Uploaded by Daniele Menchini

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Wonderland - la cultura di massa da Walt Disney ai Pink
Floyd
Discipline dello spettacolo e della comunicazione (Università di Pisa)
StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.
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Wonderland – La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd
Prima parte: Over the Rainbow
I. INDUSTRIA CULTURALE E CULTURA DI MASSA
1. L’industria culturale
Era la primavera del 1933: gli Stati Uniti stanno attraversando un periodo di forte crisi sociale ed
economica e nei cinema viene proiettato per la prima volta una storia animata prodotta dalla Walt
Disney, “Three little pigs” (regia di Burt Gillet). La trama è semplice e lineare (ogni porcellino
costruisce la propria casa: il primo in paglia, il secondo in legno e il terzo di mattoni. Le prime due
vengono spazzate via dal soffio del lupo, mentre l’ultima, quella più resistente, rimane in piedi).
Sembra apparentemente solo una storia per bambini, ma in realtà è un pezzo di eccezionale bravura
che racchiude raffinatezza compositiva e densità narrativa, entrambe caratteristiche fondamentali
che apparterranno alla produzione – a partire dagli anni ‘30 del 900 – della cultura di massa.
La cultura di massa consiste in un sistema di produzione e circolazione di informazioni e
narrazioni trasmesse attraverso una serie di media (libri, giornali, canzoni, film, ecc) pensati come
strumento di informazione e intrattenimento per le persone mediamente colte. Data la semplicità
narrativa e argomentativa ed essendo vendute a prezzi molto contenuti, queste produzioni culturali,
riescono a raggiungere un pubblico molto vasto. Ci sono ambiti in cui non è necessario un training
culturale: fotografia, radio, cinema e musica, per esempio, possono essere apprezzati da chiunque,
anche da coloro che non possiedono un’elevata istruzione; al contempo, queste produzioni, possono
attrarre anche un pubblico intellettuale.
L’obiettivo di queste forme di produzione è di tipo commerciale: gli autori, editori, compositori, non
creano le loro opere solo per esprimere la loro creatività, ma lo fanno principalmente per ottenere
un ricavato. L’orientamento al profitto, fa di questo sistema produttivo una vera a propria “industria
culturale”. Questo tipo di produzione, si concentra sopratutto in un numero ristretto di aziende e
imprenditori (sopratutto negli USA dei primi quattro decenni del XX secolo).
In campo cinematografico erano presenti 8 aziende di spicco che si occupavano della produzione e
distribuzione delle pellicole nelle sale cinematografiche da loro possedute:
• Paramount Pictures
• 20th Century Fox
• Warner Bros, Metro-Goldwyn-Meyer (MGM)
• Radio-Keith-Orpheum (RKO)
• Universal
• Columbia
• United Artists (che aveva distribuito “Three little pigs”)
La radio è un altro importante strumento di comunicazione di massa: nasce all’inizio del XX secolo
e inizialmente utilizzata per usi militari durante la Grande Guerra. In seguito, dai primi anni ‘20,
negli USA e in Europa iniziano le trasmissioni per il pubblico.
Negli Stati Uniti si fanno largo 3 grandi network nazionali:
• National Broadcasting Company (NBC)
• Columbia Broadcasting System (CBS)
• Mutual Broadcasting System (MBS)
Questi network privati acquistano le emittenti locali inserendole in una programmazione nazionale
che obbliga le emittenti più piccole ad alternare le trasmissioni imposte dal network nazionale alla
programmazione pensata per i gusti del pubblico regionale a cui l’emittente intende rivolgersi; tutte
le trasmissioni sono finanziate dalle inserzioni pubblicitarie.
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Il mercato discografico, negli anni ‘20 e ‘30, muta ripetutamente a causa della crisi del ‘29: molte
piccole aziende vengono acquistate da altre di dimensioni maggiori. Infatti, nel 1939 il mercato
discografico è controllato da 3 etichette soltanto:
• RCA Victor
• Decca
• Columbia /ARC
I fumetti appartengono ad un altro campo altrettanto produttivo: sono una forma espressiva nata a
fine del XIX secolo. Prima legata strettamente ai quotidiani e poi, nel 1939, lanciata con il comic
book, pubblicazioni autonome, i cui protagonisti principali sono nuove figure dell’immaginario di
massa: i supereroi.
Il primo comic book lanciato sul mercato appare nel 1938 e contiene le avventure di Superman
(creato da Jerry Siegel e disegnato da Joe Shuster). Il successo dato dal primo supereroe favorisce lo
sviluppo di tanti altri come Captain Marvel (1940), Captain America (1941), Wonder Woman
(1942) e tanti altri.
Anche in questo caso si impongono grandi case editrici che dominano questo particolare ambito:
• DC National
• Timely Comic/Marvel
• Fawcett
Sin da questo periodo le industrie cercano di ampliarsi sempre di più, unendosi tra loro, creando
grandi concentrazioni intermediali (rapporti tra case discografiche, cinematografiche e
radiofoniche).
1938: CBS (network radiofonico) ha acquistato la Columbia/ARC (etichetta discografica)
diventando così la Columbia Recording Company.
Essendo già delle aziende grosse nel loro settore di competenza, questo porta – a cavallo della
Seconda Guerra Mondiale – a delle operazioni di anti-trust che pongono dei limiti a queste funzioni
tra aziende.
2. Generi
Data la vastità e il numero dei generi narrativi, è quasi impossibile collocare con precisione opere
letterarie, cinematografiche complesse all’interno di un genere piuttosto che un altro.
Nonostante ciò, queste considerazioni non si possono applicare alle opere che appartengono alla
sfera della cultura di massa. Infatti, se si osserva la letteratura popolare, il cinema hollywoodiano, i
fumetti o i radiodrammi, non si fa fatica a distinguere un western dalle commedie sentimentali, o
dalle vicende di fantascienza.
E’ anche possibile però, che l’industria culturale offra un mescolarsi di queste connotazioni, senza
però creare dei dubbi sulla collocazione del genere: un film con James Bond rientra nella sfera spy
stories, ma ciò non toglie che sia presente anche la storia d’amore del protagonista o delle battute
sparse per alleviare la tensione.
Tutto ciò perchè l’identificazione di genere deriva da delle particolari caratteristiche:
• ambientazione della storia nel tempo e nello spazio;
• natura del protagonista;
• compiti che sono assegnati al protagonista.
Queste caratteristiche rendono facile allo spettatore identificare il genere e poter scegliere quello di
suo gradimento.
Inoltre, le narrazioni di genere hanno un impianto dualistico: contrappongono valori culturali
positivi e negativi, per esempio Biancaneve e Grimilde (la strega cattiva), lo sceriffo e il fuori
legge, ecc.
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Data questa struttura duale, le storie tendono ad essere ripetitive: incontriamo lo stesso regolamento
dei conti, attacco a sorpresa, medesima storia d’amore che culmina con il lieto fine, ecc. può
cambiare la location o il costume, ma in sostanza si torna sempre a girare le stesse scene.
La ripetitività rende le narrazioni estremamente prevedibili, tanto che comporta l’associazione di un
attore a un genere di film in cui lui ha precedentemente recitato (es: John Wayne).
Per gli spettatori il piacere veniva dalla riconferma più che dalla novità: assistere a storie
avvincenti in qualche modo “familiari”; possono trarre nuove emozioni da dialoghi originali, ma
preferiscono comunque la visione di un ambiente che possono in qualche modo controllare. Di
conseguenza, il film genera una falsa suspance: dobbiamo momentaneamente fingere di non sapere
che alla fine la coppia verrà riunita e l’eroe liberato.
La classificazione dei generi e la standardizzazione di un prodotto, crea nel pubblico degli orizzonti
limitati: questa prevedibilità, accolta con piacere dallo spettatore (o lettore, ascoltatore) fa si che
esso possa lasciarsi andare al ritmo della storia, senza preoccuparsi d’altro, perché a grandi linee
sanno già come questa terminerà; lo spettatore, alla fine, dovrà solo decretare se la storia è stata
interpretata bene o male.
Gli studiosi Horkheimer e Adorno affermano a riguardo che questo tipo di produzioni culturali,
incoraggia il pubblico ad accontentarsi di strutture cognitive povere; l’opera ha l’intento dichiarato
di divertire, ma allo stesso tempo annulla la capacità critica degli spettatori: essi sono attratti da
questa industria culturale ma non sono incoraggiate a pensare in modo autonomo (e così accade
anche in campo musicale).
Valore simbolico → le narrazioni di genere presentano un valore simbolico, in quanto le storie
narrate si concludono frequentemente con un finale positivo. Il successo travolgente dei prodotti
hollywoodiani è dato dal sapiente dosaggio con cui vengono combinati gli eventi e le occasioni, che
da una parte suscitano piacere nello spettatore e dall’altro la restituzione finale dei valori culturali.
3. Serialità
Un’altra caratteristica che accomuna le produzioni della cultura di massa mainstream è la serialità,
che consiste nel racconto a intervalli e sequenziale e possono essere distinte in 3 diverse modalità:
1) Singola storia a puntate;
2) Storia articolata in una sequenza di episodi autonomi;
3) Serial continuo, con storie che si snodano in un numero di puntate potenzialmente illimitato.
1) SINGOLA STORIA A PUNTATE
E’ una forma narrativa nata all’inizio del 1800 e si presentava su quotidiani, riviste o periodici.
La storia a puntate narra una vicenda che si svolge in un numero limitato di episodi, che presenta
spesso la forma del cliffhanger (= suspance mozzafiato) nella parte conclusiva di ciascuna puntata.
Una gran parte significativa della narrativa del 1800 viene proposta al pubblico proprio in questo
modo: per esempio i romanzi di Dickens, Zola, Madame Bovary e altri.
Nella seconda metà del 1800, negli USA, nascono i dime novels (romanzi di genere pubblicati su
riviste specializzate) e in seguito i pulp magazines (periodici a basso prezzo).
E’ attraverso queste pubblicazioni che prendono forma i principali generi narrativi popolari
(avventura, esotiche, fantascientifiche, investigative).
La serialità a puntate investe a seguire anche l’ambito del cinema e dei fumetti.
2) STORIA ARTICOLATA IN UNA SEQUENZA DI EPISODI AUTONOMI
Forma narrativa nata a metà del 1800 e consiste in storie legate al medesimo protagonista o stesso
gruppo di protagonisti.
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Un esempio sono i racconti legati alle avventure di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle,
pubblicati in Gran Bretagna nel 1887, che verranno seguiti da numerosi altri romanzi.
Lo stesso metodo narrativo verrà poi utilizzato anche nei fumetti e nella radio con i radiodrammi in
cui, in quest’ultimo verranno raccontate le vicende di personaggi già noti al pubblico.
Grazie alla radio, nasce anche un altro tipo di racconto seriale: la sitcom, a metà tra le prime due
tipologie.
Prima sitcom radiofonica nel 1926: il programma “Sam ‘n’ Henry” che vede come protagonisti 2
uomini neri emigrati dall’Alabama a Chicago in cerca di fortuna (in chiave comica).
Nascita dei sequel e dei prequel: ovvero prosecuzioni delle storie di personaggi che il pubblico
aveva precedentemente accolto con grande favore.
Esempio: il personaggio di Flash Grodon che vede le sue avventure in un serial cinematografico.
3) SERIAL CONTINUO
E’ una narrazione che presenta temi intrecciati da dove nascono – in parallelo – altre storie e
puntate. Potrebbero proseguire all’infinito perché dentro la storia si creano vari temi narrativi che
trovano la loro risoluzione ma, nel mentre, se ne sviluppano altri per tenere vivo l’interesse dello
spettatore.
Questo modello narrativo è utilizzato maggiormente dalle radio, che sviluppa le Soap Opera,
trasmissioni a puntate che possono durare per decenni (tra le più longeve “Ma perkins”: dal 1933 al
1960 e venne interrotta per via della concorrenza delle soap televisive).
Ne è un esempio il programma “The Smith Family” (1925) mandato in onda una sera a settimana.
In seguito nasceranno altre soap di successo e hanno tutte lo stesso format: ambientate negli interni
domestici, descrivono le vicende di una famiglia ed eventualmente dei vicini di casa. Raramente si
trattano tematiche politiche o pubbliche per evitare di causare un “turbamento” nel pubblico; si
prediligono argomenti affettivi, passionali, economici e di scelte di vita che vanno ad sconvolgere
gli equilibri familiari.
Il modo di parlare è semplice, famigliare.
4. Intermedialità
La serialità contribuisce fortemente alla diffusione delle produzioni culturali mainstream grazie alla
fidelizzazione e interesse del pubblico per i loro personaggi preferiti.
Grazie anche a:
• Risoluzione positiva dei cliffhangers in cui si arriva ad un lieto fine con la conclusione della
storia. (Narrazioni di singole storie a puntate)
• Il micro – happy ending che ristabilisce la temporanea armonia della narrazione; (Soap
Opera)
• La semplicità e il poco impegno intellettuale richiesto da parte di queste narrazioni. (Soap
opera)
Le storie passano facilmente da un mezzo di comunicazione ad un altro, infatti spesso si
potevano trovare gli stessi personaggi attivi contemporaneamente sia nell’ambito cinematografico
che radiofonico, ecc.
Le reti intermediali si intrecciano intorno ad Hollywood come crocevia ideale:
• libro → film
• musical → film
• musical → radio
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Un importante caso è il rapporto inverso:
• libro → film → soap opera radiofonica
Il film in questione è “Stella Dallas” (Amore sublime) diretto da King Vidor. Tratto da un romanzo,
venne prodotto nel 1925 un film muto e nel 1937 un film remake, per poi essere trasportato in radio
tramite soap opera.
Questa intermedialità è una caratteristica fondamentale della cultura di massa mainstream:
l’impatto delle narrazioni di massa viene moltiplicato da questa soluzione narrativa che permette ai
personaggi di rimanere vivi nell’immaginario collettivo.
Questo discorso è ancora più d’impatto quando si parla dei racconti Disney:
• “Biancaneve e i sette nani” (1937) è il primo lungometraggio di produzione Disney ad
essere portato nei cinema, poi ancora negli anni ‘40, ‘50, ‘60, ‘70, ‘80, ‘90. poi passa ai
VHS e DVD oltre che a svariati libri per bambini e parchi a tema.
• “Cenerentola” (1950) esce nelle sale cinematografiche come lungometraggio e poi riportato
ancora negli anni ‘60, ‘70, ‘80, poi anch’esso in VHS e DVD, parchi a tema, libri per
bambini e gadget vari. Inoltre, due sequel animati: “Cenerentola II – quando i sogni
diventano realtà” (2002) e “Cenerentola III – il gioco del destino” (2007).
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II. NARRAZIONI MAINSTREAM
1. There’s no place like home
The Wizard of Oz è un film della Metro – Goldwyn – Mayer del 1939 tratto dall’omonimo romanzo
per bambini di Frank L. Baum, uscito nel 1900.
Al momento della sua uscita, il film ebbe un successo buono ma nontravolgente, mentre negli anni
seguenti si impose come uno dei luoghi fondamentali dell’immaginario collettivo statunitense.
Diviso in tre parti, il film è accompagnato da musiche che si imposero subito in classifica, fra le
quali Over the Rainbow, cantata dall’attrice protagonista Judy Garland.
La storia raccontata nel film è semplice, ma nella sua semplicità ripercorre una delle più importanti
forme mitiche che ricorrono nella cultura occidentale:
quella del viaggio di ricerca (= quest), in cui un eroe, accompagnato da uno o più compagni, deve
allontanarsi da casa, intraprendere un viaggio pericoloso, sconfiggere i nemici e compiere un’azione
che gli permetta di tornare alla sua comunità di appartenenza. Nel caso di Dorothy, la protagonista,
il viaggio intrapreso è un percorso di formazione e di crescita, che consente alla piccola
protagonista di acquistare la serenità e la sicurezza necessarie per sentirsi parte integrante della sua
comunità.
Secondo Paul Nathanson, la quest potrebbe assumere anche i caratteri di un rito di passaggio
dall’infanzia alla pubertà (Strega cattiva come simbolo di immaturità sessuale, scarpe rosse come
simbolo del sangue mestruale, manico discopa come simbolo fallico). Che la protagonista della
storia sia una bambina che oltrepassa la soglia della pubertà è essenziale, giacché nella cultura
mainstream diffusa all’epoca il luogo deputato per l’esistenza di una donna è la domesticità.
Inoltre, un altro topos fondamentale presente in questo film ma anche in altri del periodo è la
presenza di una famiglia ricostruita, più o meno disfunzionale, bisognosa di una ricomposizione,
esperienza ben nota ai sopravvissuti alla Grande Depressione, alla migrazione e dalla guerra.
Infine, il tono di speranza che accompagna il percorso di Dorothy ha sicuramente contribuito a dare
un po’ di conforto ed una fugace serenità a molti spettatori oppressi dalle durezze della vita.
2. Terra di eroi
Nel contesto dell’Europa di fine 700 e inizio 800, quando nasce un nuovo modo di concepire i
rapporti di potere, il nazionalismo dà corpo alla figura degli eroi. Questi sono uomini che devono
essere capaci di difendere la libertà e l’onore della nazione armi alla mano. Leali, puri, rispettosi,
coraggiosi, sprezzanti del dolore fisico e del pericolo. Sono da molti punti di vista le figure più
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tipiche e rappresentative dell’eroismo nazional-patriottico europeo, perché rappresentano anche la
figura del martirio. Sono pronti a morire per la causa. L’esempio sacrificale è essenziale perché gli
altri abbiano il coraggio di fare lo stesso. Intorno a questa idea, si costruisce nel tempo un
intensissimo culto dei caduti.
Nella tradizione narrativa statunitense (e anche nelle storie prodotte dalla cultura di massa) l’eroe ha
i tratti sacrificali che appartengono al contesto culturale europeo. Il caso più noto di questa
particolare declinazione della figura dell’eroe è quello di George Armstrong Custer e della sua
morte valorosa con i suoi soldati del 1876. Tuttavia, a questo, nella cultura mainstream statunitense
si affianca anche l’eroe vittorioso, presentato fin dai Captivity Tales che raccontano degli attacchi
indiani a qualche comunità di coloni e di qualche eroe vittorioso che salva la situazione. Nei Dime
Novels la figura dell’eroe salvifico precisa il suo profilo fino a fissarsi nell’immaginario collettivo
statunitense con la pubblicazione del romanzo “Il Virginiano” del 1902, dedicato al presidente
Theodore Roosevelt. La storia racconta di una comunità di allevatori del Wyoming ossessionata da
bade di ladri di cavalli. Le autorità sono corrotte e non sono adeguatamente attrezzate. Arriva un
misterioso virginiano di cui non conosciamo il nome. È un uomo fiero e d’onore che decide di
lottare con i membri della comunità, anche perché si innamora della maestra del paese. Lo scontro
tra il bene e il male si risolve nel duello finale tra l’eroe e il capo dei cattivi, nel quale l’eroe ha la
meglio. Il virginiano sposerà la bella maestra ponendo le fondamenta simboliche per un futuro
sviluppo della comunità. Il libro ha tantissimo successo e viene usato anche come lettura nelle
scuole. Da questo verranno tratti 4 film. Poi, negli anni seguenti, sopratutto dal 1929, personaggi
analoghi vivono le loro avventure anche negli altri media. Citiamone alcuni come “Prince Valiant”,
“The Lone Ranger”, “Tarzan”, “Dick Tracy” “Buck Rogers”, “Flash Gordon”. Diversamente dagli
eroi sacrificali, tutti questi eroi sono personaggi che non muoiono mai. In qualche raro caso
invecchiano, si sposano, hanno dei figli che continuano la saga del padre, come accade nella storia
di “Prince Valiant”. Ma questa è un eccezione. Per la maggior parte dei casi, gli eroi vivono una vita
infinita. Nonostante non lo siano fisicamente, ci sembrano essere immortali e invincibili.
L’immortalità e l’invincibilità diventano invece un dato strutturale del personaggio eroico nel 1938,
quando compare la prima storia a fumetti di “Superman”. Con lui il supereroe è immortale e ha
superpoteri. È un eroe etico nel senso che non uccide nessuno, ricorre alla violenza solo quando è
costretto, e non ha bisogno di armi per farlo. Usa insomma una specie di “violenza giusta”. A
controbilanciare il potere del supereroe c’è il suo punto debole, in questo caso la Kryptonite, una
roccia che i cattivi usano contro di lui. Inoltre Superman è in realtà Clark Kent, un giornalista
imbranato, senza fascino, inutilmente innamorato della collega, che a sua volta è innamorata di
Superman. Questo è un’altro modo di attenuare il connotato eroico, per consentire al lettore di
identificarsi, per fargli capire che il supereroe è anche un tizio normalissimo con le sue fragilità. I
tratti di Superman sono replicati dalla prima intera generazione di supereroi è anche in “Wonder
Woman”. È un fumetto del 1942 il cui personaggio è tratteggiato psicologicamente da un dichiarato
femminista. Wonder Woman è un amazzone che vive con il suo popolo fino a che Trevor, un
aviatore americano non precipita nell’isola e se ne innamora, e decide di riportarlo in America, dove
inizia la carriera di supereroina. E qui vive lo stesso triangolo amoroso di Superman: Trevor non è
attratto da Diana, l’identità normale assunta segretamente dalla donna, perché è perdutamente
innamorato di Wonder Woman.
La presenza di un eroina come simbolo di emancipazione della donna, nell’immaginario del tempo,
poteva essere un problema. Infatti la figura è ridimensionata da una serie di particolari narrativi. Ad
esempio quando spesso Wonder Woman spiega che non vuole sposare Trevor perché non potrebbe
sopportare di essere una moglie sottomessa e ubbidiente, poi in realtà in alcuni episodi sogna di
diventarlo. Inoltre e più importante: la supereroina perde tutta la sua forza e non può più liberarsi se
un maschio cattivo la imprigiona collegando i suoi braccialetti di Afrodite a delle catene. A quel
punto solo un maschio buono può salvarla. Tutti questi supereroi combattono minacce rivolte contro
la “home” alla quale appartengono o per la quale lottano. E non sorprende che spesso essi si
arruolino per difendere la home intesa come madrepatria. Succede a Superman in primis, e
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sopratutto a Capitan America, che nasce proprio come esperimento scientifico finanziato
dall’esercito americano per creare un super soldato combattente contro le truppe naziste. Spesso a
fumetti, radiodrammi, film, sono collegati gadget messi in commercio soprattutto per gli
adolescenti, fatti per dare spessore di realtà a storie fantasiose. Negli anni precedenti all’entrata
degli USA nella seconda guerra, per esempio, i ragazzi che si iscrivevano alla Don Winslow’s
Squadron of Peace (associazione fittizia collegata al fumetto “Don Winslow of the Navy) riceveva
un attestato con un giuramento di adesione in cui, con tono bambinesco, si invitava a rispettare la
gerarchia. Inoltre nei fumetti - succede in “Terry and the Pirates” potevano essere spiegate le ragioni
ideologiche dell’impegno militare statunitense in guerra. Nel giugno 1980 addirittura il presidente
Carter ha consegnato alla vedove di John Wayne la Presidential Medal of Freedom, dicendo che egli
era stato un esempio di vera determinazione americana e che incorporava i valori americani del
coraggio, della giustizia. Che era stato un vero patriota. Insomma, un’onorificenza conferita non
alla persona, ma all’attore. Al ruolo. Questa confusione tra finzione e realtà è molto persuasiva.
(Le figure eroiche compaiono naturalmente anche nel cinema).
3. ...e vissero (quasi sempre) felici e contenti
Nei fumetti, nei film, nei radiodrammi, nei romanzi, è un sospiro di sollievo ciò che alla fine scaccia
via le ansie. Tutte queste narrazioni ansiogene si risolvono con esiti rassicurante e postivi. Ma il
plot essenziale di questi settori della cultura mainstream non è un invenzione degli hollywoodiani,
ma è una delle modalità narrative della tradizione letteraria dell’Occidente: Un giovane vuole una
ragazza (o viceversa) ma il compimento del loro desiderio è impedito da un ostacolo, finché alla
fine l’impedimento viene superato, gli antagonisti sbaragliati, l’equivoco risolto, le incomprensioni
capite, e i due cuori possono vivere per sempre felici e contenti. Le commedie romantiche in senso
proprio, i cartoni animati e i musical che raccontano storie di innamoramento, ed hanno un
andamento tra i più standardizzati in tutta la cultura mainstream, per questo non è difficile
identificarne tre tratti struttali fondamentali:
• L’amore romantico è considerato come ingrediente necessario perché due cuori possano
incontrarsi. Il testo della canzone che Fred canta mentre danza con Ginger in uno dei numeri
del musical “Top Hat” spiega la magia dell’innamoramento e suggerisce anche quanto il
sentimento d’amore possa aiutare nella vita quotidiana.
• L’obiettivo dell’innamoramento è uno: la fondazione di un nucleo matrimoniale felice, che è
ciò che costituisce l’etica del lieto dine di queste storie. Visto che la home come famiglia è il
nucleo microscopico della home come patria. I film di questo periodo non finiscono con un
momento effettivo di matrimonio, ma lo fanno intendere. Ad esempio “Biancaneve” finisce
con il principe azzurro che la porta via sul suo cavallo bianco, e la canzone che li
accompagna fa capire proprio che ci sarà un probabile futuro evento nuziale.
• Al sesso non si allude; al massimo con qualche bacio appassionato ma breve. Ovviamente
tutti i personaggi sono eterosessuali. Tutte le case cinematografiche erano infatti sottomesse
ad un Codice di censura dal 1934. Le commedie romantiche, i cartoni animati e i musical
quindi chiudono con il “vissero per sempre felici e contenti”.
Ma cosa succede dopo? Le coppie sono davvero felici e contente? Questo interrogativo si trova al
centro della Soap Opera radiofonica, che si concentra prevalentemente su vicende postmatrimoniali
osservate dall’interno della home. Le soap hanno generalmente uno sviluppo drammatico: c’è
spazio per adulteri, stress, scoperte di segreti, crisi, incomprensioni. Normalmente tutti i drammi
che si aprono arrivano ad un compimento con un esito moralmente positivo soprattutto per il genere
femminile. La tavola della moralità è infatti stabilita da personaggi femminili di collocazione e
convinzioni molto tradizionali: madri di famiglia, donne in carriera ma attive per i figli, nonne
sagge. L’etica delle narrazioni è data dal matrimonio stabile e felice come massimo valore positivo.
Un caso particolare è quello di “Stella Dallas”, che esordisce sugli schermi cinematografici
nell’agosto 1937. È un melodramma strappalacrime particolarmente mortificante.
→ La protagonista, Stella, di umile estrazione sociale, riesce a sposarsi con un manager di buona
famiglia: Stephen Dallas. Il rapporto ben presto naufraga per l’eccessiva distanza culturale dei due.
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Ma la mamma si sacrifica per la figlia, Laurel, e preferisce vada a vivere con il padre perchè avrà
più possibilità. La scena finale è straziante e descrive Stella sotto la pioggia, bagnata fradicia, che
guarda dall’esterno attraverso una finestra, il matrimonio che unisce Laurel ad un rampollo dell’alta
borghesia. Conoscenza avvenuta grazie al padre e alla nuova moglie. Nonostante tutto però la donna
ha uno sguardo trionfante: il suo sacrificio è servito.
Al film segue una soap che esordisce in radio nell’ottobre 1937, quindi due mesi dopo. Il cambio di
mezzo di comunicazione porta ad un cambio di prospettiva e si può dire che essa sia diametralmente
diversa dal film.
La soap inizia proprio dove finisce il film. Stella rientra nella vita di Laurel e dà prova del suo
coraggio in molti modi. Difende i suoi principi etici, individua la perversione morale prima che sia
percepibile agli altri, difende i poveri. Deve vedersela con la suocera della figlia, una rozza dama
dell’elité della città, e riesce a conquistare il bene del marito di Laurel. In altri casi si può notare una
struttura molto simile. Nel caso di “Via col vento” (1939) notiamo una struttura da soap opera che si
caratterizza per la struttura ciclica della narrazione. Quindi il film è costruito intorno ad
un’incessante sequenza di alti e bassi esistenziali (in questo caso della protagonista): slancio
positivo, risi, rinascita, nuovo slancio positivo, nuova crisi, nuova rinascita.
4. Drammi morali
Le soap introducono la dimensione del dramma familiare risolvendola in una prospettiva
favorevole, per quanto limitatamente favorevole, al genere femminile. In altri casi, le narrazioni
hanno un più esplicito intento morale, tanto che spesso si ricorre alla definizione di “modern
morality plays” per descriverne i caratteri. Anche questo sviluppo narrativo non è sconosciuto alla
tradizione letteraria occidentale. Le storie messe in campo sono quelle del capro espiatorio, la cui
eliminazione assicura un nuovo equilibrio ad una comunità moralmente in pericolo.
Le storie messe in campo sono quelle del capro espiatorio, la cui eliminazione assicura un nuovo
equilibrio alla comunità. Hanno un ruolo etico rassicurante, per questo i romanzi polizieschi sono
popolari: la loro formula è costituita da un cacciatore che individua il capro espiatorio di una
situazione negativa e si sbarazza di lui. In particolare il lato investigativo si fonde con il giallo in
una forma di melodramma. Nel melodramma sono rilevanti due temi: il trionfo della virtù morale
sulla malvagità e la idealizzazione delle concezioni morali del pubblico. Una delle fondamentali
declinazioni del giallo, sia nella letteratura che nei radiodrammi, fumetti, cinema, consiste nella
descrizione di un’indagine condotta da un investigatore aiutato dalla sua spalla, che cerca di
identificare il responsabile di un crimine. Questa forma ha origine nell’800 con Poe o con Doyle
stesso, e continua ad essere praticata nel 900 con autori come Agatha Christie. A partire dagli anni
20 e 30, la crime story muta con una virilizzazione del genere: il detective acquista fascino, diventa
un vero uomo vissuto, pronto a tutto, abituato a bere superalcolici, cinico e disilluso verso la
società. Inoltre compare la figura della donna come pericolosa, bella e seducente. “La fiamma del
peccato” è un esempio perfetto. Fondamentale in tutto questo è che si arrivi ad una punizione finale
dei responsabili del crimine. È imperativo il ripristino dell’ordine morale. Deve passare il
messaggio che se ci saranno disordini per l’armonia della comunità, questi non rimarranno impuniti.
Altri crimini trovano la loro punizione in storie diverse, dove le figure femminili ricoprono il ruolo
di portatrici di minacciose devianze che verranno punite. Succede nel film “Jezebel” (1938). Julie
Marsden, una giovane gentildonna, è fidanzata con Preston, un ricco banchiere. Pur essendo
perdutamente innamorata, Julie vuole a tutti i costi affermare la sua personalità su quella di lui, e fa
cose che la società locale e lo stesso fidanzato giudicano disdicevoli (tipo mettere un abitino rosso
al principale ballo della stagione, quando invece le donne da marito dovevano vestire di bianco).
L’anticonformismo e l’indipendenza di Julie stancano Preston, che la lascia e si fidanza con
un’altra. La ragazza ha il cuore spezzato ma capisce che la colpa è solo sua. Quando l’uomo si
ammala di colera, decide di sostituirsi alla sua giovane moglie per accompagnarlo nell’isola della
quarantena, nella quale moriranno entrambi. Così Julie si infligge la giusta punizione per la sua
condotta inammissibilmente trasgressiva.
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5. Genere, razza, classe
L’accanimento morale nei confronti di donne pericoloso trova contestualizzazione in una visione
fondata sul riconoscimento di generi gerarchici. Gli uomini hanno compiti attivi mentre le donne
sono passive. In “Boom Town” ci sono scene di un maschilismo incredibile. Nella prima scena John
dichiara il suo amore alla tenera Betsy: lei è appena arrivata in città ed è disorientata, e lui le fa da
cavaliere portandola a cena e in giro. Quando è chiaro che lui è innamorato, lei va in confusione
alludendo ad un precedente impegno e cerca di scappare. Ma John, da “vero uomo” con fare deciso
le dice “Vieni qui”. Lei scende e lui le dice di aver preso la sua decisione. E che lei non se ne andrà
mai più. Poi la bacia appassionatamente. Il mattino dopo i due risultano già sposati. Passa un po’ di
tempo e i due sono nel corso di una crisi familiare. John (Clark Gable) pensa che la donna lo possa
lasciare, allora si precipita furiosamente a casa. La afferra per le braccia e le dice che è sua e che lo
sarà per sempre, a costo di picchiarla. Lei sorridendo risponde: “Sono tua, picchiami se ti fa
piacere”. Lui allora dice che lo farà se ce ne sarà bisogno. Poi la bacia.
In “Via col vento” abbiamo la scena di un vero e proprio stupro coniugale, ma la mattina dopo il
fatto, vediamo Scarlett che, nonostante sia una donna forte e indipendente, ha un sorriso di
appagamento e soddisfazione sul viso. Per non parlare del razzismo presente nei film: i neri sono
sempre confinati a ruoli di schiavi, umili domestici (come Mammy in “Via col vento”, personaggio
importante ed anche premiato con un Oscar). D’altronde la stessa autrice del romanzo ha più volte
affermato di aver tratto ispirazione per il suo lavoro da un caposaldo del razzismo americano:
“Nascita di una nazione” di Griffith, e di essere simpatizzante per il Ku Klux Klan. Un’eccezione
del genere razzista è costituita da “Amos e Andy”, sitcom radiofonica già citata iniziata nel 1929.
Nonostante in origine l’intento sia ironico, secondo diversi autori, l’evoluzione di questa sitcom
porta a un apprezzamento positivo della presenza nera nella vita sociale statunitense. Per un
pubblico abituato a neri in ruoli marginali, qui abbiamo una prospettiva completamente diversa.
Però questo è un esempio isolato. Un’altra caratterizzazione in molte produzioni dell’epoca è che
gli eroi provengono da classi popolari, di ceto medio, mentre le figure negative sono per lo più avidi
banchieri, imprenditori, donne ricchissime, viziate. L’autore che dà maggiormente corpo a questa
rappresentazione populista dei rapporti sociali è Capra. Egli descrive i suoi eroi come persone
semplici, di ceto medio, che combattono contro squali della finanzia, imprenditori, politici corrotti.
La lotta è impari ma il finale è ovviamente positivo. La prospettiva populista non intende alludere a
radicali trasformazioni sociali nell’ordine democratico della società statunitense; ma invita ad essere
contenti di posizioni sociali medie, che sono quelle che più caratterizzano la home. Inoltre il
populismo non cambia niente degli altri aspetti essenziali delle narrative mainstream, visto che
esaltazione del singolo eroe, la violenza redentrice e la valutazione positiva della razza ne sono
elementi cruciali.
6. Lieto fine
Nel passaggio da un media all’altro le storie possono cambiare le loro caratteristiche. E questi
mutamenti possono avere significato di tipo ideologico. Prendiamo tre esempi esplicativi (dallo
scritto al cinema):
1. La pièce teatrale “The Childrend’s hour” (1934), diviene film della MGM “La calunnia” nel
1936. La scrittrice è anche sceneggiatrice del film: Lilian Hellman. Nel teatro un’alunna
insinua che due sue giovani insegnanti abbiano una relazione omosessuale. L’accusa le
travolge nonostante non siano davvero colpevoli. Però, una delle due prova davvero una
forte attrazione nei confronti dell’altra, e per il senso di colpa si uccide. Il film elimina ogni
accenno alla omosessualità. L’allieva maligna qui sostiene che una delle due insegnanti
abbia avuto una storia con il dottore Joe, fidanzato dell’altra insegnante. La calunnia scredita
le due e rovina la storia d’amore. Alla fine però lo scandalo cade e la coppia si riunisce.
2. Il romanzo “Furore” (1939) di Steinbeck diviene film nel 1940, con la regia di John Ford. Il
libro denuncia il disastro che si è abbattuto sulle famiglie di agricoltori delle pianure nel
centro-sud degli USA. Si racconta il tentativo di emigrazione in California della famiglia
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Joad, in cerca di una nuova vita, che si conclude con la disgregazione della famiglia. Ogni
cosa finisce in tragedia. Nel film non si ha lo stesso finale. I Joad sono diminuiti di numero
ma non ancora piegati. Vanno a lavoro nei campi di cotone e non hanno ancora perso la
speranza per un futuro migliore.
3. Il romanzo “Il grande sonno” (1939) di Chandler diviene film nel 1946 con regia di Hawks.
Nel libro una coppia di giovani sorelle ricchissime, sono al cento di intricati eventi criminali,
sui quali indaga il detective privato Philip Marlowe. La più giovane delle due Carmen è
mentalmente squilibrata e ha ucciso il marito di Vivian che l’aveva rifiutata. In questo si fa
aiutare dal proprietario di un casinò che poi la ricatta. Il detective uscire tutto ma invece di
assicurarle alla giustizia le salva e le lascia libere. Nel film i riferimenti sessuali
scompaiono. Nel finale il detective scopre che il marito di Vivian non è stato ucciso da
Carmen, ma dal suo ricattatore. Inoltre Marlowe in questa versione è attratto da Vivian e si
allude ad una loro relazione oltre la diegesi.
Tutti e tre gli esempi ci fanno capire l’obbligo del lieto fine nel cinema hollywoodiano. Il lieto fine
è necessario perché ha una funzione consolatoria. Lo spettatore si identifica nel personaggio con un
meccanismo simile a quello che spinge una persona al gioco d’azzardo: sa che le probabilità di
successo sono pochissime ma è talmente disperato che ci prova lo stesso. Il messaggio di ottimismo
dell’happy ending riscuote successo volutamente negli anni più bui che seguono la crisi del ’29.
Queste storie operano anche una rimozione quasi integrale della sofferenza e della morte. Se muore
qualcuno, si tratti di personaggi che lo meritano. Le figure principali rischiano ma non muoiono
mai. Insomma, lo spettatore si deve divertire. E divertirsi in questo senso vuol dire “distogliere lo
sguardo”, “non pensare”, “essere d’accordo”. Ci sono ovviamente anche altre tipologie di opere più
complesse, diverse. Gli esempi sono infiniti, come Hemingway, Fitzgerald, Gertrude Stein,
Barnes… Ma la quantità di persone che si fanno conquistare da queste creazioni culturali più
elaborate è infinitamente minore da quella che cede alle seduzioni del sistema narrativo mainstream.
In ogni momenti di crisi, le opere impegnative crollano, i teatri di qualità chiudono, i film audaci
non circolano. Al contrario, i lavori con minori ambizioni intellettuali riscuoto un successo enorme.
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III. CONTRONARRAZIONI IN MUSICA: BLUES, HILLBILLY, FOLK
1. La “Anthology of American Folk Music”
Nel 1952 la Folkways Record, una piccola casa discografica newyorkese, pubblica la Anthology of
American Folk Music, una specie di monumento discografico folk americano in 6 LP, per un totale
di 84 brani. La Anthology contiene brani della hillbilly music, del country, del country western, del
folk, del blues afroamericano.
Un’operazione come quella della Anthology sarebbe stata impensabile prima della Seconda Guerra
mondiale, giacché in quel periodo i segmenti del mercato musicale sono rigorosamente segregati.
La musica hillbilly è eseguita esclusivamente da bianchi e per un pubblico bianco, la musica blues e
quella gospel da neri per un pubblico nero. Tra gli anni ‘20 e ‘40 non ci sono interscambi di
mercato, ma ci sono molte influenze reciproche giacché molti nessi legano i diversi stili
documentati nella Anthology, sia dal punto di vista musicale ch dal punto di vista poetico. Peraltro,
la costellazione folk statunitense non esaurisce con la musica hillbilly, gospel o blues, ma
comprende almeno un’altra importante declinazione, ovvero il folk di protesta sindacale, non
compresa nella raccolta, ma che si sviluppa dall’inizio del XX secolo fino agli anni del New Deal e
della Seconda Guerra Mondiale.
2. Da New Orleans a Chicago
E’ nel quartiere a luci rosse di New Orleans (chiamato “Storyville”) realizzato nel 1897 che si inizia
a sentire una musica nuova e strana, suonata inizialmente solo da musicisti neri, e proveniente dai
bordelli della zona. Una volta chiuso il quartiere nel 1917, molti musicisti che vi suonavano,
cercarono lavoro altrove:
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nelle città dove esistono grosse comunità afroamericane;
seguono i flussi migratori che stanno portando molti afroamericani del Sud a Filadelfia,
Detroit, New York, Chicago, dove spesso continuano a suonare nei quartieri e locali
malfamati.
Il 1917, è anche l’anno della pubblicazione della prima incisione discografica di un gruppo che nel
proprio nome esibisce il termine che finirà per disegnare stabilmente quel particolare genere
musicale: la Dixieland Jass Band, che con il disco a 78 giri Dixieland Jass Band One – Step e
Livery Stable Blues riscossero un grande successo presso il pubblico afroamericano.
•
•
Molta della musica jazz sin dall’inizio mostra caratteristiche strutturali che la distanziano
radicalmente dalla tradizione della musica occidentale (musica classica, produzioni di Tin Pan
Allley), come:
• improvvisazione
• assenza di notazioni musicali
• scansioni
• strumentazioni ritmiche
• dialogo tra voci e strumenti
• libera performattività corporea.
La musica jazz si diffonde nel primo dopoguerra come musica strumentale da ballo, adatta a forme
coreutiche nuove, come il charleston, che si impongono tra i giovani delle comunità afroamericane
e tra i ragazzi e le ragazze delle comunità bianche. Jazz band si accompagnano talvolta anche a
delle cantanti nere, di cui la più nota è Mamie Smith. Da allora, la moda delle cantanti nere si
impose sia nei teatri delle città del Sud che sul mercato discografico, dove le loro musiche sono
apprezzate solo da acquirenti neri.
→ BLUES:
La musica jazz ha un rapporto diretto con un’altra forma musicale di origine afroamericana, cioè il
blues.
Non è facile dire cosa sia il blues nei primi anni dell’inizio del secolo, perché l’etichetta è applicata
a musiche varie. Tuttavia, una forma molto meglio definita di blues si sviluppa proprio in questi
anni, in un circuito parallelo nascosto rispetto a quello delle cantanti e delle jazz band. E’ un circuito
itinerante, percorso da musicisti neri che si muovono di città in città, villaggio in villaggio, per
suonare alle feste, alle fiere, nei juke joints (= pub frequentati da donne e uomini della comunità
afroamericana). L’area in cui vivono questi artisti è racchiusa tra il Texas, Luisiana, Missisipi,
Alabama e Georgia, e ne sono esempi Blind Lemon Jefferson e Huddie “Leadbelly” Ledbetter, il
primo dei quali fissò il modello delle prima canzoni blues, caratterizzate da:
• una sequenza variabile di strofe organizzate interamente allo stesso modo
• primi due versi uguali (tranne alcune eccezioni)
La ragione di questa struttura complessiva sta nella natura originariamente improvvisata del blues,
poiché la ripetizione dei due versi dà al cantante il tempo per escogitare il verso che chiude il
ragionamento.
Questo modello, che nasce come espediente, si trasforma poi in una matrice estetica che persiste
anche quando il blues diventa musica registrata in studio e non può durare più di 2 o 3 minuti.
Il blues è una delle musiche più standardizzate che si incontrano nel panorama della pop culture, e
la semplicità della sua forma contribuisce al suo successo presso gli ascoltatori afroamericani.
Nonostante ciò, la crisi del ‘29 dà un durissimo colpo al mercato, e le famiglie, molte della quali
molto povere, devono affrontare tempi drammatici, e le prime spese ad essere tagliate sono,
ovviamente, quelle superflue.
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La produzione di dischi crolla, ed a stento questa musica continua a vivere grazie alle performance
dal vivo: ma è a questo punto che, a sostenerla, intervengono degli altri personaggi che vengono dal
mondo dei bianchi, cioè gli etnomusicologi.
3. Canti dalle prigioni
Sul modello della ricerca folclorica sviluppatasi in Europa sin dal XVIII secolo, anche gli USA
assistono, nel corso del 1800, e poi ancora ai primi del 1900 ad un costante interesse per la musica
folk da parte di un numero crescente di appassionati e studiosi impegnati nella ricerca di ciò che
dovrebbe esprimere l’anima del popolo statunitense.
Di tutti i ricercatori in questo campo, John Lomax e suo figlio Alan hanno un rilievo del tutto
particolare, non solo per la continuità del loro lavoro di ricerca, che copre tutto il XX secolo, ma
anche per una particolare sensibilità che li induce ad interessarsi tanto delle espressioni poetiche e
musicali delle comunità rurali bianche, quano a quelle delle comunità afroamericane, superando la
“linea di colore” che anche in quell’ambito aveva spessp impedito di vedere connessioni, prestiti e
influenze tra le diverso tradizioni musicali.
Lomax, in Louisiana, incontra Huddie Ledbetter, un galeotto nero con un passato burrascoso e
grandi capacità musicali, mentre ricercava buoni esempi della musica folk all’interno delle prigioni,
dove l’isolamento dal mondo esterno può aver conservato tracce di un precedente passato musicale.
Ledbetter ottiene la grazia dal governatore della Luoisiana ein seguito, riesce a registrare alcune
delle sue performance. Questo sarà uno sconto per la sua pena e Lomax diventerà il suo direttore
musicale. Successivamente aspetti materiali del loro rapporto (come i profitti dal tour divisi in
modo squilibrato) ed anche psicologici, portano a una rottura.
Alan, il figlio di Lomax, si estranea dai disguidi tra i due, perché negli anni si è reso conto delle
condizioni in cui versano gli afroamericani del Sud e ha maturato un orientamento culturale
politicamente radicale.
4. Storie blues
Quando la msucia blues viene registrata, perde sicuramente quell’aurea di purezza e di autenticità
che John Lomax cercava testardamente di preservare, ed anche la forza creativs dell’esecuzione
improvvisata si attenua o si perde. Tuttavia non si perde un intero universo narrativo che esercita su
molti ascoltatori un fascino irresistibile: la musica, la melanconica o rude, ma sempkice e
prevedibile, ospita storie che a stento o per niente si sarebbero potute trovare tra le narrazioni
mainstream. Studiosi di blues hanno sostenuto che per capire questo particolare orizzonte narrativo
bisogna ricordare in quali circostanze ed in quali luoghi il blues venisse originariamente suonato,
ovvero juke joints o nelle barrelhouses (locali mal frequentati).
La gente va in quei luoghi violenti, per liberarsi del peso della settimana, per divertirsi, ballare,
dimenticare, ma forse anche per sentire qualcuno che condivida con la musica le sue stesse ansie
(esistenziali o affettive), paure, e poi il giorno dopo si pensa a purificarsi andando in chiesa, e da
lunedì si ricomincia a lavorare in posti dove la discriminazione è riconosciuta per legge e dove il
razzismo e le aggressioni razziali sono all’ordine del giorno.
Temi: Sebbene nascano in un contesto di degrado sociale, violenza e sfruttamento, sono pochi i
blues che affrontano in modo diretto e polemico le condizioni di vita delle popolazioni
afroamericane, e se lo fanno, non lo affrontano mai in modo esplicito, perché evidentemente
avevano paura dell’aggressione e del linciaggio, che sono radicati in profondità nella loro
esperienza di vita e nella loro psiche.
I blues non raccontano per esteso delle stories ma offrono dei lampi esistenziali, raccontati come un
dialogo con se stessi. I testi non danno alcun particolare dettaglio relativo al contesto narrativo e
lavorano per sottrazione riassumendo intense situazioni esistenziali in abbaglianti flash poetici. Non
c’è un “noi” ma un “io” soggettivo che è permanentemente assediato da una qualche minaccia
esterna (la povertà, l’alluvione e la siccità ma anche qualcosa di indefinito, come “il blue”, “il jinx”,
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“il devil”). In alcuni testi, come in una canzone di Bessie Smith, è presente uno dei pilastri
fondamentali delle narrazioni mainstream, ovvero l’accerchiamento, solo che nei blues,
diversamente che nelle narrazioni mainstream, non arriva nessun eroe salvifico ad annientare le
minacce. L’unica soluzione è viaggiare senza mai fermarsi per salvarsi, e per gli afroamericani il
viaggio ha una specie di rilievo, poiché nega la forzata immobilità geografica in cui i neri erano stati
costretti a vivere durante la schiavitù.
Nell’elaborazione poetica delle cantanti nere, inoltre, il racconto del viaggio acquista un’ulteriore
risonanza perché muoversi mette in discussione il legame stabile che una donna, secondo la cultura
egemone, deve avere la casa e domesticità. Non è detto, però, che il viaggio valga sempre la fatica
fatta (Bessie Smith – Long old road) e se lo spostamento fisico non reca sollievo si può provare un
altro tipo di viaggio, offerto dalla droga e dall’alcol: i testi in cui è presente l’alcolismo e la tossico
dipendenza, queste situazioni sono descritte senza ipocrisia alcuna e senza alcun accenno di
condanna (Victoria Spivey - Dope head Blues). Molto spesso, il senso di angoscia che assale l’”io
narrante” ha una specifica causa concreta, quasi sempre una delusione d’amore, che non è mai
soffusa da una dolce malinconia ma che è sempre uno shock brutale che può spingere anche ad una
reazione violenta (Billy Higgins – 32-20 blue).
Anche nelle canzoni eseguite da interpreti femminili un torto ricevuto può essere la causa di una
devastante depressione, così come può scatenare una reazione violenta (Bessie Smith – Sinful Blues;
Victoria Spivey – Murder in the first degree).
Se l’amore violento può anche condurre a gesti estremi che rischiano di far sprofondare in qualche
prigione, non sempre le storie d’amore finiscono così tragicamente: tuttavia, nel blues, anche e
nessuno di fa male fisicamente, ci si fa sempre male affettivamente, e non ci sono storie a lieto fine.
In una relazione l’unico momento positivo sta nelle gioe del sesso, cantate attraverso doppi sensi o
attraverso descrizione dirette per gli standard dell’epoca (Bessie Smith – Empty Bed Blues).
Racconti di questo tipo, basati sul interazioni eterosessuali, sono la norma nel blues, ma non
mancano anche esempi di omosessualità, che contribuirono alla condanna del genre come musica
immorale da parte delle congregazioni protestanti nere (Gertrude “Ma” Reiney – Prove it on me
blues e Sissy Blues).
Altro aspetto difforme rispetto alla mentalità mainstream è che nella poetica blues le gerarchie sono
disposte in modo simmetrico, nel bene e nel male, e da ciò derivano esempi di blues in cui un uomo
dichaira la tragica crisi della mascolinità, assaltata da più fronti. Specularmente, se nel blues
femminile ci sono figure di donne maltrattate, si incontrano anche esplicitw dichiarazioni di
indipendenza (Ida Cox – Wild woman don’t have the blues).
In apparenza si potrebbe dire che almeno un aspetto accomuna le narrazioni mainstream e quelle del
blues:
• il mondo del blues, infatti, è decisamente terreno, pieno di un disperato vigore, che sembra
non aver niente a che fare con la dimensione spirituale.
D’altra parte, però, ci sono artisti capaci di espirmere la disperazione per non essere stati in grado di
seguire gli insegnamenti della Sacra Bibbia (Blind Willie Johnson – Nobody’s fault but mine).
5. Musica dalle campagne, dalle montagne e dalle pianure
Un anno dopo aver lanciato Mamie Smith, la Okeh cerca di procurarsi un nuovo popssibile mercato
per i suoi dischi, orientando verso un tipo di musica che sembra apprezzato da ascoltatori bianchi
delle aree rurali sud – orientali degli States, e lo fa attraverso Polk Brockman che, insime e a Rlph
Peer, organizza un’audizione ad Atlanta per scoprire nuovi talenti. Nello studio di regitrazione
temporaneo messo su dalla Okeh, Brockman porta un variegato gruppo di musicisti, tra cui il
violinista bianco Fiddlin’ John Carson, i cui pezzi ebbero un così gran successo che, su richiesta di
Brockman, la Okeh deve affrettarsi a ristampare alte copie dei singoli da spedire ad Atlanta. Questo
nuovo tipo di musica viene definita inizialmente in modo molto generico “Old time tunes”, per poi
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diventare “Hillbilly” (= termine dispregiativo che indica i campagnoli bianchi del Sud o i montanari
bianchi degli Appalacchi) dal 1925 in poi.
Con una nuova serie di audizioni nell’estate del 1927, Peer scopre un gruppo di musicisti che
finiscono per diventare le vere stelle di questo particolare nuovo genere musicale: si tratta di Jimmie
Rodgers 30 e della Carter Family.
Questi giovani musicisti vengono da un ambiente relativamente isolato e privo di comunicazione e,
dal punto di vista musicale, attingono ad un patrimonio folcloristico che hanno ascoltato qua e là,
lavorando come musicisti girovaghi. I musicisti hillbilly non si limitano a realizzare ballate o
musiche da danza ma collaborano con musicisti afroamericani, ne ascoltano le musiche (blues e
gospel) e le inseriscono nel loro repertorio.
Caratteristiche:
• musica suonata con strumenti a corda;
• struttura molto semplice;
• scansioni di strofe identiche intervallate da intermezzi musicali;
• sequenze ordinate di strofa e ritornello.
Il pubblico che ascolta questo genere di musica è costituito da gente di estrazione sociale medio –
bassa, in gran parte rurale, che spesso conosce bene quelle canzoni, o altre che sono somiglianti, per
averle cantate frequentemente in casa e nei ritrovi comunitari. La forza comunicativa di questa
musica esce consolidata dalla crisi del ‘29 poiché, sebbene il mercato discografico hillbilly sarà
duramente colpito dalla crisi, la musica continua a circolare largamente per tutti gli States grazie ad
una serie di programmi radiofonici (The National barn dance, grand ole opry) e di produzioni
cinematografiche (singing cowboy come Gene Autry e Roy Rogers) che tengono vivo il campo
espressivo hillbilly e che ne istituzionalizzano i caratteri identitari fondamentali.
Sebbene non ci siano collegamenti documentati tra la figura del cowboy allo sviluppo della musica
hillbilly, negli anni ‘30 questa figura del rozzo zoticone, viene affiancata a quella della corrente
musicale, in cui i cantanti adottano la “divisa” da cowboy.
6. Costellazioni Hillbilly
Radio e cinema costituiscono un ponte che conduce la musica hillbilly direttamente nel cuore delle
narrazioni egemoni. Tuttavia, l’universo musicale e testuale della musica hillbilly si adatta solo in
parte alle soluzoni di immagine proposte dai management radiofonici e cinematografici, giacché il
suo orizzonte narrativo è assai più variegato, ed in qualche misura persino in radicale
contraddizione con i valori mainstream. Se si prende in considerazione il canzoniere hillbilly degli
anni che precedono la Seconda guerra mondiale, si trovano canzoni che sembrano appartenere a
mondi etici completamente diversi, con inni positivi che suggeriscono una visione ottimistica della
traiettoria vitale e dell’evoluzione dei rapporti affettivi, sociali e personali (Carter Fmailiy – You
are my flower, Jimmie Rodgers – Daddy and home).
Testi come questi, sembrano collegare le narrazioni hillbilly all’interno di uno spazio quanto meno
contiguo rispetto agli universi mainstream, ed invece gran parte della produzione hillbilly va in
tutt’altra direzione:
• diverse canzoni integralmente attratte nell’universo di una religiosità che talora è persino
quella del fondamentalismo biblico
• una notevole quantità di brani hillbilly esplora un mondo assai particoalre per gli stnandard
mainstream, una sorta di underworld fatto di amori infelici, attraverato da vite senza
speranze, accompagnato dall incessante incombere della morte.
→ derivano dalla tradizione folk di origine anglo – scoto – irlandese e dell’immaginario
europeo che conservano l’atmosfera da incubi dark , attraversato come in uno stato di
dormiveglia.
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Tematiche:
• come nel blues, questa costellazione di storie sentimentali infelici diventa una sorta di
sublimata metafora per parlare indirettamente di vite difficili.
• In alcuni casi i temi vengono affrontati direttamente e, le disaster songs (su incidenti
ferroviari, stradali, sul lavoro), sono generi di maggior successo della prima onda hillbilly;
• inoltre, temi che hanno a che fare con lo sfruttamento sociale ed economico sono
intensamente esplorati.
In nessun caso, però, questa sensibilità sociale si trasforma in un’agguerrita coscienza di classe, e le
tragedie cantate sono raccontate senza una reale partecipazione emotiva, perché sono fatti normali
che possono accadere a tutti.
L’underworld criminale della canzone hillbilly è un mondo esclusivamente maschile dove le donne
reagiscono in modo fiacco, e questa etica presente nella musica hillbilly è oggetto di una
contestazione femminile piuttosto continua (Ptsy Montana – I wanna be a cowboy’s sweetheart; I
only want a buddy, not a sweetheart.)
7. Folk radicale
Il jazz, il blues e la musica hillbilly non hanno una dichiarata valenza politica. Sono lamentele
individuali, descrizioni di eventi più o meno particolari, più o meno dolorosi, che possono capitare
in una qualche comunità popolare bianca o afroamericana degli USA contemporanei, o in qualche
luogo indecifrato di una qualche parte del mondo.
Esprimono emozioni, cercano di coinvolgere, lasciano agli ascoltatori il compito di attribuire un
senso alle storie cantate. E in ogni caso le storie non traggono quasi mai delle confusioni morali, e
certamente mai delle conclusioni politiche.
Tuttavia, nel panorama folclorico statunitense di questi anni, cominciano ad emergere canzoni che,
invece, vogliono prendere una chiara posizione politica.
Diffusione:
• Organizzazioni sindacali radicali promossi dai lavoratori tessili di Gastonia (Carolina del
nord), nel 1929;
• Minatori del Kentuky nel 1931.
Durante gli scioperi, manifestazioni, riunioni, vengono cantate canzoni che parlano dei fatti che
stanno avvenendo o delle ragioni per le quali si sta combattendo: canzoni create da donne e uomini
che partecipano attivamente alle battaglie sindacali.
Caratteristiche:
• musiche semplici derivate dal patrimonio di canzoni appartenenti alla musica Hillbilly;
• testi adattati alle esigenze delle lotte sindacali;
Da allora fioriscono le iniziative che intendono lanciare musicisti afroamericani o bianchi, meglio
se in grado di scrivere ed eseguire canzoni con un contenuto politico di manifesto.
Sono esempi di cantanti hillbilly di orientamento politico:
1. Woody Guthrie: cantò durante una trasmissione radiofonica canzoni contro le “ricche
classi dei sognatori inutili, gli uffici degli imbroglioni, gli accaparratori di terre, i ladri di
petrolio, i latifondisti, i poliziotti corrotti” Sempre lei, incise “Dust Bowl Ballads”, una
raccolta di 6 dischi su quella tragedia che egli aveva vissuto in prima persona;
2. Billie Holiday: cantò, tra le altre canzoni. “Strange fruit”, suscitando grande ammirazione.
La canzone conteneva immagini di grande suggestione degli effetti di un linciaggio, al Cafè
society di Manhattan, locale che accettava di far esibire sia bianchi che neri.
3. Almanac Singers: una band di giovani radicali che suonò musiche di impostazione
militante ed incostante polemica con music business e , inizialmente, anche con la guerra,
per poi successivamente convertirsi alla guerra patriottica dopo che un U-bot tedesco
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affodnò una nave della marina statunitense di scorta ad un convoglio di pattugliamento
neutrale al largo delle coste irlandesi nel 1941. l’incoerenza della band e la loro improvvisa
conversione filo bellica non passò inosservata agli occhi dei commentatori mainstream e il
gruppo andò in crisi.
8. Canzoni militanti
Se si esamina l’insieme dei brani politicamente impegnati, cantati dai musicisti appena elencati, ci
troviamo di fronte a 3 tipi diversi di narrazione:
1. Narrazione straniata: una voce esterna narrante descrive, in tono neutro, eventi sui quali
non esprime alcun giudizio morale. In questo registro narrativo, il vertice espressivo è
raggiunto da “Strange Fruit”, che però si pone come un caso a parte, sia dal punto di vista
musicale che poetico. Il suo testo, che ha una sua struggente nobiltà, non ha bisogno di
aggiunte che spieghino il senso morale dello spettacolo che descrive. Billie Holiday, in
assoluta coerenza con il testo, non ha bisogno di enfatizzare nulla. Ma la canzone non ha
praticamente nulla in comune col resto della produzione militante, pur nascendo negli stessi
ambienti, l’impianto complessivo, infatti, è decisamente diverso, nel senso che l’elegante
minimalismo che è proprio sia del testo sia della musica sia dell’interpretazione vocale, è
sideralmente distante dalla produzione di Guthrie o degli Almanac Singers.
Inoltre, se “Strange Fruit” non ha bisogno di imporre all’ascoltatore una morale, il folk
militante (molto più povero e semplice in confronto) non può trattenersi dal farlo.
2. Narrazione in soggettiva: quando si canta in soggettiva, il pubblico militante si aspetta che
il musicista sia “uno di noi” o quanto meno uno che abbia fatto esperienza diretta con le
sofferenze di cui parla. Autenticità, però, non significa necessariamente autobiografismo, ciò
vale sia per Guthrie che per Ledbelly.
3. Narrazione esterna: la voce narrante esterna sa come sono andati i fatti, e per questo si
colloca su un piano morale superiore a quello dei suoi ascoltatori, che devono essere istruiti,
illuminati e guidati verso la verità. E’ la modalità narrativa tipica del sermone religioso, del
testo politico e del comizio pubblico. Tuttavia, questa modalità narrativa costruisce uno
scarto netto rispetto alla maggior parte della produzione poetica blues o hillbilly, nella quale
la voce narrante è una voce della comunità che non si pone mai su un piano morale
superiore ai suoi potenziali ascoltatori. Le storie raccontate in queste canzoni devono essere
esse stesse passion plays, cioè dei resoconti dotati di una loro evidente verità etica, che però
viene rimarcata in forma dialettica, in modo tale che la libertà interpretativa di chi ascolta
viene ridotta solo all’alternativa secca tra accettare o rifiutare in toto (Guthrie – Two good
men).
In quel caso la struttura etica della narrazione mainstream si insinua nella prospettiva
militante: ne è un esempio Union Main di Guthrie, in cui la protagonista è una specie di
Wonder Woman sindacale che, a differenza della supereroina dei fumetti, riesce anche a
costruirsi una famiglia felice.
9. Mappe dell’audience
Nel febbraio del 1940 Guthrie scrive “This Love is your land”, un contro inno con testo originale
(ma la musica no) che diventa bandiera della sinistra radicale.
Il modello a cui attinge è interessante: si tratta della linea melodica di due canzoni originariamente
incise dalla Carter Fmaily (“Little darling pal of mine” e “When the world’s on fire”). Decine e
decine di sono le cover incrociate di canzoni che nascono come blue o hillbilly, e che sono cantate
rispettivamente da cantanti bianchi o da cantati neri. Il reticolo degli scambi intertestuali, infatti, è
fittissimo, e non può sorprendere, poiché i musicisti di questo universo musicale si conoscono, si
frequentano, si scambiano informazioni, si ascoltano gli uni con gli altri alla radio o sui dischi,e
mescolano matrici e modelli, superando la “linea del colore” che divide le due comunità. Ma, a
dispetto del fitto reticolo intertestuale che lega questi diversi stili, fino afli anni della seconda guerra
mondiale, essi continuano ad appartenere a circuiti comunicativi nettamente distinti, salvo rarissime
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eccezioni, i luoghi in cui si eseguono queste musiche, il pubblico dei concerti e gli acquirenti dei
dischi sono razzialmente o politicamente separati, e tutte queste contro narrazioni restano, di fatto,
isolate le une dalle altre, confermando a pieno la geografia razziale degli USA alla vigilia della
seconda guerra mondiale.
E proprio per questo, al momento, non sono in grado di minacciare l’egemonia delle musiche e
delle narrazioni mainstream. Del resto, se la separatezza è la cifra essenziale di questi particolari
stili musicali, quasi l’esatto contrario vale invece per la cultura di massa mainstream, le cui
produzioni sono pensate per rimuovere o ignorare i confini di classe, di etnia, di orientamento
politico, di età, offrendosi in questi anni di crisi come una panacea per tutti coloro che hanno
bisogno di qualche tipo di sollievo.
________________________________________________________________________________
IV. UN MONDO GIOVANE E INQUIETO
1. Essere giovani negli States
Il mondo giovanile dei teenager degli States tra gli anni 30 e la seconda guerra mondiale, è descritto
dalle autorità scientifiche riconosciute (come il sociologo Talcott Parsons) come uno spazio sociale
relativamente compatto al suo interno, dotato di rituali, pratiche e valori propri che lo separano dal
mondo degli adulti. La cosa è più importante, ad esempio, per una teenager di quegli anni è di far
parte di un gruppo di altre ragazze della stessa età e comportarsi, parlare e vestire esattamente come
loro. Tuttavia, anche fuori dalla scuola i giovani tendono a frequentare altri giovani, e , inoltre non
tutti i giovani sono nelle high schools, poiché molti abbandonano la scuola dopo l’ottava classe,
poco dopo aver cominciato il curriculum superiore, il che comporta una più alta segmentazione
nelle forme di aggregazione giovanile, dato che a fianco della sociabilità scolastica si delinea una
vivace e variegata sociabilità di strada. Inoltre, anche l’ambiente delle high schools o quello del
college è segnato da profonde separazioni e acute fratture relazionali.
Sin dagli anni 70 80 del 1800, gran parte degli stati degli usa ha portato l’obbligo scolastico fino ai
14 anni con l’intento di togliere dalle strade adolescenti privi di controllo, che spesso vengono da
famiglie di recente immigrazione e che sono considerati, a torto o a ragione, come dei potenziali
delinquenti. Anche i genitori sono soddisfatti di questa iniziativa, perché convinti che con una
migliore educazione i propri figli possano ottenere lavori più gratificanti e retribuzioni più alte.
Dal 1870 al 1910, le high schools crescono da 500 a 10,000, i loro curricula educativi si rinnovano
integralmente (curricula preparatori al college, formazione generale e professionalizzanti) e dopo le
ore di lezioni i ragazzi e le ragazze possono stare a scuola anche nel tardo pomeriggio per
partecipare a varie attività sportive o ricreative. La crescita globale delle frequenza delle high
schools statunitensi rimane costante anche in periodi particolarmente sfavorevoli, ad esempio
durante la Grande Depressioni, e tale scelta è attivamente incoraggiata dall’amministrazione di
Roosvelt. Nonostante tutti gli sforzi, però, circa il 50% dei ragazzi e delle ragazze di età compresa
tra i 15 e 19 anni è ancora fuori dalla scuola, o perché dopo l’ottava classe interrompe il curriculum,
o perché, pur essendosi iscritto in una high school, non completa il curriculum fino al diploma, ed
ancora più selettivi sono i college, poiché nonostante un diploma universitario comportasse sbocchi
lavorativi dalle ottime retribuzioni, i costi delle iscrizioni erano molto alti e le istruzioni statali di
quel tempo non concedevano alcun tipo di sostegno allo studio.
La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che abbandonano precocemente la scuola, cercando di
procurarsi un qualche tipo di impiego, e le loro possibilità dipendono molto dalla collocazione
sociale e dal radicamento locale della loro famiglia di provenienza, generalmente molto povere e,
non di rado, gravemente disfunzionali. Nonostante ciò, anche i giovani provenienti da famiglie
stabili fanno fatica a trovare offerte di lavoro negli anni immediatamente successivi alla crisi del 29.
Una tale situazione comporta la formazione di gruppi amicali di strada, che stazionano all’angolo di
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una strada di quartiere nel quale abitano, in un locale o in capannoni dismessi per riunirsi a giocare,
bere e talora fare uso di qualche droga. Questi gruppi sono molto numerosi e di varia dimensione,
ed un numero stimato di 25,000 ragazzi vi partecipano a vario titolo e per vari periodi.
Le dimensioni di questi gruppi possono oscillare dai 3 – 4 ai 10 – 15 membri, portando alla
creazione di baby gang che, in molti casi, agiscono come dei veri e propri gruppi criminali.
2. Convergenze culturali
Queste divergenze formate dai diversi gruppi che troviamo negli high school sono egualmente
esposti all’impatto della cultura di massa, sopratutto nel tempo libero, dove i ragazzi praticano il
consumo. Non appena hanno un po’ di soldi, i ragazzi si comprano un’auto con la quale provano
subito a rimorchiare “la ragazza”: queste possono essere “facili” oppure ragazze per un “going
stedy” (relazione permanente).
Nel contesto delle high schools, i rapporto erotico – affettivi si sviluppano con il dating – system:
quando il ragazzo invita la ragazza senza controllo genitoriale presso un cinema o locali da ballo.
Con questa tecnica, si può cambiare più volte partner senza vederci niente di male; con il going
steady si tende a creare una coppia fissa.
Sull’aspetto erotico, invece:
• le “ragazze facili” erano estromesse dai “gruppi in” e avevano una bassa reputazione;
• le ragazze che sanno tenere a bada i partner, partecipando a pratiche erotiche di vario tipo,
senza che siano troppo pubblicizzate, venivano ammirate e rispettate;
Viceversa, per gli uomini:
• i ladies’ man, cioè quei ragazzi che hanno storie con più ragazze, in genere hanno una
reputazione positiva.
Inoltre, le strade di maschi e femmine divergono sempre. I maschi hanno un obiettivo chiaro:
cercare un lavoro e farsi una famiglia. Per le femmine gli obiettivi sono rovesciati: la prospettiva è
quella di sposarsi, stare a casa e occuparsi della famiglia, abbandonando il lavoro. O almeno, questa
è la situazione che domina negli anni della Depressione, quando vengono addirittura introdotte
norme che limitano le assunzioni delle donne sposate. Negli anni 30 inoltre, secondo un sondaggio
il 78% della popolazione approva l’idea che le donne debbano stare a casa. In realtà poi la
situazione economica, in particolare nella classe medio-bassa, porta la donna a doversi trovare un
lavoro mentre si occupa anche della casa. In più, i lavori per le donne sono spesso di bassa qualità
(donna delle pulizie in grandi uffici con orari estenuanti), per non parlare dei salari che a parità di
mansioni sono nettamente più bassi di quelli degli uomini. Possiamo dire che il tipo di cultura
diffusa che circonda i ragazzi delle high schools e i ragazzi di strada è simile. I media più seguiti
(cinema, radio, fumetti, dischi) veicolano i miti apprezzati da tutta la società giovanile. Entrambe le
tipologie di ragazzi costruiscono la loro identità su immagini di mascolinità eroica e vincente
trasmesse da film hollywoodiani o fumetti di supereroi; anche se gli uni lo fanno in direzioni di un
civismo conformistico, mentre gli altri in direzione di un esibizione della forza in qualche rissa o in
qualche trasgressione. Le ragazze invece sognano tutte di riuscire a diventare prima o poi una
cantante, ballerina, attrice, come quelle che vedono nei film o nei fumetti, o come quelle che
ascoltano nei dischi. In particolare tra le ragazze di classe bassa, è molto diffuso il sogno di un
evento miracoloso in stile Cenerentola, come forma di riscatto personale.
3. Identità controcorrente
All’interno dei vari gruppi naturalmente si nota anche l’emergere di comportamenti
nettamente divergenti, espresse attraverso:
• particolari scelte culturali
• scelte di consumo
• abbigliamento
• tempo libero
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In alcune gang giovanili sono popolari le jail song o crime song di derivazione folk – hillbilly, in cui
si canta di destini tragici degli anti eroi.
Si creano vari gruppi giovanili particolari:
1. Hoboes: ragazzi con una vita particolare e non agiata che piano piano inizia a ricevere
rispetto e una dignità culturale. Infatti, vengono nominati nelle canzoni o addirittura nella
proiezione letteraria e iconografica. Sono un oggetto della costruzione culturale che
guadagnano notorietà diventando involontariamente i protagonisti.
2. Pachucos e pachuquitas: La comunità messicana, addensata soprattutto in California del
sud, emigrata dal Messico per lavorare in miniere e campagne. I “pachucos” e le
“pachuquitas” cioè ragazzi e ragazze della comunità messicana, si trovano sospesi tra due
mondi: né integrati nella comunità di origine, né accettati tra i bianchi. La loro risposta a
questo è creare delle gang proprie e di marcare i confini con la società attraverso un
abbigliamento particolare, lo zoot suit. Composto da pantaloni larghi ma stretti in fondo,
giacchi lunga e cappelli con visiera. Un abbigliamento da gangster molto estremizzato,
anche nei colori; spesso le scarpe sono di due colori diversi e i capelli sono imbrillantinati e
portati indietro. Anche le pachuquitas si vestono in modo caratteristico: gonne corte,
camicette, atteggiamento aggressivo, erotico. Tutto questo non aiuta a creare un’immagine
positiva in una società razzista; infatti la stampa locale accusa in blocco la società messicana
di essere delinquente, spacciatrice e criminale. Le tensioni infatti si accumulano ed
esplodono quando gli USA entrano in guerra. Una norma del 1942 proibisce la produzione
di vestiti ampi per risparmiare sui tessuti. I giovani pachucos continuano lo stesso a
procurarseli clandestinamente ed esibirli. Ciò viene visto come uno scempio sfrontato, uno
spreco antipatriottico. Ne derivano aggressioni da parte di gruppi di soldati bianchi insieme
a civili locali contro i giovani messicani incontrati per le strade. La polizia non fa niente e
l’opinione pubblica applaude; l’intervento delle forze dell’ordine avviene ma in carcere,
paradossalmente, finiscono più pachucos.
3. Pochi giorni dopo i pachucos, le aggressioni si scagliano contro gruppi di giovani neri
segregati al Sud e per niente integrati. Alla fine di giugno 1943 a Detroit scoppiano scontri
tra migliaia di bianchi e neri. Ad agosto a Harlem scoppia una rivolta a causa della notizia
falsa dell’uccisione di un soldato nero da parte di un poliziotto. In più a questi, altri
numerosi scontri occasionali. Le comunità afroamericane rispondo spesso alla segregazione
con la creatività musicale. Non solo blues, ma anche jazz e danze costruite intorno agli stili
jazz di moda nel primo dopoguerra. Balli come il jitterbug, lo shag, il boogie-woogie si
trasformano in un doppio simbolo identitario: sono balli derivati dalle tradizioni coreutiche
afroamericane, ma sono anche solo per giovani perché presuppongono movimenti fisici che
limitano persone di una certa età. È un ballo animato, un ballo di corpo, sensuale. Le
critiche sono esasperanti. “In quei locali” da Life “le giovani coppie nere si abbandonano a
incontrollate e sconvenienti intimità”. Il razzismo aumenta quando questi atteggiamenti
“barbarici” neri iniziano a contagiare anche un numero imprecisato, ma giornalisticamente
rilevante, di adolescenti bianchi. Anche per loro lo jitterbug sembra avere un particolare
significato identitario che turba e inquieta poiché è una “dannosa perversione” che la cultura
musicale afroamericana induce.
4. Il 30 dicembre 1942, il Paramount Theater di New York diviene un luogo simbolo degli
anni a venire. Frank Sinatra inizia da lì la sua stagione di concerti. All’epoca ha 27 anni ed è
l’idolo di ragazzini e sopratutto ragazzine. Canta canzoni su amori romantici con una voce
calda e sensuale. I giovani fan sono talmente presi che perdono totalmente il controllo.
Battono i piedi, si agitano sui sedili, si alzano e applaudono senza senso. Ma soprattutto
sono le femmine che gridano a squarciagola e fare sensazione. Da allora il teatro diventa una
specie di tempio di questo nuovo culto di massa. In generale, questi comportamenti sono
forme rituali che manifestano una distinta identità generazionale. Fare del musicista un culto
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realizzabile attraverso lo scatenamento che solo il giovane può affrontare (e anche il
cantante che è giovane quanto il giovane) significa rimarcare l’allontanamento rispetto
all’adulto. Per le ragazze, ancora di più: perdere il controllo, gridare, svenire, muoversi è un
modo di manifestare in forma esplosiva l’insofferenza nei confronti delle regole che
condizionano la sessualità femminile. Come se si liberassero da un sistema di norme, valori,
segni falsi messi in atto per tramettere un’immagine di ragazze per bene, autocontrollate. Al
concerto le ragazze possono per qualche ora vivere senza limiti, senza esser giudicate.
Questi gruppi mostrano che gli universi giovanili stanno sperimentando autonomi percorsi di
identità. Ciascuno dei gruppi riprende materiali già diffusi nella cultura di massa (abiti da mafiosi,
balli alla moda, grida isteriche dei film horror) e li ricompone con un nuovo senso di sfida,
distinzione. Inoltre le forme espressive create, proprio per la loro indeterminatezza, possono
attrarre chiunque (il caso dei balli tra i bianchi). Questa è la forza, ma anche la fragilità di queste
nuove strategie della distinzione.
4. Khaki – wackies
Quando l’America entra in guerra, dopo l’attacco a peral arbor, molte donne devono abbandonare il
ruolo di casalinge per sostituire gli uomini nelle fabbriche e sostenere il paese colpito dalla guerra.
Le autorità fondano diversi locali da ballo e di svago per animare lo spirito dei giovani militari e
selezionano alcune ragazze volontarie che possano ballare e divertirsi con loro. Ovviamente il
fenomeno si espande e molte ragazze intrecciano relazioni sessuali con i soldati, venendo etichettate
come “Khaki – wachies” (pazze per il grigio verde). Nei loro confronti nasce una lunga serie di
pregiudizi sessisti, secondo cui le malattie sessualmente trasmissibili siano colpa della donna
dissoluta e mai del soldato valoroso che ha invece diritto a una vita sessuale variegata e
soddisfacente. Pertanto in questo periodo si promuovono due tipi di femminilità:
1. la donna che presenta una morale, anche bruttina, che lavora duramente per il paese in
guerra;
2. la donna seducente e sottomessa, pronta a tornare a servire il marito come casalinga una
volta terminati i conflitti.
In questo periodo le donne sono considerate dei soggetti pericolosamente sensuali: questo porta alla
costruzione di una figura femminile nuova → una donna rassicurante ma al tempo stesso volitiva,
impegnata ad occupare momentaneamente il posto di lavoro lasciato dagli uomini in guerra, dedite
alla famiglia e non particolarmente dotate di attività sessuale.
1943: Norman Rockwell dipinge per la copertina del Saturday Evening Post la figura di Rosie the
Riveter (Rosie la rivettatrice), una delle più note immagini di questa nuova figura della donna.
Caratteristiche:
• operaia in salopette di jeans
• non particolarmente seducente
• espressione decisa di una vera
democratica (che calpesta il Main
Kampf)
Tutta via il problema che ci si pone è il
fatto che dar sostegno ad una donna
determinata e forte, potrebbe portare poi
ad una minaccia per gli uomini che
temono che, a guerra finita, le donne non
saranno più docili e tipicamente
casalinghe.
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Grazie a vari sondaggi effettuati, viene fuori il desiderio di una donna più graziosa e seducente:
questo porta alla creazione di grafiche pubblicitarie - in tempo di guerra – con delle figure
femminili che presentano determinate caratteristiche:
• giovani donne attraenti
• struttura corporea slanciata
Queste figure vengono utilizzate per promuovere le merci più variegate.
E’ da questo particolare contesto storico che nascono le pin-up.
5. Pin – Up
La figura della pin – up nasce negli anni della seconda guerra mondiale e sono il sogno di milioni di
soldati (e civili) americani. Si diffondono le cartoline rappresentanti “la vera donna americana”
destinate ai soldati in guerra contro le forze dell’Asse.
Le immagini sono di due tipi:
1. Attrici in voga del periodo, le cui foto promozionali vengono prodotte dalle case
cinematografiche, come quelle di Betty Grable (1941) per la 20th Century Fox,
richiestissima tra i soldati e militari al fronte.
2. Disegni realizzati da Alberto Vargas per una rivista orientata a un pubblico maschile,
accompagnati da una piccola poesia.
Sono figure femminili con un corpo di proporzioni quasi impossibili (vita stretta, seno
prosperoso e gambe lunghissime) ed esplicitamente sessualizzate.
Lo scopo iniziale è quello di inviare questo tipo di immagini agli uomini in guerra (anche tramite
giornali appositi), in modo da consolarli e motivarli a combattere per le loro belle e fedeli ragazze
americane.
La febbre delle pin – up colpisce moltissime ragazze, imponendosi come modello di vita femminile
e standard di bellezza nelle pubblicità: la ragazza ingenua ma accattivante, seducente ma casta,
intrigante ma fedele e genuina → questa è la donna che i soldati vogliono trovare a casa al rientro
dalla guerra.
Tuttavia non tutti accettano volentieri questo nuovo modello femminile: l’opinione pubblica
statunitense, sopratutto di schieramento cattolico si professa assolutamente contro.
Nonostante ciò, alla fine della guerra, i disegni di Vargas “prendono vita” attraverso le nuove star
del cinema come Elizabeth Taylor e Marylin Monroe.
Le donne, quindi, devono essere seducenti ma capaci di avere autocontrollo, trovare “il principe
azzurro”, sposarsi,a vere dei figli e stare a casa.
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Intanto però, la retorica bellica esalta la difesa della “home” intesa come patria e nucleo familiare
→ questo porta a ridefinire la “home” come luogo esclusivamente femminile.
Si parla di come i soldati tornino dalla guerra spinti dal desiderio di tornare dalla loro donna,
sposarsi, avere dei figli e vivere una vita serena, respirando l’aria fresca dei sobborghi.
Guerra = lotta per rendere il proprio paese sicuro e libero per le loro mogli e famiglie → su questa
linea di pensiero nasce l’American Dream.
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V. PROVE DI NORMALIZZAZIONE
1. La casa dei nostri sogni
Alla fine della guerra, il sogno di ogni famiglia americana di estrazione medio – alta è quello di
trasferirsi dalla città ai sobborghi residenziali, in una villetta a schiera con giardinetto dove crescere
i propri bambini. Questi sobborghi sono la patria del conformismo, dove le case sono tutte uguali, i
redditi delle famiglie sono all’incirca i medesimi così come le scelte di consumo, abbigliamento,
alimentazione, impiego del tempo libero e ideologie.
Vige un profondo senso di razzismo: in questi quartieri periferici, le persone di colore non sono
ammesse, nemmeno se aventi un reddito che glielo permetterebbe, in quanto le banche non gli
concedono mutui, e vi fanno ingresso solo in qualità di manovali o governanti. I bianchi più poveri
e la comunità afroamericana, vivono nei ghetti nelle città.
Donne casalinghe, seguono assiduamente le soap che ritraggono lo stesso modello di donna
casalinga nella sua villetta, creando un circolo vizioso di necessità reciproca tra il programma e
l’audience.
→ nel film “La casa dei sogni” – commedia del 1948 - viene rappresentato proprio questo stile di
vita.
2. Allarme rosso
negli anni successivi alla guerra, la “home” viene vista come un misto incontenibile di ottimismo e
cupa paranoia. La società si deve riorganizzare, le industrie belliche devono convertire la loro
produzione in altro. Quindi lo stato decide di prestare dei soldi ai milioni di soldati che cercano di
comprare casa, di aprire un’attività o di iniziare dei nuovi studi professionali.
Nel 1947, il Piano Marshall, aprirà il mercato europeo alle aziende statunitensi:
• cresce il PIL
• Diminuisce la disoccupazione;
• Aumentano stipendi e redditi;
Si diffonde l’ottimismo tra le persone e i gusti del pubblico ne sono la prova: il numero di
commedie, musical o drammi cinematografici a lieto fine sono ai primi posti nelle classifiche
d’incasso
• Cindarella, Peter Pan, Alice in Wonderland → di produzione Walt Disney.
• Singing in the rain.
Questo desiderio di happy ending però, è accompagnato dalle paure date dai rapporti internazionali,
con le tensioni tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina.
La Guerra Fredda inizia nel 1949, quando i sovietici lanciano una bomba atomica per un test →
nasce così la psicosi da bomba (le industrie vendono costruzioni antiatomiche, a scuola vengono
fatte delle esercitazioni in caso di guerra atomica).
Il contesto internazionale ha pesantissime ripercussioni interne, tanto che l’amministrazione
democratica e repubblicana, mettono in atto una repressione dei comunisti, fino al 1954, che
proibisce l’esistenza di un partito comunista. Con Joseph McCarthy (senatore repubblicano) inizia
la “caccia alle streghe” con il quale si indica questa operazione.
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Nel 1959, scoppia al Guerra in Corea e si teme che da “guerra fredda” si possa passare ad una
“guerra totale”.
Le forme di narrativa mainstream, danno però un senso di “home” che deve essere protetta e che ci
sia una giusta punizione per i nemici e una vittoria, anche se dolorosa, per i buoni.
Sono comunque ancora apprezzati i gialli, western, nonostante il turbamento che possono causare
nell’immaginario collettivo americano → questo indirizza al pubblico ad accettare la violenza solo
se poi questa porta a catturare e distruggere i criminali.
Le forme narrative mainstream aderiscono a queste spinte politico – culturali che vengono dalla
società statunitense e infatti, portano a specifiche evoluzioni:
1) Team eroici → Accanto all’eroe solitario ci sono anche storie con team eroici. Situazione molto
adatta alle esperienze che molti hanno vissuto in guerra. Sono film che indagano le psicologie dei
componenti del team e offrono soluzioni con morti sacrificali di personaggi marginali e vittorie
molto eroiche ma piene di sofferenza.
2) Fantascienza → C’è l’imporsi del racconto di fantascienza come strumento narrativo capace di
descrivere in modo suggestivo le paure legate a una ipertecnologizzazione dei conflitti bellici.
Storie con scenari post-apocalittici o che raccontano l’attacco di alieni (alieni = nemici comunisti).
3) Propaganda → Le majors di Hollywood accettano senza problemi di produrre opere di pura
propaganda. Film che esprimono appieno le ossessioni maccartiste, con personaggi comunisti
corrotti e spietati che comandano il mondo. Gli studios collaborarono con il Dipartimento di stato e
con gli organi del governo per assicurare che non fossero mostrati “film inopportuni”.
3. Arriva la televisione
Dal 1938 il cinema subisce duri colpi da parte del Dipartimento di Giustizia, che intenta una
sentenza contro le maggiori case cinematografiche. Le norme le costringono dal 1948 a vendere le
catene di sale che possedevano e a cambiare la loro struttura verticale (dalla concezione alla
produzione, alla distruzione, alla proiezione). Il sistema cambia: la produzione viene affidata a
singole aziende mentre le majors si occupano di finanziamento e distribuzione.
Duro colpo ma niente paragonato alla concorrenza di qualche anno dopo della televisione.
Negli USA le trasmissioni televisive a carattere commerciale sono autorizzate dal 1945 e le aziende
più pronte a costituire un loro network nazionale sono quelle che dominano la radio, ovvero NBC,
CBS, ABC.
Il sistema televisivo si modella su quello radiofonico. Le emittenti sono aziende private che si
finanziano tramite le vendite di spazi di programma a inserzioni pubblicitarie. Il sistema prevede
che le aziende che pagano per la pubblicità si occupino anche della produzione dei programmi.
Il sistema cambia quando negli anni ‘50, specie dopo che nel 1959 ci fu uno scandalo che mostrava
come programmi a quiz fossero manipolati per far vincere persone telegeniche. Da allora le
emittenti vendono solo singoli slot di tempo, mentre la produzione o la supervisione dei programmi
passa alla dirigenza dell’emittente.
Fondamentale è la valutazione dell’audience: simile al sistema radiofonico, anche quello televisivo
si struttura tramite l’espansione dei network nazionali, infatti ogni network può avere un numero
limitato di stazioni, ma può sottoscrivere contratti con le emittenti autonome per la trasmisisone di
programmi concepiti per il network centrale. Le emittenti autonome sono collegate a uno dei grandi
network e riservano più del 60% del tempo di trasmissione a programmi nazionali, forniti dal
network centrale.
La concorrenza della TV dà un duro colpo all’industria cinematografica. Dal 1946 al 1950, gli
spettatori nelle sale scendono a meno della metà. La gente preferisce stare a casa.
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L’eccezione è data dal pubblico giovanile, che predilige i drive – in. L’industria cinematografica
cerca di reagire adottando innovazioni tecnologiche, con l’uso del colore e il tentativo di introdurre
il 3D (anche se si dovrà aspettare al 2009 per questo).
Ciò che consente di superare questa grave fase di crisi, è sopratutto l’alleanza tra TV e cinema,
noleggiando film per trasmetterli in prima serata o la produzione di film espressamente pensati per
la TV.
Il capo della UPT (United Paramount Theaters) e della ABC, Leonard Goldenson, decide di
sottoscrivere un contratto con la Disney, in cui quest’ultima, si impegna a produrre un programma
esclusivo per la TV; mentre la ABC si impegna nella costruzione di un parco a tema Disney a Los
Angeles.
1955: debutta Michey Mouse e la sua infinita produzione di gadget sui personaggi principali.
Da qui in poi, tutti seguono l’esempio della Disney.
Iniziano a produrre serie TV, soap, con moduli mainstream:
→ E’ essenziale
• protagonista che sia presente in tute le puntate;
• happy ending in tutte le puntate;
• lotta tra il bene e il male.
Questa struttura sempre uguale porta il cliente ad instaurare un rapporto di fiducia con il prodotto.
Nascono anche le sitcom che parlano di questioni familiari e della vita di tutti i giorni, per rimarcare
la “home” americana.
4. Forme della libertà
In ciascuno dei programmi TV citati e soprattutto nelle sitcom, la pubblicità è preponderante. Nel
sistema di comunicazione mainstream (che siano giornali, trasmissioni radio o programmi
televisivi) gli spazi pubblicitari non sono mai chiaramente destini dalla programmazione ordinaria.
In questo modo la pubblicità entra a far parte del sistema narrativo integrandosi naturalmente con le
pagine dei quotidiani e con le storie raccontate.
Ovviamente la pubblicità tende a enfatizzare il valore positivo del consumo come acquisizione di
simboli di status. Invocano il parere di esperti per far credere ai consumatori che l’acquisto di un
particolare oggetto possa aiutare a migliorare la propria vita. Nella pubblicità non c’è divisione di
classe: si trasmette l’idea che ognuno può fare tutto e comprare tutto: “Ogni donna può
acquistare…”, “Ogni famiglia può permettersi…”.
Però c’è la divisione di razza e di genere; infatti non ci sono pubblicità con o per neri\e; ma ci sono
pubblicità esplicitamente per un pubblico maschile (auto, sport, pesca e cose da uomini) o
femminile (prodotti per la casa, pulizie); come al solito le donne sono simbolicamente i soggetti che
presiedono alla cura della casa. Film di successo come “Cenerentola” e “Sabrina” (1954) di Wilder,
illustrano l’ideale perfetto delle donne costume dalla cultura di massa: chiuse in casa, capaci di fare
ogni tipo di lavoro domestico, e persino anche in grandi di stupire con qualche numero da
casalinghe perfette, come farsi un vestito tutto da sola (Cenerentola) o sbattere le uova per la frittata
con una mano sola (Sabrina). Ma al tempo stesso sono romanticamente perse dietro al sogno del
principe azzurro, spesso molto benestante. Il che si collega alla perenne ricerca di stabilità
economica per potersi costruire una propria famiglia una home.
5. Going steady
Tra il 1950 e il 1960 i ragazzi che frequentano le superiori arrivano ad essere più del 70%. Aumenta
anche la frequenza in college e università, e aumentano anche le studentesse. I genitori dei ragazzi\
e delle superiori incoraggiano sempre di più i figli a proseguire gli studi; quella sarebbe
un’importante esperienza di vita e sembra la strada migliore per un’ascesa sociale, inoltre i posti di
lavoro che necessitano del solo diploma cominciano a scarseggiare. Gran parte degli iscritti si
orientano verso le università pubbliche, dove l’accesso è garantito a tutti.
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Però solo i diplomati con un curriculum buono vengono ammessi ai corsi quadriennali offerti dai
senior colleges, mentre gli altri vengono dirottati verso i corsi biennali dei community colleges.
Però, sia nelle high schools che nelle università, continuano ancora ad essere presenti divisioni
relazionali per genere, etnia, religione, ricchezza ecc. Anzi, forse la selettività è ancora maggiore di
quel che fosse prima della guerra, perché l’aumento della frequenza scolastica richiede la messa in
atto di più efficaci strategie di distinzione. Il principale motivo di divisione è tra gruppi centrati
sulla scuola e sulle attività scolastiche, e tra i gruppi che rifiutano l’inserimento, e che spesso si
trovano in strada e si organizzano in gang.
Nel dopoguerra c’è un cambiamento del concetto del dating system, poiché non c’è più la pratica
della rapida e frequente rotazione del partner, ma c’è il going steady: la formazione di una coppia
fissa (che nell’anteguerra era una pratica diffusa quasi solo tra ragazzi non delle high schools). Per i
genitori di classe medio-alta non è una modalità positiva perché ammette un’intimità sessuale
inaccettabile all’epoca. Ma per i giovani è diverso, è sicuramente una situazione meno ansiogena
rispetto all’altra e inoltre è strettamente legata all’idea dell’amore romantico, quindi più
generalmente all’idea del matrimonio e della home, influenzata dal clima culturale dell’epoca.
Molte ragazze dichiarano che il loro ideale è un matrimonio con un buon numero di figli a cui
dedicarsi, per questo spesso interrompono gli studi sia superiori che universitari a favore di un
matrimonio precoce e di un ruolo da casalinga. È un quadro sconfortante per la figura della donna,
pressato fortemente sia dalla cultura mainstream che da pubblicazioni “scientifiche” di successo
all’epoca, duramente colpevolizzati nei confronti delle donne che lavorano e che, addirittura,
sostengono che le donne che si sono arruolate nei servizi ausiliari durante la guerra, soffrono di
deviazioni mentali e sessuali. Pensiamo al numero di donne sposate con figli che negli anni 50
vanno anche a lavoro (il numero di donne lavoratrici in quel periodo è in crescita a causa delle
esigenze economiche che portavano le famiglie a cercare una seconda fonte di entrate). Si può
immaginare con quale serenità queste donne vivano la loro scelta.
6. Gli uomini preferiscono le bionde
I personaggi interpretati da Marilyn Monroe sono complessi. L’anno 1953 per lei è cruciale. Escono
tre film in cui lei è protagonista o co-protagonista e a dicembre esce anche il primo numero di una
nuova rivista, “Playboy”, che dedica all’attrice sia la copertina che la foto nella pagina centrale. Le
narrazioni cinematografiche di Marilyn sdoppiano la sua immagine.
→ In “Niagara”, il personaggio di Rose Loomis è la tipica femme fatale hollywoodiana sexy e
perversa. Rose ha un amante che lo convince ad uccidere il marito George, ma il piano va storto.
Sarà George a uccidere l’amante e poi la moglie, suicidandosi infine facendosi cadere con un
motoscafo dalle cascate del Niagara. Così i peccatori, come da formula, trovano la loro punizione.
→ In “How to marry a Millionaire” il personaggio è molto diverso. Pola Debevoise è bionda,
sessualmente attraente ma intimamente casta e di buoni sentimenti, sebbene tentata dal mondo del
successo e della ricchezza. Fa parte di un terzetto di cacciatrici di dote, composto dalle altre due sue
amiche. Diverse ma tutte e tre molto simpatiche, condividono un materialismo senza nessuna
critica. Il film ha comunque una sua morale, perché tutte e tre decidono di sposarsi con un uomo del
quale si sono innamorate, rinunciando ai soldi. Una di loro ad esempio proprio al momento del sì
con un riccone molto più vecchio di lei, cambia idea e preferisce dire addio ai soldi per sposarsi con
il suo giovane amore.
→ In “Gli uomini preferiscono le bionde” Marilyn interpreta Lorelei: è grande amica di Dorothy
(interpretata da Jane Russell) e sono entrambe ballerine e cantanti, entrambe alla ricerca di un
uomo. Lorelei è una cacciatrice di dote che è riuscita a incastrare un giovane milionario un po’
tonto, Gus. L’altra è meno interessata ai soldi e più alla bellezza dell’uomo. Alla fine le ragazze si
sposano con una doppia cerimonia. Dorothy con un ex detective privato e Lorelei con Gus. Il finale
matrimoniale nobilita il materialismo di entrambe.
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L’ultimo film si mantiene in bilico tra l’essere favorevole alla morale matrimoniale e l’abbracciare
un’ideologia materialistica spregiudicata. Entrambi aspetti accolti positivamente dall’etica
mainstream.
Queste sono caratteristiche anche di “A qualcuno piace caldo” del 1959 di Wilder.
→ Il film racconta di due musicisti jazz, Joe e Jerry che, per fuggire ai sicari della mafia che li
vogliono far fuori perché hanno assistito a un’esecuzione, si travestono da donne e si fanno
assumere in un’orchestra femminile, nella quale si esibisce Sugar Kane (Marilyn) cantante e
suonatrice di ukulele. Il gioco del travestimento mette in ridicolo il maschilismo eroico dell’etica
mainstream. Ma c’è di più. Joe, innamorato di Sugar, architetta un marchingegno al dine di sedurla,
e per realizzarlo si traverse ulteriormente da milionario impotente bisognoso delle cure di Sugar per
sbloccarsi. Intanto Jerry fa innamorare di sé un ricchissimo milionario. La conclusione è un
paradossale lieto fine: Joe e Sugar si innamorano e lei supera il fatto che lui si sia finto ricco per
sedurla (quindi l’oca bionda materialista che in realtà supera tutto e ha un cuore di Cenerentola in
cerca del principe); e Joe\Josephine si chiarisce con il suo ricco innamorato in un dialogo simbolo
del film.
Il film di Wilder manifesta un intelligente disagio per i valori di massa comuni. Ma non li esamina a
fonda e non prova nemmeno a decostruirli. La chiave comica, invece di produrre una presa di
coscienza, serve da premessa per un’archiviazione immediatamente successiva. “Vabbè, ridiamoci
sù”. Come in tutta la cultura mainstream, ridere serve a rimuovere divertendosi. Divertirsi significa
volgere lo sguardo dall’altra parte.
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VI. POPULAR MUSIC
1. La popular music nel secondo dopoguerra
Nel dicembre 1949, al numero 1 delle classifiche delle pop songs si piazza “Rudolph the Red-Nosed
Reindeer”, una buffa canzoncina natalizia sulla storia della renna emarginata perché ha il naso rosso
e brillante; ma che diventerà la più ammirata quando babbo natale la metterà in prima fila per
illuminare la strada nebbiosa durante la notte di Natale. È una tipica storia americana dove
l’emarginato alla fine fa successo. Ma da tempo ormai le hit natalizie spopolano: “Let it snow let it
snow let it snow”, “Have yourself a merry little Christmas” e sopratutto “White Christmas” di Bing
Crosby, che aveva incantato tutti in tempo di guerra, nel Natale 1942. Ancora nel 1948 la canzone
ha un enorme successo.
Il mercato discografico è dominato da 6 majors tutte con sede a New York, ma dopo la guerra molti
imprenditori mettono sù piccole etichette discografiche specializzate in stili di nicchia. Nel 1949 a
fianco delle 6 più grandi, ne esistono diverse centinaia più piccole. La forma del mercato
discografico ha un suo corrispettivo nell’ambito delle trasmissioni radiofoniche. Da un lato i grandi
network (NBC, CBS, ABC) quando arriva la TV, concentrano la loro attenzione e sforzi sul nuovo
settore televisivo molto promettente. Dall’altro però, subiscono la concorrenza della tv e molti
programmi radio (soap, sitcom, gialli) si trasferiscono in video, lasciando uno spazio nel palinsesto
radiofonico che viene riempito da programmi musicali.
Inoltre agli inizi degli anni Cinquanta il numero delle stazioni indipendenti con trasmissioni
musicali di successo aumenta e il ruolo dei dj si fa significavo: dalle loro scelte può dipendere il
successo o l’insuccesso di una nuova canzone, specialmente se decidono di mandarla in heavy
rotation.
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2. Pop songs
Nonostante questi mutamenti, sul mercato discografico e in radio, le pop song vanno sempre alla
grande. Una ricerca del 1947 mostra che il pubblico delle pop songs è socialmente variegato e che
in generale, sopratutto i giovani e in particolare le ragazze apprezzano questo stile. Questo ha una
sua rilevanza economica visto che i teenager sono le forze trainanti nella ripresa dei consumi
postbellici.
La canzone pop ha una configurazione “listener friendly” perché rassicura chi ascolta, ponendolo
all’interno di un orizzonte di aspettative stabilite. La struttura è: introduzione, strofe, ritornello,
interludio. Rassicuranti sono anche le pop star, per come si presentano sulla scena, dal vivo, in
radio, in tv.
Intanto non sono giovanissime: le cantanti hanno una media di 28 anni e i cantanti di 33 anni. Sono
quasi tutti bianchi e si vestono allo stesso modo; gli uomini hanno giacca e cravatta e le donne
vestiti a vita stretta con una gonna molto decorata. La gestualità in scena è poco ritmica come lo è la
loro musica: normalmente stanno fermi e ondeggiano leggermente il corpo e le braccia.
Si parla quasi sempre di canzoni d’amore, che descrivono il corteggiamento pieno di trasporto
romantico, ma anche di esperienze infelici, amori finiti, amanti che devono separarsi ecc.
L’infelicità è contemplata ma non è considerata devastante.
In questo orizzonte solo in un caso si sfiora il dramma: è con “Goodnight Irene” scritto da Huddy
Leadbelly, ma portato al successo nel 1950 dal gruppo degli Weavers. La canzone originale narra di
un uomo sposato che incontra Irene, se ne innamora e va in giro minacciando di uccidersi
gettandosi in un fiume a causa di quell’amore impossibile. La versione che va in classifica sarà
appropriatamente modificata in modo che sia la donna a volersi suicidare.
Nell’universo delle pop songs le cose non possono andare male. È un mondo in cui tutto è bene quel
che finisce bene, in cui tutto è solo un passeggero turbamento amoroso. La violenza, la guerra, la
povertà, il dolore non riescono a rovinare la generale felicità.
In definitiva, fin dalla nascita di un’industria culturale di massa, è proprio per questo che qualcuno
scrive e canta le canzoni pop: per divertire e allontanare turbamenti e preoccupazioni. Questo
devono fare le canzoni alla moda.
3. Hard country
La musica country si è imposta fin dagli anni 30 ad un pubblico specifico: ascoltatori di classe
meglio-bassa delle aree centro-sud-orientali degli USA. All'interno del genere c’erano due filoni
narrativi, uno più drammatico e l’altro più vicino al mondo delle dopo songs. Col secondo
dopoguerra la divaricazione si approfondisce ulteriormente. Da un lato prosperano i cantanti che
propongono canzoni con testi su temi classici del pop. Tra questi Gene Autry è uno di quelli che ha
maggior successo. Non solo, come abbiamo visto, con la canzone di Rudolph del 1939, ma anche
con altre natalizie, qualificandosi come uno specialista del genere.
Il lato soft della musica country viene rovesciato da Hank Williams che propone un panorama più
aspro, piroettato verso la descrizione di antieroi senza speranza, alcolizzati e incapaci di riscattarsi.
Una parte di pulvino che apprezza la musica country viene da ambienti disagiati, per questo
Williams viene apprezzato. Per molti il “disagio” creato dal cantante e espresso con una dolorosa
intensità poetica, è credibile ed è vicino al loro, di disagio.
Le canzoni di Williams divengono il modello fondamentale dello stile Hard Country, al quale si
ispireranno altri autori successivi. Dal 1947 al 1952, quasi tutte le sue canzoni sono al primo posto
delle classifiche country, e proprio nel 1952 raggiunge l’apice del successo. Il 1952 è anche, però,
un anno infelice per il cantante: la moglie chiede il divorzio, lui incontra un’altra e la sposa, una
terza donna lo accusa di averla messa incinta e lui accetta di pagare per il figlio (anche se poi verrà
fuori che il padre non è lui). In tutto ciò Williams si alcolizza, e abusa di morfina e farmaci. Morirà
a 29 anni. Come terribile ironia, l’ultimo suo singolo, è “Non uscirò vivo da questo mondo”. Dopo
la morte il cantante godrà di un successo ancor maggiore. Vengono richieste foto su foto alla sua
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casa di discografica, dischi, le radio mandano i suoi singoli ininterrottamente, e la sua figura verrà
pian piano “divinizzata”, sopratutto per mano della madre e della sua prima moglie. Il 13 marzo
1953, per un accordo tra le varie radio, viene proclamato lo “Hank Williams Day” e vengono
pubblicate più di 16 canzoni tributo. È un esempio di quanto una persona sia in realtà, per la
cultura di massa mainstream, solo un business. Ma è simbolo anche di un’altra dinamica: la
negazione della morte, specie dopo la fine della guerra. Si ha paura della morte, la si nega. Non se
ne parla. Contribuisce anche la straordinaria ripresa economica che induce a un ottimismo quasi
isterico. Contribuisce il materialismo estremo sollecitato dalla cultura di massa, il culto del lieto
fine, le fantasticherie eroiche immortali. E contribuisce anche il miglioramento in ambito medicoscientifico. Per questo la giovane star morte diventa qualcosa di simile a divinità, morta per
ingiustizia. E pensare che Williams non era nemmeno incline a vedere la vita dalla prospettiva della
cultura di massa: ma la massa è più forte e questo processo lo coinvolge nonostante il suo pensiero.
4. R&B
Lomax e John Work, un professore di colore, nell’agosto 1941 arrivano in una piantagione del
Mississippi alla ricerca di qualcuno che se suoni vecchi blues. Trovano McKinley Morganfield,
contadino di 28 anni che inizia a suonare la sua chitarra; e loro lo registrano con il loro apparecchio.
Il giovane non aveva mai visto niente di simile. Così, Muddy Waters, (come è soprannominato), se
ne va dal Mississippi per fare della musica il suo lavoro. Egli diventa uno dei grandi innovatori del
blues. Nel 1945, arrivato a Chicago, compra una chitarra elettrica. Con essa, lo stile e la poetica
vengono conservate, il modello delle strofe articolate in tre versi viene mantenuto. Ma cambia il
ritmo che viene accelerato e più marcato.
Il blues elettrico ha un enorme influenza sulla successiva evoluzione della popular music e della
cultura di massa, ma inizialmente non piace al pubblico nero. Questo stile riprende il tema
dell’ossessivo sconforto personale che sembra non poter avere sollievo, che si traduce nella
constatazione di essere stato abbandonato, deluso dalla società o dalla persona amata. La
depressione blues può essere vinta muovendosi o affondando nell’alcol. C’è anche il tema della
guerra dei sessi. Muddy non è il solo a muoversi. Fin da dopo la guerra milioni di neri se ne vanno
dal Sud e si trasferiscono nelle grandi città in cerca di fortuna. Anche se in quegli anni il mercato
discografico resta razzialmente separato e musicisti neri suonano per un pubblico nero, si intuiva
che qualcosa stava cambiando. Nel 1949 “Rhythm e Blues” (R&B) diventa il termine standard per
indicare l’insieme della musica pop afroamericana al posto delle varie rubriche, e questo mutamento
di etichetta viene considerato il simbolo di un nuovo rispetto per la comunità afroamericana. Il
R&B è allegria e spontanea eversione. Tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50, cominciano
a emergere gruppi vocali prevalentemente maschili che rielaborano la tradizione degli spiritual e dei
gospel. Nomi come The Five Keys, The Oriels, The Clovers, tutti gruppi afroamericani, dominano
le classifiche tra il 1950 e il 1954. Il successo di queste musiche è reso possibile dall’esistenza da
un’articolata rete di case discografiche e di radio indipendenti. Fin dal 1929 le majors discografiche
hanno giudicato il mercato della musica nera come irrilevante e trascurabile, per concentrarsi sulla
musica pop e country.
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Seconda parte: The times they are a – Changin’
VII. ROCK AND ROLL
1. Giovani delinquenti
Nonostante tutte le rassicurazioni provenienti dalla cultura di massa mainstream, la componente
paranoica continua ad alimentarsi: non solo per paura del “nemico esterno”, il comunista, ma anche
del “nemico interno”, il giovane delinquente.
Si ha l'impressione che gli atteggiamenti devianti, che nei decenni precedenti sono stati riconosciuti
come tipici di classi basse o delle minoranze etniche, stiano contagiando anche i giovani bianchi di
classe media. In realtà i dati non giustificano queste preoccupazioni: i reati commessi da adolescenti
non sono in crescita, anzi addirittura in diminuzione. C'è però la tendenza a considerare reati gravi
anche pratiche innocue, come disubbidire ai genitori, fare rissa, tornare tardi la sera o bere birra se
sei minorenne. Inoltre c'è un cambiamento nella composizione scolastica, soprattutto superiore:
abbiamo fianco a fianco ragazzi di ambienti sociali e etnie diverse. Ciò basta a scatenare la paura di
un pericoloso contagio degenerativo. Ecco allora che un pregiudizio riesce ad essere così forzato da
trovare conferma anche se la realtà smentisce.
Fredric Wertham, psichiatra e critico dei comics books, considera fumetti come un medium che
popolarizza stili di vita e comportamenti delinquenziali. Perché in essi non c'è autocensura;
circolano crime stories che cercano di attrarre giovani con immagini violente ed erotiche. Nel 1954
lo studioso pubblica “Seduction of the innocent” un saggio di polemica che ha un grossissimo
impatto, tanto da portare ad un'autoregolazione dei maggiori editori di fumetti. Vengono eliminate
tutte le scene di violenza, e accenni alla droga e al sesso; non possono nemmeno essere nominate
parole relative a questi argomenti. Un bollo particolare su ogni album certificherebbe che esso è
stato approvato e controllato da una commissione apposita.
Ovvio che la majors di Hollywood non potevano non seguire la linea, così, insieme a film
anticomunisti, arrivano anche film che mettono in guardia da generazioni teppistiche e violente,
dove alla fine chi se la merita riceve un'adeguata punizione (per esempio “Gioventù bruciata” di
Nicholas Ray, 1955. Tuttavia, per uno strano meccanismo di negazione che afferma, questi film
contro certi costumi e usi di giovani di nicchia, finiscono per renderli popolari. Il bomber da
aviatore e lo stile da biker di Marlon Brando (The wild one) o la t-shirt a pelle di James Dean
(Rebel without a cause) diventano simboli dei gruppi di ragazzi\e che vogliono fare gli alternativi.
2. Nascita di una nuova musica
Anche la musica che si carica di significati nuovi. È proprio un film a lanciarla: “Blackboard
Jungle” (1955). Racconta di un professore che inizia ad insegnare in una high school maschile, e
deve scontrarsi con i comportamenti aggressivi di una gang delinquente, che alla fine riesce a
riportare all'ordine grazie ad uno studente afroamericano. Rappresenta la superiorità etica degli
adulti che sanno guidare i giovani. Sui titoli di apertura e di coda, c'è il brano uscito da qualche
mese: Rock around the clock di Bill Haley. La canzone trasmette il desiderio di divertirsi
abbandonandosi a un ballo scatenato. L'idea del regista è semplice: associare questa nuova musica
alla violenza giovanile. Il film però diventa uno straordinario trampolino di lancio per questa
canzone, che diventa un successo da milioni di copie vendute. Alla fine del 1960 ha raggiunto
White Christmas come singolo più venduto di sempre. È un nuovo stile di musica, la cui nascita
viene raccontato attraverso una specie di mito:
→ Memphis, Tennessee, fine estate del 1953.
Un giovane diciottenne si presenta negli uffici di una piccola etichetta discografica indipendente.
Appassionato di musica pop, vorrebbe incidere un disco. Paga 4 dollari e registra i suoi pezzi.
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Il direttore della casa non ne resta impressionato, ma la segretaria registra il suo nome: Elvis
Presley. Un anno dopo il direttore ha un bel pezzo da incidere ma non un cantante. La segretaria si
ricorda del ragazzo, e lo chiama. Il direttore gli affianca due esperti di session: Scotty Moore e Bill
Black. In un primo momento di registrazione, il cantante non sembra niente di speciale. Ma durante
la pausa, Elvis si mette a cantare un blues saltando per la stanza e facendo anche un po’ lo scemo. I
due musicisti si uniscono a lui, e il pezzo viene registrato. E’ “That’s all right”, e viene passato a un
DJ molto celebre nella località. Il pezzo riscuote successo incredibile. L’aspetto interessante è che
Presley, bianco, canta una musica che appartiene alla tradizione afroamericana e lo fa senza mutare
nulla del blues. Poi, nel 1955, “Blackboard Jungle” a impone definitivamente la nuova musica.
3. Rock and roll e “moral panic”
La nuova musica si afferma con il nome “rock and roll”. Nell’imporre questo nome, ha un ruolo
importante Alan Freed, un DJ che intitola il suo programma “Rock ’n’ Roll Party”. Qui egli ospita le
nuove musiche di Presley e altri che stanno facendo musica simile. Così estende il nome dal
programma al nuovo stile. In realtà l’espressione esisteva già nella musica nera. E non solo il
nome, anche la struttura musicale di diversi brani R&B si fonda su un accelerazione ritmica della
forma musicale del blues. Però i musicisti r’n’r imprimono un ritmo ancora più sostenuto. Quindi
Freed non inventa niente visto che nei suoi programma fa largo spazio anche a brani R&B, anche se
di certo lancia il termine.
Nel 1956 il termine viene consacrato. Il mercato discografico parla: più di 600 milioni di dischi
venduti nel 1959, soprattutto da parte di teenager. Ma le critiche non mancano. Nella rivista “Time”,
autorevoli psicologi, sostengono che i giovani fa del r’n’r seguono i loro idoli come i nazisti
seguivano Hitler. Si parla di musica cannibalistica e tribale che fa appello alle insicurezze e alle
inclinazioni ribelli dei giovani. Si parla di pazzia collettiva. Anche ai genitori la musica non piace.
4. Parabole r’n’r Il rock and roll
Parla di noia per la scuola, di corse in macchina, di amore adolescenziale, capace di esplorare molti
aspetti delle esperienze giovanili. Lo specialista delle canzoni d’amore è proprio Elvis. Mentre
Chuck Berry è geniale nel contestualizzare: il testo di “School Days” ad esempio contrappone
brillantemente il dovere della scuola alla libertà offerta dalla musica, il ballo e dall'interazione con
la propria ragazza. Col r’n’r non si può fare a meno di muovere il corpo. D’altronde nelle loro
esibizioni, i musicisti danno della corporeità una componente essenziale dello show. E non sono
solo gli afroamericani a impiegare il corpo ma anche i bianchi.
Quindi il r’n’r è una musica molto fisica che invita al ballo e al divertimento, mentre le storie che
racconta esaltano identità centrifughe rispetto alla scuola, al lavoro, al dovere, tipiche delle gang
giovanili socialmente marginali. Per queste ragioni, all’inizio il genere acquista una specifica
connotazione sociale: non è il tipo di musica d'elite nelle high school ma è accolto con entusiasmo
nei juke joints dai ragazzi socialmente più bassi. Per loro investire in musica rock significa
rovesciare il senso di inferiorità che sentono nei confronti delle gerarchie scolastiche e sociali. E’
come se si sentissero uniti da qualcosa di molto forte, qualcosa che li rende meno sfigati e falliti.
Alla musica si uniscono abbigliamenti e acconciature fatti apposta per capovolgere o negare gli stili
prevalenti diffusi: giubbotti di pelle, t-shirt bianche attillate, colori brillanti e contrastanti, capelli
dal ciuffo folto e imbrillantinato.
Nonostante tutta questa aura ribelle, i musicisti r’n’r sono abbastanza cauti nel realizzare canzoni
con contenuti sessualmente evidenti. Semmai la sessualità è incarnata non nei testi, ma nei cantanti.
Il movimento di bacino di Elvis, nonostante non abbia significati particolari per Elvis stesso, viene
interpretato dalle fan come qualcosa di selvaggio ed erotico. Così che Presley diventa una specie di
pin-up maschio che faceva letteralmente gettare a terra le fan dall’entusiasmo.
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Una delle principali preoccupazioni di chi critica i genere riguarda proprio i significati sessuali
impliciti che le fan di Elvis e degli altri, vedono nelle loro performance e in quello stile di musica.
Ma le ragioni più profonde sono due:
• il r’n’r è la prova del “contagio” che la cultura delle classi inferiori sta diffondendo tra la
più sana gioventù d’America.
• c’è il superamento della linea del colore, della confusione razziale. Nell’aprile del 1956,
Nat Cole viene aggredito da un gruppo di razzisti bianchi durante una sua esibizione. Nei
mesi seguenti Carter comincia una campagna proprio contro Cole perché si esibisce con
cantanti bianche, alludendo così alla minaccia sessuale nera alla purezza delle donne
bianche. Carter, prendendosela con Cole (cantante puramente pop) voleva denunciare il
rock and roll come una “musica negra, bestiale, erosiva, volgare”.
In realtà questa musica non contiene niente di davvero eversivo. Le sue matrici originarie sono il
blues e il country: ma la prima musica è filtrata attraverso il R&B, di cui il rock and roll è una
variante; e della seconda si scelgono le declinazioni più pop, certo non l’hard country. E dal punto
di vista testuale, c’è solo una tematica indirizzata verso gruppi più marginali. Nient’altro.
Ecco perché molto presto il r’n’r viene assorbito dalla cultura di massa mainstream. Operazione
facilitata dal lancio di musicisti e programmi che ripuliscono il genere agli occhi degli adulti
benpensanti e degli studenti alti delle high schools.
I protagonisti di questa operazione sono Pat Boone e Dick Clark.
- Pat Boone, bianco, belloccio, famiglia cristiana, frequenta l’università e a 19 anni viene lanciato
con successo: il suo repertorio comprende canzoni pop sentimentali. Nel 1958, a 24 anni, pubblica
un libro indirizzato agli adolescenti in cui espone la sua idea di vita riassumibile in “obbedite ai
genitori e rispettate i valori del paese”.
- Dick Clark si forma come dj radiofonico e giornalista tv, a 27 anni conduce un programma in cui
si presentano i nuovi successi musicali, accompagnati da danze dove ballano ragazzi e ragazze
giovani.
Questi sviluppi non sono da considerare come un complotto per mettere a tacere il r’n’r ribelle. Il
rock and roll è già consumista; gli interessi dei primi rocker non erano altro che fare carriera nella
cultura di massa mainstream. Elvis è un esempio: Hollywood sforna molti film musicali, ed il
cantante vi partecipa (Gangster cerca moglie, 1956). Film di impianto assolutamente didattico e
valoriale, dove non c’è niente di ribelle. Ma l’integrazione non riguarda solo Elvis, è totale. Ciò
testimonia la capacità attrattiva esercitata dalla cultura mainstream anche nei confronti di una
subcultura che sembrava estremamente ribelle.
5. Tipi da spiaggia
La stessa dinamica avviene nella comunità dei surfisti californiani. Nella California del sud ci sono
circa 500 surfisti della classe media. Allo scoppio della seconda guerra, molti di loro devono partire,
e lasciano solo un gruppo di giovani adolescenti che passano la giornata sulle spiagge. Tra di loro
c’è Dale Velzy, un giovanissimo e bravissimo serfista, leader di un gruppo dai pantaloni da marinaio
corti, camicie floreali, piedi scalzi. Questo nuovo nucleo comunitario si caratterizza per il voler
avere una vita selvaggia a contatto con la natura.
La spettacolarità dello sport, la bellezza dei luoghi, la rischiosa competizione con le onde,
l’abbigliamento, conferiscono alla comunità postbellica dei surfisti notevoli elementi di attrattiva e
ribellione. In realtà questo è un mood ribelle dal contenuto incerto: l’asse della filosofia esistenziale
della comunità sta nel fuggire dalla scuola, dal lavoro, dal dovere, espandendo il tempo libero.
Queste connotazioni bastano a suscitare sdegnati attacchi critici dei media locali, e anche la netta
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opposizione dei giovani dell’elite delle high schools, che si contrappongono a questo nuovo stile di
vita, apprezzato invece dagli studenti marginali.
Ma poi il mondo del surf trova la via della cultura di massa mainstream, attraverso la pubblicazione
di riviste specializzate, cinema, musica pop.
Al cinema esce nel 1959 “Gidget”, che narra l’ingresso di una ragazza di buona famiglia in una
comunità di surfisti. Dove alla fine il leader abbandona la vita selvaggia e trova lavoro. Per la
musica abbiamo i Beach Boys, giovanissimi californiani che esordiscono nel 1961 con canzoni tutte
contenenti la parola “surf” o allusioni ad esso.
A questo punto la moda del surf (abbigliamento e sport) non ci mette molto ad essere adottata anche
dalle élite delle high schools. E le originarie peculiarità controcorrente della comunità vanno
perdute.
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VIII. BEAT GENERATION
1. Hipsters testadangelo
In “Urlo” (1956), Ginsberg crea uno degli incipit più incisivi della letteratura americana. E’ un urlo
di rabbia, una celebrazione dell’autodistruzione che l’autore condivide con altri giovani intellettuali,
tra alcol e droghe. E’ un po’ ciò che faceva la Lost Generation prima della Seconda Guerra
(Fitzgerald, Hemingway, Stein...) ma Ginsberg non va in Europa, resta in America alla disperata
ricerca di un’identità che gli consenta di fuggire alla normalizzazione della cultura mainstream.
Egli aveva conosciuto e condiviso con altri giovani come lui, il suo “inferno”. Lo aveva fatto una
decina di anni prima, quando entrò in contatto con un gruppo di studenti ed ex-studenti della
Columbia, con i quali aveva scambiato sogni, progetti, ambizioni. Tra questi, Burroughs, Kerouac,
Cassidy, Corso, Carr...
1. William Burroughs, nato nel 1914. Suo nonno ha inventato la prima macchina calcolatrice,
quindi ha una certa stabilità economica. La famiglia però ha problemi di altro genere e
William ne porta i segni, la sua personalità è complessa; è un po’ strano. Crescendo scoprirà
di essere omosessuale. Si laurea in letteratura a Harvard. A 25 anni è fidanzato con un
ragazzo che lo fa soffrire e questo lo porta ad automutilarsi un mignolo. Viene per questo
ricoverato, ed una volta uscito va a New York, dove per amici in comune entra in contatto
proprio con Ginsberg.
2. Allen Ginsberg, 1926. Entrambi i genitori sono ebraici, la madre soffre di schizofrenia ed il
padre fa di tutto per crescere lui e suo fratello. Allen soffre molto per la sua omosessualità;
dopo la maturità entra alla Columbia dove conosce il suo gruppo e anche Kerouac, di cui si
innamora, non corrisposto.
3. Jack Kerouac, 1922. Genitori operai. A 4 anni perde il fratello più grande; il lutto segna lui
e tutta la famiglia. Riesce comunque ad emergere come uno dei migliori giocatori di football
della scuola, e questo gli fa ottenere una borsa di studia per la Columbia. Dopo un anno
abbandona l’università e torna a casa, in un tira e molla che si interrompe solo quando
conoscerà il gruppo di amici.
4. Neal Cassidy, 1926, ha genitori separati, da piccolissimo vive con il padre, un barbiere
alcolizzato che lo fa crescere in condizioni di povertà e abbandono. Torna con la madre, la
sorellina e il fratellastro, un sadico che lo tormenta. Neal deve crescere troppo in fretta, fin
da 9 anni ha rapporti con femmine e maschi, lo avrà anche con Ginsberg. Nel 1945 sposa
una quindicenne e si trasferiscono a New York con una macchina rubata e soldi rubati. Lì
conosce Kerouac e Ginsberg, suoi amici inseparabili. Kerouac lo farà personaggio del suo
“On the Road” nelle vesti di Dean Moriarty.
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5. Gregory Corso, il più giovane, 1930 ha origini italiane. Passa la giovinezza tra una famiglia
affidataria e l’altra, poi torna dal padre ma viene rinchiuso in riformatorio per aver rubato
una radio. Lì viene picchiato in continuazione, si riferisce da solo alla mano per uscire. E
così succede. Comincia però a vivere per strada, rubando cibo per sopravvivere. A 16 anni
dopo una rapina viene messo in prigione, dove passa il tempo a leggere e studiare. Dopo tre
anni esce e va a New York, dove incontra Ginsberg.
Questi passano insieme gli anni ed elaborano una nuova visione della letteratura che vorrebbero
produrre, guidata dall’idea secondo la quale l’espressione priva di censure dovrebbe essere la base
dell’attività creativa. Essa dovrebbe essere alimentata attraverso droghe e altre sostanze, qualunque
cosa permetta di liberarsi dall’oppressione di quella che loro giudicano l’ottusa moralità dominante.
Già dagli anni ‘40, i membri del gruppo cominciano ad autodefinirsi “beat”. Il termine ha due
accezioni: quella originaria del “battuto, “distrutto” e quella meno ovvia, lanciata da Kerouac
qualche tempo dopo, che trasforma questo stato in una condizione di grazia, o meglio “beatitudine”,
la beatitudine del perdente.
Cominciano però vicende negativamente travolgenti:
Nel 1944, Lucien Carr, un membro del gruppo, uccide David Kammerer, disperatamente
innamorato di lui, coinvolgendo nella vicenda anche Kerouac e Burroughs che lo hanno aiutato a
occultare le prove. Poco tempo dopo Burroughs comincia a fare uso di morfina ed eroina. Conosce
anche Joan Vollmer, giovane con una figlia ma separata dal marito. Tra loro nasce l’amore ma
nessuno dei due evita di fare sesso occasionalmente con altri (uomini). Vollmer è dipendente da
farmaci, viene anche ricoverata in psichiatria. I due hanno un figlio Bill. Entrambi sono dipendenti
da droghe e alcol. Nel settembre 1951, in un appartamento di conoscenti, William spara a Joan,
uccidendola. L’avvocato di lui istruirà a dovere i testimoni affinché descrivono la vicenda come un
incidente. Alla fine Burroughs riuscirà a scappare in Messico. Intanto Kerouac e Cassidy conducono
vite alcoliche caotiche. E Ginsberg è rinchiuso in un reparto psichiatrico.
Travolti da questi avvenimenti, i giovani non hanno visibilità se non in senso negativo.
2. Un reading
L’etichetta “beat” prenderà avvio nel 1955 a San Francisco. Lì si sono trasferiti Ginsberg e Cassidy,
occasionalmente raggiunti anche da Kerouac. Conoscono Lawrence Ferlinghetti, un intellettuale
proprietario della libreria City Lights e dell’omonima casa editrice. Organizzano una serata di
lettura pubblica nella quale si possano ascoltare le produzioni di questa generazione di poeti. Ecco
come Kerouac descrive la serata:
“Alla Gallery Six quella sera ebbe inizio il Rinascimento poetico di San Francisco. C’erano tutti.
Fui io a scaldare l’ambiente andando in giro a raccogliere monetine da un pubblico piuttosto sulle
sue, e tornando con tre enormi brocche da 4 litri di borgogna californiana. Tutti si ubriacarono,
verso le 11 mentre Ginsberg leggeva il suo “Urlo” ubriaco e a braccia tese, tutti si misero ad
urlare come in una jam session. Intanto il vecchio Kenneth Rexroth (autorevole poeta californiano
di 50 anni) piangeva dalla felicità”.
L’aspetto particolare della performance è la corporeità, la fisicità della lettura, quasi come in
un’improvvisazione jazz. Kerouac diceva: “Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un
lungo blues di domenica pomeriggio”.
Ferlinghetti è così colpito da “Urlo” che propone a Ginsberg di pubblicarlo il giorno dopo la lettura
pubblica. Il poema non è semplice. Il verso è guidato da associazioni visionarie. I temi affrontati
sono la descrizione di una generazione controcorrente, la celebrazione della pazzia, della sessualità
priva di limiti e generi, della creatività derivata dall’uso di droghe. E l’autore fa questo fa in tono
alto, enfatico, gridato, celebrativo, rivendicativo. Non ha niente da nascondere, niente di cui
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vergognarsi. Ginsberg si fa portavoce degli outsiders come lui. Tuttavia il tono assume anche un che
di tragico, dato da chi si trova piccolo di fronte ad un grande mondo dominante. Fin da allora il
tema della sessualità, infatti, era puntualmente rimosso dalla cultura mainstream, in particolare la
declinazione omosessuale. Lo stesso vale per le droghe.
La pubblicazione del libro infatti ha delle ripercussioni nel contesto culturale dell’epoca. Oltre alle
varie critiche, nel maggio 1957, nella libreria di Ferlinghetti arrivano due poliziotti in borghese con
un mandato d’arresto per il commesso e per Ferlinghetti stesso, con l’accusa di vendita di materiale
osceno (il libro di Ginsberg).
L’autore scampa all’arresto perché in quel momento si trova in Marocco. Alla fine il giudice
assolve gli imputati e gli riconosce libertà di espressione. Fuori dall’aula c’è una folla festante che
grida in segno di approvazione. L’intera vicenda, se non altro, ha portato clamore e notorietà al libro
che nelle settimane seguenti fa delle vendite pazzesche.
3. Sulla strada
Il procedimento a carico di “Howl” si incrocia con la pubblicazione di “Sulla strada” di Kerouac,
nel settembre 1957, che riceve enorme successo.
Narra di Sal Paradise (l’autore), dell’amicizia con Carlo Marx (Ginsberg) e soprattutto con Dean
Moriarty (Cassidy) e dei viaggi che Sal compie attraverso gli States. I rapporti che si intrecciano
sono intensi ma anche distorti dall’alcol e dalle droghe, nel contesto di feste che sembrano essere
dei pre rave-party. Il tema principale però è il viaggio senza meta in contrapposizione all’idea di
entrare definitivamente nell’ingranaggio distruttivo della società di massa. E’ un viaggio che torna
sempre da dove è partito. Non c’è fine, c’è solo movimento instancabile perché non c’è fiducia nella
società.
Il fascino del libro sta anche nello stile: Kerouac scrisse a macchina su un rotolo da telescrivente
così da non dover mai fermarsi. E’ una sorta di flusso di coscienza, nervoso e frammentato, ma
perfettamente chiaro e capace. Questa “improvvisazione” gli è data anche dalla passione per il jazz.
Non solo jazz, ma anche blues.
Il romanzo pubblicato l’anno dopo, “I sotterranei” ripercorre una delle matrici narrative tipiche del
blues. Un uomo, Leo, attratto dal fascino di una donna, Mardou, dopo averla avuta se ne vuole
liberare per passare ad altri rapporti; lei gioca d’anticipo e lo tradisce. Colto dalla gelosia e dalla
sofferenza allora lui la vorrebbe tutta per sé. Ma ormai la storia finisce, e in lui entra un doloroso
rimpianto. L'influenza del blues è evidente, inoltre Mardou è afroamericana.
4. Beatnik
Sul New York Times esce una recensione di Millstein, che riconosce “Sulla strada” come manifesto
della Beat Generation, come “Fiesta” di Hemingway lo era per la Lost Generation.
Ci sono anche critiche negative; una fra le tante è di Norman Podhoretz che giudica la Beat come
ostile alla civilizzazione, primitiva e celebrativa della criminalità. E dei romanzi di Kerouac dice
che c’è stereotipia per gli afroamericani; intellettualismo fatto di frasi fatte, banali, ovvie; lessico
scarso. E alla fine, come altri, riconduce la costellazione beat nello spazio nel quale viene ricondotta
quella r’n’r: ovvero quello della criminalità giovanile. Herb Coen battezza la generazione con il
nomignolo “beatnik”, che fonde insieme beat e sputnik (il primo satellite lanciato dai sovietici nello
spazio). La critica sottintesa è ai beat come nemici della civilizzazione, così nemici quindi alla
regina di tutte le civiltà, quella americana, da essere associati alla minaccia sovietica.
Anche la cultura di massa mainstream contribuisce alla declinazione negativa del beat. Il cinema
hollywoodiano si muove su due livelli: la denigrazione parodistica e la normalizzazione moralistica.
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→ Nel 1959 esce “Beat Generation” in cui il protagonista è un beat-stupratore, alla fine catturato
da un poliziotto la cui moglie è una sua vittima.
→ Nel 1960 esce “The subterraneans”, tratto dal romanzo di Kerouac, e la sceneggiatura ne cambia
aspetti essenziali. Mardou non è nera ma bianca; la storia tormentata si conclude quando la donna
annuncia a Leo la sua gravidanza, e lui si rende conto del suo immenso amore per lei. I due si
fidanzano e decidono di abbandonare la comunità beat per vivere una vita “normale”.
→ Nel 1959 “Life” pubblica un articolo, costruito in modo perfidamente efficace, in contrappone la
vita square a Hutchinson e la vita beat a Venice Beach. Il confronto impressiona con foto e
descrizioni molto attente al lessico: “La casa ordinata e felice del quartiere Hutchinson”, “La
traballante e caotica casa in affitto di Venice Beach”, “I giovani possono andare in piscina, al
bowling, a pattinare, al cinema il venerdì sera a Hutchinson”, “A Venice se ne vanno in sale bingo
dismesse con i loro bongo a declamare poesie e ascoltare jazz, finché i vicini non chiamano la
polizia”.
Il tentativo di normalizzare, e soprattutto criminalizzare l’immaginario beat riesce solo a metà.
Soprattutto non riesce l’integrazione, come invece era successo per il rock e per il surf, del beat
nella cultura mainstream; perché in questo caso, le caratteristiche del genere sono troppo in
controtendenza e troppo estreme.
5. Calamite beat
Giovani ragazzi e ragazze trovane nel beat una via da seguire. Coloro che sentono di aver trovato in
Ginsberg o Kerouac (che diventa una specie di star, spesso associato a Brando o Dean) dei modelli
spirituali, entrano a far parte delle comunità beat che si formano a North Beach - San Francisco,
Venice Beach - Los Angeles e Greenwich Village New York; tre aree che ospitano artisti e
intellettuali, e che diventano le capitali di questa cultura. Tra il 1957 e il 1960 i numeri crescono a
dismisura, arricchiti da un numero molto alto di teenager (13-15 anni) che hanno abbandonato la
scuola e la famiglia.
Non è una comunità che vuole dare nell’occhio o voglia imporre la sua presenza. I beat dei villaggi
evitano, generalmente, di lavorare, criticando così la società a cui appartengono. Sono degli
scioperanti permanenti, vivono con poco: e dichiarano che sia molto meglio così piuttosto che
accettare i ritmi della società. E’ una comunità senza capo, Ginsberg è apprezzato, ma non è il loro
leader. L’uso delle droghe e la libera sessualità sono tratti identitari. La cultura afroamericana è
eletta a modello etico ed estetico.
Le comunità non sono molte, ma la moda beat si diffonde rapidamente, contagiando il modo di
vestirsi, di esprimersi, e riaffermando il gusto per il jazz e per il folk. Più in generale si tratta di un
interesse per i giovani di ampliare il loro orizzonte culturale, in tutti i campi, dalla letteratura, al
teatro, alla musica, alle esperienze.
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IX. I WANT TO HOLD YOUR HAND
1. Gioventù ribelle
Qualcosa di importante sta accadendo: la scena artistica del Village è più viva che mai e si sta
espandendo. Fioriscono locali, teatri, gallerie d’arte che ospitano alcune tra le più belle
sperimentazioni artistiche in atto. La vera novità del momento è il folk revival: nel giro di pochi
anni, a partire dal 1958, vengono inaugurati numerosi locali dove si può passare la serata ascoltando
musicisti con la chitarra acustica, armonica a bocca e percussione, che eseguono canzoni tratte dal
repertorio folk, hard country e anche blues. L’espandersi del folk si lega alla rinascita di movimenti
politici di protesta, il più importante dei quali è il Movimento per i diritti civili.
La prima manifestazione di questo ha luogo tra dicembre 1955 e dicembre 1956 a Montgomery,
Alabama, dove la comunità afroamericana locale organizza un boicottaggio ai mezzi pubblici dopo
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che Rosa Parks è stata arrestata per essersi seduta in autobus in un posto riservato ai bianchi. Il
movimento contro la segregazione razziale, guidato da Martin Luther King, è basato su principi
gandhiani e nonviolenti, e si appoggia sulle organizzazioni delle chiese protestanti nere del Sud
degli States, oltre che su organizzazioni come la NAACP (Associazione nazionale per la
promozione delle persone di colore) o il CORE.
La protesta non violenta si sviluppa in episodi diversi. Uno dei più conosciuti è il sit-in di quattro
studenti universitari neri, che nel febbraio 1960 si siedono ad un ristorante per bianchi chiedendo di
essere serviti. I camerieri si rifiutano e loro rimangono lì fino a sera. Tornano anche il giorno dopo,
e ai ragazzi si uniranno altri, alternandosi per portare avanti l'iniziativa.
Nell’aprile 1960 viene fondato il SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee).
Il programma dell’associazione ha come obiettivo la costruzione di una comunità integrata e
interrazziale.
Nonostante attacchi verbali, giudiziari e anche fisici dei razzisti bianchi, il Movimento ottiene
successo. Il maggiore è celebrato il 28 agosto 1963 a Washington, quando 250.000 persone sfilano
per la città, fino al Lincoln Memorial, dove King tiene un emozionante ed esemplare discorso: “I
have a dream”. Tra il 1964 e il 1965, su iniziativa del presidente Johnson, il Congresso approva una
serie di norme fondamentali che cancellano ogni base legale per la discriminazione razziale. Il
successo è anche per l’attenzione che i media nazionali, per la prima volta, riservano alle iniziative
del movimento, contribuendone anche alla popolarità.
Nell’università di Ann Arbor, Michigan, Al Haber e Tom Hayden, prendono l’iniziativa di far
rinascere una preesistente associazione giovanile socialista anticomunista (LID): nasce così
Students for a Democratic Society (SDS). E’ una nuova esperienza della Left: l’organizzazione
comincia a diffondersi in altre università del paese e i militanti si uniscono per definire meglio il
programma. Nel giugno 1962 c’è un importante incontro a cui partecipano anche rappresentanti
della LID, CORE, SNCC, NACCP e altre organizzazioni giovanili. In questa circostanza viene
approvato il Manifesto di Port Huron. Il Manifesto era fortemente influenzato dal movimento per i
diritti civili. Criticava il sistema, la discriminazione razziale, la diseguaglianza economica, e si
poneva su posizioni pacifiste. Era attento anche ai temi del disagio esistenziale e generazionale.
Il movimento cresce sempre di più e attira studenti anche fino ad allora non interessati alla politica.
La diffusione è spinta anche dalla decisione di Johnson, nel 1964, di inviare truppe americane in
Vietnam, e dalla conseguente diffusione di un grande movimento pacifista, di cui SDS è un
importante rappresentante.
2. We shall overcome
In queste iniziative, la musica svolge un ruolo essenziale. Nei primi anni del Movimento per i diritti
civili è importante la musica religiosa di origine afroamericana, gli spiritual, gospel: sia perché parte
è integrante delle chiese protestanti afroamericane, sia perché è un genere funzionale alle esigenze
militanti. I testi infatti descrivono la speranza di raggiungere un mondo migliore, e la struttura a
“call e response” fa sentire uniti e dà coraggio.
Ma soprattutto la “Highlander Folk School” dà un contributo essenziale; fondata nel 1932 nel
Tennessee da due giovani educatori e teologi, la scuola collabora con sindacati e organizzazioni
come la NAACP e anche con il Movimento stesso. Nelle attività didattiche della scuola, la musica
ha un ruolo rilevante, anche grazie a studiosi e ricercatori del genere folk come Guy Carawan.
Questo trasmette al Movimento una parte della tradizione della canzone folk di protesta, fiorito tra
gli anni ‘30 e la Seconda Guerra. In particolare, il Movimento si impossessa di una canzone che
finisce per diventare il suo inno: We Shall Overcome. La canzone viene scritta nel 1900 da Charles
Tindley; per il Movimento ne viene arrangiato il titolo, il ritmo e qualche verso.
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E verrà eseguita anche alla grande marcia di Washington, cui partecipano anche noti musicisti come
Mahalia Jackson, Josh White, Joan Baez e Bob Dylan.
3. Il primo Bob Dylan
Bob arriva a 20 anni a New York con l’obiettivo di inserirsi nel circuito della musica folk. Da
ragazzino, quando frequenta il liceo, si appassiona alle musiche di Johnnie Ray e Hank Williams,
ma anche al blues. Ama il cinema e ama Elvis, il suo idolo, anche se il r’n’r non lo rappresenta in
modo realistico. Nel 1959 va a Minneapolis per frequentare l’università e scopre il folk, la
letteratura beat e in particolare “Sulla strada”. Tutto questo lo colpisce profondamente e si avvicina
musicalmente al mondo del folk. Legge anche “Questa terra è la mia terra”, una specie di
autobiografia di Woody Guthrie: inizia l’infatuazione per lui, che all’epoca è ricoverato in un
ospedale del New Jersey. Nel gennaio 1961 va a visitarlo.
Intanto, Bob comincia a costruirsi una fama locale, esibendosi spesso col suo nuovo repertorio folk
in diversi locali del Greenwich Village. Qualcuno si sta accorgendo di lui: sul New York Times del
settembre del 1961, una sua esibizione viene recensita con toni entusiastici. Un mese più tardi,
firma un contratto con la CBS. Il suo primo album è del 1962 e contiene 11 cover e solo 2 originali,
uno dei quali è dedicato a Guthrie. Ma il disco si perde nella miriade di lavori folk promossi in quel
periodo e non riscuote molto successo. Il secondo (1963) e terzo album “The times they are achangin” (1964) contengono tutte, o quasi, canzoni originali. Musicalmente molto semplici, suonate
con la chitarra acustica e l’armonica, timbro vocale molto particolare. Tra tutte le musiche, spicca
“Blowin'in the wind”.
Le sue canzoni mostrano sensibilità per i marginali, neri, poveri, che gli deriva dalle matrici beat,
folk e blues. Mostrano un modo nuovo di guardare la società, e toccano corde profonde tra i giovani
della SDS o SNCC. L’autore si impone nel repertorio del Movimento per i diritti civili o del
nascente movimento studentesco e sembra così candidarsi al ruolo di portavoce dei movimenti di
protesta, e in effetti vi partecipa anche. Nonostante, però, la politicità dei suoi testi, Dylan non
vuole farsi portavoce di nessuno, né le sue parole sono di propaganda. La sua posizione è polemica
ma aperta, non ha risposte ai problemi del suo tempo: la risposta, come canta nella sua canzone,
soffia nel vento. Ma di domande ne ha tante, di cose da dire ne ha tante. La sua è una riconquista di
una piena autonomia di pensiero che può condurre alla libertà.
4. Dall’altra parte dell’Atlantico
Fino ad ora, l’Europa ha subito l'impatto delle varie forme che l’intrattenimento culturale ha assunto
negli USA. Sia per la loro forza seduttiva, sia per il rapporto di dipendenza economica e politica
derivante dalla fine delle due guerre.
Ovviamente ci sono autori validi, ci sono i registi del neorealismo italiano, della nouvelle vague
francese, ma questa costellazione di autori, anche se innovativa, colpisce solo un’area piccola e
d’avanguardia del pubblico statunitense. Così lo scambio culturale resta ineguale: prodotti di massa
economicamente e socialmente di grande impatto dagli USA all’Europa; prodotti di nicchia e colti
dall’Europa agli USA.
Negli anni ‘60, in Gran Bretagna, le produzioni statunitensi sono apprezzate in blocco come il
moderno che finalmente irrompe in una società molto tradizionale, anche se non mancano reazioni
negative di stampa conservatrice.
Il pubblico britannico si apre al jazz, al r’n’r, al R&B ed anche a un genere di nicchia come il blues.
All’operazione contribuisce anche Lomax, che è emigrato in Gran Bretagna per sfuggire alla
“caccia alle streghe” in USA, e che dal 1951 ha curato due trasmissioni su folk e blues
afroamericano per la BBC. In particolare Lomax nota che a eseguire il doloroso repertorio blues, tra
cui anche le prisons songs, sono: “dei giovani bianchi che hanno sofferto poco rispetto alle
comunità afroamericane del sud degli States.
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Ma poi mi sono reso conto che questi giovani devono essersi sentiti davvero in prigione,
intrappolati nel sistema di classe e casta dell’impero britannico”.
I giovani britannici hanno una struttura educativa più rigida di quella statunitense. E’ previsto un
ciclo inferiore (511 anni) con un esame selettivo finale. Sulla base dei risultati, i ragazzi (11-15
anni), vengono indirizzati nei “professionali” o nelle “grammar schools” che consentono l’accesso
al ciclo superiore e quindi anche all’università. Chi viene da famiglie di classe medio-alta
solitamente riesce ad arrivare alle grammar, e chi riesce a fare questo percorso mostra tratti
spiccatamente conservatori, anche in giovane età. Inoltre, dal punto di vista culturale, mostrano una
certa resistenza nei confronti della cultura di massa, sia per orgoglio nazionale, sia perché questa
viene considerata scadente e offuscante.
Nei contesti di classe operaia spicca il teddy boy, che si forma nei primi anni ‘50. Si tratta di ragazzi
che provengono da ambienti più disagiati, tagliati fuori perché privi di educazione scolastica, ma
desiderosi di uscire dal loro ghetto sociale.
Per farlo adottano lo stile in voga nel periodo edoardiano (1901-1910; da qui il nome: Edward=Ted)
e quello dell’iconografia del gangster dei film hollywoodiani. Tipica è la cravatta a stringhe. Hanno
inclinazioni razziste e maschiliste. Il gangster o il fuorilegge è simbolico perché capace di costruirsi
uno status sociale solo attraverso sé stesso, senza valori morali seri e onesti. E’ l’espressione della
loro realtà di outsiders, ma con aspirazioni di elevazioni sociali.
A fine anni ‘50, la subcultura dei ted viene affiancata e assorbita da quella dei mod (modernists).
Abiti eleganti modellati su tagli di alta moda italiana e francese dell’epoca, anche in questo caso
allusivi allo stile gangster hollywoodiano. Molti gruppi mod sono formati da ragazze, e i ragazzi
indossano spesso l’eye-liner. Si tratta di giovani di ambienti popolari, ma il loro stile di vita è più
vistoso di quello dei ted. Hanno un'agenda che prevede l’andare a ballare ogni sera. Il loro mondo è
fatto di consumi di lusso e di ostentata ricchezza. In realtà i giovani mod compensano la triste
consapevolezza di poca aspirazione sociale, con questa resistenza rituale per cercare di rovesciare la
realtà delle cose. I rocker elaborano il modello dei biker americani. Giubbotti di pelle con borchie,
jeans, scarponi pesanti. il loro sistema di valori vuole distinguerli dai mod, con un’esibizione di
maschilità da veri duri che non hanno paura di niente.
(Le ragazze, a eccezione dei mod, sono defilate in questi gruppi. La loro educazione le orienta in
pratiche e atteggiamenti tipicamente femminili; seguono sempre la madre e l’unico spazio di
sociabilità alternativo è la loro cameretta, nella quale si incontrano con le amiche).
Questi gruppi suscitano preoccupazioni nell’opinione pubblica conservatrice, alimentate dalla
stampa che tende ad amplificare episodi di scontri, così da rilanciare la storia della gioventù
perduta. Come nel caso statunitense, si può notare che le subculture giovanili compiono scelte
espressive in contrasto con i valori condivisi dalla comunità. Le loro scelte di vita enfatizzano
l’edonismo, il consumismo viziosi, stili di vita eccentrici, e rifiuto quasi integrale dell’etica di
lavoro. Per tutti questi gruppi le musiche hanno un grande significato. Quelle che vengono dagli
USA legate alla gioventù ribelle, sono le preferite.
5. Beatles
Ma il vero fenomeno che nasce nel Regno Unito ha poco a che fare con il disagio delle subculture;
si inserisce invece benissimo nella cultura di massa.
→ I Beatles: quattro ragazzi di Liverpool che fanno la storia della musica. Dopo l’uscita del primo
singolo “Love me Do”, si impongono nelle classifiche britanniche. Visti i risultati, vengono chiamati
al “Sunday Night at London Palladium”, una trasmissione televisiva da 15 milioni di ascolti, che li
consacra come star della musica leggera britannica. Fuori c’è una folla di ragazzine che la polizia a
stento riesce a contenere. Poco più tardi entra in uso il termine “Beatlemania” per descrivere
l’impatto del gruppo.
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La forma base è quella della canzone r’n’r ancor più semplificata. I testi del primo periodo del
gruppo riguardano soprattutto semplici storie d’amore vissute da giovani e adolescenti, e sono
collocate in uno spazio sociale vuoto (senza riferimenti alla scuola o a qualche specifico ambiente).
Questa indeterminatezza ha valore strategico perché permette a chiunque di identificarsi. Insomma,
queste esili trame possono essere fantasticati su qualsiasi persona: maschi e femmine.
Quello che fanno i Beatles, in particolare nelle loro trame, è eliminare la “parte triste” della storia,
la seconda parte. Decidono di dialogare esclusivamente con ragazze\ragazzi coetanei o più giovani,
i quali sono elettrizzati nel sentire che ci sono solo loro, senza fini, senza futuri mogli o mariti,
senza futuri madri o padri, senza matrimoni. Ciò che conta è quel momento. Potremmo dire che
questo tema non è poi così nuovo, ma lo era in un contesto degli adolescenti agli inizi degli anni
‘60, in una società piuttosto tradizionalista.
Intanto la “Beatlemania” si sta espandendo. Nel dicembre 1963 “I want to hold your head” viene
pubblicata anche negli USA e va benissimo. Solamente tre mesi dopo, il gruppo va in America per
una campagna promozionale intensissima, comprendente anche la partecipazione all’“Ed Sullivan
Show” uno dei varietà più seguiti. Il gruppo si esibisce per 13 minuti cantando 5 canzoni: la
trasmissione fa il record di ascolti di tutti i tempi.
Non mancano attacchi e commenti negativi: Paul Johnson, giornalista, critica aspramente il
fenomeno e ciò che esso comporta tra i giovani in un attacco durissimo che per i temi ricorda altre
critiche subite dal r’n’r e dalla Beat Generation. Ma in questo caso, l’articolo non rappresenta la
visione dominante, che invece vede i Beatles come un gruppo capace di valorizzare la gioventù
moderna e come un simbolo del rinnovamento che dovrebbe realizzarsi anche in politica.
Comunque, fino al 1965 i Beatles non fanno canzoni così diverse da quelle dei Beach Boys o di altri
musicisti pop. Si può dire che la loro musica degli inizi si avvicina agli orizzonti etici e normativi
della cultura mainstream.
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X. FEED YOUR HEAD!
1. La British Invasion
Grazie ai Beatles, una vasta generazione di musicisti loro coetanei, divengono protagonisti di un
processo di conformismo, simbolo di quanto potente sia la cultura di massa. Il successo del gruppo
infatti apre le porte del mercato statunitense al pop britannico: non era mai successo prima che il
mercato americano dei consumi di massa accogliesse un numero così alto di musicisti non
americani. → Il fenomeno (1964-1966) viene chiamato per questo, British Invasion.
L’invasione porta negli USA musicisti molto diversi. Alcuni fanno pop semplice, tipo Beatles; altri
si estremizzano, come i Kinks. Poi c’è un terzo gruppo di band (Bluesbreaker, Yardbirds, Animals,
Rolling Stones), che hanno una grande passione per il blues e il R&B. Probabilmente questi,
provenienti da famiglie di classe bassa, vedono la terra desolata del blues come una trasposizione
della loro emarginazione.
Alcune band, come i Bluesbreakers hanno un approccio rigoroso nei confronti del blues, altre come
gli Animals o i Rolling Stones, uniscono il blues ad altri generi come il folk, il r’n’r, l’hard country,
creando brani nuovi e ibridi.
Gli Animals nel 1964 reinterpretano due brani appartenenti alla tradizione folk afroamericana e
bianca, con “Baby let me take you home” e “The house of the rising sun”.
Anche Dylan aveva inciso questi pezzi nel suo primo album, ma gli Animals si impongono con
chitarre elettriche, bassi elettrici ed organi elettrici, creando tutto un altro effetto.
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Infatti le loro nuove versioni vanno ai primi posti delle classifiche. Mostrano le potenzialità
comunicative e commerciali della nuova strumentazione elettrica, e aprono universi narrativi lontani
dalle rassicuranti storie dei Beatles. “The house of the rising Sun” per esempio parla di un ragazzo
che segue le orme del padre e tenta la carriera di giocatore d’azzardo per finire male e meritarsi il
carcere.
I Rolling Stones cominciano a formarsi nel 1961, quando Mick Jagger e Keith Richards si
incontrano nei sobborghi di Londra, avevano frequentato le elementari insieme ma poi avevano
preso strade diverse. A loro si unisce Brian Jones, che come gli altri ha la passione del blues.
Proprio dal blues nasce il nome della band, adattando il titolo di un brano di Muddy Waters (Rollin’
Stone del 1950). Due anni dopo si uniranno al gruppo anche Bill Wyman e Charlie Watts.
Cominciano ad esibirsi in vari locali londinesi e riescono ad avere un contratto. Nell’aprile del 1964
il loro disco va in vetta alle classifiche. A giugno i Rolling Stones sono in America (come fecero i
Beatles) per lanciare il tour; ma non riscuotono grande successo, nonostante in patria siano già degli
idoli indiscussi. La svolta arriva con “Satisfaction” e sopratutto con il nuovo album “December’s
Children”.
Gli Stones sono strafottenti, arroganti, trasandati, cantano versi aggressivi e forti, e per l’epoca sono
decisamente insoliti nell’universo pop.
Ma le narrazioni scabrose e l’atmosfera poetica rude, è propria dell’esperienza blues e R&B che
loro hanno abbracciato. E grazie al loro successo, il blues (l’inquietudine profonda, l’amore andato
male, la forza del desiderio sessuale ecc) che sempre è rimasto in territori marginali, viene lanciato
sul mercato di massa.
Gli elementi di novità degli Stones sono due:
• l’uso del riff (breve cellula melodica che introduce un brano e ricorre poi nel corso
dell’esposizione come leitmotiv)
• il saper interpretare in modo nuovo il disagio dei giovani. Per queste due caratteristiche,
citiamo “I Can’t Get No Satisfaction”) del 1965, con il riff iniziale forse più famoso della
storia della popular music: così rabbioso, ripetuto, insistito da Richards; e con il testo che fa
riferimento al consumismo contemporaneo.
“Paint it Black” del 1966 affronta il tema della morte (tema tabù nella cultura di massa e invece
molto trattato nel blues) o meglio, dell’elaborazione del lutto di fronte alla morte della ragazza
amata. In questo brano, la struttura emotiva è assolutamente blues.
2. Dylan goes electric Dylan
matura il suo cambiamento negli anni, sia entrando in contatto con i Beatles (agosto 1964) sia
ascoltando gli Animals e i Rolling Stones. La sua chiave di volta è nell’uso della strumentazione
elettrica e nel cambio di ritmo. In un concerto del luglio 1965, Bob sale sul palco con una band
elettrica. Il mixer sballa. La gente comincia a fischiare sia per la pessima qualità del suono sia
perché quello del cantante sembrava un tradimento, una resa al music business. Dopo tre brani il
gruppo esce di scena e Dylan riprende la sua chitarra acustica e l’armonica.
E’ l’inizio del mutamento stilistico.
→ I tre album elettrici (Bringing it all back home; Highway 61 Revisited; Blonde on blonde)
segnano una svolta fondamentale per l’intera storia della popular music. La trasformazione non è
solo musicale, ma anche nello stile poetico. Dylan gira in direzione del r’n’r, del R&B e del blues
elettrico, adottando una poetica derivata dall’esperienza beat. Dimostra che la musica popolare non
è solo fatta di testi semplici e musica semplici.
“Outlaw Blues”, per esempio, ci fa capire la sua svolta blues: infatti la struttura della strofa segue la
struttura tipica della poetica blues (tre versi per ogni strofa divisi in due emistichi; i primi due versi
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si ripetono, il terzo porta a una soluzione la premessa introdotta dai due precedenti). Anche nel testo
stesso ci sono riferimenti velati al suo allontanamento dal folk.
“Like a Rolling stone”, parla di una ragazza di buona famiglia che comincia ad abusare di alcol e a
frequentare persone sbagliate. Il peggiore di loro le ha rubato tutto quello che aveva e adesso vive
come una homeless. Quindi abbiamo anche la prima figura di “antieroe” nel repertorio di Dylan.
Una tematica legata all’approccio Beat, che fa spazio, con empatia, ai sofferenti e ai marginali.
“Visions of Johanna” mostra la sperimentazione della scrittura. Dylan in modo cubista alterna
l’identità con pronomi di prima, seconda e terza persona. Il narratore è uno ma si dissocia da sé
stesso, entrando nelle “visions” di Johanna che prendono possesso della sua mente. È un testo molto
onirico e surreale.
Dylan in questi testi intende ancora sfidare chi ascolta, come aveva già fatto in precedenza. Ma se
prima, nelle sue canzoni “di protesta”, lo faceva con un linguaggio semplice e chiaro, adesso lo fa in
modo più ricco ed evocativo. Ma ci dice ancora che lui non ha la verità in tasca. Ha intuizioni,
suggestioni, che ognuno può elaborare. Nessuno ha una chiave schematica per decifrare niente. Ci
dice ancora che la realtà è dura, spesso cattiva.
3. La metamorfosi dei Beatles
L’incontro dei Beatles con Dylan serve a qualcosa: l’autore li riprovera di essersi adagiati in brani
accattivanti ma testualmente banali.
Nel 1966 il gruppo decide di non esibirsi più dal vivo e dedicarsi alla sua musica: una scelta
coraggiosa visti gli ingaggi. Con questa nuova sensibilità, gli album successivi dei Beatles si
rivoluzionano. In parte forse, la loro nuova creatività è incoraggiata dall’uso di qualche droga, ma
ciò che cambia è sopratutto la consapevolezza di sapere e poter affrontare temi estranei alla popular
music: solitudine, sofferenza, morte.
• “Yesterday” sembra essere la storia di un amore che sta finendo, ma il vero soggetto è
l’atteggiamento di un giovane che sta crescendo e l’ansia della crescita. La canzone è molto
elegante e sembra essere un qualcosa a sé nel campo della popular music.
• “Eleanor Rigby” parla di gente sola: Eleanor è una donna che passa le giornate raccogliendo
riso nella chiesa dove si è appena celebrato un matrimonio, e ne sogna anche uno per lei che
non arriverà mai. Sta in casa, allora, sola a fare i conti con sé stessa. Poi c’è il parroco
McKenzie, che scrive sermoni che nessuno ascolta, non è in contatto con nessuno e non ha
più passioni, nemmeno per il suo ruolo. Alla fine i due si incontrano, perché Eleanor muore
e al funerale non verrà nessuno, solo il parroco.
• “She’s leaving home” ha il tema del conflitto generazionale. Una ragazzina fugge da casa sua
per costruire una nuova vita con il suo uomo. La vicenda è raccontata sia dal punto di vista
della giovane ribelle, sia di quello dei genitori preoccupati. Non c’è rabbia nel suo gesto,
anzi c’è anche commozione. Poi, come in un film, la prospettiva cambia: il padre dorme
ancora e la madre scopre il biglietto lasciato dalla figlia. C’è sconcerto, rammarico, dolore
per non essere riusciti a stringere un vero rapporto con lei, nonostante non le abbiano fatto
mancare mai nulla.
• “A day in the life” è un giorno della vita in cui accadono le cose più svariate, dalle più
tragiche alle più normali. Un uomo muore in un incidente, un altro tizio va al cinema, un
altro va a lavoro anche se non ne ha voglia, e su un quotidiano si legge quante buche ci siano
in una strada di Blackburn. Quest’ultima notizia funziona da commento ironico su come la
vita possa essere senza senso e inaspettata. Man mano che sperimentano nuovi testi, i
Beatles rendono anche più complessa la struttura delle canzoni. Qui infatti, l’architettura è
creata da due nuclei compositivi distinti.
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•
Oppure in “Tomorrow never knows” (1966), nonostante ci sia una struttura molto semplice,
contiene inserimenti molto particolari in loop: come la risata distorta di McCartney simile al
canto di un gabbiano.
4. Sulla West Coast
Da North Beach (San Francisco) e Venice Beach (Los Angeles), i giovani restano colpiti dalle
soluzioni stilistiche dei colleghi britannici, e cominciano a cambiare suonando blues con strumenti
elettrici e nuove combinazioni. Gruppi come i Byrds, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane,
avrebbero però rischiato di cadere nel vuoto se non avessero trovato un ambiente locale pronto ad
accoglierli.
Il nuovo pubblico locale infatti si sta trasformando. Oltre ai reduci dell’esperienza beat, ci sono
nuove leve di giovani di varia estrazione sociale, prevalentemente di classe media, che cercano una
via di fuga dalla high school, da college, dalla rat race. Il nome con il quale i membri di questa
comunità vengono identificati è hippie, che è una deformazione di “hip”, “hipster”.
Anche qui, il vestiario è centrale, vario e stravagante. Giacche da cowboy con lunghe franche,
scarpa alte, occhialini tondi, fasce da indiani. Inoltre i giovani hippie hanno spesso capelli lunghi e
un’apertura assoluta ad ogni forma di sessualità. Gli ideali sono antibellici (soprattutto ora che la
guerra in Vietnam è in corso), agnostici per quanto riguarda la politica, e orientali per quanto
riguarda la religione (buddismo e induismo sono i punti di riferimento).
Fondamentale è l’uso di sostanze allucinogene, distinguendo in modo chiaro tra “droghe buone” e
“droghe cattive”. L’uso delle sostanze è di gruppo, per rafforzare i vincoli comunitari, anche se la
diffusione dell’eroina fa spesso breccia in personalità più fragili portandoli all’autodistruzione.
Spesso si organizzano raduni video-musicali a base di droghe. Uno di questi, tenutosi in un piccolo
gruppo hippie di San Francisco, è una festa “Tributo a Dr. Strange” personaggio dei fumetti Marvel.
Vi suonano anche i Jefferson Airplane, e si radunano più 1000 persone. Così si apre la strada ad
altre manifestazioni del genere.
Tra la fine del 1965 e il 1966, sulla scena di San Francisco emergono due manager che organizzano
decine di eventi → Bill Graham, di approccio prettamente imprenditoriale e Chet Helms, più
interno alla comunità ed etica hippie. Insieme preparano sia concerti nei locali (principalmente al
Fillmore e all’Avalon nel quartiere nero di San Francisco) ma anche all’erto, tra cui significativo è
lo Human be-in, nel gennaio 1967. Qui si uniscono poeti beat come Ginsberg e band come i
Jefferson, i Grateful Dead e molti altri, attirando una folla di circa 20.000 persone.
Gli eventi hippie-rock si moltiplicano, fino ad arrivare a Woodstock tra il 15-18 agosto 1969.
La stampa trasforma il fenomeno hippie in un argomento di rilevanza nazionale. E il modello
comportamentale ed etico della comunità si diffonde negli USA come in Europa.
5. Straniamento rituale
Se consideriamo la pluralità delle subculture giovanili dal 1960 al 1967, ci si chiede come abbia
potuto formarsi un’omogenea controcultura di massa fondata sul rock. Le ragioni principali sono
tre:
1. le nuove musiche condividono tutti alcune tematiche comuni.
2. i vari generi del rock hanno dei ricorrenti stili-matrice, dalla cui ibridazione la musica rock
prende forma.
3. si creano spazi rituali all’interno dei quali fruire tutti i diversi generi del campo culturale
rock.
Cominciamo dal punto 3 → Il principale luogo che dà omogeneità alla cultura rock è il concerto, in
particolare il grande festival a cui partecipano musicisti di diverso tipo e stile. Il modello viene
sperimentato, come visto, inizialmente nel contesto delle comunità hippie in California. Gli
spettatori hanno due diverse modalità di comportamento. Da un lato c’è chi partecipa attivamente
all’evento gridando, muovendosi con notevole fisicità: spesso l’assunzione di droghe e alcol stimola
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un simile modo, e in molti casi è stato necessario l’intervento della polizia. Dall’altro c’è, con il
diffondersi dell’etica hippie e delle droghe psichedeliche, un atteggiamento più contemplativo.
Questo secondo modo esiste anche a prescindere degli hippie: ne fanno parte tutti coloro che
preferiscono seguire la musica con attenzione.
C’è da dire che i grandi concerti si impongono in un momento in cui la tecnologia musicale fa passi
da gigante (vengono commercializzati impianti stereo ad alta fedeltà; i vinili restituiscono
un’esperienza sonora soddisfacente). La qualità del suono ascoltabile attraverso un album nella
poltrona di casa è nettamente superiore a quella che si prova nei concerti dal vivo, dove le
condizioni acustiche sono sfavorevoli.
Allora perché il fenomeno dei concerti si impone?
Probabilmente l'importanza del concerto rock è attribuibile non tanto a fattori musicali ma a quel
tipo di relazione che si crea tra pubblico e musicisti.
E’ un rito con un significato speciale. I concerti rock hanno strutture tali da farli considerare
effettivamente dei riti di separazione e di ri-aggregazione e ri-collocazione. Separazione perché ci si
libera dell’appartenenza al sistema (scuola, famiglia, genitori, routine). Ri-collocazione perché gli
spettatori collocano sé stessi in uno spazio in un certo senso sconosciuto perché non abituale, ma al
quale comunque danno un valore importante. Ri-aggregazione perché il concerto crea un corpo
sociale nuovo e unito.
La natura rituale del concerto rock provoca una specie di sospensione dell’appartenenza. Chi già
appartiene a una qualche subcultura (hippie, mod, rocker ecc) perde i propri confini di genere, ma si
ritrova dentro una nuova e più ampia comunità. Una comunità rappresentativa anche del disagio
generazionale nei confronti degli adulti. Ciò che i ragazzi pensano, lo ascoltano ai concerti, perché i
musicisti rock sanno dar voce a queste linee di frattura.
Per un rito ci vuole un capo, un frontman: Jim Morrison dei Doors è uno dei più scatenati frontman
del rock delle origini, e descrive i suoi concerti come pratiche sociali dove lui stesso ricopre il ruolo
dello sciamano di una nuova tribù.
La figura di Jim Morriosn:
E’ sul palco di un concerto che Morrison e i Doors, danno prova della rottura generazionale
→ era il 1966, West Hollywood: nel locale dove si sarebbe dovuto tenere il concerto, manca il
frontman della band. Il gruppo si esibisce senza di lui, ma poi il proprietario del bar minaccia il
licenziamento se non fosse arrivato il cantante. Dunque Ray Manzarek e John Densmore (tastierista
e batterista) riescono a trovare Jim, stravolto da una dose massiccia di LSD, e trascinarlo sul palco.
Dopo alcune canzoni, Morrison chiede “The end”, canzone che solitamente veniva cantata come
chiusura; di solito, con questa canzone, la band creava un tappeto sonoro che permettesse al cantate
di improvvisare e interloquire con il pubblico.
In questo caso Morrison, fece l’Edipo Re (tragedia greca), portando dei versi che mai si erano sentiti
in una canzone pop → “kill, fuck, kill, fuck” (rivolto alle figure genitoriali), con una folla ipnotizzata
dalla drammaticità della scena che in seguito comincia una furiosa danza liberatoria.
La band venne licenziata, ma nonostante ciò, il brano resta di forte contrasto generazionale in cui si
nota il solco che separa i giovani dai loro genitori, o in generale da figure parentali (politici,
genitori, insegnanti, ecc).
6. Hey Joe
Il brano di Hendrix, è eseguito più volte in occasione dei grandi raduni rock. La storia sembra
appartenere ad un altro tempo e mondo. Raccontata in forma di dialogo, narra di un uomo che passa
con un fucile in mano mentre che qualcuno lo conosce gli chiede “Ma è vero che hai steso la tua
donna?” e Joe risponde “Certo, le ho sparato dopo averla sorpresa in città a spassarsela. Ora scappo
in Messico”. Analizziamo il palinsesto di “Hey Joe” a partire dalla sua storia. Il brano è scritto da un
bianco, Billy Roberts, che nel 1962 ne deposita il copyright senza inciderlo su disco.
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Da qui alla versione di Hendrix escono 8 cover. Tra queste, quella che costituisce il modello per
Hendrix è la versione di Tim Rose, a cui si ispira dopo averlo ascoltato in un locale. Il brano di Rose
è country e poco ritmato.
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BLUES: Nel brano di Hendrix viene fuori è un blues diviso in tre strofe di quattro versi,
ciascuno dei quali declinato in due emistichi. Il tono è colloquiale; usa frasi ponte per unire
una strofa all’altra, o addirittura un verso all’altro per dare maggior pathos alla narrazione.
Quindi l’artista qui si unisce a tutta quella rete di colleghi che hanno fatto di questo genere
di nicchia, il blues, un proprio modo di esibirsi e di farsi percepire: ricordiamo tra tutti,
Dylan nel suo primo disco o i Rolling Stones.
COUNTRY: “Hey Joe” non è propriamente blues. Altrimenti Joe parlerebbe in prima
persona e non in forma diretta, visto che il blues è sempre soggettiva. La narrazione esterna,
anche in forma di dialogo, appartiene all’hard country, modulo anche questo caratterizzato
dalla sensibilità per un underworld di perdenti e antierori. Il fatto che “Hey Joe” tocchi
anche questo genere è dimostrato dalle fonti a cui Roberts, il depositario del copyright, si
ispirò:
1) una canzone country intitolata “Hey Joe” del 1953 che parla in forma dialogica di due
amici che litigano per una ragazza.
2) una canzone della ragazza di Roberts, anche questa con struttura dialogica, in cui c’è una
voce narrante che si rivolge alla protagonista che se ne vuole andare per i bar della città
perché il suo uomo l’ha delusa.
3) la fonte più importante è una murder song, incisa nel 1930 da un hillbilly bianco, che
narra di un uomo che tenta di fuggire dopo aver ucciso una ragazza ma viene condannato a
una vita in carcere. Quindi, strato blues e strato country, ma ne va aggiunto un terzo.
R&B\BEAT: Ad un concerto di Monterey, Hendrix nel finale dà fuoco alla sua chitarra, la
sfascia per terra e la getta al pubblico. È un codice performativo tipico R&B; ma tipico
anche di una certa arte d’avanguardia, quella in cui gli artisti descrivono il loro pensiero e il
loro malessere con gesti estremi di ribellione e autodistruzione.
JAZZ: Hendrix lo pratica superbamente con la chitarra elettrica. Lo personalizza
prolungandone la durata, arricchendolo e dandogli maggiore rilevanza. Ma non l’ha
inventato, si è basato sugli assoli strumentali dei musicisti jazz.
“Hey Joe” che significato ha? Perché la canzone è così apprezzata? Proviamo a capirlo. La canzone
si colloca in un contesto preciso. I giovani vengono proiettati in una dimensione emozionale che fa
pensare “non facciamo più parte della rete di senso comune, ma siamo dentro una comunità
diversa”. Il processo di straniamento è molto forte, integrale.
Osseriviamo gli aspetti principali di questo processo generativo:
• il rock è una musica che nasce dall’ibridazione di stili musicali di nicchia
• il rock prende forma attraverso il recupero di tradizioni musicali che hanno già un impianto
controculturale ignorato dalle narrazioni mainstream
• le storie sono narrate spesso con atteggiamento privo di intento moralistico. Domina il senso
di empatia per gente che si trova in condizioni negativa. In questo modo brani come “hey
Joe” spingono verso un’aperta sensibilità cognitiva e delegano agli ascoltatori la decisione
etica sul senso della storia e sul destino dei personaggi
• il pubblico e i musicisti sono sudati da un’imperativo: l’innovazione, che conduce ad una
struttura molto complessa dei brani. È un lato comune alle diverse subculture (sia musicali
che giovanili), ciascuna alla ricerca di una cifra che la distingua dalle altre e dalla società.
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XI. SUONI E PAROLE ROCK
1. Nuovi suoni
Si accende un forte anticommercialismo. I musicisti rock vogliono fare qualcosa di molto diverso,
sperimentare sempre forme nuove che certifichino la loro superiorità nei confronti dei musicisti che
creano, suonano, solo dal desiderio di fare soldi.
L’impiego del riff e dell’improvvisazione chitarristica sono fondamentali.
In questo contesto, nel 1966, emerge Frank Zappa.
→ La polemica contro il consumismo e il conformismo ricorre costantemente nei suoi lavori. Ma
l’assunto fondamentale che lo guida è la polemica contro la commercializzazione della musica,
esposta per esempio in “Flower Punk” (1968). Qui Zappa interpreta il ruolo di un musicista
ipocrita, che dice con tono retorico quanto sia bello stare in una rock band e fare musica che fa stare
bene i ragazzi; per poi confessare senza ritegno che quel che gli interessa davvero sono i soldi e le
ragazze.
In molti brani la musica è strutturata per collage musicali che mettono insieme gli stili più disparati;
normalmente Zappa procede per giustapposizione o per sovrapposizione: per esempio si inizia con
un brano in stile riconoscibile e poi lo fa esplodere con l’inserimento di parti vocali o melodie
aliene rispetto all’inizio. L’effetto è di scuotere sempre l’ascoltatore, richiamando la sua attenzione.
Zappa è tra i maggiori geni musicali del ‘900; la sua musica si muove nelle più diverse direzioni:
hard rock, jazz, classica, country.
E tra le varie vesti musicali indossate, da chitarrista a direttore di orchestra, forse quella che gli si
addice di più è la veste di compositore classico. Qui si vede l’artista vero.
→ artisti appartenenti alle band come i Led Zeppelin (Jimmy Page), i Cream (Eric Clapton), Black
Sabbath (Tony Iommi) sono in grado di ampliare le strutture del blues, piuttosto costrittive, grazie
ad uno peculiare della chitarra elettrica; il riff è fondamentale, portando alla creazione di un nuovo
panorama sonoro, come per esempio in “Whole lotta love” dei Led Zeppelin.
La curiosità nei confronti di generi musicali diversi e della loro combinazione, tipica di Zappa,
appartiene anche a un sottacere rock che prende forma dal 1969 soprattuto in Europa: il “prog”
progressive rock. I gruppi (tra cui anche i Gentle Giant e i Jethro Tull) condividono con Zappa il
disprezzo per la commercializzazione dell’arte e del consumismo. La loro caratteristica sta
nell’ibridazione totale del rock in un dialogo con musica classica del 700-800, con classica
contemporanea, jazz, folk, musica etnica, hard rock. Ne risulta una musica innovativa, ricca ed
espressiva.
I brani strumentali diventano più lunghi e costringono gli ascoltatori ad un atteggiamento
concentrato. Le sequenze musicali si fanno multiformi, con improvvisi mutamenti di ritmo e con
suggestioni emotive. Non si sa mai cosa aspettarsi.
Prendiamo il caso di “The house, The street, The room” dei Gentle Giant (1971). Suonata con
strumenti insoliti (clavicembalo, violino, vibrafono, celeste, flauto dolce e altri), ha dei cambiamenti
repentini di atmosfera e sonorità. Il testo parla del senso di disagio profondo della voce narrante,
che riesce a uscirne solo attraverso un cambio a uno stato di liminalità comunitaria. In questo modo
la complessità della musica si collega alla narrazione.
2. Narrazioni rock
Nel giugno 1968, “Life” esce con i Jefferson Airplane in copertina e con un servizio sul nuovo rock
in particolare su Janis Joplin, Zappa, Doors, Who. La nuova musica viene apprezzata:
“Il rock è sovversivo non perché sembri autorizzare sesso, droga e brividi facili, ma perché
incoraggia il suo pubblico a farsi un’idea propria intorno ai tabù sociali”.
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La sensibilità che guida questi artisti è tutta blues e hard country. Essi non rendono le cose semplici,
sia dal punto di vista testuale che musicale, ma riescono ad arrivare al cuore di gran parte del
pubblico, perché mostrano empatia per tutta la gente, per tutte le storie.
“Chimes of Freedom” (1964), Dylan esprime la filosofia dell’antieroismo, essenza delle narrazioni
di questi due generi.
Strofa dopo strofa, si infittisce l’elenco dei marginali per i quali suonano le campane della libertà:
ribelle, sfortunato, abbandonato, poeta, pittore, cieco, muto, sordo, condannato. Il suo elenco è un
invito all’empatia. L’atteggiamento però non è di denuncia: è di sospensione del giudizio, è di chi
vuole con uno sguardo mostrarci qualcosa.
“Berlin” di Lou Reed (1973):
- Due americani, Jim e Caroline, sono a Berlino. Amore romantico, ma poi ciascuno si fa prendere
dalle sue fragilità. Lei vorrebbe cantare ma può farlo solo in posti malfamati. Jim non gli basta più,
e lui reagisce dandosi alla droga e con violenza ne suoi confronti. Lei è forte e piena di lividi resiste;
ma le vengono portati via i figli. Alla fine non regge e si suicida. Jim descrive la scena con
stracciamento robotico, con un minuscolo cenno di rimorso, che alla fine si trasforma in cattiveria.
La forza della storia sta nella scelta musicale che la accompagna. È semplice e delicata, gentile, crea
un contrasto forte che invita alla riflessione. L'ideale di amore romantico, imposto dalla cultura di
massa, pensiamo a Cenerentola, non appartiene alla realtà. La verità invece è che le famiglie
possono essere felici ma a volte anche tragicamente infelici. E chi è infelice merita più attenzione
degli altri.
Si potrebbe considerare questa (e anche “Hey Joe”) una canzone maschilista. Ma il modo in cui
funzionano le relazioni amorose nel blues e nel country, generi fondatori della musica rock, consiste
nel dichiarare l’adesione ad un’aggressività di genere, che verrà poi sovvertita dall’interno e
trasformata nel suo inverso. Cioè nella impotente reale debolezza.
Può essere anche una prospettiva femminile: i Jefferson Airplane in un loro brano, con voce della
loro cantante, racconta do di una lei che vuole che lui sia il suo autista, e che la porti in giro per il
mondo: ma se provasse a portare altre ragazze, lei è pronta a sparargli. Tipico brano da “guerra dei
sessi blues”.
Janis Joplin oscilla tra i due poli classici blues: l’autodenigrazione e l’aggressività affettiva.
Da un lato lei, la voce narrante, ha un terribile tormento interiore, si innamora del principe azzurro
come in una classica storia mainstream, ma non c’è il lieto fine. L’amore si trasforma in un incubo,
l’uomo non fa che ferirla e prendere pezzi del suo cuore (“Piece of my heart”), lei è sottomessa
psicologicamente e si ritrova sola, sotto la pioggia, sentendosi finita, fragile e sensibile. Ma come
un ciclo perverso è sempre pronta a riaccogliere il suo lui. Dall’altro, sebbene devastata la donna è
capace di reazioni di rivalsa. La donna si arrabbia, è spavalda e diversa. Polverizza l’immagine
normativa della brava ragazza controllata e dolce. Janis è un antistar, non bella ma attraente,
passionale, sessualmente disinibita, estrema, aggressiva ma anche tenera, vestita da hippie. Ragazzi
e ragazze la adorano, “é una di noi”, dicono. È vera.
In “Lady Godiva’s operation” e “Sister Ray”, Lou Reed aggiunge alla lista di Dylan anche i
transessuali e gli omosessuali. In due storie tragiche e vere, due storie possibili che si limita a
raccontare. Una che parla di un transessuale che si opera per cambiare sesso, ma muore sotto i ferri.
L’altra di un gruppo di travestiti che porta a casa dei marinai, e tutti insieme si fanno di eroina e di
orge.
Queste due canzoni escono un anno prima del caso “Stonewall Inn”. Questo è un locale frequentato
da gay, lesbiche e drag quei nel Greenwich Village a New York. Puntualmente la polizia fa
irruzione, arresta, e chiude il locale che poi viene riaperto pagando mazzette.
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Nel giugno 1969, dopo l’ennesima incursione e arresto da parte della polizia, ha inizio una rivolta a
cui partecipano anche persone comuni. Sulla scia dell’episodio, nasce il Fronte di liberazione gay,
un organizzazione che difende l’amore. Un amore naturale che si scontra con la società grigia e
artificiale.
La natura trasgressiva e provocatoria di queste canzoni è resa possibile dal fatto che il rock
riconosca queste esperienze, fino ad allora oscene, come considerabili. Inizialmente, ad essere in
grado di affrontare il tema dell’erotismo sono soprattutto i Doors in testi come “Light my fire”. Jim
Morrison esprime la sua passione erotica anche sul palco. Usa la chitarra o l’asta del microfono
come un’estensione sostitutiva del fallo, mimando e provocando; azioni che gli costano anche
un’incriminazione per atti osceni in luogo pubblico.
Anche la grafica degli album è usata per esprimere la nuova libertà dei corpi. Si pensi al primo
album di Lennon e Yoko Ono. La copertina all’epoca suscita scandalo perché venduta dentro una
busta di carta marrone che lascia vedere solo il volto. Anche la musica è diversa dalla classica
produzione dei Beatles.
Ciò che la coppia vuole dire è in linea con un concetto più ampio, appartenente alla comunità
hippie: un corpo nudo è parte della natura, non c’è motivo per nasconderlo. L’immagine si lega con
altri due lavori del periodo. Uno è un balletto, “Word Words” (1963) in cui due ballerini danzano
all’unisono indossando solo il perizoma, e sovvertendo i ruoli stereotipati di maschio e femmina.
L’altro è “It’s a man’s world I” (1964) e “It’s a man’s world II” (1965) di Pauline Boty.
Un collage di autorevoli figure maschili di varia epoca ed età (Proust, Lenin, Fellini, Einstein,
Kennedy, Mastroianni), e una sequenza di nudi femminili, a sottolineare la pesante asimmetria nella
rappresentazione visiva dei generi, propria della cultura contemporanea. Nel secondo album dei
Santana, “Abraxas” (1970), il tema del desiderio è giocato tra la copertina, un’opera di Mati
Klarwein, e un loro brano “Black Magic woman”.
Nel contesto di questa nuova libertà dei corpi, fin dalla fine degli anni ’60, intorno ai concerti e alle
band si addensano le groupies. Grazie la gestione della propria sessualità con anticoncezionali,
intraprendono rapporti con i musicisti dei più diversi gruppi rock. Questo fenomeno ha ricevuto
valutazioni negative. Ma può anche essere considerato come un gesto gioioso e trasgressivo di
ragazze che vanno in direzione diversa rispetto al sistema che le vorrebbe docili e angeliche.
Quindi possiamo dire che le reazioni negative dell’epoca sono animate dal senso di disagio di
uomini che si trovano di fronte a modelli di femminilità inediti e trasgressivi.
3. Rock e movimenti
Non tutti gli artisti rock hanno una posizione chiara di fronte alla questione della guerra, o in
generale di fronte alla politica.
Di fronte alle proteste giovanili contro la guerra in Vietnam; formazioni di movimenti che
accolgono il ricorso alla violenza come strumento di forza; nascita delle voci delle donne e del
movimento femminista; di fronte a questi scenari, la maggior parte dei musicisti rock o ignorano le
questioni o non si esprimono.
• Hendrix, che sembra aderire agli ideali pacifisti. Questo suo approccio fa sì che alcuni suoi
brani siano interpretati come testimonianze della sua critica alla società statunitense
dell’epoca e alla guerra. Ma poi rilascia dichiarazioni in cui sembra essere un buon patriota
statunitense. Sulla guerra in Vietnam dichiara: “Gli americani stanno combattendo in
guerra per un mondo completamente libero. Ovviamente la guerra è una cosa orribile ma al
momento è l’unico modo sicuro di mantenere la pace”.
• Mick Jagger, nel marzo ‘68 partecipa a Londra ad una manifestazione contro la guerra in
Vietnam: dal corteo deriva una giornata di duri scontri con la polizia. In un’intervista
successiva il musicista non prende le distanze dal movimento, ma nemmeno lo sostiene con
convinzione, soprattutto nelle sue declinazioni radicali. Questa posizione ambigua è
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•
rispecchiata in “Street fighting man”, brano dell’agosto dello stesso anno. Il testo ha la
forma di un dialogo con, ad un lato la voce di un militante che dice che è il momento della
rivoluzione; dall’altro lo stesso Jagger che risponde ogni volta dicendo: che posso fare io
che sono un povero ragazzo, se non cantare, visto che nella sonnolenta Londra non c’è
spazio per combattere in strada?
John Lennon; nell’agosto ’68 pubblica “Revolution” sul lato B di “Hey Jude”. Nella
canzone Lennon sembra prendere le distanze dalla radicalizzazione politica. Avvicinandosi
poi a Ono, il suo orientamento si chiarisce in direzione di un pacifismo rivoluzionario, che
dà spazio significativo anche ai temi del femminismo.
Per celebrare il loro matrimonio, nel marzo 1969, i due organizzano un’originale forma di
protesta contro la guerra in Vietnam: il bed-in, in cui ricevono la stampa a letto rilasciando
dichiarazioni pacifiste e incoraggiando all’amore universale. Nel dicembre ’69 la coppia
finanzia l’affissione in varie città del mondo di grandi cartelloni con la scritta: “La guerra è
finita! Se lo volete - Buon Natale”.
Nel 1971 esce un disco con “Imagine” su lato A e “Working class Hero” sul lato B. Infine
nel 1972 esce “Woman is the nigger of the world”. La canzone è importante perché è uno dei
primi e più diretto incontri col femminismo nella storia del rock.
Jefferson Airplane. Manifestano simpatia nei confronti dei militanti dei vari movimenti.
Nelle loro canzoni ne raccontano le intenzioni in soggettiva con un cantato in prima persona.
E le intenzioni sono quelle di chi vuole compiere una violenta rivoluzione. Ciò che tuttavia
allontana la narrazione militante dei Jefferson dalla propaganda rivoluzionaria è la
descrizione dell’esito di questa possibile rivoluzione. Ogni racconto del dopo, nelle loro
canzoni, è il racconto di un dopo-catastrofe.
4. Un-happy ending
La grande maggioranza delle narrazioni rock sovverte uno dei capisaldi etico-narrativi della cultura
mainstream, ovvero l’happy ending. Tre esempi, dei molti possibili, meritano di essere osservati.
1. “In the court of crimson king” (1969), primo album dei King Crimson. Il panorama è di una
devastazione futura: sangue, tortura, filo spinato, consumismo sfrenato.
2. “Animals” dei Pink Floyd (1977), ispirato a “La fattoria degli animali”, parla di una società
in cui si incontrano tre profili umani in sembianze animali. I cani, braccio armato del potere,
esecutori, desolati a qualche successo ma ad una vita desolata e priva di sentimenti. I maiali
(uomini d’affari, leader politici, moralisti) disgustosi e meritevoli di derisione. Le pecore,
sottomesse e destinate al macello, prive di ogni capacità di reazione. Ma invece si stanno
preparando alla ribellione per instaurare una società che forse è anche peggio della prima. È
quello che infatti succede nel penultimo brano dell’album, intitolato proprio “pecore”.
3. “The wall” (1979) narra una storia che si svolge nella testa di una rockstar, di nome Pink,
profondamente in crisi. Il suo successo non allevia il suo disagio provocato da traumi che
l’hanno portato ad alzare una sorta di muro che lo separa dal mondo. I traumi sono la morte
di suo padre nella Seconda Guerra; gli effetti dell’educazione affidata alla madre
iperprotettiva e ad un sistema scolastico conformista e rigido; la rovina del rapporto con la
moglie; l’incapacità di vivere rapporti positivi con gli altri. Questo lo porta a isolarsi dietro il
suo muro l’unica via d’uscita è trasformare il suo carisma da rockstar in una base per un
movimento neonazista.
Travolto da sé stesso immagina di mettere in scena un auto processo con un giudice che
chiama a testimoniare contro di lui, le persone che sono state causa della sua caduta
psicologica. La sentenza è che il muro deve essere distrutto, e Pink sembra poter liberarsi.
Lieto fine? No. Le ultime parole che si sentono sul vinile sono: “non è da qui che…”, parole
che compleanno la fase che si sente all’inizio del disco, ovvero: “Siamo venuti?”. Come a
dire che non c’è salvezza, che distrutto un muro mentale, ne verrà eretto un altro,
ricominciando il percorso da capo.
Il lieto fine della cultura mainstream è sparito.
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XXI. L’ALLINEAMENTO DEI PIANETI
1. Hollywood Renaissance
La “Hollywood Renaissance” nasce, più che da una questione estetica, da un tentativo di dare
risposte economicamente convincenti ad una crisi, che nel secondo dopoguerra ha colpito
l’industria cinematografica americana. La responsabilità maggiore di questo è della tv. Viene
cercato quindi un accordo con le reti tv, per la vendita o il noleggio di archivi cinematografici e la
collaborazione produttiva delle major nella produzione di programmi televisivi, ma è insufficiente.
Allora le major decidono di rivedere il loro Codice di autocensura, valido dal 1956, che consentiva
un trattamento responsabile di temi delicati come droga, sesso e altro. Il processo va avanti negli
anni, fino a che nel 1968, il codice viene sostituito con un altro sistema che permette proiezioni più
osé. In questo contesto esce “Peyton Place” di Mark Robson. Il film ha un impatto positivo: 2
milioni di spese di produzione e promozione, ma 25 milioni di guadagno.
→ La decostruzione della linda facciata di una ridente cittadina americana è impietosa. Insieme a
vicende minori, spiccano due assi narrativi: Connie McKenzie, una donna di media borghesia, si
finge vedova nascondendo alla figlia Allison di averla avuta in seguito ad una relazione illegittima
con un uomo sposato a New York. Così i rapporti con la figlia sono problematici, tanto che Allison
decide di lasciare la casa e andare a New York. Poi, in una povera famiglia disfunzionale, un
ubriaco violento stupra Selena, sua figliastra, e la mette incinta, causando il suicidio della moglie.
La ragazza deve abortire, e finisce per uccidere il padrino. La storia alla fine trova il suo equilibrio.
Selena viene assolta e può sposare Ted. Allison, tornata a casa per il processo a Selena, sua amica, si
riconcilia con la madre. La madre accetta che la figlia abbia una relazione con Norman. In questo
modo c’è compensazione finale, in cui le cose tornano a posto.
All’inizio degli anni ’60 diversi film affrontano con coraggio anche questioni di rilievo pubblico,
pur conservando il sistema di garanzia finale.
“West Side story”, → ricolloca nell’Upper West Side di New York la storia di Romeo e Giulietta.
Adesso le due fazioni in lotta sono tra gang giovanili, una di immigrati e una di bianchi americani.
Alla fine il bianco Tony ricopre il ruolo di eroe sacrificale. La sua uccisione permette a Maria di
esprimere il suo disprezzo per l’inutile guerra tra gang, che trovano la forza per ricomporsi in
un’unica unità.
- Ne “Il buio oltre la siepe” (1962), il giudice Taylor difende Tom, un giovane di colore che è stato
accusato da Bob, noto come un ubriacone e un violento, di avere violentato Mayella, la figlia
diciannovenne; il giovane Robinson si è dichiarato innocente. L’avvocato, durante il processo,
riesce a dimostrare l'infondatezza dell'accusa, ma la giuria di tutti bianchi, emette ugualmente un
verdetto. Robinson tenta di evadere durante il trasferimento in prigione, ma viene ucciso da un
secondino. Intanto Bob, il vero responsabile delle violenze alla figlia, conscio di essere stato di fatto
smascherato dall’avvocato, giura di vendicarsi e assale i suoi figli mentre stanno rientrando a casa;
interviene però provvidenzialmente Boo, un vicino disadattato ma affezionato ai bimbi, che li mette
in salvo uccidendo l'assalitore.
- “Dr. Stranamore” di Kubrick (1964), racconta la tremenda pericolosità del ricorso ad armi
atomiche durante la guerra fredda.
- “The Children’s hour” mette in scena un caso di omosessualità femminile.
Sono due film che hanno pochi incassi al botteghino; cosa che non sorprende.
Maggiore successo è ancora delle commedie romantiche, dei film spionistici come James Bond, o i
musical per famiglie come Mary Poppins.
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Ma qualcosa sta cambiando. Nel 1967 escono “Il laureato” di Mike Nichols e “Bonnie e Clyde” di
Penn. Film in controtendenza rispetto agli standard mainstream, che ottengono un successo
incredibile.
Da qui fino alla metà degli anni ’70, film insoliti o marginali, conquisteranno i vertici dei box office
e riceveranno apprezzamenti. Per citarne alcuni: “2001: Odissea nello spazio”, “Rosemary’s Baby”,
“Il pianeta delle scimmie”, “Easy Rider”, “Arancia meccanica”.
Sono film apprezzati da un pubblico giovane (70% dei telespettatori dell’epoca).
Si può immaginare che gran parte di questa sezione di pubblico appartenga a qualche subcultura
attratta dalla controcultura rock. Ma evidentemente questi film coinvolgono anche altri gruppi
generazionali, attirati dalla spinta conformistica che li induce a curiosare nella nuova moda
cinematografica.
Questi film, anche se vari, si legano tutti alla controcultura rock: hanno come protagonisti antieroi e
non hanno l’happy ending, anzi spesso la fine è tragica.
Il genere che maggiormente resiste a questo ribaltamento delle norme fondamentali è la commedia
romantica. “Il laureato” offre un finale felice. Però, i due sposati, seduti nell’ultima fila del pullman
mentre se ne vanno, mentre ridono felici, vengono seguiti dalla cinepresa che si sofferma sui loro
sguardi che diventano sempre più perplessi, tristi; in sottofondo comincia “The sound of silence”.
“Io e Annie” (1977) ha un finale brillante: l’happy ending è solo all’interno della sceneggiatura che
il protagonista sta scrivendo, mentre nella realtà i due amanti non si rimettono insieme.
Tra tutti, il film che forse colpisce più nel cuore dei temi mainstream, è “La notte dei morti viventi”
di George Romero, dove ciò che viene assediato è la home.
→ Una ragazza, suo fratello e un afroamericano, riescono a sottrarsi dall’attacco degli zombie
rifugiandosi in una casa abbandonata. Dentro si sono rifugiati una coppia una famiglia di padre,
madre e figlia ferita dal morso di uno zombie. La casa intanto viene assediata, moriranno tutti
tranne Ben, che si rifugia in cantina. Ma alla fine, ecco i salvatori. Arriva la polizia che uccide gli
zombie. Ben sente di essere al sicuro, esce ma un poliziotto lo scambia per il nemico e gli spara alla
testa. Il riferimento al linciaggio è evidente, ma nelle produzioni della Hollywood Renaissance sono
assenti riferimenti alla guerra, alle tensioni razziali che stanno scuotendo l’USA, alle rivolte
studentesche.
2. Broadway e dintorni
Alcuni dei temi che Hollywood non affronta volentieri sono messi in scena a Broadway in musical.
Tra le compagnie, c’è il Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck. È caratterizzato dalla
fusione tra elaborazione artistica e vita quotidiana, che trova la sua massima espressione in “The
Connection” (1959) → storia di un gruppo di drogati, dove recitano persone davvero
tossicodipendenti.
Inoltre il loro teatro è un “teatro della crudeltà”: una rappresentazione teatrale deve aggredire
emotivamente lo spettatore con scene intensamente violente, succede in
“The bring” (1963) → descrive la giornata dopo di un marine recluso in una prigione militare.
Il lavoro di questa compagnia resta comunque ai margini.
Chi invece riesce ad imporsi al pubblico di massa è “Hair”. Debutta a New York nell’ottobre 1967,
ma visto il grande successo, viene accolto in uno dei teatri maggiori di Broadway: il Baltimore
Theatre. → La storia narra di Claude, un ragazzo di classe media che abbandona la casa per unirsi a
una comunità hippie del Greenwich Village, dove conosce altri ragazzi con cui si creano rapporti
affettivi anche sentimentalmente complessi. Questi sperimentano insieme la libertà sessuale, l’uso
di droghe, marcando la distanza che li separa dalla società normale. Alla fine Claude decide però di
partire per il Vietnam, dove rimane ucciso. Nel finale i suoi amici e le sue amiche celebrano la sua
morte in uno dei brani di maggiore successo: “Let the sunshine in”. Un grande impatto emotivo
intorno al corpo senza vita di Claude.
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“Hair” ha delle caratteristiche che lo rendono fondamentale nella storia della cultura di massa: è il
primo musical dedicato alla descrizione di una comunità hippie, ad affrontare in modo diretto il
dramma della guerra in Vietnam, ad usare intensamente le forme musicali rock. È per questo che il
musical attira molti spettatori giovani, cosa piuttosto insolita per la tradizione di Broadway.
Inoltre ha successo anche in Europa, Sudamerica, Australia, Giappone, e la colonna sonora esce in
disco. Non mancano le polemiche, provocate da ciò che succede alla fine del primo atto, quando i
membri della comunità hippie si spogliano, nel corso di una manifestazione, rimanendo
completamente nudi.
La questione della sessualità è stata affrontata in diverse occasioni: da Andy Warhol a Barbara Rubi
a Carolee Schneemannn.
→ In questi lavori la sessualità è ben diversificata dalla pornografia: sono produzioni assolutamente
artistiche che vogliono rendere l’esibizione della nudità e dell’erotismo come qualcosa di sereno e
naturale. Ma il musical offre un esempio piuttosto clamoroso: “Oh Calcutta” di Kenneth Tynan (il
cui titolo è la deformazione del titolo di un dipinto che rappresenta un sensuale deretano di una
donna sdraiata) offre scene in cui attori e attrici bianchi si trovano in viarie situazioni erotiche. Il
lavoro riceve enorme apprezzamento e viene replicato anche 5000 volte.
L’esempio apre la strada ad altre produzioni sul tema. “The Rocky horror show” (1973) di Sharman,
con trama fantascientifica illustra la legittimità dell’erotismo plurimo, eterosessuale, amo e
bisessuale. Anche questo ha così tanto successo da essere riprodotto in un film della Fox, e diventa
un fenomeno di culto con fedelissimi fan.
“Let my people come: a sexual musical” descrive il sesso in tutte le sue dimensioni come cosa
positiva, e i titoli di alcune canzoni dello spettacolo possono dare un’idea del contenuto di varie
scene (i’m gay; come in my mounth; give it to me). Come si intuisce, quindi, si parla di relazioni
omosessuali.
Nel campo del cinema, il primo film con scene esplicite che circola nelle sale USA è “Blue
Monday” di Warhol, che seguendo l’estetica della quotidianità che l’artista da tempo sostiene,
descrive una coppia che all’interno della propria casa compie gesti quotidiani: parla di politica,
discute e fa anche l’amore.
“Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci (1972), di impatto commerciale maggiore, narra di un’intensa
relazione sessuale tra un americano e una ragazza parigina, con finale tragico.
3. Pop art
E’ una proposta artistica che riesce ad imporsi nel pubblico di massa.
Nasce in Inghilterra e arriva in USA come una relazione all’espressionismo astratto di Pollock. Una
forma d’arte nelle cui opere si può estrapolare la non accettazione degli orrori del mondo
contemporaneo, e per questo si fugge da ogni rappresentazione realistica, rifugiandosi in un mondo
visivo rarefatto ed ermetico.
La pop art nasce quindi come reazione a questo, ma anche come un’attrazione\repulsione nei
confronti della cultura di massa, dei sui oggetti, divi, forme espressive, che diventano altrettanti
temi cruciali dello stile. Peter Blake, capofila del pop britannico, è un appassionato cultore di jazz e
r’n’r, e fan di Elvis, tanto che nel ’61 si ritrae in un “Self-portrait” vestito di jeans, col giacchetto
pieno di spille e con in mano una rivista dedicata al suo mito Elvis. Il messaggio è chiaro: è un arte
che dialoga con la cultura di massa.
Altri, come Andy Warhol e Roy Lichtenstein, lavorano usando fumetti e oggetti quotidiani come
oggetto artistico principale. Ad esempio lattine della zuppa Campbell o le scatole del sapone brillo.
Questo per dire che la pop art è una popular art, che non ha paura di prendere come punto di
riferimento fondamentale la quotidianità delle masse e dei loro consumi.
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Le critiche non mancano, ma intanto, alcuni artisti-cartine del movimento, sono autori delle
copertine di alcuni degli album più influenti nella storia del rock.
• Peter Blake e Jann Havort realizzano la copertina di un disco dei Beatles;
• Warhol lavora per i Rolling Stone e per i Velvet Underground. Il rapporto di Warhol con i
Velvet era già consolidato: è grazie a lui che il gruppo viene lanciato. Nel 1965, l’artista li
ascolta in un bar e li invita a diventare la band del gruppo di artisti che si radunano nel suo
studio. Warhol impone però ai Velvet di accogliere Nico (Maureen Tucker) come vocalist.
Warhol realizza un film su di loro, organizza anche uno strano spettacolo sadomaso con
sottofondo dei Velvet e nel 1967 disegna la copertina del loro album. Nello stesso anno però,
i rapporti di Warhol e Nico da un lato, e i Velvet dall’altro, si dividono.
Il debito dichiarato che i lavori pop hanno nei confronti del consumismo e della cultura di massa,
esprime un atteggiamento di accettazione o di distacco critico?
Spesso le opere degli artisti pop sottopongono le icone della contemporaneità ad una operazione di
stracciamento che sradica fumetti, lattine, scatole di detersivo, star, dallo scenario abituale e li
ricolloca in uno spazio assoluto, privo di contesto. Questa operazione è ambivalente, perché affida
allo spettatore il compito di decidere se quegli oggetti meritino rispetto o disprezzo. In effetti si
considerare l’opera pop sia come una manifestazione di stendenti anti-sistema, che come una
produzione conformista. Se ci sono opere ambivalenti, ce ne sono poi altre che tolgono i dubbi: la
serie “Death and Disaster” (1962-1965) di Warhol è una di queste. Ci viene mostrata l’America non
tanto come celebrata terra promessa, ma come un inferno.
La morte qui non conosce volte, mimetizza le sue vittima, è una morte astratta con tutti i volti
possibili: da Marilyn a qualsiasi americano. Si susseguono incidenti automobilistici, sedie elettriche,
scontri, cibi avariati, incendi.
“Love” di Marisol Escobar (1962) è una metafora della ferocia del desiderio maschile e dell’impari
battaglia tra i sessi. È una versione più incisiva dell’idea espressa l’anno seguente dalla Strider.
Love rappresenta una violazione del nostro spazio personale da parte del capitalismo, ma il
sottotetto inerente la sessualità è ciò che conferisce alla scultura un senso femminista.
“Green Triptych” (1963) di Marjorie Strider, illustra una giovane bellezza americana ritratta in tre
pose diverse, con seni e deretano che materialmente escono fuori dal quadro, a rimarcare
polemicamente ciò che può interessare davvero ad uno sguardo maschile (“stavo prendendo in giro
riviste per uomini”).
In “Love e violence” Rosalyn Drexler esprime il tema della violenza fisica contro le donne. La
caratteristica di queste opere è la loro capacità di dialogare con la cultura artistica ma anche con la
cultura di massa.
Qual è il rapporto di questa produzione con l’universo della controcultura rock? Da un lato va
rimarcata una convergenza nell’atteggiamento: porre agli spettatori materiali per niente scioccanti
(una scatola di Brillo); molto scioccanti (un aggressione sessuale), lasciando a chi guarda il peso di
decidere cosa ci sia da dire in merito, è la soluzione che accomuna la pop art e il rock.
Per fare un esempio: “Death and Disaster” costituisce la migliore interpretazione visiva della
grafica costellazione di murder, prison e disaster songs della tradizione blues e hard country.
Non tutta la grafica che accompagna il rock è pop art. Ci sono lavori più eclettici caratterizzati da
un uso particolare della linea curva, monocroma o policroma che avvolge personaggi femminili; ci
sono lavori segnati da una vena surreale - fantasy – onirica (es Led Zeppelin) sopratutto nel contesto
britannico.
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4. Radio, news e intrattenimento tv
Il successo della TV come medium per le famiglie dagli anni ’50, ha cambiato la natura della
programmazione radiofonica, sempre più orientata verso programmi musicali.
Nel Regno Unito la produzione radiofonica della BBC, l’unica emittente autorizzata a trasmettere
programmi, è comunque messa in questione da radio particolari come American Forces Network o
Radio Luxembourg, che fin dagli anni ’50 fanno circolare anche in zona britannica musiche
americane di maggior successo, dal R&B e r’n’r. Più tardi, radio-pirata come Radio Caroline e
Radio London, trasmettono musica pop e rock, inducendo la stessa BBC a cambiare i suoi
programmi inserendo anche altro.
Anche la TV, sia in UK che in USA, ospita programmi di musica per giovani, che alternano successi
pop a produzioni rock, all’interno di palinsesti dominati da forma tipicamente mainstream (soap
opera, sitcom, telefilm, film delle major). I servizi di informazione hanno orientamento
filogovernarivo e molto conservatore.
Però, sulle emittenti della CBS, nel 1953 viene trasmesso il programma “See it Now” condotto da
Ed Murrow. Presenta servizi rigorosamente documentati che hanno un ruolo determinante nello
screditare il senatore McCarthy, protagonista assoluto della crociata anticomunista. La sua
immagine viene pesantemente danneggiata, e dopo un’indagine di una commissione senatoriale,
McCarthy è costretto a uscire di scena. Muore alcolizzato a 49 anni. Nel 1958, la direzione della
CBS e lo sponsor del programma di Murrow, non apprezzando lo spregiudicato stile giornalistico
della sua trasmissione, decidono di chiudere “See it Now”. Murrow decide di lasciare la rete, e
accetta la proposta di Kennedy di diventare direttore della U.S Information Agency.
In questo stesso periodo sia ABC che NBC trasmettono su canali, notiziari, programmi di
approfondimento, il tema della segregazione razziale (servizi sulla marcia di Washington e sulle
violenze della polizia contro i pacifisti afroamericani a Selma e altrove).
Per il Movimento questo è molto importante, perché per la prima volta gli USA settentrionali e
occidentali si rendono conto della vera natura della segregazione razziale del Sud.
È importante anche il ruolo che i media svolgono sul tema della guerra in Vietnam. Il governo non
impone nessuna censura, sia perché non c’è una formale dichiarazione di guerra, sia perché non ci
sono gli estremi giuridici per attivare censura, sia perché essa sarebbe contro gli obiettivi della
guerra stessa (la difesa della libertà e della democrazia). Quindi, immagini con crudezze della
guerra passano facilmente nei servizi tv. Per questo c’è il pensiero che la guerra possa essere persa a
causa dell’opinione pubblica contro il conflitto. Tra tutti i casi, importante è la documentazione
della strage di My Lai del marzo 1968, dove i soldati americani uccidono 347 civili, vecchi, donne,
bambini e neonati.
Seymour Hersh, raccoglie le informazioni sul caso e l’anno successivo rende pubblica la vicenda.
Per questo lavoro vincerà il premio Pulitzer.
Va osservato inoltre che in questi anni, la programmazione TV per l’intrattenimento si apre alle
nuove sensibilità. Fin dagli anni Cinquanta vengono inclusi programmi destinati a un pubblico di
giovani, con programmazione di musica pop ma anche R&B e rock. Però il pubblico televisivo è
piuttosto anziano.
Se ne rende conto Bob Wood, responsabile dei programmi di intrattenimento CBS. La strategia che
mette in atto è quella di dividere virtualmente la massa del pubblico in gruppi di età, associando
ogni gruppo di età alla fascia oraria in cui è più provabile che sieda davanti alla tv. L’operazione
vuole identificare il punto più adatto del palinsesto nel quale piazzare trasmissioni più innovative.
Wood e il presidente della CBS, decidono di collaborare con società di produzioni indipendenti per
elaborare nuove proposte per rinnovare la programmazione.
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Ne escono: “The Mary Tyler Moore Show” (1970-1977), “All the family” (1971) e “M*A*S*H”
(1972). Sono programmi che accolgono in una forma comica, frammenti dei sistemi narrativi della
costellazione contruculturale: compaiono afroamericani, si addotta il tema della donna, dell’aborto,
della sessualità, si allude alla guerra.
Inoltre, ci sono anche film che affrontano questioni più complesse: “Roots” del 1977 e “Olocausto”
del 1978 affrontano il tema del razzismo violento, contro i neri e contro gli ebrei, come non era mai
stato fanno prima in televisione.
5. Un sistema alternativo
Queste produzioni disegnano un entertainment culture alternativa che coinvolge persone anche più
adulte. Similmente a ciò che accade per la cultura di massa mainstream, anche questa cultura
alternativa sviluppa una rete di relazioni intermediari.
In primo luogo gran parte dei film più significativi della Hollywood Renaissance derivano da un
romanzo o da un copione teatrale (“Il laureato”, “Arancia meccanica”,“Il pianeta delle scimmie”,
“Rosemary’s Baby” e altri).
In secondo luogo: si passa per esempio da un album pubblicato originariamente come LP (33 giri)
in vinile alla trasposizione cinematografica o teatrale della storia che vi è narrata, o viceversa. È ciò
che accade con “Jesus Christ Superstar”. Pubblicato in LP, poi creato il musical, poi realizzato il
film. Anche “The wall” si trasforma in film “Pink Floyd - The wall”.
In linea con quanto detto, bisogna ricordare che la controcultura rock incoraggia le comunità
interpretative ad ampliare il loro orizzonte in direzione di produzioni letterarie o musicali più
complesse e articolate. La visione drammatica delle storie, la predilezione per le figure degli
antieroi, il viaggio come fuga disperata, l’esplorazione del corpo e della sessualità, aprono un
dialogo possibile con opere più complesse e creano una connessione tra le varie tipologie di arte.
Le opere della controcultura di massa non pensano per il pubblico; non hanno rigide coordinate
ideologiche né stabili affiliazioni partitiche; non hanno ricette facili da offrire; al contrario invitano
il pubblico a riflettere con la propria testa. Un gesto che sembra lontanissimo dall’invito di entrare
in Wonderland, il paese incantato della rassicurazione, edificato dalla cultura di massa mainstream
fin dagli anni ’30.
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Conclusioni – Back to the future
Della controcultura di fine anni Sessanta si possono avere opinioni diverse: c’è chi l’ha considerata
come la causa della decadenza morale e culturale dell’Occidente; chi l’ha considerata come la
premessa del cieco individualismo ormai imposto; chi l’ha vista positivamente come un raro
esempio di cultura di massa intelligente. Ciò che però interessa adesso è il “tempo” di questa
controcultura.
Nata negli anni Sessanta, negli anni Settanta-Ottanta si disintegra. Invece la cultura di massa
mainstream permane. Perché due destini così diversi? La cosa ha di sicuro a che fare con la
radicalizzazione di movimenti alternativi, che negli USA e in Europa tra la fine degli anni Sessanta
e l’inizio dei Settanta, scelgono di ricorrere alla violenza come strumento contro il sistema.
Violenza a cui la polizia risponde con violenza. A metà degli anni ’70, di movimenti radicali negli
USA non resta praticamente più niente. Lo stesso vale per le comunità hippie che, sia in Europa che
in USA, sono sconfitte dalle tensioni organizzative interne e dall’impraticabilità economica e
sociale della vita scelta.
Ha un impatto molto forte la crisi economica che si abbatte sull’Occidente con la decisione presa
nel 1973 dai paesi dell’OPEC di alzare il prezzo del petrolio.
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Il trauma è forte soprattutto per i giovani (o ex giovani) vissuti nel mondo dell’abbondanza, che si
trovano dall’oggi al domani a dover fare i conti con un mondo sfavorevole. In un ambiente così,
molti iniziano a non aver più desiderio di immergersi in narrazioni tragiche, in storie di antieroi, in
vicende senza happy ending. C’è bisogno di positività e le produzioni mainstraim la offrono.
Inoltre bisogna considerare che nel panorama della controcultura di massa, una parte enorme di
pubblico USA ed europeo aveva continuato comunque a preferire produzioni mainstream.
È così che nel 1966 “The ballad of the green berets” una canzone patriottica cantata da un militare
americano, si pazza al primo posto delle classiche americane e ad un buon posto in quelle europee.
Nel 1968 la WB lancia “Berretti verdi”, un’epica patriottica ambientata in Vietnam, e anche questo
film ottiene un risutlato positivo.
Si capisce allora come mai, dalla metà degli anni Settanta, si chiude la stagione della Hollywood
Renaissance. All’epoca si sceglie di puntare di nuovo sull’intrattenimento puro, anche perché i film
con struttura classica sembrano attrarre maggiormente il pubblico; complice il desiderio di trovare
un sollievo alla dolorosa crisi economica. Tornano film d’azione, fantasy, commedie romantiche,
cartoni animati con lieto fine, messaggi rassicuranti, eroi muscolosi che salvano la comunità, amori
felici.
Film fantascientifici da ricordare sono:
• “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (Spielberg, 1977);
• “Superaman” (Donner, 1978);
• “ET” (Spielberg, 1982);
• “Star Wars Saga” (George Lucas, 1977);
• “Ritorno al futuro” (Robert Zemeckis, 1985 – 1990).
Tra i film d’azione spiccano quelli che hanno come protagonisti Schwarzenegger e Stallone.
Tra le commedie:
• “La febbre del sabato sera” (Badham, 1977);
• “Ghostbusters” (Ivan Reitman, 1984);
• “Dirty Dancing” (Emile Ardolino, 1987);
Tra i film degli anni ‘90 in poi:
• “Jurassik Park” (Steven Spielberg, 1993 – 2015);
• “Harry Potter” (vari registi, 2001 – 2015);
• “Il Signore degli Anelli” (Peter Jackson, 2001 – 2003);
• “Pirati dei Caraibi” (vari registi, 2001 – 2003).
Molti di questi film sono costosissimi, ma le case di produzione accettano di rischiare perché si
trova a centro di un processo di ristrutturazione proprietaria, che prende forma dagli anni ’80,
quando le politica neoliberista punta versi il gigantismo (le dimensioni delle corporations diventano
spropositate.)
Queste formazioni possiedono simultaneamente case di produzione cinematografica, emittenti tv,
giornali, radio. La maggior parte delle più potenti megacorps ha sede in USA.
Tra di esse c’è:
• Comcast Corporation, che possiede anche NBC Universal (azienda nata dalla fusione tra il
network tv NBC e la casa cinematografica Universal);
• la Microsoft creata da Bill Gates, azienda dominante nel campo dei software;
• la Time Warner possedente testate giornalistiche e televisive (tra cui la CNN) e la Warner;
• la Walt Disney Corp;
• la Sony…
- Le megacorps rilanciano modalità di intrattenimento che ripropongono in blocco le strutture
narrative della cultura di massa degli anni Trenta. Sia al cinema che alla tv, le storie tornano
standardizzate e agli spettatori di chiede solo che si divertano, cioè alla lettera, che si voltino e
smettano di guardare i problemi che li circondano.
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- Dentro le megacorps, anche i sistemi informativi di stampa e tv cambiano. I media modellano le
notizie sulla base degli interessi economici e politici dei gruppi di direzione. Le informazioni
devono essere a flusso continuo; per questo i giornalisti si concentrano sopratutto nei pressi dei
luoghi di potere (Washington, Casa Bianca, Pentagono). Localmente invece le notizie vengono
dall’amministrazione cittadine o dalle stazioni di polizia, così le fonti appaiono credibili e
legittimate. In questo modo, poggiando su queste fonti di informazione, molti giornali o servizi tv,
tendono a replicare gli orientamenti dominanti nei centri di potere, invece di sorvegliarli e criticarli.
- Le megacorps dipendono dalla pubblicità. Gli inserzionisti non vogliono che i prodotti
pubblicizzati siano associati a programmi tv che suscitino critica nei confronti del mercato e del
consumo; né vogliano che siano associati a programmi di intrattenimento che risultino problematici
o troppo innovativi per i gusti degli spettatori. Così preferiscono piazzare la pubblicità a ridosso di
innocui programmi di intrattenimento (quiz, eventi sportivi, commedie romantiche) condizionando
in tal modo la programmazione dei palinsesti.
- Le megacorps restaurano le storie cinematografiche e televisive. Vengono incorporate figure che,
in origine, erano escluse come inaccettabili: protagonismo eroico femminile (“Hunger Games”
2012 - 2015) omosessuali, afroamericani o altre minoranze; presenze femminili che si fanno più
complesse. Al tempo stesso anche i supereroi, da sempre presenti, vengono modificati: sono spesso
orfani, sofferenti, con un’infanzia difficile, disadattati.
Così le storie diventano meno banali, visto che poi la struttura narrativa non cambia e rimane la
stessa di sempre.
Con tutto ciò, le stesse major si preoccupano di non desertificare l’intero campo delle narrazioni
alternative. In questo caso il sistema è quello dell’appalto a sezioni specializzate delle majors,
oppure a case di produzione indipendenti, con risultati cinematografici più marginali
(“Melancholia” - Lars Von Trier, 2011 → indipendente; film di Nolan).
In questo processo di concentrazione sono incluse anche le case discografiche, che a partire dagli
anni Settanta puntano investimenti in direzione della musica pop. Enorme rilevanza ha anche la
nascita di MTV (1981).
Nello spazio della pop music vengono rinnovate le figure, come succede per i protagonisti del
cinema e della tv: figure sessualmente ambigue e figure femminili potenti (che però puntano anche
molto sul proprio corpo come oggetto di desiderio, ma può valere anche per il sesso opposto: “Take
that” e “One Direction”).
L’esperienza di Madonna costituisce una rilettura in controtendenza dei profili di femminilità
dominanti. Dal suo primo album “Like a virgin” (1984) gli elementi di novità stanno nella copertina
ipersessualizzata, nel testo della canzone, nel gioco di rimandi e nello stesso nome della cantante.
Ma la differenza con le altre è che l’attrattiva di Madonna si basa sul fatto di presentarsi non tanto
come un oggetto del desiderio, ma come un soggetto femminile desiderante.
Insieme a queste novità c’è la crisi profonda della musica rock.
• Alla lunga i costi di produzioni di dischi con musiche ricche e varie, e di concerti con
scenografie imponenti, portano i produttori a incoraggiare altri generi di canzoni brevi e
semplici, tipo la pop music.
• La stretta relazione tra stili musicali distinti viene meno. Il sistema dei generi, principio
d’ordine tipico della cultura di massa mainstream, si impone anche nel campo del rock. I
musicisti, dischi, programmi radio, cominciano a distinguersi a seconda del sottogenere
(hard rock, country rock, prog rock) e poi più avanti anche in altre etichette (heavy metal,
punk, indie ecc). Non sono etichette che servono solo ad orientarsi meglio. Perché chi è fan
heavy metal difficilmente ascolta musica indie. È una divisione materiale.
• Inoltre, nei primi anni ’70, quando i movimenti giovanili più politicizzati si radicalizzano, la
natura non politica della musica rock non viene apprezzata. Le persone si aspettano che gli
astisti controculturali diventino dei portabandiera: e il fatto che non sia così da parte di
gruppi come i Doors, Zappa, Santana, crea separazione, quasi come fosse un tradimento
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I nuovi gruppi rock (Nirvana, U2, Radiohead, REM ecc) e le classifiche di vendita che ne
celebrano i trionfi anche commerciali, non vanno letti come manifestazione di un pubblico
globale, ma di singole e specifiche comunità interpretative, molto nettamente connotate da
un punto di vista generazionale. Gli stessi concerti cambiano di significato, visto che da
rituali di aggregazione a una comunità alternativa, com’erano i raduni di fine anni ’60, si
trasformano in semplici e temporanee esperienze.
Così le produzioni rock cambiano natura, non sono più parte di un complessivo panorama
controculturale ma tornano ad essere delle manifestazioni culturalmente circoscritte. Le espressioni
di disagio si fanno individuali, chiuse in famiglia o tra amici(reparti psichiatrici, centri di
disintossicazione); una parte sempre più ampia di giovani si avvicina ai modelli mainstream
attraverso manifestazione di dissenso nei confronti delle istituzioni.
•
Al tempo stesso, si formano nuove scene giovanili → apericena, rave, così come era accaduto nelle
controculture a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 del 1900.
Ma nonostante l’assenza di una controcultura integrata, “materiali resistenti” alle logiche
mainstream, continuano ad esistere, in ambito musicale e cinmetografico.
Ambito musicale → My bloody valentine, The knife, ecc.
Ambito cinematografico → Nelle serie tv odierne (“I Soprano”, “Game of Thrones” (HBO),
“House of Cards”) troviamo personaggi complessi, figure ambigue che non sono né totalmente
buone né totalmente cattive, il finale incerto, dilemmi morali, assenza di stereotipi.
Inoltre internet offre opportunità potenziali per sottrarsi alla presa delle narrazioni egemoni. E siti
musicali permettono di tenersi aggiornati sulle sperimentazioni musicali.
E non solo: secondo alcuni la rapidissima evoluzione tecnologica sta ponendo le basi per una nuova
società tecnologica che consente a chi naviga in internet (social), di collocarsi al centro di una rete
interattiva e partecipe, aperta alle spinte dal basso che provengono dagli utenti.
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