo della lettura alfabetica dei manuali d’istruzione, magari con
qualche slide.
Quando vogliamo essere sicuri che la conoscenza sia veramente acquisita e che la si
sappia applicare nel contesto reale in cui è necessaria, ci fidiamo solo di questo tipo di
apprendimento. Certo, perché per insegnare queste cose potremmo benissimo utilizzare il modo
simbolico-ricostruttivo: anziché costruire un modello e effettuare simulazioni potremmo consegnare
a colui che deve apprendere un libro e farglielo studiare, così come si fa a scuola.
Ciò che maggiormente ci interessa qui è che, come abbiamo visto da questi esempi, la
simulazione costituisce un modo per apprendere esperienzialmente anche quando non si ha a
disposizione la realtà su cui fare esperienza e operare. La simulazione è quindi un modo, almeno in
linea di principio, per rimuovere quei limiti di presenza e contatto fisico che rendono
l'apprendimento esperienziale accessibile a pochi, e lavorare invece sulla realtà, operando su
modelli, che possono essere replicati e resi accessibili.
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Il problema è che, fino ad oggi, la costruzione di modelli ben funzionanti per poter simulare
la realtà è stata anch'essa un'impresa abbastanza difficile e costosa: per questo è stata applicata
solo a quei casi abbastanza estremi del tipo di quelli che abbiamo in precedenza esemplificato.
Supponiamo, invece, che si possa facilmente costruire modelli di questo tipo per i più
svariati settori, che si disponga cioè di un costruttore di modelli modulare e che per di più questi
modelli siano facilmente riproducibili, trasportabili e diffondibili ovunque a costi relativamente bassi.
Supponiamo inoltre che questi modelli possano incorporare l’intelligenza artificiale e cioè che non
solo reagiscano automaticamente alle azioni comportandosi di conseguenza ma che siano anche
in grado di commentarle, indicando se l'azione sia giusta o suggerendo l'azione da fare in una
certa circostanza, e magari mostrandola: in una parola, che incorporino anche la funzione di un
"maestro" esperto, espresso dalla intelligenza artificiale. Non sarebbe allora possibile pensare a
generalizzare ovunque la modalità di apprendimento esperienziale, né più e né meno di come la
possibilità di riprodurre facilmente e a basso costo qualunque testo ha generalizzato la modalità di
apprendimento simbolico?
Nel sistema scolastico tradizionale invece si simula l'apprendimento delle conoscenze;
questa simulazione ha anche un rituale piuttosto elaborato: compiti a casa e in classe,
interrogazioni, attribuzioni millimetriche di voti. Insomma tutto ciò che serve a garantire e certificare
- se il rituale ha esito positivo - che l'acquisizione è avvenuta.
Se si fosse appreso, allora si dovrebbe sapere: se si prendono i due criteri cardine che
attestano l'esistenza del sapere qualcosa, e cioè, che questo qualcosa sia stato capito e che,
proprio per questo motivo, lo si ritenga - perché lo si è assimilato, come si dice - è facile rendersi
conto che quasi mai queste condizioni sono soddisfatte per il sapere che si dovrebbe aver appreso
a scuola.
Il fatto è che si è disposti a cambiare l'aspetto della simulazione, il "simulacro", si potrebbe
dire con un'altra parola che significativamente condivide la stessa radice, ma non la simulazione
stessa: il fatto che si simuli. Bisogna infatti capire che per cambiare quest'ultimo sarebbe necessario
cambiare radicalmente la struttura stessa della scuola.
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La scuola è organizzata intorno a una certa modalità di apprendimento, quella simbolicoricostruttiva, a sua volta supportata da una certa tecnologia, quella della stampa. Le conoscenze
sono formulate in un testo, vale a dire in un'estensione di linguaggio totalizzante e autosufficiente,
tipicamente incarnato nella forma-libro. Questo testo è composto di simboli linguistici che vanno
decodificati per ricostruire gli oggetti e le situazioni cui essi si riferiscono: questa ricostruzione
avviene interamente nella mente e sempre nella mente si opera su di essa per elaborarla.
La scuola, invece, non prevede e non sfrutta affatto l'altra modalità di apprendimento di
cui disponiamo, quella percettivo-motoria. In questa non si opera sui simboli ma sulla realtà, e non
si opera all'interno della propria mente, ma all'esterno con la percezione e l'azione. Si osservano
fenomeni e comportamenti, si interviene con la propria azione per modificarli, si osservano gli
effetti della propria azione, si riprova a intervenire, e così via. Si ripetono tipicamente cicli di
percezione e azione ciascuno operante sul risultato dell'altro: insomma si prova e riprova. La
conoscenza emerge da questo fare esperienza.
Gli apprendimenti di origine esperienziale sono accessibili quando servono realmente:
quando cioè si presenta un contesto in cui dobbiamo metterli in pratica; sono invece scarsamente
accessibili in astratto, al di fuori di ogni contesto: per esempio, quando qualcuno ci domanda
"come si fa?" oppure "come funziona?". E per questo motivo sono anche difficilmente esprimibili a
parole: la tipica risposta a quelle domande è infatti "te lo faccio vedere".
Al contrario, gli apprendimenti di origine simbolico-ricostruttiva sono facilmente esprimibili a
parole, indipendentemente dal contesto; sono invece molto più difficilmente applicabili a
situazioni concrete che richiedono l'uso, la messa in pratica di ciò che si è appreso. La risposta alle
stesse domande è, tipicamente, "te lo dico", ma se devo utilizzare quelle conoscenze per un
compito concreto posso avere delle grosse difficoltà.
Correlata a questa differenza, c'è quella della stabilità. Le conoscenze impostate sul
principio esperienziale sono stabili, non decadono col tempo: è sufficiente che si presenti il
contesto adatto e facilmente tornano alla memoria. Al contrario, le conoscenze del principio
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Carlo Infante - Simulazione come apprendimento esperienziale
simbolico sono tendenzialmente instabili: vengono facilmente dimenticate e, per mantenerle, è
necessario ripassarle periodicamente.
La scuola e le sue modalità, nate per imparare a "leggere, scrivere e far di conto", e poco
più, sono state mostruosamente dilatate e estese a tutto ciò che poteva essere oggetto di
apprendimento. Ci si potrebbe domandare perché mai, a fronte di queste differenze (e non solo
queste, poiché l'apprendere esperienziale è oltretutto più naturale, più motivante, meno faticoso,
addirittura piacevole) la scuola sia stata costruita e organizzata interamente intorno all'apprendere
simbolico ricostruttivo. Ancora più straordinario è il fatto che, di contro, prima dell'avvento della
scuola, la trasmissione delle conoscenze avveniva quasi esclusivamente attraverso l'apprendere
esperienziale. Si tratta dell'antico "andare a bottega": l'allievo apprendeva attraverso l'osservazione
del fare altrui, e soprattutto, il provare a fare. Questa duplice esperienza veniva guidata da un
"maestro", che non era un dispensatore di conoscenze, ma un esperto attivamente impegnato egli
stesso nel fare. L'apprendimento avveniva nel contesto concreto di uso delle conoscenze stesse.
Oggi con l'avvento dell’innovazione digitale qualcosa può e deve cambiare.
Benché superiore da tutti i punti di vista, l'apprendimento esperienziale ha una fortissima
limitazione: perché possa verificarsi bisogna che ci sia, appunto, esperienza - bisogna poter
esperire e agire sull'universo pertinente, e dunque essere in presenza, in contatto fisico con esso - e
bisogna essere in presenza e a contatto con un maestro. La disponibilità effettiva di queste
condizioni è riservata a pochi: pochi apprendono bene, molti non apprendono affatto.
Le conoscenze a portata di tutti, almeno teoricamente. Qui è la ragione fondamentale del
cambiamento.
Per operare questo cambiamento bisogna anche cambiare radicalmente il modo di
apprendere, da quello simbolico-ricostruttivo a quello esperienziale, e ciò conduce a quei risultati
che abbiamo illustrato e che durano ancora oggi. Ma è proprio oggi che, per la prima volta, è
possibile cambiare di nuovo questa situazione, ed è possibile, come sempre, per via di un'altra
grande innovazione tecnologica che sta dispiegando i suoi effetti: l'introduzione e la diffusione
generalizzata del personal computer.
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Carlo Infante - Simulazione come apprendimento esperienziale
Il motivo è semplice: grazie al computer è possibile tornare al vecchio modo di apprendere
- quello esperienziale - con tutti i vantaggi che esso comporta, senza le limitazioni che questo
modo aveva e che ne hanno determinato lo schiacciamento a favore di quello simbolico sorretto
dalla stampa.
Allo stesso modo “si potrebbero costruire giochi tramite i quali imparare i principi della
dinamica o dell'elettromagnetismo, giacché giocare in questo senso non è altro che sinonimo di
imparare facendo, così come lo è per il bambino piccolo che giocando dalla mattina alla sera
impara come è fatto il mondo”, come suggerisce Francesco Antinucci, direttore del reparto
Processi cognitivi e nuove tecnologie dell'istituto di Psicologia del Cnr.
La simulazione diventa così apprendimento esperienziale quando si gioca, sperimentando
sia la teoria dei sistemi sia particolari training di auto-apprendimento per la gestione di
un'infrastruttura robotizzata, liberando il potenziale cognitivo per dare spazio all’organizzazione
procedurale in funzione delle azioni che esercitiamo in un ambiente interattivo.
Un ambiente in cui si apprende perché la realtà simulata risponde in modo imprevedibile
alle azioni che esercitiamo, costringendoci a sempre nuove sperimentazioni, a creare dei modelli e
a metterli in pratica.
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Carlo Infante - Titolo lezione
Indice
1.
L’AVATAR, IL DOPPIO DIGITALE ......................................................................................................... 3
2.
MONDI ATTIVI ..................................................................................................................................... 5
3.
SECOND LIFE ...................................................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 16
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Carlo Infante - Titolo lezione
1. L’avatar, il doppio digitale
I Multi-User Virtual Environment (MUVE) a differenza di altre piattaforme virtuali, come quelle
finalizzate da giochi di ruolo on line, come i MUD (Multi-User Domain o Multi-User Dungeons) e i
MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing Game), apparse negli anni Ottanta, sono
concepite per far costruire gli ambienti virtuali da abitare, agli utenti stessi.
I MUD sono giochi di avventura, al cui interno i personaggi devono
uccidere mostri e ritrovare tesori, allo scopo di accumulare punti per accrescere il loro
potere e avanzare nella scala sociale del gioco.
Nei Multi-User Virtual Environment gli utenti sono autori non soltanto del testo, ma anche di
sé stessi. Attraverso gli avatar, il loro doppio digitale, possono esercitare ruoli molto lontani dal
proprio sé reale; in questi casi è possibile descrivere i tratti fisici e le caratteristiche attraverso le
quali configurare il proprio personaggio e presentarlo agli altri.
Nell’analisi condotta da Sherry Turkle (“l’antropologa del cyberspazio” che già nel 1995
affrontò il tema delle identità nei mondi virtuali) in questi contesti l’utente può esprimere aspetti
inesplorati del proprio sé, giocando con la propria identità per sperimentarne di nuove. Si facilita
l’emergere di identità fluide, decentrate che consentono di pensare al proprio sé come a un
sistema multiplo distribuito.
In quest'ottica si può creare un contesto protetto in cui appaiono sospese le regole sociali e
la persona può sperimentare i vari aspetti del suo sé, avendo consapevolezza della reversibilità
delle conseguenze. Sperimentando parti inesplorate della propria soggettività, avendo la
possibilità di esprimere sé stessa, la persona può meglio acquisire consapevolezza di sé e delle
proprie potenzialità.
Quando ci si avventura in giochi di ruolo o mondi di fantasia, oppure quando si raggiunge
una comunità per incontrarvi amici virtuali, si va scoprendo il computer come “macchina per
l’intimità” (Turkle).
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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È sempre Turkle a riportare numerosi casi di individui che attraverso le esperienze condotte
nei mondi virtuali on line, hanno avuto la possibilità di confrontarsi con i problemi rilevanti della
propria vita, di sfogare l’ansia, la rabbia, di prendere contatto con il proprio sé ideale, di
sperimentare nuovi modi di essere genitori, figli, di giungere a nuove decisioni emotive.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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2. Mondi Attivi
La storia dei Multi-User Virtual Environment trova un suo momento iniziale nel 1994 con
WebWorld, un mondo virtuale dove chattare, costruire paesaggi e viaggiare.
Nacque poi
AlphaWorld da cui ebbe origine Active Worlds Explorer che nel 2001 lanciò 3D homepages, in cui
ogni utente poteva progettare il proprio mondo tridimensionale di “10000 metri quadrati”;
inizialmente tutto veniva offerto gratis ma quando si passò a far pagare i lotti digitali tutto si arenò.
Nel 2002 si rilanciò come ActiveWorlds e si profilò bene sul mercato: c’era da aprire un
account, scaricare un software specifico, creare un avatar e vestirlo. Era una rete sincrona di
persone, rappresentate da avatar, connesse tra loro e capaci non solo di giocare, esplorando
quei mondi virtuali, ma anche di apprendere.
Mondi Attivi (la versione italiana di Active Worlds) ha sviluppato, nei primi anni del 2000, un
sistema di formazione on line che ha coniugato la realtà virtuale in rete con chat e Voice IP,
combinando l’immediatezza di una telefonata con l'immersione tridimensionale.
Second Life arriverà solo qualche anno dopo (nel 2003) con una seducente configurazione
di ambiente virtuale multiutente che impatta e di fatto rilancia quell'approccio già avviato anni
prima da Active Worlds.
Quella dei Mondi Attivi è stata una delle esperienze più interessanti sulla formazione on line;
era articolata su più piani di sviluppo, dall’e-learning alla piattaforma inter-operativa per la
simulazione d’impresa.
A svilupparla fu SCIgroup che configurò tutto in lingua italiana.
Mondi Attivi riesce a dare un senso ulteriore all’uso della rete: sviluppa un sistema di
comunicazione on line che coniuga la realtà virtuale con la chat e il Voice IP, mette insieme
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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l’immediatezza di una telefonata con un’ambientazione tridimensionale che sollecita l’interazione
sociale e formativa in Internet.
Si tratta di un sistema di realtà virtuale concepito per la navigazione immersiva on line e
condivisa: comunicando, utilizzando al miglior grado le possibilità di accesso alla rete con una
buona connessione.
Questa è una delle sostanziali novità: oggi Internet permette di agire nella realtà virtuale,
grazie a simulazioni interattive concepite perché l'utente s’immerga, agendo in prima persona,
ponendosi più come attore che come spettatore nell'ambiente rappresentato, inducendo la forte
sensazione di esserne parte integrante.
Nei Mondi Attivi ci si può far rappresentare da un personaggio virtuale che viene definito
avatar. Questo diventa così il nostro alter ego, una “maschera”, un nostro simulacro che agisce
per noi, come una marionetta digitale.
Una volta scelta la maschera che più ci ispira si entra nei Mondi Attivi: gli altri utenti connessi
ci vedranno in quelle sembianze e mentre comunichiamo, scrivendo in chat o parlando al telefono
via Internet, i nostri avatar ci rappresenteranno nello schermo.
L'idea che sta alla base di Mondi Attivi è quella di creare delle community dove gli utenti,
oltre a parlare o chattare, possano confrontarsi via forum, spedire file, navigare nel web e
visualizzare animazioni e filmati.
Gli utenti possono anche progettare e realizzare un loro mondo, uno spazio virtuale, un
ufficio, una sala riunioni, un’agorà dove poter condividere delle decisioni e, allo stesso tempo,
orientarsi, oltre che tra i file, tra ambienti 3D dove simulare i contesti in cui intervenire.
In questo senso la simulazione è una delle applicazioni più importanti.
In primo luogo nell'ambito del lavoro collaborativo, della formazione e delle decisioni
condivise a distanza, dove è possibile progettare e realizzare strumenti che consentono l'uso di fogli
di calcolo, documenti scritti, archivi, sistemi di controllo e di gestione.
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Applicazioni sorprendenti riguardano il settore turistico e quello ambientale, dove può
essere utile verificare l'impatto di alcune costruzioni sul paesaggio circostante o simulare lo sviluppo
di un territorio a seguito di una azione di rimboschimento.
Tra gli innumerevoli altri utilizzi pensiamo a quelli nel campo formativo della sicurezza, dove
la simulazione di un’emergenza, come un incendio, permette di prevedere il comportamento delle
persone in caso di evacuazione.
Mondi Attivi rappresenta quindi un’opportunità straordinaria per coniugare comunicazione
e formazione, rendendo esplicito il fatto che l’apprendimento migliore riguarda il fare esperienza
diretta, condizione che è possibile nella simulazione virtuale. Con una possibilità in più: quella della
comunicazione on line (sincronica, scritta e vocale) con gli altri utenti della propria comunità di
riferimento, comunicando “con” loro, condividendo procedure più o meno complesse, veicolando
informazioni e proiezioni, fino alla possibilità di creare, attraverso la realtà dello scambio
interumano, emozioni e percezioni condivise.
Questa piattaforma rappresenta in modo emblematico come una tecnologia avanzata
possa rendere più fluide le condizioni di interoperabilità, sollecitando una creatività inscritta nella
comunicazione a tutti gli effetti, sondando con questi ambienti tridimensionali e interattivi le
possibilità della banda larga, che non va solo riempita di contenuti (più o meno audiovisivi) ma
anche di nuove relazioni dove sperimentare l’ambientamento sociale nelle reti.
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3. Second Life
Nel 2003 arriva Second Life il mondo virtuale digitale online della società americana Linden
Lab che conquista la migliore attenzione. È una piattaforma che integra diversi media, sincroni ed
asincroni, e permette agli utenti di accedere ai mondi virtuali attraverso un avatar.
Second Life si può esplorare muovendosi tra diverse regioni in cui teletrasportarsi, ovvero
trasferirsi istantaneamente, da un punto all'altro della mappa con un paio di clic. Si socializza,
incontrando altri residenti e si può chattare sia pubblicamente che privatamente. Un pannello di
controllo, con vari strumenti semplificati di modellazione 3D, consente ai residenti di creare oggetti
virtuali di qualunque genere, per allestire concerti, feste e lezioni corredate dei contenuti digitali
opportuni (librerie con libri da sfogliare, televisori con palinsesti video da vedere…). Inoltre si può
utilizzare la valuta virtuale Linden Dollar che può essere poi cambiata in dollari reali (e anche in
euro), con un tasso di cambio di circa 200 Linden dollari per 1 dollaro USA, dando vita a
un'economia virtuale interna e a particolari modelli di business.
Queste caratteristiche rendono Second Life più potente dei giochi di ruolo on line, in cui è
invece necessario perseguire un obiettivo prestabilito al fine di concludere il gioco o avanzare
all'interno dello stesso. Rispetto ad altri ambienti multiutente 3D si distingue per il fatto che il
contenuto dell'intero mondo virtuale viene generato dagli stessi residenti (come in Active World).
Non va quindi considerato un gioco, è un mondo, meglio; una seconda vita in cui
sperimentare ciò che non si fa nella prima, quella reale.
All'interno di Second Life si sono sviluppate delle subculture, oggetto di studi sociologici e
delle scienze della comunicazione, in quanto modello virtuale di interazione umana.
Gli strumenti che i residenti hanno a disposizione per aggiungere i propri contenuti digitali
nel mondo virtuale permettono di creare: oggetti di qualunque genere e dimensione, avatar,
località e paesaggi, materiale audiovisivo. È facoltà dei creatori cedere o vendere le creazioni
attraverso i Linden Dollar.
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Si possono modellare in 3D oggetti virtuali di qualunque genere attraverso l'utilizzo di solidi
geometrici elementari, mentre per gli scenari più complessi si possono usare software esterni per la
modellazione 3D professionale (Autodesk Maya, 3D Studio Max, ...).
L'iscrizione e la partecipazione sono gratuite. Esiste però anche la possibilità di sottoscrivere
un abbonamento premium per diventare possessori di territori virtuali.
Nel 2008, è avvenuto il primo passo verso l'interoperabilità fra metaversi (un altro modo per
definire i mondi virtuali in Second Life), un termine coniato da Neal Stephenson in “Snow Crash” (un
libro di fantascienza cyberpunk del 1992), descritti come mondi virtuali condivisi on line, dove si è
rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar.
Molte università e aziende hanno usato Second Life, come anche Active Worlds, con
obiettivi educativi e formativi, utilizzando questi mondi virtuali come ambienti di apprendimento e
di sperimentazione.
I Multi-User Virtual Environment (MUVE) di cui abbiamo trattato, attraverso le due esperienze
più significative, Active World e Second Life, sono mondi virtuali in cui sperimentare una vita
parallela, in un contesto di simulazione digitale che permette di sperimentare comportamenti,
secondo dei processi che abilitano al miglior grado l’apprendimento esperienziale.
In un tempo in cui nello smart working si fa sempre più uso di piattaforme on line per cooperare, questi mondi virtuali ci fanno riflettere di quanto sarebbe importante rilanciare operatività
ancora più performanti d’interazione nella rete.
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La possibilità di creare presentazioni in ambienti interattivi, uffici, negozi o fiere virtuali;
utilizzare strumenti o tecniche di supporto e assistenza alla clientela; descrivere e illustrare
interattivamente prodotti e servizi anche utilizzando piattaforme di lavoro collaborativo; progettare
ed erogare formazione on-line ed altri tipi di iniziative di e-learning. in ambienti formativi altamente
immersivi e didatticamente ricchi: è possibile realizzare Mondi dove l'interazione non si limita solo
alla comunicazione tra il formatore e l'allievo, ma che comprenda anche l'interazione in tempo
reale con gli oggetti del mondo virtuale. È possibile dunque condividere a distanza situazioni,
eventi, documenti, strumenti informatici e multimediali; presentare, visitare e scoprire ambienti
turistici come alberghi o villaggi, oppure musei o siti archeologici; simulare catene di produzione,
laboratori o parti di processi produttivi; simulare contesti ambientali o relazionali verificando gli
effetti di decisioni sia su comportamenti sociali sia sull’ambiente.
La realtà virtuale dei mondi 3D
È possibile per gli utenti essere rappresentati e scegliere il proprio aspetto grazie ad un vasto
numero di avatar. È possibile muoversi, camminare o correre, gioire o salutare sia con un testo sia
con un gesto ed esplorare i mondi virtuali, giocare ruoli, fare nuove amicizie nell’ambiente
prescelto. È anche possibile occupare una porzione del suolo e costruirci sopra la propria casa,
villa o castello virtuale.
Visitare e comunicare nei Mondi Attivi per i “turisti” o visitatori occasionali è gratuito.
Diventando “cittadini” si acquista il privilegio di visitare tutti i mondi virtuali pubblici, ottenere
lotti per le costruzioni, usare il sistema di messaggeria, accedere alla galleria di avatar e degli
oggetti, integrare o collegarsi con qualsiasi altro sito, portale, indirizzo IP o data base e molto altro.
Mondi Attivi
offre ai “senatori” e ai principianti del Web una prospettiva completamente
diversa su Internet, un'anteprima del futuro della comunicazione, della collaborazione e
dell'intrattenimento interattivo on-line. I Mondi Attivi a supporto delle comunità virtuali non solo
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crescono, ma si evolvono e sviluppano in funzione degli stimoli reciproci che si propongono ed ai
quali si risponde partecipando e collaborando al loro funzionamento!
Nei Mondi Attivi puoi richiedere una porzione del territorio virtuale, costruire la tua casa,
incontrare altre persone che possono visitare le tue costruzioni, esplorare ambienti virtuali, giocare
giochi, imparare, condividere progetti o documenti, lavorare o soddisfare esigenze ludiche e molto
altro.
Nei Mondi Attivi “la rete” - Internet - non è un medium, è un meta-medium, un medium che
veicola diversi media contemporaneamente.
La molteplicità di protocolli gestibili permette di utilizzare altrettanti linguaggi e servizi
differenti, in modo assolutamente parallelo e congiunto. Possiamo contemporaneamente
navigare tra le pagine web, scaricare programmi, ricevere messaggi, partecipare a chat e
ascoltare un programma web-radio.
Ma si tratta di un parallelismo non cartesiano, nel quale i diversi sistemi si toccano e si
accoppiano: e-mail che contengono audio e link a pagine web, immagini che rimandano a testo,
link che attivano e-mail.
Ciascuno di questi servizi si basa su diverse strutture di comunicazione. Il web, grazie
all'ipertestualità, ha infranto “l'isolamento del testo”, facendolo esplodere in una rete di rimandi dai
confini "fisici" indefinibili. Ma l’ipertesto rimane all'interno della modalità trasmissiva, legata alla
fruizione di un documento da parte del navigatore, secondo una struttura unidirezionale dalla
fonte al ricevente.
La posta elettronica corrode la fissità del testo, che permane ma perde rapidamente
pertinenza; introduce soprattutto la modalità interattiva, nella quale l'importante è l'interazione e la
reciprocità tra due soggetti comunicativi e la relazione che si instaura fra di essi.
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Le chat spingono questa traiettoria fino a far esplodere il testo nel suo storico opposto,
l'oralità, di cui ne acquisisce le caratteristiche: il testo si fa effimero, scompare in tempo reale,
perde i riferimenti con universi semantici esterni per farsi pura relazione sociale.
I sistemi di Realtà Virtuale multi-utente (VRMUL) consistono in modelli tridimensionali esperibili
da più persone contemporaneamente. Ciò riorienta completamente il rapporto con il sistema: non
è un soggetto che interagisce con un modello (dualismo uomo-macchina), ma più soggetti che
interagiscono fra di loro utilizzando e manipolando lo stesso modello (triade uomo-macchinauomo).
Ma gli attuali sistemi di Realtà Virtuale condivisa attraverso Internet offrono internamente
anche gli altri media: messaggi, pagine web e chat.
Al 2D interno (immagini e foto all'interno del mondo) e al 3D del mondo si affiancano
ipertesti e linguaggi paralleli ma contestuali: si tratta dunque di ambienti multipli integrati, tecnoaleph.
Con la possibilità di comunicare con altri soggetti umani il 3D da messaggio-oggetto
diventa
ambiente
di
relazione,
restituendo
importanza
agli
aspetti
“pragmatici”
della
comunicazione. Per questo vengono chiamati chat 3D.
Ma vi è una grande differenza rispetto alla chat tradizionali.
Lo spazio di comunicazione delle chat tradizionali è un non-luogo o un neo-luogo, che non
è né qui né là: è un hub (porto) a-spaziale, piatto (flat) come lo schermo.
Con le chat in 3D, viceversa, si ricrea uno spazio "fisico" di comunicazione, un luogo virtuale
ma visibile, tangibile e percorribile.
Viene cosi ricomposta l'unità spazio/temporale della comunicazione umana potenziata:
come sul web possiamo collegarci a un’altra pagina, nelle chat 3D possiamo seguire un link e
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teletrasportarci in un’altra posizione dell'orizzonte geografico o in un altro mondo/universo
parallelo.
La condivisione dello spazio 3D ci impone di assumere una forma "fisica", una sembianza
per essere visti dagli altri soggetti. Dobbiamo scegliere o crearci un avatar, il nostro doppio virtuale
nel mondo e assumere una identità. Ma non siamo ancorati a quella identità, perché possiamo in
ogni momento cambiare avatar, o usarne altri in mondi diversi.
Per esaltare il concetto di comunicazione gestuale e visivo gli avatar possiedono una serie
di gesture, cioè di sequenze animate con cui possono esprimere stati d’animo, come gioia o
tristezza, e compiere dei movimenti standard, come salutare o ballare.
Possiamo dunque far compiere gesti ai nostri avatar, per esprimere felicità o stupore.
Emergono quindi aspetti della pragmatica comunicativa in senso pieno, nei quali la
postura, la prossimità (vicinanza fisica degli interlocutori), l’espressione del viso o la velocità
dell’eloquio attribuiscono senso, contestualizzano il messaggio.
Il sistema di Realtà Virtuale condivisa Mondi Attivi consente anche agli utenti di “costruire”
ambienti, nel mondo virtuale, con una relativa capacità grafica. Viene attribuita una certa
superficie ("appezzamento" virtuale) nel quale ciascuno può creare liberamente ciò che vuole,
utilizzando modelli a disposizione o creandone di propri con gli opportuni programmi di
modellazione grafica 3D.
Alla dimensione dell'esplorare (agire) si aggiunge quella del creare (fare).
Per facilitare i meno avvezzi alla programmazione è stata sviluppata una interfaccia di
sviluppo molto semplificata. L’aspetto più interessante è la possibilità di costruire insieme ad altri
utenti gli ambienti virtuali, cioè produrre in modo collaborativo il mondo virtuale.
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Possiamo incontrarci nell’"appezzamento" virtuale a nostra disposizione per costruire il nostro
mondo, che sarà poi visitabile dagli altri utenti, cosi come noi potremo visitare le costruzioni e gli
ambienti altrui.
La finalità sociale e comunicativa di molti partecipanti presenti contemporaneamente nel
Mondo Attivo facilita lo scambio e l'aiuto reciproco, come l'invito a conoscersi e a mostrare il frutto
del proprio lavoro. La costruzione può avvenire in modo sincrono (attivo intervento di più soggetti
contemporaneamente sullo stesso progetto) oppure asincrono (un soggetto crea un oggetto e in
un momento successivo un altro soggetto aggiunge pezzi, sviluppando a partire dall'oggetto
iniziale).
Mondi Attivi consente l’utilizzo di tutte le funzioni di Internet come l'ascolto di musica e suoni
o la visualizzazione di animazioni e video.
La funzione più tradizionale è la possibilità, per i cittadini, di costruire oggetti, edifici, centri di
scambio e comunicazione, di crearsi la propria casa o contribuire alla costruzione collettiva di
ambienti.
Ci possono essere diversi mondi, collegati tra di loro. Sono però disposti "fisicamente" su una
superficie continua secondo le tradizionali coordinate Nord Sud Est Ovest; ci si può
“teletrasportare” in un qualsiasi punto o memorizzarlo (3D bookmark).
Al
sistema
è stato integrato un riquadro Web
di documentazione contestuale
(approfondimento, help, ecc.).
Il grande vantaggio di questa piattaforma è la possibilità di utilizzare a richiesta e per utenti
esperti una libreria di sviluppo (SDK – Software Development Kit) che permette di sviluppare, in
linguaggi di programmazione comunemente usati, comportamenti e interazioni, nonché di
estendere le funzionalità del navigatore per l'accesso ai mondi 3D.
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Il software “Mondo Server” fornisce gli strumenti per esprimere tutta la propria creatività e
costruire il mondo con tutte le libertà ed interattività degli ambienti virtuali 3D. È la configurazione
di base per poter possedere e gestire autonomamente un ambiente virtuale. Questa serie offre un
Mondo Attivo ospitato ed accessibile attraverso l'Universo di S.C.I. S.a.s. di dimensioni spaziali
contenute.
Pensato per usi che richiedono un piccolo Mondo virtuale autonomo, quindi a sé stante e
separato rispetto all'universo di S.C.I. S.a.s. e comunque di piccole dimensioni spaziali. Questa serie
di prodotti offre il completo controllo di configurazione e di amministrazione del mondo virtuale. È
possibile costruire l'ambiente virtuale, programmare il suo funzionamento e determinare le regole di
utilizzo.
Ciò che rende i Mondi Attivi particolarmente interessanti è il fatto che essi sono mondi
“condivisi”, proprio come quello reale, ma a differenza di questo, con i mondi virtuali è possibile
costruire una “realtà” come un’opera d’arte, a partire da un’idea, da un’aspirazione, da un
sogno.
Grazie all’estrema programmabilità dell’ambiente, è possibile riempire i Mondi Attivi di
moltissime funzionalità e contenuti, in maniera tale da creare uno spazio virtuale in cui si interagisca
veramente con gli altri fruitori, un mondo dove il concetto di comunicazione venga esaltato e
potenziato, un posto in cui stare non solo perché è attrattivo graficamente, ma dove il lavoro
venga reso più facile, più veloce e più efficiente.
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Carlo Infante - Realtà aumentate
Indice
1.
LE VISIONI SI SOVRAPPONGONO ALLA REALTÀ CON I LAYER GEOLOCALIZZATI ............................ 3
2.
UBIQUITOUS COMPUTING: L’EVERYWARE .......................................................................................... 7
3.
LA REALTÀ ULTERIORE ....................................................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 12
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Carlo Infante - Realtà aumentate
1. Le visioni si sovrappongono alla realtà con i layer
geolocalizzati
Ci piace pensare che ci sia qualcosa che aumenta la realtà.
Si tratta di un plus audiovisivo che si può esercitare sia da smartphone sia da computer con
webcam, con approcci diversi, visto che nel primo caso si va dentro la realtà, camminando per le
strade, nell’altra, posizionati davanti ad uno schermo si percepiscono filmati e animazioni digitali.
Le applicazioni di realtà aumentata che girano su smartphone possono sfruttare il GPS
(Global Positioning System) per georeferenziare l’utente, ovvero rilevarne la posizione geografica, e
mostrare flussi video e/o animazioni in tempo reale in alcuni punti già geolocalizzati, per cui è
fondamentale essere connessi al web per ricevere i dati online. Con lo smartphone si inquadra il
mondo reale a cui vengono sovrapposti i livelli (layer) posizionati sui Punti di Interesse (Point Of
Interest) geolocalizzati per visualizzare i contenuti virtuali.
La realtà aumentata su computer si basa sull'uso di marcatori (Augmented Reality-ARtag o
marker), dei codici grafici in bianco e nero (simili ai qrcode) che rilevati dalla webcam, vengono
tradotti dal computer in oggetti virtuali e poi usati come riferimento per posizionare questi oggetti
tridimensionali correttamente e coerentemente con l’ambiente reale inquadrato dalla webcam.
Gli strumenti utili per far funzionare la realtà aumentata li abbiamo più o meno tutti sotto
mano, e sono già integrati negli smartphone e nei tablet. Il primo di questi è la loro fotocamera, è
tramite questa che viene acquisita una visione del mondo attorno a noi. La ripresa della realtà che
ci circonda viene poi elaborata con l’aggiunta di elementi virtuali e, infine, viene mostrata su
schermo. Ma ciò che rende particolarmente efficaci le applicazioni di realtà aumentata, oltre alle
straordinarie capacità di calcolo impensabili fino a pochissimi anni fa, è anche la presenza di altri
sensori hardware. Tra questi vi sono: l'accelerometro e il giroscopio. Insieme, servono per rilevare lo
spostamento (accelerometro) e l’orientamento (giroscopio) del dispositivo (smartphone o tablet),
nello spazio. Queste informazioni vengono poi trasferite agli oggetti virtuali per farli reagire e
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Carlo Infante - Realtà aumentate
spostarli coerentemente al dispositivo usato per visualizzarli.
E ancora: il magnetometro, misura il campo magnetico e viene utilizzato come bussola; il sensore
di prossimità, ne esistono di diverse tecnologie, può essere basato, ad esempio, sull'utilizzo di onde
elettromagnetiche (emette onde e cattura i relativi riflessi, dai quali deduce la distanza
dall'ostacolo); il sensore di luminosità, rileva il grado di illuminazione dell'ambiente. Le informazioni
raccolte da questi sensori servono a far reagire i contenuti virtuali alle condizioni dell’ambiente
reale circostante, ad esempio illuminandoli virtualmente con una luce quanto più simile a quella
rilevata nell’ambiente, e a completare l’illusione di trovarci di fronte ad oggetti solidi posizionati
nella realtà di fronte a noi.
Nella realtà virtuale immersiva gli utenti si trovano dentro l’immagine che stanno
esplorando, immersi in una situazione nella quale le percezioni naturali vengono sostituite da altre
percezioni fortemente condizionate dall’ambiente artificiale.
Nella realtà aumentata, invece, l’utente opera nella realtà fisica, con tutta la sua
percettività ordinaria utilizzando le visioni digitali in correlazione con la realtà, mixandole tra di loro.
Mixed reality
La distinzione tra realtà virtuale e realtà aumentata non produce un’antinomia è in fondo
un contesto evoluto in cui ci si misura con una mixed reality. Si può quindi considerare un
passaggio continuo tra applicazioni sia di realtà virtuale sia di realtà aumentata che possono
essere quindi adiacenti, senza doverle concepire come applicazioni non compatibili tra loro.
La realtà aumentata è in continua evoluzione e le sue applicazioni possono essere
esponenziali nei contesti più diversi, attuando una rappresentazione digitale che interagisce con la
realtà percepita, aumentandola, arricchendola con tutta una serie di informazioni da sovrapporre
a quello che vedono gli occhi già proiettati sulla realtà naturale in cui ci si muove.
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Carlo Infante - Realtà aumentate
Una delle prime applicazioni a sfruttare il concetto di realtà aumentata in ambito
consumer, per arricchire l’ambiente che circonda i possessori di smartphone fu Layar, nel 2009. Si
trattava di un reality browser che, grazie ai dati su longitudine e latitudine in arrivo dal GPS del
dispositivo, e con l’uso dell’accelerometro (il sensore che trasforma uno spostamento in segnale
elettrico), consente di inquadrare con la fotocamera un particolare edificio o monumento per
ricevere informazioni sulla sua storia (anche con animazioni 3D che rivelano la stratificazione
archeologica) e ulteriori note sui punti di interesse presenti nella zona.
Altri tool di sviluppo per sviluppare applicazioni di realtà aumentata sono:
ARToolKit, una libreria gratuita di funzioni che supporta sia i dispositivi con schermo
trasparente, sia quelli senza, e consente di creare applicazioni di realtà aumentata basate solo
sull'utilizzo di marker. Per farlo, utilizza tecniche per calcolare la posizione e l'orientamento della
fotocamera rispetto ai marker, permettendo quindi di sovrapporgli elementi virtuali. Quando questi
vengono inquadrati, viene calcolata la posizione della fotocamera rispetto ad essi, e viene poi
confrontato con tutti i marker in memoria. Se viene trovato, l'oggetto 3D associato viene allineato
col marker e renderizzato.
Metaio è probabilmente il framework più completo per la realizzazione di applicazioni di
realtà aumentata. Disponibile sia in versione gratuita che in versioni a pagamento, mette a
disposizione dello sviluppatore diversi strumenti. Mentre ARToolKit permette il tracking solo tramite
marker, Metaio permette la realizzazione applicazioni che utilizzino tecniche di tracking basate su
immagini 2D, modelli 3D e sulla posizione dell'utente.
Wikitude offre Software Development Kit gratuiti e non, per molteplici piattaforme, anche
versioni specifiche per dispositivi come i Google Glass o gli Epson Moverio BT-200. I tool sono fondati
su tecnologie web (HTML, CSS e JavaScript) e sfruttano sostanzialmente il tracking basato sulla
posizione dell'utilizzatore.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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La molteplicità degli input, come quelli dai satelliti
Alle origini della realtà aumentata c’è l’utilizzo in ambito militare. I marines impegnati negli
interventi in Afghanistan dal 2002 utilizzavano visori che potevano vedere mappe del territorio e
orientarsi con la bussola, nonchè rilevare le mosse dei nemici appostati e non visibili, grazie agli
input delle visioni satellitari. Ciò permetteva di arricchire la visuale dei soldati con componenti
virtuali aggiuntivi.
Altre applicazioni sono nel settore dell’aeronautica militare sotto forma di head-up display,
dei visori a sovrimpressione, sugli aerei da combattimento per mostrare ai piloti dati di volo come,
per esempio, la quota e velocità del velivolo o la distanza dall’obiettivo, senza distogliere lo
sguardo dalla “guida” per costringerli a controllare tutta la strumentazione di bordo. Una
tecnologia che, successivamente, è stata adottata anche dall’aviazione civile, veicoli terrestri e
marittimi sempre in settori specifici.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Realtà aumentate
2. Ubiquitous computing: l’everyware
La realtà aumentata con i Google Glass (un modello di smart glass) fa un salto di qualità,
quando, nel 2013, il prodotto (Google Glass Explorer Edition) viene reso disponibile agli sviluppatori.
Con un piccolo display posizionato sopra l’occhio, riempie il campo visivo di dati e
informazioni sull’ambiente circostante di chi lo indossa. Questa applicazione, prima di conquistare
l’intero settore mobile (smartphone e tablet, con i visori abbinati) si muove esclusivamente in ambiti
molto più tecnici e specifici come quello militare, della ricerca scientifica e della medicina.
I Google Glass consistono in un paio di occhiali per la realtà aumentata, tramite i quali è
possibile visualizzare informazioni come sugli smartphone senza l'uso delle mani, per cui si basano
sull'uso di comandi vocali.I Google Glass rientrano nel concetto di ubiquitous computing.
L’ubiquitous computing è un modello che tende a superare quello desktop nella
interazione uomo-macchina in cui l'elaborazione digitale è integrata all'interno di oggetti diversi.
Il concetto di ubiquitous computing prende forma nel 1988, presso il Palo Alto Research
Center della Xerox per superare l’idea stessa del desktop, basato sul modello della scrivania, per
utilizzare diversi sistemi digitali che non appaiono come computer.
È
una
modalità
che
permette
di
connettersi
ovunque
attivando
soluzioni
per
l’interfacciamento dei dispositivi e la dislocazione delle capacità elaborative in più ambiti come
quelli nella domotica (smart home), nell’internet delle cose (internet of things) e del wearable
computing (tecnologie indossabili in grado di trattare informazioni).
L’ubiquitous computing è una tecnologia “trasparente” e pervasiva che permette di
connettere in rete vari oggetti della quotidianità, dotandoli di una sufficiente capacità di calcolo
per attivare meccanismi di automazione e di riconoscimento e scambio di informazioni. È prossima
a concetti come pervasive computing (informatica pervasiva) Ambient intelligence (intelligenza
ambientale) ed everyware, un bel gioco di parole che coniuga "everywere" (ovunque) e la
desinenza "ware" che rimanda ai termini software e hardware.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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La parabola dei Google Glass, scompaiono per rinascere
Sull’onda del suo successo planetario, all'inizio del 2014 Google rende noto che gli occhiali
Google Glass verranno prodotti da Luxottica. Il design dei Google Glass esce da una versione
prototipo con un archetto standard installato come montatura e da possibilità di essere
agganciato su diverse montature di occhiali. Scelta che non darà soltanto modo di personalizzare
la propria montatura, ma di avere una nuova montatura elaborata per essere flessibile e comoda.
Eppure, nel 2016, Google chiude definitivamente il settore dei Google Glass per inscriverlo
in quello definito Project Aura, la divisione di Alphabet (una nuova configurazione societaria di
Google) dove si stanno studiando nuovi dispositivi dal nome in codice EE, ovvero Enterprise Edition.
I Google Glass scompaiono per rinascere, come l'entità mitologica dell'araba fenice.
Questo sviluppo tecnologico così contrastato rivela una dinamica interessante che vale la pena
ricostruire.
I Google Glass nel 2016 escono così dal mercato consumer ma contemporaneamente
diverse aziende in tutto il mondo sono diventate protagoniste di una sua vera e propria rinascita in
vari campi applicativi che dimostrano come la realtà aumentata sia fondamentalmente una delle
migliori soluzioni di ubiquitous computing.
Tra queste, l’AGCO, un gigante mondiale della produzione di macchine agricole con sede
nel Minnesota, affida ai suoi lavoratori gli occhiali di Google in sostituzione dei Tablet, per vedere
foto e video o scannerizzare numeri seriali. Tramite la funzione di riconoscimento vocale dettano al
sistema le informazioni raccolte durante la giornata lavorativa, che vengono poi salvate nel
sistema e lette in tutta facilità dagli operatori del turno successivo. Inoltre, sono in grado di
visualizzare direttamente i manuali di istruzione sulle lenti, per non lasciare la postazione di lavoro
ed aumentare l'efficienza. Peggy Gullick, business process improvement director di AGCO,
riferendosi alla sua impresa ed ai lavoratori dichiara: “I Google Glass non sono solo stati accettati,
a questo punto li desideriamo.”
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Boeing, una delle aziende leader nel campo aeronautico che costruisce aerei per più di
150 stati, utilizza i Glass con l’applicazione Skylight durante varie fasi di produzione degli aeromobili.
La compagnia ha calcolato che così facendo è riuscita a ridurre la durata media di produzione
del 25% e che il margine d’errore si è ridotto addirittura della metà.
HoloLens
Un'evoluzione dei visori per la realtà aumentata è il Microsoft HoloLens, il primo dispositivo
olografico completamente indipendente che consente di interagire con contenuti digitali e
ologrammi visualizzati nel mondo che circonda chi li indossa.
Gli HoloLens sono stati sviluppati dalla Microsoft in collaborazione con la NASA e funzionano
in modo autonomo, ossia non necessitano di alcun collegamento con uno smartphone o un altro
dispositivo. Si tratta di un vero e proprio computer olografico indossabile dotato di sensori di
movimento, sensori di profondità, videocamere, microfono e audio con spatial sound (il suono
viene percepito a 360 gradi, simile ad un dolby surround).
Gli HoloLens presentano i contenuti in mixed reality e consentono di visualizzare contenuti
multimediali e rimanere con lo sguardo perennemente ancorati al mondo reale che diventa parte
integrante dell’esperienza utente.
La Mixed Reality, o Realtà mista, è la fusione del mondo reale con quello virtuale che
permette di creare nuovi ambienti in cui persone, oggetti fisici e digitali coesistono e interagiscono
in tempo reale.
Miscrosoft sta creando un’interfaccia comune integrata con il sistema operativo Windows
10 così da permettere in futuro una perfetta sintonia tra software e visori di realtà aumentata e
virtuale.
Gli HoloLens sono uno strumento “indipendente” quindi non richiedono cavi, particolari
adattatori o altro hardware per essere utilizzati. Questo li rende molto comodi e pratici da utilizzare.
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Il visore pesa 579 grammi. Essendo però ben bilanciato una volta indossato non risulta
essere stancante. Inoltre il visore è estremamente solido e costruito con componenti di qualità, ma
questo non gli impedisce di essere comodo una volta indossato. La durata della batteria è di circa
3 ore.
Il sistema è basato su Live Tiles di Windows 10. Per interagire con le applicazioni basta
puntare con lo sguardo il punto di interazione e “pizzicare” con due dita l’app che ci interessa o il
contenuto interattivo. È inoltre possibile interagire mediante comandi vocali
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Carlo Infante - Realtà aumentate
3. La realtà ulteriore
Qui si tratta di accettare l’idea che nella dimensione simulata del virtuale accade qualcosa
in più, e non in meno, come in molti pensano.
Va detto: la virtualità non sottrae realtà bensì l'aumenta, produce opportunità ulteriori.
È una realtà aumentata, come fu definita da Flavia Sparacino, ricercatrice presso il
Massachusetts Institute of Technology, nel forum Imagina di Montecarlo del 2000 e su cui ci siamo
confrontati in occasione di Virtuality a Torino nel 2005.
Nell'azione in uno scenario virtuale il corpo misura altri spazi-tempo: riconfigura la propria
fisicità in un simulacro, un nostro “doppio” che secondo le nostre indicazioni (input digitali
attraverso mouse o altre periferiche come il data glove) agisce in contesti differenti da quelli
stabiliti dal principio di realtà ordinaria.
Si tratta di altro, anzi di "ulteriore", oltre i paradigmi psicologici e culturali predeterminati.
Un'azione nel cosiddetto cyberspazio produce comunicazione fattuale, esprime e attrae
condivisione, se solo pensiamo a come funzionano le reti che ora, con l’alta banda, potranno
attuare quello che da anni è stato promesso: l’integrazione tra web, realtà virtuale e realtà
aumentata.
Non solo: l’idea stessa di everyware, il sistema ubiquitario di elaborazione digitale
interconnessa, libera un potenziale straordinario di progettazione che necessita della migliore
creatività applicativa, per apprendere continuamente e creare nuove opportunità produttive.
Siamo pronti?
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La rivoluzione del web 2.0 - Carlo Infante
Indice
1.
IL RADICAL TRUST, LA FIDUCIA RADICALE DELLA COLLABORAZIONE NEL WEB ................................ 3
2.
LA BOLLA DELLA NET ECONOMY, UNA FINE CHE GENERA UN NUOVO INIZIO ................................ 8
3.
LA FOLKSONOMY, LA TASSONOMIA POPOLARE ............................................................................ 12
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 16
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1. Il radical trust, la fiducia radicale della
collaborazione nel web
L’espressione web 2.0 è di Tim O’Reilly che sviluppava siti web per le aziende, ed è stata
coniata nel 2004, interpretando il crollo borsistico della new economy generato dalla “bolla del
web”. In realtà non si trattava di una crisi della rete ma di un approccio inadeguato a cogliere
tutto il potenziale innovativo che il web prometteva.
Fu importante vedere come quella crisi abbia prodotto una risposta rigenerativa del
sistema-rete, cercando nella partecipazione collettiva da parte degli utenti quel valore aggiunto
per riequilibrare le sorti reputazionali de web in caduta libera nelle Borse valori.
Il fatto di mobilitare gli utenti fu geniale. Diventavano protagonisti del nuovo corso del web
persone che potevano lavorare insieme senza neanche conoscersi, creando le modalità per far
pubblicare on line a chiunque contenuti nonché commentare quelli di altri, con la possibilità di
rielaborarli ed offrire diversi punti di vista, nonché di integranrli con altri contenuti aggiornati.
L’insieme di singole menti produce l’intelligenza collettiva, la condizione di cui parlava già Pierre
Lévy. Questa valenza assume una forma nuova che non può essere equiparata alla sommatoria
delle singole menti ma è qualcosa di più, dal momento che, com’è stato dimostrato, le
aggregazioni, dagli atomi alle persone fino ad arrivare ai bit, presentano caratteristiche e
potenzialità nuove che non possono essere previste analizzando i singoli componenti poiché la
complessità che ne risulta è qualcosa di diverso dalla mera sommatoria delle singole parti.
Questa straordinaria condivisione di informazioni nelle piattaforme web 2.0 si basa sul
concetto del radical trust, della fiducia radicale. Tale concetto poggia sul presupposto che
tendenzialmente le persone non hanno interesse a danneggiare il bene comune, e non è affatto
nuovo visto che è sulla base di ciò che il vandalismo di opere d’arte è solo un'eccezione e non la
regola
Si tratta della possibilità per l’utente di “partecipare” attivamente allo sviluppo di una
piattaforma generando contenuti (che vengono definiti User Generated Content) ma anche
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La rivoluzione del web 2.0 - Carlo Infante
confrontandoli con gli altri utenti, condizione permessa dagli sviluppi tecnologici di nuove forme di
categorizzazione dei contenuti.
Per questi motivi il web 2.0 viene definito anche read/write web, qualcosa che oltre che
leggibile era anche riscrivibile.
Su questo si fonda il paradigma dell’interattività sostanziale che permette di rieditare gli
artefatti ipermediali, come era già accaduto con i primi cd rom, creati alla metà degli anni
Ottanta e da cui era possibile soltanto leggere dati, visto che lo stesso acronimo cd rom sottende:
compact disc read only memory. Ci sarà da aspettare il 1997 per avere il primo cd-rom RW
(rewritable, riscrivibile), passando per diverse fasi di evoluzione intermedie, i cd-rom I (interactive), i
cd-rom WORM (write once read many times, ovvero leggibili tante volte ma scrivibili una sola
volta), i cd-rom R (recordable, registrabili).
La condizione abilitante delle piattaforme partecipative
Va riconosciuto che le applicazioni che stanno alla base dello sviluppo tecnologico del
Web 2.0 esistevano da tempo ma è il nuovo contesto della crisi a sollecitare, in modo talmente
dirompente, quella idea che si diffonde universalmente riscoprendo valori innati nella natura
dell’uomo in quanto animale sociale: partecipazione, collaborazione e condivisione.
La partecipazione è la condizione abilitante perché gli utenti si mettano in gioco
producendo contenuti.
La collaborazione è data dalla performatività di piattaforme web che permettono di far
fare il salto di qualità alla partecipazione, co-operando in rete per attivare confronto,
comparazione e implementazione collettiva dei contenuti.
La condivisione comporta quel principio di sharing che espande le proprietà collaborative,
rilanciando gli artefatti digitali su cui si è attivata la cooperazione cognitiva.
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La rivoluzione del web 2.0 - Carlo Infante
Si diffonde così l’idea di piattaforme partecipative espandendo il principio di conversazione
e di produzione originale di contenuti generati dagli utenti. Principi su cui si era basato il web dalle
sue origini, in 1 Markup Language, un metalinguaggio di markup, più evoluto dell’HTML).
Un flusso di dati che consente agli utenti di essere aggiornati sui contenuti delle piattaforme
web.
Il blog basato sul Content Managing System
Il blog è l’espressione più emblematica del web 2.0, anche se il termine weblog era stato
già coniato da John Barger nel 1997. Questa definizione combina le parole web e log, rete e
diario. In sostanza consiste nell’usare una piattaforma web basata su un Content Managing System
che permette di gestire le pagina da pubblicare, ovvero i contenuti chiamati post. L’inserimento di
un post è semplice in quanto, non è necessario conoscere l’HTML (HyperText Markup Language, il
linguaggio a marcatori per ipertesti on line, atto a pubblicare sul web) perché si può contare sul
CMS (Content Managing System) che permette di gestire con un’interfaccia-utente esplicita, simile
a quella di un word processor, la pubblicazione dei post.
Wiki, il software rapido, per l’enciclopedia on line più vasta, Wikipedia
Un’altra piattaforma partecipativa è il wiki (in lingua hawaiana significa rapido) che è
concepita per condividere e co-operare in rete, permettendo di inserire, modificare, cancellare
contenuti. Il wiki è universalmente noto per essere il software open source dell’applicazione
(MediaWiki) su cui si basa Wikipedia, la più nota enciclopedia online, creata da Jimmy Wales.
Viene aggiornata giornalmente da milioni di utenti in tutto il mondo e rappresenta uno degli
esempi più significativi della partecipazione e collaborazione che stanno alla base del web 2.0.
Il primo abbozzo di dell'enciclopedia collaborativa online, nel 2000, si chiava Nupedia e
seguiva una procedura di creazione, validazione e pubblicazione delle voci molto simile a quella
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adottata per un’enciclopedia tradizionale. Nel 2001 si inizia a reimpostarla con il wiki, e così nel
2001, nasce Wikipedia.
Wikipedia raccoglie dati, informazioni e definizioni storiche e scientifiche distribuendo al
pubblico un'enciclopedia libera, gratuita e sempre più ricca di contenuti. Le varie edizioni (in 309
lingue differenti) e sono sviluppate indipendentemente l'una dall'altra, senza essere vincolate ai
contenuti presenti nelle altre, ma sono tenute unicamente al rispetto delle linee guida generali del
progetto come il punto di vista neutrale.
Tantissimi siti web consentono agli utenti di condividere contenuti di vario genere da loro
creati, quali fotografie (come Flickr, Photobucket), video (YouTube) ma anche le proprie librerie on
line (aNobii, Library Thing). In genere gli utenti si aggregano in questi siti poiché hanno un interesse
comune, ad esempio la passione per la fotografia. C’è spazio per le comunità di interesse che
rappresentano il primo passaggio verso i social network, con piattaforme come LinkedIn (sorta nel
2002), connotata per fare rete tra contatti professionali o Ning, ideata nel 2005 dal programmatore
Marc Andreessen (quello di Netscape, uno dei primi browser per navigare nel web), concepita per
realizzare i primi social network senza avere particolari competenze di programmazione HTML.
E c’è Amazon che oggi è uno dei più grandi player digitali, creato nel 1994 da Jeff Bezos
per
sollecitare la
partecipazione degli
utenti
per
commentare e giudicare i libri, e
fondamentalmente per distribuirli su una piattaforma di e commerce che ha fatto scuola. Il suo
successo è stato reso possibile dalla aggregazione di informazioni esplicite e implicite che gli utenti
lasciano quando si interessano a un libro, con commenti, la navigazione tra le pagine pertinenti e i
libri acquistati, trasformando questi dati, raccolti ed opportunamente elaborati, nei noti
suggerimenti: “l’utente che ha comprato questo libro ha comprato anche quest’altro”. Amazon
raffinò la tecnica del filtraggio collaborativo (collaborative filtering) che ha spianato la strada a
tanti altri servizi del web 2.0. Il concetto di collaborative filtering si basa sul fatto che ogni utente
una volta mostrato delle preferenze continuerà a mostrarle in futuro. Un esempio popolare di
collaborative filtering può essere un sistema di suggerimento dell’orientamento su una corrente
letteraria, aggregando su questa altre preferenze pertinenti.
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Nel 1999 fu importante il ruolo di Napster, la piattaforma web nata per la condivisione di file
musicali in modalità peer to peer (P2P) tra utenti diversi i cui computer diventano essi stessi la
piattaforma comune e decentralizzata di distribuzione, senza bisogno di un server o una repository
centralizzata.
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2. La bolla della net economy, una fine che genera un
nuovo inizio
Il crash della new economy (o net economy che dir si voglia) che cercava in Internet un
nuovo settore editoriale e una filiera produttiva, senza produzione di merci conclamate, da
sfruttare a tambur battente, dimostrò che c’è un tempo per tutto. L’avanzamento tecnologico non
stava coincidendo con quello dei mercati e degli assetti sociali.
L'idea dei portali telematici che cercavano di portare in rete i modelli di consumo dei mass
media fallì, non bastavano le infrastrutture da percorrere serviva la voglia di andare, il come e il
dove arrivare.
La new economy offriva la possibilità di operare in un mercato globale, creando
opportunità inedite, inconcepibili fino ad allora: le imprese non dovevano avere necessariamente
una sede fisica. Il web creava la condizione universale di accessibilità a chiunque, in tempo reale e
nello stesso modo, tutti potevano essere collegati con tutti.
Si stava passando da un modello industriale, ancorato al sistema della produzione
manifatturiera, ad una nuova economia di servizi innervata ai sistemi della comunicazione che
convergevano verso quelli dell’informatica e della telematica delineando uno scenario di
economia immateriale globale assolutamente incognito.
In questo scenario fervido e indeterminato spuntano come funghi migliaia di aziende, tra
cui emergeranno i grandi player del futuro digitale come Amazon, Google, PayPal …
Lo sboom della bolla speculativa
L’impatto della new economy creò una radicale trasformazione nel campo tradizionale del
lavoro, imponendo nuove competenze e ancor più nell’ottica finanziaria dell'economia, avviando
un irreversibile processo di globalizzazione basato quasi esclusivamente sulla gestione della finanza,
incentrata su un concetto preciso: speculazione. Diciamo subito che il termine in sé non va
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interpretato in quella accezione negativa per cui lo si intende troppo spesso. Visto che speculare,
etimologicamente significa “stare alla specola”, su un luogo elevato per godere di un orizzonte più
ampio, dal latino specula, vedetta. In questo senso ogni operatore del mercato che raccoglie
informazioni per decidere come investire è uno speculatore. Nell’accezione corrente si parla di
speculazione finanziaria quando si comprano e vendono titoli e prodotti finanziari con l'obiettivo di
guadagnare sulle oscillazioni dei prezzi.
Comunque sia ciò produsse quella bolla speculativa che stressò i mercati finanziari proprio
sulla soglia del nuovo millennio, in rapidissimo precipitare per gli effetti del boom incontrollato della
new economy, fino allo scoppio (lo sboom) della bolla speculativa, prima nel mercato azionario
statunitense e poi in caduta libera in tutto il mondo. Resettando la reputazione borsistica di gran
parte di quelle imprese definite dot-com (punto com, come recita il loro dominio, l’indirizzo nel
web).
Ciò accadde perché si attivano dei particolari processi durante le bolle speculative, come i
cosiddetti comportamenti imitativi (herding behaviour), ispirati all'agire comune e alle prassi
maggiormente diffuse tra gli altri investitori. Sia nella fase della crescita sia nella fase dello scoppio
della bolla, gli operatori di mercato, infatti, tendono a operare scelte di investimento e
disinvestimento indotte dall'euforia del momento e dalla paura diffusa di perdere in pochi istanti
l'intero valore dei titoli in portafoglio (il cosiddetto panic selling), piuttosto che da valutazioni
oggettive sulle prospettive di futuri rendimenti.
L’impatto del web nell'economia globale
Il concetto di new economy fu coniato da Kevin Kelly in "New Rules for a New Economy",
nel 1998. In quel libro si trattava delle nuove forme dell’e-commerce e la capacità d’impatto del
web nell'economia globale.
Si definiva come si possa raggiungere la massimizzazione dei profitti attraverso il web e
come l'idea di flusso sia finanziario sia informativo, in scala mondiale venga moltiplicato dall'effetto
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in tempo reale. Si sarebbe così profilato uno scenario in cui l'economia si inscriveva più che mai
dentro le strategie della finanza.
I punti cardine su cui girava la new economy non erano i beni materiali bensì quelli
immateriali, come le idee innovatrici e le killer application, ovvero le applicazioni di maggior
successo con cui la tecnologia impatta nel mercato, imponendosi a quelle concorrenti e aprendo
la strada alla commercializzazione di altre applicazioni, creando delle filiere produttive
esponenziali.
In questo passaggio Kevin Kelly rivela la sua impronta fortemente proiettiva.
Questa nuova economia emergente rappresenta un sussulto tettonico nella nostra
comunità, un cambiamento sociale che riordina le nostre vite più di quanto mai possano fare mere
tecnologie, hardware o software. Offre nuove, diverse occasioni e ha le sue proprie nuove regole.
Chi saprà giocare secondo le nuove regole avrà successo; chi non lo saprà fare perderà.
Il Web 2.0 è diventato quindi oltre che un fenomeno tecnologico ed economico anche un
fenomeno sociale che sta influendo sulla struttura della società.
In questo cambiamento di contesto la rappresentanza politica tradizionale si trova in
estrema difficoltà, a tal punto da interrogarsi sulla condizione di crisi di un sistema democratico che
non sa più rappresentarsi nella politica predefinita.
In parallelo a questa crisi di un modello di società sta crescendo un nuovo ed inedito
sistema di relazioni che crea condizioni per nuovi mercati in cui affermare nuove istanze. Quali?
Quella di estendere il diritto di cittadinanza e di pari opportunità per quanto riguarda
l’accesso alle reti, soprattutto.
Riconoscere all’informazione, magari quella realmente destinata alla funzione pubblica, la
valenza di bene comune, diffuso e trasparente.
Offrire garanzie per la tutela dei dati personali e della privacy in generale.
Promuovere la migliore interazione possibile tra governanti e cittadini per rilanciare il
significato di partecipazione alla res pubblica, ripensando come agire nell'ambito della cosa
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La rivoluzione del web 2.0 - Carlo Infante
pubblica, oltre le prassi ordinarie di elezioni o referendum (spesso bloccati dall’inibizione dei
quorum) e utilizzando, ad esempio, blog e forum come piattaforme partecipative.
Il Web 2.0 è ormai una realtà consolidata, come già sostenevano, prefigurandone gli
sviluppi, Tim O’Reilly e Howard Rheingold.
In particolare quest’ultimo, che con la sua teoria sulle smart mob ha inquadrato il contesto
alla luce del dato più interessante: l’interazione stretta tra Rete e territorio attraverso l’azione dei
cittadini connessi via mobile, prima con sms e poi con twitter, utilizzando gli smartphone come
opportunità straordinaria di autoconvocazione.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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La rivoluzione del web 2.0 - Carlo Infante
3. La folksonomy, la tassonomia popolare
Categorizzare informazioni è determinante per potersi orientare nel flusso dei dati in rete.
Ciò che ha permesso di fare un salto di qualità rispetto all’editing che già veniva svolto nella
pubblicazione di siti web, attraverso l’uso di meta tag (quei metadati utilizzati nello script HTML per
inserire informazioni correlate alla pagina web pubblicata) fu proprio la partecipazione attiva degli
utenti nel collaborare e poi condividere queste informazioni di categorizzazione di ciò che
circolava in rete.
Grazie all'utilizzo di parole chiave (o tag) in una pratica diffusa nella fase iniziale del web
2.0, per cui si partecipava attivamente alle traiettorie del senso in rete, collaborando e
condividendo, iniziò così a prendere forma un fenomeno che prese nome di folksonomy, un
termine che fonde la parola folk (popolare) con tassonomia (classificazione, deriva dal greco taxis
e nomos, il primo significa ordine e il secondo regola)
La folksonomy era quindi una metodologia ostinata nel cercare di sistematizzare il mare
magnum disordinato delle informazioni on line, utilizzata sia da utenti singoli sia da comunità di
pratica teorica che interagivano nell’organizzare in categorie (su modello enciclopedico) le
informazioni che circolavano nel web.
A differenza delle modalità convenzionali di classificazione su impostazione accademica la
folksonomy, anche se imprecisa, proprio perchè spontanea e partecipativa, si rivelò però molto
funzionale a sviluppare una forma di auto-organizzazione della conoscenza condivisa in rete.
Sull'onda di questa nuova tensione collaborativa, nel 2003, nacque del.icio.us, il social
bookmarking per l'archiviazione e la condivisione di segnalibri (per indicizzare i link).
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La ricchezza informazionale dei social network
È di una negoziazione delle proprie informazioni che si tratta, corretta solo se si basa su un
principio di trasparenza e consapevolezza, altrimenti rappresenta un abuso della fiducia.
Nel web esiste un valore da considerare come ricchezza informazionale, come la definisce
Manuel Castells, per cui ad ogni scambio si ha un processo di creazione di valore e di
accumulazione di ricchezza. Una ricchezza informazionale attivata dal web 2.0 che ora viene
giocata dai social network in un mercato che ha sviluppi esponenziali.
Quando si parla di social network in genere si fa riferimento a Facebook, il network creato
nel 2004 da Mark Zuckerberg, Dustin Moskovitz e Chris Hughes (quest’ultimo futuro consulente nella
campagna elettorale di Barack Obama). Ma Facebook è solo quello di maggior successo.
La storia dei social network è piuttosto lunga e senz’altro destinata a non fermarsi.
Quello che può essere definito il precursorse dei social network, Classmates.com, è stato
creato addirittura nel 1995 da Randy Conrads, un ingegnere della Boeing, allo scopo di
permettergli di rintracciare i suoi ex compagni di classe nelle Filippine. Due anni dopo, nel 1997,
l’avvocato Andrew Weinreich, lancia Six Degrees, basato sulla teoria dei sei gradi di separazione
sviluppata nel 1967 dal sociologo dell’Università di Harvard Stanley Milgram, secondo la quale sono
necessari soltanto sei links, sei legami, affinchè una persona entri in contatto con una qualsiasi altra
persona al mondo.
Nel 1998 viene creato Intermix, che diventerà nel 2003 MySpace e poi assorbita e pressoché
scomparsa nella galassia della News Corporation di Rupert Murdoch.
Nel 1999 Jonathan Bishop crea Circle of Friends che poi ispirerà Friendster, basato proprio
sul favorire le relazioni tra le persone, come succederà per molti social network successivi, da
MySpace a Facebook, e in contemporanea nasce anche Circle of Trust, la cui base sono invece i
rapporti di tipo professionale e che sarà un precursore di LinkedIn. Nel 2001 nasce Ryze, il social
network più vecchio esistente oggi, con l’obiettivo di stabilire relazioni di tipo professionale. L’anno
dopo è la volta di Friendster, creato dal programmatore Jonathan Abrams, che permetteva di
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generare una lista di contatti a partire dagli amici degli amici e che cominciava ad avere un certo
successo, registrando un milione di utenti in meno di un anno. Nel 2002 è il turno di LinkedIn, il cui
target sono i professionisti e lo scopo è di mettere in contatto le persone per motivi professionali, e
di MySpace messo a punto da un gruppo guidato da Tom Anderson.
Solo due anni dopo arriva Facebook. Nato il 4 febbraio 2004 dall’idea dei tre studenti
dell’Università di Harvard di mettere online l’annuario degli iscritti all’ateneo americano che in
gergo viene chiamato proprio facebook, il libro delle facce. Inizialmente il social network era
limitato agli studenti di Harvard che erano gli unici a potersi iscrivere. Successivamente è stato
aperto a tutti e ha avuto un successo che probabilmente nemmeno i creatori si sarebbero
aspettati. Facebook ha oggi 2 miliardi e mezzo di utenti attivi nel mondo e la cifra è in continua
crescita.
I social network sono piattaforme web sulle quali gli utenti possono entrare in contatto tra
loro e svolgere una serie di attività, dal classico invio di messaggi, simultanei visto che sono superati
i tempi di trasferimento da un server all’altro, alla condivisione di fotografie, video, documenti scritti
e tutto ciò che la multimedialità della rete consente. Lo scopo è principalmente rimanere in
contatto con gli amici o con altre persone e per tale motivo rientrano nel genere di comunità
online che Maredith Farkas definisce comunità di mantenimento, nel senso che l’obiettivo è il
mantenimento e il consolidamento dei rapporti sociali.
Tramite dei feed RSS gli amici di un utente su Facebook vengono avvisati ogni volta che
l’utente compie un’azione, per esempio pubblica un video osemplicemente scrive qualcosa sul
suo profilo, e questo è sicuramente uno degli aspetti che piace di più e che favorisce la socialità.
Per concludere si potrebbe riassumere le competenze chiave del Web 2.0, sulla base delle
indicazioni che lo stesso Tim O'Reilly suggerisce:
Servizi, e non pacchetti di software, con una scalabilità (per cui s'intende la capacità di un
sistema di aumentare o diminuire di scala in funzione delle necessità) e disponibilità efficace dal
punto di vista dei costi;
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il controllo gestionale delle diverse fonti di dati che si arricchiscono man a mano che
vengono utilizzati e rielaborati dagli utenti;
dare fiducia agli utenti come co-sviluppatori;
sollecitare l’intelligenza collettiva come espressione di auto-organizzazione degli utenti;
influenzare la lunga coda (long tail) attraverso il customer service che permette di
estendere nel tempo l’attenzione verso i prodotti e i servizi;
la progettazione di software che sappia commisurarsi alla convergenza dei media, per
andare oltre al singolo dispositivo;
progettare interfacce-utente sempre più amichevoli e coinvolgenti;
sviluppare modelli di business leggeri per intercettare le più diverse espressioni della
domanda d’innovazione.
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Indice
1.
ANTROPIZZARE IL CYBERSPAZIO ........................................................................................................ 3
2.
I BLOG SVILUPPANO INTELLIGENZA CONNETTIVA............................................................................. 5
3.
L’AUTONOMIA CREATIVA DELLA DISINTERMEDIAZIONE.................................................................. 10
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 11
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1. Antropizzare il cyberspazio
Il web nel momento in cui si dà forma ipertestuale all’infrastruttura telematica definita
Internet inizia a diventare un nuovo ambiente, qualcosa di molto più complesso e interessante di
un mero strumento digitale.
Già nella fase sperimentale - nell’arco di due decenni, in cui Internet, nonostante la sua
vocazione militare, si stava sviluppando proprio nell’ambito universitario, coinvolgendo non solo
scienziati ma studenti creativi (tra cui emersero degli hacker geniali che dettero un contributo
fondamentale alla configurazione della rete delle reti) - nella rete si andò creando un significativo
comportamento collaborativo.
Ne è quindi un valore fondativo: reticolare, non gerarchico, collaborativo, connettivo.
In questo senso anche la programmazione di un software diventa un comportamento
rivolto alle aspettative altrui, al fine di poter fare evolvere un programma informatico, facendo ciò
che più conta: sviluppare le sue applicazioni potenziali attraverso il concetto di open source che
permetteva un’implementazione continua, grazie al fatto di rilasciare l’opportunità di accedere ai
codici-sorgente dei software, lasciando aperte le sorgenti della programmazione.
Agli albori di Internet tutto ciò era la regola fondante dell’esperienza di programmazione,
per rendere pertinenti i protocolli a tutta la comunità in Rete, per fare in modo che ogni
sviluppatore di software li utilizzasse, migliorandoli.
Collaborare e innestare il principio di responsabilità sociale verso un progetto comune è
una pietra angolare dello sviluppo di Internet.
Trova così sostanza l’idea della Rete come ecosistema informativo, come un insieme
esperienziale fatto di conoscenze collettive e disponibilità connettive: una straordinaria palestra di
cooperazione sociale.
Esiste quindi una democrazia del codice informatico che può essere utile a capire come la
Rete possa contribuire a pensare meglio la nostra organizzazione, in una società futura.
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Ma non è solo una metafora. Alcuni software, come abbiamo già visto, ci sollecitano a
sviluppare le nostre potenzialità umane di comunicazione.
Ecco perché abbiamo fatto questo preambolo, proprio per sottolineare come le pratiche
del blogging e del social tagging (che significa mettere parole chiave, o meglio tag, ai contenuti
più pertinenti, segnalandoli, per condividere meglio gli indirizzi di senso, per incrociarli con altri) lo
stiano dimostrando da tempo, anche se qualcuno non se ne è accorto. Si sta comunque
percorrendo un terreno già fertilizzato.
Si tratta di prendere possesso degli spazi, fare di questo nuovo ambiente in rete uno spazio
pubblico e non solo un nuovo mercato, per antropizzare il cyberspazio, come sarebbe giusto dire,
evocando l'evoluzione umana che nell’arco dei millenni ha antropizzato i territori, pascolando
armenti, coltivando, erigendo città.
Quel termine cyberspazio fu così definito dal poeta John Perry Barlow, fondatore
dell'Electronic Frontier Foundation: se sia un singolo trillo telefonico o milioni, essi sono tutti connessi
fra di loro. Collettivamente, formano ciò che gli abitanti della città virtuale chiamano la Rete. Essa
si estende attraverso l'immensa regione dello stato di elettroni, microonde, campi magnetici, luci
intermittenti che lo scrittore di fantascienza William Gibson battezzò Ciberspazio.
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2. I blog sviluppano intelligenza connettiva
Il fenomeno dei blog ha esplicitato più di tutte le tante applicazioni in rete questo processo
di antropizzazione, portando nel web la soggettività degli utenti.
Liberando un'energia
partecipativa, espressa dalla intelligenza connettiva di chi agisce nella Rete, acquisendo l’energia
interconnessa, rendendo evidente anche come si possa rifondare la politica.
Riscoprendo il senso di quella parola, a partire dalla prima definizione di politica che risale
ad Aristotele ed è legata all'etimologia del termine, per cui significa l'amministrazione della polis
per il bene di tutti, per la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini
partecipano.
Ancora prima dei blog c’erano delle altre forme per vivere in rete la condizione sociale
dell’interazione intelligente, c’erano i forum in cui, dopo essersi registrati (signup), si poteva
accedere alle conversazioni on line, qui a differenza dalla chat, che si basa sulla comunicazione
sincrona, l’interazione può avvenire in momenti diversi, visto che è asincrona.
Ancora prima c’erano i newsgroup che si sono sviluppati ben prima dell’avvento del web,
utilizzando la rete Usenet e dove ha preso forma la soluzione delle FAQ (Frequently Asked
Questions, le domande poste frequentemente, con una serie di risposte per evitare che arrivino le
stesse domande e i botta-risposta interminabili e di dubbia utilità). E prima ancora a battere questa
strada del confronto on line ci sono state le BBS (Bulletin Board System), la prima è stata la
Community Memory nel 1973 che ha svolto un ruolo importante nei primi passi di Internet come
ambito del dialogo tecnoscientifico tra i pionieri della rete.
Da quelle esperienze c’è stata un'evoluzione continua attraverso cui si è passati dalle
conversazioni scarne tra esperti di informatica, per risolvere insieme problemi tecnici, ad
un’articolazione più formale della scrittura in rete che con l'esperienza dei blog ha stabilito uno
straordinario salto di qualità del modo in cui abitare la rete, ragionando facendo cultura e
facendo della stessa cultura, non solo una condizione di conservazione del valore artistico
sedimentato, ma un driver di trasformazione.
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Il diario online, il personale è politico e poetico
Il diario online ha iniziato a prendere piede negli Stati Uniti nel 1997, quando Dave Winer
realizzò il software che permetteva la pubblicazione di qualcosa che poi si sarebbe stato definito
blog. A questo seguì RobotWisdom pubblicato da John Barger appassionato di caccia che aveva
intuito come potesse essere attraente un diario con link sulla propria passione, fu lui a coniare il
termine weblog.
A Torino, già nel maggio del 1997, per la Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del
Mediterraneo si realizzò un diario on line che era di fatto un blog, anche se non si utilizzò un CMS
(Content Managing System), il software che permette di gestire la pubblicazione in rete con
un’interfaccia-utente esplicita, simile a quella di un word processor.
Nasceva nell’ambito del progetto “Ipercantiere” che utilizzava per la prima volta,
pubblicamente, in un contesto culturale, la rete di banda larga messa a punto del piano “Socrate”
della Telecom.
Quel diario coinvolgeva una decina di corrispondenti che seguivano gli eventi in città della
Biennale e riportavano nell’ipercantiere le informazioni raccolte, senza dovere necessariamente
adottare un linguaggio giornalistico, bensì un’impronta più soggettiva, esperienziale, anticipando
quello spirito proprio dei blog che si sarebbe diffuso dappertutto solo qualche anno dopo.
Nel 1999 questa metodologia fu rilanciata alla Biennale Teatro di Venezia dove fu realizzato
un diario on line che vide protagonisti gli studenti di alcuni licei veneziani (e un istituto industriale di
Mestre) per comporre il diario esperienziale relativo l'avventura esplorativa tra gli spettacoli ospiti
della Biennale.
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I blogger, la nuova specie ibrida, tra scrittori, giornalisti e cittadini attivi
Il fenomeno del blog, già nei primi anni del nuovo millennio, ha portato una quantità
considerevole di utenti del web a pubblicare i loro testi senza pretendere di diventare scrittori o
giornalisti, diventavano blogger e ciò bastava.
Dopo qualche anno è diventata una professione a tutti gli effetti, una connotazione ibrida
per una specie autorale in cui convergevano diverse ambizioni, da quelle di scrittori in cerca di
spazi che gli editori non concedevano a quelle di giornalisti che non vendevano i propri pezzi,
anche se i più interessanti erano, semplicemente, i cittadini attivi, impegnati nei propri territori, che
denunciavano o articolavano proposte funzionali all’informazione fondata sull'osservazione di ciò
che accadeva intorno a loro.
Qualcuno si domandava come guadagnare con il proprio blog. Inizialmente si cercava di
vendere banner pubblicitari (con più insuccessi che successi). Poi a quelle domande rispose, nel
2003, Google con la nascita di Google AdSense, che ha coniugato la pubblicazione dei contenuti
alla possibilità di aggiungere delle inserzioni pubblicitarie. In quello stesso anno è nata la
piattaforma ancora esistente, nonché la più utilizzata di blogging ma non solo, WordPress.
Nel 2002 Newsweek predisse un nuovo ruolo per i blog, visti come nuovi media informativi
che avrebbe superato i media tradizionali. I blog fanno un salto di qualità quando iniziano a essere
utilizzati nel campo della comunicazione, con l’autorevolezza dell’inglese The Guardian che si
connota come la testata giornalistica che meglio utilizza il data journalism. Fece scalpore nel 2010,
il loro scoop che cambiò il mondo del giornalismo: la diffusione a livello mondiale dello scandalo
dei registri di guerra di fatti circolare da WikiLeaks, sugli abusi dei militari americani in Afghanistan,
seguiti poco tempo dopo dai dati relativi alla guerra in Iraq.
Un’altra data va ricordata: nel 2005 il blogger Garrett Graff fu il primo a ricevere le
credenziali stampa dalla Casa Bianca.
Sulla base di una ricerca dell’Online Journalism Review, nel 2010 esistevano più di settanta
milioni di blog attivi in tutto il mondo, di cui quattrocentomila italiani (un dato importante da
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rilevare). Oggi se ne contano più di 500 milioni sommando tutti quelli editati con le maggiori
piattaforme.
Nonostante la rapida diffusione dei social networks, i blog stanno continuando a
mantenere una certa autorità e sono entrati nella vita di tutti.
L’uso di tali spazi online ha
consentito una rivoluzione comunicativa, ma anche sociale, basata su un nuovo modo di
informarsi, raccontarsi e confrontarsi. Questo fenomeno continuerà ad evolversi e c’è chi dice che
la scrittura passerà sempre di più in secondo piano, lasciando sempre più spazio alle foto e
soprattutto ai video, basti pensare all’uso delle dirette su Facebook, Snapchat o Instagram.
Una tassonomia dei blog
Il blog può essere considerato come una raccolta di testi che possono diversificarsi per
forma e stile in maniera molto netta. Un buon blogger sa, tuttavia, che uniformare i contenuti per
forma stile e tematiche trattate è una pratica necessaria per ottenere il coinvolgimento degli utenti
e visibilità sui motori di ricerca. Può essere utile quindi una sommaria tassonomia che vede il mondo
dei blog dividersi in diverse forme anche se queste particolarità si remixano spesso tra di loro.
C’è il blog diario in cui l’autore racconta il proprio quotidiano, cosa pensa, cosa desidera…
liberando la propria soggettività senza porsi il problema d'imprimere un carattere autorale. È un
ambito peculiare in cui il personale si rende pubblico, politico o poetico. Condividere è il punto di
partenza e l’interazione con i commenti non è necessariamente obbligatoria. Tenete conto che
stiamo parlando di un fenomeno che è nato ben prima dell'avvento di Facebook che, sebbene
nato nel 2004, diventerà rilevante solo verso la fine del 2006.
Nel blog tematico, come quello giornalistico, si tende a concentrarsi su un argomento
specifico oppure si sceglie di impostare le pubblicazioni con un taglio saggistico o giornalistico. In
questa ultima definizione rientrano quei blog che non necessariamente possono essere registrati
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come vere e proprio “testate”. Va detto che una testata giornalistica viene riconosciuta (e quindi
registrata) presso un tribunale, con un direttore responsabile iscritto all’Ordine dei Giornalisti, per
svolgere professionalmente la diffusione di informazioni. Di conseguenza ha delle responsabilità
civili e penali riguardo le notizie pubblicate (la libertà di stampa, il diritto alla privacy ...) e deve
sottostare alle norme dell’autorità giudiziaria. Tra i blog generalmente definiti tematici rientrano
un’infinità di pagine su makeup cinema, cucina e viaggi. È la prateria del fandom (parola
composta da fanatic = ossessionato e dal suffisso dom come in kingdom = regno).
Il blog letterario è caratterizzato da un lessico letterario che occupa le pagine web
piuttosto che la carta di libri che a loro volta affollano librerie e biblioteche. Il fatto è che spesso in
questi blog, più che fare letteratura se ne parla, orientandosi quindi nel campo dei blog tematici,
producendo recensioni che hanno come obiettivo principale quello di avere a disposizione copie
dei libri da mettersi nella propria biblioteca. Tutt’altra questione è ciò che riguarda la produzione di
opere letterarie on line che nel blog trovano un contesto interessante, come fu monitorato la prima
volta dall'Osservatorio Scrittura Mutante nel 2001, che dopo qualche anno approdò al Salone del
Libro di Torino come concorso rivolto a tutte le esperienze creative di scrittura on line, a partire dai
blog.
Il corporate blog non è certo un web aziendale ufficiale ma l’apertura del XXI secolo ha
sollecitato molte imprese a scendere in campo nel web e non solo per fare affari. Il valore da
coltivare è stato quello del reputation capital, esercitandolo con approcci informali e tesi a
coinvolgere i propri dipendenti, verso cui si è affinata una politica di social responsability. Con i
blog la comunicazione sociale d’impresa ha fatto un salto di qualità, creando nuove forme di
storytelling per coinvolgere i territori a cui appartiene l’impresa e per promuovere occasioni di
concordia, dove l’azienda si toglie la cravatta. L'informalità è quindi la chiave del successo di un
corporate blog, sia nel “tu per tu” con i clienti sia nel qualificare un rapporto interattivo con i propri
dipendenti e l’ambito territoriale a cui l’azienda fa riferimento.
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3. L’autonomia creativa della disintermediazione
La questione cruciale a proposito dei blog è l’aver avviato un approccio che è passato alla
storia come disintermediazione, smarcandosi anche dal webmaster per pubblicare una pagina
web. Prima di allora serviva ai più una mediazione tecnica per gestire la pubblicazione on line. Da
ciò si è creata una condizione abilitante fenomenale: si poteva essere non solo autori di sé stessi,
liberando il proprio potenziale soggettivo nella scrittura on line, ma anche editori di sé stessi, il che
comportava un’ulteriore disintermediazione dalla figura molto verticale dell'editore. È questa
opportunità che ha diffuso una sensibilità di forte autonomia creativa, meglio ancora
indipendenza, che ha permesso a milioni di utenti di pubblicare il proprio blog, agendo
direttamente e pubblicamente le proprie opinioni nonché inventando anche nuove forme
d'impresa.
È emblematico come la mutazione dei linguaggi, attraverso l’evoluzione tecnologica,
possa scatenare un processo di emancipazione come quello della disintermediazione che,
nell’arco di pochi anni, ha ridisegnato molti assetti professionali e produttivi. Pensate solo a come
abbia relativizzato il ruolo del giornalismo, a come abbia sancito l’estinzione della specie degli
agenti di viaggio, a come abbia promosso il superamento delle forme della mediazione politica,
ancora a come abbia indebolito i negozi di dischi per via del fenomeno dello streaming musicale
e molte filiere distributive delle merci con il predominio di Amazon.
Tutto è nato con l’ambientazione in un nuovo contesto, come quello espresso da Internet in
cui non solo si legge, si agisce. Un nuovo ambiente che abbiamo imparato ad antropizzare:
dall’esplorazione alla progettazione di nuove relazioni per giungere alla partecipazione in un
contesto popolato da soggetti disposti a comunicare, a partire dai blog che vent’anni fa hanno
esplicitato tutto questo.
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Carlo Infante - Innovazione adattiva
Indice
1.
L’INTELLIGENZA DELLA RECIPROCITÀ E DELL’ESPERIENZA.................................................................. 3
2.
IL SOCIAL DESIGN PER PROGETTARE INNOVAZIONE SOCIALE ......................................................... 5
3.
SMARTNESS, L’INTELLIGENZA PRONTA, PROATTIVA ........................................................................... 8
4.
IL WEB SPAZIO PUBBLICO DELL’INFOSFERA DIGITALE ...................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 15
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Carlo Infante - Innovazione adattiva
1. L’intelligenza della reciprocità e dell’esperienza
L’obiettivo della lezione è nel rilevare il concetto di innovazione adattiva, con cui s’intende
una strategia evolutiva che riguarda l'adattamento dell’innovazione digitale alla crescita di una
consapevolezza d’uso dei nuovi media da parte dei cittadini senzienti.
È necessario che l'innovazione digitale si adatti alla creatività sociale che emerge da
buone pratiche capaci di generare un’intelligenza applicativa che per alcuni aspetti rientra in ciò
che viene definito user experience. È proprio questo valore d’uso creativo che può riequilibrare le
sorti di un mercato tecnologico in cui l’offerta è più forte della domanda, facendo questo si può
dimostrare quanto sia importante fare società prima di qualsiasi mercato.
L’intelligenza della reciprocità e dell’esperienza
C'è un valore intrinseco delle tecnologie digitali orientate verso un aspetto più evoluto
dell'intelligenza artificiale, riguarda una condizione basilare del pensiero cibernetico, quella della
reciprocità, per cui il feedback è l’elemento costitutivo del rapporto con una macchina
intelligente.
Ciò è utile rilevarlo nel momento in cui ci interroghiamo su come contestualizzare
l'innovazione digitale per il bene comune. L'analisi che stiamo impostando è ancora molto
indeterminata, anche se ne abbraccia alcuni aspetti applicativi già in uso.
Uno di questi è quello del machine learning, ovvero la macchina che apprende di per sé.
Il machine learning crea le condizioni per cui computer e sistemi robotici possano
apprendere automaticamente, imparando ad agire in modo naturale, come gli esseri umani o gli
animali, imparando dall’esperienza, ovvero attraverso programmi di apprendimento automatico
che li predispongono a stabilire un rapporto di reciprocità con il mondo esterno.
Gli algoritmi di machine learning usano metodi computazionali per apprendere informazioni
direttamente dai dati, senza modelli matematici ed equazioni predeterminate. Questi metodi
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Carlo Infante - Innovazione adattiva
migliorano le loro prestazioni in modo adattivo mano a mano che gli esempi da cui apprendere
aumentano.
L’intelligenza artificiale applicata agli ambiti del continuum of care, con la cura giusta (nel
momento giusto, nel posto giusto), dimostra come possa adattarsi alle persone e non viceversa. È
un buon esempio di innovazione adattiva, partendo dal principio che passare dalla ricerca
all’attuazione richieda non solo l’apprendimento automatico o altri metodi statistici, ma anche
una profonda comprensione del contesto, operativo o personale, misurandosi con la reciprocità e
l'esperienza.
Anche nei sistemi di automazione industriale ci sono modalità per cui si modificano i
parametri di alcuni sistemi robotici per adattarli alle peculiarità del ciclo produttivo, che subisce
delle variazioni durante l’esercizio delle sue funzioni, richiedendo modifiche delle impostazioni.
È proprio in questo contesto che abbiamo notato il fatto che si usava già il termine
innovazione adattiva, proprio per intendere la necessità di modificazione delle impostazioni
preordinate per misurarsi con processi che richiedono attenzioni particolari, per ottimizzare i
processi produttivi.
Il punto sostanziale è che il nostro interesse per l’innovazione adattiva non intende
assolutamente basarsi solo sui sistemi di intelligenza artificiale e su quelli dell'automazione (che
comunque è strettamente interrelata a quelli del machine learning) bensì su quelle molteplici
espressioni di creatività sociale degli utenti in cui rientra la user experience.
L’obiettivo è impostare strategie culturali che possano sollecitare l’evoluzione dell’uso delle
tecnologie sulla base di processi cognitivi che scandiscano un moto progressivo di consapevolezza
nei vari campi applicativi, per avviare processi di innovazione adattiva, a partire da quelli
dell’innovazione sociale e della resilienza urbana dove il concetto di smart community sta
prendendo piede in diverse articolazioni.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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2. Il social design per progettare innovazione sociale
Nel concetto di social design rientrano le diverse metodologie di progettazione che vanno
al di là della creazione di prodotti o servizi, rappresentano un sistema complesso di progettazione
che considera tutti gli aspetti che riguardano le dinamiche innovative che investono la società,
l’ambiente, la cultura e l’economia. Troppo ampio? Certo, stiamo trattando di come progettare le
forme di riequilibrio perché l’innovazione digitale, che di fatto sta pervadendo la condizione
umana, trovi la misura per essere realmente funzionale all’intero sistema in transizione, che
concerne la vita di tutti.
L’obiettivo è quello di creare progetti emblematici attraverso cui analizzare le soluzioni
digitali migliori per le diverse problematicità che emergono, ottimizzando l’impatto sulla vita delle
persone e l’intero ecosistema.
Gli ambiti sono molteplici vanno dall'autosufficienza alimentare (interpretando criticità
come lo spreco alimentare e opportunità come le buone pratiche dell’agricoltura multifunzionale)
alla co-creazione di valore nei contesti di nuova imprenditorialità innovativa delle start up (con
l’invenzione di app mobile, applicazioni web e piattaforme collaborative per l’auto-organizzazione
delle comunità); dalla rigenerazione urbana ai processi di efficientamento energetico degli edifici.
Il social design si basa su una semplice articolazione di principi: lavorare con la gente
piuttosto che per la gente (tenendo conto che coinvolgere comunità di pratica già autoorganizzate è determinante); dare forma alla partecipazione (perché non sia un rituale inerte,
avviato solo per arginare le conflittualità sociali) e quindi fare evolvere il coinvolgimento dei
cittadini (commisurandoli ai contesti di appartenenza territoriale) nella pianificazione e
nell’organizzazione di progettualità come nel caso della rigenerazione urbana; creare le condizioni
abilitanti con soluzioni di innovazione digitale e metodologie come il design thinking e l’intelligenza
connettiva per usare in modo creativo gli spazi e i tempi di progettazione partecipata; armonizzare
i processi che dalla progettazione arrivano alla decisione, mantenendo un equilibrio tra ambiente
sociale e naturale, secondo i fondamenti dello sviluppo sostenibile.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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La progettazione partecipata è un metodo dinamico e flessibile, fondamentale per la
condivisione e la comprensione di un processo in atto, efficace nell’indirizzare le prese di decisione,
lo sviluppo di piani di intervento e la soluzione dei problemi. Inoltre innesca nei partecipanti un
processo di co-progettazione multi stakeholder (i portatori di interesse e di buona pratica) che,
attraverso la responsabilizzazione dei cittadini, genera senso di appropriazione degli interventi ed
empowerment, la condizione che dall’autostima porta all’autodeterminazione.
Il dato peculiare della ricerca sull’innovazione adattiva è nel contestualizzare le diverse
espressioni della progettazione partecipata, del design thinking e dell’intelligenza connettiva, in
relazione alle procedure del design pattern (l’ambito computazionale che ordina gli schemi di
progettazione) correntemente utilizzato nell'ambito dell'ingegneria del software, definito come
"una soluzione progettuale generale ad un problema ricorrente". Si tratta di modelli logici da
applicare alla risoluzione di problemi che emergono in diverse situazioni, per poterli prefigurare
all’interno di ambienti di simulazione per l’apprendimento sociale.
Queste simulazioni digitali possono essere una soluzione fenomenale per l'analisi di sistemi
complessi, che includono sia sistemi informatici che sistemi fisici e sociali (come la gestione del
traffico automobilistico, un piano di rigenerazione urbana, la gestione del social tracing durante
una pandemia, la valorizzazione di un ecosistema…)
In contesti simili di simulazione digitale si possono sperimentare, nella dinamicità del problem
solving, quelle soluzioni di innovazione adattiva di cui stiamo trattando, istruendo le interazioni di
agenti intelligenti - bot con la sentiment analysis dei contenuti espressi dalle comunità di pratica
coinvolte nei progetti in esame, magari utilizzando piattaforme web dedicate e non solo i social
media.
I design pattern mostrano le interazioni tra le molteplici classi dei dati acquisiti, per arrivare a
descrivere un pattern più ampio, complessivo, una disposizione (che è in fondo il significato di
pattern) da adottare dall'intero sistema progettuale per dare vita a un framework.
È importante considerare che il termine framework è utilizzato oltre l’ambito informatico.
Spesso lo si esercita nei contesti economico-gestionali, per esprimere modalità sperimentali di
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simulazione per supportare un nuovo progetto di gestione. Dopotutto framework significa
intelaiatura, una struttura atta a tenere qualcosa insieme, un qualcosa di cui ha bisogno la nuova
progettazione culturale per orientare l’innovazione ad adattarsi in relazione alle nuove domande
di cambiamento.
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3. Smartness, l’intelligenza pronta, proattiva
Il Design Thinking, in relazione allo sviluppo della smart city, deve andare dunque di pari
passo con l’impegno pubblico. Esso rappresenta un modo intelligente per pensare come tutte le
risorse cognitive, a partire da quelle espresse dalle comunità di buona pratica, possono funzionare
meglio e guidare il cambiamento.
Il concetto di intelligenza, in relazione alla definizione delle città, fa riferimento il più delle
volte alle connessioni ad alta tecnologia, ai sensori, alla possibilità di trattare simultaneamente
grandi quantità di dati. Questa definizione di smart city non è però esaustiva perché lascia fuori
altre dimensioni, estremamente importanti legate all’infrastruttura immateriale di comunità
territoriali, alle organizzazioni civiche, ai gruppi di quartiere, la mondo accademico e alle comunità
imprenditoriali come attori e partner nel processo di gestione della città.
Le diverse definizioni di smartness (l’intelligenza pronta, proattiva) comportano processi di
apprendimento collettivo e connettivo, per creare le condizioni in grado di elaborare l’ampio
volume di conoscenze generato in una città.
All’interno di questa prospettiva, le smart city sono in grado di fare il miglior uso
dell’innovazione tecnologica attivando un processo di apprendimento attraverso il quale nuove
idee vengono catturate e adattate, con piattaforme digitali adeguate,
per creare strategie di cittadinanza educativa che, dall’ambito scolastico dei più giovani,
riguardi tutta la popolazione in una formazione continua.
Proprio grazie ai processi di apprendimento, crescita ed innovazione si costruisce una città
intelligente intesa in una prospettiva sistemica; vale a dire sia come struttura connettiva, aperta e
consapevole e finalizzata, sia come struttura adattiva, capace di generare dati, conoscenza e
applicazioni digitali performanti, facendo evolvere i propri comportamenti.
Il concetto di smart city sembra dunque ridefinirsi, da un punto di vista epistemologico, nei
termini di un sistema auto-organizzato complesso dotato cioè di una forte vitalità interna, che ne
definisce l’identità, l’autonomia e la creatività.
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Un sistema auto-organizzato si configura come un sistema vitale che si adatta al proprio
ambiente selezionando gli stimoli e costruendo le risposte, che esso ritiene più adeguate, per vivere
e per evolvere nel suo ambiente.
Il sistema sociale possiede una propria peculiarità cognitiva che gli consente di dare delle
risposte attive alle influenze del mondo esterno, mantenendo il suo equilibrio e portando avanti i
suoi percorsi di evoluzione, cercando di fare in modo che l’innovazione sia funzionale a questi
processi.
Il dominio cognitivo di una comunità può configurarsi come un sistema vivente, all’interno
di un ecosistema urbano in cui i flussi informativi sono una delle tante componenti, come gli edifici,
i giardini e le storie, quelle che amiamo definire i paesaggi umani. Ci piace pensare che una
strategia d’innovazione adattiva trovi le applicazioni più performanti per migliorare la vita di sistemi
simili.
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4. Il web spazio pubblico dell’infosfera digitale
Il nostro modo di percepire il mondo è cambiato profondamente nella misura in cui il web è
diventato un nuovo spazio pubblico in cui si sono radicalmente modificati i rapporti tra spazio e
tempo. L’innovazione dei rapporti tra spazio e tempo, all’interno delle reti immateriali, si riflette
anche fuori, nel mondo reale, nel senso che cambiano i rapporti tra individui, tra individui e
contesti di riferimento, tra individui e territori. È in questa estensione dalla rete ai territori che si gioca
la scommessa evolutiva che concerne l’innovazione adattiva, in una dinamica che è al contempo
esercizio di creatività e di complessità.
La complessità di cui stiamo trattando riguarda la simultaneità delle informazioni, le loro
connessioni combinatorie, le dinamiche della rete, dove le informazioni sono sempre più innervate
alle relazioni.
Un dato certo di cui in troppi non sono consapevoli e tanti altri ne rigettano la
frequentazione.
I nuovi media non sono solo strumenti, ma rappresentano dei veri e propri ambienti, nuovi
mondi che sottendono nuovi modi per esercitare il mondo.
È da qui che può nascere anche un rinnovato rapporto con il territorio. In questo senso sarà
importante occuparsi di armonizzare il thesaurus delle nostre conoscenze, sia con i sistemi della
comunicazione digitale sia con i contesti di vita. È qui che si gioca una partita complessa eppure
fluida, vitale, generativa.
La società contemporanea presenta dunque nuovi scenari caratterizzati da forti e
significative interconnessioni tra l’intero sistema sociale e l’innovazione di cui abbiamo bisogno.
Così come accade nell’ambito della progettazione sociale, il passaggio dalla società industriale
alla società postindustriale ci obbliga ad uscire da una logica lineare e ad abbracciare una logica
sistemica.
Proprio per questa ragione, qualsiasi progetto o intervento se vuole avere una possibilità di
successo deve muoversi in una logica più multidisciplinare, ovvero multidimensionale, visto che
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l’interazione tra mondo fisico e mondo digitale sottende già questa molteplicità di piani
dimensionali.
L’infosfera digitale può e deve essere individuata come un’estensione del mondo
antropizzato, per cui l’uso e la progettazione dell’impianto ipermediale è fondamentale per
aiutarci a migliorare le condizioni di vita nella realtà fisica, nei contesti più disparati per trovare
soluzioni con metodi mai veramente sviluppati.
Quando parliamo di progetti e di interventi per l’innovazione muoviamo dal presupposto
che questi non possono riguardare una sola area di intervento, uno specifico settore di sviluppo e
di crescita, ma un modello di sviluppo economico e sociale che interessa al tempo stesso
l’istruzione, la formazione ed il lavoro; la pubblica amministrazione e le imprese private; l’esistenza
dei giovani e quella degli adulti; la qualità della vita nei territori urbani ed extraurbani.
Rispetto a queste considerazioni generali sull’innovazione adattiva è importante dare vita a
reti di soggetti pubblici e privati promotori di progetti ed iniziative la cui natura innovativa appare
legata proprio alla loro capacità di intervenire in maniera sistemica sui contesti e sui problemi di
riferimento.
I processi di innovazione che stiamo cercando di inquadrare definiscono delle comunità
che si misurano con l’idea di smart community, vale a dire una realtà caratterizzata dalla
combinazione intelligente di diversi fattori: economia, mobilità, governance, vita, cittadini,
ambiente.
Nella smart community le relazioni non si esauriscono nei confini fisici della città; la qualità
della vita dei cittadini, intesi anche come city-user ovvero protagonisti e vettori di nuovi valori d’uso
della città e delle sue infrastrutture di comunicazione, è l’indicatore predominante e l’obiettivo
principale; i servizi sono centrati sulle esigenze delle persone; le politiche sono caratterizzate da
volontà di apertura e integrazione.
I processi di innovazione debbono riguardare in primo luogo le infrastrutture, i trasporti, gli
scambi energetici, lo sviluppo sostenibile, i sistemi di connessione reale e digitale. Ma l’innovazione
deve contemplare gli spazi di crescita della società civile e trovare le risposte adeguate per
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Carlo Infante - Innovazione adattiva
qualificare quella crescita. In tal senso, solo una logica di bottom up (dal basso) può rendere
possibile lo sviluppo di una comunità a partire dalle potenzialità dell’innovazione.
Questi principi per l’innovazione adattiva rispondono in ampia misura agli obiettivi posti
dalla Strategia Europa 2020 e riguardano: una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.
La scelta di porre al centro delle politiche dell’innovazione la qualità della vita ne comporta
altre basate su alcuni concetti fondamentali: la sostenibilità volta ad evitare lo sfruttamento
eccessivo di risorse non rinnovabili; l’apertura intesa come possibilità di connessione tra dati, idee,
proposte, progetti ed esperienze; la centralità territoriale che fa del territorio il fulcro delle politiche
per l’innovazione.
Si tratta quindi di un modello d’intervento top-down che dall’alto delle istituzioni va verso il
basso delle opinioni diffuse nella popolazione, sta a noi tutti fare in modo che il processo bottomup intervenga per riequilibrare e interpretare sul campo quelle indicazioni politiche per farne linee
d’indirizzo.
Nel modello top-down si formula la visione generale del sistema che misurandosi con
l’approccio bottom-up, ne trae le indicazioni, permettendo di cogliere le variabili in grado di
condizionare lo sviluppo del sistema.
Ancora una volta facciamo riferimento a strategie di elaborazione dell'informazione per la
programmazione del software che da tempo sono state tradotte nel campo delle teorie dei sistemi
e della progettazione sociale.
Le funzioni attive in questi contesti riguardano le nuove interrelazioni sociali indotte dall’uso
delle tecnologie della comunicazione, che devono quindi adattarsi alla creatività sociale che
emerge dal loro esercizio connettivo.
In un documento OCSE diffuso nell’estate 2019 è emerso, tra le righe, il termine innovazione
adattiva, per intendere ciò che deve “rispondere ad un ambiente in evoluzione, interpretando i
cambiamenti nella società”.
Generico quanto basta, ma su questo principio stiamo ragionando per declinarlo in modo
funzionale a ciò che consideriamo decisivo in questo momento di crisi, per non sprecarlo,
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Carlo Infante - Innovazione adattiva
convertendolo in opportunità. Il fatto stesso che l’OCSE si ponga il problema di rimettere in asse il
sistema dell’innovazione, non solo centrato sull’espansione dei mercati ma sullo sviluppo sostenibile
della società, lo consideriamo decisivo per questa congiuntura storica.
L’OCSE è stata istituita con la Convenzione sull’Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico, firmata il 14 dicembre 1960 ed è entrata in vigore il 30 settembre 1961,
sostituendo l’OECE, creata nel 1948 per amministrare il cosiddetto “Piano Marshall” per la
ricostruzione postbellica dell’economia europea.
È emblematico questo raffronto con il “Piano Marshall”. Ci troviamo in una situazione per
alcuni aspetti più grave: non c’è solo da ricostruire ma da riavviare un sistema minato da un reset
che impone un nuovo paradigma evolutivo. Per farlo serve un salto di qualità e un’attenzione a
360°, intercettando le migliori idee e promuovendo quella innovazione adattiva che potenzi la
capacità di progettazione creativa e solidale, innalzando il livello di engagement dei cittadini
senzienti.
Il concetto di innovazione adattiva ha preso forma all’interno del dibattito sulla resilienza
urbana che realtà come Urban Experience, con attività di performing media storytelling e design
thinking associate alle esplorazioni urbane, hanno attivato.
Si tratta di una strategia evolutiva che riguarda l'adattamento dell’innovazione digitale alla
crescita di una consapevolezza d’uso dei nuovi media da parte dei cittadini senzienti. Abbiamo
capito (non tutti) di essere in un mondo in cui le nuove interrelazioni sociali indotte dall’uso delle
tecnologie della comunicazione sono sempre più decisive. Ma sia chiaro qui non si tratta di essere
utenti-sudditi di Facebook o di Google ma di progettare nuove piattaforme di social network
territoriale e tematico.
È per questo che si deve trovare il modo perchè l'innovazione digitale si adatti alla
creatività sociale che emerge in quell’esercizio connettivo così ricco di intelligenza applicativa,
definita user experience. È proprio questo il valore di uso creativo che libera un potenziale che i
dispositivi – nella piena evoluzione dell’interaction design – devono cogliere, adattandosi.
Ciò non è scontato, sta a noi, alla nostra capacità di interpretare opportunità come quelle
offerte dalle tecnologie dell'interconnessione digitale, fare sì che ciò accada, anche perché
i mercati non si fanno se non si fa società.
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Carlo Infante - L'avvento dei social media
Indice
1.
I SOCIAL NETWORK E L’ANIMALE SOCIALE CHE È L’UOMO................................................................ 3
2.
LA NUOVA FIGURA DEL SOCIAL MEDIA MANAGER ......................................................................... 10
3.
IL GRANDE GIOCO DEI SOCIAL MEDIA ............................................................................................. 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 12
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1. I social network e l’animale sociale che è l’uomo
L’uomo è un’animale sociale per cui da sempre tende ad organizzarsi in gruppo: un insieme
di persone che interagiscono tra loro, sulla base di aspettative condivise che regolano il rispettivo
comportamento. Si è portati sia a cooperare, sia a competere, a produrre idee e a decidere in
gruppo.
I social network agli albori del XXI secolo arrivano per potenziare questa spinta sociale
connaturata, evolvendo l’approccio già impostato dai blog che avevano reso protagonisti gli
utenti nella comunicazione in rete.
È interessante porre attenzione, a monte di tutto, alle teorie della social cognition che
riguarda
i
processi
attraverso
cui
le
persone
acquisiscono
informazioni
dall'ambiente,
interpretandole, per comprendere sia il proprio mondo sociale che l’organizzazione dei propri
comportamenti. Ciò è determinante per cogliere le diverse motivazioni in base alle quali si orienta
la propria appartenenza ad un gruppo, comprese quelle dinamiche che si creano sui social
network.
Per vicinanza: si frequentano persone che sono vicine fisicamente, come quelle che
abitano il nostro stesso quartiere o frequentano lo stesso bar, la stessa scuola... Sono occasioni per
condividere esperienze. La vicinanza spesso rappresenta il primo motivo di contatto nell'orientare
la appartenenza ad un gruppo.
Per somiglianza: la disposizione per cui si ricercano negli altri le proprie convinzioni, idee e i
propri desideri. La somiglianza più che fisica è affinità di pensiero e stile di vita. Trovare altre
persone con idee simili è ciò che porta, più di qualsiasi altro elemento, all'unione. Attraverso questo
criterio della somiglianza, si stabiliscono alleanze e nascono simpatie.
Per identificazione: se non c'è somiglianza di idee possono emergere motivazioni di
identificazione con l'altro. La differenza con la somiglianza è nel principio psicologico che entra in
gioco, determinando la scelta di adesione al gruppo, sulla base di un’attrazione per un'identità
specifica che rappresenta uno status socialmente desiderabile. Entrare a far parte di un gruppo
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Carlo Infante - L'avvento dei social media
simile può significare realizzazione e prestigio. Per identificazione si intende anche un processo
della propria personalità che si innesca attraverso l'interdipendenza con il gruppo, in cui emergono
aspetti intersoggettivi, acquisiti attraverso il contatto con il gruppo.
I primi passi dei primi social
Il primo vero social network non è stato Facebook. Nemmeno MySpace, quella piattaforma
che nel 2003 ha fatto da trampolino di lancio per molti musicisti.
Il primo è stato SixDegrees, nel 1996 ispirato alla teoria dei “sei gradi di separazione”
secondo la quale ogni individuo è collegato a qualunque altra persona attraverso una catena di
conoscenze composta da almeno cinque punti di contatto.
L’idea di SixDegrees nonostante fosse affascinante fece i conti con una fase in cui il web
non era pronto, e nonostante il milione di iscritti, la piattaforma non decollò e nel 2000 chiuse.
Nel 2003 Myspace è stato il primo vero social network a livello mondiale. Offriva la possibilità
di fare profili personali e di connettersi ad una rete sociale fatta di blog e brani musicali.
In quel periodo Myspace ha avuto grazie alla presenza di musicisti emergenti un forte
impatto tanto da diventare nel 2006, uno dei siti più visitati, superando addirittura Google.
Nel 2005 Chris DeWolfe, co-fondatore di Myspace, rifiutò l’acquisizione da parte di una
società, a fronte di una richiesta di 75 milioni di dollari, a fargli l’offerta era Mark Zuckerberg, quello
di Facebook, che stava scaldando i motori. Anni dopo, nel 2011 la società viene acquistata per 35
milioni dalla News Corporation-Media Group del magnate australiano Rupert Murdoch e inizia la
fine, i milioni di file musicali caricati nella prima piattaforma che permetteva di farlo vengono
definitivamente cancellati dai server nel 2013.
Una piattaforma nel 2005 mette in pista un'opportunità straordinaria: quella di realizzare un
proprio social network. Si chiama Ning e il suo nome deriva da un termine cinese il cui significato è
pace. È frutto dell’ingegno di Marc Andreessen (quello che lanciò Netscape, uno dei primi browser
per navigare nel web) che dalla California rilancia con un’idea eccellente, quella di dare la
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Carlo Infante - L'avvento dei social media
possibilità di creare dei social network senza avere cognizioni di programmazione. La piattaforma è
sviluppata in Java e poi genera codice in PHP (Hypertext PreProcessor) un linguaggio di
programmazione che facilità l’editing delle pagine web.
Ning fu una piattaforma importante per lo sviluppo di alcuni social network territoriali, che
particolarmente in Italia ebbero uno sviluppo significativo, fin quando nel 2010 si delinearono due
modalità di fruizione: la prima, gratuita, con la possibilità di creare le pagine web con l'obbligo di
ospitare inserzioni pubblicitarie (agganciate a Google AdSense), la seconda con un canone
mensile. Fu la fine.
L’epopea di Facebook
All’università di Harvard il giovane Mark Zuckerberg, nel 2003, un po’ per scherzo crea
Facemash, un social network che intende mettere a confronto le facce di tutti gli studenti
dell’università. Facemash venne chiuso quasi subito per violazione della privacy ma con questa
mossa avventata il giovane studente aveva gettato le basi per un progetto molto più grande.
Nel 2004 Mark insieme ai colleghi Eduardo Saverin, Chris Hughes, Andrew McCollum e Dustin
Moskovitz lancia Facebook. Il nome nasce dall’uso di alcune università di tenere un grande libro
con nome e foto degli studenti, in modo tale da farli socializzare più facilmente.
Facebook dispone di due tipologie di servizi social con finalità nettamente distinte: il profilo
privato (diario personale) e la pagina pubblica (generalmente usata per iniziative, attività
commerciali o da aziende).
Il profilo Facebook tende a contenere foto, post con cui attivare conversazione e
messaggistica. Si possono aprire gruppi in cui condividere idee e proposte oppure sceglierne altri a
cui aggregarsi, sulla base dei tre principi di cognizione sociale: la vicinanza, la somiglianza e la
identificazione.
Dal 2006 è attivo sul profilo il news-feed, un aggregatore che mostra a flusso (stream) gli
aggiornamenti propri e degli amici. Inizialmente questo sistema ha ricevuto delle critiche: secondo
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alcuni i news-feed includevano molte informazioni irrilevanti, secondo altri mettevano troppo in
risalto informazioni personali e potenzialmente sensibili. In risposta è stata data la possibilità di
scegliere che tipo di informazioni condividere automaticamente e con chi. Oggi è infatti possibile
raggruppare gli amici in categorie e scegliere con quali categorie condividere certe informazioni
(come cambiamenti del profilo, post sulla bacheca e l'aggiunta di nuovi amici).
Una delle funzioni più utilizzate su Facebook è quella della condivisione di foto, infatti gli
utenti possono caricare un numero illimitato di album di immagini (a differenza di altri servizi di
condivisione di immagini come Flickr). Le impostazioni della privacy possono essere diverse per
ogni album, limitandone o meno la visibilità. Un'altra caratteristica di questa funzione di
condivisione è l’utilizzo del tag, ovvero si appone un'etichetta su un'immagine “taggando” il nome
di chi è presente nella foto, così si crea automaticamente il link al suo profilo (se si è già amici su
Facebook).
Facebook offre diversi servizi di messaggistica privata. È possibile inviare privatamente
messaggi ad altri utenti, se le impostazioni della privacy lo consentono. Ad aprile 2008 è stata
lanciata l'applicazione chat per scambiare messaggi in tempo reale con gli amici collegati al
profilo Facebook.
Nel 2010 è stato lanciato il tasto Mi piace, con il quale gli utenti possono esprimere
apprezzamento su singoli contenuti.
Nel 2011 la chat è stata arricchita da una funzione per effettuare chiamate vocali, che
permette anche di lasciare messaggi in una segreteria vocale. È stato poi lanciato un servizio di
videochiamate che si integra con il software Skype di Microsoft.
Secondo i dati rilasciati da Facebook, relativi al primo trimestre 2020, il social network ha
nuovamente registrato un aumento dei suoi utenti complessivi, raggiungendo così un totale di 2.6
miliardi di persone iscritte alla piattaforma. Vale a dire oltre una persona su tre in tutto il mondo.
I ricavi trimestrali sono saliti a 17,7 miliardi di dollari, segnando così un aumento del 17%
rispetto allo scorso anno. Come previsto dagli investitori, tuttavia, il tasso di crescita dei ricavi ha
inevitabilmente iniziato a rallentare rispetto al +25% registrato durante il primo trimestre del 2019.
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Carlo Infante - L'avvento dei social media
Con questo numero di utenti Facebook è il terzo sito più visitato al mondo.
È evidente che Facebook è il grande protagonista dell’evoluzione del web 2.0, cambiando
il modo di vedere questo medium e facendoci entrare di diritto nell’era dell’interconnessione.
YouTube, il social del video sharing
Nel 2005 Chad Hurley, Jawed Karim e Steve Chen, fondano YouTube. Una piattaforma di
video sharing, capace di attivare condivisione e visualizzazione di video.
YouTube partiva con una impostazione semplice, dopo essersi iscritti alla piattaforma, si
aveva accesso alla propria dashboard (il pannello di controllo) da cui era possibile caricare i
video. In questo modo gli altri utenti potevano visualizzare i video, condividerli e votarli con un “Mi
piace” o “Non mi piace”.
A dare la svolta a questa piattaforma web fu proprio la proattività degli utenti. Negli anni
molte persone cominciarono a creare video con contenuti interessanti; da chi proponeva tutorial
a chi inventava originali videocreazioni. YouTube cresceva in modo esponenziale, in quegli anni
emerse la figura dello youtuber, ovvero quell'utente più attivo di altri che produce contenuti
sistematicamente, creando una condizione attrattiva.
Ad oggi YouTube è il secondo sito più visitato al mondo e può essere considerato un social
network in quanto è basato sulla condivisione pura attraverso il suo canale video.
Instagram
Il fatto di aggiungere delle persone nella propria cerchia di amici, di condividere i propri
stati e le proprie foto è stata la peculiarità di Instagram, con un fattore in più: la velocità connessa
alla sintesi dell’informazione prodotta in una sorta di microblogging. Lanciata principalmente sul
campo del mobile, nel 2010 per sistemi IOS di Apple e nel 2012 per Android, permetteva di scattare
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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foto tramite il cellulare da pubblicare nella propria bacheca. Non c’è la figura degli “amici” come
in Facebook, ma quella dei “follower”: persone che ti seguono e che tu segui (following), senza
che questo processo sia necessariamente reciproco.
Instagram ha avuto un bell’impatto proprio per questa sua particolarità, infatti grazie ai filtri
(“effetti speciali” da applicare alle immagini) è possibile rendere più accattivanti le foto. E nel
momento in cui gli smartphone stavano cominciando ad invadere il mondo l’app riuscì a ritagliarsi
una grossa fetta di utenza.
Nel 2012 Mark Zuckerberg ebbe la lungimirante idea di acquistare la società per 1 miliardo
di dollari, ingrandendo il suo impero. Nel tempo Instagram ha cambiato faccia più di una volta,
introducendo anche le stories, cioè delle clip video. Inoltre la piattaforma ha aiutato notevolmente
a far crescere la nuova figura lavorativa degli influencer. Si tratta di una competenza curiosa che
di fatto esprime una forma di marketing basata su persone capaci di influenzare aree più o meno
vaste, tra cui anche i potenziali clienti di alcuni brand commerciali per cui gli influencer lavorano. I
contenuti degli influencer possono essere anche integrati nella pubblicità con testimonial dove gli
stessi influencer giocano il ruolo di potenziali consumatori, ibridando il loro ruolo tra consumatori e
produttori di informazione sui prodotti oggetto della strategia di consumo. L'influencer viene
pagato dagli sponsor per portare avanti (con video, foto e post sui social media) una
dissimulazione della pubblicità stessa, dove i prodotti compaiono all'interno di un gioco prevedibile
che implicitamente ne suggerisce l’utilizzo in uno stile di vita di successo senza che questo venga
percepito come una reale pubblicità dal target influenzabile. Questo meccanismo esprime un
potenziale di marketing significativo, proprio perché aggira la barriera psicologica del
consumatore (follower) che non percepisce più quello che gli viene mostrato come in una
pubblicità classica, dove invece avrebbe la piena consapevolezza che qualcuno sta cercando di
indurlo a pensare, fare o comprare qualcosa, in quanto è ormai assuefatto a tale meccanismo.
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LinkedIn, il social del recruiting
Negli anni del web 2.0 sono cambiate molte professioni e lo stesso modo di operare in rete.
Si è creato un mondo in cui il lavoro ha trasformato le sue regole di ingaggio. È su questo che i
creatori di LinkedIn hanno operato, impostando una piattaforma di rete sociale funzionale al
recruiting, un processo che indica il reclutamento di una molteplicità di figure professionali. Si basa
sulla necessità aziendale di ricerca e selezione del personale, attraverso la ricerca di profili
professionali per l’individuazione di collaboratori.
Nata nel 2003, LinkedIn creò delle funzionalità per promuovere l’incontro tra domanda e
offerta di lavoro, inizialmente rivolta alle piccole imprese. Il suo scopo fu quello di interconnettere
quei profili che richiedevano e offrivano professionalità. Tramite il proprio profilo è possibile rendere
pubbliche le proprie competenze al fine di proporsi o di essere rintracciato più facilmente dalle
aziende che ricercano candidati di una certa tipologia.
Nel 2016 è stata acquistata da Microsoft per l’enorme somma di circa 26 miliardi di dollari,
rendendo questo il più grande investimento fatto dalla società di Bill Gates fino ad oggi.
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2. La nuova figura del social media manager
I social media non solo sono entrati a far parte della vita di tutti ma la stanno cambiando.
Questo cambiamento riguarda molto il mondo del lavoro, in cui sono emerse posizioni lavorative
che fino a vent’anni fa non si concepivano nemmeno. Sono molte le aziende e le istituzioni che si
stanno adeguando a questa trasformazione dei processi produttivi fortemente influenzati dal flusso
informativo. In particolar modo nel settore del marketing è sempre più importante coinvolgere i
potenziali clienti attraverso i social media piuttosto che con i metodi della pubblicità tradizionale.
Emergono figure come il social media manager che ha come compito quello di
massimizzare il contributo che la gestione di un profilo aziendale sui social media apporta al
business aziendale (misurato con l’indice del ROI = Return On Investment ). La sua attività è
finalizzata ad esempio a far crescere la presenza online, migliorare il reputation capital, creare
engagement e fidelizzare il pubblico, secondo gli obiettivi delle diverse strategie di marketing.
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3. Il grande gioco dei social media
Il grande gioco dei social media è nella personalizzazione dell’approccio con la rete, in cui
si sta liberando il potenziale creativo più importante, la soggettività.
È qui che emerge una delle condizioni più interessanti dell’esperienza creativa nel web:
coniugare la dimensione più particolare, più “locale”, dell’espressione, come quella della scrittura
di un diario su un social media, con la dimensione più pubblica, più globale, quella della rete delle
reti, accessibile ovunque e da chiunque.
Il fatto che, attraverso le reti, in particolari ambienti come i social media si possa sviluppare
una scrittura immediata (meno mediata da sovrastrutture formali) e tesa a sollecitare
partecipazione attiva e, ancor di più, scambio interumano ed empatia, proprio come in una
conversazione, è da considerarsi come qualcosa che rende reale la potenzialità connettiva.
In questa immediatezza della comunicazione on line c’è stata l'esperienza apripista di
Twitter nel 2006 con i suoi 144 caratteri (ora diventati 280) che ha dato il via all’instant blogging, per
poi essere seguito da altre modalità di micro blogging come quelle di Instagram nel 2012 e per altri
aspetti, più video che testuali, di Tik Tok, social network cinese lanciato nel 2016, inizialmente col
nome musical.ly. Gli utenti di questo particolare social network registrano brevissimi clip, che
possono poi modificare variando la velocità di riproduzione, o applicando filtri ed effetti.
Si stanno insomma delineando fattori che caratterizzano una nuova espressione culturale
(accezione che dovremmo saper contemplare anche all'interno dei social media, facendo la tara
delle banalità e del rumore) sempre più diffusa negli ambiti sociali che il web ha creato.
Ciò sta dando forma e sostanza a questi nuovi modi della comunicazione digitale
centrifugata nel mondo dei social media, riscattando il valore della comunicazione da un sistema
già degradato dalla bulimia delle immagini televisive auto-referenziali, rilanciando il principio del
“comunicare con”, rispetto a quel “comunicare a”, cui ci ha viziati il sistema dei mass-media.
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Carlo Infante - L'instant blogging
Indice
1.
IL BLOGGING COME SCRITTURA IMMEDIATA ..................................................................................... 3
2.
IL MICROBLOGGING ............................................................................................................................ 5
3.
SOCIAL FUNNEL..................................................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 12
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1. Il blogging come scrittura immediata
I blog avevano aperto il varco sull’uso del web con una scrittura più immediata e meno
mediata dalle sovrastrutture letterarie o giornalistiche.
Trovava così luogo una scrittura prossima all’oralità, come la tecnologia degli SMS (Short
Message Service) aveva già reso evidente, dal 1993, con l’avvento della rete mobile GSM (Global
System for Mobile Communications). Questo standard di seconda generazione di telefonia mobile
è stato sviluppato in Europa, ideato in Francia nel 1987 e poi messo a punto e commercializzato
dai finlandesi della Nokia nel 1991.
Il fatto di scrivere dei messaggi in 160 caratteri di testo affinò una particolare pratica di
scrittura, sintetica e in alcuni casi, monitorati dall’Osservatorio Scrittura Mutante, poetica, come
quelli dell’haiku, l’antico componimento poetico giapponese basato su tre versi.
Il visual thinking dell’instant blogging, come quarta parete
Tornando al blog come prima opportunità per pubblicare nel web senza mediazioni
informatiche, istantaneamente, va rilevato che nel 2006, prima dell’avvento di Twitter, fu utilizzato
durante le Olimpiadi invernali di Torino e altri eventi pubblici, come instant blogging, evidenziando
le parole chiave che emergevano da alcuni talk.
Una modalità decisamente artigiana ma sufficientemente efficace nell'esprimere una
nuova funzione della scrittura associata ai processi cognitivi, quella della tag cloud live, la nuvola di
parole chiave che esplicitavano, in una proiezione che avveniva in tempo reale, alle spalle dei
relatori, la pertinenza delle tag-parole chiave su cui porre l’attenzione, mentre parlavano.
Un’attività di visual thinking, ovvero la visualizzazione pubblica del pensiero in divenire
durante delle sessioni di lavoro teorico. Una linea d’indirizzo che fu poi associata, l’anno dopo,
all’uso di twitter in modo più organizzato, usando l’applicazione visibletweet che riaggregava i
tweet attraverso gli hashtag, usando il carattere cancelletto # davanti a una parola. I tweet così
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selezionati orbitavano sullo schermo, colorati e dinamici, in una una sorta di quarta parete, per
intendere la parete dei pareri, le opinioni degli utenti che rendevano pubblici e visibili a tutti, non
solo in rete ma nel luogo dove si svolgevano gli incontri teorici, i loro commenti, realizzando un
instant blogging di emblematico impatto.
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2. Il microblogging
Il termine microblogging definisce una ibridazione tra blog e messaggistica istantanea,
permettendo agli utenti di realizzare comunicazioni immediate da pubblicare online. Il blog è di
fatto il format originario del microblogging in cui i contenuti sono più agili, sintetici rispetto al blog
correntemente detto.
È Twitter ad attuare questa opportunità nel 2006, creando una piattaforma di social media
che si è evoluta con un microblogging basato su tweet di 144 caratteri (ora diventati 280),
conquistando un'attenzione mondiale con il nuovo metodo di scambio di informazioni così breve e
immediato.
Il successo è dato dall’uso massiccio dello smartphone che prende piede in quegli anni,
una comodità che permetteva di informare e informarsi tramite questi brevi messaggi compatti
invece di scorrere a fatica i lunghi post dei blog.
Il trend del microblogging si sviluppa dopo che si era stabilizzata l’ondata del web 2.0,
quando i social media diventarono un mainstream della comunicazione on line, esprimendo lo
zeitgeist, lo spirito del tempo, con i tempi giusti, sincronici.
Il microblogging di Twitter diventa una sorta di agenzia stampa sintetica e pertinente che
viene usata su scala mondiale dalla comunità scientifica e dagli opinionisti.
L’efficacia del microblogging è data dal fatto di impiegare meno tempo per pubblicare
contenuti, per cui si esercita l’arte della sintesi. Un tweet riguardo agli sviluppi politici o a un evento
interessante è presto scritto: i follower si aspettano soltanto di ricevere il succo delle informazioni.
Questo fatto di ridurre all’essenziale le opinioni contribuisce a superare certe modalità ostinate del
tergiversare mentre si ragiona.
Il dato più importante è comunque quello di coinvolgere gli utenti dei dispositivi mobili che
nel corso di quegli anni usano il web sullo smartphone con non poca fatica. Il microblogging lo si
può seguire per strada, nei momenti in cui l’utente non dispone di abbastanza tempo per poter
leggere i post dettagliati di un blog. Per conquistare questa tipologia di utenti conviene arrivare
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subito al punto e condensare l’essenziale in un post breve e accattivante. Si pubblica di più in
meno tempo. A differenza dei blog che contengono post di approfondimento, comportando un
ritmo lento pubblicazione il microblogging lancia contributi brevi e più frequenti. Un fattore che ha
un senso preciso quando si segue un evento dal vivo, un convegno, una gara, un fatto di cronaca.
Tumblr e Instagram
Queste peculiarità di microblogging sono state sviluppate anche da Tumblr (arrivato nel
2006) e, fondamentalmente per le foto, da Instagram che nasce nel 2010, con un'attenzione
ancora maggiore all’usabilità semplice e veloce.
C’era una parola che stava circolando tra la classe creativa (definizione che Richard
Florida associa ai professionisti creativi iperconnessi)
era una buzzword, una curiosa parola
d’ordine : tumblelog. Si riferiva alla condensazione dei post. Se un blog è un diario, un tumblelog è
un bloc notes di appunti sparsi. Tumblr nasce da qui, un’idea semplice che funziona.
Tumblr si è indubbiamente ispirato a Twitter, ma ha molte meno limitazioni e dispone di più
funzioni. Non c’è un numero massimo di caratteri da rispettare per quanto riguarda la lunghezza
dei testi. Su Tumblr vale la regola per cui i post più amati contengono quasi sempre contenuti visivi
aggiuntivi, come album di foto o GIF (Graphics Interchange Format) animate. Tumblr una volta
assorbita da Yahoo nel 2013, entra in un perverso meccanismo finanziario per cui il branding sfuma,
fino a diventare invisibile.
Instagram ha preso in pieno la volata dei social media, dal 2010 si è evoluta fino a
diventare una delle app più popolari e nel 2012 Facebook se la compra con un miliardo di dollari.
Anche Instagram è una app Mobile che permette agli utenti di caricare contenuti visivi e
condividere foto, editabili grazie a una grande varietà di filtri, così da creare l’immagine più
seduttiva: con i filtri di Instagram è possibile rendere una foto non perfettamente illuminata
un’immagine attraente.
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Instagram è utilizzabile anche sul browser, ma offre solamente le funzioni di visualizzazione,
like e commento. Per caricare le foto è indispensabile utilizzare l’app da un dispositivo mobile.
Quello che è Instagram per gli scatti fotografici, lo è stato Vine per i video, almeno fino al
2016 fin quando Twitter (che l’aveva acquistata, appena varata, nel 2012) non annuncia la sua
chiusura. Gli utenti di questa app elaborano e condividono clip brevissimi (6 secondi) tramite la
piattaforma mobile.
In Vine si può cogliere un possibile sviluppo potenziale di YouTube per la sua capacità
duttile, veloce, pervasiva e virale.
La sfida futura di questi social media è nel gioco di produzione di contenuti istantanei
sempre più accattivanti, nel modo più semplice e veloce, intercettando così quelle nuove
generazione che conoscono più il mobile che il web, quali sono quelle che si stanno buttando su
Tik Tok.
TikTok
TikTok, nasce in Cina nel 2016 più come microblogging che social network, prima col nome
musical.ly ma è l’altro termine molto più ludico, TikTok, che rende bene la modalità istantanea di
questa applicazione, e così s’impone.
Gli utenti possono creare brevissimi clip musicali di durata variabile (da 15 secondi fino a 60)
e modificarne la velocità di riproduzione, con filtri ed effetti particolari. Si possono aggiungere
canzoni, suoni o voci da doppiare come in un karaoke. È possibile creare anche filmati più brevi,
chiamati momenti live, che sono essenzialmente GIF animate con musica di sottofondo.
L'applicazione mobile TikTok, con un'opzione dedicata, permette di registrare un audio
anche mentre il clip viene visualizzato sullo smartphone. TikTok utilizza un algoritmo di intelligenza
artificiale per analizzare le preferenze manifestate dagli utenti connessi in modo tale da poter
personalizzare singolarmente i contenuti.
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3. Social funnel
La moltitudine di applicazioni, più o meno fortunate, si sovrappongono e spesso vengono
implementate in nuove piattaforme, perdendo totalmente i riferimenti a quel loro brand che
permette di riconoscerle, e ciò di conseguenza permette di ri-progettarne l’utilizzo con la creatività
di utenti attivi, pronti ad essere prosumer.
In questo scenario fertile dell’instant blogging, configurato sapientemente per l’utenza da
mobile, le major digitali cosa stanno facendo? Oltre che far tesoro di gran parte delle esperienze
che hanno fertilizzato questo campo d’azione del mobile blogging.
Nel 2016 Google ha avviato le Accelerated Mobile Pages e Facebook gli Instant Articles,
sistemi sia per accedere alle notizie su mobile sia per pubblicarle, con il minimo del tempo,
questione di secondi.
I progetti dei due colossi del web nascono per risolvere una questione già impostata
dall’instant blogging: gli utenti su mobile non hanno pazienza. Se una pagina non si apre
velocemente, il 74% degli utenti abbandona la navigazione. Google e Facebook hanno così
realizzato, ciascuno a suo modo, una soluzione che ha migliorato l’esperienza e la fruizione dei
contenuti su smartphone .
Il progetto di Google è stato lanciato inizialmente in collaborazione con un gruppo di
editori, tra cui The New York Times, The Guardian e il gruppo Condé Nast. È un sistema open source
di codici ottimizzati per l’apertura istantanea delle pagine web. Gradualmente Accelerated
Mobile Pages andrà a ripulire dalle pagine gli elementi in HTML, CSS (Cascading Style Sheets) e
JavaScript, responsabili secondo Google del rallentamento di molti siti. Chi utilizzerà AMP migliorerà
le performance della propria pagina web dal 15% all’85%.
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Con gli Instant Articles di Facebook la velocità si fa social.
Si tratta di un nuovo formato di pubblicazione degli articoli su Facebook, che ne consente
l’immediato caricamento anche da cellulare. Oltre alla velocità, i vantaggi per chi pubblica con
Instant Article sono anche nella multimedialità dei formati: possono essere inserite foto, video in
auto-play, file audio e mappe. Questi contenuti multimediali possono essere condivisi
singolarmente dagli utenti ed acquisire una diffusione autonoma rispetto all’articolo originario,
moltiplicando gli elementi di visibilità. Dai primi dati, gli Instant Article sembrano piacere agli utenti,
visto che hanno registrato nei primi mesi di sperimentazione un tasso di condivisione tre volte
maggiore rispetto agli articoli tradizionali.
Concludiamo con una considerazione che contestualizza i vari aspetti dell'instant blogging,
a partire dal fatto che la diffusione dei device mobile su larga scala ha cambiato radicalmente lo
scenario che si era strutturato inizialmente per la navigazione web da computer.
Nella condizione mobile gli utenti esercitano una user experience sempre più veloce,
hanno imparato a muoversi agilmente tra gli spazi digitali, passando dal web ai social media e
viceversa con pochi clic.
Questa evoluzione mobile ha creato un mix di opportunità tra rete e spazi fisici, visto che ci
si connette in movimento in giro per la città, per cui gli eventi dal vivo diventano opportunità per
produrre contenuti istantanei in un contesto di aggregazione reale. Con i social media esercitati
con le pratiche di instant blogging la condivisione dell'esperienza vissuta in un evento diventa
sempre più performante.
Su questo s’innesta il Social Instant eCommerce che sfrutta efficacemente questa nuova
abitudine degli utenti connessi con questo spirito istantaneo, seguendo le conversazioni social che
si generano durante gli eventi, come le sfilate di moda, valorizzando così l'attività degli influencer
che rilanciano contenuti associati ai brand in modo immediato.
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L’aver reso fruibili al grande pubblico eventi emblematici come le sfilate di moda, che fino
a poco tempo fa erano ristrette ai soli addetti ai lavori o a personaggi pubblici, ha reso tutto il
settore commerciale del fashion molto più consumer oriented.
Un passaggio ulteriore a questa ricognizione teorica sull’instant blogging può essere quello
di creare una strategia omnichannel concentrata su alcune precise strategie di comunicazione di
un brand (commerciale o culturale che sia) non più dispersa tra diversi canali (tra più siti web e la
molteplicità dei social media), che accompagni l’utente in ciò che oggi viene definito il social
funnel.
Il funnel (letteralmente, imbuto) fornisce una metafora semplice quanto efficace per
rappresentare gli stadi di avanzamento del processo di comunicazione omnichannel. L’utente,
partendo da un elevato numero di sollecitazioni istantanee associate a un brand o a un progetto
a cui è interessato, procede a una selezione dei vari aspetti che più lo riguardano, con l’obiettivo
di arrivare al suo coinvolgimento effettivo.
La dinamica immediata e continua di stimoli informativi, attraenti e intriganti, determina la
qualità dell’engagement per cui l'adesione al processo di comunicazione, dettato dalle strategie
di marketing connesse sia a una filiera commerciale sia ad un contesto culturale (un museo, un
concerto, un festival) diventa una sorta di avventura che viene spesso definita customer journey.
Il customer journey (il viaggio del consumatore) è un termine che deriva dal campo del
marketing per indicare il percorso e i punti di contatto tra un utente e un brand, prodotto
commerciale o servizio culturale che sia.
Ciò concerne i diversi momenti di interazione diretta tra utente e processo di
comunicazione, nell’articolazione della strategia omnichannel (integrando social media, web e
altri canali di comunicazione, dai giornali alla radio-tv).
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Carlo Infante - L'instant blogging
Il fatto di gratificare l’utente è l’obiettivo più importante di questo “viaggio” vissuto con un
ritmo serrato, intelligente e divertente, dove l’utente è connesso, all'interno di un’avventura
cognitiva che rasenta forme di gamification.
Un processo che prevede l’implementazione di alcune dinamiche di gioco, principio dei
più efficaci per coinvolgere le persone nelle attività on line, e orientarle al consumo di prodotti e
servizi commerciali o culturali.
Quell’approccio ludico si fonda sul fatto di mettersi in gioco, all'interno di un processo
proattivo scandito da un veloce ritmo di input e output immediati che vedono l’utente
protagonista anche se è un cliente.
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Carlo Infante - Disintermediazione
Indice
1.
AUTORI ED EDITORI DI SÉ STESSI ........................................................................................................... 3
2.
I MARKETPLACE ON LINE ...................................................................................................................... 6
3.
LA SHARING ECONOMY....................................................................................................................... 8
4.
LA DISINTERMEDIAZIONE FA RISPARMIARE ....................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 14
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Carlo Infante - Disintermediazione
1. Autori ed editori di sé stessi
Una delle peculiarità del web 2.0, a partire dall’esperienza apripista dei blog è nell’aver
avviato un approccio che è passato alla storia come disintermediazione, smarcandosi anche dal
webmaster per pubblicare una pagina web. Prima di allora serviva ai più una mediazione tecnica
per gestire la pubblicazione on line, questa richiedeva infatti la conoscenza del linguaggio HTML
per la creazione delle pagine web. Con il web 2.0 si è creata una condizione abilitante
fenomenale, si poteva essere non solo autori di sé stessi, liberando il proprio potenziale soggettivo
nella scrittura on line, ma anche editori di sé stessi, il che comportava un’ulteriore
disintermediazione dalla figura molto verticale dell'editore.
È questa opportunità che ha diffuso una sensibilità di forte autonomia creativa, meglio
ancora indipendenza, che ha permesso a milioni di utenti di pubblicare il proprio blog, agendo
direttamente e pubblicamente le proprie opinioni nonché inventando anche nuove forme
d'impresa.
È emblematico come la mutazione dei linguaggi, attraverso l’evoluzione tecnologica,
possa scatenare un processo di emancipazione come quello della disintermediazione che
nell’arco di pochi anni ha ridisegnato molti assetti professionali e produttivi. Pensate solo a come
abbia relativizzato il ruolo del giornalismo, a come abbia sancito l’estinzione della specie degli
agenti di viaggio, a come abbia promosso il relativo superamento delle forme della mediazione
politica, a come, ancora, abbia fatto quasi scomparire i negozi di dischi per via dello streaming
musicale, riconsiderato la dominanza della lobby dei tassisti con la scesa in campo di realtà come
Uber e molte filiere distributive delle merci con l’espansione esponenziale di Amazon.
Tutto è nato con l’ambientazione in un nuovo contesto, come quello espresso da Internet in
cui non solo si legge, si agisce, si pubblica, si disintermedia.
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La rappresentazione si è mangiata la rappresentanza
Questa trasformazione radicale dettata dai processi digitali ha quindi ridefinito il concetto
di sfera pubblica, sempre più connotata dal flusso informativo, per cui il termine infosfera può ben
definire l’intero assetto della Società dell’Informazione a partire dalle diverse espressioni di
governance.
Il web 2.0 ha aperto le porte ai modelli di disintermediazione, dando la possibilità a tutti di
pubblicare informazioni in rete, un fatto che sembra scontato oggi, ma non lo era vent’anni fa.
Oggi chiunque su un social media può far circolare notizie, una volta, prima dell’avvento dei blog,
per pubblicare qualcosa serviva quantomeno un editing telematico, c’era un preciso filtro
professionalizzante.
Eppure questa cultura della disintermediazione ha delle condizioni preliminari da
individuare, come una certa politica economica finanziaria che già negli anni Ottanta stava
modificando la cultura delle banche, creando una certa delegittimazione dei corpi intermedi dei
sistemi economici. Si stava imponendo una finanziarizzazione dell'economia, un processo che
tendeva a minare il modello dell’economia reale basato sulla produzione manifatturiera.
La disintermediazione stava già allora creando situazioni difformi, sulla base di modelli di
riferimento contrapposti, anche in relazione alla politica e alle attività sindacali, nel reclutamento
dei quadri e della loro immissione nei ruoli di rappresentanza, che progressivamente si riferivano più
ai processi di comunicazione che a quelli storici della produzione industriale.
Da qui la battuta efficace di Stefano Rolando, professore di “Teoria e tecniche della
comunicazione pubblica” alla Facoltà di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo
dell’Università IULM di Milano: “la rappresentazione si è mangiata la rappresentanza”.
La rappresentanza come espressione dei corpi intermedi della governance, in partiti e
sindacati, e la rappresentazione, come risultante dell’impatto sui media, hanno così raggiunto una
confusione dei ruoli.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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La discontinuità gira attorno alla nozione di “democrazia liberale” basata sul ruolo dei
contrappesi, delle dinamiche di controllo e di garanzia (nelle architetture istituzionali, nel rapporto
tra politica e centri di interessi e nel rapporto tra potere politico e potere mediatico, eccetera).
Con la disintermediazione si è reimpostata l’architettura dei contrappesi favorendo dinamiche
partecipative di “democrazia diretta”.
La rappresentazione della politica aveva già avuto segnali durante gli ultimi anni della
prima Repubblica, negli anni Ottanta. La personalizzazione comunicativa e la leaderizzazione
avevano trasformato i partiti, che da corpi intermedi socialmente radicati, con comitati elettorali
ancorati ai territori, stavano decisamente cambiando.
La rappresentazione della politica, iniziata con l’intuizione comunicativa di John Kennedy
della piazza televisiva, si stava sviluppando velocemente. Si attivò un lungo dibattito, con
sollecitazioni importanti di Karl Popper e Giovanni Sartori, a proposito di influenze e rischi della tv in
relazione al processo democratico. Negli ultimi dieci anni la piazza digitale della rete ha
conquistato uno spazio crescente che fa parlare ora di net-attivismo come principale leva della
partecipazione politica. Con la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008 l’equilibrio nelle
dinamiche partecipative passa nettamente dal baricentro televisivo all’uso strategico del web.
La disintermediazione ha un design evidente: l’orizzontalità. Ed era da molto tempo che i
processi verticali della rappresentanza politica perdevano quota.
Con il successo elettorale di un movimento nato dentro questa filosofia (M5S primo partito
nel 2018) questa nuova sensibilità fondata sulla disintermediazione viene espressa ora da una forza
di maggioranza parlamentare e di governo.
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2. I marketplace on line
Con la diffusione della compravendita on line la disintermediazione si è progressivamente
estesa sempre più, investendo tantissimi comparti produttivi, scardinando delle filiere, saltando a
piè pari intere schiere di intermediari commerciali.
I venditori dei marketplace digitali come Amazon, per citare il più grande di tutti, creano
piattaforme in cui mettono in contatto direttamente acquirente e venditori, eliminando quasi
completamente le figure degli intermediari tradizionali, in una sorta di selezione darwiniana.
Non è il più forte della specie a sopravvivere, non il più intelligente, ma solo quello che è in
grado di cambiare più velocemente
Charles Darwin
Il successo di società come Amazon, eBay, E-trade e molte altre, ha dato il via al fenomeno
della disintermediazione commerciale. La consegna diretta di prodotti e servizi ha messo in crisi
molti produttori e rivenditori e più che altro i distributori.
Le trasformazioni nel campo degli acquisti e dei consumi hanno dato vita a numerose
realtà del web che applicano i principi e i meccanismi della disintermediazione: da Spotify a
Airbnb, da Uber ai recenti fenomeni del car sharing.
Non è certo semplice raggiungere una definizione univoca che aiuti a comprendere la
vera natura dei processi della disintermediazione, che ha ormai raggiunto molti campi di
applicazione.
Nell'ambito commerciale si segnala il successo globale di Amazon, nato nel campo
editoriale, ha cambiato radicalmente le regole gioco del sistema, diventando qualcosa di molto
più importante di un immenso negozio online. Non è solo un punto di riferimento per trovare libri e
ogni altro oggetto ma è soprattutto una Società di servizi, una multinazionale innovativa che detta
legge nel mondo del retail, il sistema della vendita al dettaglio.
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È diventata di fatto la più importante società di logistica avanzata del mondo. Ed è in
quest’ultima specificità che si annida il segreto del suo successo.
Nei primi nove mesi del 2019 il fatturato di Amazon ha toccato quota 193,1 miliardi (dai
160,5 a settembre 2018), e l’utile è salito a 8,3 miliardi da 7. Sono gli incredibili numeri di Amazon, a
25 anni dal 1994, giorno in cui tutto ebbe inizio in un garage di Seattle. Jeff Bezos, un visionario ex
gestore di fondi di investimento finanziario che aveva lasciato il suo lavoro a New York per inseguire
il sogno di creare il più grande negozio online di libri, ha creato un impero fondato sul principio
della disintermediazione, diventando super-editore, distributore e gestore di una logistica
inimmaginabile fino a qualche anno fa.
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3. La sharing economy
C’è insomma una condizione basata sulla disintermediazione che si sta generalizzando sia
nella ricerca continua di nuovi modelli di business sia in forme di innovazione sociale che adottano
soluzioni di sharing economy.
È stato usato anche il termine di uberizzazione per definire un fenomeno sociale di portata
globale, tale da influenzare scelte di politica nazionale e sovranazionale, relative al tema del
lavoro.
Nel 2015 l’ex ministro del lavoro e delle politiche sociali (nei governi Renzi e Gentiloni)
Giuliano Poletti, in un convegno alla Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli
(LUISS), dichiarò: “Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento l’oralavoro. L’ora di lavoro a fronte dei cambiamenti tecnologici è un attrezzo vecchio”. Una netta
dichiarazione di intenti, da parte di un ministro del lavoro.
L’idea di definire e quantificare la prestazione lavorativa in base al risultato, alla richiesta
del consumatore-cliente, è stata introdotta partendo dal principio della disintermediazione:
eliminando intermediari, con l’intento di ottimizzare la realizzazione del servizio.
È stato questo l’aspetto che caratterizzò Uber: rispondere alla necessità di spostarsi da un
punto A ad un punto B.
Uber è un'azienda californiana nata nel 2009 che fornisce servizi di trasporto automobilistico
privato attraverso un'applicazione mobile e web, che mette in collegamento diretto passeggeri e
autisti, tenendo traccia in tempo reale della posizione dell'auto prenotata.
In Italia Uber operava dal 2013 e dopo varie controversie legali, date dall’arretratezza
normativa in materia di sharing economy e dal corporativismo della lobby dei tassisti, attualmente
è disponibile solo il servizio UberBlack, le auto di lusso.
La convinzione di essere finalmente artefici del proprio destino professionale, di essere tutti
potenziali imprenditori di sé stessi, è il volano di un nuovo sistema economico che in realtà ha
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come primo risultato quello di molecolizzare l’attività lavorativa, dinamicizzarla rendendola liquida
e abbattere costi e massimizzare profitti.
Ormai il concetto di uberizzazione è diventato mediaticamente abbastanza diffuso,
abbracciando fattispecie anche diverse tra loro, ma riconducibili tutte a questo nuovo paradigma
di lavoro liquido, più rivolto all’ottenimento di un risultato che al classico rapporto tempo/lavoro
che determina poi anche il salario.
Le contraddizioni ci sono tutte e per interpretarle serve una governance politica che sappia
discernere la sharing economy, che è un fenomeno virtuoso, dalla gig economy, che invece
rappresenta una nuova forma di sfruttamento del lavoro precario. La chiamano in quel modo
perché di fatto è un'economia dei lavoretti da tempo libero. Molti autisti Uber lavorano meno di 10
ore alla settimana e molti lo fanno solo occasionalmente, per integrare un altro salario, per potersi
permettere un acquisto o per affrontare una spesa imprevista.
I fattorini di consegne a domicilio per aziende come Glovo, Foodora, Deliveroo o la stessa
Uber (spesso utilizzata come corriere) sono esempi emblematici di gig economy.
Il punto sta nel ripensare l'organizzazione del lavoro, interpretando questo crescendo di
esperienze di disintermediazione, perché venga messo sotto osservazione per inquadrare in modo
equo, funzionale e sostenibile sia aziende innovative sia lavoratori disposti a tutto, anche a farsi
sfruttare.
Va comunque evidenziata la distanza tra quelle forme precarie e abusate del lavoro, e la
dimensione più etica e collaborativa della migliore sharing economy, visto che è un concetto
molto più vasto, teso a socializzare e condividere competenze, conoscenze, addirittura beni
immobili (come nel caso di Airbnb).
Il termine sharing economy sottende economia collaborativa per cui gli aspetti più
qualificanti di questo modello sono quelli dello scambio peer-to-peer abilitato da piattaforme web
o mobile per la condivisione commerciale o non commerciale di beni sottoutilizzati e capacità di
servizio, attraverso un intermediario, senza trasferimento di proprietà.
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AirBnb è considerata una delle più diffuse applicazioni della sharing economy, di cui
esistono anche tantissime altre espressioni, come il car sharing (e il bike sharing) e, per altri versi, il
car pooling, una modalità di trasporto che permette la condivisione di automobili private tra
gruppi di persone, per ridurre i costi del trasporto, in un'operazione virtuosa di mobilità sostenibile.
Nell’ambito della sharing economy possono rientrare esperienze di lavoro condiviso come il
coworking, che rappresenta un nuovo approccio al lavoro basato sulla condivisione di un
ambiente operativo e di risorse funzionali (connessioni internet, stampanti 3D, videoproiettori…), tra
diversi professionisti che, oltre a condividere uno spazio, possono arrivare co-creare in progetti
comuni.
In questo contesto di riflessione può rientrare anche un fenomeno che riguarda la ricerca di
finanziamenti: il crowdfunding. Si tratta di piattaforme web per il microfinanziamento dal basso (tra i
più noti c’è kickstarter e in Italia produzionidalbasso) che permettono ai fundraiser (i cercatori di
fondi) di impostare le campagne con diversi criteri.
Uno di questi criteri è il reward based, per cui la raccolta fondi, a fronte della donazione,
prevede ricompense come l’invito alla mostra che è oggetto del finanziamento, o il ringraziamento
pubblico. Un altro è il donation based, il modello esercitato dalle organizzazioni no profit per
finanziare iniziative senza scopo di lucro. Altri ancora sono: il lending based (articolato per
microprestiti), l’equity based (dove al finanziatore viene offerta una quota del capitale sociale
dell’impresa, di cui diventa socio a tutti gli effetti), l’ibrido (basato su più modalità di
finanziamento).
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4. La disintermediazione fa risparmiare
Il Dodicesimo Rapporto CENSIS uscito nel 2015 dedicato proprio al fenomeno della
disintermediazione digitale in Italia, sostiene che, nonostante la crisi finanziaria ed economica che
ha colpito il Paese, si è assistito a un boom di smartphone e connessioni mobili. Un investimento per
risparmiare.
Ciò è avvenuto proprio grazie al potere di disintermediazione garantito dai media digitali
connessi in rete che ha significato per gli Italiani, un risparmio netto finale nel loro bilancio
personale e familiare. Usare internet per informarsi, per prenotare viaggi e vacanze, per acquistare
beni e servizi, per guardare film o seguire partite di calcio, per entrare in contatto con le
amministrazioni pubbliche o svolgere operazioni bancarie, ha significato spendere meno soldi, o
anche solo sprecare meno tempo: in ogni caso, guadagnare qualcosa. Gli utenti italiani si servono
sempre di più di piattaforme telematiche e di provider che consentono loro di superare le
mediazioni.
Si sta sviluppando così una economia della disintermediazione digitale che sposta la
creazione di valore da filiere produttive e occupazionali tradizionali a quelle di nuovi settori in cui lo
stesso utente gioca spesso un ruolo attivo, come in alcune esperienze di sharing economy.
Gli ambiti maggiori colpiti dai processi di disintermediazione riguardano: il settore viaggi e
vacanze, l’acquisto di prodotti sul web, l’informazione e fruizione di contenuti culturali.
La disintermediazione coinvolge in maniera preponderante le fasce più giovani di età e
impatta non solo sui consumi ma anche fortemente sugli stili di vita.
Un aspetto emblematico è la personalizzazione dei palinsesti televisivi generalisti, grazie alla
possibilità di costruirsi una propria programmazione tra siti online delle emittenti tv, YouTube,
streaming e download più o meno legale dei programmi.
Ancora più netta l’evoluzione dei comportamenti con la dimensione radiofonica e
musicale, grazie alla moltiplicazione dei flussi radiofonici su più canali grazie alla diffusione del
cosiddetto "modello Spotify", che ha sostituito alle radio le playlist musicali.
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L’attenzione verso la molteplicità delle fonti di informazione, vede i più giovani attratti dal
social media Instagram mentre i più adulti scelgono Facebook, domina comunque su tutti Google
anche grazie a YouTube.
Verso la blockchain, la nuova rete del valore
La disintermediazione alla fine dei conti sarà uno dei fattori chiave dei nuovi modelli
economici che si stanno delineando. Già prima si era fatto un riferimento a come, a monte della
disintermediazione avviata con la rivoluzione del web 2.0 nei primi anni del XXI secolo, ci fossero
dei sommovimenti già negli anni Ottanta attraverso la cosiddetta finanziarizzazione dell'economia.
Ecco ora si sta per prospettare il salto di qualità decisivo.
Già si parla di banca disintermediata, per cui il processo della disintermediazione trainato
dalle nuove tecnologie tende a superare il modello bancocentrico per orientarsi verso imprese
FinTech che garantiscono ai propri utenti la possibilità di usufruire di servizi di pagamento,
finanziamento, e consulenza, assistendoli anche negli acquisti online.
Il sistema bancario deve accelerare il processo di trasformazione digitale per non farsi
trovare impreparato: è necessario approfittare delle opportunità offerte da nuove tecnologie
come la blockchain per proporre nuovi servizi di valore. Banche e assicurazioni possono così
rispondere alle sfide della trasformazione digitale mettendo l’innovazione al centro delle strategie
superando il ritardo italiano nell’approccio all’innovazione, reso tale dalla scarsa educazione
finanziaria e dalla diffidenza verso la rivoluzione digitale nel suo complesso.
Una rete blockchain è come una banca di dati pubblica che invece di essere gestita
centralmente da un’unica entità è contemporaneamente “tenuta” da una pluralità di soggetti
(nodi), ossia computer collegati tra loro all’interno di una rete peer-to-peer. Più specificamente,
all’interno di questa banca di dati (o meglio registro digitale) le operazioni registrate e gestite –
che possono andare dal trasferimento di una criptovaluta alla compravendita di un bene
immobiliare – costituiscono ciascuna un “blocco”. Nello specifico, i blocchi possono essere
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Carlo Infante - Disintermediazione
considerati informazione in versione digitale; ciascun blocco contiene infatti sia una serie di
informazioni relative alla transazione che si registra e alle parti coinvolte, sia una serie di elementi,
denominati “hash” e “timestamp”, che rendono il blocco unico.
Ci stiamo predisponendo a un salto di dimensione ancora più netto, come nella rete
blockchain dove il valore orbita su canali sempre più incogniti. Siamo già disintermediati, abbiamo
imparato a muoverci in autonomia, siamo pronti per il nuovo salto di qualità?
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Carlo Infante - L'edutainment
Indice
1.
IMPARARE GIOCANDO ........................................................................................................................ 3
2.
LO STUPORE INFANTILE ......................................................................................................................... 5
3.
IL PIACERE DELLA FUNZIONE ................................................................................................................ 8
4.
IMPARARE A IMPARARE...................................................................................................................... 14
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 16
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1. Imparare giocando
Il termine edutainment è stato usato dal colosso editoriale della Walt Disney negli anni
Cinquanta ma è con Bob Heyman, trattando di alcuni documentari che stava realizzando per il
National Geographic negli anni Settanta, che inizia ad essere utilizzato per indicare le forme
ludiche dei processi educativi.
In questi anni si è connotato anche come definizione di generi editoriali, sempre più
connotati come prodotti ipermediali ma non solo e fondamentalmente come strategie d’impresa
innovativa che stanno reinventando il format dei Parchi Tematici, sempre più orientati verso le
tecnologie digitali. Un fenomeno diffuso in cui l’edutainment riguarda grandi impianti di
spettacolarizzazione tesi a creare impatti, spesso semplicistici, per la divulgazione culturale o
scientifica. Proprio su questi aspetti Zigmund Bauman, il teorico della postmoderna società liquida,
è intervenuto più volte, ponendo un monito sul rischio di banalizzazione.
Non dimentichiamo poi che c’è un antico motto latino ludendo docere che ci conferma
che si può insegnare, e apprendere, divertendosi. È evidente che va trovata una misura, per
niente scontata.
Il concetto edutainment è stato speso anche nell'ambito dell'e-learning, intuendo che il
fatto stesso di ambientarsi in un nuovo spazio-tempo come quello digitale stava inducendo a
comportamenti inusuali, non convenzionali, intimamente ludici. Questo approccio può essere ben
utilizzato nella molteplicità dei percorsi formativi semplicemente perché è più efficace.
Uno di questi comportamenti inusuali adottati all'interno dell'ambiente digitale è quello
della metamorfosi identitaria come avviene nei giochi di ruolo e che in rete arriva ad attuarsi
anche con l'utilizzo di avatar, quelle “maschere” che sono ormai usuali, diffuse dagli anni Novanta
con l'avvento del virtuale. Questo particolare aspetto può favorire il cosiddetto “decentramento
identitario” adottato da molte strategie educative, come ad esempio quello dell'educazione
interculturale.
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La via ludica all'apprendimento non è quindi orientata verso l'acquisizione di nozioni ma
rappresenta un buon modo per comprendere il mondo, in quanto il gioco esprime,
filogeneticamente, proprio questa funzione: attraverso il gioco si scopre la realtà, procedendo
flessibilmente per tentativi.
Ciò non riguarda solo i più piccoli che sanno bene che il gioco è la forma migliore per
attraversare il mondo che li circonda, ma riguarda tutti, in particolar modo coloro che nei percorsi
formativi entrano in relazione con le nuove condizioni del digitale che impongono una
sperimentazione continua di nuove abilità.
L'edutainment è la metodologia più indicata per fare dell'apprendimento una palestra
percettiva e cognitiva, in una società in transizione che sempre di più ci porrà di fronte a situazioni
incognite che sarà opportuno affrontare con approcci ludici e proattivi.
In stretta connessione con l'edutainment c'è il fenomeno della gamification che
rappresenta di fatto una ludicizzazione di molti processi di innovazione culturale, da quelli più
orientati verso l'engagement in relazione ai beni culturali a quelli formativi, quelli di coinvolgimento
della cittadinanza attiva e quelli connessi al changemaking per cui la co-progettazione
multistakeholder predispone a gestire il turbinio dei cambiamenti.
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2. Lo stupore infantile
Chiunque si sia occupato di pedagogia lo sa, eppure il mondo della scuola se lo dimentica.
Il gioco è il fulcro dei processi di apprendimento più efficaci.
È quindi opportuno indagare, con maggiore approfondimento, alcuni aspetti chiave
rispetto a quel mondo dell'infanzia che sta a monte di tutti i ragionamenti sui processi educativi.
C'è una data particolarmente significativa per definire l'ambito dell'infanzia: è il 1833, in
Inghilterra, quando Robert Owen licenziò tutta la forza lavoro sotto i nove anni di una delle prime
fabbriche della rivoluzione industriale.
È da questa data che viene riconosciuto un mondo infantile, preadolescenziale, verso cui
la Società, e non più solo la responsabilità privata della famiglia, si impegna a riconoscere i diritti,
quelli formativi in primo luogo.
La scuola oggi, in una società urbanizzata che ha perso valori tradizionali e appartenenze
culturali, dovrebbe essere la comunità a cui rivolgersi per compensare le carenze di sviluppo
emozionale dei ragazzi. Visto che tutti i bambini vanno a scuola, questo dovrebbe essere il luogo in
cui accanto all'alfabetizzazione cognitiva possa trovar luogo anche quella sensoriale ed
emozionale, come suggerisce Daniel Goleman nel trattare di intelligenza emotiva.
Certo è che presidi ed insegnanti devono andare oltre il curriculum didattico, impostando
la missione educativa sul valore intrinseco della comunicazione, la relazione interpersonale e la
condivisione. Attraverso il gioco e la dimensione creativa e partecipativa dell'interattività
multimediale (ma perché qualcuno ancora si arrocca sull’idea che il multimediale sia solipsistico e
solitario?) si potrà addirittura ritornare alla funzione classica dell’educazione: quella dell'ascolto e
della partecipazione.
In questo quadro si trova il valore del principio ludico nel processo educativo, inteso come
motore di risorsa umana, nell'attivazione della disponibilità, condizione portante di quell'esperienza
cooperativa che dovrebbe rappresentare l'educazione. E, ancora di più, nel sollecitare una
sensorialità viva e coinvolta. In questa riscoperta di stupore infantile si può rilevare la qualità
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creativa da trasmettere come modello generativo di apprendimento. Una qualità che può essere
determinante per l'adulto per capire cosa si intende per flessibilità nel nuovo ambientamento e
nella riconfigurazione degli assetti percettivi conseguenti.
Non si può più stare a bambolizzare il bambino che è già cucciolo di per sé, e proprio per
questo ancora ricco di potenziale, quello della disponibilità a scoprire. Lo si può prendere come
trainer, seguendolo, giocando con lui e imparando da lui a tirar fuori quella disponibilità che non
sappiamo neanche di possedere più.
In questa risorsa creativa c'è una delle chiavi di volta per la nostra evoluzione, quella per
cui giocare è “fare mondi". È una potenzialità chiave proprio in questa fase, nell'arco di un
passaggio epocale in cui le tecnologie della comunicazione stanno cambiando il nostro ritmo
evolutivo.
La riscoperta della disponibilità creativa non va quindi intesa come bambinizzazione, anche
se in alcuni casi, come quelli della scuola rigidamente curricolare, un po’ di bambinizzazione non
può fare che bene, come suggerì tempo fa Roberto Maragliano a proposito dell'uso ludico della
multimedialità a scuola.
È per questo che l'approccio dell'edutainment rappresenta quel valore che fa in modo che
la tensione educativa possa tirar fuori la risorsa: mettersi in gioco. Non s'insegna qualche cosa se
non si aiuta la persona a scoprirla dentro di sé. Ricordiamoci che il teatro, una delle prime
tecnologie efficaci per l'apprendimento collettivo, prende forma solo dentro la visione dello
spettatore (lo dice la parola stessa theatron = luogo dello sguardo).
Il play teatrale opera sulla canalizzazione dell'energia performativa di chi ricrea situazioni e
stati d'animo, attraverso una simulazione che "doppia" la vita, alimentando quindi una complessità
esteriore, organizzata in rappresentazione, e una coscienza interiore che dallo sguardo si fa
riflessione e visione. Nel gioco infantile, quello fondato sulle più semplici simulazioni, questo principio
di transfert teatrale è fortissimo.
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"…Il bambino, si trasfigura completamente nell'essere che rappresenta, così egli è anche
buon spettatore che può spaventarsi orribilmente per il ruggito di ciò che egli tuttavia sa non
essere un leone vero"
Johan Huizinga in "Homo Ludens"
In questo gioco di simulazione c'è un mistero e una verità.
Il mistero è in ciò che potrebbe essere definito "pensiero magico", la verità è nell'emozione
profonda che vive il nostro corpo pervaso da stati d'animo simili.
Quando si parla di pensiero magico non c'è bisogno di risalire a chissà quale ricerca
antropologica su chissà quale popolo lontano e primitivo, riguarda la nostra infanzia e anche,
probabilmente, la vita di un nostro nonno cresciuto in una civiltà senza energia elettrica, dove il
buio quotidiano era realmente un problema. In questo senso i giochi, il teatro, le simulazioni
svolgevano una funzione sociale importantissima perché esorcizzavano i timori collettivi, cercando
di ricondurre la carica fobica delle paure ancestrali ad un valore simbolico, ad una
rappresentazione che così sottraeva alla paura dell'incognito lo spazio per compiersi.
L'immaginazione e il terrore nascono infatti da stimoli psichici primordiali, radicati
nell'evoluzione biologica dei primati, che noi, ancora oggi, alimentiamo con la nostra produzione
culturale. Basti pensare alla fortuna di tanto cinema horror.
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3. Il piacere della funzione
Quando si gioca, e i più piccoli ce lo ricordano sempre, si tende ad essere pervasi da un
senso di esuberanza che ci fa esprimere gioia: quella per le cose che si fanno, solo per il fatto di
farle. Quel fare può essere fisico ma anche teorico o immaginario, elaborando con la mente
soluzioni fantastiche. In entrambi i casi scatta una profonda soddisfazione che può essere definita
come piacere della funzione: il piacere di percepire il nostro corpo e la nostra mente attivi in una
serie di esperienze che ci danno la conferma del nostro funzionamento.
È un'emozione sottile ma precisa che avrete vissuto tante volte e che recentemente è
possibile provare anche quando si entra in relazione con quegli ambienti digitali, ipermediali e
interconnessi, in cui si è spesso sollecitati ad uscire fuori dagli schemi preordinati, anche solo per
ambientarsi. Stare nel gioco, ovvero nello spazio-tempo in cui agire, in una galassia iperuranica o
su una scrivania digitale domestica. Stare nel gioco e interrogarci se è più interessante la flessibile
creatività del play o l'agonismo seriale del game. Domandandoci se è un gioco per giocare o un
gioco per vincere?
È importante cogliere questa differenza tra play e game, tra il giocare e il gareggiare, tra il
gioco libero e quello formalizzato in senso competitivo, fino a riflettere su come lo sport spesso
faccia perdere di vista la dimensione ludica più basilare. Quella della condivisione.
Eppure la parola game nella sua etimologia sassone, deriva da gaman che significa
“amicizia, compagnia”. Seguendo questa pista etimologica troviamo che competenza e
competizione hanno lo stesso etimo latino: “competere” per cui s’intende “cercare di ottenere
qualcosa insieme con qualcuno”. E aggiungiamo, estremizzando il discorso, “con qualcosa”.
Ci riferiamo alla relazione con computer e console per videogame che attraverso il gioco
ci avviano a cercare di ottenere qualcosa con qualcos'altro: con una macchina digitale che si
pone come un'estesa protesi, fisica e cognitiva, con cui interagire.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Da qui è possibile impostare un ragionamento che riguarda la nostra competizione interna,
ovvero quella che si scatena dentro di noi, tra le diverse espressioni della nostra personalità
secondo i feedback che riceviamo dall’esterno.
Quello che in fondo cerchiamo nel gioco è la padronanza di noi stessi, dall'impulso di
piacere della semplice funzione dell’agire fino ai risultati progressivi della competizione più o meno
esterna.
L’avversario diventa quindi un pretesto per misurarci con noi stessi: il valore dell’autostima
nella nostra prova di abilità appare, giunti a questo punto, più importante della sconfitta
dell’avversario.
I cuccioli animali acquisiscono nel gioco le competenze che solo in parte possiedono già
innate nell’istinto, imparano con il loro corpo a cacciare e a fuggire. Il piacere della fuga è, ad
esempio, uno degli istinti più intriganti non solo per la valenza tattica del sottrarsi ad uno scontro
svantaggioso, ma per quel gioco sottile che richiama uno dei sentimenti più radicati del nostro
animo.
Ancor prima di cacciare si era cacciati, ecco perchè salvarsi è una gioia infinita e
ancestrale. Ricordatevi tutte le vostre eccitanti fughe rincorsi da un genitore bonariamente
minaccioso, oppure pensate un po' a quelle di quei giovani spagnoli davanti alle corna dei tori
lasciati in libertà per la festa di San Quentin.
Ricordate quanto piacere produce sfuggire, magari nascondendosi sotto un tavolo? Li
sentite quasi, sono quei gridolini di pura libido lanciati dai bambini che vengono rincorsi.
Il ponte verso la realtà
Rivolgiamoci al nostro passato di bambini e pensiamo a quel gioco di fissarsi negli occhi per
vedere chi ride per primo, o a quello a chi trattiene di più il respiro. Ecco, se ci pensiamo bene, in
quei giochi si avviano i primi processi per l’autostima che si acquista riuscendo a padroneggiarsi,
iniziando a verificare la capacità di dominare le reazioni spontanee del corpo.
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Come nei rituali spontanei dell’infanzia, quelli segreti, tanto più esaltanti quanto più
indecifrabili dagli adulti.
Avete presente quel gioco in cui si deve stare attenti a non calpestare le linee dei
pavimenti, le cornici delle mattonelle? Possiamo considerarlo come una prova di autocontrollo e di
abilità, come il fare le bolle con la saliva può essere interpretato come un raccogliere dati sul
funzionamento della bocca.
Mettere alla prova se stessi, questa è la cosa che conta. Ma spesso questo patto con noi
stessi viene viziato perché deriva dalle richieste degli altri e dal nostro desiderio di compiacerli. Qui
andrà trovato un equilibrio, e ciascuno ha il proprio, tra la coscienza di sé e la conferma da parte
dell'altro.
L’approvazione, l’ammirazione e l’amore diventano da subito, in un moto inscritto nella
psiche del bambino, fondamentali per il raggiungimento dell’autostima.
È un punto sottovalutato da molti adulti, anche perché quando viene chiesta una
conferma, un feedback, bisogna esserci fino in fondo, con la testa e con il corpo.
Il fatto che spesso accade è che non si è presenti e partecipi al gioco del bambino e alla
sua richiesta di feedback, semplicemente perché non si è presenti a sé stessi. Si producono segnali
contraddittori, come quello tra un messaggio verbale di approvazione e uno contrario espresso, in
maniera quasi subliminale, con il corpo teso dal nervoso perché magari si è stati distratti dalla
propria attività di lavoro.
I bambini comprendono più il linguaggio del corpo e il fatto che si affermi verbalmente il
contrario li disorienta.
Questo è uno dei punti da affrontare, dal momento che si vuole considerare la valenza
pedagogica della ricerca di un equilibrio possibile tra la produzione e la percezione del linguaggio,
partendo dal corpo.
Nel gioco si apprende per automatismo: si agisce e si reagisce.
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Giocare è come vivere. Le regole vengono dopo, che non significa non riconoscerle. Il
gioco è importante proprio per il godimento di sentirsi vivi, secondo il principio del piacere della
funzione.
Nell’esperienza ludica impariamo a funzionare come delle macchine fisiologiche e
psicologiche insieme. Il bambino, ancor prima di misurarsi con il linguaggio, ha questa attività
come esclusivo approccio con il mondo esterno. I bambini hanno bisogno di "buttar fuori" le
emozioni, anche attraverso le cose. Ecco perché il lattante che butta fuori dalla culla il biberon
cerca una risposta alla domanda "Come posso essere sicuro della mia esistenza ?"
Nella sua forma simbolica, il gioco mette in relazione il passato (la memoria legata
direttamente all’esperienza), il presente (il qui ed ora dell’azione) e il futuro (la proiezione nei
compiti da svolgere).
Un principio, questo, che Bruno Bettelheim sostiene con ampiezza, ancorandosi sia a Groos
(uno dei primi ad analizzare il comportamento ludico) che a Piaget ( la figura di riferimento per lo
studio della relazione tra processi educativi e gioco, avviando la ricerca educativa sul
costruzionismo) in uno dei suoi ultimi libri , “Un genitore quasi perfetto”.
Bettelheim ci fa riflettere su come una volta - neanche tanto tempo fa, fino alla fine del
diciottesimo secolo (almeno per quanto riguarda i paesi più sviluppati dell’Occidente) - la
dimensione del gioco fosse meno scissa da quella sociale nella vita di tutti i giorni, ovvero dal
mondo degli adulti. E fa l’esempio di Mosca Cieca, quel gioco che consiste nel cercare bendati, al
buio, gli altri che ti circondano, magari dopo essere stati fatti girare su se stessi fino a perdere
l’orientamento. In un mondo in cui ancora non esisteva la luce elettrica il buon rapporto con il buio
era un’abilità da coltivare. Se pensiamo poi che la paura del buio è uno degli stati d’animo più
ancestrali troviamo una risposta alla domanda di senso perduto che oggi ci risuona sempre più
spesso in mente, insoddisfatti di un mondo mediato e inautentico, sovrastrutturato in una densità
eccessiva di modi e comportamenti convenzionali.
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È nel ritrovare quel rapporto con stati d’animo originari, passando per esperienze di
particolare sensorialità attiva, che si delinea l'attenzione strategica verso ciò che definiamo
edutainment.
È la stessa ricerca che si persegue nella sperimentazione artistica e teatrale, come in certe
esperienze ai confini della realtà teatro, come le avventure di cultura attiva, basate sull'indagine
antropologica e una condizione esperienziale immersiva (nelle foreste polacche) di Grotowski e
dei suoi stalker (le guide sciamaniche di diverse culture, bengalesi, messicani, colombiani…) nel
Teatro delle Fonti ai primi anni Ottanta. Una condizione di ricerca radicale che poneva la necessità
di aprire le "porte della percezione".
Su tutt'altro piano non è banale porre aspettative simili nei confronti dei nuovi ambienti
digitali, ipermediali e interconnessi, utilizzando la chiave dell'edutainment per fare evolvere
un'esperienza di apprendimento esperienziale.
L'intenzione è quella di dilatare questo concetto fino a farlo corrispondere a quel principio
attivo che trovo necessario alberghi sia nel sistema scolastico che in quello sociale tout court: la
capacità di mettere il corpo in una sempre più serrata relazione con la mente, la sensorialità con i
processi cognitivi.
Qui possiamo rilanciare quella affermazione di Friedrich Schiller: “l’uomo è veramente tale
soltanto quando gioca”.
E da qui seguire una pista che attraverso l’intenzione di coltivare il piacere della funzione
possa riqualificare le forme dello scambio sociale e culturale. Una pista che conduce fino ad una
possibile riscoperta dei valori della partecipazione civile, dopo l’esaurimento della carica
ideologica nell’impegno politico.
Uno spazio e un tempo che oltre che fisico può essere immaginario, quel “giardino segreto”
in cui la fantasia getta un ponte tra il mondo dell’inconscio e la realtà esterna. È su quel ponte che
si svilupperà l’intelligenza e la sensibilità. Il ponte verso la realtà.
Giocare con l’immaginazione può essere quindi considerato come uno dei modi migliori
per distinguere la dimensione interiore da quella reale, proprio perché nella corrente
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Carlo Infante - L'edutainment
frequentazione di questo passaggio tra l’interno fantastico e l’esterno realistico si forma una
coscienza flessibile.
Ecco il punto. Portare dentro il sistema educativo ciò che è sempre stato fuori dall'edificio
scolastico (fisico e mentale), ovvero il gioco e il desiderio di comunicazione libera ed effettuale.
Ciò comporta una strategia culturale che possa estendere il concetto di educazione, portando
dentro il luogo su cui si fonda l’apprendimento del sistema sociale futuro, energie e intelligenze che
altrimenti rischierebbero di rimanerne fuori.
Lo capirà il mondo della Scuola?
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Carlo Infante - L'edutainment
4. Imparare a imparare
Per concludere, riprendiamo gli elementi basilari della nostra riflessione per sottolineare i
punti cardine. Alla radice della parola educare c’è l’idea di condurre, portare: qualcosa che
sembra confermare il principio attivo che sta alla base del nuovo concetto di navigazione
interattiva.
Da sempre educare significa quindi stimolare un approccio dinamico con le conoscenze,
tirare fuori risorse più che mettere dentro dati.
L’esperienza pedagogica ha sempre centrato la sua attenzione su questo aspetto,
trovando proprio nelle dinamiche del gioco uno dei perni della funzione educativa.
Oggi, con l’avvento delle tecnologie digitali e delle reti in particolare, le procedure di
apprendimento stanno cambiando vertiginosamente, invitandoci a riconfigurare gli assetti del
sistema educativo. I nuovi media mettono in campo nuove opportunità, più complesse e più
semplici al contempo, in grado di mettere in relazione il facile consumo di immagini e suoni con
architetture cognitive qualificanti. Le nuove generazioni sono più disponibili a misurarsi con la
multimedialità, dato l’approccio sensoriale, più diretto, seguendo la linea filogeneticamente
primaria alla conoscenza. In natura si apprende vedendo, toccando, facendo.
Attraverso la simulazione interattiva è possibile ricostruire artificialmente gli approcci naturali
all’apprendimento, potenziando il principio di attenzione, di coinvolgimento, di motivazione.
L’elemento decisivo sta quindi nel fatto che la rivoluzione digitale può rimettere in gioco la
componente cognitiva in relazione a quella percettiva, creando nuove forme di consumo
culturale coniugate con le modalità di comunicazione avanzata, come quella interattiva.
L’aspetto sensoriale è quindi determinante: qui l’aspetto ludico acquista un valore strutturale,
secondo quel principio attivo che tutti riconosciamo al gioco come occasione scatenante di
risorsa umana attiva e collaborativa. La multimedialità sta sviluppando questo aspetto ed è proprio
l’edutainment che sta orientando il settore più avvertito di un’editoria digitale che potrebbe ora
inventare, dopo tanti anni di false partenze, un nuovo rapporto con il sistema scolastico.
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Carlo Infante - L'edutainment
Chi pensa che i sistemi multimediali siano solo nuovi strumenti fa un errore di valutazione: è
opportuno bensì concepirli come estensioni delle strutture psichiche, funzioni simili a quella che per
secoli ha espresso la tecnologia-libro.
Agire dentro il web è emblematico in tal senso, al suo interno si sviluppano nuovi contesti
relazionali, comportamenti e linguaggi di comunicazione che permettono di colmare la distanza
con soluzioni di videoconferenza attraverso cui condividere anche scenari, applicazioni e giochi.
La grande mole di opportunità inedite ci invita così a metterci in gioco, ad accogliere la
sfida di questa rivoluzione permanente che non è solo tecnologica ma anche psicologica. È forse
l’occasione per affrontare una crisi di crescita: una crisi che produce una continua riconfigurazione
psicologica dei nostri sistemi interpretativi stabilizzati, attivando però nuove disponibilità cognitive in
grado di liberare energie che trovano ragione in uno slogan che risuona in testa come una piccola
verità: imparare a imparare.
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Carlo Infante - Culture digitali
Indice
1.
CULTURA, CIÒ CHE DIVIENE ................................................................................................................. 3
2.
DALL’AVANGUARDIA ALL’INNOVAZIONE ........................................................................................... 4
3.
LA REALTÀ ARTIFICIALE INTRODUCE IL VIRTUALE................................................................................. 7
4.
DALLA CYBERPERFORMANCE AL PERFORMING MEDIA .................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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Carlo Infante - Culture digitali
1. Cultura, ciò che diviene
Ciò che definiamo cultura (dal latino colere, coltivare, declinato nel participio futuro della
lingua latina, per intendere “ciò che diviene”) è un concetto dinamico che sottende la nostra
evoluzione, in una pratica che riguarda la cura di linguaggi e comportamenti, per abbracciare
l’insieme delle conoscenze trasmesse tra generazioni, e le loro trasformazioni.
Il fatto di declinare questo concetto al plurale è dovuto alla molteplicità degli ambiti
attraverso cui si sta diffondendo la mutazione radicale posta dall’avanzamento tecnologico,
condizione che sta determinando una revisione non solo degli assetti di linguaggio ma anche di
quelli sociali ed economici.
Le culture digitali abbracciano un ampio arco di esperienza innovativa che dagli anni
Sessanta (con lo sviluppo dei microprocessori e della rete Arpanet, anticipatoria di Internet) arriva
ad oggi, con un’evoluzione tecnologica che ha cambiato non solo i modi di rappresentare il
mondo ma la creazione del mondo stesso, attraverso nuovi modelli di relazione sociale mediata
dalle reti.
Il web si sta rivelando come un nuovo spazio pubblico, non è infatti solo uno strumento
bensì un ambiente attraverso cui si sta attuando ciò che viene definita Società dell’Informazione.
La peculiarità delle culture digitali sta nel tradurre l’offerta tecnologica in una forma,
espressiva o funzionale, che di fatto espande le capacità creative per interpretare il cambiamento
in atto.
Queste forme trovano luogo nell’intervallo che intercorre tra l’invenzione di tecnologie e ciò
che realmente intendiamo per innovazione: il valore d’uso di quelle opportunità.
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Carlo Infante - Culture digitali
2. Dall’Avanguardia all’innovazione
È quindi nell’utilizzo delle potenzialità tecnologiche che si sviluppano le culture digitali,
trasformate in nuovo linguaggio, a partire dalle intuizioni dell’Avanguardia, come quelle espresse
già dal movimento Futurista fino alle diverse sperimentazioni delle electronic arts.
Il Futurismo nasce nel 1909 con la pubblicazione del Manifesto Futurista su vari giornali
italiani e subito dopo sul quotidiano francese Le Figaro il 20 febbraio 1909, siglando l'impatto
mondiale della nascita dell’Avanguardia (il Surrealismo arriverà nel 1924). Autore del manifesto
futurista fu Filippo Tommaso Marinetti che sollecitò un movimento letterario, culturale, artistico e
musicale che aprì il XX secolo in modo dirompente contagiando, dall’Italia, tutto il mondo
occidentale.
È opportuno considerare come in molte intuizioni futuriste, come la velocità, le parolibere, le
comunicazioni radio si possano cogliere gli elementi generativi di molte espressioni dell’innovazione
digitale.
Da sempre l’arte utilizza ogni nuovo materiale o strumento per esprimersi, dalla pittura a olio
alle biotecnologie. Una fase cardine è quella che agli inizi del Novecento vede il sistema artistico
misurarsi con i sistemi della riproducibilità tecnica.
La prima grande rivoluzione è così data dall’avvento della fotografia che apre un dibattito
tuttora in corso sulla sottrazione dell’aura dell’opera d’arte nel corso della sua riproduzione, allora
chimica poi elettronica ed ora digitale.
Le rivoluzioni tecnologiche comportano quindi un’evoluzione della nostra civiltà,
coniugando la dimensione naturale dell’espressività umana con quelle artificiali delle diverse
tecnologie a disposizione, creando delle ibridazioni complesse, come quella tra arte e
comunicazione.
Condizioni di radicale riconfigurazione degli assetti percettivi, se pensiamo a ciò che
accade negli scenari virtuali di ambienti simulati in 3D.
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Il cyberpunk come profezia dell’era del web
È all’interno di questo scenario, una volta solo profetizzato dalla fantascienza di figure
straordinarie come Philip K.Dick e dalla letteratura cyberpunk, che si pongono le nuove
sperimentazioni che vanno sotto il nome di cyberperformance, cyberculture, arte interattiva,
performing media e hacktivism.
Si tratta di espressioni che sondano il confine tra umano e artificiale e che oggi
s’emancipano dalla radicale cybercultura della prima ora. In queste pratiche c’è il valore
fondante che sta alla radice di qualsiasi trasformazione culturale, quello di misurarsi con una nuova
forma di conoscenza del mondo, a partire da noi stessi.
Dalla letteratura cyberpunk di William Gibson nel 1984 arriva la parola cyberspazio in cui si
mixa cibernetica e spazio, per intendere mondi virtuali, condivisi da utenti, definiti i cowboy
dell'interfaccia (riferendosi agli hacker che in quegli anni smanettavano con i computer delle
università, per sviluppare quella che sarebbe diventata Internet dieci anni dopo).
Protagonisti di un’allucinazione consensuale che li vedeva immersi in una realtà prodotta
dai sistemi informatici.
La cibernetica per gestire i linguaggi-macchina
Per inquadrare in modo più compiuto questa trasformazione progressiva è opportuno
rimandare alle coordinate tracciate dallo scienziato americano Norbert Wiener che nel 1945 conia
il concetto di cibernetica, interpretando metaforicamente la definizione greca di kybernetiké
techne: la scienza della guida delle navi. Wiener studia i processi di comunicazione posti alla base
del funzionamento delle macchine, degli esseri viventi e delle organizzazioni sociali.
La cibernetica, origine di tutta la ricerca informatica, di fatto proviene da un’osservazione
attenta dei principi naturali attivati da processi di azione e reazione e della conseguente loro
autoregolazione.
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Ciò crea i presupposti di ciò che sta alla base dell’interattività, ovvero l’interazione uomomacchina che permette di gestire i linguaggi-macchina e modularli nei vari contesti applicativi.
A partire da quest'ultima considerazione si può evincere la peculiarità creativa delle culture
digitali, al di là degli aspetti strettamente artistici, perché riguardano una rifondazione degli assetti
psicologici attraverso le dinamiche dell’interazione tra la fisicità del corpo e i sistemi interattivi.
Dinamiche che trasformano le capacità percettive e cognitive, esplicitando come i percorsi
dell’ipertesto stabiliscano un superamento del pensiero lineare dei modelli predefiniti e stabilizzati
nella cultura umanista.
La creatività riguarda fondamentalmente la capacità umana di ambientarsi in nuovi
contesti, trovare risposte a domande mai poste, inventare nuove forme per rappresentare il
mondo esterno ed esprimere la propria soggettività. Ambientarsi nel mondo digitale della
molteplicità delle fonti informative significa, tra le tante cose, reinventare il rapporto con il
linguaggio alfabetico, una delle più antiche tecnologie capaci di comunicare nel mondo.
Già con l’ipertesto e ancor di più con il web, l’ipertesto degli ipertesti, si è compreso come
l’uso dell’alfabeto possa diventare meno lineare attraverso la combinazione di link che sollecitano
le combinazioni possibili in un testo, superando lo schema temporale, per abbracciare la
potenzialità spaziale del linguaggio: lo strumento migliore per tradurre in azione il nostro pensiero.
È ormai chiaro che le tecnologie digitali interpretano al miglior grado questa evoluzione del
linguaggio. Espandendo la ricombinazione delle informazioni testuali con altri media, come quelli
audiovisivi, danno così luogo all’ipermedia che rende libero il linguaggio di interagire sia con la
dimensione cognitivo-ricostruttiva sia con quella percettivo-motoria.
Marshall McLuhan aveva valutato, già negli anni Sessanta, la stretta interrelazione tra
l’evoluzione
delle
tecnologie
e
quella
della
dimensione
psicologica,
sensoriale
e
fondamentalmente culturale.
Le sperimentazioni dei pionieri delle prime forme d’arte interattiva hanno focalizzato i
termini di questa evoluzione culturale, coniugando la dimensione dell’happening partecipativo
con i primi sistemi digitali.
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3. La Realtà Artificiale introduce il virtuale
Un apripista è stato Myron W. Krueger che, nel 1983, con il Videoplace avvia la ricerca
definita Realtà Artificiale, fenomeno che anticipò la Realtà Virtuale, utilizzando telecamere che
digitalizzavano il movimento di un performer, in grado d’interagire con uno scenario infografico.
Altra figura cardine è stato Roy Ascott che, sempre alla fine degli anni Sessanta, trattò di
estetica tecnoetica, concetto poi rilanciato da Mario Costa con l’estetica della comunicazione.
Il contributo più significativo di Ascott è “Aspect of Gaia”, un’opera collettiva aperta” ai contributi
raccolti on line da decine di autori, presentata nel 1989 al festival Ars Electronica di Linz (Austria),
uno dei luoghi di maggior attenzione verso le culture digitali, insieme a Imagina di Montecarlo e
Transmediale di Berlino.
La Net Art e l’hacktivism che coniuga hacking e attivismo civico
Un ambito importante da sottolineare è quello della Net Art che vede come figure apripista
il catalano Antoni Muntadas, lo sloveno Vuk Cosic, l’italiano Tommaso Tozzi e, per un particolare
aspetto pionieristico, Pietro Grossi che, nel 1970, trasmise il primo “audio streaming” della storia con
un collegamento telematico fra la Fondazione Manzù di Rimini e il CNUCE di Pisa. Un teorico della
Net Art è Lev Manovich che evidenzia come la creatività sia direttamente proporzionale alla
capacità di fare network. Un’intuizione questa che s’inscrive nella cultura hacker e open source,
per esplicitarsi a miglior grado nella dimensione etico-politica dell’hacktivism che coniuga hacking
e activism.
Un’affermazione di Jello Biafra, alias Eric Reed Boucher, cantante punk dei Dead Kennedys
e attivista politico, è in tal senso emblematica: “Non odiate i media, diventate i media.”
Tra i protagonisti italiani di queste declinazioni della cultura hacker si segnalano Giacomo
Verde e Jaromil.
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Carlo Infante - Culture digitali
Le culture digitali tendono ad uscire sempre più dall’ambito strettamente artistico per
espandersi nella società che cambia attraverso le pratiche collaborative del social networking, la
disintermediazione, il crowdsourcing, nella creatività sociale delle reti, come si evince nel concetto
nuovo di performing media.
In Italia è possibile individuare un punto di partenza per il lungo percorso delle culture
digitali, nel gruppo Arte programmata che prende nome da una mostra curata nel 1962 da
Umberto Eco al Negozio Olivetti di Milano, con autori come Giovanni Anceschi e Gianni Colombo.
Una netta accelerazione del dibattito sulle culture digitali lo si registra nel 1991 intorno
all’avvento della realtà virtuale, con incontri a Venezia, al Palazzo Fortuny (a cura di Maria Grazia
Mattei), a Torino, nel 1992, con un convegno promosso dal CNR e Scenari dell’Immateriale
(progetto che derivava a sua volta dal festival di Narni, dove, nei primi anni 80, ha avuto origine il
videoteatro e dove, nel 1987, si tiene un’edizione dal titolo “La scena interattiva”) e a Roma con
“Mondi riflessi” a Villa Medici, dove fu presentato nel 1992, per la prima volta in un contesto
culturale, un sistema di realtà virtuale immersiva.
Un momento significativo è la rassegna “Arslab. Sensi del Virtuale” (Torino, 1995) promossa
da Ars Technica, un’associazione che vede tra i protagonisti l’artista Piero Gilardi e il teorico Franco
Torriani.
In quel contesto fu pubblicato un catalogo da cui è tratto il mio testo che segue (il testo
esteso è nel link in fondo).
Dalla forza alla forma
Nell'evoluzione della specie la tecnologia svolge la funzione di aiutare l'uomo nella
relazione con il mondo esterno. Gli arnesi, le armi, le macchine, le penne, anche i libri, diventano
così estensioni, protesi, potenziamenti del fare umano, pratico o cognitivo che sia. Una concezione
che nell'era industriale e meccanica ha trovato il suo massimo sviluppo. Con l'avvento
dell'elettronica è iniziato però a cambiare qualcosa, sensibilmente. La forza meccanica si sta infatti
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Carlo Infante - Culture digitali
relativizzando e le tecnologie digitali iniziano ad aprire nuovi orizzonti di funzionalità: le applicazioni
virtuali e telematiche mettono in essere proprietà che, attraverso la modellizzazione tridimensionale
e l'interattività, ci permettono di agire e fare limitando l'uso della forza. Questa trasformazione di
procedure che si sta delineando passo passo potrebbe essere definita "dalla forza alla forma", per
usare un'affermazione di Elémire Zolla in una particolare conversazione svolta con uno dei massimi
esperti di cultura metafisica. Dalla forza meccanica alla forma digitale della simulazione virtuale,
quindi. Il fatto stesso di rendere possibile un'azione in un ambiente remoto ci pone di fronte ad un
paradosso che riconfigura il nostro rapporto con lo spazio-tempo. Dire che il virtuale mette in
campo un nuovo paradigma cognitivo significa appunto questo. Saltano, o perlomeno vengono
considerate più relative, le coordinate spaziotemporali in cui ci collochiamo per dare luogo ad
ulteriori corsi di esperienza che vanno oltre i sistemi interpretativi dati. Il concetto stesso di
rappresentazione viene messo in discussione dato che una navigazione immersiva in uno scenario
di realtà virtuale comporta un superamento della visione nel produrre un'illusione cognitiva tale da
farci "abitare" quell'ambiente. Derrick de Kerckhove, nel suo fondamentale libro "Brainframes",
parla di tendenziale sostituzione dell'idea di "punto di vista" con quella di "punto di vita": non siamo
più solo spettatori delle rappresentazioni del mondo, come il teorema della Prospettiva del
Rinascimento eurocentrico ci ha viziato a credere, ma componenti fisiologiche di un ambiente che
solo ora si è disposti a comprendere in tutta la sua complessità. Attraverso il feedback proprio della
multimedialità interattiva, e del virtuale, agiamo nello spazio artificiale, a tutti gli effetti. È chiaro
ormai che è possibile estendere oltre la soglia della realtà materiale il nostro punto di presenza
nella dimensione immateriale dell'elettronica. Un fatto che trova i suoi sviluppi interessanti nelle
procedure più avanzate nella condivisione on line. (...)
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Culture digitali
4. Dalla cyberperformance al performing media
In questi contesti creativi affinati al multimedia e alle prime forme di interattività, si rilevano
gli interventi degli americani Bruce Neuman, Dan Graham e Jeffrey Shaw, del francese Laurent
Mignonneau, dei giapponesi Dumb Type e di Studio Azzurro.
Nel 1994, si formò un gruppo di studio a Milano, AGAVE (da cui deriva poi l’archivio
AGA.POW), che impostò una ricognizione teorica sul fenomeno della cyberperformance, invitando
Stelarc, Marcel.lì Antunez Roca e seguendo il gruppo fiorentino Krypton che nel 1996 presentò la
performance “Corpo sterminato”.
In occasione di Mediartech, a Firenze, alla Fortezza da Basso, si attivò il primo workshop di
intelligenza connettiva diretto da Derrick de Kerckhove del McLuhan Program di Toronto, un
evento decisivo per la qualificazione del dibattito sulle culture digitali.
Un ulteriore livello di ricerca è quello che prevede il rapporto con gli “agenti informatici”, i
cosiddetti knowbot, programmati per esistere autonomamente in un ambiente di vita artificiale. In
questo contesto ha operato il gruppo di autori multimediali tedeschi, Knowbotic Research, già
vincitori nel 1993 del Golden Nica al festival Ars Elecrtonica di Linz, presentando nel 1998 a Firenze,
nell’ambito del progetto Interscena, “Dialogue With The Knowbotic South”, installazione percorsa
da spettatori che intercettati da un sistema di motion-capture, venivano assaltati da sciami di bit.
Le culture digitali hanno trovato sviluppo in Italia su riviste e osservatori on line come
Noema, Neural, Mymedia e Virtual e in molteplici manifestazioni, tra cui si possono citare “Il futuro
digitale” al Salone del Libro di Torino nel 1996, “ADE” (Art in Digital Era) a Polverigi (2001-2002),
“Scritture Mutanti” promossa dalla Biblioteca Multimediale di Settimo Torinese dal 2001 al 2006 e tra
le più recenti “LPM – Live Performers Meeting” a Roma, “Share Festival” a Torino, “TecArtEco” a
Lugano e Gallarate.
Tra le diverse espressioni creative in ambiente digitali prende forma il concetto di
performing media, una nuova definizione, emersa nei primi anni del XXI secolo, per un campo di
ricerca che trova origine nel crocevia tra arte interattiva e cyberperformance e ancora prima nel
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Culture digitali
teatro di ricerca affinato ai media, ma riguarda sempre più la condizione antropologica data dallo
sviluppo delle tecnologie abilitanti, di per sé performanti.
I nuovi media interattivi, mobili e personalizzati, determinano un nuovo rapporto uomomacchina, sempre più simbiotico, reso fluido dalla semplicità d’uso e dalla sollecitazione
percettiva e sensoriale delle soluzioni evolute dell’interaction design, dove l’interfaccia aptica con
un gesto, esplicita un’estensione del corpo.
Le tecnologie interattive diventano così performanti in via direttamente proporzionale alla
performance delle nostre azioni. Questo sta creando un nuovo paradigma per ciò che definiamo
cultura: il rapporto tra uomo e mondo non è solo mediato da tecnologie ma comporta
un’integrazione sensibile. Secondo il principio delle psicotecnologie, ne stiamo incorporando
alcune qualità, di cui indichiamo le tre principali: l’ipertestualità che sta riqualificando i processi
cognitivi, emancipati dalla meccanicità lineare e logico-conseguenziale; l’interattività che sta
reinventando le condizioni della prossemica; la connettività che sta potenziando la natura delle
relazioni sociali.
Ciò che viene definito performing media riguarda la nuova progettazione culturale
attraverso le proprietà dei nuovi media interattivi, ipertestuali e connettivi. Per quanto questo sia
inscritto in un percorso che trova le proprie radici nelle diverse culture dell’avanguardia, non è più
ancorato alla sperimentazione dei nuovi linguaggi, come quella che è stata espressa dai
movimenti
creativi
del
Novecento
(dall’happening
del
Fluxus
alla
psicogeografia
del
Situazionismo) e in particolare dall’interazione tra scena e nuovi media, come il videoteatro e poi
le cyberperformance.
Questa progettazione possibile rilancia il potenziale delle culture digitali, nella scommessa
antropologica in corso, per cui si fa urgente l’invenzione di nuove forme di relazione sociale e di
modelli di sviluppo sostenibili ed evoluti al contempo. Esprimere la performatività dei media
interattivi comporta una nuova performatività sociale, nella progettazione di eventi e piattaforme
cross-media per l’interazione tra reti e territorio.
Gli ambiti, in cui trova luogo la progettazione di questi format innovativi, sono quelli che si
orientano oggi verso il social design e l’urban experience.
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Carlo Infante - Cittadinanza educativa
Indice
1.
L’APPRENDIMENTO DAPPERTUTTO...................................................................................................... 3
2.
L’INTELLIGENZA DELLE API .................................................................................................................. 6
3.
VERSO LA CITTADINANZA EDUCATIVA GLOBALE............................................................................ 10
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 13
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1. L’apprendimento dappertutto
Ci piace in tal senso associare l’idea di educazione al principio di cittadinanza attiva, in
quanto disponibilità a relazionarsi con gli altri, nello spazio pubblico delle città e delle diverse
comunità territoriali, per crescere insieme, con particolare attenzione all’intelligenza connettiva
rivolta alle fragilità, determinata dalle disabilità e dall’esclusione sociale.
Il punto cardine è nel concepire il processo educativo non solo nello studiare su un libro o
davanti a uno schermo, ma guardandosi intorno, ascoltando le voci dei protagonisti che hanno
vissuto nei territori, esplorare le città per vivere un’esperienza di apprendimento dappertutto.
In questo senso si può intravedere un futuro progressivo dei sistemi educativi che non
possono ignorare la necessità di un continuo cambiamento in relazione al mondo, che non solo
corre ma accelera in via esponenziale. L’avanzamento tecnologico è un dato che spiazza, avete
presente la Legge di Moore? Ogni 18 mesi i sistemi digitali raddoppiano la loro performance. C’è
da chiedersi: e noi? Siamo disposti a raddoppiare le nostre potenzialità cognitive?
Il cambiamento scorre dappertutto, tracima, come accade per l’acqua in natura quando
le canalizzazioni sono forzose e inadeguate.
In questo senso è necessario aprire l’orizzonte delle strategie educative per rivolgerle alle
dinamiche del cambiamento, a partire dalle complessità sia multimediali sia multiculturali. Per
questo è importante anche declinare al plurale questa linea d’attenzione, parlando di
cittadinanze educative, contemplando non solo l’esaurimento della cultura eurocentrica
circoscritta da un ambito continentale e culturale definito, ma la necessità di concepire
l’integrazione come un fattore decisivo da attuare con i più giovani, il prima possibile, prima di
ritrovarsi separati dai pregiudizi.
La cittadinanza educativa è una parola chiave che contempla al suo interno i diversi
aspetti del multiculturalismo, a partire dai flussi dei migranti con cui condividere lo spazio pubblico
dei nostri territori, nel contesto di un’innovazione territoriale capace di valorizzare attraverso i nuovi
media le vocazioni innate dell’Italia, da sempre terra di attrazione e crocevia di culture.
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Quanto
è
importante
imparare
a
imparare:
attivando
quella
forza
motrice
dell’apprendimento che comporta un’alimentazione continua dell’attenzione, della percezione,
della curiosità e conseguentemente della selezione cognitiva. Si, bisogna saper scegliere. È qui che
scatta il processo virtuoso della conoscenza.
Bisogna ritrovare il valore del guardarsi intorno, partendo dall’assunto che non s’impara solo
su testi o su flussi multimediali, ma dagli altri e dalle cose da cui si è circondati. Partendo da quelle
vicine, nella prossimità dei propri territori, dalla dimensione locale, per arrivare a quella globale, più
che in termini geografici in modo culturale e comunicazionale. Sì, la cittadinanza educativa è
glocal.
Se descrivi bene il tuo villaggio parlerai al mondo intero
Lev Tolstoj
In questo senso possiamo trovare nel processo di apprendimento dappertutto, una
condizione pedagogica che si rivela palestra di attenzione, attivando uno “sguardo partecipato”
(come nei walkabout di esplorazione partecipata radionomade di Urban Experience) in cui si
selezionano informazioni guardandosi intorno, camminando per le città (o nelle campagne o in
riva al mare o in cima a montagne…) e anche utilizzando il web come nuovo spazio pubblico per
l’apprendimento continuo. O, ancora, utilizzando la rete per tracciare i percorsi che si fanno, in
mappe interattive che inverino i principi esperienziali dei geoblog per “scrivere storie nelle
geografie”.
Questa modalità pedagogica non riguarda solo i più giovani ma tutti, super adulti e
professionisti, impegnati nella necessità di una formazione continua che qualifichi l'adattamento
costante in una società in transizione. Un processo che è scandito dalle tecnologie
dell’interconnessione che stanno reinventando non solo le modalità di scambio sociale ma anche
quelle produttive.
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Carlo Infante - Cittadinanza educativa
Per intenderci, il fatto stesso che un territorio possa essere mappato nel web dalle nuove
generazioni che lo esplorano, secondo le progettualità di cittadinanza educativa, apre delle
strade di buon senso. Delinea un percorso di innovazione territoriale generato da chi ha capito
che la formazione riguarda l’evoluzione delle proprie identità culturali commisurandole con il
contesto, a partire da quello territoriale in cui si vive.
Ciò può contribuire in modo decisivo ad avviare un percorso di consapevolezza
complessivo che investe l’intera comunità nel gestire le potenzialità di quel territorio, garantendo la
concordia e promuovendolo come luogo desiderabile. È questo che oggi può garantire un nuovo
modello economico sostenibile, a differenza di ciò che si pensava mezzo secolo fa.
È su questi punti che oggi si può riavviare (non si tratta solo di una ripartenza bensì di un
riavvio, come nei sistemi informatici, dopo un reset) un sistema-Paese che ha perso gran parte del
suo potenziale turistico, ma non solo su questo comparto (che comunque riguarda quasi il 13% del
PIL nazionale, considerando le varie ricadute in tanti altri settori connessi) bensì sull’immagine totale
di un’Italia che deve riconquistare una sua credibilità internazionale, proprio sulla base di una
piena coscienza responsabile dei propri assetti territoriali.
La cittadinanza educativa comporta questa consapevolezza mixando tra loro cultura,
innovazione, identità e differenza.
Un passaggio fondamentale per capire meglio cosa intendiamo per innovazione è quello
di trovare la misura con un avanzamento tecnologico dove l’offerta è talmente più forte della
domanda da indebolirla.
È proprio per questo che il principio della cittadinanza educativa - nel cercare le forme
creative capaci di usare le tecnologie, come quelle del web 2.0 che hanno spalancato le strade
alle dinamiche partecipative e co-operative, per organizzare e vivere meglio lo spazio pubblico
della nostra società, a partire dalla prossimità dei quartieri nelle proprie città - può avviare un
percorso verso l’innovazione adattiva.
Verso il riequilibrio tra l’offerta e la domanda di tecnologia, per apprendere meglio e agire
meglio.
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2. L’intelligenza delle api
Una suggestione forte arriva dalla natura, che nel mondo delle api si esprime in uno
straordinario livello di autoregolazione e di intelligenza connettiva.
Ciò accade sulla base della intelligenza dello sciame esplorante, creativo e produttivo.
Quella intelligenza naturale ci dà una lezione, a partire da una metafora biologica ispirata
dall’osservazione degli sciami delle api e in particolare dalla danza di questi imenotteri, che danno
luogo a vere e proprie lezioni coreografate su come orientarsi per raggiungere il miglior nettare nei
pressi dell’alveare.
Uno degli aspetti interessanti che accomuna le api e le nuove dinamiche di relazione nel
web 2.0, è nel fatto di coordinare attività complesse senza bisogno di alcun coordinatore, in
un’energia sociale spontanea, contagiante.
È a questo punto che possiamo spendere una parola particolare: stigmergia. Si tratta di
un’intuizione del biologo francese Pierre-Paul Grassé secondo cui un comportamento attivo
induce ulteriori atti, modificando l'ambiente attraverso procedure che contagiano, producendo
una comunicazione performante.
Questo concetto di stigmergia in sostanza afferma che lo stimolo al lavoro è la vera essenza
del lavoro stesso.
Il termine deriva da stigma: marchio, impronta, ciò che distingue e che discrimina, ma
anche sprone, pungolo, e si combina con ergon, opera, lavoro. Indica l’essere in atto, il principio
attivo di un’azione, così come il tagliare è l’ergon delle forbici o il combattere l’ergon di un
guerriero o l’apprendere l’ergon di uno studente.
Un buon esempio di stigmergia rilevato da Grassè è il comportamento evoluto delle api
bottinatrici nel tracciare le orbite verso il nettare, esprimendo uno straordinario modello di
apprendimento, che viene trasmesso con una serie di movimenti geometrici all’interno dell’alveare
e viene definito in modo suggestivo come la danza delle api. È da questo approccio bioispirato
dall’osservazione degli sciami delle api, che ha trovato sviluppo l'ambito di ricerca informatica
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definito swarm intelligence (l’intelligenza dello sciame), analizzando i vasti insiemi destrutturati di
individui che riescono a portare a termine degli obiettivi sfruttando meccanismi di cooperazione.
La struttura degli sciami rappresenta una straordinaria parallelizzazione che ottimizza il
lavoro di tutti gli individui della colonia sincronicamente: è su questo stesso processo che si basa la
procedura di calcolo in parallelo dei sistemi informatici che utilizzano contemporaneamente tutti i
processori disponibili. Questo processo è così attivato da un comportamento virtuoso che induce
ulteriori atti, condividendo, modificando l’ambiente attraverso la comunicazione. La danza delle
api può dunque rappresentare un modello biologico della intelligenza connettiva espressa dalle
reti, condizione che oggi si espande sia attraverso il web 2.0, per quanto riguarda le dinamiche
sociali di collaborazione, sia con le smart grid, le reti intelligenti che rilanciano il principio
informatico degli assetti paralleli, come quelle che vengono oggi utilizzate per l’ottimizzazione della
distribuzione di energia elettrica.
Ma è nel web 2.0 che accade ciò che più interessa il nostro ragionamento sulla
cittadinanza educativa. Il fenomeno riguarda la qualità possibile di una comunicazione che si
evolve nella misura in cui l’energia connettiva riesce a raggiungere un andamento di
conversazione che può rasentare l’empatia.
Il termine più appropriato per questa conversazione on line è crowdsourcing, una parola
nuova che sottende un fenomeno che esiste da sempre: la vox populi che conosciamo anche
come passaparola.
Una condizione che è decisiva nei processi educativi del peer to peer, da pari a pari,
innescando dinamiche virtuose di condivisione dei saperi. La parola combina il termine crowd
(gente comune) e outsourcing, quella pratica per cui si tende ad esternalizzare alcune attività.
Quali attività? Quelle della comunicazione che si potrebbe definire, correntemente,
partecipativa, per esempio. E si scopre che il vero senso del comunicare è nel comunicare ‘con’
piuttosto che nel comunicare ‘a’.
È nel valore connettivo, di scambio se non di induzione e sollecitazione che si sviluppa il
grande gioco della comunicazione, dal passaparola al web.
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Non è un caso che tale processo abbia dato luogo al cosiddetto buzz marketing. La parola
buzz è onomatopeica e richiama il ronzio delle api e la loro capacità di diffondere informazione. Il
buzz marketing tende quindi a esprimere uno sciame informativo che rilancia opinioni, scelte,
orientamenti che il mondo del marketing più avvertito sta imparando a intercettare.
Una condizione aperta a nuove potenzialità di interazione tra società e mercati, non solo
per vendere prodotti ma per qualificare il rapporto con i consumatori più consapevoli.
L’aspetto che va maggiormente nella direzione di un’intelligenza connettiva rivolta alle
potenzialità dei social media.
Ciò comporta una simultaneità di relazioni possibili tra l’individuo e la pluralità di tanti altri
soggetti e comunità. Da qui si può sviluppare quel trasferimento esponenziale di conoscenze e
buone
pratiche,
che
rivoluziona
anche
il
paradigma
dell’apprendimento
associato
all’interrelazione umana, per liberare quelle energie sociali che le comunità degli studenti
conoscono da sempre, come questa: è l’elemento esterno del gruppo che porta nuovo stile,
nuova informazione. Ciò rompe gli equilibri ma li riposiziona su un piano più ampio e articolato,
secondo ciò che Silvano Tagliagambe definisce la multiappartenenza per intendere quella
connessione partecipativa che favorisce le possibilità di scambio con soggetti che arrivano
dall’esterno del gruppo predefinito.
Un aspetto determinante per cogliere l’importanza dell’integrazione culturale e dello
sviluppo della cittadinanza educativa come prospettiva strategica.
Il web riesce a dare valore alle istanze naturali del comunicare, rilanciando l’aspetto
sociale dell’interagire umano, che invece il sistema dei mass media ha viziato.
Il web 2.0, in particolare, sta rendendo evidente - anche se per molti può sembrare
paradossale, visto che tutto questo è mediato da sistemi digitali - quanto sia fondante per il sistema
educativo il valore naturale del comunicare che riscopriamo attraverso un processo artificiale
come quello del web. Non a caso abbiamo a che fare con un nuovo paradigma cognitivo
determinato dall'avvento delle tecnologie digitali dell'interconnessione.
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Un processo evolutivo che vede ibridare linguaggi e tecnologie, in una nuova coscienza
dinamica che permette di interpretare l’andamento del cambiamento e renderlo funzionale alla
progettazione di futuro. Liberando un attitudine naturale del comunicare, senza sovrastrutture
senza esclusione. Tesa ad esprimere un’energia sociale, auto-organizzante che amiamo mettere in
relazione con quella danza delle api che non consideriamo solo una metafora.
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3. Verso la cittadinanza educativa globale
Dicevamo di quanto sia determinante cogliere il valore strategico del come la cittadinanza
educativa ci permetta di muovere la coscienza cognitiva al di fuori delle cornici degli edifici
formativi, per misurarci con il mondo esterno.
Da quello più vicino, nella prossimità dei propri territori, dalla dimensione locale quindi, per
arrivare però verso quella globale, più che in termini geografici in termini culturali e
comunicazionali.
In questa prospettiva nel 2017 il Comitato interministeriale per la Cooperazione allo Sviluppo
ha approvato la Strategia italiana per l’Educazione alla cittadinanza globale che si integra con la
nuova Educazione Civica, ma si rivolge anche ad altri mondi oltre la scuola. Una linea che
espande il nostro concetto di cittadinanza educativa, per proiettarlo al di là dell’ambito urbano
delle comunità, verso l'assetto globale, cosmopolita.
Nella cultura odierna della cooperazione per lo sviluppo sostenibile, non è facile accettare
che l’educazione alla cittadinanza globale (Ecg) sia considerata, come dovrebbe, il prerequisito
per l'acquisizione di tutti gli obiettivi di emancipazione sociale che la formazione induce.
L’idea nasce in alveo UNESCO (l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la
Scienza e la Cultura) dove si è avviata la procedura per impostare una strategia italiana di Ecg,
basata sul diritto all'istruzione in relazione agli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU.
Questo percorso di strutturazione della strategia è nato nell'ambito dell'Agenda 2030, in
particolare con l'obiettivo 4.7. che recita così:
Entro il 2030, assicurarsi che tutti gli studenti acquisiscano le conoscenze e le competenze
necessarie per promuovere lo sviluppo sostenibile attraverso, tra l’altro, l'educazione per lo sviluppo
sostenibile e stili di vita sostenibili, i diritti umani, l'uguaglianza di genere, la promozione di una
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cultura di pace e di non violenza, la cittadinanza globale e la valorizzazione della diversità
culturale e del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile
A seguito di questi processi, anche la definizione è cambiata, da educazione allo sviluppo
è passata a educazione alla cittadinanza globale.
Il Comitato interministeriale per la cooperazione allo Sviluppo ha compiuto un ulteriore
passo verso il riconoscimento, nel nostro Paese, del ruolo fondamentale che l’Educazione alla
cittadinanza globale riveste nel raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e nella
creazione di società eque, sostenibili e innovative.
L’Educazione alla cittadinanza globale è uno dei settori prioritari dell'azione di questo piano
in quanto fornisce gli strumenti per la conoscenza, lo sviluppo di un pensiero critico e una maggiore
consapevolezza del ruolo attivo che ognuno di noi può giocare nella costruzione di un mondo
equo e sostenibile, attraverso le soluzioni che le tecnologie digitali offrono.
Tali sollecitazioni a livello internazionale, nazionale e locale richiedono l’identificazione di
politiche e pratiche in un dialogo tra istituzioni, società civile, scuola, mezzi di informazione, mondo
del lavoro e dell’impresa impegnati sui temi della cittadinanza, della pace, della sostenibilità,
dell’equità, dei diritti umani, delle diversità e dell’innovazione. Politiche e pratiche significative
riguardano l’azione individuale e collettiva dei cittadini, l’esercizio della democrazia e approcci
educativi trasversali rispetto alle tematiche globali.
L’ECG promuove un approccio critico, mirante ad un aumento della consapevolezza e
della comprensione delle dinamiche di interdipendenza tra livello locale e globale, per attivare un
cambiamento nelle strutture sociali, culturali, politiche ed economiche che influenzano
globalmente la vita delle persone.
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La strategia italiana per l'educazione alla cittadinanza globale è dunque un prerequisito
per la formulazione coordinata di piani d'azione pluriennali, che promuovano pratiche nei processi
di apprendimento formali, non formali e informali, nonché nelle campagne di informazione e
sensibilizzazione.
Il World economic forum ha decretato le competenze in cittadinanza globale come la
prima tra le otto componenti fondamentali in termini di contenuti ed esperienze che definiranno
l'apprendimento di alta qualità nella Quarta Rivoluzione industriale: Istruzione 4.0 cogliendo in
pieno l’onda della rivoluzione del web 2.0.
In questo senso si parla di Global citizenship education, affermando che un mondo equo e
sostenibile può essere raggiunto solo con l'impegno dei cittadini e che l'educazione alla
cittadinanza globale è uno strumento chiave per la creazione di una società civile globale attiva e
innovativa.
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Carlo Infante - Cooperazione ludico-educativa in rete
Indice
1.
IL PENSIERO COSTRUZIONISTA ............................................................................................................. 3
2.
UN PONTE VERSO LA REALTÀ................................................................................................................ 6
3.
IMPARARE A IMPARARE: EDUCARE NAVIGANDO .............................................................................. 8
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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1. Il pensiero costruzionista
L’apprendimento si basa sulla costruzione di modelli mentali per comprendere il mondo
intorno a noi. Ciò avviene nel modo migliore se chi apprende è coinvolto nella produzione di
qualcosa, nel fare e nel condividere, secondo un principio esperienziale.
Il costruzionismo è una teoria dell'apprendimento, per cui l’approccio diretto e fattuale,
connesso al fare e a costruire artefatti cognitivi, è più importante dell’insegnamento. L’apprendere
conta più dell’insegnare, ricordiamolo.
Una delle figure chiave di questa teoria è Seymour Papert, collaboratore di Jean Piaget
(dal 1958 al 1963) presso l’istituto di epistemologia genetica di Ginevra, e dal 1964 ricercatore al
Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, dove ha fondato insieme a Marvin Minsky il
Laboratorio di Intelligenza Artificiale.
Il costruzionismo è un concetto che nasce dalla teoria costruttivista di Piaget che considera
l’apprendimento come una costruzione esperienziale e non come una mera trasmissione di
conoscenze (istruzionismo).
Con Papert questo concetto evolve con la pratica dei materiali manipolativi per cui la
costruzione, e quindi l’apprendimento, è più efficace perché non è solo mentale, bensì sostenuto
dalla realizzazione reale di progetti condivisibili.
Papert lo definisce il pensiero concreto che diventa il perno dell'apprendimento, fondato su
principi quali la continuità esperienziale, la potenza nel realizzare progetti personali densi di
significato e la risonanza culturale delle conoscenze da apprendere.
Non apprendere per applicare, fare per imparare
Il costruzionismo introduce il concetto di artefatti cognitivi ovvero dispositivi che facilitano
l’apprendimento e di cui l’uomo necessita esattamente come un costruttore necessita dei
materiali da costruzione.
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Tali oggetti devono poter essere mostrati, discussi, esaminati e condivisi.
Si propongono quindi dei veri e propri set di costruzione, che permettono all’apprendimento di
avvicinarsi alla realtà.
Questa impostazione fa dell’apprendere un processo che non si incaglia sulla complessità
della struttura delle informazioni ma si destreggia nell’associare la complessità alla realtà in cui ci si
proietta, secondo gli sviluppi dei progetti che traducono l’informazione in qualcosa di funzionale e
quindi semplice da apprendere.
L’ambito privilegiato da Papert nella creazione di questi artefatti cognitivi sono gli ambienti
per l’apprendimento creati dalle tecnologie digitali.
Nel 1963, smarcandosi dall’impostazione del Computer Assisted Instruction di stampo
comportamentista, Papert realizza LOGO, un linguaggio e un ambiente di programmazione
appositamente sviluppato per i bambini, e sviluppa successivamente l’estensione del set di
costruzioni LEGO ad un set di robotica, in modo da rendere disponibili ai bambini strumenti per
concretizzare il pensiero astratto e strumenti per realizzare ed esplorare anche creature artificiali.
In tal modo “È il bambino che programma il computer e non il computer che programma il
bambino”. Questa impostazione si distanzia da una didattica fondata sull’imparare per usare,
dove risulta preminente l’insegnamento esplicito sull’apprendimento e privilegia invece un’attività
educativa fondata sull’usare per imparare, dove è, al contrario, preminente l’apprendimento
attivo sull’insegnamento.
Il motto risulta così essere “non apprendere per applicare, ma fare per imparare”.
L’obiettivo è insegnare in modo tale da garantire il maggiore apprendimento con il minimo
insegnamento.
Viene privilegiato il problem solving in quanto, nell’utilizzo attivo e costruttivo del LOGO e
dei micro-mondi i problemi nascono e si definiscono facendo, si procede per continui
aggiustamenti confrontandosi via via con i risultati conseguiti.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Nella pedagogia dell’errore questo processo fa degli errori una condizione positiva, perché
permettono di procedere per tentativi progressivi, adattandosi alle difficoltà senza arrendersi.
Papert rilancia il concetto di matetica ovvero l’arte dell’apprendimento. Un principio
contrapposto alla didattica che invece esprime l’arte dell’insegnamento. Il termine matetica
deriva dal greco mathematikos, che significa "disposto a imparare".
Si costruisce così un sapere utile e condiviso, che si adegua allo stile dell’allievo, un sapere
pratico e motivazionale, realizzato in concreti contesti di utilizzo.
Il sistema formativo, reso obsoleto anche dall’avvento delle nuove tecnologie, va quindi
ripensato per andare oltre un programma lineare e statico verso un percorso flessibile e dinamico
in cui sia data la possibilità di gestire il proprio apprendimento e di imparare, non a dare la giusta
risposta alle domande inerenti quello che si è appreso, ma trovare giuste soluzioni a situazioni che
vadano oltre l’ambito ristretto del percorso formativo.
Una condizione che si apre alla cooperazione tra pari, quelli con cui si condivide
l'esperienza formativa, stabilendo le forme e i tempi di un processo che comporta condivisione e
solidarietà, spesso connotato da uno spirito ludico che contraddistingue la migliore arte
dell’apprendimento.
Un’attitudine che acquisiamo da piccolissimi attraverso il gioco e che sarà strategico
ripristinare nell’ambito della formazione nei nuovi ambienti del web, anche perché si dovrà
reimparare ad ambientarsi, dato che le categorie spazio-temporali cambiano.
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2. Un ponte verso la realtà
Bruno Bettelheim sostiene che il gioco è un ponte verso la realtà e lo fa invitandoci a
riflettere su un fatto: l’impatto ludico del bambino con le cose del mondo rivela che esistono sia
regole di comportamento da rispettare che leggi del caso e della probabilità. Ed è proprio nella
mobilità tra queste due dinamiche che si fonda lo sviluppo intellettivo e psicologico.
Sentire che il mondo non crolla insieme alla torre dei giocattoli messi l’uno sopra l’altro.
Sentire che il gioco nasce dal gioco perché anche l’errore funziona come esperienza buona per
procedere verso un migliore risultato, se mai arriverà.
La ripetitività di molti giochi che sembrano insignificanti rappresentano infatti questo
percorso a ritroso lungo la via dell’errore; per il bambino questa è una piccola grande lotta con
quelle difficoltà talmente piccole da non essere colte dalla percezione adulta e disattenta ma che
sono
in
fondo
un’esplorazione
continua
nel
regno
delle
piccole
complessità
dell’autoapprendimento.
Alcuni giochi combinatori, come il Meccano, il Lego o il Puzzle, sono emblematici poiché
incentivano attraverso la manipolazione e il fare, secondo il pensiero costruzionista, ancor prima
che il bambino abbia acquisito le costruzioni razionali del linguaggio e del senso logico.
Il fatto di tentare le molteplici possibilità di combinazione, si pensi al puzzle ad esempio,
rende evidente che procedendo per tentativi e fallimenti si affina la fiducia nelle proprie capacità,
in una progressiva temperanza dei modi.
Una mobilità che è opportuno concepire come flessibilità, una leggerezza che sappia trarre
il piacere della funzione anche quando qualcosa non funziona e non si conclude.
Qui
si
coglie
una
modalità
psicologica
indispensabile
per
l’apprendimento:
la
perseveranza. Per un bambino acquisire questa virtù, ancor prima che si stabilizzino le abitudini, è
importantissimo perché impara a non scoraggiarsi per le difficoltà che incontrerà sempre lungo la
propria strada.
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Forse è anche per questa tortuosità che raggiungere il risultato dà quella gioia di sentire il
nostro corpo funzionare bene, condizione che Pavlov definisce anche contentezza muscolare. Ma
non pensate solo ai muscoli indolenziti e soddisfatti dell’esercizio sportivo, l’informazione elettrica
positiva che viene trasmessa attraverso l’intero nostro impianto muscolare è principalmente
generata dal nostro cervello. Una condizione molto presente anche nell’esercizio combinatorio
negli ambienti ipermediali e interconnessi dove i percorsi cognitivi sono decisamente accidentati.
Un salto di qualità che ci suggerisce Bettelheim, è quello che ci fa riflettere sul fatto che i
bambini tendono a costruirsi un mondo “congeniale per loro e solo per loro”. Un micromondo
necessario per sottrarsi alla frustrazione continua imposta da un mondo esterno troppo grande e
troppo complicato.
Lo stesso Einstein (che aveva difficoltà con il linguaggio, fino all’età di tre anni) rileva con
chiarezza questo processo: “l’uomo tende a formarsi un’immagine semplificata e trasparente del
mondo per sottomettere così il mondo dell’esperienza, cercando di sovrapporvi quell’immagine”.
Perché questo accada il bambino ha bisogno del suo spazio privilegiato, quello che
Bettelheim definisce, in tedesco, lo spielraum, la stanza del gioco.
Uno spazio e un tempo che oltre che fisico può essere immaginario, quel “giardino segreto”
in cui la fantasia getta un ponte tra il mondo dell’inconscio e la realtà esterna. È su quel ponte che
si svilupperà l’intelligenza e la sensibilità. Il ponte verso la realtà.
Giocare con l’immaginazione può essere quindi considerato come uno dei modi migliori
per distinguere la dimensione interiore da quella reale, proprio perché nella corrente
frequentazione di questo passaggio tra l’interno fantastico e l’esterno realistico si forma una
coscienza flessibile, in grado quindi di chiudere ed aprire su due sistemi psicologici. Una condizione
decisiva oggi in cui oltre ai piani della realtà e dell’immaginazione si pone anche il piano del
digitale e del virtuale immersivo che ci impone una nuova coscienza cognitiva per operarvi con
efficacia.
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3. Imparare a imparare: educare navigando
Avete mai pensato che ridurre la distanza possa significare aumentare la durata del
tempo? Da sempre l’uomo cerca e trova soluzioni per il suo rapporto con lo spazio: per ridurlo a
percorsi transitabili con i mezzi di trasporto che via via ha inventato. Contemporaneamente ha
cercato anche il modo per risolvere lo stesso problema attraversando lo spazio fisico con le più
diverse forme di comunicazione, dal Tam-Tam a Internet.
Tutto questo ha ridotto lo spazio esterno per aumentare il tempo a disposizione per la
ricerca di soluzioni migliori di vita. Per l’evoluzione.
È da qui che è opportuno partire per una riflessione sul rapporto tra processi educativi e
nuovi media. Nel senso che ogni invenzione tecnologica ha svolto principalmente una funzione
nella storia dell’uomo: risolvere i suoi problemi con lo spazio esterno. E di conseguenza allargare il
campo d’analisi delle possibilità in gioco, aumentando l’urgenza di apprendimento.
Un dato è indubbio: quello che sta accadendo oggi non ha paragoni per radicalità con
altri passaggi della nostra evoluzione. La velocità delle trasformazioni, sia psicologiche che
tecnologiche, sono tali da determinare una disponibilità ed una capacità di adattamento da cui
ci sembra opportuno non prescindere se non si vuole essere tagliati fuori.
La condizione in cui ci stiamo ritrovando è allo stesso tempo affascinante ed inquietante: la
comunicazione globale e istantanea delle reti telematiche libera più spazio e tempo per la
interiorità, per le nostre risorse mentali e cognitive.
Ambientati in un mondo scandito dalla trasformazione meccanica delle materie in merci
una condizione simile può spiazzare eppure è dimostrabile che ciò produrrà risorse, sia educative
che produttive.
Navigare nel World Wide Web ci trasporta nello spazio-tempo interno della nostra
conoscenza potenziale (non quella che c’è già ma quella in divenire) e tutto questo prima o poi
sarà proficuo. Certamente non il navigare di per sé ma il nuovo ambientamento, la disinvoltura nel
trattare certe procedure sempre meno tecniche, sempre più pervasive e automatiche.
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In questo senso s’intende educare navigando; un po’ come dire: nuotando si sta a galla. È
come per l’apprendimento delle lingue straniere: si deve entrare nella forma mentis di quella
lingua. Ci vuole un viaggetto in un paese anglosassone per imparare l’inglese: girando, vivendo,
parlando si acquisirà tanta di quella buona frequentazione della lingua che nessun corso potrà
mai insegnare.
Nel web ci si educa fondamentalmente per auto-apprendimento, misurandosi con le
potenzialità di nuova comunicazione e di articolata trasmissione ipertestuale dei saperi,
navigando. Svolgendo un approccio dinamico con ciò che s’incontra, si percepisce e s’interpreta.
È il training più elementare, da questo poi si può partire per trovare una relazione più
articolata con la telematica, frequentando le procedure dell’e-mail, la posta elettronica in cui
risiedono opzioni curiose, ibride tra l’oralità e la scrittura, o quelle sincroniche, ben più complesse,
delle chat (il “chiacchierare” telematico tra due o più utenti).
Abituarsi
a
navigare
nel
web,
a
scambiare
posta
elettronica,
a
dialogare
in
videoconferenza o in chat, acquisterà sempre più un'importanza strategica che trova sbocco
nella figura del prosumer: il consumatore che si trasforma in produttore di comunicazione.
Il web come nuovo ambiente di apprendimento costruzionista
Si è venuta a creare un’urgenza educativa che riguarda non solo le nuove generazioni in
fase scolare ma fondamentalmente tutti quelli che hanno capito che nella ridefinizione dei propri
ruoli professionali c’è qualcosa da guadagnare. E non è solo una questione di soldi. C’è da
scoprire, o potenziare, la virtù della flessibilità, quella elasticità mentale in grado di misurarsi
agilmente con l’incognito.
Imparare ad imparare significa questo. Significa mettersi in gioco, fare esperienza
attraverso procedure collaborative, immergersi, imparare dagli errori, confrontarsi.
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Accogliere l’idea che le reti stiano diventando un nuovo ambiente, un ulteriore spaziotempo in cui agire e condividere azioni, è il principio sul quale si basa questa disponibilità da
mettere in campo.
È chiaro che sono i più giovani a muoversi correntemente in questo contesto formativo
dove si impara facendo, toccando, con l’estensione protesica del mouse, le parole, le cose, o
meglio i loro simulacri digitali come le cartelle che popolano il desktop.
Per loro è semplice, anche perché questo corrisponde all’impostazione filogenetica
dell’apprendimento, quella senso-motoria, fondata sull’esperienza diretta del fare, secondo il
modello costruzionista dell’apprendimento.
Per gli altri, quelli cresciuti con l'esclusivo ausilio formativo del libro, è più difficile e
nonostante la buona volontà in alcuni manca quella duttilità propria di chi sa fare dell’immersione
sensoriale in uno scenario virtuale una reale esperienza percettiva.
Un buon modo per affrontare la situazione è quella di procedere secondo i processi della
cooperazione, unendo le diverse competenze e le diverse attitudini. Attuare insomma esperienze
educative co-operative tra insegnanti e studenti, magari nella realizzazione di un web
d’innovazione territoriale come una mappa interattiva.
La produzione multimediale e telematica favorisce questo networking: quel lavoro
connettivo che permette di condividere un progetto in tutta la sua risoluzione. Si auspica perciò
che il mondo della scuola riesca per tempo ad abbattere le sue mura epistemologiche, come
evoca Ivan Ilich, ricostruendosi come edificio culturale, considerando l’ambiente aperto
dell’ipermedialità in rete e delle esperienze di apprendimento dappertutto, non solo su libri e
schermi ma in giro per le città.
Si parla sempre più di educazione diffusa che pone al centro della vita educativa
l’esperienza autentica, quella che mobilita tutti i sensi ma soprattutto la forza che li accende, la
passione. L’educazione diffusa ribalta l’idea che la mente possa imparare separatamente dal
corpo, liberando bambini e ragazzi nel cercare nel quartiere e nel territorio le attività a cui
partecipare attivamente per iniziare a misurarsi direttamente con la società.
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L'educazione permanente nella rivoluzione digitale permanente
Gli insegnanti stanno già vivendo sulla loro pelle questa condizione di crisi. Ma la crisi può
essere concepita positivamente: è un apice del cambiamento, il suo significato deriva dal greco
krinein per cui s’intende “decidere, valutare”. Una crisi come quella della messa in discussione del
sapere statico scolastico può quindi rivelarsi come un atto di nuova consapevolezza.
S’impone un salto di qualità del sistema educativo specialmente se si considera il prossimo
arrivo a scuola delle generazioni cresciute con videogame, computer e smartphone, così come la
precedente era cresciuta con libri, cinema e televisione. Ma è un problema che non riguarda solo
gli insegnanti, eroica categoria di frontiera transgenerazionale, schierata sul punto di guado
dell’istituzione scolastica che rischia di rivelarsi inadeguata a sostenere l’ondata mutante delle
prossime generazioni con le loro domande inedite di formazione. Riguarda tutti o perlomeno chi è
disposto ad affrontare le complessità dell’era digitale con le opportunità di cui può far tesoro.
Non a caso si parla sempre più diffusamente di educazione permanente coinvolgendo
diverse figure professionali sollecitate dal cambiamento accelerato.
Nella società che si sta annunciando le tecnologie di comunicazione digitale offriranno
soluzioni per un mondo complesso, saturo di immagini e informazioni da selezionare. Il problema –
al contrario di ciò che pensano i timorati dal caos informativo, non è però quello di incamerare
sempre più input, secondo quell’acquiescenza a cui i mass-media ci hanno abituati, ma ricondurli
ai valori d’uso delle risorse informative. Estrarre insomma le informazioni che ci riguardano,
orientandole verso la domanda consapevole di conoscenza.
I nuovi media attraverso l’interattività permettono la selezione personalizzata, offrendo la
possibilità di fare percorsi cognitivi a misura.
È in questo senso che opportunità straordinarie come Internet possono essere comprese
come uno scatto in avanti del processo educativo e culturale.
Se i mass-media ci hanno fatto diventare grandi consumatori, i nuovi media ci solleciteranno a
diventare produttori e distributori di informazioni e di saperi.
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Indice
1.
MAPPE PER LA PRE-VISIONE DELLA TRASFORMAZIONE URBANA ....................................................... 3
2.
GLOCALMAP, IL PRIMO GEOBLOG...................................................................................................... 8
3.
L’APPRENDIMENTO DAPPERTUTTO ...................................................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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1. Mappe per la pre-visione della trasformazione
urbana
La mappa “anticipa il territorio” suggeriva Jean Baudrillard e da sempre è la
rappresentazione grafica in scala di un luogo.
Ora forse può esprimere qualcosa di più: funzioni non previste tempo fa, rivelate dalle
potenzialità interattive delle tecnologie digitali del web associate alla georeferenziazione.
Una mappa con una delle espressioni più performanti del web 2.0, il geoblogging, oggi può
rivelare ciò che si evolve in un territorio, oltre ciò che già rilevato dalle topografie nell’arco di anni
o secoli, così cogliendo ciò che accade in situazioni come quelle che riguardano la rigenerazione
urbana dove si ridisegna un territorio per cui le mappature possono delineare le fasi progressive
della trasformazione delle città in una società in transizione.
Nelle nuove mappe interattive, quindi, non c’è solo ciò che c’è da rappresentare in un
territorio ma ciò che diviene: ciò che viene tracciato dalla partecipazione attiva dei cittadini
attraverso il geoblogging che permette di scrivere storie nelle geografie.
Un’opportunità importante che permette di mappare i luoghi e le città in particolare sulla
base delle analisi urbanistiche che si evolvono, cogliendo a colpo d’occhio, le criticità e le
opportunità che un territorio ci rivela.
È questo aspetto evolutivo delle tecnologie che risulta strategico, ci conferma quanto sia
importante esercitare un artefatto cognitivo, come è appunto una mappa on line, per condividere
uno sguardo comune su un territorio, utilizzando questa attenzione come soluzione di previsione
per azioni da progettare.
Dopotutto ci siamo erti in piedi, trasformandoci da quadrupedi a bipedi per vedere più
lontano e prevedere le nostre sorti di caccia (o di fuga) e di guerra. Più si era in alto più lontano si
vedeva. L'evoluzione umana deve molto a questo innalzamento della visione. Ci si poteva
orientare ponendo attenzione alle cime delle montagne e ad altri segni del paesaggio e di notte
le stelle nel loro firmamento segnavano fondamentali punti di riferimento. E in mancanza di stelle?
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C’è una parola che viene in aiuto, per alcuni aspetti è sorprendente. È desiderio che
significa “mancanza di stelle”: de sideris (stelle). In mancanza di stelle il desiderio di conoscenza
dell’uomo ha trovato delle soluzioni tecnologiche, tracciare sulla parete di una caverna le
costellazioni è stata di fatto non solo arte rupestre ma artefatto cognitivo, in sostanza una
tecnologia, un'estensione della mente.
Così le mappe hanno svolto questa funzione di pre-visione del territorio, centrate sul suo
dominio (l’etimo di “territorio” corrisponde alla pertinenza e al dominio della terra), come
strumento privilegiato per la conquista del mondo.
Alla luce di queste considerazioni poniamo uno sguardo all’indietro, per delineare una
piccola storia della geografia, attraverso l’evoluzione stessa delle mappe, dalle prime cartografie
al GPS.
Una piccola storia della geografia: dalla Cartografia al GPS
Ad Anassimandro di Mileto (610 – 546 a.C.), filosofo ionico discepolo di Talete, si dice sia
dovuta una prima mappa del mondo. Si dice che Anassimandro abbia introdotto l’uso dello
gnomone, dopo averne appreso dai Babilonesi la funzione per segnalare, attraverso l’ombra, il
movimento solare. C’è un’ampia discussione su quale forma Anassimandro attribuisse alla Terra (se
sferica o cilindrica) ma fu il primo a tracciare uno schema (perimetron) del mondo, e pure il primo
a costruire un globo. È sopravvissuta fino a noi la mappa disegnata cinquant’anni più tardi da
Ecateo (550-475 a.C) e che egli stesso aveva definito come una copia di quella di Anassimandro.
Essa pone il mar Egeo al centro del mondo e distingue due continenti.
Già prima di tale epoca l’uomo aveva elaborato delle mappe. Ad esempio i pescatori
delle isole polinesiane preparavano delle mappe con canne intrecciate sulle quali posavano delle
conchiglie che servivano a indicare e segnalare la presenza di isole.
Mentre gli indiani d’America disegnavano le loro mappe sulle pelli di bisonte. I Babilonesi,
invece, usavano per tracciare le loro mappe le tavolette di argilla.
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Il più grande geografo dell’antichità è considerato Tolomeo, vissuto tra il 100 e il 175 d.C.,
che disegnò il mondo, all’epoca dell’impero romano, in modo estremamente preciso e
dettagliato. La sua opera è stata considerata valida fino al Rinascimento e ad essa si affidarono
Colombo, Vasco da Gama e Magellano nei loro viaggi di esplorazione. Il planisfero di Tolomeo è
una mappa del mondo così come si presume venisse visto e rappresentato nel II secolo d. C. dalla
Civiltà Occidentale. Venne realizzato sulla descrizione contenuta nel libro di Tolomeo, Geographia,
scritto nel 150 circa d.C. Sebbene le mappe autentiche non siano mai state trovate, la
Geographia contiene migliaia di riferimenti a varie parti del mondo, con in più le coordinate, le
quali hanno permesso ai cartografi di ricostruire la visione del mondo di Tolomeo, quando il
manoscritto venne riscoperto intorno al 1300 d.C.
Durante l’impero romano le carte geografiche e le mappe servivano soprattutto per il
controllo del territorio e nelle guerre. Nel medioevo le carte geografiche furono prodotte
soprattutto dai monaci benedettini: si trattava di mappamondi ed itinerari. A queste carte se ne
affiancavano altre usate per finalità nautiche, come la carta “pisana” del 1275, tracciata sulla
pergamena ricavata da una pelle di pecora.
La cartografia moderna nasce nel 1800 quando molte nazioni decidono di avviare uno
scambio di informazioni per poter redigere carte geografiche sempre più accurate. Anche la
geografia come scienza moderna nasce nel 1800.
I fondatori della moderna geografia sono considerati due tedeschi: von Humboldt,
naturalista ed esploratore a cui si attribuisce la nascita della geografia naturalista e Ritter
considerato il caposcuola dell’indirizzo storico-umanistico.
Le carte geografiche sono molto ridotte rispetto alla realtà. Se, ad esempio,
rappresentassimo una città con una carta della stessa dimensione del territorio cittadino, essa
sarebbe poco maneggevole e di conseguenza poco utile. Per conoscere le misure reali del
territorio rappresentato dalla carta si usa la scala di riduzione. La scala di riduzione è il rapporto che
esiste tra una lunghezza misurata sulla carta geografica e la corrispondente lunghezza reale sulla
superficie della terra. Ad esempio, se su una carta la distanza tra due città A e B è pari a 1
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centimetro e nella realtà tale distanza è di 250 metri (che sono pari a 25.000 centimetri) diremo che
la scala di riduzione della carta è di 1 a 25.000: cioè un centimetro sulla carta corrisponde a 25.000
centimetri della realtà.
Il planisfero rappresenta la superficie terrestre, divisa in due emisferi. Il termine
mappamondo (ossia mappa del mondo) è spesso usato anche per indicare il globo terrestre, che
è la rappresentazione della superficie terrestre su di una sfera anziché su un piano.
Le carte generali rappresentano un continente o una delle parti del mondo. Le carte
corografiche rappresentano uno Stato, o una singola regione. Le carte topografiche
rappresentano una città o un distretto con tutti i particolari.
La parola mappa, in origine sinonimo di carta geografica, è usata comunemente per
indicare le carte geografiche relative a territori ristretti ma realizzate in modo più schematico di
una carta topografica (p.es. mappa di una città, mappa del tesoro, mappa catastale ecc.).
Già a partire dai primi anni del Novecento si era diffusa la fotografia aerea e nel
Dopoguerra si era sviluppata l’aerofotogrammetria, ovvero l’uso della fotografia aerea per
eseguire misurazioni e rilievi. Questa sostituì gradualmente i rilevamenti terrestri, in quanto gli
aeroplani permettono di fotografare ampie aree simultaneamente. Dagli anni Novanta sono stati
creati a tal fine specifici programmi informatici detti GIS (Geographical Information System),
traducibile in italiano come Sistema Informativo Territoriale (SIT): un sistema di rappresentazione di
elementi della superficie terrestre su database computerizzato progettato per l’acquisizione,
immagazzinamento, analisi e visualizzazione di dati nello spazio. A differenza della cartografia su
carta, la scala in un GIS è un parametro di qualità del dato e non di visualizzazione. Il valore della
scala esprime le cifre significative che devono essere considerate valide delle coordinate di
georeferimento. Quando un Sistema Informativo Territoriale può essere utilizzato via Web viene
considerato un WebGIS. Tramite un software GIS, l’utilizzatore è in grado di visualizzare e
sovrapporre diverse carte tematiche di una determinata zona, garantendo la corrispondenza delle
coordinate geografiche, della scala e quindi delle distanze. I temi possono essere immagini, ad
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esempio foto aeree e satellitari (detti dati raster) o disegni, come le curve di livello, limiti geologici,
limiti amministrativi (detti dati vettoriali).
Le coordinate geografiche consentono di determinare la posizione sulla sfera terrestre,
fornendo i dati di latitudine e longitudine. Il primo valore è la latitudine, data dall’angolo formato
tra il piano dell’Equatore ed il piano del parallelo passante per il punto. La latitudine ha un range
da 0 a 90 gradi se ci troviamo a nord dell’equatore (come l’Italia) e da 0 a 90 a sud, nelle
indicazioni delle coordinate gps è convenzione usare anche i segni + per i gradi a nord e – per i
gradi a sud; inoltre nel caso di latitudine nord si può omettere il segno. Il secondo valore esprime la
longitudine vale a dire la distanza angolare tra il meridiano del nostro punto ed il Meridiano di
Greenwich. La longitudine può assumere valori da 0 a 180 ad est del meridiano di Greenwich e
analogamente da 0 a 180 ad ovest. Come per la latitudine si può indicare con un valore positivo la
longitudine est e con un segno negativo la longitudine ovest, in questo caso i valori positivi
vengono assegnati ai punti posizionati ad est (simile al fuso orario) seguendo il movimento
antiorario della terra.
Il GPS o Global Positioning System, è un ulteriore metodo di acquisizione delle coordinate
geografiche,
nel
nostro
caso,
dei
punti
di
interesse
del
sito
indagato
attraverso
la
georeferenziazione, con la propria latitudine, longitudine e quota. Per avere il geotag (il dato della
codifica georeferenziata) servono almeno 4 satelliti visibili. Le coordinate gps possono essere
espresse con diverse notazioni (oltre al segno + e – in sostituzione di nord e sud ed est ed ovest).
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2. Glocalmap, il primo geoblog
Nel 2005 si aprì un cantiere di progettazione culturale, in vista delle Olimpiadi di Torino 2006,
per mappare le azioni che si sarebbero svolte durante quella manifestazione. Si utilizzò il database
del Catasto di Torino (uno dei primi casi di opengeodata in Italia), fatto girare su una piattaforma
web integrata ad un CMS (Content Management System) per svolgere attività di blogging, in pieno
spirito web 2.0.
Si chiamava glocalmap.org e si sviluppò quando googlemaps non era ancora apparsa
sugli schermi e quando arrivò faceva ciò che Google non permetteva di fare: scrivere dentro le
mappe, o meglio, con un bel gioco di parole, scrivere storie nelle geografie.
Quell’esperienza portò alla definizione di geoblog, un neologismo che ora non è solo
presente nel Dizionario specialistico Treccani “Scienza e Tecnica” ma è stato acquisito
nell’Enciclopedia Treccani nell’ambito del Lessico del XXI secolo.
Il geoblog attua l’interazione tra la mappa del territorio e quelle scritture che lo rivelano, lo
narrano, lo descrivono.
Le scritture possono anche essere multimediali per evidenziare le caratteristiche di
un’azione che si svolge nel territorio stesso. Nelle geografie dei luoghi, formalizzate nelle mappe on
line, si potranno così inserire notazioni che danno forma ad uno sguardo itinerante che interpreta
sia il genius loci (la peculiarità dei luoghi, in stretta relazione con la loro valenza originaria, mitica e
culturale) sia iniziative che riguardano ambiti come l’urbanistica partecipata, il turismo
esperienziale e la cittadinanza educativa.
L’ambito più emblematico è appunto quello della cittadinanza educativa perché non
riguarda solo il contesto della educazione scolastica ma si estende alle pratiche ludiche e creative
del cosiddetto urbanismo tattico per dare forma alla partecipazione senziente dei cittadini che
intendono contribuire ai progetti di rigenerazione urbana. Ma anche quelle di un turismo
esperienziale che si coniuga, nel momento in cui verte verso modalità sostenibili e responsabili, con
le diverse espressioni di cittadinanza attiva, per coinvolgere in avventure di innovazione territoriale
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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turisti e viaggiatori (si pensi ai pellegrini della Via Francigena, dorsale culturale e non solo religiosa
d’Europa, per cui si sono sviluppati dei geoblog). Casi emblematici di esperienze web 2.0 che
rilanciano gli sguardi di cittadini e viaggiatori che esplorano insieme un territorio, perché possa
rivelarsi in modo innovativo.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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3. L’apprendimento dappertutto
Quanto
è
importante
imparare
a
imparare:
attivando
quella
forza
motrice
dell’apprendimento che comporta un’alimentazione continua dell’attenzione, della curiosità e
conseguentemente della selezione e della produzione di senso, come nel geoblogging.
Definiamo questo processo apprendimento dappertutto, una modalità che comporta un
nuovo sguardo sollecitato da tecnologie abilitanti.
L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma
nell’avere nuovi occhi
Marcel Proust
Il punto è proprio qui: nell’interazione tra web e territorio, attuando format di performing
media come il geoblog, capaci di attivare nuove forme dell’attenzione, della partecipazione e
dell’apprendimento.
Si tratta di progettualità avviate da Urban Experience che usano smartphone e mappe
interattive, esplicitando le potenzialità di storytelling del web integrate con eventi ludicopartecipativi di azione nel territorio, secondo un ambito articolato di progettazione e azione che
viene definito performingmedia storytelling.
Emblematico in tal senso è stato Paesaggi Umani un progetto che coniuga le memorie orali
con i linguaggi multimediali per sollecitare un'esperienza di esplorazione del territorio (in tutta Italia,
dal Piemonte alla Basilicata e in particolar modo a Roma, dappertutto, da Monte Mario alla
Prenestina). Attraverso una mappa web i più giovani (dai bambini delle elementari ai ragazzi dei
licei) hanno seguito, in una serie di esplorazioni partecipate radionomadi definite walkabout, i
percorsi narrati dai più anziani (rilevati via smartphone e ascoltabili via radio, con un particolare
sistema di radio-riceventi, il sistema whisper) promuovendo scambio intergenerazionale per una
palestra di empatia che di fatto ha esplicitato il significato preciso di heritage, troppo spesso
associato esclusivamente al patrimonio dei beni culturali, mentre la traduzione precisa è “eredità”:
il valore fondante lo scambio tra generazioni.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
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È importante contestualizzare qualsiasi processo culturale ed educativo come scambio tra
generazioni, magari condividendo uno sguardo sul territorio, scoprendo (e riscoprendo) insieme i
luoghi topici di una comunità.
Questa modalità di esplorazione associata alla conversazione errante (grazie ai sistemi
radio e agli smartphone) permette così di attuare apprendimento dappertutto, attivando una
forma inedita e coinvolgente di cittadinanza educativa che si apre a molteplici applicazioni,
producendo mappe esperienziali che contribuiscono a dare forma alla partecipazione e
qualificano i processi d’innovazione sociale.
Un processo che per altri versi è stato definito di urbanismo tattico che deriva dalla cultura
delle avanguardie, dalla poetica del flâneur surrealista, all’approccio situazionista delle derive
psicogeografiche e dei blitz degli Indiani metropolitani diretti ispiratori dei walkabout di Urban
Experience, le conversazioni nomadi-esplorazioni partecipate “con i piedi per terra e la testa nel
cloud”.
La mappa parlante
Far parlare le città, camminandole e rilanciandone le conversazioni erranti via radio (iperlocale, con radio-cuffie, e al contempo globale con lo streaming via webradio) che le esplorano,
lasciando le tracce georeferenziate.
È la mappa parlante messa a punto da Urban Experience dal 2018 dopo 15 anni di
esperienza di geoblogging che ha di fatto inaugurato una modalità di performing media che ha
fatto scuola.
È una sorta di laboratorio di urbanità tattica itinerante che vede coniugare il format del
walkabout, l’esplorazione partecipata radionomade, e l’elaborazione di mappe interattive che s’è
definito geoblog già ai tempi delle Olimpiadi Torino2006. Ciò rappresenta quella peculiarità di
scrivere storie nelle geografie, che lascia l’impronta georeferenziata delle esperienze esplorative
perché possano tracciare itinerari da ripercorrere.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
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Le esplorazioni partecipate in giro per la città, basate sull’utilizzo di sistemi whisper-radio
(secondo il format del walkabout) che permettono di conversare camminando, quando vengono
trasmesse in streaming web-radio (su www.radiowalkabout.it) lasciano sulla mappa nel web una
scia che rimarrà permanente come podcast audio da riascoltare come memoria documentale
dell’esperienza itinerante. Cliccando sui punti attivi del geoblog si ascolteranno così i “paesaggi
umani” in podcast, delineati sia dai protagonisti dei territori sia dagli spettatori-cittadini attivi che
esplorando un luogo esplorano se stessi.
Si tratta di pratiche (come quelle attraverso App che gestiscono podcast georeferenziati,
come Loquis) che inscrivono l’uso delle reti nell’azione di comunicazione attraverso il territorio, che
è una delle prerogative dell’ambito di ricerca sul performing media. Sottende quella creatività
sociale capace di interpretare l’uso delle reti e dei nuovi media interattivi.
Performing media è infatti ciò che concerne questa tensione creativa per l’utilizzo
strategico delle reti e in particolare la progettazione delle interazioni possibili tra web,
multimedialità e territorio, creando le condizioni abilitanti per dimensionare le tecnologie ad un
valore d’uso sociale e culturale, secondo i principi dell’innovazione adattiva.
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Indice
1.
GLI EXPERIENCE LAB DI CO-PROGETTAZIONE PER L’URBANISMO TATTICO ...................................... 3
2.
IL WALKABOUT, ESPLORAZIONE PARTECIPATA RADIONOMADE ....................................................... 8
3.
IL PERFORMING MEDIA STORYTELLING ............................................................................................ 10
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 13
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1. Gli Experience Lab di co-progettazione per
l’urbanismo tattico
Urban experience non è solo un concetto ma anche un’associazione che ne promuove le
metodologie, nata nel 2008 a Roma e che affonda le radici nei primi blog degli anni Novanta e in
particolare nel geoblogging inventato per le Olimpiadi di Torino 2006. È importante cogliere nel
background di Urban Experience anche un percorso creativo che deriva dai progetti apripista
della radiofonia d’avanguardia e del videoteatro negli anni Ottanta.
Ciò che è importante sottolineare in questa esperienza è che può essere considerata
paradigmatica per quanto riguarda il concetto di innovazione adattiva. Analizzare le modalità
dell’urban experience ci viene in aiuto nel considerare il fatto che è possibile riequilibrare le
dinamiche dell'offerta tecnologica in virtù della domanda, attraverso il valore d’uso tecnologico
da parte di cittadini che affinano la loro conoscenza del territorio associandola alle nuove
competenze multimediali, esercitate con un approccio ludico-partecipativo, per esplorarlo,
narrarlo e progettarlo in possibili azioni di rigenerazione urbana.
Le modalità di urban experience sono, infatti, rivolte principalmente ad una serie di format
ludico-partecipativi che rientrano nel concetto ampio di performing media storytelling rivolte ad
una molteplicità di ambiti, quelli di: cittadinanza educativa, smart community, resilienza urbana,
delle strategie per l'innovazione territoriale (con particolari riferimenti al turismo esperienziale), la
mobilità dolce, l'art thinking (l’arte del pensiero dell’arte, nella dinamizzazione del pensiero dell’arte
contemporanea nei contesti architettonici), la social innovation (attraverso iniziative tese a
promuovere staffetta intergenerazionale per un'interazione tra la memoria dei più anziani e
competenze digitali dei più giovani), l’open innovation, la nuova spettacolarità interattiva e
l’azione crossmediale per attivare un valore d'uso creativo dell’interconnessione, per reinventare
spazio pubblico tra web e territori.
Sia il termine urban experience sia performing media appaiono sulla Enciclopedia Treccani.
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I format di urban experience vengono articolati sulla base di una sequenza che può valere
come metodologia interpretabile nei più vari contesti.
Un particolare intervento che sta a monte di tutto il processo di indagine-esplorazione e di
co-progettazione, quello definito Experience Lab.
Un laboratorio esperienziale che introduce le diverse azioni, raccogliendo input sui contesti
territoriali dove si andrà ad operare, secondo un principio bottom up che caratterizza tutta questa
progettualità tesa a dare forma alla partecipazione.
Un primo tratto riguarda l'individuazione dei percorsi da intraprendere con le esplorazioni,
contattando stakeholder e cittadini da coinvolgere attivamente.
A questo punto si parte con le esplorazioni per misurarsi con il contesto territoriale, sulla
metodologia definita apprendimento dappertutto, guardandosi intorno, raccogliendo storie lungo il
percorso. Questa azione è di fatto il fulcro di tutta l’operazione: il walkabout, l’esplorazione
partecipata radionomade. Una modalità su cui si concentra l’attività di sguardo partecipato che è
la matrice di tutta la poetica-politica dell’urban experience. Un’esplorazione che si rivela un
esercizio creativo che rientra di fatto anche nella definizione di urbanismo tattico, per cui il porre
attenzione alle criticità e alle opportunità dei paesaggi urbani può contribuire a un re-design della
città, sulla base dei bisogni e dei desideri dei cittadini attivi.
Fondamentale, come risultante dell’attività di indagine esplorativa, è l’instant blogging per
produrre agili report (usando i social media, twitter e facebook in particolare, senza escludere
instagram, con dirette video e foto) per rilevare informazioni e immagini lungo il percorso,
individuando le parole chiave.
Oltre a questa attività di reporting sul campo c’è quella del geoblogging che di fatto era
stata realizzata durante il walkabout di esplorazione. Una prerogativa di quel format di
conversazione radionomade è quella di trasmettere in diretta web-radio il flusso del confronto nel
corso della passeggiata, questo segnale viene georeferenziato e quindi diventa l’elemento
costitutivo del geoblog prodotto automaticamente con la traccia del percorso svolto. Ne risulta
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una mappa parlante su cui si può cliccare sui vari punti (su cui vengono caricate anche delle foto
scattate durante l'azione) e così ascoltare le voci dei partecipanti al walkabout di esplorazione.
Sia il reporting sia il geoblogging sono così utili all’attività di rilevazione dei concetti raccolti
dall'indagine sul campo. Una volta rilevate le tag più pertinenti, le hot word su cui far orbitare
l’attività di performing media storytelling, si possono creare le condizioni per indirizzare l’attività
conseguente che può avere come obiettivo quello della redazione di un masterplan, il
documento di indirizzo strategico che sviluppa un'ipotesi complessiva di programmazione
urbanistica di un territorio.
Il brainstorming esperienziale è a questo punto l’ambito in cui “distillare” queste parole
chiave-tag, in una discussione condotta sia attraverso piccoli gruppi tematici sia in assemblea.
L’attività di confronto è dinamica, condotta con un ritmo teso a non addensarsi in interventi di
analisi troppo strutturata, per riuscire a coinvolgere il più possibile i cittadini delle comunità
territoriali.
Il brainstorming, fondato sui principi del design thinking e dell'intelligenza connettiva, distilla
l'attività di esplorazione, di instant reporting e l'individuazione delle pertinenze tematiche (le criticità
e le opportunità) e delle forze in campo (i protagonisti del territorio, gli stakeholder).
A questa attività si brainstorming si combina un esercizio di creatività connettiva, attraverso
un particolare utilizzo dell’instant blogging di twitter
con una fase di visual thinking per la
visualizzazione delle idee in gioco che permette una migliore individuazione delle parole chiave.
Sono almeno tre le modalità principali. Una è quella di videoproiettare una tag cloud, la nuvola
delle tag, rilevate dai tweet prodotti, utilizzando particolari applicazioni web, come visible tweet,
che estraggono automaticamente i tweet associati a predefinite hashtag che così permettono di
orientare i messaggi più pertinenti. Un’altra è quella dell’action writing con l’intervento di un
copywriter competente, affinato ai temi in oggetto e abile a scrivere, o a disegnare, o meglio
ancora a scrivere disegnando su grandi fogli applicati alle pareti, o su grandi lavagne, per
ricostruire, in una sorta di mappa concettuale, le parole chiave che fluttuano nella discussione.
Un'altra ancora è quella, spesso adottata nei tavoli dei diversi gruppi di lavoro, di utilizzare i piccoli
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fogli degli appunti, o i post-it adesivi, per raccogliere le scritture immediate dei partecipanti al
brainstorming. Tutte queste modalità possono interoperare tra di loro.
Il risultato è quello di comporre una “quarta parete” (concetto che deriva dal teatro
brechtiano): oltre le tre pareti della scena ce n’è una quarta, quella dello spettatore che diventa
protagonista dell’operazione senziente in cui si ricombina collettivamente il senso generale e
prismatico (le varie riflessioni da angolazioni diverse) prodotto dal brainstorming.
L’experience lab, sulla base di tutti gli input distillati e poi elaborati, può convergere verso la
co-progettazione di una prossima azione d'impatto pubblico, da considerare come eventohappening di restituzione dell’attività di brainstorming. Questo walkabout finale può ricombinare
tutte le idee emerse, mettendole in campo, in cammino, attraversando i territori in oggetto
nell’attività di indagine.
Una buona soluzione da adottare in quest’ultimo walkabout è quello di predisporre dei
cartelli da affiggere lungo il percorso, elementi che possano svolgere la funzione di segnaletiche
temporanee. Questa attività è definita mobtagging , nei cartelli vengono stampati dei qrcode
(definiti anche mobtag), dei codici digitali bidimensionali, che trasferiscono allo smartphone input
come dei link, dove trarre informazioni pertinenti il percorso. Una buona pratica è quella di linkare
pagine web con risorse audiovisive, magari da far ascoltare nelle radio-cuffie di cui sono muniti i
partecipanti del walkabout. Meglio ancora quando quei link rimandano ai vari podcast audio
della mappa parlante, facendo ascoltare le voci degli stakeholder e dei cittadini coinvolti. In
questo caso vengono anche definite segnaletiche parlanti.
Un’altra soluzione di performing media da adottare, in contesti serali, quando il buio
permette di visualizzare le proiezioni luminose, è quello delle videoproiezioni nomadi che
supportano il walkabout con immagini pertinenti i percorsi, con evocazioni parallele e rimandi
all'immaginario filmico (come proiettare “Accattone” di Pasolini lungo le strade del Pigneto, sui
luoghi-location del film più di mezzo secolo prima). Questo tipo di intervento ha una sua valenza
particolare di impatto spettacolare e cognitivo al contempo, inscrive le immagini all’interno del
contesto urbano o ambientale (come proiettare un dettaglio emblematico all'interno di un
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affresco o far affacciare alla finestra un particolare personaggio). Un principio evocativo che
innalzi l’attenzione dei protagonisti del performing media storytelling che si compone come
restituzione dell’experience lab, con le voci e i suoni che arrivano via radiocuffia e le immagini che
scrivono con la luce, sui muri dei palazzi o tra le fronde degli alberi, una narrazione video
convergente.
A ricomporre il tutto, come complessiva restituzione dell'experience lab, è fondamentale un
report sul blog di riferimento del progetto di innovazione territoriale, per delineare le dinamiche (dal
walkabout di esplorazione a quello di restituzione, passando per il brainstorming della distillazione
delle idee rilevate per rivelarle infine sul campo) del cantiere di co-progettazione sociale e
culturale e magari orientare i futuri, possibili, master plan.
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2. Il walkabout, esplorazione partecipata radionomade
Walkabout significa “cammina a tema” ed evoca il viaggio rituale che gli Australiani
Aborigeni intraprendono attraversando a piedi le distese dell’outback, le aree interne più remote
che si estendono in quelle semi-desertiche del bush. Il termine fu coniato dai proprietari terrieri
bianchi australiani per riferirsi agli Aborigeni che sparivano dalle loro proprietà, e dei quali si diceva
“gone walkabout” (andato in walkabout).
Nell’urban experience il concetto di walkabout gioca la definizione talkabout (parlare di...),
rilanciando così le esplorazioni urbane che coniugano cose semplici come passeggiate e
conversazioni con le complessità inedite del performing media storytelling, in cui la narrazione è
inscritta nell'azione grazie al flusso radiofonico e all'instant blogging via twitter.
Queste conversazioni nomadi, caratterizzate dall’ausilio di smartphone e cuffie collegate
ad una radioricevente (whisper radio), permettono di ascoltare le voci dei walking-talking heads e
repertori audio predisposti. Questo flusso radiofonico errante può anche essere trasmesso in
streaming via web-radio e poi registrato, georeferenziato e ascoltabile su www.radiowalkabout.it.
Si tratta di palestre di cittadinanza attiva in cui si conversa “di fianco” mentre ci si guarda
intorno, apprendendo dappertutto per attivare dei laboratori dello sguardo partecipato ed
esplorazioni psicogeografiche. Esercizi poetici e politici di resilienza urbana, attraverso i performing
media di whisper-radio, geoblog e smartphone.
Protagonisti dell'azione ludico-partecipativa sono gli spettatori-cittadini attivi che si mettono
in gioco attraversando uno spazio urbano o qualsiasi altro territorio, anche contesti espositivi, da
esplorare passeggiando, superando la didatticità delle visite guidate.
Una strategia dei walkabout è quella di attivare palestre dello sguardo, per cogliere i
dettagli dell'ambiente che si attraversa e interpretarli, per input di pensiero laterale, lungo la
conversazione peripatetica.
Un approccio che trova un background nello sguardo poetico del flaneur surrealista, nella
psicogeografia situazionista, nei blitz erranti degli indiani metropolitani, nelle smartmob teorizzate
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da Rheingold, mentre oggi si emancipa dalle intuizioni dell'avanguardia per esprimere format
resilienti d'innovazione sociale.
Il principio di efficacia è nella rivelazione del conversare “di fianco” rispetto al solito parlare
“di fronte” dove ci si rappresenta, sfidando lo sguardo degli altri. Si condivide un cammino e il
parlare trova un suo andamento, sollecitando partecipazione e sottraendo rappresentazione.
Insieme alle voci itineranti si ascolteranno in cuffia paesaggi sonori e insert audio pertinenti (come
le memorie orali di cittadini anziani o estratti di repertori documentali) attraverso l'uso degli
smartphone.
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3. Il performing media storytelling
Viaggiamo dentro noi stessi quando ci ritroviamo in luoghi che ci ricordano cosa
cerchiamo…
C’è una frase di Tolstoj che può ben definire il principio attivo che sta a monte dei processi
del performing media storytelling: “Se descrivi bene il tuo villaggio parlerai al mondo intero”. È
netta, precisa ed evocativa. Fa capire quanto sia importante essere consapevoli della propria
identità e allo stesso tempo cercare di misurarci con il mondo tutto, senza rimanere prigionieri nella
propria memoria, per liberare un’energia di innovazione culturale decisamente glocal.
La differenza dallo storytelling di cui tanto ormai si parla è nell’ibridazione narrazioneazione, facendo direttamente “parlare” i territori, creando le condizioni abilitanti, ludiche e
partecipative, per mettersi in sintonia con il genius loci mentre lo si esplora o lo si assaggia,
operando su format di performing media che vanno oltre il dato di rilevazione delle storie per
rivelarle nelle geografie che si abitano, sia stabilmente sia in via temporanea.
È questo uno dei temi caldi per quella ricerca d’innovazione territoriale che attraverso i
format di performing media trova il suo fulcro nei walkabout, le conversazioni nomadi che grazie ai
sistemi whisper-radio permettono di sollecitare un confronto connettivo mentre si passeggia, in un
flusso peripatetico espanso in una diffusione radiofonica partecipativa (diffusa, spesso, in streaming
su web-radio) in giro per le città e i territori. Sciamando per strade e sentieri si cerca la sintonia
giusta con le piccole storie delle comunità, in un rapporto fisico, performativo e connettivo,
attivando una partecipazione senziente, ludica e sodale: resiliente.
Si tratta di “accendere lo sguardo” quando si esplora l’ordinario urbano, attraversando
luoghi che spesso si è convinti di conoscere a fondo. Una delle chiavi che vi si adotta è quella di
“girare la zolla” se non “scavare” per cogliere le stratificazioni storiche, sollecitando una memoria
attiva che operi con il metodo dello sguardo partecipato. È di questo che da anni si tratta per
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accendere i processi partecipativi per l’innovazione sociale e la rigenerazione urbana per rivelare,
e non solo rilevare, i paesaggi umani degli ecosistemi urbani.
Buona parte di questa attività trova una sua restituzione nel web, attraverso i geoblog
definiti anche mappe esperienziali.
In particolare le mappe interattive (inventate, nell’ambito delle Olimpiadi Torino 2006, prima
di googlemaps) rappresentano la peculiarità di scrivere storie nelle geografie, lasciando
l’impronta, taggando, esperienze di esplorazione perché possano tracciare itinerari da ripercorrere
in operazioni anche orientate verso il turismo esperienziale e, in senso lato, in relazione a ciò che
riguarda l’edutainment e più in particolare ciò che riguarda l’apprendimento dappertutto.
Questi particolari processi, che rappresentano l’insieme delle diverse modalità inscritte nella
strategia del performing media storytelling, possono creare una filiera creativa che dai walkabout
passa ai geoblog, alla videoproiezione nomade (quando alle conversazioni peripatetiche si
combina una videoproiezione itinerante, per ritagliare visioni sui paesaggi urbani) e poi concepire
un’attività di segnaletica performativa con particolari targhe segnaletiche basate sull’uso di
mobtag (detti anche qrcode) che linkano a pagine web in cui trovare (e magari ascoltare) storie
inscritte nelle geografie, in prossimità dei luoghi dove sono state raccolte.
Si cammina per i luoghi e si pesca dal cloud i riferimenti che sollecitano l’attenzione e
invitano a porre lo sguardo su alcuni dettagli. È un buon modo per rilevare informazioni-emozioni
mentre si esplora un territorio e così rivelare il genius loci espresso dalle voci degli abitanti.
Il performing media storytelling comporta delle azioni performative, condizioni che trovano
un background nella ricerca sul paesaggio sonoro e nella radiofonia sperimentale di decenni fa,
per un coinvolgimento diretto dei portatori di storie in una stretta interazione con i nuovi media
interattivi e mobili di per sé performanti.
In tanti oggi parlano di storytelling delegando all’uso dei social network la funzione di mero
riverbero web di ciò che accade nell’esplorazione partecipata, ignorando la potenzialità
dell’azione diretta, progettata secondo principi di urbanismo tattico.
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Qui si tratta di andare oltre il dato automatico dello sharing su facebook o twitter per
attivare processi di coscienza partecipativa, fisica ed empatica, che sappia giocare con i media
interattivi e mobili in una condizione esperienziale con i “piedi per terra e la testa nel cloud”,
coniugando web e territorio, il reale con il digitale.
Il performing media storytelling comporta questa scommessa culturale: trovare il modo per
mettere in relazione memoria-reti-territorio attraverso l’azione partecipativa, sollecitata da quelle
particolari condizioni abilitanti che possano esplicitare il rapporto con tecnologie da usare
(inventando valori d’uso creativi) fino a farle diventare linguaggi a tutti gli effetti. E
conseguentemente modalità performanti per sollecitare reciprocità con gli spettatori-cittadini,
secondo i principi del cosiddetto Audience Development inteso come sviluppo progressivo dello
spettatore attivo.
Sì, è proprio dando forma ad un pensiero globale – inscritto negli scenari della radicale
transizione in atto, contemplando un ripristino dei rapporti originari tra natura e cultura – innervato
nell’azione locale, rilevando le peculiarità dei territori e rivelando genius loci, che si può attivare
uno storytelling sostanziale e non solo superficiale (con il surf sui social) capace di fare e pensare
innovazione territoriale. Una strategia che contempla l’innovazione sociale centrata sulla
partecipazione attiva e l’inclusione, secondo i principi della smart community e il design for all
(rivolto all’accessibilità universale).
Una ricerca che va fuori e dentro sé alla ricerca delle matrici sia del proprio essere sia del
divenire sociale, esplorando Paesaggi Umani e praticando esercizi creativi di resilienza per creare
le condizioni per attuare quell'innovazione adattiva che converta l’avanzamento tecnologico in
opportunità evolutiva.
È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se
esistono li vedo. La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo
non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo. Fernando Pessoa da “Il libro dell’inquietudine”
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante- Web come nuovo spazio pubblico
Indice
1.
LE DINAMICHE DELLA CONSAPEVOLEZZA SOCIALE ........................................................................... 3
2.
IL RISCHIO DELLE ANIME COLONIZZATE DAI GRANDI PLAYER DEL WEB ............................................ 6
3.
LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA ..................................................................................................... 10
4.
DICHIARAZIONE DEI DIRITTI IN INTERNET ........................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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Carlo Infante- Web come nuovo spazio pubblico
1. Le dinamiche della consapevolezza sociale
Lo spazio pubblico è il luogo in cui si esplicita la condivisione della nostra consapevolezza
sociale. È un luogo, fisico ed oggi anche digitale, connotato dall’uso collettivo, in quanto bene
comune, dove tutti hanno la possibilità di stare e interagire. È uno spazio aperto della comunità
che si differenzia dallo spazio privato, personale, intimo o familiare. Nei secoli, nonostante le
dittature, la nozione di spazio pubblico si è estesa fino a comprendere ogni spazio collettivo nel
quale si esercitano i diritti/doveri di cittadinanza, d'informazione, di azione politica.
L'evoluzione dello spazio pubblico ha di fatto scritto la storia delle città: la polis dell'antica
Grecia con l’invenzione dell’agorà, il Foro Romano e le straordinarie vie consolari, le piazze
medioevali come luoghi di scambio commerciale e fulcro dell'identità dei primi Comuni, le piazze
barocche del Seicento romano, i boulevard di Parigi progettati da Haussmann, il Central Park a
New York e oggi il web, spazio pubblico immateriale.
Nello spazio pubblico si mette in gioco la nostra consapevolezza sociale che non è mai un
dato scontato, visto che si sviluppa sulla base di alcune prerogative in particolari contesti.
Dovremmo infatti riflettere che si basa su una serie di ambiti: la famiglia, la cerchia degli amici e
dei coetanei, il sistema educativo, dalla scuola all’università, il contesto lavorativo e i media.
Oggi nell'era dell'interconnessione, con i social media che hanno potenziato l’influenza
della cerchia degli amici in una sorta di “bolla” che pervade gran parte dei comportamenti
sociali, lo scenario è cambiato.
Famiglia, lavoro e sistema educativo sono nettamente in secondo piano rispetto agli
andamenti attrattivi del connubio tra media e sfera amicale. Con la fine della società di massa, gli
ambiti produttivi e quelli educativi non sono più alveo di conflitto sociale, in cui si concentrarono
moti aggregativi e identitari. Quel mondo è in via di esaurimento, gli scenari produttivi sono ormai
molecolarizzati e quelli educativi si stanno ancora riconfigurando in un tempo contraddistinto dalla
indeterminatezza dei ruoli, a tal punto da individuare più competenza tra i giovani studenti che tra
gli adulti docenti rispetto all’innovazione digitale che sta dettando il suo tempo al mondo.
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L’uso dei social network, così presente nella pratica quotidiana, è talmente pervasivo da
confondere spesso i piani di realtà, tra la dimensione digitale e quella fisica. Stiamo assistendo al
potenziamento di una parte della nostra identità, quella digitale che interagisce quotidianamente
con altre identità digitali in una tale quantità di comportamenti senza qualità che fino a qualche
decennio fa erano impensabili.
Di fronte a questi schermi, che molto spesso portiamo anche in tasca, svolgiamo funzioni
molto più evolute rispetto a quelle che si esprimevano di fronte al mass media televisivo, in cui si
consumavano solo, informazioni e visioni. Oggi siamo prosumer, cioè produttori e consumatori delle
informazioni che elaboriamo anche automaticamente: con un clic sul like e uno per la
condivisione, produciamo un atto completo di comunicazione pubblica, in meno di 2 secondi.
Le nostre identità digitali si andranno a comporre nel tempo, con la somma delle tracce
lasciate nella rete, senza controllare più di tanto la nostra immagine pubblica.
L’identità digitale sarà sempre più integrata nel processo di apprendimento all’uso del web
ma non sarà solo un prodotto delle informazioni pubblicate sui social media, ma anche dalle
informazioni che rilasciano i nostri dispositivi digitali automaticamente, a nostra insaputa. Come
quando lo smartphone rende pubblica la nostra geolocalizzazione quando utilizziamo Google o
altre applicazioni.
È quindi decisivo essere consapevoli dell’uso delle nuove tecnologie per non essere usati
dai loro automatismi, solo a quel punto potremo esercitare al miglior grado il web come spazio
pubblico, come ambito di libera espressione e migliore auto-organizzazione sociale. La possibilità di
associare le identità digitali nel web all’azione negli spazi pubblici potrà offrire nuove opportunità
alle comunità territoriali per condividere meglio i loro ecosistemi. Sarà importante creare dei social
network locali per favorire la comunicazione tra gli utenti che condivideranno gli stessi spazi, sia
fisici sia web, smarcandosi dai social network massivi delle imprese multinazionali.
Associare quindi le identità digitali ai luoghi di residenza, aprirà nuove frontiere alle
dinamiche di comunicazione in scala iper-locale, catalizzando nuovi processi di co-progettazione
degli spazi pubblici di un territorio, valorizzandone le sorti.
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Il risultato sarà la qualificazione dei processi di cittadinanza educativa e di innovazione
sociale, emancipando le dinamiche partecipative verso soluzioni di governance come la
democrazia diretta e la sussidiarietà in stretta correlazione con le istituzioni territoriali, inverando ciò
di cui stiamo trattando: fare del web uno spazio pubblico.
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2. Il rischio delle anime colonizzate dai grandi player
del web
Da sempre la tecnologia ha distrutto vecchie configurazioni per crearne delle nuove. Nella
combinazione tecnologica tra informatica e telematica si aprì, già negli anni Ottanta, un fronte
progressivo che nell’arco di un decennio portò alla nascita del web. Oggi è in corso una
rivoluzione che non è più solo tecnologica ma sociale, sta costituendo l’evento più rilevante del
nuovo millennio.
Howard Rheingold, uno dei maggiori scenaristi delle culture digitali, tratta di questo
fenomeno come un nuovo rinascimento, ma individua allo stesso tempo i rischi di “anime
colonizzate” dall’invadenza dei grandi player di questa rivoluzione. Soggetti d’impresa globale
come Google, Facebook, Amazon stanno dominando a tal punto da creare processi di grave
condizionamento di questi comportamenti sociali.
Le tecnologie digitali sono una promessa che non può colmarsi da sola, sta a noi e alle
forme di organizzazione civile che esprimiamo cercare di interpretarne la potenzialità senza subire
l’impatto di un’offerta tecnologica che ci condiziona.
Lo sviluppo del web nei primi anni Novanta creò una tale espansione della base dell'utenza
in rete grazie alla gratuità del servizio, un andamento che gonfiò a dismisura la new economy,
alimentando un sistema che si inventò un mercato dal nulla, in tempi velocissimi. Ma era tutto un
gioco di posizionamento nelle Borse internazionali, un'economia senza economia reale, basato sul
rapporto squilibrato tra società e mercato. Quella bolla economica scoppiò, producendo una crisi
che però creò poi le condizioni per la nascita del web 2.0, alimentato dalla spinta partecipativa
dei blog. Si percepì allora un piano di riequilibrio tra il mercato dell'offerta tecnologica e la società
della domanda sociale ed evolutiva.
Una condizione interessante che non fu interpretata con l’opportuna intelligenza politica
dalle istituzioni, lasciando di nuovo tutto in mano al mercato del libero scambio, senza innescare
politiche adeguate per qualificare il valore d’uso degli utenti.
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Si stava diffondendo l'idea di un sapere eticamente motivato capace di individuare la
chiave per sviluppare, in modo compatibile alla nostra evoluzione, la società dell'informazione.
Si trattava di fare di quel nuovo modello di sistema economico impostato sulla transazione
di informazioni qualcosa che avrebbe soppiantato la società industriale. Il modello industriale
aveva al suo centro la trasformazione delle materie in merci, la loro distribuzione e il conseguente
consumo, attraverso un lavoro fisico e meccanizzato. Allora era tutto chiaro: il capitale e il lavoro,
ciascuno al suo posto.
Nella società dell’informazione la fluidità dell’economia crea altri percorsi del valore:
prende forma il processo per cui le informazioni non si faranno merci se le si consuma e basta, ma
dovranno entrare in un circolo virtuoso che le riproduca, usandole, rielaborandole. Con il web 2.0
emerge la figura ibrida del prosumer, il produttore-consumatore di informazione. È in questa
dimensione che si collocano movimenti di ricercatori, webmaker e protagonisti di un nuovo modo
di lavorare attraverso la tecnologia, i knowledge worker. Soggetti mobili e nobili d'animo, disposti a
non essere più solo avanguardia come era già accaduto nella storia del Novecento, erano alfieri
di una innovazione tecnologica che di fatto si stava rivelando antropologica. Cambiavano non
solo le tecnologie ma i linguaggi e i comportamenti.
L'avanguardia non era più possibile, il mondo andava troppo veloce. A quella parola si
sovrappose un’altra parola, innovazione. In questo nuovo flusso di opportunità si cambiava il passo,
la velocità era sì fuori, nell’accelerazione tecnologica, ma anche dentro, come percezione
accesa, tensione creativa da tradurre in valore, in ritmo evolutivo.
Senza correre, mantenendo salda la propria sfera emozionale e creativa, sfuggendo ai
sistemi di omologazione, come delle unità mobili intelligenti, come suggeriva Robert Fripp dei King
Crimson.
Emergeva una nuova qualità umana sollecitata da una rivoluzione digitale che si
espandeva a dismisura attraverso nuovi habitat produttivi affollati di smartphone, tablet, personal
computer, console di videogame, reti telematiche. Una nuova potenzialità degli utenti che
tendevano non solo a trasformarsi in soggetti culturali ancora più attivi, ma in progettisti di nuove
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imprese come le start up. Si stavano creando insomma le condizioni per fare del web un nuovo
spazio pubblico in cui i lavoratori della conoscenza stavano tracciando percorsi da modellizzare,
andando oltre il dato della sperimentazione, per impattare con i vari asset istituzionali del sistema
educativo e della governance nonché tutti i comparti produttivi delle imprese da re-ingegnerizzare
attraverso metodologie come l’open innovation.
Emergeva una nuova cultura d'uso delle tecnologie promossa dall'interazione serrata tra i
sistemi della comunicazione partecipativa e l’arsenale di tecnologie digitali da utilizzare con
applicazioni tutte da inventare. Ci si poneva come indirizzo strategico la necessità di valorizzare i
territori con il loro patrimonio ambientale e culturale dando corpo e senso a un motto come
"pensare globale per l'agire locale".
Accadeva ed ha lasciato il segno: gran parte di quello che oggi accade deve molto a
quella classe creativa che nell’ultimo decennio del secolo scorso ha seminato e coltivato un
ecosistema che ha fatto del web uno spazio pubblico e non solo una prateria da solcare con la
logica assatanata del business mordi e fuggi, come fu nei primi anni di lancio pubblico di internet
(nella sua forma web) come eldorado commerciale.
Perché ciò accada realmente e non rimanga solo una promessa o uno slogan è
fondamentale concepire il web come un ambiente di sostanziale condivisione, interoperabile,
aperto. Come uno spazio pubblico a tutti gli effetti. L’innovazione digitale sarà funzionale alla
nostra evoluzione solo se sarà la società ad esprimerla, creando le condizioni perché si sviluppi
un’innovazione adattiva, dove sono i bisogni e i desideri a scandire le dinamiche della ricerca,
applicandole sia agli ambiti sociali sia a quelli del mercato, che ha tutto da guadagnare da una
domanda più consapevole di tecnologia. È evidente che ciò può realizzarsi solo se le istituzioni
attivano un piano complessivo che garantisca l’accesso generalizzato all’interconnessione del
web.
Qualcosa in tal senso è già accaduto con il riconoscimento del diritto di accesso ad
Internet all'interno dell'ordinamento italiano, proposto per la prima volta dal giurista Stefano
Rodotà nel 2010, nell'ambito dell’Internet Governance Forum Italia a Roma, dove si propose di
inserire un articolo "21-bis" nella Costituzione della Repubblica al fine di far rientrare l'accesso alla
rete quale diritto fondamentale.
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Carlo Infante- Web come nuovo spazio pubblico
3. La democrazia partecipativa
Le tecnologie del web permettono ai cittadini di accedere alle informazioni, e questo
consentirebbe loro di effettuare delle controproposte alle istituzioni. Sono proprio le istituzioni a
dover essere trasparenti in questo caso e non i cittadini. L’idea è quella di rendere pubblica,
attraverso forme di democrazia partecipativa, l’iniziativa legislativa e costringere le forze politiche
quantomeno a discutere le proposte dei cittadini. In tal modo l’agenda politica sarebbe
influenzata in maniera attiva dalla cittadinanza: il punto di partenza potrebbe essere una
sperimentazione di consultazioni obbligatorie a livello locale. Questo ha due vantaggi: tratta di
temi in cui i cittadini sono coinvolti in prima persona, e quindi più interessati a far sentire la loro
voce; ed evita, per la natura stessa di una consultazione locale, derive plebiscitarie.
La democrazia partecipativa permette ai cittadini di essere messi a conoscenza dei fatti in
maniera trasparente, oltre che informare loro dei casi in cui possono intervenire attivamente e di
quelli in cui invece non possono.
L'accesso a Internet (e meglio ancora, il diritto alla banda larga) è teso a garantire la
possibilità di ogni persona di accedere alla rete, per esercitare nella realtà online i propri diritti,
dalla libertà di espressione all'iniziativa economica privata e, in generale, le proprie libertà
fondamentali. Ciò rende possibile il valore fondante del web come spazio pubblico.
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Carlo Infante- Web come nuovo spazio pubblico
4. Dichiarazione dei Diritti in Internet
Questo che pubblichiamo qui è il testo elaborato dalla Commissione per i diritti e i doveri in
Internet costituita presso la Camera dei deputati nel 2014, presieduta da Stefano Rodotà su
indicazione della presidente della Camera Laura Boldrini. È un documento importante per la vision
che esprime e il linguaggio netto e pertinente, preciso nel cogliere le peculiarità del fenomeno
dell'interconnessione in quanto opportunità sociale.
Internet ha contribuito in maniera decisiva a ridefinire lo spazio pubblico e privato, a
strutturare i rapporti tra le persone e tra queste e le Istituzioni.
Ha cancellato confini e ha costruito modalità nuove di produzione e utilizzazione della
conoscenza. Ha ampliato le possibilità di intervento diretto delle persone nella sfera pubblica. Ha
modificato l’organizzazione del lavoro. Ha consentito lo sviluppo di una società più aperta e libera.
Internet deve essere considerata come una risorsa globale e che risponde al criterio della
universalità.
L’Unione europea è oggi la regione del mondo dove è più elevata la tutela costituzionale
dei dati personali, esplicitamente riconosciuta dall’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali,
che costituisce il riferimento necessario per una specificazione dei principi riguardanti il
funzionamento di Internet, anche in una prospettiva globale.
Questa Dichiarazione dei diritti in Internet è fondata sul pieno riconoscimento di libertà,
eguaglianza, dignità e diversità di ogni persona. La garanzia di questi diritti è condizione necessaria
perché sia assicurato il funzionamento democratico delle Istituzioni, e perché si eviti il prevalere di
poteri pubblici e privati che possano portare ad una società della sorveglianza, del controllo e
della selezione sociale.
Internet si configura come uno spazio sempre più importante per l’autorganizzazione delle
persone e dei gruppi e come uno strumento essenziale per promuovere la partecipazione
individuale e collettiva ai processi democratici e l’eguaglianza sostanziale. I principi riguardanti
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Internet tengono conto anche del suo configurarsi come uno spazio economico che rende
possibili innovazione, corretta competizione e crescita in un contesto democratico.
Una Dichiarazione dei diritti di Internet è strumento indispensabile per dare fondamento
costituzionale a principi e diritti nella dimensione sovranazionale.
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Carlo Infante - Cittadinanza digitale
Indice
1.
PARTECIPARE ALLA SOCIETÀ ON LINE ................................................................................................. 3
2.
IL WEB 2.0 E LA DISINTERMEDIAZIONE .................................................................................................. 6
3.
DIGITAL DIVIDE: IL DIVARIO DIGITALE E LE PARI OPPORTUNITÀ D'ACCESSO AL WEB ....................... 9
4.
I NATIVI DIGITALI................................................................................................................................. 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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Carlo Infante - Cittadinanza digitale
1. Partecipare alla società on line
La cittadinanza digitale si esprime attraverso le diverse forme di partecipazione alla società
online. Si tratta di un fattore di primaria importanza perché il livello dei servizi pubblici - in termini di
qualità, fruibilità, accessibilità e tempestività - dipende dalla condizione tecnologica di chi ne
usufruisce: la disparità di trattamento dei cittadini è direttamente proporzionale alla loro capacità
di accedere alla rete. Da qui deriva la stretta correlazione con le problematiche legate al divario
digitale (digital divide) e alla necessità, per i cittadini, di acquisire le competenze digitali
necessarie per esercitare i propri diritti.
Stiamo trattando del complesso dei diritti e dei doveri dei cittadini formulati in adattamento
allo sviluppo dell’e-government e della fruizione dei servizi in rete. Rispetto alla cittadinanza
tradizionale la cittadinanza digitale dà luogo a uno spazio giuridico in cui i diritti e doveri di
cittadinanza possono essere esercitati sia nel contesto fisico reale sia in quello digitale del web.
Per un buon equilibrio della cosiddetta società dell’informazione e della conoscenza, dalla
e-democracy (che si estende al voto elettronico) alla democrazia partecipativa (che permette di
attivare confronto con i cittadini), è basilare affrontare l’equità di trattamento dei cittadini,
garantendo la capacità di accesso alla rete, evitando il digital divide.
La Carta della cittadinanza digitale varata nel 2015 sancisce il diritto di cittadini e imprese,
“attraverso l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione…di accedere a tutti i
dati, i documenti e i servizi di loro interesse in modalità digitale…al fine di garantire la
semplificazione nell’accesso ai servizi alla persona”.
Le ultime novità in fatto di cittadinanza digitale si sono avute nel 2017 (in Gazzetta ufficiale il
12 gennaio 2018) in cui sono state emanate le disposizioni integrative e correttive, in un decreto
chiamato proprio Carta della cittadinanza digitale.
Giunto alla sua sesta versione raccoglie ormai non solo diritti e doveri che già
contraddistinguono il rapporto tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione, ma individua e
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Carlo Infante - Cittadinanza digitale
getta le basi giuridiche per nuovi strumenti e servizi volti a rafforzare quelli esistenti, sulla scia anche
di quanto previsto nel Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione.
Il leitmotiv di questo ultimo correttivo sembra essere quello di una pubblica amministrazione
semplificata e finalmente “a portata di mano”, grazie anche a una sorta di pannello di controllo
centrale da cui i cittadini possono gestire i rapporti con la PA.
Tra i diritti di cittadinanza digitale previsti dall’ultimo correttivo del CAD (Codice
dell'Amministrazione Digitale), quello di eleggere un proprio domicilio digitale presso cui ricevere le
comunicazioni della PA per via telematica.
Il cittadino digitale diviene portatore di diritti e doveri, fra questi quelli relativi all'uso dei
servizi della Pubblica Amministrazione, pianificati dalla Carta della Cittadinanza Digitale, una legge
delega che elenca i principi fondamentali, tra cui: l’identità digitale (intesa come la disponibilità di
un’identità digitale unica assegnata ai cittadini dalle amministrazioni); la protezione dei dati
personali;
la riduzione della necessità dell'accesso fisico agli uffici pubblici attraverso la
digitalizzazione di dati, documenti e servizi; la definizione di livelli minimi di prestazioni facendo
rientrare così la digitalizzazione dei servizi nella Costituzione; la definizione di requisiti minimi per la
Pubblica Amministrazione riguardanti l'ambito digitale; modifiche al Sistema Pubblico di
Connettività
(SPC),
decisivo
per
garantire
l’interoperabilità
tra
diverse
amministrazioni,
consentendo di condividere e scambiare risorse informative; modifiche per favorire l'uniformità del
Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID); creazione del domicilio digitale; il Difensore Civico
Digitale Unico; ottimizzazione della spesa per la digitalizzazione.
La Carta della cittadinanza digitale prevede il diritto per i cittadini di utilizzare i pagamenti
digitali ed elettronici effettuati con qualsiasi modalità di pagamento, (incluso l’utilizzo per i
micropagamenti del credito telefonico) quale mezzo principale per i pagamenti verso la pubblica
amministrazione e gli esercenti servizi di pubblica utilità.
La firma digitale consente di scambiare in rete documenti con piena validità legale,
garantendone l’autenticità, l’integrità e la non ripudiabilità. La firma digitale utilizza una coppia di
chiavi digitali asimmetriche una privata e una pubblica. La prima è conosciuta solo dal titolare ed
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è usata per generare la firma digitale da apporre al documento. La seconda è usata per verificare
l’autenticità della firma.
Il Sistema Pubblico per la gestione dell’Identità Digitale di cittadini e imprese (SPID)
permette ai cittadini di accedere ai servizi online offerti dalle pubbliche amministrazioni con
un’unica identità digitale (username e password) utilizzabile da computer, tablet e smartphone.
Come definita dalla carta della cittadinanza digitale, l’identità digitale è “la rappresentazione
informatica della corrispondenza tra un utente e i suoi attributi identificativi, verificata attraverso
l’insieme dei dati raccolti e registrati in forma digitale”.
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2. Il web 2.0 e la disintermediazione
Con la rivoluzione del web 2.0 si è passati dalla gestione gerarchica dell’informazione al
blogging che ha messo in campo un volume tale di partecipazione in rete da tracimare
dappertutto.
Il web 2.0 ha creato una tendenza sia sociale sia tecnologica che ha formato una nuova
generazione di utenti di Internet, facendo della partecipazione l’occasione per l’apertura di spazi
di agibilità non previsti.
Quando sono arrivati i social network, con tutta l’evoluzione delle tecnologie mobili,
divenne evidente che quegli spazi aperti stavano rendendo il web uno spazio pubblico. I
prosumer, utenti che diventavano produttori e non solo consumatori di contenuti digitali da
condividere, divennero i protagonisti di questo fenomeno dirompente.
Si aprì una nuova finestra sul mondo, la rete divenne l’infrastruttura in cui tutti potevano
dare visibilità alle proprie idee. Queste forme nuove di partecipazione e di organizzazione sociale
iniziano a promuovere uno spirito civico molto significativo. Una partecipazione che dà al cittadino
la possibilità di prendere parte alle scelte sui temi che lo riguardano. I cittadini iniziano a
condividere con i referenti istituzionali le responsabilità nella gestione della res publica.
Questa linfa della dimensione partecipativa attraversa il contesto sociale, creando di fatto
un doppio regime di cittadinanza, in cui quella reale, ancorata alle appartenenze territoriali, va ad
interagire con quella digitale molto più attiva e aggregata in base ad affinità e tensione ideali.
Emerge una “democrazia continua”, come la definì il giurista Stefano Rodotà, attraverso la
quale si stabiliscono relazioni tra pari, il cui coinvolgimento, la partecipazione su larga scala e la
cooperazione diventano orizzontali, aperte, combinatorie. In rete tutti sono in grado di proporre
progetti, confrontarli e modificarli.
La rete crea le condizioni per cui il sistema della rappresentanza, finora adottato dal
sistema dei partiti, venga messo in discussione, attraverso la disintermediazione, per cui vengono
saltati dei passaggi, come quelli della rappresentanza politica, e le comunità iniziano ad autoAttenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
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organizzarsi.
La disintermediazione che si andava sviluppando in rete con i blog partecipativi inizia a creare uno
smottamento dei sistemi, anche in relazione alla politica e alle attività sindacali, fino ad allora
basate sul reclutamento dei quadri e della loro immissione nei ruoli di rappresentanza, che si
riferivano ai processi ideologici e dei modelli storici e a quelli della produzione industriale, dove si
erano consumati i conflitti tra capitale e lavoro. La trasformazione è in atto ma scorre su percorsi
indeterminati, confusi, per cui le dinamiche non sono mai realmente trasparenti e contemplano
non poche contraddizioni.
“Le possibilità offerte dalle tecnologie dell’informazione trasformano la politica in forme non
riconducibili unicamente all’espansione delle possibilità di partecipazione, aprendo invece le porte
a processi di manipolazione e di controllo, e anche al potere di gruppi ristretti. La congiunzione tra
estrema personalizzazione e uso crescente delle tecnologie per una comunicazione diretta tra
leader e cittadini può anche configurare una forma politica congeniale alla democrazia
plebiscitaria, al populismo del nostro tempo. Convivono, fianco a fianco, tecnologie della libertà e
tecnologie del controllo. Inoltre, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non
arrivano nel mondo della politica allo stato puro. Soprattutto nella fase iniziale di tale processo di
assimilazione, la politica ne ha conosciuto la versione elaborata per strategie di mercato. Si è così
parlato di marketing politico, con una deformazione dell’idea di politica che le tecniche
adoperate hanno trasformato in un prodotto da vendere”.
Stefano Rodotà, Tecnopolitica, 2004
Considerato questo rapido cambiamento della società, prende forma in ogni caso il
principio di cittadinanza digitale che ha coinvolto e sconvolto le configurazioni sociali.
Questa nuova fase permette di costruire nuovi spazi democratici in cui rilanciare il ruolo dei
cittadini, imponendo nuove sfide, a partire da quelle nell’ambito del sistema educativo. La
cittadinanza digitale per costruire una propria legittimazione nei contesti collettivi, oltre ad avere
un riconoscimento istituzionale con procedure e norme che possano svilupparla nel sistema civico,
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deve essere affrontata dal sistema educativo. Questo mondo è in affanno, riesce solo in parte a
contestualizzare i nativi digitali che di fatto esprimono competenze (senza la conoscenza
adeguata) che i loro docenti solo in parte posseggono.
È proprio per questo che diventa
strategica la cittadinanza educativa che riguarda sia la formazione culturale sia la formazione di
cittadini nel senso più articolato del termine, a partire dai più giovani, in quanto soggetti senzienti
della società in transizione.
Un altro aspetto si pone come un cardine della questione, è il digital divide, quel divario
digitale che rischia di crearsi tra chi ha l'accesso e chi no. In questo caso rischia di crearsi una
grave diseguaglianza, condizione critica per cui i fondamenti della cittadinanza digitale rischiano
di risultare fragili e decisamente contraddittori.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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3. Digital Divide: il divario digitale e le pari opportunità
d'accesso al web
C'è una parola che esprime bene uno dei ritardi di cui soffre il nostro Paese. È digital divide.
Significa divario digitale, ovvero ciò che nega le pari opportunità d'accesso alle risorse informative.
Un concetto lanciato da Bill Clinton, in particolare dal suo vicepresidente Al Gore, nel 1996, nel
promuovere il piano delle “autostrade dell'informazione”, rilevando però la criticità dell'esclusione
delle comunità etniche.
Esiste infatti un grave divario sociale tra chi ha accesso alle reti e chi non ce l’ha.
Oltre al nodo infrastrutturale della connessione ad internet nelle zone più svantaggiate, la
questione si estende a ciò che viene definita la net neutrality (neutralità delle reti) secondo cui tutti
i servizi devono essere accessibili a tutti gli utenti, senza esercitare alcuna forma di discriminazione,
a partire da quelle stabilite dal peso specifico dei soggetti d’impresa che possono condizionare sia
gli utenti sia il traffico dei dati.
In questo senso l’accesso ad internet si declina con le garanzie democratiche, sia per
l’opportunità di futuro per ampi settori dell’economia sia per il diritto fondamentale alla libertà di
informazione, fino ad estendersi ad una creatività sociale, esprimendo al miglior grado
cittadinanza attiva capace di fare del web uno spazio pubblico a tutti gli effetti.
Il problema è che l'Italia è sotto la media europea (quella estesa, calcolata su 27 Stati
membri) di cittadini connessi attestata su 86% a fronte di una diffusione della connessione internet
nelle famiglie italiane di circa 83%.
Come non pensare al fatto che chiunque utilizzi già in modo soddisfacente queste
opportunità tecnologiche non possa che avanzare in termini di sviluppo? Mentre la vaghezza del
nostro sistema-Paese nell’utilizzarle accentua il ritardo, divaricando la forbice, distaccandoci sul
piano della competitività; aggravando quel digital divide che non riguarda solo i Paesi meno
sviluppati ma anche un Paese come il nostro: troppo distratto e intimidito.
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Carlo Infante - Cittadinanza digitale
Questa “timidezza” nell’approccio a internet ha diversi motivi. Il più grave è che in Italia il
sistema televisivo, legato a doppio filo con quello pubblicitario, è ancora troppo forte e non ha
nessuna intenzione di mollare il suo predominio, ha quindi tutti gli interessi a rallentare i processi di
emancipazione rappresentati dall’accesso al web. Emblematico in tal senso è l'investimento
strabico sul digitale terrestre che si è rivelato una digressione, ammantando di tecnologia digitale
un rilancio incongruo dell'offerta televisiva, disperdendo risorse e attenzione politica sugli
investimenti per la banda larga. Non meno grave è la timidezza di molti decisori e intellettuali
arroccati su posizioni di una rendita culturale che viene messa in discussione dallo sviluppo delle
culture digitali, non gerarchiche e fluide nella ridefinizione del rapporto con le conoscenze.
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4. I nativi digitali
Sono stati definiti nativi digitali i nuovi cittadini del nuovo spazio pubblico del web, quelli
che sono cresciuti in stretta relazione con uno schermo interattivo. Nati alla fine degli anni Ottanta,
durante la diffusione di massa dei personal computer a interfaccia grafica, i nativi digitali hanno
vissuto le tecnologie come un elemento naturale. Bambini che giocavano con un sonaglio che
rispondeva al gesto producendo un suono, o un mouse che ad ogni clic rilasciava un feedback
sullo schermo, per non parlare di quelli che, in questi ultimi anni, grazie all’interfaccia touch
stabiliscono un rapporto ancora più fluido con l’interfaccia digitale.
A coniare quel termine fu, nel 2001, Marc Prensky (ex insegnante ad Harlem ed oggi uno
dei maggiori studiosi di innovazione educativa), associandolo a quello di “immigrato digitale” per
definire sé stesso e quelli come lui che erano approdati al mondo digitale dopo essersi formati in
quello analogico fatto di penne, libri e televisione. Nelle sue analisi pone l’accento su come sia
stata vissuta dai nativi digitali questa rivoluzione digitale, come un processo spontaneo di crescita,
mentre per tanti di noi fu una evoluzione del modo di ricercare informazioni, elaborarle e
condividerle. A fronte di questa considerazione s’impone l’urgenza di modificare il modello
tradizionale dei processi educativi.
È evidente che la questione riguarda il concetto fondante della cittadinanza digitale, visto
che si tratta di affrontare in modo adeguato l'ambientazione in un nuovo mondo in cui la gestione
delle informazioni investe tutto, dai modelli produttivi a quelli istituzionali, dalle relazioni alle
transazioni bancarie. Non riguarda solo genitori, docenti, editori e istituzioni ma l'intero sistema
sociale perché i nativi digitali incorporano attitudini che possono essere decisive per fare quel salto
di qualità verso la società interconnessa che auspichiamo da più di trent’anni.
Bisogna però considerare che essere nativi digitali non significa essere competenti digitali
anche perché alla base di gran parte dell’utilizzo delle tecnologie interattive ci sono degli
automatismi, soluzioni opache che non rendono trasparenti e decodificabili le procedure. Il punto
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qui non riguarda solo l’ingegneria informatica che sottende competenze molto verticali ma i
processi cognitivi che si attivano nell’interazione con i sistemi digitali.
È su questo aspetto che è necessario investire attenzione, da quella istituzionale a quella
dei pionieri del digitale che, sperimentando continuamente la frequentazione dello spazio
pubblico del web, possano trarre indicazioni, mappe cognitive, linee d’indirizzo per fare della
cittadinanza digitale un valore di emancipazione sociale.
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Carlo Infante - Etica open source
Indice
1.
IL SOFTWARE APERTO COME BENE COMUNE ...................................................................................... 3
2.
CIÒ CHE È LIBERO NON È GRATIS ........................................................................................................ 5
3.
COPYLEFT .............................................................................................................................................. 7
4.
LA LICENZA IPPOCRATICA DEL SOFTWARE .......................................................................................... 9
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 12
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1. Il software aperto come bene comune
La definizione che si era diffusa sulla scia dell’invenzione di internet fu quella di free software
da cui si è sviluppata conseguentemente l'idea di software open source per poi allargarsi a molti
altri settori, tra cui l'hardware open source. Nel corso degli anni si è spesso, erroneamente,
associato il termine open source a gratis, ma non è così, o almeno non sempre. Infatti, il principio
base dell'open source non è la gratuità del prodotto (hardware o software che sia) ma la
possibilità di vedere come è fatto e, se se ne hanno voglia e capacità, di migliorarlo.
Questa possibilità, grazie all'esplosione della rete, ha prodotto degli effetti domino di
incredibili proporzioni, mai immaginabili prima, tanto è vero che anche la stessa NASA ha reso
open source alcuni suoi programmi, e che il web nasce proprio su presupposti open source.
Va ricordato che nel 1993, il Cern di Ginevra decise di rilasciare, come pubblico dominio, il codice
sorgente del World Wide Web. È grazie a questa grande opportunità di concedere il codice aperto
per lo sviluppo del web a chiunque che abbiamo la rete interconnessa che usiamo tutti i giorni.
L'idea di realizzare una rete di documenti ipertestuali visualizzabili e interoperabili tramite un
browser venne a Tim Berners-Lee nel 1989, e venne affinata insieme al collega Robert Calliau.
Il progetto, intimamente open source, fu realizzato presso il Centro di ricerca i Ginevra tra il 1990 e il
1991 e sfociò nella creazione del primo sito web che conteneva tutti dati che avevano permesso
lo sviluppo del world wide web. Erano gli elementi fondativi della rete delle reti, che utilizzando il
protocollo internet grazie ai collegamenti ipertestuali, ha visto diffondersi esponenzialmente questa
infrastruttura globale potente e incredibilmente semplice da utilizzare da tutti. È stato possibile
perchè era aperta, riutilizzabile perché era open source. Un bene comune, di fatto. Pensate solo
per un attimo se avessero avuto la malaugurata idea di brevettare quel software. Il web non ci
sarebbe.
Oggi il termine open source è talmente qualificante che viene usato in tantissimi ambiti,
anche per definire una filosofia e un'etica che rivendica lo scambio aperto, la partecipazione,
l’intelligenza connettiva e collettiva, la trasparenza e lo sviluppo resiliente delle comunità.
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L’open source si riferisce al modello di sviluppo e distribuzione di un software, per mezzo di
una licenza attraverso cui i detentori dei diritti ne favoriscono la modifica, lo studio, l'utilizzo, la
redistribuzione, la diffusione aperta.
Caratteristica principale dunque delle licenze open source è la pubblicazione del codice
sorgente, rilasciando grande beneficio perché permette a moltitudini di programmatori di
coordinarsi e lavorare allo stesso progetto, utilizzando la rete.
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2. Ciò che è libero non è gratis
Definire “libero” il software significa che rispetta le libertà essenziali degli utenti: la libertà di
eseguire il programma, di studiare il programma e di ridistribuire delle copie con o senza modifiche.
Questa è una questione di libertà, non di prezzo.
Per esplicitare il concetto Richard Stallman - uno degli hacker del MIT (Massachusetts
Institute of Technology) che nel 1971, quando era programmatore del laboratorio di intelligenza
artificiale dell’istituto, lavorò al primo sviluppo di Internet e fondatore dell’Electronic Frontier
Foundation - tirò fuori questa battuta: “quando dico free penso alla libertà di parola e non alla
birra gratis”.
Va detta una cosa dirimente: free in inglese significa sia gratuito che libero, in italiano è ben
diverso, libero e gratuito sono due parole ben distinte.
Il fatto è che si tratta di libertà essenziali, non soltanto per quanto riguarda l'utente in sé, ma
perché queste libertà promuovono la solidarietà sociale, cioè lo scambio e la cooperazione.
Diventano sempre più importanti man mano che la nostra cultura e le attività delle nostre vite sono
sempre più legate al mondo digitale. In un mondo di suoni, immagini e parole digitali, il software
libero diventa sempre più una cosa simile alla libertà in generale.
Decine di milioni di persone in tutto il mondo usano oggi del software libero, tuttavia la
maggior parte di questi utenti non sono mai venuti a conoscenza delle ragioni etiche per cui s’è
sviluppato quel software.
Il movimento per il software libero sta facendo una campagna per le libertà degli utenti
digitali dal 1983, anno in cui si avvia lo sviluppo del sistema operativo libero GNU (acronimo di
"GNU's Not Unix"). Si tratta di una piattaforma Unix-like, ideata da Richard Stallman e promossa
dalla Free Software Foundation, allo scopo di ottenere un sistema operativo completo utilizzando
esclusivamente software libero. L'obiettivo era rifare un sistema operativo libero che avesse le
stesse proprietà del sistema Unix, ma che fosse allo stesso tempo originale.
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L'open source è una metodologia di sviluppo che nasce dall’influenza dei pionieri del
software libero, per cui è capace di contemplarne l’imperativo etico. Ma, per chiarire le
sovrapposizioni e le contraddizioni rispetto alle matrici ideali su cui si sono sviluppate quelle due
linee di ricerca, tutto il software libero esistente è anche open source. E quasi tutto il software open
source che è stato rilasciato sotto forma di codice sorgente è anche software libero.
Il termine open source è inoltre stato esteso per via della sua applicazione ad ambiti che
non prevedono codice sorgente, come governo, istruzione e scienza; in questi campi i criteri delle
licenze software sono fuori luogo, l'unica cosa che hanno in comune queste attività è invitare a
partecipare allo sviluppo. Quindi a quel punto il termine assume il semplice significato di
“partecipativo” o “trasparente”.
L'idea dell'open source è quella di permettere agli utenti di apportare modifiche al software
e di ridistribuirlo, magari per implementarlo, questo renderà il software più potente e più affidabile.
Ricordiamoci che l’affidabilità del software non riguarda solo sua performance procedurale ma
l'impatto etico e la garanzia che non violi la libertà dell'utente.
Ma cosa accade se il software è progettato in modo da mettere i suoi utenti sotto
controllo? Funzionalità discutibili, come spiare gli utenti, restringerne la libertà, inserire back door
(metodo per aggirare le difese di un sistema, come un firewall), imporre aggiornamenti, sono
pratiche possibili nel software proprietario.
Sotto la pressione delle società di produzione cinematografica e discografica, il software
che dovrebbe essere a disposizione degli individui è sempre più spesso specificatamente
progettato per porli invece sotto restrizione. Questa minacciosa caratteristica è nota come DRM
(Digital Restrictions Management) ed è l'antitesi dello spirito delle libertà che il software libero
cerca di ottenere. E non è solo una questione ideologica: dal momento che lo scopo del DRM è
quello di bloccare la vostra libertà, gli sviluppatori del DRM fanno sì che per voi sia difficile,
impossibile e perfino illegale cambiare il software che ha il DRM.
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3. Copyleft
L'espressione copyleft (traducibile con "permesso d'autore"), indica un modello di gestione
dei diritti d'autore basato su un sistema di licenze attraverso le quali l'autore (in quanto detentore
originario dei diritti sull'opera) indica ai fruitori dell'opera che essa può essere utilizzata, diffusa e
spesso anche modificata liberamente, pur nel rispetto di alcune condizioni essenziali.
Il copyleft può essere applicato ad una moltitudine di opere, che spaziano dai software,
alle scoperte scientifiche, ai documenti e all'arte.
Nella versione pura e originaria del copyleft (cioè quella riferita all'ambito informatico) la
condizione principale obbliga i fruitori dell'opera, nel caso vogliano distribuire l'opera modificata, a
farlo sotto lo stesso regime giuridico (e generalmente sotto la stessa licenza). In questo modo, il
regime di copyleft e tutto l'insieme di libertà da esso derivanti sono sempre garantiti ad ogni
rilascio.
Questo termine, in un senso non strettamente tecnico-giuridico, può anche indicare
generalmente il movimento culturale che si è sviluppato sull'onda di questa nuova prassi in risposta
all'irrigidirsi del modello tradizionale di copyright.
Esempi di licenze copyleft per il software sono la GNU GPL, per altri ambiti le licenze
Creative Commons (più propriamente con la clausola share alike che permette ad altri di
distribuire lavori derivati dall'opera solo con una licenza identica o compatibile con quella
concessa con l'opera originale) oppure la stessa licenza GNU FDL usata per Wikipedia fino al 2009
(data del passaggio alla licenza Creative Commons).
Il modo più semplice per rendere un software, o altra opera d’ingegno, libero è dichiararlo
di dominio pubblico, privo di copyright.
In Italia però questo concetto non esiste, perché l'autore non può rinunciare alla paternità
dell'opera, se non a 70 anni dalla morte, almeno per quanto riguarda le opere letterarie. Per
quanto riguarda l’utilizzo saggistico e mediale c’è una soluzione: l’open access. Si tratta di un
concetto che nasce nell’ambito della letteratura scientifica e copre diverse opzioni che vanno
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Carlo Infante - Etica open source
dalla semplice possibilità di leggere gratuitamente un articolo scientifico a un più complesso
sistema di permessi (come ad esempio il riuso o il remix multimediale). L’open access si basa sulla
scelta da parte dell’autore di rendere liberamente accessibile la sua opera.
Il copyleft significa che chiunque distribuisca conoscenza, letteratura o software, deve
accompagnarlo con la libertà di ulteriori copie o modifiche. Il copyleft garantisce che ogni utente
sia libero.
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4. La licenza ippocratica del software
Il software è un artefatto cognitivo, soft, immateriale, tuttavia può avere gravi impatti nel
mondo reale. La tecnologia digitale riguarda ormai ogni ambito della nostra vita, nel bene e nel
male, per cui non è scontato un suo uso etico.
Tra le tante criticità si può cogliere come esempio quello della Cina che esercita le
tecnologie biometriche di riconoscimento facciale per tracciare nella folla i musulmani uiguri. O
quello dell'esercito statunitense che usa droni i per bombardare, senza sporcarsi troppo le mani
con un attacco aereo rumoroso e fotografabile, i sospetti terroristi e tutti i civili vicini.
Qualcuno ha dovuto scrivere il software che rende tutto ciò possibile.
Eppure, sta insorgendo una diffusa coscienza critica per cui alcuni sviluppatori chiedono ai
loro datori di lavoro e al governo di smettere di usare il loro lavoro in modi che ritengono non etici. I
dipendenti di Google hanno convinto l'azienda a interrompere il lavoro di analisi dei filmati con i
droni e ad annullare i piani per fare offerte su un contratto di cloud computing con il Pentagono.
Coraline Ada Ehmke, una programmatrice di software molto famosa nel mondo dell'open
source e nota per il suo attivismo a difesa dei diritti umani, ha proposto una licenza open source
che richiede agli utenti di non danneggiare il prossimo. Il software open source può essere
generalmente copiato e riutilizzato liberamente, grazie a questa licenza, definita ippocratica per
l'analogia con il giuramento medico, si vogliono imporre vincoli etici a questa pratica.
Il software rilasciato con questa nuova licenza, chiamata "Licenza Ippocratica", può essere
condiviso e modificato per quasi tutti gli scopi della programmazione, con una grande eccezione:
"Individui, società, governi o altri gruppi per sistemi o attività che mettono in pericolo attivamente e
consapevolmente, danneggiano o minacciano il benessere fisico, mentale, economico o
generale di individui o gruppi in violazione della Dichiarazione universale dei diritti umani delle
Nazioni Unite".
Definire cosa significa fare del male non è però così facile e si può arrivare a definizioni
anche molto controverse. Tuttavia, Ehmke spera che legare la licenza alla Dichiarazione Universale
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dei Diritti Umani sia decisivo, "è un documento che ha 70 anni ed è piuttosto ben consolidato e
accettato per la sua definizione di danno e di che cosa significa veramente violare i diritti umani"
ha affermato in un'intervista a Wired.
È una proposta audace, ma è esattamente il genere di cose per cui Ehmke è nota, come il
codice di condotta per progetti open source chiamato "Patto dei Collaboratori". Per ora, pochi
usano la Licenza Ippocratica, visto che deve ancora passare una revisione legale, perchè ci sono
molte potenziali insidie, come la compatibilità con altre licenze.
Attualmente, l'open source tende ad assumere rilievo filosofico, consistendo in una nuova
concezione della vita, aperta ma vigile contro gli abusi di potere che l'open source si propone di
superare mediante la condivisione della conoscenza.
È sulla base di questa tensione ideale che è possibile cogliere l’importanza paradigmatica
del software libero e dell’open source in quanto capacità di progettare per rendere più funzionale,
etico e sostenibile il futuro digitale.
In quella tensione ideale c’è traccia - come rileva Angelo Raffaele Meo, pioniere
dell’informatica italiana e professore emerito al Politecnico di Torino, nel suo saggio “Informatica
solidale” - dell’economia del dono. Un concetto che arriva dall’analisi etnologica del francese
Marcel Mauss in “Essai sur le don” (1923), uno studio sulla economia di scambio e distribuzione dei
doni tra le tribù indiane d’America. In quel ciclo donare-ricevere-contraccambiare c’è molto
dell’etica open source, come d'altronde nel processo di Wikipedia, dove chi dona una voce
nell'enciclopedia aperta o un 'approfondimento, attiva una dinamica di reciprocità che alimenta
la piattaforma di conoscenza partecipata.
Il web per sua struttura (dopotutto nasce dal dono di Tim Berners Lee del CERN di Ginevra,
avendo rilasciato il codice sorgente di un software che si sarebbe potuto brevettare) promuove la
diffusione di una nuova cultura del dono, dello scambio reciproco basato sul file sharing, il free
software, l’open source, i blog e i social network.
Alla base di tutto questo c’è una etica hacker nata per facilitare l'accesso alle informazioni
e alle risorse di calcolo ma che di fatto ha creato nuovi modelli collaborativi, esempi emblematici
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di un’etica propria del network a tal punto di essere definita da Pekka Himanen netica (nethic). In
questo principio, a partire dal valore della condivisione, rientrano idee come la libertà di
espressione e l'accesso per tutti alla rete. Per quanto il mondo degli hacker sia una delle entità più
indeterminate che si possano individuare, in quell’approccio c’è una netica che prospetta nuove
forme di creatività che potevano essere generate solo in un ambiente che fino a mezzo secolo fa
era inimmaginabile, il web.
È su questa stessa linea di principio che hanno preso piede gli hackathon (hack e
marathon) partendo proprio dal metodo creativo e collaborativo degli hacker. I primi hackathon
sono apparsi nel 1999 nei laboratori della Sun Mycrosystem per dei meeting che coinvolsero hacker
arrivati da ogni dove.
In Italia sono stati organizzati diversi hackathon anche in contesti accademici come la
Treccani e la pubblica amministrazione per l'utilizzo degli open data (dati aperti) per utilizzare le
risorse informative e progettarne le modalità di riuso, secondo l’etica open source. Anche la
Camera dei deputati ha promosso un hackthon, nel 2014, Code 4 Italy, il primo hackathon sugli
open data degli atti parlamentari.
L’etica open source per quanto sia nata nell’enclave alternativa degli hacker ha espresso
nei decenni una metodologia d’innovazione creativa che dimostra quanto sia possibile
reinventare l’utilizzo delle tecnologie digitali ben oltre gli assetti standard del consumo di
programmi informatici predefiniti. Un’indicazione strategica per delineare una prospettiva culturale
e di riuso delle risorse del software libero e aperto, perché si possa attuare quell’innovazione
adattiva che sarà in grado di far convergere l'avanzamento tecnologico verso l'evoluzione dei
valori d’uso degli utenti.
Il futuro digitale passa di qui, nel far adattare l’innovazione digitale alle nostre necessità. E
l’etica open source ci sarà di aiuto.
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Carlo Infante – Changemaking
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Indice
1.
DARE FORMA ALLA PARTECIPAZIONE ................................................................................................... 3
2.
TOP-DOWN E BOTTOM-UP ...................................................................................................................... 5
3.
LA COOPETITION E IL GIOCO A SOMMA POSITIVA ............................................................................. 7
3.1
4.
IL DESIGN THINKING ................................................................................................................................................... 8
TURMOIL: TUMULTO, SCOMPIGLIO, DISORDINE .................................................................................. 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14
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Carlo Infante – Changemaking
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1. Dare forma alla partecipazione
Per attivare processi di changemaking è chiaro che non basta coinvolgere solo le classi
dirigenti ma i cittadini, creando le situazioni adeguate perché i possibili cantieri di co-progettazione
possano avviarsi.
In tal senso bisogna lavorare con la gente piuttosto che per la gente (tenendo conto che
coinvolgere comunità di pratica già auto-organizzate è determinante); dare forma alla
partecipazione (perché non sia un rituale inerte, avviato solo per arginare le conflittualità sociali) e
quindi fare evolvere il coinvolgimento dei cittadini (commisurandoli ai contesti di appartenenza
territoriale) nella pianificazione e nell’organizzazione di progettualità come nel caso della
rigenerazione urbana.
Bisogna creare le condizioni abilitanti con soluzioni di innovazione digitale e metodologie
come il design thinking e l’intelligenza connettiva per usare in modo creativo gli spazi e i tempi di
progettazione partecipata e armonizzare i processi che dalla progettazione possano arrivare alla
sfera decisionale.
La progettazione partecipata è un metodo dinamico e flessibile, fondamentale per la
condivisione e la comprensione di un processo in atto, efficace nell’indirizzare le prese di decisione,
lo sviluppo di piani di intervento e la soluzione dei problemi, mantenendo sempre un equilibrio tra
ambiente sociale e naturale, secondo i fondamenti dello sviluppo sostenibile.
È sulla base di questi principi che si può innescare una processualità creativa che coinvolga
i partecipanti in queste sessioni di discussione che rientrano nell’alveo del changemaking. Ciò si
determina attraverso la co-progettazione multistakeholder (i portatori di interesse, di competenza
e di buona pratica) che, con la responsabilizzazione dei cittadini, genera senso di appropriazione
degli interventi ed empowerment, la condizione che dall’autostima porta all’autodeterminazione.
Un punto di partenza fondamentale per le sessioni di lavoro sul changemaking per interpretare le
dinamiche del cambiamento in questa società in transizione, dando forma alla partecipazione per
indirizzarla verso le strategie di innovazione territoriale.
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Carlo Infante – Changemaking
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Il tal senso è fondamentale considerare il principio glocal, prima di tutto perché riequilibra
le sorti della globalizzazione che ha prodotto non pochi squilibri internazionali, e poi perché
permette di riconoscere le singolarità del patrimonio culturale di tanti territori che necessitano di
nuove soluzioni di valorizzazione, proiettate nel globale delle reti informative. La dimensione locale
può quindi operare nel pensiero globale, portandoci dentro i climi, i sapori, i suoni delle matrici
popolari; così come nell'azione locale può trovar luogo l'aspetto globale dell’interconnessione. Il
cosmopolitismo migliore (quello per cui l'umanità non ha nazione) può finalmente declinarsi anche
nel desiderio di comunicare senza confini.
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Carlo Infante – Changemaking
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2. Top-down e bottom-up
Perché le dinamiche partecipative possano avere un senso compiuto deve esserci un
equilibrio tra i modelli top-down e quelli bottom-up, intesi come strategie di elaborazione
dell'informazione e di gestione delle conoscenze, nati nell’ambito dello sviluppo del software e
oggi sempre più utilizzati nella Teoria dei Sistemi (interazioni sistemiche basate sulla scienza della
complessità) applicata in questi casi alla progettazione multistakeholder.
Si tratta di un modello d’intervento top-down quello che dall’alto delle istituzioni va verso il
“basso” della popolazione, mentre quello bottom-up interviene per riequilibrare e interpretare sul
campo le indicazioni che emergono dall’ascolto dei territori, per individuare le linee d’indirizzo
emerse dal confronto con i cittadini.
Nel modello top-down si formula la visione generale del sistema che misurandosi con
l’approccio bottom-up permette di cogliere la spinta che arriva dal basso, dalle comunità
territoriali e di buona pratica, individuando le variabili in grado di condizionare lo sviluppo della
progettazione.
Non dimentichiamo che stiamo trattando di strategie di elaborazione dell'informazione
sviluppate per la programmazione del software che da tempo sono state tradotte nel campo della
Teorie dei Sistemi e della progettazione sociale. Un esempio emblematico d’innovazione adattiva
che dimostra come si possa coniugare metodi di ingegnerizzazione informatica con le strategie
evolutive della società che cambia.
Le funzioni attive in questi contesti riguardano le nuove interrelazioni sociali indotte dall’uso
delle tecnologie della comunicazione, che devono quindi adattarsi alla creatività sociale che
emerge dal loro esercizio connettivo.
In questo quadro si profila quindi il concetto di innovazione adattiva, con cui si intende una
strategia evolutiva che riguarda l'adattamento dell’innovazione digitale alla crescita di una
consapevolezza d’uso dei nuovi media da parte dei cittadini senzienti.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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È necessario che l'innovazione digitale si adatti alla creatività sociale che emerge da
buone pratiche capaci di generare un’intelligenza applicativa che per alcuni aspetti rientra in ciò
che viene definito user experience. È proprio questo valore d’uso creativo che può riequilibrare le
sorti di un mercato tecnologico in cui l’offerta è più forte della domanda, facendo questo si può
dimostrare quanto sia importante fare società prima di qualsiasi mercato.
Il termine innovazione adattiva rimanda a un valore intrinseco delle tecnologie digitali già
utilizzate nei sistemi d’automazione, per cui si “modificano i propri parametri per adattarsi alle
modifiche che il sistema può subire durante l’esercizio delle sue funzioni”. Le funzioni nel nostro caso
riguardano le nuove interrelazioni sociali indotte dall’uso delle tecnologie della comunicazione,
che devono quindi adattarsi alla creatività sociale che emerge dal loro esercizio connettivo. È
proprio questo valore, quello connettivo, che libera un potenziale che i dispositivi – nella piena
evoluzione dell’interaction design – devono cogliere, adattandosi. Tutto questo non è scontato, sta
a noi fare si che ciò accada, anche perché i mercati non si fanno se non si fa società.
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3. La coopetition e il gioco a somma positiva
La coopetition (coopetizione) mette insieme la competizione con la cooperazione. La
logica che sottende la coopetition permette di armonizzare posizioni competitive che possono
unire le proprie forze sulla base di una particolare convergenza di interessi. Quando i soggetti
coinvolti in una sessione di changemaking partono da questo presupposto, adottando le modalità
di co-progettazione, possono divenire più competitivi cooperando.
Saper gestire le interdipendenze e le tensioni legate alla coopetizione è la chiave per
raggiungere livelli di performance progettuale evoluta. La coopetition può quindi rivelarsi come un
driver per l'innovazione sociale, operando su soluzioni empiriche da testare con metodi come quelli
del problem solving.
Il motore della coopetition è il gioco a somma variabile-positiva o win-win, un'espressione
traducibile in vincente-vincente, oppure io vinco-tu vinci. Indica una situazione in cui ci sono solo
vincitori. Per estensione si considera win-win una qualsiasi cosa che non scontenti o danneggi
nessuno dei soggetti coinvolti.
Per gioco a somma positiva s’intende un’operazione in cui si crea un valore che prima non
c’era. Chi sta meglio di come stava prima non lo fa necessariamente a scapito di chi sta peggio.
Quel “meglio” è stato creato dal gioco stesso. Si aggiunge qualcosa di buono che prima non
c’era. Nei casi migliori, tutti i giocatori hanno guadagnato qualcosa.
Il progresso umano degli ultimi secoli è stato, in parte, un formidabile gioco a somma
positiva. Non soltanto tantissima gente sta meglio di come stava prima, ma il benessere
complessivo dell’umanità è aumentato in misura enorme. Eppure, per molti è parecchio difficile
pensare a esempi di giochi a somma positiva, e per alcuni di noi è faticosamente controintuitivo
pensare alla politica, a una discussione controversa, o a una trattativa come potenziali giochi a
somma positiva. C’è forse una ragione evoluzionistica dietro la tentazione di pensare a somma
zero, quella per cui qualcuno deve uscire sconfitto.
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Il mondo in cui hanno vissuto i nostri antenati per decine di migliaia di anni è stato un
mondo sproporzionatamente scandito da conflitti a somma zero. Nel mondo dei cacciatoriraccoglitori, più cibo per qualcuno significava quasi inevitabilmente più fame per qualcun altro. La
sopravvivenza richiedeva l’abilità di capire al volo e trattare molte interazioni sociali come sfide a
somma zero. Se siamo qui a parlare di changemaking è perché siamo convinti che conflitti e
antagonismi, per quanto abbiamo scandito la Storia, non siano più un modello accettabile, quindi
stiamo ragionando su come trovare nuovi modelli di sviluppo più equo e sostenibile.
Nell’ambito del sistema delle imprese la modalità della coopetition è alla base della Open
Innovation, per cui il know how che prima veniva esclusivamente protetto con le rigidità dei
brevetti e del copyright tende a liberarsi e ad aprirsi in progetti collaborativi ispirati ai protocolli
della ricerca scientifica. Ciò amplifica le potenzialità dell’innovazione, come processo condiviso,
secondo i principi dell'etica open source.
Trovare il modo per tradurre le strategie competitive nella natura collaborativa della
coopetition è l’obiettivo che imprese, realtà del Terzo Settore e istituzioni tendono sempre più a
ingaggiare con laboratori dove le diverse intelligenze attuano sperimentazioni in più campi,
dall’innovazione digitale alla valorizzazione dei territori.
Si tratta di laboratori nel quale verranno sviluppati metodologie utili a gestire il
cambiamento indotto da cambiamenti normativi e socioeconomici necessario per liberare il
potenziale delle organizzazioni dell’economia sociale.
Questi percorsi forniscono competenze e abilità espresse dai changemaker, figure del
cambiamento che esprimono modalità innovative come il design thinking per progettare e gestire
progetti di innovazione sociale e territoriale.
3.1
Il design thinking
Il design thinking dinamizza i processi creativi di co-progettazione per arrivare alla
definizione di strategie d’innovazione.
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Si tratta di una modalità che sollecita la capacità delle organizzazioni e delle comunità di
affrontare, incrociandole tra loro, criticità e opportunità, con un approccio di coopetition,
intervenendo sulle decisioni.
L’obiettivo è quello di sviluppare il pensiero creativo, visualizzando con pratiche di action
writing il processo collaborativo di progettazione che si basa sui principi dell’intelligenza connettiva
e del problem solving.
Il design thinking è da considerare come un’emblematica metodologia del problem-solving
visto che si occupa sempre più di problemi come la sanità, l’amministrazione pubblica e diversi
ambiti di innovazione sociale e territoriale come la rigenerazione urbana.
È un metodo che si basa su due principi fondamentali. Uno è l’alternanza di fasi divergenti e
convergenti, sia in fase di comprensione del problema da affrontare che in fase di sviluppo della
soluzione, ciò consente di arrivare a discernere tra criticità e opportunità attivando una coscienza
dinamica che non procede per dicotomie ma per armonizzazione delle contraddizioni,
valorizzando la creatività degli stakeholder coinvolti nei brainstorming di co-progettazione per
profilare al meglio il team di innovazione orientato verso le decisioni.
L'altro riguarda la centralità dell’utente-referente sia del territorio sia del campo tematico in
cui si sta operando. Infatti, un aspetto fondamentale per realizzare un’innovazione efficace è
quello di considerare i destinatari dell’innovazione le principali sorgenti di conoscenza del campo
di analisi, essenziali per indurre strategie correlate sia ai bisogni reali sia ai desideri da sollecitare
negli utente-referenti. Questo permette di rafforzare la convinzione che per la risoluzione dei
problemi devono crearsi nuove sinergie tra organizzazioni pubbliche e comunità territoriali, imprese
e associazioni, basate sulla capacità di armonizzare le diverse intelligenze in campo, secondo i
principi dell’intelligenza connettiva.
L’intelligenza connettiva è un concetto, coniato da Derrick de Kerckhove negli anni
Novanta, che si è innervato allo sviluppo del web in quanto tecnologia cognitiva, esplicitando le
inedite proprietà psicologiche della cooperazione on line con attività di vertiginosi brainstorming. In
questa connettività si attiva un processo tecnologico che di fatto si traduce in un processo
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psicologico e una nuova sensibilità che riscopre il senso naturale delle cose naturalmente
interconnesse.
In queste attività di brainstorming si combina un esercizio di creatività connettiva, attraverso
un particolare utilizzo dell’'instant blogging di twitter, con un’attività di visual thinking per la
visualizzazione delle idee in gioco che permette una migliore individuazione delle parole chiave.
Sono almeno tre le modalità principali. Una è quella di videoproiettare una tag cloud, la nuvola
delle tag, rilevate dai twett prodotti, utilizzando particolari applicazioni web come visible tweet che
estraggono automaticamente i tweet associati a predefinite hashtag che così permettono di
evidenziare i messaggi più pertinenti. Un’altra è quella dell’action writing con l’intervento di un
copywriter competente, affinato ai temi in oggetto che disegni su grandi fogli applicati alle pareti,
o su grandi lavagne, una sorta di mappa concettuale con le parole chiave che fluttuano nella
discussione. Un'altra ancora è quella, spesso adottata nei tavoli dei diversi gruppi di lavoro, di
utilizzare i piccoli fogli degli appunti, o i post-it adesivi, per raccogliere le scritture immediate dei
partecipanti al brainstorming. Tutte queste modalità possono interoperare tra di loro.
Il risultato è quello di comporre una “quarta parete” (concetto che deriva dal teatro
brechtiano). Oltre le tre pareti della scena c’è una quarta, quella dello spettatore che diventa
protagonista dell’operazione senziente in cui si ricombina collettivamente il senso generale e
prismatico (le varie riflessioni da angolazioni diverse) prodotto da queste sessioni di changemaking.
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4. Turmoil: tumulto, scompiglio, disordine
Il fatto che gestire informazioni e conoscenza si stia profilando come uno dei modi migliori
per produrre ricchezza e bene comune non può che confortarci, seguendo questo principio del
changemaking.
Potrà apparire come un’astratta ostinazione teorica ma se consideriamo quante risorse
informative producono ricchezza nel web non si è lontani dall’abbracciare l’entità della questione.
Solo che una volta tutto questo era dotazione esclusiva dei grandi broadcasting televisivi, di
agenzie d’alto bordo, di ricchi editori, di istituzioni aristocratiche o peggio burocratiche, mentre ora
sta accadendo qualcosa di veramente nuovo con il web. È accaduto talmente velocemente che
molti sistemi istituiti hanno perso terreno, lasciando uno spazio indeterminato che va colmato dalle
nuove forme partecipative per fare del web uno spazio pubblico di interconnessione non solo
tecnologica ma sociale e produttiva.
Tutto questo sta creando una fluidità, un’agitazione: il cosiddetto fenomeno turmoil che
oltre a significare tumulto, scompiglio, disordine, inquietudine è stato utilizzato come un istruttivo
acronimo.
T come Technology complexity, ovvero la complessità tecnologica che pervade sempre
più mercato e società;
U come User empowerment, l’autoconsapevolezza degli utenti, la loro responsabilizzazione
e il loro progressivo protagonismo;
R come Re-engineering, la re-ingegnerizzazione dei processi che riguarda sia la società nel
suo complesso sia quelle imprese che interpreteranno l’opportunità dell’innovazione;
M come Market volatility, l’instabilità dei mercati per il continuo adeguamento all’offerta di
tecnologia;
O come Obsolescence factor, quei fattori di obsolescenza che comportano la criticità di
standard tecnologici, di hardware e di applicazioni sempre più soggette ad esaurire le loro funzioni
per via degli aggiornamenti continui dei software;
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I come Internet, il fenomeno internet che si sta diffondendo a macchia d’olio come
medium universale;
L come Leadership challenge, la sfida per la leadership in un mercato dove la
competizione non è più quella di una volta, a tal punto che è emerge sempre più un concetto
intrigante: la coopetition, in cui si coniuga competizione e cooperazione. In questa direzione va la
Open Innovation.
In questo scompiglio si stanno creando spazi di cui oggi si può solo presagire la fortuna
economica e lo sviluppo sostenibile. Ma come per l’alfabetizzazione delle popolazioni, che dalle
campagne arrivavano nelle grandi città per il lavoro industriale nei primi anni del XIX secolo, oggi è
strategico, se non sfidante, proiettarsi nella dimensione del web per impugnare il proprio futuro.
La coprogettazione orientata al changemaking raccoglie questa sfida, cercando di
allargare lo spettro di opportunità che si prospettano nel corso tumultuoso di un’innovazione che
viene spesso definita disruptive (dirompente).
Si tratta quindi di sperimentare le modalità più efficaci con cui si vuole migliorare
l’efficienza delle azioni nei vari campi, dalla produttività al welfare comunitario. Ciò non riguarda
più solo la governance pubblica ma l’intera società civile: singoli cittadini e comunità autoorganizzate nei vari ambiti della società interconnessa. Ciò porta a considerare l’avanzamento
tecnologico come un’opportunità per tutti, cercando di individuare i contesti dove attuare
esperienze pilota di changemaking che raccordano tra di loro le istanze diverse di imprese,
istituzioni e società civile.
La coprogettazione possibile rappresenterà la migliore forma di collaborazione tra la
Pubblica Amministrazione, enti del Terzo Settore, imprese e cittadini, per la realizzazione di attività in
base al principio di sussidiarietà che permette l'impegno privato nella funzione pubblica.
I laboratori di coprogettazione d’innovazione sociale espressi dal changemaking, di cui
stiamo trattando, rappresentano al momento solo una soluzione sperimentale, ma se pensiamo
che anche gli hackathon (hack e marathon), ispirati all’etica open source, si sono svolti in contesti
accademici come la Treccani e istituzionali come la Camera dei Deputati, pensiamo a quanto sia
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pertinente ritenere che l’innovazione si debba adattare a tutti gli ambiti della nostra società in
transizione. Il cambiamento va agito, è una promessa che non si compie da sola.
Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa,
costruisci un modello nuovo che renda obsoleto il modello esistente
Richard Buckminster Fuller
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Carlo Infante - Resilienza urbana
Indice
1.
LA RESILIENZA COME CAPACITÀ CREATIVA NEL SUPERARE UNA CRISI ............................................ 3
2.
OLTRE IL PIL: IL BES (BENESSERE EQUO SOSTENIBILE) ........................................................................... 5
3.
I FORMAT RESILIENTI DELLA PARTECIPAZIONE ..................................................................................... 7
4.
LA CITTÀ RESILIENTE IN TRANSIZIONE VERSO LA GREEN SOCIETY .................................................... 10
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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Carlo Infante - Resilienza urbana
1. La resilienza come capacità creativa nel superare
una crisi
Un dibattito sviluppato nell'arco degli ultimi dieci anni a proposito della smart city, a partire
dall’ambito urbanistico, ha individuato nella capacità di auto-organizzazione dei cittadini uno dei
principali indicatori per trattare della resilienza urbana.
A monte di questo nuovo concetto dal valore strategico, c’è il termine di resilienza che da
parola sconosciuta è diventata una delle più abusate del nostro tempo.
Resilienza deriva dal latino resalio e significa saltare, rimbalzare ma anche danzare. Nella
fisica dei materiali indica un’altra idea di resistenza ad una prova d’urto. In psicologia sta a
significare la capacità umana di affrontare e superare una crisi.
La resilienza, come abbiamo già detto, nasce come concetto dalla caratteristica di acciai
speciali nel resistere a sollecitazioni impulsive, reagendo a urti improvvisi senza spezzarsi. È stato poi
preso in prestito dall’informatica e dalla psicologia per indicare comportamenti che integrano
bene la capacità di adattamento e la disponibilità alla trasformazione in risposta a eventi
dirompenti o traumatici, da una decina di anni il termine è entrato nel lessico comune anche degli
urbanisti, che ne individuano il senso proprio nella capacità di continuare a esistere, incorporando
il cambiamento.
Nel parlare di smart city si è iniziato a mettere in campo il concetto di ecosistema resiliente,
associandolo ad un’idea particolare d’intelligenza capace di rimodellarsi rispetto alla complessità
degli eventi che stanno destrutturando le città.
In fondo a tutti ragionamenti c’è il dato sostanziale nell’individuare la resilienza come il
principio attivo della smart community, così intesa per dare un senso reale, sociale, al piano
infrastrutturale della smart city, per cui l’intelligenza di sistema espressa da infrastrutture e servizi che
ottimizzeranno i consumi energetici e controlleranno i flussi della mobilità urbana, si attuerà solo
grazie a comunità che riusciranno a tradurre in impatto reale la loro intelligenza connettiva, basata
sull’interscambio serrato non solo di informazioni ma di buone pratiche.
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In questa innovazione di processo c’è tra i valori fondanti quello della sussidiarietà che
tende a ridisegnare l’assetto della governance territoriale, riconoscendo l’autonomia delle
comunità senzienti che, grazie all’auto-organizzazione in rete, possono raggiungere straordinari
risultati di reciprocità e di efficienza organizzativa, non ipotizzabili prima.
In tal senso è strategico interpretare il futuro digitale che la nuova Società dell’Informazione
fa intravedere, consapevoli che una promessa simile non si compie da sola. Si compirà nel cercare
di armonizzare l’uso delle nuove tecnologie della comunicazione con il valore delle culture
materiali e le diverse espressioni dei territori, a partire da quelli aperti, nelle periferie urbane, definiti
anche peri-urbani, come quelli dell’Agro Romano che, prossimi alla città, rappresentano
un’opportunità irrisolta. Una visione strategica per riprogettare la dimensione urbana che ha perso
da più di cinquant’anni il rapporto tra città e campagna, attivando una coscienza resiliente
capace di superare una crisi del sistema, riequilibrando le sorti dello sviluppo sostenibile.
Si parla in tal senso di bio-regioni urbane che potranno rappresentare un passo verso quella
rigenerazione territoriale per contribuire alla definizione credibile di una green society in cui far
convergere iniziative su più fronti: dai nuovi modelli educativi per i più giovani, inscrivendo
l’educazione ambientale nei processi di apprendimento, alla coesione sociale espressa magari
dallo scambio inter-generazionale determinato dalla trasmissione di memoria (come quella rurale)
attraverso la narrazione crossmediale. Spaziando dall’innovazione tecnologica (con relativa
formazione avanzata) per il monitoraggio ambientale e le reti ecologiche alle pratiche di
agricoltura multifunzionale che sappia rispondere sia alle esigenze alimentari sia a quelle
paesaggistiche.
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2. Oltre il PIL: il BES (Benessere Equo Sostenibile)
Qualcosa s’è rotto. Il sistema non funziona più: il modello economico e sociale costruito in
questi ultimi due secoli risulta ormai obsoleto, siamo in un’era di transizione post-industriale e le città
contemporanee non producono più, consumano solo. Tutto questo sta avviando un processo
entropico basato non solo sull’inquinamento atmosferico e la produzione di rifiuti ma sulla
mancanza di coraggio politico nella riconfigurazione di ciò che una volta si definiva “prospettiva di
sviluppo”.
È qui il punto cardine: lo sviluppo non è più legato esclusivamente all’asset produttivo
incardinato nella filiera data dalla trasformazione industriale delle materie prime in merci
(attraverso il patto-conflitto tra capitale e lavoro), distribuzione e consumi sollecitati dal sistema
pubblicitario dei mass-media. Quell’industrializzazione ha fatto nel XX secolo delle città un
inesorabile fulcro attrattivo dei flussi umani inscritti nel vortice produzione-consumo.
Oggi, alla luce della radicale crisi di sistema, molte città devono misurarsi sul principio della
rigenerazione: è questo il concetto che si sostituisce a quello ormai inefficace di “sviluppo”. Trattare
di rigenerazione urbana comporta un nuovo paradigma politico teso a valorizzare risorse e
creatività che fino ad oggi erano rimaste fuori dai giochi, non contemplate dalla misurazione del
PIL, per riuscire ad armonizzare la possibilità di mettere in circolo ricchezza insieme alla qualità della
vita. È indicativo in tal senso il processo avviato da CNEL e ISTAT con i nuovi indicatori BES
(Benessere Equo Sostenibile), importanti per valutare quanto sia decisivo per il sistema cercare un
riequilibro sociale e ambientale. I dodici indicatori al momento sono: Salute, Istruzione e
formazione, Lavoro e conciliazione tempi di vita, Benessere economico, Relazioni sociali, Politica e
istituzioni, Sicurezza, Benessere soggettivo, Paesaggio e patrimonio culturale, Ambiente, Ricerca e
innovazione, Qualità dei servizi.
Un buon passo ma c’è una genericità che non permette ancora di innescare una
necessaria e scardinante innovazione di processo.
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È in questo senso che insorge l’urgenza di una creatività sociale che grazie allo sviluppo
delle nuove forme di partecipazione senziente sviluppate dal web 2.0 possa impostare una nuova
linea di tendenza. L’intelligenza connettiva delle reti può ripristinare il valore delle comunità, in una
capacità di auto-organizzazione perduta nella civiltà industriale, impostata su principi gerarchici e
lineari (come la catena di montaggio e di conseguenza la cosiddetta catena del valore).
Un modello di riferimento può essere quello rurale che per secoli ha caratterizzato il sistema
economico del nostro Paese, mantenendo un equilibrio tra cultura e natura.
È evidente che qui non si tratta di fare un salto nel passato ma di declinare la visione di
rigenerazione urbana in una nuova armonizzazione del rapporto tra città e campagna in relazione
con strategie innovative come quelle delineate dagli scenari evolutivi della smart city, magari
declinata in smart community, individuata come il fulcro di questi processi di resilienza urbana.
Le dinamiche connettive del web posso rilanciare i processi di comunità autodeterminate
e allo stesso garantire le dinamiche distributive focalizzate e di prossimità come sta già accadendo
nelle filiere corte e nei farmer market, fino ad abbracciare l’idea ampia di rigenerazione urbana
associata al non consumo di suolo per orientarci verso la green society.
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3. I format resilienti della partecipazione
La resilienza urbana è un’innovazione di processo tesa a creare le condizioni abilitanti
perché i cittadini attivi, affini all’idea di smart community, possano mettersi in gioco attraverso una
serie di format resilienti per dare forma alla partecipazione.
In questo senso sono emblematiche le esplorazioni urbane per misurarsi con il contesto
territoriale,
sulla
metodologia
definita
apprendimento
dappertutto,
guardandosi
intorno,
raccogliendo storie lungo il percorso. Questa azione è di fatto il fulcro di tutta l’operazione: il
walkabout, l’esplorazione partecipata radionomade.
Conversare significa “girare insieme” ( dal latino versum, girare, trovarsi, e cum insieme) ed
è ciò che accade con i walkabout che sono un ottimo modo per confrontarsi e liberare
intelligenza connettiva, aprirsi e apprendere dappertutto, raccogliendo indizi dai paesaggi sia
urbani sia rurali, e paesaggi umani fatti di storie e antropizzazione dei territori, remixandoli nel flusso
radionomade delle conversazioni peripatetiche.
Il dato cruciale è nel fatto che i walkabout si rivelano come palestre di resilienza urbana in
un’evoluzione delle pratiche di cittadinanza attiva, grazie a quel mix di empatia e creatività che li
connota.
Una modalità su cui si concentra l’attività di sguardo partecipato che è la matrice di tutta
la poetica-politica dell’urban experience. Un’esplorazione che si rivela di fatto come un esercizio
creativo che rientra di fatto anche nella definizione di urbanismo tattico, per cui il porre attenzione
alle criticità e alle opportunità dei paesaggi urbani può contribuire a un re-design della città, sulla
base dei bisogni e dei desideri dei cittadini attivi.
Fondamentale come risultante dell’attività di indagine esplorativa è l’instant blogging per
produrre agili report (usando i social media, twitter e facebook in particolare, senza escludere
instagram, con dirette video e foto) per rilevare informazioni e immagini lungo il percorso,
individuando le parole chiave.
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Carlo Infante - Resilienza urbana
Oltre a questa attività di reporting sul campo c’è quella del geoblogging che di fatto era
stata realizzata durante il walkabout di esplorazione. Una prerogativa di quel format di
conversazione radionomade è quella di trasmettere in diretta web-radio il flusso del confronto nel
corso della passeggiata, questo segnale viene georeferenziato e quindi diventa l’elemento
costitutivo del geoblog prodotto automaticamente con la traccia del percorso svolto. Ne risulta
una mappa parlante su cui si può andare a cliccare sui vari punti (su cui vengono caricate anche
delle foto scattate durante l'azione) e così ascoltare le voci dei partecipanti al walkabout di
esplorazione.
Il brainstorming esperienziale basato su quella indagine è l’ambito in cui “distillare” queste
parole chiave-tag, in una discussione condotta sia attraverso piccoli gruppi tematici sia in
assemblea. L’attività di confronto è dinamica, condotta con un ritmo teso a non addensarsi in
interventi di analisi troppo strutturata, per riuscire a coinvolgere il più possibile i cittadini delle
comunità territoriali.
Il brainstorming è fondato sui principi del design thinking e dell'intelligenza connettiva, da
una parte distilla l'attività di esplorazione, di instant reporting e l'individuazione delle pertinenze
tematiche (le criticità e le opportunità) e delle forze in campo (i protagonisti del territorio, gli
stakeholder). L’intelligenza connettiva è un concetto, coniato da Derrick de Kerckhove negli anni
Novanta, che si è innervato allo sviluppo del web in quanto tecnologia cognitiva, esplicitando le
inedite proprietà psicologiche della cooperazione on line. In questa connettività si attiva un
processo tecnologico che di fatto si traduce in un processo psicologico che si sviluppa nell'attività
di brainstorming, liberando una nuova sensibilità che riscopre il senso naturale delle cose
naturalmente interconnesse.
A questa attività si brainstorming si combina un particolare utilizzo dell’instant blogging di
twitter con un’attività di visual thinking per la visualizzazione delle idee in gioco che permette una
migliore individuazione delle parole chiave. Sia il reporting sia il geoblogging sono così utili
all’attività di rilevazione dei concetti raccolti dall'indagine sul campo. Una volta rilevate le tag più
pertinenti, le hot word su cui far orbitare l’attività di performing media storytelling, si possono creare
le condizioni per indirizzare l’attività conseguente che può avere come obiettivo quello della
redazione di un masterplan, il documento di indirizzo strategico che sviluppa un'ipotesi
complessiva di programmazione urbanistica di un territorio.
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Carlo Infante - Resilienza urbana
4. La città resiliente in transizione verso la green society
Una città sostenibile e resiliente comporta il fatto di pensare la città capace di rinnovare il
proprio equilibro al mutare delle condizioni di contorno, di adattarsi alle sollecitazioni che derivano
dal cambiamento climatico e di esprimere risposte sul piano sociale, economico e ambientale alla
crisi che caratterizza la nostra epoca. Come fu scritto, nel 2013, nel piano d’azione “Roma Smart
City” promosso da Stati Generali dell’Innovazione.
La resilienza costituisce dunque una funzione della sostenibilità che richiede una profonda
revisione dei modelli organizzativi e gestionali su cui si basa la convivenza urbana. Ma una città
resiliente è anche una città in grado di pianificare e realizzare una strategia di lungo periodo che
garantisca l’omeostasi, l’equilibrio sociale attraverso una governance intelligente e condivisa,
costruendo, anche attraverso le nuove tecnologie per la gestione collaborativa del territorio, piani
relativi all’ottimizzazione delle risorse energetiche e della mobilità.
È sostenibile una città che orienta il proprio futuro verso un’integrazione equilibrata tra
periferie e centro, se costruisce un tessuto connettivo fra i diversi centri abitati dell’area
metropolitana. È sostenibile se rende i quartieri a misura di bambino, ripristinando nel reticolo
urbano gli spazi per la socialità e il gioco tra pari, se spostarsi da una zona all’altra diventa una
scelta e non un obbligo quotidiano.
Una città resiliente, infatti, è un sistema urbano che non si limita ad adeguarsi ai
cambiamenti in atto (in particolare il global warming), di fronte ai quali le città si stanno
dimostrando sempre più vulnerabili, ma è una comunità che si modifica progettando risposte
sociali, economiche e ambientali innovative che le permettano di resistere nel lungo periodo alle
sollecitazioni dell’emergenza ambientale.
La resilienza urbana prevede il passaggio dal modello della mera riqualificazione a un
modello di rigenerazione urbana, che coinvolge attivamente la collettività, attento all’ambiente e
al consumo delle risorse, finalizzato a ridurre l’impatto dell’attività umana.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Resilienza urbana
La città resiliente è stata una delle scelte strategiche dell’ex sindaco di New York
Bloomberg, nel 2012, che all’indomani dell’Uragano Sandy ha lavorato per trasformare la città in
uno spazio urbano preparato agli effetti dei cambiamenti climatici, primo fra tutti l’innalzamento
del livello del mare, con interventi sul paesaggio e sugli edifici.
L’azione degli Stati e della comunità internazionale è fondamentale, ma nel processo di
transizione verso la green society c’è bisogno anche delle buone pratiche e della partecipazione
attiva di tutti, cittadini, politici, ricercatori, per la condivisione e la diffusione di nuove idee
replicabili anche a livello globale.
La resilienza è quindi oggi una componente necessaria per lo sviluppo sostenibile, agendo
prima di tutto sui modelli organizzativi e gestionali dei sistemi urbani, e sembra rappresentare, per
l’urgenza di mettere in sicurezza le città e i territori, la maturazione del concetto stesso di
sostenibilità.
Una città sostenibile è quindi una città resiliente, che produce opportunità economiche
significative, come dimostrano gli esempi di molti Paesi europei, che hanno investito sullo sviluppo
di una strategia nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici e alla resilienza.
La resilienza urbana è un tema cruciale che riguarda l’intero sistema-Paese che per
decenni ha sottovalutato la marginalità delle periferie, come, per altri versi, quella delle aree
interne, creando diseguaglianze che producono criticità.
Per affrontare contraddizioni simili il principio attivo della resilienza è fondamentale, prima di
tutto per rompere gli schemi e uscire dallo stallo cognitivo, trovando il modo per essere più
performanti ed empatici.
In tal senso è opportuno fare palestra di resilienza, “stropicciarsi” un po’, per diventare più
porosi e così assorbire quell’intelligenza connettiva che permette di mettersi in ascolto delle istanze
dove si fa più grave la diseguaglianza e liberare l’energia positiva della resilienza urbana perché
possa essere capace di misurarsi con conflitti ed emergenze.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Resilienza urbana
Associare alla resilienza i processi educativi comporta un’attenzione precisa al principio di
cittadinanza educativa, in quanto disponibilità a relazionarsi con gli altri, nello spazio pubblico delle
città e delle diverse comunità territoriali, per crescere insieme, con particolare attenzione alle
fragilità, determinate dalle disabilità e dall’esclusione sociale.
Il punto cardine è nel concepire il processo educativo ben più del fatto di studiare su un
libro o davanti a uno schermo, ma guardandosi intorno, ascoltando le voci dei protagonisti che
hanno vissuto nei territori, esplorare le città per vivere un’esperienza di apprendimento
dappertutto.
In questo senso si può intravedere un futuro progressivo dei sistemi educativi che non
possono ignorare la necessità di un continuo cambiamento in relazione al mondo, che non solo
corre ma accelera in via esponenziale. L’avanzamento tecnologico è un dato che spiazza, avete
presente la Legge di Moore? Per cui ogni 18 mesi i sistemi digitali raddoppiano la loro performance,
c’è da chiedersi: e noi? Siamo disposti a raddoppiare le nostre potenzialità cognitive? E nel farlo
affinare la nostra capacità di resilienza adattandoci al cambiamento in atto, facendo però in
modo che l’innovazione si adatti a noi.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Performing Media
Indice
1.
LE PSICOTECNOLOGIE .......................................................................................................................... 3
2.
I FORMAT ABILITANTI PER LA PARTECIPAZIONE ATTIVA ...................................................................... 6
3.
IL PERFORMING MEDIA STORYTELLING ................................................................................................ 8
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 12
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Carlo Infante - Performing Media
1. Le psicotecnologie
Questo sta creando un nuovo paradigma per ciò che definiamo cultura: il rapporto tra
uomo e mondo non è solo mediato da tecnologie ma comporta un’integrazione sensibile.
È qualcosa che sta accadendo secondo il principio delle psicotecnologie ovvero quelle
tecnologie che sollecitano processi cognitivi, a partire da quelli del linguaggio.
Queste tecnologie impattano sul modo di pensare, perché ci invitano ad interagire con
nuovi artefatti cognitivi, come gli ambienti digitali, in cui cambia l'assetto percettivo e di
conseguenza il nostro modo di organizzare il cervello e di agire.
Questo dibattito s’è sviluppato già negli anni Sessanta con Marshall McLuhan ma è Derrick
De Kerckhove, un suo stretto collaboratore, che affronta con straordinaria lucidità l’impatto del
digitale con le nostre menti.
Se il pensiero umano s’è sviluppato con l’evoluzione delle nuove tecnologie alfabetiche,
dalla scrittura cuneiforme alla dattilografia, oggi si estende ulteriormente nell’ambiente
dell’interconnessione digitale, prospettando altre dimensioni cognitive, in buona parte ancora
inedite.
La stampa a caratteri mobili, il telefono, l’ipermedia sono psicotecnologie nella misura in cui
inducono il cervello ad elaborare nuovi paradigmi cognitivi che modificano la nostra percezione
del mondo.
Ogni scansione evolutiva ha stabilito che si incorporassero le diverse tecnologie
trasformandole in linguaggio. È ciò che sta accadendo con le tecnologie digitali, alcune di esse
hanno apportato una nuova qualità del comunicare, indichiamo le tre principali: l’ipertestualità sta
riqualificando i processi cognitivi, emancipati dalla meccanicità lineare e logico-consequenziale;
l’interattività sta reinventando le condizioni della prossemica, nel rapporto con i sistemi digitali; la
connettività sta potenziando la natura delle relazioni sociali.
Ciò che viene definito performing media riguarda quindi la nuova progettazione culturale
attraverso le proprietà dei nuovi media interattivi, ipertestuali e connettivi. Per quanto questo sia
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Carlo Infante - Performing Media
inscritto in un percorso che trova le proprie radici nelle diverse culture dell’avanguardia, non è più
ancorato solo alla sperimentazione dei nuovi linguaggi, come quella che è stata espressa dai
movimenti creativi del Novecento (dall’happening del Fluxus alla psicogeografia del Situazionismo)
e in particolare dall’interazione tra scena e nuovi media, come il videoteatro e le
cyberperformance.
Questa progettazione possibile rilancia il potenziale delle culture digitali, nella scommessa
antropologica in corso, per cui si fa urgente l’invenzione di nuove forme di relazione sociale e di
modelli di sviluppo sostenibili ed evoluti al contempo. Per avviare un processo strategico verso
l’innovazione adattiva secondo cui le sorti della nostra evoluzione si giocano facendo adattare la
tecnologia alle nostre potenzialità fortemente sollecitate.
Esprimere la performatività dei media interattivi comporta una nuova performatività
sociale, nella progettazione di eventi e piattaforme cross-media per l’interazione tra reti e territorio.
Gli ambiti, in cui trova luogo questa progettazione di format innovativi di performing media,
sono quelli che si orientano verso il design thinking e l’urban experience, strettamente connessi ai
contesti della smart community, attraverso azioni nel web con instant blogging, social tagging,
geoblogging, sentiment analisys, e sul territorio con i walkabout, brainstorming, storytelling e
ambienti interattivi, habitat sensibili, ibridi tra fisicità performativa e immaterialità audiovisiva,
espressione emblematica delle culture digitali.
In questo quadro di riferimento si muove una ricerca teorica per una definizione di
performing media che nell’arco dei primi vent’anni del nuovo millennio aveva sondato alcuni punti
di sviluppo, solo alcuni, rispetto ai tanti altri che si prospettano in una linea di ricerca esponenziale
che riguarda le estensioni del corpo e della mente in relazione con l’infosfera digitale.
Il percorso intorno a questo nuovo concetto tende, prima di ogni altra cosa, alla
ridefinizione del concetto di pratica creativa in relazione ai sistemi della comunicazione interattiva.
Ciò comporta l'individuazione di quelle che vengono definite dal pensiero semiotico le costanti
performative (i momenti qualificanti dell'azione) nella condizione di interattività, pratica che
contempla una particolare regia implicita, inscritta nella navigazione interattiva e ipermediale
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Carlo Infante - Performing Media
dell’utente. I linguaggi ipermediali nell’ambiente interattivo vengono agiti, scanditi nell’azione di
navigazione che viene generata dalla percezione dello spettatore-navigatore. Un punto decisivo
per comprendere come le tecnologie digitali abbiamo creato una condizione inedita: è l’utentespettatore ad agire l’artefatto cognitivo, a produrne il senso, non solo a consumarlo.
In una realtà virtuale e in un’opera ipermediale ci si immerge, si naviga; già questi termini
sono sufficienti a far intendere il salto di paradigma cognitivo, rispetto ai modelli correnti del
vedere, del leggere e dello sfogliare: nell’ambiente virtuale si agisce nella visione e si linka e si
clicca per aprire visualizzazioni da associare tra loro in una congerie di combinazioni ipertestuali.
Il principio del performing media è proprio in quella azione diretta dell’utente per cui è
determinante la progettazione di questi artefatti cognitivi che contempli quell’interazione. È il caso
di ambienti ipermediali (virtuali o ipertestuali che siano) o operazioni più articolate nell'ambito
territoriale, come quelle del performing media storytelling in cui si narra esplorando, per creare
format abilitanti per l’utente, coinvolto nel vivere esperienze significative.
Si tratta di modalità di partecipazione attiva, basate su modalità di brainstorming spesso
itinerante come nei walkabout, commisurando le tecnologie della comunicazione al loro valore
d’uso, ovvero la capacità degli utenti di trarne valore, funzione, principio attivo.
Per fare accadere cosa? Consapevolezza, empatia, resilienza, strategie desideranti,
partecipazione, inclusione, co-progettazione. Ciò riguarda la condizione esponenziale e
generativa delle tecnologie abilitanti, capaci cioè di sollecitare i cittadini a mettersi in gioco in un
processo partecipativo che può avviare le dinamiche di innovazione adattiva.
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2. I format abilitanti per la partecipazione attiva
I format innovativi di performing media esprimono le condizioni abilitanti per attivare
partecipazione attiva e si articolano su metodologie di brainstorming basate sul design thinking
che dinamizza i processi creativi di co-progettazione per arrivare alla definizione di strategie
d’innovazione. È in questa prospettiva che si sviluppa l’urban experience che sollecita la creatività
sociale delle reti perché possa reinventare spazio pubblico tra web e territorio, con esplorazioni e
mappature. Una linea d’indirizzo orientata verso l’idea generale di smart community che
contempla l’intelligenza creativa delle comunità territoriali e di buona pratica per auto-organizzarsi
e promuovere innovazione territoriale.
Ciò si articola attraverso azioni in rete, con interventi sui social media, come l’instant
blogging che rilancia nel web scritture immediate, foto e video delle esplorazioni, il social tagging
che presuppone un’attività più complessa per individuare le tag-parole chiave più pertinenti e più
condivise e, fondamentalmente, il
geoblogging. Quest’ultimo format è stato inventato,
nell’ambito delle Olimpiadi Torino2006, prima di googlemaps, realizzando quello che il grande
player statunitense non permetteva di fare: scrivere in modo partecipativo sulle mappe. Oggi il
geoblog si sviluppa anche attraverso la pubblicazione dei podcast audio, georeferenziati, prodotti
dalla web-radio che diffonde il flusso delle conversazioni dei walkabout. Ne risulta una mappa
parlante su cui si può andare a cliccare sui vari punti (su cui vengono caricate anche delle foto
scattate durante l'azione) e così ascoltare le voci dei partecipanti al walkabout di esplorazione.
Quindi oltre che sul web si agisce nel territorio con i walkabout, le conversazioni radionomadi, che
grazie ai sistemi whisper-radio, permettono di sollecitare un confronto connettivo mentre si
passeggia, esplorando un territorio.
Sul territorio si agisce anche con i brainstorming, gli storytelling e poi c’è tutto quel
background culturale che sta alla radice della ricerca del performing media. Un ampio campo di
sperimentazione artistica e teatrale che dagli anni Ottanta, dalle esperienze del videoteatro e
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Carlo Infante - Performing Media
della radio-art si occupa delle culture digitali con le prime cyberperformance e gli ambienti
interattivi e performativi di realtà come Studio Azzurro, Koinè, Giacomo Verde, Michele Sambin e
tanti altri.
I brainstorming si basano sul design thinking e l'intelligenza connettiva che distillano le
attività di esplorazione, di instant reporting e l'individuazione delle pertinenze tematiche (le criticità
e le opportunità) e delle forze in campo (i protagonisti del territorio, gli stakeholder).
A questa attività si brainstorming si combinano esercizi di creatività connettiva, attraverso
un particolare utilizzo dell’instant blogging di twitter con un’attività di visual thinking per la
visualizzazione delle idee in gioco che permette una migliore individuazione delle parole chiave.
Sono almeno tre le modalità principali. Una è quella di videoproiettare una tag cloud, la nuvola di
tag, rilevate dai tweet prodotti, utilizzando particolari applicazioni web come visible tweet che
estraggono automaticamente i tweet associati a dei predefiniti hashtag che così permettono di
orientare i tweet più pertinenti. Un’altra è quella dell’action writing con l’intervento di un copywriter
competente, affinato ai temi in oggetto ed abile a scrivere, o a disegnare, e meglio ancora a
scrivere disegnando su grandi fogli applicati alle pareti, o su grandi lavagne, per ricostruire in una
sorta di mappa concettuale le parole chiave che fluttuano nella discussione. Un'altra ancora è
quella, spesso adottata nei tavoli dei diversi gruppi di lavoro, di utilizzare i piccoli fogli degli appunti,
o i post-it adesivi, per raccogliere le scritture immediate dei partecipanti al brainstorming. Tutte
queste modalità possono interoperare tra di loro.
Il risultato è quello di comporre una “quarta parete” (concetto che deriva dal teatro
brechtiano) per cui oltre le tre pareti della scena ce n’è una quarta, quella dello spettatore che
diventa protagonista dell’operazione senziente in cui si ricombina collettivamente il senso generale
e prismatico (le varie riflessioni da angolazioni diverse) prodotto dal brainstorming.
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3. Il performing media storytelling
C’è un motto che sta a monte del performing media storytelling, la modalità che coniuga
la dimensione digitale della narrazione crossmediale con l’azione esplorativa nei territori. Suona
così ed è emerso spontaneamente dalle conversazioni radionomadi dei walkabout:
Viaggiamo dentro noi stessi quando ci ritroviamo in luoghi che ci ricordano cosa
cerchiamo…
Fa riflettere su quanto sia importante operare sulla qualità dell’attenzione, ponendo in
evidenza la peculiarità dello sguardo soggettivo di ciascuno dei partecipanti all’attività di
esplorazione. Nelle attività esplorative dei walkabout si tende sempre a rompere lo schema del
gruppo e della compagine collettiva, per evocare le dinamiche dello sciame intelligente e
connettivo, proprio come quello delle api. Ricordiamo come le api sappiano muoversi
singolarmente per poi convocarsi istantaneamente tutte insieme, è su questo modello di energia
interconnessa che innestiamo nei walkabout i principi dell’intelligenza connettiva. Associare teorie
alle pratiche dello sguardo esplorante permette di avviare un ragionamento alimentato da una
citazione folgorante che ha acceso le progettualità dell’urban experience nel 2009:
L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi ma nell’avere
nuovi occhi
(Marcel Proust)
Le parole ci aprono gli occhi (e le orecchie) e proprio per questo fanno parte di un gioco di
esplorazione che opera sulla poetica dell’attenzione oltre che su una politica che si sta profilando
come una delle più efficaci nel campo della resilienza urbana. Un ambito in cui attuare
l'innovazione adattiva, usando le tecnologie digitali come risorse abilitanti per l'auto-organizzazione
delle comunità.
C’è una frase di Tolstoj che può ben definire il principio attivo che sta a monte dei processi
del performing media storytelling: “Se descrivi bene il tuo villaggio parlerai al mondo intero”. È
netta, precisa ed evocativa. Fa capire quanto sia importante essere consapevoli della propria
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identità e allo stesso tempo cercare di misurarci con il mondo tutto, senza rimanere prigionieri nella
propria memoria, per liberare un’energia d’innovazione culturale decisamente glocal.
La differenza dallo storytelling di cui tanto ormai si parla è nell’ibridazione narrazioneazione, facendo direttamente “parlare” i territori, creando le condizioni abilitanti, ludiche e
partecipative, per mettersi in sintonia con il genius loci mentre lo si esplora o lo si assaggia,
operando su format di performing media che vanno oltre il dato di rilevazione delle storie per bensì
rivelarle nelle geografie che si abitano, sia stabilmente sia in via temporanea.
È questo uno dei temi caldi per quella ricerca d’innovazione territoriale che attraverso i
format di performing media trova il suo fulcro nei walkabout, in un flusso peripatetico espanso in
una diffusione radiofonica partecipativa (diffusa, spesso, in streaming su web-radio) in giro per le
città e i territori. Sciamando per strade e sentieri si cerca la sintonia giusta con le piccole storie
delle comunità, in un rapporto fisico, performativo e connettivo, attivando una partecipazione
senziente, ludica e sodale: resiliente.
Si tratta di “accendere lo sguardo” quando si esplora l’ordinario urbano, attraversando
luoghi che spesso si è convinti di conoscere a fondo. Una delle chiavi che vi si adotta è quella di
“girare la zolla” se non “scavare” per cogliere le stratificazioni storiche, sollecitando una memoria
attiva che operi con il metodo dello sguardo partecipato. È di questo che da anni si tratta per
accendere i processi partecipativi per l’innovazione sociale e la rigenerazione urbana per rivelare,
e non solo rilevare, i paesaggi umani degli ecosistemi urbani.
Buona parte di questa attività trova una sua restituzione nel web, attraverso i geoblog
definiti anche mappe esperienziali. In particolare queste mappe interattive rappresentano la
peculiarità di scrivere storie nelle geografie, lasciando l’impronta, taggando, esperienze di
esplorazione perché possano tracciare itinerari da ripercorrere in operazioni anche orientate verso
il turismo esperienziale e, in senso lato, in relazione a ciò che riguarda l’edutainment e più in
particolare su ciò che riguarda l’apprendimento dappertutto.
Questi particolari processi - che rappresentano l’insieme delle diverse modalità inscritte
nella strategia del performing media storytelling, come la cittadinanza educativa rivolta ai più
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giovani e alle comunità educanti, possono creare una filiera creativa che dai walkabout passa ai
geoblog, alla videoproiezione nomade (quando alle conversazioni peripatetiche si combina una
videoproiezione itinerante e alimentata a batteria, per ritagliare visioni sui paesaggi urbani) e poi
concepire un’attività di segnaletica performativa con particolari targhe segnaletiche basate
sull’uso di mobtag (detti anche qrcode) che linkano a pagine web in cui trovare (e magari
ascoltare) storie inscritte nelle geografie, in prossimità dei luoghi dove sono state raccolte.
Si cammina per i luoghi e si pesca dal cloud i riferimenti che sollecitano l’attenzione e
invitano a porre lo sguardo su alcuni dettagli. È un buon modo per rilevare informazioni-emozioni
mentre si esplora un territorio e così rivelare il genius loci espresso dalle voci degli abitanti.
Il performing media storytelling può accogliere al suo interno anche delle azioni
performative, condizioni che trovano un background nella ricerca sul paesaggio sonoro e nella
radiofonia sperimentale di decenni fa, per un coinvolgimento diretto dei portatori di storie in una
stretta interazione con i nuovi media interattivi e mobili di per sé performanti.
In tanti oggi parlano di storytelling delegando al mero uso dei social network la funzione di
semplice riverbero web di ciò che accade nell’esplorazione partecipata, ignorando la potenzialità
dell’azione diretta, progettata secondo principi di urbanismo tattico.
Qui si tratta di andare oltre il dato automatico dello sharing su facebook o twitter per
attivare processi di coscienza partecipativa, fisica ed empatica, che sappia giocare con i media
interattivi e mobili in una condizione esperienziale con i “piedi per terra e la testa nel cloud”,
coniugando web e territorio, il reale con il digitale.
Il performing media storytelling comporta questa scommessa culturale: trovare il modo per
mettere in relazione memoria-reti-territorio attraverso l’azione partecipativa, sollecitata da quelle
particolari condizioni abilitanti che possano esplicitare il rapporto con tecnologie da usare
(inventando valori d’uso creativi) fino a farle diventare linguaggi a tutti gli effetti. E
conseguentemente modalità performanti per sollecitare reciprocità con gli spettatori-cittadini,
secondo i principi del cosiddetto audience development per cui s’intende lo sviluppo progressivo
dello spettatore attivo.
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Carlo Infante - Performing Media
Sì, è proprio dando forma ad un pensiero globale – inscritto negli scenari della radicale
transizione in atto, contemplando un ripristino dei rapporti originari tra natura e cultura – innervato
nell’azione locale, rilevando le peculiarità dei territori che si può attivare uno storytelling sostanziale
e non solo superficiale (con il surf sui social) capace di fare e pensare innovazione territoriale.
Una strategia che contempla l’innovazione sociale centrata sulla partecipazione attiva e
l’inclusione, secondo i principi della smart community e il design for all (rivolto all’accessibilità
universale).
Una ricerca che va fuori e dentro sé alla ricerca delle matrici sia del proprio essere sia del
divenire sociale, esplorando i paesaggi umani e praticando esercizi creativi di resilienza per creare
le condizioni per attuare quell'innovazione adattiva che converta l’avanzamento tecnologico in
opportunità evolutiva.
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Carlo Infante - Big data
Indice
1.
IL FATTORE V: VOLUME, VARIETÀ, VELOCITÀ, VALORE ....................................................................... 3
2.
LA FILIERA DEI BIG DATA, DALLA GENERAZIONE ALL’ACQUISIZIONE ................................................ 5
3.
LA MEMORIZZAZIONE E L’ELABORAZIONE DEI BIG DATA ................................................................. 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 15
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Carlo Infante - Big data
1. Il fattore V: volume, varietà, velocità, valore
Per processare i big data, acquisendoli, gestendoli ed elaborandoli da adeguate
piattaforme informatiche. bisogno considerare una serie di fattori, con parole che iniziano tutte
con la “V”: il volume, con riferimento all’enorme dimensione dei dati generati e raccolti; la varietà,
con riguardo alle numerose tipologie dei dati disponibili, tra i quali, oltre ai dati strutturati
tradizionali, vi sono anche dati semi-strutturati e non strutturati come audio, video, pagine web e
testi; la velocità delle operazioni di trattamento; il valore che i dati assumono allorquando vengono
elaborati ed analizzati, così da consentire l’estrazione di informazioni che qualificano la
pianificazione dell’offerta di beni e servizi, in termini di innovazione e di personalizzazione.
Sono state poi individuate molteplici altre V per definire il fattore che caratterizza i big data:
come la veridicità, ovvero la qualità e significatività dei dati raccolti o elaborati, la valenza, ovvero
il grado di connessione del dato con altri dati, la visualizzazione, ovvero la necessità di rilevare in
maniera visuale e facilmente interpretabile i dati più rilevanti e la conoscenza estratta da essi.
I big data hanno assunto importanza via via crescente nell’organizzazione delle attività di
produzione e di scambio, a tal punto da poter essere considerati una risorsa economica a tutti gli
effetti, anzi la risorsa di gran lunga più importante in molti settori. Infatti, grazie all’avanzamento
delle tecnologie dell'informazione, le organizzazioni tendono a raccogliere dati sistematicamente,
ad elaborarli in tempo reale per migliorare i propri processi decisionali e a memorizzarli in maniera
permanente al fine di poterli riutilizzare in futuro o di estrarne nuova conoscenza.
È in atto un processo esponenziale: nell’anno 2018 il volume totale di dati creati nel mondo
è stato di 28 zettabyte (ZB), registrando un aumento di più di dieci volte rispetto al 2011, si prevede
che entro il 2025 il volume complessivo dei dati arriverà fino a 163 ZB. Come si rileva dall’indagine
conoscitiva sui Big data di AgCom-Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni del 2018.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Zettabyte? Ecco una nuova misura. Ma quanto sono grandi i big data? Come in ogni
misurazione è opportuno scandire una sequenza che possa aiutare a comprendere l'entità, anche
se questi oggetti immateriali sono fatti di bit e non di quegli atomi di cui è composta la materia.
1 bit: nell’alfabeto digitale una lettera corrisponde a 8 bit
1 Byte: 8 bit
1 kilobyte: 1.024 byte, circa 15 linee di testo
2 kilobyte: circa una pagina di testo
200 kilobyte: una breve storia
500 kilobyte: una tesi di laurea
1 megabyte: 1.000 kilobyte, un minuto di musica
2 megabyte: una fotografia digitale
5 megabyte: un romanzo breve
10 megabyte: un minuto di video
1 gigabyte: 1.000 megabyte, un’ora di video di alta qualità
2 gigabyte: 1 milione di pagine di testo
10 gigabyte: tutte le sinfonie di Beethoven
1 terabyte: 1.000 gigabyte
1 petabyte: 1.000 terabyte
1 exabyte: 1.000 petabyte
1 zettabyte: 1 triliardo di byte
1 yottabyte: 1 quadrilione di byte
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2. La filiera dei big data, dalla generazione
all’acquisizione
Finalità ultima dell’utilizzo dei big data è quella di qualificare l’efficienza dei processi
produttivi e di quelli organizzativi, a partire da quelli governativi.
Ciò comporta il fatto di migliorare la capacità decisionale degli amministratori pubblici,
degli urbanisti, e di tutti coloro che tendono ad una pianificazione di respiro strategico, sia
istituzionale sia commerciale.
È importante prevedere più accuratamente le tendenze in atto sia nella società sia nel
mercato, per indirizzare in modo molto più mirato (e dunque efficiente) sia le politiche su diversi
ordini di scala e ambiti, da quelle istituzionali a quelle delle imprese che analizzano i big data per
orientare la loro produzione verso i consumi, con strategie promozionali, con la pubblicità e
diversificate proposte commerciali.
A tal fine è cruciale il processo di estrazione di conoscenza dai big data, nell’ambito del
quale è possibile enucleare, sul piano logico (con eventuali ricadute delicate anche su quello
giuridico, per quanto riguarda l’uso o l’abuso dei dati personali) sulla base di una serie di ordini di
attività: la raccolta, che a sua volta si articola in generazione, acquisizione e memorizzazione;
l’elaborazione, che coinvolge attività di estrazione, integrazione e analisi ; l’interpretazione e
l’utilizzo.
Prima di considerare queste fasi, è necessario evidenziare che i dati oggetto di
elaborazione secondo le tecniche proprie dei big data possono avere natura personale o non
personale, distinzione per cui ai fini del trattamento dei dati sotto il profilo regolamentare si ha il
dovere di discernere la qualità dei dati, a partire da quelli personali, rispettando la privacy.
La linea di demarcazione tra dati di natura personale e non, non è sempre semplice da
tracciare. Ciò in relazione a informazioni anonime (o anonimizzate)
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come nel caso di informazioni di natura geografica, meteorologica, ambientale,
economica, etc.
Tutti i contenuti di cui stiamo trattando sono, ovviamente, resi disponibili in formato digitale
e ciò è dato dal fatto che gran parte delle attività economiche e sociali sono migrate su internet,
per cui le attività degli utenti generano, anche automaticamente (basta un GPS attivo per
tracciare, anche se non si opera sullo smartphone) grandi quantità di dati.
Le attività svolte dagli utenti, anche in assenza di interazione diretta con un dispositivo
elettronico, generano dati e possono fornire informazioni rilevanti sui comportamenti e sulle
preferenze degli individui.
Si pensi, appunto, ai dati di geolocalizzazione degli individui forniti dagli smartphone (nei
quali tale funzione risulti attivata), nonostante non vi sia un’attiva interazione con il dispositivo da
parte dell’utente. Allo stesso modo, le videocamere di sorveglianza, nel riprendere la presenza ed i
movimenti degli individui in una determinata zona, acquisiscono dati che poi possono essere
elaborati al fine di inferire informazioni sui flussi delle persone. Anche gli strumenti di pagamento
elettronici consentono di acquisire informazioni sui comportamenti di acquisto e le preferenze degli
utenti che li utilizzano.
Sono quindi gli utenti stessi a produrre contenuti che si rivelano fonte per i big data, dalla
posta elettronica alla navigazione satellitare, per non parlare dei social media, in cui i fruitori
caricano i propri contenuti (foto, video, testi), condividendoli.
La fase di raccolta dei big data è particolarmente connotata nell’ambito di attività svolte
dagli utenti in contesti altamente informatizzati come quello dell’internet delle cose (internet of
things), un ambito che si estende dal fenomeno diffuso della smart city, con i sistemi interconnessi
che riguardano applicazioni come quelle del traffico stradale a quelle domestico della smart
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home, dove ad essere interconnessi sono gli elettrodomestici ed altri servizi come quelli di
sorveglianza.
Un’importante fonte per alimentare i big data è quindi l’internet delle cose, che vede
applicazioni emblematiche in campo industriale, come quella per la manutenzione predittiva, atta
ad individuare il tempo residuo prima del guasto, effettuata sulla base dell’analisi di big data
attraverso cui individuare i parametri che vengono misurati ed elaborati utilizzando appropriati
modelli matematici e statistici. Una variazione delle misure effettuate rispetto allo stato di normale
funzionamento indicherà l'aumentare del degrado e, in definitiva, permetterà di prevedere il
momento del guasto.
Tutt’altro approccio è quello che riguarda l’interazione con la vita delle persone, dalla
domotica nella smart home all’uso della molteplicità di dispositivi, spesso indossabili (wearable
device) che registrano dati su ogni individuo (ad esempio quelli relativi alle attività sportive,
monitorando i parametri biologici).
L'idea di base dell'internet delle cose è connettere diversi oggetti del mondo reale - come
sensori, RFID (Radio-Frequency Identification), lettori di codici a barre, telefoni cellulari, ecc. – e farli
cooperare l'uno con l'altro al fine di completare un compito comune, attraverso l'uso di
microprocessori presenti negli oggetti. Esso consente lo sviluppo di applicazioni in diversi settori
chiave: si pensi, per esempio, ad una smart city, in cui i cittadini attraverso un’applicazione
presente nei propri smartphone hanno accesso in tempo reale ai dati sul traffico, sui parcheggi
disponibili, sulla qualità dell’aria, sui tempi di attesa dei mezzi pubblici, sulle farmacie di turno
aperte, sul numero di pazienti presenti nei pronto soccorsi. Tutto ciò grazie a sensori interconnessi, i
quali trasmettono le proprie rilevazioni ad un server centrale che elabora e rende disponibili le
informazioni ai propri utenti.
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Attraverso i sensori posti nei dispositivi mobili, nei mezzi di trasporto, nelle infrastrutture
pubbliche (aeroporti, porti, stazioni ferroviarie) e negli elettrodomestici, l'internet delle cose rende
possibile il fatto di trasmettere e memorizzare le informazioni afferenti al funzionamento di
apparecchiature e dispositivi tra loro connessi, sia in ambito lavorativo sia la quotidianità delle
attività private dei singoli individui.
In tal modo possono essere acquisiti vari tipi di dati (ambientali, geografici e logistici), che,
in generale, presentano molteplici caratteristiche tipiche dei big data, tra cui l’eterogeneità, la
varietà, l’assenza di una struttura, la forte relazione spazio/tempo e la rapida crescita.
I dati generati dagli utenti o dagli oggetti connessi nell’ambito dell’internet delle cose
vengono quindi acquisiti tramite i dispositivi digitali coinvolti nell’atto di generazione, dagli
smartphone ai sensori ambientali (di movimento, di temperatura, di umidità), risultando così nella
disponibilità dei soggetti che sviluppano e rendono operativi questi sistemi (ad esempio, nel caso
degli smartphone, i fornitori del sistema operativo), i quali, tuttavia, per acquisire la disponibilità di
dati personali devono necessariamente chiedere il preventivo consenso dell’utente che li ha
generati.
Proprio gli smartphone rivestono un ruolo centrale nell’acquisizione dei dati generati dagli
utenti, in quanto dispongono di numerosi dispositivi di input (come i sensori di movimento, di
luminosità, di localizzazione, la tastiera e il touch screen) integrati in un unico strumento connesso
ad internet e che accompagna l’utente in tutte le sue attività quotidiane. Si evidenzia, in
particolare, che in uno smartphone i veicoli per l’acquisizione dei dati sono rappresentati, da un
lato, dal sistema operativo e, dall’altro, dalle applicazioni pre-installate o successivamente
acquistate ed installate dall’utente.
Nel secondo caso i dati sono acquisiti dai rispettivi sviluppatori.
Più in generale, tutte le attività online degli utenti (quali l’invio e la ricezione di posta
elettronica, la navigazione satellitare o l’uso di servizi di social network) – a prescindere dal
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dispositivo utilizzato– generano una enorme quantità di dati, tipicamente personali, che
alimentano una copiosa attività di acquisizione.
Tecnicamente l’acquisizione dei dati generati dagli utenti presuppone l’utilizzo di sistemi
dedicati al loro tracciamento che, con specifico riferimento alla navigazione sul web, sono
costituiti dai cosiddetti cookie; questi ultimi sono file di testo che raccolgono le preferenze (es:
lingua, interfaccia, luogo dal quale avviene l’accesso, ecc.) e le informazioni del consumatore (es:
pagine che ha visitato, testi trasmessi, ecc.) attivo in un sito web, consentendone una precisa
profilazione, che peraltro viene aggiornata in occasione di ogni successivo accesso al medesimo
sito.
Nell’ambito dell’internet delle cose i dati di tipo ambientale, geografico o logistico
vengono acquisiti dai dispositivi installati nelle abitazioni ovvero nei siti di produzione industriale, nei
locali commerciali e nell’ambiente. Anche per la gestione dei dispositivi dell’internet delle cose è
frequente il ricorso a soluzioni standard predisposte dai grandi player digitali (quali, ad esempio,
Amazon, Google, Facebook o Apple), che, essendo di regola integrate con funzionalità di
elaborazione dei dati acquisiti, assicurano loro la disponibilità dei dati stessi.
Nel processo di acquisizione dei dati possono intervenire anche i cosiddetti data broker,
ossia soggetti che aggregano dati da diverse fonti (principalmente siti internet) e li organizzano per
metterli a disposizione di soggetti terzi.
Tali intermediari, operando contemporaneamente su molteplici siti, realizzano importanti
economie di scala e di scopo (grazie alla varietà dei dati raccolti sui diversi siti) e consentono di
aumentare l’ampiezza e la profondità della raccolta dati. I data broker alimentano un mercato
poco trasparente soprattutto per gli utenti finali, che non sono messi nelle condizioni di conoscere il
percorso compiuto dai dati che vengono acquisiti dai siti internet e/o dalle piattaforme online a
cui accedono.
Vi sono, infine, dati che possono essere acquisiti senza doversi interfacciare con gli utenti o
comunque con i soggetti che generano quei dati. Si tratta dei cosiddetti open data, generalmente
prodotti dagli organismi pubblici e per definizione liberamente accessibili a tutti.
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3. La memorizzazione e l’elaborazione dei big data
Per memorizzazione si intende il processo di trasferimento del dato dal dispositivo di
acquisizione alla memoria di un sistema di elaborazione in modo tale da poterlo trattare.
Nell’ambito di tale processo assume grande rilevanza (specie in ragione delle dimensioni
del fenomeno in esame) la dimensione della integrità e sicurezza dei dati.
In considerazione del grande volume dei dati che vengono acquisiti, si rendono necessari,
per l’attività di memorizzazione, sistemi di elaborazione dotati di memorie capienti, ad accesso
rapido e con tempi di trasferimento veloci. L’accesso a tale risorsa non sembra rappresentare un
ostacolo allo sviluppo di attività che coinvolgono i big data, giacché fino ad ora lo sviluppo
tecnologico ha determinato un progressivo trend di riduzione dei prezzi delle memorie.
I dati isolatamente considerati hanno poco valore, ma lo acquisiscono quando sono
organizzati. Per tale ragione riveste un ruolo centrale nell’intera filiera dei big data la fase della
elaborazione, che comporta l’organizzazione dei dati grezzi non strutturati in informazioni suscettibili
di essere utilizzate per finalità economiche.
L’attività di analisi, infatti, consente di estrarre velocemente conoscenza da grandi moli di
dati non strutturati così da ottenere informazioni possibilmente in un formato compatto e
facilmente interpretabile.
Dopo una iniziale fase di estrazione – durante la quale i dati vengono reperiti dalle diverse
fonti disponibili, selezionati e caricati nella memoria del sistema di elaborazione – ed una
successiva integrazione di tutte le informazioni che si riferiscono agli stessi elementi o domini
applicativi, interviene la vera e propria analisi dei dati, che avviene tramite tecniche di analisi e
strumenti capaci di far emergere dai dati grezzi non strutturati informazioni suscettibili di
interpretazione e utilizzo pratico.
In linea generale, le tecniche di analisi consistono per lo più in algoritmi tra i quali si
distinguono quelli di interrogazione e quelli di apprendimento. Mentre i primi mirano a rispondere a
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delle richieste precise da parte degli utenti poste in forma di interrogazioni, i secondi invece mirano
ad estrarre nuova conoscenza, nuove tesi e si avvalgono di tecniche avanzate di intelligenza
artificiale come il machine learning.
La caratteristica di questi algoritmi, il cui funzionamento evolve in base all’esperienza
acquisita, è di essere variabili nel tempo, anche con elevata velocità.
L’implementazione degli algoritmi a sua volta richiede modelli informatici di calcolo che
coinvolgono risorse hardware e al software che nel sempre più diffuso modello del cloud
computing sono disponibili in data center remoti e vengono rilasciate rapidamente e in modo
dinamico agli utenti.
Proprio l’intelligenza delle tecniche di analisi, unitamente alla voluminosità e varietà dei
dati, sta facendo emergere una importante innovazione nel processo di estrazione della
conoscenza.
Nel nuovo paradigma analitico, cosiddetto data driven, i dati concorrono non solo a
verificare ipotesi teoriche con tecniche statistiche, ma anche a esplorare nuovi scenari e ricavare
nuove teorie, nonché, più in generale, a scoprire nuova conoscenza attraverso gli algoritmi di
intelligenza artificiale.
Si tratta di un approccio all’acquisizione delle informazioni e alla generazione di
conoscenza del tutto innovativo dal punto di vista metodologico, che riconosce ai dati il ruolo di
guida e agli algoritmi il compito di trovare modelli che la metodologia tradizionale, forse solo a
fatica, potrebbe individuare (salvo doverli poi sottoporre a successiva verifica). La portata
innovativa è tale che alcuni studiosi parlano di vera e propria rivoluzione scientifica rispetto
all’approccio classico ipotesi-modello-esperimento.
Nell’ambito di questo nuovo paradigma analitico, i dati appaiono rivestire rilevanza
centrale. I programmi di intelligenza artificiale apprendono grazie alla disponibilità di un
elevatissimo numero di esempi. Pertanto, il dato, in quanto sorgente di informazione sul fenomeno
che si intende studiare, rappresenta l’origine stessa dell’evoluzione degli algoritmi, cosicché è la
disponibilità di nuove fonti di dati che consente il miglioramento degli algoritmi impiegati e/o lo
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sviluppo di nuovi algoritmi. D’altra parte, anche quando gli algoritmi non mutano nel tempo, il
progresso della conoscenza dipende dai dati.
Ad esempio, in diversi ambiti (quali le previsioni metereologiche o la traduzione online) i
miglioramenti registrati negli ultimi anni sono riconducibili non tanto agli algoritmi, che
sostanzialmente non sono mutati rispetto al passato, quanto alla disponibilità di immensi
quantitativi di dati, oltre che alla capacità computazionale alquanto più potente.
In ogni caso, i grandi player dell’economia digitale (quali Google, Apple, Facebook,
Amazon, Microsoft) appaiono godere di un vantaggio rispetto alle imprese dei settori tradizionali
dal momento che, oltre a disporre di enormi quantità di dati, si distinguono per cultura e
propensione all’investimento, e dunque sono stati i primi a sviluppare gli algoritmi capaci di
analizzare grandi volumi di dati e tuttora innovano e migliorano costantemente la loro capacità di
data analytics cercando e acquistando soluzioni computazionali efficienti, risorse umane di
eccellenza nonché intere start up innovative.
Infine, per quanto riguarda le soluzioni per la memorizzazione e l’elaborazione, indispensabili
per adottare l’approccio data driven, sembra doversi escludere che i soggetti che non ne
dispongono al proprio interno versino in una condizione di svantaggio competitivo, considerata la
possibilità di acquisire in outsourcing i servizi di cloud computing, che rende i costi per l’acquisto
della capacità di stoccaggio e delle infrastrutture di calcolo sostanzialmente lineari rispetto alle
dimensioni dell’attività svolta.
La disponibilità di informazioni estratte mediante l’analisi dei big data ha reso possibile un
cambio di paradigma anche nei processi decisionali, anch’esso guidato dai dati (decision
making), nel senso che le decisioni possono essere prese direttamente sulla base dei dati, nonché
delle correlazioni tra di essi, senza la necessità di una compiuta preliminare comprensione del
fenomeno oggetto dell’intervento.
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In altri termini, in una prospettiva di utilizzo dei dati, dapprima interviene l’analisi dei fatti,
quindi l’azione e infine, e solo eventualmente, la comprensione del fenomeno.
I big data possono contribuire all’efficientamento e al miglioramento dei processi
direzionali, gestionali e operativi delle organizzazioni. Infatti, grazie alla raccolta e all’elaborazione
di dati relativi ai processi interni e al loro monitoraggio è possibile individuare i punti di scarsa
produttività e intervenire per migliorare quest’ultima.
Inoltre, i big data possono essere utilizzati per offrire prodotti e servizi innovativi, che non
potrebbero essere altrimenti realizzati. Si pensi, ad esempio, ai servizi che offrono informazioni agli
utenti in merito alle condizioni del traffico sulle arterie stradali, realizzati attraverso la raccolta e
l’analisi dei dati di posizione e di spostamento di milioni di singoli utenti.
I big data possono altresì consentire alle imprese e alle istituzioni di ottenere una
conoscenza dettagliata dei singoli consumatori, ossia dei loro bisogni e delle loro preferenze. Il
punto è nel creare un equilibrio sociale, magari governato dalla politica pubblica, per cui si possa
garantire il fatto che l’estrazione del valore dai big data possa essere reinvestito nell’innovazione
per l’uso pubblico, garantendo un’autoregolazione di un sistema evoluta che sappia
contestualizzare l’avanzamento tecnologico nel quadro d’insieme di ciò che definiamo
l'innovazione adattiva.
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Indice
1.
L’INNOVAZIONE DI PROCESSO ............................................................................................................ 3
2.
LA COGNIZIONE PERCETTIVA E IL PENSIERO ABDUTTIVO ................................................................... 4
3.
IL DISTILLATO DI INTELLIGENZA COLLABORATIVA ............................................................................... 7
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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1. L’innovazione di processo
Il Design Thinking mira a trovare risposte progettuali ai più vari contesti (da quelli della
rigenerazione urbana a quelli di una filiera commerciale andata in crisi) intervenendo in modo
creativo sui problemi esistenti, cercando di ridefinirne i contorni, fin quando non si trovi un varco
per superarli e impostare le opportune innovazioni di processo.
L’innovazione di processo consiste nell’innovazione di procedure o metodi o strumenti, per
arrivare a ottimizzare i processi precedenti che si sono rivelati obsoleti, ottenendo quindi una
maggiore efficienza. L’innovazione di processo si distingue dall’innovazione di prodotto perché
riguarda la condizione immateriale, ovvero gli aspetti organizzativi e procedurali.
Il concetto di innovazione di processo risale alle teorie dello sviluppo economico di Joseph
Schumpeter, ministro delle finanze della Prima Repubblica austriaca nel 1919, che utilizzò un
approccio “dinamico” associando la produzione industriale alle nuove conoscenze scientifiche e
alla domanda emergente dalla società.
L’innovazione di processo in edilizia è data dal rapporto architettura-industria, con
l’affermazione della standardizzazione e della prefabbricazione. La mitigazione degli impatti
ambientali determina oggi un’innovazione di processo d’impronta ecologica.
L’innovazione di processo è legata ai cambiamenti necessari per aumentare l’efficienza
nella produzione di prodotti o servizi, in stretta relazione con l’evoluzione tecnologica, con una
forte attenzione alla re-ingegnerizzazione dei modelli precedenti.
In tal senso il design thinking è il pensiero progettuale che sperimenta ciò che è
tecnologicamente fattibile ed economicamente sostenibile per innovare un processo produttivo o
organizzativo.
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2. La cognizione percettiva e il pensiero abduttivo
L'espressione design thinking è attribuita a Herbert Simon che nel 1969 descrisse i processi
decisionali nelle organizzazioni economiche. Per questo nel 1978 vinse il Premio Nobel per
l'economia.
Nonostante derivi dall'ambito del design industriale, il design thinking oggi è maggiormente
applicato nei campi del management e del marketing e la sua prospettiva di utilizzo riguarda
sempre più la governance internazionale e l’innovazione sociale.
Il design thinking permette di costruire idee sulle idee degli altri, secondo la metodologia
human centred approach, la conoscenza incardinata al comportamento umano, per cui
multidisciplinarità, collaborazione e creatività si predispongono a generare brainstorming. È su
questa linea che nel 1990, con i Design Thinking Research Symposia, figure come Terry Winograd,
David Kelley, Larry Leifer e Tim Brown combinarono sempre più la consulenza strategica con la
trasformazione digitale.
Il design thinking è un processo di pensiero complesso per concepire nuove realtà, creando
processi che attraverso il problem solving risolvono le funzionalità di una situazione, produttiva o
manageriale che sia.
I progettisti del design thinking sono allo stesso tempo analitici ed empatici, razionali ed
emotivi, metodici ed intuitivi, coscienti della pianificazione e dei vari limiti ma allo stesso tempo
spontanei e inventivi.
Questo approccio dualistico viene definito abductive thinking (pensiero abduttivo), per
differenziarlo dal ragionamento razionale deduttivo e induttivo.
Il pensiero abduttivo è un concetto sviluppato dal filosofo Charles Sander Pierce (1839 –
1914), secondo cui nessuna nuova idea può essere prodotta dalla deduzione o dall'induzione
usando dati consolidati.
In tal senso viene individuato anche come il primo passo del
ragionamento scientifico in cui viene stabilita un'ipotesi per spiegare alcuni fatti empirici.
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Ciò significa pensare attraverso differenti prospettive riguardo a possibilità future che non
sono ancora presenti nei modelli esistenti. Si può dire quindi che è un modo di pensare in cui
emozioni e visione creativa sono importanti tanto quanto la razionalità.
Collegato al concetto di abductive thinking vi è l'importante ruolo della cognizione
percettiva, un'abilità importante nella creazione di nuove realtà immaginate da visualizzare.
Si può intendere la cognizione percettiva come il processo complesso, ludico e creativo al
contempo, di sollecitare il pensiero con l'input visivo mediante soluzioni grafiche dello sketching e
del visual thinking, con disegni, tag cloud generate nel web, mappe (sia concettuali sia
georeferenziate) e modelli prototipali, per visualizzare ed esplorare i problemi in campo dando una
forma visiva all'attività di progettazione.
Visualizzare i propri pensieri nel corso della loro produzione porta i progettisti a chiarire le
idee, in un’attività di sketching che diventa così un'estensione dell'immaginario mentale.
Visualizzando i pensieri associati a un progetto, il progettista può spazializzare il problem solving
scoprendo aspetti non previsti, qualificando la concentrazione e la cognizione percettiva sui
problemi in oggetto.
Le caratteristiche di un progettista di design thinking sono la predisposizione alla cognizione
percettiva e visuale, l’osservazione, la sfida alla percezione stereotipata, contemplare emozioni e
razionalità allo stesso livello, soggettività, il pensiero abduttivo e inventivo invece che analitico,
deduttivo e induttivo. Tutto ciò porta ad accogliere anche il fallimento come una parte del
processo, trovandosi a proprio agio in un contesto di incertezza, e predisponendosi, con un
approccio empatico, alla conoscenza di ciò di cui gli utenti hanno bisogno e che desiderano.
Un'altra caratteristica fondamentale del design thinking, come si è già rilevato, è lo humancentred approach, che si esprime nella maniera collaborativa con cui i progettisti lavorano
utilizzando un metodo partecipativo di co-creazione.
Si è al cospetto di uno spostamento dal progettare per gli utenti, all' human-centred
approach, ovvero progettare con gli utenti: i progettisti sviluppano soluzioni innovative non solo
lavorando in team con colleghi (designer, ingegneri, specialisti di marketing, etc.), ricercatori e
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stakeholder, ma sempre più spesso anche con i gli utenti, quando sono i destinatari finali dell’esito
dei laboratori di design thinking, come quelli orientati alla rigenerazione urbana e all'innovazione
sociale.
Il design thinking vede le persone protagoniste della co-creazione per cui si tende sempre
più a utilizzare questo metodo per la risoluzione di problemi sociali. Negli ultimi anni queste
metodologie sono correntemente usate in campi come lo sviluppo internazionale, la sanità, il
design dei servizi pubblici e la gestione di problem solving per comunità territoriali, organizzazioni
pubbliche e governi.
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3. Il distillato di intelligenza collaborativa
Il design thinking dinamizza i processi creativi di co-progettazione per arrivare alla
definizione di strategie d’innovazione. Si tratta di una modalità che sollecita la capacità delle
organizzazioni e delle comunità ad affrontare, incrociandole tra loro, criticità e opportunità, con un
approccio di coopetition, intervenendo sulle decisioni, liberando una inedita intelligenza
collaborativa. L’obiettivo è quello di sviluppare il pensiero creativo, attraverso il visual thinking,
visualizzando con pratiche di sketching o action writing il processo collaborativo di progettazione in
corso, basato sui principi dell’intelligenza connettiva e del problem solving.
Il design thinking contempla la metodologia del problem-solving e si usa sempre più per la
ricerca di soluzioni a problemi in ambiti come la sanità, l’amministrazione pubblica, innovazione
sociale e territoriale come la rigenerazione urbana.
È un metodo che si basa su principi fondamentali, come l’alternanza di fasi divergenti e
convergenti, sia in fase di comprensione del problema da affrontare che in fase di sviluppo della
soluzione. Questo consente di arrivare a discernere tra criticità e opportunità attivando una
coscienza dinamica che non procede per dicotomie ma per armonizzazione delle contraddizioni.
Permette di valorizzare la creatività degli stakeholder coinvolti nei brainstorming di coprogettazione per profilare al meglio il team di innovazione orientato verso le decisioni e distillare le
idee in campo con l’intelligenza partecipativa generata.
È
fondamentale
per
realizzare
un’innovazione
efficace, considerare
i
destinatari
dell’innovazione come le principali sorgenti di conoscenza del campo di analisi, essenziali per
indurre strategie correlate sia ai bisogni reali sia ai desideri da sollecitare negli utenti-referenti.
Si sta rafforzando la convinzione che per la risoluzione dei problemi si debbano creare
nuove sinergie tra organizzazioni pubbliche e comunità territoriali, imprese e associazioni, basate
sulla capacità di moltiplicare, e non addizionare, le diverse intelligenze in campo, secondo i
principi dell’intelligenza connettiva.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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L’intelligenza connettiva è un concetto, coniato da Derrick de Kerckhove negli anni
Novanta, che si è innervato nello sviluppo del web in quanto tecnologia cognitiva, esplicitando le
inedite proprietà psicologiche della cooperazione on line con attività di vertiginosi brainstorming. In
questa connettività si attiva un processo tecnologico che di fatto si traduce in un processo
psicologico e una nuova sensibilità che riscopre il senso naturale delle cose naturalmente
interconnesse.
Il visual thinking
Una modalità efficace nell'esprimere la funzionalità di cognizione percettiva è quella della
tag cloud live, la nuvola delle parole chiave che esplicitano, ciò che avviene in tempo reale nel
web, raccolte attraverso l’attività di instant blogging, su twitter o instagram. È una attività di visual
thinking, ovvero di visualizzazione pubblica del pensiero in divenire, usata durante sessioni di lavoro
teorico, come quelli di design thinking. Questa attività di brainstorming si combina con un esercizio
di creatività connettiva, permettendo di distillare le idee in gioco, con una migliore individuazione
delle parole chiave.
Sono almeno tre le modalità adottate usualmente in questi brainstorming di design thinking.
Una è quella di videoproiettare la tag cloud, utilizzando particolari applicazioni web come visible
tweet che estraggono automaticamente i tweet associati a predefiniti hashtag, con animazioni
grafiche colorate per far esaltare i tweet più pertinenti. Un’altra è quella dell’action writing con
l’intervento di un copywriter competente, affinato ai temi in oggetto, che scrive disegnando su
grandi fogli applicati alle pareti, o su grandi lavagne, una sorta di mappa concettuale utilizzando
le parole chiave che fluttuano nella discussione.
Un'altra ancora è quella, spesso adottata nei tavoli dei diversi gruppi di lavoro, di utilizzare i
piccoli fogli degli appunti, o i post-it adesivi, per raccogliere le scritture immediate dei partecipanti
al brainstorming. Tutte queste modalità possono inter operare tra di loro.
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Il risultato è quello di comporre una “quarta parete” (concetto che deriva dal teatro
brechtiano) per cui oltre le tre pareti della scena c’è una quarta, quella dello spettatore che
diventa protagonista dell’operazione senziente in cui si ricombina collettivamente il senso generale
e prismatico (le varie riflessioni da angolazioni diverse) prodotto dal brainstorming.
La coopetition e il gioco a somma positiva
La coopetition (coopetizione) mette insieme la competizione con la cooperazione. La
logica che sottende la coopetition permette di armonizzare posizioni competitive che possono
unire le proprie forze sulla base di una particolare convergenza di interessi. Quando i soggetti
coinvolti in una sessione di changemaking partono da questo presupposto, adottando le modalità
di co-progettazione possono divenire più competitivi cooperando.
Saper gestire le interdipendenze e le tensioni legate alla coopetizione è la chiave per
raggiungere livelli di performance progettuale evoluta. La coopetition può quindi rivelarsi come un
driver per l'innovazione sociale, operando su soluzioni empiriche da testare anche con metodi
come quelli del problem solving.
Il motore della coopetition è il gioco a somma variabile-positiva o win-win, un'espressione
traducibile in vincente-vincente, oppure io vinco-tu vinci. Indica una situazione in cui ci sono solo
vincitori. Per estensione si considera win-win una qualsiasi pratica che non scontenti o danneggi
alcuno dei soggetti coinvolti.
Per gioco a somma positiva s’intende un’operazione in cui si crea un valore che prima non
c’era. Chi sta meglio di come stava prima non lo fa necessariamente a scapito di chi sta peggio.
Quel “meglio” è stato creato dal gioco stesso. Si aggiunge qualcosa di buono che prima non
c’era. Nei casi migliori, tutti i giocatori hanno guadagnato qualcosa.
Il progresso umano degli ultimi secoli è stato, in parte, un formidabile gioco a somma
positiva. Non soltanto tantissima gente sta meglio di come stava prima, ma il benessere
complessivo dell’umanità è aumentato in misura enorme. Eppure, per molti è parecchio difficile
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pensare a esempi di giochi a somma positiva, e per alcuni di noi è faticosamente controintuitivo
pensare alla politica, a una discussione controversa, o a una trattativa come potenziali giochi a
somma positiva. C’è forse una ragione evoluzionistica dietro la tentazione di pensare a somma
zero, quella per cui qualcuno deve uscire sconfitto.
Il mondo in cui hanno vissuto i nostri antenati per decine di migliaia di anni è stato un
mondo sproporzionatamente scandito da conflitti a somma zero. Nel mondo dei cacciatoriraccoglitori, più cibo per qualcuno significava quasi inevitabilmente più fame per qualcun altro. La
sopravvivenza richiedeva l’abilità di capire al volo e trattare molte interazioni sociali come sfide a
somma zero. Se siamo qui a parlare di design thinking e changemaking è perché siamo convinti
che conflitti e antagonismi, per quanto abbiano scandito la Storia, non siano più un modello
accettabile, per cui occorre trovare nuovi modelli di sviluppo più equo e sostenibile.
Nell’ambito del sistema delle imprese la modalità della coopetition è alla base della Open
Innovation, per cui il know how che prima veniva esclusivamente protetto con le rigidità dei
brevetti e del copyright tende a liberarsi e ad aprirsi in progetti collaborativi ispirati ai protocolli
della ricerca scientifica. Ciò amplifica le potenzialità dell’innovazione, come processo condiviso,
secondo i principi dell'etica open source.
Trovare il modo per tradurre le strategie competitive nella natura collaborativa della
coopetition è l’obiettivo che imprese, realtà del Terzo Settore e istituzioni tendono sempre più a
ingaggiare con laboratori dove le diverse intelligenze attuano sperimentazioni in più campi,
dall’innovazione digitale alla valorizzazione dei territori.
Si tratta di laboratori nei quali verranno sviluppate metodologie utili a gestire i cambiamenti
normativi e socio-economici e necessarie per liberare il potenziale delle organizzazioni
dell’economia sociale.
Questi percorsi forniscono competenze e abilità espresse da progettisti di design thinking
che si pongono come changemaker, figure del cambiamento che esprimono modalità innovative
per progettare e gestire progetti di innovazione sociale, esercitando anche il problem solving.
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Il problem solving
Il problem solving è un metodo che si misura con la risoluzione di problemi, un percorso per
cercare le migliori risposte possibili a determinate situazioni critiche, come quelle che vengono
affrontate in brainstorming di design thinking.
Ci sono problemi ricorrenti per i quali si stabiliscono risposte automatiche e problemi più
complessi, per cui la soluzione si ottiene attraverso un approccio particolare definito out of the box.
È un modo creativo per esercitare questa competenza, la soft skill che attiene al problem
solving, ovvero procedere rompendo gli schemi, uscendo fuori dalle cornici: “out of the box”. Ciò
vuol dire osservare le situazioni da diversi punti di vista, avventurarsi per strade non battute,
individuare soluzioni divergenti e, perché no, anche divertenti.
Il mondo è sempre più complesso, semplicemente perché è in corso una transizione
radicale, scandita dalla trasformazione digitale, e ciò si riflette nelle dinamiche delle organizzazioni,
pubbliche e private, sociali ed economiche che tendono riconfigurarsi.
In un contesto simile le incertezze sono la regola, perciò le competenze di design thinking,
changemaking e problem solving sono diventate ancora più importanti, e lo saranno sempre di
più.
Il problem solving comporta in primo luogo la definizione del problema, individuando il dato
reale e non solo un suo sintomo. Per analizzare bene una situazione c’è una metodologia messa a
punto da Sakichi Toyoda, fondatore della Toyota, quello definito dei “cinque perché”. Consiste nel
procedere progressivamente dal problema individuato come il più evidente ai problemi successivi
chiedendosi “perché” per 5 volte (o almeno andando avanti fino a quando si ottiene una risposta
sensata). Se la situazione è complessa può essere utile scomporre il problema principale in
sottoproblemi modulari, spacchettando la questione. Si tratta poi di rappresentare e analizzare il
problema: determinare i fattori rilevanti, capire quali informazioni ci servono, selezionando i dati più
pertinenti.
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A questo punto chiedersi perché il problema si è verificato. La risposta a questa domanda
può essere la causa radice o solo un sintomo, quindi reiterare le domande nel brainstorming finché
non si identifica la causa radice.
È di fronte a criticità simili che il design thinking evolve l’approccio problem solving con
metodologie creative, in cui le possibili soluzioni alle domande poste dal problema, prendono
forma con sketching o visual thinking.
Individuate le diverse possibili soluzioni si può tentare un piano di attuazione, magari con
modelli prototipali (mappe interattive, modelli digitali 3D, plastici, video, role game) su cui
impostare delle simulazioni attuative.
Sono metodologie che dimostrano come la creatività non riguarda più solo la dimensione
artistica e culturale ma quella organizzativa, capace di trovare la misura di ottimizzazione dei
processi, per creare le condizioni abilitanti perché l’innovazione sia adattiva, tesa cioè a porsi
come opportunità evolutiva.
In tal senso rilanciamo un concetto semplice e straordinario del matematico francese JulesHenri Poincaré che ci aiuta a comprendere come la creatività possa essere un driver, medium
straordinario per risolvere problemi, ricombinando tra loro i fattori problematici e delineare
prospettive non scontate.
Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili
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Indice
1.
LA RIVOLUZIONE DEL WEB 2.0 E DEL BLOGGING ................................................................................ 3
2.
LA CLASSE CREATIVA ........................................................................................................................... 5
3.
TALENTO + TOLLERANZA + TECNOLOGIA ............................................................................................ 7
4.
LE QUALITÀ DELLA SCRITTURA-AZIONE NEL WEB ................................................................................. 9
5.
LA LONG TAIL (CODA LUNGA) E LA FILIERA DEL VALORE GENERATA DAI BIG DATA ..................... 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 14
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1. La rivoluzione del web 2.0 e del blogging
La peculiarità che contraddistingue questo fattore di soggettività nella produzione di
informazione nel web è stata data dalla radicale mutazione culturale esplosa con il web 2.0. A
determinarla è stata una pratica dirompente sviluppata su scala globale sulla diffusione che
spiazzò gli assetti della comunicazione, per semplicità ed efficacia, il web log, comunemente
definito blog. Era di fatto un diario di bordo on line che ha esplicitato la forma migliore
dell’informazione autoprodotta. Scardinò i modelli comunicativi, superando gli assetti professionali
del giornalismo e della scrittura creativa propri della letteratura, superando la forma della
rappresentazione formalizzata per liberare un’energia imprevista, quella della partecipazione.
È la forma di un’informazione che esprime realtà condivisa, quella espressa dall’interazione
con un lettore che si fa autore di senso, secondo l’opportunità straordinaria di questa pratica di
comunicazione diretta e partecipativa. Si fa autore di sé stesso, alimentando i commenti di un
blog. Ma non solo: si fa prosumer, produttore-consumatore di informazione. Condizione ora
amplificata in social network come Facebook che ha tracimato, espandendosi su scala globale.
Il blog è uno spazio che permette di esprimersi e raccontarsi, pubblicando nel web senza
dover passare attraverso le competenze di un webmaster, esprimendo disintermediazione.
Il blog è basato su un software di personal publishing, molto simile a quello dei forum, per
cui consente di sollecitare l’impronta soggettiva della composizione della scrittura in rete, visto che
tende in modo inconfondibile alla forma del diario con data e ora della pubblicazione, time by
time.
Il blog significa anche traccia su rete e le prime di queste tracce risalgono al 1997 negli Stati
Uniti, anche se nello stesso anno a Torino, in occasione della Biennale dei Giovani Artisti del
Mediterraneo si creò un diario di bordo on line con il consorzio Gruppo Entasis. Si basava sullo
stesso principio, nonostante le pagine fossero composte con un editing in html da diverse multitaskforce, con immagini e brevi filmati, utilizzando una delle prime opportunità di rete a banda larga, in
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soluzione ADSL. Era il 1997 e Torino fu una delle prime città ad utilizzare in via sperimentale quella
rete inscritta nel progetto Socrate di STET-Telecom.
Il fenomeno dei blog ricorda l’idea su cui si sono sviluppate le radio libere negli anni
Settanta, indipendenti, creative, spontaneiste. La radio è uno dei media più performativi: nel loro
processo di miniaturizzazione gli apparecchi radio sono stati portati fuori dalle case per inserirli nella
mobilità (automobili, barche, autotreni) fino ad essere portatili (sempre più piccoli, ed ora anche
introdotti nei telefoni cellulari o tessute negli abiti, wearable), inscritti nella nostra quotidianità a
pieno titolo.
Con i blog si creò insomma quella condizione che faceva di un valore d’uso della
comunicazione, un gesto creativo. Questo è ciò che s'intende con la definizione di performing
media, quella capacità di giocare i media per non esserne giocati, per non essere solo
consumatori ma produttori di informazione.
Una condizione abilitante per fare dell’innovazione qualcosa da dimensionare allo sviluppo
della società, inventando applicazioni e processi che possono attivare quella nuova rete del
valore che passa attraverso la propria creatività come nella sharing economy in cui la
partecipazione ridefinisce i modelli economici.
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2. La classe creativa
Richard Florida, noto economista e scienziato sociale statunitense, definì, nel 2002, classe
creativa quella composizione sociale di autori multimediali e media maker che si stava rivelando
come una forza trainante fondamentale per lo sviluppo economico post-industriale negli Stati Uniti.
Florida individua la classe creativa in almeno 40 milioni di lavoratori (circa il 30 per cento
della forza lavoro degli Stati Uniti) e definisce questa realtà di nuove professionalità secondo
un’articolazione estesa.
Un nucleo super-creativo che riguarda una vasta gamma di professioni in diversi ambiti,
dalla scienza alla formazione, con focus rilevanti nella programmazione informatica, nelle arti e il
design.
In aggiunta a questi due gruppi principali di persone creative, c’è la componente dei
bohemian che interpretano la creatività come stile di vita, evolvendo lo statuto della moda e del
trend dei comportamenti non convenzionali.
Le teorie sociali avanzate da Florida si basano sul fatto che c’è una nuova classe
emergente composta da lavoratori della conoscenza, intellettuali e artisti che rappresenta un
importante passaggio dalle economie manifatturiere e dei servizi a espressioni economiche
innovative, per alcuni aspetti ancora inedite.
La classe creativa non è una classe di lavoratori tra i tanti, ma una componente sociale
che interpreta al miglior grado l'innovazione digitale per l’evoluzione della società con tutte le
ricadute economiche che ciò comporta.
Florida definisce classe creativa qualcosa che dopotutto è sempre esistito nei secoli. In
passato riguardava solo alcune élite di intellettuali, artisti e scienziati, compreso il fenomeno
dell’Avanguardia, sia quella storica di Futuristi, Dada e Surrealisti sia quella di massa che si
prospettò sulla scia dei movimenti studenteschi degli anni Settanta ma che in Italia non prese la
volata professionalizzante (se non per poche eccezioni) come negli Stati Uniti e in altri Paesi
europei.
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Va però detto che è proprio con la rivoluzione digitale che si sta definendo in termini estesi
questa connotazione di creatività associata alle tecnologie che nell'arco di questi ultimi decenni
sta impattando su tutte articolazioni del sistema sociale e produttivo.
Gli Stati Uniti d'America è stato il primo grande paese ad avere una classe creativa
cresciuta con lo sviluppo della tecnologia dell'informazione, già a partire dagli Settanta del secolo
scorso.
Nel 1970 poco più del cinque per cento della popolazione degli Stati Uniti ha fatto parte
della classe creativa, un numero che nell’arco di due decenni è aumentato del 300%.
Oggi la classe creativa si è sviluppata anche in Europa raggiungendo quasi le stesse
percentuali di penetrazione nel tessuto sociale degli Stati Uniti, concentrandosi nelle aree
metropolitane, che per attirare la classe creativa si sono predisposte ad un cambiamento radicale,
reimpostando le proprie strategie urbanistiche, come ha fatto Berlino, solo per citare la realtà
urbana che di questa capacità attrattiva è diventata un modello internazionale.
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3. Talento + tolleranza + tecnologia
È infatti nelle grandi città che si concentra la classe creativa e Florida definisce alcuni
presupposti principali perché le città possano attrarre la classe creativa. I principali di questi fattori
si concentrano sulle cosiddette tre T: talento, tolleranza e tecnologia. Tre aspetti che
contribuiscono a connotare il creativity index per descrivere come i nuovi professionisti della classe
creativa vengano attratti dalle città che riconoscono il talento, creando opportunità che
premiano la meritocrazia; la tolleranza, garantendo una governance che rispetti i diritti civili; la
tecnologia, offrendo accesso alla banda larga delle reti iperconnesse.
La migrazione verso le aree urbane metropolitane è quindi data sia dalla disponibilità di
lavoro creativo, sia dal buon equilibrio sociale che permette lo sviluppo di comunità creative, in un
contesto dove l'utilizzo del web è pratica corrente.
La classe creativa per quanto sia orientata verso la globalizzazione delle idee e
dell’innovazione di processo, tende al contempo a valorizzare le comunità locali. Alla base di
questo fenomeno c’è il fatto che i lavoratori creativi cercano sbocchi creativi in tutti gli aspetti
della loro quotidianità e quindi migrano verso le città che sostengono attivamente la loro stile di
vita.
Il creativity index è quindi un coefficiente che permette di qualificare quelle città più
capaci di attrarre soggetti creativi e quindi stimolare la crescita economica combinata con
l'innovazione.
Realtà come l'Australia ne hanno fatto un piano strategico mentre Paesi come l’Italia, che
ha visto in campo sperimentazioni apripista (dopotutto il nostro è un Paese di pionieri), non ha
ancora ingranato e continua a sottovalutare il potenziale della classe creativa, trattando i
lavoratori della conoscenza e i media maker come una sorta di cognitariato, il proletariato
cognitivo, sottopagato e precario.
Intorno alla classe creativa si sono di certo create delle criticità spesso operate da
spregiudicate operazioni immobiliari, come la gentrification, che hanno visto snaturare alcune
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aree urbane, spesso quelle più centrali, creando zone ad alta densità di bistrot, locali musicali,
gallerie
d'arte,
negozi
di
abbigliamento.
Criticità
che
hanno
prodotto
diseguaglianze
semplicemente perchè la governance dei territori si sono piegate alle logiche del mercato
immobiliare e alle risorse immediate degli oneri di urbanizzazione, senza considerare l’opportuno
riequilibrio con le comunità territoriali.
Ciò non toglie il fatto che è sulla classe creativa che si rileva il fulcro di un fenomeno che
vede la creatività della presenza nel web, sull’onda del blogging ed oggi dei social network, come
un fattore di straordinario impatto sociale.
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4. Le qualità della scrittura-azione nel web
Navigare nel web comporta un agire attraverso il colpo d’occhio, riconoscendo le valenze
grafiche dell’interfaccia, cliccando su pulsanti e icone che permettono la navigazione interattiva.
È semplice, forse troppo.
La nostra evoluzione ci insegna però che non basta che una risorsa esista perché sia
evidente, non basta che sia visibile perché sia ben utilizzata, non basta che sia utilizzata perché
diventi espressione culturale.
Per agire in modo compiuto nel web va trovato un approccio flessibile e costruttivo, meno
legato alla metafora ricorrente della biblioteca digitale da dove si attinge e quindi all’idea che
agire in rete consista essenzialmente nella consultazione di pagine.
Si può ottenere informazione con grande facilità ma il punto qualificante è nell’esercitare le
dinamiche ipertestuali che aprono ad altri orizzonti, per individuare possibili strategie di
orientamento e nuovi percorsi di ricerca.
La qualità della scrittura-azione nel web è misurarsi con la condivisione di esperienza, per
elaborare informazioni che possano interagire con le risorse on line, a partire da quelle espresse da
altri utenti, sfruttando la rete per ciò che è: un sistema interconnesso tra diverse soggettività
proattive.
Si tratta di fare un'esperienza di ispirazione costruttivista, basata sulla collaborazione e sul
continuo riuso delle informazioni, connotando conseguentemente il web come ambiente di
condivisione.
È fondamentale essere consapevoli che la rete è un insieme di fonti e documenti in
continua evoluzione, un insieme di risorse in continuo aggiornamento, dove le conoscenze si
formano. Il fatto che sia un ambiente per comunicare in tempo reale sollecita il fatto di collaborare
con interlocutori remoti e spesso sconosciuti, per condividere esponenzialmente conoscenze ed
esperienze.
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C’è un fattore che va preso in considerazione è quello che sottende la cosiddetta
serendipity, con cui s'intende il trovare anche ciò che non si cerca. Ciò può comportare il navigare
senza una meta precisa ma spinti da curiosità, alla continua ricerca di qualche risorsa nascosta in
quella galassia senza confini che è la rete.
Il fattore più importante è quello motivazionale su cui innestare il desiderio dell’esplorazione:
è sulla base di ciò che le potenzialità della rete si rivelano come un ambiente educativo e
collaborativo dove l’obiettivo è quello della costruzione di percorsi e attraversamenti. In tal senso si
può acquisire la coscienza per cui la scrittura diventa come un’azione che mette in relazione il
mondo inconscio e quello reale dell’oggettività condivisa, in un’armonizzazione tra la percezione
soggettiva della realtà e quella più oggettiva in cui interagire con gli altri. È attraverso queste
forme articolate di negoziazione che si sviluppa una lunga coda di comunicazione interconnessa
che rilascia un valore e che viene catalizzato nel grande imbuto dei big data, la nuova materia
prima da cui estrarre le risorse per scenari della produttività futura.
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5. La long tail (coda lunga) e la filiera del valore
generata dai big data
Il concetto di long tail (coda lunga) è stato coniato da Chris Anderson nel 2004, quando
era direttore di “Wired”. Con quel termine descrive un modello statistico per cui il successo nel
web di un'idea, di un processo o di un prodotto non si basa solo sull’impatto immediato ma nel
corso del tempo, lungo la scia di attenzione che rilascia. Questo aspetto riguarda anche l’asset
commerciale per cui la vendita di grandi quantità di un prodotto può essere raffrontata al fatto di
vendere poche unità di tanti prodotti diversi. Il web marketing ha interpretato l’opportunità della
long tail attraverso strategie di parole chiave (tag) contestualizzate alla promozione dei prodotti o
delle idee disseminate in rete, per agganciare lungo il tempo chi non aveva focalizzato
l’attenzione specifica su quelle promozioni nel momento del loro lancio.
È nella filiera tracciata da questa lunga scia che s’inquadra l’importanza strategica dei big
data, visto che gran parte delle attività economiche e sociali transitano su internet, per cui le
attività degli utenti, generando grandi quantità di dati, tendono a creare un volume esponenziale
di informazioni che esprimono valore.
Il motore primario di questo processo di generazione di dati è quindi il web: attraverso la
rete in un minuto s’inviano 44 milioni di messaggi, sono effettuate 2,3 milioni di ricerche su Google,
sono generati 3 milioni di “mi piace” e 3 milioni di condivisioni su Facebook, e sono effettuati 2,7
milioni di download da YouTube. Google elabora dati di centinaia di Petabyte, Facebook ne
genera oltre 10 PB al mese e Alibaba decine di Terabyte (TB) al giorno per quanto riguarda il
commercio online in Asia.
A questo riguardo vale menzionare l’iniziativa di Google, che ha sottoscritto accordi
commerciali con alcuni gestori dei circuiti delle carte di pagamento, al fine di acquisire
informazioni sugli acquisti effettuati dai consumatori, utili a verificare l’efficacia di campagne
pubblicitarie personalizzate, nonché a profilare ulteriormente i propri utenti.
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Nella Società della Conoscenza il flusso dell’informazione sta cambiando la cognizione
stessa della produzione di ricchezza e di conseguenza quella del lavoro.
Le classi lavoratrici, operaia o impiegata nel cosiddetto terziario, così definite della Società
Industriale, si stanno dissolvendo in entità senza forma, in una struttura molecolare e non più di
massa, nel magma di un sistema sociale che si va configurando. Ciò produce disfunzioni e al
contempo opportunità, molto dipende dalla capacità di gestire questa transizione con piena
consapevolezza, dopotutto trattare di tecnologie e processi cognitivi riguarda proprio questo.
C’è infatti il rischio che certe competenze espresse da quella che abbiamo definito la
classe creativa possano creare degli ambiti sociali chiuse ed esclusivi, creando una una
tecnocrazia che si comporti come un’iperclasse, come la definì Jacques Attali, scenarista,
economista e consulente strategico già del presidente della Repubblica Francese di François
Mitterrand e di altri che lo seguirono. È lui stesso a porre le discriminanti: "l’iperclasse che si delinea
è composta da giovani cosmopoliti, cittadini del mondo che portano con sé il meglio e il peggio di
domani. Danno vita a una società volatile, senza preoccupazioni per il futuro, egoista ed edonista,
sospesa tra il sogno e la violenza". Un'analisi lucida e feroce da cui è possibile trarre delle utili
indicazioni per evitare che ciò che abbiamo individuato come classe creativa si riveli solo
quell’iperclasse così estranea alle sorti collettive.
Il rischio c’è tutto perché la produzione di informazione e applicazioni teecnologiche possa
rendere il futuro digitale come un sistema piramidale in cui la ricchezza sarà sancita dal know how
digitale.
È qui che è necessario intervenire per acquisire conoscenza diretta dei meccanismi, sia
degli applicativi più avanzati come l’internet delle cose, per evitare che si rivelino espressioni di
controllo totale.
L’obiettivo è essere consapevoli che nell’affermazione “l’informazione siamo noi” si espliciti
un senso di responsabilità civile, per cui si sviluppi una chiara percezione del fatto che il web è un
nuovo spazio pubblico e di conseguenza
comportamenti esclusivisti come quelli delle nuove
aristocrazie digitali vengano sfumati e relativizzati grazie al riequilibrio espresso da chi sia in grado di
affrontare la complessità tecnologica in gioco, trovando il modo migliore per giocarla per il bene
di tutti e non di pochi.
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Carlo Infante - Cloud Computing
Indice
1.
IL NUOVO PARADIGMA DELLA MEMORIA REMOTA E LA SCALABILITÀ DEI SISTEMI DIGITALI ........... 3
2.
LA TERZIARIZZAZIONE TECNOLOGICA AVANZATA ............................................................................. 5
3.
CITIZEN INTEGRATION ........................................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 11
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Cloud Computing
1. Il nuovo paradigma della memoria remota e la
scalabilità dei sistemi digitali
Il cloud computing è il nuovo paradigma tecnologico per rendere disponibili on line, su
richiesta, le risorse digitali: dalla capacità di calcolo, all'archiviazione dei dati, sino alle applicazioni.
Si tratta di una modalità che usa sia hardware che software da postazioni remote, attraverso il
cloud della rete, pagando quanto serve, secondo il principio pay per use.
Con il cloud computing un intero mondo dei servizi informatici è cambiato, con una
scalabilità dei sistemi digitali, condizione determinante che è opportuno descrivere in modo
articolato.
La scalabilità si basa sulla capacità di un software o di un hardware di adattarsi a un
aumento della richiesta da parte dell’utente, quindi della domanda (meglio la query,
l'interrogazione informatica rivolta ad un database) o di carico di lavoro per il processing digitale
nell'elaborazione dei dati. Indica quindi se un sistema è portato ad evolversi nel momento in cui è
interrogato, a crescere o meno. Nel mondo del web 2.0 questa condizione è esplosa perché gli
utenti hanno fatto un salto di qualità epocale, non sono rimasti solo consumatori dell’informazione
ma sono diventati protagonisti e quindi produttori dei processi di elaborazione informatica, senza
neanche le competenze opportune. In quella semplificazione dell’accesso si sono create delle
architetture digitali complesse perché fosse facile e immediato l’approccio.
Oggi troviamo nei social network numerose piattaforme scalabili che appaiono ai più
come un dato scontato, anche se sono frutto di decenni di progettazione complessa e studiate
per essere espandibili, scalabili, a un costante aumento di traffico.
Ci sono, tra le diverse accezioni di scalabilità (come quella di carico, relativa alla potenza
di calcolo; quella geografica, contraddistinta dalla distanza tra server e client che interrogano; e
quella amministrativa, sulla gestibilità delle diverse organizzazioni che accedono) due sviluppi
dimensionali principali.
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La scalabilità verticale, concepita per crescere in altezza, ovvero ampliando la capacità
del sistema aumentando le sue risorse. Ad esempio l’aggiunta di più memoria RAM, oppure più
CPU, potenziando l’attività del processing dei dati.
La scalabilità orizzontale, così intesa per crescere in larghezza, cioè con l’aggiunta di nuovi
nodi (server) in parallelo, in modo che funzionino come un sistema unico. Riguarda sia l’aspetto
hardware che software, e ne sono un esempio i sistemi distribuiti e il clustering.
Le tecniche di clustering vengono utilizzate generalmente quando si hanno tanti dati
eterogenei e si è alla ricerca di elementi caratterizzanti o anomali. Per esempio le compagnie
telefoniche utilizzano le tecniche di clustering per cercare di individuare in anticipo gli utenti che
diventeranno morosi.
Le tecniche di clustering si possono basare principalmente su due filosofie.
Dal basso verso l’alto (bottom up) in cui tutti gli elementi sono considerati cluster a sé e si
provvede ad unire i cluster più vicini. L’algoritmo continua ad unire elementi al cluster fino ad
ottenere un numero prefissato di parti, a questo punto si opera su modalità non gerarchica che
contempla anche i cosiddetti “insiemi sfocati”.
Dall’alto verso il basso (top down) per cui si inizia a dividere il cluster in tante parti inferiori
nella dimensione. Il criterio che guida la divisione è sempre quello di cercare di ottenere elementi
omogenei. L’algoritmo procede fino a che non ha raggiunto un numero prefissato di cluster, con
un approccio che si evolve in una struttura ad albero, gerarchica.
Con il termine scalabilità si può quindi indicare anche l’attitudine di un’attività nel far fronte
a un calo di domanda, rimuovendo nodi superflui così da conservare l’efficienza del sistema.
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2. La terziarizzazione tecnologica avanzata
Il cloud computing è una forma di terziarizzazione tecnologica avanzata, per cui gli utenti
possono affidare a un provider specializzato la gestione di una o più risorse informatiche che, da
quel momento in poi, vengono erogate via web attraverso un contratto di outsourcing.
Tutto questo, senza che l’utente, organizzazione, cittadino o impresa, debba accollarsi gli
oneri di acquisto di licenze o macchine per usufruire quei servizi.
Nel cloud il fornitore offre l’infrastruttura per gestire e distribuire i servizi in base alla richiesta
(on demand) e con una formula pay per use. Le modalità di fruizione sono stabilite da contratti
che prevedono un certo canone, come quelli che Google adotta per l’uso importante e
accessibile a chiunque di Drive.
Con il cloud computing non è più necessario acquistare software, hardware, sistemi di rete
e cluster di soluzioni informatiche semplici (tipo storage dei dati) o più complesse come un intero
data center.
Le aziende possono quindi dimenticarsi gli oneri e i vincoli associati al monitoraggio, alla
manutenzione e all’aggiornamento di applicazioni e macchinari pagando l’equivalente di una
bolletta. Ecco cos’è che rende prezioso il cloud computing per le organizzazioni.
L’approccio al cloud computing inteso come Software as a Service (SaaS) si sviluppa nei
primi anni del 2000, sull’onda del web 2.0 proponendo il software on line come servizio, a
pagamento con il Pay Per Use, ovvero pagare per l'uso. Un modello di distribuzione del software
applicativo dove un produttore di software sviluppa, opera (direttamente o tramite terze parti) e
gestisce un'applicazione web che mette a disposizione dei propri clienti in rete servizi di cloud
computing.
Con il SaaS chi fruisce del servizio non controlla l’infrastruttura che supporta il software; a
livello di rete, dei server, degli storage e dei sistemi operativi la gestione è interamente a carico del
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provider. Il cliente può solo decidere se limitare le funzionalità del software stabilendo criteri di
gestione delle identità e delle priorità degli accessi tramite dei set di configurazione
Con il termine Platform as a Service (PaaS) si intende un’applicazione di cloud computing
che integra i servizi, con una piattaforma che supporta lo sviluppo di applicazioni come linguaggi
di programmazione, librerie, servizi e strumenti dedicati, interamente sviluppati dal provider. Gli
elementi che costituiscono la PaaS permettono di programmare, sottoporre a test, implementare e
gestire le applicazioni, dalla configurazione all’ottimizzazione del software di base per le attività di
sviluppo. Tale servizio è tipico di alcune piattaforme utilizzate per sviluppare altri programmi, quali
Amazon Web Services o Microsoft Azure.
Si possono così sviluppare applicazioni e servizi avanzati come, ad esempio, soluzioni di
collaborazione a supporto dei team, l’integrazione dei database, o la gestione della cyber
security, tutto configurato in un’interfaccia web-based.
Una ulteriore evoluzione è IPaaS (Integration Platform as a Service) una piattaforma
tecnologica sul cloud che integra le diverse applicazioni e i dati prodotti da un’azienda o
un’organizzazione.
Si tratta di una tecnologia estremamente importante in quanto consente di superare
alcune situazioni che si verificano nell’ecosistema informazionale come la frammentazione delle
informazioni e l’uso dei sistemi sul cloud e in locale.
L’IPaaS si trova ad affrontare diversi livelli di aggiornamento del software gestionale; sistemi
legacy, ovvero tecnologia già presente (apparecchiature e applicazioni), talvolta obsoleti, ma
che contengono informazioni importanti in archivio.
Un processo di integrazione delle applicazioni porta con sé una serie di processi di base che
consentono a varie applicazioni disperse di condividere le informazioni e di mantenerle
sincronizzate. La piattaforma di integrazione comunica con le diverse applicazioni per estrarre i
dati. Tramite il processo di mappatura, trasforma i dati nel formato richiesto dalle applicazioni di
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destinazione e li integra. Un IPaaS è dotato di interfaccia web accessibile da qualsiasi punto in cui
è disponibile una connessione. Tale connettività deve essere inoltre garantita integrando
progressivamente i nuovi sistemi di collegamento che consentano agli utenti di standardizzare al
massimo i futuri processi di integrazione. L’IPaaS consente di integrare soluzioni e dati provenienti
sia dall’interno che dall’esterno dell'azienda, da ambienti digitali e locali. L’accesso alle
informazioni avviene in tempo reale tra i sistemi, ciò consente di prendere decisioni in tempi più
rapidi, risolvere più velocemente eventuali problemi, migliorare i tempi di risposta con gli utenti.
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3. Citizen integration
Lo sviluppo delle interrelazioni in internet è passato dai protocolli di rete come TCP
(Transmission Control Protocol) e
HTTP (HyperText Transfer Protocol), che hanno connotato lo
sviluppo storico dell’interconnessione dagli anni Novanta fino all’avvio del web 2.0 nei primi anni
del nuovo millennio, ad
una fase complicata di interfacce dedicate, espressa dall’Enterprise
Service Bus (ESB), che motivata da logiche chiuse, rivolte al business, generarono impatti negativi
sulla fruibilità delle interfacce.
Si è poi cercato di razionalizzare questa complessità raggiunta con nuovi ambienti di
integrazione utilizzabili a consumo, propri del cloud computing, come l’IPaaS (integration Platform
as a Service) e dalla diffusione delle API (Application Programming Interface), che rappresentano
un insieme di funzionalità esposte da una modalità aperta e standard per l’interrogazione e
l’accesso ai dati. Le API sono, da un lato, una tecnicalità che permette di fare in modo più rapido
quello che si è sempre fatto, ma dall’altro, aprono un potenziale in cui si concretizzano i modelli
basati sulla multicanalità rendendo disponibili i servizi applicativi su tutti i device, a tutti gli utenti.
Gartner (una delle società più importanti ad occuparsi di strategie nel campo della
tecnologia dell'informazione) ha definito citizen integration questa possibilità per alcuni utentiprosumer di occuparsi essi stessi dell’integrazione di alcune applicazioni, già fruite in cloud. Si tratta
di integrazioni che possono abilitare lo sviluppo rapido di nuovi servizi per concretizzarsi nella
trasversalità delle competenze digitali.
Le IPaaS privilegiavano l’usabilità rispetto alle funzionalità, ciò le rende formidabili in termini
di facilità d’uso, grazie al fatto di supportare l’integrazione mobile to cloud.
Il sistema API è un set di funzionalità che espone le funzionalità dell’applicazione
consentendole di comunicare con le altre applicazioni e abilitando il riuso dei servizi resi disponibili
che possono così comporsi e scomporsi in base alle necessità.
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Carlo Infante - Cloud Computing
Le API sono dunque strumenti indispensabili per erogare rapidamente i servizi e abilitare
modelli basati sulla capacità di rispondere in real time alle esigenze del mercato: è grazie alle API,
per esempio, che un’applicazione viene facilmente resa disponibile su mobile.
Queste soluzioni, inoltre, supportano la monetizzazione di dati e servizi esposti consentendo
di gestire transazioni, prezzi, misurazione del consumo, fatturazione, provisioning (configurazione) di
chiavi di accesso o token (dispositivi fisici per effettuare autenticazioni).
Le piattaforme di API management più complete, infatti, consentono di gestire l’accesso a
pagamento attraverso PayPal o altri circuiti.
Il cloud computing segnerà il futuro digitale solo se sarà garantita una connessione veloce
e continua e universale e non solo all’iperclasse, la componente tecnocratica della società.
I servizi di cloud computing saranno offerti sempre più alle imprese e alle organizzazioni,
cittadini compresi, anche per gestire i big data con quei volumi importanti di dati che richiedono
elevata capacità di estrazione ed elaborazione si porrà come una delle condizioni cardine per la
buona organizzazione dei mercati e dei sistemi sociali.
Al momento le soluzioni cloud sono concentrate su pacchetti gestionali di supporto
dell’amministrazione e alla contabilità, come nel caso della fatturazione elettronica che ha di fatto
accelerato l’utilizzo del cloud computing da parte delle imprese, per cui si sta rilevando che
almeno due aziende su tre stiano utilizzando il cloud.
Si prevede che entro il 2025 la somma di tutti i dati disponibili a livello mondiale sarà più che
quintuplicata.
Il futuro del cloud computing è negli ambienti ibridi, insiemi eterogenei e intercomunicanti
di tecnologie e servizi, fondamentalmente multicloud.
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Carlo Infante - Cloud Computing
Proprio questo concetto di multicloud è interessante, non solo per gli aspetti tecnici ma
soprattutto per l’influenza che soluzioni simili avranno sulle potenzialità del cloud, offrendo modalità
di hybrid cloud con l’unione di nuvole pubbliche e private per ottenere la massima flessibilità su di
un unico ambiente.
Questi ambienti possono essere utilizzati per scopi e compiti differenti, oltre che per ridurre i
rischi, garantendo sicurezza e rilanciando il ruolo dei CIO (Chief Information Officer) che ne
sapranno cogliere le sfide, come quella di semplificare il raggiungimento della conformità con le
nuove normative GDPR (General Data Protection Regulation).
La protezione dei dati è certamente il tema più discusso in questi anni, per cui l’infrastruttura
di cloud computing del futuro sarà un mix di soluzioni diverse, scalabili, flessibili e sicure, a partire
dalla protezione del dato, non solo in termini di tutela della privacy ma anche al fine di evitarne la
perdita, garantirne la disponibilità in qualsiasi momento, la portabilità e la localizzazione.
È proprio la protezione dei dati a rappresentare il grande motore ad imprimere il maggiore
impulso al cambiamento del cloud così come lo conosciamo, verso soluzioni sempre più evolute.
“Vorrei che tutti riflettessero più attentamente sui tipi di infrastrutture da cui dipendiamo e
che si chiedessero come possiamo renderle più resilienti.”
Vinton G. Cerf, uno dei pionieri del web e ora chief internet evangelist di Google
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Carlo Infante - Cyber Security
Indice
1.
DALLA SICUREZZA AL DISASTER RECOVERY......................................................................................... 3
2.
LE CYBER MINACCE .............................................................................................................................. 5
3.
MALWARE E GLI ALTRI SOFTWARE MALEVOLI ...................................................................................... 7
4.
CYBER ATTACCHI .................................................................................................................................. 9
5.
ENDPOINT SECURITY ........................................................................................................................... 11
6.
IL VULNERABILITY ASSESSMENT........................................................................................................... 13
7.
I CRACKER NON SONO HACKER ....................................................................................................... 14
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 15
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1. Dalla sicurezza al disaster recovery
Per misurarci con l'idea stessa di sicurezza è necessario capire quali possano essere le
minacce, individuarle e valutare le vulnerabilità dei sistemi informatici di cui ci si sta occupando.
La cyber security consiste nel difendere computer, server, dispositivi mobili, sistemi
elettronici, reti e dati dagli attacchi dannosi. È anche conosciuta come sicurezza informatica o
sicurezza delle informazioni elettroniche. La cyber security si applica a vari contesti e può essere
suddivisa in diverse categorie.
Sicurezza di rete: consiste nella difesa delle reti informatiche dalle azioni di malintenzionati,
che si tratti di attacchi mirati o di malware opportunistico.
Sicurezza delle applicazioni: ha lo scopo di proteggere software e dispositivi da eventuali
minacce. Un'applicazione compromessa può consentire l'accesso ai dati che dovrebbe
proteggere. Una sicurezza efficace inizia dalla fase di progettazione, molto prima dello sviluppo di
un software.
Sicurezza delle informazioni: protegge l'integrità e la privacy dei dati, sia quelle in archivio
che quelle temporanee.
Sicurezza operativa: include processi e decisioni per la gestione e la protezione degli asset
di dati. Comprende tutte le autorizzazioni utilizzate dagli utenti per accedere a una rete e le
procedure che determinano come e dove possono essere memorizzati o condivisi i dati.
Disaster recovery e business continuity: si tratta di strategie con le quali l'azienda risponde a
un incidente di cyber security e a qualsiasi altro evento che provoca una perdita in termini di
operazioni o dati. Le policy di disaster recovery indicano le procedure da utilizzare per ripristinare le
operazioni e le informazioni dell'azienda, in modo da tornare alla stessa capacità operativa che
presentava prima dell'evento. La business continuity è il piano adottato dall'azienda nel tentativo
di operare in continuità senza determinate risorse.
Formazione degli utenti finali: riguarda uno degli aspetti più importanti della cyber security,
le persone. Insegnare agli utenti a eliminare gli allegati e-mail sospetti, a non inserire unità USB non
identificate e ad adottare altri accorgimenti importanti è essenziale per la sicurezza di qualunque
azienda.
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Carlo Infante - Cyber Security
2. Le cyber minacce
A livello globale, le minacce informatiche continuano a evolversi rapidamente e il numero
di violazioni della sicurezza (data breach) aumenta ogni anno. Da un report di RiskBased Security
emerge che, solo nel 2019, ben 7,9 miliardi di record sono stati esposti a data breach, più del
doppio (112%) del numero dei record esposti nello stesso periodo del 2018.
La maggior parte delle violazioni, imputabili a criminali malintenzionati, ha colpito servizi
medici, rivenditori ed enti pubblici. Alcuni di questi settori sono particolarmente interessanti per i
cyber criminali, che raccolgono dati medici e finanziari, ma tutte le aziende connesse in rete
possono essere colpite da violazioni dei dati, spionaggio aziendale o attacchi ai clienti.
Visto il continuo aumento della portata delle minacce informatiche, International Data
Corporation prevede che, entro il 2022, la spesa mondiale in soluzioni di cyber security arriverà a
ben 133,7 miliardi di dollari. I governi di tutto il mondo hanno risposto a questo aumento delle
minacce informatiche pubblicando indicazioni per aiutare le aziende a implementare procedure
di cyber security efficaci.
Negli Stati Uniti, il National Institute of Standards and Technology (NIST) ha creato un
framework di cyber security. Per contrastare la proliferazione del codice malevolo e agevolarne
l'individuazione precoce, questo framework raccomanda il monitoraggio continuo e in tempo
reale di tutte le risorse elettroniche.
L'importanza del monitoraggio dei sistemi è ribadita anche nel documento "10 steps to
cyber security" fornito dal National Cyber Security Centre del governo britannico. In Australia, l’
Australian Cyber Security Centre (ACSC) pubblica regolarmente indicazioni per contrastare le
nuove minacce alla cyber security all'interno delle aziende.
La cyber security ha lo scopo di contrastare tre diversi tipi di minacce:
Cyber crimine: include attori singoli o gruppi che attaccano i sistemi per ottenere un ritorno
economico o provocare interruzioni nelle attività aziendali.
Cyber attacchi: hanno spesso lo scopo di raccogliere informazioni per finalità politiche.
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Cyber terrorismo: ha lo scopo di minare la sicurezza dei sistemi elettronici per suscitare
panico o paura.
Ma come fanno questi malintenzionati a ottenere il controllo di un sistema informatico? Nel
prossimo capitolo sono illustrati alcuni dei metodi comunemente utilizzati per minacciare la cyber
security.
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3. Malware e gli altri software malevoli
Malware è la contrazione di malicious software (software malevolo). Il malware, una delle
minacce informatiche più comuni, è costituito da software creato da cyber criminali o cracker con
lo scopo di danneggiare o provocare il malfunzionamento del computer di un utente legittimo.
Spesso diffuso tramite allegati e-mail non richiesti o download apparentemente legittimi, il malware
può essere utilizzato dai cyber criminali per ottenere un guadagno economico o sferrare cyber
attacchi per fini politici.
Esistono numerosi tipi di malware, tra cui:
Virus: è un programma capace di replicarsi autonomamente, che si attacca a un file pulito
e si diffonde nell'intero sistema informatico, infettandone i file con il suo codice malevolo. Il termine
viene usato per un programma che si integra in qualche codice eseguibile (incluso il sistema
operativo) del sistema informatico vittima, in modo tale da diffondersi su altro codice eseguibile
quando viene eseguito il programma che lo ospita, senza che l'utente ne sia a conoscenza. Il
termine virus venne adottato la prima volta da Fred Cohen (1984) della University of Southern
California nel suo scritto Experiments with Computer Viruses (Esperimenti con i virus per computer),
dove questi indicò Leonard Adleman come colui che aveva adattato dalla biologia tale termine.
La definizione di virus era la seguente: Un virus informatico è un programma che ricorsivamente ed
esplicitamente copia una versione possibilmente evoluta di sé stesso
Trojan: è un tipo di malware mascherato da software legittimo. I cyber criminali inducono gli
utenti a caricare Trojan nei propri computer, dove possono causare danni o raccogliere dati.
Spyware: è un programma che registra segretamente le azioni dell'utente, per consentire ai
cyber criminali di sfruttare tali informazioni a proprio vantaggio. Ad esempio, lo spyware può
acquisire i dati delle carte di credito.
Ransomware: malware che blocca l'accesso ai file e ai dati dell'utente, minacciandolo di
cancellarli se non si paga un riscatto.
Adware: software pubblicitario che può essere utilizzato per diffondere malware.
Botnet: reti di computer infettati da malware, utilizzate dai cyber criminali per eseguire
estrazioni di dati senza l'autorizzazione dell'utente.
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4. Cyber attacchi
L'immissione di codice SQL (Structured Language Query) è un tipo di cyber attacco con lo
scopo di assumere il controllo di un database e rubarne i dati. I cyber criminali sfruttano le
vulnerabilità nelle applicazioni data-driven per inserire codice malevolo in un database tramite
un'istruzione SQL dannosa, che consente loro di accedere alle informazioni sensibili contenute nel
database.
In un attacco di phishing, i cyber criminali inviano alle vittime e-mail che sembrano
provenire da aziende legittime, per richiedere informazioni sensibili. Gli attacchi di phishing hanno
solitamente lo scopo di indurre gli utenti a fornire i dati della carta di credito o altre informazioni
personali.
Un attacco Man-in-the-Middle è una minaccia informatica in cui un cyber criminale
intercetta le comunicazioni fra due persone allo scopo di sottrarre dati. Ad esempio, su una rete
Wi-Fi non protetta, l'autore dell'attacco può intercettare i dati scambiati tra il dispositivo della
vittima e la rete.
In un attacco Denial of Service i cyber criminali impediscono a un sistema informatico di
soddisfare le richieste legittime, sovraccaricando reti e server con traffico eccessivo. In questo
modo il sistema risulta inutilizzabile, impedendo all'azienda di svolgere funzioni vitali.
Quali sono le nuove minacce informatiche da cui aziende e utenti devono proteggersi? Di
seguito sono riportate alcune delle minacce informatiche più recenti segnalate dai governi di
Regno Unito, Stati Uniti e Australia.
Nel dicembre 2019, il dipartimento di giustizia (DoJ, Department of Justice) statunitense ha
accusato il leader di un'organizzazione cyber criminale di aver partecipato a un attacco con
malware Dridex sferrato a livello globale. Questa campagna malevola ha colpito il pubblico, i
governi, le infrastrutture e le aziende di tutto il mondo.
Dridex è un Trojan finanziario con varie capacità. Diffuso fin dal 2014, infetta i computer
tramite e-mail di phishing o malware esistente. È in grado di rubare password, dati bancari e
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informazioni personali, che possono essere utilizzati per transazioni fraudolente, e ha causato
enormi perdite finanziarie, dell'ordine delle centinaia di milioni di dollari.
Per rispondere agli attacchi Dridex, il National Cyber Security Centre britannico consiglia al
pubblico di "assicurarsi che i dispositivi siano dotati di patch, verificare che l'antivirus sia attivato e
aggiornato ed eseguire un backup dei file".
Nel febbraio 2020 l'FBI ha invitato i cittadini statunitensi a prestare attenzione al furto di
informazioni riservate da parte di cyber criminali che utilizzano siti, chat room e app di
appuntamenti. I malintenzionati approfittano di persone in cerca di nuovi partner, inducendo le
vittime a fornire i propri dati personali.
Secondo i report dell'FBI, nel 2019 le minacce informatiche a sfondo sentimentale hanno
colpito 114 vittime nel New Mexico, producendo perdite finanziarie per 1,6 milioni di dollari.
Alla fine del 2019, l'Australian Cyber Security Centre ha segnalato alle organizzazioni
nazionali la diffusione di una minaccia informatica globale basata sul malware Emotet.
Emotet è un sofisticato Trojan in grado di rubare dati e di caricare altro malware. Emotet
sfrutta le password più elementari. Questo ci ricorda l'importanza di creare una password sicura per
proteggersi dalle minacce informatiche.
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5. Endpoint security
La protezione dell'utente finale, o endpoint security, è un aspetto cruciale della cyber
security. Dopo tutto, sono spesso le persone (gli utenti finali) a caricare accidentalmente malware
o altri tipi di minacce informatiche nei propri desktop, laptop o dispositivi mobili.
Quindi, in che modo le misure di cyber security proteggono gli utenti finali e i loro sistemi? La
cyber security utilizza protocolli crittografici per crittografare messaggi e-mail, file e altri dati
importanti. Oltre a proteggere le informazioni in transito, questo consente anche di tutelarsi contro
perdite o furti.
Inoltre, il software di sicurezza degli utenti finali esegue la scansione del computer per
rilevare il codice dannoso, metterlo in quarantena e successivamente rimuoverlo dal sistema. I
programmi di sicurezza rilevare e rimuovere il codice malevolo e sono progettati per crittografare o
cancellare i dati sul disco rigido del computer.
I protocolli di sicurezza elettronica si prefiggono inoltre di rilevare il malware in tempo reale.
Molti di essi utilizzano l'analisi euristica (un metodo di rilevazione dei virus basato sull'esame del
codice per la ricerca di proprietà sospette) per monitorare il comportamento di un programma e
del suo codice, al fine di proteggersi da virus o Trojan che cambiano forma a ogni esecuzione
(malware polimorfico e metamorfico).
I programmi di sicurezza possono confinare i programmi potenzialmente dannosi in una
bolla separata dalla rete dell'utente, per analizzarne il comportamento e determinare come
rilevare più efficacemente le nuove infezioni.
I programmi di sicurezza continuano a sviluppare nuove difese, a mano a mano che gli
esperti di cyber security identificano nuove minacce e nuovi modi per combatterle. Per ottenere il
massimo dal software di sicurezza degli utenti finali, occorre insegnare ai dipendenti come
utilizzarlo. Soprattutto, mantenendolo costantemente in funzione e aggiornandolo di frequente, è
possibile proteggere gli utenti dalle nuove minacce informatiche.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Cyber Security
Cosa devono fare aziende e singoli utenti per proteggersi dalle minacce informatiche? Di
seguito sono riportati alcuni consigli di cyber security:
Aggiornare il software e il sistema operativo: questo permette di sfruttare le patch di
sicurezza più recenti.
Utilizzare software antivirus: soluzioni di sicurezza in grado di rilevare e rimuovere le minacce.
Utilizzare password complesse: assicurarsi di utilizzare password difficili da indovinare.
Non aprire allegati e-mail di mittenti sconosciuti: potrebbero essere infettati dal malware.
Non fare clic sui link contenuti nei messaggi e-mail di mittenti sconosciuti o in siti web non
familiari: è un metodo comune per diffondere il malware.
Evitare di utilizzare reti Wi-Fi non protette negli spazi pubblici: le reti pubbliche espongono i
dispositivi agli attacchi Man-in-the-Middle.
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Carlo Infante - Cyber Security
6. Il Vulnerability Assessment
Un Vulnerability Assessment Informatico è in sostanza una procedura approfondita di analisi
di tutte le componenti di una piattaforma informatica, per rilevare eventuali criticità e punti deboli
su cui intervenire per prevenire e ridurre al minimo il rischio di attacchi informatici. Un Vulnerability
Assessment non può prescindere dalla messa a disposizione di chi dovrà eseguirlo di tutte le risorse
necessarie allo scopo, partendo da tutta la documentazione esistente relativa agli asset da
esaminare fino a credenziali di alto livello riguardanti gli host da sottoporre ad analisi.
Una analisi effettuata senza tali informazioni sarebbe solo una analisi incompleta, parziale
che quindi difficilmente potrà dare gli esiti sperati, difficilmente aiuterà a portare il livello della
struttura posta sotto esame ad un grado di sicurezza maggiore di quello precedente l’analisi stessa.
Un Vulnerability Assessment prevede una fase di rimessa in sicurezza del sistema, di un
miglioramento dello stesso proprio sotto quel punto di vista, miglioramento che prevederà esso
stesso a sua volta di essere sottoposto a verifica attraverso un nuovo Vulnerability Assessment che
tipicamente segue il primo a distanza di tempo ravvicinata e concordata.
Il Vulnerability Assessment è un processo che si ripete nel tempo, vuoi per confermare,
certificare che sono stati risolti i rischi evidenziati nelle scansioni precedenti.
Un corretto Vulnerability Assessment Informatico si basa sulla definizione del perimetro da
sottoporre a valutazione e riguarda le strutture di rete interne dell’azienda, risorse esterne, dispositivi
mobili.
Le strutture interne sono a loro volta suddivise in: infrastruttura di rete sia fisica o Wi-Fi e
relativi dispositivi; host, siano questi postazioni di lavoro piuttosto che server; dispositivi presenti in
rete ma non rientranti nella rete di Firewall.
Naturalmente ogni società potrà possedere più strutture dislocate in diverse località e
collegate tra loro. In questo caso sarà la modalità di connessione a far optare per analisi dei singoli
siti visti come unità a sé stanti piuttosto che una analisi unica, fattibile in determinate situazioni.
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7. I cracker non sono hacker
Il cracker è il pirata informatico che da esperto di programmazione e sistemi e di sicurezza
informatica è in grado di introdursi in reti di computer senza autorizzazione allo scopo di
danneggiare un sistema informatico.
È importante non confonderlo con gli hacker che sono connotati da una cultura libertaria,
un'etica open source che trova origine nell'idea del software libero.
I cracker possono essere spinti da varie motivazioni a partire da quella del guadagno
economico con operazioni di spionaggio industriale o frodi.
La pratica del cracking esiste da quando esiste il software, ma la modifica del software si è
evoluta soprattutto nei primi anni Ottanta con la diffusione degli home computer come l'Apple II,
l'Atari 80 e il Commodore 64. Con l'evolversi dei computer e dei software, i creatori di crack hanno
cominciato a raggrupparsi in squadre, conosciute col nome di cracking crew.
Con la nascita delle crew è aumentata notevolmente la competizione già presente tra i
cracker, inducendo negli anni una lunga serie di attacchi ai sistemi e lo sviluppo di software come
virus e spyware utilizzati per il crack di grandi sistemi informatici.
Per cracking si intende anche la violazione di sistemi informatici collegati ad internet, allo
scopo di danneggiarli, di rubare informazioni oppure di sfruttare i servizi telematici della vittima
(connessione ad internet, traffico voce, sms, accesso a database etc..) senza la sua autorizzazione.
Il termine si contrappone in realtà ad hacking, anche se spesso il termine hacking viene
erroneamente utilizzato con il significato di cracking.
Facendo confusione.
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Carlo Infante - Sentiment Analysis
Indice
1.
IL NATURAL LANGUAGE PROCESSING ................................................................................................ 3
2.
TRA LA CERTEZZA DEL SIGNIFICATO E L’EFFICACIA DEL COMUNICARE ............................................ 6
3.
L’HASHTAG, LA PAROLA AUMENTATA ................................................................................................. 8
4.
L’ESTRAZIONE DEL VALORE DAI BIG DATA......................................................................................... 10
5.
L’APPROCCIO IBRIDO TRA INTELLIGENZA UMANA E ARTIFICIALE .................................................... 12
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 14
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Carlo Infante - Sentiment Analysis
1. Il Natural Language Processing
La sentiment analysis, conosciuta anche come opinion mining, si può effettuare tramite il
natural language processing (NLP), che analizza un testo per trarre dalle informazioni il senso
portante. Questi sistemi estraggono i contenuti dell’espressione individuando le polarità, ovvero se
l’opinione è positiva o negativa; l’oggetto, individuando il significato principale; gli opinion holder,
rilevando le persone che esprimono i pareri.
In altri termini la sentiment analysis rileva, secondo gli ambiti di utilizzo, la struttura dei
significati di un discorso. Nei contesti dove il focus è un brand commerciale, la brand perception,
attraverso i testi analizzati da molteplici fonti tra cui il flusso dell’interazione tra gli utenti nel web o
nei social media, rileva le reazioni e i sentimenti del pubblico rispetto a un prodotto o un brand
commerciale.
Il natural language processing ha una sua complessità per via delle diverse sfumature
lessicali, compresa l’ambiguità insita in molte espressioni del linguaggio umano. Per questo il
processo di estrazione si articola in diverse sequenze di analisi: quella lessicale, in cui si scompone
l'espressione linguistica attraverso le singole parole; grammaticale, in cui si associano le diverse
parti del discorso a ciascuna parola; sintattica, combinando il testo in una struttura sintattica ad
albero; semantica: assegnando un significato alla struttura sintattica per ottenere un'espressione
linguistica. In questa analisi semantica il processo computazionale automatico che attribuisce
all'espressione linguistica un significato tra i diversi possibili significati è detta disambiguazione,
intendendo per questo l’individuazione di un significato univoco di una frase, che potrebbe avere
significati diversi a seconda dei contesti, per evitare che sia ambigua.
L'elaborazione del linguaggio naturale è un metodo di interazione uomo-macchina, come
SHRDLU un programma di comprensione del linguaggio naturale sviluppato da Terry Winograd al
MIT nel 1968. Operava su un modello definito "mondi a blocchi" che combinava sulla base di una
semplificazione linguistica, resa da un vocabolario limitato, rendendo la comprensione del
linguaggio sulla base delle soluzioni più convincenti. Il programma risolveva molte ambiguità della
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Carlo Infante - Sentiment Analysis
lingua inglese ma emersero delle criticità quando i sistemi furono estesi a situazioni più realistiche
con problemi reali di ambiguità e complessità.
La elaborazione del linguaggio naturale è spesso considerato un problema di intelligenza
artificiale, visto che il riconoscimento del linguaggio richiede una conoscenza estesa del mondo e
una grande capacità di manipolarlo. Per questa ragione, la definizione di comprensione è uno dei
maggiori problemi dell'elaborazione del linguaggio naturale.
Nel linguaggio umano non si delineano principi univoci nell'esprimere un testo, ciò è
determinato dall’impronta soggettiva di chi si esprime, influenzato da esperienze personali,
pensieri, ideologie e credenze. Utilizzando la sentiment analysis non è quindi semplice applicare gli
stessi criteri a tutti i dati da estrarre ed elaborare. Per questo si adottano diverse modalità per
semplificare l’attività di analisi.
La sentiment analysis dopo l’attività di estrazione esercita funzionalità di elaborazione così
articolate:
●
Opinion mining di base che permette di identificare complessivamente se il giudizio su un
concetto è positivo, negativo o neutro differenziando eventualmente sulla base del
periodo temporale di riferimento, sulla sorgente dell’informazione o su qualsiasi altro
attributo con cui sono stati arricchiti i testi.
●
L’azione di analisi basata sulla funzione di co-occorrenza che permette di individuare i punti
deboli e punti di forza di un singolo concetto evidenziando tutte le sue relazioni (sintattiche
e semantiche) presenti nei testi analizzati. In questo caso l’opinione su un concetto è
differenziata rispetto al suo legame con altri concetti.
●
La classificazione delle funzionalità di back-end che può essere basata sulle modalità a
disposizione dell’utente di influenzare l’analisi compiuta dai motori del processing testuale.
Questa tipologia di funzionalità, definita di verticalizzazione, si compone di azioni vincolate
alla natura specifica del software e all’approccio linguistico da questo adottato.
●
L’arricchimento del dizionario, che prevede di aggiungere risorse linguistiche sulle quali si
basano le varie fasi di elaborazione dell’informazione.
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Carlo Infante - Sentiment Analysis
●
La modifica della polarizzazione di un termine, che è quel processo con il quale si va ad
attribuire un’accezione ad una parola presente nel dizionario nel caso si possa identificarne
a priori la positività o negatività.
●
La creazione di relazioni sintattiche, un’attività applicabile al motore che, utilizzando un
approccio basato sull’analisi linguistica, può in questo modo apprendere connessioni
funzionali alla corretta interpretazione della frase.
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2. Tra la certezza del significato e l’efficacia del
comunicare
Proprio per la sua natura di strumento la cui nascita ed evoluzione sono basati sull’uso e la
consuetudine, il linguaggio umano sfugge ad una coerenza formale e perfettamente finita.
In questo senso, il linguaggio naturale è da distinguere rispetto ai linguaggi formali, come i
linguaggi di programmazione o le regole linguistiche utilizzate nell’ambito della logica. Questa
distinzione è ad avviso di molti studiosi di linguistica, filosofia del linguaggio e neuropsicologia,
fondamentale per comprendere la principale difficoltà di insegnare ad un calcolatore come
processare il linguaggio ordinario.
L’importanza che il significato secondario di una parola riveste nella comprensione di
un’intera frase è un tema di cui un approccio basato sulla sola logica del linguaggio non può
rendere conto. Il fatto che ogni parola può produrre molteplici significati, più o meno coscienti,
nella nostra mente, può essere usato per rappresentare, attraverso il linguaggio, alcune parti della
realtà molto più chiaramente di quanto non avvenga attraverso l’uso degli schemi logici.
La complessità del linguaggio, infatti, ha a che fare anche con i modi che permettono agli
umani di capirsi gli uni con gli altri, che non si riducono alla mera espressione verbale: è una delle
differenze più significative del linguaggio naturale rispetto al linguaggio artificiale.
Nella vita di tutti i giorni ci aspettiamo la capacità dell’interlocutore di “leggere tra le righe”,
intendere il non detto, cogliere l’ironia e le altre figure retoriche che non sempre il testo scritto
veicola in modo efficace.
In alcuni casi, invece, il linguaggio presenta dei problemi di interpretazione per gli uomini
stessi. Uno degli aspetti più interessanti rilevati dagli studi di natural language processing, che
emerge anche nell’ambito della sentiment analysis stessa è la difficoltà di attribuire con certezza
un certo significato ad una proposizione umana: un tema, questo, su cui si sono confrontati
numerosi pensatori del linguaggio nel corso dei secoli. Uno dei problemi del dialogo con l’altro è
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Carlo Infante - Sentiment Analysis
fondato sulla impossibilità di avere l’assoluta certezza che la comunicazione sia efficace, anche
laddove sembri di parlare un linguaggio comune.
Le conversazioni si riducono sovente a monologhi paralleli, per cui si crede di scambiare
idee e si ha solo uno scambio di parole, e le parole percepite non ci comunicano le idee di coloro
che ce le offrono, risvegliano in noi solo le nostre. Non ci viene mai dato se non quello che
avevamo.
La impossibilità della certezza di efficacia della conversazione si avverte ancora più se
questa è scritta e quindi privata di quegli elementi di contesto che, nel linguaggio orale, diventano
indizi per permettere la comprensione: si pensi al tono della voce e alla gestualità che consentono
di riconoscere l’ironia e il sarcasmo, esempi tipici di ambiguità in cui il senso letterale del testo non
è sufficiente ed, anzi, produce l’effetto opposto a quanto l’emittente del messaggio vuole
comunicare.
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3. L’hashtag, la parola aumentata
Oggi lo scorrere della comunicazione on line porta a una sorta di flusso di coscienza
individuale e collettivo insieme, il flusso è inscritto nelle piattaforme weLb e social media e il suo
affiorare è permesso dall’esistenza delle parole chiave, del concetto di tagging e in particolare
dell’uso dell’hashtag.
Il tagging è strettamente connesso allo sviluppo del web 2.0 e dei blog in particolare,
all’avvento del millennio, con attività strettamente connesse al social bookmarking e allo sviluppo
di folksonomy, cioè le categorizzazioni delle informazioni da parte delle comunità degli utenti
prosumer, produttori-consumatori di informazione. L'utilizzo del tagging all’interno del flusso di
informazione espressa dalla user generated content può rendere possibile la definizione, su base
non gerarchica, di soluzioni funzionali alla classificazione dei contenuti e quindi anche alla
sentiment analysis, con un intervento ibrido tra intelligenza umana e intelligenza artificiale.
L’hashtag è nella sua semplicità d’uso la soluzione più adottata, cambia il regime di senso
alla parola: si parla a questo proposito di augmented word, una parola aumentata: una parola
come chiave che apre la porta di un mondo di connessioni e significati.
Gli hashtag quindi sono delle schegge generate dal big bang dell’universo digitale. Proprio
da questi nascono delle combinazioni e classificazioni inedite Se la rete è disseminazione e
condivisione, allora il tag è l’aggregatore che ci può aiutare ad estrarre dal flusso di
comunicazione del web 2.0 dei contenuti oggettivi dal magma delle informazioni soggettive.
Lo stile più informale ed aperto di cui si è accennato precedentemente può essere visto
come lo specchio di una informalità espressa dalla disponibilità dell’utente ad esprimersi sui temi
più disparati.
Le modalità con cui gli esseri umani danno espressione delle proprie opinioni sono state, in
questi ultimi anni, profondamente influenzate dal web. Di questo, tra tutte le forme di applicazione
di intelligenza artificiale, deve rendere conto la sentiment analysis, aprendo la strada
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Carlo Infante - Sentiment Analysis
all'opportunità che questo tipo di ricerca offre, tra i vari ambiti di applicazione, dalla governance
pubblica al marketing.
I sistemi di sentiment analysis consentono di dare un senso a questo mare di testo non
strutturato, automatizzando i processi di elaborazione dei dati su larga scala in modo efficiente ed
economico secondo il principio della scalabilità, ovvero la peculiarità di un software nell'essere in
grado di aumentare o diminuire di scala in funzione delle necessità.
Con la sentiment analysis è possibile trasformare automaticamente queste informazioni non
strutturate in dati strutturati di opinioni pubbliche su prodotti, servizi, marchi, politica o qualsiasi
argomento su cui le persone possano esprimere opinioni. Questi dati possono essere molto utili sia
per i destini di un territorio sia per applicazioni commerciali come analisi di marketing, pubbliche
relazioni, feedback sul prodotto e servizio clienti.
I dati assumono un’importanza strategica fondamentale in un’economia come quella
contemporanea in cui informazione e conoscenza sono alla base del valore creato nella società e
nei mercati.
Diventa quindi fondamentale avere la possibilità di trasformare il più velocemente possibile
il mare di dati, di informazioni di cui si dispone, in conoscenza sulla base della quale prendere
decisioni politiche o urbanistiche ed interpretare trend di mercato.
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4. L’estrazione del valore dai big data
Tecnologicamente parlando è vitale l’attività di estrazione, archiviazione e analisi di grandi
aggregazioni di dati destrutturati: i cosiddetti big data, la cui grandezza e complessità richiede
strumenti più avanzati rispetto a quelli tradizionali, in tutte le fasi del processo (dall'archiviazione alla
sentiment analysis passando per condivisione e visualizzazione).
Big data rappresenta anche l'interrelazione di dati provenienti potenzialmente da fonti
completamente differenti. Non solo quindi dalle fonti tradizionali sino ad oggi concepite ed
utilizzate ma anche attraverso l'impiego di informazioni provenienti da social media come
Facebook e Twitter e da qualsiasi forma di informazione collaterale che può incidere sui consumi o
sulle abitudini. L'insieme di tutti questi dati, sia di origine convenzionale che di origine social e
statistica generano quel che si chiama big data, consentendo a chi li analizza di ottenere una
plusvalenza legata ad analisi più complete che sfiorano anche gli umori dei mercati e quindi del
trend complessivo della società e del fiume di informazioni che viaggiano e transitano attraverso
internet.
Poiché quella della classificazione dell’opinione è un’attività che lascia ampio spazio
all’interpretazione personale, valutarne le pertinenze per la sentiment analysis è un’opera quanto
mai ardua. Si è deciso perciò di considerare una misura della bontà delle prestazioni del sistema,
individuata nella percentuale di volte in cui la classificazione del sentimento coincide con il giudizio
dato da una persona. È però d’obbligo chiarire che si sta parlando di un ambito fortissimamente
legato alla lingua del testo che si analizza. Ciò ne ha ritardato la diffusione sul mercato italiano e
per questo le soluzioni impiegate oggi su larga scala presentano un livello di maturità sicuramente
inferiore a quelle in uso nei paesi anglofoni. Essendo un argomento che spazia dall’informatica alla
linguistica toccando tutti gli aspetti dell’analisi del linguaggio naturale, la sentiment analysis è
caratterizzata da una complessità molto elevata e questo ha fatto sì che nel passato si svolgesse
sull’argomento relativamente poca attività di ricerca.
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Carlo Infante - Sentiment Analysis
Oggi l’attività ha conosciuto un rinnovato impulso grazie ai progressi effettuati, alla
consapevolezza delle imprese che le opinioni influenzano fortemente il comportamento dei
consumatori e non ultimo grazie ai social media che, come esposto precedentemente, offrono un
canale di accesso facilitato a grandi quantità di informazioni e opinioni esposte direttamente dagli
utenti, secondo l’approccio user generated content.
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5. L’approccio ibrido tra intelligenza umana e artificiale
Risulta ormai chiaro come la sentiment analysis abbia l’obiettivo di elaborare un qualsiasi
documento testuale, o corpus di documenti, ed individuare al loro interno tutte le opinioni presenti.
Per poter valutare il raggiungimento di tale risultato è però necessario definire il concetto di
opinione.
In generale un’opinione è un giudizio soggettivo, individuale o collettivo (nel caso di una
comunità, tematica o territoriale), su di un qualcosa o riguardo a qualcuno.
In altri termini possiamo dire che un’opinione sia la manifestazione di un sentimento positivo
o negativo espresso su di un’entità o su un aspetto di un’entità, da un opinion holder (colui che
formula il giudizio). L’opinione comporta quindi l’espressione di un giudizio, giudizio che può essere
positivo, negativo o neutrale (in questo caso non esiste un’opinione) e determina quindi quella che
in gergo viene chiamata polarizzazione dell’opinione (o del sentimento).
Una grande sfida per i software di opinion mining è rappresentata dal sarcasmo e
dall’ironia. Queste sono caratteristiche squisitamente umane alle quali persino le persone
reagiscono in modo differente in base alla propria sensibilità personale e al proprio senso
dell’umorismo: in virtù di questo fatto è molto difficile che un software possa darne
un’interpretazione universalmente corretta. Per quanto la ricerca sia attiva in questo campo, in
merito a questa difficile sfida che la sentiment analysis si trova ad affrontare ogni volta che un testo
viene processato, si è ancora lontani da una soluzione accettabile. Per questa ragione, quello che
fino ad ora si è rivelato l’approccio migliore alla opinion mining su larga scala dal punto di vista dei
risultati è senza dubbio quello ibrido, dove per ibrido intendiamo quell’approccio in cui il lavoro
della macchina viene controllato e corretto dall’essere umano, i risultati dell’analisi automatizzata
svolta dall’applicativo vengono visionati e il comportamento dell’applicativo stesso modificato al
fine di ottenere performance migliori.
La complessità del linguaggio umano è così vasta che qualunque metodo completamente
automatico non può che risultare parziale. La sfida maggiore della sentiment analysis come
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Carlo Infante - Sentiment Analysis
tecnica di indagine che segue una procedura automatizzata e standardizzata è proprio nel
superamento dei limiti della capacità di un modello statistico. Ciò non significa affatto
sottovalutare l’importanza dell'elaborazione digitale del linguaggio umano ma relativizzarlo, non
intendendolo come significato assoluto ma contemplarlo in uno spettro articolato di informazioni
che si perfezionano come accade all’interno di un dialogo, dove la comunicazione non sia solo
assertiva.
In tal senso è strategico l’uso della sentiment analysis nello sviluppo dei nuovi media di
riconoscimento vocale automatico (ASR, Automatic Speech Recognition). È in questi contesti che si
delinea la prassi ibrida, per cui l’articolazione del senso si sviluppa nell'interazione con interfacce
conversazionali, come chatbot e assistenti vocali (tra cui l’Assistente di Google, Siri, Alexa, ...) nel
confronto elaborato in tempo reale da un sistema integrato di machine learning che apprende
continuamente dai feedback dell’utente. In un bel dialogo tra l'intelligenza umana dell’utente e
quella artificiale di software e hardware magari disseminati nel cloud, sempre più orientati ad
adattarsi a noi.
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Carlo Infante - Open Data
Indice
1.
LA CONOSCENZA APERTA ................................................................................................................... 3
2.
L’INTEROPERABILITÀ .............................................................................................................................. 6
3.
L’IMMENSA RISORSA DEGLI OPEN DATA ............................................................................................. 7
4.
GLI OPEN DATA PER L’INNOVAZIONE ADATTIVA .............................................................................. 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 12
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1. La Conoscenza Aperta
L’open data è uno degli aspetti applicativi più qualificanti del’open government, inteso
come apertura dei processi di governance della pubblica amministrazione, tesa a coinvolgere i
cittadini nei processi partecipativi.
Si tratta di un approccio che sta ridefinendo le modalità della politica, garantendo
trasparenza sulla base di un utilizzo sistematico delle nuove tecnologie della comunicazione per
promuovere azioni efficaci e garantire un controllo sull'operato dell'amministrazione pubblica.
Gli open data sono dati liberamente accessibili a tutti le cui eventuali restrizioni sono
l'obbligo di citare la fonte o di mantenere la banca dati sempre aperta.
L’Open Knowledge Foundation così articola punto per punto il concetto quadro di
Conoscenza Aperta da cui deriva il concetto di open data:
1. ACCESSO
L’opera deve essere disponibile nella sua interezza e a un costo di riproduzione ragionevole,
preferibilmente tramite il download gratuito via Internet. L’opera deve inoltre essere disponibile in
un formato comodo e modificabile.
2. RIDISTRIBUZIONE
La licenza non deve imporre alcuna limitazione alla vendita o all’offerta gratuita dell’opera
singolarmente considerata o come parte di un pacchetto composto da opere provenienti da fonti
diverse. La licenza non deve richiedere alcuna “royalty” o altra forma di pagamento per tale
vendita o distribuzione.
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3. RIUTILIZZO
La licenza deve consentire la realizzazione di modifiche e di opere derivate e deve
consentire la loro distribuzione agli stessi termini dell’opera originaria.
4. ASSENZA DI RESTRIZIONI TECNOLOGICHE
L’opera deve essere fornita in un formato che non ponga ostacoli tecnologici allo
svolgimento delle attività sopraelencate. Ciò può essere conseguito mediante la messa a
disposizione dell’opera in un formato aperto, vale a dire un formato le cui specifiche siano
pubblicamente e liberamente disponibili e che non imponga nessuna restrizione economica o di
altro tipo al suo utilizzo.
5. ATTRIBUZIONE
La licenza può richiedere di citare i vari contributori e creatori dell’opera come condizione
per la ridistribuzione e il riutilizzo di quest’ultima. Se imposta, questa condizione non deve essere
onerosa. Per esempio, se viene richiesta la citazione, un elenco di coloro che devono essere citati
deve accompagnare l’opera.
6. INTEGRITÀ
La licenza può richiedere, come condizione perché l’opera venga distribuita in forma
modificata, che l’opera derivata abbia un nome o un numero di versione diverso dall’opera
originaria.
7. NESSUNA DISCRIMINAZIONE DI PERSONE O GRUPPI
La licenza non deve discriminare alcuna persona o gruppo di persone.
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8. NESSUNA DISCRIMINAZIONE NEI SETTORI D’ATTIVITÀ
La licenza non deve impedire a nessuno di utilizzare l’opera in un determinato settore
d’attività. Per esempio, la licenza non può impedire che l’opera sia utilizzata da un’azienda, o che
venga utilizzata ai fini di ricerca genetica.
9. DISTRIBUZIONE DELLA LICENZA
I diritti relativi all’opera devono valere per tutte le persone a cui il programma viene
ridistribuito senza che sia per loro necessario accettare o sottostare ad alcuna licenza aggiuntiva.
10. LA LICENZA NON DEVE ESSERE SPECIFICA PER UN PACCHETTO
I diritti relativi all’opera non devono dipendere dal fatto che l’opera sia parte di un
particolare pacchetto. Se l’opera viene estratta da quel pacchetto e usata o distribuita in
conformità con i termini della licenza dell’opera, tutte le persone a cui il lavoro viene ridistribuito
devono avere gli stessi diritti concessi in congiunzione con il pacchetto originario.
11. LA LICENZA NON DEVE LIMITARE LA DISTRIBUZIONE DI ALTRE OPERE
La licenza non deve imporre restrizioni su altre opere distribuite insieme all’opera licenziata.
Per esempio, la licenza non deve insistere sul fatto che tutte le altre opere distribuite sullo stesso
supporto siano aperte.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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2. L’interoperabilità
La ragione fondamentale per cui è importante chiarire il significato di “aperto” e del
perché utilizzare proprio questa definizione, può essere identificata in un termine: interoperabilità.
L’interoperabilità è la capacità di diversi sistemi e organizzazioni di lavorare insieme (interoperare). In questo caso, è la capacità di combinare una base di dati con altre.
L’interoperabilità è importante perché permette a componenti diverse di lavorare insieme.
L’abilità di rendere ciascun dato un componente e di combinare insieme vari componenti è
essenziale per la costruzione di sistemi evoluti. In assenza di interoperabilità ciò diventa quasi
impossibile, come nel mito della Torre di Babele, in cui l’impossibilità di comunicare (e quindi di
inter-operare) dà luogo a un fallimento sistemico della costruzione della torre.
Nel caso dei dati ci troviamo in una situazione simile. Il punto cruciale di un bacino di dati (o
linee di codice) accessibili e utilizzabili in modo condiviso è il fatto che potenzialmente possono
essere liberamente “mescolati” con dati provenienti da fonti anch’esse aperte.
L’interoperabilità è la chiave per realizzare il principale vantaggio pratico dell’apertura:
aumenta in modo esponenziale la possibilità di combinare diverse basi di dati, e quindi sviluppare
nuovi e migliori prodotti e servizi.
Fornire una chiara definizione di apertura assicura che sia possibile combinare dataset
aperti provenienti da fonti diverse, evitando una nostra “Torre di Babele”: molti dataset, ma senza
la possibilità di combinarli insieme in sistemi più ampi, dove si trova il vero valore dell’operazione.
È utile delineare per sommi capi quali tipi di dati sono aperti, o potrebbero diventarlo e,
cosa altrettanto importante, quali non sono adatti per essere aperti.
La questione centrale è che nel momento in cui si decida di rilasciare dati in formato
aperto, ci si concentri su dati non personali, quelli cioè che non contengono informazioni su singoli
individui.
Allo stesso modo altre categorie di dati pubblici non possono essere aperte per ragioni di
sicurezza nazionale.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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3. L’immensa risorsa degli open data
Conosci esattamente quanta parte delle tue tasse è destinata all’illuminazione stradale o
alla ricerca contro il cancro? Qual è l’itinerario più breve, sicuro e panoramico per raggiungere in
bici il tuo ufficio da casa tua? E cosa c’è nell’aria che respiri durante il tragitto? Dove troverai le
migliori opportunità di lavoro nella tua regione, e dove il maggior numero di alberi da frutta procapite? Quand’è che puoi influenzare attivamente le decisioni sui temi che ti stanno più a cuore e
con chi dovresti parlarne?
È a partire da queste domande, poste nell'Open Data Handbook della Open Knowledge
Foundation che si può entrare nel merito di come usare gli open data come bene comune.
Le nuove tecnologie permettono di creare servizi per rispondere automaticamente a
queste domande. Molti dei dati necessari a rispondere a queste questioni sono in effetti prodotti
da organismi pubblici. Tuttavia spesso tali dati non sono disponibili in formati che li rendano facili da
manipolare.
È decisivo proporre una via per estrarre il potenziale dei dati ufficiali e di altre informazioni e
rendere così possibili nuovi servizi, migliorare la vita dei cittadini e far funzionare più efficientemente
governi e società.
La nozione di open data, e più specificatamente quelli del settore pubblico, secondo le
attività promosse dall’open government, va intesa come informazione accessibile e riutilizzabile da
chiunque e per qualunque fine, è utilizzata da diversi anni.
L’uso comune del concetto inizia nel 2009, quando diversi governi (come gli Stati Uniti
d’America, il Regno Unito, il Canada e la Nuova Zelanda) hanno annunciato nuove iniziative per
l’apertura della loro informazione pubblica.
È importante quindi definire i concetti di base degli open data, specialmente in relazione ai
governi, per cui questi dati aperti possono creare valore e avere un impatto positivo in molte aree.
Gli open data sono una immensa risorsa ancora in gran parte inutilizzata. Molte persone e
molte organizzazioni raccolgono, per svolgere i loro compiti, una vasta gamma di dati diversi.
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Quello che fanno i governi è particolarmente importante in questo senso, non solo per la quantità
e centralità dei dati raccolti, ma anche perché la maggior parte dei dati governativi sono pubblici
per legge, e quindi dovrebbero essere resi aperti e disponibili all’uso per chiunque.
Ci sono molte circostanze in cui possiamo attenderci che i dati aperti abbiano un valore
rilevante e molti esempi in cui questo già accade. Ci sono anche numerose categorie di soggetti e
organizzazioni che possono trarre beneficio dalla disponibilità di dati aperti, inclusa la pubblica
amministrazione. Allo stesso tempo non è possibile predire come e dove sarà creato valore. La
caratteristica dell’innovazione e delle novità è di arrivare da luoghi inaspettati.
Nell’ambito della trasparenza, progetti come il Finlandese ‘tax tree’ (l’albero delle tasse) e il
Britannico ‘where does my money go’ (dove vanno i miei soldi) permettono di identificare come i
soldi delle tasse dei cittadini sono impiegati dal governo. In Canada i dati aperti hanno fatto
risparmiare 3.2 miliardi di dollari in un caso di frode fiscale legato alla beneficenza. Molti siti, tra cui il
Danese folketsting.dk e l’italiano openparlamento.it, tracciano le attività dei parlamenti e il
processo di formazione delle leggi, in modo da mostrare cosa succede esattamente e quali
parlamentari sono coinvolti nelle varie attività.
I dati aperti governativi possono inoltre aiutare a prendere decisioni migliori nella nostra vita
privata, o renderci più attivi nell’ambito della società civile.
In Danimarca, una sviluppatrice ha creato findtoilet.dk che permette di accedere alla lista
di tutti i bagni pubblici del paese, così anche chi soffre di problemi di incontinenza ora si sente più
rassicurato dovendo uscire di casa.
In Olanda il servizio vervuilingsalarm.nl ti avvisa quando la qualità dell’aria del tuo quartiere
raggiunge una soglia critica da te definita.
A New York puoi facilmente capire dove puoi portare a spasso il tuo cane, così come
trovare altre persone che usano il tuo stesso parco.
Servizi come ‘mapumental’ nel Regno Unito e ‘mapnificent’ in Germania ci fanno capire
dove possiamo andare ad abitare impostando i tempi massimi di percorrenza casa/ufficio, i prezzi
delle case e la bellezza del quartiere.
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Tutti questi esempi utilizzano dati aperti rilasciati dai governi.
Anche dal punto di vista economico i dati aperti hanno un’enorme importanza. Svariati
studi hanno stimato il valore economico dei dati aperti in diverse decine di miliardi di euro ogni
anno, nella sola Europa. Nuovi prodotti e nuove aziende stanno ri-usando dati aperti.
Il sito danese husetsweb.dk aiuta a trovare i modi migliori di risparmiare energia elettrica in
casa, inclusa la pianificazione finanziaria e la possibilità di contattare gli artigiani che potranno
eseguire il lavoro. Funziona grazie al riutilizzo di dati catastali, a informazioni sugli incentivi
governativi e al registro delle imprese locali.
Google Translate usa l’enorme volume di documenti dell’Unione Europea, disponibili in tutte
le lingue d’Europa, per allenare gli algoritmi di traduzione automatica, aumentando la precisione
del servizio offerto.
Il Ministero olandese dell’Istruzione ha pubblicato on-line tutti i dati relativi al sistema
educativo consentendone il ri-uso. Da allora il numero di domande ricevute è sceso, riducendo il
carico di lavoro e i costi, e anche per i dipendenti pubblici è ora più facile rispondere alle
domande residue, perché ora è chiaro dove possono essere trovati i dati che servono per
rispondere. I dati aperti rendono anche il governo più efficace, il che in ultima analisi riduce anche
i costi. Il dipartimento olandese per il patrimonio culturale sta attivamente rilasciando i propri dati e
sta collaborando con le società amatoriali di storici e con gruppi come la Wikimedia Foundation
per eseguire i propri compiti in modo più efficace. Ciò si traduce non solo in un miglioramento della
qualità dei dati, ma anche in una riduzione delle dimensioni del dipartimento.
Mentre ci sono numerosi esempi in cui i dati aperti stanno già creando vantaggi economici
e sociali, ancora non sappiamo quali nuovi utilizzi saranno possibili in futuro. Nuove combinazioni di
dati possono creare nuova conoscenza e nuove intuizioni, che possono portare a campi di
applicazione inimmaginabili.
Abbiamo visto nel passato, ad esempio, quando il dottor Snow scoprì la correlazione tra
l’inquinamento dell’acqua potabile e il colera nella Londra dell’800, combinando i dati sui morti
per colera con quelli sull’ubicazione dei pozzi. Il fatto portò alla costruzione del sistema fognario a
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Londra, migliorando di molto le condizioni generali di salute della popolazione. Probabilmente
vedremo di nuovo nascere intuizioni simili dalla combinazione di insiemi diversi di dati aperti.
Questo potenziale non sfruttato può essere utilizzato se facciamo diventare dati aperti i dati
delle amministrazioni pubbliche. Questo accade solo, tuttavia, se l’apertura è completa, cioè se
non ci sono limitazioni (giuridiche, finanziarie o tecnologiche) al riutilizzo da parte di altri. Ogni
restrizione impedirà a qualcuno di ri-utilizzare i dati pubblici, e renderà più difficile il trovare altri
modi preziosi di farlo. Perché il potenziale si realizzi, i dati pubblici devono essere aperti.
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4. Gli open data per l’innovazione adattiva
Gli open data sono una fonte di occasioni per creare economie nuove basate sulla
conoscenza, per consentire al pubblico come al privato di trovare modi nuovi per sfruttarli a
vantaggio di tutti e sono un modo per esercitare un legittimo controllo democratico sulle
amministrazioni politiche.
Il concetto di ‘apertura’, in una civiltà sempre più connessa, diventa a sua volta sempre più
centrale. L’apertura dei dati pubblici, anonimizzati nel rispetto della privacy del cittadino, può e
deve diventare sempre di più strumento di crescita e di sviluppo. Può e deve diventare, persino,
uno strumento di contrasto allo strapotere delle piattaforme private come Facebook, ma il rischio è
che paradossalmente si stia sempre di più perdendo la dimensione culturale di quell’open
government di obamiana memoria senza la quale quella degli open data è una battaglia persa in
partenza.
Di open data c’è bisogno per far comprendere alle persone che disporre di dati aperti è un
diritto al quale non possiamo rinunciare.
Gli open data sono fondamentali perché si possa attuare innovazione adattiva, per cui
s’intende una strategia evolutiva che riguarda l'adattamento dell’innovazione digitale alla crescita
di una consapevolezza d’uso della rete interconnessa da parte dei cittadini senzienti.
È necessario che l'innovazione digitale si adatti alla creatività sociale che emerge da
buone pratiche capaci di generare un’intelligenza applicativa che per alcuni aspetti rientra in ciò
che viene definito user experience. È proprio questo valore d’uso creativo che può riequilibrare le
sorti di un mercato tecnologico in cui l’offerta è più forte della domanda, facendo questo si può
dimostrare quanto sia importante fare società prima di qualsiasi mercato.
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Indice
1.
L’INTERCONNESSIONE ESTESA .............................................................................................................. 3
2.
M2M: MACHINE TO MACHINE ............................................................................................................. 5
3.
LA SMART HOME ................................................................................................................................... 7
4.
LE PROTESI COGNITIVE ......................................................................................................................... 9
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 12
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1. L’interconnessione estesa
Estendere il sistema dell’interconnessione di Internet non solo alla rete di computer ma a
quella delle cose e dei dispositivi attivati da sensori intelligenti è la nuova rivoluzione digitale in atto.
Il nostro mondo è fatto di oggetti e di luoghi concreti con cui entriamo in relazione fisica ed
ora questa relazione si fa anche digitale, attraverso la rete che permette di acquisire input e
rilasciare output.
Il concetto di Internet of Things è stato coniato nel 1999 da Kevin Ashton dell’Auto-ID Center
(un consorzio di ricerca con sede al MIT, Massachusetts Institute of Technology) e in seguito
sviluppato dall'agenzia Gartner (una delle società più importanti ad occuparsi di strategie nel
campo della tecnologia dell'informazione).
Vi si delinea un’evoluzione dell'uso della rete internet per cui le cose si rendono riconoscibili
e acquisiscono intelligenza grazie al fatto di poter comunicare dati su sé stessi e accedere ad
informazioni aggregate da parte di altri dispositivi.
Milioni e milioni di sensori sparsi per il mondo che inviano informazioni, in modalità wireless,
sul traffico, sull’inquinamento atmosferico, sul consumo di energia, sulla temperatura, sull’umidità,
sulle presenze, sui dati sanitari. Oppure avere la sveglia collegata al sistema satellitare che suona in
anticipo quando nel percorso per recarsi al lavoro il traffico è superiore alla media per un
incidente, per lavori, o un messaggio che ci avvisa quando ci si dimentica di prendere una
medicina…le cose ci allertano.
Queste cose sono dispositivi, apparecchiature, impianti, materiali, opere e luoghi.... Il
termine più preciso per definirli è smart object, oggetti resi intelligenti dal fatto di essere abilitati
digitalmente con delle interfacce-periferiche ad alcune funzionalità, quali: identificazione,
connessione, localizzazione, capacità di elaborare dati e capacità di interagire con l’ambiente
esterno.
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L'obiettivo dell'internet delle cose è far sì che il mondo digitalizzato tracci una sorta di
mappa di quello reale, dando un'identità digitale alle cose e ai luoghi dell'ambiente fisico.
Tutto ciò si muove, principalmente, attraverso una tecnologia wireless a radiofrequenza,
una nuova categoria di rete universale, pubblica, denominata Lpwan (Low-Power Wide-Area
Network). Il nome, in realtà, suona un po' paradossale: gli approcci di tipo tradizionale alla
connettività wireless suggeriscono che un dispositivo di rete non dovrebbe essere in grado di
operare con consumi ridotti mentre contemporaneamente sta trasmettendo su lunghe distanze. La
topologia della rete di cui stiamo trattando e su cui si muove l’internet delle cose è in buona parte
quella utilizzata dalle tecnologie per telefonia cellulare. A differenza dei sistemi 2G, 3G o 4G, una
rete Lpwan adotta uno schema di modulazione che riduce la velocità di trasmissione dati
(throughput) al fine di garantire una maggiore tolleranza nei confronti delle interferenze e
dell'attenuazione del segnale.
Gli oggetti e i luoghi muniti di etichette Identificazione a Radio Frequenza (Rfid)
comunicano quindi informazioni in rete o a dispositivi mobili come i telefoni cellulari.
I campi di applicabilità sono molteplici: dalle applicazioni industriali (processi produttivi
remotati, robotica, ...), alla logistica (innervata ai sistemi GPS) e all'infomobilità, fino all'efficienza
energetica, tutti gli ambiti connessi alla smart city e lo sviluppo sostenibile.
Gli oggetti intelligenti permetteranno risparmio energetico sia a livello domestico (domotica
e smart home) sia a livello macroscopico, su scala urbana (smart city) e nell'infrastruttura
energetica (smart grid).
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2. M2M: Machine to Machine
M2M è acronimo di Machine to Machine e indica le tecnologie e i servizi che permettono il
trasferimento automatico delle informazioni da macchina a macchina nell’ambito dell’Internet of
Things, con limitata o nessuna interazione umana.
Esempi di M2M sono le apparecchiature per la gestione dei magazzini (che inventariano il
materiale in ingresso e in uscita), per la sensoristica (che rilevano parametri quali la temperatura e
la pressione e li comunicano a un server centrale), per la localizzazione (che tracciano e
monitorano la posizione dei veicoli).
Le comunicazioni M2M possono realizzarsi anche attraverso protocollo IP (Internet Protocol)
e in questo caso sono associate alla Internet of Things, ove gli oggetti si rendono riconoscibili e
acquisiscono intelligenza grazie al fatto di poter comunicare dati su sé stessi e accedere ad
informazioni aggregate da parte di altri.
Quattro elementi che caratterizzano le comunicazioni M2M: la raccolta dei dati, la
trasmissione dei dati, l'estrazione dell’informazione, l'utilizzo dell’informazione.
Il processo di una comunicazione M2M parte dall’acquisizione dei dati da una macchina
per poterli poi analizzare e trasferire utilizzando una rete di comunicazione. L’obiettivo questo
sistema è quello di creare un ponte tra l’intelligenza della macchina e il sistema di
elaborazione/fruizione dell’informazione.
Le soluzioni impiegate per la trasmissione dei dati possono essere costituite dalle reti
cellulari, dalle linee telefoniche in postazione fissa, dalle comunicazioni satellitari e da reti ad hoc,
per cui la scelta dell’infrastruttura più idonea dipende dalle caratteristiche dell’applicazione stessa
e dalle aree di riferimento.
Per esempio, nel monitoraggio di apparecchiature in aree remote, si tende a utilizzare le reti
satellitari, mentre nelle aree in cui è molto elevata la penetrazione delle reti cellulari, si prediligono
le reti di tipo radiomobile. È comunque evidente che all’aumentare della disponibilità dei canali di
comunicazione diminuisce conseguentemente il costo del servizio.
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Gli operatori di rete forniscono l’accesso e si rileva che circa l’80% degli accessi è di tipo
wireless su radiofrequenza mentre altri accessi si realizzano attraverso reti cellulari, in particolare di
seconda generazione (2G).
Gli utenti che utilizzano servizi IoT sono anche produttori di contenuti, visto che
l’elaborazione dei dati trasmessi può permettere di ricavare informazioni molto personali, come i
componenti del nucleo familiare, capacità di spesa, ecc...
Le imprese ICT (Information and Communication Technology) producono apparati e
sviluppano software per servizi M2M anche al di fuori dei sistemi IoT. Anche se nell’ambito dei
servizi, si assiste ad una particolare innovazione di processo per cui i sistemi IoT che si stanno
profilando come un nuovo standard universale di interconnessione investono sempre più l’area
networking delle imprese.
Nell’ambito IoT il personal networking e la smart home automation rappresentano due dei
settori più promettenti, nel primo caso, un servizio potrebbe essere lo shopping personalizzato
(avvicinandosi ad uno scaffale, si ricevono informazioni sui prodotti), mentre nel secondo caso i
dispositivi connessi al WiFi domestico potrebbero interagire e ottimizzare i consumi.
Secondo le stime dell'agenzia Gartner nei prossimi anni ci saranno più di 30 miliardi di
oggetti connessi a livello globale. Altri istituti parlano di 100 miliardi.
Il valore del mercato è stimato in 80 miliardi di dollari. Secondo l'Osservatorio Internet of
Things del Politecnico di Milano, il mercato degli smart objects in Italia è arrivato a toccare i 3,7
miliardi di euro, con una crescita del 36% rispetto al 2016. La principale fetta di questo mercato è
rappresentata dalle applicazioni di smart metering (i contatori gas intelligenti installati presso le
utenze domestiche). Nel prossimo futuro si prevede un’ulteriore accelerazione del mercato,
soprattutto per quanto riguarda gli ambiti smart car, smart home, smart city e Industrial IoT.
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3. La smart home
Le applicazioni dell’IoT hanno, in particolare, un forte potenziale soprattutto nell’ambito
domestico della smart home. È lo sviluppo di quello che fino ad oggi abbiamo chiamato
domotica. Le applicazioni vanno dalla messa in rete degli elettrodomestici, grandi o piccoli che
siano, per arrivare all’impianto di climatizzazione e alla sicurezza con la gestione della blindatura di
porte e finestre. Tutto può essere in rete e così si può non solo controllare a distanza, ma anche
monitorare il buono stato degli apparecchi e gestirne nel caso la manutenzione.
Lo smartphone è ormai una protesi del corpo umano, e siamo sempre più abituati a usarlo
come un telecomando universale.
Ma proprio rispetto alla domotica gli esperti ipotizzano che presto il senso più sollecitato
dall’hi-tech sarà l’interazione vocale. Il motivo è nella diffusione degli assistenti vocali personali
domestici come Echo di Amazon, (cilindro che, tra le altre cose fornisce consigli, suona musica e
legge libri) e gli analoghi dispositivi Google Home e Apple HomePod. Nuovi maggiordomi pensati
per controllare usando la voce l’internet delle cose dentro casa.
Innegabile vantaggio dell’IoT è la flessibilità e la possibilità di implementare le funzioni nel
tempo senza spaccare i muri ma solo riprogrammando il sistema.
L’ingresso IoT è pensato per accudire chi va di fretta, o quelli che hanno sempre paura di
aver lasciato aperto il gas o qualche luce. Basta schiacciare un tasto (anche a distanza, attraverso
lo smartphone) per chiudere tutto in un sol colpo: luci, tapparelle, gas. E la sicurezza è garantita
dalla porta blindata, magari con sistema di autenticazione biometrica (iride, riconoscimento
facciale).
In cucina, regno per eccellenza degli elettrodomestici, le possibilità sono molte. Si va dalla
cappa che dialoga con i fornelli per regolare l’aspirazione, al frigorifero che, grazie a telecamere
interne, ci fa vedere cosa manca mentre siamo al supermercato. Ma l’internet delle cose è anche
il metodo per evitare blackout da sovraccarico: gli elettrodomestici comunicano tra loro in rete e si
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spengono automaticamente. Si può riconfigurare l’impianto elettrico in caso di corto circuito o se
un fulmine durante un temporale lesiona il circuito.
Il controllo integrato degli impianti di climatizzazione (temperatura caldo e freddo e
umidità), un tempo separati, fa risparmiare sulla bolletta energetica anche grazie al check up
energetico. Non è un caso se esistono forti detrazioni fiscali per chi installa sistemi di domotica.
Anche le finestre intelligenti e le tende interne e quelle esterne ombreggianti fanno parte del
sistema. La possibilità di analizzare tutti i dati in gioco poi permette di valutare l’efficienza
dell’impianto confrontando diversi tipi di generatore di calore (caldaia a condensazione, pompa
di calore, caldaia a legna e diversi tipi di fonti, dal geotermico al fotovoltaico).
I nuovi televisori smart tv e home-theatre possono anche diventare delle torri di controllo
dove ricevere messaggi da lavatrice o aprire finestre su videocitofoni e telecamere di sorveglianza.
Gli interruttori elettrici diventano centraline multitasking per impostare in sala da pranzo scenari di
luce preimpostati, per luci soffuse o set di dance hall.
In bagno si potrebbe contare sulla tecnologia wearable (indossabile) per eventuali
applicazioni di telemedicina. Il monitoraggio dei parametri base (pressione arteriosa, ecc) avviene
tramite dispositivi Rfid, sensori miniaturizzati e integrati negli abiti o addirittura impiantati nel corpo
umano.
Sono già a disposizione degli intelligent mirror, specchi-toilette multiuso che applicano
principi di fotometria e di stimolazione multi-sensoriale.
Per quanto riguarda il verde domestico l’irrigazione è già da tempo automatizzata mentre si
va in vacanza, ma ora lo è anche quella indoor e collegata a un giardiniere che fornisce consigli
per chi non ha il pollice verde.
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4. Le protesi cognitive
Marshall McLuhan già negli anni Sessanta lo aveva presagito: “In quest’era elettrica ci
vediamo sempre più trasformati in informazione, in marcia verso l’estensione tecnologica della
coscienza”. Non c’è metafisica in questa tesi, bensì il rilevamento di una modificazione
antropologica: il fatto di poter condividere a distanza delle esperienze più o meno complesse
sviluppa quel pensare e agire on line che è ormai pratica corrente nell’era interconnessa.
È in questa condizione abilitante che si evolve la natura umana nell’interazione con
l’artificiale delle connessioni digitali anche con le cose, le nostre case e nei sistemi più complessi
che ci aiutano a ottimizzare i processi, non solo quelli produttivi ma anche quelli sociali. L’internet
delle cose si sta prospettando come un fattore di nuova complessità che permette di affrontare
scommesse evolutive, come efficientamento energetico e la gestione delle risorse informative che
produciamo costantemente, alimentando quei big data che non possono essere solo patrimonio
dei grandi player digitali, come Google o Facebook, ma gli assetti governativi devono riuscire a
garantirne un valore d’uso pubblico.
In tal senso, a partire dall’utilizzo consapevole dell’uso dei vari dispositivi, come quelli che
portiamo sempre con noi, come gli smartphone, è necessario concepire questi dispositivi come
protesi cognitive che espandono le nostre azioni senzienti.
Le tecnologie della comunicazione sono a tutti gli effetti una protesi, un’estensione del
nostro corpo-mente: definirle protesi cognitive non è quindi improprio se si considera il fatto che
non si tratta solo di amplificazione quantitativa di un gesto, di un’azione, ma di una profonda
modificazione qualitativa della nostra percezione che si traduce in azioni utili.
Per intenderci il libro è una protesi cognitiva: estende la nostra memoria in un oggetto che
con il suo avvento, cinquecento anni fa, ha destabilizzato l’intero sistema di trasmissione delle
conoscenze fondato sull’oralità. Seguendo questa pista possiamo quindi riconoscere che lo stesso
Alfabeto possa essere a tutti gli effetti una tecnologia. Si, proprio una tecnologia, un dispositivo
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complesso che il sistema educativo ci trasmette come una delle cose più naturali del mondo ma
che invece rappresenta un vero filtro artificiale attraverso cui decodificare l’esperienza esterna.
Non ci facciamo più caso ma leggere e scrivere sono una complessa sovrastruttura
mentale, un brainframe come lo definisce Derrick De Kerckhove (l’erede di Marshall McLuhan) di
cui non possiamo comunque fare a meno perché le parole sono fondamentali per interpretare il
mondo. Le acquisiamo da piccoli, iscrivendo di fatto nel nostro cervello una tecnologia che ci
consenta di condividere la descrizione della nostra esperienza. Una procedura d’apprendimento
faticosa ma necessaria. Leggere è difficile ma è diventato una pratica corrente nonostante siano
in molti, moltissimi, a non esercitarla se non per le funzioni indispensabili. Si leggono poco i giornali,
pochissimo i libri. D’altronde le informazioni arrivano direttamente nella nostra casa, e nella nostra
testa, come ha fatto per decenni la Televisione imponendo un generalizzato dominio psicologico.
Davanti al televisore il nostro corpo tende all’inerzia cognitiva: ci si fa attrarre dal flusso fotonico,
tendiamo a non selezionare, ci rilassiamo, generalmente non organizziamo il nostro pensiero in
modo complesso. L’unico strumento attivo è il telecomando, altra protesi, grazie a cui facciamo
zapping componendo le possibili soluzioni combinatorie di un palinsesto personale ma coatto.
La diffusione delle reti e dei sistemi multimediali ci ha sollecitato nello scardinare quel gioco
bloccato nel consumo passivo dei mass media e ha denotato, nel processo biunivoco di
comunicazione, una nuova possibilità evolutiva, una presenza attiva, dinamica, evolvendo il
linguaggio alfabetico nella tecnologia ipermediale e iperconnessa che sta a noi tradurre in
linguaggio.
I “nostri sistemi nervosi estesi”, come suggeriva McLuhan (in “Gli strumenti del comunicare”),
sono quindi inscritti nella ragnatela (è questa la traduzione della parola web) della rete con le sue
cablature verso cui le nostre sinapsi (le trasmissioni chimiche del nostro cervello) viaggiano,
apprendendo, on line. In una rete delle reti dove oggi trova luogo anche l’internet delle cose che
si prospetta, con tutte le criticità che possono essere provocate da un non adeguata governance
del processo, come un’opportunità straordinaria di crescita qualitativa per i nostri sistemi sociali e
produttivi.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Carlo Infante - Internet of things
È infatti strategico lo sviluppo dell’internet delle cose dove le interconnessioni riguardano sia
le nostre case sia le città, affrontando con intelligenza le scommesse del futuro, imparando a fare
economia, nel senso vero del termine originario: oikos, ovvero casa. Risparmiando, ottimizzando i
consumi.
Tutti questi dispositivi attivati dalle radiofrequenze identificative (RFID), come quelle che
usiamo abitualmente nei telepass autostradali, magari monitorati dai nostri smartphone, ci possono
venire in aiuto perché ciò accada.
Queste interconnessioni con oggetti forniti di indirizzi IP possono comunicare nella rete,
creando sistemi intelligenti. Sta a noi rilanciare la nostra intelligenza per contestualizzarli e fare in
modo che l'innovazione digitale si adatti alla nostra evoluzione.
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Carlo Infante - Tutto è già interconnesso
Indice
1.
GLI INVISIBILI LEGAMI DELLA NATURALE COMPLESSITÀ ..................................................................... 3
2.
L’INTELLIGENZA CONNETTIVA DEL PERFORMING MEDIA .................................................................... 5
3.
LINKED DATA ......................................................................................................................................... 7
4.
UBIQUITOUS COMPUTING E INTERNET DELLE COSE ............................................................................. 8
5.
LAUDATO SÌ ......................................................................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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Carlo Infante - Tutto è già interconnesso
1. Gli invisibili legami della naturale complessità
"Tutto è connesso": questo è uno dei concetti cardine della “Laudato si'”, la lettera
enciclica di Papa Francesco sulla “cura della casa comune”. A rileggerla è il tema che sottende
tutto: è la vera e propria base su cui il testo è costruito.
La prospettiva focale su cui si regge l'enciclica è quella dell'ecologia integrale anche se
c’è un passaggio in cui tratta di Internet: “ciò permette di selezionare o eliminare le relazioni
secondo il nostro arbitrio, e così si genera spesso un nuovo tipo di emozioni artificiali…”
Il dato più interessante è che nel concetto di ecologia sviluppato nell’enciclica c’è un
approccio profondo, inscritto in tutti i sistemi complessi di cui stiamo trattando, a proposito
dell’evoluzione digitale, cercando di stabilire la relazione delle singole parti tra loro e con il tutto.
La civiltà non ha solo a che vedere
con le cose materiali
ma con gli invisibili legami
che legano una cosa a un’altra
(Antoine de Saint-Exupéry)
Quegli invisibili legami a cui fa riferimento il poeta e scrittore francese Antoine de SaintExupéry, riguardano tanti aspetti, dalle affinità elettive alle reali interconnessioni fisiologiche che
sottendono gli ecosistemi vegetali e fungini. Allo stesso tempo ispirò Ted Nelson nel concepire
l’ipertesto, quella nuova tecnologia che attuò ciò che di fatto produce il linguaggio mentre lo
metabolizziamo: connessioni ed evocazioni immaginarie.
Interconnessione sottende la forma della rete che si rivela come un intreccio di fili, incrociati
e annodati tra loro, come anche l’ordito di un tessuto o di una ragnatela che in inglese si traduce
in web.
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Carlo Infante - Tutto è già interconnesso
Con lo sviluppo tecnologico la rete è stata usata per indicare la rete elettrica, la rete
telegrafica, telefonica, la rete, sempre più estesa, delle comunicazioni a distanza. Anche l'insieme
delle strade viene definita rete stradale, l’insieme delle linee ferroviarie è rete ferroviaria. Persino
l'insieme idraulico delle vie d’acqua è rete idrica. La parola rete ha accompagnato l’evoluzione
della società diventando sinonimo di complessità, un concetto che attraversa tutte le discipline...ci
sono reti cosmiche, reti climatiche, reti neurali, reti linguistiche. In cristallografia il concetto di rete
evoca un insieme di componenti, gli atomi di un reticolo, connessi tra loro, mediante precisi legami
chimici, in modo ben definito: il reticolo cristallino. Un cristallo di cloruro di sodio, il sale da cucina,
può essere immaginato come una rete di cubi tutti uguali che si succedono in modo regolare nelle
tre dimensioni. Tuttavia, anche in ambito scientifico la parola rete sta, ultimamente, modificando il
suo significato secondo, per divenire sempre più metafora del concetto di complessità. Sono molti,
ormai, a utilizzare la parola rete per indicare il sistema complesso che intendono studiare. La rete
neurale non è altro che un sistema complesso formato da cellule cerebrali o sistemi artificiali che
ne simulano la funzione.
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2. L’intelligenza connettiva del performing media
L’intelligenza connettiva è un concetto coniato da Derrick de Kerckhove negli anni
Novanta, che si è innervato allo sviluppo del web in quanto tecnologia cognitiva, esplicitando le
inedite proprietà psicologiche della cooperazione on line. In questa connettività si attiva un
processo tecnologico che di fatto si traduce in un processo psicologico e una nuova sensibilità che
riscopre il senso naturale delle cose naturalmente interconnesse.
Derrick de Kerckhove, partendo da una sua intuizione sulle psicotecnologie, frutto
dell’esperienza condivisa con Marshall McLuhan di cui era stato uno dei più stretti collaboratori,
mette in gioco un’energia creativa che rivela come i processi cognitivi possano modellare le
tecnologie in modo funzionale alle applicazioni di nuova strategia culturale ed educativa.
La connessione propria del web induce una dinamica di scambio serrato di informazioni e
relazioni tese ad evolversi nell’interattività che presuppone feedback, interazioni con ambienti
digitali in cui operare e nell’ipertestualità che espande il sistema informativo su struttura non lineare
e interconnessa proprio come funziona il nostro cervello.
L’intelligenza connettiva è prossima alla teoria dello sciame intelligente (swarm intelligence)
per cui la serrata reciprocità delle azioni produce informazione e auto-organizzazione, come
accade per gli sciami delle api o gli stormi degli uccelli.
L’intelligenza connettiva espressa nel web ha qualcosa di simile all'intelligenza naturale
delle api, e non è solo una metafora. La dimensione biologica ispira l'evoluzione delle reti e la invita
ad osservare gli sciami delle api e in particolare la “danza delle api” (modalità che le api
esploratrici adottano nell’alveare per istruire le bottinatrici su dove trovare il miglior polline) per
capire come vasti insiemi di individui danno luogo a meccanismi di cooperazione.
L’intelligenza connettiva intesa come metodologia di cooperazione creativa trova nei
format di performing media le modalità attuative con azioni partecipative dei cittadini-user
nell'ambito territoriale.
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Carlo Infante - Tutto è già interconnesso
Si tratta di modalità di partecipazione attiva, basate su modalità di brainstorming spesso
itinerante come nei walkabout (esplorazioni radionomadi), commisurando le tecnologie della
comunicazione al loro valore d’uso, ovvero la capacità degli utenti di trarne valore, funzione,
principio attivo.
Per fare accadere cosa? Consapevolezza, empatia, resilienza, strategie desideranti,
partecipazione, inclusione, co-progettazione. Ciò riguarda la condizione esponenziale e
generativa delle tecnologie abilitanti, capaci cioè di sollecitare i cittadini a mettersi in gioco in un
processo partecipativo che può avviare le dinamiche di innovazione adattiva, per interpretare
nell’azione sul campo il valore performante dell’interconnessione.
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3. Linked data
Viviamo in un mondo in cui le informazioni sono organizzate come dati in relazione tra loro,
identificati univocamente, interpretabili, e facilmente accessibili. È l’evoluzione del web che aveva
progettato già nel 1993 Tim Berners-Lee e che ora sta facendo il salto di qualità
nell'interconnessione dei linked data.
Lo si potrebbe anche definire semantic web, nello specifico si tratta di un modo diverso di
gestire e pubblicare i dati che, strutturati e collegati tra loro, costruiscono un reticolo informativo
sempre più ampio consentendo una maggiore distribuzione dei dati intesi come elementi
interconnessi tra loro.
Quest’evoluzione da un web basato su documenti a una rete di dati interconnessi consente
di connettere non solo pagine HTML, ma concetti tra di loro. I collegamenti ipertestuali consentono
di spostarsi da un sito a un altro, da un documento all’altro, in cui però il significato della relazione
che intercorre tra i link delle pagine collegate risulti interpretabile per le strategie di senso, proprie
del pensiero della Complessità.
Da qui l’idea di potenziare questo sistema di collegamenti attribuendo un’etichetta che
permetta di specificare la natura delle relazioni, per consentire una maggiore profondità di ricerca,
facilitati nel reperimento di dati appartenenti a fonti diverse attraverso interrogazioni semantiche.
Questo è possibile solo se ai dati viene conferita una struttura attraverso la modalità di
metadati del Resource Description Framework (RDF), che consente la descrizione dei dati,
identificati univocamente, attribuendogli un valore e definendo la specifica relazione che
intercorre tra loro.
Si comprende, quindi, che la tecnologia linked data nasce con lo scopo di favorire
l’interoperabilità, tra fonti di dati eterogenee pubblicate sul web, grazie all’uso di una struttura
semplice, di identificatori univoci (URI – Uniform Resource Identifier) e vocabolari condivisi.
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4. Ubiquitous computing e internet delle cose
La prima tecnologia dell’informazione, il linguaggio alfabetico, evoluto in scrittura e poi
attraverso la stampa a caratteri mobili in libro, la troviamo dappertutto: tutto ciò che è stampato,
libri, riviste e giornali trasportano informazione scritta, ma anche i segnali stradali, etichette dei
vestiti, insegne dei negozi.
Fino a poco tempo fa, la tecnologia basata sul silicio, invece, era lontana da essere
considerata parte dell’ambiente. Milioni di computer erano stati venduti, tuttavia quel dispositivo
rimaneva confinato nel suo mondo, su una scrivania, avvicinabile solo attraverso un complesso
codice digitato su tastiere.
Lo stato dell’arte era analogo al periodo in cui gli scribi nell’antichità dovevano essere in
grado di scrivere, ma anche fare l’inchiostro.
Il passo successivo su cui ci stiamo interrogando negli scenari dell'internet delle cose nel
sistema interconnesso sta concependo un nuovo modo di pensare i sistemi digitali in stretta
relazione con l’ambiente naturale, dissolvendo la loro struttura di macchine. È ciò che viene
definito ubiquitous computing, per cui si intende la tecnologia applicata in contesti everywhere,
dappertutto.
Nel 1991 Mark Weiser, ricercatore del PARC (Palo Alto Research Center) della Xerox,
pubblicò un articolo dal titolo “Il computer del XXI secolo” che può essere considerato il manifesto
dell’ubiquitous computing. In pochi anni quello che sembrava il miraggio di uno scienziato
visionario, prematuramente scomparso nel 1999, è ormai una realtà. Secondo Weiser, le tecnologie
più forti sono quelle che non vediamo, esse si intrecciano negli oggetti della vita di tutti i giorni e
sono indistinguibili da essi.
Ciò è la conseguenza evolutiva della tecnologia, ma anche della psicologia umana. Ogni
volta che s’impara sufficientemente bene qualcosa, si smette di essere troppo concentrati su di
essa. Quando guardiamo un cartellone stradale, per esempio, assorbiamo le relative informazioni
senza coscientemente effettuare l’atto della lettura.
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Quando le procedure diventano automatiche, inscritte nei contesti d’uso, le usiamo senza
pensare, mettendo a fuoco quello che c’è oltre di esse.
In questa prospettiva, ubiquitous computing non significa solo che i computer possono
essere usati in spiaggia o nella giungla: anche il notebook più potente, con accesso ad una rete di
informazioni in tutto il mondo, tende a far convergere l’attenzione su di sé, trasformando lo
schermo del laptop in un centro che esige attenzione piuttosto che farlo sbiadire nello sfondo.
Per realizzare l’ubiquità e assicurare una presenza discreta, i dispositivi digitali devono avere
dimensioni diverse, adattandosi ad operazioni particolari: etichette o cartellini delle dimensioni di
centimetri, blocchi delle dimensioni di decimetri che si comportano come un foglio di carta o un
cartellino e schermi di grandi dimensioni che coprono un’intera parete.
Tanti dispositivi ubiqui, disseminati ovunque possono disorientare, proprio come le centinaia
di volt che scorrono attraverso i fili nelle pareti e di cui non abbiamo la minima consapevolezza.
Ma come i fili nelle pareti, queste centinaia di dispositivi saranno presto invisibili, spariranno nello
sfondo.
Vi sono etichette intelligenti o smart tag, che utilizzano la tecnologia RFID (Radiofrequenza
Identificativa) e trovano già applicazioni nei passaporti che riportano le informazioni relative ai
cittadini e ai loro viaggi o nelle contactless smartcard degli abbonamenti al trasporto pubblico; la
molteplicità dei tag per identificare e verificare la presenza di specifici prodotti in magazzino e
conoscere le giacenze in tempo reale o quelle connesse al funzionamento di una macchina o
apparecchiatura solo in presenza di operatori autorizzati o quelle atte alla rilevazione dei parametri
ambientali.
L’evoluzione delle smart tag può essere individuata negli spime (neologismo derivante dalla
fusione di space e time), oggetti tracciabili con precisione nello spazio e nel tempo in quanto
portatori di tag RFID o sensori GPS che li seguono nell’interazione in movimento.
L’ambito più diffuso di queste tecnologie ubique è l’internet delle cose in cui dispositivi e
smart object, all’interno della rete interconnessa, comunicano dati relativi a funzioni e informazioni
che possono essere condivise con altri oggetti e luoghi.
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Questi oggetti sono dispositivi, attrezzature o luoghi che messi in rete, sul principio del M2M
(Machine to Machine), garantiscono diversi compiti dalla identificazione alla localizzazione. Ciò
permette di tracciare una sorta di mappa operativa che riconosce un'identità digitale alle cose,
anche in relazione agli ambienti fisici, da quelli domestici (smart home) a quelli urbani (smart city).
Le reti, sia il web sia la telefonia mobile, stanno cambiando la cognizione di spazio-tempo.
Non è metafisica è vita quotidiana. “Quando sei?”. È una domanda che spesso si pone, per
sapere quando l'altro sarà connesso, sul cellulare o su skype (o altre piattaforme di Voice Over IP o
di instant messaging) o nei vari social network. Volenti (per sottrarci) o nolenti (perduti nelle zone
sconnesse, senza campo) percorriamo i territori che ormai si connotano attraverso nuovi
coefficienti di urbanizzazione: la copertura delle reti.
Maurizio Ferraris nel suo libro “Dove sei? Ontologia del telefonino”, parafrasò il titolo di un
importante saggio di Heidegger, così: “Essere e Campo”. Ovvero: ci sono quando sono connesso,
o perlomeno quando ho la possibilità di farlo, quando c'è “campo”.
Siamo mobili e durante i nostri spostamenti siamo in grado, attraverso le tecnologie della
comunicazione mobile, di produrre e raccogliere informazioni che, innervate alla molteplicità delle
relazioni indotte dai social network, espandono la nostra sfera d'influenza. Questa connettività
ubiqua si sta rivelando come un elemento radicale di trasformazione sociale.
In questa Società dell'Informazione, connotata dall’ always-on, il “sempre connesso”,
possono emergere anche opportunità lavorative, a tal punto da far affermare a Manuel Castells, il
sociologo spagnolo autore di “Galassia Internet”: “Nell’era dell’industrializzazione si diceva che
senza elettricità non si mangiava. Oggi non si mangia senza Internet”.
Castells precisa “così la connettività ubiqua e permanente diventa un fattore di
trasformazione sociale. Nella società sempre connessa in rete nascono nuove figure lavorative, si
plasmano nuove strutture familiari, si inventano relazioni e linguaggi.”
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5. Laudato sì
Così Papa Francesco scrive nella sua enciclica: “...tutto è connesso. Il tempo e lo spazio
non sono tra loro indipendenti, e neppure gli atomi o le particelle subatomiche si possono
considerare separatamente. Come i diversi componenti del pianeta – fisici, chimici e biologici –
sono relazionati tra loro, così anche le specie viventi formano una rete che non finiamo mai di
riconoscere e comprendere.”
Ciò ci rimanda alla ricerca che Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di
neurobiologia vegetale, conduce da anni sull'intelligenza delle piante.
Nella sua ricerca gli apparati radicali funzionano come una grande matrice integrata di
sensori che elaborano le informazioni ricevute dall’ambiente. Nel loro intreccio, costituiscono una
sorta di intelligenza connettiva fondata su decisioni che rispecchiano non la scelta di un singolo
quanto una scelta di gruppo. Modelli analoghi si trovano nel funzionamento delle colonie di insetti
sociali, o nel volo coordinato degli sciami delle api o gli stormi di uccelli: l’insieme dei tanti
organismi costituisce un’unità molto più complessa della semplice somma degli elementi che la
compongono, un’unità che ha esigenze diverse da quelle del singolo, che non ha un centro di
controllo, che non ubbidisce a decisioni individuali ma dipende dal comportamento di tutti.
Stefano Mancuso con il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale sta lavorando
dal 2003 sull’ipotesi di robot plantoidi. Il primo prototipo è stato progettato con l’obiettivo di
facilitare le esplorazioni in ambienti ostili. Descritti in un articolato studio di fattibilità i plantoidi,
grandi poco più di dieci centimetri, possono innestare le loro radici sul suolo, ricaricandosi in
superficie di energia grazie a similfoglie alimentate da cellule fotovoltaiche. I sensori disposti sulla
radice capace di allungarsi e di espandersi avrebbero raccolto dati sulle caratteristiche del
terreno; l’apice radicale, crescendo, si sarebbe spostato esplorando il suolo in profondità e
l’insieme dei dati raccolti avrebbe contribuito a sviluppare strategie di intelligenza distribuita. In un
futuro non lontano Mancuso e altri studiosi, convinti dalle possibilità tecnologiche offerte dalla
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Carlo Infante - Tutto è già interconnesso
bioispirazione vegetale, immaginano gruppi di pacifici plantoidi che si prendono cura dei nostri
giardini.
Prendendo a modello lo schema vegetale, è interessante pensare che anche la specie
umana potrà elaborare una sorta di intelligenza connettiva in una società in cui il gruppo sarà
capace di prendere decisioni più adeguate rispetto a quelle prese da un singolo. Questa
prospettiva potrà realizzarsi in un futuro prossimo. Già oggi grazie alla condivisione garantita da
internet l’umanità sta diventando interconnessa e la connessione globale permetterà alla nostra
specie
di
acquisire
capacità
attualmente
inimmaginabili:
basta
pensare
a
Wikipedia,
l’enciclopedia che sta attuando prospettive fondate sul funzionamento di modelli vegetali,
eliminando i controlli verticali e sviluppando funzioni di intelligenza interconnessa e distribuita.
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Carlo Infante - Topologia della rete
Indice
1.
MAPPARE L’INTERCONNETTIVITÀ .......................................................................................................... 3
2.
GLI STANDARD DI UTILIZZO DELLE RETI ................................................................................................. 7
3.
L’EVOLUZIONE DELLE RETI WIRELESS ..................................................................................................... 9
4.
LA CREATIVITÀ CONNETTIVA ............................................................................................................. 11
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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Carlo Infante - Topologia della rete
1. Mappare l’interconnettività
Nel prossimo futuro, i collegamenti all’internet delle cose richiederanno livelli senza
precedenti di connettività di rete e le reti wireless svolgeranno un ruolo predominante.
Le infrastrutture di rete sono dappertutto dato che un numero crescente di utenti agisce
con i propri laptop, tablet, e dispositivi mobili dappertutto.
È qui che entra in gioco un nuovo concetto di topologia di rete, per cui si descrive la
relazione logica e fisica tra tutti i nodi, i dispositivi e le connessioni sulle reti utilizzate. In parole
povere, la topologia di rete si riferisce al modo in cui è organizzata una rete.
Le connessioni fisiche sono connessioni tra i nodi e la rete, ovvero i fili fisici, i cavi e così via.
Le connessioni logiche descrivono quali nodi si collegano tra loro e come i dati vengono
trasmessi attraverso la rete. Sebbene queste connessioni non siano visibili, sono intrinseche alla
funzione generale della rete.
Con il giusto sistema di topologia di rete in atto, i provider (i fornitori dei servizi digitali)
possono rilevare automaticamente se un dispositivo viene aggiunto o rimosso, risolvere
rapidamente i problemi di connettività di rete e ottenere una rappresentazione visiva
comprensibile della rete e della sua interconnettività. La creazione di una mappa della topologia
di rete inizia con il rilevamento dei dispositivi di rete.
Il rilevamento dei dispositivi di rete è il processo di identificazione di tutti i computer e altri
dispositivi situati sulla rete. Sebbene sia possibile farlo manualmente, molti provider si basano su
strumenti di rilevamento della rete per automatizzare e accelerare il processo. Il software di
rilevamento della rete sfrutta protocolli di rilevamento comuni, tra cui il protocollo di gestione della
rete semplice, il protocollo di rilevamento del livello di collegamento e il ping (Packet INternet
Groper) un'utility per misurare il tempo, espresso in millisecondi, impiegato a raggiungere un
dispositivo in Internet e a ritornare indietro all'origine. Ciò per rilevare e raccogliere rapidamente
informazioni su computer e reti, hardware e software nel cloud e logica di relazioni tra risorse di
rete.
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Carlo Infante - Topologia della rete
Esistono diversi tipi di topologia di rete. Ogni tipo è progettato per il suo scopo unico: non
esiste una topologia “taglia unica”. Alcuni dei tipi più comuni di topologia di rete includono stella,
bus, anello, albero, mesh e topologia ibrida. Ecco una breve panoramica di ciascuno:
La topologia a stella è di gran lunga la topologia di rete più comune. All’interno di questo
framework (significa intelaiatura, una struttura atta a tenere qualcosa insieme, come le reti)
ciascun nodo è collegato in modo indipendente a un hub che funge da nodo di smistamento dati,
creando così una forma a stella. Tutti i dati devono viaggiare attraverso il nodo centrale prima che
raggiungano la destinazione. Poiché non sono collegati due nodi adiacenti, se uno si disattiva, gli
altri rimarranno attivi e funzionanti. Tuttavia, se il nodo centrale non funziona, non funzioneranno
anche tutti i nodi adiacenti all’interno della rete.
La topologia del bus, nota anche come topologia di linea o backbone, collega tutti i
dispositivi tramite un singolo cavo che scorre in una direzione. Anche tutti i dati sulla rete passano
attraverso questo cavo, seguendo la stessa direzione. A causa della quantità limitata di
apparecchiature necessarie per costruire questo layout, la topologia del bus è considerata
un’opzione solida ed economica per molti provider. Man mano che le esigenze della rete
aumentano, è possibile aggiungere più nodi unendo cavi aggiuntivi. Va tenuto presente che
queste topologie possono gestire solo tanta larghezza di banda quanta ne consente il cavo
principale e se il singolo cavo si guasta, l’intera rete fallirà a sua volta.
La topologia ad anello (ring) come suggerisce il nome, presenta tutti i nodi disposti secondo
la forma di un anello che va in entrambe le direzioni, passando attraverso ciascun nodo fino a
raggiungere la destinazione. Poiché solo un nodo sul ring può inviare dati in qualsiasi momento, la
possibilità di collisioni di pacchetti è notevolmente ridotta. Tuttavia, come la topologia del bus, un
nodo guasto in un layout ad anello può portare l’errore a tutti gli altri. La larghezza di banda è
limitata anche nella topologia ad anello, mettendo in discussione la scalabilità.
La topologia ad albero è impostata come un albero genealogico, con un’unità centrale
nella parte superiore che poi precipita in una gerarchia di unità aggiuntive. La topologia ad albero
combina il meglio delle topologie a stella e bus, facilitando l’aggiunta di nodi alla rete. Se l’hub
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Carlo Infante - Topologia della rete
non funziona, anche i nodi direttamente collegati non funzioneranno, ma la connettività verrà
mantenuta all’interno dei sistemi di diramazione rimanenti. Mentre le topologie ad albero facilitano
la scalabilità, possono essere costose da gestire a causa della quantità di cablaggio richiesta per
connettere tutti i dispositivi.
Le topologie a maglia (mesh) formano strutture simili a nodi web di nodi interconnessi. I nodi
sfruttano quindi la logica per identificare la via più efficiente per la trasmissione di ciascun
pacchetto di dati. In alcuni casi, i dati vengono inviata a tutti i nodi all’interno della rete senza la
necessità di logica di routing. Le topologie a maglie richiedono spesso numerosi cavi e possono
essere laboriose da configurare. Tuttavia, molti provider ritengono che valga la pena lo sforzo a
causa della loro natura affidabile e resistente ai guasti.
La topologia ibrida sfrutta due o più layout di topologia per soddisfare le esigenze di utilizzo
della rete. La topologia ad albero è tecnicamente un esempio di topologia ibrida, in quanto
combina strutture a stella e bus. Le tecnologie ibride offrono una grande flessibilità e sono comuni
tra le grandi aziende, in particolare quelle suddivise in molti dipartimenti diversi. Poiché queste
topologie sono così complesse, richiedono molta esperienza per essere gestite.
La topologia di rete consente ai provider di condurre valutazioni approfondite della rete e
di arrivare alla radice dei problemi di rete con maggiore efficienza. Con il monitoraggio dei
dispositivi di rete e la conseguente mappatura si può attuare:
Rilevamento automatico dei dispositivi: anziché eseguire l’inventario manuale di tutti i
dispositivi in una rete, si possono sfruttare una piattaforma di topologia di rete completa per
rilevare automaticamente tutti i dispositivi in rete in pochi minuti. Dopo queste scansioni, è possibile
creare mappe di rete dettagliate per fornire una visione dall’alto dell’infrastruttura di rete;
risolvere rapidamente i problemi di rete, visto che non si possono arrestare i processi di
input-output i problemi sulla rete vanno identificati e risolti rapidamente con interruzioni minime.
Sfruttando una mappa della topologia di rete altamente dettagliata, è possibile visualizzare
facilmente il layout di rete, il che consente di individuare il problema di rete per facilitare la
risoluzione dei problemi più rapida e tempi di fermo minimi;
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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eseguire una gestione completa dell’inventario della rete, per creare report dettagliati per
tracciare l’inventario hardware, i dati delle porte degli switch, la cache ARP (Address Resolution
Protocol) il cui compito è fornire la mappatura" tra l'indirizzo IP (Internet Protocol) e l'indirizzo MAC
dei dispositivi connessi. Questi rapporti consentono di tenere traccia delle informazioni di inventario
e di rete, in modo da poter avere una migliore comprensione di tutto l’inventario disponibile e la
capacità del dispositivo esistente. Alcuni report identificano persino le vulnerabilità della sicurezza
e forniscono stati di patch (porzione di software progettata per aggiornare o migliorare un
programma) su i vari nodi per la comunicazione in rete;
aumentare l’efficienza delle operazioni, creando mappe di rete senza dover ripetere la
scansione per risparmiare tempo prezioso, larghezza di banda e risorse. Queste soluzioni spesso
supportano più metodi di rilevamento e fanno parte di suite di servizi che offrono software di
accesso remoto, consentendo di gestire le reti in tempo reale.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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2. Gli standard di utilizzo delle reti
La standardizzazione è necessaria per questioni di interoperabilità e compatibilità. Tuttavia
un unico standard non sarà mai in grado di coprire tutti i casi, a causa della grandissima varietà di
applicazioni. Per mantenere un quadro sufficientemente chiaro, è necessario un certo livello di
categorizzazione.
Le reti wireless possono essere classificate in base alla topologia, laddove le varianti più
semplici sono la topologia a stella e la topologia a maglia. In una rete a stella, tutti i nodi sono
collegati a un unico nodo centrale, che solitamente fornisce la connessione internet. In una rete a
maglia, invece, ogni nodo può essere collegato a più nodi e la connessione a Internet può essere
effettuate attraverso uno o più nodi.
Un esempio tipico di rete a maglia è la rete ZigBee Light Link, nella quale diversi apparecchi
di illuminazione sono interconnessi per ampliarne la portata. Solitamente uno dei nodi ZigBee funge
da gateway (dispositivo di rete che collega con le reti telematiche).
Le reti a maglia sono più complesse e l’inoltro di messaggi può richiedere molto più tempo
rispetto a una rete a stella. Per contro, le reti a maglia offrono il vantaggio di poter essere ampliate
attraverso nodi intermedi (detti hop, la tratta che separa tra loro due nodi di instradamento nella
rete) senza aumentare la potenza dei trasmettitori.
Assicurare l’interoperabilità fra sistemi di comunicazione è una sfida complessa che non
può prescindere da una standardizzazione. Attualmente, tre organizzazioni che consentono
l’interoperabilità dei dispositivi con connettività wireless sono Wi-Fi Alliance, Bluetooth Special
Interest Group (SIG) e ZigBee Alliance.
Basate su una topologia a stella, le reti Wi-Fi utilizzano il punto di accesso (AP, Access Point)
come gateway Internet. Fino a poco tempo fa era piuttosto costoso integrare la connettività Wi-Fi
in dispositivi con prestazioni di calcolo ridotte (come termostati o elettrodomestici), a causa delle
dimensioni e della complessità del software Wi-Fi. Ora, invece, i nuovi dispositivi e moduli hanno
spesso in dotazione standard il software per connettersi in Wi-Fi.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Wi-Fi si basa sullo standard IEEE 802.11 ed è stato sviluppato come alternativa wireless al
diffusissimo cavo Ethernet IEEE 802.3. Nonostante la tecnologia Wi-Fi definisca principalmente il
livello di collegamento dati di una rete LAN (Local Area Network), essa è anche integrata a quella
TCP/IP per la connettività Internet.
Bluetooth fu sviluppato nel 1999 da Ericsson per la comunicazione wireless tra telefoni e
computer e il suo nome lo deve ad un re vichingo soprannominato “dente blu”. Oggi è
praticamente impossibile trovare un telefono cellulare senza bluetooth per cui è di fatto diventato
uno standard di connessione. Bluetooth è una tecnologia PAN (Personal Area Network) con
capacità di trasmissione dati fino a 50 Mbit/s.
Bluetooth collega accessori wireless con smartphone e tablet e può essere utilizzato come
gateway Internet. I monitor cardiaci indossabili che trasmettono i dati a server sul cloud o le
serrature comandate da cellulare che inviano informazioni sul loro stato alle compagnie di
assicurazioni sono solo due esempi delle molte applicazioni IoT che possono essere implementate
con questa tecnologia.
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3. L’evoluzione delle reti wireless
Pensiamo a milioni e milioni di sensori sparsi per il mondo che inviano informazioni, in
modalità wireless, sul traffico, sull’inquinamento atmosferico, sul consumo di energia, sulla
temperatura, sull’umidità, sulle presenze, sui dati sanitari. Oppure una sveglia collegata al sistema
satellitare che suona in anticipo quando nel percorso per recarsi al lavoro il traffico è superiore alla
media per un incidente, per lavori...o un messaggio che ci avvisa quando ci si dimentica di
prendere una medicina, o a qualsiasi altra cosa che ci venga in mente.
Le reti di telefonia mobile rappresentavano l’unica tecnologia di comunicazione wireless in
grado di garantire una copertura globale per l’invio dei dati, ma queste evidenziano svantaggi
non indifferenti. La velocità di trasmissione dati era molto più elevata rispetto alle necessità della
maggior parte delle applicazioni, in quanto gli oggetti collegati inviano pochi dati più volte al
giorno a un sistema informatico centralizzato e sono spesso molto semplici, isolati e funzionanti a
batteria, le tariffe sono proporzionali alle elevate velocità di trasferimento dati anche per collegare
il più semplice dei dispositivi wireless , e le prestazioni offerte dalla tecnologia per telefoni mobili
tendono a deteriorarsi in condizioni ambientali severe o estreme.
Esistono oggi opzioni sempre più interessanti per implementare collegamenti di tipo wireless
nelle reti di sensori per l’internet delle cose (IoT).
Per un decennio o forse più, le reti di telefonia mobile hanno rappresentato l'unica
tecnologia di comunicazione wireless universale disponibile, in grado di garantire una copertura
praticamente globale in ogni regione abitata del pianeta. Gli utenti hanno ora la possibilità di
scegliere tra due nuove topologie di reti Wan (Wide Area Network) ciascuna delle quali garantisce
sensibili risparmi in termini di costi rispetto alle reti di telefonia mobile: LoRA (abbreviazione di Long
Range) e SigFox.
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In modi differenti mettono a disposizione degli utenti soluzioni che permettono di ridurre costi e
consumi nelle applicazioni IoT.
Entrambe le reti rientrano in una nuova categoria di rete universale, pubblica, denominata
Lpwan (Low-Power Wide-Area Network). Il nome, in realtà, suona un po' paradossale: gli approcci
di tipo tradizionale alla connettività wireless suggeriscono che un dispositivo di rete non dovrebbe
essere in grado di operare con consumi ridotti mentre contemporaneamente sta trasmettendo su
lunghe distanze.
La topologia dei due tipi di reti è la stessa di quella utilizzata dalle tecnologie per telefonia
cellulare, ovvero del tipo a stella con una stazione Bts (Base Transceiver Station) al centro. A
differenza dei sistemi 2G, 3G o 4G, una rete Lpwan adotta uno schema di modulazione che riduce
la velocità di trasmissione dati (throughput) al fine di garantire una maggiore tolleranza nei
confronti delle interferenze e dell'attenuazione del segnale.
In questo modo la potenza di trasmissione (in uscita) potrà essere molto bassa. Nello stesso
tempo la tecnologia richiede ricevitori caratterizzati da una sensibilità molto elevata al fine di
mantenere una connessione in presenza di segnali di ingresso relativamente deboli. In altre parole,
a differenza di una rete di telefonia mobile, una rete Lpwan è ottimizzata per l'utilizzo in
applicazioni IoT, che richiedono bassi consumi e ridotta velocità di trasferimento dati.
Il fatto che le reti mobili sono spesso congestionate sia dal traffico telefonico sia dal traffico
generato dalla navigazione e dal downloading di contenuti multimediali, poteva essere una delle
cause che frenavano l’enorme potenziale dell’Internet delle Cose.
Per trasformarlo in realtà era necessario pensare una rete di nuova generazione wireless
dedicata esclusivamente al machine to machine (M2M) che indica i servizi che permettono il
trasferimento automatico delle informazioni da macchina a macchina nell’ambito dell’Internet of
Things, con limitata o nessuna interazione umana, senza interferire con le reti mobili, e in grado di
gestire migliaia e migliaia di connessioni contemporanee.
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4. La creatività connettiva
La connettività, l’attitudine propria del libero scambio di comunicazione on line e
dell’human networking può e deve cogliere queste nuove opportunità di interconnessione evoluta,
come ciò che sottende l'internet delle cose, che mettono in rete non solo computer e oggetti ma
noi tutti, anche quelli inconsapevoli.
Si tratta di aprire lo sguardo d’insieme, con un respiro strategico, non solo tecnologico ma
antropologico e culturale, per impostare un nuovo approccio con le politiche delle reti.
Il dato più peculiare da rilevare è nella capacità di mettere in relazione le combinazioni
tecnologiche con le diverse specificità dei linguaggi, grazie a una nuova forma di comunicazione
che usa lo stesso Internet Protocol non per accogliere input dalle tastiere dove scriviamo ma da
altri sensori, a partire da quelli audio per cui si registra un netto sviluppo delle interfacce vocali.
Ciò si sta rivelando come un medium vettore di nuovi comportamenti per alcuni aspetti
inerti negli automatismi indotti dalla fretta, come accade con i messaggi vocali di WhatsApp.
È opportuno riprendere il dibattito sulla intelligenza connettiva, un concetto, coniato da
Derrick de Kerckhove negli anni Novanta, che si è innervato allo sviluppo del web in quanto
tecnologia cognitiva, esplicitando le inedite proprietà psicologiche della cooperazione on line. In
questa connettività si attiva un processo tecnologico che di fatto si traduce in un processo
psicologico e una nuova sensibilità che riscopre il senso naturale delle cose naturalmente
interconnesse.
Si tratta di un’evoluzione psicologica e cognitiva che attraverso la telematica ha creato
condizioni inedite di scambio sociale che vanno anche oltre lo stesso principio dell’intelligenza
collettiva che aveva connotato la prima ondata di attenzione culturale al web come ipertesto di
ipertesti.
La creatività connettiva che si è sviluppata nel contesto multimediale in questi ultimi
trent’anni ha svolto già un ruolo decisivo nell’affermazione di un processo che ha trattato del
cambiamento epistemologico imposto dal web verso una rifondazione dei linguaggi. Allora era
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evidente che l’intero assetto umanistico non poteva più prescindere dalla rivoluzione che
l’ipertesto stava creando all’interno delle pratiche della scrittura. Il concetto stesso di Sapere
veniva messo in discussione, relativizzando certe prerogative delle classi dirigenti culturali, con una
disintermediazione sempre più determinata dalla dinamica reticolare della connettività web,
liberando pluralità dei saperi, per una conoscenza più aperta e non gerarchica.
Tutto ciò non è solo teorico, presuppone la risultante del processo cognitivo scandito da
un’evoluzione tecnologica che sta ridisegnando le sue mappe, con le nuove topologie della rete
che dalla connessione tra computer sta passando agli oggetti, anche quelli inscritti nella nostra più
intima quotidianità. Ciò comporta una tale quantità di criticità destinata a moltiplicarsi ma al
contempo è urgente una consapevolezza che la riequilibri, valorizzando le opportunità che si
prospettano e cercando di governare il processo perché criticità come quelle dell'automatismo
psichico e della pervasività siano arginate.
Nuove topologie della rete delineano quindi nuove traiettorie digitali che possono essere
intraprese per la nostra evoluzione, grazie al fatto che si intravedono straordinarie condizioni
abilitanti per estendere il nostro potenziale proattivo, attuando quell’innovazione adattiva su cui
stiamo concentrando le nostre attenzioni.
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Indice
1.
DOMOTICA, LA SCIENZA DELLA CASA ................................................................................................ 3
2.
LA MOLTITUDINE DEGLI SMART OBJECT CONNESSI ............................................................................ 5
3.
UN SISTEMA A INTELLIGENZA DISTRIBUITA ........................................................................................... 8
4.
SWITCH HOME, LA DOMOTICA COMPORTAMENTALE ...................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 13
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1. Domotica, la scienza della casa
La domotica è una scienza che si occupa della qualità della vita nella casa e in particolare
delle diverse soluzioni tecnologiche che affrontano la condizione dell’abitare in stretta relazione ad
alcuni aspetti funzionali come l'efficientamento, l’ergonomia, la sicurezza.
Il concetto prende piede già nel XX secolo con i primi impianti elettronici integrati agli
impianti elettrici delle case e il suo nome deriva dal latino domus (casa) combinato con il suffisso
greco ticos, che riguarda le discipline applicative.
Oggi le tecnologie applicate alla dimensione domestica sono in piena espansione,
rivolgendosi alla smart home come uno dei punti cardine dell’internet delle cose, un’evoluzione
digitale che sta rivoluzionando la domotica.
La domotica per decenni ha visto l'apporto di molte tecnologie e professionalità, tra le
quali ingegneria edile, architettura, ingegneria energetica, ingegneria gestionale, automazione,
elettrotecnica, elettronica, telecomunicazioni, informatica e design.
La domotica è una scienza, composta da tecnologie informatiche ed elettroniche, che
studia soluzioni automatizzate, interpretando le potenzialità dell’interaction design che riguarda le
diverse forme di interazione tra il corpo e gli schermi, in una sorta di nuova ergonomia tra la
dimensione fisica e quella immateriale, ottimizzando l’interazione tra l’uomo e le macchine. Ciò per
migliorare la qualità della vita e la fruizione dell’ambiente domestico nel suo complesso.
L’idea della casa intelligente si è sviluppata prima dell’arrivo di Internet e allora il suo
funzionamento si basava sulla linea elettrica. Una delle sue prime realizzazioni può essere
considerata la “casa elettrica”, esposta nel 1930 all’Esposizione Triennale Internazionale delle Arti
Decorative ed Industriali Moderne di Monza, ideata da Gio Ponti e realizzata dai designer e
ingegneri del Gruppo 7.
Nel 1966 negli Stati Uniti si inizia a parlare di smart home, con l’intuizione dell’ingegnere
James Sutherland, che installò in casa propria un prototipo di computer chiamato Echo IV, che
poteva gestire le luci, il televisore, la sveglia, programmando accensione e spegnimento.
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In questi ultimi decenni la domotica si è evoluta continuamente e oggi, attraverso
numerose funzionalità integrate nell’impianto elettrico, cablandolo attraverso gli indirizzi IP (internet
protocol) dei vari dispositivi (elettrodomestici e centraline) si possono gestire tutti gli apparecchi in
funzione nell’abitazione, fino ad estendersi all’internet delle cose. Sicurezza, riscaldamento,
climatizzazione, illuminazione, screening audiovisivi, elettrodomestici, impianti di irrigazione: le
applicazioni sono moltissime.
Se l’impianto elettrico esistente non è predisposto per supportare un sistema domotico,
allora è necessario intraprendere le necessarie opere di cablaggio. L’impianto domotico è più
complesso di un impianto tradizionale, e la realizzazione va affidata a elettricisti e installatori
specializzati e competenti.
I vantaggi di un sistema domotico, rispetto all’IoT sono molteplici, tra cui la gestione dei
dispositivi che è molto più semplice, poiché avviene attraverso un’unica centralina cui gli stessi
sono collegati via cavo, cablati.
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2. La moltitudine degli smart object connessi
L’IoT (internet of things), è la tecnologia che permette di automatizzare alcune funzioni
domestiche attraverso la rete internet. Il vantaggio riguarda i costi da affrontare, visto che non è
necessario intervenire con opere di cablaggio.
Tuttavia, bisogna prevedere un certo investimento in oggetti connessi, capaci cioè di
dialogare con i dispositivi di controllo. Questi ultimi possono essere smartphone, assistenti vocali o
un gateway (dispositivo di rete che collega con le reti telematiche).
Le configurazioni IoT stanno conquistando fette sempre più ampie di mercato, e gli smart
object sono ormai moltitudini. Si calcola che nel 2021 ci saranno miliardi di dispositivi connessi nel
mondo. Dai computer, TV, tablet e smartphone, si è arrivati alle lampadine, alle telecamere, agli
interruttori, agli elettrodomestici...
Ora ci sono anche smart object come specchi, docce e miscelatori, macchine del caffè e
bilance, e quanti altri ce ne saranno ancora da inventare.
La semplicità della casa connessa è quindi relativa: più aumentiamo i dispositivi connessi,
più sarà complicato controllarli, visto che i protocolli di comunicazione sono spesso diversi tra loro.
Sarà opportuno quindi verificare che un oggetto connesso sia compatibile con i dispositivi di
controllo.
Le applicazioni IoT hanno, in particolare, un forte potenziale soprattutto nell’ambito
domestico della smart home. È lo sviluppo di quello che fino ad oggi era stato chiamato
semplicemente domotica. Le applicazioni vanno dalla messa in rete degli elettrodomestici, grandi
o piccoli che siano, per arrivare all’impianto di climatizzazione e alla sicurezza con la gestione della
blindatura di porte e finestre. Tutto può essere in rete e così si può non solo controllare a distanza,
ma anche monitorare il buono stato degli apparecchi e gestirne nel caso la manutenzione.
Lo smartphone è ormai una protesi del corpo umano, e siamo sempre più abituati a usarlo
come un telecomando universale.
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Ma proprio rispetto alla domotica gli esperti ipotizzano che presto il senso più sollecitato
dall’hi-tech sarà l’interazione vocale. Il motivo è nella diffusione degli assistenti vocali personali
domestici come Echo di Amazon, (cilindro che, tra le altre cose fornisce consigli, suona musica e
legge libri) e gli analoghi dispositivi Google Nest e Apple HomePod. Nuovi maggiordomi pensati
per controllare usando la voce l’internet delle cose dentro casa.
Innegabile vantaggio dell’IoT è la flessibilità e la possibilità di implementare le funzioni nel
tempo senza spaccare i muri ma solo riprogrammando il sistema.
L’IoT è pensato per accudire chi va di fretta, o quelli che hanno sempre paura di aver
lasciato aperto il gas o qualche luce accesa. Basta schiacciare un tasto (anche a distanza,
attraverso lo smartphone) per chiudere tutto in un sol colpo: luci, tapparelle, gas. E la sicurezza è
garantita dalla porta blindata, magari con sistema di autenticazione biometrica (iride,
riconoscimento facciale).
In cucina, regno per eccellenza degli elettrodomestici, le possibilità sono molte. Si va dalla
cappa che dialoga con i fornelli per regolare l’aspirazione, al frigorifero che, grazie a telecamere
interne, ci fa vedere cosa manca mentre siamo al supermercato. Ma l’internet delle cose è anche
il metodo per evitare blackout da sovraccarico: gli elettrodomestici comunicano tra loro in rete e si
spengono automaticamente. Si può riconfigurare l’impianto elettrico in caso di corto circuito o se
un fulmine durante un temporale lesiona il circuito.
Il controllo integrato degli impianti di climatizzazione (temperatura caldo e freddo e
umidità), un tempo separati, fa risparmiare sulla bolletta energetica anche grazie al check up
energetico. Non è un caso se esistono forti detrazioni fiscali per chi installa sistemi di domotica.
Anche le finestre intelligenti e le tende interne e quelle esterne ombreggianti fanno parte del
sistema. La possibilità di analizzare tutti i dati in gioco poi permette di valutare l’efficienza
dell’impianto confrontando diversi tipi di generatore di calore (caldaia a condensazione, pompa
di calore, caldaia a legna e diversi tipi di fonti, dal geotermico al fotovoltaico).
I nuovi televisori smart tv e home-theatre possono anche diventare delle torri di controllo
dove ricevere messaggi dalla lavatrice o aprire finestre su videocitofoni e telecamere di
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sorveglianza. Gli interruttori elettrici diventano centraline multitasking per impostare in sala da
pranzo scenari di luce preimpostati, per atmosfere soffuse o set di dance hall.
In bagno, ad esempio, si può contare sulla tecnologia wearable (indossabile) per
applicazioni di telemedicina. Il monitoraggio dei parametri base (pressione arteriosa, ecc) avviene
tramite dispositivi Rfid, sensori miniaturizzati e integrati negli abiti o addirittura impiantati nel corpo
umano.
Sono già a disposizione degli intelligent mirror, specchi-toilette multiuso che applicano
principi di fotometria e di stimolazione multi-sensoriale.
Per quanto riguarda il verde domestico l’irrigazione è già da tempo automatizzata mentre si
va in vacanza, ma ora lo è anche quella indoor e collegata a un giardiniere che fornisce consigli
per chi non ha il pollice verde.
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3. Un sistema a intelligenza distribuita
La smart home viene controllata dall’utente attraverso diverse interfacce (come pulsanti,
telecomandi, touch screen, tastiere, riconoscimento vocale), che realizzano il contatto (input e
output di informazioni) con il sistema intelligente di controllo, basato su un'unità computerizzata
centrale oppure su un sistema a intelligenza distribuita. I diversi componenti del sistema sono
connessi tra di loro e con il sistema di controllo tramite vari tipi di interconnessione (rete locale,
onde radio, bus dedicato ovvero un canale di comunicazione che permette a periferiche e
componenti di un sistema digitale di interfacciarsi tra loro scambiandosi informazioni o dati di
sistema attraverso la trasmissione e la ricezione di segnali).
È stato sviluppato uno standard, il KNX, per l'interconnessione dei diversi componenti in un
ambiente domotico. Si tratta di uno standard per l’invio di comandi, controlli o regolazioni ad altri
dispositivi domotici. Possono essere termostati, rilevatori di movimento o presenza, sensori di
temperatura o luminosità, unità touch-screen, stazioni meteo... Ognuno di questi dispositivi rileva
una grandezza fisica e la codifica in un messaggio che successivamente invia sul bus, il canale di
comunicazione configurato per l’IoT.
Il sistema di controllo centralizzato, con l'insieme delle periferiche in una configurazione ad
intelligenza distribuita, provvede a svolgere i comandi impartiti dall'utente (ad esempio accensione
luce cucina oppure apertura tapparella sala), a monitorare continuamente i parametri ambientali
(come allagamento oppure presenza di gas), a gestire in maniera autonoma alcune regolazioni
(ad esempio temperatura) e a generare eventuali segnalazioni all'utente o ai servizi di
teleassistenza.
I sistemi di automazione sono di solito predisposti affinché ogniqualvolta venga azionato un
comando, all'utente ne giunga comunicazione attraverso un segnale visivo di avviso/conferma
dell'operazione effettuata (ad esempio LED colorati negli interruttori, cambiamenti nella grafica del
touch screen) oppure, nei casi di sistemi per disabili, con altri tipi di segnalazione (ad esempio
sonora).
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Un sistema domotico si completa, di solito, attraverso uno o più sistemi di comunicazione
con il mondo esterno (ad esempio messaggi telefonici preregistrati, SMS, generazione automatica
di pagine web o e-mail) per permetterne il controllo e la visualizzazione dello stato anche da
remoto. Sistemi comunicativi di questo tipo, chiamati residential gateway svolgono la funzione di
avanzati router (ovvero i commutatori usati come interfacciamento tra sottoreti diverse). Ciò
permette la connessione di tutta la rete domestica al mondo esterno, e quindi al web.
Esempio di funzioni di un impianto di illuminazione intelligente: accensioni multiple anche
automatiche di luci in base all'instaurarsi di condizioni specifiche scenari; autoaccensione delle luci
dopo il riconoscimento automatico di una prolungata assenza; centralizzazione dello spegnimento
o autospegnimento delle luci quando viene riconosciuta l'assenza di utenti; gestione
completamente autonoma e automatica dell'illuminazione.
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4. Switch home, la domotica comportamentale
La programmazione dei nuovi gateway consente inoltre la creazione di virtual room, che
uniscono le funzioni di più dispositivi in un dispositivo unico anche se non appartenenti allo stesso
gruppo. Questa innovativa programmazione è stata definita comportamentale per intendere
un’evoluzione adattiva della domotica creando la nuova categoria di switch home, per cui il
termine switch è inteso come cambiamento, passaggio, di adattamento come nel caso di utenti
disabili.
La switch home può quindi restituire l’autonomia alle persone diversamente abili,
migliorandone la qualità di vita. Le nuove tecnologie adattive e le relative applicazioni sono state
progettate da chi si occupa di domotica a prova di handicap.
L’aspetto evolutivo di questi sistemi è nell’introduzione di dispositivi e soluzioni che possono
annullare, in parte o totalmente, la debolezza di un individuo nelle diverse declinazioni
dell’ambiente in cui vive ed opera.
Primo passo per una switch home a misura di disabile è quindi la progettazione ergonomica
sia degli spazi, privi di barriere architettoniche, sia degli arredi con elementi user friendly rispondenti
alle necessità dell’utente. Grazie alla domotica per disabili, sviluppata negli anni, si è oggi
predisposti all’inserimento di impianti di automazione della casa che assistano scenari
comportamentali, adattivi alle particolari abilità dell’utente per rendere attivo, intelligente e
cooperativo l’ambiente in modo che esso abbia tutti i requisiti di safety e security adatti all’utenza,
lo spazio che circonda la persona affetta da disabilità non sarà più percepito come un ostacolo.
Gli impianti domotici in casa sono utili soprattutto per supportare l’accessibilità e migliorare
la qualità della vita delle persone diversamente abili, che hanno ad esempio poca o nulla abilità
di movimento autonomo. L’elemento caratterizzante di questi impianti di ultima generazione è
rappresentato dall’integrazione dei sistemi impiantistici e dei servizi.
La smart home è quindi una valida soluzione per migliorare la qualità di vita di utenti deboli
con disabilità motorie, sensoriali e cognitive, contribuendo a ridurre la presenza di caregiver (coloro
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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che si prendono cura) e assicurando una adeguata sicurezza personale all’utente (safety) e alle
cose (security).
La switch home è un’abitazione dotata di una rete che collega tra loro sensori, attuatori e
apparecchiature domestiche di vario genere controllabili anche a distanza. L’insieme di tali
dispositivi consente di fornire servizi che rispondono ai diversi bisogni delle persone che la
occupano: risparmio energetico, comfort, sicurezza e assistenza alle attività domestiche. I dispositivi
e tutte le risorse della casa sono amministrati da un software di supervisione gestito con un touch
screen o con un telecomando o, quando si è fuori casa, anche con dispositivi mobili come lo
smartphone o il tablet.
A disposizione del disabile possono esserci dei servizi fortemente personalizzabili:
dall’isolamento e protezione automatica in caso di temporale al rilevamento di fughe di gas,
allagamenti e incendi, alla connessione remota a servizi di assistenza.
I vantaggi per il disabile di avere una switch home sono:
●
Diminuzione della dipendenza da caregiver e aumento dell’autonomia;
●
Miglioramento della qualità della vita e aumento della sicurezza;
●
Riduzione del carico di lavoro di assistenti e familiari;
●
Monitoraggio da parte dei familiari.
Tra le diverse tipologie di dispositivi che si possono installare:
●
Dispositivi per l’automazione e il controllo dell’ambiente domestico (attrezzature da cucina
automatiche, regolatori di temperatura interna degli ambienti, regolatori di temperatura
dell’acqua, dispositivi per la chiusura/apertura dei serramenti, dispositivi per la sicurezza,
etc.);
●
Dispositivi assistivi (sistemi elettromeccanici o robotici per l’assistenza al movimento; ausili per
la mobilità interna, attrezzature per la riabilitazione fisica, interfaccia uomo macchina
speciali, etc.);
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●
Dispositivi per il monitoraggio della salute (sistemi per il rilevamento dei parametri vitali, della
postura, del comportamento degli occupanti, della ricognizione dell’espressione facciale,
etc.);
●
Dispositivi per lo scambio delle informazioni (sistemi per l’accesso alle informazioni e alla
telecomunicazione, sistemi di telemonitoraggio e teleispezione, controllo da remoto, etc.);
●
Dispositivi per l’entertainment (sistemi di realtà virtuale, robot di intrattenimento, etc.).
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Indice
1.
L’INFORMAZIONE E L’ENERGIA............................................................................................................. 3
2.
IL COINVOLGIMENTO DEI CITTADINI-PROSUMER NELLA SMART COMMUNITY ................................. 8
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 11
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1. L’informazione e l’energia
Una smart grid è tale quando si innerva la rete elettrica di sensori intelligenti che
raccolgono dati in tempo reale per ottimizzare la distribuzione di energia. Le informazioni
provengono da una miriade di terminali: dagli utenti, dai grandi nodi, dai contatori, dai veicoli. Si
tratta quindi della combinazione tra una rete di informazioni e una rete di distribuzione elettrica.
L'infrastruttura digitale gestisce la rete elettrica in modo intelligente attraverso varie
funzionalità, sia in maniera efficiente per la distribuzione di energia elettrica sia per un uso più
razionale dell’energia, minimizzando al contempo sovraccarichi e variazioni della tensione
elettrica.
Il concetto di smart grid nasce in Europa nel 2006 dalla European Technology Platform for
the Electricity Networks of the Future ma lo start ufficiale arriva dall’Energy Independence and
Security Act approvato dal Congresso degli Stati Uniti nel gennaio 2007 e firmato dall’allora
presidente George W. Bush.
Le smart grid nascono come evoluzione del sistema elettrico tradizionale per affrontare la
sfida energetica e la conseguente transizione, per cui si delinea una strategia fondata su cinque
presupposti: sicurezza, solidarietà e fiducia; piena integrazione del mercato interno dell’energia;
efficienza energetica; azione per il clima e decarbonizzazione dell’economia; ricerca, innovazione
e competitività.
La transizione energetica è la chiave per raggiungere gli obiettivi globali di ridurre le
emissioni di gas serra e mantenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2° C. Da qui
l’introduzione sempre più spinta delle fonti rinnovabili nel sistema di produzione e la necessità di
gestire le naturali fasi di calo e di eccesso di offerta.
Le smart grid aiuteranno lo sviluppo delle rinnovabili dato che grazie al loro apporto si potrà
accogliere una quota maggiore della produzione da energie rinnovabili, garantendo una gestione
sostenibile della rete.
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Carlo Infante - Smart Grid
Inoltre, costituiscono una necessità determinata dallo sviluppo della produzione energetica
su base periferica della rete. La produzione di energia elettrica, specialmente da impianti
fotovoltaici, da piccoli produttori locali è già una realtà con uno sviluppo importante e la rete
richiede un necessario aggiornamento, contemplando l’esigenza di gestire le situazioni in cui la
produzione periferica è limitata o eccessiva rispetto ai consumi.
Le reti intelligenti sono nate proprio per gestire al meglio questa e altre sfide, tra le quali si
affermerà una maggior centralità del ruolo dell’utente finale. Infatti, come detto, non sarà più solo
consumatore, ma anche produttore, il prosumer un concetto che ha preso piede con l’avvento
del web 2.0.
L’adozione delle reti intelligenti consente diversi benefici: assicura l’integrazione della
generazione distribuita e garantisce l’energia necessaria ai nuovi usi elettrici finali, come le pompe
di calore, solo per citarne uno.
Inoltre le smart grid contribuiscono a ridurre i tempi di interruzione elettrica, permettendo di
migliorare la continuità del servizio. Tutto questo grazie alla tecnologia digitale: le smart grid sono
dotate di funzioni di riconfigurazione automatica e ottimale della rete e di protezioni che si
adattano rapidamente alla topologia della stessa.
Consentono anche di migliorare la sicurezza del sistema mediante una gestione più
efficace e puntuale delle risorse connesse alla rete, permettendo l’aumento della quantità di
generazione distribuita connessa alla rete senza compromettere la qualità della fornitura.
Permettono di offrire una risposta più rapida a eventualità impreviste e di svolgere ricerche
di guasto molto evolute, rapide e in modo automatizzato, minimizzando i tempi di fuori servizio.
La miglior conoscenza della rete, possibile grazie alle smart grid, consente di svilupparla in
modo ancor più attento alle esigenze degli utenti.
Grazie alla sua capacità di rilevare sovraccarichi, l’energia elettrica viene reindirizzata in
modo da prevenire o ridurre al minimo una potenziale interruzione e di lavorare autonomamente
quando le condizioni richiedono una risoluzione rapida e sicura.
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La sua flessibilità è un altro vantaggio: è in grado di accettare energia praticamente da
qualsiasi fonte, rinnovabile o non, anche se la nascita delle smart grid è legata all’introduzione
delle rinnovabili nel sistema. Inoltre è in grado di integrare le migliori innovazioni tecnologiche,
secondo l’applicazione di internet delle cose (IoT).
La rete elettrica tradizionale si basa sul passaggio tra la centrale di produzione
dell’elettricità e la sua distribuzione agli utenti finali, possibile grazie a una rete di trasmissione a
grande distanza e ad alta tensione. La distribuzione, attraverso l’apposita rete, viene attuata dalle
linee a media e bassa tensione. L’interfaccia tra la rete elettrica di trasmissione e quella di
distribuzione è costituita da cabine primarie di trasformazione da alta o altissima tensione a media.
L’energia elettrica viene solitamente generata da poche grandi centrali elettriche, dotate
di generatori elettromeccanici alimentati da energia meccanica proveniente principalmente da
grosse masse d’acqua (idroelettrica) o dalla combustione di fonti fossili (termoelettrica).
Queste centrali di produzione elettrica sono poste in genere lontano dai centri abitati o
dagli utilizzatori finali con il risultato che occorre predisporre il trasporto dell’energia elettrica.
Nella rete tradizionale esistono già collegamenti dati a livello di generazione ma soprattutto
di trasmissione dell’energia elettrica in Alta e Media Tensione, utilizzati per il controllo e il
monitoraggio della rete.
La smart grid a differenza della rete tradizionale che segue un modello di generazione
centralizzata di energia che dalle grandi centrali viene veicolata nelle reti di trasmissione, prevede
la presenza di sistemi di generazione distribuita. Si tratta di sistemi di produzione di elettricità da
fonti rinnovabili, sotto forma di unità di piccola produzione, come possono essere gli impianti
fotovoltaici residenziali o aziendali o piccole centrali a biomassa, allacciati direttamente alla rete
elettrica di distribuzione.
Dato che le fonti rinnovabili non sono programmabili, gestire sistemi di generazione
distribuita di energia richiede anche una intelligenza digitale che gestisce il sistema elettrico
complessivo così da consentirgli di accogliere eventuali surplus di energia redistribuendoli in aree
vicine, prevenendo o riducendo al minimo un’interruzione potenziale.
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Altra innovazione importante delle smart grid è la gestione bidirezionale dell’energia,
potendo riceverla, ma anche immetterla nel sistema quando è in eccesso, redistribuendo il flusso in
tempo reale e a seconda degli effettivi bisogni.
Per riuscire in questo le smart grid contano su dispositivi intelligenti, tali da permettere uno
scambio continuo di informazioni tra tutti i nodi. In tal modo, oltre a ovviare a buchi, permette di
ridurre gli sprechi. Da qui il suo valore di rete efficiente. Gli smart device che fanno parte della rete
intelligente sono sensori, smart meter, computer e altri apparati tecnologici.
Le smart grid rappresentano quindi l’evoluzione della rete elettrica attuale con
l’integrazione intelligente della gestione del flusso di energia elettrica dei produttori, degli utilizzatori
e di entrambi.
L’evoluzione della rete elettrica in smart grid è quindi data da queste peculiarità:
●
Fonti rinnovabili non programmabili (fotovoltaico, eolico)
●
Generazione distribuita
●
Nuove tipologie di utenti: prosumer; veicoli elettrici
La rete elettrica tradizionale è di tipo unidirezionale, sia per quanto riguarda il flusso di
energia, sia per le informazioni.
Le reti intelligenti invece prevedono un flusso bidirezionale dell’energia elettrica e uno
scambio bidirezionale di informazioni e dati.
Questo significa che l’energia elettrica può anche essere immessa nella griglia dagli utenti
stessi, sia attraverso generatori di energia come impianti fotovoltaici, sia da sistemi di accumulo di
energia elettrica come i veicoli elettrici.
Questi sistemi di co-generazione, perfettamente integrabili nei progetti smart city, di low
carbon economy e di efficientamento energetico, prevedono una forte presenza di generazione
distribuita, anche di piccola taglia (microgeneratori, impianti solari ed eolici), ubicata nei nodi
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Carlo Infante - Smart Grid
periferici delle reti di distribuzione, tradizionalmente progettate per flussi energetici unidirezionali
(dal centro verso i nodi periferici).
Inoltre, poiché le fonti rinnovabili non sono programmabili, la generazione distribuita
richiede anche una maggiore capacità di razionalizzare ed ottimizzare le risorse nella gestione del
sistema elettrico complessivo, in modo tale da gestire in tempo reale eventuali surplus di energia
redistribuendoli in aree contigue (dove spesso si possono presentare dei deficit) e sfruttando
progressivamente i sistemi di accumulo di nuova generazione (utili anche per favorire la diffusione
della mobilità elettrica o emobility).
Le principali problematiche da affrontare nell’implementazione delle smart grid sono il
controllo delle tensioni, la cyber security e la gestione del flusso d’informazione e di controllo
all’interno della rete (quindi i protocolli da adottare nelle comunicazioni su linea di potenza).
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2. Il coinvolgimento dei cittadini-prosumer nella smart
community
Con
le
smart
grid
diventa
centrale
la
figura
del
prosumer,
ovvero
un
produttore/consumatore che produce e consuma la propria energia, utilizza sistemi intelligenti per
incrementare l’efficienza energetica della propria utenza, in modo da ottimizzare i consumi e poter
rendere disponibile in maniera efficiente l’energia che produce ad altri utilizzatori.
Nascono così nuovi concetti di gestione di energia elettrica, volti ad effettuare un
bilanciamento efficiente dell’energia in modo da progettare la rete elettrica per soddisfare non i
picchi di richiesta di energia ma la sua media, questo anche grazie a dispositivi intelligenti per la
gestione dei carichi stessi.
Le differenze principali che si possono riscontrare tra i due differenti paradigmi, reti
tradizionali e smart grid, risiedono pertanto nell’introduzione di tecnologie avanzate e nella
necessità di un coordinamento (management) di quantità di informazioni tramite sistemi di
gestione interattivi.
La smart grid è una condizione abilitante che esplicita come l’innovazione stia cambiando
il modo di vivere dei cittadini.
L’evoluzione tecnologica sta portando allo sviluppo di città e reti intelligenti che
consentiranno una gestione totale dei flussi energetici e delle informazioni.
L’obiettivo è quello di realizzare conglomerati abitati estesi capaci di offrire servizi “a misura
d’uomo”, facili da fruire e resi possibili tramite infrastrutture ad energia rinnovabile, sistemi ad alta
efficienza e il minor spreco possibile.
Tutte le strategie che sottendono la smart city includono un’attenta pianificazione
urbanistica e l’ottimizzazione dei servizi pubblici, per una maggiore integrazione tra le differenti
realtà e contesti d’utilizzo.
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In questo senso, l’aspetto tecnologico va di pari passo con quello legato alla
comunicazione, alla mobilità e alla salvaguardia dell’ambiente, in un mix che garantisca un
accesso alle risorse per la totalità degli individui, limitando gli sperperi, di qualsiasi natura.
La fusione del capitale fisico, umano, intellettuale e sociale è il vero nucleo che movimenta
ogni attività di costruzione della smart city e ancor più della smart community che presuppone una
condizione più senziente e performante dei cittadini-prosumer.
La città del futuro è perciò modulare, dinamica, rispettosa dell’ambiente e, allo stesso
tempo, maggiormente competitività sotto il profilo di business e altamente ottimizzata per
velocizzare e snellire ogni genere di attività.
Di norma, per individuare e classificare la smart city è bene considerare sei elementi
fondati, accomunati da questa filosofia intelligente.
Le città del futuro si sviluppano perciò seguendo direttrici quali, economia, mobilità,
ambiente, governance, vita e persone.
Seguendo questo genere di approccio è possibile abilitare una crescita che tenga conto
delle matrici regionali e urbane, delle risorse naturali presenti, massimizzando la qualità della vita e
coinvolgendo i cittadini nella vita della città stessa, secondo il modello smart community.
L’intelligenza, tipica dei nuovi progetti di città, passa obbligatoriamente da una superiore
integrazione di ogni aspetto legato ai servizi e alle strutture, con il mondo digitale.
Mettere in comunicazione differenti comparti consentirà di risolvere numerosi problemi delle
comunità e di attivare una estesa rete di servizi a supporto del cittadino, con e per le istituzioni.
L’Italia dal 2019 è alla guida dell’International Smart grid action network a cui aderiscono 26
Paesi di tutto il mondo e a breve verrà ratificata l’adesione del Brasile, consentendo al network di
coprire anche il Sud America.
L’Unione europea si è data l’obiettivo di sostituire entro la fine del 2020 l’80% dei vecchi
contatori della luce elettrica con smart meter, il contatore telegestito che permette all’utente di
gestire e conoscere i propri consumi. Agendo direttamente sui consumi finali, questi nuovi device,
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Carlo Infante - Smart Grid
unitamente alle smart grid, dovrebbero favorire una riduzione delle emissioni di gas serra di almeno
il 10%.
Obiettivo dell’Ue è attivare 200 milioni di smart meter per l’elettrificazione (e 45 milioni per il
gas) entro la fine dell’anno (per un investimento complessivo stabilito nel 2014 di 45 miliardi di
euro).
Dal 2002 ad oggi, in Europa, si legge in un report del Joint research centre sono stati lanciati
950 progetti smart grid, di cui 324 frutto di consorzi a cui hanno partecipato più Paesi, per un totale
di 5 miliardi di euro di investimenti.
A livello mondiale, infine, crescono rapidamente gli investimenti e i guadagni in questo
settore, tanto che il mercato globale delle smart grid potrebbe arrivare a valere complessivamente
circa 93 miliardi di dollari nel 2026 (da poco più di 22 miliardi stimati per il 2018), secondo stime
Reports and Data.
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Carlo Infante - Trusted computing e neutralità della rete
Indice
1.
LA TECNOLOGIA CHE CONTROLLA E SOTTRAE AGIBILITÀ IN RETE ..................................................... 3
2.
I DIRITTI IN INTERNET, DALLA NEUTRALITÀ DELLA RETE ALL’OPEN ACCESS ......................................... 5
3.
L'INTELLIGENT DIGITAL MESH ................................................................................................................ 7
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 11
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Carlo Infante - Trusted computing e neutralità della rete
1. La tecnologia che controlla e sottrae agibilità in rete
La continua evoluzione digitale interverrà sempre di più nell’integrazione tra il mondo fisico
e quello digitale e i grandi player dell’hardware e del software stanno mettendo a punto la
tecnologia del trusted computing per intercettare e fare business con questo flusso digitale del
futuro.
Il punto non è certo nell’inibire impresa profittevole bensì evitare che ciò avvenga in modo
improprio e lesivo dei diritti di agibilità nel web.
Il trusted computing (TC), significa computazione fidata e riguarda una tecnologia
pervasiva che con l’intento di evitare la presenza di soluzioni software estranee alle configurazioni
standard permetterà di controllare i vari dispositivi, dagli smartphone agli elettrodomestici inseriti
nell’internet delle cose. Un’evoluzione di Internet in cui le "cose" si connettono tra loro, all’interno
della rete interconnessa, per comunicare dati relativi a funzioni e informazioni che possono essere
condivise con altri oggetti e altri luoghi. Questi oggetti sono dispositivi, attrezzature o luoghi che
messi in rete, sul principio del M2M (Machine to Machine), garantiscono diversi compiti dalla
identificazione alla localizzazione.
TC è un progetto nato nell’ambito del Trusted Computing Platform Alliance con l'obiettivo
di inserire il chip del Trusted Platform Module (TPM) con chiavi crittografiche che non potranno
essere modificate dall’utente.
Va detto con chiarezza e consapevolezza critica: siamo sempre più esposti agli occhi
indiscreti del mondo esterno con il rischio di ritrovarci in una società sorvegliata. Può infatti
prospettarsi, se non opportunamente contrastata, una limitazione della libertà che dovrebbe
essere rigettata dagli Stati democratici. Nelle nostre case, nel nostro privato, non ci saranno
barriere per la privacy e la propria libertà personale, perché potranno essere agevolmente
superate dai chip del trusted computing.
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Carlo Infante - Trusted computing e neutralità della rete
La controversia attorno a questa tecnologia nasce dal fatto che tali dispositivi sarebbero
effettivamente sicuri da manomissioni esterne, ma impedirebbero all'utente eventuali utilizzi, definiti
impropri.
I principali sviluppatori di questa tecnologia sono i membri promotori del Trusted Computing
Group, ovvero AMD, HP, IBM, Infineon, Intel, Lenovo, Microsoft e Sun Microsystems e al momento
(2020) solo alcuni computer portatili e telefoni cellulari destinati all'utenza business negli USA sono
dotati del TPM ma sono tanti i produttori di schede madri dispo
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