IL QUID IMPRENDITORIALE L’Italia è la patria della bellezza, tempio dell’arte e di una cultura millenaria. «Bel Paese» per antonomasia, il nostro è altresì il paese del «ben fatto», culla di quella passione per il fare che i nostri artigiani hanno saputo rendere uno stile di vita e, al tempo stesso, la più autentica ragione di successo del Made in Italy. Ma che cos’è il Made in Italy? Fermarsi al mero slogan ci impedisce di cogliere i tratti distintivi di un fenomeno complesso che ha permesso alle nostre imprese di temperare il tecnologismo della globalizzazione con un nuovo umanesimo all’insegna del gusto e della creatività, e di sostituire alla filosofia finanziaria anglosassone uno stile di management tutto italiano. Per comprendere questa «inafferrabile composizione chimica» Salvemini sceglie di raccontare 53 storie esemplari di aziende che hanno fatto dell’eccellenza la loro bandiera. Dalle sue pagine emerge un ritratto a tutto tondo degli ingredienti del primato internazionale del Made in Italy: prodotti di qualità e alta gamma, la cui progettazione implica una forte valenza estetica e un «saper fare» che pochi altri Paesi sanno attivare; una classe imprenditoriale eccellente che sa aggiungere alla razionalità dell’operare l’intuizione, la passione e il sentimento; una capacità manifatturiera diffusa, legata spesso a doppio filo con aree geografiche ben definite e oggetto di una conoscenza tacita difficilmente imitabile; una governance che si alimenta del rapporto fecondo con il territorio e nella quale un ruolo centrale è giocato dalla famiglia dell’imprenditore nel dipanarsi della sua storia generazionale. 1 SEVERINO SALVEMINI è professore emerito di Organizzazione aziendale presso l’Università Bocconi di Milano e Senior Professor di Organization Design presso SDA Bocconi School of Management. Considerato uno dei maggiori esperti nella gestione delle istituzioni culturali e nell’economia dei settori creativi, è stato membro di numerosi consigli di amministrazione (tra cui Teatro alla Scala di Milano, Biennale di Venezia, Cinecittà Holding, Banca Popolare di Milano, Lottomatica, Mikado Film, DeaCapital e Telecom Italia Media); attualmente è presidente della Fondazione Adecco e membro del Comitato Scientifico della Fondazione Corriere della Sera. Dagli anni Novanta è editorialista del Corriere della Sera. 2 Business e oltre 3 SEVERINO SALVEMINI IL QUID IMPRENDITORIALE Oltre la retorica del Made in Italy 4 Copertina: Cristina Bernasconi, Milano Immagine: acquerello di Sara Salvemini Impaginazione: Valentina Apolloni, Milano (MI) Copyright © 2023 EGEA S.p.A. Via Salasco, 5 – 20136 Milano Tel. 02/5836.5751 – Fax 02/5836.5753 egea.edizioni@unibocconi.it – www.egeaeditore.it Tutti i diritti sono riservati, compresi la traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione, la comunicazione al pubblico e la messa a disposizione con qualsiasi mezzo e/o su qualunque supporto (ivi compresi i microfilm, i film, le fotocopie, i supporti elettronici o digitali), nonché la memorizzazione elettronica e qualsiasi sistema di immagazzinamento e recupero di informazioni. Per altre informazioni o richieste di riproduzione si veda il sito www.egeaeditore.it. Date le caratteristiche di Internet, l’Editore non è responsabile per eventuali variazioni di indirizzi e contenuti dei siti Internet menzionati. Prima edizione: gennaio 2023 ISBN (volume) 978-88-238-3908-3 ISBN (ebook) 978-88-238-8564-6 5 Indice Il modello originale dello sviluppo economico italiano Il Made in Italy e oltre… La difficoltà di decifrare le componenti immateriali del nostro modo di fare Made in Italy e creatività Capire tutto ciò attraverso le storie e le testimonianze aziendali 53 storie di impresa 1 E ancora mi diverto… Formec Biffi, San Rocco al Porto (Lodi) 2 Una valigia piena di sogni e di innovazione Valigeria Roncato, Campodarsego (Padova) 3 Dalle fisarmoniche ai robot: una seconda vita OMAS, Numana (Ancona) 4 Proteggersi da zanzare e sole con il Made in Italy MV Line, Casamassima (Bari) 5 Il mio design è un’orchestra jazz Design Holding, Milano 6 Il diavolo del Made in Italy si nasconde nei dettagli Cartoni, Roma 7 I lavoratori felici sono i più produttivi Bending Spoons, Milano 6 8 Imprenditore sì, ma a modo mio Anselmi, Monteforte d’Alpone (Verona) 9 In dieci anni si può cambiar pelle Gruppo Carraro, Campodarsego (Padova) 10 Vento in poppa: alla ricerca di altre prede Cantiere del Pardo, Forlì (Forlì-Cesena) 11 Con noi il grande freddo Irinox, Conegliano (Treviso) 12 Quanto condiziona il distretto monoindustriale Gruppo Chiorino, Biella 13 Una buona ragione per non lasciare l’Italia Blackshape, Monopoli (Bari) 14 Il cancello per il paradiso Gruppo FAAC Technologies, Zola Predosa (Bologna) 15 Oltre le Winx Rainbow, Loreto (Ancona) 16 La famiglia dei tartufi Urbani Tartufi, Valnerina (Terni) 17 Funivie Made in Italy Leitner, Vipiteno (Bolzano) 18 Le scommesse delle acquisizioni oltre confine Jarraff, Vipiteno (Bolzano) 19 Quando le imprese incrociano il mito Carrera Jeans, Caldiero (Verona) 20 Centauri o astronauti: il mio mestiere è il rischio Dainese, Molvena (Vicenza) 21 Ceramiche e Borsa Iris Ceramica Group, Sassuolo (Modena) 7 22 La nutrizione tra bontà e responsabilità sociale Rigoni, Asiago (Vicenza) 23 Quando l’imprenditore di successo si offre alla società Brianza Plastica, Besana in Brianza (Monza e Brianza) 24 Il contributo della porta alla bellezza nel mondo Lualdi, Marcallo con Casone (Milano) 25 La nicchia corre su due ruote Santini Cycling Wear, Bergamo 26 La strategia di aggregazione Applied, San Lazzaro di Savena (Bologna) 27 Quando il Made in Italy è musica Fazioli, Sacile (Pordenone) 28 Il prêt-à-manger in salsa pugliese Gruppo Ladisa, Bari 29 Quando successione fa rima con diversificazione Gruppo Riso Scotti, Pavia 30 Saper esportare la bellezza italiana nel mondo Sgaravatti, Capoterra (Cagliari) 31 La pinsa: provate a imitarla, se ci riuscite… Gruppo Di Marco, Roma 32 Quando la passione aziendale si declina al femminile SAIB, Caorso (Piacenza) 33 Edilizia culturale: se il Club del Libro spinge il fatturato Vanoncini, Mapello (Bergamo) 34 L’innovazione può arrivare dall’Italia Garmin Italia, Milano 35 Quando la sostenibilità è al centro della strategia Gruppo Felsineo, Zola Predosa (Bologna) 8 36 Come fare i tessuti fantasia con i fondi di caffè Lanificio Bottoli, Vittorio Veneto (Treviso) 37 Alici: la ricetta di famiglia Rizzoli Emanuelli, Parma 38 Passo dopo passo cresce il Distretto della felicità Il distretto calzaturiero di San Mauro Pascoli (Forlì-Cesena) 39 Può una pizza valorizzare il territorio? Pepe in Grani, Caiazzo (Caserta) 40 Dalla crisi si può uscire Diadora, Caerano San Marco (Treviso) 41 Aprite i rubinetti: la classe non è acqua Nobili Rubinetterie, Suno (Novara) 42 Il network dei dentisti high tech Gruppo EDN, Firenze 43 Quanti business nell’alambicco Distilleria Marzadro, Nogaredo (Trento) 44 Nella catena di montaggio delle idee e-Novia, Milano 45 Il signore dell’alluminio Pentole Agnelli, Bergamo 46 E se vendessi l’azienda ai dipendenti? Ar.pa Lieviti, Ozzano dell’Emilia (Bologna) 47 Quando ogni generazione aggiunge un pezzo in più Gruppo Pagano, Roma 48 Invaderemo il mondo con le insalate Gruppo La Linea Verde, Manerbio (Brescia) 49 Felicemente prigionieri del grande pennello Pennelli Cinghiale, Cicognara di Viadana (Mantova) 9 50 Quando l’high tech globale si concilia con il profondo Sud Gruppo Indeco, Bari 51 Un secolo di dolcezza Apicoltura Piana, Castel San Pietro Terme (Bologna) 52 Esportare il gusto dei salumi in tutto il mondo Fratelli Beretta, Trezzo sull’Adda (Milano) 53 I cavalieri della pasta di una volta Pastificio Benedetto Cavalieri, Maglie (Lecce) 10 Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche. Se avesse un sistema politico, amministrativo, sociale serio, l’Italia sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti a tutti. Anche agli Stati Uniti. Franco Modigliani, premio Nobel per l’Economia 1985 11 Il modello originale dello sviluppo economico italiano Il Made in Italy e oltre… Questo libro nasce da una raccolta di storie di impresa pubblicate negli ultimi mesi su L’Economia, supplemento economico del Corriere della Sera. Man mano che scrivevo queste storie mi sono accorto che il format degli articoli seguiva sempre lo stesso percorso di narrazione: l’idea imprenditoriale dei fondatori; la cultura organizzativa che dall’origine a oggi privilegia il welfare dei dipendenti e l’attenzione alla comunità del territorio; gli stadi di sviluppo e le crisi vissute; le brillanti intuizioni sul prodotto e sulla distribuzione verso il mercato; la personalità degli imprenditori e del loro staff manageriale; la successione generazionale compiuta con successo. Di fatto, rileggendo gran parte dei pezzi pubblicati, emerge un ritratto abbastanza approfondito degli ingredienti che compongono il Made in Italy, quella composizione chimica inafferrabile che ha prodotto prima il triangolo industriale e poi i cento e più distretti manufatturieri del nostro Paese. Un insieme di componenti che vale il settimo posto in termini di reputazione tra i consumatori mondiali e quasi il 40 per cento delle esportazioni italiane. Una irresistibile onda d’urto che è divenuta negli ultimi due secoli una vera forma di soft power. Ho allora deciso di raccogliere i più significativi tra questi ritratti del «bello» e del «ben fatto», che poi simbolizzano la straordinaria varietà della geografia e della cultura della nostra penisola. Nella filigrana di questi documenti si può infatti leggere la disponibilità degli italiani al servizio dell’altro, la loro connaturata curiosità e capacità di perfezionare con l’innovazione le formule consolidate, la loro tensione alla ricerca, alla domanda, al dubbio, alla riflessione che trovano anche nella vasta cultura del Paese la propria universale bandiera. È un po’ come se, approfondendo 12 l’imprenditoria italiana (sicuramente più quella vicina alle imprese di minori dimensioni che quella dei grandi colossi di fatturato), si riuscisse a scoprire come il genius loci italico riesca a temperare il tecnologismo della globalizzazione con il nuovo umanesimo della buona cucina, dell’eleganza e dell’arte, cioè con i tratti che caratterizzano lo Stivale quali il gusto, lo stile di vita e la creatività. La prospettiva storica di tutte le aziende raccontate, elemento fondamentale per capire quanto i valori umani si siano consolidati nel tempo in una cultura condivisa tra tutti gli specifici portatori di interesse, ci aiuta poi a collegare l’attuale spirito di queste imprese del quarto capitalismo con le radici secolari dei distretti, intrecciando la loro filosofia di fondo proprio con quell’uomo artigiano, fenomeno antropologico della nostra competitività economica e protagonista – più o meno consapevole – dei successi del Made in Italy. Stiamo parlando di quell’esperienza degli avi di bottega di epoca medievale (o addirittura precedente), dove la fertilizzazione incrociata tra credenze, abilità manufatturiera, estetica, rispetto delle persone e dell’ambiente hanno edificato l’eredità storica e accumulato i frutti della vita d’oggigiorno. È quella la generazione dei lombardi, dei genovesi, dei fiorentini, dei veneti che dal XII al XV secolo ha sviluppato la grandiosa epoca spesso ignorata dalla maggior parte della storia economica italiana (per non parlare degli intellettuali) e che è la chiave di volta per comprendere molti aspetti nascosti della società post-industriale contemporanea. Storia che non può e non deve essere dimenticata, perché risulta impossibile oggi illustrare il Made in Italy senza tornare indietro a indagare l’orgoglio tipico dell’artigiano che cerca di realizzare un prodotto di eccellente livello per propria intima soddisfazione, per la fierezza del saper fare e di essere artefice, per la voglia di creare più per amore che per denaro. Il capitalismo industriale e terziario italiano ha sì introdotto negli ultimi decenni le nuove competenze manageriali (la comunicazione, la logistica, il marketing, la produzione, la supply chain e altre ancora), ma è altrettanto vero che gli imprenditori che guidano le aziende italiane nel XXI secolo non hanno seguito troppo i precetti della «filosofia finanziaria» che ha orientato a fine Novecento la visione del management anglosassone. Il rapporto con il prodotto e la trasformazione industriale rimane ancora una cifra distintiva nella guida delle imprese. Rimane la passione per il fare, radicata in un mondo di mestieri e di saperi che qualificano l’italica identità sociale. 13 La difficoltà di decifrare le componenti immateriali del nostro modo di fare Ci rendiamo conto della difficoltà di decifrare esattamente che cosa voglia dire Made in Italy, quando osserviamo gli stranieri – tipicamente i più giovani e i più abbienti e scolarizzati – che, al di fuori dalla cultura embedded che invece imprigiona noi italiani nel tentativo di spiegare le nostre radici e il nostro modo di lavorare, cercano di comprendere le caratteristiche di ciò che viene definito come modello italiano di sviluppo. Spesso ci stupiamo nel raccogliere in giro per il mondo un’ammirazione per la marca «Italia» che noi diamo per scontata quando addirittura non la sottovalutiamo1. Da fuori confine è difficile però comprendere quali siano gli input che consentono – come si dice usando la metafora dell’insetto che per legge fisica non potrebbe muovere le ali e svolgere il «volo del calabrone» – di volare e di diventare il quinto paese industriale del mondo. Come si diceva prima, i fattori che rendono vincente l’affermazione del prodotto italiano nel pianeta sono infatti molto legati a componenti immateriali difficilmente narrabili e, per questa ragione, gli stranieri che si fermano all’etichetta dell’unicum del Made in Italy non riescono a penetrare nei dettagli di questo fenomeno. Ecco perché diventa importante leggere le storie delle imprese italiane, anche quelle che sembrerebbero così lontane dai grandi marchi (si pensi ad aziende come la moda di Armani o di Dolce&Gabbana, ai negozi di Eataly, alle borse di Prada o di Gucci, ai mobili di Cassina o di Kartell, alle lampade di Artemide) che si occupano di valigie, di zanzariere, di cancelli automatici, di tartufi, di barche a vela. Perché nelle storie si annidano le connessioni con il consolidato culturale del Paese. Connessioni che alimentano le competenze distintive che sono alla base del nostro miracolo economico. E infatti il Made in Italy è un fenomeno molto più complesso, con un perimetro molto più ampio e articolato della combinazione moda e design. Esso comprende comparti molto estesi nel Paese: è convenzione che includa, oltre alla moda e al design, anche i settori agroalimentari e dell’automazione meccanica (le cosiddette 4 A del Made in Italy)2; ha pertanto un peso rilevantissimo nell’economia e ha dimostrato anche nei momenti di crisi nazionale (ultimamente il periodo della pandemia) una capacità di tenuta e di forte resilienza competitiva sul mercato nazionale e internazionale. Secondo i rapporti di Fondazione Edison e di Fondazione Symbola il Made in Italy (le quattro A) rappresenta grosso 14 modo il 65 per cento del valore aggiunto complessivo espresso dalla manifattura italiana e un’occupazione stimabile intorno ai 3,5 milioni di addetti. Questi settori, già fin dagli anni Novanta, sono stati capaci di dare un contributo insostituibile alla bilancia commerciale del Paese, coprendo i deficit di altre industrie in cui l’Italia ha un più basso grado di specializzazione (chimica, elettronica, telecomunicazioni, energia) e generando un surplus anche in periodi di recessione globale. La definizione che meglio riassume tutte le altre proviene dall’economista Marco Fortis che nel suo libro seminale sostiene che il Made in Italy si riferisce a prodotti e servizi in cui l’Italia vanta un oggettivo grado di specializzazione e in cui il nostro Paese è rinomato in tutto il mondo relativamente a profili quali la qualità, l’innovazione, il design, l’assistenza ai clienti, la tempestività della consegna, i prezzi concorrenziali3. Il Made in Italy è pertanto l’insieme del sistema manufatturiero italiano che tende a contraddistinguersi nell’arena globale e molto sovente coincide con il distretto geografico industriale, essendo il risultato dell’accoppiamento strutturale tra la qualità dell’economia e la qualità della cultura, della storia e dell’identità che caratterizza uno specifico territorio. Così facendo, esprime non solo le parti fondanti della nazione, ma anche il profondo collegamento con il contesto locale che ne costituisce la risorsa primaria. Ma che cosa ha contribuito ad affermare questo primato internazionale? Le ragioni sono da collegare a quattro ambiti tra loro interdipendenti: • il posizionamento dei prodotti all’interno di nicchie di alta qualità e di alta gamma, spesso coincidenti con la fascia del mercato di lusso, che implica una progettazione con forte valenza estetica. Una capacità quindi tutta originale di creare spazi competitivi potenzialmente «non-finiti», inventando soluzioni e prodotti sempre nuovi e originali4. Un «saper fare» che pochi altri Paesi sanno attivare e che rende le nostre manifatture flessibili, dinamiche e, soprattutto, interessanti agli occhi di quella crescente popolazione che cerca storia e cultura incorporata nei beni che acquista; • una imprenditorialità eccellente che sa aggiungere alla razionalità del «saper fare» anche passione e sentimento, una «intelligenza emotiva», direbbe Goleman5. Uno stile di direzione che sa trasferire il sensemaking ai collaboratori, che riescono a essere 15 sempre più motivati dalla necessità di esprimere la loro adesione a una missione istituzionale di fondo: rappresentare la genialità italiana nel mondo; dare il proprio contributo alla responsabilità sociale collettiva; fornire nuova energia laddove si produce non solo reddito incrementale ma anche valore aggiunto per la cittadinanza organizzativa; lavorare in un contesto che consideri il wellbeing non solo come un «nice to have» ma come una filosofia autentica e interiorizzata. E comunque una imprenditorialità che ha assunto come valore il mantra che nulla a priori è impossibile se vi è l’opportunità di sperimentare, di confrontarsi e di apprendere; • la capacità manufatturiera diffusa, legata spesso a doppio filo con aree geografiche ben definite. Infatti la concentrazione territoriale di certi comparti ha consentito nel tempo l’accumulo e la sedimentazione di saperi condivisi tra imprese e generazioni di lavoratori. Un mix tutto originale di competizione e di cooperazione all’interno delle aree geografiche (il già citato genius loci) che ha innescato processi di innovazione (incrementale) e di miglioramento continuo. Questi saperi hanno una caratteristica particolare: sono di natura tacita e quindi difficilmente intellegibili e separabili dal contesto locale che li ha generati6. E proprio questa conoscenza tacita, in opposizione al concetto di conoscenza esplicita, ossia codificata e facilmente trasferibile, rappresenta l’elemento di difesa competitiva e di difficile imitabilità del Made in Italy da parte delle economie estere. Proprio perché è conoscenza tacita, essa come si è detto è molto difficile da comprendere per chi, straniero, non conosce approfonditamente gli aspetti unici della realtà locale; • le caratteristiche sopra elencate del Made in Italy si sposano poi nel nostro Paese con alcune costanti nel panorama delle piccole e medie imprese, che riguardano l’imprenditorialità e la governance familiare delle aziende. Infatti i nostri imprenditori hanno diffusamente alcune capacità di intravedere soluzioni che a molti operatori stranieri sfuggono: sono legati a un’area territoriale per motivi di gratitudine e, poiché lì sono nati e cresciuti, si ricordano sempre che lì è iniziata la loro avventura umana prima che industriale. Il rapporto con il territorio è fecondo, perché l’hanno visto fiorire e rifiorire e sono disponibili a ritornare alla loro terra i dividendi sociali, ben sapendo che la loro mano d’opera specializzata altrove non la troverebbero. Sono imprenditori che sanno rinnovarsi senza tradire le proprie origini e hanno l’abilità di 16 costruire un ponte tra il passato e il futuro. E sono veloci e flessibili; sono «lepri che vincono la crisi», come li descrive l’illuminante saggio di Gubitta, Tognazzo e Favaron7. La seconda costante è la governance familiare, specialmente nelle dimensioni d’impresa minori. Nel modello aziendale un ruolo centrale lo gioca la famiglia, che spesso plasma la gestione dell’impresa. In alcuni casi la pressione della famiglia è così rilevante da portare a una sostanziale sovrapposizione tra ruoli imprenditoriali, manageriali e famigliari. I processi decisionali e le politiche gestionali sono concepiti all’interno dell’istituzione familiare, per soddisfare prevalentemente i bisogni della famiglia e dei suoi componenti. E ciò non necessariamente è un fattore di debolezza, anzi: la famiglia spesso genera un maggiore coinvolgimento e una più alta motivazione, perché da un lato permette di governare le tensioni e dall’altro individua gli interessi e gli obiettivi comuni tra l’azienda e la famiglia stessa. Inoltre l’impegno finanziario della proprietà è un segnale forte nei confronti di tutta la collettività aziendale. La proprietà che mette mano al portafoglio, sia quando l’azienda va bene o ancor di più quando ci sono venti di tempesta, è un collante molto rilevante che rassicura tutti, perché comunica che la famiglia crede nel lungo termine e vede opportunità per il futuro. Così come elemento non secondario e viatico per il successo di una crescita sana è l’abilità di saper individuare a tempo debito i problemi della successione imprenditoriale e manageriale e di saperli risolvere con gli opportuni meccanismi di rapporto azionisti/manager nella formazione di una tecnostruttura di più giovane generazione. Ciò attraverso la creazione di percorsi di crescita professionale per i più giovani figli nella cerchia della famiglia di governo oppure attraverso il trasferimento della proprietà nelle mani di una nuova compagine azionaria esterna, che abbia intenzione di dare continuità al progetto imprenditoriale originario. Imprenditoria e famiglia sono dunque due componenti cruciali del Made in Italy e da lì occorre partire se si vuole spiegare a tutta l’opinione pubblica il modello economico di sviluppo. La responsabilità sociale poi della famiglia nei confronti della comunità locale è un altro atout importante e contraddistingue la tradizione di molte prestigiose famiglie imprenditoriali (come il caso di Del Vecchio ad Agordo, Zegna a Biella, Olivetti a Ivrea, Cucinelli a Solomeo, e altre ancora). 17 Made in Italy e creatività Come si diceva, il Made in Italy ha dietro di sé secoli di intelligenza e di creatività. Il Bel Paese non è infatti solo uno slogan. I manufatti dei nostri artigiani, i prodotti dell’alta moda, le idee imprenditoriali del lusso, il livello di servizio molto personalizzato ai clienti sono anche il risultato del «bello» diffuso che ognuno di noi può respirare nella grande città come nel centro di un piccolo borgo, nell’attraversare paesaggi ineguagliabili come nel visitare una chiesa o un museo. La creatività non è fine a se stessa, ma un processo, un mezzo straordinario per produrre nuove idee. In questo senso creatività e cultura sono insieme un pilastro della qualità sociale, intesa come un contesto di comunità libera, giusta, economicamente sviluppata. Sono un binomio indissolubile, un meccanismo di successo che posiziona il Paese in un passaggio strategico del percorso di globalizzazione. I risultati di rilievo delle nostre istituzioni economiche sono fortemente debitori al fenomeno della creatività italiana. Può essere utile qui ricordare alcuni dei recenti primati di creatività del nostro Paese: • due architetti italiani fra i vincitori del Premio Pritzker (Renzo Piano e Aldo Rossi); • il successo planetario del Salone del Mobile di Milano nell’affermazione del comparto italiano dell’arredamento; • la Children Book Fair di Bologna prima fiera al mondo per lo scambio di copyright di libri per bambini e ragazzi; • la Galleria degli Uffizi di Firenze primo museo al mondo per densità di visitatori; • primo Paese al mondo per numero di premi Oscar vinti per miglior film in lingua straniera; • 55 premi Oscar vinti tra le varie categorie; • due direttori d’orchestra italiani nella top ten di World’s Best Conductors 2015; • Lucca Comics and Games primo festival di fumetti e illustrazioni d’Europa; • primo Paese al mondo per numero di siti Patrimonio dell’Umanità Unesco; • 11 chef italiani tra i cento migliori chef nel mondo (con Massimo Bottura primo nel 2017 e nel 2018); 18 • unico Paese al mondo con tre siti nella top ten dei siti archeologici più visitati; • Auditorium Parco della Musica prima struttura culturale europea per numero di eventi; • 6 scrittori italiani vincitori del premio Nobel per la letteratura; • Giuseppe Verdi è il compositore di musica classica e operistica più eseguito nel mondo; • 12 volte vincitori al Festival cinematografico di Cannes; • sesta editoria libraria al mondo per fatturato e ottava per numero di titoli pubblicati all’anno. La creatività incorporata nei prodotti e nei servizi è profondamente correlata con la nostra cultura, con il nostro territorio, con il nostro vivere quotidiano. Un collegamento che quindi non è solo di carattere economico, ma prepotentemente sociale e culturale. Avere la precisa dimensione di quanto pesino e che cosa contino davvero la creatività e il Made in Italy, di quanto sia diffuso il loro reticolo nella geografia delle imprese italiane e nei loro risultati complessivi, aiuta a comprendere come le radici italiche del bello e del ben fatto sono poi scaricate a terra nelle dinamiche evocative e simboliche della nostra economia. Se l’Italia continua a rimanere nonostante tutto la seconda potenza industriale ed esportatrice europea, dopo la Germania, e la quinta potenza manufatturiera mondiale mentre molti Paesi avanzati hanno perso recentemente posizione, lo dobbiamo anche e proprio alle specializzazioni associate al Made in Italy. Uno degli aspetti caratterizzanti la creatività italiana nelle imprese risiede nelle condizioni organizzative in cui l’innovazione riesce a conformarsi e a svettare. Definire queste condizioni è un esercizio molto complesso che si imprigiona spesso nella tautologia del fenomeno stesso. Gli stessi innovatori non sanno bene spiegare la loro unicità, perché essa è molto più una predisposizione e un atteggiamento che non un processo metodicamente razionale. Scaturisce molto di più da una devianza rispetto alle norme e ai conformismi che non da un percorso proceduralizzato consapevole. Si afferma che tutti i migliori imprenditori italiani dispongano di una predisposizione che non è così frequente e diffusa in altri Paesi e cioè che essi sappiano conciliare e accostare aspetti contrastanti e ossimorici. La loro grande capacità è quella di non scegliere ambiti di campo esclusivi (in una logica ad excludendum del tipo o… o…) bensì di accettare di tenere insieme anche dimensioni tra loro contradditorie e a volte antitetiche (in una logica invece di tipo e… 19 e…). Un po’ come quando Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane spiegava che l’approccio più fecondo dal punto di vista letterario fosse quello di tenere insieme stili e metodi di lavoro molto discordanti8. Per esemplificare, gli operatori italiani riescono a orientarsi al breve termine ma anche al lunghissimo, svolgere una leadership autocratica ma anche partecipativa, concentrarsi sull’efficienza ma anche sulla sperimentazione, avere i piedi per terra ma lo sguardo rivolto all’orizzonte, essere ossessionati per i comportamenti corretti ma anche tollerare l’errore, predicare il top down ma accettare anche il bottom up, e così via. E questa straordinaria attitudine di saper fare coesistere nella loro personalità il dottor Jekyll e il Mister Hyde è la preziosissima precondizione per riuscire a cogliere elementi lontani (il famoso «pensiero laterale» di Edward De Bono9) e per mantenere quella mentalità flessibile che tutti riconoscono agli italiani come elemento strategico vincente. Capire tutto ciò attraverso le storie e le testimonianze aziendali Ci sono due modi di raccontare l’originale modello economico italiano: quello dei numeri e quello delle persone. I numeri sono un termometro fondamentale della congiuntura e marcano la competitività locale e globale. Illustrare la realtà economica italiana attraverso valori di fatturato e di margine è un giusto esercizio per riuscire a comparare realtà geografiche diverse nel mondo. Ma a volte, prima dei numeri, sono le persone che ci facilitano la comprensione dei fenomeni complessi. E nell’economia italiana le persone protagoniste sono soprattutto gli imprenditori, gli artigiani, i possessori di un mestiere, i lavoratori che si misurano con la competizione attraverso i propri progetti di lungo termine, con le loro sensibilità culturali, con i propri stili di direzione, con la loro storia individuale e collettiva. E ciò è uno degli aspetti che meglio distingue il DNA italiano da quello straniero10. È il principale motore che accompagna nei secoli la trasformazione della nostra industria, con le sue difficoltà ma anche con la sua fierezza. Potremmo aggiungere, nonostante tutto, perché ciò avviene nonostante le crisi che si susseguono e nonostante un sistema politico e amministrativo che non sempre aiuta. È la testimonianza di un Paese resiliente, che non demorde, che attraverso continui colpi di reni non abbandona i suoi sogni e continua a reinventarsi con immaginazione e fantasia il proprio futuro. Le storie narrate nei prossimi capitoli, scritte tra il 2018 e il 2022 e aggiornate con i dati dell’ultimo anno, sono una testimonianza di tali 20 vivacità e spirito di iniziativa e anche dell’originale intuizione con cui alcuni operatori sono riusciti, grazie alla loro pervicacia e al loro orientamento al cambiamento, a mantenere una leadership nei propri comparti, rovesciando una formula imprenditoriale ereditata dalla generazione precedente ma ormai obsoleta e in alcuni casi cambiandola totalmente. Le imprese raccontate sono state individuate attraverso svariate fonti: contatti personali; segnalazione da parte di amici professionisti; notizie apparse sui media. Tutte comunque caratterizzate dallo stesso spirito imprenditoriale e da risultati di qualità e di successo. Sono narrazioni dove emergono i personaggi, i prodotti, i contesti geografici di tutte le latitudini e longitudini, i clienti che spesso diventano più partner che antagonisti di mercato. È l’Italia dell’eccellenza. È l’Italia di cui siamo orgogliosi nei nostri confini e al di fuori di quelli. È l’Italia che non molla mai, nonostante tutto. 1 Si veda Fondazione Altagamma, Bella e possibile. Memorandum sull’Italia da comunicare, Milano, Skira, 2009. 2 Nel comparto Abbigliamento-moda sono comprese le realtà tessili, dell’abbigliamento e degli accessori, l’industria conciaria, la pelletteria, le calzature, l’oreficeria e la gioielleria, l’occhialeria. Nella categoria Arredo-casa rientrano il legno e il mobilio, i marmi e le altre pietre ornamentali, le ceramiche e le porcellane, la rubinetteria e gli infissi e l’illuminotecnica. Il settore Alimentare-bevande è rappresentato soprattutto da prodotti da forno e dolciari, lavorazioni di carni, industria casearia, pasta, conserve e affini. Infine l’Automazione-meccanica include prodotti in metallo, elettrodomestici, macchine per vari impieghi, automobili, motocicli e biciclette. 3 Marco Fortis, Il Made in Italy nel “nuovo mondo”: protagonisti, sfide, azioni, Ministero delle Attività Produttive, 2005. 4 Stefano Micelli, Futuro artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani, Venezia, Marsilio, 2011. 5 Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, Milano, Bur Rizzoli, 1995. 6 Enzo Rullani, La fabbrica dell’immateriale, Roma, Carocci, 2004. 7 Paolo Gubitta, Alessandra Tognazzo, Saverio Dave Favaron, Lepri che vincono la crisi. Storie di aziende (quasi medie) vincenti nei mercati globali, Venezia, Marsilio, 2021. 8 Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988. 9 Edward De Bono, Il pensiero laterale, Milano, BUR Rizzoli, 2009. 10 Per una completa disamina delle dimensioni cross culturali degli italiani rispetto ad altre popolazioni, si leggano i molti libri di Beppe Severgnini in proposito, tra cui anche l’ultimo Italiani si rimane, Milano, Bur, 2022. 21 53 storie di impresa 22 1 E ancora mi diverto… Formec Biffi, San Rocco al Porto (Lodi) «E ancora mi diverto…»: con queste parole Pietro Casella concludeva nel 2016 una lunga intervista in occasione del cinquantesimo anniversario di Formec Biffi, la sua azienda, oggi leader nel settore agroalimentare con sede a San Rocco al Porto, tra Lodi e Piacenza. Lavoratore infaticabile, imprenditore nel senso più completo del termine, sempre a stretto contatto con i propri collaboratori e in prima linea nei momenti decisionali, il presidente Casella è un convinto assertore della necessità di anticipare l’evoluzione del gusto del consumatore. Ciò lo porta a verificare personalmente la qualità dei propri prodotti e ad assaggiare ogni giorno un prodotto suo o della concorrenza, sicuro che all’alta qualità occorra abbinare il vantaggio della prima mossa. La storia di Formec Biffi nasce negli anni Sessanta quando, fresco di laurea, il giovane Casella vive un brillante inizio di carriera nel reparto ricerca e sviluppo di Unilever. È curiosissimo, osserva la realtà, assimila le informazioni, coglie in anticipo le nuove abitudini di consumo. Per cinque anni, impara e approfondisce i processi innovativi dei prodotti destinati all’Europa. I grandi supermercati non sono ancora all’orizzonte, ma Pietro Casella ne preconizza lo sviluppo con largo anticipo, arrivando a intuire che proprio i supermercati avrebbero prima o poi realizzato una gamma di prodotti a loro marchio. Dotato di forte propensione al rischio e di intelligente spirito di iniziativa, lascia la prospettiva di una carriera aziendale per iniziare la propria attività imprenditoriale. E fonda Formec, dove accanto al per in inglese, sta mec, allusione al neonato Mercato Europeo. Anche se qualcuno sostiene che «for» stesse per formaggio, perché le prime intuizioni di prodotto sono proprio i formaggini usati anche nelle pappe dei bambini. Ma in realtà è la maionese il primo vero cavallo di battaglia 23 della neonata azienda con, ancora una volta, una scelta decisamente coraggiosa: «Facevo tutto da solo: ero seduto su uno sgabello e avevo a sinistra i tubetti vuoti e a destra uno scatolone per i tubetti pieni. Riempivo il tubetto con la tubettatrice, lo chiudevo e lo riponevo a destra». La prima produzione di maionese per conto terzi inizia l’11 novembre 1966 e il primo operaio viene assunto nel maggio 1967. E Casella, imprenditore, non esita a vestire i panni del rappresentante che con un furgone visita i clienti eccellenti, costruendo passo dopo passo la fiducia delle aziende e della grande distribuzione. Per un certo numero di anni Formec produce solo per conto terzi e stringe rapporti con Cirio, Dal Monte, Nestlè, Kraft, Saclà e poi con Esselunga, Conad, Sma-Auchan, Coop, Carrefour. Negli anni Ottanta nasce Gaia, una linea di salse destinata a evolvere fino ad arrivare alle attuali 60 specialità: vari tipi di pesto, sughi freschi per la pasta, mostardine per formaggi. L’esperienza della ricerca e sviluppo all’interno della multinazionale anglo-olandese non lo abbandona e Casella si inventa packaging e flaconi innovativi, fino a vincere l’Oscar Europeo dell’Imballaggio, confezionando – complice l’agenzia Armando Testa di Torino – la maionese in una salsiera di plastica a forma di mezzo uovo, quando i competitor usavano solo il vetro. Oppure quando si inventa per il ketchup e la senape un contenitore innovativo e squeezable, per evitare la formazione di aria che avrebbe potuto alterare il sapore del prodotto. In pochi decenni Formec diventa tra i maggiori produttori italiani di maionese e salse, oltre che nel food service per il catering. In quegli anni avviene un altro passaggio storico: l’acquisizione del marchio Biffi, grande brand della tradizione milanese della pasticceria, nato nel 1852. È il momento di entrare nel mercato e nel retail con un proprio marchio e Formec Biffi comincia a distribuire i propri prodotti con le linee Biffi e Gaia. Gli anni Novanta e Duemila vedono l’azienda in grande crescita non solo dal punto di vista delle risorse umane e delle strutture produttive, ma soprattutto nello sviluppo del know-how, dell’esperienza e della dotazione tecnologica. La gamma si amplia con prodotti cento per cento vegetali, biologici e con le salse etniche: Guacamole, Mexican, Harissa, Kebab e molte altre per un’utenza sempre più attenta dal multiculturalismo. Si inizia il percorso «green» che porterà l’impresa a scelte di avanzata sostenibilità ambientale sia nei prodotti che nel confezionamento. «I prossimi consumatori saranno molto consapevoli 24 degli ingredienti inclusi nei nostri prodotti. Pertanto niente coloranti, né conservanti, né input che siano inconciliabili con una dieta di alta sanità», dice Casella, «e anche il packaging dovrà essere massimamente rispettoso della natura, con materiali totalmente riciclabili secondo i criteri ormai diffusi dell’economia verde». Nel frattempo la cultura aziendale si evolve: «L’ambiente di lavoro deve essere piacevole, perché i dipendenti possano trovarsi al meglio. Ci sono altri importanti obiettivi, oltre alla redditività, se vogliamo che ci sia integrazione tra sistema economico e sistema sociale». Ecco allora che gli stabilimenti produttivi e la sede amministrativa si affacciano su un parco naturale e un piccolo lago dove i dipendenti hanno a disposizione spazi ricreativi quali la palestra e un campo da calcetto, oltre ad ambienti di lavoro gradevoli e accoglienti e un Parco Artistico con una serie di suggestive sculture da outdoor che documentano la passione per l’arte del fondatore. Sempre nell’ambito del complesso industriale, agli inizi degli anni Duemila nasce Corte Biffi, un luogo anche di convivialità, per conferenze, seminari orientati al mondo del food, cene di gala e colazioni di lavoro. Accanto a questo welfare organizzativo, una piccola «Olivetti dell’agroalimentare», il presidente Casella, mecenate e collezionista di opere d’arte, nel 2007 apre a Piacenza Biffi Arte che, nata come galleria d’arte contemporanea, negli anni si trasforma in vero polo culturale e punto di riferimento per la città e non solo, ponendosi come territorio di incontro fra gli artisti e la collettività, alla ricerca di una cultura libera e innovata. L’ultimo nato, nella complessa e vitale visione imprenditoriale di Pietro Casella, è Biffi Gusto, vera e propria boutique di eccellenze alimentari internazionali, dove la cultura del cibo incontra quella design e in tempi più recenti si è aperta a un commercio online in rapido sviluppo. Oggi Formec Biffi ha oltre 220 dipendenti. Il quartier generale insiste su un’area di 220mila metri quadri, ricoperta da sculture moderne e opere di Land Art. Il fatturato 2021 è stato di oltre 90 milioni di euro con un export in costante crescita. Tra i numerosi prodotti oltre 70 le referenze: per esempio solo di maionese se ne producono 700 quintali al giorno, di ketchup 500 quintali e di pesto 120 quintali; l’azienda utilizza quotidianamente 250mila uova e lavora ogni settimana il carico di 13 autotreni di olio di girasole. E l’innovazione continua a giocare il suo ruolo trainante: nel laboratorio di ricerca e sviluppo, sotto la guida della 25 seconda moglie del presidente, undici persone con lauree differenziate si arrovellano sulle novità da portare prossimamente sul mercato. Sorride compiaciuto Pietro Casella: «Tra un po’ i nostri clienti potranno gustare delle nuove cose appetitose, un po’ particolari, sempre legate al grande gusto italiano. La sfida è quella di sempre: mettere insieme grande qualità, materie prime di prima scelta a un prezzo avvicinabile». 26 2 Una valigia piena di sogni e di innovazione Valigeria Roncato, Campodarsego (Padova) Quanta strada da quella valigia di cartone, fedele compagna di tanti emigranti che, consumata ogni speranza nel proprio territorio, intraprendevano così il viaggio verso la Terra Promessa («mamma mia dammi cento lire…»)! Eppure è da lì che parte l’avventura che intreccia la famiglia Roncato con l’azienda che rappresenterà nei nostri giorni l’icona della valigia Made in Italy. Negli anni Quaranta, subito dopo la seconda guerra mondiale, Antonio Roncato lavora come responsabile di produzione in un’impresa veneta di valigeria fino a quando, per paura di morire a causa dei bombardamenti dei ponti, decide di aprirsi una fabbrica per conto suo. Si nasconde per alcuni mesi per sfuggire al pericolo del nemico e poi decide, con molto coraggio e tra mille difficoltà, di fondare con la moglie Palmira l’impresa di famiglia, producendo gli oggetti che sa fare molto bene: le borse e le valigie. Alcuni anni dopo il figlio Giovanni, chiamato da tutti Gianni, aiuta il padre e progressivamente si inserisce nell’attività paterna. Dice oggi l’ottantenne Gianni: «Ripensando a quel periodo, a tutte le storie che sentivo e agli aneddoti che mi venivano raccontati riguardo ai viaggi, mi ero fatto un’idea precisa del sogno che avrei portato avanti per il resto della mia vita: continuare l’attività di mio padre Antonio, offrendo, a tutti coloro che desideravano vedere il mondo, un oggetto per contenere ciò di cui sentivano di avere bisogno». Nel 1970 nasce la Valigeria Roncato S.p.A. a Campodarsego in provincia di Padova e Gianni Roncato con una antesignana intuizione installa – primo in Europa nel settore – una linea di assemblaggio che permette alla società di diventare un colosso industriale. Iniziano così le tappe significative dello sviluppo aziendale, che passano attraverso il 27 progressivo lancio dei nuovi prodotti. Alla fine degli anni Novanta il successo viene decretato con la linea Sphera, in polipropilene, la prima valigia che si spinge con un dito. Dieci anni dopo il marchio Teenager inserisce nel catalogo una varietà fino a quel momento mai vista di colori e un design tipicamente italiano. Intorno al 2000 è la volta di Shuttle, la valigia verticale, che, grazie alla maniglia ergonomica e a diversi processi migliorativi, stravolge completamente il concetto del trasporto e lancia il trolley. In quegli anni si raggiunge il traguardo di oltre un milione di pezzi commercializzati in tutto il mondo. Subito dopo arriva il guscio in policarbonato e una versione Luxury in vera pelle. E in ultimo pochi anni fa la Roncato Double, il primo contenitore che «si fa in due» con tasca porta PC anteriore per estrarre il computer o l’iPad. Una sequenza di passaggi segnata da nuovi materiali, nuove forme, nuovi colori e nuovi accessori. Con l’ossessione per la qualità, per la sicurezza, per la leggerezza (particolarmente apprezzata dalle compagnie aeree low cost), per la resistenza all’acqua e alle alte temperature. E con un continuo presidio dell’artigianalità Made in Italy, perché i gusci in propilene e policarbonato continuano a essere totalmente prodotti negli stabilimenti domestici. Anche nei più recenti momenti di crisi la Roncato ha fatto fede alla sua profonda resilienza. Nel periodo del coronavirus e della pandemia, che ha voluto dire di fatto stop ai viaggi, il Gruppo ha saputo reinventarsi, lanciando nuovi articoli capaci di adattarsi più facilmente a tutte le esigenze, ampliando la gamma con prodotti più piccoli e leggeri. Oggi la terza generazione è sul ponte di comando, con i figli di Gianni: Alessandra, Andrea, Cristiano e Enrico che perseguono l’obiettivo di crescita dimensionale e di distribuzione nei mercati internazionali, attraverso i negozi multibrand, i flagship store, i corner nei department store e negli outlet. Il fatturato ha raggiunto i 43 milioni di euro nel 2019 per scendere nel 2021 a 20 milioni e puntare alla ripresa nel 2022. I mercati esteri principali sono Spagna, Germania e Francia. Afferma Alessandra Roncato, attuale amministratrice delegata del Gruppo: «Come dice il nostro pay off Move your dream, il nostro obiettivo è accompagnare i “sogni di ogni viaggiatore”, sia per svago che per affari, creando prodotti trasversali che possano assecondare le esigenze di ogni spostamento, tramite nuovi materiali leggeri, rispettosi dell’ambiente e duraturi, posizionando il brand in negozi monomarca e wholesale specializzati». Un sogno, perché la valigia non è solo un oggetto, ma rappresenta un mondo di esperienza e di valori intrinseci. È scoperta, curiosità, 28 innovazione mescolata alla tradizione. Tutti elementi che nella valigia di Roncato, a saperli leggere, sono molto evidenti. 29 3 Dalle fisarmoniche ai robot: una seconda vita OMAS, Numana (Ancona) Il nome della ditta, OMAS Officine Meccaniche Alta Specializzazione, farebbe pensare a una delle tante fabbrichette nate nel dopoguerra nell’hinterland di una grande città industriale. Una semplice carpenteria di piccole dimensioni. E invece qui non solo la geografia è diversa, ma è differente anche la sofisticazione manufatturiera. Siamo a Numana, nel promontorio del Conero, a sei chilometri da Castelfidardo, patria degli strumenti musicali. E la OMAS non è affatto uno stabilimento metalmeccanico comune. È considerata l’azienda più robotizzata d’Italia in rapporto al numero di addetti (46 robot antropomorfi dedicati all’automazione dei processi, rispetto al numero degli addetti che sono 160). Un robot ogni tre addetti, quasi un rapporto di uno a uno, tenendo conto dei turni. Specializzata nella lavorazione di lamiere per conto terzi, non a caso ha ricevuto il plauso della Trumpf, leader mondiale nella produzione dei generatori laser e delle macchine per la lavorazione di tubi e lamiere, secondo cui OMAS è fra le aziende più innovative e più digitalizzate tra la loro clientela mondiale, tanto da essere citata come esempio insieme ad altre tre aziende nella relazione di bilancio del 2020. «È una fabbrica che guarda molto al futuro», sostiene Marco Grilli, l’amministratore unico. Non ha infatti nulla del tradizionale stabilimento metalmeccanico. Le linee di produzione si modificano da un giorno all’altro; i macchinari sono di ultimissima generazione; i magazzini sono completamente automatizzati; e anche il muletto è in grado di spostarsi senza essere guidato dagli operatori. «Solo grazie all’automazione si possono gestire lotti minimi in modo efficiente – continua Grilli –. Continuiamo a investire in modo da poter produrre in automatico anche lotti di soli cinquanta pezzi. Dobbiamo essere velocissimi, perché solo 30 così possiamo sopravvivere». E l’investimento in tecnologie spinte è di oltre il 10 per cento del fatturato annuo, secondo i canoni dell’industria 4.0 e pensando già oggi a industria 5.0. «In fondo è con la tecnologia che difendo l’occupazione.» Già, perché l’attuale prosperità di OMAS nasce da una storia di sofferenza. Nata nel 1966 grazie all’indotto dello strumento musicale, l’azienda allora produceva le tastiere in alluminio della fisarmonica e in lamiera per gli organi elettronici. Il padre di Marco Grilli, Umberto, si era licenziato da direttore di stabilimento di un’impresa locale e con i cognati e un amico aveva iniziato a produrre tastiere per le fisarmoniche e poi per le pianole e gli organi elettronici. Poi alla fine degli anni Settanta si registra il crollo del comparto degli strumenti musicali, con i giapponesi che sbaragliano il mercato grazie all’avvento dell’elettronica, portando al fallimento molte aziende del territorio, anche importanti (Farfisa e Eko avevano allora più di mille dipendenti a testa). Nella riviera marchigiana la situazione diviene critica; occorre intervenire drasticamente, cercando di gestire ciò che rimane del mercato. Marco Grilli, laurea in Ingegneria, cresciuto nell’azienda di famiglia, è il ricambio naturale. Giovanissimo, ridimensiona e riorganizza la OMAS; una lezione durissima che però serve molto per capire dove orientarsi. E da lì l’azienda rinasce una seconda volta in modo flessibile, giungendo a realizzare una struttura in grado di supportare qualsiasi progetto di carpenteria meccanica di precisione, con clienti in tutto il mondo e in ogni settore industriale. Oggi l’impresa di Numana lavora con i settori fitness, automotive, componenti di macchine e di attrezzature agricole, componenti per la cantieristica edile, macchine per imballaggio, illuminazione, arredo e molto altro, con clienti blasonati ed esigenti – da Bosch a Technogym, da Guzzini a Honda, per fare solo alcuni nomi – che apprezzano una spiccata innovazione, perché il team di Grilli è in grado di pensare sempre a un qualcosa che sul mercato non esiste ancora. «Da sempre non temiamo nessuno»¸ sostiene determinato l’amministratore unico, «neanche i competitor asiatici, come Cina e Vietnam, che notoriamente sono molto aggressivi sul mercato globale grazie al basso costo della mano d’opera interna». E il futuro di OMAS si prospetta ancora più smart: l’azienda sta puntando molto sulla formazione professionale del proprio personale, affinché il know-how dei suoi tecnici sia sempre all’avanguardia, e sta investendo sempre di più sul parco macchine, molte delle quali sono personalizzate per affinare e risolvere problematiche di ogni processo. 31 Il segreto del successo? Per un’azienda che vanta oggi circa 40 milioni di fatturato, patrimonializzare e accantonare riserve per superare i periodi di crisi è un passo fondamentale per riuscire ad affrontare il mercato in maniera dinamica. Mantenendo continuamente un occhio costante al territorio, mai tradito dall’invito costante delle multinazionali di seguirle all’estero con la delocalizzazione. 32 4 Proteggersi da zanzare e sole con il Made in Italy MV Line, Casamassima (Bari) Inizia l’estate e si aprono le finestre. E come sempre le zanzare partono in avanscoperta con la loro battaglia. È il momento, spesso rimandato, di installare le zanzariere, il metodo più ecologico e salutare, rispetto a vari spray, zampironi e candele. Ma spesso le zanzariere sono esteticamente brutte e con il loro intralcio certo non abbelliscono gli infissi e la casa. Da questa basilare intuizione è partito Paolo Montanaro circa trent’anni fa, in un garage di Casamassima in provincia di Bari, allora ventenne ma già con qualche anno di esperienza alle spalle, grazie a piccoli lavoretti di riparazione di tapparelle e di applicazione di zanzariere. Paolo è figlio di Vincenzo che per gran parte della sua vita si è occupato di serramenti. Un’arte di famiglia, si potrebbe dire. Montanaro sa bene che il boom della domanda esplode con il caldo dei mesi della stagione estiva e che il servizio deve essere rapidissimo con consegne certe. Ma sa anche che il prodotto ha spazio per essere originale, con disegni innovativi e sistemi intelligenti. L’offerta in quegli anni è scarsa e il giovane imprenditore viene colpito dall’enorme richiesta: una grande opportunità di mercato. Ma a lui mancano i macchinari e un magazzino per contenere i prodotti finiti e le sue condizioni economiche non gli consentono una startup degna di questo nome. Accantona quindi temporaneamente l’idea, spostando il suo obiettivo immediato verso l’assemblaggio di tapparelle, con l’aiuto della compagna di allora, Laura Castellino. Il sogno è quello di sviluppare un’azienda capace di evolvere come punto di riferimento nazionale sul mercato dei serramenti. Montanaro, oltre al «quid» imprenditoriale tipico da chi ha grande spirito di iniziativa, è mosso da una ferrea volontà di 33 successo e di riscatto sociale, come sovente accade in provincia e nel Mezzogiorno, dove l’ambiente circostante è sempre un po’ diffidente verso le potenzialità di un giovane talento. Il patrimonio è scarso ma l’entusiasmo è tanto, e questo è sufficiente per iniziare un viaggio di pervicacia e di determinazione, fatto di enormi sacrifici personali e di duro lavoro, con la necessità di cambiare cappello a ogni ora del giorno: ora operaio, ora venditore, ora ragioniere, ora presidente. La mattina a proporre i prodotti ai clienti e la sera all’opera in fabbrica per evadere gli ordini. Ed è così che, con ritmi serratissimi, si forma una buona base d’impresa che gli consente di tornare al progetto che più gli sta a cuore: la produzione di zanzariere. È il 1996 e nascono i primi modelli di zanzariere a scorrimento verticale e a produzione totalmente interna. Già dai nomi dei prodotti si capisce che c’è dell’originalità nel suo catalogo: Vera, Lara e Ketty. Una grande capacità di trasformare un elemento povero, intrusivo e scarsamente funzionale, in un vero complemento di design per l’arredo, capace di donare confort e protezione attraverso una serie di funzionalità che il mercato accoglie con grande favore. MV Line in pochi anni ha una grande espansione sul territorio italiano, sostenuta da ingenti investimenti pubblicitari e di comunicazione. E così parte la grande avventura, anche grazie all’ingresso di risorse umane qualificate per la direzione di ogni reparto aziendale. La sede si trasferisce nel plesso industriale di Acquaviva delle Fonti, che nel corso degli anni incrementerà vertiginosamente la sua superficie. Sempre sotto la direzione esclusiva di Montanaro, la governance si evolve in un gruppo di quattro imprese controllate e coordinate da MV Line Group, specializzate in vari segmenti della protezione di sistemi filtranti e oscuranti contro gli insetti, con un catalogo di prodotti vastissimo che porta il fatturato consolidato a più di 100 milioni di euro e una dimensione di organico di 600 dipendenti. La strategia impone anche di crescere a monte nella filiera e di recuperare un presidio sulle materie prime fondamentali per la produzione (come l’alluminio) e Montanaro, oggi presidente del Gruppo MV Line, acquisisce nel 2017 la B.B.C. S.p.A. (ora MV Extrusion), un’azienda con sede in Basilicata, dotata di fonderia e specializzata nella lavorazione dell’alluminio, dall’estrusione alla verniciatura. Il Gruppo oggi è quindi costituito da MV Line, che con tre stabilimenti in Puglia produce zanzariere, schermature solari e tapparelle orientabili; MV Extrusion con due stabilimenti in Basilicata per la lavorazione dell’alluminio e un deposito a Settimo Milanese (MI); MV 34 Living a Capurso in Puglia, che sviluppa tende da sole, pergole, strutture bioclimatiche, sistemi outdoor di schermatura; MV Spagna a Valencia, come presidio commerciale e funzione di manutenzione per il mercato iberico. Andare oltre il mercato nazionale è la prossima sfida. Oggigiorno l’export rappresenta solo il 20 per cento ma il management si è posto l’asticella di raggiungere a medio termine il 50 per cento del fatturato fuori dai confini nazionali. La sede in Spagna che distribuisce il prodotto dell’intero Gruppo è il modello da replicare in Europa. «All’estero i competitor sono grandi aziende», sostiene Montanaro, «e ciò ci mette nelle condizioni di continuare a crescere. La sfida è già stata lanciata: il mio obiettivo è far diventare MV Line Group un player di riferimento internazionale nel mondo della protezione indoor/outdoor, capace di offrire prodotti innovativi in grado di anticipare le tendenze di mercato». 35 5 Il mio design è un’orchestra jazz Design Holding, Milano Lui è Daniel Lalonde, cinquantottenne, studi matematici (assai utili per una successiva formazione cartesiana e finanziaria), nominato nell’ottobre 2021 CEO di Design Holding, gruppo globale nel settore design di alta gamma, controllato pariteticamente da Investindustrial e The Carlyle Group, per il quale i due azionisti starebbero pensando a una possibile quotazione in Borsa. La sua nomina si è inserita in una strategia di crescita che ha l’ambizione di far divenire il Gruppo un leader globale nei prodotti di design di alta gamma e un player importante nel mondo del lusso tout court. Look informale ma elegante, stile charmant ed eloquio essenziale che nasconde determinazione e pragmatismo, solida formazione con MBA all’Insead, Lalonde è canadese di Cornwall (Ontario). Un track record di grande rispetto nel mondo del mercato di alto segmento. Dopo esser stato CEO di Nespresso in America e poi Global Chief Operating Officer in Svizzera, è stato per dieci anni in LVMH a New York, prima come presidente e CEO del Nord America nel settore orologi e gioielli a capo del marchio Tag Heuer, e successivamente per il Nord America nel ruolo di President e CEO di Louis Vuitton, che ha posizionato in soli cinque anni come la prima società del lusso sul mercato, grazie all’implementazione di svariate mosse strategiche e partnership creative. Nel 2010 è stato President & CEO di Moët et Chandon e Dom Perignon a Parigi. Ha quindi portato il gruppo Sandro, Maje, Claudie Pierlot et Fursac (SMCP) al miliardo di fatturato e alla quotazione. Gli mancava il tassello del comparto del design e l’opportunità gli è arrivata quando gli azionisti gli hanno offerto di guidare il Gruppo che ha riunito una serie di marchi, tra cui alcune imprese italiane storiche di proprietà familiare, sotto l’unica etichetta corporate Design Holding. 36 Non si tratta però della classica struttura di holding o della solita missione di aggregare in una azienda accentrata molti brand singoli, reduci da una storia separata di successo e senza reciproci collegamenti, grazie al canonico format di capogruppo dotato di staff centrali e deleghe operative alle società controllate. L’assetto organizzativo che Lalonde ha in mente è invece quello di disporre di un quartier generale leggero, dove il CEO e i suoi diretti collaboratori impostano la strategia insieme ai brand, responsabili poi di realizzarla. I marchi oggi sono di assoluto prestigio nel design internazionale, se pensiamo a B&B Italia, Azucena, Maxalto, Flos, Louis Poulsen, Fendi Casa, Arclinea e YDesign (realtà americana dell’e-commerce specializzata nei prodotti di design), con prodotti iconici come il divano Le Bambole, la lampada Arco, la sedia Catilina, il tavolo Xilos, i chandelier PH, la cucina Convivium e altri ancora. Il 27 aprile 2022 Design Holding ha presentato al mondo finanziario i suoi dati del 2021. Un fatturato che nell’ultimo esercizio segna 700 milioni di euro, con una crescita del 21 per cento rispetto all’anno precedente, e un EBITDA di circa 190 milioni, in crescita del 28 per cento. Una presenza in 130 Paesi del mondo, nove stabilimenti e un’attività che dà lavoro a più di 2.100 dipendenti. «Il mio ruolo è quello di colui che stabilisce la visione, la missione e gli obiettivi, individua le priorità strategiche e le possibili sinergie», afferma Lalonde, «dando coerenza strategica e filo rosso allo sviluppo dei brand, calibrando i processi e le azioni per essere sempre agili e nella giusta direzione. Mi piace pensare al mio ruolo come a quello di un direttore di orchestra jazz, che guida eccellenti solisti a produrre insieme un pezzo inedito, che va al di là dello spartito, creando un risultato mai sentito prima, una melodia alla quale aggiungere strumenti e basi per renderla sempre più ricca e unica. Qui la mia orchestra è Design Holding, un collettivo che deve diventare il più attraente e innovativo possibile per il design di lusso e che ha ancora degli spazi per prodotti complementari nell’offerta complessiva». E infatti nel maggio 2022 è stata ufficializzata l’acquisizione di Designers Company, impresa danese operante nel mobile e nell’illuminotecnica, titolare dei marchi Menu e by Lassen, con una forte presenza nei mercati nord europeo e statunitense. L’amministratore delegato di Design Holding illustra così i quattro pilastri su cui basa l’orientamento di fondo dell’azienda: • una maggiore attrattività dei marchi attuali, che devono diventare più desiderabili da parte dei clienti grazie a un aspetto ispirazionale 37 unico e ottenibile anche con l’innovazione e la partnership con designer di rango mondiale; • una maggiore vicinanza al consumatore ottenuta con una forte attenzione all’uso delle più moderne tecnologie e piattaforme tramite una trasformazione digitale dell’azienda, continuando a migliorare la vita delle persone in casa e fuori casa, anche grazie ai continui sforzi per innalzare la sostenibilità, riducendo l’impatto ambientale con l’ambizione di divenire carbon neutral; • una veloce crescita internazionale nei luoghi dove ancora non c’è stato il sufficiente sviluppo, come in Cina e in Nord America, insieme a un rafforzamento del posizionamento sul mercato europeo; • un ingresso più rilevante nel mercato contract di alta gamma, con un servizio personalizzato nei comparti dell’ospitalità, degli uffici direzionali, della nautica e del retail. Lalonde è molto elogiativo sulla tradizione del design italiano e anche sulla resilienza delle imprese italiane dimostrata proprio in occasione del lockdown. Sostiene infatti: «La storia del design industriale ha le sue principali radici in Italia, dove i mestieri artigianali sono un vero vanto del Paese. In questo settore si evidenzia benissimo la grande capacità di accostare il genio e la fantasia dei grandi architetti con la perizia della manifattura locale. Un po’ come quando la moda italiana ha fatto da trait d’union tra lo stilista e l’azienda di abbigliamento e come quando l’enogastronomia italica ha messo insieme la dimensione imprenditoriale con l’estro della ristorazione stellata. La buona salute del design italiano testimonia come si possano raggiungere dimensioni globali non sacrificando le più alte vette di estetica e di qualità, e questa filosofia è sicuramente nelle nostre corde. Ricordo che il nostro payoff oggi è “We design for a beautiful life”». Come dicevano poeti e artisti, «è la bellezza che salverà il mondo»! 38 6 Il diavolo del Made in Italy si nasconde nei dettagli Cartoni, Roma Se è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, il Made in Italy può essere scovato anche nei prodotti più inaspettati. Chi infatti potrebbe immaginare che la nostra nazione sia leader nel mondo della realizzazione delle testate per macchine da presa? E invece sì. I più importanti registi e fotografi di cinema mondiali, da Hollywood a Bollywood passando per l’Europa, utilizzano proprio un prodotto italiano, della Cartoni di Roma, per appoggiare la loro macchina da presa. Si potrebbe pensare che sia un accessorio, un particolare secondario. Ma nel mondo del cinema e del documentario, le nuove tecnologie per realizzare inquadrature innovative e di qualità sono cruciali per dare al filmato una originalità distintiva. Come sempre nelle storie aziendali italiane dell’eccellenza di prodotto, tutto si origina parecchie decadi fa. Siamo a Cinecittà e Renato Cartoni, capo documentarista dell’Istituto Luce, costruisce in economia la testata snodata a volani Vittoria per supportare le cineprese che usa per girare i cinegiornali del Ventennio. Egli documenta la conquista dell’impero in Africa e storica è la sua ripresa dell’entrata di Badoglio in Addis Abeba, girata di spalle da un carro che precedeva il generale. Questo supporto viene visto dai fondatori della ARRI, i tedeschi di Monaco Arnold e Richter, in occasione del viaggio di Hitler in Italia. E, finita la guerra, la Arrifex, in quel momento la cinepresa professionale più reputata nel mondo, commissiona a Guido Cartoni, figlio di Renato, le testate di appoggio per le loro cineprese 35 mm e per un modello più piccolo di 16 mm. Guido Cartoni, negli anni Cinquanta, assembla le testate giroscopiche in garage durante la notte e nel tempo libero, mentre di giorno lavora 39 come ingegnere meccanico alla società Fiorentini. Guido aveva ereditato dal padre il brevetto e i disegni della testata Vittoria ed essendo un autentico inventore sviluppa ben 17 modelli di supporto per muovere la macchina da presa. Tutti modelli che portano nei brevetti la sua firma. A un certo punto della sua vita lascia la Fiorentini e fonda un proprio laboratorio di produzione in piazza Bologna, all’ombra del Colosseo. Il successo è immediato: è il periodo d’oro del cinema neorealistico italiano e tutti i grandi registi (da Visconti a Blasetti; da De Santis a Zavattini; da De Sica a Fellini) adottano il prodotto Cartoni. Roberto Rossellini realizza con Cartoni il primo controllo da remoto per lo zoom. L’onda di reputazione continua per molti anni e il marchio Cartoni si diffonde in tutto il mondo. Nel 1982 a Los Angeles l’imprenditore riceve dalle mani di Tom Hanks l’Oscar per la tecnica cinematografica per l’invenzione dei modelli fluidi di movimento nel riprendere. Nel frattempo in azienda sono entrate le figlie Elisabetta (oggi AD) nel 1975 e Beatrice (oggi Direttrice Finanziaria) nel 1995, che supportano il padre sino alla sua morte nel 2016 a 97 anni. Un ingresso di due donne non facile perché allora il mondo della tecnica cinematografica era appannaggio del genere maschile. Ma Elisabetta, laurea in Filosofia con studi in psicologia e antropologia, utilizza bene il suo background umanistico per ritagliarsi il ruolo di consigliera fidata del padre e anche di portavoce degli operai, di interlocutrice dei clienti e di cacciatrice di idee nell’ambiente della tecnologia. Oggi l’azienda Cartoni ha circa 60 collaboratori e fattura 10 milioni di euro, esportando il 95 per cento della produzione in 62 Paesi nei 5 continenti. Un team di sei ingegneri costituisce l’ufficio tecnico e, dopo la morte di Guido Cartoni, il catalogo innovativo si è arricchito di altri cinque brevetti per un totale di 36 disegni originali. Al sorgere della pandemia la Cartoni ha immesso sul mercato un innovativo sistema di sanificazione dei mezzi di ripresa e raggi UVC chiamato UVC Boxer. Un apparecchio che ha avuto grande successo soprattutto nelle scuole di cinema. Ma l’innovazione non si ferma. Sotto la guida di Elisabetta e di Beatrice, a cui si è affiancata la quarta generazione con il figlio di Beatrice, Alessandro Simoncini Cartoni, sono arrivate apparecchiature a distanza per i mezzi di ripresa e la tracciatura del movimento per la realtà virtuale. Il mantra è sempre il Made in Italy, con la convinzione assoluta a non delocalizzare mai alcuna lavorazione. «Con i nostri 65 addetti», racconta l’amministratrice delegata, «controlliamo la filiera dalla progettazione al prodotto finito. I nostri concorrenti sono le 40 multinazionali, ma la formula dell’eccellenza italiana fino a oggi ci ha dato ragione e teniamo testa ai competitor con soddisfazione e costante crescita». 41 7 I lavoratori felici sono i più produttivi Bending Spoons, Milano Ricordate il romanzo Il cerchio, scritto nel 2013 da Dave Eggars? Raccontava di un’azienda americana iperdigitalizzata. fatta di email, di Instagram, di Facebook, di Twitter, di post e sms. C’erano tutti gli ingredienti dell’organizzazione energizzante: i quadri di Basquiat alle pareti, i mobili di Calatrava, la mensa a nove piani vetrati, il tendone nel campus dove prendere a noleggio le biciclette o i kayak o i deltaplani, la discoteca per la notte, e così via. Tutte cose da Silicon Valley diremmo noi, anzi da Silicon Valley tradotta in narrativa. Ebbene no, non è solo fiction, perché tutto questo può essere reale e può concretizzarsi a Milano, in pieno centro, in Corso Como, dove centinaia di lavoratori e di collaboratori sviluppano app di successo. Lì la filosofia aziendale è molto californiana: le aziende possono continuare a crescere solo se i dipendenti sono felici di esserci. Stiamo parlando di Bending Spoons, un’impresa fondata nel 2013 che si occupa principalmente di sviluppo di applicazioni per dispositivi mobili in diversi settori. La sua app più famosa è stata Immuni, prodotto inventato e donato nel 2020 per il tracciamento dei contagiati da Covid-19 in Italia e promosso dal Ministero della Salute per limitare la diffusione del coronavirus. Ma oggigiorno sono numerose le applicazioni realizzate dall’azienda milanese e contano oltre 400 milioni di download all’anno e 12 milioni di utenti attivi al mese. Prodotti che realizzano oltre 130 milioni di euro annui di fatturato. Queste app sono molto varie: si va da Splice (il videoeditor primo al mondo per ricavi) a 30 Day Fitness (una delle principali app per fitness), da Remini (per migliorare la qualità delle foto tramite intelligenza artificiale) a Fonts (la tastiera con caratteri personalizzati più scaricata universalmente), ad altri ancora. Bending Spoons è oggi uno dei primi sviluppatori di app iOS nel mondo. Un 42 mercato che è una vera miniera d’oro per chi lo sa cavalcare, se è vero che secondo gli analisti specializzati, le app potrebbero diventare la terza economia mondiale, con una crescita di quasi il 500 per cento rispetto al 2016. E infatti, consapevoli dello sviluppo prospettico, alcuni investitori esterni sono entrati nell’azionariato della società in posizione di minoranza; tra di essi la Red Circle Investments dell’imprenditore della moda Renzo Rosso. Può esser curioso capire la genesi del nome dell’azienda: letteralmente «cucchiai che si piegano». I quattro fondatori Luca Ferrari, Matteo Danieli, Luca Quarella e Francesco Paternello, amici e compagni di università oggi poco più che trentenni, sono convinti che il mondo può essere cambiato se si osserva la realtà da un punto di vista non canonico, e tutti citano il film Matrix e la sequenza cult dove Keanu Reeves si sorprende a piegare miracolosamente un cucchiaio con la mente. Se si cambia la prospettiva comune con cui si guarda a un fenomeno, si può volare verso il meglio, sostengono i fondatori, che non hanno pudore di esplicitare il loro ambizioso obiettivo di medio termine: conquistare il mondo una app alla volta. E loro il cucchiaio sembrano averlo davvero ammorbidito, perché l’azienda conta oltre 300 lavoratori (guai a chiamarli dipendenti! «Siamo spooners»), età media 29 anni, quasi tutti Millennials, molti tra i quali occupano posizioni dirigenziali. Bending Spoons è diventata una delle prime tech companies in Europa. Una squadra in continua espansione, con assunzioni ancora in corso e una cultura organizzativa molto orientata al welfare aziendale e alla coesione tra le risorse umane. Non a caso nel 2019 ha vinto la graduatoria di Best Workplace for Women, davanti a American Express e Biogen Italia, e di Best Workplace for Millennials, davanti a Volvo Group e a Nutricia Italia di Danone. «Puntiamo molto sul fattore umano», dicono Luca Ferrari e Matteo Danieli. «L’obiettivo primario è quello di costruire la migliore azienda per le persone che ci lavorano e per l’eccellenza dei prodotti che sviluppano.» L’attenzione all’equità di genere è massima e la presenza del 25 per cento di donne in ruoli manageriali è un vero record in un settore tecnologico italiano, perché l’informatica – come tante altre materie scientifiche – è ancora spesso una faccenda per uomini. In Bending Spoons c’è anche un audit per verificare che i processi remunerativi non siano impattati da discriminazioni di genere e l’azienda offre borse di studio di 7.500 euro all’anno per promuovere lo studio dell’ingegneria informatica tra le studentesse di diversi atenei. 43 La ricerca del talento è spasmodica, soprattutto per le figure tecniche (software engineer, data scientist, mobile developer) e, per attrarre i migliori collaboratori, Bending Spoons punta sulla meritocrazia, sul rapporto di orgoglio per il proprio lavoro e su un ambiente che possa offrire il massimo benessere ai suoi spooners. Il tutto con condizioni di lavoro vantaggiose, paghe sopra la media del settore, sostegni e benefit. E infatti il primo scorcio per chi entra in sede, accanto a una spianata di scrivanie e di laptop, consente di vedere open space, calcio balilla, free bar con spillatori di birra, stanza di campeggio con tanto di chitarra disponibile e così via. Anche gli orari di lavoro sono flessibili, anzi, come dicono in azienda, fluidi. Spiega Alice Valsecchi, responsabile risorse umane, «i nostri lavoratori hanno la massima libertà. Non esiste un orario fisso (eccezion fatta per i ruoli di receptionist). Crediamo nel buon senso delle persone. Se vogliono prendersi il mercoledì pomeriggio libero per migliorare le proprie informazioni oppure andare a vedere una mostra, possono staccare senza chiedere ferie o dare spiegazioni. Assumiamo i collaboratori con cura e poi ci affidiamo al loro senso di responsabilità». Sostiene Luca Ferrari, poco più che trentenne, due lauree con lode all’Università di Padova e di Copenhagen: «Le collaboratrici e i collaboratori sono la nostra risorsa più strategica. Aver assunto persone di talento, italiani e non, che potrebbero lavorare ovunque nel mondo ma che scelgono di stare con noi è il nostro maggiore successo». E l’appartenenza alla Bending Spoons si vede anche dalla forza del retainement: a novembre 2021 persone non fondatrici della società detenevano più di 50 milioni di euro in azioni dell’impresa: una shared equity di tutto rispetto per persone giovani e per un’impresa con una storia molto recente. E infatti nei motti appesi alle pareti, oltre al detto «Tutti per uno, uno per tutti», si può scorgere la frase «We are partners, not employees». Appunto sono spooners; e si sentono una tribù. 44 8 Imprenditore sì, ma a modo mio Anselmi, Monteforte d’Alpone (Verona) Dal suo elicottero è abituato a fare giri di ricognizione dall’alto. È da lì che si gode la vista della sconfinata campagna che caratterizza il borgo di Monteforte d’Alpone in provincia di Verona. E i filari dei suoi vigneti. Un concentrato di tradizione e di altissima tecnologia. «Con la testa per aria si scruta, si osservano le vigne, si programma», afferma Roberto Anselmi, presidente delle Cantine Anselmi, azienda vitivinicola che ha portato le Denominazioni della Garganega a un posto di tutto rispetto nel panorama enologico mondiale. Poi scende dal velivolo e con una minuscola Panda 4X4 inizia a ispezionare il territorio: «Con i piedi per terra si toccano i grappoli, la loro maturazione, il loro colore» Classe 1948, dall’apparenza docile e gigione, Roberto Anselmi, è invece noto per essere nelle sue vigne e nei suoi filari un imprenditore maniacale sui temi della tecnologia e della qualità. Scelte ferme e insindacabili ereditate dal padre e ancor prima dal nonno e oggi trasmesse ai figli Lisa e Tommaso. Lo stile imprenditoriale è lo stesso rigoroso e attento delle generazioni precedenti, anche se – come in tutti i settori – pure in questo c’è stata una profonda evoluzione. I genitori, padri forti e granitici, si occupavano di tutto, dalle decisioni del vigneto a quelle dalla cantina, dalle etichette alla vendita. Allora il marketing e la comunicazione non si sapeva nemmeno che cosa fossero. Oggi la sostenibilità e l’educazione del consumatore sono passaggi cruciali: è lui che fa la fortuna dell’azienda e occorre stare attentissimi ai suoi messaggi e alle sue richieste. Occorre educarlo a bere bene e a essere responsabile. Anselmi investe molto nel far conoscere il suo vino di alta gamma: «Dietro ogni mia bottiglia c’è una storia, un lavoro, una spinta imprenditoriale. Una bottiglia che esce dalla nostra cantina non è frutto 45 del caso né dell’improvvisazione, ma di un duro lavoro quotidiano che parte dall’uva e finisce sulla tavola del cliente». E in effetti le 750.000 bottiglie all’anno che vengono prodotte da 70 ettari di terreni di alta collina testimoniano un solo schieramento: sempre dalla parte della qualità. I prodotti sono due gran cru bianchi, Capitel Croce e Capitel Foscarino, paglierini caratterizzati da spiccatissima mineralità, e da un più rotondo San Vincenzo, dorato con quota di Chardonnay e Sauvignon. Poi un rosso di casa, il Realda, una finezza che sosta un anno e mezzo in barrique come i grandi bordolesi. E in ultimo i Capitelli, Recioto a firma Anselmi, un passito morbido e suadente. Tutti vini di carattere a tinte forti e senza compromessi. La storia della Anselmi merita di essere raccontata, se non altro per apprezzare la svolta compiuta dall’attuale presidente che si è preso un forte rischio per rilanciare l’azienda paterna, ma «a modo suo». Il nonno era stato un ottimo viticultore fra gli anni Venti e il primo dopoguerra, ma purtroppo la crisi legata alla guerra mondiale lo aveva costretto a vendere la terra e le vigne. Il padre di Roberto, Almerino, aveva continuato a lavorare nel comparto del vino, creando una grande cantina di imbottigliamento e di vendita di prodotti acquistati. Roberto, dopo la laurea in Economia a Padova, ritorna nell’azienda di famiglia, ma inizia un viaggio nelle cantine in Italia e fuori Italia, in Francia anzitutto. «Volevo capire come si fanno altrove i grandi vini bianchi. Così ho catturato esperienze e insegnamenti e ho cercato di adattarli al mio territorio.» Con una forte vena romantica, sogna di recuperare i vigneti del nonno e di ricreare una sua proprietà viticola. Ma sempre «a modo suo», con la sua personalità. E così fa; chiude l’attività di negoziante del padre e prima affitta e poi acquista la terra. Questo atteggiamento lo porta negli anni Novanta a rinunciare alle Denominazioni del Soave veronese, non condividendo le leggi e i regolamenti del Consorzio. In un certo senso la sua è una forma di protesta verso vincoli normativi ritenuti troppo blandi e permissivi. Lascia alle spalle il Soave e dà il suo nome ai vini dei suoi vigneti. Una scelta «a modo suo». A distanza di trent’anni, di quella decisione spregiudicata, per certi versi dolorosa quanto necessaria per il futuro della Anselmi, non c’è nessun rimpianto. «Non potevo essere legato al modello produttivo di mio nonno e di mio padre. Sì, ho fatto la rivoluzione. Devo moltissimo a mio padre, ma era di un’altra generazione. Lo stesso vale per me e per i miei figli che già si sono inseriti in azienda e che mi stanno dando moltissima soddisfazione. Devono ancora crescere, studiare, capire; ma sono sulla strada giusta.» Una strada che conferma quanto la Anselmi 46 rimanga un riferimento indiscusso, anche stilistico, per il comprensorio veronese. Il sogno nel cassetto? «Mi piacerebbe che ogni produttore di queste parti capisse fino in fondo quanta potenzialità ha ancora questa terra.» Un invito al nuovo imprenditore a osare di più. Ovviamente «a modo suo». 47 9 In dieci anni si può cambiar pelle Gruppo Carraro, Campodarsego (Padova) Si è detto tante volte che, dopo la recessione del periodo 2007-2016, niente sarebbe rimasto più come prima. Una crisi d’epoca e non congiunturale. Uno tsunami dopo il quale sarebbe stato difficile rimanere in sella senza compiere sensibili rivoluzioni. Ma un conto è dirlo (magari in qualche convegno), un conto è ristrutturare drasticamente la propria formula imprenditoriale. Specialmente se gli anni precedenti sono stati anni d’oro e se la business idea ha nel tempo accumulato costantemente crescita e redditività. La crisi è stata durissima e inflessibile. E la pandemia 2020-21 ha poi aggiunto altre sofferenze. Colpi di mannaia da cui è stato molto arduo riemergere. Ma adesso che molti vedono la fine del tunnel, si possono tentare i primi bilanci su chi ce l’ha fatta: parecchi sono riusciti a cambiare pelle e adesso qualcuno può addirittura permettersi di ostentare persino un sorriso. Il Gruppo Carraro di Campodarsego in provincia di Padova è uno di questi. Il peggio è ormai alle spalle. L’azienda produceva sistemi di trasmissione per veicoli trattori e movimentazione terra e nel 2008 (l’annus horribilis) fatturava 973 milioni di euro. Nata negli anni Trenta e sviluppatasi durante il Novecento con autorevolezza e notorietà, tutto sembrava andare per il meglio, al punto tale che il preventivo per l’anno successivo superava il target del miliardo di euro, con investimenti in ricerca e sviluppo di quasi 200 milioni. Macchine avanti tutta, dunque, per il 2009 e logica incrementale tipica di quelle imprese che preparano il budget più con la testa rivolta ai risultati passati che alle aspettative future. Poi la doccia scozzese e il terrore. I principali clienti come Caterpillar o CNH o AGCO – l’azienda operava in grandissima parte all’estero – cominciano a rallentare gli ordini. Il management cerca di resistere per 48 qualche mese con interventi di leggero rimedio, convinto che la crisi sia di breve durata e che tutto si rimetta in equilibrio dopo un brutto temporale, ma il 2009 si chiude con un fatturato di poco meno di 500 milioni. Un crollo verticale di quasi il 50 per cento rispetto all’anno precedente. Margine negativo e falcidiato, anche perché gli investimenti sono già stati programmati ed effettuati. Executive e azionisti di riferimento, capitanati dal nuovo presidente Enrico Carraro – figlio dello storico imprenditore Mario, da molti anni alla guida del Gruppo e decano degli imprenditori del Nord-Est –, si guardano in faccia e iniziano una pesantissima ristrutturazione che coinvolge tutte le azioni possibili: chiusura delle attività non centrali per la strategia; focus sulla componentistica industriale e abbandono delle linee di attività diversificate; razionalizzazione della rete partner-fornitori; taglio dell’occupazione che in un anno cala di oltre mille posti di lavoro; rinegoziazione dei salari; trattative sindacali sulla flessibilità; sostituzione del gruppo dirigente; nuovo amministratore delegato; innovazione verso prodotti più evoluti e loro dislocazione in nuovi mercati sia direttamente che attraverso joint venture; riposizionamento nella fascia alta per differenziarsi dai Paesi a basso costo del lavoro; aumento di capitale; cessione di un pacchetto di azioni da parte della famiglia di controllo e riduzione della posizione finanziaria netta consolidata. Ma tutto ciò senza mai deprimere l’ammontare destinato alla ricerca e sviluppo che rimane negli anni molto alto, mediamente intorno ai 100 milioni di euro, e che è poi la chiave principale per spiegare l’aumento della qualità della produzione e il successo del turnaround. In pochi mesi si trasformano i sistemi di produzione che diventano molto più elastici e si riduce il lag temporale del ciclo manifatturiero. Di fatto l’azienda si tramuta in una realtà non più solo del settore metalmeccanico, bensì in quel comparto che spazia come innovazione e implementazioni tecnologiche dall’elettronica al software, dalla meccatronica alla robotica. E con l’aggiunta di una alimentazione sostenibile, ecco l’annuncio del primo prototipo di trattore green che appare nel 2018. Una serie di mosse che producono sconvolgimenti e anche «morti e feriti», ma che consentono al Gruppo di ripresentarsi con un bilancio più magro ma molto più muscoloso. Un vero esempio di resilienza. Fino all’ultima mossa di un prestito obbligazionario intorno ai 180 milioni lanciato a gennaio 2018 e che ha consentito, grazie all’ottimizzazione della struttura finanziaria, di supportare ulteriormente i piani di sviluppo nonché di accelerare gli importanti programmi di ricerca avviati negli ultimi anni. Una vittoria per una protagonista 49 concreta della quarta rivoluzione industriale. Oggi Carraro ha circa 3000 dipendenti in quattro stabilimenti italiani e cinque sedi produttive in India, Cina, Sudafrica, Argentina e Brasile. Nell’estate 2021 si è concluso il percorso che ha portato l’azienda a uscire dalla Borsa, con l’obiettivo di procedere a una riorganizzazione finalizzata all’ulteriore rafforzamento del Gruppo in una logica più facilmente perseguibile dai soggetti non quotati. E con l’esercizio 2021 Carraro è tornata a crescere in modo importante, sia rispetto a un 2020 fortemente impattato dai lockdown sia soprattutto rispetto al 2019, vero riferimento di benchmarking. Un deciso cambio di passo, che ha consentito di incrementare il fatturato di oltre il 34 per cento rispetto all’anno precedente e di raggiungere un utile netto superiore ai 10 milioni di euro. «Oggi siamo un’azienda più piccola del pre-crisi, ma anche più profittevole», sostiene il presidente Carraro. Alla fine il «metodo Carraro» ha vinto: «non abbiamo aspettato che la crisi passasse», prosegue, «abbiamo continuato a investire riposizionando tutti i nostri prodotti un gradino più in alto nella scala della qualità». La velocità di reazione e l’ampiezza della riorganizzazione della Carraro sono una pedagogica ricetta per il sentiero della crescita di tutte le imprese manifatturiere italiane, Nordest incluso. 50 10 Vento in poppa: alla ricerca di altre prede Cantiere del Pardo, Forlì (Forlì-Cesena) La pandemia di Covid-19 e il relativo lockdown hanno lasciato profonde ferite nelle imprese. Quelle che non sono state del tutto azzoppate dal virus sanno che ci vorrà del tempo per ritornare alla normalità del 2019. Ma in questo panorama un po’ depresso è possibile trovare eccezioni di robusta resilienza, dove l’andamento del 2020 e del 2021 non è stato così negativo e dove il rimbalzo dei mesi successivi ha addirittura superato le diffuse aspettative. La ricetta? Tener duro, essere audaci, rimescolare le carte rispetto ai paradigmi consolidati e proporre un nuovo mercato ai propri consumatori. Questo è il segreto di Fabio Planamente e Luigi Servidati, artefici del successo del Cantiere del Pardo. Ma andiamo con ordine. Fondato nel 1973 a Craspellano, nei dintorni di Bologna, dall’imprenditore Giuseppe Giuliani, che varò il primo yacht a vela Grand Soleil 34 piedi (progettato dal Gruppo Finot), il Cantiere del Pardo si caratterizza subito per la produzione di barche a vela nel segmento medio-alto, appunto i Grand Soleil, che conciliano grande eleganza e comfort con elevate prestazioni da regata. Da allora in cinquant’anni sono state varate quasi 4500 barche, attraversando i diversi cicli del mercato, che, nella nautica, non sono proprio campioni di stabilità e di facilità programmatoria. Trasferitosi nel 1990 a Forlì, nonostante le varie difficoltà del comparto, il marchio Cantiere del Pardo ha sempre retto bene, grazie allo stile e al design che consentiva di proporre soluzioni tecnologiche innovative sotto il cappello del Made in Italy apprezzato in tutto il mondo. Fatturato sempre in crescita, riconoscimento dell’eccellenza nella nautica e continuo ridisegno del concept del prodotto per andare incontro alle tendenze dei clienti, che nel frattempo mutavano nelle loro richieste e nei loro fabbisogni. E anche la crisi finanziaria dei primi dieci anni del Duemila ci ha messo del suo, 51 con il ciclone che ha devastato il mercato delle barche da diporto spazzando via i cantieri più fragili e mettendo a dura prova la capacità di resistere da parte delle imprese più solide. Fra queste c’è il Cantiere del Pardo che, invece di «lasciare», «raddoppia» cambiando le regole del gioco e nel 2014 avvia una linea di barche a vela Grand Soleil più votata alla crociera, con più gadget, più comodità, più attenzione al dettaglio. Una villa galleggiante, insomma. E ci si orienta al mercato globale, con più chance ma anche più rischi, essendo esso caratterizzato da maggiore instabilità. Anche la governance cambia, al mutare abbastanza vorticoso della proprietà della società. Archiviata la famiglia iniziale, l’azienda (che fra le altre cose dal 2002 deteneva anche il cantiere francese Dufour) passa nelle mani di alcuni fondi di private equity, divenendo poi parte del gruppo tedesco Bavaria. Successivamente, a metà del 2018, la famiglia Trevisani cede la maggioranza, lasciando il controllo della società ai due manager storici del Pardo, Fabio Planamente e Luigi Servidati, che in quell’anno con un management buyout diventano prima soci di maggioranza e poi, attraverso la loro holding GIFA, controllanti al 100 per cento del Cantiere. Planamente, amministratore delegato con visione di general management internazionale, e Servidati, presidente del consiglio di amministrazione e con focus sull’area commerciale e sviluppo prodotti, sono imprenditori coraggiosi e audaci e nel 2017 sparigliano le carte del settore. Il mercato della nautica si caratterizza per il 90 per cento per le barche a motore e per il 10 per cento per le barche a vela. Grand Soleil è nella seconda fetta della torta e per di più in una posizione molto segmentata della stessa. Perché non entrare nella fascia delle barche a motore, dove l’estero (USA ed Europa) tira a più non posso? Di lì la scelta della diversificazione e nel 2017 la nascita della linea dei motoryacht Pardo, che ha subito un grande successo presso clientela e porta l’azienda nel 2019 a più di 40 milioni di fatturato, che diventeranno 54 alla fine dell’anno nautico 2020. Nel frattempo si avvia l’acquisizione dell’azienda olandese VanDutch, che produce imbarcazioni open di lusso, particolarmente apprezzate nei mari della Florida e della Costa Azzurra (il timeless più noto è il 40 piedi): una vera icona del lifestyle nautico con un consolidato posizionamento oltreoceano e con un brand molto sinergico, anche dal punto di vista cantieristico, ai Grand Soleil e ai Pardo Yachts. Sono barche spesso fotografate con celebrities e influencer al timone e quindi anche un investimento reputazionale strategico, che consente di esaltare 52 l’esperienza e la qualità dell’azienda forlivese. L’acquisizione si completa a giugno 2020, nel mezzo del terremoto del coronavirus. Ci si aspetterebbe a questo punto una reazione tipica da lockdown: produzioni a rilento, ordini rinegoziati e congelati, clienti in fuga, ristrutturazione finanziaria, e così via. E invece ecco il miracolo: il Cantiere del Pardo chiude solo tre settimane, dal 27 marzo al 16 aprile 2020, mantenendo attiva la logistica, cruciale per il ricevimento delle merci da immettere nel processo manufatturiero. Attenta innanzitutto alla salute delle maestranze e degli impiegati, l’azienda registra un leggero ritardo nella tempistica dei lavori ma non subisce alcun annullamento da parte dei clienti di tutto il mondo (a febbraio 2020 viene concluso il 100 per cento del venduto dell’anno a venire). «Abbiamo anticipato proattivamente tutto ciò che potevamo fare per mettere in sicurezza il cantiere e per non perdere opportunità di mercato», afferma Fabio Planamente. «Già dell’inizio di marzo, sfruttando la rete dei dealer sparsi in tutto il mondo, avevamo comprato migliaia di mascherine in Messico, e abbiamo consentito agli impiegati di usare le tecnologie più aggiornate per lo smartworking.» E questo abbrivio consente di perfezionare il progetto del nuovo Grand Soleil 44 Performance, che tocca l’acqua a fine luglio 2020, e di approntare il nuovo Pardo 60 Endurance, prima barca di 18 metri a motore, che viene messa in mare a inizio 2021 e poi proposta ai diportisti all’inizio del 2022. Un azzardo, dicevamo, ma che è stato un notevole successo e che ha portato, con l’impatto sul conto economico del marchio VanDutch, un incremento del volume d’affari di oltre il 35 per cento rispetto all’anno 2020 e un utile netto superiore ai 10 milioni di euro, ponendosi di fatto come leader nel mondo dei luxury yacht. È normale che Planamente e Servidati fossero corteggiati dai fondi di private equity, che vedevano un oggetto di grande interesse nel percorso passato e prospettico del Cantiere del Pardo. E infatti alla fine del 2020 il 60 per cento del capitale viene acquisito da Wise Equity SGR, società di gestione del fondo Wisequity V. Con questa operazione, Servidati e Planamente continuano il percorso di evoluzione della società con l’obiettivo per i prossimi anni di restare saldamente al timone e di continuare a investire nell’offerta di imbarcazioni sia a vela sia a motore, sempre contraddistinte da un design elegante e innovativo coniugato ad alte prestazioni e qualità ai massimi livelli, con l’obiettivo di rafforzare la leadership nel segmento 30-80 piedi, valutando anche le opportunità di espansione in altri segmenti. «Nella decisione di aprire il capitale per dotare la società di ulteriori risorse per lo sviluppo», ricorda Fabio 53 Planamente, «abbiamo prestato una forte attenzione alla scelta del partner. Abbiamo trovato in Wise Equity il partner che cercavamo, non solo per la loro ventennale esperienza nell’accompagnare medie aziende italiane nel percorso di crescita e internazionalizzazione ma anche per la loro sensibilità industriale, che siamo sicuri ci permetterà di avere un interlocutore attento alle peculiarità del nostro settore». 54 11 Con noi il grande freddo Irinox, Conegliano (Treviso) Non sempre in economia il successo è decretato da un’offerta che va incontro a una domanda, come reciterebbe la teoria. Anzi, forse i casi più straordinari di formula imprenditoriale sono proprio quelli in cui i pionieri della manifattura o del terziario anticipano il fabbisogno del mercato, sorprendendo il cliente che ancora non ha auto-specificato i propri desideri e le proprie necessità. La storia di Irinox di Corbanese di Tarzo in provincia di Treviso è un esempio eclatante di capacità di intuizione e di tenacia nell’innovazione, in quel Nord-Est, terra di imprenditoria testarda che non si arrende mai e dove fare impresa è una ricetta che si perfeziona di continuo. Irinox nasce nel 1989 da tre soci nel distretto trevigiano di lunga tradizione nella lavorazione dell’acciaio e nelle attrezzature professionali per le cucine. L’idea è un prodotto talmente nuovo che addirittura manca sul mercato: l’abbattitore, un «forno del freddo» che raffredda e surgela rapidamente i cibi caldi e, così facendo, ne conserva le caratteristiche qualitative. A dire il vero gli abbattitori allora c’erano già, ma erano stati progettati solo per le grandi collettività, come le mense ospedaliere e le scuole, e non venivano certo percepiti dai potenziali clienti come un prodotto di qualità e di alta gamma. Un ambiente che ci ricorda un po’ gli anni Cinquanta e Sessanta, quando il miracolo economico passava per l’elettrodomestico che cambiava le abitudini degli italiani. Poiché, come si diceva, la domanda inizialmente faceva fatica a fare capolino, Irinox inizia la sua storia anche con una linea di business, a latere degli abbattitori, di quadri elettrici inox, che consentiva di stabilizzare il fatturato complessivo e che ancor oggi rappresenta una parte cospicua dell’attività aziendale. 55 La pervicacia di quegli anni ha pagato, perché oggi, a trent’anni dalla fondazione, Irinox conta di toccare a fine 2022 i 60 milioni di euro di fatturato, vendendo più del 60 per cento dei suoi prodotti all’estero, con al primo posto il mercato statunitense e poi a seguire Giappone, Germania, Francia, Spagna e recenti espansioni in Far East e Australia. Grazie ai suoi più di 50.000 impianti di abbattitori professionali installati nel mondo, il marchio è presente nel settore della ristorazione, della pasticceria, della gelateria e della panificazione. La produzione è al 100 per cento Made in Italy e l’azienda è riconosciuta per l’elevata ricerca sulle tecnologie per una perfetta conservazione alimentare. Poi nel 2002 la grande svolta, con la novità per uscire dal mondo esclusivamente professionale: il primo abbattitore domestico di piccole dimensioni (da incasso o da appoggio). In questo caso il primo al mondo! Un prodotto che univa due funzioni che sembravano agli antipodi: il freddo rapido al caldo lento, potendo surgelare e cuocere, scongelare e lievitare, raffreddare e riscaldare, oltre al raffreddamento delle bottiglie. L’obiettivo era di conquistare uno spazio stabile nel locale della cucina, come era avvenuto con gli elettrodomestici più canonici. Anche Irinox però, come tutte le imprese, viene colpita dagli scossoni della recessione dell’inizio del secolo, ma Katia Da Ros, amministratrice delegata e vicepresidente dell’azienda, ricorda così quegli anni: «La crisi è stata salutare. Ci ha costretti a riconfigurare i processi e i modelli organizzativi. Ci ha portati a concentrarci su aree che, quando le cose vanno bene, sono trascurate». Katia Da Ros, laurea in Economia aziendale a Venezia e master alla Harvard Business School, è una fervente sostenitrice di formule di governance avanzate: «Per noi l’innovazione non è soltanto una gestione di prodotto, ma anche di modalità di governo d’impresa», sostiene, raccontando come Irinox abbia aperto il board a contributi esterni qualificati di amministratori indipendenti. È il passo indietro degli azionisti che ha consentito di chiarire e migliorare la strategia e di managerializzare l’organizzazione, lasciando ai dirigenti la fase più esecutiva. Ciò ha consentito anche agli oltre 300 dipendenti di intraprendere nuovi percorsi di crescita e di sviluppo di carriera. La rincorsa sui mercati internazionali ha stimolato sicuramente la ricerca tecnologica e l’innovazione perché il confronto è stato con attori non domestici più forti e strutturati. E questo ha condotto a conquiste mondiali di grande soddisfazione e visibilità: nelle cucine di AmazonFresh (il servizio a domicilio per la vendita di frutta, verdura e piatti precotti della più grande piattaforma di e-commerce nel mondo) a 56 Boston gli abbattitori sono marchiati Irinox e così sono anche a New York, Chicago, San Francisco nelle cucine di avanguardia di Google, Yahoo, LinkedIn. Dallo scetticismo degli anni Novanta (gli chef dicevano «interessante, ma a noi non serve!») a una leadership globale (oggi quasi tutti i ristoranti stellati hanno uno o più abbattitori in dotazione) e a un posizionamento nel segmento alto dei clienti domestici. Complice anche una legislazione che ha raccomandato in Italia e nel mondo la cultura dell’igienizzazione del cibo, ma soprattutto una grande passione, quasi da missionari, per il proprio lavoro da parte dell’azienda, una capacità superiore di conciliare nuove tecnologie e benessere e una notevole resilienza per superare le difficoltà e indirizzarsi verso traguardi sempre più sfidanti. 57 12 Quanto condiziona il distretto monoindustriale Gruppo Chiorino, Biella Il distretto industriale è stato ed è tuttora la formula italiana di maggior successo del capitalismo molecolare e del diffuso pulviscolo dell’artigianato, costituendo il melting pot postfordista in cui localismo, creatività e talento riescono a combinarsi in continue evoluzioni e consentono alle microimprese di competere mondialmente. Ma che cosa capita quando in un territorio focalizzato storicamente su un comparto specifico (la sedia, l’occhiale, il tessuto, il divano, la bambola, la piastrella e così via) un’azienda decide di cambiare pelle e di sperimentare una diversificazione lontana dal DNA secolare del luogo d’origine? È possibile far sopravvivere un’anomalia in un distretto d’eccellenza? Come far crescere e prosperare in un mondo di pulcini bianchi un pulcino di un altro colore? La storia della Chiorino di Biella è un’esperienza esemplare. Nata nel 1906 come conceria per la produzione di cinghie di cuoio, per soddisfare la domanda crescente da parte degli stabilimenti tessili di cinghie di trasmissione che trasferivano l’energia dei salti d’acqua dei torrenti ai macchinari produttivi, l’impresa consolida nel primo Novecento una florida attività. Poi, negli anni Cinquanta, si ritrova a dover reinventare il proprio intento strategico, perché la trasmissione del moto è totalmente sostituita dai motori elettrici. Con la seconda generazione al comando viene allora sviluppata un’attività complementare di produzione di articoli in gomma, ma sempre destinati ai macchinari dell’industria tessile (filatura e tessitura). Con la sempre maggiore riduzione del numero degli stabilimenti tessili in Europa prima e in Italia poi, la Chiorino si trova nuovamente costretta a immaginare un diverso futuro. Addio al tessile e grande sviluppo di nastri trasportatori per la 58 movimentazione interna, destinati soprattutto al settore alimentare, logistico, dell’imballaggio e a tutte le altre possibili applicazioni industriali. Questo faticosissimo processo di trasformazione industriale (la vecchia conceria diventata industria della gomma prima e modernissima industria di lavorazione delle materie plastiche poi), culturale e di mercati è il frutto del lavoro della terza generazione dei Chiorino, con gli azionisti che stringono i denti e rilanciano la nuova produzione, con il principale obiettivo di dare un futuro perdurante all’azienda. È soprattutto con la guida di Gregorio Chiorino, presidente della società da oltre trent’anni, che si perfeziona poi la fase della personalizzazione del servizio e dell’internazionalizzazione. La sfida con i concorrenti europei (principalmente con i tedeschi, ma non solo) è vinta con un’estrema attenzione al «su misura» per i singoli clienti, per cui la Chiorino si distingue in tutto il mondo per una predisposizione all’«one-to-one» sia pre che post vendita. Gli anni Duemila vedono il Gruppo estendersi sul pianeta con una rete capillare di distribuzione e di assistenza con 19 filiali e 60 distributori, che consentono di garantire in qualsiasi area geografica la medesima qualificazione della casa madre. In tutto il secolo di attività l’azionariato è rimasto concentrato nelle mani di un’unica famiglia: una cultura imprenditoriale solida, eticamente responsabile, attenta al welfare dei 900 dipendenti, orientata alla sostenibilità ambientale, profondamente indirizzata alla ricerca e all’innovazione. E nel 2017, proprio per affrontare nuove sfide e tagliare nuovi traguardi ambiziosi, la famiglia Chiorino decide di cedere una quota del 20 per cento a T.I.P. del Gruppo Tamburi, per prepararsi con i nuovi soci e una nuova governance a imprimere uno sviluppo significativo delle proprie attività, pronta a entrare in Borsa. Sarà l’amministratore delegato Matteo Chiorino, 48 anni, quarta generazione degli industriali piemontesi, a iniziare il percorso di quotazione nel 2022. E l’azienda raggiungerà 140 milioni di ricavi, realizzati per l’80 per cento all’estero, con una crescita nell’ultimo esercizio del fatturato di oltre il 25 per cento. Torniamo allora alla domanda iniziale: si può diversificare in un distretto monoindustriale? La Chiorino ha azzardato questo passo e ce l’ha fatta. La sua presenza in un’area geografica dove non si respira altra aria che lana, lana e ancora lana, non le ha creato particolari vantaggi, è vero. Però essa ha potuto godere della cultura industriale del territorio, di un’antica tradizione manifatturiera, di una qualità del saper fare delle 59 maestranze che rappresentano un profilo invidiabile nell’organizzazione della produzione, di un diffuso attaccamento aziendale che caratterizza il popolo biellese, con un fortissimo senso di appartenenza alla propria impresa. Un caso dunque di scuola, che dovrebbe fare riflettere coloro che sostengono che il volo del calabrone dei distretti si sia ormai arrestato e che sia impossibile rivalorizzare l’industria borghigiana del Novecento. La storia della Chiorino dimostra come invece sia possibile «cambiare mestiere». Anche nei distretti più appannati gli animal spirits ci sono e, invece di ripiegare – come spesso si è visto fare – sui più facili processi di rendita finanziaria e immobiliare, bisogna esortarli a prendere il coraggio a due mani, a inventare nuove value proposition e a diventare i leader di domani. Altri si accoderanno allora sotto l’ombrello di questi campioni. 60 13 Una buona ragione per non lasciare l’Italia Blackshape, Monopoli (Bari) Al comando della Blackshape Aircraft di Monopoli, la Ferrari del cielo, ci sono due giovani imprenditori, Luciano Belviso e Angelo Petrosillo, settant’anni in due. La Blackshape produce aerei leggeri in fibra di carbonio, prezzo circa 250.000 euro, con prestazioni superiori in quanto a velocità e consumo, e metà del peso dei concorrenti. Due prodotti al mese venduti in più di venti Paesi nel globo a VIP facoltosi e a Paperoni d’Arabia e dell’Est. Fatturato che raddoppia ogni anno da tre anni. Com’è possibile che tra Bari e Lecce, tra lo scirocco del mare e i trulli di Alberobello sia nato forse l’esempio di innovazione più straordinario del nostro Paese? Luciano e Angelo sono amici fin dal liceo: il primo va a Torino per laurearsi in Ingegneria spaziale al Politecnico, mentre il secondo si indirizza verso Giurisprudenza alla Scuola Superiore S. Anna di Pisa. Poi emigrano per i soliti studi specialistici (Master of Science e Ph.D). Sembra la consueta trama dei classici cervelli pronti per la fuga definitiva oltre confine. Ma i due vogliono «volare alto» e sono affezionati alla loro terra e lì si ritrovano. Nel 2008 la Regione Puglia avvia il programma Bollenti spiriti (zampino di Nichi Vendola nel nome stralunato) per talenti emergenti. È un programma che non «sistema», ma incoraggia. I nostri eroi partecipano e ottengono 25.000 euro di prestito a fondo perduto, con cui di fatto pagano le spese notarili e di costituzione di Blackshape e partono con il business plan. Missione? Disegnare, costruire e vendere aeroplani. O, meglio, prima immaginavano di produrre oggetti di design in fibra di carbonio, ma Luciano ricorda dai suoi studi che vicino a Treviso abita un certo Bepi Vidor (non sembra la sceneggiatura di un film?), «mito dell’aeronautica «che si diverte a progettare velivoli» e chiede a lui ispirazione. A quel punto Vidor li 61 convince e si passa al business degli aerei. Nasce il Prime, con la caratteristica esteticamente vincente di avere i due posti di comando uno dietro all’altro, come i Mig da caccia di Top Gun, Rayban a specchio e giubbotto di pelle inclusi. Un successo di ordini. Ma per metterlo in produzione occorrono i quattrini; le idee non bastano. Come dice il proverbio, «senza lìlleri, non si làllera». Business plan alla mano i trentenni imprenditori girano ben 42 banche (piccole locali e grandi nazionali), ma la risposta è sempre la stessa: la loro azienda è ancora tutta sulla carta e non ci sono garanzie reali. Ricordiamoci che siamo nel pieno della crisi e del credit crunch. Il fatto poi di essere in Puglia e non a Cupertino di certo non aiuta. Viene contattato Vito Pertosa, un visionario imprenditore di Monopoli che con la sua Mermec produce sistemi di diagnostica per treni di misura. Pertosa ci crede e investe un milione di euro con il fondo Angelo Investments: a lui il controllo del 55 per cento di Blackshape; ai due giovani il restante 45 per cento. E si parte, con Pertosa che gioca il ruolo del saggio mentore. È il 2011 e dal capannone esce il primo superleggero. Va in Bulgaria. Seguono consegne in Repubblica Ceca, Belgio, Russia, Romania, Brasile. Il distretto aerospaziale pugliese fluidifica lo sviluppo. Lì c’è concentrazione di know-how con imprese come Boeing (la fusoliera del Prime è simile a quella del Dreamliner Boeing 787), Aermacchi, Agusta, Bombardier, e il capitale umano può condividere pratiche manageriali e professionali. Le scelte organizzative sono innovative: età media 35 anni; bilanciamento di genere tra uomini e donne; ricerca continua di professionalità (il 50 per cento dell’organico è ingegnere), attenzione al work-life balance (orari di ingresso flessibili e spesa che arriva in azienda dal supermercato due volte alla settimana); contest per laureandi che vogliono cimentarsi in progetti inesplorati; formazione elevata sia per manager che per operai specializzati. Oggi, a distanza di più di dieci anni dalla costituzione, cento velivoli sono stati acquistati e cinquanta consegnati. Si punta a terminare un velivolo ogni settimana. Nel frattempo si estendono le certificazioni aeronautiche da parte delle nazioni straniere. L’aereo viene venduto come aereo sportivo, ma anche per scopi di addestramento e da pattugliamento. I posti di lavoro a fine 2021 erano quasi 1600. Il piano pluriennale si prefigge di decuplicare i ricavi entro il 2022 e di diventare la prima azienda aerospaziale d’Europa dopo i colossi pubblici. La favola si è concretizzata. La morale è implicita: non arrendersi alle difficoltà, se si hanno determinazione e passione. Certo, non tutti devono diventare imprenditori. Lo meritano i più coraggiosi e i più tenaci. Quelli 62 che non attendono necessariamente le condizioni facilitanti. E in questi casi il successo è ancora più appagante. 63 14 Il cancello per il paradiso Gruppo FAAC Technologies, Zola Predosa (Bologna) Dai colli bolognesi alla conquista del mondo con prodotti di tecnologia d’avanguardia. Una storia tipicamente italiana, miscela di imprenditorialità da animal spirit, di genialità dei tecnici che, come si dice in Emilia, sanno «pistolare la macchina», di governance peculiare che sa tenere insieme valori di socialità cattolici con rapide mosse da mercato globale. Tutto parte cinquant’anni fa con Giuseppe Manini, tipico fondatore di quei tempi, che sa buttare il cuore oltre l’ostacolo e si inventa l’apricancello automatico. Ci sembrerà oggi strano, ma allora condomini, ville e stabilimenti con problemi di chiusura e di sicurezza non avevano congegni ai cancelli, se non a mano. Manini intuisce il vuoto d’offerta e punta subito sulla qualità e sull’affidabilità dell’elettronica che consente di comandare tutto con telecomandi portatili. Nasce la FAAC (Fabbrica Automatismi Apertura Cancelli) in un piccolo edificio di Casalecchio. Grazie a una supply chain del territorio (il network idraulico bolognese), tipico dei distretti italiani, l’azienda si espande e diventa leader mondiale nel comparto. Alla morte prematura del fondatore, gli succede il figlio Michelangelo, diverso per ruolo e per carattere, ma con una forte determinazione a internazionalizzare l’azienda (negli anni Novanta erano entrati nel capitale i francesi di Somfy con una quota di minoranza) e a managerializzarla (l’assetto organizzativo si struttura come una management company con posizioni direttive tutte affidate a dirigenti professionisti). Ma nel 2012 anche Michelangelo muore a soli 51 anni e a sorpresa le quote di controllo vengono lasciate in eredità alla Curia di Bologna. Le «acque» del lascito (circa 1,7 miliardi di euro, composto da azioni, proprietà immobiliari e 140 milioni di liquidità in banca) sono 64 burrascose e le sorti della FAAC rimbalzano per mesi sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e locali. Una sorta di saga che dura due anni, degna di una telenovela con continui colpi di scena, che coinvolgono: l’Arcidiocesi di Bologna e il Vaticano, impreparati di fronte all’improvvisa donazione; i parenti di lontano grado della famiglia, che impugnano il testamento; il Tribunale di Bologna, che si vede costretto a mettere l’azienda sotto tutela giudiziaria e la città felsinea, che non nasconde lo stupore per ciò che sta avvenendo in una delle imprese più rilevanti del territorio, anche se da sempre sottotraccia nelle conversazioni da campanile. Nel mentre il management continua a tenere la barra dritta, riuscendo a escludere l’attività e la strategia dalle controversie legate all’eredità. Protagonista di questo capolavoro dai nervi saldi un board capitanato dal presidente Andrea Moschetti e dall’amministratore delegato Andrea Macellan, che prosegue nel non facile compito di sviluppare la FAAC e di incrementare la copiosa lista dei brevetti di innovazione senza un padrone definito. Risolto nel 2014 l’accordo e liberato l’asse ereditario da tutti i pretendenti (da quel momento il 100 per cento delle azioni torna in mano alla Curia di Bologna), l’azienda riacquista la serenità che consente di disegnare un avvenire più strutturato e alcune operazioni di crescita. I dipendenti oggi sono più di 2500, impiegati nei cinque continenti. I siti produttivi 18 in 15 Paesi con 32 unità commerciali. Alla divisione Access Automation, quella tradizionale che produce cancelli, dissuasori, ingressi auto e porte automatiche, dove FAAC è leader mondiale e dove la marginalità è alta, si affianca la divisione Access Control, con i tornelli pedonali e le barriere automatiche che incrociamo sulle autostrade. Terza divisione, più recente, è quella Parking, che comprende i meccanismi per le zone ZTL e i parcheggi con esazione. Due delle tre business unit fanno riferimento al quartier generale a Zola Predosa, mentre l’Access Control viene gestita da una società in Germania. Una vera multinazionale tascabile di complessivi 600 milioni di euro di fatturato e di consistente EBITDA, che si caratterizza anche per un governo societario molto originale. L’Arcidiocesi di Bologna, infatti, dopo essersi ricomperata la quota dei francesi (si dice con la benedizione di Papa Francesco, che vede nella FAAC un esperimento di impresa con una innovativa missione sociale), non si interroga più sulla coerenza della produzione globale con i principi cristiani. Ha costituito un trust di durata trentennale dove l’Arcivescovo assume il ruolo di protector con diritto di voto su alcune 65 questioni primarie e dove i trustees nominano i membri del consiglio di amministrazione del Gruppo. Nelle intenzioni dell’attuale capo della Curia Monsignor Zuppi, la FAAC è un virtuoso esempio di «tanto welfare aziendale, più spazio alle donne e alle mamme, con dipendenti che partecipano alla vita aziendale». «In God we trust. Si lavora nel nome del Signore», sostengono i dipendenti con una sorta di motto che ricorda nella provincia rossa più le pagine di Don Camillo che le dichiarazioni di Landini. Una specie di «governance celeste» che riesce a conciliare la spietata concorrenza del mercato con una sensibilità di olivettiana memoria. Di certo un modello interessante che può essere di insegnamento in questi anni post crisi dove siamo tutti alla ricerca della formula post-capitalistica. A luglio 2022 FAAC diventa FAAC Technologies. Nuovo nome, nuovo logo, nuovi colori, nuovo slogan («We open worlds») per quella che è conosciuta come la multinazionale italiana dei cancelli ma che, nel corso dei suoi cinquanta e più anni di storia, si è espansa in numerosi segmenti di mercato affini che ricomprendono barriere veicolari, tornelli pedonali, dissuasori del traffico, alza serrande e saracinesche e sistemi completi di gestione dei parcheggi con esazione. E il rebranding del Gruppo di Zola Predosa, che non riguarda solo la sfera visiva ma sta a sottolineare una rinnovata focalizzazione della strategia sul primato tecnologico di prodotto, da sempre punto di forza del marchio. 66 15 Oltre le Winx Rainbow, Loreto (Ancona) Non c’è bisogno di andare a Cupertino per scoprire le organizzazioni che mandano in visibilio gli esperti del «great place to work». La retorica della qualità della vita lavorativa è ben più a portata di mano, anche se a volte è più a riflettori spenti che in Google o in Amazon e non ispira film come The Circle tratto dall’omonimo romanzo di Dave Eggers. Nelle colline marchigiane tra Loreto e Recanati, in quel distretto dove la poesia e la musica sono le voci del territorio, in 10.000 metri quadri tra il verde e i colori forti dell’arredamento, la Rainbow di Iginio Straffi è un piccolo capolavoro di attenzione al talento dei suoi dipendenti. Una sede progettata da pochi anni secondo criteri di sostenibilità ambientale (grandi vetrate, pannelli fotovoltaici, manto erboso sul tetto) e con investimenti per il wellbeing di chi ci lavora (sauna, palestra, piscina, campo da tennis e da calcetto, pedana per corsi di yoga e di ballo e persino una mensa dove lo chef prepara i paccheri al salmone e il filetto di spigola). Perché l’atmosfera allegra e rilassata è la principale condizione per un miracolo tutto italiano: la più grande realtà europea di animazione. La Rainbow si identifica con il suo cinquantunenne fondatore e con il prodotto che ha portato l’azienda a quindici anni di trionfi, le Winx, sei fatine superfamose (Bloom e le sue cinque piccole amiche), che, con colori sgargianti ai confini col kitsch, mescolano intrattenimento e messaggi educativi. Le Winx sono state anni fa una grande intuizione di Iginio Straffi – a quel tempo disegnatore di Bonelli, ma già col pallino dell’uomo d’affari piuttosto che dell’artista – che ha deciso di puntare su personaggi che diventassero icone. E insieme ai suoi collaboratori, eccellenze nei diversi campi e spesso richiamati anche dall’estero, tutti giovani e pariteticamente donne e uomini, ha creato un fenomeno 67 planetario che oggi viene distribuito da più di 150 emittenti TV e visto da quasi 200 milioni di spettatori. Col tempo alle sei fatine, ispirate ad attrici e popstar e beniamine del pubblico più giovane, si sono affiancati altri personaggi come Mia e Me o Huntik oppure Maggie e Bianca, adolescenti che frequentano una scuola di moda, o la nipote di Cenerentola, Rose, nella serie Regal Academy. Tutti lavorati secondo lo schema rodato con le fatine, e successivamente replicato per i nuovi character. Nel frattempo sono usciti tre lungometraggi, sconfinando quindi anche nel cinema. Sono stati prodotti musical con attori e cantanti, sulla falsa riga dei format e delle coreografie del Cirque de Soleil. Sono state organizzate reunion di fan delle serie televisive, con mamme al seguito, impostando veri e propri raduni sulla riviera veneta e friulana (Jesolo e Lignano), dove le spiagge si sono trasformate in posti magici per 3-4 giorni con beniamini degli eroi e delle eroine accorsi a migliaia da tutte le parti del mondo. Ma il vero succo del business è rappresentato dal licensing e dal merchandising, con più di 500 licenze in tutto il mondo, con cui la Rainbow concede ad aziende dei settori più disparati di usare l’immagine dei personaggi sui loro prodotti. Stiamo parlando di diari, magliette, profumi, videogiochi, strumenti musicali, gelati, colori, quaderni, figurine, arredamento e molto altro. «Ormai», afferma Straffi, «due terzi del nostro fatturato giungono da lì». L’uscita sul piccolo schermo non è altro che la vetrina per poi far seguire i prodotti commercializzati su licenza. Nel 2017 l’azienda marchigiana è stata classificata al primo posto europeo tra i top global licensors e all’undicesimo posto mondiale, dopo i colossi americani e giapponesi – classifica particolarmente degna di nota, perché questa attività è stata spesso tentata dai produttori italiani di contenuti con risultati di scarsa soddisfazione. Un successo globale che non conosce arresti e difficoltà, ma di cui non si parla ancora abbastanza, forse per il carattere sottotraccia di Straffi, che frequenta poco la comunità degli imprenditori e Confindustria, più attento ai valori aziendali del fare e dell’operare in sobrietà, secondo i classici dettami del self made man poco orientato ai frizzi e lazzi e molto pragmatico nei suoi passi operativi. Ma la traiettoria è chiara: svilupparsi ancora e diventare un attore veramente internazionale. Dopo anni di crescita organica ci sono state importanti acquisizioni, come quella nel 2015 della società canadese Bardel Entertainement, già partner di famose imprese come Dreamworks e Warner Bros, che ha consentito di controllare meglio le fasi produttive della filiera e di rinforzare il talento aziendale con la professionalità americana, condizione importante per 68 intercettare una cultura dell’animazione che facilita la creazione di prodotti internazionali. O l’accordo con Netflix, che ha permesso al primo studio di animazione in Europa di siglare una partnership molto significativa per la distribuzione dei contenuti sulla piattaforma. O, ancora, l’acquisizione di Colorado Film, iniziata nel 2017 e completata nel 2022, proprio per allargare gli orizzonti sul mercato mondiale dell’entertainment, competendo sul mercato internazionale del cinema e delle piattaforme. Il fatturato consolidato del Gruppo è ormai vicino ai 100 milioni di euro, in crescita rispetto agli anni precedenti, e con una redditività di tutto rispetto che permette di destinare i proventi ad autofinanziamenti per lo sviluppo. Elemento cruciale nella strategia di Iginio Straffi è la moglie Joanne Lee, di Singapore: assunta come capo del marketing, convolata a giuste nozze con il fondatore, è oggi vicepresidente di tutto il Gruppo. Non secondaria la sua influenza per puntare sul Sud-Est asiatico e sulla Cina in particolare, dove l’impresa ha stretto un accordo con CCTV, la principale rete televisiva della Repubblica Popolare controllata dal governo, per mandare in onda le serie finora prodotte. E oggigiorno sono al lavoro sceneggiatori e disegnatori per adattare al mondo orientale le storie e i disegni nati in Europa. Alcuni anni fa, con una quota del 30 per cento, è entrato nel capitale il colosso Viacom (gruppo di cui fanno parte MTV e Nickelodeon, canali che hanno in esclusiva i prodotti Rainbow per le Americhe) che sta contribuendo a trasformare la governance tipica di un’azienda a proprietà familiare in una governance anglosassone, in vista anche di un prossimo approdo in Borsa. Normale che l’azienda di Loreto venisse messa nel radar di molti investitori esterni e di fondi di private equity, ma il consiglio di amministrazione non ha mai ceduto alla corte di meri finanzieri. L’impresa si fidanzerebbe e si sposerebbe volentieri, ma solo se trovasse un partner industriale che condivide lo specifico progetto di crescita, e con una parabola di lungo termine. E allora che cosa riserva il futuro della Rainbow? Progetti nel cassetto sembra che ce ne siano molti, in attesa che i tempi siano maturi per realizzarli. Il presidente ha le idee molto chiare al proposito: tre linee guida. Primo: fare le cose con grande qualità, perché la strategia di procedere con pochi prodotti molto curati è stato il vero ingrediente di successo finora. Secondo: aumentare e diversificare i prodotti per fasce d’età, allargandosi anche al segmento degli adolescenti e magari entrando nel mercato del pre-scolare, e approfondendo la potenzialità di lanciarsi nel mondo della fiction di prima serata. Terzo: rafforzare la presenza in Asia 69 delle serie distribuite e del merchandising. Un programma forse un po’ azzardato e non facile da realizzare, ma com’è triste la prudenza sembrano dire gli occhi furbi e vivaci di Iginio Straffi. Gli ostacoli, sebbene in salita, sono sempre sormontabili. Basta avere tenacia, spirito di gruppo e grande identificazione di tutto il personale, che è orgoglioso di rappresentare l’origine marchigiana nella sfida globale della creatività. 70 16 La famiglia dei tartufi Urbani Tartufi, Valnerina (Terni) Tra i prelibati status symbol gastronomici che non possono mancare sulle tavole più sofisticate, l’Italia non è il baricentro né del caviale né dello champagne. Ma se si va a Scheggino, un borgo di 488 abitanti nel cuore verde dell’umbra Valnerina, si può trovare la capitale mondiale del più prezioso dei funghi: sua maestà il tartufo. Qui infatti ha avuto origine la casa madre del cibo per gourmet che non badano a spese: l’azienda Urbani Tartufi. La storia dell’impresa, che si intreccia dal 1852 con quella della famiglia Urbani, è una storia bellissima. Il business inizia oltre centocinquant’anni fa con Costantino Urbani che avvia l’esportazione di tartufi neri freschi in Francia, a Carpentras in Provenza, in cooperazione con le aziende locali di foie gras, creando un fertile connubio. Da lì il commercio si consolida in Germania, in Svizzera, in numerose regioni d’Italia e nel resto d’Europa. Lo sviluppo prosegue con i discendenti e con Paolo senior e Carlo Urbani all’inizio degli anni Trenta, mentre negli anni Settanta i figli di Carlo, Paolo e Bruno, acquisiscono la principale azienda di tartufi bianchi di Alba, diventando di fatto i protagonisti del tartufo nel nostro Paese. E oggi, con la famiglia arrivata alla sesta generazione, l’azienda – guidata da Bruno, Olga, Carlo e Giammarco – ha messo le bandierine in oltre 75 Paesi del mondo, conquistando una leadership indiscussa nel mercato globale del pregiato fungo ipogeo. Settanta milioni di euro di fatturato annui, 300 dipendenti, oltre 600 prodotti, 250 tonnellate di materia prima lavorata (due terzi di quella complessiva europea). Export all’80 per cento nei mercati storici, ma anche in quelli emergenti – Hong Kong, Cina, Corea, Taiwan, Medio Oriente e Russia – che crescono a due cifre, soprattutto grazie ai prodotti «tartufati» (come la linea sushi, la soia alle scaglie di tartufo e i 71 bastoncini di tartufo puro per i sushi rolls, le paste, le salse, il cioccolato, l’olio e l’aceto balsamico, e così via, tra cui in ultimo la pizza). I prodotti al tartufo – 60 per cento del fatturato – rappresentano il vero core business dell’azienda umbra, consentendole di stabilizzare le vendite e superare con il segno positivo le crisi che investono il settore, quando le quotazioni del tartufo toccano quotazioni stellari a causa della siccità. È la storia di una famiglia unita lungo i secoli, che abbina una tradizione lontana, un intuito imprenditoriale fuori dal comune e un radicamento totale con il territorio alla capacità di promuovere in tutto il mondo un progetto gastronomico particolare e misterioso, come il tartufo. L’unità d’intenti della famiglia è cruciale. Questo era il primo pensiero di Paolo Urbani, Cavaliere del Lavoro e lungimirante industriale della zona. Valore culturale ben elaborato dalla figlia Olga: «Le persone che litigano ci fanno paura. Quando qualcosa non va, se ne parla subito e si cerca di chiarire tutto in fetta, perché non ci possiamo permettere la mancanza di intesa». E questo spirito di squadra è emerso anche dopo l’urto del terremoto del 2016; in poche ore la famiglia ha deciso di ricostruire a proprie spese, dimostrando una resilienza senza pari. A Scheggino sono stati realizzati il Museo del Tartufo e l’Accademia del Tartufo. Mentre in America, dove ci sono sei filiali commerciali, la Urbani partecipa al Fancy Food Show, una delle più importanti fiere annuali del settore alimentare. Dice Giammarco Urbani: «Allestiamo eventi per i clienti che arrivano da ogni parte degli USA: ristoratori, albergatori, aziende di catering, compagnie aeree e navali, brand della grande distribuzione. E tutti hanno come base il nostro prodotto di punta». Il quartier generale oggi è a Sant’Anatolia di Narco in provincia di Perugia. Qui 200 dipendenti utilizzano tecnologie innovative per la lavorazione e la conservazione del tartufo, che ne esaltano le caratteristiche naturali permettendone nuove occasioni d’uso. E l’innovazione, pur nel sacro rispetto per le tradizioni, è fondamentale per riuscire a seguire (e spesso ad anticipare) quello che il mercato chiede a un’impresa moderna. Sostiene Olga Urbani: «Di suo l’impresa ci mette lo studio, la ricerca e le competenze. Il resto lo fa il tartufo». E che cosa riserva il futuro all’azienda umbra? Si sta potenziando la filiera produttiva, si sta intraprendendo una severa politica «Urbani Plastic Free», una trasformazione dei materiali di packaging in carta riciclata, quindi una politica di maggiore attenzione al pianeta, soprattutto dopo aver realizzato più di venti ettari di tartufaia che fornirà 72 il prodotto per i prossimi dieci anni. Oltre a ciò, ulteriori aperture di nuove filiali in Francia, Dubai e Honk Kong. Ma tra i progetti della sesta generazione della grande famiglia c’è Truffleland, azienda 4.0 di commercializzazione di piante micorrizate al tartufo, che ha l’obiettivo di aumentare la produzione nazionale di tartufo italiano, attraverso la messa a dimora di queste piante da tartufo, tutto secondo nuovi criteri di smart farm, ricreandone l’habitat naturale. La Borsa? Perché no, dicono gli Urbani, anche se non c’è ancora un programma formalizzato. 73 17 Funivie Made in Italy Leitner, Vipiteno (Bolzano) Alcuni anni fa a Turku in Finlandia è stato inaugurato sulle note di Funiculì, funiculà l’ascensore inclinato che porta alla collina di Kakolanmäki, una zona dove fino a pochi decenni prima c’era un imponente carcere e ora c’è un vasto complesso residenziale. Firma del progetto per l’impianto a fune l’italiana Leitner Ropeways di Vipiteno. Un nome che siamo soliti vedere sulle piste di sci e che sempre più invece dà vita a nuove infrastrutture turistiche urbane. La funivia infatti non è più solo sinonimo di piste innevate e di paesaggi montani. E la dimostrazione di ciò è proprio il grande sviluppo recente dell’azienda altoatesina che, grazie a una politica di innovazione e diversificazione, è approdata nel 2018 per la prima volta nella sua storia a un miliardo e 21 milioni di euro di fatturato (+16 per cento rispetto al 2017). Livello che poi è rimasto stabile anche negli anni successivi. Il Gruppo Leitner – ma sarebbe meglio chiamarlo High Technology Industries (HTI), questo il nome della holding – è ormai un protagonista globale nel settore degli impianti a fune (Leitner Ropeways, Poma e Agudio), dei battipista e veicoli cingolati (Prinoth), dell’innevamento programmato (Demaclenko) e dell’energia eolica (Leitwind). Una storia che viene da molto lontano, quando il fondatore Gabriel Leitner nel 1888 apre a Vipiteno un’officina per macchine agricole e teleferiche. Dopo la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo del turismo invernale, l’azienda comincia a realizzare funivie per il trasporto di persone e nel 1970 interrompe la produzione di macchine agricole per sostituirla con quella di veicoli battipista. Negli anni Novanta Michael Seeber, quarantenne imprenditore locale dell’edilizia e dell’immobiliare, accetta di intervenire finanziariamente per risollevare le sorti dell’impresa che per Vipiteno rappresenta un po’ ciò che la Fiat è per 74 Torino. Michael, a colpi di ricapitalizzazioni, acquisizioni e diversificazioni di prodotto, strappa la Leitner alla morsa della crisi proiettandola verso la prosperità. Poi, a soli 68 anni, dopo vent’anni trascorsi alla guida operativa, annuncia la decisione di ritirarsi e di cedere lo scettro del comando al figlio Anton. Un passaggio assai raro nelle imprese italiane a conduzione familiare, vista la giovane età del padre, ma avvenuto nel segno della trasparenza, dell’affetto, della stima reciproca. Anton Seeber (1973), laurea in Economia aziendale alla Bocconi, ha esperienza di private equity negli Stati Uniti e durante i suoi sette anni di permanenza oltreoceano guida alcune consociate del Gruppo Leitner all’estero. Rientrato in Italia continua il processo di internazionalizzazione (oggi i siti produttivi sono undici, più di cinquanta le filiali e più di centocinquanta i centri di assistenza in giro nel mondo), ma in particolare spinge l’accelerazione sull’internazionalizzazione e sulla diversificazione dei prodotti anche grazie a un esclusivo design Made in Italy. Oggi, a livello di Gruppo, il 40 per cento di fatturato viene generato oltre il mondo neve e solo il 10 per cento è fatto entro i confini nazionali. Il traffico congestionato delle metropoli urbane ha infatti trasformato il trasporto a fune in utile mezzo per gli spostamenti dei cittadini e nelle zone più turistiche sta facendo scoprire luoghi magici visti da una nuova prospettiva. Gli esempi più lampanti si trovano in Asia: dalla Cina alla Corea, dal Vietnam all’India. Nella città portuale di Sacheon in Corea del Sud, famosa per le sue acque cristalline e per il fascino della natura, Leitner Ropeways ha realizzato una cabinovia che, all’interno del parco nazionale di Hallyeohaesang, porta i viaggiatori sul monte Gaksan, e da qui fino sull’isola Choyang, offrendo, con un sorvolo del mare di 823 metri, panorami mozzafiato lungo tutto il percorso. E attraverso la consociata francese Poma a Santo Domingo è stata realizzata la prima funivia urbana dei Caraibi, che punta a snellire i cinque chilometri di traffico urbano, collegando il centro della città alla periferia nordorientale. Dice Anton Seeber, da sempre sensibile allo spirito di responsabilità sociale: «La cabinovia, permettendo un collegamento più veloce tra l’hinterland e il centro cittadino, ha anche un valore civico, perché contribuisce a ridurre l’isolamento della periferia, così come già avvenuto a Medellin e Città del Messico». Continua ovviamente anche la tradizionale attività montana, che ha visto il Gruppo protagonista come partner tecnico ai Mondiali di Are e Seefeld nel 2019, a quelli di Cortina nel 2023 e alle Olimpiadi invernali di Pechino nel 2022. 75 Anni, dicevamo, da incorniciare, e un futuro che promette ancora meglio: la prima trifune in Scandinavia a Voss in Norvegia; il collegamento in Cina a Zuhai; la sesta linea di funivia urbana di Medellin; l’avvio dei lavori per l’Alpine Crossing che ai piedi del Cervino connetterà Svizzera e Italia. «Siamo orgogliosi di questo risultato», afferma Anton Seeber, «e mi piace sottolineare che, oltre al fatturato, ci sono altri fattori che fotografano lo stato di salute e la crescita sostenibile di un’azienda, come gli investimenti effettuati sul fronte della ricerca e sviluppo e dei beni strumentali (circa 50 milioni di euro in un anno), così come l’incremento dei nostri collaboratori (che raggiungono il numero di 3900) e degli stabilimenti». Un Gruppo molto coeso, con un management ambizioso ma con i piedi molto per terra, come si confà a una radice montanara. Le parole d’ordine che ispirano l’agire quotidiano e la cultura organizzativa sono spirito innovativo, diversificazione e internazionalizzazione. E per il futuro l’amministratore delegato aggiunge la modernizzazione tecnologica: «Non rimaniamo mai fermi e guardiamo sempre avanti. Da una parte il crescente numero di impianti urbani che ci vedono direttamente coinvolti nella gestione (New York, Cairo, Pisa, Algeri), dall’altra il tema della digitalizzazione che risulta ormai di strettissima attualità; negli ultimi anni abbiamo sviluppato software per funivie, battipista e innevamento programmato che, proprio per i vantaggi che portano agli esercenti, stanno riscuotendo grande successo». 76 18 Le scommesse delle acquisizioni oltre confine Jarraff, Vipiteno (Bolzano) A 950 metri sul livello del mare, nel cuore delle Dolomiti, a due passi dal Brennero ci si aspetterebbe più un paese turistico gettonato per la neve d’inverno e per le escursioni alpinistiche d’estate. Pochi invece sanno che Vipiteno è il centro di una concentrazione industriale di richiamo mondiale, il Gruppo Leitner HTI (High Technology Industries), che dà lavoro a livello globale a più di 3900 lavoratori e fattura annualmente più di un miliardo di euro. Il Gruppo, capitanato da Anton Seeber, classe 1973, protagonista del recente sviluppo della azienda che è presente non solo negli impianti e cabine per gli sport invernali, ma anche nel business delle attrezzature off-road e nell’energia eolica, si è recentemente ampliato oltreoceano portando nella sua orbita il 100 per cento dell’americana Jarraff Industries di St. Peter nel Minnesota, con un giro d’affari di oltre 60 milioni di euro. L’altoatesino presidente Seeber conduce oggi una storia che viene da lontano: un’impresa fondata nel 1888 in una officina per macchine agricole e teleferiche che nel secolo successivo, grazie anche al padre Michael Seeber, imprenditore locale dell’edilizia e dell’immobiliare, è diventata prima leader mondiale nel settore degli impianti a fune (Leitner Ropeways, Poma e Agudio), poi dei battipista e veicoli cingolati (Primoth), dell’innevamento programmato (Demaclenko) e delle pale eoliche (Leitwind). Un perimetro che si è allargato negli ultimi dieci anni (il periodo della leadership del giovane Seeber) includendo anche le cabinovie nelle zone più turistiche del pianeta (Asia, Caraibi, Messico, Santo Domingo, e così via). Un’azienda con più di 50 filiali in tutto il globo e con una rete di vendita e di assistenza su più di 150 sedi nei cinque continenti. 77 È stata proprio la Primoth che, durante i mesi della pandemia, ha messo nel mirino la Jarraff, boccone importante nella strategia di rafforzamento degli investimenti e nella voglia di crescere del Gruppo HTI. I prodotti erano i grandi veicoli per la manutenzione di alberi e piante in aree delicate, quali linee ferroviarie, montagne, terreni paludosi, particolari centri urbani. Macchine che operano in condizioni estreme e comunque attrezzature offroad che lavorano con tecnologie green. Macchine telescopiche, spesso condotte in remoto, che rappresentano un ulteriore tassello nella volontà di HTI e Leitner di proseguire nella diversificazione e innovazione in un business sempre più globale. E infatti Jarraff Industries insiste su mercati prevalentemente USA, ma non disdegnando quote geografiche anche in Australia, Asia e Europa. Oggi Jarraff con i suoi trimmer telescopici e i decespugliatori completa la linea di prodotti della Primoth (come le teste tranciatrici idrauliche o i veicoli cingolati) e insieme ai marchi altoatesini rappresenta una offerta unica al mondo nella cura del verde attraverso macchinari all’avanguardia. La trattativa del 100 per cento delle azioni di Jarraff è stata conclusa alla fine dell’estate 2021, dimostrando che anche le imprese italiane sanno fare rilevanti acquisizioni all’estero e che la vivace attività di compravendita oltre confine da parte del capitale domestico può riequilibrare l’altrettanto intensa attività di gruppi stranieri interessati alle aziende italiane. A capo del Gruppo acquisito è stato nominato Alessandro Ferrari, già CEO con successo dal 2016 della filiale nordamericana di Primoth, che ha quindi sostituito Heidi Boyum, precedente vicepresident, che continuerà a lavorare nel perimetro Leitner come consulente strategico. Jarraff è un’azienda in cui si ritrova la stessa cultura organizzativa del colosso di Vipiteno: proprietà a conduzione familiare, valori di dedizione e sostenibilità, spinta all’innovazione. «Si integra perfettamente nella grande famiglia HTI», afferma Seeber. Una grande acquisizione nazionale, dunque, in un comparto dove i competitor, tutti stranieri, si contano sulle dita di una mano e da parte di un’azienda con una relazione quasi simbiotica con il proprio territorio e con una forte impronta di Made in Italy. 78 19 Quando le imprese incrociano il mito Carrera Jeans, Caldiero (Verona) Si stenta quasi a credere che l’azienda che oggi detiene la maggiore quota di mercato nazionale in un settore sia nata quasi per caso. Eppure è così che avvenne. Quasi sessant’anni fa a Lugo di Grezzana, nell’operosa provincia veronese, un sacerdote andò dalla signora Tacchella, mamma di tre figli maschi, per chiedere che uno di questi fosse indirizzato al mestiere del sarto. Il destino cadde su Imerio che, ancora molto giovane, cominciò a farsi le ossa con la macchina da cucire e a mettere insieme brandelli di stoffa. Quando Imerio compì ventun anni, grazie anche alla sua passione per l’industrializzazione del prodotto, decise di fondare con gli altri due fratelli, Tito e Domenico, la prima impresa Tacchella, inizialmente rivolta a fabbricare prodotti di abbigliamento per adulti e bambini per conto terzi. La fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta vedono in Italia emergere la contestazione studentesca e, con questa, il mutamento del vestire dei giovani e del loro stile di vita. Via gli abiti formali dagli armadi e grande diffusione ai jeans, icona dell’abbigliamento casual per eccellenza, apparsi nel decennio precedente grazie alle grandi marche americane. Il jeans esprime in maniera concreta il rifiuto da parte soprattutto del mondo giovanile delle convenzioni sociali, rispetto alla moda precedente che rispecchiava le differenze esistenti fra le diverse classi sociali e i differenti ruoli sociali. I blue jeans si trasformano quasi in un un’uniforme del mondo giovanile e divengono il simbolo per eccellenza dell’«antimoda», della spinta egualitaria presente nelle nuove generazioni e che unisce in un progetto ideale comune tanto gli studenti quanto gli adulti. In quegli anni la nuova uniforme del mondo giovanile comincia a essere prodotta anche nel nostro Paese e l’azienda Tacchella è la prima a realizzare jeans usando tessuto denim prodotto da tessiture 79 italiane. Il nome dell’impresa cambia in Carrera, brand con una risonanza internazionale legata alle corse, alle automobili potenti, allo sport e alla grinta; tutti attributi che secondo i fratelli Tacchella si sposano con quanto i jeans sanno evocare. Lo sviluppo avviene con un forte investimento produttivo e tecnologico, che porta la Carrera Jeans a realizzare un record produttivo europeo: un pantalone in meno di dieci minuti. Il mercato tira moltissimo e la domanda è spesso più tumultuosa dell’offerta. Carrera approfitta di questo momento enormemente positivo e guadagna il 10 per cento di quota di mercato, dato che non viene mai abbandonato fino a oggi. Vengono realizzati molti stabilimenti in diverse regioni italiane e all’estero (Malta, Marocco, Egitto) con un’organizzazione del lavoro assai avanzata che riesce a confezionare oltre 30.000 jeans al giorno. Vengono introdotti per la prima volta il lavaggio sul capo finito a larga scala e le modalità di taglio automatizzato del tessuto. L’euforia di un mercato che sembra inarrestabile spinge anche la differenziazione di prodotto: alla linea di pantaloni si affianca una strategia di total look con felpe, camicie, giubbotti (tutti prodotti meno standardizzati del prodotto originario). Gli anni Ottanta vedono un marcato riorientamento del mercato. Da una parte il costo della mano d’opera italiana finisce per essere un punto di debolezza rispetto ai prodotti che provengono da nazioni con un costo del lavoro inferiore, ma anche i grossisti (la fetta più importante della clientela di Carrera) comincia a rivolgersi a fornitori più convenienti, in gran parte provenienti dal Far East. La golden rule di Carrera, «alta qualità e prezzo contenuto», non tiene più e l’azienda deve sperimentare la lezione che normalmente si pratica in questi frangenti: una violenta rifocalizzazione sul core business. Si entra in un tunnel di ristrutturazione e di smembramento e vendita delle attività del segmento alto dell’abbigliamento, che procuravano grande dispendio di risorse e di energie. Imerio e Tito Tacchella, in quel momento al comando dell’azienda, assumono decisioni drastiche e veloci, iniziando una delocalizzazione delle linee di produzione nei luoghi dove si raccoglie la materia prima. È così che nasce il primo grande sito produttivo in Centro Asia, in Tagikistan, dove si installa una filiera totalmente verticalizzata (dalla coltivazione del cotone al prodotto finito), minimizzando il trasporto sia nei costi che nelle conseguenze di inquinamento. La filiera integrata consente di avere un prodotto di qualità a un prezzo molto conveniente, potendo limare i margini di intermediazione tra le diverse fasi della catena. In Italia rimangono tutte le funzioni a più alto valore 80 aggiunto, dal design alla commercializzazione, dalla logistica alla finanza. Oggi gli stabilimenti produttivi in Asia sono due e il prodotto ha un materiale innovativo sempre comunque legato alla fibra nobile del cotone. Rispetto ai jeans degli anni Settanta, è più elastico, ha un filato biodegradabile e caratteristiche di termoregolazione. Ma il campione rimane sempre quel modello 700 che ancor oggi è il più copiato dai concorrenti e il più distribuito sul mercato europeo. I messaggi pubblicitari hanno attraversato le varie crisi: dal «poveri ma belli» degli anni Settanta a «brivido blu» degli anni Ottanta a «basic now» di fine Novecento a «superior denim» e «il bello dell’Italia» dei giorni nostri. Accanto a questi messaggi ha avuto il suo impatto anche la sponsorizzazione di squadre ciclistiche, con star del team ciclistico Carrera come Claudio Chiappucci, Marco Pantani, Stephen Roche e altri ancora. Dice Gianluca Tacchella, amministratore delegato: «Nel passato abbiamo vinto tutto, ad eccezione della Parigi-Roubaix». La distribuzione è stata aiutata da una rete di negozi monomarca. Si è partiti a Stallavena (VR), nella sede storica di Carrera, come spaccio aziendale della prima e seconda scelta, con poi il «vero» negozio a Milano in Corso Buenos Aires per arrivare a 1300 corner sul territorio nazionale e 40 punti vendita. Ma oggi la commercializzazione è davvero multicanale, aggiungendo ai negozi anche l’e-commerce proprietario, le piattaforme e-commerce, i grossisti, il dettaglio specializzato come Coin e le catene come Pittarosso, Bricoio, Autogrill e la GDO, dove le vendite vanno addirittura meglio che nei punti di vendita del tessile. Con un fatturato 2022 che si avvicinerà ai 50 milioni di euro e una popolazione lavorativa che tocca le duemila famiglie, la nuova generazione Tacchella si interroga ora sulle prossime mosse strategiche. I tre fondatori siedono ormai solo in consiglio di amministrazione e la tolda di comando è in mano ai loro figli. È infatti responsabilità dei più giovani azionisti tracciare la rotta per il jeans dei prossimi vent’anni. Dice ancora Gianluca Tacchella: «Abbiamo il prodotto perfetto per i tempi che stiamo vivendo. I nostri consumatori vestono sempre più in modo smart, ma con un paio di pantaloni che è molto performante e con alto confort. E la predisposizione dei clienti alla sostenibilità si incontra con il jeans di nuova generazione che costa il giusto ma rende molto di più di quello degli anni Settanta. Non a caso in Tagikistan la nostra filiera è il primo assetto produttivo certificato in blockchain». 81 20 Centauri o astronauti: il mio mestiere è il rischio Dainese, Molvena (Vicenza) A tutti coloro che si stracciano le vesti per le imprese che passano al capitale straniero bisognerebbe ricordare il caso felice di Dainese, il cui passaggio in mani estere non ha segnato il declino dello storico marchio vicentino, bensì ne ha rafforzato lo sviluppo e l’espansione internazionale. Da inizio 2015 infatti l’azienda, nota per le sue tute da motociclismo, viene ceduta alla società di investimenti Investcorp, quotata alla Borsa del Bahrain (anche se una quota di minoranza l’ha conservata il fondatore Lino Dainese), e da allora ha inanellato una serie straordinaria di momenti di crescita e successi. Sarebbe errato perimetrare la produzione di Dainese solo alle tute da motociclisti, perché da quel prodotto iniziale del 1972 l’attenzione dell’azienda si è evoluta lungo due direttrici: le protezioni salva vita per sciatori, ciclisti, cavallerizzi e anche skipper velisti, e la ricerca sul corpo umano, che ha portato tra l’altro alla progettazione delle sottotute destinate agli astronauti impegnati nelle missioni spaziali. Cristiano Silei, bocconiano poco più che cinquantenne, vent’anni passati in ruoli chiave alla Ducati, è dal 2015 l’amministratore delegato che la nuova proprietà ha messo alla testa dell’impresa di Molvena con il compito di strutturare l’azienda, traghettandola da una cultura organizzativa ancora abbastanza padronale a un assetto più manageriale. Attento al team management e alle condizioni di un ambiente sfidante e motivante, è riuscito a raggiungere risultati economici importanti insieme alla passione e a grandi soddisfazioni in tutto l’organico che è a costante contatto con atleti e sportivi. «Gestiamo il business con uno sguardo al futuro e tanto orgoglio per il passato», dice Silei, 82 «preservando comunque i valori dell’artigianalità di alta qualità e del Made in Italy». La missione di Dainese è chiara: promuovere e portare la protezione a chi pratica sport dinamici, alle persone esposte a occasioni di pericolo. E da qui l’opportunità di essere trasversali nelle diverse discipline. Il successo del gioiellino vicentino arriva dalla capacità di coniugare tecnologia e innovazione e dalla sovrapposizione di questi due elementi che fanno nascere creativamente nuovi mercati. È proprio la ricerca infatti il cuore dell’azienda. Così come Lino Dainese aveva negli anni aggiunto incrementalmente nuovi prodotti e nuovi materiali agli originari pantaloni per motocross (i paraschiena; le «saponette» per le ginocchia per i motociclisti che sfiorano in curva l’asfalto; i sistemi di airbag per moto e sci ecc.), oggi il team dei ricercatori investe le proprie energie in progetti che rappresentano veri fiori all’occhiello dell’innovazione. Ecco allora lo studio portato avanti con il MIT di Boston per una tuta spaziale destinata ai viaggi su Marte previsti nel 2030, oppure il rapporto con ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, per «skinsuit», una sottotuta tecnica progettata per essere indossata all’interno della Stazione Spaziale Internazionale e nella quale si ricrea il carico di gravità che l’essere umano subisce sulla Terra. Per non parlare della giacca salvagente che Dainese ha inventato per gli skipper dei catamarani volanti dell’America’s Cup, con protezione da impatto e supporto al galleggiamento in un’unica soluzione integrata. Tutto ciò che l’impresa impara da queste esperienze (più di 300 brevetti registrati) si riversa poi sull’abbigliamento per le moto e per gli sci, che rimangono ancora il core business. «Siamo gli unici che vestono i centauri dalla testa ai piedi», aggiunge Silei. Un diavoletto come marchio, reso celebre dalle meraviglie di Valentino Rossi a cavallo della sua moto supersonica (una longeva storia d’amore, perché Valentino la prima giacca Dainese la indossò a sette anni) e dalle gesta dei grandi sciatori delle squadre austriaca, italiana, canadese e statunitense. Una crescita media del 15 per cento annua negli ultimi cinque anni con circa 1000 dipendenti nei diversi stabilimenti italiani ed esteri e una soglia di 200 milioni di euro di fatturato. Nel marzo 2022 Dainese viene venduta dal fondo Investcorp del Barhain al gruppo di private equity statunitense Carlyle. Obiettivo dei prossimi anni? Raggiungere i 500 milioni di fatturato attraverso due convincimenti strategici: uno sviluppo nelle vendite online dei prodotti e una continua differenziazione della gamma basata su un forte investimento in elettronica e nuovi materiali. «Le opportunità di crescita 83 sono ovunque», dice l’amministratore delegato Silei, «anche perché il marchio è molto forte e molto amato». In Europa innanzitutto, ma non solo, visti gli sviluppi recenti in America e in Asia. 84 21 Ceramiche e Borsa Iris Ceramica Group, Sassuolo (Modena) Quando qualcuno lo definisce «il Cuccia della via Emilia» per le sue incursioni finanziarie (tutte con abbondanti plusvalenze realizzate) Romano Minozzi si risente: «Io sono un industriale della ceramica. Io cuocio la terra. Nella finanza bisogna essere distaccati, mentre la ceramica è industria pesante. Bisogna buttarci il cuore». E in effetti, se si approfondisce la storia di questo imprenditore ultraottantenne, le sue radici vengono non dal capitalismo immateriale ma da quel mondo sobrio e reale che è stata la manifattura del boom economico italiano, dove niente era impossibile per i pionieri dotati di intuizione e di coraggio. Minozzi nasce nel 1935 a Castelnuovo Reggiano, il «paese dei maiali» perché lì si trasforma la carne suina, da un padre contadino che lavorava la terra sull’argine del torrente Tiepido. Una casa dove durante la guerra passavano repubblichini e partigiani e spesso, al termine del loro passaggio, veniva svuotata anche la dispensa. Episodi che segnano il piccolo Romano, che impara a lottare per garantirsi la sopravvivenza. La terra è dannatamente bassa per lui e altrettanto faticosa per farla rendere. Meglio quindi studiare, fino a ottenere la laurea in Economia all’ateneo di Bologna. Una breve esperienza, non troppo motivante, alla Banca Commerciale di Modena («però lì ho imparato a “giocare in borsa” con alterna fortuna quando alle 18.00 scendevamo nel borsino») e poi il salto negli affari subito da presidente. Consigliato da uno zio che lavorava in una ceramica locale, scopre che a Sassuolo – il distretto della piastrella, mai più abbandonato, neanche alla fine degli anni Ottanta quando era di moda la delocalizzazione produttiva all’estero – è in vendita una piccola azienda, schiacciata dai debiti. Il giovane Minozzi lancia il cappello oltre l’ostacolo e si fa prestare da Mediobanca 300 milioni di lire per pagare i 85 fornitori, iniziando la sua avventura imprenditoriale. È il 1961. Parte la sfida. Cinquanta dipendenti, due stabilimenti e quasi un miliardo di debiti. Ma soprattutto una forte intuizione: non solo piastrelle per rivestimenti per bagni e cucine, ma mattonelle grandi da pavimento di grande resistenza. Di fatto la bussola è quella dell’innovazione, che ancora oggi rappresenta la missione aziendale: ripensare continuamente il concetto di prodotto con ingenti investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico. Minozzi cambia il nome dell’azienda acquisita in Iris, «un nome facile… l’arcobaleno, la dea greca dell’iride», e via, in una continua crescita con novità nei materiali, nei colori e nei processi produttivi, che permettono all’impresa di scavallare le numerose crisi legate alle recessioni dell’edilizia con una continua espansione all’estero sotto una rigorosa condizione di autonomia finanziaria. Lo sviluppo avviene attraverso moltissime acquisizioni: prima Graniti Fiandre, Ariostea, la miniera Maffei, Techokolla, Technomix e piano piano fino ad arrivare a 45 stabilimenti in Italia e all’estero. Il tutto sempre con una tensione verso l’eccellenza produttiva (la fabbrica 4.0 viene completata molto prima che diventasse una best practice del distretto) e la sostenibilità ambientale (oggi gli stabilimenti italiani sono tutti a emissione zero). A distanza di più di sessant’anni, con quasi 500 milioni di fatturato nel 2021 e un EBITDA del 17 per cento, i valori dell’azienda sono ancora quelli ereditati dal padre di Minozzi: resistenza, eleganza, poco sfarzo, responsabilità sociale nei confronti dei dipendenti e dei fornitori. Nonostante il suo grande impero, Romano Minozzi è rimasto autentico. «Mi pare di essere modesto», dice seduto su un lato del suo frattino bolognese del Cinquecento di tre metri di lunghezza, nella palazzina di Fiorano da dove presidia le decisioni strategiche del Gruppo insieme alla figlia Federica, oggi amministratore delegato. Minozzi non cerca la vetrina: manda sempre avanti i suoi manager, facendo mostra della sua filosofia di riservatezza. Nel garage del villino alcune Ferrari, tra cui la più affezionata è la Enzo del 2002, anno in cui in Formula 1 il cavallino rampante vince 17 granpremi su 18. Sono il frutto del periodo in cui «il Dottore» è stato amministratore indipendente dell’azienda di Maranello, allora al suo ingresso in Borsa (sembra che sia stato lui a premere per la scissione dei marchi Ferrari e Maserati), a testimonianza del fatto che, pur essendo il patron un rilevante protagonista della Tile Valley, quello è pur sempre il comprensorio dei motori, dove si «pistolano le macchine» per aumentare la loro performance. 86 Quando gli si chiede come vorrebbe essere ricordato, Romano Minozzi stringe gli occhi sorridenti: «Come un galantuomo, uno che mantiene la parola. La mia cultura agricola mi ha insegnato che una parola è meglio di uno scritto. Se uno mi sottopone dei protocolli, allora guardo anche le virgole. Se invece mi dice “È così”, allora gli stringo la mano e tutto mi va bene. La parola non si discute mai». È sorprendente che un uomo del Novecento come lui, ora che è aiutato nella governance aziendale dalla figlia molto competente cui ha delegato gran parte delle attività operative del Gruppo, si possa concentrare così efficacemente sulle compravendite finanziarie (anche se non disdegna letture contemporanee sulla società liquida come i volumi di Zygmunt Bauman). La passione per i titoli azionari l’ha sempre avuta, tanto che appena ha potuto si è acquistato una bella fetta di azioni Comit al momento della privatizzazione della banca milanese; ma è solo negli ultimi vent’anni che il passatempo è diventato un pezzo rilevante della gestione del patrimonio familiare e aziendale. L’incursione nell’azionariato di ENI ha fruttato una consistente plusvalenza («col disinvestimento ci siamo comprati un elicottero, che ci consente di visitare più velocemente stabilimenti e punti di vendita») e lo stesso è avvenuto con il vai-e-vieni in Terna, dove tra il 2011 e il 2013 ha accumulato quasi il 6 per cento del capitale, vendendo poi al mercato a circa 360 milioni di euro, con un margine di 110 milioni. Più recente è l’ingresso in SNAM, dove oggi Minozzi è secondo azionista con il 7 per cento, dietro lo Stato, con un investimento che vale quanto tutto il patrimonio netto del polo modenese di Iris Ceramica. E a ciò si aggiungono i pacchetti di Generali, UnipolSai, Ferrari, Banco Santader, AT&T, Gazprom, BPER. Un vero re Mida che trasforma in oro ciò che tocca. E per gli amanti delle leggende e per chi crede nel tocco magico dell’antesignano Minozzi diciamo che nel mirino del Dottore c’è oggi il segmento delle energie rinnovabili. Un’attenzione particolare per le reti e per le infrastrutture di energia? «Certo, ciò risale indietro, agli anni Settanta, quando adoperavamo il gasolio molto caro e due funzionari della SNAM portarono il metanodotto fino a Sassuolo, consentendoci di risparmiare un sacco di punti percentuali sul costo di produzione. Il futuro è nelle nuove forme di energia.» Quindi l’hobby del patron della Iris, oggi presidente sempre meno operativo, sarebbe il trading finanziario, focalizzato su una continua supervisione del price/earning del suo pacchetto di azioni? «Non scherziamo, nemmeno per sogno! Il mio hobby sono questi otto setter 87 inglesi. Il fine settimana me ne vado con loro sulle colline del Reggiano (è quello l’appennino più bello, con la terra rossa più pregiata!) a fare delle salutari passeggiate. E camminando, camminando… chi cerca trova…». 88 22 La nutrizione tra bontà e responsabilità sociale Rigoni, Asiago (Vicenza) Come una fotografia d’epoca che imprime nella nostra mente lo spirito dei tempi andati. Quell’atmosfera autentica di attenzione per la natura e di attaccamento a un territorio che tanto ha dato e che altrettanto deve essere risarcito di dividendi sociali. Ma i contorni non si sono sbiaditi negli anni, anzi. Si sono colorati con tinte nuove e modernizzazione, diventando una realtà altamente contemporanea. L’immagine della Rigoni di Asiago è questa, azienda del settore alimentare ormai riconosciuta a livello internazionale. Una felice sintesi fra tradizione e innovazione, con un forte rispetto della cultura della comunità locale accanto a una propulsione nel futuro dal punto di vista tecnologico e biologico. Questa prospettiva, tra l’etica, l’economia e il sociale, è testimoniata da Andrea Rigoni: «I nostri 120 dipendenti sono consapevoli che stanno facendo qualcosa di buono e di bello per loro stessi, per l’azienda e per l’ambiente circostante». La Rigoni nasce negli anni Venti del secolo scorso quando, su un altopiano ancor oggi complicato logisticamente dall’operare in alta quota, la nonna Elisa Antonini, con lungimirante energia trasforma la sua attività di apicultrice in una vera e propria impresa che coinvolge tutta la famiglia. Con un’impronta tipicamente famigliare, la gamma dei prodotti si amplia per tutto il Novecento. Si inizia con il miele, protagonista e capostipite del fatturato con varietà monofloreale (Mielbio). Poi esplode la marmellata Fiordifrutta che nel 2006 diventerà addirittura leader di mercato in Italia con 26 varietà (dati Nielsen). Si inserisce poi Nocciolata, crema di cacao e nocciola, prodotto preferito dalle giovani generazioni. Successivamente si affiancano il dolcificante naturale 89 Dolcedì, estratto dalle mele, e l’integratore DolceHerbe, a base di mele ed echinacea. Poi è il turno delle bevande di frutta spremuta a freddo Tantifrutti. E, ultima nata, Cioccolata bianca, che va incontro alle nuove preferenze e ai nuovi gusti dei consumatori alla ricerca di prodotti con meno zuccheri e meno grassi. Dal 1992 Rigoni è tra le prime aziende alimentari a sposare l’agricoltura biologica senza aggiunta di aromi e di additivi, con progressivo controllo della filiera produttiva. Tutte le fasi del processo sono sottoposte a meticolose e continue verifiche, grazie anche alla collaborazione con una serie di operatori biologici certificati, in Italia e all’estero. Il motto aziendale dei nipoti di nonna Elisa diventa «nutrire in modo sano senza rinunciare alla bontà». E il processo diventa sostenibile in modo che tutti i prodotti siano bilanciati in fatto di nutrizione e gusto. La tecnologia sofisticata e automatizzata è accompagnata da una cura davvero artigianale. Ogni anno si lavorano oltre 4500 tonnellate di frutta, prevalentemente nello stabilimento di Foza (sempre sull’altopiano di Asiago), che vanno poi al centro logistico di Albaredo d’Adige presso Verona, dove tutto il prodotto finito viene immagazzinato prima di prendere destinazione verso l’Italia, la Francia, la Germania, i Paesi Bassi e gli USA. Con un fatturato 2021 che si avvicina ai 150 milioni di euro, pronosticato in crescita nel 2022, la Rigoni si colloca tra le aziende alimentari medie italiane più performanti, con una visione prospettica di ulteriore internazionalizzazione. «Il prossimo futuro vedrà uno sviluppo sempre più mirato all’estero, con una distribuzione più capillare e un incremento della notorietà. Tutto ciò però senza mai tradire i valori della qualità e della sostenibilità che da sempre contraddistinguono il nostro marchio», afferma Andrea Rigoni. «Il nostro obiettivo è quello di diventare sempre più l’azienda di fiducia di milioni di consumatori, ai quali vogliamo offrire non solo dei prodotti, ma anche una storia e dei valori in cui ci riconosciamo.» E per sostenere le nuove iniziative commerciali e di marketing nei nuovi Paesi la compagine societaria di Rigoni si è recentemente aperta a un partner finanziario, il fondo Khoris Capital, che ha conoscenza dei mercati consumer e in particolare del settore degli alimenti biologici. L’impegno sociale non si esaurisce solo verso la comunità circostante, attraverso il supporto alle cooperative locali, le donazioni alle casefamiglia, la sponsorizzazione di eventi in linea con la filosofia aziendale. Negli ultimi anni Rigoni ha partecipato al processo di manutenzione e valorizzazione del patrimonio artistico italiano con il restauro della 90 chiesa rupestre di San Giovanni in Monterrone a Matera e dell’atrio dei Gesuiti del Palazzo di Brera a Milano, e con il recupero della statua di San Teodoro del Palazzo Ducale di Venezia. «Fare impresa», sostiene ancora l’amministratore delegato, «significa avere una visione più ampia. Ci sono aspetti come l’arte e la cultura che un’industria illuminata deve fare propri». Quasi che la cultura rappresenti una specie di materia prima che va incorporata nel processo di innovazione. 91 23 Quando l’imprenditore di successo si offre alla società Brianza Plastica, Besana in Brianza (Monza e Brianza) Quando si dice «uno che si è fatto tutto da sé». Una vita ricca, quella di Giuseppe Crippa, «Peppino», come è conosciuto a Besana Brianza. Una storia esemplare, tutta da raccontare. E non solo per la dimensione imprenditoriale, pur essendo questa un’esperienza straordinaria e di grande successo. Perché Giuseppe Crippa è stato anche soldato, politico, amministratore di istituzioni pubbliche e presidente di società sportive, sempre con grande spirito di servizio e maniacale attenzione all’economicità. Ma andiamo con ordine. Peppino nasce a Besana Brianza nel 1934 da padre autista e madre casalinga, in una famiglia numerosa di otto figli, in cui si fa l’impossibile per risparmiare la fame alla prole senza perdere mai la speranza del futuro. Anzi, destreggiandosi sotto le bombe e la contraerea della seconda guerra mondiale, combattendo con tenacia le piccole battaglie quotidiane per conquistare ogni singolo barlume di felicità. Peppino inizia a lavorare nella Manifattura Corti, impresa della famiglia dello scrittore Eugenio Corti, che per un po’ è anche il suo capo nella contabilità, il cui imprinting di cultura e sobrietà rimarrà impresso su tutta la sua carriera. «La fabbrica Corti è stata la mia adolescenza e la mia maturità», scrive lo stesso Crippa nell’autobiografia Partita doppia, volume redatto con la collaborazione della giornalista Chiara Gatti. Mentre lavora, frequenta la scuola serale a Monza, sobbarcandosi un lungo tragitto quotidiano con i mezzi. Ma lo spirito di sacrificio e la dura volontà certo non gli mancano e si diploma in Ragioneria, in tre anni con ottimi voti. Per altri tre anni, sempre lavorando di giorno e sfruttando 92 ogni attimo di fuori orario, si iscrive a Economia all’Università Cattolica, percorso di studi che però lascia per il servizio militare che, come ufficiale carrista, lo porta a Pordenone, dove conoscerà sua moglie Elide (che darà poi il nome a gran parte dei prodotti della sua azienda: Elyplast, Elycop, Elycold, e così via). Dopo un breve periodo di lavoro con lo zio in un’azienda di coperture impermeabili, si mette in proprio e nel 1962 fonda il suo gioiello, la Brianza Plastica di Carate Brianza, per la produzione di laminati traslucidi in vetroresina destinati ai settori industriale, agricolo ed edilizio. «Oggi sembra impossibile; in Italia si respirava ovunque entusiasmo», ricorda Crippa, «tutti avevano urgenza di tutto ed era corroborante contribuire alla rinascita del Paese. E noi, nell’azienda, eravamo ambiziosi, idealisti, spericolati». Negli anni Ottanta l’azienda entra anche nel comparto del termoisolamento di tetti e pareti per il settore dell’edilizia residenziale e industriale e nel 1984 nasce il sistema ISOTEC®, innovativo pannello termoisolante sottotegola in poliuretano. Nel frattempo cresce il numero degli stabilimenti: oltre a Carate, viene costruito il sito produttivo di Ferrandina in Basilicata e poi sorgono i due stabilimenti di Rovigo e Ostellato (in provincia di Ferrara) per la produzione di laminati in vetroresina con caratteristiche di finitura e resistenza particolari. A causa della crisi finanziaria mondiale del 2007 ci si interroga su qualcosa di diverso e Peppino Crippa, grazie a un continuo e intenso investimento in ricerca e sviluppo, lancia nel 2014 una nuova linea di laminati in vetroresina per camion frigo e per veicoli ricreativi come camper, caravan e motorhome. Il monte clienti si sviluppa in modo crescente in tutto il mondo, in particolare oltreoceano, compresi gli USA, dove Brianza Plastica costituisce la società di distribuzione Brianza Plastica Corporation, che si aggiunge all’esistente Plasti Bat per l’Europa. Oggi, con circa 300 dipendenti, il Gruppo si avvia a un fatturato annuo complessivo di circa 100 milioni di euro, di cui circa l’80 per cento realizzato all’estero. Innovazione tecnologica e alta qualità sono i valori che contraddistinguono i prodotti di Brianza Plastica e che la mantengono in continua evoluzione, riuscendo a dare al mercato una perfetta adattabilità alle differenti richieste specifiche, nel rispetto delle direttive europee della certificazione energetica. Tutto ciò ha reso Peppino Crippa un personaggio di spicco nel mondo imprenditoriale lombardo, consentendogli di creare una struttura manageriale; accanto a lui, i tre figli, Paolo, Cristina e Alberto, che hanno assorbito e metabolizzato la cultura aziendale del padre. Ma, come 93 dicevamo, la storia di Crippa non si ferma entro i confini della Brianza Plastica. Pur non essendo ideologicamente schierato, opera con spirito costruttivo e di servizio per il bene del Comune di Besana Brianza, tanto da essere eletto sindaco per due mandati, nonché presidente del locale ospedale e della RSA Giuseppina Scola e, infine, presidente del circolo del golf di Carimate. Tutti contesti in cui Crippa replica la regola della «partita doppia», mantra che lo segue nella vita come condizione di indipendenza e di produzione di valore economico e sociale. «Partita doppia» come il titolo del libro che fa il punto sulla sua lunga vita pubblica e privata. Libro in cui vi è una dedica iniziale ai figli e ai sei nipoti, che è più di un messaggio di incoraggiamento: «Per continuare a lavorare in armonia per Brianza Plastica serve rispetto reciproco nel confronto delle idee e nella collegialità delle decisioni. E l’ingrediente del sacrificio, come punto di partenza di ogni possibile e futuro successo». Un bel ricordo e una testimonianza di forte etica professionale e civile. 94 24 Il contributo della porta alla bellezza nel mondo Lualdi, Marcallo con Casone (Milano) Definire la Lualdi un’azienda che produce porte sarebbe riduttivo. Anche perché, quando si parla di porte ambasciatrici del gusto italiano, il prodotto è molto di più di un accessorio. Per rimanere nel campo del design, come diceva l’architetto tedesco Mies van der Rohe, «il diavolo si nasconde nei dettagli». E oggigiorno nelle case eleganti, negli edifici e negli uffici progettati con stile, la porta è un elemento simbolico, molto più che un semplice transito tra un ambiente e un altro. Non è solo un costrutto di chiusura, di filtro, di barriera, ma è anche oggetto di connessione. Oggi la porta è un componente intelligente del nostro abitare, una specie di oggetto del desiderio pensato per mettere in comunicazione spazi e persone. Ha una sua finalità legata a un mondo di particolari tecnici (i meccanismi di chiusura, i serramenti, le superfici, i colori) ma è altresì densa di significati estetici. In Italia si producono dai quattro ai cinque milioni di porte all’anno, ma c’è un segmento di alto livello dove i prodotti vengono personalizzati su misura attorno a un progetto (un palazzo residenziale, un edificio pubblico, un’istituzione culturale, un’università, un albergo ecc.) e questo segmento – chiamato in gergo contract – rappresenta la parte più creativa della produzione di qualità, che contraddistingue in tutto il mondo il Made in Italy. Lualdi produce ogni anno una piccola quantità di questo volume che si colloca nella fascia elevata della gamma. L’azienda coniuga la sua storica qualità artigianale e manufatturiera con gli aspetti più evoluti dell’attività industriale. Grazie a un’elevata flessibilità produttiva di derivazione tecnologica, l’impresa milanese riesce a essere competitiva anche su commesse di piccole dimensioni con un’elevata cura della 95 qualità e del design, e con prezzi accessibili a una discreta fascia di clientela. È la ricetta che normalmente si ritrova nella moda e nell’arredamento, che in questo caso è stata sviluppata nell’arco di più di un secolo. L’azienda Lualdi nasce nel 1860 quando Carlo Lualdi crea a Marcallo, in provincia di Milano, una falegnameria artigianale per la produzione di arredi su misura. Lo sviluppo ad alto contenuto di stile avviene negli anni Cinquanta e Sessanta, grazie a un’intensa collaborazione con alcuni grandi architetti milanesi. I rapporti fecondi di innovazione nel concetto della porta nascono con Vico Magistretti, Gae Aulenti, Ignazio Gardella, Marco Zanuso e altri. Ma il rapporto che si consoliderà nel tempo e che porterà alla svolta industriale dell’azienda è quello con Luigi Caccia Dominioni, che nel 1962 firma la LCD62 (Lualdi Caccia Dominioni), una porta ancora attualissima e uno dei modelli iconici dell’attuale catalogo dell’impresa. Caccia Dominioni stava progettando in quei giorni l’architettura e l’arredamento della villa milanese di Leopoldo Pirelli e ideò per quella committenza serramenti, chiusure, superfici e colori di assoluta novità, facendo conoscere il marchio Lualdi presso un’importante cerchia di clienti. Tra il 1990 e il 2020 la Lualdi compie il processo di internazionalizzazione nel Regno Unito e negli USA, sempre in collaborazione con architetti di fama. Le firme sono quelle di Norman Foster, Robert Stern, Piero Lissoni, David Rockwell, Philippe Starck e l’azienda introduce le sue porte e i suoi sistemi divisori in alcuni edifici di grande immagine urbanistica, come la Torre PWC, le residenze di Citylife e l’Hotel Bulgari a Milano, la Qatar Foundation e il Park Hyatt Hotel a Doha, gli alberghi SLS e le Armani Residences a Miami, l’Hotel Edition a Time Square e l’One Thousand Museum disegnato da Zaha Hadid a New York e molti altri. Oggi il marchio si estende globalmente. Oltre al continente a stelle a strisce (dove l’azienda è presente con una filiale) si sono affiancati mercati strategici come la Cina, l’Africa (primariamente la Nigeria) o il Medio Oriente. Su un fatturato di circa 20 milioni di euro nel 2021, prodotto da più di 90 dipendenti, l’export rappresentava il 65 per cento. Milano, capitale nel mondo del design, è la città di elezione di Lualdi, luogo dove si sperimentano anche le più innovative soluzioni di suddivisione di ambienti. Le porte Lualdi hanno una fortissima identità e riconoscibilità e sono oggetto continuo di perfezionamento dei dettagli, con nuove finiture e nuove cromie (dalla lacca in poliestere della LCD c’è stata una continua ricerca di novità: dai vetri colorati ai legni con 96 effetto tridimensionale, dalle resine fino ai materiali eco-compatibili) che si possono vedere negli showroom di Milano, New York, Miami e, a breve, Los Angeles. «Tutto viene progettato e assemblato in Italia», dice Alberto Lualdi, amministratore delegato e rappresentante della quarta generazione in azienda. «La nostra è una fabbrica a ciclo integrato, all’interno del quale viene gestito l’intero iter produttivo, con tempi di realizzazione uguali sia per la porta su misura che per quella standard.» Oggi la quinta generazione è pronta per proseguire la tradizione dell’azienda e ad accompagnare il percorso verso la «porta del futuro», verso un prodotto creativo e «colto», sempre più integrato con elementi dinamici ed evolutivi, che renderanno i sistemi divisori meno fissi e rigidi rispetto a quelli di oggi. Come sarà la porta della prossima era? Pierluigi Lualdi racconta il suo sogno: «Nel futuro ci piacerebbe pensare a una porta con un elevatissimo contenuto estetico, che possa essere percepito dal mercato come un vero contenuto di arte». 97 25 La nicchia corre su due ruote Santini Cycling Wear, Bergamo Intorno a Bergamo c’è molto da pedalare. Le discese ardite e le risalite, come diceva Lucio Battisti, fanno sì che nell’hinterland del capoluogo orobico ci sia una radicata passione per la bicicletta. E proprio lì, a Lallio, nasce più di cinquant’anni fa quella che sarebbe diventata l’attuale Santini Cycling Wear, azienda leader mondiale nella produzione di abbigliamento sportivo di alta qualità per ciclisti amatoriali e professionisti, nelle varie declinazioni di questo sport, su strada e non, fino al triathlon. Nel 1965 Pietro Santini ha l’intuizione di combinare l’attività manifatturiera di famiglia (produzione artigiana di maglie conto terzi) con la grande passione per il ciclismo e la competizione. Amico di Felice Gimondi e di altri campioni che si allenano con lui in quelle valli, riceve sempre più ripetutamente la domanda: «Ma tu che fai le maglie, perché non le fabbrichi per il mio team?». Sono gli anni delle gare in bicicletta assistite dagli altoparlanti sulle automobili. E l’attrezzatura non è molto diversa da quella che indossavano Coppi e Bartali negli anni Cinquanta. Santini decide di declinare le fasi del suo sviluppo tessile applicandole allo sport delle due ruote. Gli anni Settanta e Ottanta rappresentano la sostituzione della lana con le fibre sintetiche (la lana era infatti complicata da lavorare, non igienica e poteva essere concepita prevalentemente in tinta unita, senza innesti orizzontali o verticali di fantasia). Le decadi successive vedono rivoluzionare i processi produttivi: i tempi e i metodi si velocizzano, a tutto beneficio dei costi di lavorazione e della qualità totale. Ma arriva anche la sponsorizzazione, e con essa le richieste di colori, grafiche e loghi difficili da realizzare a mano. Nell’azienda Santini i colori dei tessuti cominciano ad accendersi e i bottoni vengono sostituiti con le prime zip. Nuove fibre e 98 nanotecnologie consentono capi con proprietà antiallergiche, anti UV, con pantaloncini e maglie più caldi per l’inverno e più freschi per l’estate. Le maglie Santini si fanno più traspiranti e performanti, con un valore aggiunto di vestibilità aerodinamica. È il successo del marchio, che permette all’impresa bergamasca di contrattualizzare nella sua «hall of fame» grandi sportivi che indossano quella maglia nei momenti migliori della loro carriera (tra gli altri, gli italiani Bugno, Cipollini, Pantani, Basso). Alla soglia del 2000 il fondatore viene affiancato dalle due figlie, Monica e Paola, ambedue con una precedente esperienza professionale fuori dall’Italia. Con le loro energie e il loro know-how innovativo, la seconda generazione sbarca all’estero (oggi Santini realizza fuori dai confini nazionali l’80 per cento del fatturato, in circa 80 Paesi) e consolida la missione di aiutare gli appassionati di ciclismo a vivere la loro passione con il massimo di comfort e senza rinunciare allo stile. Si investe in comunicazione e in ricerca di materiali originali: con le più avanzate tecnologie si arriva a produrre più di tremila articoli al giorno. Dice Monica Santini, CEO di Santini Cycling Wear: «Il nostro obiettivo è quello di creare capi che vestano come una seconda pelle. È questa la nostra promessa». Con l’esplosione del «ciclismo in rosa», particolarmente attento a un prodotto comodo e basato sul design, e recentemente delle bici elettriche, che stanno aprendo un mondo che prima si dischiudeva solo agli sportivi molto allenati, la crescita negli ultimi anni viaggia senza oscillazioni intorno al 6 per cento. «Si pedala in modo costante» e il fatturato raggiunge i 30 milioni di euro, con 100 dipendenti, di cui il 90 per cento donne, e altri cento collaboratori nell’indotto. È curioso che in un mondo prevalentemente maschile, la governance e le risorse umane siano quasi tutte femminili. «È un grande vantaggio per noi. Perché i punti di forza in questo mercato di nicchia sono le capacità e l’esperienza. Noi vendiamo quattro caratteristiche: fit, performance, comfort e durability. E su queste non esistono differenze di genere che contino», continua l’amministratrice delegata. Nel frattempo l’azienda sponsorizza la nazionale slovacca e quella australiana, è partner tecnico di molti team professionistici e patrocina i campionati del mondo UCI, La Vuelta spagnola, il Deutschland Tour e il Tour de Suisse, dopo essere stato partner per oltre vent’anni del Giro d’Italia. Il tutto con un prodotto Made in Italy, con gli atleti e per gli atleti. 99 26 La strategia di aggregazione Applied, San Lazzaro di Savena (Bologna) Ci sono alcune strategie aziendali che possono essere definite di «aggregazione». Capita quando l’imprenditore acquisisce attività variegate cercando di ottimizzare tutte le possibili sinergie integrandole in una capogruppo e in un comune quartier generale. Luca Molducci, bolognese, classe 1972, è sicuramente un aggregatore. Dopo una prima esperienza in finanza, avvia presto una sua attività imprenditoriale, fondando nel 1998 la HST (High Software Technology), società di sviluppo web e applicazioni, in grado di interfacciarsi con i sistemi core delle aziende clienti. Il campo di attività è la consulenza tra la comunicazione, il marketing e l’informatica, anticipando la tendenza, che le imprese avrebbero poi prepotentemente avuto nel XXI secolo, di spostarsi verso un mondo sempre più digitale. L’approccio non è così scontato: si studiano i clienti e il loro benchmarking, si interroga la rete, si analizzano i dati, si predispongono nuovi target e si colgono tutte le opportunità non ancora sfruttate legate a un nuovo stile di informatizzazione aziendale. Da lì l’intento strategico di Molducci non si è più fermato. Acquisisce una serie di piccole società di professionisti, mettendo insieme imprese e competenze che vanno dal marketing alla cybersecurity, dalla gestione dei big data all’intelligenza artificiale, dalla comunicazione sulla rete ai social media, dall’Internet of things alla progettazione di Metaverso e NFT. Un processo che lo porta nel 2016 a costituire Applied, una realtà che raccoglie la sfida della quarta rivoluzione industriale, cui oggi fa capo un Gruppo con circa 30 milioni di euro di fatturato e quasi 300 dipendenti, tra Bologna (quartier generale a San Lazzaro), Verona e Chicago. La missione di Applied è quella di accompagnare le aziende nel percorso di digitalizzazione con l’obiettivo di abilitare nuovi modelli di 100 business basati su strategie che tengano conto del perfetto equilibrio tra strumenti digitali, processi aziendali e persone. Viene definita un po’ pomposamente «Data Human Creative», cioè fornitore alle aziende di una creatività multiforme che sappia coniugare marketing e informatica, sviluppando progetti innovativi finalizzati ad accrescere visibilità e performance delle organizzazioni verso i mercati target, di fatto spingendo la domanda a cogliere tutte le opportunità oggi disponibili verso paradigmi più smart e sempre più connessi, tipici del modello 4.0. «Data human creative è il nostro approccio, che ci porta non solo ad analizzare, ma anche a interpretare la relazione tra il marchio aziendale, i suoi prodotti e il consumatore», spiega Molducci, CEO di Applied. «Poniamo al centro la persona, che attraverso i suoi comportamenti va a generare un vero e proprio processo creativo. Il dato è il petrolio del futuro, ma non basta interrogare la rete, analizzare i dati e fare benchmark. La vera innovazione sta nel definire un approccio innovativo in grado di stupire ogni audience. Questo avviene attraverso un lavoro di analisi, che pone al centro la relazione diretta con i consumatori e tutti gli utenti con i quali entriamo in contatto.» Ma l’offerta non si esaurisce nei soli aspetti commerciali, perché molto si gioca anche sulle soluzioni innovative per proteggersi dalla criminalità informatica, garantendo come nel caso del progetto a4GATE i massimi standard di sicurezza oggi possibile. Il mercato della cybersecurity è infatti oggi molto promettente, perché i dati del Clusit (l’Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica) hanno rilevato che in Italia nel 2021 si sono registrati 2049 attacchi gravi e che tutto ciò sembra destinato a complicarsi ulteriormente, considerando l’attuale quadro geopolitico, in cui la cyber war è diventata parte integrante delle strategie di attacco verso i Paesi che si vogliono colpire. Attualmente Applied opera attraverso otto società: Hotminds, Nicefall, Talea, Stile di Bologna, Dunbar, Customix, Omega, In.Tech. Tutte queste società sono tra di loro interdipendenti all’interno di una struttura organizzativa che fluidifica le diverse competenze in quattro divisioni: EMS, dove si fanno sviluppo e integrazione di ambienti applicativi e infrastrutture tecnologiche per la gestione dei dati e dei flussi di informazione; X.0, dove si mettono a disposizione dei clienti prodotti e servizi pensati per la trasformazione digitale delle aziende del settore industriale, valorizzati dalle competenze in data science e cyber security; Interactive, dove si sviluppano il marketing e la comunicazione digitale, oltre alla progettazione e alla realizzazione di eventi; Next, proiettata nel futuro per fornire soluzioni che rispondano o anticipino i nuovi trend di 101 mercato (come per esempio la realtà virtuale o la realtà aumentata). Recentemente il portafoglio di attività si è ampliato, con l’obiettivo di applicare le innovazioni professionali non solo alle singole esigenze aziendali, ma anche a mercati «verticali», come quello della moda, che richiede linguaggi e modi di operare coerenti con le specifiche esigenze del settore. «Nel raccogliere le sfide che provengono dal mondo manufatturiero, abbiamo consolidato il nostro posizionamento, anche internazionale, come punto di riferimento per le imprese che intendono utilizzare le nuove tecnologie come leva strategica per cambiare i loro modelli di business, nell’ottica di accrescere le loro capacità competitive», dichiara Luca Molducci. «Siamo confidenti che gli investimenti che stiamo realizzando in termini di risorse interne e loro competenze possano sostenere una nostra robusta crescita anche negli anni futuri.» 102 27 Quando il Made in Italy è musica Fazioli, Sacile (Pordenone) Siamo il Paese che nel primo Settecento inventa il pianoforte moderno, quello a 88 tasti che supera i limiti del clavicembalo. Una genialità del padovano Bartolomeo Cristofori. Poi piano piano lo strumento italico scompare dal mercato mondiale, dove progressivamente giocano la parte del leone i prodotti americani, tedeschi e giapponesi. Uno per tutti lo Steinway, marchio fondato nel 1853 a Manhattan e considerato ancor oggi la Rolls-Royce del pianoforte. Ma intorno agli anni Ottanta Paolo Fazioli, un ostinato ingegnere con diploma di conservatorio in pianoforte, sesto figlio di un mobiliere, tenta l’impresa impossibile: riconvertire l’azienda di famiglia operante nel settore del mobile di alta gamma (la MIM, Mobili Italiani Moderni) in un’azienda di pianoforti. Una deviazione dal destino che lo vedeva proiettato alla testa di un settore che amava sì, ma non così profondamente. «Eravamo industriali del legno: diciamo che la materia prima è rimasta la stessa, è solo cambiato il prodotto finale», scherza l’imprenditore. È allora che la sede della Fazioli viene spostata da Roma a Sacile, in provincia di Pordenone, dove cresce l’abete rosso di Val di Fiemme, che già Stradivari usava per i suoi leggendari violini. Da quel legno si intaglia la tavola armonica che è il cuore pulsante dello strumento musicale e quel materiale particolare, insieme al mix di altri legni pregiati, contribuisce alla regolarità, alla leggerezza e all’elasticità, che sono le caratteristiche uniche del suono dell’attuale pianoforte Fazioli. Allora rimettere tutto in discussione sembrava una pazzia. Una singolare scommessa alla Davide e Golia, contro i grandi colossi della musica. E per di più senza copiare, ma alla ricerca di qualcosa che avesse un’intensità di timbro assolutamente originale (sempre Paolo Fazioli. «per me il pianoforte deve avere la brillantezza e la vivacità tipiche dello 103 spirito italiano, pensiamo al bel canto, pensiamo alla gioia»). Negli anni Ottanta non si usa innovare: la tradizione richiede che uno strumento musicale come il pianoforte sia identico a quello di cinquant’anni prima. Ma l’imprenditore è pervicace e vuole mettere in discussione i metodi manufatturieri canonici: riunisce attorno a sé una squadra di esperti che studiano l’acustica, i diversi tipi di legno e la complicata meccanica di leve e martelletti. E nel 1981, dopo un anno di esperimenti, sbagli e correzioni, esce dalla produzione un mezza coda di 183 cm. Da lì parte il successo. Ottocento ore di lavoro per ogni strumento, un ciclo produttivo che dura due anni, nessuna catena di montaggio perché i 22.000 componenti vengono assemblati uno a uno. Oggi, a soli trent’anni dalla fondazione, il 95 per cento della produzione, circa 150 pezzi all’anno in sei modelli diversi, va all’estero: USA, Canada, Giappone, Cina, Australia e Europa. Il prezzo di listino sfiora anche i 150.000 euro. Secondo The Economist il Fazioli è il miglior pianoforte al mondo. Il jazzista Herbie Hancock, ovunque si esibisca, chiede di avere il pianoforte italiano e così anche Stefano Bollani, Angela Hewitt, Daniil Trifonov, Vladimir Ashkenazy. Aretha Franklin e Sting si sono seduti davanti a un Fazioli in occasione dell’International Jazz Day. Alla prestigiosa Julliard School di New York, un Fazioli ha violato ottant’anno di monopolio tedesco. Il collaudo di ogni prodotto prima della consegna al cliente è fatto personalmente dall’ingegnere musicista di talento: «il pianoforte è come un figlio e quello è il momento per capire come è nato e cresciuto». Il fatturato è intorno ai 10 milioni, di cui una bella fetta spesa in ricerca, perché «ci copiano molto, anche i cinesi» e l’azienda deve restare sempre un passo avanti. I cinquanta dipendenti – veri artigiani dal nobile mestiere – abilmente maneggiano legni e feltri senza alcuna improvvisazione. Il DNA dell’ingegnere fondatore li ha contaminati nello spirito cartesiano e programmatorio. E poi all’ora di pranzo tutti sereni in mensa con il cibo e il vino, scanditi dalle note di Händel. 104 28 Il prêt-à-manger in salsa pugliese Gruppo Ladisa, Bari È difficile immaginare che da un dramma sociale possa originarsi l’inarrestabile ascesa di un’azienda familiare la cui storia arriva a contare quattro generazioni. Ma quell’8 agosto 1991 segna proprio la svolta per Domenico Ladisa. Prima di allora «Mimmo» Ladisa era il patron della trattoria U’ Gagg, punto di riferimento della cucina casareccia barese, quella per intenderci tutta tavoli e cottura all’aperto, basata su involtini di carne al ragù (le «braciolette») e vino. Un’attività iniziata dal padre nel 1936 con una locanda nel cuore della città vecchia. Con «U’ Gagg», espressione che in dialetto pugliese indica un tipo «dritto» e cioè una persona che si mette in evidenza per le sue capacità e il modo di fare, la cantina d’anteguerra era diventata un vero ristorante di fronte al Castello svevo e si era posizionata nel segmento della buona clientela locale. Ma, come dicevamo, nell’estate del 1991 al porto della città pugliese attracca maestosa la nave Vlora, con 20mila profughi albanesi, che si riversano disperati sulla banchina del molo. Il più grande sbarco di migranti in Italia su una singola nave. In poche ore il porto si trasforma in una massa brulicante di esseri umani: tutti imploranti, piegati dal dolore, alla ricerca di una vita migliore. In un giorno di vacanza estiva la città è impreparata a un’emergenza di tale portata e il sindaco Dalfino e il prefetto Di Mari implorano Domenico Ladisa di mettercela tutta per sfamare gli stranieri. Mimmo coinvolge tutti i dipendenti, comprese le loro famiglie, e tutti lavorano giorno e notte. Per Ladisa è una grande opportunità perché nessun ristoratore, all’epoca, è in grado di organizzare e gestire un simile servizio in tempi brevi. Si apre il primo centro cottura per affrontare i soccorsi. Un impegno che verrà poi premiato, perché di lì inizia la vera avventura della ristorazione collettiva. Da allora cominciano i primi appalti: la prefettura, il carcere minorile di Bari e poi di Catanzaro, le 105 mense per le aziende industriali del territorio, di Matera, di Chieti, di Roma. Seguono le scuole, le università, le forze dell’ordine, la RAI, i ministeri, le Forze Armate, le aziende private… in un’espansione che raggiunge oggi 18 regioni italiane. Nessuno avrebbe scommesso che, da quell’osteria del centro storico di Bari, la Ladisa si sarebbe trasformata in un colosso della ristorazione, che oggi conta più di 4000 dipendenti (di cui il 70 per cento donne) e produce 22 milioni di pasti al giorno. Oggi il Gruppo, cresciuto attraverso incrementali fusioni e acquisizioni di piccole realtà in giro per l’Italia, è tra i primi cinque player del settore e ha in corso un tragitto prospettico di internazionalizzazione nei mercati di Germania, Messico e Stati Uniti. Con 19 impianti produttivi su tutto il territorio nazionale fornisce 700 centri di distribuzione pasti. «La qualità è la nostra parola d’ordine: nella scelta dei fornitori e dei prodotti, nel servizio e nella soddisfazione dell’utenza», dice Vito Ladisa, figlio di Mimmo, che insieme ai fratelli Sebastiano e Floriana tiene le redini dell’azienda, «oltre che nel continuo investimento in ricerca e sviluppo, dove investiamo circa il 10 per cento del fatturato». Oggi quotata nel segmento Elite di Borsa italiana, l’azienda ha chiuso il bilancio 2021 con un volume di affari di circa 150 milioni di euro, in aumento del 30 per cento rispetto all’anno precedente. E, non avendo voglia di adagiarsi sui risultati raggiunti, prevede un piano industriale con un’ulteriore crescita verso un target ancora superiore nel 2022, con nuove assunzioni. Anche il portafoglio prodotti e servizi si è molto articolato. Accanto al business tradizionale della ristorazione per collettività («non confondiamo il nostro servizio con la mensa», sostiene l’imprenditore, «gli altri “preparano” il pasto, noi lo “produciamo” in modo integrato con un processo di lavorazione interna dei prodotti alimentari»), c’è il banqueting, dove vengono quotidianamente garantiti servizi in occasione di eventi, cerimonie e conferenze. C’è la progettazione e la realizzazione di cucine industriali a induzione. E, più recentemente, la sfida dell’alta ristorazione, una sfida che cerca di conciliare la quantità di massa con la qualità di alta gamma (un prêt-à-manger tipico del Made in Italy), risolta da Ladisa con i piatti pronti Che bontà, dove i grandi classici della cucina mediterranea vengono preparati e conservati grazie a modernissime tecnologie di surgelazione. Ecco allora che nei loro venti brand top class appaiono fave e cicorie o le orecchiette alle cime di rapa della cucina pugliese, la panissa piemontese o il timballo vegetariano di anelletti 106 siciliano o, ancora, i bucatini all’amatriciana. Tutto nel rispetto delle tradizioni gastronomiche regionali e della tutela del prodotto DOP locale. Un business model basato sull’ottimizzazione dei processi produttivi, che a cascata si riflette in maggiore qualità ed efficienza delle offerte rispetto ai competitor e, in ultimo, in minori costi di ristorazione per le imprese committenti. Un business model che si basa sul rispetto ambientale (la cosiddetta «ristorazione green») e su un codice etico di valori aziendali di trasparenza, correttezza e onestà, che connotano la cultura organizzativa dei dipendenti. Un fiore all’occhiello che si sposa anche con un’attenzione continua alla solidarietà. Non è un caso il salvataggio, alcuni anni fa, di un’azienda pugliese in difficoltà, che ha governato il futuro di 230 posti di lavoro e di altrettante famiglie. «Avevamo assunto un impegno preciso», precisano i fratelli Sebastiano e Vito Ladisa, «e lo abbiamo mantenuto mettendo da parte i legittimi interessi di un’impresa a produrre utile. La nostra decisione è stata dettata da un gesto solidaristico nei confronti del sistema delle aziende del nostro distretto, salvaguardando una realtà di cui sono state preservate l’identità e la storia». Anche se entrato nel tempio della finanza, il Gruppo pugliese non si scorda di quell’attracco della nave Vlora e dedica molta attenzione agli «ultimi», con interventi patrocinati sia dalla Pubblica Amministrazione sia da parte di organizzazioni private. 107 29 Quando successione fa rima con diversificazione Gruppo Riso Scotti, Pavia Non è mai un processo facile la successione imprenditoriale in un’azienda familiare. Lo è ancor meno se l’impresa conta sei generazioni, essendo stata fondata nel 1860. Meno che mai se il settore di cui stiamo parlando si radica in quella cultura agricola e contadina di forte tradizione patriarcale. Una famiglia di imprenditori, da sempre uomini. Eppure, proprio qui, a Pavia, nel Gruppo Riso Scotti, che ormai è un colosso globale del riso bianco, con diversificazioni nella pasta di riso, negli snack, nei biscotti, nei drink vegetali, nei prodotti del benessere e nella ristorazione, si staglia una brillante quota rosa. È Valentina Scotti, la maggiore delle tre figlie del presidente Dario, il doottor Scotti! del celebre claim pubblicitario. Bocconiana, esperienze in Lavazza negli USA e poi in Deloitte come consulente di imprese alimentari, è oggi l’amministratrice delegata di Riso Scotti Danubio, il più importante avamposto internazionale del Gruppo (la Romania è un mercato di forti consumatori di riso e l’Est Europa è un bacino potenziale di 350 milioni di persone) e anche la responsabile del progetto di ristorazione con il marchio So’Riso, che prevede aperture diffuse di bistrot a base di riso in Italia e nel mondo. È lei il volto nuovo dell’azienda. L’intero gruppo Riso Scotti, detenuto in maggioranza di controllo dalla famiglia Scotti e per un 25 per cento dalla multinazionale spagnola Ebro Foods, ha nel 2021 un fatturato consolidato di circa 250 milioni di euro, con il 48 per cento dei ricavi realizzati all’estero, sull’onda di un andamento favorevole della materia prima e di un trend salutistico legato al riso, che fa percepire questo ingrediente come un alimento sano, aperto alle innovazioni e facilmente digeribile. 108 L’offerta, grazie anche alla predisposizione particolare per la comunicazione del presidente Dario Scotti, è passata nelle ultime decadi dalla concezione di un prodotto semplice e tradizionale (un’antica e statica commodity) a un sistema di prodotti differenziati, con crescenti contenuti di servizio. E molto ha contribuito allo sviluppo aziendale il processo produttivo tecnologicamente all’avanguardia che controlla l’intera filiera e riusa gli scarti di lavorazione come biomasse per la produzione di energia. Ora il percorso prospettico è disegnato: verso nuovi settori e verso nuovi Paesi. La responsabilità è della nuova generazione. Valentina Scotti è determinata: «Abbiamo cercato di toglierci il cappello dell’industria e calarci nel retail», con il progetto imprenditoriale So’Riso, partito nel 2014 come format ristorativo aperto a Milano in Corso Magenta e ad Assago nel Centro commerciale e ora replicato in altre località. Gli elementi vincenti della proposta sono il legame tra riso, benessere (i trend del food – cereali antichi, veganesimo, all grain – sono inarrestabili) e ricette appetitose. All’avvio del progetto ha contribuito anche Davide Oldani, famoso chef della cucina pop, che già aveva collaborato con Riso Scotti in occasione di Expo. Pochi ingredienti, grande creatività, attenzione al gusto in chiave gourmet, apporto calibrato di carboidrati e proteine. Il Gruppo aveva già tentato la strada della ristorazione con esperimenti precedenti quali la Risotteria e la catena Steak and Rice, ma con risultati non in linea con le aspettative e strutture difficili da replicare geograficamente. Oggi con So’Riso il successo è finalmente arrivato. Curioso non avere sfruttato il brand Riso Scotti, ma essere partiti con una nuova insegna: «Veramente», dice Valentina, «mio padre non si è ancora del tutto rassegnato. Per lui il marchio avrebbe dovuto essere quello». E non è l’unica divergenza con il padre padrone che la giovane Scotti ricorda: «Con mio padre ci sono stati momenti difficili. Appena entri in azienda, sei piena di energie: vuoi dire, vuoi fare e non hai ancora ruolo. Io sono un carattere esuberante, per cui erano scontri continui». Poi la dura iniziazione e la fiducia del genitore che le affida il compito di pilotare l’internazionalizzazione e la revisione del format dei bistrot. Valentina è un esempio anche per le due sorelle più giovani. Una ventata di rinnovamento che ha spinto anche la seconda sorella Francesca a entrare in azienda e a occuparsi di un’altra diversificazione: la catena di distribuzione di cibo biologico Piacere Terra. E nel suo ruolo di capitana d’industria per l’area est-europea, Valentina Scotti non rinuncia alla vocazione femminile: «Quell’area è 109 una geografia difficile, ma anche piena di opportunità e di sorprese positive, se vogliamo sfidare il mercato con prodotti benessere. A cominciare da un vantaggio di fondo: è una società matriarcale, piena di donne che lavorano e che portano avanti la famiglia, nella quale nessuno si meraviglia di vedere una donna al comando di un’azienda. Ho tenuto a circondarmi di collaboratori giovani, per lo più donne, e ho cercato di valorizzarli il più possibile». Il sogno ambizioso per domani? Fare il percorso del salmone nei paesi stranieri. A ritroso. Arrivare alla GDO passando per il retail e completare il passaggio da marchio di risotti e marca di riso. «Ho in mente il processo fatto a Londra dal marchio Nando’s, una catena di ristoranti afro-portoghesi che oggi ha anche i suoi prodotti sugli scaffali dei supermercati». La visione della nuova imprenditrice è un orizzonte di lunghissimo termine. Intanto il padre vigila e gongola di orgoglio paterno. E, come nella famosa barzelletta dei ghiaccioli venduti in Groenlandia, la Riso Scotti aumenta il fatturato di riso venduto ai cinesi. Partono continuamente per il Celeste Impero container di risotti, gallette di riso, olio e latte di riso. Con aspettative di ordini potenziali che sicuramente l’azienda farà fatica a soddisfare nel prossimo futuro. Ma questo sarà un problema della settima generazione. 110 30 Saper esportare la bellezza italiana nel mondo Sgaravatti, Capoterra (Cagliari) «Tenaci come il seme e resistenti come la radice» si legge nel suggestivo libro La bellezza e il tempo, che racconta i duecento anni di vita del Gruppo Sgaravatti. E non ci potrebbe essere motto di sapore botanico più coerente per un’azienda che ha attraversato due secoli, contribuendo significativamente alla storia del florovivaismo italiano. Un’azienda che ha inventato un mercato e ha cambiato il sistema produttivo ed è oggi leader in questo settore in ambito nazionale e internazionale. Perché l’impresa Sgaravatti ha realizzato alcuni dei più bei giardini del mondo per re, imperatori, mecenati, industriali, pontefici, diffondendo ovunque il bello e la cultura italiana, ma consentendo con la stessa cura, grazie a modalità di distribuzione più popolari, anche a impiegati e piccoli commercianti di costruire il loro piccolo angolo di paradiso incantato. Un diffusore di bellezza, dunque, sia per il ceto elevato che per la piccola borghesia. L’idea dell’azienda nasce nel 1790 a Natale Sgaravato e a suo figlio Benedetto, che curava i giardini dell’abate Farsetti con molte piante importate dalle Americhe e dal Regno Unito. Poi nel 1820 Angelo, il primogenito di Benedetto (che impone il nome Sgaravatti), fonda a Saonara in provincia di Padova la nuova impresa, con l’obiettivo di vendere fiori e piante. Nel XIX secolo Sgaravatti è fornitore della casa reale e dei papi. Tappa importante nello sviluppo è il 1864, quando la famiglia si inventa la vendita per corrispondenza (primi nel mondo tra le diverse merceologie) e la nascita dei cataloghi che poi nel tempo diventano sempre più belli e articolati (con copertine di maestri illustratori come Codognato e Dudovich, che sono vere opere d’arte) e 111 che man mano diventano dei manuali di giardinaggio, sempre in competizione con l’americana A.W.Livingstone’s e la francese Vilmorin. Nel Novecento Sgaravatti è protagonista delle due ricostruzioni e del boom economico. Interessante per la crescita è l’opportunità offerta da fiori e piante che valorizzano l’Autostrada del Sole negli anni Sessanta. Ma il secolo breve vede l’azienda impegnata anche nel primo laboratorio di fitopatologia, che consente ai produttori vitivinicoli di salvare dalla filossera l’agricoltura italiana con innesti che resistono all’insetto parassita. La famiglia proprietaria segue una metodica divisione del lavoro e tutti i figli, laureati in Agraria, si spartiscono un comparto specifico da sviluppare, mantenendo al vertice un team molto affiatato. A metà del Novecento si progettano le filiali decentrate, che consentono a piante, semi e fiori di essere presenti, oltre che a Padova, a Pistoia, che è un polo florovivaistico di eccellenza, e poi a Roma, a Napoli e a Torino. Il balzo di crescita e di know-how arriva poi con gli anni Cinquanta e Sessanta in Sardegna con la costruzione della Costa Smeralda. Insieme ai più famosi architetti del tempo, gli Sgaravatti affiancano l’Aga Khan e Luigino e Nicolò Donà delle Rose nel progetto di trasformazione di una terra già bella in un comprensorio paesaggisticamente straordinario, sempre attenti agli equilibri che la natura impone. E ciò condiziona anche lo spostamento del quartier generale del Gruppo che si sposta appunto in Sardegna, dove alcuni anni dopo verrà sfruttata anche l’occasione di un parco di 100 ettari a Villa Certosa, proprietà di Silvio Berlusconi, con interventi in cui spicca il camminamento tra gli ulivi centenari e il Museo degli Hibiscus che ospita una collezione di oltre cinquemila piante. Gli ultimi decenni vedono l’azienda impegnata nell’internazionalizzazione, lavorando per gli Emirati Arabi per fermare il deserto e più recentemente in Azerbaijan, Turchia, Georgia e Antigua delle piccole Antille. Accanto alla progettazione dei giardini, che è il business del Gruppo più redditizio e facile da esportare, ancora oggi la ricerca e l’innovazione rimangono per l’azienda una grande passione. Grazie alla buona conoscenza della flora mediterranea, assieme all’Università di Cagliari, si sperimentano metodi per la salvaguardia del suolo e piante con la capacità di resistere alla siccità e alla salsedine, con radici tenaci che salvino le coste dalle erosioni, e metodi per disinquinare le terre. Oggi Sgaravatti Group ha un fatturato di circa 10 milioni di euro e opera con un personale fisso di 120 dipendenti, raggiungendo le 180 unità nei periodi più intensi dell’anno; insieme al Gruppo siciliano Piante 112 Faro e all’azienda pistoiesa Mati, è di fatto la più grande realtà florovivaistica italiana. L’azienda, a stretto controllo familiare, ha come principale socia di controllo Rosi Sgaravatti, con Giuseppe Carteri. È condotta, in qualità di presidente e amministratore delegato, da Rosi Sgaravatti, che ha preso le redini dell’impresa dopo la precoce scomparsa del marito, facendosi affiancare dalla figlia Sabina Ferrari e da Carlo Carteri, figlio di Giuseppe. Il grande cruccio è che, dopo oltre due secoli di Sgaravatti, nessuno con quel cognome ricopra oggi ruoli di governo dell’impresa, anche se la presidente (nel frattempo divenuta anche, a fine 2021, la prima donna a ricoprire il ruolo di presidente di Assoverde, l’associazione italiana costruttori del verde, e nominata poi Cavaliere del lavoro dal Presidente Mattarella nel giugno 2022) non dispera, augurandosi di recuperare all’apice del Gruppo qualcuno dell’attuale giovanissima generazione della famiglia. L’assetto organizzativo presidia tre divisioni: Greenland, che progetta e realizza giardini in tutto il mondo; Sgaravatti Geo, che gestisce il verde in Costa Smeralda; e Sgaravatti Land, che si occupa della produzione florovivaistica e gestisce tre garden center di 32 ettari a Capoterra (CA), sede principale sia legale che di produzione dell’impresa, a Cagliari e ad Arzachena (Porto Cervo). Oggi campione globale nella costruzione del paesaggio, l’impresa cagliaritana è ricercata da tutto il mondo per la sapienza con cui sa disegnare giardini, piante e manti erbosi. Il segreto del successo? Così lo spiega Sgaravatti, esplicitando la filosofia aziendale: «Il giardino deve essere soprattutto in armonia con chi l’ha voluto. Io sono d’accordo con i giapponesi che dicono che il giardino è il luogo dove l’uomo incontra il divino». 113 31 La pinsa: provate a imitarla, se ci riuscite… Gruppo Di Marco, Roma La prima cosa da dire sulla pinsa romana è che non è una pizza. Che cos’è allora? È una specie di focaccia o di schiacciatina, a forma ovale, leggera e croccante, frutto di un’innovazione abbastanza recente. Con un impasto molto idratato e a lunga lievitazione (da 48 a 72 ore), è ottenuto con uno speciale mix di farine (grano duro, frumento, riso, soia) che consente un’alta digeribilità e una bassa dose di calorie. Il tutto poi condito con i classici ingredienti di formaggio, mozzarella, prosciutto, pomodoro, acciughe o altre immaginifiche varianti (a Roma si può trovare anche con la porchetta di Ariccia...). Ormai la pinsa spopola in ristoranti e forni, della Capitale e non solo, se è vero che nel mondo ci sono più di settemila pinserie. La parola «pinsa» deriverebbe dal verbo latino pinsere (schiacciare, stendere, allungare) e sembrerebbe una rivisitazione moderna di una ricetta che risale addirittura ai tempi dell’antica Roma, quando i contadini fuori le mura preparavano le focacce grazie alla macinazione dei cereali (miglio, orzo e farro) e ci aggiungevano sale ed erbe aromatiche. Oggi i componenti della pinsa e le sue tecniche di lavorazione sono al passo con i tempi, ma continuano a ispirarsi il più possibile alla composizione originaria. O forse no!… Spiace infatti deludere gli appassionati di storia, ma questa narrazione – che ha resistito allo storytelling del prodotto per qualche decade – non è altro che un furbo aneddoto di marketing inventato dal pioniere di questa focaccia per rendere più simpatica la sua creatura. E anche la reminiscenza del latino è un’astuzia per dare alla ricetta un pizzico di nobiltà. Questo signore è Corrado Di Marco, oggi ultrasettantenne, romano, nipote di un artigiano panificatore della Grande Guerra e figlio 114 di un commerciante con il pallino dell’innovazione continua. E proprio questo DNA familiare, la panificazione e la curiosità immaginativa sono il driver che alla fine del secolo scorso lo ha portato a una formidabile intuizione. «Il calore del forno di mio nonno è ancora presente nella mia mente… e nel mio cuore», ricorda Di Marco, oggi presidente del Gruppo omonimo, «e la mia idea è sempre stata quella di creare innovative soluzioni per la panificazione, capaci di esaltare il senso del gusto essendo, allo stesso tempo, leggere e altamente digeribili». Il segreto, ancora oggi custodito gelosamente in azienda, sta nel mix di farine nelle esatte proporzioni. Il tutto si origina negli anni Settanta, quando Corrado Di Marco, forte del suo imprinting familiare, inizia una profonda ricerca per creare prodotti in grado di coniugare sapore, naturalità e benessere. Ostinato nel suo processo di innovazione, opera più di duemila esperimenti di fermentazione e con metodo scientifico arriva alla meta: nel 1981 nasce Pizzasnella, che poi si sarebbe trasformata nel 2001 nella Pinsa Romana, una vera e propria rivoluzione (al mix di farine di soia e frumento si univano il riso e il lievito madre). «È romana la pizza mondiale» titolava allora il Messaggero, orgoglioso nel ricordare l’origine italica di ciò che mezzo mondo considera ormai statunitense. Nel frattempo nel 1993 si apriva a Roma la prima scuola di pizza, che ha formato nel frattempo centinaia di pizzaioli italiani e stranieri. Nei vent’anni trascorsi da allora la crescita è stata esponenziale, con migliaia di clienti consapevoli delle caratteristiche e delle peculiarità del prodotto pinsa. L’azienda Di Marco, oltre a tenere alto il vessillo della Pinsa Romana, ha perfezionato il mix di farine e ha fondato l’Associazione Originale Pinsa Romana che, nata proprio per perpetuare il rispetto e la tutela del prodotto DOC, sostiene un vero e proprio controllo di qualità e si affida a esperti certificatori che verificano che ciò che viene offerto nei punti vendita sia realizzato secondo il protocollo. Per proteggere la specialità – ormai conosciuta ovunque e pertanto soggetta a imitazioni – viene creato anche un albo dei pinsaioli, con tanto di statuto e regolamento che precisa il format (la ricetta precisa da seguire, le dimensioni che la pinsa deve avere una volta cotta, il divieto dell’uso del mattarello e il tempo minimo di lievitazione). Solo le attività che passano il vaglio sono inserite e messe in risalto sul sito ufficiale dell’Associazione. E, come fatto anni prima con la pizza, anche con la pinsa viene varata una Academy, la PinsaSchool, fondata da Marco Montuori, che si occupa di formazione per ristoratori e pinsaioli (con o senza esperienza) e un’attività di consulenza che, a differenza dei corsi, avviene direttamente presso i 115 ristoranti che richiedono il servizio (anche all’estero, dalla Mongolia alla Russia, dall’America al Nord Europa). Quasi tutte le pinserie in giro per il mondo sono oggi rifornite dalle farine del Gruppo Di Marco. Nel frattempo nell’impresa Di Marco entra la seconda generazione: prima Enrico, laurea in Biotecnologie, che si occupa di produzione; poi Alberto, laurea in Economia, che si occupa di commerciale; e infine Francesco, che si occupa di amministrazione. Nel 2012 un salto in avanti importante con la realizzazione delle basi di Pinsa e di Pizza Romana precotte e congelate (con shelf life di 18 mesi e spedizioni in tutto il mondo), sviluppate con un processo totalmente artigianale, senza conservanti né additivi. Nel 2020 nasce Nuvola, un prodotto fresco, pronto per essere assaporato comodamente a casa, disponibile presso la grande distribuzione in due formati: 460 gr per due Pinse e 230 gr per una Pinsa, disponibile anche nella versione multicereali. Il 2020 è l’anno della ricerca e sviluppo e l’azienda durante il lockdown, costretta a rallentare i ritmi, non si perde d’animo: si sperimentano nuove paste di riso, per creare nuovi effetti di gusto. I risultati emergono subito e, alla ripresa delle attività nel 2021, il fatturato rimbalza a 25 milioni di euro, grazie ai nuovi ingredienti. Nel 2021 il Gruppo Di Marco lancia l’ultima linea di innovazione in ordine di tempo, grazie a un nuovo stabilimento che affianca i due dedicati alla lavorazione del mix di farine e alla produzione delle basi precotte e surgelate: una linea di produzione per la soluzione senza glutine, con la Romana Gluten Free. È inoltre prevista l’apertura di un nuovo stabilimento negli Stati Uniti, per approvvigionare le pinserie locali che si stanno moltiplicando a vista d’occhio. Il progetto di Corrado Di Marco ha di fatto inventato un nuovo comparto nella ristorazione che prima non esisteva, consentendo a molti investitori e aziende di lanciarsi in progetti di avviamento o di franchising, senza avere dubbi sulla qualità finale da offrire ai clienti. Il numero delle pinserie oggi in Italia e nel mondo è lì a testimoniarlo. Ma le innovazioni non sono finite. Il team degli azionisti (padre e tre figli) è scatenato e si intravedono novità all’orizzonte: «la passione per il nostro lavoro e la dedizione nel far crescere l’azienda, che vedo nei miei figli, rappresentano per me uno straordinario motore propulsivo che, nonostante l’età, mi spinge a continuare a innovare e sperimentare», dichiara Corrado Di Marco. «La continua attività di ricerca e sperimentazione che ci ha portato a inventare la Pinsa Romana vent’anni fa, oggi ci consente di lanciare i nuovi mix di paste acide La Pala, La Teglia e La Tonda, destinati a rivoluzionare il mondo della pizza, perché 116 dopo avere assaggiato i nuovi impasti sarà molto difficile tornare indietro.» 117 32 Quando la passione aziendale si declina al femminile SAIB, Caorso (Piacenza) È una storia di donne forti quella di SAIB. A dire il vero, anche i protagonisti maschili non mancano. Ma le donne imprenditrici, rappresentanti di tre successive generazioni, emergono come particolarmente coraggiose e intraprendenti. Donne cresciute in luoghi dove il lavoro è una sorta di religione laica e dove la sfida aziendale è forse il più forte stimolo di vita. Siamo a Caorso, lungo il percorso del Po, laddove la terra piacentina sente ancora il respiro della vicina Cremona. E la SAIB è oggi una delle più importanti realtà produttive del comparto del pannello truciolare: un prodotto innovativo ed economico che consente di riutilizzare gli scarti delle altre lavorazioni del legno per offrire un materiale strategico ai principali mobilifici italiani e stranieri. La SAIB, acronimo di Società Agglomerati Industriali Bosi, viene fondata nel 1962 dai fratelli Guido ed Eva Bosi e dal marito di lei, Giorgio Rinaldi. L’intuizione è di Eva Bosi: l’area geografica di Caorso è particolarmente ricca di pioppi, le cui radici, ai tempi, venivano considerate materiale di scarto. Eva riflette sulla possibilità di riutilizzare la materia prima più antica, il legno, e di estrarre un pannello truciolare che possa essere più competitivo rispetto ai più costosi legni masselli e ai compensati o multistrati. Lei ha un passato con un apprendistato nella segheria del padre e questa esperienza le viene utile per lanciare dell’impresa nei primi anni. Nei decenni successivi SAIB cresce, mentre il comparto da un numero di concorrenti che contava più di 50 attori scende a 4 o 5 perché solo alcune imprese imboccano con determinazione la strada di forti investimenti tecnologici (si tratta di settori dove le dimensioni e l’economia di scala contano moltissimo). 118 Negli anni Settanta in SAIB entra la seconda generazione della famiglia, con la primogenita Adriana, suo marito Carlo Conti («l’ingegnere») e la sorella Valeria. Si sviluppa il pannello nobilitato, rivolto a un mercato che richiede prodotti più rifiniti e personalizzati attraverso l’applicazione di carte decorative e una più stretta partnership con i fabbricanti di mobili e di cucine. Grazie a texture mimetiche e tattili ottenute con lavorazioni speciali i truciolari si trasformano in pannelli raffinati che diventano l’input principale di arredi per ufficio e design per la casa. Le decadi successive sono il periodo dell’aumento della capacità produttiva e delle nuove tecnologie, come quella a pressa continua. E nel Duemila si affacciano in SAIB le terze generazioni che sono quelle oggi ai posti di comando, come Clara e Giuseppe, figli di Adriana, e come Sergio Dorigozzi, figlio della famiglia Dorigozzi, che detiene l’altro 50 per cento dell’azienda. I tempi allora sono ancora più incerti e difficili degli inizi, ma la coesione della famiglia consente e impone di tenere i denti stretti e di superare le difficoltà. Il motto è «non mollare mai, andare avanti, con coraggio, insieme». E in azienda tutti tirano dalla stessa parte: imprenditori, lavoratori, rappresentanze sindacali e principali fornitori. Dice Clara Conti, oggi amministratore delegato di SAIB: «Quand’ero bambina la SAIB era soprattutto il telefono che squillava durante la notte. Non c’erano ancora i cellulari; ricordo il suono del telefono nel silenzio della notte. parole per me incomprensibili e la voce di mio padre che quasi sempre chiudeva dicendo “arrivo”». L’azienda oggi fattura circa 120 milioni di euro in costante crescita e dà lavoro a oltre 200 dipendenti. Ogni anno ricicla e supera 500 tonnellate di scarti di legno a fine vita, contribuendo così alla riduzione dello smaltimento del legno in discarica o negli inceneritori. «Grazie al nostro recupero ogni anno non vengono abbattuti circa 750.000 alberi, pari a più del numero di alberi presenti nei parchi, nei viali, nelle strade comunali di una metropoli come Milano.» Ma oltre a ciò, SAIB si contraddistingue per un’ulteriore azione di eco-sostenibilità ambientale, perché nel recupero del legno e nell’eliminazione delle impurità si seleziona anche altro materiale (vetro, plastica, ferro, carta, pietre, ecc.) che viene ritornato alle rispettive filiere. L’impresa pertanto è una vera e propria azienda rigenerativa dell’economia circolare (si pensi solo che ogni anno vengono avviate al riciclo 8500 tonnellate di ferro: quantità con cui in dieci anni si potrebbe costruire il Golden Gate di San Francisco!). 119 Oggi SAIB guarda molto all’estero. La ripartizione attuale è dell’80 per cento sul mercato nazionale e del 20 per cento oltre confine, con l’obiettivo ambizioso di arrivare a fatturare presto il 30 per cento del totale sui mercati esteri. Per raggiungere questo obiettivo l’impresa sta puntando non solo sull’aumento della capacità produttiva, che ha raggiunto il suo massimo nell’estate del 2021 (grazie all’entrata in funzione di una nuova linea per l’essiccazione del legno), ma anche sul lancio di nuovi prodotti innovativi. Prodotti top secret per il momento ma caratterizzati da un’anima ancora più green e rigenerativa. 120 33 Edilizia culturale: se il Club del Libro spinge il fatturato Vanoncini, Mapello (Bergamo) Nel Paese dove si legge pochissimo e dove i manager dedicano normalmente poco tempo alla cultura, considerandola un «altrimenti» rispetto alle «cose serie», questa è davvero una notizia. In un’impresa della provincia bergamasca, la Vanoncini di Mapello, specializzata in edilizia sostenibile, è nato un gruppo di lettura condiviso tra dirigenti, operai e muratori. Niente obblighi, chi vuole partecipa. Fin qui, si potrebbe dire, un po’ strano, ma niente di particolarmente sorprendente. Maggiore stupore se cominciamo ad approfondire che le presentazioni dei libri letti avvengono in orario di lavoro e che vengono pagate 100 euro in busta paga. Anzi, se il lettore diventa seriale, alla seconda presentazione 200 euro e alla terza 300, con la possibilità di crescere se il libro raccontato è in lingua inglese. Il processo funziona come segue: il dipendente sceglie il libro da leggere, fa una scheda di presentazione che propone alla dirigenza e poi presenta il volume ai colleghi. Lanciata durante il lockdown del 2020 in un territorio che ha sconvolto le zone di confort delle persone, l’iniziativa di condividere il piacere della lettura con i collaboratori è stata proposta dall’amministratore delegato Danilo Dadda, 52 anni, che ha steso un primo elenco di 60 titoli (poesie, romanzi, saggi), mettendoli in una biblioteca aziendale e lasciando che ogni lavoratore ne scegliesse uno e lo presentasse ai colleghi durante una delle riunioni già pianificate durante l’anno. Il tutto è cominciato così, un po’ per caso. Poi è diventato un appuntamento fisso e ora le presentazioni sono scadenzate due al mese. Un modo per incentivare la crescita intellettuale e per condividere anche le proprie emozioni personali. «Un libro parla anche di se stessi. La lettura aiuta ad aprire la mente e a diventare persone più curiose e 121 intelligenti», sostiene Dadda. «Il mio obiettivo è portare al successo i miei collaboratori e godo particolarmente nel vederli crescere, quando scatta la passione. Chi lavora con te deve diventare migliore rispetto al livello iniziale. E il ritorno della lettura è un valore intangibile ma molto rilevante.» Dadda dedica l’iniziativa alla mamma: «La lettura mi accompagna da tutta una vita», spiega, «è stata mia madre a trasmettermi questa passione, che io cerco di trasferire ai miei collaboratori. Ho semplicemente applicato alla lettura il principio di delega, che uso nelle decisioni più importanti». E la delega funziona visto che il bilancio del 2020 ha riportato, in un anno che è stato per la bergamasca un momento drammaticamente indimenticabile, un fatturato di 28 milioni di euro, il 10 per cento in più dell’anno precedente. Inutile dire che la cosa ha ottenuto un’adesione completa ed entusiastica, al punto tale che oggi mogli e mariti dei dipendenti premono per partecipare all’esperienza. L’eclettica biblioteca iniziale è cresciuta, con i volumi che man mano i protagonisti aggiungevano all’elenco e che arrivano anche dall’ambiente circostante in omaggio per la Vanoncini di Mapello, grazie al successo mediatico riscosso dall’iniziativa. Lo chiamano ormai il «Club del Libro dei muratori», con un accostamento azzardato che sfida i luoghi comuni del mondo dell’edilizia del Profondo Nord. Chissà che questa pratica non venga adottata anche da altre piccole aziende? Chi diceva che la cultura non paga economicamente? 122 34 L’innovazione può arrivare dall’Italia Garmin Italia, Milano Ci sono occasioni in cui il Made in Italy riesce a condizionare addirittura le disciplinate subsidiaries delle aziende americane. È il caso di Garmin Italia, base a Milano, dove la controllata del colosso statunitense Garmin è stata protagonista negli ultimi dieci anni dell’avvio di progetti innovativi che hanno riscosso così tanto successo da essere poi replicati dalle altre countries dell’impresa. Garmin è un’azienda fondata nel 1989 da Gary Burrell e Min Kao (il nome deriva dalle iniziali dei fondatori), colleghi alla Allied Signal, impresa di ingegneria nei settori aerospaziali e automotive. Nata in Lenexa e poi trasferitasi a Olathe (Kansas), dove ancora risiede il quartier generale globale, Garmin è leader mondiale nella tecnologia GPS per l’automobile e la moto, la nautica, l’aviazione, lo sport, il fitness e l’outdoor. Ha fatturato nel 2019 3,9 e nel 2020 4,8 miliardi di dollari e raggruppa circa 18.000 dipendenti nel mondo. Inizialmente si è dedicata a mercati che necessitavano maggiormente di strumentazione per la navigazione aerea e nautica, ma il suo consolidamento è avvenuto a fine anni Novanta, complice il miglioramento del sistema satellitare, con l’introduzione del primo device per navigare su strada. Gli anni successivi hanno visto un forte sviluppo del know-how e delle vendite nei segmenti del wellness e del lifestyle, che rappresentano oggi il core business dell’azienda. Con alcuni presidi geografici: la sede in Kansas, il quartier generale europeo in Inghilterra e diversi siti produttivi. Sul finire del 2010 Garmin ha cominciato anche ad acquisire i singoli distributori europei, rendendoli società direttamente controllate. Anche Garmin Italia nasce nel 2008, in momenti a trazione prevalentemente automotive, con l’acquisizione dell’allora distributore italiano. Negli ultimi dieci anni, sotto la guida dell’amministratore 123 delegato Stefano Viganò, l’organizzazione ha conosciuto un forte sviluppo. Nei tre anni 2019-2021, i 65 dipendenti hanno prodotto una crescita annuale del 20 per cento con un peso del 15-20 per cento sul totale del fatturato europeo e chiuso il quarto termine del 2021 con un forte incremento di vendite. La realtà italiana ha però dato anche un grosso contributo di design e di creatività a tutta la Garmin del pianeta, fornendo feedback continui al dipartimento R&D del Kansas, ma in particolare spingendo il settore dell’orologeria. Nel 2014 Garmin Italia opera infatti una scelta pionieristica per quel periodo, scommettendo sul canale orologiero: è la prima sussidiaria Garmin nel mondo ad aprire uno specifico canale di distribuzione. Un canale nuovo sia in termini commerciali che di comunicazione: avvio di una rete di agenti dedicata, investimenti su nuovi media coinvolti in una originale strategia di marketing, nuovi layout nei punti di vendita. E il mercato risponde bene, al punto che oggi il comparto watch di Garmin Italia vale il 10 per cento del fatturato, con l’obiettivo di arrivare al 20 per cento nel prossimo triennio. Ricordiamo che, mentre il canale orologeria a livello globale nel 2020 ha registrato un calo del 30 per cento, Garmin Italia ha compiuto una crescita del 25 per cento. Le indagini di mercato confermano questa tendenza: incrociando i dati di Morgan Stanley Research e IDC si nota che nel 2014 i modelli svizzeri tradizionali erano stati 28,6 milioni contro i 5,1 milioni di smartwatch e solo sei anni dopo le cifre risultano completamente rovesciate con le marche svizzere che assommano a 13,8 milioni contro il 74,4 milioni di smartwatch. E i Garmin non sono scelti solo per le loro caratteristiche tecniche sportive (nella corsa, nel nuoto, nel diving, nel golf, nell’escursionismo, nella caccia e così via), ma anche per un’estetica in cui sicuramente il gusto italiano ci ha messo lo zampino. I clienti sono appassionati sportivi e amanti del digitale, ma anche persone che vogliono sfoggiare un prodotto innovativo con stile ed eleganza. Il futuro di questo settore è oggi verso l’alta gamma e grandi investimenti nel mondo del retail, dopo il boom dell’e-commerce e delle vendite online sperimentato nei mesi più sofferenti della pandemia. «È un piacere vedere che i nostri orologi sono oggi esposti nei negozi di orologeria, accanto ai più reputati marchi classici», aggiunge Viganò. Il 2022 è caratterizzato da prodotti che congiungono i diversi comparti mantenendo il prestigio dello status symbol al polso. Come per esempio il fēnix® 7, decima generazione del più iconico smartwatch multisport della collezione Garmin, ed epixTM, il nuovo premium active smartwatch 124 nel quale le caratteristiche multisport che l’azienda ha sviluppato nel corso degli anni si uniscono alla brillantezza, luminosità e intuitività d’uso del nuovo schermo AMOLED touchscreen. Con essi, Venu® 2 Plus, smartwatch dedicato al fitness e al wellness dotato di una tecnologia con GPS integrato che permette di telefonare, inviare messaggi e accedere all’assistente vocale (Siri, Google Assistant, Bixby), con un luminoso display e una batteria che può durare fino a nove giorni. A queste funzionalità si aggiungono opzioni dedicate alla salute, al benessere e al fitness presenti nelle serie passate. «Anche su queste soluzioni, tecnologicamente all’avanguardia, si innesteranno contributi di design che rimandano alla tradizione dello stile italiano», commenta Viganò. 125 35 Quando la sostenibilità è al centro della strategia Gruppo Felsineo, Zola Predosa (Bologna) Ci sono in Italia prodotti che si identificano in maniera simbiotica con il territorio di origine e uno di questi è sicuramente la mortadella di Bologna. Al punto tale che spesso essa viene proprio chiamata semplicemente «Bologna», ossia col nome della città in cui venne preparata per la prima volta in tempi remoti. E il Gruppo Felsineo così si chiama proprio per il fortissimo legame con la capitale emiliana, da Felsina che era la denominazione della città in epoca etrusca. Stiamo parlando dell’azienda leader nel comparto della mortadella e degli affettati vegetali (una quota di mercato del produttore del 23 per cento per il prodotto tradizionale IGP e del 60 per cento per il prodotto vegetale), centotrenta dipendenti e un fatturato annuo di 53 milioni di euro. Alla testa del Gruppo i due fratelli Emanuela e Andrea Raimondi, rispettivamente amministratore delegato e presidente, terza generazione della famiglia Raimondi, pronipoti di quel fondatore che nel 1947 aveva aperto il Salumificio Raimondi, una piccola bottega artigiana specializzata nella produzione dei salumi. Col tempo, proprio per agevolare la crescita del processo produttivo, il salumificio aveva costruito un nuovo stabilimento a Zola Predosa e l’azienda era stata ribattezzata Felsineo. Poi negli anni Settanta la storica decisione di focalizzarsi solo sulla mortadella. Le ultime decadi dello scorso secolo hanno visto il Gruppo Felsineo diventare il primo del settore e partner delle più importanti insegne della Grande Distribuzione Organizzata. Nel 2000, insieme alle certificazioni per esportare nei grandi mercati esteri, l’impresa si internazionalizza e nel 2015 è sbarcata in Cina come unico esportatore italiano di mortadella IGP. 126 Ma è nel 2017 che avviene il grande salto, con una significativa differenziazione di prodotto: basandosi proprio sulla lunga esperienza maturata in quattro generazioni che hanno sempre coniugato tradizione e innovazione, nasce FelsineoVeg, oggi Società Benefit, specializzata nella produzione di alimenti a base di proteine vegetali. E così, alle linee di prodotto classiche e sempreverdi, frutto di una tradizione artigianale centrata sulla qualità e su una rigorosa selezione delle materie prime, si affianca una linea innovativa di affettati vegetali e biologici che consentono di disporre di un’alternativa alla carne senza rinunciare al gusto. Una nuova linea molto richiesta all’estero, non pensata solo per i vegetariani o per i vegani, ma per tutti coloro che cercano qualcosa di diverso rispetto alle proteine animali, mantenendo una dieta sana ed equilibrata. «I nostri non sono semplicemente prodotti, ma un sistema di valori. Un mondo di cultura gastronomica, integrità nella qualità, voglia di stare bene e godersi la vita attraverso il cibo e ciò che esso rappresenta», afferma Andrea Raimondi, che segue tutte le operations della produzione e dello stabilimento. Grande successo e continua crescita da subito per i prodotti Veg e Good&Green, con varianti di cereali come lupino, curcuma, zenzero o, ancora, senza glutine. Il tutto rivolto anche al nuovo mercato dei cosiddetti flexitariani, coloro che coniugano alimentazione vegetale e consumo di proteine animali. Grandi passi avanti sono poi stati fatti sul fronte della sostenibilità. Dopo un’approfondita fase di ascolto che ha coinvolto management, dipendenti, fornitori e clienti, sono stati ripresi come prioritari alcuni degli obiettivi di sostenibilità indicati dall’Agenda 2030 dell’ONU. Da lì è stato implementato un codice di condotta sostenibile lungo quattro «vie maestre» di comportamento: 1) la via dei consumatori, che sostiene la qualità del prodotto con un miglioramento continuo nelle ricettazioni della mortadella, nella convinzione che il consumatore sia sempre più attento agli aspetti salutistici e nutrizionali di quello che mangia; 2) la via della filiera, che dà piena trasparenza ai processi di allevamento, macellazione, trasformazione e distribuzione (la Sciccosa è la prima mortadella prodotta all’interno di una catena 100 per cento italiana formata dagli agricoltori italiani aderenti alla FDAI); 3) la via della vicinanza, in cui i dipendenti vengono interpretati e vissuti come la principale risorsa del Gruppo e, come tali, ricompensati da investimenti in sicurezza sul luogo di lavoro, educazione professionale e manageriale, welfare; nella strategia della vicinanza rientra anche la responsabilità sociale di supporto alle attività sportive e collettive della comunità, e di 127 educazione della stessa a evitare gli sprechi alimentari; 4) la via dell’ambiente, con interventi massicci per la riduzione dei consumi energetici e dell’uso della plastica, per il contrasto dei cambiamenti climatici e per la produzione di packaging non inquinante. La forte attenzione alla sostenibilità sarà il fulcro della strategia aziendale anche nei prossimi anni. Questa focalizzazione è così spiegata dall’amministratore delegato Emanuela Raimondi, che presidia la parte amministrativa e finanziaria dell’azienda: «Siamo consapevoli che il nostro agire, come singoli e come organizzazione, è in grado di costruire un futuro migliore per le nuove generazioni». E infatti il pay off della comunicazione oggigiorno è «un mondo più verde per un futuro più rosa». 128 36 Come fare i tessuti fantasia con i fondi di caffè Lanificio Bottoli, Vittorio Veneto (Treviso) Ci si potrebbe chiedere perché molti stilisti famosi facciano molta strada e si abbarbichino per i bricchi del quartiere di Serravalle a Vittorio Veneto, provincia di Treviso, per raggiungere un opificio. La risposta risiede nel fatto che lassù, in una posizione sopraelevata rispetto alla Serenissima e alle splendide linee architettoniche di un borgo medioevale dove si respira la bellezza del Nord-Est veneziano, si trova una fabbrica fondata nel 1861, che racchiude nella sua storia cinque generazioni di una famiglia di imprenditori che ha iniziato la sua attività produttiva con coperte e panni di lana e oggigiorno si è specializzata nei più ricercati tessuti fantasia, in particolare per giacche e cappotti maschili. Stiamo parlando del Lanificio Bottoli, che sotto la guida del presidente Roberto Bottoli e del figlio Ettore, entrato in azienda nel 2017, grazie a una continua innovazione è riuscito a instaurare con le più reputate case di moda una relazione di fornitura di particolare successo. Emblematico il fatto che molti brand dell’abbigliamento suoi clienti abbiano deciso di affiancare al loro nome sui prodotti quello del Lanificio, applicando etichette congiunte e mettendo in bella vista la tracciabilità di Bottoli: è il caso di Etro, ma anche di Ballantyne o di Junya Watanabe, icona della moda d’avanguardia giapponese. Le chiavi del successo sono sicuramente l’uso di eccellenti materie prime (dalla lana merinos al cashmere), ma anche la sapiente scelta di fibre naturali, come la canapa e il cotone. Ma ciò di cui a Serravalle vanno fieri è il ciclo verticale integrato: selezione delle materie prime; tintoria, filatura; orditure, tessitura e finissaggio. Un percorso ormai unico nel Lombardo-Veneto e raro in Italia in generale. Sarà forse per questo che, lavorando nello stabilimento anche i filati di cotone, il lino e 129 la seta, l’azienda viene chiamata ancora «lanificio»: perché tutta la produzione viene svolta intra moenia nella fabbrica. «Il nostro non è un risultato dell’assemblaggio di varie componenti», afferma Ettore Bottoli, «la filiera dà identità all’impresa e questo è uno dei motivi per cui noi siamo sopravvissuti ai cinque lanifici che c’erano nel nostro territorio». Chi pensa alla moda pensa normalmente alle sfilate milanesi o fiorentine, a lustrini, ai fotografi e alle modelle. Ma la vera moda nasce proprio all’interno di mura come queste, che spesso vengono dimenticate. Campionari ogni anno di circa 2500 nuovi disegni, per un fatturato di 5 milioni di euro prodotto da 32 dipendenti che fanno girare uno stabilimento con un potenziale di circa 3000 metri di tessuto al giorno. Il 60 per cento va oltre confine, con percentuali in crescita anno dopo anno, specialmente in Oriente dove la sostenibilità dell’azienda è particolarmente apprezzata. Sì, perché il Lanificio Bottoli è pioniere nelle logiche sostenibili, avendole iniziate con largo anticipo rispetto alla concorrenza e insistendo continuamente sul «chilometro zero», con metodi di tintura originali come l’indaco, il campeggio (pianta sudamericana) per ottenere le tonalità del grigio o il catechu per la gamma dei marroni o, ancora, l’ortica, le fibre d’alga, del gelsolino e dell’abaca. Così come si produce un tessuto per le coperte di lana dove il filato laniero si intreccia con fili di rame, metallo con note proprietà antibatteriche. La lana delle razze Sopravissana e Gentile di Puglia arriva da allevamenti tra Marche, Abruzzo e Molise, valorizzando di fatto il patrimonio ovino italiano. Tutto ciò con evidente risparmio di acqua e di energia e un valore aggiunto che consente anche di non degradare i tessuti, come con le tinture chimiche. L’ultima trovata è la produzione di tessuti colorati utilizzando i residui del caffè. In sinergia con la famosa torrefazione Dersut di Conegliano, eccellenza veneta nel settore Horeca, si è avviato un riciclo dei fondi di caffè ritirati da centinaia di clienti italiani ed esteri, che saranno usati per la tintura della seta destinata alla collezione primavera-estate 2023. «Il nostro è un prodotto difficile da replicare, proprio perché l’investimento che facciamo nell’innovazione rende i nostri tessuti sempre diversi nel design e nella molteplicità dei componenti», sostiene Bottoli. «D’altra parte sono cinque generazioni che mangiamo pane e moda», sorride allegro, sfoggiando una giacca a quadri di rara eleganza. 130 37 Alici: la ricetta di famiglia Rizzoli Emanuelli, Parma Dopo ben più di un secolo dalla fondazione (era il 1906), il logo è sempre lo stesso: quando si dice la tradizione. Sull’iconica scatola di latta dorata campeggiano tre gnomi che sorridono. La leggenda vuole che i fondatori, i coniugi Emilio Zefirino Rizzoli e Antonietta Emanuelli, ricevettero in dono una partita di pesce conservato in involucri raffiguranti tre gnomi, che essi scelsero come buon auspicio di salute e longevità, riproducendoli sul loro packaging (come s’usa dire oggigiorno) con la dicitura «MANGIAR BENE». L’azienda Rizzoli Emanuelli è la più antica del settore delle conserve ittiche e oggi è alla quinta generazione familiare. Fondata a Torino alla fine dell’Ottocento, quando la capitale si trovava sulla Via del Sale che la collegava con Genova, da dove il pesce azzurro arrivava in barili di legno, all’inizio del secolo scorso si sposta a Parma, dove l’industria conserviera stava facendo passi da gigante e dove molto saper fare si poteva trasferire al processo di filettatura e di confezionamento delle alici. Lì appunto Emilio Zeffirino e Antonella si innamorano e si sposano, dando vita alla ragione sociale Rizzoli-Emanuelli, ancor oggi mantenuta nonostante gli eredi Emanuelli abbiano ceduto le proprie quote alla famiglia Rizzoli. È una storia che attraversa le due grandi guerre. Nella prima addirittura le scatolette vengono realizzate con le lamiere per le munizioni e molta produzione viene destinata all’esercito (su alcune confezioni, oggi gelosamente conservate, compare la scritta «prodotta per il generale Cadorna»). Durante la seconda guerra mondiale l’azienda subisce il tracollo come tutte le imprese manufatturiere, ma negli anni Cinquanta si risveglia con una serie di intuizioni: l’allora patron Antonio Rizzoli lancia infatti l’azienda di famiglia nel futuro, avendo capito 131 prima di altri imprenditori alimentari l’avvento della grande distribuzione, l’esplosione dei mercati minori e la forza della réclame. Intorno al 2000 arriva alla testa della società l’attuale direttore generale, Massimo Rizzoli, che imposta una strategia di verticalizzazione (dal motopeschereccio allo scaffale del supermercato) e fa crescere l’azienda con quattro stabilimenti all’estero (Croazia, Albania, Tunisia e Spagna) oltre a quello originario in Emilia. Si sviluppano anche i mercati esteri, principalmente quelli giapponesi, del Sud-Est asiatico e del continente europeo, grazie ai rapporti di partnership con catene alimentari straniere e all’apprezzamento che alcuni Paesi esprimono per il pesce di alta qualità. Si allarga anche il raggio di azione perché oggi, accanto alle tradizionali conserve ittiche di alici, acciughe, tonno e sgombro (con contenitori d’avanguardia), si possono trovare prodotti freschi per il banco frigo e piatti pronti del pescatore cucinati ad arte. Il fatturato 2021 è stato intorno ai 40 milioni di euro con circa 30 dipendenti in Italia. «La svolta nel portafoglio prodotti è avvenuta nel 2019», ricorda Massimo Rizzoli, «quando abbiamo deciso di portare nei supermercati il “banco del fresco” accanto al “banco dei secchi”, dove godevamo di storica autorevolezza. Nel fresco la marginalità è più alta e il prodotto viene percepito dal consumatore come più distintivo. In questo segmento la tecnologia ci ha consentito di abbattere la percentuale di sale del 25 per cento, come nel caso delle alici del mar Cantabrico, che sono andate a fare compagnia alle tradizionali provenienti dal mar Mediterraneo. La scelta è stata inoltre legata alle dinamiche degli spazi della grande distribuzione: infatti grazie anche al ruolo più esteso che l’e-commerce sta registrando negli ultimi anni, gli spazi a scaffale destinati ai prodotti secchi si ridurranno, mentre invece si amplieranno quelli dedicati ai prodotti freschi». Viene fatto in quell’anno un grande investimento in nuove tecnologie e in risorse umane e si appronta una strategia per gli anni Venti di questo secolo, nella quale si prevede l’uscita di molti nuovi prodotti innovativi in linea con le ultime tendenze, anche salutistiche, manifestate dal consumatore. «La vita è saporita», si legge sul sito aziendale, mentre le informazioni vengono accompagnate dal rumore dei flutti del mare che si infrangono sulla battigia. Perché il mare alla Rizzoli Emanuelli è molto rispettato, convinti che la pesca debba essere sostenibile preservando i fondali marini e che il mestiere del pescatore debba essere attentamente monitorato, conoscendo per nome le barche da pesca e usando lampare e reti a cerchio come una volta. 132 Lo specchio della tradizione mai trasgredita è la «salsa piccante per le alici». Una ricetta che combina ingredienti, dosi e tempi di cottura, e che viene tramandata per via orale tra i proprietari di generazione in generazione (anzi, la regola è al primogenito maschio della famiglia successiva, anche se questo lo si dice sommessamente, sapendo che il meccanismo taglia fuori l’altra metà del cielo…). L’accesso in «sala salsa» è consentito solo a pochi eletti e il senso simbolico di questo rito è così intenso che recentemente l’attuale patron, in una campagna pubblicitaria televisiva di cui è protagonista mettendoci la faccia, afferma: «Io sono Massimo Rizzoli e queste sono le mie alici in salsa». La responsabilità sociale e il riconoscimento per il senso di affezione dei collaboratori nei confronti dell’azienda sono emersi anche durante il lockdown del Covid-19. Accanto a una forte accelerazione dell’ecommerce, che ha permesso durante la pandemia di diffondere le delizie conserviere in tutto il mondo, c’è stata una forte attenzione allo sforzo fatto dai dipendenti per non indebolire la produzione e le vendite. La famiglia ha deciso pertanto di mettere a tutti in busta paga un premio di produzione del +25 per cento e alle lavoratrici con figli minori di 12 anni una gratificazione extra di 400 euro. Oggi l’azienda ha un’organizzazione congruentemente staffata per la complessità globale, anche a livello manageriale, con una struttura suddivisa per aree funzionali. E competenze e merito accompagneranno il prossimo sviluppo. Ma la famiglia è saldamente al governo della Rizzoli Emanuelli e si è affacciata la quinta generazione: e con l’arrivo del figlio Francesco il padre Massimo è in attesa del giorno giusto per potergli tramandare la famosa e fortunata ricetta. 133 38 Passo dopo passo cresce il Distretto della felicità Il distretto calzaturiero di San Mauro Pascoli (Forlì-Cesena) È proprio vero che anche le cose difficili e complesse possono trovare risoluzione se ci si mette di impegno e interviene la passione. È proprio vero che non bisogna mai arrendersi e che «ce la si può fare». Quella che sto per raccontare è la storia virtuosa di un territorio dove nell’ultimo secolo l’attività produttiva si è concentrata su un sapere e su una tradizione artigianale di alta eccellenza: l’ideazione e la produzione di scarpe femminili di moda. Il distretto calzaturiero del Rubicone, che comprende, tra gli altri, i comuni di San Mauro Pascoli, Savignano e Gatteo, in provincia di Forlì. Circa cento imprese che raggruppano più di tremila addetti. Conosciuta come uno dei migliori contesti manufatturieri del Made in Italy (particolarmente per le fasi di cucitura e finitura che richiedono abilità superiori), negli ultimi anni l’area romagnola manifesta un problema che rischia tuttavia di metterla al tappeto: la forza lavoro, prevalentemente femminile e di giovane età, segnala infatti crescenti difficoltà a sopportare un carico di lavoro che «si mangia» la vita privata. Mentre da un lato, alle lavoratrici in particolare, si richiede attenzione alla famiglia, alla cura dei figli e alle buone relazioni coniugali, dall’altro si lavora troppo e si vive sempre esausti. Molte lavoratrici dimostrano progressivamente la propria insoddisfazione: sintomi ne sono l’alto turnover e l’assenteismo, fino all’abbandono dell’attività in fabbrica perché sempre più spesso il ritmo si fa insostenibile e finiscono per essere preferibili altri mestieri più flessibili. Insieme alle persone che lasciano questo lavoro si rischia però di far evaporare anche il longevo 134 know-how che è sicuramente il più denso patrimonio cognitivo del territorio: la minaccia concreta è lo spegnimento del distretto, poiché l’appeal delle aziende calzaturiere scema per giovani e donne. E ciò innesca nelle imprese la tentazione di delocalizzare o di trovare risposta nella mano d’opera straniera, che potrebbe interrompere la tradizione artigianale della comunità locale. L’allarme piano piano emerge in superficie e, intorno al 2015, chi ha la responsabilità di governare il territorio si domanda quali potrebbero essere le linee di intervento per non buttare a mare una storia industriale di successo. La sindaca di San Mauro Pascoli (la cittadina che ha dato i natali a Giovanni Pascoli), Luciana Garbuglia, insegnante alla locale scuola Montessori, si arrovella sulle possibili soluzioni. A darle una mano interviene Luca Piscaglia, consulente del lavoro nell’area romagnola, che si inventa il «Distretto della felicità». L’idea è di fare in modo che gli stabilimenti del posto ritornino attrattivi per i Millennials e si costruisca un nuovo modello lavoro-vita che consenta di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, immaginando una collettività più serena e un modello sociale sostenibile e – perché no – replicabile da altre parti. Insomma, un welfare lavorativo che aiuti a riportare il territorio alle tradizioni e alla ricchezza di un tempo che fu. Utopia, diremmo noi. Quando mai la felicità passa dalla porta dell’attività lavorativa? Ma Piscaglia non molla e coinvolge le imprese della zona, le organizzazioni sindacali, Italia Lavoro (oggi ANPAL), la CCIAA della Romagna. Il vecchio sistema di fabbrica diventa il bersaglio degli innovatori, aggredendo il primo tabù: l’orario di lavoro, che è storicamente su due turni, dalle 8.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 18.00: un modello che aveva retto con la famiglia «allargata» che prevedeva la convivenza sotto lo stesso tetto di genitori e nonni. Ma oggi, con i Millennials e le lore famiglie più «nucleari», gli orari spezzati confliggono con le nuove esigenze famigliari e quel modello non regge più. La modifica dell’orario di lavoro è quindi il cavallo di Troia per modificare il modello di organizzazione aziendale e sociale. Si prova a ridurre di un’ora la pausa pranzo, consentendo di anticipare l’uscita dall’azienda. Viene consentita una flessibilità oraria, dando discrezionalità all’operatore di definire i tempi, pur mantenendo un contributo lavorativo di qualità. Si creano gruppi omogenei di trasformazione, con logiche di mutuo aggiustamento tra i lavoratori. Si permettono, ove possibile, occasioni di telelavoro, aiutando le persone con nuove dotazioni tecnologiche. E si accompagna il tutto con un nuovo sistema di benessere locale condiviso da tutti gli attori coinvolti (dai cittadini alle aziende, passando per le 135 amministrazioni comunali e i servizi), che introduce nel contesto elementi fino a quel momento del tutto inusuali. Si rimodella la vita della comunità, intervenendo sui finanziamenti, sugli asili, sui sistemi di trasporto, sulle strutture per l’infanzia e per gli anziani, sulla pulizia, sullo sport. In poche parole, si libera il tempo delle persone, costruendo un’atmosfera sociale più piacevole. La conseguenza di tutto ciò è oggi visibile nel sistema cittadino. Si è scoperto che il «Distretto della felicità» ha ridato una nuova possibilità di identificazione alle persone e una nuova motivazione al lavoro in un settore che è sempre stato fierezza e orgoglio per tutti i cittadini del Rubicone. Si è scoperto anche che un lavoratore felice è un lavoratore che rende di più, è una persona che vive meglio e che contribuisce di più allo sviluppo di una società virtuosa e civile. Chi sosteneva che lavorare è comunque e sempre una condizione di sofferenza? 136 39 Può una pizza valorizzare il territorio? Pepe in Grani, Caiazzo (Caserta) Nello stretto vicolo scosceso dove a malapena possono passare due persone appaiate si scorgono in coda, pazienti, decine e decine di persone. Sono venute in questo antico borgo dell’Alto Casertano da tutta la Campania, molte anche da fuori regione e alcune addirittura dall’estero. Appositamente per questo «pellegrinaggio gastronomico». L’obiettivo è farsi assegnare un tavolo per mangiare un’emozione da Pepe in Grani, la pizzeria di Franco Pepe, decretato da moltissime guide il pizzaiolo numero uno in Italia – e perciò nel mondo. Siamo a Caiazzo, a venti minuti in auto da Caserta. Si respira aria di montagna in questo paese di circa cinquemila anime. Pochi vicoli, semplici e decorosi. Una comunità abituata a vivere di poco. L’Italia è piena ovviamente di pizzaioli straordinari. Ma Franco Pepe ha un «quid» in più: il territorio. Un contesto geografico che è stato per anni terreno di partenze e di migrazione, con giovani che scappavano verso le grandi città del Nord e spesso verso l’estero. E che ora invece è diventato una vera e propria meta turistica per gli appassionati dell’eccellenza del gusto. Tutto il paese di Caiazzo oggi ruota intorno a Pepe in Grani, perché con il lavoro di Franco Pepe si è risollevata la microeconomia locale con bar e bed & breakfast e giovani produttori agroalimentari del luogo (le cipolle di Alife, le olive caiazzane, i ceci delle colline caiatine ecc.) che hanno ritrovato fiducia grazie a forniture certe e continuate. La forza delle cose buone e un significativo esempio di come le cose funzionanti, specie nel Mezzogiorno, generino benefici a cascata. Ogni giorno percorrono lo stretto vicolo tra le seicento e le ottocento persone che attendono il loro turno per mangiare la pizza. Si dice che se Franco Pepe si candidasse Sindaco di Caiazzo prenderebbe tutti i voti dei 137 cittadini, perché, in questo posto dimenticato da Dio, Pepe ci è nato e ha deciso di non andarsene mai. Anzi, di raddoppiare la sua scommessa. Franco Pepe, ex professore di educazione fisica e figlio d’arte (il nonno e il padre sono stati pizzaioli nella piazza principale del paese), è cresciuto attaccato alle corde dei grembiuli dei suoi genitori e dentro il profumo del lievito impastato. Nel 2012 si allontana dalla pizzeria di famiglia – che ancora oggi è gestita dai fratelli – per aprire un locale in cui si potesse sviluppare la sua idea di pizza contemporanea («non chiamatela gourmet, per favore!»). In una parte degradata del borgo trova un palazzo del Settecento, si fa prestare i soldi per comprarlo e ristrutturarlo e, con la caparbietà che appartiene solo a chi è mosso da grandi ideali, apre il suo Pepe in Grani. Il ristoratore ricorda che all’epoca tutti gli davano del pazzo, perché lasciava un’attività avviata per una sfida imprenditoriale difficilmente definibile. E poi si era nel pieno della crisi economica e nel mezzo dello scandalo della terra dei fuochi. «Era un rudere quando l’ho comprato», ricorda Pepe, «avevo i soldi contati e quindi dovevo concentrare i lavori in sei mesi. Di giorno seguivo il cantiere, la sera lavoravo nella pizzeria di famiglia. Quando finivo, a mezzanotte facevo un salto nel palazzo e al buio immaginavo i camerieri al lavoro». Ma Pepe non molla e oggi gli attestati di stima lo ripagano di tutti i sacrifici fatti. Perché i riconoscimenti sono arrivati, numerosi e importanti. La Guida delle pizzerie del Gambero Rosso gli decreta tre spicchi (massimo risultato); AIMA, la Scuola internazionale della cucina italiana, gli conferisce la targa per Maestro d’Arte e Mestiere per il valore intrinseco del suo percorso culturale; gli organizzatori di 50 Top Pizza lo fanno salire per tre anni consecutivi sul gradino più alto della classifica. E nel 2019 il Capo dello Stato Sergio Mattarella, per il suo ruolo di ambasciatore della dieta mediterranea, lo nomina Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica. Ormai Franco Pepe ha abbandonato l’umile status dello scugnizzo campano cui siamo stati abituati per anni pensando al pizzaiolo napoletano. Oggi il suo locale è comparabile ai ristoranti più blasonati, non avendo nulla da invidiare agli chef stellati. L’eccellenza della sua cucina è testimoniata da una sala per VIP (l’Authentica), dove c’è un tavolo a ferro di cavallo per otto persone, che interfaccia un banco di lavoro di marmo e un forno dove, insieme a Franco, i commensali possono vivere un’esperienza immersiva con il pizzaiolo. Per un conto che può superare anche i 100 euro a persona, gli ospiti vivono un’unicità irripetibile, perché Pepe in quel contesto crea ricette pensate solo per quella serata, spicchi mai messi in carta prima di allora. E in questa sala 138 vengono organizzate serate speciali, in cui importanti chef dell’empireo stellati (tra gli altri Gennaro Esposito, don Alfonso Iaccarino, Pino Cuttaia, Andrea Berton, Chicco Cerea, Heinz Beck) preparano e condividono con il pizzaiolo cene particolari. Ma sarebbe sbagliato pensare che il titolare di Pepe in Grani posizioni la sua offerta solo per clienti elitari, in abbinamenti costosi con bollicine e champagne. Il menu principale è composto da undici pizze tutte originali, tra cui la celebre Margherita Sbagliata, summa della sua filosofia, dove il protagonista è il pomodoro riccio del territorio, oppure la Ritrovata, con acciughe di Cetara e pomodoro di San Marzano, o la Crisommola del Vesuvio, una pizza dolce con confettura di albicocche e nocciole tostate. Tutto in equilibrio fra tradizione e innovazione. E in carta infatti c’è anche una pizza a libretto da 1,50 euro (una piccola margherita ripiegata in quattro per farla restare al caldo). «La vendo a 1,50 euro perché voglio ricordare che la pizza è il cibo del popolo. La compra la gente del vicolo, i ragazzi o qualcuno che se la mangia mentre aspetta di entrare.» Franco Pepe dedica il suo successo a chi da sempre ha creduto in lui, ai suoi cinquanta collaboratori che ogni giorno lo accompagnano nel locale e lo sostengono in ciò che fa. «E che non si sentono mai di aver raggiunto il traguardo, essendo anche loro – come me – rosi dall’inquietudine». Nonostante le numerose offerte di collaborazione ricevute e le opportunità di aprire succursali in altre città, Franco rimane legato al suo paese e al suo Mezzogiorno. È lì che pensa di scrivere nuovi piatti con la speranza che diventino sapienza collettiva e nuova tradizione. D’altra parte una tradizione non è nient’altro che un’innovazione riuscita. E la missione di Pepe è quella di costruire nuove memorie. 139 40 Dalla crisi si può uscire Diadora, Caerano San Marco (Treviso) È possibile competere nel mondo dello sport con colossi globali come Nike e Adidas? Se si trovano nicchie di eccellenza e si punta sul gusto italiano, ce la si può fare e anche molto bene, pur se con dimensioni più piccole. Questa è una storia di passione e di tradizioni, di sogni e di traguardi sempre nuovi. Nel distretto delle calzature di Montebelluna – dove i paesi portano ancora i segni dei sacrari, delle trincee e dei cannoni della Grande Guerra – e più precisamente a Caerano San Marco, in provincia di Treviso, la tradizione sa di valori forti come gli scarponi da montagna e da lavoro, che sono stati il prodotto per il quale nel 1948 è stata fondata la Diadora. L’azienda rappresenta il classico modo di fare lavoro e ricchezza nel Veneto della seconda metà del Novecento: una crescita rapida negli anni Sessanta e poi la conversione al mondo dello sport. Da allora Diadora è protagonista indiscussa nel tennis, nel calcio, nell’atletica e poi in tempi più recenti anche nel ciclismo, nel basket, nell’automobilismo, nel motociclismo e in altri ambiti agonistici. Un segnalibro ricorrente nelle pagine più belle della storia del saper fare italiano nel mondo dello sport: come non ricordare le scarpette di Baggio che sbaglia il rigore alla finale di USA 94 o quelle di Totti campione del mondo a Berlino 2006 oppure quelle di Borg che schiacciano il tappeto erboso di Wimbledon o le sneaker di Ayrton Senna o quelle di Mennea sulla pista olimpica di Mosca nel 1980 o, ancora, quelle di Gelindo Bordin oro olimpico alla maratona di Seul nel 1988? Tuttavia, dopo questo passato di celebrità, nel 2008 Diadora incappa in una grave crisi e nel 2009 finisce in mano a un curatore fallimentare. La soluzione viene trovata dalla famiglia Moretti Polegato e il giovane Enrico, ventinovenne appena sposato, decide di fare dell’impresa 140 trevigiana la sua sfida personale. Enrico, appena laureatosi in Giurisprudenza, si sta indirizzando alla carriera di avvocato, non è del tutto estraneo all’atmosfera imprenditoriale, in quanto figlio di Mario Moretti Polegato, fondatore della GEOX, ma – come molti dei rampolli degli imprenditori brillanti (e un po’ ingombranti) del Nord-Est – vuole smarcarsi dall’azienda del padre e non coabitare imprenditorialmente con il genitore. «Non volevo rimanere alla GEOX a fare il figlio del padrone. E allora ho delocalizzato me stesso», racconta di quegli anni. Da allora Enrico lascia l’avvocatura e diventa presidente della nuova avventura, pilotando l’azienda verso uno sviluppo da vero turnaround. Oggi Diadora fattura circa 200 milioni di euro – più del doppio rispetto al 2012 – e ha indicatori di redditività estremamente positivi. Il giovane patron così sintetizza le tre ragioni per l’acquisizione dell’azienda di Caerano San Marco: 1) il percorso nel business dello sport di Diadora era uno dei più solidi e credibili tra quelli delle imprese italiani; 2) il marchio, nonostante le sfortunate vicissitudini congiunturali, era ancora pulito, non intaccato e riconoscibile; 3) la possibilità di cimentarsi autonomamente in un’opportunità di business in prima persona, con un proprio progetto e una propria squadra di management. Ora Diadora è presente in 60 Paesi del mondo con una forte penetrazione negli USA grazie alla linea running. Divide il suo fatturato in 80 per cento calzature e 20 per cento abbigliamento, e vanta una crescita continua nell’e-commerce. Nella linea Utility (calzatura e abbigliamento da lavoro) è addirittura leader di mercato. Conta su un team giovane, con età media di 37 anni, e una cultura organizzativa di gruppo, con grande attenzione al welfare dei collaboratori (tra il resto, un asilo nido, una palestra e un campo di beach volley) per rendere migliore il loro bilanciamento tra vita personale e vita professionale. Sta inoltre riportando in Italia parte delle produzioni che erano state localizzate all’estero. Un segno della leadership del nuovo giovane presidente è stato quello di recuperare una linea di prodotto vintage, elevando ed esaltando i pezzi iconici che erano stati disegnati all’inizio del Duemila, con l’aggiunta di dettagli di innovazione contemporanea che vanno dal materiale alle suole. Il tocco del design italiano lo si nota nei nuovi modelli delle linee sport e lifestyle, dove la reinterpretazione esclusiva prende ispirazione dalla tradizione salentina dell’antica arte delle luminarie. E questa archive-innovation è consentita anche dal riuso dei macchinari anni Ottanta che rimarcano la linea originale: «Lo si può definire lo Slow Food della calzatura»¸ dice Moretti Polegato, riferendosi a una 141 produzione di artigiani professionisti che fanno 160 pezzi al giorno. «Numeri da industria “1.0”, ma che ci aiutano a offrire prodotti di alta gamma molto apprezzati da un pubblico d’élite.» In molte importanti discipline sportive oggi Diadora è presente con i propri prodotti ed è ufficialmente rientrata anche nel mondo del tennis, con una collezione completa di abbigliamento, calzature e accessori e con il ritorno del classico logo a cinque palle. Non ci sono più i testimonial di una volta ma, attraverso social e influencer, il brand è sospinto da personaggi coerenti con i valori sportivi ma anche con l’autenticità artigianale del Made in Italy. Anche nel mondo delle arti e della musica, grazie a iniziative scelte personalmente dal presidente. Normale che un’azienda così faccia gola all’ambiente degli investitori e dei private equiter. Ma Enrico Moretti Polegato su questo è fermo: «L’azienda si autofinanzia ed è in grado di generare cassa. E resterà un affare di famiglia. Né soci, né fondi. Resterò al timone a lungo». 142 41 Aprite i rubinetti: la classe non è acqua Nobili Rubinetterie, Suno (Novara) Sembra una barzelletta con il giapponese, il tedesco e l’italiano. Con la differenza che qui l’italiano non è il solito guascone furbo e opportunista. No, in questo caso l’italiano è colui che con perizia riesce a combinare la produttività efficientistica tedesca con l’innovazione della robotica giapponese e a realizzare un capolavoro di manifattura Made in Italy. Una miscela ideale per segnare un’impresa all’avanguardia di assoluto livello. Stiamo parlando di Alberto Nobili, presidente della Nobili Rubinetterie, oggi alla testa con il fratello Pierluigi di una delle più rilevanti aziende del distretto industriale che caratterizza la zona tra il lago d’Orta e la Valsesia. Campione nell’export europeo dei rubinetti di alta gamma per bagni e cucine, alla Nobili tutto è inodore, silenzioso e pulito, anche nei reparti tradizionalmente più inquinanti, come la fonderia e la cromatura. «Si potrebbe anche mangiare per terra», sostiene il presidente. Ed è vero perché i prodotti vengono sabbiati, tagliati, smistati, assemblati e impacchettati da robot provenienti dal Giappone (ma perfezionati dal talento ingegneristico del titolare). «Giro costantemente tutte le fiere delle macchine utensili e visito gli stabilimenti dei concorrenti e degli altri settori, per prendere ispirazioni da incorporare poi nelle nostre linee di produzione automatizzate.» La lavorazione delle barre che portano al prodotto finito è controllata da un sistema elettronico integrato, che dirige con precisione millimetrica i movimenti e le funzioni delle macchine. Il tutto in modo autonomo, senza l’intervento continuo di operatori umani. Il segreto della Nobili è quello di non aver creduto alla fine del Novecento alla sirena della delocalizzazione verso i paesi a più basso costo del lavoro (Est Europa e in particolare Cina) e avere invece concentrato la produzione tutta in Italia con coraggio e testardaggine, 143 anche quando i consulenti di strategia sconsigliavano questa mossa. Ovviamente una scelta di questo tipo poteva essere accompagnata solo da ingenti investimenti in automazione e robotica applicata. E infatti la Nobili spende ogni anno intorno al 10 per cento del fatturato in rinnovo del proprio macchinario e in ricerca e sviluppo. Oggi che in Asia il costo del lavoro è invece velocemente in crescita, la decisione di Alberto Nobili sembra pagare: mentre i concorrenti cinesi (locali o di ibridazione italiana), progettati per le grandi serie, sono obbligati a riconvertire i loro impianti verso una maggiore meccanizzazione, che però è molto costosa perché deve essere fatta tutta in un botto, l’azienda novarese può permettersi di realizzare prodotti sempre più di alta gamma e a lotti sempre più piccoli e customizzati. La Nobili nasce nel 1954 quando Carlo Nobili dà vita al suo sogno imprenditoriale, allora meramente commerciale, distribuendo rubinetti di qualità dal sito di Borgomanero, in provincia di Novara. Alla fine degli anni Novanta, i figli Alberto e Pierluigi assumono la guida dell’azienda che nel frattempo è diventata anche produttiva con la fabbrica di Suno, e lanciano così il Gruppo nel segmento alto contrassegnato dall’estetica dell’interior design. Seguono acquisizioni importanti come la CGS e la Rubinetteria Stella, che rappresentano il sinonimo di lusso e di artigianalità italiana. La produzione raggiunge oggi circa tre milioni di rubinetti all’anno per un fatturato complessivo di circa 120 milioni di euro, consentendo una redditività di tutto rispetto, superiore al 10 per cento dei ricavi. È la sola azienda in Europa del comparto a disporre del ciclo completo in un unico sito, a seguito del recente avvio del reparto fusione. Scelte imprenditoriali, dicevamo, coraggiose e controtendenza, nella convinzione che il mondo Nobili sia un mondo dove la macchina è al servizio della persona, della sua qualità della vita e del rispetto in generale per l’ambiente. Spesso i due titolari si ritrovano con i loro impiegati e operai in mensa, che è un vero e proprio ristorante à la carte. E non è raro vedere il presidente Alberto che nella prima ora mattutina alterna nel suo ufficio di stabilimento la lettura dei giornali con il ricevimento dei collaboratori che bussano alla porta per interloquire e affrontare con lui i problemi professionali ed extraprofessionali che li assillano. Duecentoquaranta dipendenti, tutti molto orgogliosi di lavorare nel Gruppo di Suno. «Neanche un’ora di cassa integrazione, né di sciopero», sostengono fieri i proprietari dell’impresa. Un vecchio adagio sostiene che «la classe non è acqua». Niente di più fuorviante in questo caso dove l’eccellenza coincide proprio con la 144 trasmissione del liquido. A dimostrazione che il Made in Italy non è prerogativa solo di moda, arredamento e agroalimentare, bensì può essere materia prima anche nella manifattura più tradizionale. Una visita alla Nobili Rubinetterie e una passeggiata per i suoi reparti di fabbrica dovrebbero essere prescritte alle scuole e a tutti coloro che sono alla ricerca di tangibili segnali di riscatto imprenditoriale in questa nostra Italia scombinata. Un ricostituente per chi ancora spera che non tutte le sfide del Bel Paese siano andate definitivamente perdute. 145 42 Il network dei dentisti high tech Gruppo EDN, Firenze Se è raro trovare medici che si occupano di denaro e investimenti, rarissimo è che in questa categoria professionale alberghino dei veri gestori aziendali. Il caso di EDN, Excellence Dental Network, è pertanto una storia fuori dal comune: il capo di questa impresa, il dottor Francesco Martelli, natìo di Torre di Ruggiero in provincia di Catanzaro ma cresciuto culturalmente e professionalmente a Firenze, è contemporaneamente un clinico, un ricercatore accademico e un imprenditore. Il tutto si origina alla fine del secolo scorso. Martelli è un odontoiatra 4.0 ante litteram che crede nella sinergia fra tecnologie complesse e conoscenze scientifiche avanzate, per creare terapie fortemente innovative e personalizzate con cui curare la parodontite (infezione batterica polimicrobica molto diffusa che causa una infiammazione cronica dei tessuti preposti a sostegno dei denti, più diffusamente nota come piorrea). Egli realizza che gli interventi chirurgici hanno spesso effetti peggiorativi sui pazienti o li espongono a rischio concreto di recidiva. Così appronta un suo sistema non invasivo che utilizza in modo integrato metodi innovativi, quali il laser, il microscopio e le analisi biomolecolari. È il successo. Nasce a Firenze l’Istituto Clinico che si occupa di ricerca e formazione (dove ora c’è il quartier generale del brand EDN) e piano piano vengono progettate e aperte sul territorio nazionale delle master clinics e delle strutture minori, in una logica di partnership con medici locali. In pochi anni la sede di Firenze si allarga in rete a Roma, Torino, Padova, Milano, Bari, Catanzaro e Napoli fino ad arrivare a undici cliniche e a venti corner decentrati. «Si trattava di invertire il flusso del cosiddetto turismo medico, che vedeva soprattutto gli italiani andare all’estero o i meridionali andare al nord per curarsi», 146 dice Martelli, oggi presidente di EDN. Le mete più gettonate erano Croazia, Romania, Ungheria, spesso per sottoporsi alle cure di odontoiatri a prezzi stracciati, raramente con garanzia di serietà. Proprio per non subire inerti questo esodo, EDN stringe un network professionale decentrato che consente ai pazienti di trovare vicino a casa le stesse esperienze terapeutiche di eccellenza fruibili nelle cliniche principali. L’idea di una rete di centri odontoiatrici viene a Francesco Martelli quando conosce il primo franchising per dentisti in Spagna, Vitaldent. «Stava succedendo ciò che per i centri commerciali e la grande distribuzione era avvenuto negli USA negli anni Sessanta e Settanta. Forti economie di scala e possibilità di utilizzare le medesime strategie di marketing e promozione. Certo, di fronte a queste innovazioni, molti colleghi medici snobbavano la tendenza, quando non erano preoccupati per una supposta cannibalizzazione della clientela. Ma la logica dei grandi investimenti in tecnologia e di costruzione di protocolli costosi ma innovativi spingeva per la crescita e per l’aggregazione di piccole realtà troppo frammentate.» La EDN non scende però sul terreno del low cost, bensì mette al centro del servizio erogato la qualità puntando sui nuovi strumenti e sulle diagnosi sofisticate e personalizzate, che provengono dal suo istituto di ricerca e dal know-how consolidato all’interno. E disegna una struttura di partnership con i medici che non ha valenza gerarchica, bensì una condizione di condivisione paritetica di buone pratiche aziendali. Il tutto con autofinanziamento e con un piccolo aiuto di investitori esterni, che consentono di impostare e realizzare anche un processo di internazionalizzazione che, con il marchio IMI (International Microdentistry Institute), parte dal Regno Unito e si espande in Danimarca e Grecia, esportando il modello di business italiano in altri mercati europei. Oggi che il fatturato aggregato è intorno ai 15 milioni di euro c’è ancora un grande potenziale di crescita, a sottolineare i fattori di successo della formazione e dello sviluppo professionale dei partner che via via vanno ad aggiungersi. Le aree di sviluppo professionale ad alto potenziale sono il Brasile, gli Stati Uniti e la Cina, mentre il caso più prestigioso del Gruppo è quello della clinica fuoriclasse di Leeds, nello Yorkshire, la zona che dopo Londra ha il maggiore tasso di crescita economica del Regno Unito. «Per i processi e i sistemi che abbiamo messo in atto, siamo strutturati come un’azienda che fattura 100 milioni di euro», azzarda il presidente, 147 che ormai guida il suo impero facendosi aiutare da un consiglio di amministrazione dalla governance esperta. Un medico ormai di fama internazionale: il Daily Mail, quotidiano letto da tre milioni e mezzo di inglesi, ha riconosciuto nel 2016 con un’intera pagina e un servizio molto approfondito, che il trattamento della malattia paradontale di EDN, biologicamente guidato con microscopio e laser, rappresenta un vero miracolo della cura odontoiatrica. E così il luminare Francesco Martelli ha anche acquisito il titolo di professionista più stimato di Inghilterra (indice di notorietà 17), strappandolo a un altro italiano, il salernitano Antonio Carluccio, reputatissimo chef proprietario di ristoranti e alberghi nel Regno Unito (indice di notorietà 16). Il segreto dell’autodidatta imprenditore? «Non ho ricevuto nessun aiuto. Sono figlio di impiegati statali del profondo Sud. Ho sempre lavorato il doppio. Non mollo mai e non mi conformo al pensiero dominante.» E il caso del network nato all’ombra della cupola del Brunelleschi è la prova che il nostro Paese ha ancora tante carte da giocare, specialmente se la strada della ricerca applicata viene percorsa con determinazione, rigore e tanta passione. 148 43 Quanti business nell’alambicco Distilleria Marzadro, Nogaredo (Trento) «Dammi una Marzadro!», dicevano i contadini di ritorno dal lavoro nei campi, entrando nel bar del paese di Brancolino, in Trentino. Erano gli anni del secondo dopoguerra e fino ad allora non era mai successo che un’acquavite fosse chiamata con il nome di una famiglia. Perché Marzadro era il cognome di Sabina e di Attilio, che nel 1949 avevano fondato appunto la Distilleria Marzadro in un borgo di non più di trecento abitanti, tutti cresciuti con il profumo della vinaccia e con il gusto di distillare nei propri alambicchi la grappa per conservare la frutta. A dire il vero la fondatrice fu Sabina che, in un periodo storico in cui la povertà non lasciava scampo, era stata costretta per dodici anni ad andare «a servizio» in una casa di signori romani e poi, con il sogno nel grembiule, era tornata a casa con la ferma intenzione di cambiar vita e aveva convinto il fratello contadino Attilio a lanciare una distilleria nel paese natìo. Sabina all’amministrazione e Attilio a fare le consegne a Rovereto e dintorni in sella a una Moto Guzzi col sidecar colmo di bottiglie: una scena di un film in bianco e nero, racconto di un’epoca remota tipica della prima industrializzazione italiana. Da allora sono passati oltre settant’anni e molte svolte si sono succedute nella vita dell’azienda: fasi di sviluppo ma anche fasi critiche, dove l’eccessiva sovrapproduzione da parte delle imprese di distillati ha quasi messo in ginocchio la commercializzazione della grappa, scesa negli anni Ottanta ai minimi storici. La Marzadro però ha sempre reagito alle battute d’arresto con un rilancio basato sull’innovazione: all’inizio con un prodotto monovitigno, frutto delle vinacce di Marzemino; poi con le grappe aromatizzate e le infusioni alla frutta (mirtillo) e alle erbe alpine (asperula, ortica, ginepro, ruta); successivamente con gli invecchiamenti in botti di diversi legni pregiati. Nel frattempo l’azienda, 149 precedentemente suddivisa su tre siti produttivi, si concentrava all’inizio del 2000 con una grande distilleria localizzata all’uscita del casello autostradale di Rovereto Nord e l’apertura di un punto di degustazione con una suggestiva sala degli alambicchi, dove si potevano cogliere i segreti del distillato. Quella localizzazione, dove oggi si fermano più di 60.000 turisti all’anno, ha fatto maturare agli azionisti della Marzadro la consapevolezza che il consumo del liquore va a braccetto con la crescita del turismo alpino e, grazie a ciò, si è sviluppata una distribuzione capillare dalle Dolomiti fino alla Valle d’Aosta. Oggi Marzadro fa più di un milione e mezzo di bottiglie raggiungendo con i suoi prodotti di alta gamma un fatturato ogni anno in crescita e superiore ai 20 milioni di euro, con un EBITDA che si aggira sul 15 per cento e una penetrazione all’estero del 20 per cento del volume di affari, con in testa Germania, Austria e Svizzera. Dai primi anni di questo secolo il brand di punta è la grappa Le Diciotto Lune, ottenuta da cinque vinacce trentine (Marzemino, Teroldego, Merlot, Moscato e Chardonney), con invecchiamento aggiuntivo di 18 mesi. Ma il catalogo è ampio ed è basato anche su Giare, linea di prodotto invecchiato 36 mesi, Espressioni da 4 a 6 anni e, ultimamente, Infusioni e Luz Gin, destinati a un target più giovane che ama la mixology e il cocktail bar. L’innovazione, dicevamo, è continua e negli ultimi anni la tecnica di microssigenazione ha sperimentato un invecchiamento in anfore di terracotta che respirano anche meglio del legno. E da questo esperimento quasi estremo è nata una nuova gamma, chiamata ovviamente Anfora. Alla testa del Gruppo c’è il figlio di Attilio, il presidente Stefano Marzadro, che più di ogni altro ha incarnato lo sviluppo dell’impresa. Ma scalpita la terza generazione, perché in famiglia ci sono 43 persone, tra fratelli, nipoti e pronipoti. E non manca mamma Teresa, moglie di Attilio, che ultranovantenne è ancora attiva in distilleria con stimoli e validi consigli. Come spesso accade con il processo di successione generazionale, i giovani azionisti hanno cercato di guardare oltre la grappa ed è arrivata una saggia diversificazione del business. Accanto al vino e all’olio DOP, la famiglia ha acquistato la tenuta Madonna delle Vittorie ad Arco, sulla sponda nord del lago di Garda. E sono state fatte delle incursioni nell’attività agrituristica e nella cucina specializzata nei menu tipici del Trentino. Alessandro, dell’ultima generazione, dice: «Dalla prozia Sabina e dal nonno Attilio abbiamo ereditato una grande cultura; poi mio padre 150 Stefano e i miei zii hanno segnato importanti traguardi. Adesso quelli della mia età stanno impegnandosi per “amalgamare” ciò che è stato fatto sino ad oggi». E il tutto sempre con un occhio al territorio perché, continua Alessandro, «almeno la metà degli abitanti di Brancolino ha lavorato nella distilleria e ora cerchiamo di restituire il debito che abbiamo con la collettività locale dando una mano concreta alle associazioni che hanno bisogno». 151 44 Nella catena di montaggio delle idee e-Novia, Milano In una Paese dove la retorica «startuppara» non ha prodotto poi così tante partenze giuste, il caso di e-Novia si distingue come modello innovativo di successo, con la sua avanzata a doppia cifra negli anni recenti. Non è un incubatore né un acceleratore di microaziende. Loro si definiscono «fabbrica di imprese» e in effetti funzionano come una «catena di montaggio»: trasformano ricerca in prodotti, ricercatori in imprenditori, startup in imprese finite. Una cultura di ciminiere nel mondo del digitale. E il successo è stato talmente violento che il Financial Times ha collocato e-Novia per due volte nel 2018 e nel 2019 tra le mille società europee cresciute più velocemente. La differenza rispetto alla formula del garage californiano sta nella forte attenzione alla struttura. Il CEO, Vincenzo Russi, una carriera nell’ICT tra l’Olivetti di Ivrea e la Silicon Valley, racconta che l’azienda si muove con finanziamenti mirati, secondo regole da rispettare al millesimo, con una selezione molto rigorosa delle competenze. Sono oltre trenta le iniziative imprenditoriali che hanno trovato nel Gruppo le risorse economiche e figure professionali per decollare e più di quaranta i brevetti internazionali depositati. Nel quartier generale di via San Martino nel centro di Milano lavorano più di 190 ingegneri, designer ed esperti di settore (il 65 per cento è under 30), che superano le 250 unità se consideriamo tutte le imprese controllate e partecipate. Decisiva la formazione: uno su quattro possiede un dottorato. Il business di e-Novia è quello di promuovere società innovative, lavorando a stretto contatto con centri di ricerca universitari italiani e internazionali specializzati in robotica, sistemi veicolari, meccatronica e tecnologie industriali. 152 Fondata nel 2015, nel 2021 e-Novia vantava un bilancio che recitava una crescita dell’EBITDA a due cifre, così come dell’utile netto, in aumento allora per il sesto anno consecutivo. Ed è salita anche la presenza degli investitori, e l’approdo in Borsa resta nell’orizzonte dei possibili sviluppi. Ai soci fondatori Vincenzo Russi, Cristiano Spelta, Ivo Boniolo e Sergio Savaresi si è aggiunta una ricca compagine di imprenditori, tra cui Sergio Dompè dell’omonima azienda farmaceutica, Alberto Bombassei di Brembo, Michele Scannavini, Carolina Cortellini, Uggero de Miranda, Giovanni Fassi, Pasquale Forte, Aldo Bonomi delle Rubinetterie Bresciane, Marco Checchi della Pelliconi, Marco Monti di Esprinet. I progetti che hanno avuto più fortuna sono: Yape, un postino automatizzato di ridotte dimensioni su due ruote, che l’operatore giapponese Japan Post ha testato per la consegna dell’ultimo miglio a Fukushima e che l’aeroporto di Francoforte ha recentemente utilizzato per accompagnare i viaggiatori al gate; BluBrake, un impianto frenante per le biciclette elettriche dotate di sistema antibloccaggio ABS; HiRide, sospensioni capaci di adattare la rigidità dell’assetto delle due ruote in modo dinamico; e altri ancora, come sistemi per car sharing, suole per calzature ammortizzate, droni capaci di stare in volo senza scaricarsi, anelli che percepiscono sensazioni tattili. C’è volontà in e-Novia, dopo la sede di San Francisco, di aprire sedi in Giappone e in Israele, perché lì apprezzerebbero i tre principali punti di forza di questa avventura, unica nel panorama industriale italiano: 1) un modello di business che coniuga alta tecnologia e saper fare manufatturiero del Made in Italy; 2) la capacità di generare non solo imprese ma soprattutto nuovi giovani imprenditori con la possibilità di realizzare i loro progetti di alto valore potenziale; 3) la qualità della governance che risiede nelle persone che hanno dato vita a questa azienda e che credono che la scienza applicata possa essere competitiva non solo al di là dell’Atlantico ma anche all’interno dello Stivale. 153 45 Il signore dell’alluminio Pentole Agnelli, Bergamo Bergamo, Italia, via Fantoni. Siamo nel 1907. L’insegna recita: «Fabbrica di Alluminio Baldassare Agnelli». È da qui che parte la storia del Gruppo Agnelli (nessuna parentela con la dinastia di Torino): oggi 150 milioni di fatturato, 350 dipendenti, 13 stabilimenti. Un triangolo geografico tra Lallio, Brescia e la Val Chiavenna, nel profondo Nord dove i capannoni si rincorrono. Il giovane Baldassare (una sola erre), apprendista cesellatore orafo, viene inviato dai genitori nel lontano 1905 a uno stage in Montenegro dove il ragazzo vuole approfondire l’arte dell’Islam e degli artigiani arabi. Là scopre invece un metallo nuovo, l’alluminio, che sarebbe diventato il protagonista dell’industria di famiglia. La storia dell’impresa viaggia parallela alla storia del Paese, con un unico preciso obiettivo strategico: crescere di dimensione. C’è la prima guerra, poi la seconda e anche la guerra d’Africa. Obbligatorio nei momenti bellici cedere le pentole per fondere l’ottone e fabbricare i proiettili, e così il rame viene requisito con le pentole prodotte dalle aziende. Come fare con le pignatte delle famiglie? Nasce l’idea di utilizzare l’alluminio, che conduce meglio degli altri metalli, e le case degli italiani si riempiono di casseruole d’alluminio della ditta Agnelli. Si affronta la concorrenza puntando sempre più sulla qualità dei prodotti e anche il contraccolpo delle pentole di acciaio inossidabile (sospinte dallo status symbol americano di manufatto simbolo di ricchezza e di agiatezza) viene rintuzzato dal nonno orafo e da suo figlio Angelo, rilanciando ostinatamente con l’alluminio. Quello infatti è il metallo nato con la modernità e le sue potenzialità sono tutte da scoprire. Alcuni prodotti iconici di allora sono oggi visibili al Museo della pentola a Rozzano, visitabile su appuntamento. Si può scorgere uno 154 spremiagrumi fatto per l’Andrea Doria con lo spicchio di limone che viene stritolato tra due mezzelune di metallo ottonato. Oppure la borraccia Agnelli che Bartali e Coppi si scambiano su una salita del Giro d’Italia. O, ancora, la pentola Quadrifoglio del 1936 per cuocere quattro piatti diversi con lo stesso gas («costo 60 lire – cuoce un pranzo completo per 6 persone su una sola fiamma», si legge nella réclame). Baldassare diventa negli anni tra le due guerre uno dei più giovani Cavalieri del Regno e mette le premesse per fabbricare, accanto alle pentole, alcuni altri componenti industriali. L’alluminio è ormai una fede, un must. E nel secondo dopoguerra si apre appunto lo scenario del «non solo pentole» con la produzione e la commercializzazione di tramogge delle caldaie, tubi, componenti per l’automotive e altri manufatti diversificati. Nascono nuove società che sviluppano nuovi comparti: le Trafilerie Alexia con grandi impianti automatizzati che fanno uscire semilavorati adatti a tutti gli standard europei; Alucoln per la finitura dei beni di ossidazione anodica; Alugreen che ricicla i vari rottami metallici recuperati in tutto il mondo e consente così alle aziende Agnelli di essere indipendenti dalle multinazionali che dispensano l’alluminio; Aluproject, per i progetti speciali. Oggigiorno queste applicazioni sono infinite in tutti i settori e la Agnelli Metalli sorpassa di gran lunga la Agnelli Pentole. Ma il Gruppo industriale di famiglia non dimentica il suo prodotto di origine e addirittura apre uno showroom sulla Fifth Avenue di Manhattan dove si insegna agli americani a cucinare nelle casseruole italiane. Paolo Agnelli, attuale presidente, e il fratello Baldassare rappresentano la terza generazione e sono oggi pronti a passare il bastone del comando ai loro figli (Cristiano ed Enrico, da parte di Paolo, e Angelo, da parte di Baldassare), tramandando loro insieme il monito di nonno Angelo: «siate sempre uniti, sempre, sempre, sempre uniti». E l’unità familiare viene rispettata anche con la prassi secondo cui non si deve mai incassare il dividendo di fine anno e indirizzare invece la redditività alla crescita del patrimonio aziendale. Il DNA dell’alluminio è il collante che cementa la famiglia: «noi abbiamo passato l’infanzia frequentando lo stabilimento e togliendo il filo dal bordo delle pentole. Chi nasce in fabbrica è fabbrica», racconta Paolo Agnelli. Il giovanissimo Angelo, creativo di casa, si è inventato anche l’hashtag #nontoccatemilapadella, un movimento che ha addirittura coalizzato un collettivo con i migliori chef del pantheon padellare. «La padella è il sintomo della sapienza in cucina e insieme della cultura e dell’agire del cuoco in armonia con il cibo.» È un 155 manifesto contro l’avanzata delle cotture molecolari e dei microonde. Una padella anti-gender, per intenderci. E il successo si celebra a Bergamo con i dati: un milione di pentole all’anno; 75 per cento del mercato italiano di fascia alta e 30 per cento di quello mondiale, con il tutto esaurito per chef e aspiranti chef. Visti i risultati, la coesione della famiglia e la sua dinamicità, non sembra il caso di fare la canonica domanda: che cosa di nuovo bolle in pentola? 156 46 E se vendessi l’azienda ai dipendenti? Ar.pa Lieviti, Ozzano dell’Emilia (Bologna) C’è un modo originale e poco frequente di risolvere il complesso processo di successione imprenditoriale, specie se l’azienda è di successo e l’età avanzata del fondatore suggerisce di portare a termine il passaggio in tempi non biblici: cedere l’impresa ai propri dipendenti. È ciò che è successo nel 2019 alla Ar.pa Lieviti di Ozzano Emilia, in provincia di Bologna, dove l’allora 78enne Paolo Fantazzini, non convinto delle trattative di vendita dell’azienda a terzi, ha proposto ai venti operai e impiegati dipendenti di prendersene carico come imprenditori. La proposta è stata accolta favorevolmente da un gruppo di costoro, che ha rilevato Ar.pa, con l’accordo di pagare il prezzo di acquisto con gli utili aziendali che si sarebbero accumulati nei successivi dieci anni («ma speriamo di meno!», sorride l’attuale presidente Carla Gherardi). Ma andiamo con ordine. Tutto nasce in un negozio alimentare di Pianoro, dove i lieviti per cibi salati e dolci vengono fabbricati e impacchettati in bustina. Nel 1972 i fratelli Arcangelo e Paolo Fantazzini (dalle cui iniziali si origina Ar.pa) comprano l’attività coronando il loro sogno imprenditoriale e la trasferiscono a Ozzano, incrementando man mano la gamma di prodotti con preparati per crema, budini e panna cotta. I lieviti sono composti da materie prime selezionate e riconosciute con uno standard altamente qualitativo. Con il furgoncino si visitano le panetterie e le pasticcerie in loco, in una logica di tentata vendita. Seguono acquisizioni di marchi più piccoli e gli affari vanno a gonfie vele per decenni. Il mercato è inizialmente quello Horeca dei laboratori, ma poi si riesce a penetrare anche nella GDO locale, con i maggiori supermercati in Emilia, Lombardia e Veneto. L’azienda macina utili (nel 2021 un margine lordo del +25 per cento) e, in assenza di indebitamento, si accumula un’ingente liquidità. 157 Si arriva così alla fine del 2018 con la cessione ai dipendenti. «All’inizio eravamo galvanizzati», dice ancora la presidente Gherardi, «invece di perdere il lavoro perché l’azienda avrebbe potuto chiudere in assenza di un imprenditore audace, i dipendenti che avevano raccolto la sfida (sei tra i più coinvolti managerialmente) erano convinti che l’azienda fosse di successo, finanziariamente sana e con grandi opportunità di crescita. Poi abbiamo anche realizzato quanto duro fosse fare gli imprenditori in questo Paese, ma che cosa avremmo potuto fare noi in alternativa alla nostra età di cinquantenni? E comunque questo lavoro ci appassiona e le nostre famiglie ci hanno sostenuto». Carla Gherardi è stata per più di trent’anni il braccio destro di Paolo Fantazzini e la sua competenza di responsabile amministrativa di Ar.pa l’ha di fatto incoronata al vertice della società. Ora socia di maggioranza, insieme a un altro collega e ad altri quattro soci hanno stretto un patto di ferro e hanno scommesso sulla crescita. «Abbiamo fatto il salto grosso», sostiene, «e abbiamo cercato di quasi raddoppiare il fatturato in tre anni, come recitava il nostro piano triennale». Le forti ambizioni di crescita si sono coniugate con il lancio di nuovi prodotti, con l’ammodernamento dei macchinari avvenuto grazie agli incentivi di Industria 4.0, con l’ottimizzazione della rete commerciale sostenuta da azioni di marketing e di comunicazione. Oggi Ar.pa ha circa 20 dipendenti e un fatturato a fine 2021 di 6 milioni di euro. Il Covid li ha colti di sorpresa con una domanda impazzita di lievito, divenuto dappertutto introvabile, costringendoli a quintuplicare la produzione da marzo a maggio di quell’anno e raggiungendo su alcuni prodotti anche il +900 per cento rispetto alla media dell’anno precedente. Ma la squadra ha retto bene. «Ci supportiamo a vicenda, ci confrontiamo spesso, c’è un rapporto di amicizia. E, ciò che più conta, siamo convergenti sulle prospettive di sviluppo: aspettative ambiziose, senza fare il passo più lungo della gamba.» E Paolo Fantazzini, ormai non più padrone e lieto di aver dato alla sua creatura una strada di continuità, ha continuato a collaborare e a dare consigli, perché chi ha lavorato cinquant’anni in quel settore conosce segreti troppo preziosi. 158 47 Quando ogni generazione aggiunge un pezzo in più Gruppo Pagano, Roma Quasi un secolo imprenditoriale imparentato col legno, quello della famiglia Pagano. Una cultura aziendale che prende spunto dagli anni Trenta, quando nonno Biagio, che abita sulla costiera amalfitana, fonda l’azienda che realizza carretti per portare la frutta, spingendosi anche fino alla costruzione dei gozzi di Cetara. L’artigianalità nel lavorare il legno è il punto di forza e questa eccellenza se la porta con sé anche il figlio Vincenzo, quando decide di trasferirsi a Roma e di dedicarsi al restauro di mobili dell’alta borghesia capitolina: negli anni Sessanta l’atelier Pagano è famoso in tutta Italia per la capacità di far rivivere pezzi unici reperiti nelle diverse dimore della città. Ma Vincenzo Pagano è un visionario e i mobili non gli bastano. L’amore per il materiale, unito alla creatività e alla consapevolezza di voler realizzare qualcosa di unico e irripetibile, stimolano il suo spirito di iniziativa. Con un po’ di coraggio, di passione e di follia egli incarna benissimo il miracolo economico di quegli anni e sviluppa un nuovo concetto di prodotto: il legno, lavorato secondo criteri di qualità, può caratterizzare un’intera casa. Ecco allora la predisposizione di chalet di legno, che l’imprenditore colloca in terreni acquistati alle porte di Roma, realizzando interi villaggi fatti tutti quanti con quel materiale. Il primo chalet firmato Pagano è a Roma nel 1959, seguito da un altro nel 1963 a Oricola in provincia de L’Aquila. Alla fine degli anni Sessanta si inaugura il primo vero impianto produttivo a Arsoli in provincia di Roma, che consente di produrre semilavorati, poi smontati in blocchi per essere trasportati e successivamente assemblati in loco. Gli anni Settanta e Ottanta sono la vera esplosione dell’azienda: si costruiscono ville, club house sportive, centri commerciali in Italia e poi 159 in tutte le parti del mondo. Caratteristica costante l’alta qualità del materiale e l’estetica Made in Italy, che si ispira ai più «puliti» architetti del pianeta come Wright e van der Rohe. Manufatti che interpretano al meglio tutta la sostenibilità e la salubrità della nuova edilizia. Il segmento di mercato è ormai quello del lusso e l’azienda Pagano inizia a consegnare i suoi prodotti a tycoon molto facoltosi e amanti dell’architettura di alta gamma. Ciliegia sulla torta del costruttore è la capacità di adattare le case alle caratteristiche del contesto e delle preferenze di chi ci abita. Questo tocco «sartoriale» consente all’impresa di sfondare in Svizzera, negli Hampton, in Russia, a Miami, in Giappone, dove vengono commissionate ville monofamiliari di migliaia di metri quadri (per l’ultima villa in Russia sono partiti dall’Italia 150 Tir di semilavorati e in quattro mesi è stata portata a termine la costruzione di una dimora di 6000 metri quadri con 2000 metri quadri incrementali di piscina, spa e sala cinematografica). Ora al governo dell’azienda ci sono i figli di Vincenzo, con Andrea Paco al timone nel ruolo di amministratore delegato. Tutte persone che hanno respirato fin da piccole il profumo di falegnameria e di segatura, e che ben ricordano il DNA di nonno Biagio e il suo mestiere di «facocco» di carretti e carrozze. A loro nel nuovo secolo il compito di rompere ulteriormente gli schemi e gli equilibri del passato per continuare la magica avventura del legno «su misura». Ormai le commesse sono grandi e impegnative, come quella a Soči in Russia, dove è stato realizzato un progetto di venti lussuosi chalet accanto alla pista olimpica di discesa libera utilizzata nelle Olimpiadi invernali. E l’organico intanto ha raggiunto i 32 dipendenti. Sostiene Andrea Pagano, rientrato da Ginevra dove l’azienda ha assemblato una villa Pagano sul lago elvetico: «Stiamo ultimando un sistema tecnologico e logistico per delocalizzare la fase di lavorazione finale in partnership con operatori locali. In Italia con i nostri macchinari brevettati prepariamo un kit di alta maestria artigianale, per poi completare nel contesto del cliente i vari blocchi. Ciò ci consente anche di abbassare i prezzi delle commesse, senza però abbassare l’eccellenza delle finiture. E per i tre mercati stranieri dove Pagano vuole aumentare la quota di mercato (Est Europa, Svizzera e Stati Uniti) si prevede un rilevante e crescente successo: «Così facendo ci distinguiamo dai nostri concorrenti, giocando quasi un ruolo di sviluppatore immobiliare. E ciò ci consentirà di segnare una nuova stagione nel lungo percorso imprenditoriale del Gruppo Pagano». 160 Quanta strada dai carretti del nonno! E l’avventura evolutiva non sembra terminare. 161 48 Invaderemo il mondo con le insalate Gruppo La Linea Verde, Manerbio (Brescia) «Per noi la parola d’ordine oggi è “Correre!”, perché chi si ferma purtroppo non sta fermo, ma retrocede», dice Domenico Battagliola, che con il fratello Giuseppe ha fondato nel 1991 il Gruppo La Linea Verde, oggi tra i top quattro produttori di insalate in busta e di una gamma sempre più articolata di zuppe fresche, estratti di frutta e piatti pronti. Partito quasi trent’anni fa, grazie a uno spin off dell’azienda agricola di famiglia di dieci ettari a Manerbio in provincia di Brescia, oggi il Gruppo è noto al grande pubblico per il marchio DimmidiSì, che conta per un quarto dei 350 milioni di fatturato del 2021. Una storia da record, sia come sviluppo che come marginalità (26 per cento di EBITDA medio negli ultimi anni). La Linea Verde è oggi uno dei maggiori produttori europei ortofrutticoli di beni pronti al consumo, quelli che in gergo del settore vengono denominati di IV gamma, cioè frutta e verdure fresche, lavate, confezionate e da mettere in tavola senza altre manipolazioni. La gamma è poi completata dalle insalate arricchite – da insalata come contorno a insalata come piatto unico – disponibili in un ampio assortimento di ricette. Con le sue 250 tonnellate di materia prima lavorate quotidianamente e 2 milioni di pezzi prodotti al giorno, il Gruppo La Linea Verde è soprattutto co-packer, poiché è fornitore di più di 60 marche private. Grazie alla visione di spirito internazionale e all’immagine di azienda italiana, moderna, dinamica, fortemente legata alla terra e con grande attenzione a una filiera agricola responsabile nel controllo e nella certificazione, l’azienda si è costruita una reputazione di grande responsabilità sociale dal seme alla distribuzione. Riesce a rendere disponibile il prodotto tutto l’anno a qualità costante e a fidelizzare in un rapporto di partnership più di 70 coltivatori agricoli, sia convenzionali 162 che biologici. Infatti, il legame virtuoso oggi imprescindibile tra persone sane, aziende sane e pianeta sano rende ancora più evidente quanto è stato sottolineato dai cambiamenti climatici e dalla recente pandemia di Covid-19: non è più rinviabile la strategia «dal produttore al consumatore» di filiera corta («Farm to Fork», elaborata dalla UE nell’ambito del piano decennale Green New Deal). La Linea Verde segue con molto scrupolo tale dettame, investendo molti dei suoi ricavi in processi di ricerca e sviluppo che anticipino modelli di consumo e di confezionamento a basso impatto ambientale, in modo da non confliggere con la sopravvivenza degli ecosistemi e con la salute degli esseri umani. Gli azionisti dell’impresa sono orientati massimamente alla trasformazione continua. «L’innovazione è parte integrante della nostra storia. È frutto di un desiderio perdurante di rimettersi sempre in gioco. Il nostro motto è: “cambiare per crescere”», ricorda l’amministratore delegato Domenico Battagliola. «Una tensione ereditata dai nostri genitori e trasmessa con cura ai nostri figli.». Perché la seconda generazione è ormai da qualche anno in azienda, con i cugini Andrea e Carlo che seguono con determinazione i valori tramandati. Dice Andrea, direttore generale e prossimo protagonista della nuova governance: «Il nostro sogno è di rendere duraturo il progetto imprenditoriale dei nostri genitori». Sebbene in una zona geografica ferita profondamente dal coronavirus della primavera 2020, l’azienda non si è persa d’animo. Pur essendo costretta a rallentare il rapido percorso di crescita, ha continuato a ristrutturarsi produttivamente e ad arricchirsi come gamma di prodotti: si sono ampliate le ricette classiche con nuovi sapori e nuovi aromi; le insalate elaborate hanno aggiunto ingredienti appetitosi come formaggio e pancetta; i succhi hanno sperimentato nuovi frullati. Inoltre si è intensificata una forte attenzione al green, con packaging in buste completamente compostabili, cioè smaltibili con i rifiuti umidi. Occorre stare al passo con l’evoluzione del mercato e del consumatore e ciò che in passato avveniva ogni vent’anni, oggi accade ogni tre-quattro anni. E un grande valore aggiunto è arrivato dalla realizzazione dei progetti informatici e di digitalizzazione, che, insieme alla società interna di logistica B&B Enterprise (aperta anche ad altri operatori del settore), hanno consentito di integrare stabilmente i siti produttivi e i meccanismi distributivi, ammodernando completamente i flussi dei processi aziendali. 163 Il prossimo futuro è un piano triennale con l’obiettivo di saturare l’Europa, grazie alla capacità di esportare ovunque il prodotto finito e confezionato, arrivando a raddoppiare l’attuale fatturato. Il grande balzo in avanti sarà garantito anche dallo stabilimento più moderno al mondo, ampiamente robotizzato, che consentirà di conseguire i tre pilastri della CSR: consentire al personale di lavorare sempre meglio; ridurre i consumi idrici e produrre internamente energia; estrarre grazie all’economia circolare combustibile utile per i mezzi di trasporto. L’immagine che piace ai fratelli Battagliola è oggi quella di un Gruppo con i piedi ben piantati per terra e la testa fra le nuvole. Questa metafora coglie bene il radicamento sul territorio da una parte ma dall’altra insiste sulla visione di chi sa uscire dagli schemi consolidati per guardare verso orizzonti lontani. E che cosa si può vedere sopra le nuvole? Un mondo globale, con nuovi clienti potenziali e nuovi stabilimenti da aggregare per tenere insieme nuove geografie di coltivazioni e nuovi mercati. E, se si mette bene a fuoco, si può scorgere l’America. 164 49 Felicemente prigionieri del grande pennello Pennelli Cinghiale, Cicognara di Viadana (Mantova) Alcune pubblicità di Carosello sono ancora scolpite nella mente dei telespettatori di allora. Una delle più memorabili era ambientata nella Milano degli anni Settanta, dove in mezzo al caos cittadino e al rumore dei clacson, un uomo in bicicletta pedalava con un gigantesco pennello sulle spalle. Un vigile dai guanti bianchi, come era di ordinanza a quel tempo, lo ferma e lo apostrofa: «Ma cosa fa con quell’arnese? Non vede che ostacola il traffico». E il ciclista: «Devo dipingere una parete grande, ci vuole un pennello grande!». E allora la mitica risposta: «Non ci vuole un pennello grande, ma un grande pennello!». Voce fuori campo: «Cinghiale!». Ideato dal grande pubblicitario Ignazio Colnaghi, quello di Calimero e di «Ava come lava», lo spot fece conoscere in tutta Italia la Pennelli Cinghiale del Cavaliere Alfredo Boldrini. Una fama poi addirittura saccheggiata anche dal cinema (il claim comparve in alcune commedie all’italiana) e dalle battute di molti artisti e personaggi pubblici (tra cui Dario Fo, Mourinho, Fabio Volo, Jovanotti, Luciana Litizzetto e molti altri). L’attività di Alfredo Boldrini, insieme a quella del fratello, aveva avuto inizio negli anni Trenta, quando i due vendevano pennelli e scope realizzati artigianalmente da sette donne che lavoravano con la sola dote delle mani. E i fratelli poi commercializzavano i manufatti macinando in bicicletta chilometri e chilometri da porta a porta. Nel secondo dopoguerra l’azienda si sviluppa a Cicognara di Viadana nella Bassa profonda del mantovano, dove si trova un distretto specializzato nella 165 produzione di pennelli e scope, famoso per la qualità della setola e della saggina, oltre che per la tecnologia delle macchine mischiatrici. Gli anni Sessanta e Settanta vedono una stagione di massima espansione dimensionale dell’impresa, accompagnata dai molti testimonial che utilizzano la battuta del grande pennello per la loro attività di comunicazione. Uno tra tutti Sandro Mazzola, idolo interista del fondatore, che sicuramente contribuisce alla popolarità della marca tra gli utilizzatori di pennelli e vernici per imbiancare porte e pareti. Oggi intorno alla Cinghiale, riferimento di tutta l’area geografica per l’innovazione, ruotano più di quaranta aziende specializzate della filiera. Il complesso ha un nuovo sito produttivo e oltre cinquanta dipendenti e altrettanti agenti commerciali. Si utilizzano nuove tecnologie di fibre conicizzate con microparticelle. E ai pennelli si è affiancata la commercializzazione di prodotti antinfortunistici, tra cui un assortimento di scarpe da lavoro. La grande distribuzione assorbe il 40 per cento della produzione e l’export si espande ormai in Europa occidentale, Oriente, Medio Oriente e nelle Americhe. Il fatturato del 2021 ha superato i 10 milioni di euro, con una marginalità di tutto rispetto. Il 2021 è stato un anno particolare perché il lockdown e il «bonus facciate» durante i mesi caldi hanno alimentato i processi di verniciatura, aumentando le vendite del 35 per cento nel caso dei pennelli e del 50 per cento in quello delle vernici. Il Cavalier Boldrini non c’è più e al timone dell’impresa mantovana c’è Eleonora Calavalle che, con la madre Catiuscia Boldrini e la sorella Clio, rappresenta le successive generazioni familiari. Una leadership femminile per un settore molto maschile: «Con il nostro tocco di genere cerchiamo di comunicare alla clientela che anche il decorare e il fai da te ha bisogno di eleganza e artisticità», dice la presidente Eleonora, «al punto tale che un nostro prossimo testimonial sarà proprio un artista contemporaneo». Le strategie per il futuro sono indirizzate a espandere il mercato delle vernici (anche in co-branding con il design) e a produrre prodotti green a basso impatto ambientale. L’intento è quello di essere in linea con il concetto di bioedilizia, mettendo insieme pitture con formulazioni naturali, plastiche riciclate e riciclabili, rulli in pura lana vergine e pennelli con manici di legno FSC. Inoltre è in fase di progettazione un nuovo impianto con tecnologia 4.0 per la produzione di pennellesse a ciclo continuo e a controllo standardizzato, che consentirà di sfornare fino a 20.000 pennelli al giorno. 166 Ovviamente non ci si dimentica della storia del boom economico e si raccolgono le memorie di quel recente passato. È in costruzione un vero e proprio museo dove anche graficamente e fotograficamente si rappresenta il percorso dell’azienda e degli oggetti più iconici. E accanto al museo che racconta il passato c’è un laboratorio che progetta il futuro. In mezzo, una galleria che mette insieme le due anime, regalando una macchina del tempo in un continuo rimando tra passato, presente e futuro. Intanto lo spot cult del 1975 è stato rispolverato e digitalizzato con tecniche di restauro conservativo. Viene rimandato in onda sui canali Mediaset, avendo ancor oggi una sorprendente efficacia comunicativa, dopo più di quatrant’anni dalla sua concezione. L’effetto diretto e ironico è ancora immutato. E afferma Eleonora Calvalle: «Passano gli anni, cambiano le generazioni, ma l’immagine del pennellone sulle spalle del ciclista voluta da mio nonno visionario continua a battere la concorrenza dei creativi dei giorni d’oggi». 167 50 Quando l’high tech globale si concilia con il profondo Sud Gruppo Indeco, Bari In questo periodo, complice anche la pandemia distruttiva e il monito del presidente Mattarella a condividere tutti insieme la missione di «costruire» per il futuro, il concetto di demolizione potrebbe essere percepito dall’opinione pubblica come un messaggio debole o quantomeno astorico. Un po’ come dire – usando le nozioni della filosofia – che la pars construens, con i suoi idoli e le sue icone, prevale nel sentimento dei cittadini rispetto alla dimensione destruens. Ma se facciamo un salto laterale nell’economia e nel settore dei costruttori di macchine di movimento terra, potremmo sorprenderci notando che l’Italia si distingue per eccellere proprio nella produzione di attrezzature per la demolizione. Sorpresi perché siamo abituati a credere che l’industria italiana trionfi con il Made in Italy e l’economia simbolica, non certo con i robot e le grandi macchine metalliche e automatizzate. La storia del Gruppo Indeco nella zona industriale di Bari capita proprio a fagiolo per smentire questo pregiudizio. Nata in Puglia nel 1976 per iniziativa dei soci Mauro Vitulano, Luigi Santoro e Marcello Carabellese (tuttora nella compagine sociale), l’impresa è oggi un importante attore nel comparto della demolizione grazie alle caratteristiche dei suoi prodotti: la produttività della macchina, la sua resa, la durata, la facilità di manutenzione e i modesti costi di gestione. Al momento della fondazione di Indeco Mauro Vitulano era impiegato come responsabile della qualità nella Breda Officine Meridionali del Gruppo pubblico EFIM; grazie a una forte motivazione a intraprendere un’attività in proprio, apre un servizio di ricambi di martelli idraulici demolitori francesi. Chiama Luigi Santoro, che svolge compiti commerciali presso l’azienda in cui lavora e coopta anche il giovane 168 cognato Marcello Carabellese, perito industriale fresco di diploma. Insieme decidono di progettare un martello originale, depositando un brevetto europeo. Fin dall’inizio il sodalizio con Vitulano allo sviluppo tecnico, all’organizzazione aziendale e all’amministrazione, Santoro al commerciale e Carabellese alla produzione funziona alla grande. Indeco punta su due fattori critici di successo: la capillarità della rete di vendita e l’assistenza post vendita, e subito i risultati arrivano dai clienti domestici. L’impresa brevetta nel 1986 il primo «martello intelligente», in grado di modulare frequenza e potenza in relazione al grado di durezza della roccia. Quindici anni dopo il portafoglio prodotti si amplia con macchine che servono per demolire gli edifici e le strutture verticali e successivamente con l’ingresso nel comparto del riciclaggio attraverso la separazione del calcestruzzo dal tondino di ferro. Gli anni successivi aggiungono una nuova attenzione al design e una costante attenzione a ridurre le emissioni sonore. Nel 2008 Indeco frantuma i record e realizza il modello idraulico più grande del mondo, l’High Performance 18000, ideale per grandi sbancamenti per lavori in cava e su rocce particolarmente dure. Oggi il Gruppo si presenta con oltre venti modelli e cinquanta combinazioni diverse per affrontare tutti gli specifici fabbisogni del mercato. Alla gamma storica si sono affiancati i compattatori idraulici, le pinze demolitrici e selezionatrici, i bracci posizionatori, le cesoie idrauliche, la trince forestali per bonifiche e sgombero della vegetazione. Tutto è avvenuto per crescita interna e con grande attenzione a finanziare il capitale circolante con gli utili accumulati dagli anni precedenti. Uno sviluppo lento, inesorabile ma economicamente sostenibile. Ciò ha fatto sì che Indeco sia oggi l’unica azienda del settore a controllo familiare, contrariamente alle sue dirette concorrenti, tutte divisioni di grandi gruppi multinazionali europei o statunitensi o giapponesi. Indeco peraltro poggia da sempre su un’anima internazionale, per convinzione e per gioco forza – non godendo l’Italia di una reputazione high tech sul mercato nord-europeo, dove ancora oggi sopravvivono le credenze sulla «superiorità della tecnologia tedesca». La lungimiranza del management Indeco è stata proprio quella di avvicinarsi fin da subito al mercato nordamericano agli inizi degli anni Novanta e, con piccoli passi, perseguire una crescita incrementale, senza dover ricorrere a pesanti fonti di copertura finanziaria. E così Indeco ha superato l’handicap geografico ed è diventata globale: oggi conta 230 dipendenti tra Italia ed estero; filiali e dealers in tutti i continenti, un fatturato consolidato intorno ai 60 milioni nel 2021 e una marginalità di tutto 169 rispetto, che spiega i continui corteggiamenti da parte di potenziali acquisitori italiani e stranieri per un possibile passaggio delle quote azionarie. Corteggiamenti che non hanno avuto seguito perché assai raramente chi si fa avanti corrisponde alla filosofia aziendale di Indeco: poca leva finanziaria, molto autofinanziamento, cassaforte per tutte le famiglie dei dipendenti, orizzonte di gestione di lungo termine. La pandemia del 2020 è arrivata come dappertutto imprevista e non pronosticata. Dall’oggi al domani il Gruppo è stato costretto a chiudere perché – grazie ai codici Ateco – i manufatti prodotti e venduti non sono ritenuti essenziali dai protocolli. Quaranta giorni di serrata senza poter accogliere le richieste dei clienti, dei rivenditori e delle filiali nel mondo: per la prima volta l’azienda ha dovuto fare ricorso alla cassa integrazione, ma lo ha fatto a modo dei suoi azionisti, che hanno anticipato le somme dovute ai collaboratori, integrando a spese della Indeco fino al 100 per cento dello stipendio riconosciuto. La governance non è molto cambiata dagli esordi: il fondatore Mauro è amministratore unico e riveste un ruolo decisionale strategico e di mente tecnologica. Continua però ad avvalersi della collaborazione di Carabellese (con la delega alla produzione) e di un management ampio e professionale. L’assetto organizzativo è strutturato e include ormai le seconde generazioni dei soci storici, come Susanna e Michele Vitulano, Roberto Santoro e Leo Carabellese. Il patron Vitulano rappresenta il passato e il presente dell’impresa e il perno di collegamento glocal della cultura aziendale: «La mia famiglia è originaria di Molfetta, così come le famiglie di molti dei nostri dipendenti, e non è raro che, nella sede centrale o anche nelle subsidiaries all’estero, nelle comunicazioni risuoni il dialetto molfettese». Dalla Puglia in tutto il mondo quindi, e non certo con un prodotto «leggero» e fatto di sola estetica. In barba al popolo di santi, poeti e navigatori, per fare il verso a Mussolini. E rimanendo ben saldi nella pattuglia dei leader mondiali di questo settore, dove Indeco progetta di essere attore chiave prossimamente con altri nuovi prodotti e con nuove tecnologie, rivestite però sempre di un chiaro imprinting di italianità. 170 51 Un secolo di dolcezza Apicoltura Piana, Castel San Pietro Terme (Bologna) Ci sono aziende nate intono a una passione di famiglia. Quella per il mondo delle api ha portato alla fondazione, nel 1903, di Apicoltura Piana, una realtà che nel bolognese produce e confeziona miele e semilavorati delle api. Un’azienda che coniuga tradizione e innovazione, prestando da sempre grande attenzione alla sostenibilità ambientale e alla tutela della biodiversità. Con il marchio Piana Miele l’azienda ha registrato nel 2021 un fatturato pari a 21,5 milioni di euro, con 4650 tonnellate di miele lavorato, aumentando del 4,7 per cento il valore del brand – una quota nettamente superiore al mercato di riferimento, cresciuto complessivamente del 3,6 per cento. Apicoltura Piana ha inoltre dichiarato obiettivi di crescita anche per il 2022, con un incremento di ricavi previsti del 10 per cento, ottenuto grazie a un aumento dei volumi del 5 per cento, attraverso il lancio di nuovi prodotti. In un momento storico particolarmente delicato come quello che riguarda il miele e le api, duramente colpito dalla crisi economica dovuta alla pandemia e dalle sfide ambientali, Apicoltura Piana ha lavorato per recuperare il calo che ha coinvolto il settore nel 2021 rispetto all’anno precedente: un calo generale dell’11 per cento a valore e del 10,6 per cento a volume. Nel 2021 la famiglia Mengoli ha deciso infatti il riacquisto del 60 per cento delle quote societarie, in passato cedute a Naturalia Ingredients (società che faceva capo al Gruppo Maccaferri). Attraverso la riacquisizione del 100 per cento delle azioni da parte di Flara Holding della famiglia Mengoli si è confermata la forte volontà di valorizzare l’impresa e l’impegno nel comparto alimentare. 171 Dal 2014 al timone dell’azienda c’è infatti Massimo Mengoli che, assieme alla moglie, si sta impegnando alacremente per scrivere un nuovo capitolo nella secolare storia dell’impresa emiliana. Le nuove decisioni strategiche hanno posizionato Apicoltura Piana su un mercato che comprende prodotti a marchio, private label e tanta innovazione. «Siamo molto felici della acquisizione fatta nel 2021», commenta Mengoli, «perché ci permetterà di proiettare verso il futuro un’azienda che ha mostrato di avere ampi margini di crescita, grazie alla grande attenzione alla qualità in tutte le fasi della filiera. Questo è uno degli aspetti su cui vogliamo ulteriormente puntare, investendo per esempio in progetti tecnologici finalizzati a garantire la completa trasparenza nella tracciabilità dei prodotti». Tra gli obiettivi futuri c’è anche la volontà di recuperare un capitale storico che, grazie alla passione e all’impegno delle persone che vi operano, ha assunto un ruolo sociale oltre che economico all’interno della comunità del territorio nella quale l’impresa è insediata. E a conferma della propria convinzione, Flara Holding ha chiuso l’accordo per l’acquisto dello storico stabilimento di Apicoltura Piana di Castel San Pietro Terme. Come sempre, tutto si edifica con le diverse tappe della storia. Apicoltura Piana nasce nel 1903, quando il professore di Anatomia patologica Gian Pietro Piana lascia la Facoltà di Veterinaria della Statale di Milano, dove insegnava, per trasferirsi nel verde delle colline bolognesi. Innamoratosi della campagna locale, tra frutteti ed erbe aromatiche, inizia con il figlio Gaetano a studiare le api rendendosi così conto delle particolari doti delle specie italiane, più docili e produttive delle consorelle europee. I fratelli Piana, figli di Gaetano, nel primo dopoguerra espandono ulteriormente l’allevamento delle api regine e negli anni Cinquanta l’azienda è già una delle maggiori del settore. Grazie alla capacità e all’intuito di Giulio e Gianpietro Piana, i due figli maschi di Gaetano, Apicoltura Piana continua a crescere allargando la propria attività fino al confezionamento del miele, e i prodotti vengono distribuiti in farmacie, erboristerie e negozi alimentari. Successivamente si registra l’ingresso nei supermercati e nella grande distribuzione e dagli anni Novanta l’impresa raggiunge i vertici del comparto mielistico, dove ancora oggi si trova in veste di protagonista. L’azienda sceglie solo produttori che salvaguardano il lavoro delle api, appoggiando l’agricoltura sostenibile che evita i trattamenti chimici. Le api sono a rischio estinzione e soffrono la contaminazione ambientale dell’uomo, che spesso interferisce con le caratteristiche della flora e del 172 clima, cambiando di conseguenza la qualità del miele che dipende oltre che dalle api anche dall’ambiente circostante e dai fiori. Gli attuali prodotti sono l’Acacia, l’Arancio italiano, il Castagno, il Millefiori e il Millefiori con Pappa reale. Prodotti che racchiudono i benefici di proteine e vitamine e rendono il miele ideale come integratore e come utile strumento per la difesa antinfiammatoria. Recentemente è stato proposto un nuovo blend Tabacco, ottenuto dal nettare dei fiori di tabacco selvatico, una pianta spontanea che cresce lungo i fiumi e nelle pianure; un prodotto che si combina in abbinamento con formaggi delicati (come mascarpone o ricotta) e con pane integrale e che offre una straordinaria fonte di energia, essendo naturalmente privo di grassi. Il futuro vede il top management impegnarsi intorno al concetto dell’arnia intelligente. Apicoltura Piana ha scelto Melixa System, una tecnologia digitale avanzata per il monitoraggio in tempo reale e da remoto dell’apiario, che non interferisce con l’attività delle api e che consente di raccogliere e trasmettere al server dati pronti per essere elaborati. In questo modo l’azienda rilancia il proprio approccio rispettoso e consapevole del ruolo degli impollinatori nei delicati equilibri naturali. Testimonia Massimo Mengoli: «Abbiamo investito su questo sistema per migliorare la produzione, ma non solo: le api sono insetti molto sensibili il cui benessere va protetto perché è un prezioso indicatore dello stato di salute del nostro pianeta. In un momento storico in cui gli impollinatori sono sottoposti a gravi stress, vogliamo dare il nostro contributo ottimizzando gli interventi nell’apiario solo quando è veramente necessario». 173 52 Esportare il gusto dei salumi in tutto il mondo Fratelli Beretta, Trezzo sull’Adda (Milano) Quando un’azienda ha più di due secoli di storia, con la governance non si scherza. Alimentaristi dal 1812, i membri della famiglia Beretta hanno tramandato da allora a oggi l’esperienza e le migliori ricette per la produzione di salumi di qualità. Duecentodieci anni in cui nelle case del mondo è entrato il gusto unico dei nobili insaccati della tradizione italiana. Un lunghissimo periodo nel corso del quale il profilo aziendale è stato ridisegnato più volte per essere adeguando alle mutate esigenze del mercato e consentire all’impresa di presentarsi oggi come un Gruppo altamente specializzato, fiore all’occhiello del settore alimentare del nostro Paese. E nel 2022 la Beretta ha l’ambizione di superare il tetto del miliardo di giro d’affari. 3500 dipendenti, trenta siti produttivi in tutto il pianeta, una distribuzione capillare in più di settanta Paesi del globo. Afferma il presidente Vittore Beretta, classe 1944, alla guida del colosso aziendale, orgogliosamente brianzolo di Barzanò, avamposto della Lombardia ricca e operosa: «Il mondo apprezza moltissimo la salumeria Made in Italy. Essa è in crescita costante e tale sviluppo tocca pure la nostra azienda, sempre più internazionalizzata». Ma per capire il successo di un’impresa giunta all’ottava generazione, bisogna conoscerne da vicino la storia. L’avventura inizia appunto nel 1812, quando Carlo Antonio Beretta riceve dal padre l’attività di famiglia di commercio di carne suina e derivati. I figli Felice e Mario, dopo aver combattuto la Grande Guerra, aprono un negozio di macelleria e salumeria e trasformano la bottega per la lavorazione delle carni in un’industria al passo con i tempi. Da allora fino agli anni Sessanta il fatturato cresce in continuità raggiungendo i mercati delle diverse regioni italiane. Ma la grande intuizione si origina con la partnership con i 174 supermercati e la distribuzione organizzata (la GDO) negli anni Settanta, accompagnata da un’intensa e creativa campagna di comunicazione televisiva e radiofonica. Ai salumi più tradizionali si affianca nel 1976 la linea di wurstel Wuber e successivamente nel 2002 una terza linea di attività, prima in accordo con la francese Fleury Michon e poi rilevata al 100 per cento dalla famiglia Beretta, che produce e vende piatti pronti freschi: è il frutto di un grande lavoro di ricerca e sviluppo per fare arrivare ai consumatori, sotto il marchio di Viva la Mamma, le migliori composizioni della gastronomia italiana, dagli antipasti ai secondi, dai contorni ai sughi e ai tramezzini. Negli ultimi decenni la linea di produzione Beretta, con una brand awareness del 97 per cento, raggiunge il record delle 19 eccellenze DOP e IGP. Le principali DOP sono il Prosciutto di Parma, il Prosciutto di San Daniele, il Prosciutto di Carpegna e altre ancora. A fianco brillano IGP come la Bresaola della Valtellina, lo Speck dell’Alto Adige, la Mortadella di Bologna, il Salame Felino, la Finocchiona e così via. Una strategia di crescita dimensionale basata sulla creazione di filiali e stabilimenti all’estero, su rapporti di stretta collaborazione con le maggiori catene della distribuzione europea e su accordi commerciali con produttori leader di mercato. Una strategia che assicura alle tre linee di prodotti (Salumi Beretta, Wuber e Viva la Mamma) la massima diffusione e penetrazione internazionale. Il presidente è oggi affiancato dall’amministratore delegato Alberto Beretta e dai consiglieri Lorenzo Beretta, Giorgio Beretta, Mario Beretta insieme ai figli Paolo e Andrea, cui si aggiungono Marco Riva e Angelo Fumagalli. Per otto generazioni i valori del Gruppo si sono tramandati e fortificati. Innanzitutto la qualità, garantita dalla materia prima utilizzata, da un monitoraggio costante dell’attività dei fornitori e da un severo rispetto dei disciplinari di allevamento. Poi una grande enfasi sulla sicurezza alimentare, per offrire la massima cura ai processi di lavorazione delle carni. E anche un’ostinata attenzione al benessere animale, che viene perseguita osservando il più possibile le cinque libertà precisate dalla legislazione europea: libertà dalla fame e dalla sete, libertà dal disagio, libertà dal dolore, libertà di esprimere un comportamento normale, libertà dalla paura. Grande cura viene data anche alla formazione e al welfare dei collaboratori. Una Academy ha il compito di trasferire sapienza, impegno e passione ai giovani talenti, che rappresenteranno il mondo Beretta nel futuro. E infatti, all’interno del quartier generale, ora a Trezzo sull’Adda, uno spazio polifunzionale è dedicato proprio a concettualizzare la cultura organizzativa che ha attraversato il Gruppo 175 negli ultimi decenni. Elemento di comunicazione rilevante verso l’esterno e l’interno è lo sport, perché questo incarna tutti i valori dell’azienda: è prezioso per la qualità della vita, per la necessaria socialità e per il benessere di corpo e mente. Beretta è impegnata in sponsorizzazioni calcistiche, nell’automobilismo e nel basket, senza dimenticare gli sport cosiddetti minori. Perché il bene nutrizionale non può dissociarsi dallo star bene sia emotivamente che mentalmente. Un Gruppo dunque che attraverso nuovi prodotti, nuovi formati e nuove tecniche di confezionamento (anche sostenibili) è riuscito nel suo lungo ciclo di vita a stare al passo con i mutevoli gusti del consumatore e con le esigenze della distribuzione. Dal suo ponte di comando, il presidente Beretta e l’intero consiglio di amministrazione spingono lo sguardo all’orizzonte e così annunciano la strategia prospettica del Gruppo: «Guardando al futuro, vogliamo consolidare la posizione di punta di Fratelli Beretta nello scenario competitivo nazionale e parallelamente siamo molto attenti alla presenza dei nostri prodotti a livello internazionale, fattore che ci posiziona al primo posto nell’export dell’industria salumiera italiana. Per questo motivo puntiamo a una crescita significativa della nostra presenza negli Stati Uniti e nel Far East, oltre che a un rafforzamento nei principali mercati europei. Compatibilmente con il contesto di instabilità che ha caratterizzato gli ultimi tre anni, stiamo inoltre perfezionando l’approccio ai temi di corporate social responsibility e l’attenzione ai temi di sostenibilità a tutti i livelli e in tutte le attività aziendali. Intendiamo infine proseguire il percorso di ricerca già intrapreso per lo sviluppo di prodotti che intercettino sempre più le esigenze dei nuovi consumatori. Per questo ci stiamo impegnando nella produzione di ricette particolarmente attente agli aspetti salutistici oltre che di linee Antibiotic Free, in cui non è previsto l’uso di antibiotici nell’intero ciclo di vita dei suini, e per cui abbiamo predisposto filiere certificate». 176 53 I cavalieri della pasta di una volta Pastificio Benedetto Cavalieri, Maglie (Lecce) All’inizio del 2000 una famiglia italiana consumava all’anno circa 40 chili di pasta. Nel 2013 siamo scesi alla soglia dei 30, per raggiungere oggigiorno il livello di 22. Ma siamo ancora un popolo di mangiatori di pasta e su questo alimento, simbolo della nostra cucina, non ci accontentiamo facilmente. Siamo i primi consumatori del mondo e, al di là del trend complessivo del comparto, continuano a crescere le piccole griffe artigianali di alta e altissima qualità. A fare la differenza sono il rango dei grani e i tempi lenti di lavorazione che garantiscono un sapore e una consistenza superiore. Dice Benedetto Cavalieri, odierno patron del Pastificio Benedetto Cavalieri, dalla sua fabbrica di Maglie in terra d’Otranto: «È il cibo più amato dagli italiani per le virtù nascoste. La pasta è viva. Dona energia e buon umore. Unisce la famiglia e incoraggia le amicizie». Sulla base di un’attività di famiglia risalente alla fine dell’Ottocento, quando i Cavalieri coltivavano e commerciavano il grano duro, il fondatore Benedetto Cavalieri inaugura nel 1918 in un bellissimo edificio art nouveau il Mulino e Pastificio che porta il suo nome. La scelta strategica e fondativa è quella di puntare sugli ingredienti del territorio locale per mantenere alti gli standard produttivi e per far essiccare la pasta al coperto anziché per strada (con il metodo che ancora oggi si chiama «metodo Cirillo»). La tradizione non si è mai interrotta e oggigiorno la pasta Cavalieri viene fatta con grano duro proveniente dalle colline delle Murge e della Basilicata, coltivato senza il massiccio e consueto uso di fertilizzanti chimici che aumentano le rese a scapito della qualità, con esposizione al sole e al vento che incidono sulle proprietà organolettiche del prodotto. Il metodo di lavorazione è definito «delicato», perché basato su una prolungata impastatura a freddo, una lenta gramolatura e 177 pressatura che permettono una distribuzione omogenea del glutine e dell’amido. La trafilatura al bronzo non stressa l’impasto al momento dell’estrusione e, unitamente alle basse temperature di essiccamento, fa sì che il prodotto finale sia poroso, permeabile a qualsiasi tipo di condimento. Nella sede di Maglie escono 38 formati di pasta di semola e 7 di semola integrale; i principali cavalli di battaglia sono gli spaghettoni lunghi 110 cm (pluripremiati nelle fiere alimentari in tutto il mondo e presenti in carta nei migliori ristoranti stellati), che rappresentano quasi il 26 per cento della produzione, seguiti dai paccheri, dalle orecchiette, dai minchiarieddi e dalle ruote pazze, che devono il nome al loro aspetto irregolare. I prodotti sono confezionati nel classico cartoncino blu, sinonimo di produzione artigianale. Oggi l’azienda, modernamente attrezzata con impianti studiati non per incrementare le quantità prodotte ma per massimizzare la qualità in ogni fase di processo, con un fatturato in crescita e 18 dipendenti, è nelle mani della terza generazione: il nipote del fondatore, omonimo del nonno che da quarant’anni guida l’azienda con tenacia, insieme al figlio Andrea. Benedetto, oggi presidente della società, non ha ereditato dal nonno solo il nome ma anche un’ostinata voglia di qualità. A cominciare dalle materie prime. «La nostra pasta la cuoci, la annusi e ti senti in un campo di grano», dice Benedetto Cavalieri. «È stata una vera sfida. Quando tutti i pastai italiani aumentavano la produzione e le dimensioni, diventando veri industriali, noi avevamo due scelte: gettare la spugna oppure puntare su una produzione piccola ma di alto livello. Non abbiamo mollato.» E la reputazione del Pastificio Benedetto Cavalieri è oggi riconosciuta dall’intero settore, se è vero che l’impresa svolge per il prodotto pasta il ruolo di learning center dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. E i Cavalieri sanno cogliere le opportunità del mondo globale. Presenti in America, Australia, Giappone, Europa e recentemente nel Sud-Est asiatico, sanno bene come promuovere il loro tesoro gastronomico Made in Salento fuori dai confini nazionali. Dice infatti Andrea Cavalieri: «La mente è coraggiosamente aperta alle sfide del futuro, senza mai dimenticare le nostre vocazioni e quel patrimonio di esperienze maturate nel tempo, che ci guidano nelle scelte di ogni giorno». 178 Dal catalogo Sandro Boscaini Amarone e oltre. Masi: 50 anni di vendemmie, famiglia e imprenditorialità Luigi Luini Volevo solo fare il panettiere Marco Moretti, Davide Arpili, Francesco Severi Giocare d’anticipo. Le aziende italiane e il vantaggio di una resilienza costruita nel tempo Raja Rajamannar Quantum marketing. La nuova mentalità del marketing per comprendere i consumatori di domani George Serafeim Purpose + profitto. Come le aziende possono migliorare il mondo e veder crescere gli utili Luca Gatto, Marco Sanfilippo Export manager. Guida operativa per crescere nei mercati esteri Davide Chiaroni L’impresa circolare. Modelli di business, sistemi di misura, leve manageriali Rossella Sobrero Verde, anzi verdissimo. Comunicare la sostenibilità evitando il rischio greenwashing Francesco Morace L’alfabeto della rinascita. 26 storie di imprese esemplari Francesco Morace, Marzia Tomasin L’alfabeto della sostenibilità. 26 modi di essere sostenibili Paolo Manfredi Provincia non periferia. Innovare le diversità italiane Flaviano Zandonai, Paolo Venturi 179 Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società Francesco Perrini (a cura di) Sostenibilità e PMI. Aspetti strategici, operativi e finanziari 180 Indice Descrizione Biografia Frontespizio Copyright Indice Il modello originale dello sviluppo economico italiano 1 2 4 5 6 12 Il Made in Italy e oltre… La difficoltà di decifrare le componenti immateriali del nostro modo di fare Made in Italy e creatività Capire tutto ciò attraverso le storie e le testimonianze aziendali 12 53 storie di impresa 1 E ancora mi diverto… 2 Una valigia piena di sogni e di innovazione 3 Dalle fisarmoniche ai robot: una seconda vita 4 Proteggersi da zanzare e sole con il Made in Italy 5 Il mio design è un’orchestra jazz 6 Il diavolo del Made in Italy si nasconde nei dettagli 7 I lavoratori felici sono i più produttivi 8 Imprenditore sì, ma a modo mio 9 In dieci anni si può cambiar pelle 10 Vento in poppa: alla ricerca di altre prede 11 Con noi il grande freddo 12 Quanto condiziona il distretto monoindustriale 13 Una buona ragione per non lasciare l’Italia 14 Il cancello per il paradiso 15 Oltre le Winx 16 La famiglia dei tartufi 181 14 18 20 22 23 27 30 33 36 39 42 45 48 51 55 58 61 64 67 71 17 Funivie Made in Italy 18 Le scommesse delle acquisizioni oltre confine 19 Quando le imprese incrociano il mito 20 Centauri o astronauti: il mio mestiere è il rischio 21 Ceramiche e Borsa 22 La nutrizione tra bontà e responsabilità sociale 23 Quando l’imprenditore di successo si offre alla società 24 Il contributo della porta alla bellezza nel mondo 25 La nicchia corre su due ruote 26 La strategia di aggregazione 27 Quando il Made in Italy è musica 28 Il prêt-à-manger in salsa pugliese 29 Quando successione fa rima con diversificazione 30 Saper esportare la bellezza italiana nel mondo 31 La pinsa: provate a imitarla, se ci riuscite… 32 Quando la passione aziendale si declina al femminile 33 Edilizia culturale: se il Club del Libro spinge il fatturato 34 L’innovazione può arrivare dall’Italia 35 Quando la sostenibilità è al centro della strategia 36 Come fare i tessuti fantasia con i fondi di caffè 37 Alici: la ricetta di famiglia 38 Passo dopo passo cresce il Distretto della felicità 39 Può una pizza valorizzare il territorio? 40 Dalla crisi si può uscire 41 Aprite i rubinetti: la classe non è acqua 42 Il network dei dentisti high tech 43 Quanti business nell’alambicco 182 74 77 79 82 85 89 92 95 98 100 103 105 108 111 114 118 121 123 126 129 131 134 137 140 143 146 149 44 Nella catena di montaggio delle idee 45 Il signore dell’alluminio 46 E se vendessi l’azienda ai dipendenti? 47 Quando ogni generazione aggiunge un pezzo in più 48 Invaderemo il mondo con le insalate 49 Felicemente prigionieri del grande pennello 50 Quando l’high tech globale si concilia con il profondo Sud 51 Un secolo di dolcezza 52 Esportare il gusto dei salumi in tutto il mondo 53 I cavalieri della pasta di una volta 183 152 154 157 159 162 165 168 171 174 177