ACCUMULARE RICCHEZZA Come forgiare il proprio futuro finanziario con buon senso 1 CHI SONO E COSA FACCIO Mi chiamo Alessandro Lazzaro e sono un imprenditore digitale e un investitore privato. Prima di lanciare le mie attività online, ho lavorato per PwC in Lussemburgo, dove seguivo grandi fondi di investimento come J.P. Morgan e State Street. Prima ancora, ho collaborato con l’università di Maastricht in Olanda, e ho lavorato in Thailandia e Italia, sempre in ambito economico-finanziario. Ho studiato economia all’università Bocconi e ho conseguito un master in fiscalità internazionale in Olanda, all’università di Maastricht. Sono appassionato di investimenti finanziari da sempre. Comincio questo libro con la storia di come mi sono approcciato agli investimenti diversi anni fa e come questo ha influenzato il mio modo di vedere il mondo della finanza. Oggi, oltre a seguire la mia startup online, gestisco il patrimonio di diversi investitori privati che si sono affidati a me per il loro futuro finanziario o per gestire un’eredità. Come vedrai nel corso del libro, il mio metodo d’investimento non si basa su formule matematiche da dottorato in ingegneria, ma è fondato su un’analisi pragmatica dell’economia e sulla logica. Nel mio metodo d’investimento cerco di limitare al minimo le opinioni personali, e di basarmi invece su logica e buon senso. Per domande, dubbi, approfondimenti, se vuoi avere più informazioni su quello che faccio puoi contattarmi a questo indirizzo e-mail: al@alessandrolazzaro.it Seguimi sul mio canale YouTube, dove pubblico due video a settimana su come funzionano l’economia e i mercati finanziari, e come puoi cominciare a investire senza commettere gli errori che tutti fanno. https://www.youtube.com/channel/UC1mNS9T6QaTyb5XW-zawD-Q Buona lettura! 2 © Copyright 2021 – Alessandro Lazzaro www.alessandrolazzaro.it 3 PERCHÉ HO SCRITTO QUESTO LIBRO Sono nato in una famiglia benestante. A 19 anni, quando mi trasferii a Milano per gli studi universitari, i miei genitori mi diedero, oltre alle spese, una rendita mensile di 500 euro. Stufo di dilapidare denaro in aperitivi e quant’altro, cominciai a investire, o almeno così credevo. Aprii un conto in Fineco e cominciai a comprare e vendere azioni, cercando di ricavarne un profitto. Compravo Generali a 100 e la rivendevo a 110, intascandomi 10 euro di differenza. Simpatico, ma non un granché. Allora risparmiavo qualcosina in modo da poter investire 1.000 e rivendere per 1.100. Potevo sbandierare il bigliettone verde in faccia ai miei amici agli aperitivi: già meglio! Il massimo però lo scoprii in seguito, quando venni a sapere che si potevano comprare azioni anche con soldi non propri. Mettevo 1.000 euro, la banca me ne allungava 9.000, e io compravo il titolo per 10.000 euro. Dove stava il bello? Se l’azione saliva in un settimana del 5%, io rivendevo a 10.500; una volta pagata la banca, facciamo per 50 euro, mi tenevo per me 450. Avevo messo solo 1.000 euro, il titolo era salito solo del 5%, ma io mi ero intascato 450 euro: un ritorno del 45% in una settimana! Non c’era dubbio, ero un mago della finanza: guardavo film su Wall Street e salutavo i miei amici con «Ferro azzurro ama Anacot Acciaio».1 Finché non mi resi conto che di magico c’era ben poco. Anno 2010, il petrolio va forte. Punto i miei 1.000 euro su ENI, con i soldi della banca compro titoli per 10.000 euro. Il giorno dopo mi alzo, faccio colazione e guardo le notizie: alla BP è scoppiato un pozzo nel Golfo del Messico. Disastro ambientale, petrolifere a picco. Mentre il caffè mi va di traverso, apro il mio conto Fineco: la posizione in ENI … non c’è. Neppure i miei 1.000 euro. Sparito tutto. Che cos’era successo? La magia finanziaria altro non era altro che leva finanziaria, ossia investimenti a debito. I meravigliosi ritorni che si ottengono quando un titolo sale si trasformano in perdite rovinose quando il titolo scende. ENI aveva perso più del 10%, per cui il mio capitale era stato prosciugato; se la discesa del titolo fosse continuata, a rischio sarebbe 1 Messaggio in codice nell’esecuzione di un trade da parte di Gordon Gekko, personaggio del film Wall Street di Oliver Stone, 1987. 4 stato il capitale della banca. Per proteggersi, la banca aveva venduto preventivamente tutto il pacchetto, e portato a casa i suoi 9.000 euro. A me, quindi, non era rimasto niente.2 Naturalmente non stavo investendo; stavo facendo trading, vale a dire speculando. E lo stavo facendo nel modo più rischioso possibile, cioè con soldi altrui. Qualsiasi perdita su carta si trasformava necessariamente in una perdita reale. A ENI non era scoppiato nessun pozzo. Il mercato si era fatto prendere dal panico e nel dubbio aveva venduto tutto. ENI toccò i massimi quattro anni dopo e continua tutt’oggi a pagare un generoso dividendo. La mia speculazione era un caso estremo, ma ci sono molti altri modi per incappare in cattivi investimenti. Mio padre si fece prendere dall’euforia di fine anni ’90; da buon informatico comprò un mucchio di azioni di aziende tecnologiche. Scottato da perdite rovinose, non toccò mai più le azioni, e perse il boom degli anni successivi. Mia madre si affidò a una gestione patrimoniale. Quando si trattò si smobilizzare il denaro per l’acquisto di un immobile, la gestione era in perdita. Seccata, vendette lo stesso. L’ho spesso redarguita per quella scelta, ma quando guardai le carte e vidi alcuni investimenti dubbi, tra cui Lehman Brothers (brrr) non potei che darle ragione. Nei dieci anni che seguirono, completai gli studi e feci una serie di esperienze. Quando mi fu dato l’incarico di sistemare il patrimonio familiare, applicai i principi che avevo imparato nel tempo. I veri principi di investimento, che rendono un portafoglio solido, non soggetto alle paranoie di mercato, alle crisi finanziarie, e alle mode speculative. Questa metodologia di investimento non è riservata ai benestanti. Tutti la possono applicare. Invece di buttare soldi ed energie in speculazioni, l’avrei potuta applicare anch’io dieci anni fa (ahimè). Se avrai la pazienza di leggere questo scritto avrai una visione completamente diversa del mondo della finanza e degli investimenti, ti sentirai più sicuro di forgiare un portafoglio solido che ti consentirà di ottenere davvero i ritorni che la finanza promette ma quasi mai consegna davvero. Nel farlo, ti parlerò anche di fabbri e di spade. Tutto avrà senso fra qualche pagina. Alessandro Lazzaro 2 Ben peggio può succedere se la banca non è in grado di vendere prima che le perdite abbiano impattato il proprio capitale. In quel caso, la banca emette una chiamata a margine verso l’investitore, che è tenuto a ricoprire le perdite in eccesso. In inglese, Margin Call, titolo dell’omonimo film del 2011. 5 CAPITOLO 1: IL PUNTO DI PARTENZA: PERCHE’ INVESTIAMO? Hai dei soldi. Perché li investi? È una domanda banale, e la risposta sembra essere una e una sola: ma per avere più soldi! E se poi ti chiedessi: quanti soldi in più pensi di ottenere dai tuoi investimenti? Ancora una volta, domanda scontata: ma quanti più possibile! Ti racconto una storia. Quando facevo arti marziali, un giorno il maestro ci mise tutti in fila e ci chiese: che obiettivo volete raggiungere? L’allievo vicino a me disse con tono sicuro: cintura nera. Io, invece, con aria ingenua, risposi: il massimo dove posso arrivare. Risultato: tempo un anno io ero fuori; l’allievo di fianco a me prese la cintura nera diversi anni dopo. Perché ti dico questo? Perché il segreto di investire con successo, come presto scoprirai, non è altro che buon senso e disciplina. Tuttavia, per restare disciplinati per un tempo piuttosto lungo, è necessario: a) Sapere bene perché si sta facendo una certa cosa; b) Darsi degli obiettivi chiari e realistici. Come penso tu stia cominciando a immaginare, le risposte giuste alle domande di inizio capitolo non sono quelle scontate. Supponiamo che Giovanni, un mio amico d’infanzia, entri in possesso di una somma di denaro. Poco importa se è un’eredità, uno stipendio, la vendita di un immobile, ecc. Giovanni ha tre possibilità: 1) Spendere tutti i soldi: forte del suo nuovo stipendio, Giovanni decide di fare la bella vita e spende fino all’ultimo centesimo. 2) Spendere tutti i soldi e prenderne a prestito altri: Giovanni aveva sempre sognato di comprarsi una moto; anche se i soldi non bastano, ne prende a prestito altri e se la compra. 3) Non spendere e investire: Giovanni tira la cinghia e mette via tutto il malloppo. Da un punto di vista economico-finanziario, le scelte di Giovanni hanno tre conseguenze estremamente diverse: 6 1) Spendere tutti i soldi: Giovanni sta massimizzando il proprio consumo attuale, senza andare a detrimento del suo consumo futuro. La scelta di Giovanni produce una certezza: il denaro si trasforma in beni di consumo. 2) Spendere tutti i soldi e prenderne a prestito altri: Giovanni sta massimizzando il proprio consumo attuale, e minimizzando il proprio consumo futuro. La scelta di Giovanni produce ancora una certezza: il ripagamento del debito comporterà minor consumo in futuro. 3) Non spendere e investire: Giovanni sta minimizzando il proprio consumo attuale, e massimizzando il proprio consumo futuro. Ma attenzione, perché in questo caso la scelta di Giovanni produce incertezza: non è detto che i soldi messi da parte siano sufficienti per aumentare il consumo futuro di Giovanni. E cioè, in termini più concreti, Giovanni incorre nel rischio che il proprio potere d’acquisto, che nel primo e secondo caso è certo di, rispettivamente, scomparire ed essere addirittura più basso, non venga mantenuto. Bada bene che il fatto che Giovanni, se decide di risparmiare, mantenga o meno il proprio potere d’acquisto è del tutto irrilevante di per sè da dove sceglie di investire: potrebbe comprare un immobile, o tenere tutto in denaro contante, e vedere comunque il proprio potere d’acquisto ridursi. Per capire la relazione tra investimenti e potere d’acquisto, dobbiamo conoscere le due forze portanti della nostra economia: attività economica e moneta. Le Quattro Stagioni Dell’Economia Definiamo attività economica la nostra capacità di produrre beni e servizi. Definiamo moneta un mezzo di scambio capace di mantenere il proprio valore nel tempo. Attività economica e moneta sono necessarie per il buon funzionamento dell’economia, e come questi due elementi si bilanciano fa tutta la differenza di questo mondo. Supponiamo di trovarci in un piccolissimo paese di 100 abitanti, dove sono tutti fabbri. Ti avevo detto, nell’introduzione, che avremmo parlato di fabbri… ricordi? Bene, ogni fabbro possiede 10 monete, per cui la quantità monetaria nel paese è di 1.000 monete. 7 Ogni fabbro produce una spada all’anno. Ogni anno, i fabbri allestiscono un mercato delle spade dove vendono la propria spada e ne comprano un’altra (sicché alla fine ogni fabbro resta con una spada e 10 monete). Ora, in aggregato, le spade valgono 1.000 monete; in media, ogni spada vale 10 monete. Che cosa succede se un fabbro è particolarmente bravo e invece di una spada all’anno ne produce due? La risposta immediata sarebbe: ricava il doppio. Purtroppo per il fabbro, non è così. Dopo l’aumento di produttività, in aggregato, il paesino produce 101 spade. Ma la quantità di moneta è sempre di 1.000 monete, quindi ogni spada vale in media 9,9 monete. Quando il nostro fabbro produttivo va al mercatino presentando due spade al prezzo di 10 monete ciascuna, scoprirà con rammarico che non riesce a vendere la seconda spada. E questo succede non perché non sia bravo, ma perché quelle 10 monete addizionali che il fabbro chiede come compenso per la sua seconda spada non esistono. Il fabbro, disperato, non ha che una scelta: deve abbassare il prezzo delle spade. A quanto? 9,9. Facendo concorrenza sul prezzo, le spade si vendono subito. A questo punto però, un altro fabbro non riesce a vendere la sua spada e deve anch’egli abbassare il prezzo a 9,9. Poi un altro, un altro ancora, e così via, finché il prezzo medio delle spade non diventa necessariamente 9,9 monete. Quello che è successo è che l’attività economica, ossia la capacità dei fabbri di produrre spade, è cresciuta, ma la moneta è rimasta uguale. In gergo economico, c’è stata una crescita deflattiva. La crescita deflattiva era tipica del 1800, quando i paesi del mondo erano in regime aureo. Questo tipo di crescita, che si basa su dei solidi principi economici, e aggiungerei etici (chi sbaglia paga), aveva il problema di causare delle crisi brutali, molto più violente di quelle attuali. Torniamo al nostro villaggio per vedere come avviene la crisi. Se riprendiamo il momento in cui il nostro fabbro laborioso si presenta al mercato presentando due spade e chiedendo 10 monete per spada, c’è una seconda cosa che può succedere: si avvicina un altro fabbro, e, ammirando quanto belle sono le sue spade, vuole comprarle entrambe a prezzo pieno. Ovviamente, l’acquirente ha solo 10 monete, ma promette di pagare il resto l’anno successivo. Il fabbro laborioso, non potendo credere che ha venduto due spade, accetta. 8 Attenzione: grazie a questo accordo, i due fabbri hanno aumentato artificialmente la quantità di moneta. Di fatto, il fabbro acquirente se ne va a casa con due spade, e il fabbro laborioso registra un ricavato per 20 monete. Ma solo 10 di queste sono effettive, il resto è una promessa. Perciò: Quantità di moneta: 1.000 monete + 10 sotto forma di promessa di pagamento. Produzione di spade: 101. Prezzo medio per spada: 10 monete. Valore dell’economia: 1.010 monete. Dopo qualche anno, il fabbro laborioso è diventato un portento, e riesce a produrre 6 spade invece di una. Contento, continua a vendere le 5 spade in eccesso su promessa, ossia a credito. Anche i compratori continuano ad acquistare su promessa, nel loro caso a debito. Un bel giorno però, il fabbro si stufa e va a batter cassa. Come puoi immaginare, il problema ancora una volta è che quelle 50 monete che il fabbro chiede non esistono. E il fabbro scopre con rammarico che fa fatica ad avere indietro quelli che pensava fossero i suoi soldi. Ora, in questo caso possono succedere più cose: 1) I fabbri debitori non pagano. 2) I fabbri debitori pagano il fabbro laborioso ma non riescono a comprare altre spade. E qui sta il bello, o anzi, il brutto. Perché se i fabbri debitori non pagano il fabbro laborioso, questo molto probabilmente getterà la spugna e smetterà di produrre 6 spade, tornando a produrne solo una (quella che sa di poter vendere per certo). Se invece saldano il loro debito, i fabbri non più debitori non hanno però altre monete da spendere. Perciò, ci saranno 5 fabbri che non riusciranno a vendere la propria spada. Questi, a loro volta, hanno due possibilità: 1) Andare fuori mercato, ossia smettere di produrre. 2) Abbassare il prezzo. Ma quant’è ora il prezzo medio di una spada? Essendoci 105 spade ma solo 1.000 monete, il prezzo medio di una spada è 9,5, non più 9,9. L’aggiustamento per i fabbri è più faticoso. Alcuni abbasseranno il prezzo, altri andranno fuori mercato. Assumendo che 3 fabbri smettano di produrre, e che tutti gli altri abbassino il prezzo, ora l’economia del nostro paesino produce 102 spade (invece di 105) al prezzo medio di 9,8 monete ciascuna (invece di 10). 9 Questo circolo vizioso si chiama recessione deflattiva, detta anche depressione deflattiva se il processo è particolarmente violento. L’attività economica si riduce e la moneta resta costante. La moneta, infatti, resta uguale: il processo avviene solo perché, alla moneta vera, si sostituisce una moneta falsa, ossia il debito. Ed è quest’ultimo che a un certo punto si deve ridurre, causando di fatto una contrazione della quantità effettiva di moneta e una spirale dei prezzi al ribasso. L’ultima vera depressione deflattiva è stata la crisi del 1929 in America, seguita appunto dalla depressione degli anni ’30. La nostra esperienza con la recessione deflattiva purtroppo è più recente, giacché è quella che ha affrontato l’Italia dal 2012 al 2014, prima che la Banca Centrale Europea rilassasse la politica monetaria e desse ossigeno alla nostra economia. Infatti, oggi le banche centrali non sono più vincolate all’oro, ma possono aumentare la quantità di moneta vera a seconda di quanta moneta è richiesta dall’economia. Torniamo di nuovo al nostro paese di fabbri, sempre nel momento in cui il fabbro produttivo presenta due spade invece che una al prezzo di 10 monete ciascuna. Il fabbro sindaco, passando per il mercato, si accorge delle due bellissime spade. Quando ripassa, tutte le spade del mercato sono andate vendute, tranne la seconda spada del fabbro laborioso (situazione di partenza). Al che il fabbro sindaco pensa che potrebbe comprarla il paese stesso. Dà compito al fabbro minatore di plasmare un’altra moneta, e con quella, in qualità di sindaco, compra la spada al fabbro laborioso. Il fabbro sindaco, in qualità di autorità pubblica, ha immesso 10 monete in più nell’economia del paesino. La produzione è ora di 101 spade e vi sono 1.010 monete, per cui il prezzo per spada è sempre di 10 monete. Se fosse sempre così vivremmo nell’economia perfetta: crescita con inflazione zero. Nella realtà, la banca centrale non sa esattamente quanta moneta in più sarà consumata dall’economia in un dato anno. Per non rischiare la deflazione, taglia la testa al toro e immette sempre un po’ più di moneta del necessario.3 Ammettiamo che, invece di un solo fabbro laborioso, ce ne siano 10, tutti in grado di produrre due spade, per un totale di 110 spade per 1.000 monete. Il fabbro sindaco vede comparire più spade ma non sa bene se saranno 10, 15 o 20 in più. Per non rischiare immette 200 3 Si pensi che sia la Banca Centrale Europea che la Federal Reserve (la banca centrale americana) hanno come target un’inflazione del 2% all’anno. 10 monete. Una volta pagate le 10 spade, il fabbro sindaco va al mercato con 100 monete in cerca di altre spade. Ma i fabbri hanno già i loro compratori (il mercato è in equilibrio a 1 spada per 10 monete). Qualche fabbro intraprendente gioca la sua carta: vende volentieri al fabbro sindaco ma a un prezzo più alto. Quanto più alto? 1.200 monete su 110 spade fa un prezzo medio per spada di 10,9. Aumentando la quantità di moneta, il fabbro sindaco ha sì sostenuto la crescita, ma ha anche causato un aumento dei prezzi, ossia inflazione. In gergo, crescita inflattiva. Se l’aumento dei prezzi è contenuto, l’economia viaggia in crescita a bassa inflazione: la situazione italiana nel secondo dopoguerra. Se però l’aumento del prezzo è elevato, per cui l’inflazione abbonda, l’economia rischia un surriscaldamento, generalmente preambolo di recessione. La recessione, ossia la contrazione dell’attività economica, può essere deflattiva (come abbiamo visto sopra) o inflattiva, che è l’ultima delle quattro stagioni dell’economia. La recessione inflattiva è la più complicata, perché dipende molto dalla situazione in cui un paese si trova. Nella sua forma più semplice si chiama stagflazione, ossia stagnazione più inflazione. Questo potrebbe essere il caso se nel nostro paesino di fabbri il fabbro sindaco si facesse prendere la mano e cominciasse a immettere una quantità sproporzionata di monete. Quello che succederebbe è che i fabbri, aspettandosi altri acquisti da parte del fabbro sindaco, si metterebbero ad alzare i prezzi ogni anno. Nessuno si metterebbe a produrre più di una spada: perché sforzarsi quando puoi semplicemente alzare il prezzo? Se il fabbro sindaco arriva ad immettere altre 300 monete, il prezzo medio per spada diventa 13,6. Un bell’aumento rispetto alla situazione di partenza di 10 monete per spada. Non è una vera e propria crisi, ma è comunque una situazione di forte instabilità che in ogni caso impedisce la crescita. Diverso è il caso di una vera e propria recessione inflattiva. Supponiamo che i nostri fabbri abbiano un problema: il tempo è cambiato e fa più freddo. Il fabbro mercante si reca nel paesino delle vicine tessitrici e compra 100 maglioni. Con i nuovi maglioni, i fabbri possono continuare a lavorare e mantengono la produzione a 100 spade all’anno. 11 Alle tessitrici, però, non interessano le spade; vogliono essere pagate in oro. Per l’esattezza, ogni maglione costa 20 monete d’oro. Diciamo che la valuta dei fabbri, chiamiamola moneta d’acciaio, compra 1 moneta d’oro. A questo punto i 100 maglioni costano ai fabbri 2.000 monete d’acciaio, che loro non hanno. O aumentano produttività e moneta per arrivare a 200 spade per 2.000 monete, oppure, ancora una volta, pagano 1.000 monete d’acciaio e il resto promettono di pagare, cioè comprano a debito. Quando le tessitrici vengono a batter cassa, il fabbro sindaco immette ex novo 1.000 monete d’acciaio e comincia a pagare le tessitrici. Ma a questo punto c’è un eccesso di monete d’acciaio nel mercato, e il cambio crolla a 1 moneta d’oro per 2 monete d’acciaio. Se i fabbri erano riusciti a pagare 500 monete d’oro di debito prima che il cambio crollasse, ora però ne restano altre 500. Ma siccome la loro moneta ha perso metà del suo valore, il debito aumenta di nuovo a 1.000 monete d’acciaio … e i maglioni ora costano 40 monete d’acciaio l’uno! Il fabbro sindaco può rifare lo stesso gioco, ma non ne esce: ogni volta che immette moneta, o come diremmo oggi stampa moneta, il cambio peggiora e i debiti restano sempre quelli. I maglioni costano sempre di più e le tessitrici non si fidano più a venderli. Ma i fabbri non riescono a lavorare senza maglioni, per cui, come se non bastasse, la produzione si contrae. La quantità di moneta aumenta mentre la produzione si riduce. Come vedi, perché una vera crisi inflattiva si verifichi bisogna che il paese necessiti di importazioni estere importanti, la cui mancanza impedisce alle aziende di lavorare. Infatti, la crisi inflattiva è tipica dei mercati emergenti: questi prendono a prestito dollari per comprare macchinari e tecnologia che servono per il loro sviluppo. Per vari motivi, a volte non sono in grado di ripagare: cercano di stampare ma fanno peggio ed entrano in crisi inflattiva. Alcuni esempi importanti sono le varie crisi dell’Argentina e del Brasile, soprattutto negli anni ’80, della Corea del Sud e Sud-est asiatico (Thailandia, Malesia, Filippine, Indonesia) nel 1998-1999, della Russia nel 1998, e di vari paesi africani. 12 La tabella seguente riassume le quattro stagioni dell’economia. Economia E Potere D’Acquisto Dopo questo racconto, che spero ti abbia chiarito i cicli secondo cui si muove l’economia, è chiaro un risultato: qualunque sia la fonte del tuo reddito o del tuo patrimonio, il tuo potere d’acquisto varierà a seconda del ciclo in cui si trova l’economia del paese in cui vivi. L’obiettivo di un investimento è quindi uno e uno solo: proteggere il potere d’acquisto dell’investitore. Perché investiamo? Investiamo, ossia limitiamo il nostro consumo attuale, per aumentare o almeno mantenere il nostro potere d’acquisto, ossia il nostro consumo, in futuro. Il rischio non è tanto quello di andare incontro a delle perdite in sè, quanto di vedere ridotto in modo permanente il nostro potere d’acquisto. Le forze di attività economica e inflazione giocano un ruolo fondamentale in questo: 10.000 euro lasciati in denaro contante con un’inflazione del 2%, si trasformano in 8.171 euro reali dopo 10 anni, e cioè una perdita di potere d’acquisto del 18%. Al contrario, un’azienda con utili negativi dell’1% ma in una situazione di deflazione del 2% l’anno, produrrebbe un aumento del potere d’acquisto del 10% dopo 10 anni. 13 Gli investimenti finanziari non sono altro che una trasposizione monetaria dell’economia reale: capire come questa funziona è fondamentale per determinare se un investimento è stato buono o cattivo. 14 CAPITOLO 2: COSA SONO E COME FUNZIONANO GLI INVESTIMENTI Abbiamo imparato che investire significa preservare il proprio potere d’acquisto in futuro. Sappiamo che l’economia può muoversi in quattro direzioni spesso contrapposte, a seconda delle quali il nostro potere d’acquisto può variare ampiamente. La domanda ora è: come facciamo a investire in modo da preservare il nostro potere d’acquisto indipendentemente dal ciclo economico? La risposta è che dobbiamo costruire un gruppo di investimenti, in gergo un portafoglio, che sia in grado di adattarsi a ogni situazione. È possibile? Sì, giacché, come vedremo dopo, gli investimenti non sono creati uguali: alcuni vanno meglio in periodi di crescita, altri in periodi di crisi, altri di inflazione, altri di deflazione. Il «segreto», se così si può dire (alla fine è solo buon senso), è cercare di combinarli in modo tale da non farsi mai trovare impreparati. L’ABC Della Finanza: Che Cos’è Un Asset Finora ho cercato di evitare parole inglesi, tuttavia da qui in poi dovrò usare questa parola, che rappresenta un concetto fondamentale in finanza: asset. Ne avrai sicuramente sentito parlare: asset allocation, multi-asset strategy, net asset value (NAV), e così via. Devo usare la parola inglese perché esprime in modo inequivocabile un concetto difficilmente traducibile in italiano: un asset è un bene che corrisponde a un’attività, ossia che è in grado di mantenere o accrescere il proprio valore nel tempo. Vi sono tre tipologie di asset: tangibili, monetari e produttivi. Asset tangibili Se compro una maglietta, difficilmente avrò in mano un asset. Posso anche tenerla in armadio intonsa, ma, un po’ perché passa di moda, un po’ perché è disponibile in grandi quantità, perderà sicuramente il suo valore nel tempo. Lo stesso vale per un orologio da polso, o anche per un bene più complesso come un’automobile. E se invece di una maglietta fosse una borsa disegnata da un famoso stilista, una Kelly di Hermes per esempio? E se l’orologio fosse un Rolex? 15 Se la macchina fosse una Ferrari? La situazione sarebbe ben diversa: in questo caso avrei a che fare con dei beni che molto probabilmente terranno il loro valore nel tempo, appunto degli asset. Questi asset, per lo più oro, diamanti, immobili di pregio, a volte anche materie prime, hanno due caratteristiche principali: 1) Non producono reddito: per quanto luccichi, un diamante non ti pagherà mai una bolletta. L’unico modo per ricavarne del denaro contante è venderlo. 2) Derivano il loro valore dalla scarsità e dall’accettazione fra le persone che tali asset hanno valore. Il problema di questi asset è che, non generando alcun tipo di reddito, aumentano la ricchezza dell’investitore solo nella misura in cui questo riesce a venderli a un prezzo più alto. Se compro una Ferrari a 200.000 euro e penso di farne un investimento, devo sperare che fra 10 anni ci sia qualcuno che me la compri a un prezzo più alto. Altrimenti, non ho alcun modo di generare ritorni. Dal mio punto di vista, questi asset non sono veri investimenti, ma possono essere considerati come un’assicurazione contro particolari situazioni (lo vedremo dopo). Asset monetari Questi asset sono gli unici dei tre a essere espressi unicamente in termini monetari, e per questo vengono, a mio avviso ingiustamente, definiti «sicuri». Se ho un deposito bancario per 10.000 euro, sono 10.000 euro punto fine: non c’è altro che rappresenti quell’asset se non i 10.000 euro stessi. In realtà, i 10.000 euro non ci sono fisicamente, ma c’è una promessa da parte della banca di rendere i 10.000 euro su richiesta del correntista. Di fatto, questi asset, e cioè conti di deposito, obbligazioni, titoli di stato, mutui,4 non sono altro che promesse di pagamento. Gli asset monetari hanno due caratteristiche principali: 1) Generano reddito in modo fisso: se compro un titolo di Stato al 2% a dieci anni per 10.000 euro, mi aspetto di ricevere ogni anno 200 euro. Né più, né meno. Il reddito che questi asset generano si chiama interesse, e siccome viene pagato in modo fisso, questi asset sono anche chiamati titoli a reddito fisso. 4 Una curiosità: il mutuo è l’unico asset monetario ad avere una contropartita fisica: l’immobile. Benché sia un asset relativamente rischioso visto che il debitore è un individuo e non un’azienda o lo Stato, il fatto di avere una rappresentazione fisica ha dato al mutuo una parvenza illusiva di sicurezza, che è stata poi uno dei motivi che hanno portato alla crisi del 2008. 16 2) Rimborsano il capitale in termini prefissati: abbiamo detto in precedenza che questi asset sono una promessa di pagamento. Ebbene, una promessa a un certo punto deve essere mantenuta, ossia ha una scadenza. Dopo un certo periodo di tempo, un asset monetario rimborserà all’investitore la totalità del suo valore. Nell’esempio di prima, dopo dieci anni mi aspetto che lo Stato mi rimborsi i 10.000 euro che gli ho prestato.5 3) Derivano il loro valore dalla bontà del creditore: essendo solo una promessa, il valore di un asset monetario, come un’obbligazione, dipenderà da chi fa quella promessa. Generalmente, il miglior creditore è lo Stato, visto che è l’unico soggetto ad avere un certo controllo sulle sue entrate: può aumentare le tasse o addirittura stampare moneta. Seguono le obbligazioni di grandi società, poi di quelle via via più piccole o meno solide, e infine i mutui. L’enorme vantaggio degli asset monetari è, ovviamente, il reddito fisso. Tuttavia, tali asset incontrano due problematiche non da poco: a) Non crescono. Visto che il reddito è fisso e il capitale viene rimborsato in termini prefissati, questi asset di per sè non aumentano di valore.6 Siccome l’interesse è l’unico rendimento che producono, il solo modo per far crescere il ritorno di un’obbligazione è quello di reinvestire, in tutto o in parte, gli interessi ricevuti.7 b) Siccome sono asset monetari, e il loro valore è dato dal fatto che sarà pagata una quantità di moneta prefissata in futuro, ogni aumento della quantità di moneta nell’economia andrà a detrimento del loro valore. Detto brutalmente, soffrono l’inflazione. Prendiamo di nuovo quel titolo di Stato decennale al 2%. L’investitore riceve i suoi 200 euro che utilizza per comprarsi un paio di belle scarpe. Che cosa succede se 5 Metto in nota una nozione importante ma molto tecnica: lo Stato rimborserà il valore del titolo, ma non il suo prezzo. Il valore di rimborso è noto all’investitore, per cui non ci sono sorprese: se il titolo rimborsa 100, l’investitore riavrà il suo capitale se acquista il titolo, ovviamente, a un prezzo di 100 o meno. Per che mai un investitore dovrebbe pagare un titolo che rimborsa 100 di più, per esempio 105 o 110? Questo succede per via delle variazioni nei tassi di interesse definiti dalla banca centrale. Supponiamo che il titolo scada tra un anno e renda il 5%. Che cosa succede se la banca centrale abbassa i tassi a 1%? Un titolo di nuova emissione a un anno pagherà 100 rendendo 1%. Il titolo al 5% in essere sarà riprezzato dal mercato per rendere anch’esso 1% in quell’anno, quindi 104 (103,96). Questo perché il mercato considera il ritorno totale (interessi più capitale): 100 + 4 – 105 = 1. Al di là dei numeri, il punto è che se stai comprando un titolo al 5% di cedola al prezzo di 104 e rimborso di 100, non pensare che quei 5% siano tutti di reddito! Solo 1% è reddito, i restanti 4% devono essere accumulati solo per conservare il capitale. 6 Diverso è il caso in cui il mercato riprezza questi asset a seguito di un cambiamento nei tassi di interesse. Da notare che il cambiamento può essere in positivo (taglio dei tassi) o in negativo (aumento dei tassi) ma questo non ha nulla a che vedere con la potenzialità intrinseca dell’asset di crescere. 7 Supponiamo di avere un titolo di Stato al 5%, prezzo 100 euro, per cui interessi annui 5 euro. Se reinvesto tutto l’interesse di 5 euro, il mio capitale si porta a 105 euro e il mio rendimento in termini assoluti a 105*5% = 5.25 euro. 17 l’inflazione passa da 0% a 2%? Dopo cinque anni, le scarpe costeranno 221 euro, ma l’investitore continuerà a prendere 200 euro! E se fosse invece del 4%? 243 euro. Che fine fa il potere d’acquisto dell’investitore? Ci siamo capiti… Asset produttivi Questi sono asset che generano reddito a partire dalla produzione di un prodotto o servizio. Asset di questo tipo sono aziende, immobili, fattorie, infrastrutture. Questi asset non hanno un valore convenzionale come quelli tangibili, né garantiscono il rimborso del capitale come quelli monetari: il fattore chiave del loro valore è la loro capacità di generare cassa da qui in futuro. Tale cassa, a differenza degli asset monetari, non è fissa. Ora, lettori pessimisti vedranno questo come un male, perché il fatto che non sia fissa significa che diminuisce, mentre lettori ottimisti lo vedranno come una cosa fantastica visto che non può che crescere. La realtà sta nel mezzo. Torniamo al paesino dei fabbri, e ammettiamo che i 100 fabbri si mettano insieme per formare un’impresa. Ognuno mette 10 monete, per cui il capitale iniziale dell’impresa è di 1.000 monete. I fabbri sono bravi. Vendono le spade sempre a 1.000 monete (situazione iniziale dell’economia del paesino), in più, visto che si sono messi insieme risparmiano qualcosa e quindi per costruire le spade invece di 1.000 spendono 900, per cui a fine anno la società fa un utile (ricavi meno costi) di: 1.000 – 900 = 100 monete. Un utile di 100 su un capitale di 1.000 significa che l’azienda ha un ritorno sull’investimento, ossia un rendimento, del 10%. Questo 10% è il risultato della produttività dell’asset, ovvero di creare quello che in gergo si chiama valore aggiunto. A questo punto, i fabbri hanno due scelte: possono distribuirsi le 100 monete tra di loro in forma di dividendi,8 oppure reinvestirle nell’attività. Se reinvestono tutte le 100 monete di utile, e mantengono la disciplina dell’anno precedente, che utile mi aspetto che l’impresa dei fabbri sia in grado di generare? Se mantiene il 10% di rendimento, e il nuovo capitale è 1.100 (1.000 iniziale + 100 monete di utile), l’utile dell’anno seguente sarà di 110. 8 Il dividendo è la porzione di utile che viene distribuita dalla società ai suoi soci. Il termine dividendo deriva appunto dal concetto di dividere il risultato aziendale tra i proprietari della società. 18 Perché dico questo? Perché le aziende non aumentano l’utile, e di conseguenza il loro valore, per magia, o ancora peggio, per caso. Esiste un motivo ragionevole per il fatto che le aziende siano in grado di incrementare la cassa generata dalla loro attività con una certa regolarità: 1) La quantità di utile che viene reinvestito nell’attività aziendale; 2) La capacità dell’azienda di mantenere lo stesso ritorno sul capitale reinvestito. Questo non vuol dire che l’utile aziendale deve crescere per sempre, giacché ci sono momenti in cui anche ottime aziende possono fare un gran fatica, per esempio nel caso di una depressione deflattiva: se la domanda collassa e i prezzi scendono, è quasi impossibile mantenere gli stessi ritorni sul capitale; anzi, è già tanto non andare in perdita (la perdita opera in senso inverso rispetto all’utile e distrugge capitale invece di accrescerlo). Quello che voglio dire è che un investitore che investe in un gruppo di aziende sane e ben gestite è ragionevole che nel lungo termine ottenga un capitale maggiore rispetto a quello iniziale. Scommetto che sai già dove sto andando a parare… È ragionevole quindi, che l’investitore riesca a mantenere o persino ad accrescere il proprio potere d’acquisto. Asset E Stagioni Dell’Economia Hai mai sentito parlare di asset allocation? È un nome altisonante (come tanti termini finanziari in inglese), e così come asset abbastanza intraducibile (allocazione patrimoniale? Non mi sembra renda allo stesso modo). Asset allocation significa semplicemente dare un peso alle diverse tipologie di asset che compongono un portafoglio: quanto di uno, quanto dell’altro. Ora, visto che sappiamo a) come funziona l’economia, e b) le caratteristiche delle tre tipologie di asset, non dobbiamo far altro che combinare le due cose e ottenere una asset allocation ragionevole. La tabella seguente mostra la combinazione di cicli economici e asset: all’interno di ogni riquadro ho inserito gli asset che vanno bene in quel ciclo economico; detto meglio, asset le cui caratteristiche sono favorevoli in quella situazione economica. 19 Crescita inflattiva Questo è il classico caso quando tutto va bene. A volte anche troppo bene: se la banca centrale si lascia andare e non contiene l’inflazione, in questa situazione si possono formare delle bolle: nelle azioni (1997-1999), negli immobili (2005-2007), nelle materie prime (petrolio: 2010-2014). Per il resto, se la banca centrale riesce a contenere l’inflazione e la crescita è veramente forte, l’economia tira. Il prezzo degli immobili sale, le aziende macinano utili, e la materia prima di turno (petrolio, rame, litio, ecc.) va alle stelle. Crescita deflattiva La cosa più vicina alla crescita deflattiva in età post regime aureo è la crescita dopo il 2008, cioè quella degli ultimi anni (specialmente in America): una crescita con bassa inflazione. La bassa inflazione consente alle aziende di investire a buon mercato e al tempo stesso di essere molto competitive sul prezzo. A differenza della crescita inflattiva, anche gli asset monetari vanno bene in questa situazione: infatti, redditi costanti e sicuri (l’economia cresce e i debitori sono in grado di ripagare i debiti senza troppi problemi) vanno bene in una situazione di aumento contenuto dei prezzi. 20 Recessione inflattiva Come detto in precedenza, in questo scenario la moneta perde valore mentre l’economia si contrae. Non ci sono molte opzioni: l’oro è generalmente considerato un’ottima alternativa (si ritorna alla moneta metallica quando quella cartacea non funziona più), assieme alla valuta estera (valute sane come il dollaro USA, il franco svizzero, la sterlina, lo yen). Le materie prime possono essere un’opzione, almeno storicamente lo sono state, a meno che non ci siano delle difficoltà idiosincratiche di una materia in particolare, come da un po’ di anni a questa parte è il petrolio. Avrai notato in questo quadrante un asset particolare: obbligazioni indicizzate. Queste obbligazioni sono titoli di Stato il cui interesse e capitale di rimborso sono indicizzati all’inflazione (rappresentato dall’indice dei prezzi al consumo). Se il titolo rende l’1% e l’inflazione passa dal 2% al 3%, lo Stato riconosce la differenza con un 1% in più di rendimento (totale 2%). Pur essendo una buona opzione contro le crisi inflattive, i titoli di Stato indicizzati vanno presi con le pinze: infatti, lo Stato non emette questi titoli per bontà, ma perché rendono meno di un titolo di Stato normale (a volte anche molto di meno); se l’inflazione non si verifica, il rendimento sarà minore. Inoltre, essendo l’unico asset monetario che non paga un reddito fisso, sono più volatili. Recessione deflattiva Se nel caso precedente c’erano poche opzioni, in questo ce n’è una sola: titoli di Stato. Ed è anche abbastanza facile comprendere perché. Nella recessione deflattiva, un forte calo della domanda fa crollare prezzi e produzione. In questa situazione, quello che l’investitore vuole è il reddito più fisso possibile garantito dal soggetto più solido possibile. E aggiungerei, per più a lungo possibile: titoli di Stato a lungo termine. Torniamo al titolo di Stato decennale per 10.000 euro al 2%. Che cosa succede all’investitore appassionato di scarpe se l’economia va in forte deflazione, diciamo un -2% l’anno? Dopo 5 anni, le scarpe che prima costavano 200 euro costeranno 181 euro. Ecco che anche un asset che produce reddito fisso, in certe situazioni, può accrescere il potere d’acquisto dell’investitore. 21 Una nota sulle azioni Avrai notato che le aziende (sotto forma di azioni e obbligazioni societarie) sono l’unico asset che va bene sia in caso di inflazione che in caso di deflazione. Insomma, finché l’economia cresce, le aziende hanno vita facile. Un punto che vorrei sollevare è che quando dico «aziende», intendo le aziende come gruppo. Generalmente, siamo abituati a ragionare in termini di questa o quell’azienda, per esempio la Ferrari o l’Enel. Una può andare bene, l’altra male, e viceversa, al di là della situazione economica. Di conseguenza, la domanda che immagino ti starai chiedendo è: ma come fanno ad andare tutte bene? Infatti, non vanno tutte bene. Vanno bene nell’insieme, appunto come gruppo. Pensiamo alle due aziende sopraccitate, Ferrari ed Enel. La prima vende un prodotto inutile a una nicchia di persone a cui può chiedere quello che vuole. La seconda vende un bene essenziale a una grande quantità di persone che vogliono spendere il meno possibile per comprarlo. Ferrari deve investire per restare sulla cresta dell’onda, Enel deve investire per mantenere la produzione stabile e il suo prodotto economico. Domanda: chi delle due va meglio in una situazione di crescita inflattiva, e chi invece in una fase di crescita deflattiva? Ferrari, potendo aumentare il prezzo delle sue auto senza ripercussioni sui volumi, è perfetta per un periodo di crescita inflattiva. Enel, con la sua base di ricavi stabile, è perfetta per un periodo di crescita deflattiva, quando il costo degli investimenti di cui necessita per mantenere la produzione diminuisce. Il punto fondamentale qui è che, fintanto che l’economia cresce, entrambe vanno bene. La peggiore performance di una è compensata dalla migliore performance dell’altra. Ma di sicuro, in aggregato, la loro produzione si espande. Pensala in questi termini. Quando l’economia cresce, che vi sia inflazione o deflazione, la produzione si espande. Quando l’economia cresce del 5%, passa ad esempio da 100 a 105 miliardi di euro, vuol dire che la produzione aumenta di 5 miliardi. Ora, può essere che alcune aziende abbiano prodotto di meno, ma di sicuro molte hanno prodotto di più, perché la produzione è cresciuta, e quindi nell’insieme le aziende hanno prodotto di più. 22 Quando ragioni in termini di asset class, devi sempre considerare gli asset in aggregato: non Ferrari, Enel, Generali, Telecom Italia, Moncler, bensì le aziende italiane. Perché lo facciamo? Ti rivelo un segreto della finanza: perché è molto difficile sapere in anticipo quale sarà l’azienda vincente. Come effettuare questo tipo di investimento in pratica è il tema del prossimo capitolo. Per ora, restiamo ancora sull’asset allocation. Asset Allocation All’Opera: Componiamo Un Portafoglio Finalmente cominciamo ad addentrarci nella parte clou di questo capitolo, che risponde alla domanda: qual è la giusta ponderazione che ciascun asset deve avere in un portafoglio? Prima di dare una risposta, devo chiamare in causa Sir Isaac Newton e la sua legge fisica secondo cui nel mondo ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e opposta. Applicato all’economia, la legge dello scienziato britannico diventa: ad ogni inflazione corrisponde una deflazione, ad ogni crescita una decrescita. Questo concetto può sembrare singolare ma è del tutto azzeccato: se lasciate a loro stesse, le forze di mercato di credito e debito inflazionano l’economia durante periodi di crescita (quando i creditori prestano a tutti e la liquidità abbonda), e la deflazionano durante periodi di crisi (quando tutti vanno a batter cassa e drenano liquidità). In sostanza, le stesse forze che fanno crescere l’economia a un certo punto funzionano all’incontrario.9 Di conseguenza, si può affermare che l’economia abbia una equa probabilità di incappare prima o poi in una delle quattro stagioni: 25% di probabilità ciascuna. Per ogni stagione, prendo l’asset che performa meglio, e così facendo ottengo: - Crescita inflattiva, 25%: azioni. Crescita deflattiva, 25%: azioni. Recessione deflattiva, 25%: titoli di Stato. Recessione inflattiva, 25%: oro e obbligazioni indicizzate. 9 Un’interessante apparizione di questo principio si ritrova anche nella Bibbia, nel libro della Genesi, 37,2 48,22. Nell’episodio Giuseppe viene chiamato a interpretare il sogno del faraone: il sovrano vede 7 anni di vacche grasse seguiti da 7 anni di vacche magre. In economia, crescita inflattiva seguita da recessione deflattiva. È da sottolineare che, così come l’intervento del faraone salva il paese dalla depressione, così anche ai giorni nostri l’intervento dello Stato allo scoppio di una crisi aiuta ad accorciare drasticamente i periodi di recessione e ad evitare la depressione. 23 Messo insieme, il portafoglio risulta così: - Azioni: 50% Titoli di Stato: 25% Obbligazioni indicizzate: 20% Oro: 5% La divisione fra oro e obbligazioni indicizzate è arbitraria. Potrebbe essere 25% oro, o 25% obbligazioni indicizzate. La mia divisione a favore delle obbligazioni indicizzate sull’oro è che vedo molto improbabile il verificarsi di una recessione inflattiva in Europa vista la solidità della moneta. Un’altra opzione è inserire valuta estera, ma va presa con i dovuti riguardi (discuterò questo punto nel paragrafo successivo). Il 60/40: Il Portafoglio Classico Benjamin Graham è stato un economista, professore e investitore americano attivo nella prima metà del 1900, grosso modo fino agli anni ’70. Conosciuto anche per essere stato il maestro del famoso finanziere Warren Buffett, Graham è considerato il padre dell’investimento moderno. Nel suo libro The Intelligent Investor, la cui prima edizione è del 1949, Graham consiglia un portafoglio che contenga per il 50% azioni e per il 50% obbligazioni. Insomma, un portafoglio molto simile al nostro. Come Graham sia arrivato a questa divisione non è chiarissimo. C’è da dire che il grande finanziere americano ha vissuto in pieno il periodo della Grande Depressione, e probabilmente per questo tendeva a dare un peso maggiore ai titoli di Stato, appunto il 50% (assieme alle obbligazioni societarie di alto livello). Graham non è stato l’unico a uscire vincente dalla Grande Depressione. Nel 1929, un giovane finanziere di nome Walter Morgan fondava Wellington Fund. Preoccupato dai prezzi stellari a cui erano arrivate le azioni, Morgan decise di gestire il proprio fondo in modo più conservativo rispetto allo stile dell’epoca. Affiancando alla posizione azionaria titoli di Stato e obbligazioni societarie, l’asset allocation di Wellington Fund divenne 60% azioni e 40% obbligazioni. Nasceva così il primo fondo d’investimento bilanciato. Così facendo, Morgan riuscì a resistere al crollo che si sarebbe verificato solo pochi mesi dopo l’avvio dell’attività e i successivi dieci anni di depressione. Quasi vent’anni dopo, Walter Morgan assumeva un brillante neolaureato di Princeton, con tante idee e passione: Jack Bogle, che oggi conosciamo come il fondatore di Vanguard. 24 La storia vuole che Vanguard andò a inglobare Wellington Fund, e lanciò essa stessa il primo fondo bilanciato indicizzato della storia nel 1993. Gli ottimi risultati e la forte personalità di Jack Bogle hanno fatto sì che il 60/40 diventasse un classico per l’investitore conservativo. Come possiamo modificare il nostro portafoglio perché diventi un 60/40? Se ti ricordi, nel quadrante dedicato a contrastare la recessione inflattiva (in alto a destra), ci eravamo lasciati aperta un’altra possibilità: inserire valuta estera. Se tale asset è rappresentato da azioni (azioni americane, per esempio), ecco che allocando 10% in più alle azioni, togliendo l’oro e un 5% dalle obbligazioni indicizzate, otteniamo il classico 60/40: - Azioni: 50% Azioni estere: 10% Titoli di Stato: 25% Obbligazioni indicizzate: 15% Il Problema Dell’Oro E Del Ribilanciamento Il portafoglio classico 60/40 non conteneva l’oro. Io stesso, anche se potevo inserirne quantità più elevate (tecnicamente fino a un 25%), ne ho inserito una quantità ridotta. Come mai? Se ti ricordi il discorso sulle tre tipologie di asset di qualche capitolo fa, ti ricorderai che l’oro, in qualità di asset tangibile, non produce alcun tipo di reddito. In gergo finanziario, non ha nessun rendimento interno. Facciamo un esempio. Prendiamo il caso di una persona che compra una casa per 100.000 euro, la affitta per 10 anni a 3.000 euro l’anno, e la rivende a 100.000 euro. Apparentemente, non avendo realizzato una plusvalenza, il proprietario non ha guadagnato niente dal suo investimento. Eppure, non è così. L’immobile è un asset produttivo in quanto offre servizi abitativi, che producono reddito. Anche se il proprietario non ha realizzato una plusvalenza, l’immobile ha generato internamente 30.000 euro (3.000 euro di affitto annuo per 10 anni di affitto). Se il proprietario ha accumulato gli affitti durante gli anni, ora si ritrova con 130.000 euro. Ma c’è di più: anche l’acquirente sa che l’immobile si affitta per 3.000 euro l’anno, e la sua offerta è sostenuta dal fatto di poter continuare a ricavare l’affitto. E cioè: il rendimento interno determina in ultima analisi il valore di un asset. 25 Nel caso dell’oro, tutto questo non c’è. Ciò pone dei grossi problemi. Per cominciare, non si sa bene quale sia il giusto prezzo dell’oro. C’è chi utilizza come formula dividere tutti i dollari in circolazione per tutto l’oro del pianeta e trovare il valore in dollari all’oncia, ma non c’è alcun motivo per cui i dollari debbano inseguire l’oro, e siamo daccapo. Il secondo problema è che l’unico modo che l’oro ha di aumentare di valore è il fatto che gli investitori comincino a comprarlo. Un’azione o un’obbligazione abbandonate in un conto d’investimento per anni sicuramente genereranno ritorni positivi, perché avranno accumulato e reinvestito i redditi generati. Ma con l’oro questo non funziona: se gli investitori cambiano umore, l’oro perde di valore e non c’è niente da fare. L’unico caso in cui è ragionevole che l’oro cresca di valore è durante una crisi inflattiva. Quello che succede è che l’oro sale di prezzo all’apice della crisi e poi scende quando le paure spariscono. In teoria, bisognerebbe ribilanciare il portafoglio (lo vediamo tra un secondo) vendendo l’oro in eccesso (cioè oltre l’allocazione prestabilita) e utilizzare i proventi per comprare altri asset. In questo modo si sarebbero realizzati i proventi dell’oro in modo definitivo, e allocati ad asset produttivi di reddito. Il nostro guaio è che il sistema fiscale italiano non è pensato per questo tipo di operazioni. A ogni vendita in plusvalenza si applica un’imposta del 26%, poco male che poi i proventi vengano reinvestiti. In sostanza realizzi solo il 74% dei proventi, ma ti tieni tutte le perdite ovviamente. Non mi sembra una gran furbata. Personalmente, considero l’oro come un’assicurazione. È vero che abbiamo una moneta solida, ma è anche vero che i debiti nazionali sono alti, e non sia mai che a qualcuno venga in mente di modificare l’ordine monetario, inflazionando qui e ristrutturando là. Un po’ di oro in portafoglio (il 5% va benissimo) ancora una volta, è solo buon senso. Unico avvertimento: non gongolare troppo quando va su e non disperarti poi quando lo vedi crollare. Avrai sicuramente sentito parlare del Bitcoin. Ebbene, il ragionamento che vale per l’oro vale anche per il Bitcoin: una valuta alternativa che non può essere controllata da nessuna banca centrale. In pratica, una valuta la cui quantità resta fissa. Il vantaggio del Bitcoin rispetto all’oro è che è più simile ad una valuta normale nella misura in cui può essere usato per comprare beni e servizi. Lo svantaggio è che, a differenza dell’oro, che ha alle spalle una storia millenaria come bene rifugio, il Bitcoin ha un futuro estremamente incerto riguardo alla sua accettazione diffusa. Per il momento, lo considero un asset speculativo. Se si dovesse affermare effettivamente come valuta alternativa, potrebbe sicuramente andare a comporre una parte della porzione di portafoglio oggi rappresentata dall’oro, diciamo un 1%. 26 Il Problema Del Ribilanciamento Nel paragrafo precedente ho accennato alla tecnica del ribilanciamento. Concretamente, ribilanciare un portafoglio significa riallocare gli asset da una classe all’altra quando queste perdono la loro ponderazione iniziale. Prendiamo il nostro portafoglio, e per semplicità eliminiamo l’oro in modo da avere 50% azioni e 50% obbligazioni. Se, dopo qualche anno dall’investimento, le azioni sono cresciute del 50%, mentre le obbligazioni non sono cresciute affatto, il portafoglio è diventato 60% azioni e 40% obbligazioni. Quello che l’investitore dovrebbe fare è vendere quel 10% di plusvalenza sulle azioni e comprare altrettante obbligazioni, in modo da riportare il portafoglio in equilibrio 50/50. Il vantaggio del ribilanciamento è di mantenere il portafoglio, appunto, sempre ben bilanciato. Tuttavia, vi sono due svantaggi non da poco. Il primo è che ribilanciare, in pratica, significa vendere l’asset che sta andando meglio e comprare quello che sta andando peggio. Durante periodi di crescita, bisogna vendere le azioni che stanno crescendo bene per comprare obbligazioni, durante periodi di crisi bisogna vendere le solide obbligazioni per comprare le azioni che sono collassate. Psicologicamente, fare questo non è facile. Il secondo problema è, come avevo accennato anche riguardo all’oro, di natura fiscale. A ogni vendita in plusvalenza, lo Stato porta a casa il 26%. Se ribilanci ogni anno, vuol dire che lasci allo Stato il 26% delle tue plusvalenze annue. Nel caso di prima, se un portafoglio 50/50 diventa 60/40, vuol dire che le azioni sono 75 e le obbligazioni 50. Per riportare il portafoglio in equilibrio, devo vendere 12,5 azioni e comprare altrettante obbligazioni (62,5/62,5 = 50/50). Tuttavia, non porterò a casa 12,5 ma solo 9,25 al netto delle tasse. Ci sono due potenziali soluzioni a questo problema. Primo, se hai costruito un portafoglio a distribuzione,10 puoi accumulare una parte dei redditi in liquidità e utilizzarla per acquistare l’asset che sta andando peggio. Nel caso precedente, 10 Un fondo a distribuzione è un fondo che distribuisce agli investitori i dividendi ricevuti dalle società in portafoglio (o gli interessi ricevuti dalle obbligazioni). Un fondo a capitalizzazione invece reinveste i dividendi in nuove partecipazioni. 27 se il portafoglio rende il 3% annuo in dividendi e interessi potresti avere 3 euro all’anno da riallocare, ossia tra i 15 e 20 euro dopo cinque anni.11 Secondo, puoi ribilanciare non ogni anno ma una volta ogni 5 o perfino 10 anni. In questo caso fai correre un po’ gli asset, correndo il rischio però di incappare in una stagione avversa con il portafoglio non in equilibrio. A parer mio, la scelta è del tutto personale, e riguarda: a) La personalità dell’individuo: preferisci lasciar correre e ottenere ritorni più alti o essere sempre protetto? b) La sua età: per un giovane la situazione è diversa, come vedremo nel prossimo paragrafo. c) La sua situazione finanziaria in generale: quanto guadagni, quanto stabile è il tuo reddito; hai degli altri asset, per esempio immobili, oltre a quelli del tuo portafoglio?, ecc. Asset Allocation Ed Età Dell’Investitore Così come l’economia, anche la vita umana segue dei cicli: cresciamo, diamo il meglio di noi, e ci riposiamo. Da un punto di vista finanziario, l’età dell’investitore fa una grossissima differenza. Torniamo alle quattro stagioni dell’economia, due di crescita e due di crisi. Per l’investitore che va a investire il suo patrimonio, soldi guadagnati in una vita o l’eredità di famiglia, avere un portafoglio che sia sempre pronto ai cambiamenti dell’economia è fondamentale. Ma per l’investitore giovane, nei suoi venti e trent’anni, la situazione è diversa. Generalmente, l’investitore giovane un patrimonio non ce l’ha. Lo sta accumulando. Per questo investitore l’asset principale è sè stesso. Ora, sappiamo che l’economia attraversa quattro cicli: due di crescita e due di crisi. Sappiamo che le azioni sono l’asset più ragionevolmente in grado di accrescere il potere d’acquisto dell’investitore nel lungo termine. Tuttavia, sprofondano durante periodi di crisi. Ebbene, per l’investitore giovane che sta accumulando, i periodi di crisi sono in realtà periodi di opportunità. Se l’investitore ha un reddito da lavoro ragionevolmente stabile, qualsiasi collasso azionario rappresenta un’ottima occasione per acquistare l’asset a sconto. 11 Anche in questo caso ci sono le tasse da pagare: l’imposta sul dividendo è anch’essa del 26%. La differenza sta nel fatto che l’investitore che opta per un portafoglio a distribuzione sa già che dovrà pagare l’imposta: a questo punto, può aver senso accumulare una parte e reinvestirla senza andar tanto a toccare il capitale. 28 Di conseguenza, l’investitore che accumula deve ignorare i periodi di crisi e focalizzarsi solo su quelli di crescita. Per questo investitore, il portafoglio diventa semplicemente: - Azioni: 100% Se l’investitore è titubante e preferisce avere un cuscinetto anche all’interno del suo portafoglio, si possono inserire dei titoli di Stato in caso di una recessione deflattiva per cui risulta: - Azioni: 75% - Titoli di Stato: 25% Inoltre, consiglio sempre anche all’investitore più intraprendente di avere delle riserve di liquidità: a seconda della stabilità del tuo reddito, ti consiglio di tenere liquidità almeno per 6 mesi se hai un lavoro stabile, 12 mesi se lavori in proprio o hai un contratto a scadenza. Una Nota Di Cautela Sull’Asset Allocation «Perfetta» In questo capitolo abbiamo applicato le nostre conoscenze sul funzionamento l’economia agli investimenti. Attraverso un’analisi quasi scientifica degli asset e delle condizioni economiche, abbiamo costruito un portafoglio conservativo. Vorrei però concludere il capitolo con una nota di cautela sul concetto di asset allocation «perfetta», che venga da me o da altri economisti. La nostra analisi si basa soprattutto sulla storia. Inoltre, presuppone un’economia chiusa, dove l’investitore investe solo nel proprio paese. La realtà è un po’ diversa: la storia non si ripete esattamente,12 e l’economia non è chiusa. Gli investitori possono e anzi dovrebbero investire anche fuori dal paese in cui vivono. Per esempio, qual è il ruolo dei titoli di Stato se il loro rendimento è zero? Qual è il ruolo delle azioni se il loro prezzo va alle stelle? Dico questo non per sconfessare ciò che ho appena scritto, tutt’altro: partendo dalle solide basi che abbiamo posto, può essere ragionevole (del resto, tutto questo libro si basa sul buon senso) modificare la nostra asset allocation standard se il momento storico lo richiede. Se le azioni raggiungono prezzi esagerati, può essere utile sovrappesare i titoli di Stato. Se questi ultimi offrono rendimenti ridicoli (per esempio negativi), può aver senso sovrappesare le azioni (o l’oro). 12 È attribuita a Mark Twain la frase «la storia non si ripete ma fa rima». 29 Prendo ad esempio il fondo sovrano della Norvegia, che è anche il più grande fondo d’investimento del mondo.13 Partiti da un’allocazione ultra-conservativa di 100% obbligazioni, negli anni sono passati prima al 40/60 (una versione conservativa persino per Graham, dove le obbligazioni pesano per il 60%), poi al 60/40, e ultimamente hanno adottato questa allocazione: - Azioni: 70% Obbligazioni: 25% Immobili: 5% Come vedi, non è una gran dipartita dalla nostra allocazione standard, solo un aggiustamento dato dal momento storico (tassi sui titoli di Stato molto bassi) e dalla portata dell’investimento (la Norvegia investe in tutto il mondo con un orizzonte temporale lunghissimo, potenzialmente perpetuo). Insomma, è ritenuto ragionevole che un portafoglio si possa scostare anche di un 10-15 punti percentuali dall’allocazione ideale: se ben implementato, un 50/50 può quindi diventare un 60/40, 65/35 o in certi casi anche 70/30 senza far danni. 13 Alla fine degli anni Sessanta, la Norvegia scoprì cospicui giacimenti di petrolio e gas nel Mare del Nord. Invece di lasciare l’estrazione delle risorse a stranieri e spendere il ricavato delle vendite di gas e petrolio, la Norvegia istituì una società petrolifera nazionale, che oggi si chiama Equinor (l’equivalente della nostra ENI), e al tempo stesso creò un fondo pubblico gestito dal Governo che aveva il compito di accumulare e investire per il futuro i proventi di Equinor. Il fondo, il cui nome ufficiale in italiano è Fondo Pensione Governativo Globale, oggi ha più di un trilione di dollari di asset ed è il più grande fondo d’investimento del mondo. 30 CAPITOLO 3: AZIONI E OBBLIGAZIONI: COME INVESTIRE IN MODO EFFICACE Nei primi due capitoli abbiamo visto: 1) che investire significa veramente mantenere il proprio potere d’acquisto nei diversi cicli economici; e 2) che combinando asset con caratteristiche diverse è possibile ottenere un portafoglio che protegga l’investitore nei diversi cicli economici. In questo capitolo, ci spostiamo da una visione macro a una visione micro, ossia come investire pragmaticamente negli asset che compongono un portafoglio. Se non sei proprio nuovo del mondo degli investimenti, immagino avrai sentito o letto innumerevoli volte consigli su che azione comprare, che azione sta andando su, che azione sta per crollare. Prima di entrare nel merito di che azioni comprare e come comprarle, dobbiamo però capire come funziona il mercato finanziario. Non perché ci interessa culturalmente, ma perché è prerequisito per comprendere quale sia effettivamente il miglior modo di investire in azioni.14 Come Funziona Il Mercato Finanziario Ti ricordi il paesino dei fabbri? Li avevamo lasciati che si erano messi insieme per fondare la loro azienda: capitale di 1.000 monete, soci i 100 fabbri. La proprietà dell’azienda è divisa in azioni. Ogni fabbro ha un’azione, per cui esistono 100 azioni del valore di 10 monete l’una. Ora, al fabbro banchiere viene in mente di creare un mercato dove i fabbri si possono scambiare le azioni fra di loro. L’impresa dei fabbri è profittevole, e guadagna il 10% sul capitale all’anno. Dopo un anno, l’azienda ha fatto un utile di 100, e tutti i fabbri hanno guadagnato 1 moneta a testa. A un certo punto, giungono notizie che gli affari per l’anno dopo potrebbero non andare bene. Spaventati, 50 fabbri decidono di vendere le loro azioni ai restanti 50. 14 La stessa metodologia vale anche per le obbligazioni. 31 Invece, l’anno dopo l’azienda continua a guadagnare e fa altre 100 monete di utile. Come viene ripartita questa ricchezza? Non fra tutti i fabbri, giacché 50 hanno venduto le loro azioni, e perciò non hanno diritto alla ripartizione del patrimonio aziendale. I 50 fabbri che sono rimasti azionisti hanno guadagnato 2 monete a testa, mentre gli altri fabbri zero. Al che questi ultimi decidono di ricomprare le loro azioni, per cui di nuovo i 100 fabbri hanno 1 azione a testa. L’anno dopo però, gli affari vanno effettivamente male e l’impresa dei fabbri perde 100 monete. Se l’utile accresce il patrimonio dell’azienda e dei suoi azionisti, la perdita funziona in senso inverso, e cioè riduce il capitale aziendale e il valore delle azioni. Data la perdita di 100 monete, i 100 fabbri azionisti perdono 1 moneta di patrimonio a testa. Se tiriamo le somme di questi 3 anni, descritte nella tabella sotto, ogni fabbro ha guadagnato in totale 1 moneta. Anno Utile aziendale (monete) Fabbri Guadagno per fabbro 1 100 100 1 2 100 100 1 3 -100 100 -1 Totale 100 100 1 Tuttavia, questo è solo un valore medio: nello specifico, i 50 fabbri che sono rimasti azionisti hanno guadagnato 2 monete a testa, i 50 che hanno venduto e ricomprato hanno guadagnato zero. Quello che abbiamo visto è ciò che avviene a livello contabile, ovvero la ricchezza reale che accresce o decresce in mano ai fabbri a seguito dell’attività d’impresa. Ma il mercato finanziario è più complesso di così. Vediamo infatti come questa dinamica viene rappresentata da un punto di vista di movimenti di capitale. Quando l’impresa dei fabbri guadagna 100 monete di utile al primo anno, il capitale aziendale diventa di 1.100 monete (1.000 di capitale iniziale più 100 di utile), e ogni azione vale 11 monete (1.100 di capitale diviso 100 azioni). A questo punto, 50 fabbri vendono le loro azioni, e realizzano 1 moneta di guadagno a testa. Questo guadagno avviene in conto capitale, oggi diremmo un capital gain: è la differenza tra il prezzo di acquisto dell’azione, 10 monete, e il prezzo di vendita, 11 monete. 32 Il secondo anno, l’azienda fa altre 100 monete di utile, sicché il capitale è ora di 1.200, e ogni azione vale 12 monete (1.200 di capitale diviso 100 azioni). I 50 fabbri che avevano venduto ricomprano le azioni, ma c’è un problema: ciascuno ha venduto la propria azione per 11 monete, ma adesso ogni azione vale 12 monete. I 50 fabbri devono quindi aggiungere 1 moneta a testa rispetto al prezzo di vendita, per cui il loro guadagno precedente si azzera. Gli altri 50 fabbri che erano rimasti azionisti e che ora rivendono le azioni ai fabbri che avevano venduto, invece, realizzano 1 moneta di plusvalenza rispetto a quanto le avevano comprate. Da un punto di vista di mercato, nel secondo anno l’azienda passa da una capitalizzazione di 1.100 monete a 1.200 monete. Oggi diremmo che «il mercato» ha guadagnato 100 monete, ossia che gli investitori come gruppo hanno guadagnato 100 monete. Questo, però, non è vero, giacché solo 50 fabbri hanno guadagnato 100, mentre gli altri 50 zero. Da ciò cominciamo a trarre alcune importanti conclusioni: - I ritorni sugli investimenti azionari corrispondono agli utili che le aziende sono in grado di generare. - I ritorni degli investitori come gruppo devono essere uguali ai ritorni di mercato. - Maggiori ritorni da parte di alcuni investitori vengono ottenuti a discapito di altri. Un Gioco A Somma Zero Dopo aver guadagnato più dei loro concittadini, i 50 fabbri vincenti si sentono esaltati: perché accontentarsi di quello che possono guadagnare tutti quando si può avere di più? Si chiudono in una stanza e cominciano a pensare a come continuare la loro serie vincente: si aspettano che il prossimo anno l’azienda andrà di nuovo in perdita, per poi conseguire due anni di utile. Di conseguenza, vendono le loro azioni agli altri 50 fabbri. Dopo la perdita del terzo anno, al quarto anno l’azienda vale 1.100 monete. I 50 fabbri vendono le loro azioni a 11 monete l’una. Durante l’anno l’azienda non va in perdita, ma consegue un utile di 100: come prima, i 50 fabbri che restano 33 investiti guadagnano 2 monete ciascuno, mentre gli altri zero. Quando i 50 fabbri ricomprano le loro azioni, l’azienda vale 1.200 monete e i fabbri devono sborsare 12 monete per azione. Nei due anni che seguono, l’azienda consegue un anno di utile per 100 monete e uno di perdita per altrettante, sicché alla fine del sesto anno l’azienda vale sempre 1.200 monete e ogni azione 12 monete. Vediamo la dinamica in questi 6 anni per i due gruppi: chiamiamo i fabbri che hanno venduto e ricomprato nei primi 3 anni Gruppo 1, mentre gli ultimi descritti nell’ultimo paragrafo Gruppo 2. Riportiamo i guadagni che ogni gruppo ha portato a casa in ogni anno e li compariamo con quello che hanno portato a casa gli investitori come gruppo, cioè i fabbri nel loro insieme. Dividiamo i ritorni in due periodi per poi prendere il totale. Anno 1 2 3 Primi 3 anni 100 100 -100 100 Gruppo 1 50 0 -50 0 Gruppo 2 50 100 -50 100 100 100 -100 100 Utile aziendale Investitori come gruppo Risultato: il Gruppo 2 ottiene i ritorni a discapito del Gruppo 1. Anno 1 2 3 Ultimi 3 anni 100 100 -100 100 Gruppo 1 50 50 -50 50 Gruppo 2 0 50 -50 0 50 100 -100 50 Utile aziendale Investitori come gruppo Risultato: il Gruppo 1 ottiene i ritorni a discapito del Gruppo 2. Ora vediamo tutta la dinamica nei 6 anni considerati. Anno 1 2 3 4 5 100 100 -100 100 100 -100 200 Gruppo 1 50 0 -50 100 50 -50 100 Gruppo 2 50 100 -50 0 50 -50 100 100 100 -100 100 100 -100 200 Utile aziendale Investitori come gruppo 6 Totale 6 anni 34 Risultato: nel lungo termine i ritorni superiori dei due gruppi di investitori si annullano e ogni gruppo ottiene i ritorni di mercato. Il motivo è molto semplice: come sono calcolati i ritorni di mercato, ovvero degli investitori come gruppo? È una media ponderata. Per l’anno 1 sarà: 100 x (50/100) + 100 x (50/100) = 100 Il che vuol dire che per raggiungere ritorni superiori al mercato un investitore dovrà ottenere ritorni superiori alla media. Può sembrare apparentemente semplice, ma pensaci bene: quante probabilità ci sono di fare meglio della media? Per un dato anno, 50% (la mia maestra delle elementari diceva: se non è zuppa, è pan bagnato). Ma su due anni? La statistica ci dice che la probabilità scende al 25% (50% x 50%). Su 4 anni? 12,5%. E così via. Nel lungo termine, fare meglio della media è un’impresa titanica. La ricerca di ritorni superiori a quelli ottenibili semplicemente investendo nel mercato è un gioco a somma zero: - I ritorni degli investitori come gruppo devono essere uguali ai ritorni di mercato; - Qualsiasi maggiore ritorno che un gruppo di investitori ottiene avviene a discapito di un altro gruppo di investitori, che invece ottengono un ritorno inferiore; - La probabilità di battere la media di mercato diventa tanto più bassa quanto più lungo è l’orizzonte temporale dell’investitore: nel lungo periodo, le probabilità di fare meglio della media sono risibili. Un Gioco A Perdere Se pensi che il mercato finanziario sia così generoso, ti sbagli di grosso. Infatti, esiste un altro soggetto che vuole partecipare ai ritorni di mercato, e vi partecipa in un modo alquanto bizzarro, ossia senza investire né rischiare il proprio capitale. Tali soggetti sono, naturalmente, gli intermediari finanziari. 35 Vedendo che i fabbri hanno preso gusto a giocare un gioco a somma zero, il fabbro banchiere pensa di guadagnarci: ogni volta che un gruppo di fabbri esegue una transazione, il fabbro banchiere fa pagare una commissione di 10 monete. Quali sono ora i ritorni degli investitori? Anno 1 2 3 4 5 100 100 -100 100 100 -100 200 0 10 10 10 10 0 40 Gruppo 1 50 -10 -60 100 50 -50 80 Gruppo 2 50 100 -50 -10 40 -50 80 Investitori come gruppo 100 90 -110 90 90 -100 160 Ritorni di mercato 100 100 -100 100 100 -100 200 Utile aziendale Commissioni 6 Totale 6 anni Risultato: le commissioni del sistema finanziario riducono i guadagni per tutti gli investitori di tale importo. Quando consideriamo gli investitori come gruppo, questi falliscono non solo di ottenere ritorni superiori, ma addirittura di ottenere i ritorni del mercato, ossia gli utili generati dalle aziende che possiedono. Un gioco che prima era a somma zero si trasforma in un gioco a perdere per tutti gli investitori. Il Modo Vincente Di Investire Supponiamo che tra i 100 fabbri investitori vi sia un terzo gruppo, che non è interessato alle strategie finanziarie, ma è contento di tenere le sue azioni e restare investito nell’azienda. Questo gruppo, che chiamiamo Gruppo 3, non effettua nessuna transazione. Per semplicità di calcolo, supponiamo che i tre gruppi di fabbriinvestitori contengano lo stesso numero di individui (1/3 ciascuno) e che l’utile aziendale sia di 150 monete invece che di 100, altrimenti vengono fuori numeri orribili (che economista sarei se non usassi anch’io un po’ di contabilità creativa?). Dopo 6 anni, questi sono i ritorni dei 3 gruppi di investitori: 36 Anno 1 2 3 4 5 150 150 -150 150 150 -150 300 0 10 10 10 10 0 40 Gruppo 1 50 -10 -60 50 100 -50 80 Gruppo 2 50 100 -50 50 -10 -60 80 Gruppo 3 50 50 -50 50 50 -50 100 Investitori come gruppo (pro quota) 50 47 -53 50 47 -53 87 Ritorni di mercato (pro quota) 50 50 -50 50 50 -50 100 Utile aziendale Commissioni 6 Totale 6 anni Restando investiti per l’intero periodo, gli investitori del terzo gruppo raggiungono due importanti risultati: 1) Ottengono per ogni anno il rendimento medio di mercato; 2) Non incorrono in nessuna commissione. Di conseguenza, gli investitori del Gruppo 3 sono gli unici che riescono a ottenere gli stessi ritorni del mercato, o meglio che riescono a percepire la totalità degli utili prodotti dalla loro azienda. Così facendo, gli investitori del Gruppo 3 ottengono il miglior rendimento effettivo fra tutti gli investitori. Da notare che questo si verifica anche nel caso in cui un gruppo di investitori, diciamo il Gruppo 1, ottenga risultati superiori. Siccome il Gruppo 1 ottiene i risultati a discapito del Gruppo 2, i ritorni degli investitori come gruppo, al netto delle commissioni, saranno sempre inferiori ai ritorni di mercato. Pertanto, la strategia del Gruppo 3 garantisce di ottenere ritorni sempre superiori alla maggioranza degli investitori, se questi incorrono in costi (sotto forma di commissioni) nella ricerca di rendimenti superiori alla media di mercato. Il modo vincente di investire in azioni (e allo stesso modo in obbligazioni) è quella di: - Essere investiti nella totalità del mercato, ovvero essere ampiamente diversificati; - Restare investiti per il maggior tempo possibile; - Minimizzare i costi. Il Santo Graal Dell’Investitore: Il Fondo Indicizzato Fintanto che sul mercato dei fabbri c’è una sola azienda, non è certo difficile rimanere investiti: quando l’economia del paesino va bene, l’azienda produce utili, mentre va male quando l’economia annaspa. 37 In altri termini, non esiste un vero e proprio rischio d’impresa, ovvero che un evento specifico possa affondare la propria azienda indipendentemente dall’andamento dell’economia. A un certo punto, i fabbri non sono più d’accordo sul modo di condurre l’impresa e decidono perciò di scioglierla. Si dividono in 10 gruppi di soci e creano 10 aziende più piccole. Per far in modo che un gruppo possa partecipare nell’azienda dell’altro e viceversa, i fabbri creano un mercato dei capitali simile a una borsa valori, chiamiamola la borsa dei fabbri. Ogni impresa ha un capitale iniziale di 100 monete. Quello che succede però, è che le imprese non sono tutte produttive allo stesso modo: c’è chi ha un ritorno sul capitale del 15%, chi solo del 5%. Quando le imprese sono quotate sulla borsa dei fabbri, questi allocano il capitale per rispecchiare questa produttività. In termini finanziari, i fabbri allocano più capitale all’impresa capace di ottenere il maggior ritorno sul capitale: questi ritorni determinano la capacità dell’impresa di generare cassa in futuro, e quindi di aumentare il proprio valore. Se l’impresa con capitale 100 ha un ritorno del 15% l’anno, quanto sono disposto a pagarla oggi? 100 di valore attuale + 15 di utile a un anno: 115. Quanto invece per l’impresa che ha un ritorno solo del 5%? 105.15 Se il mercato dei fabbri riesce ad allocare le risorse senza impedimenti, ogni azienda rispecchierà il suo vero valore e il mercato si dirà efficiente. Il mercato dei fabbri si presenta così (la colonna Azienda contiene le 10 aziende create dai fabbri, la colonna Ritorno la capacità delle aziende di produrre utile, e Capitalizzazione il prezzo che i fabbri danno alle aziende): Azienda Ritorno Capitalizzazione Spada 15% 115 Scudo 13% 113 Pugnale 12% 112 Tenaglia 12% 112 Bardatura 10% 110 Cotta di Maglia 10% 110 Incudine 8% 108 Martello 8% 108 Ferro 7% 107 Lancia 5% 105 15 Nella realtà il mercato finanziario proietta i ritorni futuri di molti anni avanti; le continue fluttuazioni sui mercati sono il risultato di continue modifiche delle aspettative degli operatori dei ritorni futuri delle aziende. 38 Il risultato delle transazioni di mercato dei fabbri determina ciò che chiamiamo capitalizzazione, ossia il prezzo che il mercato dà alle aziende quotate. Più il mercato è efficiente, più la capitalizzazione rispecchierà il vero valore dell’azienda. Dando un prezzo diverso a ciascuna azienda i fabbri hanno creato un indice di mercato. L’indice non è altro che un paniere di aziende ordinate e pesate in base alla loro capitalizzazione di mercato. Ti ricordi dei fabbri che erano rimasti sempre investiti nell’azienda precedente la divisione? Ebbene, quei fabbri hanno un’idea: fondano una società di investimento,16 di cui tutti loro sono azionisti, la quale acquista delle partecipazioni in tutte le 10 nuove aziende. In questo modo, i fabbri possono continuare a essere investiti nell’intero mercato ed ottenere i ritorni che questo genera. I fabbri hanno creato un moderno fondo indicizzato. Da notare che il fondo indicizzato dei 20 fabbri non muove mai le sue partecipazioni, giacché è il mercato che determina l’indice. Il fondo unicamente rispecchia questi valori, e nel farlo ottiene ritorni medi. Prendiamo l’azienda Spada, la più capitalizzata. Come si determina questa capitalizzazione? All’inizio Spada è valutata 100 come le altre società. Visti i buoni ritorni attesi, un fabbro la compra dai proprietari iniziali a 120. Convinto di averla pagata un po’ troppo, la rivende a un altro fabbro per 115. Qual è il ritorno del fondo indicizzato? 15%. Qual è il ritorno degli operatori di mercato? Proprietari iniziali Primo fabbro Secondo fabbro Ritorno complessivo 20 -5 0 15 Dato che il capitale iniziale di Spada era 100, in termini percentuali il ritorno complessivo è del 15% (15/100). Applicando la medesima metodologia a tutte e 10 le aziende sul mercato, otteniamo un ritorno medio del 10%, che sarà il ritorno ottenibile dai fabbri che partecipano nel fondo indicizzato. 16 Una società di investimento è una società il cui unico scopo è quello di investire in altre società. Al posto di uffici, macchinari, e un’attività operativa, la società di investimento ha solo partecipazioni (quote o azioni) di altre società. 39 A questo punto scommetto che ti è sorta una domanda: ma se io so che l’azienda Spada genera ritorni del 15%, perché mai dovrei diversificare andando a prendere l’intero mercato, che include aziende che guadagnano molto di meno? Questa non è una domanda, ma la domanda del mondo degli investimenti, e ti risponderò dividendo le argomentazioni in due parti: una economica e una psicologica. Dal punto di vista economico-finanziario, il punto è che i ritorni sul capitale non sono scritti nella roccia: se un’azienda ha alti ritorni sul capitale, ossia guadagna tanto, inizierà ad avere aziende concorrenti che cominciano a girare intorno al suo bellissimo business, cercando di portarne via una fetta. Questa dinamica basata sulla competizione è alla base di un sistema capitalistico ben funzionante. Cosa significa? Che te la devi aspettare. Un’azienda con alti ritorni sul capitale dovrà cercare continuamente di allontanare la concorrenza, pena la riduzione dei suoi ritorni, o peggio, il suo annientamento da parte di un concorrente: questo è, in sintesi, il rischio d’impresa. Bada bene che il mercato è brutale su questo: se al secondo anno di quotazione Spada genera ritorni del 5%, il mercato rialloca immediatamente le risorse riducendone la capitalizzazione da 115 a 105. Il fabbro che aveva comprato a 115 si ritrova dunque in perdita. Il secondo motivo è psicologico, e dipende da che tipo di investitore sei. Graham, il finanziere americano di cui abbiamo parlato in precedenza, divideva gli investitori in difensivi e intraprendenti. Se sei un investitore difensivo, starai più attento a non incorrere in perdite. Se sei un investitore intraprendente, avrai come obiettivo raggiungere ritorni superiori anche a rischio di incappare in perdite maggiori. L’investitore intraprendente cercherà aziende con alti ritorni sul capitale che abbiano la capacità di tener lontana la concorrenza per lungo termine: in gergo, aziende con un forte vantaggio competitivo. D’altro canto, l’investitore difensivo dovrebbe, a mio avviso, essere più incline a un investimento che gli consenta di ottenere ritorni medi limitando il rischio d’impresa: questo è, alla fin fine, ciò che si ottiene con un fondo indicizzato. Se sei un investitore difensivo o intraprendente devi saperlo te. Diventare investitore intraprendente non è impossibile, ma non è neanche semplice: devi saper leggere un 40 bilancio, conoscere molto bene il business e saper fare delle stime sul suo futuro, saper valutare un management aziendale e saper attribuire un valore all’azienda stessa. Inoltre, come ho scritto sopra, le probabilità di battere la media sono poche: più diversifichi il tuo portafoglio, e più sarà difficile ottenere ritorni superiori al mercato. Per fare meglio, dovrai andare a prendere gli outlier,17 ossia quei titoli che hanno dei ritorni molto superiori al mercato. Oltre al fatto che sapere chi sarà un outlier in anticipo non è per niente facile, così facendo inevitabilmente aumenti il rischio d’impresa nel tuo portafoglio (nota bene: un outlier può anche esistere al ribasso, ossia chi fa molto peggio del mercato). Tuttavia, possono esistere dei buoni motivi per cui può essere sensato anche per l’investitore difensivo avere titoli singoli: questo nel caso in cui l’investitore si interessi del business, conosca molto bene l’azienda che sta comprando e intenda tenerla per il lungo termine. In ogni caso, consiglio all’investitore difensivo di non eccedere il 10-15% del suo capitale investito in titoli singoli. Principali Indici Se hai già dato un’occhiata ai fondi in circolazione, avrai notato che esiste una quantità enorme di indici. Alcuni raggruppano le aziende per settore, altri per caratteristiche come crescita o valore, altri ancora sulla base del dividendo che viene distribuito, e così via. Vi sono poi indici per praticamente ogni paese del mondo. A mio avviso, l’investitore difensivo dovrebbe attenersi a indici con due caratteristiche: 1) Che rappresentino il più possibile un intero mercato, e non segmenti di esso; 2) Che ponderino le aziende sulla base della capitalizzazione di mercato. In questo modo, l’investitore dovrebbe assicurarsi di ottenere un risultato medio. Qualsiasi deviazione da questa formula, per quanto sensata possa essere (come, ad esempio, un indice che rappresenta aziende con un ottimo record di pagamento di dividendi), espone l’investitore al rischio di non ottenere ritorni medi. Prendiamo il caso dell’America, culla del capitalismo moderno. Il primo indice americano è stato il Dow Jones Industrial Average, ancora oggi ampiamente utilizzato anche se molto meno di un tempo. Il DJIA contiene un paniere di 30 titoli (i cosiddetti 30 tiranni del Dow), generalmente 17 Un outlier è un punto in una distribuzione statistica che si scosta significativamente dalla media. Se, per esempio, gli italiani sono alti in media 175 cm, una persona alta 2 metri è un outlier. 41 le aziende più capitalizzate d’America, pesate non sulla base della capitalizzazione ma sulla base del prezzo dell’azione singola. L’indice americano più famoso è però lo Standard & Poor’s 500, che probabilmente avrai già sentito nominare come S&P 500. Questo indice, divenuto in voga negli anni ’50 (quando conteneva solo 100 titoli) rappresenta le 500 aziende americane quotate più capitalizzate ordinate per capitalizzazione. Inoltre, S&P richiede certe caratteristiche perché le aziende siano ammesse all’indice, tra cui la provata profittabilità. Nonostante il suo largo utilizzo, l’S&P 500 rappresenta circa il 75%80% dell’intero mercato delle aziende americane quotate. Un indice che racchiude la quasi totalità del mercato americano è invece il Wilshire 5000, che contiene la quasi totalità delle aziende americane quotate più capitalizzate e ordinate per capitalizzazione (circa 3.500). Cosa scegliere? Il DJIA, con il suo paniere limitato e lo strano modo di ponderare le aziende, non è una scelta ottimale. La scelta tra l’S&P 500 e il Wilshire 5000 è discutibile. Per alcuni, il Wilshire è la scelta giusta perché rappresenta meglio la media di mercato. Secondo altri, l’S&P genera di fatto gli stessi ritorni ma con meno rischio per via del fatto che si concentra su aziende più grandi, e quindi più solide, e per via dei paletti all’ingresso che limitano azioni speculative. Nonostante le ottime ragioni di entrambi, mi sento di parteggiare di più con l’S&P.18 Inoltre, è molto più facile trovare fondi in Europa che replichino l’S&P 500 che non il Wilshire. In Europa, vi sono degli indici nazionali e continentali. Quelli nazionali più importanti sono: - Italia: FTSE MIB Germania: DAX 30 Francia: CAC 40 Svizzera: SMI Olanda: AEX Spagna: IBEX 35 Regno Unito: FTSE 100 18 Con le parole di Ben Graham (traduzione mia) «l’investitore difensivo deve limitarsi alle azioni di società importanti con un’attività da lungo tempo profittevole e in ottime condizioni finanziarie», The Intelligent Investor, p 28. 42 A livello continentale, i più usati sono lo Stoxx Europe 600 per tutta l’Europa e l’Euro Stoxx che invece si concentra sull’Eurozona.19 Spostandoci verso l’Asia, gli indici più importanti sono: - Nikkei 225: storico indice giapponese, da prendere con le pinze perché costruito come il DJIA; - FTSE Japan: indice che racchiude le 400 aziende più capitalizzate del Giappone ordinate per capitalizzazione; - MSCI China: indice che racchiude le aziende cinesi a cui gli investitori internazionali hanno accesso. Esiste poi un altro famoso indice, il MSCI Emerging Markets, che racchiude la maggior parte dei cosiddetti mercati emergenti. Essendo la Cina ancora inclusa nell’indice e rappresentandone la quota maggioritaria, è un buon modo per investire nell’ex Impero Celeste indirettamente. Esistono poi altri indici, come MSCI ACWI (All Country World Index) o il FTSE All-World, che contengono un paniere di titoli rappresentativo delle principali aziende quotate nel mondo intero. In tutta questa confusione, ricordati la prima lezione: difendi il tuo potere d’acquisto. 19 Spesso la stampa italiana confonde questi due indici, tirando fuori un Euro Stoxx 600 che non esiste. 43 CAPITOLO 4: GUIDA AGLI ETF Nei primi 3 capitoli di questo scritto abbiamo visto: 1) Che investire significa difendere il proprio potere d’acquisto; 2) Che per investire acquistiamo degli asset che hanno caratteristiche molto diverse fra loro; 3) Che l’economia si muove all’interno di cicli con dinamiche opposte; 4) Che possiamo combinare i diversi asset in modo da poter affrontare ogni ciclo economico; 5) Che il miglior modo di investire in una asset class è tramite un fondo indicizzato. Ora, devi sapere che, a differenza degli uomini, i fondi indicizzati non sono creati uguali. E siccome il diavolo sta nei dettagli, in questo capitolo vedremo cosa guardare quando si va effettivamente ad acquistare un fondo indicizzato. Che Cos’È Un Fondo D’Investimento Il fondo d’investimento è una bestia strana. Da un alto, la parola è ancora avvolta da un’aura di importanza da mondo degli affari, dall’altro però spesso i fondi d’investimento sono presentati come astrusi prodotti finanziari che l’investitore compra, generalmente dietro consiglio di qualche consulente, senza avere la più pallida idea di cosa sia. Un fondo d’investimento non è altro che una società di capitali con l’unica funzione di acquistare e detenere strumenti finanziari, ossia le varie asset class di cui abbiamo parlato prima. Un fondo azionario sarà una società che detiene partecipazioni in società quotate. Un fondo obbligazionario deterrà obbligazioni. Ritorniamo ancora una volta al paesino dei fabbri, e supponiamo che 10 fabbri vogliano lanciare un fondo d’investimento. Due domande fondamentali sono: 1) Una volta lanciato il fondo, vogliamo che altri fabbri possano aggiungersi in qualsiasi momento? 2) Vogliamo dare la possibilità ai fabbri azionisti del fondo di uscire in qualsiasi momento? Se i fabbri strutturano il fondo in modo che altri fabbri possano aggiungersi e quelli in essere possano uscire, il fondo sarà un fondo aperto, ossia a capitale variabile. Quando un fabbro vuole entrare, il fondo crea nuove quote (aumenta il capitale) che vengono sottoscritte dal nuovo investitore, e il nuovo capitale apportato viene subito investito. 44 Quando un fabbro vuole lasciare, il fondo vende dei titoli in cui è investito, rimborsa i soldi all’investitore e cancella le quote (riduce il capitale). Se invece i 10 fabbri non vogliono altri investitori, il fondo si dirà chiuso, e cioè a capitale fisso: non vi è alcuna possibilità di emettere nuove quote né di redimere quelle in essere. Il fondo chiuso ha il vantaggio che, siccome nessuno può redimere le quote, il fondo può essere investito a lungo termine, cosa fondamentale se si vuole investire in asset illiquidi come gli immobili. Lo svantaggio è che per uscire dal fondo, l’investitore deve necessariamente vendere la propria quota. Vendere e redimere la quota è molto diverso. Quando redime la sua quota, l’investitore riceve esattamente il valore in denaro degli asset del fondo che corrispondono alla sua quota. Supponiamo che i 10 fabbri abbiano il 10% ciascuno di un fondo aperto che possiede azioni per il valore di 100 monete. Il patrimonio del fondo si chiama in gergo NAV (Net Asset Value = Valore dell’Attivo Netto). Se un fabbro decide di uscire, riceverà la sua quota del NAV: 10 monete. Se il fondo è chiuso, il fabbro non può redimere la sua quota, ma può solo venderla. E nel farlo, non è detto che riceva un valore pari alla sua quota di NAV: a seconda degli umori di mercato, può ricevere di più (un premio) o di meno (uno sconto). Il punto ovviamente è che un fondo chiuso è più rischioso di un fondo aperto, perché oltre al rischio della variazione del valore degli asset del fondo c’è anche quella della variazione del valore della quota. In sostanza, è meglio considerare il valore di un fondo chiuso come una società a parte, e non sulla base del suo NAV. Massima Attenzione Ai Costi Come tutte le società, anche un fondo d’investimento ha dei costi: - Costi di amministrazione: sono i costi relativi all’amministrazione del fondo, come tenere la contabilità, aggiornare il registro azionisti, pagare le tasse, ecc. Questi costi sono relativamente bassi, nell’ordine dello 0,01%0,1%. Alcuni fondi esplicitano questi costi nella pagina informativa online del fondo. - Costi di gestione: è il costo che il gestore del fondo chiede per l’attuazione della strategia di investimento. In questo scritto si è parlato del fondo indicizzato, cioè un fondo passivo, il cui gestore deve unicamente assicurarsi di attenere il fondo all’indice sottostante. Tuttavia, un fondo può essere anche attivamente gestito, dove le scelte 45 di investimento vengono prese da un gestore senza seguire alcun indice, ma secondo scelte proprie. Se i costi di gestione di un fondo passivo restano nel range di 0,01%-0,5%, nel caso di un fondo attivo possono essere molto più elevati, in un range di 1%-3% del valore del fondo. Costi di distribuzione: sono i costi di compravendita del fondo. Se il fondo è aperto, di solito si applica una commissione di ingresso che può essere molto salata, generalmente tra il 2% e il 5%. Questa commissione è giustificata dal fatto che il fondo deve creare delle quote ex novo per il nuovo investitore, che comporta dei costi. Nel caso di fondi chiusi, non esiste alcuna commissione da parte del fondo, ma, siccome la transazione avviene in borsa, il costo è dato dall’entità della commissione applicata dal broker per l’acquisto del titolo. Nonostante alcuni broker applichino ancora commissioni spropositate, nell’ottica dell’1% della transazione, molti broker oggi applicano una commissione fissa o quasifissa (in percentuale ma con un limite di minimo e di massimo), nel range di 2 – 25 euro per transazione. Non c’è bisogno che ti dica che la mossa vincente è quella di minimizzare i costi. Ricordi quello che abbiamo visto nel capitolo precedente? Gli investitori come gruppo devono ottenere i ritorni di mercato: maggiori guadagni per uno sono minori guadagni per l’altro. È un gioco a somma zero. Quando consideriamo anche i costi del sistema finanziario, gli investitori guadagnano meno del mercato, perché parte dei loro ritorni va agli intermediari: è un gioco a perdere. Il sistema finanziario non mette un euro di suo, eppure è l’unico che guadagna sempre. Come fa? Perché prende le commissioni direttamente dai tuoi fondi. Pensaci bene: 10.000 euro investiti oggi al 7% medio annuo, che non è una cifra irragionevole per il mercato azionario, diventano 19.672 euro dopo 10 anni. Se sostieni costi medi annui per lo 0,1%, il tuo bottino finale diventa 19.488 euro, e i costi totali sono 183 euro. Se invece i costi sono dell’1% annuo, il totale dopo dieci anni si riduce a 17.908 euro, quasi il 9% in meno, per costi totali di 1.763 euro (che equivalgono al 17,63% del capitale iniziale di 10.000 euro!). Perciò, visto che i costi vengono sostenuti direttamente dai tuoi fondi e impattano negativamente i ritorni nel lungo termine, devi sempre cercare di tenerli bassi. Fondi Indicizzati Ed ETF Finalmente cominciamo a parlare di ETF! 46 Avrai sicuramente sentito parlare di questi fondi, e probabilmente hai anche cominciato a investirci qualcosa. ETF è acronimo di Exchange Traded Fund, tradotto sarebbe qualcosa come «fondo scambiato in borsa». E fin qua niente di nuovo: anche i fondi chiusi possono essere scambiati in borsa. La grossa novità è che l’ETF non è un fondo chiuso, bensì aperto. Attraverso un meccanismo che vede coinvolti più operatori di mercato,20 l’ETF è un fondo aperto che può essere acquistato o venduto in borsa. Questa forma ibrida dell’ETF ha due principali vantaggi: - - Essendo un fondo aperto, l’investitore che compra o vende un ETF non deve preoccuparsi di premi o sconti come in un fondo chiuso, dato che il prezzo dell’ETF riflette il suo NAV; Potendo essere scambiato in borsa come un fondo chiuso, l’investitore non incorre mai in commissioni di entrata, ma paga solo la commissione al suo broker. Gli ETF hanno anche dei vantaggi fiscali perché il fondo non deve smobilizzare i suoi investimenti, realizzando così un capital gain, quando un investitore decide di vendere la sua quota. Un vantaggio che secondo me non è proprio un vantaggio è quello di realizzare liquidità immediata: quando si vende la quota di un fondo non quotato, il processo di smobilizzo investimenti, cancellazione quote e rimborso può richiedere alcuni giorni. Nel caso dell’ETF, l’investitore vende in borsa e liquida così la sua quota immediatamente. Perché secondo me non è un vantaggio? Perché per l’investitore di lungo termine poco importa di liquidare in un secondo o in due giorni. Se la liquidità dell’ETF è vista come comodità, allora è un vantaggio. Se però è vista come la possibilità di poter uscire dall’ETF in qualsiasi momento, per esempio quando c’è un crollo di mercato, allora non è un vantaggio per niente. Infatti: - Come ho scritto in precedenza, market-timing, trading, e altre strategie volte a battere il mercato sono difficili da fare e molto spesso perdenti viste le probabilità avverse; - Comprando e vendendo in continuazione si pagano le commissioni: il banco vince sempre, mentre l’investitore è sicuro di stare guadagnando meno di quello che potrebbe ottenere semplicemente restando fermo; 20 Alcuni operatori finanziari, detti partecipanti autorizzati, intervengono quando il NAV dell’ETF si distanzia dal suo prezzo (per ETF molto liquidi parliamo di uno 0,0X%): avendo la possibilità di sottoscrivere o redimere quote come in un fondo aperto, i partecipanti autorizzati sfruttano l’arbitraggio e mantengono in equilibrio NAV e prezzo dell’ETF. 47 Andando a scambiare ETF in periodi di alta volatilità di mercato si rischia che il meccanismo di stabilizzazione dell’ETF non funzioni più così bene e l’ETF acquisti le caratteristiche di un fondo chiuso: se vendi assieme alla folla durante un crollo di mercato è probabile che tu stia vendendo il tuo ETF a sconto, ossia a un prezzo addirittura più basso del suo NAV (figurati che bello quando già il mercato sta crollando di suo).21 Insomma, considerare la liquidità dell’ETF come un modo per avere flessibilità a costo zero è, a mio avviso, completamente sbagliato. Da ultimo, devo dire che, alla data in cui scrivo queste parole, in Italia non è possibile acquistare fondi indicizzati non quotati. Perciò, prendiamo i vantaggi degli ETF e cerchiamo di scegliere i migliori, ovvero quelli che più si avvicinano al fondo indicizzato originale.22 Cosa Guardare Quando Si Sceglie Un ETF Così come i loro cugini fondi indicizzati, anche gli ETF non sono creati uguali. Di seguito scrivo un elenco delle cose più importanti da guardare per scegliere un buon ETF. 1) Portafoglio: il portafoglio è l’insieme degli asset in cui investe un fondo. A mio avviso, questa è sempre la prima cosa che bisogna guardare, qualsiasi sia l’investimento che si vuole fare. In questo caso, l’ETF conterrà un paniere di titoli che corrispondono a un indice: se vogliamo raggiungere l’obiettivo di un fondo passivo che ottenga rendimenti di mercato, l’indice deve essere un ampio indice di mercato, pesato per capitalizzazione e senza tanti fronzoli. In sostanza, un indice della tipologia di quelli di cui ho parlato alla fine del capitolo precedente. 2) Dimensioni: questo aspetto è del tutto pragmatico. Quando un gestore lancia un fondo, generalmente avrà degli investitori istituzionali che gli fanno da «startup» e lo portano a una dimensione ottimale per essere scambiato nel mercato. A volte però questo non succede e il fondo resta a vivacchiare con pochi asset.23 Se un fondo non decolla, i problemi per l’investitore sono due: 21 Questo si verifica perché, nella confusione di un crollo di mercato, i partecipanti autorizzati possono non voler intervenire, ad esempio perché il crollo avviene troppo in fretta, perché non riescono a reperire liquidità loro stessi, o perché non riescono a capire bene quale sia il NAV dell’ETF in una situazione di alta volatilità. Ad esempio, qual è il valore di un ETF obbligazionario che contiene obbligazioni ad alto rischio? Se il mercato sta crollando perché si aspetta una crisi profonda, è probabile che il valore attuale di quelle obbligazioni rischiose sia diminuito. Ma di quanto? Nel dubbio, i partecipanti autorizzati non intervengono e l’ETF può incorrere in forti sconti, anche di diversi punti percentuali (cosa inaudita per un fondo aperto). 22 Di fatto, quello che cerchiamo di ottenere è un fondo indicizzato con la forma legale di ETF. 23 Tecnicamente asset under management (AUM). 48 a) Il fondo può essere poco liquido, e perciò si verifica quello di cui ho parlato prima, ossia sconti e premi. Se un fondo ha asset per 5 milioni di euro, e ci investi 100.000 euro, cioè il 2% del fondo, può essere che sposti il prezzo tu da solo, creando un premio, o uno sconto se vai a venderlo. b) Il secondo problema è che un fondo che non decolla non è molto redditizio per il gestore. Quello che può succedere è che il gestore a un certo punto decida di chiuderlo. In pratica, il gestore liquida il fondo e rimborsa agli investitori le quote. Di fatto, il gestore effettua una vendita forzata: se hai comprato la quota a un prezzo più alto di quello che vale al momento del rimborso, si verifica la cosa peggiore che possa succedere quando si investe, il realizzo forzato di una perdita. I gestori seri tendono a non chiudere i fondi anche se non vanno bene, al massimo li fondono in altri loro fondi. Consiglio di investire solo se il fondo ha asset almeno per 500 milioni di euro. Se il gestore è tra i più rispettabili, si può scendere fino a 150 milioni di euro (tuttavia, non lo userei comunque come fondo principale). 3) Gestore: come hai intuito, chi è il gestore del fondo fa una differenza sostanziale. Il punto è così importante che ho dedicato l’intero paragrafo che segue. 4) Costi: anche questo è un punto fondamentale. I costi totali del fondo devono essere indicati, generalmente nella pagina web del fondo, sotto la voce TER, che sta per total expense ratio (si potrebbe tradurre: percentuale totale dei costi). Il TER esprime il totale dei costi di cui ho scritto sopra in percentuale sul totale degli asset del fondo. Un fondo con un TER dell’1% costerà agli azionisti del fondo l’1% dei loro asset ogni anno. Qui la cosa da vedere è una e una sola: il TER deve essere il più basso possibile. 5) Metodologia di investimento: se volessi costruirti da solo un portafoglio che segue l’andamento del mercato delle grandi aziende italiane, il FTSE MIB,24 che cosa faresti? Compreresti a una a una le azioni delle 40 aziende che compongono l’indice, nella quantità che deriva dalla loro capitalizzazione. Questo metodo di costruzione del portafoglio si chiama replica fisica diretta. Per limitare i costi, a volte i gestori usano la replica sintetica, e a campionamento. 24 Benché molto conosciuto, il FTSE MIB non è un gran indice: contenendo solo 40 aziende, segue solo le large cap, cioè le aziende ad alta capitalizzazione, e si lascia indietro tantissime aziende a capitalizzazione più bassa ma con ottime performance; inoltre, è molto concentrato. 49 a) Replica sintetica: il fondo non compra le azioni, ma titoli derivati che corrispondono alle azioni. A mio avviso, la replica sintetica è da evitare perché aggiunge al fondo un elemento di rischio dato dal contratto derivato.25 b) Campionamento: questo succede quando il fondo non contiene tutti i titoli che compongono un indice, ma solo alcuni di essi. Si dice che il fondo è ottimizzato. Se fatto bene, il campionamento non è di per sè un male; come sopra, tuttavia, aggiunge un elemento di rischio e se possibile andrebbe evitato. 6) Prestito titoli: anche se sono chiamati fondi passivi, tanti ETF non stanno con le mani in mano ma fanno delle transazioni chiamate prestito titoli (securities lending). Il gestore presta una parte dei titoli del fondo a terzi in cambio di una commissione. Il prestito titoli è una pratica ambigua, e dipende molto da a chi vanno le commissioni: se queste vanno a beneficio del fondo, e la transazione è eseguita senza incorrere in rischi eccessivi, il prestito titoli può essere anche un bene. Se però i proventi vanno a finire al gestore, non va bene per niente: i rischi sono degli investitori ma i proventi del gestore. Occhi aperti. 7) Politica distributiva: come detto in precedenza, asset monetari e asset produttivi generano reddito, rispettivamente interessi e dividendi. Una volta pagati i costi, dove vanno a finire questi soldi? Un fondo a distribuzione distribuisce i redditi ricevuti dai titoli ai suoi investitori, generalmente ogni 3 o 6 mesi. Un fondo a capitalizzazione invece reinveste tali redditi nei titoli stessi. La scelta tra i due è del tutto personale. Nel caso tu scelga un fondo a distribuzione, dai un’occhiata a come ha distribuito in passato: anche se replicano lo stesso indice e dovrebbero quindi distribuire gli stessi proventi, i fondi possono non distribuire con la stessa costanza (per alcuni ci sono forti variazioni di anno in anno anche se i dividendi sono stati stabili). Se decidi di fare affidamento sulle distribuzioni del fondo, è meglio sceglierne uno che distribuisce in modo più omogeneo. Cosa Guardare Quando Si Sceglie Un Gestore Quando investi in un fondo di investimento, che sia un ETF o di altra tipologia, stai comprando azioni o quote di una società di investimento. Questa società potrebbe benissimo avere il management al suo interno, in gergo essere internamente gestita. Un tempo, tutti i fondi d’investimento erano internamente gestiti. 25 Nella fattispecie, può succedere che la controparte non sia più in grado di onorare il contratto derivato, generalmente uno swap. 50 Poi le cose sono cambiate, e oggi la struttura è la seguente: una società d’investimento, come Blackrock per esempio, apre un fondo d’investimento e lo offre al pubblico. Nonostante il fondo sia poi posseduto dagli investitori, Blackrock, in qualità di sponsor del fondo, ne è anche il gestore. Attenzione qui, perché Blackrock è una società a parte con dei suoi azionisti. La cosa importante per gli investitori del fondo è che le operazioni di Blackrock (commissioni, prestito titoli, metodo d’investimento, ecc.) non confliggano con i propri interessi. In sostanza, ciò che andiamo a guardare è: la rispettabilità del gestore, la bravura del gestore, la presenza di forti conflitti di interesse tra il gestore e gli azionisti del fondo. a) Rispettabilità del gestore: giudicare la rispettabilità di una società di investimento non è diverso dal giudizio che si può esprimere su un’istituzione finanziaria in generale, come una banca o un’assicurazione. Innanzitutto, quanto grande è? Quanti investitori hanno scelto quel gestore come amministratore del loro capitale?26 Da quanto tempo esiste la società? Qual è il suo passato? Come ha trattato gli investitori? È stata coinvolta in scandali? Quanti fondi ha chiuso perché non andavano bene? È trasparente, ovvero riesco a individuare tutti i dati essenziali per giudicare la bontà dei suoi fondi dai documenti messi a disposizione? Come vedi sono tutte domande di buon senso: bisogna fare qualche ricerca, ma non è così difficile trovare le risposte. b) Bravura del gestore: dal nostro punto di vista, ossia di un investitore passivo che investe in ETF come fossero fondi indicizzati non quotati, la bravura del gestore sta nel fatto di costruire e gestire un portafoglio che effettivamente replichi l’indice. È una gran beffa quando spiacevolmente ci accorgiamo che il nostro fondo indicizzato si è perso l’indice. Quello che bisogna vedere è se i fondi di quel gestore seguono bene gli indici sottostanti o se invece capita spesso che incorrano in differenze significative. Puoi vedere questa differenza nella pagina web del fondo alla voce «tracking difference» o «tracking error». Se non è esplicitata, basta vedere la differenza tra i rendimenti del fondo e quelli del benchmark (cioè l’indice che il fondo deve seguire) sotto la voce «performance». c) Conflitti d’interesse: questo sarebbe un capitolo un po’ lungo che cercherò di ridurre a un solo punto fondamentale: chi è il proprietario della società d’investimento. Pensiamoci un attimo: la situazione migliore è quella in cui il fondo è internamente gestito, per cui non c’è nessuna società d’investimento ma il gestore risponde 26 Meglio investire solo con gestori che abbiano almeno qualche centinaio di miliardi di euro di asset in gestione. 51 direttamente agli azionisti del fondo. Siccome questa condizione negli ETF non esiste,27 andiamo per approssimazione, dalla struttura migliore alla peggiore: i. Società cooperativa: è un caso molto raro in cui la società di investimento è posseduta dai fondi d’investimento offerti al pubblico. In questa struttura, l’utile della società d’investimento dovrebbe essere distribuito ai fondi, visto che sono i proprietari. Di conseguenza, la società d’investimento non fa utili ma lavora al costo, garantendo commissioni basse. Inoltre, non avrebbe senso agire contro l’interesse dei suoi stessi proprietari, per cui è difficile che si verifichino conflitti. ii. Società privata: qui il gestore è una società separata, ma non quotata. Generalmente è posseduta dal fondatore o dalla sua famiglia. Pur essendo un soggetto diverso dal fondo, il fatto che sia ancora nelle mani dei fondatori e non sia quotata rende la società più flessibile, nel senso che non deve necessariamente perseguire la massimizzazione del profitto ma può adattarsi a conseguire una profittabilità più bassa pur di servire al meglio gli investitori nei suoi fondi.28 iii. Società quotata: è il caso in cui il gestore è una società quotata in borsa. Qui le cose cambiano perché le società quotate hanno degli azionisti esterni (che potremmo anche essere noi!) che vogliono vedere dei ritorni sul loro capitale investito: si dice che la società ha un costo del capitale. Una società d’investimento quotata deve essere molto brava a mediare gli interessi degli azionisti dei fondi, che vogliono la massimizzazione dei loro ritorni, con gli interessi dei propri azionisti, che vogliono la massimizzazione degli utili, cioè delle commissioni. iv. Conglomerato finanziario quotato: quando il gestore è parte di un gruppo finanziario quotato che fa molte altre cose non è un buon segno. Infatti, c’è un problema di conflitto di interessi non solo a livello di commissioni, ma anche a livello di servizi. Ad esempio, se il gestore è parte di una banca (come molto spesso accade), come può essere neutrale verso aziende a cui il gruppo vende molti altri servizi, come corporate banking, 27 È pressoché inesistente nei fondi di investimento in generale. Può esistere per alcuni fondi chiusi, mentre è molto comune nei fondi immobiliari, in gergo REIT (real estate investment trust) che però esulano dai temi qui trattati. 28 Non c’è motivo di dispiacersi per i proprietari di tale società d’investimento: supponiamo che una società di questo tipo gestisca 100 miliardi di euro su cui applica l’1% di commissioni all’anno. Tolto un 80% tra costi e tasse, l’utile per la famiglia è di 200 milioni di euro. Se, per tenere alto il servizio, la famiglia decide di abbassare le commissioni allo 0,5% annuo, l’utile diventa 100 milioni di euro. A meno che non abbiano un tenore di vita da miliardari russi, non cambia molto. 52 investment banking, ecc.? Come può essere obiettivo nel giudicare l’operato del management aziendale se questo è cliente di altre divisioni del gruppo? E infatti, un altro punto importante è come il gestore di un fondo vota quando si reca all’assemblea degli azionisti ogni anno: contrasta il management aziendale ogni tanto, per esempio se questo si aumenta la paga mentre l’azienda è in perdita? O approva ogni richiesta senza chiedere molto? Ovviamente non mi aspetto che tu vada a vedere come i gestori del fondo votano per ogni azienda, però se ti capita fai caso al fatto che i voti del gestore siano pubblicati sul proprio sito e resi noti agli investitori, anche tramite documenti ufficiali (molti gestori pubblicano un rapporto annuale sulla corporate governance): se così è significa almeno che il gestore è trasparente ed è sensibile a uno dei temi più scottanti del capitalismo moderno.29 29 Il tema a cui faccio riferimento è il cosiddetto problema di agenzia, già noto fin dagli anni ‘30: chi controlla che i manager delle aziende non spendano e spandano i soldi degli azionisti? In teoria, gli azionisti stessi. Ma se questi investono tramite i fondi, questo compito è lasciato ai gestori del fondo. Lo sottolineo perché non è scontato che i manager dell’azienda facciano sempre gli interessi degli azionisti: stipendi esagerati, benefit senza senso, bonus che deprivano gli azionisti dei loro ritorni erano all’ordine del giorno alla fine degli anni ’90, e potrebbero tornare se i gestori dei fondi non vigilano attentamente sul capitale degli investitori. 53 CAPITOLO 5: COSA PUO’ ANDARE STORTO: GLI ERRORI DA NON FARE Fino al capitolo precedente, abbiamo parlato di come si costruisce un portafoglio solido. Se il tutto ti sembra facile, oserei quasi di buon senso, vuol dire che ho compiuto la mia missione. Utilizzando questo metodo d’investimento, anche senza strafare e senza farsi venire male al fegato, è possibile ottenere ottimi ritorni dal mercato finanziario. Non so se te lo stai chiedendo anche tu, ma per quanto mi riguarda, quando ho capito che esisteva un modo così semplice di investire, mi è venuta spontanea una domanda: ma perché allora la gente non lo usa? Forse perché viviamo in un mondo frenetico dove appare facile ciò che invece non lo è, e un po’ perché forse è naturale cercare di essere i primi, anche a costo di voler imparare a correre prima di saper camminare. Fatto sta, che la maggior parte degli investitori commette un sacco di errori quando comincia a investire. Il mercato finanziario è considerato o una prerogativa dei potenti, di coloro «che sanno», o una specie di gioco d’azzardo, tant’è che si usa ancora l’orrendo detto «giocare in borsa». Vi sono numerosi modi in cui si può venire impoveriti, anziché arricchiti, dal sistema finanziario, ma tutti sono pressoché raggruppabili in tre situazioni: la vendita forzata, il deterioramento dell’investimento, e il mancato guadagno. Vendita forzata Nel gergo odierno, si parla di «perdita» ogni qual volta il prezzo dell’investimento scende sotto il suo valore iniziale. C’è chi «controlla» una volta l’anno, chi ogni trimestre, chi addirittura ogni giorno. Se il tuo investimento passa da 100 a 50 nei primi sei mesi, e poi a 150 dopo un anno, hai veramente perso o guadagnato qualcosa? La risposta per un investitore è no, giacché l’investimento si effettua per il lungo termine. Si realizza una perdita (o un guadagno) solo nel momento in cui si smobilizza l’investimento, ossia si vende il titolo. La cosa più terribile che ti può succedere è che tu sia forzato a vendere il tuo investimento. Così facendo realizzi la perdita, ossia trasformi il titolo in contante, e a quel punto la perdita di potere d’acquisto diventa permanente. 54 Immagino che a questo punto ti chiederai: ma perché mai dovrei essere forzato a vendere il mio investimento? La risposta è che, anche senza accorgersene, a volte gli investitori si ritrovano loro malgrado in una di queste situazioni, assolutamente da evitare. 1) Acquisto di titoli a margine Questa è la situazione con cui ho cominciato questo scritto, quando il mio denaro investito è evaporato senza che neanche me ne accorgessi. Il problema dell’acquisto a margine, anche detto a leva, è che si comprano titoli con denaro altrui: metto 1.000 euro, ne prendo a prestito altri 9.000 della banca e investo un totale di 10.000 euro. Se il titolo sale del 5%, il mio ritorno è di 500 euro, cioè 50% sul mio capitale. Fantastico. Così facendo però si è in balia dei colpi di testa di breve termine che spesso accadono nei mercati finanziari. E attenzione, perché gli scossoni non succedono solo quando capita una crisi o un evento sfortunato (come una frode, una causa, o un disastro ambientale), ma possono avvenire anche in periodi di quiete e anche se nulla di così terribile accade all’azienda. Semplicemente il mercato reagisce male. Prendiamo un esempio recente, e cioè il tonfo in borsa di SAP, la prima azienda tedesca per capitalizzazione, avvenuto a fine ottobre 2020. SAP ha presentato dei conti non belli e il mercato ha reagito così: -20% in un giorno.30 Che cosa succede all’investitore che ha investito 1.000 euro a leva per un totale di 10.000? Come vedi il tonfo avviene in modo rapidissimo (praticamente alle 9:00 di mattina). L’ammontare dell’investimento passa quindi da 10.000 euro a 8.000. 30 Fonte: Yahoo Finance. 55 1. Ma per la banca non va bene questo, giacché essa deve essere sempre in grado di rientrare dal prestito in qualsiasi momento: mica si prende il rischio di un investimento tuo! Quello che fa è vendere di corsa i titoli, facendo assorbire al tuo capitale la perdita. In questo caso, avendo un margine del 10% (1.000 su 10.000), l’investitore perde sicuramente il suo denaro. Ma può succedere di peggio: se la banca non riesce a vendere immediatamente e la perdita raggiunge il 20%, come in questo caso, anche il capitale della banca viene eroso, e ovviamente questa si rifà sull’investitore, il quale deve mettere altri 1.000 euro di tasca propria. Insomma, con questo scherzo l’investitore ha perso il 200% di quello che ha messo. 2) Investire denaro di cui si ha bisogno Investire a margine è altamente rischioso, ma non è l’unico modo per subire una vendita forzata. Un altro caso è quando si investono soldi che servono a breve termine. Per esempio, l’investitore può aver bisogno di quei 1.000 euro che ha investito, che ora sono diventati di colpo 800. Anche in questo caso, l’investitore deve vendere realizzando una perdita. Meno di prima, perché «solo» del 20%, ma pur sempre una riduzione permanente del suo potere d’acquisto. 3) Acquisizione da parte di azienda terza o chiusura del fondo d’investimento C’è un altro caso in cui può avvenire una vendita forzata, e questo però riguarda tutti gli investitori. È il caso in cui un’azienda terza acquisisce la società pagandola in denaro, in gergo uno «squeeze-out»: invece di offrire agli azionisti della società acquisita azioni dell’acquirente, quest’ultima paga in denaro e si sbarazza, appunto «spreme fuori», i vecchi azionisti. Questi si ritrovano, ancora una volta, con i loro titoli trasformati in denaro contante, e con qualsiasi guadagno o perdita forzatamente realizzati. Questo avviene se chi compra ha abbastanza liquidità da effettuare un acquisto in denaro invece che scambiare azioni, e se il prezzo della società acquisita è abbastanza basso da giustificarlo. Questa spada di Damocle è il motivo per cui le società con capitalizzazione bassa 56 sono più rischiose di quelle con capitalizzazione alta, perché è più facile comprare una società da un miliardo di euro che non una da cinquanta miliardi. Un ultimo caso di vendita forzata può succedere se il fondo tramite cui hai investito decide di chiudere i battenti. Il fondo liquida i titoli e restituisce agli investitori il denaro. Se questo avviene mentre il prezzo dei titoli del fondo è più basso rispetto all’acquisto, il fondo liquida in perdita. Avevo già affrontato questa tema nella discussione sugli ETF, e ribadisco che è molto importante scegliere gestori che non abbiano la tendenza a chiudere fondi se questi non vanno come previsto. Deterioramento dell’investimento Come abbiamo appena visto, la vendita forzata si verifica quasi sempre perché l’investitore azzarda una speculazione, ossia cerca di cavalcare il mercato nel breve termine. Ahimè, anche l’investitore di lungo termine può commettere grossi errori: generalmente, il problema sta nella scelta del singolo investimento o nella composizione del portafoglio. A differenza della speculazione di breve termine, questo errore è in realtà insito nella società capitalistica: l’azienda dove l’investitore è azionista comincia a diventare meno competitiva, perde quote di mercato, fa meno utile o va proprio in perdita, taglia il dividendo, e così via. Il prezzo dell’azione si muove di conseguenza. Prendiamo il caso di Telecom Italia negli ultimi 20 anni. È un caso interessante perché si trattava di un’azienda solida con delle buone prospettive di crescita, ma che a seguito una privatizzazione rocambolesca, diversi passaggi di mano, e aumento della competizione nel mercato, si è ritrovata ad affrontare continue difficoltà da cui non ne è più uscita. Il risultato è il grafico che segue:31 31 Fonte: Yahoo Finance. 57 Colpa di un mercato impazzito? Certamente no, visto che una riduzione di pari entità si ritrova anche nella distribuzione dei dividendi, addirittura dismessi dal 2014 al 2019:32 0,14 0,14 0,10 0,11 0,08 0,05 0,05 0,06 0,04 0,02 0,01 20 04 20 05 20 06 20 07 20 08 20 09 20 10 20 11 20 12 20 13 20 14 20 15 20 16 20 17 20 18 20 19 20 20 0,00 0,00 0,00 0,00 0,00 0,00 L’investitore che avesse investito 1.000 euro sul titolo Telecom nel 2000, si ritroverebbe oggi con soli 100 euro, e un dividendo nove volte più basso di quello che percepiva nel 2004 (dopo non aver preso niente per sei anni). Visto che non mi risulta che il costo della vita in Italia sia calato del 90% rispetto a vent’anni fa, l’investimento in Telecom Italia ha chiaramente comportato una perdita permanente di potere d’acquisto. Investimenti terribili come quello in Telecom Italia sono più probabili quando si investe in titoli singoli, giacché, ti ricorderai dal capitolo 3, così facendo l’investitore sostiene il rischio d’impresa. Quando si investe in un indice di mercato, il proprio investimento si muove in linea con l’economia e si evitano rischi specifici. Purtroppo, questo non assolve da errori madornali, specialmente quando si esce dal seminato e si va ad investire in economie che non c’entrano niente con la nostra pensando che decollino, e queste invece vanno molto peggio di noi. Ti presento il Nikkei 225, il più famoso indice del mercato giapponese, negli ultimi 50 anni:33 32 33 Fonte: Borsa Italiana. Fonte: Trading Economics. 58 Il Giappone ebbe un’ascesa meteorica negli anni Sessanta e Settanta, ma ben presto la sua crescita si trasformò in bolla speculativa. Da quando è scoppiata all’inizio degli anni Novanta, il Giappone è entrato prima in recessione deflattiva, poi in un lungo periodo di stagnazione quasi secolare, da cui non è più veramente riuscito a venirne fuori. Cosa sarebbe successo all’investitore italiano degli anni Ottanta che, viste le perfomance eccezionali delle aziende giapponesi fino a quel momento, avesse deciso di investire in Giappone invece che a casa propria? Dall’apice della bolla, il Nikkei è ancora sotto del 30% dopo 30 anni. I dividendi, in questo caso molto più stabili rispetto al caso Telecom, avrebbero aiutato ad attutire il colpo per l’investitore, ma non abbastanza da compensare la perdita di potere d’acquisto risultante dal continuo deterioramento dell’economia giapponese. Mancato guadagno Poco prima ho scritto che non mi risultava che il costo della vita in Italia fosse diminuito negli ultimi vent’anni. In realtà non solo non è affatto diminuito, è aumentato del 38%:34 34 Fonte: World Bank. 59 Cosa significa questo grafico? Che se nel 2000 andare a mangiare una pizza con gli amici costava 10 euro, oggi ne costa quasi 14. È il concetto di inflazione, di cui abbiamo parlato nei primi capitoli di questo scritto. Concretamente, l’inflazione non è altro che la perdita di potere d’acquisto del denaro liquido. Se dal 2000 a oggi i prezzi sono aumentati complessivamente del 38%, significa che l’investitore che ha lasciato in banca denaro liquido per 100.000 euro ha perso potere d’acquisto per 38.000 euro. L’inflazione è subdola, perché non si vede, non troverai mai nessun -38% in rosso sul tuo conto corrente per segnalarti che il tuo denaro ha perso di valore. Per questo, il mancato guadagno sembra un errore veniale. Ma non lo è, giacché comunque comporta una perdita di potere d’acquisto, che come abbiamo visto può essere significativa. Inoltre, il rischio che l’inflazione aumenti e la perdita di potere d’acquisto si faccia ancora più cospicua è tanto più alto quanto è più lungo l’orizzonte temporale dell’investitore. 60 CAPITOLO 6: NON DIMENTICHIAMOCI DELLE TASSE Non c’è nulla di certo a questo mondo a parte la morte e le tasse, diceva Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America. E infatti, le tasse non risparmiano di certo l’investitore, in Italia così come all’estero, ed è bene ricordarsi che esistono perché possono avere un impatto significativo sul rendimento degli investimenti. Il seguente non vuole certo essere un trattato tributario, tuttavia, nonostante vi siano una moltitudine di situazioni diverse, penso però che possa dare un quadro generale delle imposte più importanti con cui, ahimè, ti troverai quasi certamente ad avere a che fare. Gli investimenti sono tassati tramite due tipologie di imposte: le imposte sul capitale e le imposte sul reddito. Partiamo dalle prime (le più fastidiose). Imposte Sul Capitale Questo tipo di imposte si applica in due modi: 1) sul totale del capitale; e 2) sull’accrescimento del capitale. Un’imposta che assoggetta annualmente l’intero capitale dell’investitore è anche chiamata imposta patrimoniale. Il suo nome ufficiale è imposta di bollo, in gergo anche detta minipatrimoniale (anche se non capisco dove sia il «mini»), e colpisce per uno 0,2% l’intero ammontare degli strumenti finanziari detenuti dall’investitore a valore di mercato, con applicazione trimestrale. Per esempio, se detieni azioni e obbligazioni per un valore di 100.000 euro alla fine di marzo, ti sarà addebitata per il trimestre gennaio-marzo un’imposta di bollo di 50 euro. Il calcolo è il seguente: (100.000 x 0,2%) / 4 = 50 Il totale dell’imposta sull’anno è di 200 euro (100.000 x 0,2% = 200), ma l’addebito è di 50 euro perché avviene su base trimestrale. L’altro tipo di imposta sul capitale è l’imposta sul capital gain. Se ti sei già cimentato con un po’ di trading l’avrai certamente incontrata. Il capital gain in inglese significa guadagno in conto capitale. Così come asset, anche capital gain è un termine così specifico che non viene neanche tradotto (tecnicamente sarebbe plusvalenza). 61 L’imposta sul capital gain si applica sull’apprezzamento del prezzo dello strumento finanziario al momento della vendita rispetto al momento dell’acquisto. Se compri un’azione a 100 euro e la rivendi a 150 euro, il capital gain è di 50 euro. Su questo ammontare si applica un’aliquota unica del 26%. (Prezzo di vendita – prezzo di acquisto) x 26% = (150 – 100) x 26% = 13 Il guadagno netto in conto capitale non è quindi 50 ma 37 (50 – 13). Esiste la possibilità di compensare guadagni con perdite, per cui se vendo un altro titolo realizzando una perdita di 50 euro o superiore questo va a compensare interamente il guadagno di cui sopra. Al di là del fatto che non vi è nessun piacere nel realizzare le perdite, anche se si pagano meno tasse, per un investitore di lungo termine questo artifizio è di poco conto. La vera seccatura di queste due imposte è che sono d’intralcio per l’accumulazione di capitale. Facciamo un esempio. Ammettiamo che Giovanni, il mio amico d’infanzia con cui ho cominciato questo scritto, investa 10.000 euro in un fondo azionario con un orizzonte di 10 anni. Il fondo è a capitalizzazione e rende mediamente un 7% all’anno in totale. Trascorsa la decade, Giovanni si aspetta di trovare 20.000 euro (un investimento al 7% annuo capitalizzato raddoppia dopo 10 anni). Ma ci sono due problemi: 4) Come ha fatto Giovanni a pagare l’imposta di bollo? Al primo anno l’imposta era di 20 euro (10.000 x 0,2%), all’ultimo di 40 (20.000 x 0,2%). Ci sono solo due modi: o ha pagato di tasca sua ogni anno, o ha venduto qualche quota per pagare l’imposta, ma così facendo ha ridotto il suo rendimento al 6,8%: dopo dieci anni si ritrova con 19.307 euro, 700 euro in meno di quello che pensava. 5) Se vuole smobilizzare l’investimento, Giovanni deve pagare l’imposta sul capital gain. Se il prezzo iniziale era di 10.000 euro e quello finale di 20.000, l’imposta si applica sull’intero accrescimento del capitale, ossia 10.000 euro. Giovanni pagherà: (20.000 – 10.000) x 26% = 2.600 euro Il totale del capitale netto d’imposta sul capital gain sarà dunque di 17.400 euro, ossia un incremento del 74% invece che del 100%. 62 Non ci sono grandi soluzioni a questo problema: lo Stato ha bisogno di entrate (altrimenti, da dove verrebbe la sicurezza di investire in titoli di Stato?), e quindi le tasse sono un male necessario, come si suol dire. Inoltre, per spezzare una lancia a favore dello Stato, bisogna dire che l’Italia consente di capitalizzare i dividendi e di differire completamente le imposte su questi fino a quando l’investitore non smobilizza l’investimento. Siccome, come vedremo tra poco, anche i dividendi sono tassati al 26%, l’imposta che Giovanni va a pagare dopo 10 anni è anche comprensiva dei dividendi che non sono stati soggetti a imposta, bensì pienamente capitalizzati. Imposte Sul Reddito Queste sono più semplici, perché assomigliano di più all’imposta sul reddito da lavoro di cui tutti siamo a conoscenza. Il reddito in questo caso è rappresentato da quanto viene pagato all’investitore sotto forma di interessi e dividendi dai suoi investimenti. Sul totale di quanto percepito si applicano le seguenti aliquote: - Titoli di Stato: 12,5% Tutto il resto (dividendi, interessi da obbligazioni societarie, ecc.): 26% Generalmente, la banca o il broker con cui investi agisce da sostituto d’imposta, per cui ti addebita l’imposta dovuta in conto corrente e la versa all’amministrazione finanziaria. Ti ritrovi in conto l’ammontare netto e non ti devi preoccupare di nulla.35 E fin qua, tutto bene. Un problema più complicato sorge quando investi in titoli esteri (cosa che farai sicuramente), specialmente azioni. Parto subito con un esempio. Ammettiamo che tu investa in azioni Apple. Apple paga un dividendo trimestrale, quindi ogni tre mesi (ai fini fiscali) parte un pagamento dall’America e arriva in saccoccia a te in Italia. Siccome non sei residente in America, lo Stato americano non può tassarti. Quello che fa è richiedere ad Apple (in concreto al soggetto incaricato di gestire il pagamento del dividendo) che trattenga una parte del dividendo e lo versi all’amministrazione finanziaria americana. Questa imposta si chiama ritenuta alla fonte. 35 Quando si sceglie un broker, è bene assicurarsi che agisca da sostituto d’imposta. Se in conto corrente vedi solo dividendi e interessi ma niente tasse, informati se è dimenticanza del broker o se questo lascia a te la responsabilità di dichiarare i proventi. 63 Se fosse finita qua non sarebbe un problema, il fatto è che quando ricevi il dividendo da Apple al netto dell’imposta americana anche l’Italia vuole tassarti. Eh già! Per evitare la doppia imposizione, esistono una serie di trattati internazionali. Per farla breve, l’America trattiene un po’ meno e l’Italia applica l’imposta sul dividendo netto e non sul totale. Di fatto c’è doppia imposizione, diciamo un po’ meno di quello che potrebbe essere. Nella tabella seguente ti scrivo: 1) L’imposta alla fonte già considerando il trattato con l’Italia 2) La ritenuta totale dopo l’imposta italiana Paese Stati Uniti Germania Francia Regno Unito Svizzera Olanda Canada Ritenuta alla fonte 15% 26% 30% 0% 35% 15% 25% Ritenuta totale 37% 45% 48% 26% 52% 37% 45% A parte gli Stati Uniti, tutti gli altri paesi applicano il trattato a posteriori. In concreto, mentre gli Stati Uniti applicano il trattato prima di pagare il dividendo, tutti gli altri lo applicano solo se l’investitore, dopo aver ricevuto il dividendo, richiede il rimborso dell’eccessiva ritenuta alla fonte con richiesta formale all’amministrazione finanziaria del paese di origine. Concretamente, non si fa. Prima di fiondarti a investire nel Regno Unito, che non impone ritenute alla fonte, considera che tutto questo ginepraio fiscale diventa molto più facile se investi tramite un fondo, ad esempio un ETF. Il mio mentore Prof. Dhruv Shanghavi, che ha la confidenza con le imposte che Roger Federer ha con la racchetta da tennis, diceva sempre che, con i fondi d’investimento, si è trovata una soluzione semplice a un problema complesso. Poche volte capita, ma, per fortuna, con i fondi è stato così. In sostanza, il fondo, muovendo masse molto più importanti rispetto a un investitore individuale, ha l’intesse, le capacità e i mezzi per farsi ridare l’eccesso di ritenuta applicata alla fonte, per cui per tutti i paesi diventa del 15% o meno. 64 In più, spesso i fondi hanno la sede in paesi che offrono un ottimo trattamento fiscale: non elusione, ma ad esempio trattati bilaterali più favorevoli e nessuna imposizione a livello del fondo. Perciò, se investi tramite un ETF, non ti devi preoccupare di tutte le menate fiscali locali, e sai che hai il miglior trattamento fiscale che puoi ottenere alla fonte. Naturalmente, l’investimento in ETF non azzera il problema della doppia imposizione: una volta che la ritenuta alla fonte è al 15%, dovrebbe essere l’Italia che concede un credito più alto. Purtroppo, non è così, vedilo come un costo che tutti noi dobbiamo pagare per investire all’estero, investimento da cui a mio avviso non si può prescindere. Un’ultima nota riguardo alle obbligazioni: spesso i titoli di Stato, anche di paesi importanti e ad alta tassazione come Francia, Germania, Stati Uniti e Giappone, sono esenti da ritenuta alla fonte o è applicata una ritenuta molto più bassa rispetto ad altri titoli. Combinata con la tassazione italiana al 12,5%, si capisce come i titoli di Stato, prima dell’avvento dei tassi a zero o negativi, sarebbero un ottimo strumento per chi ha bisogno di reddito stabile. 65 NOTE FINALI: COSA ASPETTARSI DA UN INVESTIMENTO? Nei primi sei capitoli di questo scritto abbiamo imparato che: 1) L’economia si muove secondo dei cicli economici ben definiti. 2) Vi sono diversi tipi di asset che vanno meglio a seconda del ciclo economico in cui si trova l’economia. 3) Il modo migliore per investire in uno specifico asset è tramite un fondo indicizzato, che offre massima diversificazione e costi minimi. 4) Per scegliere un buon fondo indicizzato bisogna vedere il gestore, i costi, e scegliere l’indice giusto. 5) Non sempre si guadagna dai mercati finanziari: si può perdere soldi tramite la vendita forzata, il deterioramento dell’investimento, e il mancato guadagno. 6) Le tasse sul capitale e sui redditi da capitale diminuiscono i ritorni offerti dal mercato finanziario. A questo, la domanda che immagino ti starai chiedendo è: cosa posso aspettarmi da un investimento nei mercati finanziari, seguendo la teoria che ho fin qui esposto? A questa domanda ti rispondo in due modi. Per quanto riguarda il futuro, ti posso dire che questo non è un metodo scientifico, perché non c’è niente di scientifico nell’economia e nella finanza. Le cose cambiano troppo rapidamente per fare delle previsioni accurate. Come dice Warren Buffet, le previsioni sono pericolose, specialmente se sul futuro. Tuttavia, ti posso assicurare che questo metodo si basa il più possibile sulla logica: a mio avviso, è il miglior modo di investire senza doversi affidare all’opinione di nessuno. Ed è per questo che è così potente. Se le cose non dovessero andare bene, saprai che la tua è una scelta logica, e quindi non avrai paura di stare sbagliando perché hai seguito il consiglio di qualche guru finanziario, o semplicemente le tue sensazioni del momento. Personalmente, sapere che sto investendo sulla base del buon senso e della logica mi è di grandissimo aiuto psicologico. Per quanto riguarda il passato, andiamo a vedere come avrebbe performato un portafoglio costruito secondo i canoni descritti sopra. Faccio subito un caveat, e cioè che i ritorni passati non sono garanzia di ritorni futuri, ma questo lo sai già. Devo però basarmi sui dati degli asset americani in dollari, che sono più facili 66 da reperire e sono più completi. Ho comunque inserito anche le performance degli investimenti europei. Procediamo Il primo portafoglio si basa esattamente su quanto da me descritto: 50%: azioni USA 25%: titoli di Stato americani (ho usato quelli a 10 anni) 20%: titoli di Stato americani indicizzati (TIPS) 5%: oro. Il secondo portafoglio si basa unicamente sul mercato azionario USA. Come scritto sopra, per un investitore giovane che sta accumulando può aver senso investire unicamente in azioni. Il terzo portafoglio rappresenta le azioni europee. I dati sono dal 2001 a oggi, primi dati disponibili per i TIPS. Il piano di investimento prevede di ribilanciare ogni anno e di capitalizzare dividendi e interessi.36 Durante gli scorsi vent’anni, il portafoglio quattro stagioni o sempreverde, se possiamo così chiamarlo, si comporta come da manuale. Sale moderatamente durante la crescita inflattiva degli anni 2000, tiene bene la crisi finanziaria del 2008, e cavalca la crescita con bassa inflazione della decade scorsa. 10.000 dollari diventano quasi 39.000, per un tasso annuo di quasi il 7% (nella tabella CAGR, compound annual growth rate, tasso annuo di crescita capitalizzato). 36 Fonte: Portfolio Visualizer. 67 Anche il portafoglio puramente azionario USA raggiunge lo stesso risultato, anche se in maniera più rocambolesca. Come ho scritto, per un giovane che accumula, i bassi del mercato sono del tutto irrilevanti, anzi sono occasioni di ingresso per capitalizzare a un tasso più alto. Le azioni europee hanno fatto peggio di tutti. Attenzione però perché durante i primi anni 2000, e fino al 2012, non è stato così. Come vedremo meglio dopo, non c’è nessun motivo storico per aspettarsi che le azioni europee continuino a guadagnare molto meno di quelle americane nel lungo termine. Ora vediamo la stessa dinamica in un orizzonte temporale più ampio. Per la precisione, dal 1986 (da quando ho trovato i dati). In più, ho dovuto sostituire i TIPS, che sono stati introdotti solo alla fine degli anni ’90, con i titoli di Stato a breve termine, che svolgono una funzione simile anche se sono di gran lunga meno efficaci. Come vedi, la differenza tra un sempreverde e un azionario USA puro si accentua. È anche vero però che il sempreverde è molto più stabile. Inoltre, i ritorni sono in entrambi i casi eccezionali: 19 volte per il sempreverde e 38 per l’azionario puro, su un arco di 35 anni. Le azioni europee vanno un po’ peggio, ma attenzione però: come detto in precedenza, qui è ancora più chiaro di come ci siano stati periodi quando le aziende europee andavano meglio di quelle americane, per esempio fino a metà degli anni Novanta. Per cui non è per niente detto che continuino ad andare peggio. Dico questo perché dal punto di vista di noi europei è molto più sensato costruire un portafoglio basato sull’Europa. L’America, o altri paesi come il Giappone o i mercati emergenti, sono importanti elementi di diversificazione, ma non il punto di partenza. 68 Un’altra cosa importante sono i tassi di crescita. L’Europa fa «male» rispetto all’America ma capitalizza comunque quasi al 9%. L’America quasi all’11%. Dati per le azioni USA che risalgono addirittura a fine 1800 ci dicono che le aziende USA in media capitalizzano al 7%, che infatti è lo stesso tasso che abbiamo visto nel primo grafico (dal 2000). È vero che ci sono state due guerre di mezzo, però, se vuoi essere conservativo, tieni presente questo numero e non i tassi pazzeschi che a volte si sentono. Del resto, con un’inflazione media del 2%,37 avrai più che difeso e aumentato il tuo potere d’acquisto. Perché, in fin dei conti, investire significa proprio questo: accumulare ricchezza reale per aumentare, grazie a utili, dividendi, e interessi, il proprio potere d’acquisto. Buon investimento! 37 Il tasso di inflazione medio in America durante il 1900 è stato del 2,88%, nonostante le due guerre e l’inflazione degli anni ’70. Avendo un target del 2%, non c’è motivo di pensare che l’inflazione in Europa sia particolarmente più alta. 69 BIBLIOGRAFIA Arnott, A. (2020). Beware the Hype When Investing in Gold. Morningstar, Inc. Bioy, H. (2017). Passive Fund Providers Take an Active Approach to Investment Stewardship. Morningstar, Inc. Bogle, J. (2010). Common Sense on Mutual Funds. John Wiley & Sons, Inc. Bogle, J. (2012). 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