Uploaded by Paolo Moretti

Il quid imprenditoriale

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IL QUID IMPRENDITORIALE
L’Italia è la patria della bellezza, tempio dell’arte e di una cultura
millenaria. «Bel Paese» per antonomasia, il nostro è altresì il
paese del «ben fatto», culla di quella passione per il fare che i
nostri artigiani hanno saputo rendere uno stile di vita e, al tempo
stesso, la più autentica ragione di successo del Made in Italy. Ma
che cos’è il Made in Italy? Fermarsi al mero slogan ci impedisce di
cogliere i tratti distintivi di un fenomeno complesso che ha
permesso alle nostre imprese di temperare il tecnologismo della
globalizzazione con un nuovo umanesimo all’insegna del gusto e
della creatività, e di sostituire alla filosofia finanziaria
anglosassone uno stile di management tutto italiano.
Per comprendere questa «inafferrabile composizione chimica»
Salvemini sceglie di raccontare 53 storie esemplari di aziende che
hanno fatto dell’eccellenza la loro bandiera. Dalle sue pagine
emerge un ritratto a tutto tondo degli ingredienti del primato
internazionale del Made in Italy: prodotti di qualità e alta gamma,
la cui progettazione implica una forte valenza estetica e un «saper
fare» che pochi altri Paesi sanno attivare; una classe
imprenditoriale eccellente che sa aggiungere alla razionalità
dell’operare l’intuizione, la passione e il sentimento; una capacità
manifatturiera diffusa, legata spesso a doppio filo con aree
geografiche ben definite e oggetto di una conoscenza tacita
difficilmente imitabile; una governance che si alimenta del
rapporto fecondo con il territorio e nella quale un ruolo centrale è
giocato dalla famiglia dell’imprenditore nel dipanarsi della sua
storia generazionale.
1
SEVERINO SALVEMINI è professore emerito di Organizzazione
aziendale presso l’Università Bocconi di Milano e Senior
Professor di Organization Design presso SDA Bocconi School of
Management. Considerato uno dei maggiori esperti nella gestione
delle istituzioni culturali e nell’economia dei settori creativi, è stato
membro di numerosi consigli di amministrazione (tra cui Teatro
alla Scala di Milano, Biennale di Venezia, Cinecittà Holding,
Banca Popolare di Milano, Lottomatica, Mikado Film, DeaCapital
e Telecom Italia Media); attualmente è presidente della
Fondazione Adecco e membro del Comitato Scientifico della
Fondazione Corriere della Sera. Dagli anni Novanta è editorialista
del Corriere della Sera.
2
Business e oltre
3
SEVERINO SALVEMINI
IL QUID
IMPRENDITORIALE
Oltre la retorica del Made in Italy
4
Copertina: Cristina Bernasconi, Milano
Immagine: acquerello di Sara Salvemini
Impaginazione: Valentina Apolloni, Milano (MI)
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Prima edizione: gennaio 2023
ISBN (volume) 978-88-238-3908-3
ISBN (ebook) 978-88-238-8564-6
5
Indice
Il modello originale dello sviluppo economico italiano
Il Made in Italy e oltre…
La difficoltà di decifrare le componenti immateriali del nostro modo di fare
Made in Italy e creatività
Capire tutto ciò attraverso le storie e le testimonianze aziendali
53 storie di impresa
1
E ancora mi diverto…
Formec Biffi, San Rocco al Porto (Lodi)
2
Una valigia piena di sogni e di innovazione
Valigeria Roncato, Campodarsego (Padova)
3
Dalle fisarmoniche ai robot: una seconda vita
OMAS, Numana (Ancona)
4
Proteggersi da zanzare e sole con il Made in Italy
MV Line, Casamassima (Bari)
5
Il mio design è un’orchestra jazz
Design Holding, Milano
6
Il diavolo del Made in Italy si nasconde nei dettagli
Cartoni, Roma
7
I lavoratori felici sono i più produttivi
Bending Spoons, Milano
6
8
Imprenditore sì, ma a modo mio
Anselmi, Monteforte d’Alpone (Verona)
9
In dieci anni si può cambiar pelle
Gruppo Carraro, Campodarsego (Padova)
10 Vento in poppa: alla ricerca di altre prede
Cantiere del Pardo, Forlì (Forlì-Cesena)
11 Con noi il grande freddo
Irinox, Conegliano (Treviso)
12 Quanto condiziona il distretto monoindustriale
Gruppo Chiorino, Biella
13 Una buona ragione per non lasciare l’Italia
Blackshape, Monopoli (Bari)
14 Il cancello per il paradiso
Gruppo FAAC Technologies, Zola Predosa (Bologna)
15 Oltre le Winx
Rainbow, Loreto (Ancona)
16 La famiglia dei tartufi
Urbani Tartufi, Valnerina (Terni)
17 Funivie Made in Italy
Leitner, Vipiteno (Bolzano)
18 Le scommesse delle acquisizioni oltre confine
Jarraff, Vipiteno (Bolzano)
19 Quando le imprese incrociano il mito
Carrera Jeans, Caldiero (Verona)
20 Centauri o astronauti: il mio mestiere è il rischio
Dainese, Molvena (Vicenza)
21 Ceramiche e Borsa
Iris Ceramica Group, Sassuolo (Modena)
7
22 La nutrizione tra bontà e responsabilità sociale
Rigoni, Asiago (Vicenza)
23 Quando l’imprenditore di successo si offre alla società
Brianza Plastica, Besana in Brianza (Monza e Brianza)
24 Il contributo della porta alla bellezza nel mondo
Lualdi, Marcallo con Casone (Milano)
25 La nicchia corre su due ruote
Santini Cycling Wear, Bergamo
26 La strategia di aggregazione
Applied, San Lazzaro di Savena (Bologna)
27 Quando il Made in Italy è musica
Fazioli, Sacile (Pordenone)
28 Il prêt-à-manger in salsa pugliese
Gruppo Ladisa, Bari
29 Quando successione fa rima con diversificazione
Gruppo Riso Scotti, Pavia
30 Saper esportare la bellezza italiana nel mondo
Sgaravatti, Capoterra (Cagliari)
31 La pinsa: provate a imitarla, se ci riuscite…
Gruppo Di Marco, Roma
32 Quando la passione aziendale si declina al femminile
SAIB, Caorso (Piacenza)
33 Edilizia culturale: se il Club del Libro spinge il fatturato
Vanoncini, Mapello (Bergamo)
34 L’innovazione può arrivare dall’Italia
Garmin Italia, Milano
35 Quando la sostenibilità è al centro della strategia
Gruppo Felsineo, Zola Predosa (Bologna)
8
36 Come fare i tessuti fantasia con i fondi di caffè
Lanificio Bottoli, Vittorio Veneto (Treviso)
37 Alici: la ricetta di famiglia
Rizzoli Emanuelli, Parma
38 Passo dopo passo cresce il Distretto della felicità
Il distretto calzaturiero di San Mauro Pascoli (Forlì-Cesena)
39 Può una pizza valorizzare il territorio?
Pepe in Grani, Caiazzo (Caserta)
40 Dalla crisi si può uscire
Diadora, Caerano San Marco (Treviso)
41 Aprite i rubinetti: la classe non è acqua
Nobili Rubinetterie, Suno (Novara)
42 Il network dei dentisti high tech
Gruppo EDN, Firenze
43 Quanti business nell’alambicco
Distilleria Marzadro, Nogaredo (Trento)
44 Nella catena di montaggio delle idee
e-Novia, Milano
45 Il signore dell’alluminio
Pentole Agnelli, Bergamo
46 E se vendessi l’azienda ai dipendenti?
Ar.pa Lieviti, Ozzano dell’Emilia (Bologna)
47 Quando ogni generazione aggiunge un pezzo in più
Gruppo Pagano, Roma
48 Invaderemo il mondo con le insalate
Gruppo La Linea Verde, Manerbio (Brescia)
49 Felicemente prigionieri del grande pennello
Pennelli Cinghiale, Cicognara di Viadana (Mantova)
9
50 Quando l’high tech globale si concilia con il profondo Sud
Gruppo Indeco, Bari
51 Un secolo di dolcezza
Apicoltura Piana, Castel San Pietro Terme (Bologna)
52 Esportare il gusto dei salumi in tutto il mondo
Fratelli Beretta, Trezzo sull’Adda (Milano)
53 I cavalieri della pasta di una volta
Pastificio Benedetto Cavalieri, Maglie (Lecce)
10
Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche.
Se avesse un sistema politico, amministrativo,
sociale serio, l’Italia sarebbe il primo Paese al mondo.
Davanti a tutti. Anche agli Stati Uniti.
Franco Modigliani, premio Nobel per l’Economia 1985
11
Il modello originale dello sviluppo economico
italiano
Il Made in Italy e oltre…
Questo libro nasce da una raccolta di storie di impresa pubblicate negli
ultimi mesi su L’Economia, supplemento economico del Corriere della
Sera. Man mano che scrivevo queste storie mi sono accorto che il format
degli articoli seguiva sempre lo stesso percorso di narrazione: l’idea
imprenditoriale dei fondatori; la cultura organizzativa che dall’origine a
oggi privilegia il welfare dei dipendenti e l’attenzione alla comunità del
territorio; gli stadi di sviluppo e le crisi vissute; le brillanti intuizioni sul
prodotto e sulla distribuzione verso il mercato; la personalità degli
imprenditori e del loro staff manageriale; la successione generazionale
compiuta con successo.
Di fatto, rileggendo gran parte dei pezzi pubblicati, emerge un ritratto
abbastanza approfondito degli ingredienti che compongono il Made in
Italy, quella composizione chimica inafferrabile che ha prodotto prima il
triangolo industriale e poi i cento e più distretti manufatturieri del nostro
Paese. Un insieme di componenti che vale il settimo posto in termini di
reputazione tra i consumatori mondiali e quasi il 40 per cento delle
esportazioni italiane. Una irresistibile onda d’urto che è divenuta negli
ultimi due secoli una vera forma di soft power. Ho allora deciso di
raccogliere i più significativi tra questi ritratti del «bello» e del «ben
fatto», che poi simbolizzano la straordinaria varietà della geografia e
della cultura della nostra penisola. Nella filigrana di questi documenti si
può infatti leggere la disponibilità degli italiani al servizio dell’altro, la
loro connaturata curiosità e capacità di perfezionare con l’innovazione le
formule consolidate, la loro tensione alla ricerca, alla domanda, al
dubbio, alla riflessione che trovano anche nella vasta cultura del Paese la
propria universale bandiera. È un po’ come se, approfondendo
12
l’imprenditoria italiana (sicuramente più quella vicina alle imprese di
minori dimensioni che quella dei grandi colossi di fatturato), si riuscisse
a scoprire come il genius loci italico riesca a temperare il tecnologismo
della globalizzazione con il nuovo umanesimo della buona cucina,
dell’eleganza e dell’arte, cioè con i tratti che caratterizzano lo Stivale
quali il gusto, lo stile di vita e la creatività.
La prospettiva storica di tutte le aziende raccontate, elemento
fondamentale per capire quanto i valori umani si siano consolidati nel
tempo in una cultura condivisa tra tutti gli specifici portatori di interesse,
ci aiuta poi a collegare l’attuale spirito di queste imprese del quarto
capitalismo con le radici secolari dei distretti, intrecciando la loro
filosofia di fondo proprio con quell’uomo artigiano, fenomeno
antropologico della nostra competitività economica e protagonista – più
o meno consapevole – dei successi del Made in Italy. Stiamo parlando di
quell’esperienza degli avi di bottega di epoca medievale (o addirittura
precedente), dove la fertilizzazione incrociata tra credenze, abilità
manufatturiera, estetica, rispetto delle persone e dell’ambiente hanno
edificato l’eredità storica e accumulato i frutti della vita d’oggigiorno. È
quella la generazione dei lombardi, dei genovesi, dei fiorentini, dei
veneti che dal XII al XV secolo ha sviluppato la grandiosa epoca spesso
ignorata dalla maggior parte della storia economica italiana (per non
parlare degli intellettuali) e che è la chiave di volta per comprendere
molti aspetti nascosti della società post-industriale contemporanea. Storia
che non può e non deve essere dimenticata, perché risulta impossibile
oggi illustrare il Made in Italy senza tornare indietro a indagare
l’orgoglio tipico dell’artigiano che cerca di realizzare un prodotto di
eccellente livello per propria intima soddisfazione, per la fierezza del
saper fare e di essere artefice, per la voglia di creare più per amore che
per denaro.
Il capitalismo industriale e terziario italiano ha sì introdotto negli
ultimi decenni le nuove competenze manageriali (la comunicazione, la
logistica, il marketing, la produzione, la supply chain e altre ancora), ma
è altrettanto vero che gli imprenditori che guidano le aziende italiane nel
XXI secolo non hanno seguito troppo i precetti della «filosofia
finanziaria» che ha orientato a fine Novecento la visione del
management anglosassone. Il rapporto con il prodotto e la
trasformazione industriale rimane ancora una cifra distintiva nella guida
delle imprese. Rimane la passione per il fare, radicata in un mondo di
mestieri e di saperi che qualificano l’italica identità sociale.
13
La difficoltà di decifrare le componenti immateriali del nostro modo
di fare
Ci rendiamo conto della difficoltà di decifrare esattamente che cosa
voglia dire Made in Italy, quando osserviamo gli stranieri – tipicamente i
più giovani e i più abbienti e scolarizzati – che, al di fuori dalla cultura
embedded che invece imprigiona noi italiani nel tentativo di spiegare le
nostre radici e il nostro modo di lavorare, cercano di comprendere le
caratteristiche di ciò che viene definito come modello italiano di
sviluppo. Spesso ci stupiamo nel raccogliere in giro per il mondo
un’ammirazione per la marca «Italia» che noi diamo per scontata quando
addirittura non la sottovalutiamo1. Da fuori confine è difficile però
comprendere quali siano gli input che consentono – come si dice usando
la metafora dell’insetto che per legge fisica non potrebbe muovere le ali
e svolgere il «volo del calabrone» – di volare e di diventare il quinto
paese industriale del mondo.
Come si diceva prima, i fattori che rendono vincente l’affermazione
del prodotto italiano nel pianeta sono infatti molto legati a componenti
immateriali difficilmente narrabili e, per questa ragione, gli stranieri che
si fermano all’etichetta dell’unicum del Made in Italy non riescono a
penetrare nei dettagli di questo fenomeno. Ecco perché diventa
importante leggere le storie delle imprese italiane, anche quelle che
sembrerebbero così lontane dai grandi marchi (si pensi ad aziende come
la moda di Armani o di Dolce&Gabbana, ai negozi di Eataly, alle borse
di Prada o di Gucci, ai mobili di Cassina o di Kartell, alle lampade di
Artemide) che si occupano di valigie, di zanzariere, di cancelli
automatici, di tartufi, di barche a vela. Perché nelle storie si annidano le
connessioni con il consolidato culturale del Paese. Connessioni che
alimentano le competenze distintive che sono alla base del nostro
miracolo economico.
E infatti il Made in Italy è un fenomeno molto più complesso, con un
perimetro molto più ampio e articolato della combinazione moda e
design. Esso comprende comparti molto estesi nel Paese: è convenzione
che includa, oltre alla moda e al design, anche i settori agroalimentari e
dell’automazione meccanica (le cosiddette 4 A del Made in Italy)2; ha
pertanto un peso rilevantissimo nell’economia e ha dimostrato anche nei
momenti di crisi nazionale (ultimamente il periodo della pandemia) una
capacità di tenuta e di forte resilienza competitiva sul mercato nazionale
e internazionale. Secondo i rapporti di Fondazione Edison e di
Fondazione Symbola il Made in Italy (le quattro A) rappresenta grosso
14
modo il 65 per cento del valore aggiunto complessivo espresso dalla
manifattura italiana e un’occupazione stimabile intorno ai 3,5 milioni di
addetti. Questi settori, già fin dagli anni Novanta, sono stati capaci di
dare un contributo insostituibile alla bilancia commerciale del Paese,
coprendo i deficit di altre industrie in cui l’Italia ha un più basso grado di
specializzazione (chimica, elettronica, telecomunicazioni, energia) e
generando un surplus anche in periodi di recessione globale.
La definizione che meglio riassume tutte le altre proviene
dall’economista Marco Fortis che nel suo libro seminale sostiene che il
Made in Italy si riferisce a prodotti e servizi in cui l’Italia vanta un
oggettivo grado di specializzazione e in cui il nostro Paese è rinomato in
tutto il mondo relativamente a profili quali la qualità, l’innovazione, il
design, l’assistenza ai clienti, la tempestività della consegna, i prezzi
concorrenziali3.
Il Made in Italy è pertanto l’insieme del sistema manufatturiero
italiano che tende a contraddistinguersi nell’arena globale e molto
sovente coincide con il distretto geografico industriale, essendo il
risultato dell’accoppiamento strutturale tra la qualità dell’economia e la
qualità della cultura, della storia e dell’identità che caratterizza uno
specifico territorio. Così facendo, esprime non solo le parti fondanti della
nazione, ma anche il profondo collegamento con il contesto locale che ne
costituisce la risorsa primaria.
Ma che cosa ha contribuito ad affermare questo primato
internazionale?
Le ragioni sono da collegare a quattro ambiti tra loro interdipendenti:
• il posizionamento dei prodotti all’interno di nicchie di alta qualità
e di alta gamma, spesso coincidenti con la fascia del mercato di
lusso, che implica una progettazione con forte valenza estetica. Una
capacità quindi tutta originale di creare spazi competitivi
potenzialmente «non-finiti», inventando soluzioni e prodotti
sempre nuovi e originali4. Un «saper fare» che pochi altri Paesi
sanno attivare e che rende le nostre manifatture flessibili,
dinamiche e, soprattutto, interessanti agli occhi di quella crescente
popolazione che cerca storia e cultura incorporata nei beni che
acquista;
• una imprenditorialità eccellente che sa aggiungere alla razionalità
del «saper fare» anche passione e sentimento, una «intelligenza
emotiva», direbbe Goleman5. Uno stile di direzione che sa
trasferire il sensemaking ai collaboratori, che riescono a essere
15
sempre più motivati dalla necessità di esprimere la loro adesione a
una missione istituzionale di fondo: rappresentare la genialità
italiana nel mondo; dare il proprio contributo alla responsabilità
sociale collettiva; fornire nuova energia laddove si produce non
solo reddito incrementale ma anche valore aggiunto per la
cittadinanza organizzativa; lavorare in un contesto che consideri il
wellbeing non solo come un «nice to have» ma come una filosofia
autentica e interiorizzata. E comunque una imprenditorialità che ha
assunto come valore il mantra che nulla a priori è impossibile se vi
è l’opportunità di sperimentare, di confrontarsi e di apprendere;
• la capacità manufatturiera diffusa, legata spesso a doppio filo con
aree geografiche ben definite. Infatti la concentrazione territoriale
di certi comparti ha consentito nel tempo l’accumulo e la
sedimentazione di saperi condivisi tra imprese e generazioni di
lavoratori. Un mix tutto originale di competizione e di
cooperazione all’interno delle aree geografiche (il già citato genius
loci) che ha innescato processi di innovazione (incrementale) e di
miglioramento continuo. Questi saperi hanno una caratteristica
particolare: sono di natura tacita e quindi difficilmente intellegibili
e separabili dal contesto locale che li ha generati6. E proprio questa
conoscenza tacita, in opposizione al concetto di conoscenza
esplicita, ossia codificata e facilmente trasferibile, rappresenta
l’elemento di difesa competitiva e di difficile imitabilità del Made
in Italy da parte delle economie estere. Proprio perché è conoscenza
tacita, essa come si è detto è molto difficile da comprendere per
chi, straniero, non conosce approfonditamente gli aspetti unici della
realtà locale;
• le caratteristiche sopra elencate del Made in Italy si sposano poi nel
nostro Paese con alcune costanti nel panorama delle piccole e
medie imprese, che riguardano l’imprenditorialità e la governance
familiare delle aziende. Infatti i nostri imprenditori hanno
diffusamente alcune capacità di intravedere soluzioni che a molti
operatori stranieri sfuggono: sono legati a un’area territoriale per
motivi di gratitudine e, poiché lì sono nati e cresciuti, si ricordano
sempre che lì è iniziata la loro avventura umana prima che
industriale. Il rapporto con il territorio è fecondo, perché l’hanno
visto fiorire e rifiorire e sono disponibili a ritornare alla loro terra i
dividendi sociali, ben sapendo che la loro mano d’opera
specializzata altrove non la troverebbero. Sono imprenditori che
sanno rinnovarsi senza tradire le proprie origini e hanno l’abilità di
16
costruire un ponte tra il passato e il futuro. E sono veloci e
flessibili; sono «lepri che vincono la crisi», come li descrive
l’illuminante saggio di Gubitta, Tognazzo e Favaron7.
La seconda costante è la governance familiare, specialmente nelle
dimensioni d’impresa minori. Nel modello aziendale un ruolo
centrale lo gioca la famiglia, che spesso plasma la gestione
dell’impresa. In alcuni casi la pressione della famiglia è così
rilevante da portare a una sostanziale sovrapposizione tra ruoli
imprenditoriali, manageriali e famigliari. I processi decisionali e le
politiche gestionali sono concepiti all’interno dell’istituzione
familiare, per soddisfare prevalentemente i bisogni della famiglia e
dei suoi componenti. E ciò non necessariamente è un fattore di
debolezza, anzi: la famiglia spesso genera un maggiore
coinvolgimento e una più alta motivazione, perché da un lato
permette di governare le tensioni e dall’altro individua gli interessi
e gli obiettivi comuni tra l’azienda e la famiglia stessa. Inoltre
l’impegno finanziario della proprietà è un segnale forte nei
confronti di tutta la collettività aziendale. La proprietà che mette
mano al portafoglio, sia quando l’azienda va bene o ancor di più
quando ci sono venti di tempesta, è un collante molto rilevante che
rassicura tutti, perché comunica che la famiglia crede nel lungo
termine e vede opportunità per il futuro. Così come elemento non
secondario e viatico per il successo di una crescita sana è l’abilità
di saper individuare a tempo debito i problemi della successione
imprenditoriale e manageriale e di saperli risolvere con gli
opportuni meccanismi di rapporto azionisti/manager nella
formazione di una tecnostruttura di più giovane generazione. Ciò
attraverso la creazione di percorsi di crescita professionale per i più
giovani figli nella cerchia della famiglia di governo oppure
attraverso il trasferimento della proprietà nelle mani di una nuova
compagine azionaria esterna, che abbia intenzione di dare
continuità al progetto imprenditoriale originario.
Imprenditoria e famiglia sono dunque due componenti cruciali del
Made in Italy e da lì occorre partire se si vuole spiegare a tutta
l’opinione pubblica il modello economico di sviluppo. La
responsabilità sociale poi della famiglia nei confronti della
comunità locale è un altro atout importante e contraddistingue la
tradizione di molte prestigiose famiglie imprenditoriali (come il
caso di Del Vecchio ad Agordo, Zegna a Biella, Olivetti a Ivrea,
Cucinelli a Solomeo, e altre ancora).
17
Made in Italy e creatività
Come si diceva, il Made in Italy ha dietro di sé secoli di intelligenza e di
creatività. Il Bel Paese non è infatti solo uno slogan. I manufatti dei
nostri artigiani, i prodotti dell’alta moda, le idee imprenditoriali del
lusso, il livello di servizio molto personalizzato ai clienti sono anche il
risultato del «bello» diffuso che ognuno di noi può respirare nella grande
città come nel centro di un piccolo borgo, nell’attraversare paesaggi
ineguagliabili come nel visitare una chiesa o un museo. La creatività non
è fine a se stessa, ma un processo, un mezzo straordinario per produrre
nuove idee. In questo senso creatività e cultura sono insieme un pilastro
della qualità sociale, intesa come un contesto di comunità libera, giusta,
economicamente sviluppata. Sono un binomio indissolubile, un
meccanismo di successo che posiziona il Paese in un passaggio
strategico del percorso di globalizzazione. I risultati di rilievo delle
nostre istituzioni economiche sono fortemente debitori al fenomeno della
creatività italiana.
Può essere utile qui ricordare alcuni dei recenti primati di creatività
del nostro Paese:
• due architetti italiani fra i vincitori del Premio Pritzker (Renzo
Piano e Aldo Rossi);
• il successo planetario del Salone del Mobile di Milano
nell’affermazione del comparto italiano dell’arredamento;
• la Children Book Fair di Bologna prima fiera al mondo per lo
scambio di copyright di libri per bambini e ragazzi;
• la Galleria degli Uffizi di Firenze primo museo al mondo per
densità di visitatori;
• primo Paese al mondo per numero di premi Oscar vinti per miglior
film in lingua straniera;
• 55 premi Oscar vinti tra le varie categorie;
• due direttori d’orchestra italiani nella top ten di World’s Best
Conductors 2015;
• Lucca Comics and Games primo festival di fumetti e illustrazioni
d’Europa;
• primo Paese al mondo per numero di siti Patrimonio dell’Umanità
Unesco;
• 11 chef italiani tra i cento migliori chef nel mondo (con Massimo
Bottura primo nel 2017 e nel 2018);
18
• unico Paese al mondo con tre siti nella top ten dei siti archeologici
più visitati;
• Auditorium Parco della Musica prima struttura culturale europea
per numero di eventi;
• 6 scrittori italiani vincitori del premio Nobel per la letteratura;
• Giuseppe Verdi è il compositore di musica classica e operistica più
eseguito nel mondo;
• 12 volte vincitori al Festival cinematografico di Cannes;
• sesta editoria libraria al mondo per fatturato e ottava per numero di
titoli pubblicati all’anno.
La creatività incorporata nei prodotti e nei servizi è profondamente
correlata con la nostra cultura, con il nostro territorio, con il nostro
vivere quotidiano. Un collegamento che quindi non è solo di carattere
economico, ma prepotentemente sociale e culturale. Avere la precisa
dimensione di quanto pesino e che cosa contino davvero la creatività e il
Made in Italy, di quanto sia diffuso il loro reticolo nella geografia delle
imprese italiane e nei loro risultati complessivi, aiuta a comprendere
come le radici italiche del bello e del ben fatto sono poi scaricate a terra
nelle dinamiche evocative e simboliche della nostra economia. Se l’Italia
continua a rimanere nonostante tutto la seconda potenza industriale ed
esportatrice europea, dopo la Germania, e la quinta potenza
manufatturiera mondiale mentre molti Paesi avanzati hanno perso
recentemente posizione, lo dobbiamo anche e proprio alle
specializzazioni associate al Made in Italy.
Uno degli aspetti caratterizzanti la creatività italiana nelle imprese
risiede nelle condizioni organizzative in cui l’innovazione riesce a
conformarsi e a svettare. Definire queste condizioni è un esercizio molto
complesso che si imprigiona spesso nella tautologia del fenomeno stesso.
Gli stessi innovatori non sanno bene spiegare la loro unicità, perché essa
è molto più una predisposizione e un atteggiamento che non un processo
metodicamente razionale. Scaturisce molto di più da una devianza
rispetto alle norme e ai conformismi che non da un percorso
proceduralizzato consapevole. Si afferma che tutti i migliori imprenditori
italiani dispongano di una predisposizione che non è così frequente e
diffusa in altri Paesi e cioè che essi sappiano conciliare e accostare
aspetti contrastanti e ossimorici. La loro grande capacità è quella di non
scegliere ambiti di campo esclusivi (in una logica ad excludendum del
tipo o… o…) bensì di accettare di tenere insieme anche dimensioni tra
loro contradditorie e a volte antitetiche (in una logica invece di tipo e…
19
e…). Un po’ come quando Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane
spiegava che l’approccio più fecondo dal punto di vista letterario fosse
quello di tenere insieme stili e metodi di lavoro molto discordanti8. Per
esemplificare, gli operatori italiani riescono a orientarsi al breve termine
ma anche al lunghissimo, svolgere una leadership autocratica ma anche
partecipativa,
concentrarsi
sull’efficienza
ma
anche
sulla
sperimentazione, avere i piedi per terra ma lo sguardo rivolto
all’orizzonte, essere ossessionati per i comportamenti corretti ma anche
tollerare l’errore, predicare il top down ma accettare anche il bottom up,
e così via. E questa straordinaria attitudine di saper fare coesistere nella
loro personalità il dottor Jekyll e il Mister Hyde è la preziosissima
precondizione per riuscire a cogliere elementi lontani (il famoso
«pensiero laterale» di Edward De Bono9) e per mantenere quella
mentalità flessibile che tutti riconoscono agli italiani come elemento
strategico vincente.
Capire tutto ciò attraverso le storie e le testimonianze aziendali
Ci sono due modi di raccontare l’originale modello economico italiano:
quello dei numeri e quello delle persone. I numeri sono un termometro
fondamentale della congiuntura e marcano la competitività locale e
globale. Illustrare la realtà economica italiana attraverso valori di
fatturato e di margine è un giusto esercizio per riuscire a comparare
realtà geografiche diverse nel mondo. Ma a volte, prima dei numeri, sono
le persone che ci facilitano la comprensione dei fenomeni complessi. E
nell’economia italiana le persone protagoniste sono soprattutto gli
imprenditori, gli artigiani, i possessori di un mestiere, i lavoratori che si
misurano con la competizione attraverso i propri progetti di lungo
termine, con le loro sensibilità culturali, con i propri stili di direzione,
con la loro storia individuale e collettiva. E ciò è uno degli aspetti che
meglio distingue il DNA italiano da quello straniero10. È il principale
motore che accompagna nei secoli la trasformazione della nostra
industria, con le sue difficoltà ma anche con la sua fierezza. Potremmo
aggiungere, nonostante tutto, perché ciò avviene nonostante le crisi che
si susseguono e nonostante un sistema politico e amministrativo che non
sempre aiuta. È la testimonianza di un Paese resiliente, che non demorde,
che attraverso continui colpi di reni non abbandona i suoi sogni e
continua a reinventarsi con immaginazione e fantasia il proprio futuro.
Le storie narrate nei prossimi capitoli, scritte tra il 2018 e il 2022 e
aggiornate con i dati dell’ultimo anno, sono una testimonianza di tali
20
vivacità e spirito di iniziativa e anche dell’originale intuizione con cui
alcuni operatori sono riusciti, grazie alla loro pervicacia e al loro
orientamento al cambiamento, a mantenere una leadership nei propri
comparti, rovesciando una formula imprenditoriale ereditata dalla
generazione precedente ma ormai obsoleta e in alcuni casi cambiandola
totalmente. Le imprese raccontate sono state individuate attraverso
svariate fonti: contatti personali; segnalazione da parte di amici
professionisti; notizie apparse sui media. Tutte comunque caratterizzate
dallo stesso spirito imprenditoriale e da risultati di qualità e di successo.
Sono narrazioni dove emergono i personaggi, i prodotti, i contesti
geografici di tutte le latitudini e longitudini, i clienti che spesso
diventano più partner che antagonisti di mercato. È l’Italia
dell’eccellenza. È l’Italia di cui siamo orgogliosi nei nostri confini e al di
fuori di quelli. È l’Italia che non molla mai, nonostante tutto.
1
Si veda Fondazione Altagamma, Bella e possibile. Memorandum sull’Italia da
comunicare, Milano, Skira, 2009.
2
Nel comparto Abbigliamento-moda sono comprese le realtà tessili, dell’abbigliamento
e degli accessori, l’industria conciaria, la pelletteria, le calzature, l’oreficeria e la
gioielleria, l’occhialeria.
Nella categoria Arredo-casa rientrano il legno e il mobilio, i marmi e le altre pietre
ornamentali, le ceramiche e le porcellane, la rubinetteria e gli infissi e l’illuminotecnica.
Il settore Alimentare-bevande è rappresentato soprattutto da prodotti da forno e dolciari,
lavorazioni di carni, industria casearia, pasta, conserve e affini.
Infine l’Automazione-meccanica include prodotti in metallo, elettrodomestici, macchine
per vari impieghi, automobili, motocicli e biciclette.
3
Marco Fortis, Il Made in Italy nel “nuovo mondo”: protagonisti, sfide, azioni,
Ministero delle Attività Produttive, 2005.
4
Stefano Micelli, Futuro artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani, Venezia,
Marsilio, 2011.
5
Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, Milano, Bur Rizzoli, 1995.
6
Enzo Rullani, La fabbrica dell’immateriale, Roma, Carocci, 2004.
7
Paolo Gubitta, Alessandra Tognazzo, Saverio Dave Favaron, Lepri che vincono la crisi.
Storie di aziende (quasi medie) vincenti nei mercati globali, Venezia, Marsilio, 2021.
8
Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988.
9
Edward De Bono, Il pensiero laterale, Milano, BUR Rizzoli, 2009.
10
Per una completa disamina delle dimensioni cross culturali degli italiani rispetto ad
altre popolazioni, si leggano i molti libri di Beppe Severgnini in proposito, tra cui anche
l’ultimo Italiani si rimane, Milano, Bur, 2022.
21
53 storie di impresa
22
1
E ancora mi diverto…
Formec Biffi, San Rocco al Porto (Lodi)
«E ancora mi diverto…»: con queste parole Pietro Casella concludeva
nel 2016 una lunga intervista in occasione del cinquantesimo
anniversario di Formec Biffi, la sua azienda, oggi leader nel settore
agroalimentare con sede a San Rocco al Porto, tra Lodi e Piacenza.
Lavoratore infaticabile, imprenditore nel senso più completo del termine,
sempre a stretto contatto con i propri collaboratori e in prima linea nei
momenti decisionali, il presidente Casella è un convinto assertore della
necessità di anticipare l’evoluzione del gusto del consumatore. Ciò lo
porta a verificare personalmente la qualità dei propri prodotti e ad
assaggiare ogni giorno un prodotto suo o della concorrenza, sicuro che
all’alta qualità occorra abbinare il vantaggio della prima mossa.
La storia di Formec Biffi nasce negli anni Sessanta quando, fresco di
laurea, il giovane Casella vive un brillante inizio di carriera nel reparto
ricerca e sviluppo di Unilever. È curiosissimo, osserva la realtà, assimila
le informazioni, coglie in anticipo le nuove abitudini di consumo. Per
cinque anni, impara e approfondisce i processi innovativi dei prodotti
destinati all’Europa. I grandi supermercati non sono ancora all’orizzonte,
ma Pietro Casella ne preconizza lo sviluppo con largo anticipo, arrivando
a intuire che proprio i supermercati avrebbero prima o poi realizzato una
gamma di prodotti a loro marchio.
Dotato di forte propensione al rischio e di intelligente spirito di
iniziativa, lascia la prospettiva di una carriera aziendale per iniziare la
propria attività imprenditoriale. E fonda Formec, dove accanto al per in
inglese, sta mec, allusione al neonato Mercato Europeo. Anche se
qualcuno sostiene che «for» stesse per formaggio, perché le prime
intuizioni di prodotto sono proprio i formaggini usati anche nelle pappe
dei bambini. Ma in realtà è la maionese il primo vero cavallo di battaglia
23
della neonata azienda con, ancora una volta, una scelta decisamente
coraggiosa: «Facevo tutto da solo: ero seduto su uno sgabello e avevo a
sinistra i tubetti vuoti e a destra uno scatolone per i tubetti pieni.
Riempivo il tubetto con la tubettatrice, lo chiudevo e lo riponevo a
destra».
La prima produzione di maionese per conto terzi inizia l’11 novembre
1966 e il primo operaio viene assunto nel maggio 1967. E Casella,
imprenditore, non esita a vestire i panni del rappresentante che con un
furgone visita i clienti eccellenti, costruendo passo dopo passo la fiducia
delle aziende e della grande distribuzione. Per un certo numero di anni
Formec produce solo per conto terzi e stringe rapporti con Cirio, Dal
Monte, Nestlè, Kraft, Saclà e poi con Esselunga, Conad, Sma-Auchan,
Coop, Carrefour.
Negli anni Ottanta nasce Gaia, una linea di salse destinata a evolvere
fino ad arrivare alle attuali 60 specialità: vari tipi di pesto, sughi freschi
per la pasta, mostardine per formaggi. L’esperienza della ricerca e
sviluppo all’interno della multinazionale anglo-olandese non lo
abbandona e Casella si inventa packaging e flaconi innovativi, fino a
vincere l’Oscar Europeo dell’Imballaggio, confezionando – complice
l’agenzia Armando Testa di Torino – la maionese in una salsiera di
plastica a forma di mezzo uovo, quando i competitor usavano solo il
vetro. Oppure quando si inventa per il ketchup e la senape un contenitore
innovativo e squeezable, per evitare la formazione di aria che avrebbe
potuto alterare il sapore del prodotto. In pochi decenni Formec diventa
tra i maggiori produttori italiani di maionese e salse, oltre che nel food
service per il catering.
In quegli anni avviene un altro passaggio storico: l’acquisizione del
marchio Biffi, grande brand della tradizione milanese della pasticceria,
nato nel 1852. È il momento di entrare nel mercato e nel retail con un
proprio marchio e Formec Biffi comincia a distribuire i propri prodotti
con le linee Biffi e Gaia.
Gli anni Novanta e Duemila vedono l’azienda in grande crescita non
solo dal punto di vista delle risorse umane e delle strutture produttive,
ma soprattutto nello sviluppo del know-how, dell’esperienza e della
dotazione tecnologica. La gamma si amplia con prodotti cento per cento
vegetali, biologici e con le salse etniche: Guacamole, Mexican, Harissa,
Kebab e molte altre per un’utenza sempre più attenta dal
multiculturalismo. Si inizia il percorso «green» che porterà l’impresa a
scelte di avanzata sostenibilità ambientale sia nei prodotti che nel
confezionamento. «I prossimi consumatori saranno molto consapevoli
24
degli ingredienti inclusi nei nostri prodotti. Pertanto niente coloranti, né
conservanti, né input che siano inconciliabili con una dieta di alta
sanità», dice Casella, «e anche il packaging dovrà essere massimamente
rispettoso della natura, con materiali totalmente riciclabili secondo i
criteri ormai diffusi dell’economia verde».
Nel frattempo la cultura aziendale si evolve: «L’ambiente di lavoro
deve essere piacevole, perché i dipendenti possano trovarsi al meglio. Ci
sono altri importanti obiettivi, oltre alla redditività, se vogliamo che ci
sia integrazione tra sistema economico e sistema sociale». Ecco allora
che gli stabilimenti produttivi e la sede amministrativa si affacciano su
un parco naturale e un piccolo lago dove i dipendenti hanno a
disposizione spazi ricreativi quali la palestra e un campo da calcetto,
oltre ad ambienti di lavoro gradevoli e accoglienti e un Parco Artistico
con una serie di suggestive sculture da outdoor che documentano la
passione per l’arte del fondatore.
Sempre nell’ambito del complesso industriale, agli inizi degli anni
Duemila nasce Corte Biffi, un luogo anche di convivialità, per
conferenze, seminari orientati al mondo del food, cene di gala e colazioni
di lavoro.
Accanto a questo welfare organizzativo, una piccola «Olivetti
dell’agroalimentare», il presidente Casella, mecenate e collezionista di
opere d’arte, nel 2007 apre a Piacenza Biffi Arte che, nata come galleria
d’arte contemporanea, negli anni si trasforma in vero polo culturale e
punto di riferimento per la città e non solo, ponendosi come territorio di
incontro fra gli artisti e la collettività, alla ricerca di una cultura libera e
innovata.
L’ultimo nato, nella complessa e vitale visione imprenditoriale di
Pietro Casella, è Biffi Gusto, vera e propria boutique di eccellenze
alimentari internazionali, dove la cultura del cibo incontra quella design
e in tempi più recenti si è aperta a un commercio online in rapido
sviluppo.
Oggi Formec Biffi ha oltre 220 dipendenti. Il quartier generale insiste
su un’area di 220mila metri quadri, ricoperta da sculture moderne e
opere di Land Art. Il fatturato 2021 è stato di oltre 90 milioni di euro con
un export in costante crescita. Tra i numerosi prodotti oltre 70 le
referenze: per esempio solo di maionese se ne producono 700 quintali al
giorno, di ketchup 500 quintali e di pesto 120 quintali; l’azienda utilizza
quotidianamente 250mila uova e lavora ogni settimana il carico di 13
autotreni di olio di girasole. E l’innovazione continua a giocare il suo
ruolo trainante: nel laboratorio di ricerca e sviluppo, sotto la guida della
25
seconda moglie del presidente, undici persone con lauree differenziate si
arrovellano sulle novità da portare prossimamente sul mercato. Sorride
compiaciuto Pietro Casella: «Tra un po’ i nostri clienti potranno gustare
delle nuove cose appetitose, un po’ particolari, sempre legate al grande
gusto italiano. La sfida è quella di sempre: mettere insieme grande
qualità, materie prime di prima scelta a un prezzo avvicinabile».
26
2
Una valigia piena di sogni e di
innovazione
Valigeria Roncato, Campodarsego (Padova)
Quanta strada da quella valigia di cartone, fedele compagna di tanti
emigranti che, consumata ogni speranza nel proprio territorio,
intraprendevano così il viaggio verso la Terra Promessa («mamma mia
dammi cento lire…»)! Eppure è da lì che parte l’avventura che intreccia
la famiglia Roncato con l’azienda che rappresenterà nei nostri giorni
l’icona della valigia Made in Italy. Negli anni Quaranta, subito dopo la
seconda guerra mondiale, Antonio Roncato lavora come responsabile di
produzione in un’impresa veneta di valigeria fino a quando, per paura di
morire a causa dei bombardamenti dei ponti, decide di aprirsi una
fabbrica per conto suo. Si nasconde per alcuni mesi per sfuggire al
pericolo del nemico e poi decide, con molto coraggio e tra mille
difficoltà, di fondare con la moglie Palmira l’impresa di famiglia,
producendo gli oggetti che sa fare molto bene: le borse e le valigie.
Alcuni anni dopo il figlio Giovanni, chiamato da tutti Gianni, aiuta il
padre e progressivamente si inserisce nell’attività paterna. Dice oggi
l’ottantenne Gianni: «Ripensando a quel periodo, a tutte le storie che
sentivo e agli aneddoti che mi venivano raccontati riguardo ai viaggi, mi
ero fatto un’idea precisa del sogno che avrei portato avanti per il resto
della mia vita: continuare l’attività di mio padre Antonio, offrendo, a
tutti coloro che desideravano vedere il mondo, un oggetto per contenere
ciò di cui sentivano di avere bisogno».
Nel 1970 nasce la Valigeria Roncato S.p.A. a Campodarsego in
provincia di Padova e Gianni Roncato con una antesignana intuizione
installa – primo in Europa nel settore – una linea di assemblaggio che
permette alla società di diventare un colosso industriale. Iniziano così le
tappe significative dello sviluppo aziendale, che passano attraverso il
27
progressivo lancio dei nuovi prodotti. Alla fine degli anni Novanta il
successo viene decretato con la linea Sphera, in polipropilene, la prima
valigia che si spinge con un dito. Dieci anni dopo il marchio Teenager
inserisce nel catalogo una varietà fino a quel momento mai vista di colori
e un design tipicamente italiano. Intorno al 2000 è la volta di Shuttle, la
valigia verticale, che, grazie alla maniglia ergonomica e a diversi
processi migliorativi, stravolge completamente il concetto del trasporto e
lancia il trolley. In quegli anni si raggiunge il traguardo di oltre un
milione di pezzi commercializzati in tutto il mondo. Subito dopo arriva il
guscio in policarbonato e una versione Luxury in vera pelle. E in ultimo
pochi anni fa la Roncato Double, il primo contenitore che «si fa in due»
con tasca porta PC anteriore per estrarre il computer o l’iPad. Una
sequenza di passaggi segnata da nuovi materiali, nuove forme, nuovi
colori e nuovi accessori. Con l’ossessione per la qualità, per la sicurezza,
per la leggerezza (particolarmente apprezzata dalle compagnie aeree low
cost), per la resistenza all’acqua e alle alte temperature. E con un
continuo presidio dell’artigianalità Made in Italy, perché i gusci in
propilene e policarbonato continuano a essere totalmente prodotti negli
stabilimenti domestici.
Anche nei più recenti momenti di crisi la Roncato ha fatto fede alla
sua profonda resilienza. Nel periodo del coronavirus e della pandemia,
che ha voluto dire di fatto stop ai viaggi, il Gruppo ha saputo
reinventarsi, lanciando nuovi articoli capaci di adattarsi più facilmente a
tutte le esigenze, ampliando la gamma con prodotti più piccoli e leggeri.
Oggi la terza generazione è sul ponte di comando, con i figli di
Gianni: Alessandra, Andrea, Cristiano e Enrico che perseguono
l’obiettivo di crescita dimensionale e di distribuzione nei mercati
internazionali, attraverso i negozi multibrand, i flagship store, i corner
nei department store e negli outlet. Il fatturato ha raggiunto i 43 milioni
di euro nel 2019 per scendere nel 2021 a 20 milioni e puntare alla ripresa
nel 2022. I mercati esteri principali sono Spagna, Germania e Francia.
Afferma Alessandra Roncato, attuale amministratrice delegata del
Gruppo: «Come dice il nostro pay off Move your dream, il nostro
obiettivo è accompagnare i “sogni di ogni viaggiatore”, sia per svago che
per affari, creando prodotti trasversali che possano assecondare le
esigenze di ogni spostamento, tramite nuovi materiali leggeri, rispettosi
dell’ambiente e duraturi, posizionando il brand in negozi monomarca e
wholesale specializzati».
Un sogno, perché la valigia non è solo un oggetto, ma rappresenta un
mondo di esperienza e di valori intrinseci. È scoperta, curiosità,
28
innovazione mescolata alla tradizione. Tutti elementi che nella valigia di
Roncato, a saperli leggere, sono molto evidenti.
29
3
Dalle fisarmoniche ai robot: una seconda
vita
OMAS, Numana (Ancona)
Il nome della ditta, OMAS Officine Meccaniche Alta Specializzazione,
farebbe pensare a una delle tante fabbrichette nate nel dopoguerra
nell’hinterland di una grande città industriale. Una semplice carpenteria
di piccole dimensioni. E invece qui non solo la geografia è diversa, ma è
differente anche la sofisticazione manufatturiera. Siamo a Numana, nel
promontorio del Conero, a sei chilometri da Castelfidardo, patria degli
strumenti musicali. E la OMAS non è affatto uno stabilimento
metalmeccanico comune. È considerata l’azienda più robotizzata d’Italia
in rapporto al numero di addetti (46 robot antropomorfi dedicati
all’automazione dei processi, rispetto al numero degli addetti che sono
160). Un robot ogni tre addetti, quasi un rapporto di uno a uno, tenendo
conto dei turni. Specializzata nella lavorazione di lamiere per conto terzi,
non a caso ha ricevuto il plauso della Trumpf, leader mondiale nella
produzione dei generatori laser e delle macchine per la lavorazione di
tubi e lamiere, secondo cui OMAS è fra le aziende più innovative e più
digitalizzate tra la loro clientela mondiale, tanto da essere citata come
esempio insieme ad altre tre aziende nella relazione di bilancio del 2020.
«È una fabbrica che guarda molto al futuro», sostiene Marco Grilli,
l’amministratore unico. Non ha infatti nulla del tradizionale stabilimento
metalmeccanico. Le linee di produzione si modificano da un giorno
all’altro; i macchinari sono di ultimissima generazione; i magazzini sono
completamente automatizzati; e anche il muletto è in grado di spostarsi
senza essere guidato dagli operatori. «Solo grazie all’automazione si
possono gestire lotti minimi in modo efficiente – continua Grilli –.
Continuiamo a investire in modo da poter produrre in automatico anche
lotti di soli cinquanta pezzi. Dobbiamo essere velocissimi, perché solo
30
così possiamo sopravvivere». E l’investimento in tecnologie spinte è di
oltre il 10 per cento del fatturato annuo, secondo i canoni dell’industria
4.0 e pensando già oggi a industria 5.0. «In fondo è con la tecnologia che
difendo l’occupazione.»
Già, perché l’attuale prosperità di OMAS nasce da una storia di
sofferenza. Nata nel 1966 grazie all’indotto dello strumento musicale,
l’azienda allora produceva le tastiere in alluminio della fisarmonica e in
lamiera per gli organi elettronici. Il padre di Marco Grilli, Umberto, si
era licenziato da direttore di stabilimento di un’impresa locale e con i
cognati e un amico aveva iniziato a produrre tastiere per le fisarmoniche
e poi per le pianole e gli organi elettronici. Poi alla fine degli anni
Settanta si registra il crollo del comparto degli strumenti musicali, con i
giapponesi che sbaragliano il mercato grazie all’avvento dell’elettronica,
portando al fallimento molte aziende del territorio, anche importanti
(Farfisa e Eko avevano allora più di mille dipendenti a testa). Nella
riviera marchigiana la situazione diviene critica; occorre intervenire
drasticamente, cercando di gestire ciò che rimane del mercato. Marco
Grilli, laurea in Ingegneria, cresciuto nell’azienda di famiglia, è il
ricambio naturale. Giovanissimo, ridimensiona e riorganizza la OMAS;
una lezione durissima che però serve molto per capire dove orientarsi.
E da lì l’azienda rinasce una seconda volta in modo flessibile,
giungendo a realizzare una struttura in grado di supportare qualsiasi
progetto di carpenteria meccanica di precisione, con clienti in tutto il
mondo e in ogni settore industriale. Oggi l’impresa di Numana lavora
con i settori fitness, automotive, componenti di macchine e di
attrezzature agricole, componenti per la cantieristica edile, macchine per
imballaggio, illuminazione, arredo e molto altro, con clienti blasonati ed
esigenti – da Bosch a Technogym, da Guzzini a Honda, per fare solo
alcuni nomi – che apprezzano una spiccata innovazione, perché il team
di Grilli è in grado di pensare sempre a un qualcosa che sul mercato non
esiste ancora. «Da sempre non temiamo nessuno»¸ sostiene determinato
l’amministratore unico, «neanche i competitor asiatici, come Cina e
Vietnam, che notoriamente sono molto aggressivi sul mercato globale
grazie al basso costo della mano d’opera interna».
E il futuro di OMAS si prospetta ancora più smart: l’azienda sta
puntando molto sulla formazione professionale del proprio personale,
affinché il know-how dei suoi tecnici sia sempre all’avanguardia, e sta
investendo sempre di più sul parco macchine, molte delle quali sono
personalizzate per affinare e risolvere problematiche di ogni processo.
31
Il segreto del successo? Per un’azienda che vanta oggi circa 40 milioni
di fatturato, patrimonializzare e accantonare riserve per superare i periodi
di crisi è un passo fondamentale per riuscire ad affrontare il mercato in
maniera dinamica. Mantenendo continuamente un occhio costante al
territorio, mai tradito dall’invito costante delle multinazionali di seguirle
all’estero con la delocalizzazione.
32
4
Proteggersi da zanzare e sole con il Made
in Italy
MV Line, Casamassima (Bari)
Inizia l’estate e si aprono le finestre. E come sempre le zanzare partono
in avanscoperta con la loro battaglia. È il momento, spesso rimandato, di
installare le zanzariere, il metodo più ecologico e salutare, rispetto a vari
spray, zampironi e candele. Ma spesso le zanzariere sono esteticamente
brutte e con il loro intralcio certo non abbelliscono gli infissi e la casa.
Da questa basilare intuizione è partito Paolo Montanaro circa trent’anni
fa, in un garage di Casamassima in provincia di Bari, allora ventenne ma
già con qualche anno di esperienza alle spalle, grazie a piccoli lavoretti
di riparazione di tapparelle e di applicazione di zanzariere. Paolo è figlio
di Vincenzo che per gran parte della sua vita si è occupato di serramenti.
Un’arte di famiglia, si potrebbe dire.
Montanaro sa bene che il boom della domanda esplode con il caldo dei
mesi della stagione estiva e che il servizio deve essere rapidissimo con
consegne certe. Ma sa anche che il prodotto ha spazio per essere
originale, con disegni innovativi e sistemi intelligenti. L’offerta in quegli
anni è scarsa e il giovane imprenditore viene colpito dall’enorme
richiesta: una grande opportunità di mercato. Ma a lui mancano i
macchinari e un magazzino per contenere i prodotti finiti e le sue
condizioni economiche non gli consentono una startup degna di questo
nome.
Accantona quindi temporaneamente l’idea, spostando il suo obiettivo
immediato verso l’assemblaggio di tapparelle, con l’aiuto della
compagna di allora, Laura Castellino. Il sogno è quello di sviluppare
un’azienda capace di evolvere come punto di riferimento nazionale sul
mercato dei serramenti. Montanaro, oltre al «quid» imprenditoriale tipico
da chi ha grande spirito di iniziativa, è mosso da una ferrea volontà di
33
successo e di riscatto sociale, come sovente accade in provincia e nel
Mezzogiorno, dove l’ambiente circostante è sempre un po’ diffidente
verso le potenzialità di un giovane talento. Il patrimonio è scarso ma
l’entusiasmo è tanto, e questo è sufficiente per iniziare un viaggio di
pervicacia e di determinazione, fatto di enormi sacrifici personali e di
duro lavoro, con la necessità di cambiare cappello a ogni ora del giorno:
ora operaio, ora venditore, ora ragioniere, ora presidente. La mattina a
proporre i prodotti ai clienti e la sera all’opera in fabbrica per evadere gli
ordini. Ed è così che, con ritmi serratissimi, si forma una buona base
d’impresa che gli consente di tornare al progetto che più gli sta a cuore:
la produzione di zanzariere.
È il 1996 e nascono i primi modelli di zanzariere a scorrimento
verticale e a produzione totalmente interna. Già dai nomi dei prodotti si
capisce che c’è dell’originalità nel suo catalogo: Vera, Lara e Ketty. Una
grande capacità di trasformare un elemento povero, intrusivo e
scarsamente funzionale, in un vero complemento di design per l’arredo,
capace di donare confort e protezione attraverso una serie di funzionalità
che il mercato accoglie con grande favore. MV Line in pochi anni ha una
grande espansione sul territorio italiano, sostenuta da ingenti
investimenti pubblicitari e di comunicazione.
E così parte la grande avventura, anche grazie all’ingresso di risorse
umane qualificate per la direzione di ogni reparto aziendale. La sede si
trasferisce nel plesso industriale di Acquaviva delle Fonti, che nel corso
degli anni incrementerà vertiginosamente la sua superficie. Sempre sotto
la direzione esclusiva di Montanaro, la governance si evolve in un
gruppo di quattro imprese controllate e coordinate da MV Line Group,
specializzate in vari segmenti della protezione di sistemi filtranti e
oscuranti contro gli insetti, con un catalogo di prodotti vastissimo che
porta il fatturato consolidato a più di 100 milioni di euro e una
dimensione di organico di 600 dipendenti.
La strategia impone anche di crescere a monte nella filiera e di
recuperare un presidio sulle materie prime fondamentali per la
produzione (come l’alluminio) e Montanaro, oggi presidente del Gruppo
MV Line, acquisisce nel 2017 la B.B.C. S.p.A. (ora MV Extrusion),
un’azienda con sede in Basilicata, dotata di fonderia e specializzata nella
lavorazione dell’alluminio, dall’estrusione alla verniciatura.
Il Gruppo oggi è quindi costituito da MV Line, che con tre
stabilimenti in Puglia produce zanzariere, schermature solari e tapparelle
orientabili; MV Extrusion con due stabilimenti in Basilicata per la
lavorazione dell’alluminio e un deposito a Settimo Milanese (MI); MV
34
Living a Capurso in Puglia, che sviluppa tende da sole, pergole, strutture
bioclimatiche, sistemi outdoor di schermatura; MV Spagna a Valencia,
come presidio commerciale e funzione di manutenzione per il mercato
iberico.
Andare oltre il mercato nazionale è la prossima sfida. Oggigiorno
l’export rappresenta solo il 20 per cento ma il management si è posto
l’asticella di raggiungere a medio termine il 50 per cento del fatturato
fuori dai confini nazionali. La sede in Spagna che distribuisce il prodotto
dell’intero Gruppo è il modello da replicare in Europa. «All’estero i
competitor sono grandi aziende», sostiene Montanaro, «e ciò ci mette
nelle condizioni di continuare a crescere. La sfida è già stata lanciata: il
mio obiettivo è far diventare MV Line Group un player di riferimento
internazionale nel mondo della protezione indoor/outdoor, capace di
offrire prodotti innovativi in grado di anticipare le tendenze di mercato».
35
5
Il mio design è un’orchestra jazz
Design Holding, Milano
Lui è Daniel Lalonde, cinquantottenne, studi matematici (assai utili per
una successiva formazione cartesiana e finanziaria), nominato
nell’ottobre 2021 CEO di Design Holding, gruppo globale nel settore
design di alta gamma, controllato pariteticamente da Investindustrial e
The Carlyle Group, per il quale i due azionisti starebbero pensando a una
possibile quotazione in Borsa. La sua nomina si è inserita in una strategia
di crescita che ha l’ambizione di far divenire il Gruppo un leader globale
nei prodotti di design di alta gamma e un player importante nel mondo
del lusso tout court.
Look informale ma elegante, stile charmant ed eloquio essenziale che
nasconde determinazione e pragmatismo, solida formazione con MBA
all’Insead, Lalonde è canadese di Cornwall (Ontario). Un track record di
grande rispetto nel mondo del mercato di alto segmento. Dopo esser stato
CEO di Nespresso in America e poi Global Chief Operating Officer in
Svizzera, è stato per dieci anni in LVMH a New York, prima come
presidente e CEO del Nord America nel settore orologi e gioielli a capo
del marchio Tag Heuer, e successivamente per il Nord America nel ruolo
di President e CEO di Louis Vuitton, che ha posizionato in soli cinque
anni come la prima società del lusso sul mercato, grazie
all’implementazione di svariate mosse strategiche e partnership creative.
Nel 2010 è stato President & CEO di Moët et Chandon e Dom Perignon
a Parigi. Ha quindi portato il gruppo Sandro, Maje, Claudie Pierlot et
Fursac (SMCP) al miliardo di fatturato e alla quotazione. Gli mancava il
tassello del comparto del design e l’opportunità gli è arrivata quando gli
azionisti gli hanno offerto di guidare il Gruppo che ha riunito una serie di
marchi, tra cui alcune imprese italiane storiche di proprietà familiare,
sotto l’unica etichetta corporate Design Holding.
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Non si tratta però della classica struttura di holding o della solita
missione di aggregare in una azienda accentrata molti brand singoli,
reduci da una storia separata di successo e senza reciproci collegamenti,
grazie al canonico format di capogruppo dotato di staff centrali e deleghe
operative alle società controllate. L’assetto organizzativo che Lalonde ha
in mente è invece quello di disporre di un quartier generale leggero, dove
il CEO e i suoi diretti collaboratori impostano la strategia insieme ai
brand, responsabili poi di realizzarla. I marchi oggi sono di assoluto
prestigio nel design internazionale, se pensiamo a B&B Italia, Azucena,
Maxalto, Flos, Louis Poulsen, Fendi Casa, Arclinea e YDesign (realtà
americana dell’e-commerce specializzata nei prodotti di design), con
prodotti iconici come il divano Le Bambole, la lampada Arco, la sedia
Catilina, il tavolo Xilos, i chandelier PH, la cucina Convivium e altri
ancora.
Il 27 aprile 2022 Design Holding ha presentato al mondo finanziario i
suoi dati del 2021. Un fatturato che nell’ultimo esercizio segna 700
milioni di euro, con una crescita del 21 per cento rispetto all’anno
precedente, e un EBITDA di circa 190 milioni, in crescita del 28 per
cento. Una presenza in 130 Paesi del mondo, nove stabilimenti e
un’attività che dà lavoro a più di 2.100 dipendenti.
«Il mio ruolo è quello di colui che stabilisce la visione, la missione e
gli obiettivi, individua le priorità strategiche e le possibili sinergie»,
afferma Lalonde, «dando coerenza strategica e filo rosso allo sviluppo
dei brand, calibrando i processi e le azioni per essere sempre agili e nella
giusta direzione. Mi piace pensare al mio ruolo come a quello di un
direttore di orchestra jazz, che guida eccellenti solisti a produrre insieme
un pezzo inedito, che va al di là dello spartito, creando un risultato mai
sentito prima, una melodia alla quale aggiungere strumenti e basi per
renderla sempre più ricca e unica. Qui la mia orchestra è Design
Holding, un collettivo che deve diventare il più attraente e innovativo
possibile per il design di lusso e che ha ancora degli spazi per prodotti
complementari nell’offerta complessiva». E infatti nel maggio 2022 è
stata ufficializzata l’acquisizione di Designers Company, impresa danese
operante nel mobile e nell’illuminotecnica, titolare dei marchi Menu e by
Lassen, con una forte presenza nei mercati nord europeo e statunitense.
L’amministratore delegato di Design Holding illustra così i quattro
pilastri su cui basa l’orientamento di fondo dell’azienda:
• una maggiore attrattività dei marchi attuali, che devono diventare
più desiderabili da parte dei clienti grazie a un aspetto ispirazionale
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unico e ottenibile anche con l’innovazione e la partnership con
designer di rango mondiale;
• una maggiore vicinanza al consumatore ottenuta con una forte
attenzione all’uso delle più moderne tecnologie e piattaforme
tramite una trasformazione digitale dell’azienda, continuando a
migliorare la vita delle persone in casa e fuori casa, anche grazie ai
continui sforzi per innalzare la sostenibilità, riducendo l’impatto
ambientale con l’ambizione di divenire carbon neutral;
• una veloce crescita internazionale nei luoghi dove ancora non c’è
stato il sufficiente sviluppo, come in Cina e in Nord America,
insieme a un rafforzamento del posizionamento sul mercato
europeo;
• un ingresso più rilevante nel mercato contract di alta gamma, con
un servizio personalizzato nei comparti dell’ospitalità, degli uffici
direzionali, della nautica e del retail.
Lalonde è molto elogiativo sulla tradizione del design italiano e anche
sulla resilienza delle imprese italiane dimostrata proprio in occasione del
lockdown. Sostiene infatti: «La storia del design industriale ha le sue
principali radici in Italia, dove i mestieri artigianali sono un vero vanto
del Paese. In questo settore si evidenzia benissimo la grande capacità di
accostare il genio e la fantasia dei grandi architetti con la perizia della
manifattura locale. Un po’ come quando la moda italiana ha fatto da trait
d’union tra lo stilista e l’azienda di abbigliamento e come quando
l’enogastronomia italica ha messo insieme la dimensione imprenditoriale
con l’estro della ristorazione stellata. La buona salute del design italiano
testimonia come si possano raggiungere dimensioni globali non
sacrificando le più alte vette di estetica e di qualità, e questa filosofia è
sicuramente nelle nostre corde. Ricordo che il nostro payoff oggi è “We
design for a beautiful life”».
Come dicevano poeti e artisti, «è la bellezza che salverà il mondo»!
38
6
Il diavolo del Made in Italy si nasconde
nei dettagli
Cartoni, Roma
Se è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, il Made in Italy può
essere scovato anche nei prodotti più inaspettati. Chi infatti potrebbe
immaginare che la nostra nazione sia leader nel mondo della
realizzazione delle testate per macchine da presa? E invece sì. I più
importanti registi e fotografi di cinema mondiali, da Hollywood a
Bollywood passando per l’Europa, utilizzano proprio un prodotto
italiano, della Cartoni di Roma, per appoggiare la loro macchina da
presa. Si potrebbe pensare che sia un accessorio, un particolare
secondario. Ma nel mondo del cinema e del documentario, le nuove
tecnologie per realizzare inquadrature innovative e di qualità sono
cruciali per dare al filmato una originalità distintiva.
Come sempre nelle storie aziendali italiane dell’eccellenza di
prodotto, tutto si origina parecchie decadi fa. Siamo a Cinecittà e Renato
Cartoni, capo documentarista dell’Istituto Luce, costruisce in economia
la testata snodata a volani Vittoria per supportare le cineprese che usa per
girare i cinegiornali del Ventennio. Egli documenta la conquista
dell’impero in Africa e storica è la sua ripresa dell’entrata di Badoglio in
Addis Abeba, girata di spalle da un carro che precedeva il generale.
Questo supporto viene visto dai fondatori della ARRI, i tedeschi di
Monaco Arnold e Richter, in occasione del viaggio di Hitler in Italia. E,
finita la guerra, la Arrifex, in quel momento la cinepresa professionale
più reputata nel mondo, commissiona a Guido Cartoni, figlio di Renato,
le testate di appoggio per le loro cineprese 35 mm e per un modello più
piccolo di 16 mm.
Guido Cartoni, negli anni Cinquanta, assembla le testate giroscopiche
in garage durante la notte e nel tempo libero, mentre di giorno lavora
39
come ingegnere meccanico alla società Fiorentini. Guido aveva ereditato
dal padre il brevetto e i disegni della testata Vittoria ed essendo un
autentico inventore sviluppa ben 17 modelli di supporto per muovere la
macchina da presa. Tutti modelli che portano nei brevetti la sua firma. A
un certo punto della sua vita lascia la Fiorentini e fonda un proprio
laboratorio di produzione in piazza Bologna, all’ombra del Colosseo. Il
successo è immediato: è il periodo d’oro del cinema neorealistico
italiano e tutti i grandi registi (da Visconti a Blasetti; da De Santis a
Zavattini; da De Sica a Fellini) adottano il prodotto Cartoni. Roberto
Rossellini realizza con Cartoni il primo controllo da remoto per lo zoom.
L’onda di reputazione continua per molti anni e il marchio Cartoni si
diffonde in tutto il mondo. Nel 1982 a Los Angeles l’imprenditore riceve
dalle mani di Tom Hanks l’Oscar per la tecnica cinematografica per
l’invenzione dei modelli fluidi di movimento nel riprendere.
Nel frattempo in azienda sono entrate le figlie Elisabetta (oggi AD)
nel 1975 e Beatrice (oggi Direttrice Finanziaria) nel 1995, che
supportano il padre sino alla sua morte nel 2016 a 97 anni. Un ingresso
di due donne non facile perché allora il mondo della tecnica
cinematografica era appannaggio del genere maschile. Ma Elisabetta,
laurea in Filosofia con studi in psicologia e antropologia, utilizza bene il
suo background umanistico per ritagliarsi il ruolo di consigliera fidata
del padre e anche di portavoce degli operai, di interlocutrice dei clienti e
di cacciatrice di idee nell’ambiente della tecnologia.
Oggi l’azienda Cartoni ha circa 60 collaboratori e fattura 10 milioni di
euro, esportando il 95 per cento della produzione in 62 Paesi nei 5
continenti. Un team di sei ingegneri costituisce l’ufficio tecnico e, dopo
la morte di Guido Cartoni, il catalogo innovativo si è arricchito di altri
cinque brevetti per un totale di 36 disegni originali. Al sorgere della
pandemia la Cartoni ha immesso sul mercato un innovativo sistema di
sanificazione dei mezzi di ripresa e raggi UVC chiamato UVC Boxer. Un
apparecchio che ha avuto grande successo soprattutto nelle scuole di
cinema.
Ma l’innovazione non si ferma. Sotto la guida di Elisabetta e di
Beatrice, a cui si è affiancata la quarta generazione con il figlio di
Beatrice, Alessandro Simoncini Cartoni, sono arrivate apparecchiature a
distanza per i mezzi di ripresa e la tracciatura del movimento per la realtà
virtuale. Il mantra è sempre il Made in Italy, con la convinzione assoluta
a non delocalizzare mai alcuna lavorazione. «Con i nostri 65 addetti»,
racconta l’amministratrice delegata, «controlliamo la filiera dalla
progettazione al prodotto finito. I nostri concorrenti sono le
40
multinazionali, ma la formula dell’eccellenza italiana fino a oggi ci ha
dato ragione e teniamo testa ai competitor con soddisfazione e costante
crescita».
41
7
I lavoratori felici sono i più produttivi
Bending Spoons, Milano
Ricordate il romanzo Il cerchio, scritto nel 2013 da Dave Eggars?
Raccontava di un’azienda americana iperdigitalizzata. fatta di email, di
Instagram, di Facebook, di Twitter, di post e sms. C’erano tutti gli
ingredienti dell’organizzazione energizzante: i quadri di Basquiat alle
pareti, i mobili di Calatrava, la mensa a nove piani vetrati, il tendone nel
campus dove prendere a noleggio le biciclette o i kayak o i deltaplani, la
discoteca per la notte, e così via. Tutte cose da Silicon Valley diremmo
noi, anzi da Silicon Valley tradotta in narrativa. Ebbene no, non è solo
fiction, perché tutto questo può essere reale e può concretizzarsi a
Milano, in pieno centro, in Corso Como, dove centinaia di lavoratori e di
collaboratori sviluppano app di successo. Lì la filosofia aziendale è
molto californiana: le aziende possono continuare a crescere solo se i
dipendenti sono felici di esserci. Stiamo parlando di Bending Spoons,
un’impresa fondata nel 2013 che si occupa principalmente di sviluppo di
applicazioni per dispositivi mobili in diversi settori. La sua app più
famosa è stata Immuni, prodotto inventato e donato nel 2020 per il
tracciamento dei contagiati da Covid-19 in Italia e promosso dal
Ministero della Salute per limitare la diffusione del coronavirus. Ma
oggigiorno sono numerose le applicazioni realizzate dall’azienda
milanese e contano oltre 400 milioni di download all’anno e 12 milioni
di utenti attivi al mese. Prodotti che realizzano oltre 130 milioni di euro
annui di fatturato. Queste app sono molto varie: si va da Splice (il
videoeditor primo al mondo per ricavi) a 30 Day Fitness (una delle
principali app per fitness), da Remini (per migliorare la qualità delle foto
tramite intelligenza artificiale) a Fonts (la tastiera con caratteri
personalizzati più scaricata universalmente), ad altri ancora. Bending
Spoons è oggi uno dei primi sviluppatori di app iOS nel mondo. Un
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mercato che è una vera miniera d’oro per chi lo sa cavalcare, se è vero
che secondo gli analisti specializzati, le app potrebbero diventare la terza
economia mondiale, con una crescita di quasi il 500 per cento rispetto al
2016. E infatti, consapevoli dello sviluppo prospettico, alcuni investitori
esterni sono entrati nell’azionariato della società in posizione di
minoranza; tra di essi la Red Circle Investments dell’imprenditore della
moda Renzo Rosso.
Può esser curioso capire la genesi del nome dell’azienda: letteralmente
«cucchiai che si piegano». I quattro fondatori Luca Ferrari, Matteo
Danieli, Luca Quarella e Francesco Paternello, amici e compagni di
università oggi poco più che trentenni, sono convinti che il mondo può
essere cambiato se si osserva la realtà da un punto di vista non canonico,
e tutti citano il film Matrix e la sequenza cult dove Keanu Reeves si
sorprende a piegare miracolosamente un cucchiaio con la mente. Se si
cambia la prospettiva comune con cui si guarda a un fenomeno, si può
volare verso il meglio, sostengono i fondatori, che non hanno pudore di
esplicitare il loro ambizioso obiettivo di medio termine: conquistare il
mondo una app alla volta.
E loro il cucchiaio sembrano averlo davvero ammorbidito, perché
l’azienda conta oltre 300 lavoratori (guai a chiamarli dipendenti! «Siamo
spooners»), età media 29 anni, quasi tutti Millennials, molti tra i quali
occupano posizioni dirigenziali. Bending Spoons è diventata una delle
prime tech companies in Europa. Una squadra in continua espansione,
con assunzioni ancora in corso e una cultura organizzativa molto
orientata al welfare aziendale e alla coesione tra le risorse umane. Non a
caso nel 2019 ha vinto la graduatoria di Best Workplace for Women,
davanti a American Express e Biogen Italia, e di Best Workplace for
Millennials, davanti a Volvo Group e a Nutricia Italia di Danone.
«Puntiamo molto sul fattore umano», dicono Luca Ferrari e Matteo
Danieli. «L’obiettivo primario è quello di costruire la migliore azienda
per le persone che ci lavorano e per l’eccellenza dei prodotti che
sviluppano.» L’attenzione all’equità di genere è massima e la presenza
del 25 per cento di donne in ruoli manageriali è un vero record in un
settore tecnologico italiano, perché l’informatica – come tante altre
materie scientifiche – è ancora spesso una faccenda per uomini. In
Bending Spoons c’è anche un audit per verificare che i processi
remunerativi non siano impattati da discriminazioni di genere e l’azienda
offre borse di studio di 7.500 euro all’anno per promuovere lo studio
dell’ingegneria informatica tra le studentesse di diversi atenei.
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La ricerca del talento è spasmodica, soprattutto per le figure tecniche
(software engineer, data scientist, mobile developer) e, per attrarre i
migliori collaboratori, Bending Spoons punta sulla meritocrazia, sul
rapporto di orgoglio per il proprio lavoro e su un ambiente che possa
offrire il massimo benessere ai suoi spooners. Il tutto con condizioni di
lavoro vantaggiose, paghe sopra la media del settore, sostegni e benefit.
E infatti il primo scorcio per chi entra in sede, accanto a una spianata di
scrivanie e di laptop, consente di vedere open space, calcio balilla, free
bar con spillatori di birra, stanza di campeggio con tanto di chitarra
disponibile e così via. Anche gli orari di lavoro sono flessibili, anzi,
come dicono in azienda, fluidi. Spiega Alice Valsecchi, responsabile
risorse umane, «i nostri lavoratori hanno la massima libertà. Non esiste
un orario fisso (eccezion fatta per i ruoli di receptionist). Crediamo nel
buon senso delle persone. Se vogliono prendersi il mercoledì pomeriggio
libero per migliorare le proprie informazioni oppure andare a vedere una
mostra, possono staccare senza chiedere ferie o dare spiegazioni.
Assumiamo i collaboratori con cura e poi ci affidiamo al loro senso di
responsabilità». Sostiene Luca Ferrari, poco più che trentenne, due lauree
con lode all’Università di Padova e di Copenhagen: «Le collaboratrici e i
collaboratori sono la nostra risorsa più strategica. Aver assunto persone
di talento, italiani e non, che potrebbero lavorare ovunque nel mondo ma
che scelgono di stare con noi è il nostro maggiore successo». E
l’appartenenza alla Bending Spoons si vede anche dalla forza del
retainement: a novembre 2021 persone non fondatrici della società
detenevano più di 50 milioni di euro in azioni dell’impresa: una shared
equity di tutto rispetto per persone giovani e per un’impresa con una
storia molto recente. E infatti nei motti appesi alle pareti, oltre al detto
«Tutti per uno, uno per tutti», si può scorgere la frase «We are partners,
not employees». Appunto sono spooners; e si sentono una tribù.
44
8
Imprenditore sì, ma a modo mio
Anselmi, Monteforte d’Alpone (Verona)
Dal suo elicottero è abituato a fare giri di ricognizione dall’alto. È da lì
che si gode la vista della sconfinata campagna che caratterizza il borgo di
Monteforte d’Alpone in provincia di Verona. E i filari dei suoi vigneti.
Un concentrato di tradizione e di altissima tecnologia. «Con la testa per
aria si scruta, si osservano le vigne, si programma», afferma Roberto
Anselmi, presidente delle Cantine Anselmi, azienda vitivinicola che ha
portato le Denominazioni della Garganega a un posto di tutto rispetto nel
panorama enologico mondiale. Poi scende dal velivolo e con una
minuscola Panda 4X4 inizia a ispezionare il territorio: «Con i piedi per
terra si toccano i grappoli, la loro maturazione, il loro colore»
Classe 1948, dall’apparenza docile e gigione, Roberto Anselmi, è
invece noto per essere nelle sue vigne e nei suoi filari un imprenditore
maniacale sui temi della tecnologia e della qualità. Scelte ferme e
insindacabili ereditate dal padre e ancor prima dal nonno e oggi
trasmesse ai figli Lisa e Tommaso. Lo stile imprenditoriale è lo stesso
rigoroso e attento delle generazioni precedenti, anche se – come in tutti i
settori – pure in questo c’è stata una profonda evoluzione. I genitori,
padri forti e granitici, si occupavano di tutto, dalle decisioni del vigneto a
quelle dalla cantina, dalle etichette alla vendita. Allora il marketing e la
comunicazione non si sapeva nemmeno che cosa fossero. Oggi la
sostenibilità e l’educazione del consumatore sono passaggi cruciali: è lui
che fa la fortuna dell’azienda e occorre stare attentissimi ai suoi
messaggi e alle sue richieste. Occorre educarlo a bere bene e a essere
responsabile. Anselmi investe molto nel far conoscere il suo vino di alta
gamma: «Dietro ogni mia bottiglia c’è una storia, un lavoro, una spinta
imprenditoriale. Una bottiglia che esce dalla nostra cantina non è frutto
45
del caso né dell’improvvisazione, ma di un duro lavoro quotidiano che
parte dall’uva e finisce sulla tavola del cliente».
E in effetti le 750.000 bottiglie all’anno che vengono prodotte da 70
ettari di terreni di alta collina testimoniano un solo schieramento: sempre
dalla parte della qualità. I prodotti sono due gran cru bianchi, Capitel
Croce e Capitel Foscarino, paglierini caratterizzati da spiccatissima
mineralità, e da un più rotondo San Vincenzo, dorato con quota di
Chardonnay e Sauvignon. Poi un rosso di casa, il Realda, una finezza che
sosta un anno e mezzo in barrique come i grandi bordolesi. E in ultimo i
Capitelli, Recioto a firma Anselmi, un passito morbido e suadente. Tutti
vini di carattere a tinte forti e senza compromessi.
La storia della Anselmi merita di essere raccontata, se non altro per
apprezzare la svolta compiuta dall’attuale presidente che si è preso un
forte rischio per rilanciare l’azienda paterna, ma «a modo suo». Il nonno
era stato un ottimo viticultore fra gli anni Venti e il primo dopoguerra,
ma purtroppo la crisi legata alla guerra mondiale lo aveva costretto a
vendere la terra e le vigne. Il padre di Roberto, Almerino, aveva
continuato a lavorare nel comparto del vino, creando una grande cantina
di imbottigliamento e di vendita di prodotti acquistati. Roberto, dopo la
laurea in Economia a Padova, ritorna nell’azienda di famiglia, ma inizia
un viaggio nelle cantine in Italia e fuori Italia, in Francia anzitutto.
«Volevo capire come si fanno altrove i grandi vini bianchi. Così ho
catturato esperienze e insegnamenti e ho cercato di adattarli al mio
territorio.» Con una forte vena romantica, sogna di recuperare i vigneti
del nonno e di ricreare una sua proprietà viticola. Ma sempre «a modo
suo», con la sua personalità. E così fa; chiude l’attività di negoziante del
padre e prima affitta e poi acquista la terra. Questo atteggiamento lo
porta negli anni Novanta a rinunciare alle Denominazioni del Soave
veronese, non condividendo le leggi e i regolamenti del Consorzio. In un
certo senso la sua è una forma di protesta verso vincoli normativi ritenuti
troppo blandi e permissivi. Lascia alle spalle il Soave e dà il suo nome ai
vini dei suoi vigneti. Una scelta «a modo suo».
A distanza di trent’anni, di quella decisione spregiudicata, per certi
versi dolorosa quanto necessaria per il futuro della Anselmi, non c’è
nessun rimpianto. «Non potevo essere legato al modello produttivo di
mio nonno e di mio padre. Sì, ho fatto la rivoluzione. Devo moltissimo a
mio padre, ma era di un’altra generazione. Lo stesso vale per me e per i
miei figli che già si sono inseriti in azienda e che mi stanno dando
moltissima soddisfazione. Devono ancora crescere, studiare, capire; ma
sono sulla strada giusta.» Una strada che conferma quanto la Anselmi
46
rimanga un riferimento indiscusso, anche stilistico, per il comprensorio
veronese.
Il sogno nel cassetto? «Mi piacerebbe che ogni produttore di queste
parti capisse fino in fondo quanta potenzialità ha ancora questa terra.»
Un invito al nuovo imprenditore a osare di più. Ovviamente «a modo
suo».
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9
In dieci anni si può cambiar pelle
Gruppo Carraro, Campodarsego (Padova)
Si è detto tante volte che, dopo la recessione del periodo 2007-2016,
niente sarebbe rimasto più come prima. Una crisi d’epoca e non
congiunturale. Uno tsunami dopo il quale sarebbe stato difficile rimanere
in sella senza compiere sensibili rivoluzioni. Ma un conto è dirlo (magari
in qualche convegno), un conto è ristrutturare drasticamente la propria
formula imprenditoriale. Specialmente se gli anni precedenti sono stati
anni d’oro e se la business idea ha nel tempo accumulato costantemente
crescita e redditività.
La crisi è stata durissima e inflessibile. E la pandemia 2020-21 ha poi
aggiunto altre sofferenze. Colpi di mannaia da cui è stato molto arduo
riemergere. Ma adesso che molti vedono la fine del tunnel, si possono
tentare i primi bilanci su chi ce l’ha fatta: parecchi sono riusciti a
cambiare pelle e adesso qualcuno può addirittura permettersi di ostentare
persino un sorriso. Il Gruppo Carraro di Campodarsego in provincia di
Padova è uno di questi. Il peggio è ormai alle spalle.
L’azienda produceva sistemi di trasmissione per veicoli trattori e
movimentazione terra e nel 2008 (l’annus horribilis) fatturava 973
milioni di euro. Nata negli anni Trenta e sviluppatasi durante il
Novecento con autorevolezza e notorietà, tutto sembrava andare per il
meglio, al punto tale che il preventivo per l’anno successivo superava il
target del miliardo di euro, con investimenti in ricerca e sviluppo di quasi
200 milioni. Macchine avanti tutta, dunque, per il 2009 e logica
incrementale tipica di quelle imprese che preparano il budget più con la
testa rivolta ai risultati passati che alle aspettative future.
Poi la doccia scozzese e il terrore. I principali clienti come Caterpillar
o CNH o AGCO – l’azienda operava in grandissima parte all’estero –
cominciano a rallentare gli ordini. Il management cerca di resistere per
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qualche mese con interventi di leggero rimedio, convinto che la crisi sia
di breve durata e che tutto si rimetta in equilibrio dopo un brutto
temporale, ma il 2009 si chiude con un fatturato di poco meno di 500
milioni. Un crollo verticale di quasi il 50 per cento rispetto all’anno
precedente. Margine negativo e falcidiato, anche perché gli investimenti
sono già stati programmati ed effettuati. Executive e azionisti di
riferimento, capitanati dal nuovo presidente Enrico Carraro – figlio dello
storico imprenditore Mario, da molti anni alla guida del Gruppo e decano
degli imprenditori del Nord-Est –, si guardano in faccia e iniziano una
pesantissima ristrutturazione che coinvolge tutte le azioni possibili:
chiusura delle attività non centrali per la strategia; focus sulla
componentistica industriale e abbandono delle linee di attività
diversificate; razionalizzazione della rete partner-fornitori; taglio
dell’occupazione che in un anno cala di oltre mille posti di lavoro;
rinegoziazione dei salari; trattative sindacali sulla flessibilità;
sostituzione del gruppo dirigente; nuovo amministratore delegato;
innovazione verso prodotti più evoluti e loro dislocazione in nuovi
mercati sia direttamente che attraverso joint venture; riposizionamento
nella fascia alta per differenziarsi dai Paesi a basso costo del lavoro;
aumento di capitale; cessione di un pacchetto di azioni da parte della
famiglia di controllo e riduzione della posizione finanziaria netta
consolidata. Ma tutto ciò senza mai deprimere l’ammontare destinato alla
ricerca e sviluppo che rimane negli anni molto alto, mediamente intorno
ai 100 milioni di euro, e che è poi la chiave principale per spiegare
l’aumento della qualità della produzione e il successo del turnaround.
In pochi mesi si trasformano i sistemi di produzione che diventano
molto più elastici e si riduce il lag temporale del ciclo manifatturiero. Di
fatto l’azienda si tramuta in una realtà non più solo del settore
metalmeccanico, bensì in quel comparto che spazia come innovazione e
implementazioni tecnologiche dall’elettronica al software, dalla
meccatronica alla robotica. E con l’aggiunta di una alimentazione
sostenibile, ecco l’annuncio del primo prototipo di trattore green che
appare nel 2018. Una serie di mosse che producono sconvolgimenti e
anche «morti e feriti», ma che consentono al Gruppo di ripresentarsi con
un bilancio più magro ma molto più muscoloso. Un vero esempio di
resilienza. Fino all’ultima mossa di un prestito obbligazionario intorno ai
180 milioni lanciato a gennaio 2018 e che ha consentito, grazie
all’ottimizzazione della struttura finanziaria, di supportare ulteriormente
i piani di sviluppo nonché di accelerare gli importanti programmi di
ricerca avviati negli ultimi anni. Una vittoria per una protagonista
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concreta della quarta rivoluzione industriale. Oggi Carraro ha circa 3000
dipendenti in quattro stabilimenti italiani e cinque sedi produttive in
India, Cina, Sudafrica, Argentina e Brasile. Nell’estate 2021 si è
concluso il percorso che ha portato l’azienda a uscire dalla Borsa, con
l’obiettivo di procedere a una riorganizzazione finalizzata all’ulteriore
rafforzamento del Gruppo in una logica più facilmente perseguibile dai
soggetti non quotati. E con l’esercizio 2021 Carraro è tornata a crescere
in modo importante, sia rispetto a un 2020 fortemente impattato dai
lockdown sia soprattutto rispetto al 2019, vero riferimento di
benchmarking. Un deciso cambio di passo, che ha consentito di
incrementare il fatturato di oltre il 34 per cento rispetto all’anno
precedente e di raggiungere un utile netto superiore ai 10 milioni di euro.
«Oggi siamo un’azienda più piccola del pre-crisi, ma anche più
profittevole», sostiene il presidente Carraro. Alla fine il «metodo
Carraro» ha vinto: «non abbiamo aspettato che la crisi passasse»,
prosegue, «abbiamo continuato a investire riposizionando tutti i nostri
prodotti un gradino più in alto nella scala della qualità».
La velocità di reazione e l’ampiezza della riorganizzazione della
Carraro sono una pedagogica ricetta per il sentiero della crescita di tutte
le imprese manifatturiere italiane, Nordest incluso.
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10 Vento in poppa: alla ricerca di altre prede
Cantiere del Pardo, Forlì (Forlì-Cesena)
La pandemia di Covid-19 e il relativo lockdown hanno lasciato profonde
ferite nelle imprese. Quelle che non sono state del tutto azzoppate dal
virus sanno che ci vorrà del tempo per ritornare alla normalità del 2019.
Ma in questo panorama un po’ depresso è possibile trovare eccezioni di
robusta resilienza, dove l’andamento del 2020 e del 2021 non è stato così
negativo e dove il rimbalzo dei mesi successivi ha addirittura superato le
diffuse aspettative. La ricetta? Tener duro, essere audaci, rimescolare le
carte rispetto ai paradigmi consolidati e proporre un nuovo mercato ai
propri consumatori. Questo è il segreto di Fabio Planamente e Luigi
Servidati, artefici del successo del Cantiere del Pardo.
Ma andiamo con ordine. Fondato nel 1973 a Craspellano, nei dintorni
di Bologna, dall’imprenditore Giuseppe Giuliani, che varò il primo yacht
a vela Grand Soleil 34 piedi (progettato dal Gruppo Finot), il Cantiere
del Pardo si caratterizza subito per la produzione di barche a vela nel
segmento medio-alto, appunto i Grand Soleil, che conciliano grande
eleganza e comfort con elevate prestazioni da regata. Da allora in
cinquant’anni sono state varate quasi 4500 barche, attraversando i diversi
cicli del mercato, che, nella nautica, non sono proprio campioni di
stabilità e di facilità programmatoria. Trasferitosi nel 1990 a Forlì,
nonostante le varie difficoltà del comparto, il marchio Cantiere del Pardo
ha sempre retto bene, grazie allo stile e al design che consentiva di
proporre soluzioni tecnologiche innovative sotto il cappello del Made in
Italy apprezzato in tutto il mondo. Fatturato sempre in crescita,
riconoscimento dell’eccellenza nella nautica e continuo ridisegno del
concept del prodotto per andare incontro alle tendenze dei clienti, che nel
frattempo mutavano nelle loro richieste e nei loro fabbisogni. E anche la
crisi finanziaria dei primi dieci anni del Duemila ci ha messo del suo,
51
con il ciclone che ha devastato il mercato delle barche da diporto
spazzando via i cantieri più fragili e mettendo a dura prova la capacità di
resistere da parte delle imprese più solide. Fra queste c’è il Cantiere del
Pardo che, invece di «lasciare», «raddoppia» cambiando le regole del
gioco e nel 2014 avvia una linea di barche a vela Grand Soleil più votata
alla crociera, con più gadget, più comodità, più attenzione al dettaglio.
Una villa galleggiante, insomma. E ci si orienta al mercato globale, con
più chance ma anche più rischi, essendo esso caratterizzato da maggiore
instabilità.
Anche la governance cambia, al mutare abbastanza vorticoso della
proprietà della società. Archiviata la famiglia iniziale, l’azienda (che fra
le altre cose dal 2002 deteneva anche il cantiere francese Dufour) passa
nelle mani di alcuni fondi di private equity, divenendo poi parte del
gruppo tedesco Bavaria. Successivamente, a metà del 2018, la famiglia
Trevisani cede la maggioranza, lasciando il controllo della società ai due
manager storici del Pardo, Fabio Planamente e Luigi Servidati, che in
quell’anno con un management buyout diventano prima soci di
maggioranza e poi, attraverso la loro holding GIFA, controllanti al 100
per cento del Cantiere. Planamente, amministratore delegato con visione
di general management internazionale, e Servidati, presidente del
consiglio di amministrazione e con focus sull’area commerciale e
sviluppo prodotti, sono imprenditori coraggiosi e audaci e nel 2017
sparigliano le carte del settore. Il mercato della nautica si caratterizza per
il 90 per cento per le barche a motore e per il 10 per cento per le barche a
vela. Grand Soleil è nella seconda fetta della torta e per di più in una
posizione molto segmentata della stessa. Perché non entrare nella fascia
delle barche a motore, dove l’estero (USA ed Europa) tira a più non
posso? Di lì la scelta della diversificazione e nel 2017 la nascita della
linea dei motoryacht Pardo, che ha subito un grande successo presso
clientela e porta l’azienda nel 2019 a più di 40 milioni di fatturato, che
diventeranno 54 alla fine dell’anno nautico 2020.
Nel frattempo si avvia l’acquisizione dell’azienda olandese VanDutch,
che produce imbarcazioni open di lusso, particolarmente apprezzate nei
mari della Florida e della Costa Azzurra (il timeless più noto è il 40
piedi): una vera icona del lifestyle nautico con un consolidato
posizionamento oltreoceano e con un brand molto sinergico, anche dal
punto di vista cantieristico, ai Grand Soleil e ai Pardo Yachts. Sono
barche spesso fotografate con celebrities e influencer al timone e quindi
anche un investimento reputazionale strategico, che consente di esaltare
52
l’esperienza e la qualità dell’azienda forlivese. L’acquisizione si
completa a giugno 2020, nel mezzo del terremoto del coronavirus.
Ci si aspetterebbe a questo punto una reazione tipica da lockdown:
produzioni a rilento, ordini rinegoziati e congelati, clienti in fuga,
ristrutturazione finanziaria, e così via. E invece ecco il miracolo: il
Cantiere del Pardo chiude solo tre settimane, dal 27 marzo al 16 aprile
2020, mantenendo attiva la logistica, cruciale per il ricevimento delle
merci da immettere nel processo manufatturiero. Attenta innanzitutto alla
salute delle maestranze e degli impiegati, l’azienda registra un leggero
ritardo nella tempistica dei lavori ma non subisce alcun annullamento da
parte dei clienti di tutto il mondo (a febbraio 2020 viene concluso il 100
per cento del venduto dell’anno a venire). «Abbiamo anticipato
proattivamente tutto ciò che potevamo fare per mettere in sicurezza il
cantiere e per non perdere opportunità di mercato», afferma Fabio
Planamente. «Già dell’inizio di marzo, sfruttando la rete dei dealer sparsi
in tutto il mondo, avevamo comprato migliaia di mascherine in Messico,
e abbiamo consentito agli impiegati di usare le tecnologie più aggiornate
per lo smartworking.» E questo abbrivio consente di perfezionare il
progetto del nuovo Grand Soleil 44 Performance, che tocca l’acqua a
fine luglio 2020, e di approntare il nuovo Pardo 60 Endurance, prima
barca di 18 metri a motore, che viene messa in mare a inizio 2021 e poi
proposta ai diportisti all’inizio del 2022. Un azzardo, dicevamo, ma che è
stato un notevole successo e che ha portato, con l’impatto sul conto
economico del marchio VanDutch, un incremento del volume d’affari di
oltre il 35 per cento rispetto all’anno 2020 e un utile netto superiore ai 10
milioni di euro, ponendosi di fatto come leader nel mondo dei luxury
yacht.
È normale che Planamente e Servidati fossero corteggiati dai fondi di
private equity, che vedevano un oggetto di grande interesse nel percorso
passato e prospettico del Cantiere del Pardo. E infatti alla fine del 2020 il
60 per cento del capitale viene acquisito da Wise Equity SGR, società di
gestione del fondo Wisequity V. Con questa operazione, Servidati e
Planamente continuano il percorso di evoluzione della società con
l’obiettivo per i prossimi anni di restare saldamente al timone e di
continuare a investire nell’offerta di imbarcazioni sia a vela sia a motore,
sempre contraddistinte da un design elegante e innovativo coniugato ad
alte prestazioni e qualità ai massimi livelli, con l’obiettivo di rafforzare
la leadership nel segmento 30-80 piedi, valutando anche le opportunità di
espansione in altri segmenti. «Nella decisione di aprire il capitale per
dotare la società di ulteriori risorse per lo sviluppo», ricorda Fabio
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Planamente, «abbiamo prestato una forte attenzione alla scelta del
partner. Abbiamo trovato in Wise Equity il partner che cercavamo, non
solo per la loro ventennale esperienza nell’accompagnare medie aziende
italiane nel percorso di crescita e internazionalizzazione ma anche per la
loro sensibilità industriale, che siamo sicuri ci permetterà di avere un
interlocutore attento alle peculiarità del nostro settore».
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11 Con noi il grande freddo
Irinox, Conegliano (Treviso)
Non sempre in economia il successo è decretato da un’offerta che va
incontro a una domanda, come reciterebbe la teoria. Anzi, forse i casi più
straordinari di formula imprenditoriale sono proprio quelli in cui i
pionieri della manifattura o del terziario anticipano il fabbisogno del
mercato, sorprendendo il cliente che ancora non ha auto-specificato i
propri desideri e le proprie necessità. La storia di Irinox di Corbanese di
Tarzo in provincia di Treviso è un esempio eclatante di capacità di
intuizione e di tenacia nell’innovazione, in quel Nord-Est, terra di
imprenditoria testarda che non si arrende mai e dove fare impresa è una
ricetta che si perfeziona di continuo.
Irinox nasce nel 1989 da tre soci nel distretto trevigiano di lunga
tradizione nella lavorazione dell’acciaio e nelle attrezzature professionali
per le cucine. L’idea è un prodotto talmente nuovo che addirittura manca
sul mercato: l’abbattitore, un «forno del freddo» che raffredda e surgela
rapidamente i cibi caldi e, così facendo, ne conserva le caratteristiche
qualitative. A dire il vero gli abbattitori allora c’erano già, ma erano stati
progettati solo per le grandi collettività, come le mense ospedaliere e le
scuole, e non venivano certo percepiti dai potenziali clienti come un
prodotto di qualità e di alta gamma. Un ambiente che ci ricorda un po’
gli anni Cinquanta e Sessanta, quando il miracolo economico passava per
l’elettrodomestico che cambiava le abitudini degli italiani. Poiché, come
si diceva, la domanda inizialmente faceva fatica a fare capolino, Irinox
inizia la sua storia anche con una linea di business, a latere degli
abbattitori, di quadri elettrici inox, che consentiva di stabilizzare il
fatturato complessivo e che ancor oggi rappresenta una parte cospicua
dell’attività aziendale.
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La pervicacia di quegli anni ha pagato, perché oggi, a trent’anni dalla
fondazione, Irinox conta di toccare a fine 2022 i 60 milioni di euro di
fatturato, vendendo più del 60 per cento dei suoi prodotti all’estero, con
al primo posto il mercato statunitense e poi a seguire Giappone,
Germania, Francia, Spagna e recenti espansioni in Far East e Australia.
Grazie ai suoi più di 50.000 impianti di abbattitori professionali installati
nel mondo, il marchio è presente nel settore della ristorazione, della
pasticceria, della gelateria e della panificazione. La produzione è al 100
per cento Made in Italy e l’azienda è riconosciuta per l’elevata ricerca
sulle tecnologie per una perfetta conservazione alimentare. Poi nel 2002
la grande svolta, con la novità per uscire dal mondo esclusivamente
professionale: il primo abbattitore domestico di piccole dimensioni (da
incasso o da appoggio). In questo caso il primo al mondo! Un prodotto
che univa due funzioni che sembravano agli antipodi: il freddo rapido al
caldo lento, potendo surgelare e cuocere, scongelare e lievitare,
raffreddare e riscaldare, oltre al raffreddamento delle bottiglie.
L’obiettivo era di conquistare uno spazio stabile nel locale della cucina,
come era avvenuto con gli elettrodomestici più canonici.
Anche Irinox però, come tutte le imprese, viene colpita dagli scossoni
della recessione dell’inizio del secolo, ma Katia Da Ros, amministratrice
delegata e vicepresidente dell’azienda, ricorda così quegli anni: «La crisi
è stata salutare. Ci ha costretti a riconfigurare i processi e i modelli
organizzativi. Ci ha portati a concentrarci su aree che, quando le cose
vanno bene, sono trascurate». Katia Da Ros, laurea in Economia
aziendale a Venezia e master alla Harvard Business School, è una
fervente sostenitrice di formule di governance avanzate: «Per noi
l’innovazione non è soltanto una gestione di prodotto, ma anche di
modalità di governo d’impresa», sostiene, raccontando come Irinox
abbia aperto il board a contributi esterni qualificati di amministratori
indipendenti. È il passo indietro degli azionisti che ha consentito di
chiarire e migliorare la strategia e di managerializzare l’organizzazione,
lasciando ai dirigenti la fase più esecutiva. Ciò ha consentito anche agli
oltre 300 dipendenti di intraprendere nuovi percorsi di crescita e di
sviluppo di carriera.
La rincorsa sui mercati internazionali ha stimolato sicuramente la
ricerca tecnologica e l’innovazione perché il confronto è stato con attori
non domestici più forti e strutturati. E questo ha condotto a conquiste
mondiali di grande soddisfazione e visibilità: nelle cucine di AmazonFresh (il servizio a domicilio per la vendita di frutta, verdura e piatti
precotti della più grande piattaforma di e-commerce nel mondo) a
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Boston gli abbattitori sono marchiati Irinox e così sono anche a New
York, Chicago, San Francisco nelle cucine di avanguardia di Google,
Yahoo, LinkedIn.
Dallo scetticismo degli anni Novanta (gli chef dicevano «interessante,
ma a noi non serve!») a una leadership globale (oggi quasi tutti i
ristoranti stellati hanno uno o più abbattitori in dotazione) e a un
posizionamento nel segmento alto dei clienti domestici. Complice anche
una legislazione che ha raccomandato in Italia e nel mondo la cultura
dell’igienizzazione del cibo, ma soprattutto una grande passione, quasi
da missionari, per il proprio lavoro da parte dell’azienda, una capacità
superiore di conciliare nuove tecnologie e benessere e una notevole
resilienza per superare le difficoltà e indirizzarsi verso traguardi sempre
più sfidanti.
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12 Quanto condiziona il distretto
monoindustriale
Gruppo Chiorino, Biella
Il distretto industriale è stato ed è tuttora la formula italiana di maggior
successo del capitalismo molecolare e del diffuso pulviscolo
dell’artigianato, costituendo il melting pot postfordista in cui localismo,
creatività e talento riescono a combinarsi in continue evoluzioni e
consentono alle microimprese di competere mondialmente. Ma che cosa
capita quando in un territorio focalizzato storicamente su un comparto
specifico (la sedia, l’occhiale, il tessuto, il divano, la bambola, la
piastrella e così via) un’azienda decide di cambiare pelle e di
sperimentare una diversificazione lontana dal DNA secolare del luogo
d’origine? È possibile far sopravvivere un’anomalia in un distretto
d’eccellenza? Come far crescere e prosperare in un mondo di pulcini
bianchi un pulcino di un altro colore?
La storia della Chiorino di Biella è un’esperienza esemplare. Nata nel
1906 come conceria per la produzione di cinghie di cuoio, per soddisfare
la domanda crescente da parte degli stabilimenti tessili di cinghie di
trasmissione che trasferivano l’energia dei salti d’acqua dei torrenti ai
macchinari produttivi, l’impresa consolida nel primo Novecento una
florida attività. Poi, negli anni Cinquanta, si ritrova a dover reinventare il
proprio intento strategico, perché la trasmissione del moto è totalmente
sostituita dai motori elettrici. Con la seconda generazione al comando
viene allora sviluppata un’attività complementare di produzione di
articoli in gomma, ma sempre destinati ai macchinari dell’industria
tessile (filatura e tessitura). Con la sempre maggiore riduzione del
numero degli stabilimenti tessili in Europa prima e in Italia poi, la
Chiorino si trova nuovamente costretta a immaginare un diverso futuro.
Addio al tessile e grande sviluppo di nastri trasportatori per la
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movimentazione interna, destinati soprattutto al settore alimentare,
logistico, dell’imballaggio e a tutte le altre possibili applicazioni
industriali.
Questo faticosissimo processo di trasformazione industriale (la
vecchia conceria diventata industria della gomma prima e modernissima
industria di lavorazione delle materie plastiche poi), culturale e di
mercati è il frutto del lavoro della terza generazione dei Chiorino, con gli
azionisti che stringono i denti e rilanciano la nuova produzione, con il
principale obiettivo di dare un futuro perdurante all’azienda. È
soprattutto con la guida di Gregorio Chiorino, presidente della società da
oltre trent’anni, che si perfeziona poi la fase della personalizzazione del
servizio e dell’internazionalizzazione. La sfida con i concorrenti europei
(principalmente con i tedeschi, ma non solo) è vinta con un’estrema
attenzione al «su misura» per i singoli clienti, per cui la Chiorino si
distingue in tutto il mondo per una predisposizione all’«one-to-one» sia
pre che post vendita.
Gli anni Duemila vedono il Gruppo estendersi sul pianeta con una rete
capillare di distribuzione e di assistenza con 19 filiali e 60 distributori,
che consentono di garantire in qualsiasi area geografica la medesima
qualificazione della casa madre.
In tutto il secolo di attività l’azionariato è rimasto concentrato nelle
mani di un’unica famiglia: una cultura imprenditoriale solida, eticamente
responsabile, attenta al welfare dei 900 dipendenti, orientata alla
sostenibilità ambientale, profondamente indirizzata alla ricerca e
all’innovazione. E nel 2017, proprio per affrontare nuove sfide e tagliare
nuovi traguardi ambiziosi, la famiglia Chiorino decide di cedere una
quota del 20 per cento a T.I.P. del Gruppo Tamburi, per prepararsi con i
nuovi soci e una nuova governance a imprimere uno sviluppo
significativo delle proprie attività, pronta a entrare in Borsa. Sarà
l’amministratore delegato Matteo Chiorino, 48 anni, quarta generazione
degli industriali piemontesi, a iniziare il percorso di quotazione nel 2022.
E l’azienda raggiungerà 140 milioni di ricavi, realizzati per l’80 per
cento all’estero, con una crescita nell’ultimo esercizio del fatturato di
oltre il 25 per cento.
Torniamo allora alla domanda iniziale: si può diversificare in un
distretto monoindustriale? La Chiorino ha azzardato questo passo e ce
l’ha fatta. La sua presenza in un’area geografica dove non si respira altra
aria che lana, lana e ancora lana, non le ha creato particolari vantaggi, è
vero. Però essa ha potuto godere della cultura industriale del territorio, di
un’antica tradizione manifatturiera, di una qualità del saper fare delle
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maestranze che rappresentano un profilo invidiabile nell’organizzazione
della produzione, di un diffuso attaccamento aziendale che caratterizza il
popolo biellese, con un fortissimo senso di appartenenza alla propria
impresa. Un caso dunque di scuola, che dovrebbe fare riflettere coloro
che sostengono che il volo del calabrone dei distretti si sia ormai
arrestato e che sia impossibile rivalorizzare l’industria borghigiana del
Novecento. La storia della Chiorino dimostra come invece sia possibile
«cambiare mestiere».
Anche nei distretti più appannati gli animal spirits ci sono e, invece di
ripiegare – come spesso si è visto fare – sui più facili processi di rendita
finanziaria e immobiliare, bisogna esortarli a prendere il coraggio a due
mani, a inventare nuove value proposition e a diventare i leader di
domani. Altri si accoderanno allora sotto l’ombrello di questi campioni.
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13 Una buona ragione per non lasciare
l’Italia
Blackshape, Monopoli (Bari)
Al comando della Blackshape Aircraft di Monopoli, la Ferrari del cielo,
ci sono due giovani imprenditori, Luciano Belviso e Angelo Petrosillo,
settant’anni in due. La Blackshape produce aerei leggeri in fibra di
carbonio, prezzo circa 250.000 euro, con prestazioni superiori in quanto
a velocità e consumo, e metà del peso dei concorrenti. Due prodotti al
mese venduti in più di venti Paesi nel globo a VIP facoltosi e a Paperoni
d’Arabia e dell’Est. Fatturato che raddoppia ogni anno da tre anni.
Com’è possibile che tra Bari e Lecce, tra lo scirocco del mare e i trulli
di Alberobello sia nato forse l’esempio di innovazione più straordinario
del nostro Paese? Luciano e Angelo sono amici fin dal liceo: il primo va
a Torino per laurearsi in Ingegneria spaziale al Politecnico, mentre il
secondo si indirizza verso Giurisprudenza alla Scuola Superiore S. Anna
di Pisa. Poi emigrano per i soliti studi specialistici (Master of Science e
Ph.D). Sembra la consueta trama dei classici cervelli pronti per la fuga
definitiva oltre confine. Ma i due vogliono «volare alto» e sono
affezionati alla loro terra e lì si ritrovano. Nel 2008 la Regione Puglia
avvia il programma Bollenti spiriti (zampino di Nichi Vendola nel nome
stralunato) per talenti emergenti. È un programma che non «sistema», ma
incoraggia. I nostri eroi partecipano e ottengono 25.000 euro di prestito a
fondo perduto, con cui di fatto pagano le spese notarili e di costituzione
di Blackshape e partono con il business plan. Missione? Disegnare,
costruire e vendere aeroplani. O, meglio, prima immaginavano di
produrre oggetti di design in fibra di carbonio, ma Luciano ricorda dai
suoi studi che vicino a Treviso abita un certo Bepi Vidor (non sembra la
sceneggiatura di un film?), «mito dell’aeronautica «che si diverte a
progettare velivoli» e chiede a lui ispirazione. A quel punto Vidor li
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convince e si passa al business degli aerei. Nasce il Prime, con la
caratteristica esteticamente vincente di avere i due posti di comando uno
dietro all’altro, come i Mig da caccia di Top Gun, Rayban a specchio e
giubbotto di pelle inclusi. Un successo di ordini. Ma per metterlo in
produzione occorrono i quattrini; le idee non bastano. Come dice il
proverbio, «senza lìlleri, non si làllera». Business plan alla mano i
trentenni imprenditori girano ben 42 banche (piccole locali e grandi
nazionali), ma la risposta è sempre la stessa: la loro azienda è ancora
tutta sulla carta e non ci sono garanzie reali. Ricordiamoci che siamo nel
pieno della crisi e del credit crunch. Il fatto poi di essere in Puglia e non
a Cupertino di certo non aiuta. Viene contattato Vito Pertosa, un
visionario imprenditore di Monopoli che con la sua Mermec produce
sistemi di diagnostica per treni di misura. Pertosa ci crede e investe un
milione di euro con il fondo Angelo Investments: a lui il controllo del 55
per cento di Blackshape; ai due giovani il restante 45 per cento.
E si parte, con Pertosa che gioca il ruolo del saggio mentore. È il 2011
e dal capannone esce il primo superleggero. Va in Bulgaria. Seguono
consegne in Repubblica Ceca, Belgio, Russia, Romania, Brasile. Il
distretto aerospaziale pugliese fluidifica lo sviluppo. Lì c’è
concentrazione di know-how con imprese come Boeing (la fusoliera del
Prime è simile a quella del Dreamliner Boeing 787), Aermacchi, Agusta,
Bombardier, e il capitale umano può condividere pratiche manageriali e
professionali. Le scelte organizzative sono innovative: età media 35 anni;
bilanciamento di genere tra uomini e donne; ricerca continua di
professionalità (il 50 per cento dell’organico è ingegnere), attenzione al
work-life balance (orari di ingresso flessibili e spesa che arriva in
azienda dal supermercato due volte alla settimana); contest per laureandi
che vogliono cimentarsi in progetti inesplorati; formazione elevata sia
per manager che per operai specializzati.
Oggi, a distanza di più di dieci anni dalla costituzione, cento velivoli
sono stati acquistati e cinquanta consegnati. Si punta a terminare un
velivolo ogni settimana. Nel frattempo si estendono le certificazioni
aeronautiche da parte delle nazioni straniere. L’aereo viene venduto
come aereo sportivo, ma anche per scopi di addestramento e da
pattugliamento. I posti di lavoro a fine 2021 erano quasi 1600. Il piano
pluriennale si prefigge di decuplicare i ricavi entro il 2022 e di diventare
la prima azienda aerospaziale d’Europa dopo i colossi pubblici.
La favola si è concretizzata. La morale è implicita: non arrendersi alle
difficoltà, se si hanno determinazione e passione. Certo, non tutti devono
diventare imprenditori. Lo meritano i più coraggiosi e i più tenaci. Quelli
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che non attendono necessariamente le condizioni facilitanti. E in questi
casi il successo è ancora più appagante.
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14 Il cancello per il paradiso
Gruppo FAAC Technologies, Zola Predosa
(Bologna)
Dai colli bolognesi alla conquista del mondo con prodotti di tecnologia
d’avanguardia. Una storia tipicamente italiana, miscela di
imprenditorialità da animal spirit, di genialità dei tecnici che, come si
dice in Emilia, sanno «pistolare la macchina», di governance peculiare
che sa tenere insieme valori di socialità cattolici con rapide mosse da
mercato globale.
Tutto parte cinquant’anni fa con Giuseppe Manini, tipico fondatore di
quei tempi, che sa buttare il cuore oltre l’ostacolo e si inventa
l’apricancello automatico. Ci sembrerà oggi strano, ma allora condomini,
ville e stabilimenti con problemi di chiusura e di sicurezza non avevano
congegni ai cancelli, se non a mano. Manini intuisce il vuoto d’offerta e
punta subito sulla qualità e sull’affidabilità dell’elettronica che consente
di comandare tutto con telecomandi portatili. Nasce la FAAC (Fabbrica
Automatismi Apertura Cancelli) in un piccolo edificio di Casalecchio.
Grazie a una supply chain del territorio (il network idraulico bolognese),
tipico dei distretti italiani, l’azienda si espande e diventa leader mondiale
nel comparto. Alla morte prematura del fondatore, gli succede il figlio
Michelangelo, diverso per ruolo e per carattere, ma con una forte
determinazione a internazionalizzare l’azienda (negli anni Novanta erano
entrati nel capitale i francesi di Somfy con una quota di minoranza) e a
managerializzarla (l’assetto organizzativo si struttura come una
management company con posizioni direttive tutte affidate a dirigenti
professionisti). Ma nel 2012 anche Michelangelo muore a soli 51 anni e
a sorpresa le quote di controllo vengono lasciate in eredità alla Curia di
Bologna. Le «acque» del lascito (circa 1,7 miliardi di euro, composto da
azioni, proprietà immobiliari e 140 milioni di liquidità in banca) sono
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burrascose e le sorti della FAAC rimbalzano per mesi sulle prime pagine
dei quotidiani nazionali e locali. Una sorta di saga che dura due anni,
degna di una telenovela con continui colpi di scena, che coinvolgono:
l’Arcidiocesi di Bologna e il Vaticano, impreparati di fronte
all’improvvisa donazione; i parenti di lontano grado della famiglia, che
impugnano il testamento; il Tribunale di Bologna, che si vede costretto a
mettere l’azienda sotto tutela giudiziaria e la città felsinea, che non
nasconde lo stupore per ciò che sta avvenendo in una delle imprese più
rilevanti del territorio, anche se da sempre sottotraccia nelle
conversazioni da campanile.
Nel mentre il management continua a tenere la barra dritta, riuscendo
a escludere l’attività e la strategia dalle controversie legate all’eredità.
Protagonista di questo capolavoro dai nervi saldi un board capitanato dal
presidente Andrea Moschetti e dall’amministratore delegato Andrea
Macellan, che prosegue nel non facile compito di sviluppare la FAAC e
di incrementare la copiosa lista dei brevetti di innovazione senza un
padrone definito.
Risolto nel 2014 l’accordo e liberato l’asse ereditario da tutti i
pretendenti (da quel momento il 100 per cento delle azioni torna in mano
alla Curia di Bologna), l’azienda riacquista la serenità che consente di
disegnare un avvenire più strutturato e alcune operazioni di crescita. I
dipendenti oggi sono più di 2500, impiegati nei cinque continenti. I siti
produttivi 18 in 15 Paesi con 32 unità commerciali. Alla divisione
Access Automation, quella tradizionale che produce cancelli, dissuasori,
ingressi auto e porte automatiche, dove FAAC è leader mondiale e dove
la marginalità è alta, si affianca la divisione Access Control, con i
tornelli pedonali e le barriere automatiche che incrociamo sulle
autostrade. Terza divisione, più recente, è quella Parking, che comprende
i meccanismi per le zone ZTL e i parcheggi con esazione. Due delle tre
business unit fanno riferimento al quartier generale a Zola Predosa,
mentre l’Access Control viene gestita da una società in Germania. Una
vera multinazionale tascabile di complessivi 600 milioni di euro di
fatturato e di consistente EBITDA, che si caratterizza anche per un
governo societario molto originale.
L’Arcidiocesi di Bologna, infatti, dopo essersi ricomperata la quota dei
francesi (si dice con la benedizione di Papa Francesco, che vede nella
FAAC un esperimento di impresa con una innovativa missione sociale),
non si interroga più sulla coerenza della produzione globale con i
principi cristiani. Ha costituito un trust di durata trentennale dove
l’Arcivescovo assume il ruolo di protector con diritto di voto su alcune
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questioni primarie e dove i trustees nominano i membri del consiglio di
amministrazione del Gruppo. Nelle intenzioni dell’attuale capo della
Curia Monsignor Zuppi, la FAAC è un virtuoso esempio di «tanto
welfare aziendale, più spazio alle donne e alle mamme, con dipendenti
che partecipano alla vita aziendale». «In God we trust. Si lavora nel
nome del Signore», sostengono i dipendenti con una sorta di motto che
ricorda nella provincia rossa più le pagine di Don Camillo che le
dichiarazioni di Landini. Una specie di «governance celeste» che riesce a
conciliare la spietata concorrenza del mercato con una sensibilità di
olivettiana memoria. Di certo un modello interessante che può essere di
insegnamento in questi anni post crisi dove siamo tutti alla ricerca della
formula post-capitalistica.
A luglio 2022 FAAC diventa FAAC Technologies. Nuovo nome,
nuovo logo, nuovi colori, nuovo slogan («We open worlds») per quella
che è conosciuta come la multinazionale italiana dei cancelli ma che, nel
corso dei suoi cinquanta e più anni di storia, si è espansa in numerosi
segmenti di mercato affini che ricomprendono barriere veicolari, tornelli
pedonali, dissuasori del traffico, alza serrande e saracinesche e sistemi
completi di gestione dei parcheggi con esazione. E il rebranding del
Gruppo di Zola Predosa, che non riguarda solo la sfera visiva ma sta a
sottolineare una rinnovata focalizzazione della strategia sul primato
tecnologico di prodotto, da sempre punto di forza del marchio.
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15 Oltre le Winx
Rainbow, Loreto (Ancona)
Non c’è bisogno di andare a Cupertino per scoprire le organizzazioni che
mandano in visibilio gli esperti del «great place to work». La retorica
della qualità della vita lavorativa è ben più a portata di mano, anche se a
volte è più a riflettori spenti che in Google o in Amazon e non ispira film
come The Circle tratto dall’omonimo romanzo di Dave Eggers. Nelle
colline marchigiane tra Loreto e Recanati, in quel distretto dove la poesia
e la musica sono le voci del territorio, in 10.000 metri quadri tra il verde
e i colori forti dell’arredamento, la Rainbow di Iginio Straffi è un piccolo
capolavoro di attenzione al talento dei suoi dipendenti. Una sede
progettata da pochi anni secondo criteri di sostenibilità ambientale
(grandi vetrate, pannelli fotovoltaici, manto erboso sul tetto) e con
investimenti per il wellbeing di chi ci lavora (sauna, palestra, piscina,
campo da tennis e da calcetto, pedana per corsi di yoga e di ballo e
persino una mensa dove lo chef prepara i paccheri al salmone e il filetto
di spigola). Perché l’atmosfera allegra e rilassata è la principale
condizione per un miracolo tutto italiano: la più grande realtà europea di
animazione.
La Rainbow si identifica con il suo cinquantunenne fondatore e con il
prodotto che ha portato l’azienda a quindici anni di trionfi, le Winx, sei
fatine superfamose (Bloom e le sue cinque piccole amiche), che, con
colori sgargianti ai confini col kitsch, mescolano intrattenimento e
messaggi educativi. Le Winx sono state anni fa una grande intuizione di
Iginio Straffi – a quel tempo disegnatore di Bonelli, ma già col pallino
dell’uomo d’affari piuttosto che dell’artista – che ha deciso di puntare su
personaggi che diventassero icone. E insieme ai suoi collaboratori,
eccellenze nei diversi campi e spesso richiamati anche dall’estero, tutti
giovani e pariteticamente donne e uomini, ha creato un fenomeno
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planetario che oggi viene distribuito da più di 150 emittenti TV e visto
da quasi 200 milioni di spettatori.
Col tempo alle sei fatine, ispirate ad attrici e popstar e beniamine del
pubblico più giovane, si sono affiancati altri personaggi come Mia e Me
o Huntik oppure Maggie e Bianca, adolescenti che frequentano una
scuola di moda, o la nipote di Cenerentola, Rose, nella serie Regal
Academy. Tutti lavorati secondo lo schema rodato con le fatine, e
successivamente replicato per i nuovi character. Nel frattempo sono
usciti tre lungometraggi, sconfinando quindi anche nel cinema. Sono
stati prodotti musical con attori e cantanti, sulla falsa riga dei format e
delle coreografie del Cirque de Soleil. Sono state organizzate reunion di
fan delle serie televisive, con mamme al seguito, impostando veri e
propri raduni sulla riviera veneta e friulana (Jesolo e Lignano), dove le
spiagge si sono trasformate in posti magici per 3-4 giorni con beniamini
degli eroi e delle eroine accorsi a migliaia da tutte le parti del mondo.
Ma il vero succo del business è rappresentato dal licensing e dal
merchandising, con più di 500 licenze in tutto il mondo, con cui la
Rainbow concede ad aziende dei settori più disparati di usare l’immagine
dei personaggi sui loro prodotti. Stiamo parlando di diari, magliette,
profumi, videogiochi, strumenti musicali, gelati, colori, quaderni,
figurine, arredamento e molto altro. «Ormai», afferma Straffi, «due terzi
del nostro fatturato giungono da lì». L’uscita sul piccolo schermo non è
altro che la vetrina per poi far seguire i prodotti commercializzati su
licenza. Nel 2017 l’azienda marchigiana è stata classificata al primo
posto europeo tra i top global licensors e all’undicesimo posto mondiale,
dopo i colossi americani e giapponesi – classifica particolarmente degna
di nota, perché questa attività è stata spesso tentata dai produttori italiani
di contenuti con risultati di scarsa soddisfazione.
Un successo globale che non conosce arresti e difficoltà, ma di cui non
si parla ancora abbastanza, forse per il carattere sottotraccia di Straffi,
che frequenta poco la comunità degli imprenditori e Confindustria, più
attento ai valori aziendali del fare e dell’operare in sobrietà, secondo i
classici dettami del self made man poco orientato ai frizzi e lazzi e molto
pragmatico nei suoi passi operativi. Ma la traiettoria è chiara: svilupparsi
ancora e diventare un attore veramente internazionale. Dopo anni di
crescita organica ci sono state importanti acquisizioni, come quella nel
2015 della società canadese Bardel Entertainement, già partner di famose
imprese come Dreamworks e Warner Bros, che ha consentito di
controllare meglio le fasi produttive della filiera e di rinforzare il talento
aziendale con la professionalità americana, condizione importante per
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intercettare una cultura dell’animazione che facilita la creazione di
prodotti internazionali. O l’accordo con Netflix, che ha permesso al
primo studio di animazione in Europa di siglare una partnership molto
significativa per la distribuzione dei contenuti sulla piattaforma. O,
ancora, l’acquisizione di Colorado Film, iniziata nel 2017 e completata
nel 2022, proprio per allargare gli orizzonti sul mercato mondiale
dell’entertainment, competendo sul mercato internazionale del cinema e
delle piattaforme. Il fatturato consolidato del Gruppo è ormai vicino ai
100 milioni di euro, in crescita rispetto agli anni precedenti, e con una
redditività di tutto rispetto che permette di destinare i proventi ad
autofinanziamenti per lo sviluppo.
Elemento cruciale nella strategia di Iginio Straffi è la moglie Joanne
Lee, di Singapore: assunta come capo del marketing, convolata a giuste
nozze con il fondatore, è oggi vicepresidente di tutto il Gruppo. Non
secondaria la sua influenza per puntare sul Sud-Est asiatico e sulla Cina
in particolare, dove l’impresa ha stretto un accordo con CCTV, la
principale rete televisiva della Repubblica Popolare controllata dal
governo, per mandare in onda le serie finora prodotte. E oggigiorno sono
al lavoro sceneggiatori e disegnatori per adattare al mondo orientale le
storie e i disegni nati in Europa.
Alcuni anni fa, con una quota del 30 per cento, è entrato nel capitale il
colosso Viacom (gruppo di cui fanno parte MTV e Nickelodeon, canali
che hanno in esclusiva i prodotti Rainbow per le Americhe) che sta
contribuendo a trasformare la governance tipica di un’azienda a proprietà
familiare in una governance anglosassone, in vista anche di un prossimo
approdo in Borsa. Normale che l’azienda di Loreto venisse messa nel
radar di molti investitori esterni e di fondi di private equity, ma il
consiglio di amministrazione non ha mai ceduto alla corte di meri
finanzieri. L’impresa si fidanzerebbe e si sposerebbe volentieri, ma solo
se trovasse un partner industriale che condivide lo specifico progetto di
crescita, e con una parabola di lungo termine. E allora che cosa riserva il
futuro della Rainbow? Progetti nel cassetto sembra che ce ne siano molti,
in attesa che i tempi siano maturi per realizzarli.
Il presidente ha le idee molto chiare al proposito: tre linee guida.
Primo: fare le cose con grande qualità, perché la strategia di procedere
con pochi prodotti molto curati è stato il vero ingrediente di successo
finora. Secondo: aumentare e diversificare i prodotti per fasce d’età,
allargandosi anche al segmento degli adolescenti e magari entrando nel
mercato del pre-scolare, e approfondendo la potenzialità di lanciarsi nel
mondo della fiction di prima serata. Terzo: rafforzare la presenza in Asia
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delle serie distribuite e del merchandising. Un programma forse un po’
azzardato e non facile da realizzare, ma com’è triste la prudenza
sembrano dire gli occhi furbi e vivaci di Iginio Straffi. Gli ostacoli,
sebbene in salita, sono sempre sormontabili. Basta avere tenacia, spirito
di gruppo e grande identificazione di tutto il personale, che è orgoglioso
di rappresentare l’origine marchigiana nella sfida globale della creatività.
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16 La famiglia dei tartufi
Urbani Tartufi, Valnerina (Terni)
Tra i prelibati status symbol gastronomici che non possono mancare sulle
tavole più sofisticate, l’Italia non è il baricentro né del caviale né dello
champagne. Ma se si va a Scheggino, un borgo di 488 abitanti nel cuore
verde dell’umbra Valnerina, si può trovare la capitale mondiale del più
prezioso dei funghi: sua maestà il tartufo. Qui infatti ha avuto origine la
casa madre del cibo per gourmet che non badano a spese: l’azienda
Urbani Tartufi.
La storia dell’impresa, che si intreccia dal 1852 con quella della
famiglia Urbani, è una storia bellissima. Il business inizia oltre
centocinquant’anni fa con Costantino Urbani che avvia l’esportazione di
tartufi neri freschi in Francia, a Carpentras in Provenza, in cooperazione
con le aziende locali di foie gras, creando un fertile connubio. Da lì il
commercio si consolida in Germania, in Svizzera, in numerose regioni
d’Italia e nel resto d’Europa. Lo sviluppo prosegue con i discendenti e
con Paolo senior e Carlo Urbani all’inizio degli anni Trenta, mentre negli
anni Settanta i figli di Carlo, Paolo e Bruno, acquisiscono la principale
azienda di tartufi bianchi di Alba, diventando di fatto i protagonisti del
tartufo nel nostro Paese. E oggi, con la famiglia arrivata alla sesta
generazione, l’azienda – guidata da Bruno, Olga, Carlo e Giammarco –
ha messo le bandierine in oltre 75 Paesi del mondo, conquistando una
leadership indiscussa nel mercato globale del pregiato fungo ipogeo.
Settanta milioni di euro di fatturato annui, 300 dipendenti, oltre 600
prodotti, 250 tonnellate di materia prima lavorata (due terzi di quella
complessiva europea). Export all’80 per cento nei mercati storici, ma
anche in quelli emergenti – Hong Kong, Cina, Corea, Taiwan, Medio
Oriente e Russia – che crescono a due cifre, soprattutto grazie ai prodotti
«tartufati» (come la linea sushi, la soia alle scaglie di tartufo e i
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bastoncini di tartufo puro per i sushi rolls, le paste, le salse, il cioccolato,
l’olio e l’aceto balsamico, e così via, tra cui in ultimo la pizza). I prodotti
al tartufo – 60 per cento del fatturato – rappresentano il vero core
business dell’azienda umbra, consentendole di stabilizzare le vendite e
superare con il segno positivo le crisi che investono il settore, quando le
quotazioni del tartufo toccano quotazioni stellari a causa della siccità.
È la storia di una famiglia unita lungo i secoli, che abbina una
tradizione lontana, un intuito imprenditoriale fuori dal comune e un
radicamento totale con il territorio alla capacità di promuovere in tutto il
mondo un progetto gastronomico particolare e misterioso, come il
tartufo. L’unità d’intenti della famiglia è cruciale. Questo era il primo
pensiero di Paolo Urbani, Cavaliere del Lavoro e lungimirante
industriale della zona. Valore culturale ben elaborato dalla figlia Olga:
«Le persone che litigano ci fanno paura. Quando qualcosa non va, se ne
parla subito e si cerca di chiarire tutto in fetta, perché non ci possiamo
permettere la mancanza di intesa». E questo spirito di squadra è emerso
anche dopo l’urto del terremoto del 2016; in poche ore la famiglia ha
deciso di ricostruire a proprie spese, dimostrando una resilienza senza
pari.
A Scheggino sono stati realizzati il Museo del Tartufo e l’Accademia
del Tartufo. Mentre in America, dove ci sono sei filiali commerciali, la
Urbani partecipa al Fancy Food Show, una delle più importanti fiere
annuali del settore alimentare. Dice Giammarco Urbani: «Allestiamo
eventi per i clienti che arrivano da ogni parte degli USA: ristoratori,
albergatori, aziende di catering, compagnie aeree e navali, brand della
grande distribuzione. E tutti hanno come base il nostro prodotto di
punta».
Il quartier generale oggi è a Sant’Anatolia di Narco in provincia di
Perugia. Qui 200 dipendenti utilizzano tecnologie innovative per la
lavorazione e la conservazione del tartufo, che ne esaltano le
caratteristiche naturali permettendone nuove occasioni d’uso. E
l’innovazione, pur nel sacro rispetto per le tradizioni, è fondamentale per
riuscire a seguire (e spesso ad anticipare) quello che il mercato chiede a
un’impresa moderna. Sostiene Olga Urbani: «Di suo l’impresa ci mette
lo studio, la ricerca e le competenze. Il resto lo fa il tartufo».
E che cosa riserva il futuro all’azienda umbra? Si sta potenziando la
filiera produttiva, si sta intraprendendo una severa politica «Urbani
Plastic Free», una trasformazione dei materiali di packaging in carta
riciclata, quindi una politica di maggiore attenzione al pianeta,
soprattutto dopo aver realizzato più di venti ettari di tartufaia che fornirà
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il prodotto per i prossimi dieci anni. Oltre a ciò, ulteriori aperture di
nuove filiali in Francia, Dubai e Honk Kong. Ma tra i progetti della sesta
generazione della grande famiglia c’è Truffleland, azienda 4.0 di
commercializzazione di piante micorrizate al tartufo, che ha l’obiettivo
di aumentare la produzione nazionale di tartufo italiano, attraverso la
messa a dimora di queste piante da tartufo, tutto secondo nuovi criteri di
smart farm, ricreandone l’habitat naturale. La Borsa? Perché no, dicono
gli Urbani, anche se non c’è ancora un programma formalizzato.
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17 Funivie Made in Italy
Leitner, Vipiteno (Bolzano)
Alcuni anni fa a Turku in Finlandia è stato inaugurato sulle note di
Funiculì, funiculà l’ascensore inclinato che porta alla collina di
Kakolanmäki, una zona dove fino a pochi decenni prima c’era un
imponente carcere e ora c’è un vasto complesso residenziale. Firma del
progetto per l’impianto a fune l’italiana Leitner Ropeways di Vipiteno.
Un nome che siamo soliti vedere sulle piste di sci e che sempre più
invece dà vita a nuove infrastrutture turistiche urbane. La funivia infatti
non è più solo sinonimo di piste innevate e di paesaggi montani. E la
dimostrazione di ciò è proprio il grande sviluppo recente dell’azienda
altoatesina che, grazie a una politica di innovazione e diversificazione, è
approdata nel 2018 per la prima volta nella sua storia a un miliardo e 21
milioni di euro di fatturato (+16 per cento rispetto al 2017). Livello che
poi è rimasto stabile anche negli anni successivi. Il Gruppo Leitner – ma
sarebbe meglio chiamarlo High Technology Industries (HTI), questo il
nome della holding – è ormai un protagonista globale nel settore degli
impianti a fune (Leitner Ropeways, Poma e Agudio), dei battipista e
veicoli
cingolati
(Prinoth),
dell’innevamento
programmato
(Demaclenko) e dell’energia eolica (Leitwind).
Una storia che viene da molto lontano, quando il fondatore Gabriel
Leitner nel 1888 apre a Vipiteno un’officina per macchine agricole e
teleferiche. Dopo la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo del
turismo invernale, l’azienda comincia a realizzare funivie per il trasporto
di persone e nel 1970 interrompe la produzione di macchine agricole per
sostituirla con quella di veicoli battipista. Negli anni Novanta Michael
Seeber, quarantenne imprenditore locale dell’edilizia e dell’immobiliare,
accetta di intervenire finanziariamente per risollevare le sorti
dell’impresa che per Vipiteno rappresenta un po’ ciò che la Fiat è per
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Torino. Michael, a colpi di ricapitalizzazioni, acquisizioni e
diversificazioni di prodotto, strappa la Leitner alla morsa della crisi
proiettandola verso la prosperità. Poi, a soli 68 anni, dopo vent’anni
trascorsi alla guida operativa, annuncia la decisione di ritirarsi e di
cedere lo scettro del comando al figlio Anton. Un passaggio assai raro
nelle imprese italiane a conduzione familiare, vista la giovane età del
padre, ma avvenuto nel segno della trasparenza, dell’affetto, della stima
reciproca. Anton Seeber (1973), laurea in Economia aziendale alla
Bocconi, ha esperienza di private equity negli Stati Uniti e durante i suoi
sette anni di permanenza oltreoceano guida alcune consociate del
Gruppo Leitner all’estero. Rientrato in Italia continua il processo di
internazionalizzazione (oggi i siti produttivi sono undici, più di cinquanta
le filiali e più di centocinquanta i centri di assistenza in giro nel mondo),
ma in particolare spinge l’accelerazione sull’internazionalizzazione e
sulla diversificazione dei prodotti anche grazie a un esclusivo design
Made in Italy. Oggi, a livello di Gruppo, il 40 per cento di fatturato viene
generato oltre il mondo neve e solo il 10 per cento è fatto entro i confini
nazionali.
Il traffico congestionato delle metropoli urbane ha infatti trasformato
il trasporto a fune in utile mezzo per gli spostamenti dei cittadini e nelle
zone più turistiche sta facendo scoprire luoghi magici visti da una nuova
prospettiva. Gli esempi più lampanti si trovano in Asia: dalla Cina alla
Corea, dal Vietnam all’India. Nella città portuale di Sacheon in Corea del
Sud, famosa per le sue acque cristalline e per il fascino della natura,
Leitner Ropeways ha realizzato una cabinovia che, all’interno del parco
nazionale di Hallyeohaesang, porta i viaggiatori sul monte Gaksan, e da
qui fino sull’isola Choyang, offrendo, con un sorvolo del mare di 823
metri, panorami mozzafiato lungo tutto il percorso. E attraverso la
consociata francese Poma a Santo Domingo è stata realizzata la prima
funivia urbana dei Caraibi, che punta a snellire i cinque chilometri di
traffico urbano, collegando il centro della città alla periferia nordorientale. Dice Anton Seeber, da sempre sensibile allo spirito di
responsabilità sociale: «La cabinovia, permettendo un collegamento più
veloce tra l’hinterland e il centro cittadino, ha anche un valore civico,
perché contribuisce a ridurre l’isolamento della periferia, così come già
avvenuto a Medellin e Città del Messico». Continua ovviamente anche la
tradizionale attività montana, che ha visto il Gruppo protagonista come
partner tecnico ai Mondiali di Are e Seefeld nel 2019, a quelli di Cortina
nel 2023 e alle Olimpiadi invernali di Pechino nel 2022.
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Anni, dicevamo, da incorniciare, e un futuro che promette ancora
meglio: la prima trifune in Scandinavia a Voss in Norvegia; il
collegamento in Cina a Zuhai; la sesta linea di funivia urbana di
Medellin; l’avvio dei lavori per l’Alpine Crossing che ai piedi del
Cervino connetterà Svizzera e Italia. «Siamo orgogliosi di questo
risultato», afferma Anton Seeber, «e mi piace sottolineare che, oltre al
fatturato, ci sono altri fattori che fotografano lo stato di salute e la
crescita sostenibile di un’azienda, come gli investimenti effettuati sul
fronte della ricerca e sviluppo e dei beni strumentali (circa 50 milioni di
euro in un anno), così come l’incremento dei nostri collaboratori (che
raggiungono il numero di 3900) e degli stabilimenti». Un Gruppo molto
coeso, con un management ambizioso ma con i piedi molto per terra,
come si confà a una radice montanara. Le parole d’ordine che ispirano
l’agire quotidiano e la cultura organizzativa sono spirito innovativo,
diversificazione e internazionalizzazione. E per il futuro l’amministratore
delegato aggiunge la modernizzazione tecnologica: «Non rimaniamo mai
fermi e guardiamo sempre avanti. Da una parte il crescente numero di
impianti urbani che ci vedono direttamente coinvolti nella gestione (New
York, Cairo, Pisa, Algeri), dall’altra il tema della digitalizzazione che
risulta ormai di strettissima attualità; negli ultimi anni abbiamo
sviluppato software per funivie, battipista e innevamento programmato
che, proprio per i vantaggi che portano agli esercenti, stanno riscuotendo
grande successo».
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18 Le scommesse delle acquisizioni oltre
confine
Jarraff, Vipiteno (Bolzano)
A 950 metri sul livello del mare, nel cuore delle Dolomiti, a due passi dal
Brennero ci si aspetterebbe più un paese turistico gettonato per la neve
d’inverno e per le escursioni alpinistiche d’estate. Pochi invece sanno
che Vipiteno è il centro di una concentrazione industriale di richiamo
mondiale, il Gruppo Leitner HTI (High Technology Industries), che dà
lavoro a livello globale a più di 3900 lavoratori e fattura annualmente più
di un miliardo di euro. Il Gruppo, capitanato da Anton Seeber, classe
1973, protagonista del recente sviluppo della azienda che è presente non
solo negli impianti e cabine per gli sport invernali, ma anche nel business
delle attrezzature off-road e nell’energia eolica, si è recentemente
ampliato oltreoceano portando nella sua orbita il 100 per cento
dell’americana Jarraff Industries di St. Peter nel Minnesota, con un giro
d’affari di oltre 60 milioni di euro.
L’altoatesino presidente Seeber conduce oggi una storia che viene da
lontano: un’impresa fondata nel 1888 in una officina per macchine
agricole e teleferiche che nel secolo successivo, grazie anche al padre
Michael Seeber, imprenditore locale dell’edilizia e dell’immobiliare, è
diventata prima leader mondiale nel settore degli impianti a fune (Leitner
Ropeways, Poma e Agudio), poi dei battipista e veicoli cingolati
(Primoth), dell’innevamento programmato (Demaclenko) e delle pale
eoliche (Leitwind). Un perimetro che si è allargato negli ultimi dieci anni
(il periodo della leadership del giovane Seeber) includendo anche le
cabinovie nelle zone più turistiche del pianeta (Asia, Caraibi, Messico,
Santo Domingo, e così via). Un’azienda con più di 50 filiali in tutto il
globo e con una rete di vendita e di assistenza su più di 150 sedi nei
cinque continenti.
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È stata proprio la Primoth che, durante i mesi della pandemia, ha
messo nel mirino la Jarraff, boccone importante nella strategia di
rafforzamento degli investimenti e nella voglia di crescere del Gruppo
HTI. I prodotti erano i grandi veicoli per la manutenzione di alberi e
piante in aree delicate, quali linee ferroviarie, montagne, terreni paludosi,
particolari centri urbani. Macchine che operano in condizioni estreme e
comunque attrezzature offroad che lavorano con tecnologie green.
Macchine telescopiche, spesso condotte in remoto, che rappresentano un
ulteriore tassello nella volontà di HTI e Leitner di proseguire nella
diversificazione e innovazione in un business sempre più globale. E
infatti Jarraff Industries insiste su mercati prevalentemente USA, ma non
disdegnando quote geografiche anche in Australia, Asia e Europa. Oggi
Jarraff con i suoi trimmer telescopici e i decespugliatori completa la
linea di prodotti della Primoth (come le teste tranciatrici idrauliche o i
veicoli cingolati) e insieme ai marchi altoatesini rappresenta una offerta
unica al mondo nella cura del verde attraverso macchinari
all’avanguardia.
La trattativa del 100 per cento delle azioni di Jarraff è stata conclusa
alla fine dell’estate 2021, dimostrando che anche le imprese italiane
sanno fare rilevanti acquisizioni all’estero e che la vivace attività di
compravendita oltre confine da parte del capitale domestico può
riequilibrare l’altrettanto intensa attività di gruppi stranieri interessati alle
aziende italiane. A capo del Gruppo acquisito è stato nominato
Alessandro Ferrari, già CEO con successo dal 2016 della filiale
nordamericana di Primoth, che ha quindi sostituito Heidi Boyum,
precedente vicepresident, che continuerà a lavorare nel perimetro Leitner
come consulente strategico.
Jarraff è un’azienda in cui si ritrova la stessa cultura organizzativa del
colosso di Vipiteno: proprietà a conduzione familiare, valori di dedizione
e sostenibilità, spinta all’innovazione. «Si integra perfettamente nella
grande famiglia HTI», afferma Seeber. Una grande acquisizione
nazionale, dunque, in un comparto dove i competitor, tutti stranieri, si
contano sulle dita di una mano e da parte di un’azienda con una relazione
quasi simbiotica con il proprio territorio e con una forte impronta di
Made in Italy.
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19 Quando le imprese incrociano il mito
Carrera Jeans, Caldiero (Verona)
Si stenta quasi a credere che l’azienda che oggi detiene la maggiore
quota di mercato nazionale in un settore sia nata quasi per caso. Eppure è
così che avvenne. Quasi sessant’anni fa a Lugo di Grezzana, nell’operosa
provincia veronese, un sacerdote andò dalla signora Tacchella, mamma
di tre figli maschi, per chiedere che uno di questi fosse indirizzato al
mestiere del sarto. Il destino cadde su Imerio che, ancora molto giovane,
cominciò a farsi le ossa con la macchina da cucire e a mettere insieme
brandelli di stoffa. Quando Imerio compì ventun anni, grazie anche alla
sua passione per l’industrializzazione del prodotto, decise di fondare con
gli altri due fratelli, Tito e Domenico, la prima impresa Tacchella,
inizialmente rivolta a fabbricare prodotti di abbigliamento per adulti e
bambini per conto terzi.
La fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta vedono in Italia
emergere la contestazione studentesca e, con questa, il mutamento del
vestire dei giovani e del loro stile di vita. Via gli abiti formali dagli
armadi e grande diffusione ai jeans, icona dell’abbigliamento casual per
eccellenza, apparsi nel decennio precedente grazie alle grandi marche
americane. Il jeans esprime in maniera concreta il rifiuto da parte
soprattutto del mondo giovanile delle convenzioni sociali, rispetto alla
moda precedente che rispecchiava le differenze esistenti fra le diverse
classi sociali e i differenti ruoli sociali. I blue jeans si trasformano quasi
in un un’uniforme del mondo giovanile e divengono il simbolo per
eccellenza dell’«antimoda», della spinta egualitaria presente nelle nuove
generazioni e che unisce in un progetto ideale comune tanto gli studenti
quanto gli adulti. In quegli anni la nuova uniforme del mondo giovanile
comincia a essere prodotta anche nel nostro Paese e l’azienda Tacchella è
la prima a realizzare jeans usando tessuto denim prodotto da tessiture
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italiane. Il nome dell’impresa cambia in Carrera, brand con una
risonanza internazionale legata alle corse, alle automobili potenti, allo
sport e alla grinta; tutti attributi che secondo i fratelli Tacchella si
sposano con quanto i jeans sanno evocare.
Lo sviluppo avviene con un forte investimento produttivo e
tecnologico, che porta la Carrera Jeans a realizzare un record produttivo
europeo: un pantalone in meno di dieci minuti. Il mercato tira moltissimo
e la domanda è spesso più tumultuosa dell’offerta. Carrera approfitta di
questo momento enormemente positivo e guadagna il 10 per cento di
quota di mercato, dato che non viene mai abbandonato fino a oggi.
Vengono realizzati molti stabilimenti in diverse regioni italiane e
all’estero (Malta, Marocco, Egitto) con un’organizzazione del lavoro
assai avanzata che riesce a confezionare oltre 30.000 jeans al giorno.
Vengono introdotti per la prima volta il lavaggio sul capo finito a larga
scala e le modalità di taglio automatizzato del tessuto. L’euforia di un
mercato che sembra inarrestabile spinge anche la differenziazione di
prodotto: alla linea di pantaloni si affianca una strategia di total look con
felpe, camicie, giubbotti (tutti prodotti meno standardizzati del prodotto
originario).
Gli anni Ottanta vedono un marcato riorientamento del mercato. Da
una parte il costo della mano d’opera italiana finisce per essere un punto
di debolezza rispetto ai prodotti che provengono da nazioni con un costo
del lavoro inferiore, ma anche i grossisti (la fetta più importante della
clientela di Carrera) comincia a rivolgersi a fornitori più convenienti, in
gran parte provenienti dal Far East. La golden rule di Carrera, «alta
qualità e prezzo contenuto», non tiene più e l’azienda deve sperimentare
la lezione che normalmente si pratica in questi frangenti: una violenta
rifocalizzazione sul core business. Si entra in un tunnel di
ristrutturazione e di smembramento e vendita delle attività del segmento
alto dell’abbigliamento, che procuravano grande dispendio di risorse e di
energie. Imerio e Tito Tacchella, in quel momento al comando
dell’azienda, assumono decisioni drastiche e veloci, iniziando una
delocalizzazione delle linee di produzione nei luoghi dove si raccoglie la
materia prima. È così che nasce il primo grande sito produttivo in Centro
Asia, in Tagikistan, dove si installa una filiera totalmente verticalizzata
(dalla coltivazione del cotone al prodotto finito), minimizzando il
trasporto sia nei costi che nelle conseguenze di inquinamento. La filiera
integrata consente di avere un prodotto di qualità a un prezzo molto
conveniente, potendo limare i margini di intermediazione tra le diverse
fasi della catena. In Italia rimangono tutte le funzioni a più alto valore
80
aggiunto, dal design alla commercializzazione, dalla logistica alla
finanza.
Oggi gli stabilimenti produttivi in Asia sono due e il prodotto ha un
materiale innovativo sempre comunque legato alla fibra nobile del
cotone. Rispetto ai jeans degli anni Settanta, è più elastico, ha un filato
biodegradabile e caratteristiche di termoregolazione. Ma il campione
rimane sempre quel modello 700 che ancor oggi è il più copiato dai
concorrenti e il più distribuito sul mercato europeo.
I messaggi pubblicitari hanno attraversato le varie crisi: dal «poveri
ma belli» degli anni Settanta a «brivido blu» degli anni Ottanta a «basic
now» di fine Novecento a «superior denim» e «il bello dell’Italia» dei
giorni nostri. Accanto a questi messaggi ha avuto il suo impatto anche la
sponsorizzazione di squadre ciclistiche, con star del team ciclistico
Carrera come Claudio Chiappucci, Marco Pantani, Stephen Roche e altri
ancora. Dice Gianluca Tacchella, amministratore delegato: «Nel passato
abbiamo vinto tutto, ad eccezione della Parigi-Roubaix».
La distribuzione è stata aiutata da una rete di negozi monomarca. Si è
partiti a Stallavena (VR), nella sede storica di Carrera, come spaccio
aziendale della prima e seconda scelta, con poi il «vero» negozio a
Milano in Corso Buenos Aires per arrivare a 1300 corner sul territorio
nazionale e 40 punti vendita. Ma oggi la commercializzazione è davvero
multicanale, aggiungendo ai negozi anche l’e-commerce proprietario, le
piattaforme e-commerce, i grossisti, il dettaglio specializzato come Coin
e le catene come Pittarosso, Bricoio, Autogrill e la GDO, dove le vendite
vanno addirittura meglio che nei punti di vendita del tessile.
Con un fatturato 2022 che si avvicinerà ai 50 milioni di euro e una
popolazione lavorativa che tocca le duemila famiglie, la nuova
generazione Tacchella si interroga ora sulle prossime mosse strategiche. I
tre fondatori siedono ormai solo in consiglio di amministrazione e la
tolda di comando è in mano ai loro figli. È infatti responsabilità dei più
giovani azionisti tracciare la rotta per il jeans dei prossimi vent’anni.
Dice ancora Gianluca Tacchella: «Abbiamo il prodotto perfetto per i
tempi che stiamo vivendo. I nostri consumatori vestono sempre più in
modo smart, ma con un paio di pantaloni che è molto performante e con
alto confort. E la predisposizione dei clienti alla sostenibilità si incontra
con il jeans di nuova generazione che costa il giusto ma rende molto di
più di quello degli anni Settanta. Non a caso in Tagikistan la nostra
filiera è il primo assetto produttivo certificato in blockchain».
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20 Centauri o astronauti: il mio mestiere è il
rischio
Dainese, Molvena (Vicenza)
A tutti coloro che si stracciano le vesti per le imprese che passano al
capitale straniero bisognerebbe ricordare il caso felice di Dainese, il cui
passaggio in mani estere non ha segnato il declino dello storico marchio
vicentino, bensì ne ha rafforzato lo sviluppo e l’espansione
internazionale. Da inizio 2015 infatti l’azienda, nota per le sue tute da
motociclismo, viene ceduta alla società di investimenti Investcorp,
quotata alla Borsa del Bahrain (anche se una quota di minoranza l’ha
conservata il fondatore Lino Dainese), e da allora ha inanellato una serie
straordinaria di momenti di crescita e successi. Sarebbe errato
perimetrare la produzione di Dainese solo alle tute da motociclisti,
perché da quel prodotto iniziale del 1972 l’attenzione dell’azienda si è
evoluta lungo due direttrici: le protezioni salva vita per sciatori, ciclisti,
cavallerizzi e anche skipper velisti, e la ricerca sul corpo umano, che ha
portato tra l’altro alla progettazione delle sottotute destinate agli
astronauti impegnati nelle missioni spaziali.
Cristiano Silei, bocconiano poco più che cinquantenne, vent’anni
passati in ruoli chiave alla Ducati, è dal 2015 l’amministratore delegato
che la nuova proprietà ha messo alla testa dell’impresa di Molvena con il
compito di strutturare l’azienda, traghettandola da una cultura
organizzativa ancora abbastanza padronale a un assetto più manageriale.
Attento al team management e alle condizioni di un ambiente sfidante e
motivante, è riuscito a raggiungere risultati economici importanti
insieme alla passione e a grandi soddisfazioni in tutto l’organico che è a
costante contatto con atleti e sportivi. «Gestiamo il business con uno
sguardo al futuro e tanto orgoglio per il passato», dice Silei,
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«preservando comunque i valori dell’artigianalità di alta qualità e del
Made in Italy».
La missione di Dainese è chiara: promuovere e portare la protezione a
chi pratica sport dinamici, alle persone esposte a occasioni di pericolo. E
da qui l’opportunità di essere trasversali nelle diverse discipline. Il
successo del gioiellino vicentino arriva dalla capacità di coniugare
tecnologia e innovazione e dalla sovrapposizione di questi due elementi
che fanno nascere creativamente nuovi mercati. È proprio la ricerca
infatti il cuore dell’azienda. Così come Lino Dainese aveva negli anni
aggiunto incrementalmente nuovi prodotti e nuovi materiali agli originari
pantaloni per motocross (i paraschiena; le «saponette» per le ginocchia
per i motociclisti che sfiorano in curva l’asfalto; i sistemi di airbag per
moto e sci ecc.), oggi il team dei ricercatori investe le proprie energie in
progetti che rappresentano veri fiori all’occhiello dell’innovazione. Ecco
allora lo studio portato avanti con il MIT di Boston per una tuta spaziale
destinata ai viaggi su Marte previsti nel 2030, oppure il rapporto con
ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, per «skinsuit», una sottotuta tecnica
progettata per essere indossata all’interno della Stazione Spaziale
Internazionale e nella quale si ricrea il carico di gravità che l’essere
umano subisce sulla Terra. Per non parlare della giacca salvagente che
Dainese ha inventato per gli skipper dei catamarani volanti
dell’America’s Cup, con protezione da impatto e supporto al
galleggiamento in un’unica soluzione integrata. Tutto ciò che l’impresa
impara da queste esperienze (più di 300 brevetti registrati) si riversa poi
sull’abbigliamento per le moto e per gli sci, che rimangono ancora il core
business. «Siamo gli unici che vestono i centauri dalla testa ai piedi»,
aggiunge Silei.
Un diavoletto come marchio, reso celebre dalle meraviglie di
Valentino Rossi a cavallo della sua moto supersonica (una longeva storia
d’amore, perché Valentino la prima giacca Dainese la indossò a sette
anni) e dalle gesta dei grandi sciatori delle squadre austriaca, italiana,
canadese e statunitense. Una crescita media del 15 per cento annua negli
ultimi cinque anni con circa 1000 dipendenti nei diversi stabilimenti
italiani ed esteri e una soglia di 200 milioni di euro di fatturato.
Nel marzo 2022 Dainese viene venduta dal fondo Investcorp del
Barhain al gruppo di private equity statunitense Carlyle. Obiettivo dei
prossimi anni? Raggiungere i 500 milioni di fatturato attraverso due
convincimenti strategici: uno sviluppo nelle vendite online dei prodotti e
una continua differenziazione della gamma basata su un forte
investimento in elettronica e nuovi materiali. «Le opportunità di crescita
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sono ovunque», dice l’amministratore delegato Silei, «anche perché il
marchio è molto forte e molto amato». In Europa innanzitutto, ma non
solo, visti gli sviluppi recenti in America e in Asia.
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21 Ceramiche e Borsa
Iris Ceramica Group, Sassuolo (Modena)
Quando qualcuno lo definisce «il Cuccia della via Emilia» per le sue
incursioni finanziarie (tutte con abbondanti plusvalenze realizzate)
Romano Minozzi si risente: «Io sono un industriale della ceramica. Io
cuocio la terra. Nella finanza bisogna essere distaccati, mentre la
ceramica è industria pesante. Bisogna buttarci il cuore». E in effetti, se si
approfondisce la storia di questo imprenditore ultraottantenne, le sue
radici vengono non dal capitalismo immateriale ma da quel mondo
sobrio e reale che è stata la manifattura del boom economico italiano,
dove niente era impossibile per i pionieri dotati di intuizione e di
coraggio.
Minozzi nasce nel 1935 a Castelnuovo Reggiano, il «paese dei maiali»
perché lì si trasforma la carne suina, da un padre contadino che lavorava
la terra sull’argine del torrente Tiepido. Una casa dove durante la guerra
passavano repubblichini e partigiani e spesso, al termine del loro
passaggio, veniva svuotata anche la dispensa. Episodi che segnano il
piccolo Romano, che impara a lottare per garantirsi la sopravvivenza. La
terra è dannatamente bassa per lui e altrettanto faticosa per farla rendere.
Meglio quindi studiare, fino a ottenere la laurea in Economia all’ateneo
di Bologna. Una breve esperienza, non troppo motivante, alla Banca
Commerciale di Modena («però lì ho imparato a “giocare in borsa” con
alterna fortuna quando alle 18.00 scendevamo nel borsino») e poi il salto
negli affari subito da presidente. Consigliato da uno zio che lavorava in
una ceramica locale, scopre che a Sassuolo – il distretto della piastrella,
mai più abbandonato, neanche alla fine degli anni Ottanta quando era di
moda la delocalizzazione produttiva all’estero – è in vendita una piccola
azienda, schiacciata dai debiti. Il giovane Minozzi lancia il cappello oltre
l’ostacolo e si fa prestare da Mediobanca 300 milioni di lire per pagare i
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fornitori, iniziando la sua avventura imprenditoriale. È il 1961. Parte la
sfida. Cinquanta dipendenti, due stabilimenti e quasi un miliardo di
debiti. Ma soprattutto una forte intuizione: non solo piastrelle per
rivestimenti per bagni e cucine, ma mattonelle grandi da pavimento di
grande resistenza. Di fatto la bussola è quella dell’innovazione, che
ancora oggi rappresenta la missione aziendale: ripensare continuamente
il concetto di prodotto con ingenti investimenti in ricerca e sviluppo
tecnologico.
Minozzi cambia il nome dell’azienda acquisita in Iris, «un nome
facile… l’arcobaleno, la dea greca dell’iride», e via, in una continua
crescita con novità nei materiali, nei colori e nei processi produttivi, che
permettono all’impresa di scavallare le numerose crisi legate alle
recessioni dell’edilizia con una continua espansione all’estero sotto una
rigorosa condizione di autonomia finanziaria. Lo sviluppo avviene
attraverso moltissime acquisizioni: prima Graniti Fiandre, Ariostea, la
miniera Maffei, Techokolla, Technomix e piano piano fino ad arrivare a
45 stabilimenti in Italia e all’estero. Il tutto sempre con una tensione
verso l’eccellenza produttiva (la fabbrica 4.0 viene completata molto
prima che diventasse una best practice del distretto) e la sostenibilità
ambientale (oggi gli stabilimenti italiani sono tutti a emissione zero).
A distanza di più di sessant’anni, con quasi 500 milioni di fatturato nel
2021 e un EBITDA del 17 per cento, i valori dell’azienda sono ancora
quelli ereditati dal padre di Minozzi: resistenza, eleganza, poco sfarzo,
responsabilità sociale nei confronti dei dipendenti e dei fornitori.
Nonostante il suo grande impero, Romano Minozzi è rimasto autentico.
«Mi pare di essere modesto», dice seduto su un lato del suo frattino
bolognese del Cinquecento di tre metri di lunghezza, nella palazzina di
Fiorano da dove presidia le decisioni strategiche del Gruppo insieme alla
figlia Federica, oggi amministratore delegato. Minozzi non cerca la
vetrina: manda sempre avanti i suoi manager, facendo mostra della sua
filosofia di riservatezza. Nel garage del villino alcune Ferrari, tra cui la
più affezionata è la Enzo del 2002, anno in cui in Formula 1 il cavallino
rampante vince 17 granpremi su 18. Sono il frutto del periodo in cui «il
Dottore» è stato amministratore indipendente dell’azienda di Maranello,
allora al suo ingresso in Borsa (sembra che sia stato lui a premere per la
scissione dei marchi Ferrari e Maserati), a testimonianza del fatto che,
pur essendo il patron un rilevante protagonista della Tile Valley, quello è
pur sempre il comprensorio dei motori, dove si «pistolano le macchine»
per aumentare la loro performance.
86
Quando gli si chiede come vorrebbe essere ricordato, Romano
Minozzi stringe gli occhi sorridenti: «Come un galantuomo, uno che
mantiene la parola. La mia cultura agricola mi ha insegnato che una
parola è meglio di uno scritto. Se uno mi sottopone dei protocolli, allora
guardo anche le virgole. Se invece mi dice “È così”, allora gli stringo la
mano e tutto mi va bene. La parola non si discute mai».
È sorprendente che un uomo del Novecento come lui, ora che è aiutato
nella governance aziendale dalla figlia molto competente cui ha delegato
gran parte delle attività operative del Gruppo, si possa concentrare così
efficacemente sulle compravendite finanziarie (anche se non disdegna
letture contemporanee sulla società liquida come i volumi di Zygmunt
Bauman). La passione per i titoli azionari l’ha sempre avuta, tanto che
appena ha potuto si è acquistato una bella fetta di azioni Comit al
momento della privatizzazione della banca milanese; ma è solo negli
ultimi vent’anni che il passatempo è diventato un pezzo rilevante della
gestione del patrimonio familiare e aziendale. L’incursione
nell’azionariato di ENI ha fruttato una consistente plusvalenza («col
disinvestimento ci siamo comprati un elicottero, che ci consente di
visitare più velocemente stabilimenti e punti di vendita») e lo stesso è
avvenuto con il vai-e-vieni in Terna, dove tra il 2011 e il 2013 ha
accumulato quasi il 6 per cento del capitale, vendendo poi al mercato a
circa 360 milioni di euro, con un margine di 110 milioni. Più recente è
l’ingresso in SNAM, dove oggi Minozzi è secondo azionista con il 7 per
cento, dietro lo Stato, con un investimento che vale quanto tutto il
patrimonio netto del polo modenese di Iris Ceramica. E a ciò si
aggiungono i pacchetti di Generali, UnipolSai, Ferrari, Banco Santader,
AT&T, Gazprom, BPER.
Un vero re Mida che trasforma in oro ciò che tocca. E per gli amanti
delle leggende e per chi crede nel tocco magico dell’antesignano
Minozzi diciamo che nel mirino del Dottore c’è oggi il segmento delle
energie rinnovabili. Un’attenzione particolare per le reti e per le
infrastrutture di energia? «Certo, ciò risale indietro, agli anni Settanta,
quando adoperavamo il gasolio molto caro e due funzionari della SNAM
portarono il metanodotto fino a Sassuolo, consentendoci di risparmiare
un sacco di punti percentuali sul costo di produzione. Il futuro è nelle
nuove forme di energia.»
Quindi l’hobby del patron della Iris, oggi presidente sempre meno
operativo, sarebbe il trading finanziario, focalizzato su una continua
supervisione del price/earning del suo pacchetto di azioni? «Non
scherziamo, nemmeno per sogno! Il mio hobby sono questi otto setter
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inglesi. Il fine settimana me ne vado con loro sulle colline del Reggiano
(è quello l’appennino più bello, con la terra rossa più pregiata!) a fare
delle salutari passeggiate. E camminando, camminando… chi cerca
trova…».
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22 La nutrizione tra bontà e responsabilità
sociale
Rigoni, Asiago (Vicenza)
Come una fotografia d’epoca che imprime nella nostra mente lo spirito
dei tempi andati. Quell’atmosfera autentica di attenzione per la natura e
di attaccamento a un territorio che tanto ha dato e che altrettanto deve
essere risarcito di dividendi sociali. Ma i contorni non si sono sbiaditi
negli anni, anzi. Si sono colorati con tinte nuove e modernizzazione,
diventando una realtà altamente contemporanea. L’immagine della
Rigoni di Asiago è questa, azienda del settore alimentare ormai
riconosciuta a livello internazionale. Una felice sintesi fra tradizione e
innovazione, con un forte rispetto della cultura della comunità locale
accanto a una propulsione nel futuro dal punto di vista tecnologico e
biologico.
Questa prospettiva, tra l’etica, l’economia e il sociale, è testimoniata
da Andrea Rigoni: «I nostri 120 dipendenti sono consapevoli che stanno
facendo qualcosa di buono e di bello per loro stessi, per l’azienda e per
l’ambiente circostante».
La Rigoni nasce negli anni Venti del secolo scorso quando, su un
altopiano ancor oggi complicato logisticamente dall’operare in alta
quota, la nonna Elisa Antonini, con lungimirante energia trasforma la sua
attività di apicultrice in una vera e propria impresa che coinvolge tutta la
famiglia. Con un’impronta tipicamente famigliare, la gamma dei prodotti
si amplia per tutto il Novecento. Si inizia con il miele, protagonista e
capostipite del fatturato con varietà monofloreale (Mielbio). Poi esplode
la marmellata Fiordifrutta che nel 2006 diventerà addirittura leader di
mercato in Italia con 26 varietà (dati Nielsen). Si inserisce poi
Nocciolata, crema di cacao e nocciola, prodotto preferito dalle giovani
generazioni. Successivamente si affiancano il dolcificante naturale
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Dolcedì, estratto dalle mele, e l’integratore DolceHerbe, a base di mele
ed echinacea. Poi è il turno delle bevande di frutta spremuta a freddo
Tantifrutti. E, ultima nata, Cioccolata bianca, che va incontro alle nuove
preferenze e ai nuovi gusti dei consumatori alla ricerca di prodotti con
meno zuccheri e meno grassi.
Dal 1992 Rigoni è tra le prime aziende alimentari a sposare
l’agricoltura biologica senza aggiunta di aromi e di additivi, con
progressivo controllo della filiera produttiva. Tutte le fasi del processo
sono sottoposte a meticolose e continue verifiche, grazie anche alla
collaborazione con una serie di operatori biologici certificati, in Italia e
all’estero. Il motto aziendale dei nipoti di nonna Elisa diventa «nutrire in
modo sano senza rinunciare alla bontà». E il processo diventa sostenibile
in modo che tutti i prodotti siano bilanciati in fatto di nutrizione e gusto.
La tecnologia sofisticata e automatizzata è accompagnata da una cura
davvero artigianale. Ogni anno si lavorano oltre 4500 tonnellate di frutta,
prevalentemente nello stabilimento di Foza (sempre sull’altopiano di
Asiago), che vanno poi al centro logistico di Albaredo d’Adige presso
Verona, dove tutto il prodotto finito viene immagazzinato prima di
prendere destinazione verso l’Italia, la Francia, la Germania, i Paesi
Bassi e gli USA.
Con un fatturato 2021 che si avvicina ai 150 milioni di euro,
pronosticato in crescita nel 2022, la Rigoni si colloca tra le aziende
alimentari medie italiane più performanti, con una visione prospettica di
ulteriore internazionalizzazione. «Il prossimo futuro vedrà uno sviluppo
sempre più mirato all’estero, con una distribuzione più capillare e un
incremento della notorietà. Tutto ciò però senza mai tradire i valori della
qualità e della sostenibilità che da sempre contraddistinguono il nostro
marchio», afferma Andrea Rigoni. «Il nostro obiettivo è quello di
diventare sempre più l’azienda di fiducia di milioni di consumatori, ai
quali vogliamo offrire non solo dei prodotti, ma anche una storia e dei
valori in cui ci riconosciamo.»
E per sostenere le nuove iniziative commerciali e di marketing nei
nuovi Paesi la compagine societaria di Rigoni si è recentemente aperta a
un partner finanziario, il fondo Khoris Capital, che ha conoscenza dei
mercati consumer e in particolare del settore degli alimenti biologici.
L’impegno sociale non si esaurisce solo verso la comunità circostante,
attraverso il supporto alle cooperative locali, le donazioni alle casefamiglia, la sponsorizzazione di eventi in linea con la filosofia aziendale.
Negli ultimi anni Rigoni ha partecipato al processo di manutenzione e
valorizzazione del patrimonio artistico italiano con il restauro della
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chiesa rupestre di San Giovanni in Monterrone a Matera e dell’atrio dei
Gesuiti del Palazzo di Brera a Milano, e con il recupero della statua di
San Teodoro del Palazzo Ducale di Venezia. «Fare impresa», sostiene
ancora l’amministratore delegato, «significa avere una visione più ampia.
Ci sono aspetti come l’arte e la cultura che un’industria illuminata deve
fare propri». Quasi che la cultura rappresenti una specie di materia prima
che va incorporata nel processo di innovazione.
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23 Quando l’imprenditore di successo si
offre alla società
Brianza Plastica, Besana in Brianza (Monza e
Brianza)
Quando si dice «uno che si è fatto tutto da sé». Una vita ricca, quella di
Giuseppe Crippa, «Peppino», come è conosciuto a Besana Brianza. Una
storia esemplare, tutta da raccontare. E non solo per la dimensione
imprenditoriale, pur essendo questa un’esperienza straordinaria e di
grande successo. Perché Giuseppe Crippa è stato anche soldato, politico,
amministratore di istituzioni pubbliche e presidente di società sportive,
sempre con grande spirito di servizio e maniacale attenzione
all’economicità.
Ma andiamo con ordine. Peppino nasce a Besana Brianza nel 1934 da
padre autista e madre casalinga, in una famiglia numerosa di otto figli, in
cui si fa l’impossibile per risparmiare la fame alla prole senza perdere
mai la speranza del futuro. Anzi, destreggiandosi sotto le bombe e la
contraerea della seconda guerra mondiale, combattendo con tenacia le
piccole battaglie quotidiane per conquistare ogni singolo barlume di
felicità. Peppino inizia a lavorare nella Manifattura Corti, impresa della
famiglia dello scrittore Eugenio Corti, che per un po’ è anche il suo capo
nella contabilità, il cui imprinting di cultura e sobrietà rimarrà impresso
su tutta la sua carriera. «La fabbrica Corti è stata la mia adolescenza e la
mia maturità», scrive lo stesso Crippa nell’autobiografia Partita doppia,
volume redatto con la collaborazione della giornalista Chiara Gatti.
Mentre lavora, frequenta la scuola serale a Monza, sobbarcandosi un
lungo tragitto quotidiano con i mezzi. Ma lo spirito di sacrificio e la dura
volontà certo non gli mancano e si diploma in Ragioneria, in tre anni con
ottimi voti. Per altri tre anni, sempre lavorando di giorno e sfruttando
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ogni attimo di fuori orario, si iscrive a Economia all’Università Cattolica,
percorso di studi che però lascia per il servizio militare che, come
ufficiale carrista, lo porta a Pordenone, dove conoscerà sua moglie Elide
(che darà poi il nome a gran parte dei prodotti della sua azienda:
Elyplast, Elycop, Elycold, e così via). Dopo un breve periodo di lavoro
con lo zio in un’azienda di coperture impermeabili, si mette in proprio e
nel 1962 fonda il suo gioiello, la Brianza Plastica di Carate Brianza, per
la produzione di laminati traslucidi in vetroresina destinati ai settori
industriale, agricolo ed edilizio. «Oggi sembra impossibile; in Italia si
respirava ovunque entusiasmo», ricorda Crippa, «tutti avevano urgenza
di tutto ed era corroborante contribuire alla rinascita del Paese. E noi,
nell’azienda, eravamo ambiziosi, idealisti, spericolati».
Negli anni Ottanta l’azienda entra anche nel comparto del
termoisolamento di tetti e pareti per il settore dell’edilizia residenziale e
industriale e nel 1984 nasce il sistema ISOTEC®, innovativo pannello
termoisolante sottotegola in poliuretano. Nel frattempo cresce il numero
degli stabilimenti: oltre a Carate, viene costruito il sito produttivo di
Ferrandina in Basilicata e poi sorgono i due stabilimenti di Rovigo e
Ostellato (in provincia di Ferrara) per la produzione di laminati in
vetroresina con caratteristiche di finitura e resistenza particolari. A causa
della crisi finanziaria mondiale del 2007 ci si interroga su qualcosa di
diverso e Peppino Crippa, grazie a un continuo e intenso investimento in
ricerca e sviluppo, lancia nel 2014 una nuova linea di laminati in
vetroresina per camion frigo e per veicoli ricreativi come camper,
caravan e motorhome.
Il monte clienti si sviluppa in modo crescente in tutto il mondo, in
particolare oltreoceano, compresi gli USA, dove Brianza Plastica
costituisce la società di distribuzione Brianza Plastica Corporation, che si
aggiunge all’esistente Plasti Bat per l’Europa.
Oggi, con circa 300 dipendenti, il Gruppo si avvia a un fatturato annuo
complessivo di circa 100 milioni di euro, di cui circa l’80 per cento
realizzato all’estero. Innovazione tecnologica e alta qualità sono i valori
che contraddistinguono i prodotti di Brianza Plastica e che la
mantengono in continua evoluzione, riuscendo a dare al mercato una
perfetta adattabilità alle differenti richieste specifiche, nel rispetto delle
direttive europee della certificazione energetica.
Tutto ciò ha reso Peppino Crippa un personaggio di spicco nel mondo
imprenditoriale lombardo, consentendogli di creare una struttura
manageriale; accanto a lui, i tre figli, Paolo, Cristina e Alberto, che
hanno assorbito e metabolizzato la cultura aziendale del padre. Ma, come
93
dicevamo, la storia di Crippa non si ferma entro i confini della Brianza
Plastica. Pur non essendo ideologicamente schierato, opera con spirito
costruttivo e di servizio per il bene del Comune di Besana Brianza, tanto
da essere eletto sindaco per due mandati, nonché presidente del locale
ospedale e della RSA Giuseppina Scola e, infine, presidente del circolo
del golf di Carimate. Tutti contesti in cui Crippa replica la regola della
«partita doppia», mantra che lo segue nella vita come condizione di
indipendenza e di produzione di valore economico e sociale. «Partita
doppia» come il titolo del libro che fa il punto sulla sua lunga vita
pubblica e privata. Libro in cui vi è una dedica iniziale ai figli e ai sei
nipoti, che è più di un messaggio di incoraggiamento: «Per continuare a
lavorare in armonia per Brianza Plastica serve rispetto reciproco nel
confronto delle idee e nella collegialità delle decisioni. E l’ingrediente
del sacrificio, come punto di partenza di ogni possibile e futuro
successo». Un bel ricordo e una testimonianza di forte etica
professionale e civile.
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24 Il contributo della porta alla bellezza nel
mondo
Lualdi, Marcallo con Casone (Milano)
Definire la Lualdi un’azienda che produce porte sarebbe riduttivo. Anche
perché, quando si parla di porte ambasciatrici del gusto italiano, il
prodotto è molto di più di un accessorio. Per rimanere nel campo del
design, come diceva l’architetto tedesco Mies van der Rohe, «il diavolo
si nasconde nei dettagli». E oggigiorno nelle case eleganti, negli edifici e
negli uffici progettati con stile, la porta è un elemento simbolico, molto
più che un semplice transito tra un ambiente e un altro. Non è solo un
costrutto di chiusura, di filtro, di barriera, ma è anche oggetto di
connessione. Oggi la porta è un componente intelligente del nostro
abitare, una specie di oggetto del desiderio pensato per mettere in
comunicazione spazi e persone. Ha una sua finalità legata a un mondo di
particolari tecnici (i meccanismi di chiusura, i serramenti, le superfici, i
colori) ma è altresì densa di significati estetici.
In Italia si producono dai quattro ai cinque milioni di porte all’anno,
ma c’è un segmento di alto livello dove i prodotti vengono personalizzati
su misura attorno a un progetto (un palazzo residenziale, un edificio
pubblico, un’istituzione culturale, un’università, un albergo ecc.) e
questo segmento – chiamato in gergo contract – rappresenta la parte più
creativa della produzione di qualità, che contraddistingue in tutto il
mondo il Made in Italy.
Lualdi produce ogni anno una piccola quantità di questo volume che si
colloca nella fascia elevata della gamma. L’azienda coniuga la sua
storica qualità artigianale e manufatturiera con gli aspetti più evoluti
dell’attività industriale. Grazie a un’elevata flessibilità produttiva di
derivazione tecnologica, l’impresa milanese riesce a essere competitiva
anche su commesse di piccole dimensioni con un’elevata cura della
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qualità e del design, e con prezzi accessibili a una discreta fascia di
clientela. È la ricetta che normalmente si ritrova nella moda e
nell’arredamento, che in questo caso è stata sviluppata nell’arco di più di
un secolo.
L’azienda Lualdi nasce nel 1860 quando Carlo Lualdi crea a Marcallo,
in provincia di Milano, una falegnameria artigianale per la produzione di
arredi su misura. Lo sviluppo ad alto contenuto di stile avviene negli
anni Cinquanta e Sessanta, grazie a un’intensa collaborazione con alcuni
grandi architetti milanesi. I rapporti fecondi di innovazione nel concetto
della porta nascono con Vico Magistretti, Gae Aulenti, Ignazio Gardella,
Marco Zanuso e altri. Ma il rapporto che si consoliderà nel tempo e che
porterà alla svolta industriale dell’azienda è quello con Luigi Caccia
Dominioni, che nel 1962 firma la LCD62 (Lualdi Caccia Dominioni),
una porta ancora attualissima e uno dei modelli iconici dell’attuale
catalogo dell’impresa. Caccia Dominioni stava progettando in quei
giorni l’architettura e l’arredamento della villa milanese di Leopoldo
Pirelli e ideò per quella committenza serramenti, chiusure, superfici e
colori di assoluta novità, facendo conoscere il marchio Lualdi presso
un’importante cerchia di clienti.
Tra il 1990 e il 2020 la Lualdi compie il processo di
internazionalizzazione nel Regno Unito e negli USA, sempre in
collaborazione con architetti di fama. Le firme sono quelle di Norman
Foster, Robert Stern, Piero Lissoni, David Rockwell, Philippe Starck e
l’azienda introduce le sue porte e i suoi sistemi divisori in alcuni edifici
di grande immagine urbanistica, come la Torre PWC, le residenze di
Citylife e l’Hotel Bulgari a Milano, la Qatar Foundation e il Park Hyatt
Hotel a Doha, gli alberghi SLS e le Armani Residences a Miami, l’Hotel
Edition a Time Square e l’One Thousand Museum disegnato da Zaha
Hadid a New York e molti altri.
Oggi il marchio si estende globalmente. Oltre al continente a stelle a
strisce (dove l’azienda è presente con una filiale) si sono affiancati
mercati strategici come la Cina, l’Africa (primariamente la Nigeria) o il
Medio Oriente. Su un fatturato di circa 20 milioni di euro nel 2021,
prodotto da più di 90 dipendenti, l’export rappresentava il 65 per cento.
Milano, capitale nel mondo del design, è la città di elezione di Lualdi,
luogo dove si sperimentano anche le più innovative soluzioni di
suddivisione di ambienti. Le porte Lualdi hanno una fortissima identità e
riconoscibilità e sono oggetto continuo di perfezionamento dei dettagli,
con nuove finiture e nuove cromie (dalla lacca in poliestere della LCD
c’è stata una continua ricerca di novità: dai vetri colorati ai legni con
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effetto tridimensionale, dalle resine fino ai materiali eco-compatibili) che
si possono vedere negli showroom di Milano, New York, Miami e, a
breve, Los Angeles.
«Tutto viene progettato e assemblato in Italia», dice Alberto Lualdi,
amministratore delegato e rappresentante della quarta generazione in
azienda. «La nostra è una fabbrica a ciclo integrato, all’interno del quale
viene gestito l’intero iter produttivo, con tempi di realizzazione uguali
sia per la porta su misura che per quella standard.» Oggi la quinta
generazione è pronta per proseguire la tradizione dell’azienda e ad
accompagnare il percorso verso la «porta del futuro», verso un prodotto
creativo e «colto», sempre più integrato con elementi dinamici ed
evolutivi, che renderanno i sistemi divisori meno fissi e rigidi rispetto a
quelli di oggi. Come sarà la porta della prossima era? Pierluigi Lualdi
racconta il suo sogno: «Nel futuro ci piacerebbe pensare a una porta con
un elevatissimo contenuto estetico, che possa essere percepito dal
mercato come un vero contenuto di arte».
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25 La nicchia corre su due ruote
Santini Cycling Wear, Bergamo
Intorno a Bergamo c’è molto da pedalare. Le discese ardite e le risalite,
come diceva Lucio Battisti, fanno sì che nell’hinterland del capoluogo
orobico ci sia una radicata passione per la bicicletta. E proprio lì, a
Lallio, nasce più di cinquant’anni fa quella che sarebbe diventata
l’attuale Santini Cycling Wear, azienda leader mondiale nella produzione
di abbigliamento sportivo di alta qualità per ciclisti amatoriali e
professionisti, nelle varie declinazioni di questo sport, su strada e non,
fino al triathlon.
Nel 1965 Pietro Santini ha l’intuizione di combinare l’attività
manifatturiera di famiglia (produzione artigiana di maglie conto terzi)
con la grande passione per il ciclismo e la competizione. Amico di Felice
Gimondi e di altri campioni che si allenano con lui in quelle valli, riceve
sempre più ripetutamente la domanda: «Ma tu che fai le maglie, perché
non le fabbrichi per il mio team?». Sono gli anni delle gare in bicicletta
assistite dagli altoparlanti sulle automobili. E l’attrezzatura non è molto
diversa da quella che indossavano Coppi e Bartali negli anni Cinquanta.
Santini decide di declinare le fasi del suo sviluppo tessile applicandole
allo sport delle due ruote. Gli anni Settanta e Ottanta rappresentano la
sostituzione della lana con le fibre sintetiche (la lana era infatti
complicata da lavorare, non igienica e poteva essere concepita
prevalentemente in tinta unita, senza innesti orizzontali o verticali di
fantasia). Le decadi successive vedono rivoluzionare i processi
produttivi: i tempi e i metodi si velocizzano, a tutto beneficio dei costi di
lavorazione e della qualità totale. Ma arriva anche la sponsorizzazione, e
con essa le richieste di colori, grafiche e loghi difficili da realizzare a
mano. Nell’azienda Santini i colori dei tessuti cominciano ad accendersi
e i bottoni vengono sostituiti con le prime zip. Nuove fibre e
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nanotecnologie consentono capi con proprietà antiallergiche, anti UV,
con pantaloncini e maglie più caldi per l’inverno e più freschi per
l’estate. Le maglie Santini si fanno più traspiranti e performanti, con un
valore aggiunto di vestibilità aerodinamica. È il successo del marchio,
che permette all’impresa bergamasca di contrattualizzare nella sua «hall
of fame» grandi sportivi che indossano quella maglia nei momenti
migliori della loro carriera (tra gli altri, gli italiani Bugno, Cipollini,
Pantani, Basso).
Alla soglia del 2000 il fondatore viene affiancato dalle due figlie,
Monica e Paola, ambedue con una precedente esperienza professionale
fuori dall’Italia. Con le loro energie e il loro know-how innovativo, la
seconda generazione sbarca all’estero (oggi Santini realizza fuori dai
confini nazionali l’80 per cento del fatturato, in circa 80 Paesi) e
consolida la missione di aiutare gli appassionati di ciclismo a vivere la
loro passione con il massimo di comfort e senza rinunciare allo stile. Si
investe in comunicazione e in ricerca di materiali originali: con le più
avanzate tecnologie si arriva a produrre più di tremila articoli al giorno.
Dice Monica Santini, CEO di Santini Cycling Wear: «Il nostro obiettivo
è quello di creare capi che vestano come una seconda pelle. È questa la
nostra promessa».
Con l’esplosione del «ciclismo in rosa», particolarmente attento a un
prodotto comodo e basato sul design, e recentemente delle bici elettriche,
che stanno aprendo un mondo che prima si dischiudeva solo agli sportivi
molto allenati, la crescita negli ultimi anni viaggia senza oscillazioni
intorno al 6 per cento. «Si pedala in modo costante» e il fatturato
raggiunge i 30 milioni di euro, con 100 dipendenti, di cui il 90 per cento
donne, e altri cento collaboratori nell’indotto. È curioso che in un mondo
prevalentemente maschile, la governance e le risorse umane siano quasi
tutte femminili. «È un grande vantaggio per noi. Perché i punti di forza
in questo mercato di nicchia sono le capacità e l’esperienza. Noi
vendiamo quattro caratteristiche: fit, performance, comfort e durability.
E su queste non esistono differenze di genere che contino», continua
l’amministratrice delegata.
Nel frattempo l’azienda sponsorizza la nazionale slovacca e quella
australiana, è partner tecnico di molti team professionistici e patrocina i
campionati del mondo UCI, La Vuelta spagnola, il Deutschland Tour e il
Tour de Suisse, dopo essere stato partner per oltre vent’anni del Giro
d’Italia. Il tutto con un prodotto Made in Italy, con gli atleti e per gli
atleti.
99
26 La strategia di aggregazione
Applied, San Lazzaro di Savena (Bologna)
Ci sono alcune strategie aziendali che possono essere definite di
«aggregazione». Capita quando l’imprenditore acquisisce attività
variegate cercando di ottimizzare tutte le possibili sinergie integrandole
in una capogruppo e in un comune quartier generale.
Luca Molducci, bolognese, classe 1972, è sicuramente un aggregatore.
Dopo una prima esperienza in finanza, avvia presto una sua attività
imprenditoriale, fondando nel 1998 la HST (High Software Technology),
società di sviluppo web e applicazioni, in grado di interfacciarsi con i
sistemi core delle aziende clienti. Il campo di attività è la consulenza tra
la comunicazione, il marketing e l’informatica, anticipando la tendenza,
che le imprese avrebbero poi prepotentemente avuto nel XXI secolo, di
spostarsi verso un mondo sempre più digitale. L’approccio non è così
scontato: si studiano i clienti e il loro benchmarking, si interroga la rete,
si analizzano i dati, si predispongono nuovi target e si colgono tutte le
opportunità non ancora sfruttate legate a un nuovo stile di
informatizzazione aziendale. Da lì l’intento strategico di Molducci non si
è più fermato. Acquisisce una serie di piccole società di professionisti,
mettendo insieme imprese e competenze che vanno dal marketing alla
cybersecurity, dalla gestione dei big data all’intelligenza artificiale, dalla
comunicazione sulla rete ai social media, dall’Internet of things alla
progettazione di Metaverso e NFT. Un processo che lo porta nel 2016 a
costituire Applied, una realtà che raccoglie la sfida della quarta
rivoluzione industriale, cui oggi fa capo un Gruppo con circa 30 milioni
di euro di fatturato e quasi 300 dipendenti, tra Bologna (quartier generale
a San Lazzaro), Verona e Chicago.
La missione di Applied è quella di accompagnare le aziende nel
percorso di digitalizzazione con l’obiettivo di abilitare nuovi modelli di
100
business basati su strategie che tengano conto del perfetto equilibrio tra
strumenti digitali, processi aziendali e persone. Viene definita un po’
pomposamente «Data Human Creative», cioè fornitore alle aziende di
una creatività multiforme che sappia coniugare marketing e informatica,
sviluppando progetti innovativi finalizzati ad accrescere visibilità e
performance delle organizzazioni verso i mercati target, di fatto
spingendo la domanda a cogliere tutte le opportunità oggi disponibili
verso paradigmi più smart e sempre più connessi, tipici del modello 4.0.
«Data human creative è il nostro approccio, che ci porta non solo ad
analizzare, ma anche a interpretare la relazione tra il marchio aziendale, i
suoi prodotti e il consumatore», spiega Molducci, CEO di Applied.
«Poniamo al centro la persona, che attraverso i suoi comportamenti va a
generare un vero e proprio processo creativo. Il dato è il petrolio del
futuro, ma non basta interrogare la rete, analizzare i dati e fare
benchmark. La vera innovazione sta nel definire un approccio innovativo
in grado di stupire ogni audience. Questo avviene attraverso un lavoro di
analisi, che pone al centro la relazione diretta con i consumatori e tutti gli
utenti con i quali entriamo in contatto.»
Ma l’offerta non si esaurisce nei soli aspetti commerciali, perché
molto si gioca anche sulle soluzioni innovative per proteggersi dalla
criminalità informatica, garantendo come nel caso del progetto a4GATE i
massimi standard di sicurezza oggi possibile. Il mercato della
cybersecurity è infatti oggi molto promettente, perché i dati del Clusit
(l’Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica) hanno rilevato che
in Italia nel 2021 si sono registrati 2049 attacchi gravi e che tutto ciò
sembra destinato a complicarsi ulteriormente, considerando l’attuale
quadro geopolitico, in cui la cyber war è diventata parte integrante delle
strategie di attacco verso i Paesi che si vogliono colpire.
Attualmente Applied opera attraverso otto società: Hotminds, Nicefall,
Talea, Stile di Bologna, Dunbar, Customix, Omega, In.Tech. Tutte queste
società sono tra di loro interdipendenti all’interno di una struttura
organizzativa che fluidifica le diverse competenze in quattro divisioni:
EMS, dove si fanno sviluppo e integrazione di ambienti applicativi e
infrastrutture tecnologiche per la gestione dei dati e dei flussi di
informazione; X.0, dove si mettono a disposizione dei clienti prodotti e
servizi pensati per la trasformazione digitale delle aziende del settore
industriale, valorizzati dalle competenze in data science e cyber security;
Interactive, dove si sviluppano il marketing e la comunicazione digitale,
oltre alla progettazione e alla realizzazione di eventi; Next, proiettata nel
futuro per fornire soluzioni che rispondano o anticipino i nuovi trend di
101
mercato (come per esempio la realtà virtuale o la realtà aumentata).
Recentemente il portafoglio di attività si è ampliato, con l’obiettivo di
applicare le innovazioni professionali non solo alle singole esigenze
aziendali, ma anche a mercati «verticali», come quello della moda, che
richiede linguaggi e modi di operare coerenti con le specifiche esigenze
del settore.
«Nel raccogliere le sfide che provengono dal mondo manufatturiero,
abbiamo consolidato il nostro posizionamento, anche internazionale,
come punto di riferimento per le imprese che intendono utilizzare le
nuove tecnologie come leva strategica per cambiare i loro modelli di
business, nell’ottica di accrescere le loro capacità competitive», dichiara
Luca Molducci. «Siamo confidenti che gli investimenti che stiamo
realizzando in termini di risorse interne e loro competenze possano
sostenere una nostra robusta crescita anche negli anni futuri.»
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27 Quando il Made in Italy è musica
Fazioli, Sacile (Pordenone)
Siamo il Paese che nel primo Settecento inventa il pianoforte moderno,
quello a 88 tasti che supera i limiti del clavicembalo. Una genialità del
padovano Bartolomeo Cristofori. Poi piano piano lo strumento italico
scompare dal mercato mondiale, dove progressivamente giocano la parte
del leone i prodotti americani, tedeschi e giapponesi. Uno per tutti lo
Steinway, marchio fondato nel 1853 a Manhattan e considerato ancor
oggi la Rolls-Royce del pianoforte. Ma intorno agli anni Ottanta Paolo
Fazioli, un ostinato ingegnere con diploma di conservatorio in
pianoforte, sesto figlio di un mobiliere, tenta l’impresa impossibile:
riconvertire l’azienda di famiglia operante nel settore del mobile di alta
gamma (la MIM, Mobili Italiani Moderni) in un’azienda di pianoforti.
Una deviazione dal destino che lo vedeva proiettato alla testa di un
settore che amava sì, ma non così profondamente. «Eravamo industriali
del legno: diciamo che la materia prima è rimasta la stessa, è solo
cambiato il prodotto finale», scherza l’imprenditore. È allora che la sede
della Fazioli viene spostata da Roma a Sacile, in provincia di Pordenone,
dove cresce l’abete rosso di Val di Fiemme, che già Stradivari usava per i
suoi leggendari violini. Da quel legno si intaglia la tavola armonica che è
il cuore pulsante dello strumento musicale e quel materiale particolare,
insieme al mix di altri legni pregiati, contribuisce alla regolarità, alla
leggerezza e all’elasticità, che sono le caratteristiche uniche del suono
dell’attuale pianoforte Fazioli.
Allora rimettere tutto in discussione sembrava una pazzia. Una
singolare scommessa alla Davide e Golia, contro i grandi colossi della
musica. E per di più senza copiare, ma alla ricerca di qualcosa che avesse
un’intensità di timbro assolutamente originale (sempre Paolo Fazioli.
«per me il pianoforte deve avere la brillantezza e la vivacità tipiche dello
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spirito italiano, pensiamo al bel canto, pensiamo alla gioia»). Negli anni
Ottanta non si usa innovare: la tradizione richiede che uno strumento
musicale come il pianoforte sia identico a quello di cinquant’anni prima.
Ma l’imprenditore è pervicace e vuole mettere in discussione i metodi
manufatturieri canonici: riunisce attorno a sé una squadra di esperti che
studiano l’acustica, i diversi tipi di legno e la complicata meccanica di
leve e martelletti. E nel 1981, dopo un anno di esperimenti, sbagli e
correzioni, esce dalla produzione un mezza coda di 183 cm. Da lì parte il
successo. Ottocento ore di lavoro per ogni strumento, un ciclo produttivo
che dura due anni, nessuna catena di montaggio perché i 22.000
componenti vengono assemblati uno a uno.
Oggi, a soli trent’anni dalla fondazione, il 95 per cento della
produzione, circa 150 pezzi all’anno in sei modelli diversi, va all’estero:
USA, Canada, Giappone, Cina, Australia e Europa. Il prezzo di listino
sfiora anche i 150.000 euro. Secondo The Economist il Fazioli è il
miglior pianoforte al mondo. Il jazzista Herbie Hancock, ovunque si
esibisca, chiede di avere il pianoforte italiano e così anche Stefano
Bollani, Angela Hewitt, Daniil Trifonov, Vladimir Ashkenazy. Aretha
Franklin e Sting si sono seduti davanti a un Fazioli in occasione
dell’International Jazz Day. Alla prestigiosa Julliard School di New
York, un Fazioli ha violato ottant’anno di monopolio tedesco.
Il collaudo di ogni prodotto prima della consegna al cliente è fatto
personalmente dall’ingegnere musicista di talento: «il pianoforte è come
un figlio e quello è il momento per capire come è nato e cresciuto».
Il fatturato è intorno ai 10 milioni, di cui una bella fetta spesa in
ricerca, perché «ci copiano molto, anche i cinesi» e l’azienda deve
restare sempre un passo avanti. I cinquanta dipendenti – veri artigiani dal
nobile mestiere – abilmente maneggiano legni e feltri senza alcuna
improvvisazione. Il DNA dell’ingegnere fondatore li ha contaminati
nello spirito cartesiano e programmatorio. E poi all’ora di pranzo tutti
sereni in mensa con il cibo e il vino, scanditi dalle note di Händel.
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28 Il prêt-à-manger in salsa pugliese
Gruppo Ladisa, Bari
È difficile immaginare che da un dramma sociale possa originarsi
l’inarrestabile ascesa di un’azienda familiare la cui storia arriva a contare
quattro generazioni. Ma quell’8 agosto 1991 segna proprio la svolta per
Domenico Ladisa. Prima di allora «Mimmo» Ladisa era il patron della
trattoria U’ Gagg, punto di riferimento della cucina casareccia barese,
quella per intenderci tutta tavoli e cottura all’aperto, basata su involtini di
carne al ragù (le «braciolette») e vino. Un’attività iniziata dal padre nel
1936 con una locanda nel cuore della città vecchia. Con «U’ Gagg»,
espressione che in dialetto pugliese indica un tipo «dritto» e cioè una
persona che si mette in evidenza per le sue capacità e il modo di fare, la
cantina d’anteguerra era diventata un vero ristorante di fronte al Castello
svevo e si era posizionata nel segmento della buona clientela locale. Ma,
come dicevamo, nell’estate del 1991 al porto della città pugliese attracca
maestosa la nave Vlora, con 20mila profughi albanesi, che si riversano
disperati sulla banchina del molo. Il più grande sbarco di migranti in
Italia su una singola nave. In poche ore il porto si trasforma in una massa
brulicante di esseri umani: tutti imploranti, piegati dal dolore, alla ricerca
di una vita migliore. In un giorno di vacanza estiva la città è impreparata
a un’emergenza di tale portata e il sindaco Dalfino e il prefetto Di Mari
implorano Domenico Ladisa di mettercela tutta per sfamare gli stranieri.
Mimmo coinvolge tutti i dipendenti, comprese le loro famiglie, e tutti
lavorano giorno e notte. Per Ladisa è una grande opportunità perché
nessun ristoratore, all’epoca, è in grado di organizzare e gestire un simile
servizio in tempi brevi. Si apre il primo centro cottura per affrontare i
soccorsi. Un impegno che verrà poi premiato, perché di lì inizia la vera
avventura della ristorazione collettiva. Da allora cominciano i primi
appalti: la prefettura, il carcere minorile di Bari e poi di Catanzaro, le
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mense per le aziende industriali del territorio, di Matera, di Chieti, di
Roma. Seguono le scuole, le università, le forze dell’ordine, la RAI, i
ministeri, le Forze Armate, le aziende private… in un’espansione che
raggiunge oggi 18 regioni italiane.
Nessuno avrebbe scommesso che, da quell’osteria del centro storico di
Bari, la Ladisa si sarebbe trasformata in un colosso della ristorazione,
che oggi conta più di 4000 dipendenti (di cui il 70 per cento donne) e
produce 22 milioni di pasti al giorno. Oggi il Gruppo, cresciuto
attraverso incrementali fusioni e acquisizioni di piccole realtà in giro per
l’Italia, è tra i primi cinque player del settore e ha in corso un tragitto
prospettico di internazionalizzazione nei mercati di Germania, Messico e
Stati Uniti. Con 19 impianti produttivi su tutto il territorio nazionale
fornisce 700 centri di distribuzione pasti.
«La qualità è la nostra parola d’ordine: nella scelta dei fornitori e dei
prodotti, nel servizio e nella soddisfazione dell’utenza», dice Vito
Ladisa, figlio di Mimmo, che insieme ai fratelli Sebastiano e Floriana
tiene le redini dell’azienda, «oltre che nel continuo investimento in
ricerca e sviluppo, dove investiamo circa il 10 per cento del fatturato».
Oggi quotata nel segmento Elite di Borsa italiana, l’azienda ha chiuso
il bilancio 2021 con un volume di affari di circa 150 milioni di euro, in
aumento del 30 per cento rispetto all’anno precedente. E, non avendo
voglia di adagiarsi sui risultati raggiunti, prevede un piano industriale
con un’ulteriore crescita verso un target ancora superiore nel 2022, con
nuove assunzioni.
Anche il portafoglio prodotti e servizi si è molto articolato. Accanto al
business tradizionale della ristorazione per collettività («non
confondiamo il nostro servizio con la mensa», sostiene l’imprenditore,
«gli altri “preparano” il pasto, noi lo “produciamo” in modo integrato
con un processo di lavorazione interna dei prodotti alimentari»), c’è il
banqueting, dove vengono quotidianamente garantiti servizi in occasione
di eventi, cerimonie e conferenze. C’è la progettazione e la realizzazione
di cucine industriali a induzione. E, più recentemente, la sfida dell’alta
ristorazione, una sfida che cerca di conciliare la quantità di massa con la
qualità di alta gamma (un prêt-à-manger tipico del Made in Italy), risolta
da Ladisa con i piatti pronti Che bontà, dove i grandi classici della cucina
mediterranea vengono preparati e conservati grazie a modernissime
tecnologie di surgelazione. Ecco allora che nei loro venti brand top class
appaiono fave e cicorie o le orecchiette alle cime di rapa della cucina
pugliese, la panissa piemontese o il timballo vegetariano di anelletti
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siciliano o, ancora, i bucatini all’amatriciana. Tutto nel rispetto delle
tradizioni gastronomiche regionali e della tutela del prodotto DOP locale.
Un business model basato sull’ottimizzazione dei processi produttivi,
che a cascata si riflette in maggiore qualità ed efficienza delle offerte
rispetto ai competitor e, in ultimo, in minori costi di ristorazione per le
imprese committenti. Un business model che si basa sul rispetto
ambientale (la cosiddetta «ristorazione green») e su un codice etico di
valori aziendali di trasparenza, correttezza e onestà, che connotano la
cultura organizzativa dei dipendenti. Un fiore all’occhiello che si sposa
anche con un’attenzione continua alla solidarietà. Non è un caso il
salvataggio, alcuni anni fa, di un’azienda pugliese in difficoltà, che ha
governato il futuro di 230 posti di lavoro e di altrettante famiglie.
«Avevamo assunto un impegno preciso», precisano i fratelli Sebastiano e
Vito Ladisa, «e lo abbiamo mantenuto mettendo da parte i legittimi
interessi di un’impresa a produrre utile. La nostra decisione è stata
dettata da un gesto solidaristico nei confronti del sistema delle aziende
del nostro distretto, salvaguardando una realtà di cui sono state
preservate l’identità e la storia».
Anche se entrato nel tempio della finanza, il Gruppo pugliese non si
scorda di quell’attracco della nave Vlora e dedica molta attenzione agli
«ultimi», con interventi patrocinati sia dalla Pubblica Amministrazione
sia da parte di organizzazioni private.
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29 Quando successione fa rima con
diversificazione
Gruppo Riso Scotti, Pavia
Non è mai un processo facile la successione imprenditoriale in
un’azienda familiare. Lo è ancor meno se l’impresa conta sei
generazioni, essendo stata fondata nel 1860. Meno che mai se il settore
di cui stiamo parlando si radica in quella cultura agricola e contadina di
forte tradizione patriarcale. Una famiglia di imprenditori, da sempre
uomini. Eppure, proprio qui, a Pavia, nel Gruppo Riso Scotti, che ormai
è un colosso globale del riso bianco, con diversificazioni nella pasta di
riso, negli snack, nei biscotti, nei drink vegetali, nei prodotti del
benessere e nella ristorazione, si staglia una brillante quota rosa. È
Valentina Scotti, la maggiore delle tre figlie del presidente Dario, il
doottor Scotti! del celebre claim pubblicitario.
Bocconiana, esperienze in Lavazza negli USA e poi in Deloitte come
consulente di imprese alimentari, è oggi l’amministratrice delegata di
Riso Scotti Danubio, il più importante avamposto internazionale del
Gruppo (la Romania è un mercato di forti consumatori di riso e l’Est
Europa è un bacino potenziale di 350 milioni di persone) e anche la
responsabile del progetto di ristorazione con il marchio So’Riso, che
prevede aperture diffuse di bistrot a base di riso in Italia e nel mondo. È
lei il volto nuovo dell’azienda. L’intero gruppo Riso Scotti, detenuto in
maggioranza di controllo dalla famiglia Scotti e per un 25 per cento dalla
multinazionale spagnola Ebro Foods, ha nel 2021 un fatturato
consolidato di circa 250 milioni di euro, con il 48 per cento dei ricavi
realizzati all’estero, sull’onda di un andamento favorevole della materia
prima e di un trend salutistico legato al riso, che fa percepire questo
ingrediente come un alimento sano, aperto alle innovazioni e facilmente
digeribile.
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L’offerta, grazie anche alla predisposizione particolare per la
comunicazione del presidente Dario Scotti, è passata nelle ultime decadi
dalla concezione di un prodotto semplice e tradizionale (un’antica e
statica commodity) a un sistema di prodotti differenziati, con crescenti
contenuti di servizio. E molto ha contribuito allo sviluppo aziendale il
processo produttivo tecnologicamente all’avanguardia che controlla
l’intera filiera e riusa gli scarti di lavorazione come biomasse per la
produzione di energia.
Ora il percorso prospettico è disegnato: verso nuovi settori e verso
nuovi Paesi. La responsabilità è della nuova generazione. Valentina
Scotti è determinata: «Abbiamo cercato di toglierci il cappello
dell’industria e calarci nel retail», con il progetto imprenditoriale
So’Riso, partito nel 2014 come format ristorativo aperto a Milano in
Corso Magenta e ad Assago nel Centro commerciale e ora replicato in
altre località. Gli elementi vincenti della proposta sono il legame tra riso,
benessere (i trend del food – cereali antichi, veganesimo, all grain – sono
inarrestabili) e ricette appetitose. All’avvio del progetto ha contribuito
anche Davide Oldani, famoso chef della cucina pop, che già aveva
collaborato con Riso Scotti in occasione di Expo. Pochi ingredienti,
grande creatività, attenzione al gusto in chiave gourmet, apporto
calibrato di carboidrati e proteine.
Il Gruppo aveva già tentato la strada della ristorazione con esperimenti
precedenti quali la Risotteria e la catena Steak and Rice, ma con risultati
non in linea con le aspettative e strutture difficili da replicare
geograficamente. Oggi con So’Riso il successo è finalmente arrivato.
Curioso non avere sfruttato il brand Riso Scotti, ma essere partiti con una
nuova insegna: «Veramente», dice Valentina, «mio padre non si è ancora
del tutto rassegnato. Per lui il marchio avrebbe dovuto essere quello». E
non è l’unica divergenza con il padre padrone che la giovane Scotti
ricorda: «Con mio padre ci sono stati momenti difficili. Appena entri in
azienda, sei piena di energie: vuoi dire, vuoi fare e non hai ancora ruolo.
Io sono un carattere esuberante, per cui erano scontri continui». Poi la
dura iniziazione e la fiducia del genitore che le affida il compito di
pilotare l’internazionalizzazione e la revisione del format dei bistrot.
Valentina è un esempio anche per le due sorelle più giovani. Una ventata
di rinnovamento che ha spinto anche la seconda sorella Francesca a
entrare in azienda e a occuparsi di un’altra diversificazione: la catena di
distribuzione di cibo biologico Piacere Terra.
E nel suo ruolo di capitana d’industria per l’area est-europea,
Valentina Scotti non rinuncia alla vocazione femminile: «Quell’area è
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una geografia difficile, ma anche piena di opportunità e di sorprese
positive, se vogliamo sfidare il mercato con prodotti benessere. A
cominciare da un vantaggio di fondo: è una società matriarcale, piena di
donne che lavorano e che portano avanti la famiglia, nella quale nessuno
si meraviglia di vedere una donna al comando di un’azienda. Ho tenuto a
circondarmi di collaboratori giovani, per lo più donne, e ho cercato di
valorizzarli il più possibile».
Il sogno ambizioso per domani? Fare il percorso del salmone nei paesi
stranieri. A ritroso. Arrivare alla GDO passando per il retail e completare
il passaggio da marchio di risotti e marca di riso. «Ho in mente il
processo fatto a Londra dal marchio Nando’s, una catena di ristoranti
afro-portoghesi che oggi ha anche i suoi prodotti sugli scaffali dei
supermercati». La visione della nuova imprenditrice è un orizzonte di
lunghissimo termine. Intanto il padre vigila e gongola di orgoglio
paterno.
E, come nella famosa barzelletta dei ghiaccioli venduti in
Groenlandia, la Riso Scotti aumenta il fatturato di riso venduto ai cinesi.
Partono continuamente per il Celeste Impero container di risotti, gallette
di riso, olio e latte di riso. Con aspettative di ordini potenziali che
sicuramente l’azienda farà fatica a soddisfare nel prossimo futuro. Ma
questo sarà un problema della settima generazione.
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30 Saper esportare la bellezza italiana nel
mondo
Sgaravatti, Capoterra (Cagliari)
«Tenaci come il seme e resistenti come la radice» si legge nel suggestivo
libro La bellezza e il tempo, che racconta i duecento anni di vita del
Gruppo Sgaravatti. E non ci potrebbe essere motto di sapore botanico più
coerente per un’azienda che ha attraversato due secoli, contribuendo
significativamente alla storia del florovivaismo italiano. Un’azienda che
ha inventato un mercato e ha cambiato il sistema produttivo ed è oggi
leader in questo settore in ambito nazionale e internazionale. Perché
l’impresa Sgaravatti ha realizzato alcuni dei più bei giardini del mondo
per re, imperatori, mecenati, industriali, pontefici, diffondendo ovunque
il bello e la cultura italiana, ma consentendo con la stessa cura, grazie a
modalità di distribuzione più popolari, anche a impiegati e piccoli
commercianti di costruire il loro piccolo angolo di paradiso incantato.
Un diffusore di bellezza, dunque, sia per il ceto elevato che per la piccola
borghesia.
L’idea dell’azienda nasce nel 1790 a Natale Sgaravato e a suo figlio
Benedetto, che curava i giardini dell’abate Farsetti con molte piante
importate dalle Americhe e dal Regno Unito. Poi nel 1820 Angelo, il
primogenito di Benedetto (che impone il nome Sgaravatti), fonda a
Saonara in provincia di Padova la nuova impresa, con l’obiettivo di
vendere fiori e piante. Nel XIX secolo Sgaravatti è fornitore della casa
reale e dei papi. Tappa importante nello sviluppo è il 1864, quando la
famiglia si inventa la vendita per corrispondenza (primi nel mondo tra le
diverse merceologie) e la nascita dei cataloghi che poi nel tempo
diventano sempre più belli e articolati (con copertine di maestri
illustratori come Codognato e Dudovich, che sono vere opere d’arte) e
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che man mano diventano dei manuali di giardinaggio, sempre in
competizione con l’americana A.W.Livingstone’s e la francese Vilmorin.
Nel Novecento Sgaravatti è protagonista delle due ricostruzioni e del
boom economico. Interessante per la crescita è l’opportunità offerta da
fiori e piante che valorizzano l’Autostrada del Sole negli anni Sessanta.
Ma il secolo breve vede l’azienda impegnata anche nel primo laboratorio
di fitopatologia, che consente ai produttori vitivinicoli di salvare dalla
filossera l’agricoltura italiana con innesti che resistono all’insetto
parassita. La famiglia proprietaria segue una metodica divisione del
lavoro e tutti i figli, laureati in Agraria, si spartiscono un comparto
specifico da sviluppare, mantenendo al vertice un team molto affiatato. A
metà del Novecento si progettano le filiali decentrate, che consentono a
piante, semi e fiori di essere presenti, oltre che a Padova, a Pistoia, che è
un polo florovivaistico di eccellenza, e poi a Roma, a Napoli e a Torino.
Il balzo di crescita e di know-how arriva poi con gli anni Cinquanta e
Sessanta in Sardegna con la costruzione della Costa Smeralda. Insieme ai
più famosi architetti del tempo, gli Sgaravatti affiancano l’Aga Khan e
Luigino e Nicolò Donà delle Rose nel progetto di trasformazione di una
terra già bella in un comprensorio paesaggisticamente straordinario,
sempre attenti agli equilibri che la natura impone. E ciò condiziona
anche lo spostamento del quartier generale del Gruppo che si sposta
appunto in Sardegna, dove alcuni anni dopo verrà sfruttata anche
l’occasione di un parco di 100 ettari a Villa Certosa, proprietà di Silvio
Berlusconi, con interventi in cui spicca il camminamento tra gli ulivi
centenari e il Museo degli Hibiscus che ospita una collezione di oltre
cinquemila piante.
Gli
ultimi
decenni
vedono
l’azienda
impegnata
nell’internazionalizzazione, lavorando per gli Emirati Arabi per fermare
il deserto e più recentemente in Azerbaijan, Turchia, Georgia e Antigua
delle piccole Antille. Accanto alla progettazione dei giardini, che è il
business del Gruppo più redditizio e facile da esportare, ancora oggi la
ricerca e l’innovazione rimangono per l’azienda una grande passione.
Grazie alla buona conoscenza della flora mediterranea, assieme
all’Università di Cagliari, si sperimentano metodi per la salvaguardia del
suolo e piante con la capacità di resistere alla siccità e alla salsedine, con
radici tenaci che salvino le coste dalle erosioni, e metodi per disinquinare
le terre.
Oggi Sgaravatti Group ha un fatturato di circa 10 milioni di euro e
opera con un personale fisso di 120 dipendenti, raggiungendo le 180
unità nei periodi più intensi dell’anno; insieme al Gruppo siciliano Piante
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Faro e all’azienda pistoiesa Mati, è di fatto la più grande realtà
florovivaistica italiana.
L’azienda, a stretto controllo familiare, ha come principale socia di
controllo Rosi Sgaravatti, con Giuseppe Carteri. È condotta, in qualità di
presidente e amministratore delegato, da Rosi Sgaravatti, che ha preso le
redini dell’impresa dopo la precoce scomparsa del marito, facendosi
affiancare dalla figlia Sabina Ferrari e da Carlo Carteri, figlio di
Giuseppe. Il grande cruccio è che, dopo oltre due secoli di Sgaravatti,
nessuno con quel cognome ricopra oggi ruoli di governo dell’impresa,
anche se la presidente (nel frattempo divenuta anche, a fine 2021, la
prima donna a ricoprire il ruolo di presidente di Assoverde,
l’associazione italiana costruttori del verde, e nominata poi Cavaliere del
lavoro dal Presidente Mattarella nel giugno 2022) non dispera,
augurandosi di recuperare all’apice del Gruppo qualcuno dell’attuale
giovanissima generazione della famiglia.
L’assetto organizzativo presidia tre divisioni: Greenland, che progetta
e realizza giardini in tutto il mondo; Sgaravatti Geo, che gestisce il verde
in Costa Smeralda; e Sgaravatti Land, che si occupa della produzione
florovivaistica e gestisce tre garden center di 32 ettari a Capoterra (CA),
sede principale sia legale che di produzione dell’impresa, a Cagliari e ad
Arzachena (Porto Cervo).
Oggi campione globale nella costruzione del paesaggio, l’impresa
cagliaritana è ricercata da tutto il mondo per la sapienza con cui sa
disegnare giardini, piante e manti erbosi. Il segreto del successo? Così lo
spiega Sgaravatti, esplicitando la filosofia aziendale: «Il giardino deve
essere soprattutto in armonia con chi l’ha voluto. Io sono d’accordo con i
giapponesi che dicono che il giardino è il luogo dove l’uomo incontra il
divino».
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31 La pinsa: provate a imitarla, se ci
riuscite…
Gruppo Di Marco, Roma
La prima cosa da dire sulla pinsa romana è che non è una pizza. Che
cos’è allora? È una specie di focaccia o di schiacciatina, a forma ovale,
leggera e croccante, frutto di un’innovazione abbastanza recente. Con un
impasto molto idratato e a lunga lievitazione (da 48 a 72 ore), è ottenuto
con uno speciale mix di farine (grano duro, frumento, riso, soia) che
consente un’alta digeribilità e una bassa dose di calorie. Il tutto poi
condito con i classici ingredienti di formaggio, mozzarella, prosciutto,
pomodoro, acciughe o altre immaginifiche varianti (a Roma si può
trovare anche con la porchetta di Ariccia...). Ormai la pinsa spopola in
ristoranti e forni, della Capitale e non solo, se è vero che nel mondo ci
sono più di settemila pinserie.
La parola «pinsa» deriverebbe dal verbo latino pinsere (schiacciare,
stendere, allungare) e sembrerebbe una rivisitazione moderna di una
ricetta che risale addirittura ai tempi dell’antica Roma, quando i
contadini fuori le mura preparavano le focacce grazie alla macinazione
dei cereali (miglio, orzo e farro) e ci aggiungevano sale ed erbe
aromatiche. Oggi i componenti della pinsa e le sue tecniche di
lavorazione sono al passo con i tempi, ma continuano a ispirarsi il più
possibile alla composizione originaria. O forse no!… Spiace infatti
deludere gli appassionati di storia, ma questa narrazione – che ha
resistito allo storytelling del prodotto per qualche decade – non è altro
che un furbo aneddoto di marketing inventato dal pioniere di questa
focaccia per rendere più simpatica la sua creatura. E anche la
reminiscenza del latino è un’astuzia per dare alla ricetta un pizzico di
nobiltà. Questo signore è Corrado Di Marco, oggi ultrasettantenne,
romano, nipote di un artigiano panificatore della Grande Guerra e figlio
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di un commerciante con il pallino dell’innovazione continua. E proprio
questo DNA familiare, la panificazione e la curiosità immaginativa sono
il driver che alla fine del secolo scorso lo ha portato a una formidabile
intuizione. «Il calore del forno di mio nonno è ancora presente nella mia
mente… e nel mio cuore», ricorda Di Marco, oggi presidente del Gruppo
omonimo, «e la mia idea è sempre stata quella di creare innovative
soluzioni per la panificazione, capaci di esaltare il senso del gusto
essendo, allo stesso tempo, leggere e altamente digeribili». Il segreto,
ancora oggi custodito gelosamente in azienda, sta nel mix di farine nelle
esatte proporzioni.
Il tutto si origina negli anni Settanta, quando Corrado Di Marco, forte
del suo imprinting familiare, inizia una profonda ricerca per creare
prodotti in grado di coniugare sapore, naturalità e benessere. Ostinato nel
suo processo di innovazione, opera più di duemila esperimenti di
fermentazione e con metodo scientifico arriva alla meta: nel 1981 nasce
Pizzasnella, che poi si sarebbe trasformata nel 2001 nella Pinsa Romana,
una vera e propria rivoluzione (al mix di farine di soia e frumento si
univano il riso e il lievito madre). «È romana la pizza mondiale» titolava
allora il Messaggero, orgoglioso nel ricordare l’origine italica di ciò che
mezzo mondo considera ormai statunitense. Nel frattempo nel 1993 si
apriva a Roma la prima scuola di pizza, che ha formato nel frattempo
centinaia di pizzaioli italiani e stranieri. Nei vent’anni trascorsi da allora
la crescita è stata esponenziale, con migliaia di clienti consapevoli delle
caratteristiche e delle peculiarità del prodotto pinsa. L’azienda Di Marco,
oltre a tenere alto il vessillo della Pinsa Romana, ha perfezionato il mix
di farine e ha fondato l’Associazione Originale Pinsa Romana che, nata
proprio per perpetuare il rispetto e la tutela del prodotto DOC, sostiene
un vero e proprio controllo di qualità e si affida a esperti certificatori che
verificano che ciò che viene offerto nei punti vendita sia realizzato
secondo il protocollo. Per proteggere la specialità – ormai conosciuta
ovunque e pertanto soggetta a imitazioni – viene creato anche un albo dei
pinsaioli, con tanto di statuto e regolamento che precisa il format (la
ricetta precisa da seguire, le dimensioni che la pinsa deve avere una volta
cotta, il divieto dell’uso del mattarello e il tempo minimo di
lievitazione). Solo le attività che passano il vaglio sono inserite e messe
in risalto sul sito ufficiale dell’Associazione. E, come fatto anni prima
con la pizza, anche con la pinsa viene varata una Academy, la
PinsaSchool, fondata da Marco Montuori, che si occupa di formazione
per ristoratori e pinsaioli (con o senza esperienza) e un’attività di
consulenza che, a differenza dei corsi, avviene direttamente presso i
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ristoranti che richiedono il servizio (anche all’estero, dalla Mongolia alla
Russia, dall’America al Nord Europa). Quasi tutte le pinserie in giro per
il mondo sono oggi rifornite dalle farine del Gruppo Di Marco.
Nel frattempo nell’impresa Di Marco entra la seconda generazione:
prima Enrico, laurea in Biotecnologie, che si occupa di produzione; poi
Alberto, laurea in Economia, che si occupa di commerciale; e infine
Francesco, che si occupa di amministrazione. Nel 2012 un salto in avanti
importante con la realizzazione delle basi di Pinsa e di Pizza Romana
precotte e congelate (con shelf life di 18 mesi e spedizioni in tutto il
mondo), sviluppate con un processo totalmente artigianale, senza
conservanti né additivi. Nel 2020 nasce Nuvola, un prodotto fresco,
pronto per essere assaporato comodamente a casa, disponibile presso la
grande distribuzione in due formati: 460 gr per due Pinse e 230 gr per
una Pinsa, disponibile anche nella versione multicereali. Il 2020 è l’anno
della ricerca e sviluppo e l’azienda durante il lockdown, costretta a
rallentare i ritmi, non si perde d’animo: si sperimentano nuove paste di
riso, per creare nuovi effetti di gusto. I risultati emergono subito e, alla
ripresa delle attività nel 2021, il fatturato rimbalza a 25 milioni di euro,
grazie ai nuovi ingredienti. Nel 2021 il Gruppo Di Marco lancia l’ultima
linea di innovazione in ordine di tempo, grazie a un nuovo stabilimento
che affianca i due dedicati alla lavorazione del mix di farine e alla
produzione delle basi precotte e surgelate: una linea di produzione per la
soluzione senza glutine, con la Romana Gluten Free. È inoltre prevista
l’apertura di un nuovo stabilimento negli Stati Uniti, per approvvigionare
le pinserie locali che si stanno moltiplicando a vista d’occhio.
Il progetto di Corrado Di Marco ha di fatto inventato un nuovo
comparto nella ristorazione che prima non esisteva, consentendo a molti
investitori e aziende di lanciarsi in progetti di avviamento o di
franchising, senza avere dubbi sulla qualità finale da offrire ai clienti. Il
numero delle pinserie oggi in Italia e nel mondo è lì a testimoniarlo.
Ma le innovazioni non sono finite. Il team degli azionisti (padre e tre
figli) è scatenato e si intravedono novità all’orizzonte: «la passione per il
nostro lavoro e la dedizione nel far crescere l’azienda, che vedo nei miei
figli, rappresentano per me uno straordinario motore propulsivo che,
nonostante l’età, mi spinge a continuare a innovare e sperimentare»,
dichiara Corrado Di Marco. «La continua attività di ricerca e
sperimentazione che ci ha portato a inventare la Pinsa Romana vent’anni
fa, oggi ci consente di lanciare i nuovi mix di paste acide La Pala, La
Teglia e La Tonda, destinati a rivoluzionare il mondo della pizza, perché
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dopo avere assaggiato i nuovi impasti sarà molto difficile tornare
indietro.»
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32 Quando la passione aziendale si declina al
femminile
SAIB, Caorso (Piacenza)
È una storia di donne forti quella di SAIB. A dire il vero, anche i
protagonisti maschili non mancano. Ma le donne imprenditrici,
rappresentanti di tre successive generazioni, emergono come
particolarmente coraggiose e intraprendenti. Donne cresciute in luoghi
dove il lavoro è una sorta di religione laica e dove la sfida aziendale è
forse il più forte stimolo di vita. Siamo a Caorso, lungo il percorso del
Po, laddove la terra piacentina sente ancora il respiro della vicina
Cremona. E la SAIB è oggi una delle più importanti realtà produttive del
comparto del pannello truciolare: un prodotto innovativo ed economico
che consente di riutilizzare gli scarti delle altre lavorazioni del legno per
offrire un materiale strategico ai principali mobilifici italiani e stranieri.
La SAIB, acronimo di Società Agglomerati Industriali Bosi, viene
fondata nel 1962 dai fratelli Guido ed Eva Bosi e dal marito di lei,
Giorgio Rinaldi. L’intuizione è di Eva Bosi: l’area geografica di Caorso è
particolarmente ricca di pioppi, le cui radici, ai tempi, venivano
considerate materiale di scarto. Eva riflette sulla possibilità di riutilizzare
la materia prima più antica, il legno, e di estrarre un pannello truciolare
che possa essere più competitivo rispetto ai più costosi legni masselli e ai
compensati o multistrati. Lei ha un passato con un apprendistato nella
segheria del padre e questa esperienza le viene utile per lanciare
dell’impresa nei primi anni. Nei decenni successivi SAIB cresce, mentre
il comparto da un numero di concorrenti che contava più di 50 attori
scende a 4 o 5 perché solo alcune imprese imboccano con
determinazione la strada di forti investimenti tecnologici (si tratta di
settori dove le dimensioni e l’economia di scala contano moltissimo).
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Negli anni Settanta in SAIB entra la seconda generazione della
famiglia, con la primogenita Adriana, suo marito Carlo Conti
(«l’ingegnere») e la sorella Valeria. Si sviluppa il pannello nobilitato,
rivolto a un mercato che richiede prodotti più rifiniti e personalizzati
attraverso l’applicazione di carte decorative e una più stretta partnership
con i fabbricanti di mobili e di cucine. Grazie a texture mimetiche e
tattili ottenute con lavorazioni speciali i truciolari si trasformano in
pannelli raffinati che diventano l’input principale di arredi per ufficio e
design per la casa. Le decadi successive sono il periodo dell’aumento
della capacità produttiva e delle nuove tecnologie, come quella a pressa
continua. E nel Duemila si affacciano in SAIB le terze generazioni che
sono quelle oggi ai posti di comando, come Clara e Giuseppe, figli di
Adriana, e come Sergio Dorigozzi, figlio della famiglia Dorigozzi, che
detiene l’altro 50 per cento dell’azienda. I tempi allora sono ancora più
incerti e difficili degli inizi, ma la coesione della famiglia consente e
impone di tenere i denti stretti e di superare le difficoltà. Il motto è «non
mollare mai, andare avanti, con coraggio, insieme». E in azienda tutti
tirano dalla stessa parte: imprenditori, lavoratori, rappresentanze
sindacali e principali fornitori. Dice Clara Conti, oggi amministratore
delegato di SAIB: «Quand’ero bambina la SAIB era soprattutto il
telefono che squillava durante la notte. Non c’erano ancora i cellulari;
ricordo il suono del telefono nel silenzio della notte. parole per me
incomprensibili e la voce di mio padre che quasi sempre chiudeva
dicendo “arrivo”».
L’azienda oggi fattura circa 120 milioni di euro in costante crescita e
dà lavoro a oltre 200 dipendenti. Ogni anno ricicla e supera 500
tonnellate di scarti di legno a fine vita, contribuendo così alla riduzione
dello smaltimento del legno in discarica o negli inceneritori. «Grazie al
nostro recupero ogni anno non vengono abbattuti circa 750.000 alberi,
pari a più del numero di alberi presenti nei parchi, nei viali, nelle strade
comunali di una metropoli come Milano.» Ma oltre a ciò, SAIB si
contraddistingue per un’ulteriore azione di eco-sostenibilità ambientale,
perché nel recupero del legno e nell’eliminazione delle impurità si
seleziona anche altro materiale (vetro, plastica, ferro, carta, pietre, ecc.)
che viene ritornato alle rispettive filiere. L’impresa pertanto è una vera e
propria azienda rigenerativa dell’economia circolare (si pensi solo che
ogni anno vengono avviate al riciclo 8500 tonnellate di ferro: quantità
con cui in dieci anni si potrebbe costruire il Golden Gate di San
Francisco!).
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Oggi SAIB guarda molto all’estero. La ripartizione attuale è dell’80
per cento sul mercato nazionale e del 20 per cento oltre confine, con
l’obiettivo ambizioso di arrivare a fatturare presto il 30 per cento del
totale sui mercati esteri. Per raggiungere questo obiettivo l’impresa sta
puntando non solo sull’aumento della capacità produttiva, che ha
raggiunto il suo massimo nell’estate del 2021 (grazie all’entrata in
funzione di una nuova linea per l’essiccazione del legno), ma anche sul
lancio di nuovi prodotti innovativi. Prodotti top secret per il momento ma
caratterizzati da un’anima ancora più green e rigenerativa.
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33 Edilizia culturale: se il Club del Libro
spinge il fatturato
Vanoncini, Mapello (Bergamo)
Nel Paese dove si legge pochissimo e dove i manager dedicano
normalmente poco tempo alla cultura, considerandola un «altrimenti»
rispetto alle «cose serie», questa è davvero una notizia. In un’impresa
della provincia bergamasca, la Vanoncini di Mapello, specializzata in
edilizia sostenibile, è nato un gruppo di lettura condiviso tra dirigenti,
operai e muratori. Niente obblighi, chi vuole partecipa. Fin qui, si
potrebbe dire, un po’ strano, ma niente di particolarmente sorprendente.
Maggiore stupore se cominciamo ad approfondire che le presentazioni
dei libri letti avvengono in orario di lavoro e che vengono pagate 100
euro in busta paga. Anzi, se il lettore diventa seriale, alla seconda
presentazione 200 euro e alla terza 300, con la possibilità di crescere se il
libro raccontato è in lingua inglese. Il processo funziona come segue: il
dipendente sceglie il libro da leggere, fa una scheda di presentazione che
propone alla dirigenza e poi presenta il volume ai colleghi.
Lanciata durante il lockdown del 2020 in un territorio che ha
sconvolto le zone di confort delle persone, l’iniziativa di condividere il
piacere della lettura con i collaboratori è stata proposta
dall’amministratore delegato Danilo Dadda, 52 anni, che ha steso un
primo elenco di 60 titoli (poesie, romanzi, saggi), mettendoli in una
biblioteca aziendale e lasciando che ogni lavoratore ne scegliesse uno e
lo presentasse ai colleghi durante una delle riunioni già pianificate
durante l’anno. Il tutto è cominciato così, un po’ per caso. Poi è diventato
un appuntamento fisso e ora le presentazioni sono scadenzate due al
mese. Un modo per incentivare la crescita intellettuale e per condividere
anche le proprie emozioni personali. «Un libro parla anche di se stessi.
La lettura aiuta ad aprire la mente e a diventare persone più curiose e
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intelligenti», sostiene Dadda. «Il mio obiettivo è portare al successo i
miei collaboratori e godo particolarmente nel vederli crescere, quando
scatta la passione. Chi lavora con te deve diventare migliore rispetto al
livello iniziale. E il ritorno della lettura è un valore intangibile ma molto
rilevante.» Dadda dedica l’iniziativa alla mamma: «La lettura mi
accompagna da tutta una vita», spiega, «è stata mia madre a trasmettermi
questa passione, che io cerco di trasferire ai miei collaboratori. Ho
semplicemente applicato alla lettura il principio di delega, che uso nelle
decisioni più importanti». E la delega funziona visto che il bilancio del
2020 ha riportato, in un anno che è stato per la bergamasca un momento
drammaticamente indimenticabile, un fatturato di 28 milioni di euro, il
10 per cento in più dell’anno precedente.
Inutile dire che la cosa ha ottenuto un’adesione completa ed
entusiastica, al punto tale che oggi mogli e mariti dei dipendenti
premono per partecipare all’esperienza. L’eclettica biblioteca iniziale è
cresciuta, con i volumi che man mano i protagonisti aggiungevano
all’elenco e che arrivano anche dall’ambiente circostante in omaggio per
la Vanoncini di Mapello, grazie al successo mediatico riscosso
dall’iniziativa. Lo chiamano ormai il «Club del Libro dei muratori», con
un accostamento azzardato che sfida i luoghi comuni del mondo
dell’edilizia del Profondo Nord. Chissà che questa pratica non venga
adottata anche da altre piccole aziende? Chi diceva che la cultura non
paga economicamente?
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34 L’innovazione può arrivare dall’Italia
Garmin Italia, Milano
Ci sono occasioni in cui il Made in Italy riesce a condizionare addirittura
le disciplinate subsidiaries delle aziende americane. È il caso di Garmin
Italia, base a Milano, dove la controllata del colosso statunitense Garmin
è stata protagonista negli ultimi dieci anni dell’avvio di progetti
innovativi che hanno riscosso così tanto successo da essere poi replicati
dalle altre countries dell’impresa.
Garmin è un’azienda fondata nel 1989 da Gary Burrell e Min Kao (il
nome deriva dalle iniziali dei fondatori), colleghi alla Allied Signal,
impresa di ingegneria nei settori aerospaziali e automotive. Nata in
Lenexa e poi trasferitasi a Olathe (Kansas), dove ancora risiede il
quartier generale globale, Garmin è leader mondiale nella tecnologia
GPS per l’automobile e la moto, la nautica, l’aviazione, lo sport, il
fitness e l’outdoor. Ha fatturato nel 2019 3,9 e nel 2020 4,8 miliardi di
dollari e raggruppa circa 18.000 dipendenti nel mondo. Inizialmente si è
dedicata a mercati che necessitavano maggiormente di strumentazione
per la navigazione aerea e nautica, ma il suo consolidamento è avvenuto
a fine anni Novanta, complice il miglioramento del sistema satellitare,
con l’introduzione del primo device per navigare su strada. Gli anni
successivi hanno visto un forte sviluppo del know-how e delle vendite
nei segmenti del wellness e del lifestyle, che rappresentano oggi il core
business dell’azienda. Con alcuni presidi geografici: la sede in Kansas, il
quartier generale europeo in Inghilterra e diversi siti produttivi.
Sul finire del 2010 Garmin ha cominciato anche ad acquisire i singoli
distributori europei, rendendoli società direttamente controllate.
Anche Garmin Italia nasce nel 2008, in momenti a trazione
prevalentemente automotive, con l’acquisizione dell’allora distributore
italiano. Negli ultimi dieci anni, sotto la guida dell’amministratore
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delegato Stefano Viganò, l’organizzazione ha conosciuto un forte
sviluppo. Nei tre anni 2019-2021, i 65 dipendenti hanno prodotto una
crescita annuale del 20 per cento con un peso del 15-20 per cento sul
totale del fatturato europeo e chiuso il quarto termine del 2021 con un
forte incremento di vendite.
La realtà italiana ha però dato anche un grosso contributo di design e
di creatività a tutta la Garmin del pianeta, fornendo feedback continui al
dipartimento R&D del Kansas, ma in particolare spingendo il settore
dell’orologeria. Nel 2014 Garmin Italia opera infatti una scelta
pionieristica per quel periodo, scommettendo sul canale orologiero: è la
prima sussidiaria Garmin nel mondo ad aprire uno specifico canale di
distribuzione. Un canale nuovo sia in termini commerciali che di
comunicazione: avvio di una rete di agenti dedicata, investimenti su
nuovi media coinvolti in una originale strategia di marketing, nuovi
layout nei punti di vendita. E il mercato risponde bene, al punto che oggi
il comparto watch di Garmin Italia vale il 10 per cento del fatturato, con
l’obiettivo di arrivare al 20 per cento nel prossimo triennio. Ricordiamo
che, mentre il canale orologeria a livello globale nel 2020 ha registrato
un calo del 30 per cento, Garmin Italia ha compiuto una crescita del 25
per cento. Le indagini di mercato confermano questa tendenza:
incrociando i dati di Morgan Stanley Research e IDC si nota che nel
2014 i modelli svizzeri tradizionali erano stati 28,6 milioni contro i 5,1
milioni di smartwatch e solo sei anni dopo le cifre risultano
completamente rovesciate con le marche svizzere che assommano a 13,8
milioni contro il 74,4 milioni di smartwatch.
E i Garmin non sono scelti solo per le loro caratteristiche tecniche
sportive (nella corsa, nel nuoto, nel diving, nel golf, nell’escursionismo,
nella caccia e così via), ma anche per un’estetica in cui sicuramente il
gusto italiano ci ha messo lo zampino. I clienti sono appassionati sportivi
e amanti del digitale, ma anche persone che vogliono sfoggiare un
prodotto innovativo con stile ed eleganza.
Il futuro di questo settore è oggi verso l’alta gamma e grandi
investimenti nel mondo del retail, dopo il boom dell’e-commerce e delle
vendite online sperimentato nei mesi più sofferenti della pandemia. «È
un piacere vedere che i nostri orologi sono oggi esposti nei negozi di
orologeria, accanto ai più reputati marchi classici», aggiunge Viganò.
Il 2022 è caratterizzato da prodotti che congiungono i diversi comparti
mantenendo il prestigio dello status symbol al polso. Come per esempio
il fēnix® 7, decima generazione del più iconico smartwatch multisport
della collezione Garmin, ed epixTM, il nuovo premium active smartwatch
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nel quale le caratteristiche multisport che l’azienda ha sviluppato nel
corso degli anni si uniscono alla brillantezza, luminosità e intuitività
d’uso del nuovo schermo AMOLED touchscreen. Con essi, Venu® 2
Plus, smartwatch dedicato al fitness e al wellness dotato di una
tecnologia con GPS integrato che permette di telefonare, inviare
messaggi e accedere all’assistente vocale (Siri, Google Assistant, Bixby),
con un luminoso display e una batteria che può durare fino a nove giorni.
A queste funzionalità si aggiungono opzioni dedicate alla salute, al
benessere e al fitness presenti nelle serie passate. «Anche su queste
soluzioni, tecnologicamente all’avanguardia, si innesteranno contributi di
design che rimandano alla tradizione dello stile italiano», commenta
Viganò.
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35 Quando la sostenibilità è al centro della
strategia
Gruppo Felsineo, Zola Predosa (Bologna)
Ci sono in Italia prodotti che si identificano in maniera simbiotica con il
territorio di origine e uno di questi è sicuramente la mortadella di
Bologna. Al punto tale che spesso essa viene proprio chiamata
semplicemente «Bologna», ossia col nome della città in cui venne
preparata per la prima volta in tempi remoti. E il Gruppo Felsineo così si
chiama proprio per il fortissimo legame con la capitale emiliana, da
Felsina che era la denominazione della città in epoca etrusca. Stiamo
parlando dell’azienda leader nel comparto della mortadella e degli
affettati vegetali (una quota di mercato del produttore del 23 per cento
per il prodotto tradizionale IGP e del 60 per cento per il prodotto
vegetale), centotrenta dipendenti e un fatturato annuo di 53 milioni di
euro.
Alla testa del Gruppo i due fratelli Emanuela e Andrea Raimondi,
rispettivamente amministratore delegato e presidente, terza generazione
della famiglia Raimondi, pronipoti di quel fondatore che nel 1947 aveva
aperto il Salumificio Raimondi, una piccola bottega artigiana
specializzata nella produzione dei salumi. Col tempo, proprio per
agevolare la crescita del processo produttivo, il salumificio aveva
costruito un nuovo stabilimento a Zola Predosa e l’azienda era stata
ribattezzata Felsineo. Poi negli anni Settanta la storica decisione di
focalizzarsi solo sulla mortadella. Le ultime decadi dello scorso secolo
hanno visto il Gruppo Felsineo diventare il primo del settore e partner
delle più importanti insegne della Grande Distribuzione Organizzata. Nel
2000, insieme alle certificazioni per esportare nei grandi mercati esteri,
l’impresa si internazionalizza e nel 2015 è sbarcata in Cina come unico
esportatore italiano di mortadella IGP.
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Ma è nel 2017 che avviene il grande salto, con una significativa
differenziazione di prodotto: basandosi proprio sulla lunga esperienza
maturata in quattro generazioni che hanno sempre coniugato tradizione e
innovazione, nasce FelsineoVeg, oggi Società Benefit, specializzata nella
produzione di alimenti a base di proteine vegetali. E così, alle linee di
prodotto classiche e sempreverdi, frutto di una tradizione artigianale
centrata sulla qualità e su una rigorosa selezione delle materie prime, si
affianca una linea innovativa di affettati vegetali e biologici che
consentono di disporre di un’alternativa alla carne senza rinunciare al
gusto. Una nuova linea molto richiesta all’estero, non pensata solo per i
vegetariani o per i vegani, ma per tutti coloro che cercano qualcosa di
diverso rispetto alle proteine animali, mantenendo una dieta sana ed
equilibrata. «I nostri non sono semplicemente prodotti, ma un sistema di
valori. Un mondo di cultura gastronomica, integrità nella qualità, voglia
di stare bene e godersi la vita attraverso il cibo e ciò che esso
rappresenta», afferma Andrea Raimondi, che segue tutte le operations
della produzione e dello stabilimento.
Grande successo e continua crescita da subito per i prodotti Veg e
Good&Green, con varianti di cereali come lupino, curcuma, zenzero o,
ancora, senza glutine. Il tutto rivolto anche al nuovo mercato dei
cosiddetti flexitariani, coloro che coniugano alimentazione vegetale e
consumo di proteine animali.
Grandi passi avanti sono poi stati fatti sul fronte della sostenibilità.
Dopo un’approfondita fase di ascolto che ha coinvolto management,
dipendenti, fornitori e clienti, sono stati ripresi come prioritari alcuni
degli obiettivi di sostenibilità indicati dall’Agenda 2030 dell’ONU. Da lì
è stato implementato un codice di condotta sostenibile lungo quattro «vie
maestre» di comportamento: 1) la via dei consumatori, che sostiene la
qualità del prodotto con un miglioramento continuo nelle ricettazioni
della mortadella, nella convinzione che il consumatore sia sempre più
attento agli aspetti salutistici e nutrizionali di quello che mangia; 2) la via
della filiera, che dà piena trasparenza ai processi di allevamento,
macellazione, trasformazione e distribuzione (la Sciccosa è la prima
mortadella prodotta all’interno di una catena 100 per cento italiana
formata dagli agricoltori italiani aderenti alla FDAI); 3) la via della
vicinanza, in cui i dipendenti vengono interpretati e vissuti come la
principale risorsa del Gruppo e, come tali, ricompensati da investimenti
in sicurezza sul luogo di lavoro, educazione professionale e manageriale,
welfare; nella strategia della vicinanza rientra anche la responsabilità
sociale di supporto alle attività sportive e collettive della comunità, e di
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educazione della stessa a evitare gli sprechi alimentari; 4) la via
dell’ambiente, con interventi massicci per la riduzione dei consumi
energetici e dell’uso della plastica, per il contrasto dei cambiamenti
climatici e per la produzione di packaging non inquinante.
La forte attenzione alla sostenibilità sarà il fulcro della strategia
aziendale anche nei prossimi anni. Questa focalizzazione è così spiegata
dall’amministratore delegato Emanuela Raimondi, che presidia la parte
amministrativa e finanziaria dell’azienda: «Siamo consapevoli che il
nostro agire, come singoli e come organizzazione, è in grado di costruire
un futuro migliore per le nuove generazioni». E infatti il pay off della
comunicazione oggigiorno è «un mondo più verde per un futuro più
rosa».
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36 Come fare i tessuti fantasia con i fondi di
caffè
Lanificio Bottoli, Vittorio Veneto (Treviso)
Ci si potrebbe chiedere perché molti stilisti famosi facciano molta strada
e si abbarbichino per i bricchi del quartiere di Serravalle a Vittorio
Veneto, provincia di Treviso, per raggiungere un opificio. La risposta
risiede nel fatto che lassù, in una posizione sopraelevata rispetto alla
Serenissima e alle splendide linee architettoniche di un borgo
medioevale dove si respira la bellezza del Nord-Est veneziano, si trova
una fabbrica fondata nel 1861, che racchiude nella sua storia cinque
generazioni di una famiglia di imprenditori che ha iniziato la sua attività
produttiva con coperte e panni di lana e oggigiorno si è specializzata nei
più ricercati tessuti fantasia, in particolare per giacche e cappotti
maschili. Stiamo parlando del Lanificio Bottoli, che sotto la guida del
presidente Roberto Bottoli e del figlio Ettore, entrato in azienda nel
2017, grazie a una continua innovazione è riuscito a instaurare con le più
reputate case di moda una relazione di fornitura di particolare successo.
Emblematico il fatto che molti brand dell’abbigliamento suoi clienti
abbiano deciso di affiancare al loro nome sui prodotti quello del
Lanificio, applicando etichette congiunte e mettendo in bella vista la
tracciabilità di Bottoli: è il caso di Etro, ma anche di Ballantyne o di
Junya Watanabe, icona della moda d’avanguardia giapponese.
Le chiavi del successo sono sicuramente l’uso di eccellenti materie
prime (dalla lana merinos al cashmere), ma anche la sapiente scelta di
fibre naturali, come la canapa e il cotone. Ma ciò di cui a Serravalle
vanno fieri è il ciclo verticale integrato: selezione delle materie prime;
tintoria, filatura; orditure, tessitura e finissaggio. Un percorso ormai
unico nel Lombardo-Veneto e raro in Italia in generale. Sarà forse per
questo che, lavorando nello stabilimento anche i filati di cotone, il lino e
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la seta, l’azienda viene chiamata ancora «lanificio»: perché tutta la
produzione viene svolta intra moenia nella fabbrica. «Il nostro non è un
risultato dell’assemblaggio di varie componenti», afferma Ettore Bottoli,
«la filiera dà identità all’impresa e questo è uno dei motivi per cui noi
siamo sopravvissuti ai cinque lanifici che c’erano nel nostro territorio».
Chi pensa alla moda pensa normalmente alle sfilate milanesi o
fiorentine, a lustrini, ai fotografi e alle modelle. Ma la vera moda nasce
proprio all’interno di mura come queste, che spesso vengono
dimenticate. Campionari ogni anno di circa 2500 nuovi disegni, per un
fatturato di 5 milioni di euro prodotto da 32 dipendenti che fanno girare
uno stabilimento con un potenziale di circa 3000 metri di tessuto al
giorno. Il 60 per cento va oltre confine, con percentuali in crescita anno
dopo anno, specialmente in Oriente dove la sostenibilità dell’azienda è
particolarmente apprezzata. Sì, perché il Lanificio Bottoli è pioniere
nelle logiche sostenibili, avendole iniziate con largo anticipo rispetto alla
concorrenza e insistendo continuamente sul «chilometro zero», con
metodi di tintura originali come l’indaco, il campeggio (pianta
sudamericana) per ottenere le tonalità del grigio o il catechu per la
gamma dei marroni o, ancora, l’ortica, le fibre d’alga, del gelsolino e
dell’abaca. Così come si produce un tessuto per le coperte di lana dove il
filato laniero si intreccia con fili di rame, metallo con note proprietà
antibatteriche. La lana delle razze Sopravissana e Gentile di Puglia arriva
da allevamenti tra Marche, Abruzzo e Molise, valorizzando di fatto il
patrimonio ovino italiano. Tutto ciò con evidente risparmio di acqua e di
energia e un valore aggiunto che consente anche di non degradare i
tessuti, come con le tinture chimiche.
L’ultima trovata è la produzione di tessuti colorati utilizzando i residui
del caffè. In sinergia con la famosa torrefazione Dersut di Conegliano,
eccellenza veneta nel settore Horeca, si è avviato un riciclo dei fondi di
caffè ritirati da centinaia di clienti italiani ed esteri, che saranno usati per
la tintura della seta destinata alla collezione primavera-estate 2023.
«Il nostro è un prodotto difficile da replicare, proprio perché
l’investimento che facciamo nell’innovazione rende i nostri tessuti
sempre diversi nel design e nella molteplicità dei componenti», sostiene
Bottoli. «D’altra parte sono cinque generazioni che mangiamo pane e
moda», sorride allegro, sfoggiando una giacca a quadri di rara eleganza.
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37 Alici: la ricetta di famiglia
Rizzoli Emanuelli, Parma
Dopo ben più di un secolo dalla fondazione (era il 1906), il logo è
sempre lo stesso: quando si dice la tradizione. Sull’iconica scatola di
latta dorata campeggiano tre gnomi che sorridono. La leggenda vuole
che i fondatori, i coniugi Emilio Zefirino Rizzoli e Antonietta Emanuelli,
ricevettero in dono una partita di pesce conservato in involucri
raffiguranti tre gnomi, che essi scelsero come buon auspicio di salute e
longevità, riproducendoli sul loro packaging (come s’usa dire
oggigiorno) con la dicitura «MANGIAR BENE».
L’azienda Rizzoli Emanuelli è la più antica del settore delle conserve
ittiche e oggi è alla quinta generazione familiare. Fondata a Torino alla
fine dell’Ottocento, quando la capitale si trovava sulla Via del Sale che la
collegava con Genova, da dove il pesce azzurro arrivava in barili di
legno, all’inizio del secolo scorso si sposta a Parma, dove l’industria
conserviera stava facendo passi da gigante e dove molto saper fare si
poteva trasferire al processo di filettatura e di confezionamento delle
alici. Lì appunto Emilio Zeffirino e Antonella si innamorano e si
sposano, dando vita alla ragione sociale Rizzoli-Emanuelli, ancor oggi
mantenuta nonostante gli eredi Emanuelli abbiano ceduto le proprie
quote alla famiglia Rizzoli.
È una storia che attraversa le due grandi guerre. Nella prima
addirittura le scatolette vengono realizzate con le lamiere per le
munizioni e molta produzione viene destinata all’esercito (su alcune
confezioni, oggi gelosamente conservate, compare la scritta «prodotta
per il generale Cadorna»). Durante la seconda guerra mondiale l’azienda
subisce il tracollo come tutte le imprese manufatturiere, ma negli anni
Cinquanta si risveglia con una serie di intuizioni: l’allora patron Antonio
Rizzoli lancia infatti l’azienda di famiglia nel futuro, avendo capito
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prima di altri imprenditori alimentari l’avvento della grande
distribuzione, l’esplosione dei mercati minori e la forza della réclame.
Intorno al 2000 arriva alla testa della società l’attuale direttore
generale, Massimo Rizzoli, che imposta una strategia di verticalizzazione
(dal motopeschereccio allo scaffale del supermercato) e fa crescere
l’azienda con quattro stabilimenti all’estero (Croazia, Albania, Tunisia e
Spagna) oltre a quello originario in Emilia. Si sviluppano anche i mercati
esteri, principalmente quelli giapponesi, del Sud-Est asiatico e del
continente europeo, grazie ai rapporti di partnership con catene
alimentari straniere e all’apprezzamento che alcuni Paesi esprimono per
il pesce di alta qualità. Si allarga anche il raggio di azione perché oggi,
accanto alle tradizionali conserve ittiche di alici, acciughe, tonno e
sgombro (con contenitori d’avanguardia), si possono trovare prodotti
freschi per il banco frigo e piatti pronti del pescatore cucinati ad arte. Il
fatturato 2021 è stato intorno ai 40 milioni di euro con circa 30
dipendenti in Italia. «La svolta nel portafoglio prodotti è avvenuta nel
2019», ricorda Massimo Rizzoli, «quando abbiamo deciso di portare nei
supermercati il “banco del fresco” accanto al “banco dei secchi”, dove
godevamo di storica autorevolezza. Nel fresco la marginalità è più alta e
il prodotto viene percepito dal consumatore come più distintivo. In
questo segmento la tecnologia ci ha consentito di abbattere la percentuale
di sale del 25 per cento, come nel caso delle alici del mar Cantabrico, che
sono andate a fare compagnia alle tradizionali provenienti dal mar
Mediterraneo. La scelta è stata inoltre legata alle dinamiche degli spazi
della grande distribuzione: infatti grazie anche al ruolo più esteso che
l’e-commerce sta registrando negli ultimi anni, gli spazi a scaffale
destinati ai prodotti secchi si ridurranno, mentre invece si amplieranno
quelli dedicati ai prodotti freschi». Viene fatto in quell’anno un grande
investimento in nuove tecnologie e in risorse umane e si appronta una
strategia per gli anni Venti di questo secolo, nella quale si prevede
l’uscita di molti nuovi prodotti innovativi in linea con le ultime tendenze,
anche salutistiche, manifestate dal consumatore.
«La vita è saporita», si legge sul sito aziendale, mentre le informazioni
vengono accompagnate dal rumore dei flutti del mare che si infrangono
sulla battigia. Perché il mare alla Rizzoli Emanuelli è molto rispettato,
convinti che la pesca debba essere sostenibile preservando i fondali
marini e che il mestiere del pescatore debba essere attentamente
monitorato, conoscendo per nome le barche da pesca e usando lampare e
reti a cerchio come una volta.
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Lo specchio della tradizione mai trasgredita è la «salsa piccante per le
alici». Una ricetta che combina ingredienti, dosi e tempi di cottura, e che
viene tramandata per via orale tra i proprietari di generazione in
generazione (anzi, la regola è al primogenito maschio della famiglia
successiva, anche se questo lo si dice sommessamente, sapendo che il
meccanismo taglia fuori l’altra metà del cielo…). L’accesso in «sala
salsa» è consentito solo a pochi eletti e il senso simbolico di questo rito è
così intenso che recentemente l’attuale patron, in una campagna
pubblicitaria televisiva di cui è protagonista mettendoci la faccia,
afferma: «Io sono Massimo Rizzoli e queste sono le mie alici in salsa».
La responsabilità sociale e il riconoscimento per il senso di affezione
dei collaboratori nei confronti dell’azienda sono emersi anche durante il
lockdown del Covid-19. Accanto a una forte accelerazione dell’ecommerce, che ha permesso durante la pandemia di diffondere le delizie
conserviere in tutto il mondo, c’è stata una forte attenzione allo sforzo
fatto dai dipendenti per non indebolire la produzione e le vendite. La
famiglia ha deciso pertanto di mettere a tutti in busta paga un premio di
produzione del +25 per cento e alle lavoratrici con figli minori di 12 anni
una gratificazione extra di 400 euro.
Oggi l’azienda ha un’organizzazione congruentemente staffata per la
complessità globale, anche a livello manageriale, con una struttura
suddivisa per aree funzionali. E competenze e merito accompagneranno
il prossimo sviluppo. Ma la famiglia è saldamente al governo della
Rizzoli Emanuelli e si è affacciata la quinta generazione: e con l’arrivo
del figlio Francesco il padre Massimo è in attesa del giorno giusto per
potergli tramandare la famosa e fortunata ricetta.
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38 Passo dopo passo cresce il Distretto della
felicità
Il distretto calzaturiero di San Mauro Pascoli
(Forlì-Cesena)
È proprio vero che anche le cose difficili e complesse possono trovare
risoluzione se ci si mette di impegno e interviene la passione. È proprio
vero che non bisogna mai arrendersi e che «ce la si può fare». Quella che
sto per raccontare è la storia virtuosa di un territorio dove nell’ultimo
secolo l’attività produttiva si è concentrata su un sapere e su una
tradizione artigianale di alta eccellenza: l’ideazione e la produzione di
scarpe femminili di moda. Il distretto calzaturiero del Rubicone, che
comprende, tra gli altri, i comuni di San Mauro Pascoli, Savignano e
Gatteo, in provincia di Forlì. Circa cento imprese che raggruppano più di
tremila addetti.
Conosciuta come uno dei migliori contesti manufatturieri del Made in
Italy (particolarmente per le fasi di cucitura e finitura che richiedono
abilità superiori), negli ultimi anni l’area romagnola manifesta un
problema che rischia tuttavia di metterla al tappeto: la forza lavoro,
prevalentemente femminile e di giovane età, segnala infatti crescenti
difficoltà a sopportare un carico di lavoro che «si mangia» la vita privata.
Mentre da un lato, alle lavoratrici in particolare, si richiede attenzione
alla famiglia, alla cura dei figli e alle buone relazioni coniugali, dall’altro
si lavora troppo e si vive sempre esausti. Molte lavoratrici dimostrano
progressivamente la propria insoddisfazione: sintomi ne sono l’alto
turnover e l’assenteismo, fino all’abbandono dell’attività in fabbrica
perché sempre più spesso il ritmo si fa insostenibile e finiscono per
essere preferibili altri mestieri più flessibili. Insieme alle persone che
lasciano questo lavoro si rischia però di far evaporare anche il longevo
134
know-how che è sicuramente il più denso patrimonio cognitivo del
territorio: la minaccia concreta è lo spegnimento del distretto, poiché
l’appeal delle aziende calzaturiere scema per giovani e donne. E ciò
innesca nelle imprese la tentazione di delocalizzare o di trovare risposta
nella mano d’opera straniera, che potrebbe interrompere la tradizione
artigianale della comunità locale.
L’allarme piano piano emerge in superficie e, intorno al 2015, chi ha la
responsabilità di governare il territorio si domanda quali potrebbero
essere le linee di intervento per non buttare a mare una storia industriale
di successo. La sindaca di San Mauro Pascoli (la cittadina che ha dato i
natali a Giovanni Pascoli), Luciana Garbuglia, insegnante alla locale
scuola Montessori, si arrovella sulle possibili soluzioni. A darle una
mano interviene Luca Piscaglia, consulente del lavoro nell’area
romagnola, che si inventa il «Distretto della felicità». L’idea è di fare in
modo che gli stabilimenti del posto ritornino attrattivi per i Millennials e
si costruisca un nuovo modello lavoro-vita che consenta di migliorare le
condizioni di vita dei lavoratori, immaginando una collettività più serena
e un modello sociale sostenibile e – perché no – replicabile da altre parti.
Insomma, un welfare lavorativo che aiuti a riportare il territorio alle
tradizioni e alla ricchezza di un tempo che fu. Utopia, diremmo noi.
Quando mai la felicità passa dalla porta dell’attività lavorativa? Ma
Piscaglia non molla e coinvolge le imprese della zona, le organizzazioni
sindacali, Italia Lavoro (oggi ANPAL), la CCIAA della Romagna. Il
vecchio sistema di fabbrica diventa il bersaglio degli innovatori,
aggredendo il primo tabù: l’orario di lavoro, che è storicamente su due
turni, dalle 8.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 18.00: un modello che aveva
retto con la famiglia «allargata» che prevedeva la convivenza sotto lo
stesso tetto di genitori e nonni. Ma oggi, con i Millennials e le lore
famiglie più «nucleari», gli orari spezzati confliggono con le nuove
esigenze famigliari e quel modello non regge più. La modifica
dell’orario di lavoro è quindi il cavallo di Troia per modificare il modello
di organizzazione aziendale e sociale. Si prova a ridurre di un’ora la
pausa pranzo, consentendo di anticipare l’uscita dall’azienda. Viene
consentita una flessibilità oraria, dando discrezionalità all’operatore di
definire i tempi, pur mantenendo un contributo lavorativo di qualità. Si
creano gruppi omogenei di trasformazione, con logiche di mutuo
aggiustamento tra i lavoratori. Si permettono, ove possibile, occasioni di
telelavoro, aiutando le persone con nuove dotazioni tecnologiche. E si
accompagna il tutto con un nuovo sistema di benessere locale condiviso
da tutti gli attori coinvolti (dai cittadini alle aziende, passando per le
135
amministrazioni comunali e i servizi), che introduce nel contesto
elementi fino a quel momento del tutto inusuali. Si rimodella la vita della
comunità, intervenendo sui finanziamenti, sugli asili, sui sistemi di
trasporto, sulle strutture per l’infanzia e per gli anziani, sulla pulizia,
sullo sport. In poche parole, si libera il tempo delle persone, costruendo
un’atmosfera sociale più piacevole.
La conseguenza di tutto ciò è oggi visibile nel sistema cittadino. Si è
scoperto che il «Distretto della felicità» ha ridato una nuova possibilità di
identificazione alle persone e una nuova motivazione al lavoro in un
settore che è sempre stato fierezza e orgoglio per tutti i cittadini del
Rubicone. Si è scoperto anche che un lavoratore felice è un lavoratore
che rende di più, è una persona che vive meglio e che contribuisce di più
allo sviluppo di una società virtuosa e civile.
Chi sosteneva che lavorare è comunque e sempre una condizione di
sofferenza?
136
39 Può una pizza valorizzare il territorio?
Pepe in Grani, Caiazzo (Caserta)
Nello stretto vicolo scosceso dove a malapena possono passare due
persone appaiate si scorgono in coda, pazienti, decine e decine di
persone. Sono venute in questo antico borgo dell’Alto Casertano da tutta
la Campania, molte anche da fuori regione e alcune addirittura
dall’estero. Appositamente per questo «pellegrinaggio gastronomico».
L’obiettivo è farsi assegnare un tavolo per mangiare un’emozione da
Pepe in Grani, la pizzeria di Franco Pepe, decretato da moltissime guide
il pizzaiolo numero uno in Italia – e perciò nel mondo.
Siamo a Caiazzo, a venti minuti in auto da Caserta. Si respira aria di
montagna in questo paese di circa cinquemila anime. Pochi vicoli,
semplici e decorosi. Una comunità abituata a vivere di poco.
L’Italia è piena ovviamente di pizzaioli straordinari. Ma Franco Pepe
ha un «quid» in più: il territorio. Un contesto geografico che è stato per
anni terreno di partenze e di migrazione, con giovani che scappavano
verso le grandi città del Nord e spesso verso l’estero. E che ora invece è
diventato una vera e propria meta turistica per gli appassionati
dell’eccellenza del gusto. Tutto il paese di Caiazzo oggi ruota intorno a
Pepe in Grani, perché con il lavoro di Franco Pepe si è risollevata la
microeconomia locale con bar e bed & breakfast e giovani produttori
agroalimentari del luogo (le cipolle di Alife, le olive caiazzane, i ceci
delle colline caiatine ecc.) che hanno ritrovato fiducia grazie a forniture
certe e continuate. La forza delle cose buone e un significativo esempio
di come le cose funzionanti, specie nel Mezzogiorno, generino benefici a
cascata.
Ogni giorno percorrono lo stretto vicolo tra le seicento e le ottocento
persone che attendono il loro turno per mangiare la pizza. Si dice che se
Franco Pepe si candidasse Sindaco di Caiazzo prenderebbe tutti i voti dei
137
cittadini, perché, in questo posto dimenticato da Dio, Pepe ci è nato e ha
deciso di non andarsene mai. Anzi, di raddoppiare la sua scommessa.
Franco Pepe, ex professore di educazione fisica e figlio d’arte (il
nonno e il padre sono stati pizzaioli nella piazza principale del paese), è
cresciuto attaccato alle corde dei grembiuli dei suoi genitori e dentro il
profumo del lievito impastato. Nel 2012 si allontana dalla pizzeria di
famiglia – che ancora oggi è gestita dai fratelli – per aprire un locale in
cui si potesse sviluppare la sua idea di pizza contemporanea («non
chiamatela gourmet, per favore!»). In una parte degradata del borgo
trova un palazzo del Settecento, si fa prestare i soldi per comprarlo e
ristrutturarlo e, con la caparbietà che appartiene solo a chi è mosso da
grandi ideali, apre il suo Pepe in Grani. Il ristoratore ricorda che
all’epoca tutti gli davano del pazzo, perché lasciava un’attività avviata
per una sfida imprenditoriale difficilmente definibile. E poi si era nel
pieno della crisi economica e nel mezzo dello scandalo della terra dei
fuochi. «Era un rudere quando l’ho comprato», ricorda Pepe, «avevo i
soldi contati e quindi dovevo concentrare i lavori in sei mesi. Di giorno
seguivo il cantiere, la sera lavoravo nella pizzeria di famiglia. Quando
finivo, a mezzanotte facevo un salto nel palazzo e al buio immaginavo i
camerieri al lavoro». Ma Pepe non molla e oggi gli attestati di stima lo
ripagano di tutti i sacrifici fatti. Perché i riconoscimenti sono arrivati,
numerosi e importanti. La Guida delle pizzerie del Gambero Rosso gli
decreta tre spicchi (massimo risultato); AIMA, la Scuola internazionale
della cucina italiana, gli conferisce la targa per Maestro d’Arte e
Mestiere per il valore intrinseco del suo percorso culturale; gli
organizzatori di 50 Top Pizza lo fanno salire per tre anni consecutivi sul
gradino più alto della classifica. E nel 2019 il Capo dello Stato Sergio
Mattarella, per il suo ruolo di ambasciatore della dieta mediterranea, lo
nomina Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica.
Ormai Franco Pepe ha abbandonato l’umile status dello scugnizzo
campano cui siamo stati abituati per anni pensando al pizzaiolo
napoletano. Oggi il suo locale è comparabile ai ristoranti più blasonati,
non avendo nulla da invidiare agli chef stellati. L’eccellenza della sua
cucina è testimoniata da una sala per VIP (l’Authentica), dove c’è un
tavolo a ferro di cavallo per otto persone, che interfaccia un banco di
lavoro di marmo e un forno dove, insieme a Franco, i commensali
possono vivere un’esperienza immersiva con il pizzaiolo. Per un conto
che può superare anche i 100 euro a persona, gli ospiti vivono un’unicità
irripetibile, perché Pepe in quel contesto crea ricette pensate solo per
quella serata, spicchi mai messi in carta prima di allora. E in questa sala
138
vengono organizzate serate speciali, in cui importanti chef dell’empireo
stellati (tra gli altri Gennaro Esposito, don Alfonso Iaccarino, Pino
Cuttaia, Andrea Berton, Chicco Cerea, Heinz Beck) preparano e
condividono con il pizzaiolo cene particolari.
Ma sarebbe sbagliato pensare che il titolare di Pepe in Grani posizioni
la sua offerta solo per clienti elitari, in abbinamenti costosi con bollicine
e champagne. Il menu principale è composto da undici pizze tutte
originali, tra cui la celebre Margherita Sbagliata, summa della sua
filosofia, dove il protagonista è il pomodoro riccio del territorio, oppure
la Ritrovata, con acciughe di Cetara e pomodoro di San Marzano, o la
Crisommola del Vesuvio, una pizza dolce con confettura di albicocche e
nocciole tostate. Tutto in equilibrio fra tradizione e innovazione. E in
carta infatti c’è anche una pizza a libretto da 1,50 euro (una piccola
margherita ripiegata in quattro per farla restare al caldo). «La vendo a
1,50 euro perché voglio ricordare che la pizza è il cibo del popolo. La
compra la gente del vicolo, i ragazzi o qualcuno che se la mangia mentre
aspetta di entrare.»
Franco Pepe dedica il suo successo a chi da sempre ha creduto in lui,
ai suoi cinquanta collaboratori che ogni giorno lo accompagnano nel
locale e lo sostengono in ciò che fa. «E che non si sentono mai di aver
raggiunto il traguardo, essendo anche loro – come me – rosi
dall’inquietudine». Nonostante le numerose offerte di collaborazione
ricevute e le opportunità di aprire succursali in altre città, Franco rimane
legato al suo paese e al suo Mezzogiorno. È lì che pensa di scrivere
nuovi piatti con la speranza che diventino sapienza collettiva e nuova
tradizione. D’altra parte una tradizione non è nient’altro che
un’innovazione riuscita. E la missione di Pepe è quella di costruire nuove
memorie.
139
40 Dalla crisi si può uscire
Diadora, Caerano San Marco (Treviso)
È possibile competere nel mondo dello sport con colossi globali come
Nike e Adidas? Se si trovano nicchie di eccellenza e si punta sul gusto
italiano, ce la si può fare e anche molto bene, pur se con dimensioni più
piccole.
Questa è una storia di passione e di tradizioni, di sogni e di traguardi
sempre nuovi. Nel distretto delle calzature di Montebelluna – dove i
paesi portano ancora i segni dei sacrari, delle trincee e dei cannoni della
Grande Guerra – e più precisamente a Caerano San Marco, in provincia
di Treviso, la tradizione sa di valori forti come gli scarponi da montagna
e da lavoro, che sono stati il prodotto per il quale nel 1948 è stata fondata
la Diadora. L’azienda rappresenta il classico modo di fare lavoro e
ricchezza nel Veneto della seconda metà del Novecento: una crescita
rapida negli anni Sessanta e poi la conversione al mondo dello sport. Da
allora Diadora è protagonista indiscussa nel tennis, nel calcio,
nell’atletica e poi in tempi più recenti anche nel ciclismo, nel basket,
nell’automobilismo, nel motociclismo e in altri ambiti agonistici. Un
segnalibro ricorrente nelle pagine più belle della storia del saper fare
italiano nel mondo dello sport: come non ricordare le scarpette di Baggio
che sbaglia il rigore alla finale di USA 94 o quelle di Totti campione del
mondo a Berlino 2006 oppure quelle di Borg che schiacciano il tappeto
erboso di Wimbledon o le sneaker di Ayrton Senna o quelle di Mennea
sulla pista olimpica di Mosca nel 1980 o, ancora, quelle di Gelindo
Bordin oro olimpico alla maratona di Seul nel 1988?
Tuttavia, dopo questo passato di celebrità, nel 2008 Diadora incappa
in una grave crisi e nel 2009 finisce in mano a un curatore fallimentare.
La soluzione viene trovata dalla famiglia Moretti Polegato e il giovane
Enrico, ventinovenne appena sposato, decide di fare dell’impresa
140
trevigiana la sua sfida personale. Enrico, appena laureatosi in
Giurisprudenza, si sta indirizzando alla carriera di avvocato, non è del
tutto estraneo all’atmosfera imprenditoriale, in quanto figlio di Mario
Moretti Polegato, fondatore della GEOX, ma – come molti dei rampolli
degli imprenditori brillanti (e un po’ ingombranti) del Nord-Est – vuole
smarcarsi dall’azienda del padre e non coabitare imprenditorialmente con
il genitore. «Non volevo rimanere alla GEOX a fare il figlio del padrone.
E allora ho delocalizzato me stesso», racconta di quegli anni. Da allora
Enrico lascia l’avvocatura e diventa presidente della nuova avventura,
pilotando l’azienda verso uno sviluppo da vero turnaround.
Oggi Diadora fattura circa 200 milioni di euro – più del doppio
rispetto al 2012 – e ha indicatori di redditività estremamente positivi. Il
giovane patron così sintetizza le tre ragioni per l’acquisizione
dell’azienda di Caerano San Marco: 1) il percorso nel business dello
sport di Diadora era uno dei più solidi e credibili tra quelli delle imprese
italiani; 2) il marchio, nonostante le sfortunate vicissitudini
congiunturali, era ancora pulito, non intaccato e riconoscibile; 3) la
possibilità di cimentarsi autonomamente in un’opportunità di business in
prima persona, con un proprio progetto e una propria squadra di
management. Ora Diadora è presente in 60 Paesi del mondo con una
forte penetrazione negli USA grazie alla linea running. Divide il suo
fatturato in 80 per cento calzature e 20 per cento abbigliamento, e vanta
una crescita continua nell’e-commerce. Nella linea Utility (calzatura e
abbigliamento da lavoro) è addirittura leader di mercato. Conta su un
team giovane, con età media di 37 anni, e una cultura organizzativa di
gruppo, con grande attenzione al welfare dei collaboratori (tra il resto, un
asilo nido, una palestra e un campo di beach volley) per rendere migliore
il loro bilanciamento tra vita personale e vita professionale. Sta inoltre
riportando in Italia parte delle produzioni che erano state localizzate
all’estero.
Un segno della leadership del nuovo giovane presidente è stato quello
di recuperare una linea di prodotto vintage, elevando ed esaltando i pezzi
iconici che erano stati disegnati all’inizio del Duemila, con l’aggiunta di
dettagli di innovazione contemporanea che vanno dal materiale alle
suole. Il tocco del design italiano lo si nota nei nuovi modelli delle linee
sport e lifestyle, dove la reinterpretazione esclusiva prende ispirazione
dalla tradizione salentina dell’antica arte delle luminarie. E questa
archive-innovation è consentita anche dal riuso dei macchinari anni
Ottanta che rimarcano la linea originale: «Lo si può definire lo Slow
Food della calzatura»¸ dice Moretti Polegato, riferendosi a una
141
produzione di artigiani professionisti che fanno 160 pezzi al giorno.
«Numeri da industria “1.0”, ma che ci aiutano a offrire prodotti di alta
gamma molto apprezzati da un pubblico d’élite.»
In molte importanti discipline sportive oggi Diadora è presente con i
propri prodotti ed è ufficialmente rientrata anche nel mondo del tennis,
con una collezione completa di abbigliamento, calzature e accessori e
con il ritorno del classico logo a cinque palle. Non ci sono più i
testimonial di una volta ma, attraverso social e influencer, il brand è
sospinto da personaggi coerenti con i valori sportivi ma anche con
l’autenticità artigianale del Made in Italy. Anche nel mondo delle arti e
della musica, grazie a iniziative scelte personalmente dal presidente.
Normale che un’azienda così faccia gola all’ambiente degli investitori
e dei private equiter. Ma Enrico Moretti Polegato su questo è fermo:
«L’azienda si autofinanzia ed è in grado di generare cassa. E resterà un
affare di famiglia. Né soci, né fondi. Resterò al timone a lungo».
142
41 Aprite i rubinetti: la classe non è acqua
Nobili Rubinetterie, Suno (Novara)
Sembra una barzelletta con il giapponese, il tedesco e l’italiano. Con la
differenza che qui l’italiano non è il solito guascone furbo e opportunista.
No, in questo caso l’italiano è colui che con perizia riesce a combinare la
produttività efficientistica tedesca con l’innovazione della robotica
giapponese e a realizzare un capolavoro di manifattura Made in Italy.
Una miscela ideale per segnare un’impresa all’avanguardia di assoluto
livello. Stiamo parlando di Alberto Nobili, presidente della Nobili
Rubinetterie, oggi alla testa con il fratello Pierluigi di una delle più
rilevanti aziende del distretto industriale che caratterizza la zona tra il
lago d’Orta e la Valsesia. Campione nell’export europeo dei rubinetti di
alta gamma per bagni e cucine, alla Nobili tutto è inodore, silenzioso e
pulito, anche nei reparti tradizionalmente più inquinanti, come la
fonderia e la cromatura. «Si potrebbe anche mangiare per terra», sostiene
il presidente. Ed è vero perché i prodotti vengono sabbiati, tagliati,
smistati, assemblati e impacchettati da robot provenienti dal Giappone
(ma perfezionati dal talento ingegneristico del titolare). «Giro
costantemente tutte le fiere delle macchine utensili e visito gli
stabilimenti dei concorrenti e degli altri settori, per prendere ispirazioni
da incorporare poi nelle nostre linee di produzione automatizzate.» La
lavorazione delle barre che portano al prodotto finito è controllata da un
sistema elettronico integrato, che dirige con precisione millimetrica i
movimenti e le funzioni delle macchine. Il tutto in modo autonomo,
senza l’intervento continuo di operatori umani.
Il segreto della Nobili è quello di non aver creduto alla fine del
Novecento alla sirena della delocalizzazione verso i paesi a più basso
costo del lavoro (Est Europa e in particolare Cina) e avere invece
concentrato la produzione tutta in Italia con coraggio e testardaggine,
143
anche quando i consulenti di strategia sconsigliavano questa mossa.
Ovviamente una scelta di questo tipo poteva essere accompagnata solo
da ingenti investimenti in automazione e robotica applicata. E infatti la
Nobili spende ogni anno intorno al 10 per cento del fatturato in rinnovo
del proprio macchinario e in ricerca e sviluppo. Oggi che in Asia il costo
del lavoro è invece velocemente in crescita, la decisione di Alberto
Nobili sembra pagare: mentre i concorrenti cinesi (locali o di ibridazione
italiana), progettati per le grandi serie, sono obbligati a riconvertire i loro
impianti verso una maggiore meccanizzazione, che però è molto costosa
perché deve essere fatta tutta in un botto, l’azienda novarese può
permettersi di realizzare prodotti sempre più di alta gamma e a lotti
sempre più piccoli e customizzati.
La Nobili nasce nel 1954 quando Carlo Nobili dà vita al suo sogno
imprenditoriale, allora meramente commerciale, distribuendo rubinetti di
qualità dal sito di Borgomanero, in provincia di Novara. Alla fine degli
anni Novanta, i figli Alberto e Pierluigi assumono la guida dell’azienda
che nel frattempo è diventata anche produttiva con la fabbrica di Suno, e
lanciano così il Gruppo nel segmento alto contrassegnato dall’estetica
dell’interior design. Seguono acquisizioni importanti come la CGS e la
Rubinetteria Stella, che rappresentano il sinonimo di lusso e di
artigianalità italiana. La produzione raggiunge oggi circa tre milioni di
rubinetti all’anno per un fatturato complessivo di circa 120 milioni di
euro, consentendo una redditività di tutto rispetto, superiore al 10 per
cento dei ricavi. È la sola azienda in Europa del comparto a disporre del
ciclo completo in un unico sito, a seguito del recente avvio del reparto
fusione.
Scelte imprenditoriali, dicevamo, coraggiose e controtendenza, nella
convinzione che il mondo Nobili sia un mondo dove la macchina è al
servizio della persona, della sua qualità della vita e del rispetto in
generale per l’ambiente. Spesso i due titolari si ritrovano con i loro
impiegati e operai in mensa, che è un vero e proprio ristorante à la carte.
E non è raro vedere il presidente Alberto che nella prima ora mattutina
alterna nel suo ufficio di stabilimento la lettura dei giornali con il
ricevimento dei collaboratori che bussano alla porta per interloquire e
affrontare con lui i problemi professionali ed extraprofessionali che li
assillano. Duecentoquaranta dipendenti, tutti molto orgogliosi di lavorare
nel Gruppo di Suno. «Neanche un’ora di cassa integrazione, né di
sciopero», sostengono fieri i proprietari dell’impresa.
Un vecchio adagio sostiene che «la classe non è acqua». Niente di più
fuorviante in questo caso dove l’eccellenza coincide proprio con la
144
trasmissione del liquido. A dimostrazione che il Made in Italy non è
prerogativa solo di moda, arredamento e agroalimentare, bensì può
essere materia prima anche nella manifattura più tradizionale.
Una visita alla Nobili Rubinetterie e una passeggiata per i suoi reparti
di fabbrica dovrebbero essere prescritte alle scuole e a tutti coloro che
sono alla ricerca di tangibili segnali di riscatto imprenditoriale in questa
nostra Italia scombinata. Un ricostituente per chi ancora spera che non
tutte le sfide del Bel Paese siano andate definitivamente perdute.
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42 Il network dei dentisti high tech
Gruppo EDN, Firenze
Se è raro trovare medici che si occupano di denaro e investimenti,
rarissimo è che in questa categoria professionale alberghino dei veri
gestori aziendali. Il caso di EDN, Excellence Dental Network, è pertanto
una storia fuori dal comune: il capo di questa impresa, il dottor
Francesco Martelli, natìo di Torre di Ruggiero in provincia di Catanzaro
ma cresciuto culturalmente e professionalmente a Firenze, è
contemporaneamente un clinico, un ricercatore accademico e un
imprenditore.
Il tutto si origina alla fine del secolo scorso. Martelli è un odontoiatra
4.0 ante litteram che crede nella sinergia fra tecnologie complesse e
conoscenze scientifiche avanzate, per creare terapie fortemente
innovative e personalizzate con cui curare la parodontite (infezione
batterica polimicrobica molto diffusa che causa una infiammazione
cronica dei tessuti preposti a sostegno dei denti, più diffusamente nota
come piorrea). Egli realizza che gli interventi chirurgici hanno spesso
effetti peggiorativi sui pazienti o li espongono a rischio concreto di
recidiva. Così appronta un suo sistema non invasivo che utilizza in modo
integrato metodi innovativi, quali il laser, il microscopio e le analisi
biomolecolari. È il successo. Nasce a Firenze l’Istituto Clinico che si
occupa di ricerca e formazione (dove ora c’è il quartier generale del
brand EDN) e piano piano vengono progettate e aperte sul territorio
nazionale delle master clinics e delle strutture minori, in una logica di
partnership con medici locali. In pochi anni la sede di Firenze si allarga
in rete a Roma, Torino, Padova, Milano, Bari, Catanzaro e Napoli fino ad
arrivare a undici cliniche e a venti corner decentrati. «Si trattava di
invertire il flusso del cosiddetto turismo medico, che vedeva soprattutto
gli italiani andare all’estero o i meridionali andare al nord per curarsi»,
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dice Martelli, oggi presidente di EDN. Le mete più gettonate erano
Croazia, Romania, Ungheria, spesso per sottoporsi alle cure di
odontoiatri a prezzi stracciati, raramente con garanzia di serietà. Proprio
per non subire inerti questo esodo, EDN stringe un network
professionale decentrato che consente ai pazienti di trovare vicino a casa
le stesse esperienze terapeutiche di eccellenza fruibili nelle cliniche
principali.
L’idea di una rete di centri odontoiatrici viene a Francesco Martelli
quando conosce il primo franchising per dentisti in Spagna, Vitaldent.
«Stava succedendo ciò che per i centri commerciali e la grande
distribuzione era avvenuto negli USA negli anni Sessanta e Settanta.
Forti economie di scala e possibilità di utilizzare le medesime strategie di
marketing e promozione. Certo, di fronte a queste innovazioni, molti
colleghi medici snobbavano la tendenza, quando non erano preoccupati
per una supposta cannibalizzazione della clientela. Ma la logica dei
grandi investimenti in tecnologia e di costruzione di protocolli costosi
ma innovativi spingeva per la crescita e per l’aggregazione di piccole
realtà troppo frammentate.»
La EDN non scende però sul terreno del low cost, bensì mette al
centro del servizio erogato la qualità puntando sui nuovi strumenti e sulle
diagnosi sofisticate e personalizzate, che provengono dal suo istituto di
ricerca e dal know-how consolidato all’interno. E disegna una struttura
di partnership con i medici che non ha valenza gerarchica, bensì una
condizione di condivisione paritetica di buone pratiche aziendali. Il tutto
con autofinanziamento e con un piccolo aiuto di investitori esterni, che
consentono di impostare e realizzare anche un processo di
internazionalizzazione che, con il marchio IMI (International
Microdentistry Institute), parte dal Regno Unito e si espande in
Danimarca e Grecia, esportando il modello di business italiano in altri
mercati europei.
Oggi che il fatturato aggregato è intorno ai 15 milioni di euro c’è
ancora un grande potenziale di crescita, a sottolineare i fattori di
successo della formazione e dello sviluppo professionale dei partner che
via via vanno ad aggiungersi. Le aree di sviluppo professionale ad alto
potenziale sono il Brasile, gli Stati Uniti e la Cina, mentre il caso più
prestigioso del Gruppo è quello della clinica fuoriclasse di Leeds, nello
Yorkshire, la zona che dopo Londra ha il maggiore tasso di crescita
economica del Regno Unito.
«Per i processi e i sistemi che abbiamo messo in atto, siamo strutturati
come un’azienda che fattura 100 milioni di euro», azzarda il presidente,
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che ormai guida il suo impero facendosi aiutare da un consiglio di
amministrazione dalla governance esperta. Un medico ormai di fama
internazionale: il Daily Mail, quotidiano letto da tre milioni e mezzo di
inglesi, ha riconosciuto nel 2016 con un’intera pagina e un servizio
molto approfondito, che il trattamento della malattia paradontale di
EDN, biologicamente guidato con microscopio e laser, rappresenta un
vero miracolo della cura odontoiatrica. E così il luminare Francesco
Martelli ha anche acquisito il titolo di professionista più stimato di
Inghilterra (indice di notorietà 17), strappandolo a un altro italiano, il
salernitano Antonio Carluccio, reputatissimo chef proprietario di
ristoranti e alberghi nel Regno Unito (indice di notorietà 16).
Il segreto dell’autodidatta imprenditore? «Non ho ricevuto nessun
aiuto. Sono figlio di impiegati statali del profondo Sud. Ho sempre
lavorato il doppio. Non mollo mai e non mi conformo al pensiero
dominante.» E il caso del network nato all’ombra della cupola del
Brunelleschi è la prova che il nostro Paese ha ancora tante carte da
giocare, specialmente se la strada della ricerca applicata viene percorsa
con determinazione, rigore e tanta passione.
148
43 Quanti business nell’alambicco
Distilleria Marzadro, Nogaredo (Trento)
«Dammi una Marzadro!», dicevano i contadini di ritorno dal lavoro nei
campi, entrando nel bar del paese di Brancolino, in Trentino. Erano gli
anni del secondo dopoguerra e fino ad allora non era mai successo che
un’acquavite fosse chiamata con il nome di una famiglia. Perché
Marzadro era il cognome di Sabina e di Attilio, che nel 1949 avevano
fondato appunto la Distilleria Marzadro in un borgo di non più di
trecento abitanti, tutti cresciuti con il profumo della vinaccia e con il
gusto di distillare nei propri alambicchi la grappa per conservare la
frutta. A dire il vero la fondatrice fu Sabina che, in un periodo storico in
cui la povertà non lasciava scampo, era stata costretta per dodici anni ad
andare «a servizio» in una casa di signori romani e poi, con il sogno nel
grembiule, era tornata a casa con la ferma intenzione di cambiar vita e
aveva convinto il fratello contadino Attilio a lanciare una distilleria nel
paese natìo. Sabina all’amministrazione e Attilio a fare le consegne a
Rovereto e dintorni in sella a una Moto Guzzi col sidecar colmo di
bottiglie: una scena di un film in bianco e nero, racconto di un’epoca
remota tipica della prima industrializzazione italiana.
Da allora sono passati oltre settant’anni e molte svolte si sono
succedute nella vita dell’azienda: fasi di sviluppo ma anche fasi critiche,
dove l’eccessiva sovrapproduzione da parte delle imprese di distillati ha
quasi messo in ginocchio la commercializzazione della grappa, scesa
negli anni Ottanta ai minimi storici. La Marzadro però ha sempre reagito
alle battute d’arresto con un rilancio basato sull’innovazione: all’inizio
con un prodotto monovitigno, frutto delle vinacce di Marzemino; poi con
le grappe aromatizzate e le infusioni alla frutta (mirtillo) e alle erbe
alpine (asperula, ortica, ginepro, ruta); successivamente con gli
invecchiamenti in botti di diversi legni pregiati. Nel frattempo l’azienda,
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precedentemente suddivisa su tre siti produttivi, si concentrava all’inizio
del 2000 con una grande distilleria localizzata all’uscita del casello
autostradale di Rovereto Nord e l’apertura di un punto di degustazione
con una suggestiva sala degli alambicchi, dove si potevano cogliere i
segreti del distillato.
Quella localizzazione, dove oggi si fermano più di 60.000 turisti
all’anno, ha fatto maturare agli azionisti della Marzadro la
consapevolezza che il consumo del liquore va a braccetto con la crescita
del turismo alpino e, grazie a ciò, si è sviluppata una distribuzione
capillare dalle Dolomiti fino alla Valle d’Aosta.
Oggi Marzadro fa più di un milione e mezzo di bottiglie raggiungendo
con i suoi prodotti di alta gamma un fatturato ogni anno in crescita e
superiore ai 20 milioni di euro, con un EBITDA che si aggira sul 15 per
cento e una penetrazione all’estero del 20 per cento del volume di affari,
con in testa Germania, Austria e Svizzera.
Dai primi anni di questo secolo il brand di punta è la grappa Le
Diciotto Lune, ottenuta da cinque vinacce trentine (Marzemino,
Teroldego, Merlot, Moscato e Chardonney), con invecchiamento
aggiuntivo di 18 mesi. Ma il catalogo è ampio ed è basato anche su
Giare, linea di prodotto invecchiato 36 mesi, Espressioni da 4 a 6 anni e,
ultimamente, Infusioni e Luz Gin, destinati a un target più giovane che
ama la mixology e il cocktail bar. L’innovazione, dicevamo, è continua e
negli ultimi anni la tecnica di microssigenazione ha sperimentato un
invecchiamento in anfore di terracotta che respirano anche meglio del
legno. E da questo esperimento quasi estremo è nata una nuova gamma,
chiamata ovviamente Anfora.
Alla testa del Gruppo c’è il figlio di Attilio, il presidente Stefano
Marzadro, che più di ogni altro ha incarnato lo sviluppo dell’impresa.
Ma scalpita la terza generazione, perché in famiglia ci sono 43 persone,
tra fratelli, nipoti e pronipoti. E non manca mamma Teresa, moglie di
Attilio, che ultranovantenne è ancora attiva in distilleria con stimoli e
validi consigli. Come spesso accade con il processo di successione
generazionale, i giovani azionisti hanno cercato di guardare oltre la
grappa ed è arrivata una saggia diversificazione del business. Accanto al
vino e all’olio DOP, la famiglia ha acquistato la tenuta Madonna delle
Vittorie ad Arco, sulla sponda nord del lago di Garda. E sono state fatte
delle incursioni nell’attività agrituristica e nella cucina specializzata nei
menu tipici del Trentino.
Alessandro, dell’ultima generazione, dice: «Dalla prozia Sabina e dal
nonno Attilio abbiamo ereditato una grande cultura; poi mio padre
150
Stefano e i miei zii hanno segnato importanti traguardi. Adesso quelli
della mia età stanno impegnandosi per “amalgamare” ciò che è stato
fatto sino ad oggi». E il tutto sempre con un occhio al territorio perché,
continua Alessandro, «almeno la metà degli abitanti di Brancolino ha
lavorato nella distilleria e ora cerchiamo di restituire il debito che
abbiamo con la collettività locale dando una mano concreta alle
associazioni che hanno bisogno».
151
44 Nella catena di montaggio delle idee
e-Novia, Milano
In una Paese dove la retorica «startuppara» non ha prodotto poi così tante
partenze giuste, il caso di e-Novia si distingue come modello innovativo
di successo, con la sua avanzata a doppia cifra negli anni recenti. Non è
un incubatore né un acceleratore di microaziende. Loro si definiscono
«fabbrica di imprese» e in effetti funzionano come una «catena di
montaggio»: trasformano ricerca in prodotti, ricercatori in imprenditori,
startup in imprese finite. Una cultura di ciminiere nel mondo del digitale.
E il successo è stato talmente violento che il Financial Times ha
collocato e-Novia per due volte nel 2018 e nel 2019 tra le mille società
europee cresciute più velocemente. La differenza rispetto alla formula
del garage californiano sta nella forte attenzione alla struttura. Il CEO,
Vincenzo Russi, una carriera nell’ICT tra l’Olivetti di Ivrea e la Silicon
Valley, racconta che l’azienda si muove con finanziamenti mirati,
secondo regole da rispettare al millesimo, con una selezione molto
rigorosa delle competenze.
Sono oltre trenta le iniziative imprenditoriali che hanno trovato nel
Gruppo le risorse economiche e figure professionali per decollare e più
di quaranta i brevetti internazionali depositati. Nel quartier generale di
via San Martino nel centro di Milano lavorano più di 190 ingegneri,
designer ed esperti di settore (il 65 per cento è under 30), che superano le
250 unità se consideriamo tutte le imprese controllate e partecipate.
Decisiva la formazione: uno su quattro possiede un dottorato. Il business
di e-Novia è quello di promuovere società innovative, lavorando a stretto
contatto con centri di ricerca universitari italiani e internazionali
specializzati in robotica, sistemi veicolari, meccatronica e tecnologie
industriali.
152
Fondata nel 2015, nel 2021 e-Novia vantava un bilancio che recitava
una crescita dell’EBITDA a due cifre, così come dell’utile netto, in
aumento allora per il sesto anno consecutivo. Ed è salita anche la
presenza degli investitori, e l’approdo in Borsa resta nell’orizzonte dei
possibili sviluppi. Ai soci fondatori Vincenzo Russi, Cristiano Spelta, Ivo
Boniolo e Sergio Savaresi si è aggiunta una ricca compagine di
imprenditori, tra cui Sergio Dompè dell’omonima azienda farmaceutica,
Alberto Bombassei di Brembo, Michele Scannavini, Carolina Cortellini,
Uggero de Miranda, Giovanni Fassi, Pasquale Forte, Aldo Bonomi delle
Rubinetterie Bresciane, Marco Checchi della Pelliconi, Marco Monti di
Esprinet.
I progetti che hanno avuto più fortuna sono: Yape, un postino
automatizzato di ridotte dimensioni su due ruote, che l’operatore
giapponese Japan Post ha testato per la consegna dell’ultimo miglio a
Fukushima e che l’aeroporto di Francoforte ha recentemente utilizzato
per accompagnare i viaggiatori al gate; BluBrake, un impianto frenante
per le biciclette elettriche dotate di sistema antibloccaggio ABS; HiRide, sospensioni capaci di adattare la rigidità dell’assetto delle due
ruote in modo dinamico; e altri ancora, come sistemi per car sharing,
suole per calzature ammortizzate, droni capaci di stare in volo senza
scaricarsi, anelli che percepiscono sensazioni tattili.
C’è volontà in e-Novia, dopo la sede di San Francisco, di aprire sedi in
Giappone e in Israele, perché lì apprezzerebbero i tre principali punti di
forza di questa avventura, unica nel panorama industriale italiano: 1) un
modello di business che coniuga alta tecnologia e saper fare
manufatturiero del Made in Italy; 2) la capacità di generare non solo
imprese ma soprattutto nuovi giovani imprenditori con la possibilità di
realizzare i loro progetti di alto valore potenziale; 3) la qualità della
governance che risiede nelle persone che hanno dato vita a questa
azienda e che credono che la scienza applicata possa essere competitiva
non solo al di là dell’Atlantico ma anche all’interno dello Stivale.
153
45 Il signore dell’alluminio
Pentole Agnelli, Bergamo
Bergamo, Italia, via Fantoni. Siamo nel 1907. L’insegna recita:
«Fabbrica di Alluminio Baldassare Agnelli». È da qui che parte la storia
del Gruppo Agnelli (nessuna parentela con la dinastia di Torino): oggi
150 milioni di fatturato, 350 dipendenti, 13 stabilimenti. Un triangolo
geografico tra Lallio, Brescia e la Val Chiavenna, nel profondo Nord
dove i capannoni si rincorrono. Il giovane Baldassare (una sola erre),
apprendista cesellatore orafo, viene inviato dai genitori nel lontano 1905
a uno stage in Montenegro dove il ragazzo vuole approfondire l’arte
dell’Islam e degli artigiani arabi. Là scopre invece un metallo nuovo,
l’alluminio, che sarebbe diventato il protagonista dell’industria di
famiglia.
La storia dell’impresa viaggia parallela alla storia del Paese, con un
unico preciso obiettivo strategico: crescere di dimensione. C’è la prima
guerra, poi la seconda e anche la guerra d’Africa. Obbligatorio nei
momenti bellici cedere le pentole per fondere l’ottone e fabbricare i
proiettili, e così il rame viene requisito con le pentole prodotte dalle
aziende. Come fare con le pignatte delle famiglie? Nasce l’idea di
utilizzare l’alluminio, che conduce meglio degli altri metalli, e le case
degli italiani si riempiono di casseruole d’alluminio della ditta Agnelli.
Si affronta la concorrenza puntando sempre più sulla qualità dei prodotti
e anche il contraccolpo delle pentole di acciaio inossidabile (sospinte
dallo status symbol americano di manufatto simbolo di ricchezza e di
agiatezza) viene rintuzzato dal nonno orafo e da suo figlio Angelo,
rilanciando ostinatamente con l’alluminio. Quello infatti è il metallo nato
con la modernità e le sue potenzialità sono tutte da scoprire.
Alcuni prodotti iconici di allora sono oggi visibili al Museo della
pentola a Rozzano, visitabile su appuntamento. Si può scorgere uno
154
spremiagrumi fatto per l’Andrea Doria con lo spicchio di limone che
viene stritolato tra due mezzelune di metallo ottonato. Oppure la
borraccia Agnelli che Bartali e Coppi si scambiano su una salita del Giro
d’Italia. O, ancora, la pentola Quadrifoglio del 1936 per cuocere quattro
piatti diversi con lo stesso gas («costo 60 lire – cuoce un pranzo
completo per 6 persone su una sola fiamma», si legge nella réclame).
Baldassare diventa negli anni tra le due guerre uno dei più giovani
Cavalieri del Regno e mette le premesse per fabbricare, accanto alle
pentole, alcuni altri componenti industriali. L’alluminio è ormai una
fede, un must. E nel secondo dopoguerra si apre appunto lo scenario del
«non solo pentole» con la produzione e la commercializzazione di
tramogge delle caldaie, tubi, componenti per l’automotive e altri
manufatti diversificati. Nascono nuove società che sviluppano nuovi
comparti: le Trafilerie Alexia con grandi impianti automatizzati che
fanno uscire semilavorati adatti a tutti gli standard europei; Alucoln per
la finitura dei beni di ossidazione anodica; Alugreen che ricicla i vari
rottami metallici recuperati in tutto il mondo e consente così alle aziende
Agnelli di essere indipendenti dalle multinazionali che dispensano
l’alluminio; Aluproject, per i progetti speciali. Oggigiorno queste
applicazioni sono infinite in tutti i settori e la Agnelli Metalli sorpassa di
gran lunga la Agnelli Pentole. Ma il Gruppo industriale di famiglia non
dimentica il suo prodotto di origine e addirittura apre uno showroom
sulla Fifth Avenue di Manhattan dove si insegna agli americani a
cucinare nelle casseruole italiane.
Paolo Agnelli, attuale presidente, e il fratello Baldassare rappresentano
la terza generazione e sono oggi pronti a passare il bastone del comando
ai loro figli (Cristiano ed Enrico, da parte di Paolo, e Angelo, da parte di
Baldassare), tramandando loro insieme il monito di nonno Angelo: «siate
sempre uniti, sempre, sempre, sempre uniti». E l’unità familiare viene
rispettata anche con la prassi secondo cui non si deve mai incassare il
dividendo di fine anno e indirizzare invece la redditività alla crescita del
patrimonio aziendale.
Il DNA dell’alluminio è il collante che cementa la famiglia: «noi
abbiamo passato l’infanzia frequentando lo stabilimento e togliendo il
filo dal bordo delle pentole. Chi nasce in fabbrica è fabbrica», racconta
Paolo Agnelli. Il giovanissimo Angelo, creativo di casa, si è inventato
anche l’hashtag #nontoccatemilapadella, un movimento che ha
addirittura coalizzato un collettivo con i migliori chef del pantheon
padellare. «La padella è il sintomo della sapienza in cucina e insieme
della cultura e dell’agire del cuoco in armonia con il cibo.» È un
155
manifesto contro l’avanzata delle cotture molecolari e dei microonde.
Una padella anti-gender, per intenderci. E il successo si celebra a
Bergamo con i dati: un milione di pentole all’anno; 75 per cento del
mercato italiano di fascia alta e 30 per cento di quello mondiale, con il
tutto esaurito per chef e aspiranti chef.
Visti i risultati, la coesione della famiglia e la sua dinamicità, non
sembra il caso di fare la canonica domanda: che cosa di nuovo bolle in
pentola?
156
46 E se vendessi l’azienda ai dipendenti?
Ar.pa Lieviti, Ozzano dell’Emilia (Bologna)
C’è un modo originale e poco frequente di risolvere il complesso
processo di successione imprenditoriale, specie se l’azienda è di successo
e l’età avanzata del fondatore suggerisce di portare a termine il passaggio
in tempi non biblici: cedere l’impresa ai propri dipendenti. È ciò che è
successo nel 2019 alla Ar.pa Lieviti di Ozzano Emilia, in provincia di
Bologna, dove l’allora 78enne Paolo Fantazzini, non convinto delle
trattative di vendita dell’azienda a terzi, ha proposto ai venti operai e
impiegati dipendenti di prendersene carico come imprenditori. La
proposta è stata accolta favorevolmente da un gruppo di costoro, che ha
rilevato Ar.pa, con l’accordo di pagare il prezzo di acquisto con gli utili
aziendali che si sarebbero accumulati nei successivi dieci anni («ma
speriamo di meno!», sorride l’attuale presidente Carla Gherardi).
Ma andiamo con ordine. Tutto nasce in un negozio alimentare di
Pianoro, dove i lieviti per cibi salati e dolci vengono fabbricati e
impacchettati in bustina. Nel 1972 i fratelli Arcangelo e Paolo Fantazzini
(dalle cui iniziali si origina Ar.pa) comprano l’attività coronando il loro
sogno imprenditoriale e la trasferiscono a Ozzano, incrementando man
mano la gamma di prodotti con preparati per crema, budini e panna cotta.
I lieviti sono composti da materie prime selezionate e riconosciute con
uno standard altamente qualitativo. Con il furgoncino si visitano le
panetterie e le pasticcerie in loco, in una logica di tentata vendita.
Seguono acquisizioni di marchi più piccoli e gli affari vanno a gonfie
vele per decenni. Il mercato è inizialmente quello Horeca dei laboratori,
ma poi si riesce a penetrare anche nella GDO locale, con i maggiori
supermercati in Emilia, Lombardia e Veneto. L’azienda macina utili (nel
2021 un margine lordo del +25 per cento) e, in assenza di indebitamento,
si accumula un’ingente liquidità.
157
Si arriva così alla fine del 2018 con la cessione ai dipendenti.
«All’inizio eravamo galvanizzati», dice ancora la presidente Gherardi,
«invece di perdere il lavoro perché l’azienda avrebbe potuto chiudere in
assenza di un imprenditore audace, i dipendenti che avevano raccolto la
sfida (sei tra i più coinvolti managerialmente) erano convinti che
l’azienda fosse di successo, finanziariamente sana e con grandi
opportunità di crescita. Poi abbiamo anche realizzato quanto duro fosse
fare gli imprenditori in questo Paese, ma che cosa avremmo potuto fare
noi in alternativa alla nostra età di cinquantenni? E comunque questo
lavoro ci appassiona e le nostre famiglie ci hanno sostenuto». Carla
Gherardi è stata per più di trent’anni il braccio destro di Paolo Fantazzini
e la sua competenza di responsabile amministrativa di Ar.pa l’ha di fatto
incoronata al vertice della società. Ora socia di maggioranza, insieme a
un altro collega e ad altri quattro soci hanno stretto un patto di ferro e
hanno scommesso sulla crescita. «Abbiamo fatto il salto grosso»,
sostiene, «e abbiamo cercato di quasi raddoppiare il fatturato in tre anni,
come recitava il nostro piano triennale».
Le forti ambizioni di crescita si sono coniugate con il lancio di nuovi
prodotti, con l’ammodernamento dei macchinari avvenuto grazie agli
incentivi di Industria 4.0, con l’ottimizzazione della rete commerciale
sostenuta da azioni di marketing e di comunicazione.
Oggi Ar.pa ha circa 20 dipendenti e un fatturato a fine 2021 di 6
milioni di euro. Il Covid li ha colti di sorpresa con una domanda
impazzita di lievito, divenuto dappertutto introvabile, costringendoli a
quintuplicare la produzione da marzo a maggio di quell’anno e
raggiungendo su alcuni prodotti anche il +900 per cento rispetto alla
media dell’anno precedente. Ma la squadra ha retto bene. «Ci
supportiamo a vicenda, ci confrontiamo spesso, c’è un rapporto di
amicizia. E, ciò che più conta, siamo convergenti sulle prospettive di
sviluppo: aspettative ambiziose, senza fare il passo più lungo della
gamba.»
E Paolo Fantazzini, ormai non più padrone e lieto di aver dato alla sua
creatura una strada di continuità, ha continuato a collaborare e a dare
consigli, perché chi ha lavorato cinquant’anni in quel settore conosce
segreti troppo preziosi.
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47 Quando ogni generazione aggiunge un
pezzo in più
Gruppo Pagano, Roma
Quasi un secolo imprenditoriale imparentato col legno, quello della
famiglia Pagano. Una cultura aziendale che prende spunto dagli anni
Trenta, quando nonno Biagio, che abita sulla costiera amalfitana, fonda
l’azienda che realizza carretti per portare la frutta, spingendosi anche
fino alla costruzione dei gozzi di Cetara. L’artigianalità nel lavorare il
legno è il punto di forza e questa eccellenza se la porta con sé anche il
figlio Vincenzo, quando decide di trasferirsi a Roma e di dedicarsi al
restauro di mobili dell’alta borghesia capitolina: negli anni Sessanta
l’atelier Pagano è famoso in tutta Italia per la capacità di far rivivere
pezzi unici reperiti nelle diverse dimore della città. Ma Vincenzo Pagano
è un visionario e i mobili non gli bastano. L’amore per il materiale, unito
alla creatività e alla consapevolezza di voler realizzare qualcosa di unico
e irripetibile, stimolano il suo spirito di iniziativa. Con un po’ di
coraggio, di passione e di follia egli incarna benissimo il miracolo
economico di quegli anni e sviluppa un nuovo concetto di prodotto: il
legno, lavorato secondo criteri di qualità, può caratterizzare un’intera
casa. Ecco allora la predisposizione di chalet di legno, che l’imprenditore
colloca in terreni acquistati alle porte di Roma, realizzando interi villaggi
fatti tutti quanti con quel materiale.
Il primo chalet firmato Pagano è a Roma nel 1959, seguito da un altro
nel 1963 a Oricola in provincia de L’Aquila. Alla fine degli anni
Sessanta si inaugura il primo vero impianto produttivo a Arsoli in
provincia di Roma, che consente di produrre semilavorati, poi smontati
in blocchi per essere trasportati e successivamente assemblati in loco. Gli
anni Settanta e Ottanta sono la vera esplosione dell’azienda: si
costruiscono ville, club house sportive, centri commerciali in Italia e poi
159
in tutte le parti del mondo. Caratteristica costante l’alta qualità del
materiale e l’estetica Made in Italy, che si ispira ai più «puliti» architetti
del pianeta come Wright e van der Rohe. Manufatti che interpretano al
meglio tutta la sostenibilità e la salubrità della nuova edilizia. Il
segmento di mercato è ormai quello del lusso e l’azienda Pagano inizia a
consegnare i suoi prodotti a tycoon molto facoltosi e amanti
dell’architettura di alta gamma.
Ciliegia sulla torta del costruttore è la capacità di adattare le case alle
caratteristiche del contesto e delle preferenze di chi ci abita. Questo
tocco «sartoriale» consente all’impresa di sfondare in Svizzera, negli
Hampton, in Russia, a Miami, in Giappone, dove vengono
commissionate ville monofamiliari di migliaia di metri quadri (per
l’ultima villa in Russia sono partiti dall’Italia 150 Tir di semilavorati e in
quattro mesi è stata portata a termine la costruzione di una dimora di
6000 metri quadri con 2000 metri quadri incrementali di piscina, spa e
sala cinematografica).
Ora al governo dell’azienda ci sono i figli di Vincenzo, con Andrea
Paco al timone nel ruolo di amministratore delegato. Tutte persone che
hanno respirato fin da piccole il profumo di falegnameria e di segatura, e
che ben ricordano il DNA di nonno Biagio e il suo mestiere di «facocco»
di carretti e carrozze. A loro nel nuovo secolo il compito di rompere
ulteriormente gli schemi e gli equilibri del passato per continuare la
magica avventura del legno «su misura». Ormai le commesse sono
grandi e impegnative, come quella a Soči in Russia, dove è stato
realizzato un progetto di venti lussuosi chalet accanto alla pista olimpica
di discesa libera utilizzata nelle Olimpiadi invernali. E l’organico intanto
ha raggiunto i 32 dipendenti.
Sostiene Andrea Pagano, rientrato da Ginevra dove l’azienda ha
assemblato una villa Pagano sul lago elvetico: «Stiamo ultimando un
sistema tecnologico e logistico per delocalizzare la fase di lavorazione
finale in partnership con operatori locali. In Italia con i nostri macchinari
brevettati prepariamo un kit di alta maestria artigianale, per poi
completare nel contesto del cliente i vari blocchi. Ciò ci consente anche
di abbassare i prezzi delle commesse, senza però abbassare l’eccellenza
delle finiture. E per i tre mercati stranieri dove Pagano vuole aumentare
la quota di mercato (Est Europa, Svizzera e Stati Uniti) si prevede un
rilevante e crescente successo: «Così facendo ci distinguiamo dai nostri
concorrenti, giocando quasi un ruolo di sviluppatore immobiliare. E ciò
ci consentirà di segnare una nuova stagione nel lungo percorso
imprenditoriale del Gruppo Pagano».
160
Quanta strada dai carretti del nonno! E l’avventura evolutiva non
sembra terminare.
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48 Invaderemo il mondo con le insalate
Gruppo La Linea Verde, Manerbio (Brescia)
«Per noi la parola d’ordine oggi è “Correre!”, perché chi si ferma
purtroppo non sta fermo, ma retrocede», dice Domenico Battagliola, che
con il fratello Giuseppe ha fondato nel 1991 il Gruppo La Linea Verde,
oggi tra i top quattro produttori di insalate in busta e di una gamma
sempre più articolata di zuppe fresche, estratti di frutta e piatti pronti.
Partito quasi trent’anni fa, grazie a uno spin off dell’azienda agricola
di famiglia di dieci ettari a Manerbio in provincia di Brescia, oggi il
Gruppo è noto al grande pubblico per il marchio DimmidiSì, che conta
per un quarto dei 350 milioni di fatturato del 2021. Una storia da record,
sia come sviluppo che come marginalità (26 per cento di EBITDA medio
negli ultimi anni). La Linea Verde è oggi uno dei maggiori produttori
europei ortofrutticoli di beni pronti al consumo, quelli che in gergo del
settore vengono denominati di IV gamma, cioè frutta e verdure fresche,
lavate, confezionate e da mettere in tavola senza altre manipolazioni. La
gamma è poi completata dalle insalate arricchite – da insalata come
contorno a insalata come piatto unico – disponibili in un ampio
assortimento di ricette. Con le sue 250 tonnellate di materia prima
lavorate quotidianamente e 2 milioni di pezzi prodotti al giorno, il
Gruppo La Linea Verde è soprattutto co-packer, poiché è fornitore di più
di 60 marche private.
Grazie alla visione di spirito internazionale e all’immagine di azienda
italiana, moderna, dinamica, fortemente legata alla terra e con grande
attenzione a una filiera agricola responsabile nel controllo e nella
certificazione, l’azienda si è costruita una reputazione di grande
responsabilità sociale dal seme alla distribuzione. Riesce a rendere
disponibile il prodotto tutto l’anno a qualità costante e a fidelizzare in un
rapporto di partnership più di 70 coltivatori agricoli, sia convenzionali
162
che biologici. Infatti, il legame virtuoso oggi imprescindibile tra persone
sane, aziende sane e pianeta sano rende ancora più evidente quanto è
stato sottolineato dai cambiamenti climatici e dalla recente pandemia di
Covid-19: non è più rinviabile la strategia «dal produttore al
consumatore» di filiera corta («Farm to Fork», elaborata dalla UE
nell’ambito del piano decennale Green New Deal). La Linea Verde segue
con molto scrupolo tale dettame, investendo molti dei suoi ricavi in
processi di ricerca e sviluppo che anticipino modelli di consumo e di
confezionamento a basso impatto ambientale, in modo da non
confliggere con la sopravvivenza degli ecosistemi e con la salute degli
esseri umani.
Gli azionisti dell’impresa sono orientati massimamente alla
trasformazione continua. «L’innovazione è parte integrante della nostra
storia. È frutto di un desiderio perdurante di rimettersi sempre in gioco. Il
nostro motto è: “cambiare per crescere”», ricorda l’amministratore
delegato Domenico Battagliola. «Una tensione ereditata dai nostri
genitori e trasmessa con cura ai nostri figli.». Perché la seconda
generazione è ormai da qualche anno in azienda, con i cugini Andrea e
Carlo che seguono con determinazione i valori tramandati. Dice Andrea,
direttore generale e prossimo protagonista della nuova governance: «Il
nostro sogno è di rendere duraturo il progetto imprenditoriale dei nostri
genitori».
Sebbene in una zona geografica ferita profondamente dal coronavirus
della primavera 2020, l’azienda non si è persa d’animo. Pur essendo
costretta a rallentare il rapido percorso di crescita, ha continuato a
ristrutturarsi produttivamente e ad arricchirsi come gamma di prodotti: si
sono ampliate le ricette classiche con nuovi sapori e nuovi aromi; le
insalate elaborate hanno aggiunto ingredienti appetitosi come formaggio
e pancetta; i succhi hanno sperimentato nuovi frullati. Inoltre si è
intensificata una forte attenzione al green, con packaging in buste
completamente compostabili, cioè smaltibili con i rifiuti umidi. Occorre
stare al passo con l’evoluzione del mercato e del consumatore e ciò che
in passato avveniva ogni vent’anni, oggi accade ogni tre-quattro anni. E
un grande valore aggiunto è arrivato dalla realizzazione dei progetti
informatici e di digitalizzazione, che, insieme alla società interna di
logistica B&B Enterprise (aperta anche ad altri operatori del settore),
hanno consentito di integrare stabilmente i siti produttivi e i meccanismi
distributivi, ammodernando completamente i flussi dei processi
aziendali.
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Il prossimo futuro è un piano triennale con l’obiettivo di saturare
l’Europa, grazie alla capacità di esportare ovunque il prodotto finito e
confezionato, arrivando a raddoppiare l’attuale fatturato. Il grande balzo
in avanti sarà garantito anche dallo stabilimento più moderno al mondo,
ampiamente robotizzato, che consentirà di conseguire i tre pilastri della
CSR: consentire al personale di lavorare sempre meglio; ridurre i
consumi idrici e produrre internamente energia; estrarre grazie
all’economia circolare combustibile utile per i mezzi di trasporto.
L’immagine che piace ai fratelli Battagliola è oggi quella di un Gruppo
con i piedi ben piantati per terra e la testa fra le nuvole. Questa metafora
coglie bene il radicamento sul territorio da una parte ma dall’altra insiste
sulla visione di chi sa uscire dagli schemi consolidati per guardare verso
orizzonti lontani. E che cosa si può vedere sopra le nuvole? Un mondo
globale, con nuovi clienti potenziali e nuovi stabilimenti da aggregare
per tenere insieme nuove geografie di coltivazioni e nuovi mercati. E, se
si mette bene a fuoco, si può scorgere l’America.
164
49 Felicemente prigionieri del grande
pennello
Pennelli Cinghiale, Cicognara di Viadana
(Mantova)
Alcune pubblicità di Carosello sono ancora scolpite nella mente dei
telespettatori di allora. Una delle più memorabili era ambientata nella
Milano degli anni Settanta, dove in mezzo al caos cittadino e al rumore
dei clacson, un uomo in bicicletta pedalava con un gigantesco pennello
sulle spalle. Un vigile dai guanti bianchi, come era di ordinanza a quel
tempo, lo ferma e lo apostrofa: «Ma cosa fa con quell’arnese? Non vede
che ostacola il traffico». E il ciclista: «Devo dipingere una parete grande,
ci vuole un pennello grande!». E allora la mitica risposta: «Non ci vuole
un pennello grande, ma un grande pennello!». Voce fuori campo:
«Cinghiale!».
Ideato dal grande pubblicitario Ignazio Colnaghi, quello di Calimero e
di «Ava come lava», lo spot fece conoscere in tutta Italia la Pennelli
Cinghiale del Cavaliere Alfredo Boldrini. Una fama poi addirittura
saccheggiata anche dal cinema (il claim comparve in alcune commedie
all’italiana) e dalle battute di molti artisti e personaggi pubblici (tra cui
Dario Fo, Mourinho, Fabio Volo, Jovanotti, Luciana Litizzetto e molti
altri).
L’attività di Alfredo Boldrini, insieme a quella del fratello, aveva
avuto inizio negli anni Trenta, quando i due vendevano pennelli e scope
realizzati artigianalmente da sette donne che lavoravano con la sola dote
delle mani. E i fratelli poi commercializzavano i manufatti macinando in
bicicletta chilometri e chilometri da porta a porta. Nel secondo
dopoguerra l’azienda si sviluppa a Cicognara di Viadana nella Bassa
profonda del mantovano, dove si trova un distretto specializzato nella
165
produzione di pennelli e scope, famoso per la qualità della setola e della
saggina, oltre che per la tecnologia delle macchine mischiatrici. Gli anni
Sessanta e Settanta vedono una stagione di massima espansione
dimensionale dell’impresa, accompagnata dai molti testimonial che
utilizzano la battuta del grande pennello per la loro attività di
comunicazione. Uno tra tutti Sandro Mazzola, idolo interista del
fondatore, che sicuramente contribuisce alla popolarità della marca tra
gli utilizzatori di pennelli e vernici per imbiancare porte e pareti.
Oggi intorno alla Cinghiale, riferimento di tutta l’area geografica per
l’innovazione, ruotano più di quaranta aziende specializzate della filiera.
Il complesso ha un nuovo sito produttivo e oltre cinquanta dipendenti e
altrettanti agenti commerciali. Si utilizzano nuove tecnologie di fibre
conicizzate con microparticelle. E ai pennelli si è affiancata la
commercializzazione di prodotti antinfortunistici, tra cui un assortimento
di scarpe da lavoro.
La grande distribuzione assorbe il 40 per cento della produzione e
l’export si espande ormai in Europa occidentale, Oriente, Medio Oriente
e nelle Americhe. Il fatturato del 2021 ha superato i 10 milioni di euro,
con una marginalità di tutto rispetto. Il 2021 è stato un anno particolare
perché il lockdown e il «bonus facciate» durante i mesi caldi hanno
alimentato i processi di verniciatura, aumentando le vendite del 35 per
cento nel caso dei pennelli e del 50 per cento in quello delle vernici.
Il Cavalier Boldrini non c’è più e al timone dell’impresa mantovana
c’è Eleonora Calavalle che, con la madre Catiuscia Boldrini e la sorella
Clio, rappresenta le successive generazioni familiari. Una leadership
femminile per un settore molto maschile: «Con il nostro tocco di genere
cerchiamo di comunicare alla clientela che anche il decorare e il fai da te
ha bisogno di eleganza e artisticità», dice la presidente Eleonora, «al
punto tale che un nostro prossimo testimonial sarà proprio un artista
contemporaneo».
Le strategie per il futuro sono indirizzate a espandere il mercato delle
vernici (anche in co-branding con il design) e a produrre prodotti green a
basso impatto ambientale. L’intento è quello di essere in linea con il
concetto di bioedilizia, mettendo insieme pitture con formulazioni
naturali, plastiche riciclate e riciclabili, rulli in pura lana vergine e
pennelli con manici di legno FSC. Inoltre è in fase di progettazione un
nuovo impianto con tecnologia 4.0 per la produzione di pennellesse a
ciclo continuo e a controllo standardizzato, che consentirà di sfornare
fino a 20.000 pennelli al giorno.
166
Ovviamente non ci si dimentica della storia del boom economico e si
raccolgono le memorie di quel recente passato. È in costruzione un vero
e proprio museo dove anche graficamente e fotograficamente si
rappresenta il percorso dell’azienda e degli oggetti più iconici. E accanto
al museo che racconta il passato c’è un laboratorio che progetta il futuro.
In mezzo, una galleria che mette insieme le due anime, regalando una
macchina del tempo in un continuo rimando tra passato, presente e
futuro.
Intanto lo spot cult del 1975 è stato rispolverato e digitalizzato con
tecniche di restauro conservativo. Viene rimandato in onda sui canali
Mediaset, avendo ancor oggi una sorprendente efficacia comunicativa,
dopo più di quatrant’anni dalla sua concezione. L’effetto diretto e ironico
è ancora immutato. E afferma Eleonora Calvalle: «Passano gli anni,
cambiano le generazioni, ma l’immagine del pennellone sulle spalle del
ciclista voluta da mio nonno visionario continua a battere la concorrenza
dei creativi dei giorni d’oggi».
167
50 Quando l’high tech globale si concilia con
il profondo Sud
Gruppo Indeco, Bari
In questo periodo, complice anche la pandemia distruttiva e il monito del
presidente Mattarella a condividere tutti insieme la missione di
«costruire» per il futuro, il concetto di demolizione potrebbe essere
percepito dall’opinione pubblica come un messaggio debole o
quantomeno astorico. Un po’ come dire – usando le nozioni della
filosofia – che la pars construens, con i suoi idoli e le sue icone, prevale
nel sentimento dei cittadini rispetto alla dimensione destruens. Ma se
facciamo un salto laterale nell’economia e nel settore dei costruttori di
macchine di movimento terra, potremmo sorprenderci notando che
l’Italia si distingue per eccellere proprio nella produzione di attrezzature
per la demolizione. Sorpresi perché siamo abituati a credere che
l’industria italiana trionfi con il Made in Italy e l’economia simbolica,
non certo con i robot e le grandi macchine metalliche e automatizzate.
La storia del Gruppo Indeco nella zona industriale di Bari capita
proprio a fagiolo per smentire questo pregiudizio. Nata in Puglia nel
1976 per iniziativa dei soci Mauro Vitulano, Luigi Santoro e Marcello
Carabellese (tuttora nella compagine sociale), l’impresa è oggi un
importante attore nel comparto della demolizione grazie alle
caratteristiche dei suoi prodotti: la produttività della macchina, la sua
resa, la durata, la facilità di manutenzione e i modesti costi di gestione.
Al momento della fondazione di Indeco Mauro Vitulano era impiegato
come responsabile della qualità nella Breda Officine Meridionali del
Gruppo pubblico EFIM; grazie a una forte motivazione a intraprendere
un’attività in proprio, apre un servizio di ricambi di martelli idraulici
demolitori francesi. Chiama Luigi Santoro, che svolge compiti
commerciali presso l’azienda in cui lavora e coopta anche il giovane
168
cognato Marcello Carabellese, perito industriale fresco di diploma.
Insieme decidono di progettare un martello originale, depositando un
brevetto europeo. Fin dall’inizio il sodalizio con Vitulano allo sviluppo
tecnico, all’organizzazione aziendale e all’amministrazione, Santoro al
commerciale e Carabellese alla produzione funziona alla grande. Indeco
punta su due fattori critici di successo: la capillarità della rete di vendita
e l’assistenza post vendita, e subito i risultati arrivano dai clienti
domestici. L’impresa brevetta nel 1986 il primo «martello intelligente»,
in grado di modulare frequenza e potenza in relazione al grado di
durezza della roccia. Quindici anni dopo il portafoglio prodotti si amplia
con macchine che servono per demolire gli edifici e le strutture verticali
e successivamente con l’ingresso nel comparto del riciclaggio attraverso
la separazione del calcestruzzo dal tondino di ferro. Gli anni successivi
aggiungono una nuova attenzione al design e una costante attenzione a
ridurre le emissioni sonore. Nel 2008 Indeco frantuma i record e realizza
il modello idraulico più grande del mondo, l’High Performance 18000,
ideale per grandi sbancamenti per lavori in cava e su rocce
particolarmente dure. Oggi il Gruppo si presenta con oltre venti modelli
e cinquanta combinazioni diverse per affrontare tutti gli specifici
fabbisogni del mercato. Alla gamma storica si sono affiancati i
compattatori idraulici, le pinze demolitrici e selezionatrici, i bracci
posizionatori, le cesoie idrauliche, la trince forestali per bonifiche e
sgombero della vegetazione. Tutto è avvenuto per crescita interna e con
grande attenzione a finanziare il capitale circolante con gli utili
accumulati dagli anni precedenti. Uno sviluppo lento, inesorabile ma
economicamente sostenibile. Ciò ha fatto sì che Indeco sia oggi l’unica
azienda del settore a controllo familiare, contrariamente alle sue dirette
concorrenti, tutte divisioni di grandi gruppi multinazionali europei o
statunitensi o giapponesi.
Indeco peraltro poggia da sempre su un’anima internazionale, per
convinzione e per gioco forza – non godendo l’Italia di una reputazione
high tech sul mercato nord-europeo, dove ancora oggi sopravvivono le
credenze sulla «superiorità della tecnologia tedesca». La lungimiranza
del management Indeco è stata proprio quella di avvicinarsi fin da subito
al mercato nordamericano agli inizi degli anni Novanta e, con piccoli
passi, perseguire una crescita incrementale, senza dover ricorrere a
pesanti fonti di copertura finanziaria. E così Indeco ha superato
l’handicap geografico ed è diventata globale: oggi conta 230 dipendenti
tra Italia ed estero; filiali e dealers in tutti i continenti, un fatturato
consolidato intorno ai 60 milioni nel 2021 e una marginalità di tutto
169
rispetto, che spiega i continui corteggiamenti da parte di potenziali
acquisitori italiani e stranieri per un possibile passaggio delle quote
azionarie. Corteggiamenti che non hanno avuto seguito perché assai
raramente chi si fa avanti corrisponde alla filosofia aziendale di Indeco:
poca leva finanziaria, molto autofinanziamento, cassaforte per tutte le
famiglie dei dipendenti, orizzonte di gestione di lungo termine.
La pandemia del 2020 è arrivata come dappertutto imprevista e non
pronosticata. Dall’oggi al domani il Gruppo è stato costretto a chiudere
perché – grazie ai codici Ateco – i manufatti prodotti e venduti non sono
ritenuti essenziali dai protocolli. Quaranta giorni di serrata senza poter
accogliere le richieste dei clienti, dei rivenditori e delle filiali nel mondo:
per la prima volta l’azienda ha dovuto fare ricorso alla cassa
integrazione, ma lo ha fatto a modo dei suoi azionisti, che hanno
anticipato le somme dovute ai collaboratori, integrando a spese della
Indeco fino al 100 per cento dello stipendio riconosciuto.
La governance non è molto cambiata dagli esordi: il fondatore Mauro
è amministratore unico e riveste un ruolo decisionale strategico e di
mente tecnologica. Continua però ad avvalersi della collaborazione di
Carabellese (con la delega alla produzione) e di un management ampio e
professionale. L’assetto organizzativo è strutturato e include ormai le
seconde generazioni dei soci storici, come Susanna e Michele Vitulano,
Roberto Santoro e Leo Carabellese. Il patron Vitulano rappresenta il
passato e il presente dell’impresa e il perno di collegamento glocal della
cultura aziendale: «La mia famiglia è originaria di Molfetta, così come le
famiglie di molti dei nostri dipendenti, e non è raro che, nella sede
centrale o anche nelle subsidiaries all’estero, nelle comunicazioni risuoni
il dialetto molfettese». Dalla Puglia in tutto il mondo quindi, e non certo
con un prodotto «leggero» e fatto di sola estetica. In barba al popolo di
santi, poeti e navigatori, per fare il verso a Mussolini. E rimanendo ben
saldi nella pattuglia dei leader mondiali di questo settore, dove Indeco
progetta di essere attore chiave prossimamente con altri nuovi prodotti e
con nuove tecnologie, rivestite però sempre di un chiaro imprinting di
italianità.
170
51 Un secolo di dolcezza
Apicoltura Piana, Castel San Pietro Terme
(Bologna)
Ci sono aziende nate intono a una passione di famiglia. Quella per il
mondo delle api ha portato alla fondazione, nel 1903, di Apicoltura
Piana, una realtà che nel bolognese produce e confeziona miele e
semilavorati delle api. Un’azienda che coniuga tradizione e innovazione,
prestando da sempre grande attenzione alla sostenibilità ambientale e alla
tutela della biodiversità.
Con il marchio Piana Miele l’azienda ha registrato nel 2021 un
fatturato pari a 21,5 milioni di euro, con 4650 tonnellate di miele
lavorato, aumentando del 4,7 per cento il valore del brand – una quota
nettamente superiore al mercato di riferimento, cresciuto
complessivamente del 3,6 per cento. Apicoltura Piana ha inoltre
dichiarato obiettivi di crescita anche per il 2022, con un incremento di
ricavi previsti del 10 per cento, ottenuto grazie a un aumento dei volumi
del 5 per cento, attraverso il lancio di nuovi prodotti.
In un momento storico particolarmente delicato come quello che
riguarda il miele e le api, duramente colpito dalla crisi economica dovuta
alla pandemia e dalle sfide ambientali, Apicoltura Piana ha lavorato per
recuperare il calo che ha coinvolto il settore nel 2021 rispetto all’anno
precedente: un calo generale dell’11 per cento a valore e del 10,6 per
cento a volume. Nel 2021 la famiglia Mengoli ha deciso infatti il
riacquisto del 60 per cento delle quote societarie, in passato cedute a
Naturalia Ingredients (società che faceva capo al Gruppo Maccaferri).
Attraverso la riacquisizione del 100 per cento delle azioni da parte di
Flara Holding della famiglia Mengoli si è confermata la forte volontà di
valorizzare l’impresa e l’impegno nel comparto alimentare.
171
Dal 2014 al timone dell’azienda c’è infatti Massimo Mengoli che,
assieme alla moglie, si sta impegnando alacremente per scrivere un
nuovo capitolo nella secolare storia dell’impresa emiliana. Le nuove
decisioni strategiche hanno posizionato Apicoltura Piana su un mercato
che comprende prodotti a marchio, private label e tanta innovazione.
«Siamo molto felici della acquisizione fatta nel 2021», commenta
Mengoli, «perché ci permetterà di proiettare verso il futuro un’azienda
che ha mostrato di avere ampi margini di crescita, grazie alla grande
attenzione alla qualità in tutte le fasi della filiera. Questo è uno degli
aspetti su cui vogliamo ulteriormente puntare, investendo per esempio in
progetti tecnologici finalizzati a garantire la completa trasparenza nella
tracciabilità dei prodotti». Tra gli obiettivi futuri c’è anche la volontà di
recuperare un capitale storico che, grazie alla passione e all’impegno
delle persone che vi operano, ha assunto un ruolo sociale oltre che
economico all’interno della comunità del territorio nella quale l’impresa
è insediata. E a conferma della propria convinzione, Flara Holding ha
chiuso l’accordo per l’acquisto dello storico stabilimento di Apicoltura
Piana di Castel San Pietro Terme.
Come sempre, tutto si edifica con le diverse tappe della storia.
Apicoltura Piana nasce nel 1903, quando il professore di Anatomia
patologica Gian Pietro Piana lascia la Facoltà di Veterinaria della Statale
di Milano, dove insegnava, per trasferirsi nel verde delle colline
bolognesi. Innamoratosi della campagna locale, tra frutteti ed erbe
aromatiche, inizia con il figlio Gaetano a studiare le api rendendosi così
conto delle particolari doti delle specie italiane, più docili e produttive
delle consorelle europee. I fratelli Piana, figli di Gaetano, nel primo
dopoguerra espandono ulteriormente l’allevamento delle api regine e
negli anni Cinquanta l’azienda è già una delle maggiori del settore.
Grazie alla capacità e all’intuito di Giulio e Gianpietro Piana, i due figli
maschi di Gaetano, Apicoltura Piana continua a crescere allargando la
propria attività fino al confezionamento del miele, e i prodotti vengono
distribuiti in farmacie, erboristerie e negozi alimentari. Successivamente
si registra l’ingresso nei supermercati e nella grande distribuzione e dagli
anni Novanta l’impresa raggiunge i vertici del comparto mielistico, dove
ancora oggi si trova in veste di protagonista.
L’azienda sceglie solo produttori che salvaguardano il lavoro delle api,
appoggiando l’agricoltura sostenibile che evita i trattamenti chimici. Le
api sono a rischio estinzione e soffrono la contaminazione ambientale
dell’uomo, che spesso interferisce con le caratteristiche della flora e del
172
clima, cambiando di conseguenza la qualità del miele che dipende oltre
che dalle api anche dall’ambiente circostante e dai fiori.
Gli attuali prodotti sono l’Acacia, l’Arancio italiano, il Castagno, il
Millefiori e il Millefiori con Pappa reale. Prodotti che racchiudono i
benefici di proteine e vitamine e rendono il miele ideale come integratore
e come utile strumento per la difesa antinfiammatoria. Recentemente è
stato proposto un nuovo blend Tabacco, ottenuto dal nettare dei fiori di
tabacco selvatico, una pianta spontanea che cresce lungo i fiumi e nelle
pianure; un prodotto che si combina in abbinamento con formaggi
delicati (come mascarpone o ricotta) e con pane integrale e che offre una
straordinaria fonte di energia, essendo naturalmente privo di grassi.
Il futuro vede il top management impegnarsi intorno al concetto
dell’arnia intelligente. Apicoltura Piana ha scelto Melixa System, una
tecnologia digitale avanzata per il monitoraggio in tempo reale e da
remoto dell’apiario, che non interferisce con l’attività delle api e che
consente di raccogliere e trasmettere al server dati pronti per essere
elaborati. In questo modo l’azienda rilancia il proprio approccio
rispettoso e consapevole del ruolo degli impollinatori nei delicati
equilibri naturali. Testimonia Massimo Mengoli: «Abbiamo investito su
questo sistema per migliorare la produzione, ma non solo: le api sono
insetti molto sensibili il cui benessere va protetto perché è un prezioso
indicatore dello stato di salute del nostro pianeta. In un momento storico
in cui gli impollinatori sono sottoposti a gravi stress, vogliamo dare il
nostro contributo ottimizzando gli interventi nell’apiario solo quando è
veramente necessario».
173
52 Esportare il gusto dei salumi in tutto il
mondo
Fratelli Beretta, Trezzo sull’Adda (Milano)
Quando un’azienda ha più di due secoli di storia, con la governance non
si scherza. Alimentaristi dal 1812, i membri della famiglia Beretta hanno
tramandato da allora a oggi l’esperienza e le migliori ricette per la
produzione di salumi di qualità. Duecentodieci anni in cui nelle case del
mondo è entrato il gusto unico dei nobili insaccati della tradizione
italiana. Un lunghissimo periodo nel corso del quale il profilo aziendale è
stato ridisegnato più volte per essere adeguando alle mutate esigenze del
mercato e consentire all’impresa di presentarsi oggi come un Gruppo
altamente specializzato, fiore all’occhiello del settore alimentare del
nostro Paese. E nel 2022 la Beretta ha l’ambizione di superare il tetto del
miliardo di giro d’affari. 3500 dipendenti, trenta siti produttivi in tutto il
pianeta, una distribuzione capillare in più di settanta Paesi del globo.
Afferma il presidente Vittore Beretta, classe 1944, alla guida del colosso
aziendale, orgogliosamente brianzolo di Barzanò, avamposto della
Lombardia ricca e operosa: «Il mondo apprezza moltissimo la salumeria
Made in Italy. Essa è in crescita costante e tale sviluppo tocca pure la
nostra azienda, sempre più internazionalizzata».
Ma per capire il successo di un’impresa giunta all’ottava generazione,
bisogna conoscerne da vicino la storia. L’avventura inizia appunto nel
1812, quando Carlo Antonio Beretta riceve dal padre l’attività di
famiglia di commercio di carne suina e derivati. I figli Felice e Mario,
dopo aver combattuto la Grande Guerra, aprono un negozio di macelleria
e salumeria e trasformano la bottega per la lavorazione delle carni in
un’industria al passo con i tempi. Da allora fino agli anni Sessanta il
fatturato cresce in continuità raggiungendo i mercati delle diverse regioni
italiane. Ma la grande intuizione si origina con la partnership con i
174
supermercati e la distribuzione organizzata (la GDO) negli anni Settanta,
accompagnata da un’intensa e creativa campagna di comunicazione
televisiva e radiofonica. Ai salumi più tradizionali si affianca nel 1976 la
linea di wurstel Wuber e successivamente nel 2002 una terza linea di
attività, prima in accordo con la francese Fleury Michon e poi rilevata al
100 per cento dalla famiglia Beretta, che produce e vende piatti pronti
freschi: è il frutto di un grande lavoro di ricerca e sviluppo per fare
arrivare ai consumatori, sotto il marchio di Viva la Mamma, le migliori
composizioni della gastronomia italiana, dagli antipasti ai secondi, dai
contorni ai sughi e ai tramezzini. Negli ultimi decenni la linea di
produzione Beretta, con una brand awareness del 97 per cento, raggiunge
il record delle 19 eccellenze DOP e IGP. Le principali DOP sono il
Prosciutto di Parma, il Prosciutto di San Daniele, il Prosciutto di
Carpegna e altre ancora. A fianco brillano IGP come la Bresaola della
Valtellina, lo Speck dell’Alto Adige, la Mortadella di Bologna, il Salame
Felino, la Finocchiona e così via. Una strategia di crescita dimensionale
basata sulla creazione di filiali e stabilimenti all’estero, su rapporti di
stretta collaborazione con le maggiori catene della distribuzione europea
e su accordi commerciali con produttori leader di mercato. Una strategia
che assicura alle tre linee di prodotti (Salumi Beretta, Wuber e Viva la
Mamma) la massima diffusione e penetrazione internazionale.
Il presidente è oggi affiancato dall’amministratore delegato Alberto
Beretta e dai consiglieri Lorenzo Beretta, Giorgio Beretta, Mario Beretta
insieme ai figli Paolo e Andrea, cui si aggiungono Marco Riva e Angelo
Fumagalli. Per otto generazioni i valori del Gruppo si sono tramandati e
fortificati. Innanzitutto la qualità, garantita dalla materia prima utilizzata,
da un monitoraggio costante dell’attività dei fornitori e da un severo
rispetto dei disciplinari di allevamento. Poi una grande enfasi sulla
sicurezza alimentare, per offrire la massima cura ai processi di
lavorazione delle carni. E anche un’ostinata attenzione al benessere
animale, che viene perseguita osservando il più possibile le cinque
libertà precisate dalla legislazione europea: libertà dalla fame e dalla
sete, libertà dal disagio, libertà dal dolore, libertà di esprimere un
comportamento normale, libertà dalla paura.
Grande cura viene data anche alla formazione e al welfare dei
collaboratori. Una Academy ha il compito di trasferire sapienza,
impegno e passione ai giovani talenti, che rappresenteranno il mondo
Beretta nel futuro. E infatti, all’interno del quartier generale, ora a
Trezzo sull’Adda, uno spazio polifunzionale è dedicato proprio a
concettualizzare la cultura organizzativa che ha attraversato il Gruppo
175
negli ultimi decenni. Elemento di comunicazione rilevante verso
l’esterno e l’interno è lo sport, perché questo incarna tutti i valori
dell’azienda: è prezioso per la qualità della vita, per la necessaria
socialità e per il benessere di corpo e mente. Beretta è impegnata in
sponsorizzazioni calcistiche, nell’automobilismo e nel basket, senza
dimenticare gli sport cosiddetti minori. Perché il bene nutrizionale non
può dissociarsi dallo star bene sia emotivamente che mentalmente.
Un Gruppo dunque che attraverso nuovi prodotti, nuovi formati e
nuove tecniche di confezionamento (anche sostenibili) è riuscito nel suo
lungo ciclo di vita a stare al passo con i mutevoli gusti del consumatore e
con le esigenze della distribuzione.
Dal suo ponte di comando, il presidente Beretta e l’intero consiglio di
amministrazione spingono lo sguardo all’orizzonte e così annunciano la
strategia prospettica del Gruppo: «Guardando al futuro, vogliamo
consolidare la posizione di punta di Fratelli Beretta nello scenario
competitivo nazionale e parallelamente siamo molto attenti alla presenza
dei nostri prodotti a livello internazionale, fattore che ci posiziona al
primo posto nell’export dell’industria salumiera italiana. Per questo
motivo puntiamo a una crescita significativa della nostra presenza negli
Stati Uniti e nel Far East, oltre che a un rafforzamento nei principali
mercati europei. Compatibilmente con il contesto di instabilità che ha
caratterizzato gli ultimi tre anni, stiamo inoltre perfezionando
l’approccio ai temi di corporate social responsibility e l’attenzione ai
temi di sostenibilità a tutti i livelli e in tutte le attività aziendali.
Intendiamo infine proseguire il percorso di ricerca già intrapreso per lo
sviluppo di prodotti che intercettino sempre più le esigenze dei nuovi
consumatori. Per questo ci stiamo impegnando nella produzione di
ricette particolarmente attente agli aspetti salutistici oltre che di linee
Antibiotic Free, in cui non è previsto l’uso di antibiotici nell’intero ciclo
di vita dei suini, e per cui abbiamo predisposto filiere certificate».
176
53 I cavalieri della pasta di una volta
Pastificio Benedetto Cavalieri, Maglie (Lecce)
All’inizio del 2000 una famiglia italiana consumava all’anno circa 40
chili di pasta. Nel 2013 siamo scesi alla soglia dei 30, per raggiungere
oggigiorno il livello di 22. Ma siamo ancora un popolo di mangiatori di
pasta e su questo alimento, simbolo della nostra cucina, non ci
accontentiamo facilmente. Siamo i primi consumatori del mondo e, al di
là del trend complessivo del comparto, continuano a crescere le piccole
griffe artigianali di alta e altissima qualità. A fare la differenza sono il
rango dei grani e i tempi lenti di lavorazione che garantiscono un sapore
e una consistenza superiore.
Dice Benedetto Cavalieri, odierno patron del Pastificio Benedetto
Cavalieri, dalla sua fabbrica di Maglie in terra d’Otranto: «È il cibo più
amato dagli italiani per le virtù nascoste. La pasta è viva. Dona energia e
buon umore. Unisce la famiglia e incoraggia le amicizie». Sulla base di
un’attività di famiglia risalente alla fine dell’Ottocento, quando i
Cavalieri coltivavano e commerciavano il grano duro, il fondatore
Benedetto Cavalieri inaugura nel 1918 in un bellissimo edificio art
nouveau il Mulino e Pastificio che porta il suo nome. La scelta strategica
e fondativa è quella di puntare sugli ingredienti del territorio locale per
mantenere alti gli standard produttivi e per far essiccare la pasta al
coperto anziché per strada (con il metodo che ancora oggi si chiama
«metodo Cirillo»). La tradizione non si è mai interrotta e oggigiorno la
pasta Cavalieri viene fatta con grano duro proveniente dalle colline delle
Murge e della Basilicata, coltivato senza il massiccio e consueto uso di
fertilizzanti chimici che aumentano le rese a scapito della qualità, con
esposizione al sole e al vento che incidono sulle proprietà organolettiche
del prodotto. Il metodo di lavorazione è definito «delicato», perché
basato su una prolungata impastatura a freddo, una lenta gramolatura e
177
pressatura che permettono una distribuzione omogenea del glutine e
dell’amido. La trafilatura al bronzo non stressa l’impasto al momento
dell’estrusione e, unitamente alle basse temperature di essiccamento, fa
sì che il prodotto finale sia poroso, permeabile a qualsiasi tipo di
condimento.
Nella sede di Maglie escono 38 formati di pasta di semola e 7 di
semola integrale; i principali cavalli di battaglia sono gli spaghettoni
lunghi 110 cm (pluripremiati nelle fiere alimentari in tutto il mondo e
presenti in carta nei migliori ristoranti stellati), che rappresentano quasi il
26 per cento della produzione, seguiti dai paccheri, dalle orecchiette, dai
minchiarieddi e dalle ruote pazze, che devono il nome al loro aspetto
irregolare. I prodotti sono confezionati nel classico cartoncino blu,
sinonimo di produzione artigianale.
Oggi l’azienda, modernamente attrezzata con impianti studiati non per
incrementare le quantità prodotte ma per massimizzare la qualità in ogni
fase di processo, con un fatturato in crescita e 18 dipendenti, è nelle mani
della terza generazione: il nipote del fondatore, omonimo del nonno che
da quarant’anni guida l’azienda con tenacia, insieme al figlio Andrea.
Benedetto, oggi presidente della società, non ha ereditato dal nonno solo
il nome ma anche un’ostinata voglia di qualità. A cominciare dalle
materie prime. «La nostra pasta la cuoci, la annusi e ti senti in un campo
di grano», dice Benedetto Cavalieri. «È stata una vera sfida. Quando tutti
i pastai italiani aumentavano la produzione e le dimensioni, diventando
veri industriali, noi avevamo due scelte: gettare la spugna oppure puntare
su una produzione piccola ma di alto livello. Non abbiamo mollato.» E la
reputazione del Pastificio Benedetto Cavalieri è oggi riconosciuta
dall’intero settore, se è vero che l’impresa svolge per il prodotto pasta il
ruolo di learning center dell’Università di Scienze Gastronomiche di
Pollenzo. E i Cavalieri sanno cogliere le opportunità del mondo globale.
Presenti in America, Australia, Giappone, Europa e recentemente nel
Sud-Est asiatico, sanno bene come promuovere il loro tesoro
gastronomico Made in Salento fuori dai confini nazionali. Dice infatti
Andrea Cavalieri: «La mente è coraggiosamente aperta alle sfide del
futuro, senza mai dimenticare le nostre vocazioni e quel patrimonio di
esperienze maturate nel tempo, che ci guidano nelle scelte di ogni
giorno».
178
Dal catalogo
Sandro Boscaini
Amarone e oltre. Masi: 50 anni di vendemmie, famiglia e imprenditorialità
Luigi Luini
Volevo solo fare il panettiere
Marco Moretti, Davide Arpili, Francesco Severi
Giocare d’anticipo. Le aziende italiane e il vantaggio di una resilienza costruita
nel tempo
Raja Rajamannar
Quantum marketing. La nuova mentalità del marketing per comprendere i
consumatori di domani
George Serafeim
Purpose + profitto. Come le aziende possono migliorare il mondo e veder
crescere gli utili
Luca Gatto, Marco Sanfilippo
Export manager. Guida operativa per crescere nei mercati esteri
Davide Chiaroni
L’impresa circolare. Modelli di business, sistemi di misura, leve manageriali
Rossella Sobrero
Verde, anzi verdissimo. Comunicare la sostenibilità evitando il rischio
greenwashing
Francesco Morace
L’alfabeto della rinascita. 26 storie di imprese esemplari
Francesco Morace, Marzia Tomasin
L’alfabeto della sostenibilità. 26 modi di essere sostenibili
Paolo Manfredi
Provincia non periferia. Innovare le diversità italiane
Flaviano Zandonai, Paolo Venturi
179
Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società
Francesco Perrini (a cura di)
Sostenibilità e PMI. Aspetti strategici, operativi e finanziari
180
Indice
Descrizione
Biografia
Frontespizio
Copyright
Indice
Il modello originale dello sviluppo economico italiano
1
2
4
5
6
12
Il Made in Italy e oltre…
La difficoltà di decifrare le componenti immateriali del nostro
modo di fare
Made in Italy e creatività
Capire tutto ciò attraverso le storie e le testimonianze aziendali
12
53 storie di impresa
1 E ancora mi diverto…
2 Una valigia piena di sogni e di innovazione
3 Dalle fisarmoniche ai robot: una seconda vita
4 Proteggersi da zanzare e sole con il Made in Italy
5 Il mio design è un’orchestra jazz
6 Il diavolo del Made in Italy si nasconde nei dettagli
7 I lavoratori felici sono i più produttivi
8 Imprenditore sì, ma a modo mio
9 In dieci anni si può cambiar pelle
10 Vento in poppa: alla ricerca di altre prede
11 Con noi il grande freddo
12 Quanto condiziona il distretto monoindustriale
13 Una buona ragione per non lasciare l’Italia
14 Il cancello per il paradiso
15 Oltre le Winx
16 La famiglia dei tartufi
181
14
18
20
22
23
27
30
33
36
39
42
45
48
51
55
58
61
64
67
71
17 Funivie Made in Italy
18 Le scommesse delle acquisizioni oltre confine
19 Quando le imprese incrociano il mito
20 Centauri o astronauti: il mio mestiere è il rischio
21 Ceramiche e Borsa
22 La nutrizione tra bontà e responsabilità sociale
23 Quando l’imprenditore di successo si offre alla
società
24 Il contributo della porta alla bellezza nel mondo
25 La nicchia corre su due ruote
26 La strategia di aggregazione
27 Quando il Made in Italy è musica
28 Il prêt-à-manger in salsa pugliese
29 Quando successione fa rima con diversificazione
30 Saper esportare la bellezza italiana nel mondo
31 La pinsa: provate a imitarla, se ci riuscite…
32 Quando la passione aziendale si declina al
femminile
33 Edilizia culturale: se il Club del Libro spinge il
fatturato
34 L’innovazione può arrivare dall’Italia
35 Quando la sostenibilità è al centro della strategia
36 Come fare i tessuti fantasia con i fondi di caffè
37 Alici: la ricetta di famiglia
38 Passo dopo passo cresce il Distretto della felicità
39 Può una pizza valorizzare il territorio?
40 Dalla crisi si può uscire
41 Aprite i rubinetti: la classe non è acqua
42 Il network dei dentisti high tech
43 Quanti business nell’alambicco
182
74
77
79
82
85
89
92
95
98
100
103
105
108
111
114
118
121
123
126
129
131
134
137
140
143
146
149
44 Nella catena di montaggio delle idee
45 Il signore dell’alluminio
46 E se vendessi l’azienda ai dipendenti?
47 Quando ogni generazione aggiunge un pezzo in più
48 Invaderemo il mondo con le insalate
49 Felicemente prigionieri del grande pennello
50 Quando l’high tech globale si concilia con il
profondo Sud
51 Un secolo di dolcezza
52 Esportare il gusto dei salumi in tutto il mondo
53 I cavalieri della pasta di una volta
183
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