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Accumulare Ricchezza

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ACCUMULARE RICCHEZZA
Come forgiare il proprio futuro finanziario con buon senso
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CHI SONO E COSA FACCIO
Mi chiamo Alessandro Lazzaro e sono un imprenditore
digitale e un investitore privato.
Prima di lanciare le mie attività online, ho lavorato per PwC in
Lussemburgo, dove seguivo grandi fondi di investimento
come J.P. Morgan e State Street. Prima ancora, ho collaborato
con l’università di Maastricht in Olanda, e ho lavorato in
Thailandia e Italia, sempre in ambito economico-finanziario.
Ho studiato economia all’università Bocconi e ho conseguito
un master in fiscalità internazionale in Olanda, all’università di Maastricht.
Sono appassionato di investimenti finanziari da sempre. Comincio questo libro con la storia
di come mi sono approcciato agli investimenti diversi anni fa e come questo ha influenzato il
mio modo di vedere il mondo della finanza.
Oggi, oltre a seguire la mia startup online, gestisco il patrimonio di diversi investitori privati
che si sono affidati a me per il loro futuro finanziario o per gestire un’eredità.
Come vedrai nel corso del libro, il mio metodo d’investimento non si basa su formule
matematiche da dottorato in ingegneria, ma è fondato su un’analisi pragmatica
dell’economia e sulla logica.
Nel mio metodo d’investimento cerco di limitare al minimo le opinioni personali, e di basarmi
invece su logica e buon senso.
Per domande, dubbi, approfondimenti, se vuoi avere più informazioni su quello che faccio
puoi contattarmi a questo indirizzo e-mail:
al@alessandrolazzaro.it
Seguimi sul mio canale YouTube, dove pubblico due video a settimana su come funzionano
l’economia e i mercati finanziari, e come puoi cominciare a investire senza commettere gli
errori che tutti fanno.
https://www.youtube.com/channel/UC1mNS9T6QaTyb5XW-zawD-Q
Buona lettura!
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© Copyright 2021 – Alessandro Lazzaro
www.alessandrolazzaro.it
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PERCHÉ HO SCRITTO QUESTO LIBRO
Sono nato in una famiglia benestante. A 19 anni, quando mi trasferii a Milano per gli studi
universitari, i miei genitori mi diedero, oltre alle spese, una rendita mensile di 500 euro. Stufo
di dilapidare denaro in aperitivi e quant’altro, cominciai a investire, o almeno così credevo.
Aprii un conto in Fineco e cominciai a comprare e vendere azioni, cercando di ricavarne un
profitto.
Compravo Generali a 100 e la rivendevo a 110, intascandomi 10 euro
di differenza. Simpatico, ma non un granché. Allora risparmiavo
qualcosina in modo da poter investire 1.000 e rivendere per 1.100.
Potevo sbandierare il bigliettone verde in faccia ai miei amici agli
aperitivi: già meglio!
Il massimo però lo scoprii in seguito, quando venni a sapere che si
potevano comprare azioni anche con soldi non propri. Mettevo
1.000 euro, la banca me ne allungava 9.000, e io compravo il titolo
per 10.000 euro.
Dove stava il bello? Se l’azione saliva in un settimana del 5%, io rivendevo a 10.500; una volta
pagata la banca, facciamo per 50 euro, mi tenevo per me 450. Avevo messo solo 1.000 euro,
il titolo era salito solo del 5%, ma io mi ero intascato 450 euro: un ritorno del 45% in una
settimana!
Non c’era dubbio, ero un mago della finanza: guardavo film su Wall Street e salutavo i miei
amici con «Ferro azzurro ama Anacot Acciaio».1
Finché non mi resi conto che di magico c’era ben poco.
Anno 2010, il petrolio va forte. Punto i miei 1.000 euro su ENI, con i
soldi della banca compro titoli per 10.000 euro.
Il giorno dopo mi alzo, faccio colazione e guardo le notizie: alla BP è
scoppiato un pozzo nel Golfo del Messico. Disastro ambientale,
petrolifere a picco.
Mentre il caffè mi va di traverso, apro il mio conto Fineco: la posizione
in ENI … non c’è. Neppure i miei 1.000 euro. Sparito tutto.
Che cos’era successo? La magia finanziaria altro non era altro che leva finanziaria, ossia
investimenti a debito. I meravigliosi ritorni che si ottengono quando un titolo sale si
trasformano in perdite rovinose quando il titolo scende. ENI aveva perso più del 10%, per cui
il mio capitale era stato prosciugato; se la discesa del titolo fosse continuata, a rischio sarebbe
1
Messaggio in codice nell’esecuzione di un trade da parte di Gordon Gekko, personaggio del film Wall Street di
Oliver Stone, 1987.
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stato il capitale della banca. Per proteggersi, la banca aveva venduto preventivamente tutto
il pacchetto, e portato a casa i suoi 9.000 euro. A me, quindi, non era rimasto niente.2
Naturalmente non stavo investendo; stavo facendo trading, vale a
dire speculando. E lo stavo facendo nel modo più rischioso possibile,
cioè con soldi altrui. Qualsiasi perdita su carta si trasformava
necessariamente in una perdita reale.
A ENI non era scoppiato nessun pozzo. Il mercato si era fatto
prendere dal panico e nel dubbio aveva venduto tutto. ENI toccò i
massimi quattro anni dopo e continua tutt’oggi a pagare un
generoso dividendo.
La mia speculazione era un caso estremo, ma ci sono molti altri modi per incappare in cattivi
investimenti.
Mio padre si fece prendere dall’euforia di fine anni ’90; da buon informatico comprò un
mucchio di azioni di aziende tecnologiche. Scottato da perdite rovinose, non toccò mai più le
azioni, e perse il boom degli anni successivi.
Mia madre si affidò a una gestione patrimoniale. Quando si trattò si
smobilizzare il denaro per l’acquisto di un immobile, la gestione era
in perdita. Seccata, vendette lo stesso. L’ho spesso redarguita per
quella scelta, ma quando guardai le carte e vidi alcuni investimenti
dubbi, tra cui Lehman Brothers (brrr) non potei che darle ragione.
Nei dieci anni che seguirono, completai gli studi e feci una serie di esperienze. Quando mi fu
dato l’incarico di sistemare il patrimonio familiare, applicai i principi che avevo imparato nel
tempo. I veri principi di investimento, che rendono un portafoglio solido, non soggetto alle
paranoie di mercato, alle crisi finanziarie, e alle mode speculative.
Questa metodologia di investimento non è riservata ai benestanti. Tutti la possono applicare.
Invece di buttare soldi ed energie in speculazioni, l’avrei potuta applicare anch’io dieci anni
fa (ahimè).
Se avrai la pazienza di leggere questo scritto avrai una visione completamente diversa del
mondo della finanza e degli investimenti, ti sentirai più sicuro di forgiare un portafoglio solido
che ti consentirà di ottenere davvero i ritorni che la finanza promette ma quasi mai consegna
davvero.
Nel farlo, ti parlerò anche di fabbri e di spade. Tutto avrà senso fra qualche pagina.
Alessandro Lazzaro
2
Ben peggio può succedere se la banca non è in grado di vendere prima che le perdite abbiano impattato il
proprio capitale. In quel caso, la banca emette una chiamata a margine verso l’investitore, che è tenuto a
ricoprire le perdite in eccesso. In inglese, Margin Call, titolo dell’omonimo film del 2011.
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CAPITOLO 1: IL PUNTO DI PARTENZA: PERCHE’ INVESTIAMO?
Hai dei soldi. Perché li investi? È una domanda banale, e la risposta sembra essere una e una
sola: ma per avere più soldi!
E se poi ti chiedessi: quanti soldi in più pensi di ottenere dai tuoi investimenti? Ancora una
volta, domanda scontata: ma quanti più possibile!
Ti racconto una storia. Quando facevo arti marziali, un giorno il
maestro ci mise tutti in fila e ci chiese: che obiettivo volete
raggiungere? L’allievo vicino a me disse con tono sicuro: cintura nera.
Io, invece, con aria ingenua, risposi: il massimo dove posso arrivare.
Risultato: tempo un anno io ero fuori; l’allievo di fianco a me prese la
cintura nera diversi anni dopo.
Perché ti dico questo? Perché il segreto di investire con successo, come presto scoprirai, non
è altro che buon senso e disciplina.
Tuttavia, per restare disciplinati per un tempo piuttosto lungo, è necessario:
a) Sapere bene perché si sta facendo una certa cosa;
b) Darsi degli obiettivi chiari e realistici.
Come penso tu stia cominciando a immaginare, le risposte giuste alle domande di inizio
capitolo non sono quelle scontate.
Supponiamo che Giovanni, un mio amico d’infanzia, entri in possesso di una somma di
denaro. Poco importa se è un’eredità, uno stipendio, la vendita di un immobile, ecc.
Giovanni ha tre possibilità:
1) Spendere tutti i soldi: forte del suo nuovo stipendio, Giovanni
decide di fare la bella vita e spende fino all’ultimo centesimo.
2) Spendere tutti i soldi e prenderne a prestito altri: Giovanni aveva
sempre sognato di comprarsi una moto; anche se i soldi non
bastano, ne prende a prestito altri e se la compra.
3) Non spendere e investire: Giovanni tira la cinghia e mette via
tutto il malloppo.
Da un punto di vista economico-finanziario, le scelte di Giovanni hanno tre conseguenze
estremamente diverse:
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1) Spendere tutti i soldi: Giovanni sta massimizzando il proprio consumo attuale, senza
andare a detrimento del suo consumo futuro. La scelta di Giovanni produce una
certezza: il denaro si trasforma in beni di consumo.
2) Spendere tutti i soldi e prenderne a prestito altri: Giovanni
sta massimizzando il proprio consumo attuale, e
minimizzando il proprio consumo futuro. La scelta di
Giovanni produce ancora una certezza: il ripagamento del
debito comporterà minor consumo in futuro.
3) Non spendere e investire: Giovanni sta minimizzando il proprio consumo attuale, e
massimizzando il proprio consumo futuro. Ma attenzione, perché in questo caso la
scelta di Giovanni produce incertezza: non è detto che i soldi messi da parte siano
sufficienti per aumentare il consumo futuro di Giovanni.
E cioè, in termini più concreti, Giovanni incorre nel rischio che il proprio potere d’acquisto,
che nel primo e secondo caso è certo di, rispettivamente, scomparire ed essere addirittura
più basso, non venga mantenuto.
Bada bene che il fatto che Giovanni, se decide di risparmiare, mantenga o meno il proprio
potere d’acquisto è del tutto irrilevante di per sè da dove sceglie di investire: potrebbe
comprare un immobile, o tenere tutto in denaro contante, e vedere comunque il proprio
potere d’acquisto ridursi.
Per capire la relazione tra investimenti e potere d’acquisto, dobbiamo conoscere le due forze
portanti della nostra economia: attività economica e moneta.
Le Quattro Stagioni Dell’Economia
Definiamo attività economica la nostra capacità di produrre beni e servizi. Definiamo
moneta un mezzo di scambio capace di mantenere il proprio
valore nel tempo.
Attività economica e moneta sono necessarie per il buon
funzionamento dell’economia, e come questi due elementi si
bilanciano fa tutta la differenza di questo mondo.
Supponiamo di trovarci in un piccolissimo paese di 100 abitanti,
dove sono tutti fabbri. Ti avevo detto, nell’introduzione, che
avremmo parlato di fabbri… ricordi?
Bene, ogni fabbro possiede 10 monete, per cui la quantità monetaria nel paese è di 1.000
monete.
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Ogni fabbro produce una spada all’anno. Ogni anno, i fabbri allestiscono un
mercato delle spade dove vendono la propria spada e ne comprano un’altra
(sicché alla fine ogni fabbro resta con una spada e 10 monete).
Ora, in aggregato, le spade valgono 1.000 monete; in media, ogni spada vale 10
monete.
Che cosa succede se un fabbro è particolarmente bravo e invece di una spada
all’anno ne produce due?
La risposta immediata sarebbe: ricava il doppio. Purtroppo per il fabbro, non è così.
Dopo l’aumento di produttività, in aggregato, il paesino produce 101 spade. Ma la quantità
di moneta è sempre di 1.000 monete, quindi ogni spada vale in media 9,9 monete.
Quando il nostro fabbro produttivo va al mercatino presentando due spade al prezzo di 10
monete ciascuna, scoprirà con rammarico che non riesce a vendere la seconda spada.
E questo succede non perché non sia bravo, ma perché quelle 10 monete addizionali che il
fabbro chiede come compenso per la sua seconda spada non esistono.
Il fabbro, disperato, non ha che una scelta: deve abbassare il prezzo delle spade. A quanto?
9,9.
Facendo concorrenza sul prezzo, le spade si vendono subito. A questo punto però, un altro
fabbro non riesce a vendere la sua spada e deve anch’egli abbassare il prezzo a 9,9. Poi un
altro, un altro ancora, e così via, finché il prezzo medio delle spade non diventa
necessariamente 9,9 monete.
Quello che è successo è che l’attività economica, ossia la capacità dei fabbri di produrre
spade, è cresciuta, ma la moneta è rimasta uguale. In gergo economico, c’è stata una crescita
deflattiva.
La crescita deflattiva era tipica
del 1800, quando i
paesi del mondo erano
in
regime
aureo.
Questo tipo di crescita,
che si basa su dei solidi principi economici, e aggiungerei etici (chi sbaglia paga), aveva il
problema di causare delle crisi brutali, molto più violente di quelle attuali.
Torniamo al nostro villaggio per vedere come avviene la crisi.
Se riprendiamo il momento in cui il nostro fabbro laborioso si presenta al mercato
presentando due spade e chiedendo 10 monete per spada, c’è una seconda cosa che può
succedere: si avvicina un altro fabbro, e, ammirando quanto belle sono le sue spade, vuole
comprarle entrambe a prezzo pieno.
Ovviamente, l’acquirente ha solo 10 monete, ma promette di pagare il resto l’anno
successivo. Il fabbro laborioso, non potendo credere che ha venduto due spade, accetta.
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Attenzione: grazie a questo accordo, i due fabbri hanno aumentato artificialmente la quantità
di moneta. Di fatto, il fabbro acquirente se ne va a casa con due spade, e il fabbro laborioso
registra un ricavato per 20 monete. Ma solo 10 di queste sono effettive, il resto è una
promessa. Perciò:
Quantità di moneta: 1.000 monete + 10 sotto forma di promessa di pagamento.
Produzione di spade: 101.
Prezzo medio per spada: 10 monete.
Valore dell’economia: 1.010 monete.
Dopo qualche anno, il fabbro laborioso è diventato un portento, e
riesce a produrre 6 spade invece di una. Contento, continua a
vendere le 5 spade in eccesso su promessa, ossia a credito. Anche i
compratori continuano ad acquistare su promessa, nel loro caso a
debito.
Un bel giorno però, il fabbro si stufa e va a batter cassa.
Come puoi immaginare, il problema ancora una volta è che quelle 50
monete che il fabbro chiede non esistono. E il fabbro scopre con rammarico che fa fatica ad
avere indietro quelli che pensava fossero i suoi soldi.
Ora, in questo caso possono succedere più cose:
1) I fabbri debitori non pagano.
2) I fabbri debitori pagano il fabbro laborioso ma non riescono a comprare altre spade.
E qui sta il bello, o anzi, il brutto. Perché se i fabbri debitori non pagano il fabbro laborioso,
questo molto probabilmente getterà la spugna e smetterà di produrre 6 spade, tornando a
produrne solo una (quella che sa di poter vendere per certo).
Se invece saldano il loro debito, i fabbri non più debitori non hanno
però altre monete da spendere. Perciò, ci saranno 5 fabbri che non
riusciranno a vendere la propria spada. Questi, a loro volta, hanno
due possibilità:
1) Andare fuori mercato, ossia smettere di produrre.
2) Abbassare il prezzo.
Ma quant’è ora il prezzo medio di una spada? Essendoci 105 spade ma solo 1.000 monete, il
prezzo medio di una spada è 9,5, non più 9,9. L’aggiustamento per i fabbri è più faticoso.
Alcuni abbasseranno il prezzo, altri andranno fuori mercato.
Assumendo che 3 fabbri smettano di produrre, e che tutti gli altri abbassino il prezzo, ora
l’economia del nostro paesino produce 102 spade (invece di 105) al prezzo medio di 9,8
monete ciascuna (invece di 10).
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Questo circolo vizioso si chiama recessione deflattiva, detta anche depressione deflattiva se
il processo è particolarmente violento. L’attività economica si riduce e la moneta resta
costante.
La moneta, infatti, resta uguale: il processo avviene solo perché, alla moneta vera, si
sostituisce una moneta falsa, ossia il debito.
Ed è quest’ultimo che a un certo punto si deve ridurre, causando
di fatto una contrazione della quantità effettiva di moneta e una
spirale dei prezzi al ribasso.
L’ultima vera depressione deflattiva è stata la crisi del 1929 in
America, seguita appunto dalla depressione degli anni ’30.
La nostra esperienza con la recessione deflattiva purtroppo è più
recente, giacché è quella che ha affrontato l’Italia dal 2012 al
2014, prima che la Banca Centrale Europea rilassasse la politica
monetaria e desse ossigeno alla nostra economia. Infatti, oggi le banche centrali non sono
più vincolate all’oro, ma possono aumentare la quantità di moneta vera a seconda di quanta
moneta è richiesta dall’economia.
Torniamo di nuovo al nostro paese di fabbri, sempre nel momento in cui il fabbro produttivo
presenta due spade invece che una al prezzo di 10 monete ciascuna.
Il fabbro sindaco, passando per il mercato, si accorge delle due bellissime spade. Quando
ripassa, tutte le spade del mercato sono andate vendute, tranne la
seconda spada del fabbro laborioso (situazione di partenza).
Al che il fabbro sindaco pensa che potrebbe comprarla il paese
stesso. Dà compito al fabbro minatore di plasmare un’altra
moneta, e con quella, in qualità di sindaco, compra la spada al
fabbro laborioso.
Il fabbro sindaco, in qualità di autorità pubblica, ha immesso 10
monete in più nell’economia del paesino. La produzione è ora di
101 spade e vi sono 1.010 monete, per cui il prezzo per spada è sempre di 10 monete.
Se fosse sempre così vivremmo nell’economia perfetta: crescita con inflazione zero. Nella
realtà, la banca centrale non sa esattamente quanta moneta in più sarà consumata
dall’economia in un dato anno. Per non rischiare la deflazione, taglia la testa al toro e immette
sempre un po’ più di moneta del necessario.3
Ammettiamo che, invece di un solo fabbro laborioso, ce ne siano 10, tutti in grado di produrre
due spade, per un totale di 110 spade per 1.000 monete. Il fabbro sindaco vede comparire
più spade ma non sa bene se saranno 10, 15 o 20 in più. Per non rischiare immette 200
3
Si pensi che sia la Banca Centrale Europea che la Federal Reserve (la banca centrale americana) hanno come
target un’inflazione del 2% all’anno.
10
monete. Una volta pagate le 10 spade, il fabbro sindaco va al mercato con 100 monete in
cerca di altre spade. Ma i fabbri hanno già i loro compratori (il mercato è in equilibrio a 1
spada per 10 monete).
Qualche fabbro intraprendente gioca la sua carta: vende volentieri
al fabbro sindaco ma a un prezzo più alto. Quanto più alto? 1.200
monete su 110 spade fa un prezzo medio per spada di 10,9.
Aumentando la quantità di moneta, il fabbro sindaco ha sì
sostenuto la crescita, ma ha anche causato un aumento dei prezzi,
ossia inflazione.
In gergo, crescita inflattiva.
Se l’aumento dei prezzi è contenuto, l’economia viaggia in crescita a bassa inflazione: la
situazione italiana nel secondo dopoguerra.
Se però l’aumento del prezzo è elevato, per cui l’inflazione abbonda, l’economia rischia un
surriscaldamento, generalmente preambolo di recessione.
La recessione, ossia la contrazione dell’attività economica, può
essere deflattiva (come abbiamo visto sopra) o inflattiva, che è
l’ultima delle quattro stagioni dell’economia.
La recessione inflattiva è la più complicata, perché dipende molto
dalla situazione in cui un paese si trova.
Nella sua forma più semplice si chiama stagflazione, ossia
stagnazione più inflazione.
Questo potrebbe essere il caso se nel nostro paesino di fabbri il fabbro sindaco si facesse
prendere la mano e cominciasse a immettere una quantità sproporzionata di monete. Quello
che succederebbe è che i fabbri, aspettandosi altri acquisti da parte del fabbro sindaco, si
metterebbero ad alzare i prezzi ogni anno.
Nessuno si metterebbe a produrre più di una spada: perché sforzarsi
quando puoi semplicemente alzare il prezzo?
Se il fabbro sindaco arriva ad immettere altre 300 monete, il prezzo
medio per spada diventa 13,6. Un bell’aumento rispetto alla
situazione di partenza di 10 monete per spada. Non è una vera e
propria crisi, ma è comunque una situazione di forte instabilità che
in ogni caso impedisce la crescita.
Diverso è il caso di una vera e propria recessione inflattiva.
Supponiamo che i nostri fabbri abbiano un problema: il tempo è cambiato e fa più freddo. Il
fabbro mercante si reca nel paesino delle vicine tessitrici e compra 100 maglioni. Con i nuovi
maglioni, i fabbri possono continuare a lavorare e mantengono la produzione a 100 spade
all’anno.
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Alle tessitrici, però, non interessano le spade; vogliono essere pagate
in oro. Per l’esattezza, ogni maglione costa 20 monete d’oro.
Diciamo che la valuta dei fabbri, chiamiamola moneta d’acciaio,
compra 1 moneta d’oro.
A questo punto i 100 maglioni costano ai fabbri 2.000 monete
d’acciaio, che loro non hanno. O aumentano produttività e
moneta per arrivare a 200 spade per 2.000 monete, oppure,
ancora una volta, pagano 1.000 monete d’acciaio e il resto
promettono di pagare, cioè comprano a debito.
Quando le tessitrici vengono a batter cassa, il fabbro sindaco immette
ex novo 1.000 monete d’acciaio e comincia a pagare le tessitrici. Ma a
questo punto c’è un eccesso di monete d’acciaio nel mercato, e il
cambio crolla a 1 moneta d’oro per 2 monete d’acciaio. Se i fabbri
erano riusciti a pagare 500 monete d’oro di debito prima che il cambio
crollasse, ora però ne restano altre 500. Ma siccome la loro moneta
ha perso metà del suo valore, il debito aumenta di nuovo a 1.000
monete d’acciaio … e i maglioni ora costano 40 monete d’acciaio l’uno!
Il fabbro sindaco può rifare lo stesso gioco, ma non ne esce: ogni volta che immette moneta,
o come diremmo oggi stampa moneta, il cambio peggiora e i debiti restano sempre quelli. I
maglioni costano sempre di più e le tessitrici non si fidano più a venderli. Ma i fabbri non
riescono a lavorare senza maglioni, per cui, come se non bastasse, la produzione si contrae.
La quantità di moneta aumenta mentre la produzione si riduce.
Come vedi, perché una vera crisi inflattiva si verifichi bisogna che il
paese necessiti di importazioni estere importanti, la cui mancanza
impedisce alle aziende di lavorare. Infatti, la crisi inflattiva è tipica dei
mercati emergenti: questi prendono a prestito dollari per comprare
macchinari e tecnologia che servono per il loro sviluppo.
Per vari motivi, a volte non sono in grado di ripagare: cercano di
stampare ma fanno peggio ed entrano in crisi inflattiva. Alcuni esempi
importanti sono le varie crisi dell’Argentina e del Brasile, soprattutto
negli anni ’80, della Corea del Sud e Sud-est asiatico (Thailandia, Malesia, Filippine, Indonesia)
nel 1998-1999, della Russia nel 1998, e di vari paesi africani.
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La tabella seguente riassume le quattro stagioni dell’economia.
Economia E Potere D’Acquisto
Dopo questo racconto, che spero ti abbia chiarito i cicli secondo cui si muove l’economia, è
chiaro un risultato: qualunque sia la fonte del tuo reddito o del tuo patrimonio, il tuo potere
d’acquisto varierà a seconda del ciclo in cui si trova l’economia del paese in cui vivi.
L’obiettivo di un investimento è quindi uno e uno solo: proteggere il potere d’acquisto
dell’investitore.
Perché investiamo? Investiamo, ossia limitiamo il nostro consumo
attuale, per aumentare o almeno mantenere il nostro potere
d’acquisto, ossia il nostro consumo, in futuro.
Il rischio non è tanto quello di andare incontro a delle perdite in sè,
quanto di vedere ridotto in modo permanente il nostro potere
d’acquisto.
Le forze di attività economica e inflazione giocano un ruolo fondamentale in questo: 10.000
euro lasciati in denaro contante con un’inflazione del 2%, si trasformano in 8.171 euro reali
dopo 10 anni, e cioè una perdita di potere d’acquisto del 18%.
Al contrario, un’azienda con utili negativi dell’1% ma in una situazione di deflazione del 2%
l’anno, produrrebbe un aumento del potere d’acquisto del 10% dopo 10 anni.
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Gli investimenti finanziari non sono altro che una trasposizione monetaria dell’economia
reale: capire come questa funziona è fondamentale per determinare se un investimento è
stato buono o cattivo.
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CAPITOLO 2: COSA SONO E COME FUNZIONANO GLI INVESTIMENTI
Abbiamo imparato che investire significa preservare il proprio potere d’acquisto in futuro.
Sappiamo che l’economia può muoversi in quattro direzioni spesso contrapposte, a seconda
delle quali il nostro potere d’acquisto può variare ampiamente.
La domanda ora è: come facciamo a investire in modo da preservare il nostro potere
d’acquisto indipendentemente dal ciclo economico?
La risposta è che dobbiamo costruire un gruppo di investimenti, in gergo un portafoglio, che
sia in grado di adattarsi a ogni situazione.
È possibile? Sì, giacché, come vedremo dopo, gli investimenti non
sono creati uguali: alcuni vanno meglio in periodi di crescita, altri in
periodi di crisi, altri di inflazione, altri di deflazione.
Il «segreto», se così si può dire (alla fine è solo buon senso), è
cercare di combinarli in modo tale da non farsi mai trovare
impreparati.
L’ABC Della Finanza: Che Cos’è Un Asset
Finora ho cercato di evitare parole inglesi, tuttavia da qui in poi dovrò usare questa parola,
che rappresenta un concetto fondamentale in finanza: asset.
Ne avrai sicuramente sentito parlare: asset allocation, multi-asset strategy, net asset value
(NAV), e così via.
Devo usare la parola inglese perché esprime in modo inequivocabile un concetto
difficilmente traducibile in italiano: un asset è un bene che corrisponde a un’attività, ossia
che è in grado di mantenere o accrescere il proprio valore nel tempo.
Vi sono tre tipologie di asset: tangibili, monetari e produttivi.
Asset tangibili
Se compro una maglietta, difficilmente avrò in mano un asset. Posso
anche tenerla in armadio intonsa, ma, un po’ perché passa di moda, un
po’ perché è disponibile in grandi quantità, perderà sicuramente il suo
valore nel tempo. Lo stesso vale per un orologio da polso, o anche per
un bene più complesso come un’automobile.
E se invece di una maglietta fosse una borsa disegnata da un famoso
stilista, una Kelly di Hermes per esempio? E se l’orologio fosse un Rolex?
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Se la macchina fosse una Ferrari? La situazione sarebbe ben diversa: in questo caso avrei a
che fare con dei beni che molto probabilmente terranno il loro valore nel tempo, appunto
degli asset.
Questi asset, per lo più oro, diamanti, immobili di pregio, a volte
anche materie prime, hanno due caratteristiche principali:
1) Non producono reddito: per quanto luccichi, un diamante non
ti pagherà mai una bolletta. L’unico modo per ricavarne del denaro
contante è venderlo.
2) Derivano il loro valore dalla scarsità e dall’accettazione fra le
persone che tali asset hanno valore.
Il problema di questi asset è che, non generando alcun tipo di reddito, aumentano la
ricchezza dell’investitore solo nella misura in cui questo riesce a venderli a un prezzo più alto.
Se compro una Ferrari a 200.000 euro e penso di farne un investimento, devo sperare che
fra 10 anni ci sia qualcuno che me la compri a un prezzo più alto. Altrimenti, non ho alcun
modo di generare ritorni.
Dal mio punto di vista, questi asset non sono veri investimenti, ma possono essere considerati
come un’assicurazione contro particolari situazioni (lo vedremo dopo).
Asset monetari
Questi asset sono gli unici dei tre a essere espressi unicamente in termini monetari, e per
questo vengono, a mio avviso ingiustamente, definiti «sicuri». Se ho un deposito bancario
per 10.000 euro, sono 10.000 euro punto fine: non c’è altro che rappresenti quell’asset se
non i 10.000 euro stessi.
In realtà, i 10.000 euro non ci sono fisicamente, ma c’è una
promessa da parte della banca di rendere i 10.000 euro su
richiesta del correntista.
Di fatto, questi asset, e cioè conti di deposito, obbligazioni, titoli
di stato, mutui,4 non sono altro che promesse di pagamento.
Gli asset monetari hanno due caratteristiche principali:
1) Generano reddito in modo fisso: se compro un titolo di Stato al 2% a dieci anni per
10.000 euro, mi aspetto di ricevere ogni anno 200 euro. Né più, né meno. Il reddito
che questi asset generano si chiama interesse, e siccome viene pagato in modo fisso,
questi asset sono anche chiamati titoli a reddito fisso.
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Una curiosità: il mutuo è l’unico asset monetario ad avere una contropartita fisica: l’immobile. Benché sia un
asset relativamente rischioso visto che il debitore è un individuo e non un’azienda o lo Stato, il fatto di avere
una rappresentazione fisica ha dato al mutuo una parvenza illusiva di sicurezza, che è stata poi uno dei motivi
che hanno portato alla crisi del 2008.
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2) Rimborsano il capitale in termini prefissati: abbiamo detto in
precedenza che questi asset sono una promessa di pagamento.
Ebbene, una promessa a un certo punto deve essere mantenuta,
ossia ha una scadenza. Dopo un certo periodo di tempo, un asset
monetario rimborserà all’investitore la totalità del suo valore.
Nell’esempio di prima, dopo dieci anni mi aspetto che lo Stato mi
rimborsi i 10.000 euro che gli ho prestato.5
3) Derivano il loro valore dalla bontà del creditore: essendo solo
una promessa, il valore di un asset monetario, come
un’obbligazione, dipenderà da chi fa quella promessa. Generalmente, il miglior
creditore è lo Stato, visto che è l’unico soggetto ad avere un certo controllo sulle sue
entrate: può aumentare le tasse o addirittura stampare moneta. Seguono le
obbligazioni di grandi società, poi di quelle via via più piccole o meno solide, e infine i
mutui.
L’enorme vantaggio degli asset monetari è, ovviamente, il reddito fisso. Tuttavia, tali asset
incontrano due problematiche non da poco:
a) Non crescono. Visto che il reddito è fisso e il capitale viene
rimborsato in termini prefissati, questi asset di per sè non
aumentano di valore.6 Siccome l’interesse è l’unico
rendimento che producono, il solo modo per far crescere il
ritorno di un’obbligazione è quello di reinvestire, in tutto o
in parte, gli interessi ricevuti.7
b) Siccome sono asset monetari, e il loro valore è dato dal fatto
che sarà pagata una quantità di moneta prefissata in futuro,
ogni aumento della quantità di moneta nell’economia andrà
a detrimento del loro valore. Detto brutalmente, soffrono l’inflazione.
Prendiamo di nuovo quel titolo di Stato decennale al 2%. L’investitore riceve i suoi
200 euro che utilizza per comprarsi un paio di belle scarpe. Che cosa succede se
5
Metto in nota una nozione importante ma molto tecnica: lo Stato rimborserà il valore del titolo, ma non il suo
prezzo. Il valore di rimborso è noto all’investitore, per cui non ci sono sorprese: se il titolo rimborsa 100,
l’investitore riavrà il suo capitale se acquista il titolo, ovviamente, a un prezzo di 100 o meno. Per che mai un
investitore dovrebbe pagare un titolo che rimborsa 100 di più, per esempio 105 o 110? Questo succede per via
delle variazioni nei tassi di interesse definiti dalla banca centrale. Supponiamo che il titolo scada tra un anno e
renda il 5%. Che cosa succede se la banca centrale abbassa i tassi a 1%? Un titolo di nuova emissione a un anno
pagherà 100 rendendo 1%. Il titolo al 5% in essere sarà riprezzato dal mercato per rendere anch’esso 1% in
quell’anno, quindi 104 (103,96). Questo perché il mercato considera il ritorno totale (interessi più capitale):
100 + 4 – 105 = 1. Al di là dei numeri, il punto è che se stai comprando un titolo al 5% di cedola al prezzo di 104
e rimborso di 100, non pensare che quei 5% siano tutti di reddito! Solo 1% è reddito, i restanti 4% devono
essere accumulati solo per conservare il capitale.
6
Diverso è il caso in cui il mercato riprezza questi asset a seguito di un cambiamento nei tassi di interesse. Da
notare che il cambiamento può essere in positivo (taglio dei tassi) o in negativo (aumento dei tassi) ma questo
non ha nulla a che vedere con la potenzialità intrinseca dell’asset di crescere.
7
Supponiamo di avere un titolo di Stato al 5%, prezzo 100 euro, per cui interessi annui 5 euro. Se reinvesto
tutto l’interesse di 5 euro, il mio capitale si porta a 105 euro e il mio rendimento in termini assoluti a 105*5% =
5.25 euro.
17
l’inflazione passa da 0% a 2%? Dopo cinque anni, le scarpe costeranno 221 euro, ma
l’investitore continuerà a prendere 200 euro! E se fosse invece del 4%? 243 euro. Che
fine fa il potere d’acquisto dell’investitore? Ci siamo capiti…
Asset produttivi
Questi sono asset che generano reddito a partire dalla produzione di un prodotto o servizio.
Asset di questo tipo sono aziende, immobili, fattorie, infrastrutture.
Questi asset non hanno un valore convenzionale come quelli
tangibili, né garantiscono il rimborso del capitale come quelli
monetari: il fattore chiave del loro valore è la loro capacità di
generare cassa da qui in futuro. Tale cassa, a differenza degli asset
monetari, non è fissa.
Ora, lettori pessimisti vedranno questo come un male, perché il
fatto che non sia fissa significa che diminuisce, mentre lettori
ottimisti lo vedranno come una cosa fantastica visto che non può
che crescere.
La realtà sta nel mezzo.
Torniamo al paesino dei fabbri, e ammettiamo che i 100 fabbri si mettano insieme per
formare un’impresa. Ognuno mette 10 monete, per cui il capitale iniziale dell’impresa è di
1.000 monete.
I fabbri sono bravi. Vendono le spade sempre a 1.000 monete (situazione iniziale
dell’economia del paesino), in più, visto che si sono messi insieme risparmiano qualcosa e
quindi per costruire le spade invece di 1.000 spendono 900, per cui a fine anno la società fa
un utile (ricavi meno costi) di: 1.000 – 900 = 100 monete.
Un utile di 100 su un capitale di 1.000 significa che l’azienda ha un
ritorno sull’investimento, ossia un rendimento, del 10%. Questo
10% è il risultato della produttività dell’asset, ovvero di creare
quello che in gergo si chiama valore aggiunto.
A questo punto, i fabbri hanno due scelte: possono distribuirsi le
100 monete tra di loro in forma di dividendi,8 oppure reinvestirle
nell’attività.
Se reinvestono tutte le 100 monete di utile, e mantengono la disciplina dell’anno precedente,
che utile mi aspetto che l’impresa dei fabbri sia in grado di generare?
Se mantiene il 10% di rendimento, e il nuovo capitale è 1.100 (1.000 iniziale + 100 monete di
utile), l’utile dell’anno seguente sarà di 110.
8
Il dividendo è la porzione di utile che viene distribuita dalla società ai suoi soci. Il termine dividendo deriva
appunto dal concetto di dividere il risultato aziendale tra i proprietari della società.
18
Perché dico questo?
Perché le aziende non aumentano l’utile, e di conseguenza il loro valore, per magia, o ancora
peggio, per caso. Esiste un motivo ragionevole per il fatto che le
aziende siano in grado di incrementare la cassa generata dalla loro
attività con una certa regolarità:
1) La quantità di utile che viene reinvestito nell’attività
aziendale;
2) La capacità dell’azienda di mantenere lo stesso ritorno sul
capitale reinvestito.
Questo non vuol dire che l’utile aziendale deve crescere per sempre, giacché ci sono momenti
in cui anche ottime aziende possono fare un gran fatica, per esempio nel caso di una
depressione deflattiva: se la domanda collassa e i prezzi scendono, è quasi impossibile
mantenere gli stessi ritorni sul capitale; anzi, è già tanto non andare in perdita (la perdita
opera in senso inverso rispetto all’utile e distrugge capitale invece di accrescerlo).
Quello che voglio dire è che un investitore che investe in un gruppo di aziende sane e ben
gestite è ragionevole che nel lungo termine ottenga un capitale maggiore rispetto a quello
iniziale.
Scommetto che sai già dove sto andando a parare…
È ragionevole quindi, che l’investitore riesca a mantenere o persino ad accrescere il proprio
potere d’acquisto.
Asset E Stagioni Dell’Economia
Hai mai sentito parlare di asset allocation? È un nome altisonante (come tanti termini
finanziari in inglese), e così come asset abbastanza intraducibile (allocazione patrimoniale?
Non mi sembra renda allo stesso modo). Asset allocation significa semplicemente dare un
peso alle diverse tipologie di asset che compongono un portafoglio: quanto di uno, quanto
dell’altro.
Ora, visto che sappiamo a) come funziona l’economia, e b) le
caratteristiche delle tre tipologie di asset, non dobbiamo far altro
che combinare le due cose e ottenere una asset allocation
ragionevole.
La tabella seguente mostra la combinazione di cicli economici e
asset: all’interno di ogni riquadro ho inserito gli asset che vanno
bene in quel ciclo economico; detto meglio, asset le cui
caratteristiche sono favorevoli in quella situazione economica.
19
Crescita inflattiva
Questo è il classico caso quando tutto va bene. A volte anche troppo bene: se la banca
centrale si lascia andare e non contiene l’inflazione, in questa situazione si possono formare
delle bolle: nelle azioni (1997-1999), negli immobili (2005-2007),
nelle materie prime (petrolio: 2010-2014).
Per il resto, se la banca centrale riesce a contenere l’inflazione e la
crescita è veramente forte, l’economia tira.
Il prezzo degli immobili sale, le aziende macinano utili, e la materia
prima di turno (petrolio, rame, litio, ecc.) va alle stelle.
Crescita deflattiva
La cosa più vicina alla crescita deflattiva in età post regime aureo è
la crescita dopo il 2008, cioè quella degli ultimi anni (specialmente
in America): una crescita con bassa inflazione.
La bassa inflazione consente alle aziende di investire a buon
mercato e al tempo stesso di essere molto competitive sul prezzo.
A differenza della crescita inflattiva, anche gli asset monetari vanno
bene in questa situazione: infatti, redditi costanti e sicuri
(l’economia cresce e i debitori sono in grado di ripagare i debiti
senza troppi problemi) vanno bene in una situazione di aumento contenuto dei prezzi.
20
Recessione inflattiva
Come detto in precedenza, in questo scenario la moneta perde valore mentre l’economia si
contrae. Non ci sono molte opzioni: l’oro è generalmente considerato un’ottima alternativa
(si ritorna alla moneta metallica quando quella cartacea non funziona più), assieme alla valuta
estera (valute sane come il dollaro USA, il franco svizzero, la sterlina, lo yen).
Le materie prime possono essere un’opzione, almeno
storicamente lo sono state, a meno che non ci siano delle difficoltà
idiosincratiche di una materia in particolare, come da un po’ di anni
a questa parte è il petrolio.
Avrai notato in questo quadrante un asset particolare: obbligazioni
indicizzate. Queste obbligazioni sono titoli di Stato il cui interesse
e capitale di rimborso sono indicizzati all’inflazione (rappresentato
dall’indice dei prezzi al consumo).
Se il titolo rende l’1% e l’inflazione passa dal 2% al 3%, lo Stato riconosce la differenza con un
1% in più di rendimento (totale 2%).
Pur essendo una buona opzione contro le crisi inflattive, i titoli di Stato indicizzati vanno presi
con le pinze: infatti, lo Stato non emette questi titoli per bontà, ma perché rendono meno di
un titolo di Stato normale (a volte anche molto di meno); se l’inflazione non si verifica, il
rendimento sarà minore. Inoltre, essendo l’unico asset monetario che non paga un reddito
fisso, sono più volatili.
Recessione deflattiva
Se nel caso precedente c’erano poche opzioni, in questo ce n’è una sola: titoli di Stato. Ed è
anche abbastanza facile comprendere perché.
Nella recessione deflattiva, un forte calo della domanda fa crollare prezzi e produzione. In
questa situazione, quello che l’investitore vuole è il reddito più fisso possibile garantito dal
soggetto più solido possibile. E aggiungerei, per più a lungo possibile: titoli di Stato a lungo
termine.
Torniamo al titolo di Stato decennale per 10.000 euro al 2%. Che
cosa succede all’investitore appassionato di scarpe se l’economia va
in forte deflazione, diciamo un -2% l’anno?
Dopo 5 anni, le scarpe che prima costavano 200 euro costeranno
181 euro.
Ecco che anche un asset che produce reddito fisso, in certe
situazioni, può accrescere il potere d’acquisto dell’investitore.
21
Una nota sulle azioni
Avrai notato che le aziende (sotto forma di azioni e obbligazioni societarie) sono l’unico asset
che va bene sia in caso di inflazione che in caso di deflazione. Insomma, finché l’economia
cresce, le aziende hanno vita facile.
Un punto che vorrei sollevare è che quando dico «aziende», intendo le aziende come gruppo.
Generalmente, siamo abituati a ragionare in termini di questa o
quell’azienda, per esempio la Ferrari o l’Enel. Una può andare
bene, l’altra male, e viceversa, al di là della situazione economica.
Di conseguenza, la domanda che immagino ti starai chiedendo è:
ma come fanno ad andare tutte bene?
Infatti, non vanno tutte bene. Vanno bene nell’insieme, appunto
come gruppo.
Pensiamo alle due aziende sopraccitate, Ferrari ed Enel.
La prima vende un prodotto inutile a una nicchia di persone a cui può chiedere quello che
vuole. La seconda vende un bene essenziale a una grande quantità di persone che vogliono
spendere il meno possibile per comprarlo.
Ferrari deve investire per restare sulla cresta dell’onda, Enel deve investire per mantenere la
produzione stabile e il suo prodotto economico.
Domanda: chi delle due va meglio in una situazione di crescita inflattiva, e chi invece in una
fase di crescita deflattiva?
Ferrari, potendo aumentare il prezzo delle sue auto senza ripercussioni sui volumi, è perfetta
per un periodo di crescita inflattiva.
Enel, con la sua base di ricavi stabile, è perfetta per un periodo di
crescita deflattiva, quando il costo degli investimenti di cui
necessita per mantenere la produzione diminuisce.
Il punto fondamentale qui è che, fintanto che l’economia cresce,
entrambe vanno bene. La peggiore performance di una è
compensata dalla migliore performance dell’altra. Ma di sicuro, in
aggregato, la loro produzione si espande.
Pensala in questi termini.
Quando l’economia cresce, che vi sia inflazione o deflazione, la produzione si espande.
Quando l’economia cresce del 5%, passa ad esempio da 100 a 105 miliardi di euro, vuol dire
che la produzione aumenta di 5 miliardi.
Ora, può essere che alcune aziende abbiano prodotto di meno, ma di sicuro molte hanno
prodotto di più, perché la produzione è cresciuta, e quindi nell’insieme le aziende hanno
prodotto di più.
22
Quando ragioni in termini di asset class, devi sempre considerare gli asset in aggregato: non
Ferrari, Enel, Generali, Telecom Italia, Moncler, bensì le aziende italiane.
Perché lo facciamo? Ti rivelo un segreto della finanza: perché è molto difficile sapere in
anticipo quale sarà l’azienda vincente.
Come effettuare questo tipo di investimento in pratica è il tema del prossimo capitolo.
Per ora, restiamo ancora sull’asset allocation.
Asset Allocation All’Opera: Componiamo Un Portafoglio
Finalmente cominciamo ad addentrarci nella parte clou di questo capitolo, che risponde alla
domanda: qual è la giusta ponderazione che ciascun asset deve avere in un portafoglio?
Prima di dare una risposta, devo chiamare in causa Sir Isaac
Newton e la sua legge fisica secondo cui nel mondo ad ogni azione
corrisponde una reazione uguale e opposta.
Applicato all’economia, la legge dello scienziato britannico diventa:
ad ogni inflazione corrisponde una deflazione, ad ogni crescita una
decrescita.
Questo concetto può sembrare singolare ma è del tutto azzeccato:
se lasciate a loro stesse, le forze di mercato di credito e debito inflazionano l’economia
durante periodi di crescita (quando i creditori prestano a tutti e la liquidità abbonda), e la
deflazionano durante periodi di crisi (quando tutti vanno a batter cassa e drenano liquidità).
In sostanza, le stesse forze che fanno crescere l’economia a un certo punto funzionano
all’incontrario.9
Di conseguenza, si può affermare che l’economia abbia una equa probabilità di incappare
prima o poi in una delle quattro stagioni: 25% di probabilità ciascuna.
Per ogni stagione, prendo l’asset che performa meglio, e così facendo ottengo:
-
Crescita inflattiva, 25%: azioni.
Crescita deflattiva, 25%: azioni.
Recessione deflattiva, 25%: titoli di Stato.
Recessione inflattiva, 25%: oro e obbligazioni indicizzate.
9
Un’interessante apparizione di questo principio si ritrova anche nella Bibbia, nel libro della Genesi, 37,2 48,22. Nell’episodio Giuseppe viene chiamato a interpretare il sogno del faraone: il sovrano vede 7 anni di
vacche grasse seguiti da 7 anni di vacche magre. In economia, crescita inflattiva seguita da recessione
deflattiva. È da sottolineare che, così come l’intervento del faraone salva il paese dalla depressione, così anche
ai giorni nostri l’intervento dello Stato allo scoppio di una crisi aiuta ad accorciare drasticamente i periodi di
recessione e ad evitare la depressione.
23
Messo insieme, il portafoglio risulta così:
-
Azioni: 50%
Titoli di Stato: 25%
Obbligazioni indicizzate: 20%
Oro: 5%
La divisione fra oro e obbligazioni indicizzate è arbitraria. Potrebbe
essere 25% oro, o 25% obbligazioni indicizzate.
La mia divisione a favore delle obbligazioni indicizzate sull’oro è che
vedo molto improbabile il verificarsi di una recessione inflattiva in
Europa vista la solidità della moneta.
Un’altra opzione è inserire valuta estera, ma va presa con i dovuti
riguardi (discuterò questo punto nel paragrafo successivo).
Il 60/40: Il Portafoglio Classico
Benjamin Graham è stato un economista, professore e investitore americano attivo nella
prima metà del 1900, grosso modo fino agli anni ’70. Conosciuto anche per essere stato il
maestro del famoso finanziere Warren Buffett, Graham è considerato il padre
dell’investimento moderno.
Nel suo libro The Intelligent Investor, la cui prima edizione è del 1949, Graham consiglia un
portafoglio che contenga per il 50% azioni e per il 50% obbligazioni. Insomma, un portafoglio
molto simile al nostro.
Come Graham sia arrivato a questa divisione non è chiarissimo. C’è da dire che il grande
finanziere americano ha vissuto in pieno il periodo della Grande Depressione, e
probabilmente per questo tendeva a dare un peso maggiore ai titoli di Stato, appunto il 50%
(assieme alle obbligazioni societarie di alto livello).
Graham non è stato l’unico a uscire vincente dalla Grande Depressione.
Nel 1929, un giovane finanziere di nome Walter Morgan fondava Wellington Fund.
Preoccupato dai prezzi stellari a cui erano arrivate le azioni, Morgan
decise di gestire il proprio fondo in modo più conservativo rispetto
allo stile dell’epoca. Affiancando alla posizione azionaria titoli di
Stato e obbligazioni societarie, l’asset allocation di Wellington Fund
divenne 60% azioni e 40% obbligazioni.
Nasceva così il primo fondo d’investimento bilanciato. Così
facendo, Morgan riuscì a resistere al crollo che si sarebbe verificato
solo pochi mesi dopo l’avvio dell’attività e i successivi dieci anni di depressione.
Quasi vent’anni dopo, Walter Morgan assumeva un brillante neolaureato di Princeton, con
tante idee e passione: Jack Bogle, che oggi conosciamo come il fondatore di Vanguard.
24
La storia vuole che Vanguard andò a inglobare Wellington Fund, e lanciò essa stessa il primo
fondo bilanciato indicizzato della storia nel 1993.
Gli ottimi risultati e la forte personalità di Jack Bogle hanno fatto sì
che il 60/40 diventasse un classico per l’investitore conservativo.
Come possiamo modificare il nostro portafoglio perché diventi un
60/40?
Se ti ricordi, nel quadrante dedicato a contrastare la recessione
inflattiva (in alto a destra), ci eravamo lasciati aperta un’altra
possibilità: inserire valuta estera.
Se tale asset è rappresentato da azioni (azioni americane, per esempio), ecco che allocando
10% in più alle azioni, togliendo l’oro e un 5% dalle obbligazioni indicizzate, otteniamo il
classico 60/40:
-
Azioni: 50%
Azioni estere: 10%
Titoli di Stato: 25%
Obbligazioni indicizzate: 15%
Il Problema Dell’Oro E Del Ribilanciamento
Il portafoglio classico 60/40 non conteneva l’oro. Io stesso, anche se potevo inserirne quantità
più elevate (tecnicamente fino a un 25%), ne ho inserito una quantità ridotta. Come mai?
Se ti ricordi il discorso sulle tre tipologie di asset di qualche capitolo fa, ti ricorderai che l’oro,
in qualità di asset tangibile, non produce alcun tipo di reddito. In gergo finanziario, non ha
nessun rendimento interno.
Facciamo un esempio. Prendiamo il caso di una persona che compra una casa per 100.000
euro, la affitta per 10 anni a 3.000 euro l’anno, e la rivende a
100.000 euro.
Apparentemente, non avendo realizzato una plusvalenza, il
proprietario non ha guadagnato niente dal suo investimento.
Eppure, non è così. L’immobile è un asset produttivo in quanto
offre servizi abitativi, che producono reddito.
Anche se il proprietario non ha realizzato una plusvalenza,
l’immobile ha generato internamente 30.000 euro (3.000 euro di
affitto annuo per 10 anni di affitto). Se il proprietario ha accumulato gli affitti durante gli anni,
ora si ritrova con 130.000 euro.
Ma c’è di più: anche l’acquirente sa che l’immobile si affitta per 3.000 euro l’anno, e la sua
offerta è sostenuta dal fatto di poter continuare a ricavare l’affitto.
E cioè: il rendimento interno determina in ultima analisi il valore di un asset.
25
Nel caso dell’oro, tutto questo non c’è. Ciò pone dei grossi problemi. Per cominciare, non si
sa bene quale sia il giusto prezzo dell’oro. C’è chi utilizza come formula dividere tutti i dollari
in circolazione per tutto l’oro del pianeta e trovare il valore in dollari all’oncia, ma non c’è
alcun motivo per cui i dollari debbano inseguire l’oro, e siamo daccapo.
Il secondo problema è che l’unico modo che l’oro ha di aumentare
di valore è il fatto che gli investitori comincino a comprarlo.
Un’azione o un’obbligazione abbandonate in un conto
d’investimento per anni sicuramente genereranno ritorni positivi,
perché avranno accumulato e reinvestito i redditi generati. Ma con
l’oro questo non funziona: se gli investitori cambiano umore, l’oro
perde di valore e non c’è niente da fare.
L’unico caso in cui è ragionevole che l’oro cresca di valore è durante una crisi inflattiva.
Quello che succede è che l’oro sale di prezzo all’apice della crisi e poi scende quando le paure
spariscono. In teoria, bisognerebbe ribilanciare il portafoglio (lo vediamo tra un secondo)
vendendo l’oro in eccesso (cioè oltre l’allocazione prestabilita) e utilizzare i proventi per
comprare altri asset. In questo modo si sarebbero realizzati i proventi dell’oro in modo
definitivo, e allocati ad asset produttivi di reddito.
Il nostro guaio è che il sistema fiscale italiano non è pensato per questo tipo di operazioni. A
ogni vendita in plusvalenza si applica un’imposta del 26%, poco male che poi i proventi
vengano reinvestiti. In sostanza realizzi solo il 74% dei proventi, ma ti tieni tutte le perdite
ovviamente. Non mi sembra una gran furbata.
Personalmente, considero l’oro come un’assicurazione. È vero che abbiamo una moneta
solida, ma è anche vero che i debiti nazionali sono alti, e non sia mai che a qualcuno venga in
mente di modificare l’ordine monetario, inflazionando qui e ristrutturando là.
Un po’ di oro in portafoglio (il 5% va benissimo) ancora una volta,
è solo buon senso. Unico avvertimento: non gongolare troppo
quando va su e non disperarti poi quando lo vedi crollare.
Avrai sicuramente sentito parlare del Bitcoin. Ebbene, il
ragionamento che vale per l’oro vale anche per il Bitcoin: una
valuta alternativa che non può essere controllata da nessuna
banca centrale. In pratica, una valuta la cui quantità resta fissa.
Il vantaggio del Bitcoin rispetto all’oro è che è più simile ad una
valuta normale nella misura in cui può essere usato per comprare beni e servizi. Lo svantaggio
è che, a differenza dell’oro, che ha alle spalle una storia millenaria come bene rifugio, il Bitcoin
ha un futuro estremamente incerto riguardo alla sua accettazione diffusa.
Per il momento, lo considero un asset speculativo. Se si dovesse affermare effettivamente
come valuta alternativa, potrebbe sicuramente andare a comporre una parte della porzione
di portafoglio oggi rappresentata dall’oro, diciamo un 1%.
26
Il Problema Del Ribilanciamento
Nel paragrafo precedente ho accennato alla tecnica del ribilanciamento. Concretamente,
ribilanciare un portafoglio significa riallocare gli asset da una classe all’altra quando queste
perdono la loro ponderazione iniziale.
Prendiamo il nostro portafoglio, e per semplicità eliminiamo l’oro
in modo da avere 50% azioni e 50% obbligazioni. Se, dopo qualche
anno dall’investimento, le azioni sono cresciute del 50%, mentre le
obbligazioni non sono cresciute affatto, il portafoglio è diventato
60% azioni e 40% obbligazioni.
Quello che l’investitore dovrebbe fare è vendere quel 10% di
plusvalenza sulle azioni e comprare altrettante obbligazioni, in
modo da riportare il portafoglio in equilibrio 50/50.
Il vantaggio del ribilanciamento è di mantenere il portafoglio, appunto, sempre ben
bilanciato.
Tuttavia, vi sono due svantaggi non da poco.
Il primo è che ribilanciare, in pratica, significa vendere l’asset che sta andando meglio e
comprare quello che sta andando peggio.
Durante periodi di crescita, bisogna vendere le azioni che stanno crescendo bene per
comprare obbligazioni, durante periodi di crisi bisogna vendere le solide obbligazioni per
comprare le azioni che sono collassate. Psicologicamente, fare questo non è facile.
Il secondo problema è, come avevo accennato anche riguardo all’oro, di natura fiscale. A ogni
vendita in plusvalenza, lo Stato porta a casa il 26%. Se ribilanci ogni anno, vuol dire che lasci
allo Stato il 26% delle tue plusvalenze annue.
Nel caso di prima, se un portafoglio 50/50 diventa 60/40, vuol dire
che le azioni sono 75 e le obbligazioni 50. Per riportare il portafoglio
in equilibrio, devo vendere 12,5 azioni e comprare altrettante
obbligazioni (62,5/62,5 = 50/50). Tuttavia, non porterò a casa 12,5
ma solo 9,25 al netto delle tasse.
Ci sono due potenziali soluzioni a questo problema.
Primo, se hai costruito un portafoglio a distribuzione,10 puoi accumulare una parte dei redditi
in liquidità e utilizzarla per acquistare l’asset che sta andando peggio. Nel caso precedente,
10
Un fondo a distribuzione è un fondo che distribuisce agli investitori i dividendi ricevuti dalle società in
portafoglio (o gli interessi ricevuti dalle obbligazioni). Un fondo a capitalizzazione invece reinveste i dividendi in
nuove partecipazioni.
27
se il portafoglio rende il 3% annuo in dividendi e interessi potresti avere 3 euro all’anno da
riallocare, ossia tra i 15 e 20 euro dopo cinque anni.11
Secondo, puoi ribilanciare non ogni anno ma una volta ogni 5 o perfino 10 anni. In questo
caso fai correre un po’ gli asset, correndo il rischio però di incappare in una stagione avversa
con il portafoglio non in equilibrio.
A parer mio, la scelta è del tutto personale, e riguarda:
a) La personalità dell’individuo: preferisci lasciar correre e
ottenere ritorni più alti o essere sempre protetto?
b) La sua età: per un giovane la situazione è diversa, come
vedremo nel prossimo paragrafo.
c) La sua situazione finanziaria in generale: quanto guadagni,
quanto stabile è il tuo reddito; hai degli altri asset, per esempio
immobili, oltre a quelli del tuo portafoglio?, ecc.
Asset Allocation Ed Età Dell’Investitore
Così come l’economia, anche la vita umana segue dei cicli: cresciamo, diamo il meglio di noi,
e ci riposiamo. Da un punto di vista finanziario, l’età dell’investitore fa una grossissima
differenza.
Torniamo alle quattro stagioni dell’economia, due di crescita e due di crisi. Per l’investitore
che va a investire il suo patrimonio, soldi guadagnati in una vita o l’eredità di famiglia, avere
un portafoglio che sia sempre pronto ai cambiamenti dell’economia è fondamentale.
Ma per l’investitore giovane, nei suoi venti e trent’anni, la
situazione è diversa. Generalmente, l’investitore giovane un
patrimonio non ce l’ha. Lo sta accumulando. Per questo investitore
l’asset principale è sè stesso.
Ora, sappiamo che l’economia attraversa quattro cicli: due di
crescita e due di crisi. Sappiamo che le azioni sono l’asset più
ragionevolmente in grado di accrescere il potere d’acquisto
dell’investitore nel lungo termine. Tuttavia, sprofondano durante
periodi di crisi.
Ebbene, per l’investitore giovane che sta accumulando, i periodi di crisi sono in realtà periodi
di opportunità. Se l’investitore ha un reddito da lavoro ragionevolmente stabile, qualsiasi
collasso azionario rappresenta un’ottima occasione per acquistare l’asset a sconto.
11
Anche in questo caso ci sono le tasse da pagare: l’imposta sul dividendo è anch’essa del 26%. La differenza
sta nel fatto che l’investitore che opta per un portafoglio a distribuzione sa già che dovrà pagare l’imposta: a
questo punto, può aver senso accumulare una parte e reinvestirla senza andar tanto a toccare il capitale.
28
Di conseguenza, l’investitore che accumula deve ignorare i periodi di crisi e focalizzarsi solo
su quelli di crescita. Per questo investitore, il portafoglio diventa semplicemente:
-
Azioni: 100%
Se l’investitore è titubante e preferisce avere un cuscinetto anche
all’interno del suo portafoglio, si possono inserire dei titoli di Stato
in caso di una recessione deflattiva per cui risulta:
- Azioni: 75%
- Titoli di Stato: 25%
Inoltre, consiglio sempre anche all’investitore più intraprendente
di avere delle riserve di liquidità: a seconda della stabilità del tuo
reddito, ti consiglio di tenere liquidità almeno per 6 mesi se hai un lavoro stabile, 12 mesi se
lavori in proprio o hai un contratto a scadenza.
Una Nota Di Cautela Sull’Asset Allocation «Perfetta»
In questo capitolo abbiamo applicato le nostre conoscenze sul funzionamento l’economia
agli investimenti. Attraverso un’analisi quasi scientifica degli asset e delle condizioni
economiche, abbiamo costruito un portafoglio conservativo.
Vorrei però concludere il capitolo con una nota di cautela sul concetto di asset allocation
«perfetta», che venga da me o da altri economisti.
La nostra analisi si basa soprattutto sulla storia. Inoltre, presuppone
un’economia chiusa, dove l’investitore investe solo nel proprio
paese.
La realtà è un po’ diversa: la storia non si ripete esattamente,12 e
l’economia non è chiusa. Gli investitori possono e anzi dovrebbero
investire anche fuori dal paese in cui vivono.
Per esempio, qual è il ruolo dei titoli di Stato se il loro rendimento
è zero? Qual è il ruolo delle azioni se il loro prezzo va alle stelle?
Dico questo non per sconfessare ciò che ho appena scritto, tutt’altro: partendo dalle solide
basi che abbiamo posto, può essere ragionevole (del resto, tutto questo libro si basa sul buon
senso) modificare la nostra asset allocation standard se il momento storico lo richiede.
Se le azioni raggiungono prezzi esagerati, può essere utile sovrappesare i titoli di Stato. Se
questi ultimi offrono rendimenti ridicoli (per esempio negativi), può aver senso sovrappesare
le azioni (o l’oro).
12
È attribuita a Mark Twain la frase «la storia non si ripete ma fa rima».
29
Prendo ad esempio il fondo sovrano della Norvegia, che è anche il più grande fondo
d’investimento del mondo.13
Partiti da un’allocazione ultra-conservativa di 100% obbligazioni, negli
anni sono passati prima al 40/60 (una versione conservativa persino
per Graham, dove le obbligazioni pesano per il 60%), poi al 60/40, e
ultimamente hanno adottato questa allocazione:
-
Azioni: 70%
Obbligazioni: 25%
Immobili: 5%
Come vedi, non è una gran dipartita dalla nostra allocazione standard, solo un aggiustamento
dato dal momento storico (tassi sui titoli di Stato molto bassi) e dalla portata
dell’investimento (la Norvegia investe in tutto il mondo con un orizzonte temporale
lunghissimo, potenzialmente perpetuo).
Insomma, è ritenuto ragionevole che un portafoglio si possa scostare anche di un 10-15 punti
percentuali dall’allocazione ideale: se ben implementato, un 50/50 può quindi diventare un
60/40, 65/35 o in certi casi anche 70/30 senza far danni.
13
Alla fine degli anni Sessanta, la Norvegia scoprì cospicui giacimenti di petrolio e gas nel Mare del Nord.
Invece di lasciare l’estrazione delle risorse a stranieri e spendere il ricavato delle vendite di gas e petrolio, la
Norvegia istituì una società petrolifera nazionale, che oggi si chiama Equinor (l’equivalente della nostra ENI), e
al tempo stesso creò un fondo pubblico gestito dal Governo che aveva il compito di accumulare e investire per
il futuro i proventi di Equinor. Il fondo, il cui nome ufficiale in italiano è Fondo Pensione Governativo Globale,
oggi ha più di un trilione di dollari di asset ed è il più grande fondo d’investimento del mondo.
30
CAPITOLO 3: AZIONI E OBBLIGAZIONI: COME INVESTIRE IN MODO EFFICACE
Nei primi due capitoli abbiamo visto:
1) che investire significa veramente mantenere il proprio potere d’acquisto nei diversi
cicli economici; e
2) che combinando asset con caratteristiche diverse è possibile ottenere un
portafoglio che protegga l’investitore nei diversi cicli economici.
In questo capitolo, ci spostiamo da una visione macro a una visione
micro, ossia come investire pragmaticamente negli asset che
compongono un portafoglio.
Se non sei proprio nuovo del mondo degli investimenti, immagino
avrai sentito o letto innumerevoli volte consigli su che azione
comprare, che azione sta andando su, che azione sta per crollare.
Prima di entrare nel merito di che azioni comprare e come
comprarle, dobbiamo però capire come funziona il mercato
finanziario. Non perché ci interessa culturalmente, ma perché è prerequisito per
comprendere quale sia effettivamente il miglior modo di investire in azioni.14
Come Funziona Il Mercato Finanziario
Ti ricordi il paesino dei fabbri?
Li avevamo lasciati che si erano messi insieme per fondare la loro azienda: capitale di 1.000
monete, soci i 100 fabbri.
La proprietà dell’azienda è divisa in azioni. Ogni fabbro ha un’azione, per cui esistono 100
azioni del valore di 10 monete l’una.
Ora, al fabbro banchiere viene in mente di creare un mercato
dove i fabbri si possono scambiare le azioni fra di loro.
L’impresa dei fabbri è profittevole, e guadagna il 10% sul
capitale all’anno. Dopo un anno, l’azienda ha fatto un utile di
100, e tutti i fabbri hanno guadagnato 1 moneta a testa.
A un certo punto, giungono notizie che gli affari per l’anno
dopo potrebbero non andare bene. Spaventati, 50 fabbri
decidono di vendere le loro azioni ai restanti 50.
14
La stessa metodologia vale anche per le obbligazioni.
31
Invece, l’anno dopo l’azienda continua a guadagnare e fa altre 100 monete di utile.
Come viene ripartita questa ricchezza? Non fra tutti i fabbri, giacché 50 hanno venduto le
loro azioni, e perciò non hanno diritto alla ripartizione del patrimonio aziendale.
I 50 fabbri che sono rimasti azionisti hanno guadagnato 2 monete
a testa, mentre gli altri fabbri zero.
Al che questi ultimi decidono di ricomprare le loro azioni, per cui di
nuovo i 100 fabbri hanno 1 azione a testa.
L’anno dopo però, gli affari vanno effettivamente male e l’impresa
dei fabbri perde 100 monete.
Se l’utile accresce il patrimonio dell’azienda e dei suoi azionisti, la
perdita funziona in senso inverso, e cioè riduce il capitale aziendale e il valore delle azioni.
Data la perdita di 100 monete, i 100 fabbri azionisti perdono 1 moneta di patrimonio a testa.
Se tiriamo le somme di questi 3 anni, descritte nella tabella sotto, ogni fabbro ha guadagnato
in totale 1 moneta.
Anno
Utile aziendale (monete)
Fabbri
Guadagno per fabbro
1
100
100
1
2
100
100
1
3
-100
100
-1
Totale
100
100
1
Tuttavia, questo è solo un valore medio: nello specifico, i 50 fabbri che sono rimasti azionisti
hanno guadagnato 2 monete a testa, i 50 che hanno venduto e ricomprato hanno guadagnato
zero.
Quello che abbiamo visto è ciò che avviene a livello contabile, ovvero la ricchezza reale che
accresce o decresce in mano ai fabbri a seguito dell’attività d’impresa.
Ma il mercato finanziario è più complesso di così. Vediamo infatti
come questa dinamica viene rappresentata da un punto di vista di
movimenti di capitale.
Quando l’impresa dei fabbri guadagna 100 monete di utile al
primo anno, il capitale aziendale diventa di 1.100 monete (1.000
di capitale iniziale più 100 di utile), e ogni azione vale 11 monete
(1.100 di capitale diviso 100 azioni).
A questo punto, 50 fabbri vendono le loro azioni, e realizzano 1 moneta di guadagno a testa.
Questo guadagno avviene in conto capitale, oggi diremmo un capital gain: è la differenza tra
il prezzo di acquisto dell’azione, 10 monete, e il prezzo di vendita, 11 monete.
32
Il secondo anno, l’azienda fa altre 100 monete di utile, sicché il capitale è ora di 1.200, e ogni
azione vale 12 monete (1.200 di capitale diviso 100 azioni).
I 50 fabbri che avevano venduto ricomprano le azioni, ma c’è un problema: ciascuno ha
venduto la propria azione per 11 monete, ma adesso ogni azione vale 12 monete.
I 50 fabbri devono quindi aggiungere 1 moneta a testa rispetto al prezzo di vendita, per cui il
loro guadagno precedente si azzera.
Gli altri 50 fabbri che erano rimasti azionisti e che ora rivendono le
azioni ai fabbri che avevano venduto, invece, realizzano 1 moneta di
plusvalenza rispetto a quanto le avevano comprate.
Da un punto di vista di mercato, nel secondo anno l’azienda passa da
una capitalizzazione di 1.100 monete a 1.200 monete.
Oggi diremmo che «il mercato» ha guadagnato 100 monete, ossia che
gli investitori come gruppo hanno guadagnato 100 monete.
Questo, però, non è vero, giacché solo 50 fabbri hanno guadagnato 100, mentre gli altri 50
zero.
Da ciò cominciamo a trarre alcune importanti conclusioni:
-
I ritorni sugli investimenti azionari corrispondono agli utili che le aziende sono in
grado di generare.
-
I ritorni degli investitori come gruppo devono essere uguali ai ritorni di mercato.
-
Maggiori ritorni da parte di alcuni investitori vengono ottenuti a discapito di altri.
Un Gioco A Somma Zero
Dopo aver guadagnato più dei loro concittadini, i 50 fabbri vincenti si sentono esaltati:
perché accontentarsi di quello che possono guadagnare tutti quando si può avere di più?
Si chiudono in una stanza e cominciano a pensare a come continuare la loro serie vincente:
si aspettano che il prossimo anno l’azienda andrà di nuovo
in perdita, per poi conseguire due anni di utile.
Di conseguenza, vendono le loro azioni agli altri 50 fabbri.
Dopo la perdita del terzo anno, al quarto anno l’azienda
vale 1.100 monete. I 50 fabbri vendono le loro azioni a 11
monete l’una.
Durante l’anno l’azienda non va in perdita, ma consegue
un utile di 100: come prima, i 50 fabbri che restano
33
investiti guadagnano 2 monete ciascuno, mentre gli altri zero.
Quando i 50 fabbri ricomprano le loro azioni, l’azienda vale 1.200 monete e i fabbri devono
sborsare 12 monete per azione.
Nei due anni che seguono, l’azienda consegue un anno di utile
per 100 monete e uno di perdita per altrettante, sicché alla
fine del sesto anno l’azienda vale sempre 1.200 monete e ogni
azione 12 monete.
Vediamo la dinamica in questi 6 anni per i due gruppi:
chiamiamo i fabbri che hanno venduto e ricomprato
nei primi 3 anni Gruppo 1, mentre gli ultimi descritti
nell’ultimo paragrafo Gruppo 2.
Riportiamo i guadagni che ogni gruppo ha portato a
casa in ogni anno e li compariamo con quello che hanno portato a casa gli investitori come
gruppo, cioè i fabbri nel loro insieme.
Dividiamo i ritorni in due periodi per poi prendere il totale.
Anno
1
2
3
Primi 3 anni
100
100
-100
100
Gruppo 1
50
0
-50
0
Gruppo 2
50
100
-50
100
100
100
-100
100
Utile aziendale
Investitori come gruppo
Risultato: il Gruppo 2 ottiene i ritorni a discapito del Gruppo 1.
Anno
1
2
3
Ultimi 3 anni
100
100
-100
100
Gruppo 1
50
50
-50
50
Gruppo 2
0
50
-50
0
50
100
-100
50
Utile aziendale
Investitori come gruppo
Risultato: il Gruppo 1 ottiene i ritorni a discapito del Gruppo 2.
Ora vediamo tutta la dinamica nei 6 anni considerati.
Anno
1
2
3
4
5
100
100
-100
100
100
-100
200
Gruppo 1
50
0
-50
100
50
-50
100
Gruppo 2
50
100
-50
0
50
-50
100
100
100
-100
100
100
-100
200
Utile aziendale
Investitori come gruppo
6 Totale 6 anni
34
Risultato: nel lungo termine i ritorni superiori dei due gruppi di investitori si annullano e ogni
gruppo ottiene i ritorni di mercato.
Il motivo è molto semplice: come sono calcolati i ritorni di mercato,
ovvero degli investitori come gruppo?
È una media ponderata. Per l’anno 1 sarà:
100 x (50/100) + 100 x (50/100) = 100
Il che vuol dire che per raggiungere ritorni superiori al mercato un
investitore dovrà ottenere ritorni superiori alla media.
Può sembrare apparentemente semplice, ma pensaci bene: quante probabilità ci sono di fare
meglio della media?
Per un dato anno, 50% (la mia maestra delle elementari diceva: se non è zuppa, è pan
bagnato).
Ma su due anni? La statistica ci dice che la probabilità scende al 25% (50% x 50%). Su 4 anni?
12,5%. E così via.
Nel lungo termine, fare meglio della media è un’impresa titanica.
La ricerca di ritorni superiori a quelli ottenibili semplicemente investendo nel mercato è un
gioco a somma zero:
-
I ritorni degli investitori come gruppo devono essere uguali ai ritorni di mercato;
-
Qualsiasi maggiore ritorno che un gruppo di investitori ottiene avviene a discapito di
un altro gruppo di investitori, che invece ottengono un ritorno inferiore;
-
La probabilità di battere la media di mercato diventa tanto più bassa quanto più lungo
è l’orizzonte temporale dell’investitore: nel lungo periodo, le probabilità di fare
meglio della media sono risibili.
Un Gioco A Perdere
Se pensi che il mercato finanziario sia così generoso, ti sbagli di
grosso.
Infatti, esiste un altro soggetto che vuole partecipare ai ritorni di
mercato, e vi partecipa in un modo alquanto bizzarro, ossia senza
investire né rischiare il proprio capitale. Tali soggetti sono,
naturalmente, gli intermediari finanziari.
35
Vedendo che i fabbri hanno preso gusto a giocare un gioco a somma
zero, il fabbro banchiere pensa di guadagnarci: ogni volta che un
gruppo di fabbri esegue una transazione, il fabbro banchiere fa
pagare una commissione di 10 monete.
Quali sono ora i ritorni degli investitori?
Anno
1
2
3
4
5
100
100
-100
100
100
-100
200
0
10
10
10
10
0
40
Gruppo 1
50
-10
-60
100
50
-50
80
Gruppo 2
50
100
-50
-10
40
-50
80
Investitori come gruppo
100
90
-110
90
90
-100
160
Ritorni di mercato
100
100
-100
100
100
-100
200
Utile aziendale
Commissioni
6 Totale 6 anni
Risultato: le commissioni del sistema finanziario riducono i guadagni per tutti gli investitori
di tale importo.
Quando consideriamo gli investitori come gruppo, questi falliscono non solo di ottenere
ritorni superiori, ma addirittura di ottenere i ritorni del mercato, ossia gli utili generati dalle
aziende che possiedono.
Un gioco che prima era a somma zero si trasforma in un gioco a perdere per tutti gli
investitori.
Il Modo Vincente Di Investire
Supponiamo che tra i 100 fabbri investitori vi sia un terzo gruppo, che non è interessato alle
strategie finanziarie, ma è contento di tenere le sue azioni e restare investito nell’azienda.
Questo gruppo, che chiamiamo Gruppo 3, non effettua nessuna
transazione.
Per semplicità di calcolo, supponiamo che i tre gruppi di fabbriinvestitori contengano lo stesso numero di individui (1/3 ciascuno)
e che l’utile aziendale sia di 150 monete invece che di 100,
altrimenti vengono fuori numeri orribili (che economista sarei se
non usassi anch’io un po’ di contabilità creativa?).
Dopo 6 anni, questi sono i ritorni dei 3 gruppi di investitori:
36
Anno
1
2
3
4
5
150
150
-150
150
150
-150
300
0
10
10
10
10
0
40
Gruppo 1
50
-10
-60
50
100
-50
80
Gruppo 2
50
100
-50
50
-10
-60
80
Gruppo 3
50
50
-50
50
50
-50
100
Investitori come gruppo (pro quota)
50
47
-53
50
47
-53
87
Ritorni di mercato (pro quota)
50
50
-50
50
50
-50
100
Utile aziendale
Commissioni
6 Totale 6 anni
Restando investiti per l’intero periodo, gli investitori del terzo gruppo raggiungono due
importanti risultati:
1) Ottengono per ogni anno il rendimento medio di mercato;
2) Non incorrono in nessuna commissione.
Di conseguenza, gli investitori del Gruppo 3 sono gli unici che riescono a ottenere gli stessi
ritorni del mercato, o meglio che riescono a percepire la totalità degli utili prodotti dalla loro
azienda.
Così facendo, gli investitori del Gruppo 3 ottengono il miglior rendimento effettivo fra tutti
gli investitori.
Da notare che questo si verifica anche nel caso in cui un gruppo di investitori, diciamo il
Gruppo 1, ottenga risultati superiori. Siccome il Gruppo 1 ottiene i risultati a discapito del
Gruppo 2, i ritorni degli investitori come gruppo, al netto delle commissioni, saranno sempre
inferiori ai ritorni di mercato.
Pertanto, la strategia del Gruppo 3 garantisce di ottenere ritorni sempre superiori alla
maggioranza degli investitori, se questi incorrono in costi (sotto forma di commissioni) nella
ricerca di rendimenti superiori alla media di mercato.
Il modo vincente di investire in azioni (e allo stesso modo in obbligazioni) è quella di:
-
Essere investiti nella totalità del mercato, ovvero essere ampiamente diversificati;
-
Restare investiti per il maggior tempo possibile;
-
Minimizzare i costi.
Il Santo Graal Dell’Investitore: Il Fondo Indicizzato
Fintanto che sul mercato dei fabbri c’è una sola azienda, non è certo
difficile rimanere investiti: quando l’economia del paesino va bene,
l’azienda produce utili, mentre va male quando l’economia annaspa.
37
In altri termini, non esiste un vero e proprio rischio d’impresa, ovvero che un evento specifico
possa affondare la propria azienda indipendentemente dall’andamento dell’economia.
A un certo punto, i fabbri non sono più d’accordo sul modo
di condurre l’impresa e decidono perciò di scioglierla. Si
dividono in 10 gruppi di soci e creano 10 aziende più piccole.
Per far in modo che un gruppo possa partecipare
nell’azienda dell’altro e viceversa, i fabbri creano un mercato
dei capitali simile a una borsa valori, chiamiamola la borsa
dei fabbri.
Ogni impresa ha un capitale iniziale di 100 monete. Quello
che succede però, è che le imprese non sono tutte
produttive allo stesso modo: c’è chi ha un ritorno sul capitale del 15%,
chi solo del 5%. Quando le imprese sono quotate sulla borsa dei fabbri,
questi allocano il capitale per rispecchiare questa produttività.
In termini finanziari, i fabbri allocano più capitale all’impresa capace di ottenere il maggior
ritorno sul capitale: questi ritorni determinano la capacità dell’impresa di generare cassa in
futuro, e quindi di aumentare il proprio valore. Se l’impresa con capitale 100 ha un ritorno
del 15% l’anno, quanto sono disposto a pagarla oggi? 100 di valore attuale + 15 di utile a un
anno: 115. Quanto invece per l’impresa che ha un ritorno solo del 5%? 105.15
Se il mercato dei fabbri riesce ad allocare le risorse senza
impedimenti, ogni azienda rispecchierà il suo vero valore e il mercato
si dirà efficiente.
Il mercato dei fabbri si presenta così (la colonna Azienda contiene le
10 aziende create dai fabbri, la colonna Ritorno la capacità delle
aziende di produrre utile, e Capitalizzazione il prezzo che i fabbri
danno alle aziende):
Azienda
Ritorno Capitalizzazione
Spada
15%
115
Scudo
13%
113
Pugnale
12%
112
Tenaglia
12%
112
Bardatura
10%
110
Cotta di Maglia
10%
110
Incudine
8%
108
Martello
8%
108
Ferro
7%
107
Lancia
5%
105
15
Nella realtà il mercato finanziario proietta i ritorni futuri di molti anni avanti; le continue fluttuazioni sui
mercati sono il risultato di continue modifiche delle aspettative degli operatori dei ritorni futuri delle aziende.
38
Il risultato delle transazioni di mercato dei fabbri determina ciò che chiamiamo
capitalizzazione, ossia il prezzo che il mercato dà alle aziende quotate.
Più il mercato è efficiente, più la capitalizzazione rispecchierà il vero
valore dell’azienda.
Dando un prezzo diverso a ciascuna azienda i fabbri hanno creato un
indice di mercato. L’indice non è altro che un paniere di aziende
ordinate e pesate in base alla loro capitalizzazione di mercato.
Ti ricordi dei fabbri che erano rimasti sempre investiti nell’azienda
precedente la divisione? Ebbene, quei fabbri hanno un’idea:
fondano una società di investimento,16 di cui tutti loro sono azionisti, la quale acquista delle
partecipazioni in tutte le 10 nuove aziende.
In questo modo, i fabbri possono continuare a essere investiti nell’intero mercato ed
ottenere i ritorni che questo genera.
I fabbri hanno creato un moderno fondo indicizzato.
Da notare che il fondo indicizzato dei 20 fabbri non muove mai le sue partecipazioni, giacché
è il mercato che determina l’indice. Il fondo unicamente rispecchia questi valori, e nel farlo
ottiene ritorni medi.
Prendiamo l’azienda Spada, la più capitalizzata. Come si determina
questa capitalizzazione? All’inizio Spada è valutata 100 come le
altre società. Visti i buoni ritorni attesi, un fabbro la compra dai
proprietari iniziali a 120. Convinto di averla pagata un po’ troppo,
la rivende a un altro fabbro per 115.
Qual è il ritorno del fondo indicizzato? 15%.
Qual è il ritorno degli operatori di mercato?
Proprietari iniziali
Primo fabbro
Secondo fabbro
Ritorno complessivo
20
-5
0
15
Dato che il capitale iniziale di Spada era 100, in termini percentuali il ritorno complessivo è
del 15% (15/100).
Applicando la medesima metodologia a tutte e 10 le aziende sul mercato, otteniamo un
ritorno medio del 10%, che sarà il ritorno ottenibile dai fabbri che partecipano nel fondo
indicizzato.
16
Una società di investimento è una società il cui unico scopo è quello di investire in altre società. Al posto di
uffici, macchinari, e un’attività operativa, la società di investimento ha solo partecipazioni (quote o azioni) di
altre società.
39
A questo punto scommetto che ti è sorta una domanda: ma se io so che l’azienda Spada
genera ritorni del 15%, perché mai dovrei diversificare andando a prendere l’intero mercato,
che include aziende che guadagnano molto di meno?
Questa non è una domanda, ma la domanda del mondo degli
investimenti, e ti risponderò dividendo le argomentazioni in due
parti: una economica e una psicologica.
Dal punto di vista economico-finanziario, il punto è che i ritorni sul
capitale non sono scritti nella roccia: se un’azienda ha alti ritorni
sul capitale, ossia guadagna tanto, inizierà ad avere aziende
concorrenti che cominciano a girare intorno al suo bellissimo
business, cercando di portarne via una fetta. Questa dinamica
basata sulla competizione è alla base di un sistema capitalistico ben funzionante.
Cosa significa? Che te la devi aspettare.
Un’azienda con alti ritorni sul capitale dovrà cercare continuamente di allontanare la
concorrenza, pena la riduzione dei suoi ritorni, o peggio, il suo annientamento da parte di un
concorrente: questo è, in sintesi, il rischio d’impresa.
Bada bene che il mercato è brutale su questo: se al secondo anno di quotazione Spada genera
ritorni del 5%, il mercato rialloca immediatamente le risorse riducendone la capitalizzazione
da 115 a 105. Il fabbro che aveva comprato a 115 si ritrova dunque in perdita.
Il secondo motivo è psicologico, e dipende da che tipo di investitore sei.
Graham, il finanziere americano di cui abbiamo parlato in precedenza, divideva gli investitori
in difensivi e intraprendenti. Se sei un investitore difensivo, starai più attento a non incorrere
in perdite. Se sei un investitore intraprendente, avrai come obiettivo raggiungere ritorni
superiori anche a rischio di incappare in perdite maggiori.
L’investitore intraprendente
cercherà aziende con alti
ritorni sul capitale che
abbiano la capacità di tener
lontana la concorrenza per
lungo termine: in gergo,
aziende con un forte vantaggio competitivo.
D’altro canto, l’investitore difensivo dovrebbe, a mio avviso, essere più incline a un
investimento che gli consenta di ottenere ritorni medi limitando il rischio d’impresa: questo
è, alla fin fine, ciò che si ottiene con un fondo indicizzato.
Se sei un investitore difensivo o intraprendente devi saperlo te. Diventare investitore
intraprendente non è impossibile, ma non è neanche semplice: devi saper leggere un
40
bilancio, conoscere molto bene il business e saper fare delle stime sul suo futuro, saper
valutare un management aziendale e saper attribuire un valore all’azienda stessa.
Inoltre, come ho scritto sopra, le probabilità di battere la media
sono poche: più diversifichi il tuo portafoglio, e più sarà difficile
ottenere ritorni superiori al mercato. Per fare meglio, dovrai andare
a prendere gli outlier,17 ossia quei titoli che hanno dei ritorni molto
superiori al mercato.
Oltre al fatto che sapere chi sarà un outlier in anticipo non è per
niente facile, così facendo inevitabilmente aumenti il rischio
d’impresa nel tuo portafoglio (nota bene: un outlier può anche
esistere al ribasso, ossia chi fa molto peggio del mercato).
Tuttavia, possono esistere dei buoni motivi per cui può essere sensato anche per l’investitore
difensivo avere titoli singoli: questo nel caso in cui l’investitore si interessi del business,
conosca molto bene l’azienda che sta comprando e intenda tenerla per il lungo termine.
In ogni caso, consiglio all’investitore difensivo di non eccedere il 10-15% del suo capitale
investito in titoli singoli.
Principali Indici
Se hai già dato un’occhiata ai fondi in circolazione, avrai notato che esiste una quantità
enorme di indici. Alcuni raggruppano le aziende per settore, altri per caratteristiche come
crescita o valore, altri ancora sulla base del dividendo che viene distribuito, e così via. Vi sono
poi indici per praticamente ogni paese del mondo.
A mio avviso, l’investitore difensivo dovrebbe attenersi a indici con due caratteristiche:
1) Che rappresentino il più possibile un intero mercato, e non segmenti di esso;
2) Che ponderino le aziende sulla base della capitalizzazione di mercato.
In questo modo, l’investitore dovrebbe assicurarsi di ottenere un risultato medio.
Qualsiasi deviazione da questa formula, per quanto sensata possa
essere (come, ad esempio, un indice che rappresenta aziende con
un ottimo record di pagamento di dividendi), espone l’investitore
al rischio di non ottenere ritorni medi.
Prendiamo il caso dell’America, culla del capitalismo moderno. Il
primo indice americano è stato il Dow Jones Industrial Average,
ancora oggi ampiamente utilizzato anche se molto meno di un
tempo. Il DJIA contiene un paniere di 30 titoli (i cosiddetti 30 tiranni del Dow), generalmente
17
Un outlier è un punto in una distribuzione statistica che si scosta significativamente dalla media. Se, per
esempio, gli italiani sono alti in media 175 cm, una persona alta 2 metri è un outlier.
41
le aziende più capitalizzate d’America, pesate non sulla base della capitalizzazione ma sulla
base del prezzo dell’azione singola.
L’indice americano più famoso è però lo Standard & Poor’s 500, che
probabilmente avrai già sentito nominare come S&P 500. Questo
indice, divenuto in voga negli anni ’50 (quando conteneva solo 100
titoli) rappresenta le 500 aziende americane quotate più
capitalizzate ordinate per capitalizzazione.
Inoltre, S&P richiede certe caratteristiche perché le aziende siano
ammesse all’indice, tra cui la provata profittabilità.
Nonostante il suo largo utilizzo, l’S&P 500 rappresenta circa il 75%80% dell’intero mercato delle aziende americane quotate.
Un indice che racchiude la quasi totalità del mercato americano è invece il Wilshire 5000, che
contiene la quasi totalità delle aziende americane quotate più capitalizzate e ordinate per
capitalizzazione (circa 3.500).
Cosa scegliere?
Il DJIA, con il suo paniere limitato e lo strano modo di ponderare le aziende, non è una scelta
ottimale.
La scelta tra l’S&P 500 e il Wilshire 5000 è discutibile. Per alcuni, il Wilshire è la scelta giusta
perché rappresenta meglio la media di mercato. Secondo altri, l’S&P genera di fatto gli stessi
ritorni ma con meno rischio per via del fatto che si concentra su aziende più grandi, e quindi
più solide, e per via dei paletti all’ingresso che limitano azioni speculative.
Nonostante le ottime ragioni di entrambi, mi sento di parteggiare di più con l’S&P.18 Inoltre,
è molto più facile trovare fondi in Europa che replichino l’S&P 500 che non il Wilshire.
In Europa, vi sono degli indici nazionali e continentali. Quelli
nazionali più importanti sono:
-
Italia: FTSE MIB
Germania: DAX 30
Francia: CAC 40
Svizzera: SMI
Olanda: AEX
Spagna: IBEX 35
Regno Unito: FTSE 100
18
Con le parole di Ben Graham (traduzione mia) «l’investitore difensivo deve limitarsi alle azioni di società
importanti con un’attività da lungo tempo profittevole e in ottime condizioni finanziarie», The Intelligent
Investor, p 28.
42
A livello continentale, i più usati sono lo Stoxx Europe 600 per tutta l’Europa e l’Euro Stoxx
che invece si concentra sull’Eurozona.19
Spostandoci verso l’Asia, gli indici più importanti sono:
- Nikkei 225: storico indice giapponese, da prendere con le pinze
perché costruito come il DJIA;
- FTSE Japan: indice che racchiude le 400 aziende più
capitalizzate del Giappone ordinate per capitalizzazione;
- MSCI China: indice che racchiude le aziende cinesi a cui gli
investitori internazionali hanno accesso.
Esiste poi un altro famoso indice, il MSCI Emerging Markets, che racchiude la maggior parte
dei cosiddetti mercati emergenti.
Essendo la Cina ancora inclusa nell’indice e rappresentandone la
quota maggioritaria, è un buon modo per investire nell’ex Impero
Celeste indirettamente.
Esistono poi altri indici, come MSCI ACWI (All Country World Index)
o il FTSE All-World, che contengono un paniere di titoli
rappresentativo delle principali aziende quotate nel mondo intero.
In tutta questa confusione, ricordati la prima lezione: difendi il tuo potere d’acquisto.
19
Spesso la stampa italiana confonde questi due indici, tirando fuori un Euro Stoxx 600 che non esiste.
43
CAPITOLO 4: GUIDA AGLI ETF
Nei primi 3 capitoli di questo scritto abbiamo visto:
1) Che investire significa difendere il proprio potere d’acquisto;
2) Che per investire acquistiamo degli asset che hanno caratteristiche molto diverse fra
loro;
3) Che l’economia si muove all’interno di cicli con dinamiche opposte;
4) Che possiamo combinare i diversi asset in modo da poter affrontare ogni ciclo
economico;
5) Che il miglior modo di investire in una asset class è tramite un fondo indicizzato.
Ora, devi sapere che, a differenza degli uomini, i fondi indicizzati non sono creati uguali. E
siccome il diavolo sta nei dettagli, in questo capitolo vedremo cosa guardare quando si va
effettivamente ad acquistare un fondo indicizzato.
Che Cos’È Un Fondo D’Investimento
Il fondo d’investimento è una bestia strana. Da un alto, la parola è
ancora avvolta da un’aura di importanza da mondo degli affari,
dall’altro però spesso i fondi d’investimento sono presentati come
astrusi prodotti finanziari che l’investitore compra, generalmente
dietro consiglio di qualche consulente, senza avere la più pallida
idea di cosa sia.
Un fondo d’investimento non è altro che una società di capitali con
l’unica funzione di acquistare e detenere strumenti finanziari, ossia
le varie asset class di cui abbiamo parlato prima. Un fondo azionario sarà una società che
detiene partecipazioni in società quotate. Un fondo obbligazionario deterrà obbligazioni.
Ritorniamo ancora una volta al paesino dei fabbri, e supponiamo che 10 fabbri vogliano
lanciare un fondo d’investimento. Due domande fondamentali sono:
1) Una volta lanciato il fondo, vogliamo che altri fabbri possano aggiungersi in qualsiasi
momento?
2) Vogliamo dare la possibilità ai fabbri azionisti del fondo di
uscire in qualsiasi momento?
Se i fabbri strutturano il fondo in modo che altri fabbri possano
aggiungersi e quelli in essere possano uscire, il fondo sarà un fondo
aperto, ossia a capitale variabile.
Quando un fabbro vuole entrare, il fondo crea nuove quote (aumenta
il capitale) che vengono sottoscritte dal nuovo investitore, e il nuovo capitale apportato viene
subito investito.
44
Quando un fabbro vuole lasciare, il fondo vende dei titoli in cui è investito, rimborsa i soldi
all’investitore e cancella le quote (riduce il capitale).
Se invece i 10 fabbri non vogliono altri investitori, il fondo si dirà chiuso, e cioè a capitale fisso:
non vi è alcuna possibilità di emettere nuove quote né di redimere quelle in essere.
Il fondo chiuso ha il vantaggio che, siccome nessuno può redimere
le quote, il fondo può essere investito a lungo termine, cosa
fondamentale se si vuole investire in asset illiquidi come gli
immobili.
Lo svantaggio è che per uscire dal fondo, l’investitore deve
necessariamente vendere la propria quota.
Vendere e redimere la quota è molto diverso. Quando redime la
sua quota, l’investitore riceve esattamente il valore in denaro degli asset del fondo che
corrispondono alla sua quota.
Supponiamo che i 10 fabbri abbiano il 10% ciascuno di un fondo aperto che possiede azioni
per il valore di 100 monete. Il patrimonio del fondo si chiama in gergo NAV (Net Asset Value
= Valore dell’Attivo Netto). Se un fabbro decide di uscire, riceverà la sua quota del NAV: 10
monete.
Se il fondo è chiuso, il fabbro non può redimere la sua quota, ma può solo venderla. E nel
farlo, non è detto che riceva un valore pari alla sua quota di NAV: a seconda degli umori di
mercato, può ricevere di più (un premio) o di meno (uno sconto).
Il punto ovviamente è che un fondo chiuso è più rischioso di un fondo aperto, perché oltre al
rischio della variazione del valore degli asset del fondo c’è anche quella della variazione del
valore della quota. In sostanza, è meglio considerare il valore di un fondo chiuso come una
società a parte, e non sulla base del suo NAV.
Massima Attenzione Ai Costi
Come tutte le società, anche un fondo d’investimento ha dei costi:
-
Costi di amministrazione: sono i costi relativi
all’amministrazione del fondo, come tenere la contabilità,
aggiornare il registro azionisti, pagare le tasse, ecc. Questi
costi sono relativamente bassi, nell’ordine dello 0,01%0,1%. Alcuni fondi esplicitano questi costi nella pagina
informativa online del fondo.
-
Costi di gestione: è il costo che il gestore del fondo chiede per l’attuazione della
strategia di investimento. In questo scritto si è parlato del fondo indicizzato, cioè un
fondo passivo, il cui gestore deve unicamente assicurarsi di attenere il fondo all’indice
sottostante. Tuttavia, un fondo può essere anche attivamente gestito, dove le scelte
45
di investimento vengono prese da un gestore senza seguire alcun
indice, ma secondo scelte proprie. Se i costi di gestione di un fondo
passivo restano nel range di 0,01%-0,5%, nel caso di un fondo attivo
possono essere molto più elevati, in un range di 1%-3% del valore del
fondo.
Costi di distribuzione: sono i costi di compravendita del fondo.
Se il fondo è aperto, di solito si applica una commissione di ingresso
che può essere molto salata, generalmente tra il 2% e il 5%. Questa commissione è
giustificata dal fatto che il fondo deve creare delle quote ex novo per il nuovo
investitore, che comporta dei costi. Nel caso di fondi chiusi, non esiste alcuna
commissione da parte del fondo, ma, siccome la transazione avviene in borsa, il costo
è dato dall’entità della commissione applicata dal broker per l’acquisto del titolo.
Nonostante alcuni broker applichino ancora commissioni spropositate, nell’ottica
dell’1% della transazione, molti broker oggi applicano una commissione fissa o quasifissa (in percentuale ma con un limite di minimo e di massimo), nel range di 2 – 25
euro per transazione.
Non c’è bisogno che ti dica che la mossa vincente è quella di minimizzare i costi.
Ricordi quello che abbiamo visto nel capitolo precedente? Gli investitori come gruppo
devono ottenere i ritorni di mercato: maggiori guadagni per uno sono minori guadagni per
l’altro. È un gioco a somma zero. Quando consideriamo anche i costi del sistema finanziario,
gli investitori guadagnano meno del mercato, perché parte dei loro ritorni va agli
intermediari: è un gioco a perdere.
Il sistema finanziario non mette un euro di suo, eppure è l’unico che guadagna sempre. Come
fa? Perché prende le commissioni direttamente dai tuoi fondi.
Pensaci bene: 10.000 euro investiti oggi al 7% medio annuo, che
non è una cifra irragionevole per il mercato azionario, diventano
19.672 euro dopo 10 anni. Se sostieni costi medi annui per lo 0,1%,
il tuo bottino finale diventa 19.488 euro, e i costi totali sono 183
euro. Se invece i costi sono dell’1% annuo, il totale dopo dieci anni
si riduce a 17.908 euro, quasi il 9% in meno, per costi totali di 1.763
euro (che equivalgono al 17,63% del capitale iniziale di 10.000
euro!).
Perciò, visto che i costi vengono sostenuti direttamente dai tuoi fondi e impattano
negativamente i ritorni nel lungo termine, devi sempre cercare di tenerli bassi.
Fondi Indicizzati Ed ETF
Finalmente cominciamo a parlare di ETF!
46
Avrai sicuramente sentito parlare di questi fondi, e probabilmente hai anche cominciato a
investirci qualcosa.
ETF è acronimo di Exchange Traded Fund, tradotto sarebbe
qualcosa come «fondo scambiato in borsa». E fin qua niente di
nuovo: anche i fondi chiusi possono essere scambiati in borsa.
La grossa novità è che l’ETF non è un fondo chiuso, bensì aperto.
Attraverso un meccanismo che vede coinvolti più operatori di
mercato,20 l’ETF è un fondo aperto che può essere acquistato o
venduto in borsa. Questa forma ibrida dell’ETF ha due principali
vantaggi:
-
-
Essendo un fondo aperto, l’investitore che compra o vende un ETF non deve
preoccuparsi di premi o sconti come in un fondo chiuso, dato che il prezzo dell’ETF
riflette il suo NAV;
Potendo essere scambiato in borsa come un fondo chiuso, l’investitore non incorre
mai in commissioni di entrata, ma paga solo la commissione al suo broker.
Gli ETF hanno anche dei vantaggi fiscali perché il fondo non deve smobilizzare i suoi
investimenti, realizzando così un capital gain, quando un investitore decide di vendere la sua
quota.
Un vantaggio che secondo me non è proprio un vantaggio è quello di realizzare liquidità
immediata: quando si vende la quota di un fondo non quotato, il processo di smobilizzo
investimenti, cancellazione quote e rimborso può richiedere alcuni giorni. Nel caso dell’ETF,
l’investitore vende in borsa e liquida così la sua quota immediatamente.
Perché secondo me non è un vantaggio? Perché per l’investitore di lungo termine poco
importa di liquidare in un secondo o in due giorni. Se la liquidità dell’ETF è vista come
comodità, allora è un vantaggio. Se però è vista come la possibilità di poter uscire dall’ETF in
qualsiasi momento, per esempio quando c’è un crollo di mercato, allora non è un vantaggio
per niente. Infatti:
-
Come ho scritto in precedenza, market-timing, trading, e
altre strategie volte a battere il mercato sono difficili da
fare e molto spesso perdenti viste le probabilità avverse;
-
Comprando e vendendo in continuazione si pagano le
commissioni: il banco vince sempre, mentre l’investitore è
sicuro di stare guadagnando meno di quello che potrebbe
ottenere semplicemente restando fermo;
20
Alcuni operatori finanziari, detti partecipanti autorizzati, intervengono quando il NAV dell’ETF si distanzia dal
suo prezzo (per ETF molto liquidi parliamo di uno 0,0X%): avendo la possibilità di sottoscrivere o redimere
quote come in un fondo aperto, i partecipanti autorizzati sfruttano l’arbitraggio e mantengono in equilibrio
NAV e prezzo dell’ETF.
47
Andando a scambiare ETF in periodi di alta volatilità di mercato
si rischia che il meccanismo di stabilizzazione dell’ETF non funzioni
più così bene e l’ETF acquisti le caratteristiche di un fondo chiuso: se
vendi assieme alla folla durante un crollo di mercato è probabile che
tu stia vendendo il tuo ETF a sconto, ossia a un prezzo addirittura più
basso del suo NAV (figurati che bello quando già il mercato sta
crollando di suo).21
Insomma, considerare la liquidità dell’ETF come un modo per avere
flessibilità a costo zero è, a mio avviso, completamente sbagliato.
Da ultimo, devo dire che, alla data in cui scrivo queste parole, in Italia non è possibile
acquistare fondi indicizzati non quotati. Perciò, prendiamo i vantaggi degli ETF e cerchiamo
di scegliere i migliori, ovvero quelli che più si avvicinano al fondo indicizzato originale.22
Cosa Guardare Quando Si Sceglie Un ETF
Così come i loro cugini fondi indicizzati, anche gli ETF non sono creati uguali. Di seguito scrivo
un elenco delle cose più importanti da guardare per scegliere un buon ETF.
1) Portafoglio: il portafoglio è l’insieme degli asset in cui
investe un fondo. A mio avviso, questa è sempre la prima
cosa che bisogna guardare, qualsiasi sia l’investimento che
si vuole fare. In questo caso, l’ETF conterrà un paniere di
titoli che corrispondono a un indice: se vogliamo
raggiungere l’obiettivo di un fondo passivo che ottenga
rendimenti di mercato, l’indice deve essere un ampio
indice di mercato, pesato per capitalizzazione e senza tanti
fronzoli. In sostanza, un indice della tipologia di quelli di cui
ho parlato alla fine del capitolo precedente.
2) Dimensioni: questo aspetto è del tutto pragmatico. Quando un gestore lancia un
fondo, generalmente avrà degli investitori istituzionali che gli fanno da «startup» e lo
portano a una dimensione ottimale per essere scambiato nel mercato. A volte però
questo non succede e il fondo resta a vivacchiare con pochi asset.23 Se un fondo non
decolla, i problemi per l’investitore sono due:
21
Questo si verifica perché, nella confusione di un crollo di mercato, i partecipanti autorizzati possono non
voler intervenire, ad esempio perché il crollo avviene troppo in fretta, perché non riescono a reperire liquidità
loro stessi, o perché non riescono a capire bene quale sia il NAV dell’ETF in una situazione di alta volatilità. Ad
esempio, qual è il valore di un ETF obbligazionario che contiene obbligazioni ad alto rischio? Se il mercato sta
crollando perché si aspetta una crisi profonda, è probabile che il valore attuale di quelle obbligazioni rischiose
sia diminuito. Ma di quanto? Nel dubbio, i partecipanti autorizzati non intervengono e l’ETF può incorrere in
forti sconti, anche di diversi punti percentuali (cosa inaudita per un fondo aperto).
22
Di fatto, quello che cerchiamo di ottenere è un fondo indicizzato con la forma legale di ETF.
23
Tecnicamente asset under management (AUM).
48
a) Il fondo può essere poco liquido, e perciò si verifica quello di cui ho parlato
prima, ossia sconti e premi. Se un fondo ha asset per 5 milioni di euro, e ci
investi 100.000 euro, cioè il 2% del fondo, può essere che sposti il prezzo tu da
solo, creando un premio, o uno sconto se vai a venderlo.
b) Il secondo problema è che un fondo che non decolla non è molto redditizio
per il gestore. Quello che può succedere è che il gestore a un certo punto
decida di chiuderlo. In pratica, il gestore liquida il fondo e
rimborsa agli investitori le quote. Di fatto, il gestore effettua
una vendita forzata: se hai comprato la quota a un prezzo
più alto di quello che vale al momento del rimborso, si
verifica la cosa peggiore che possa succedere quando si
investe, il realizzo forzato di una perdita. I gestori seri
tendono a non chiudere i fondi anche se non vanno bene, al
massimo li fondono in altri loro fondi.
Consiglio di investire solo se il fondo ha asset almeno per 500 milioni di euro. Se il
gestore è tra i più rispettabili, si può scendere fino a 150 milioni di euro (tuttavia, non
lo userei comunque come fondo principale).
3) Gestore: come hai intuito, chi è il gestore del fondo fa una differenza sostanziale. Il
punto è così importante che ho dedicato l’intero paragrafo che segue.
4) Costi: anche questo è un punto fondamentale. I costi
totali del fondo devono essere indicati, generalmente
nella pagina web del fondo, sotto la voce TER, che sta per
total expense ratio (si potrebbe tradurre: percentuale
totale dei costi). Il TER esprime il totale dei costi di cui ho
scritto sopra in percentuale sul totale degli asset del
fondo. Un fondo con un TER dell’1% costerà agli azionisti
del fondo l’1% dei loro asset ogni anno. Qui la cosa da
vedere è una e una sola: il TER deve essere il più basso
possibile.
5) Metodologia di investimento: se volessi costruirti da solo un portafoglio che segue
l’andamento del mercato delle grandi aziende italiane, il FTSE MIB,24 che cosa faresti?
Compreresti a una a una le azioni delle 40 aziende che compongono l’indice, nella
quantità che deriva dalla loro capitalizzazione. Questo metodo di costruzione del
portafoglio si chiama replica fisica diretta. Per limitare i costi, a volte i gestori usano
la replica sintetica, e a campionamento.
24
Benché molto conosciuto, il FTSE MIB non è un gran indice: contenendo solo 40 aziende, segue solo le large
cap, cioè le aziende ad alta capitalizzazione, e si lascia indietro tantissime aziende a capitalizzazione più bassa
ma con ottime performance; inoltre, è molto concentrato.
49
a) Replica sintetica: il fondo non compra le azioni, ma titoli derivati che
corrispondono alle azioni. A mio avviso, la replica sintetica è da evitare perché
aggiunge al fondo un elemento di rischio dato dal contratto derivato.25
b) Campionamento: questo succede quando il fondo non contiene tutti i titoli
che compongono un indice, ma solo alcuni di essi. Si dice che il fondo è
ottimizzato. Se fatto bene, il campionamento non è di per sè un male; come
sopra, tuttavia, aggiunge un elemento di rischio e se possibile andrebbe
evitato.
6)
Prestito titoli: anche se sono chiamati fondi passivi,
tanti ETF non stanno con le mani in mano ma fanno delle
transazioni chiamate prestito titoli (securities lending). Il
gestore presta una parte dei titoli del fondo a terzi in cambio
di una commissione. Il prestito titoli è una pratica ambigua, e
dipende molto da a chi vanno le commissioni: se queste vanno
a beneficio del fondo, e la transazione è eseguita senza
incorrere in rischi eccessivi, il prestito titoli può essere anche
un bene. Se però i proventi vanno a finire al gestore, non va bene per niente: i rischi
sono degli investitori ma i proventi del gestore. Occhi aperti.
7) Politica distributiva: come detto in precedenza, asset monetari e asset produttivi
generano reddito, rispettivamente interessi e dividendi. Una volta pagati i costi, dove
vanno a finire questi soldi? Un fondo a distribuzione distribuisce i redditi ricevuti dai
titoli ai suoi investitori, generalmente ogni 3 o 6 mesi. Un fondo a capitalizzazione
invece reinveste tali redditi nei titoli stessi. La scelta tra i due è del tutto personale.
Nel caso tu scelga un fondo a distribuzione, dai un’occhiata
a come ha distribuito in passato: anche se replicano lo
stesso indice e dovrebbero quindi distribuire gli stessi
proventi, i fondi possono non distribuire con la stessa
costanza (per alcuni ci sono forti variazioni di anno in anno
anche se i dividendi sono stati stabili). Se decidi di fare
affidamento sulle distribuzioni del fondo, è meglio
sceglierne uno che distribuisce in modo più omogeneo.
Cosa Guardare Quando Si Sceglie Un Gestore
Quando investi in un fondo di investimento, che sia un ETF o di altra tipologia, stai comprando
azioni o quote di una società di investimento. Questa società potrebbe benissimo avere il
management al suo interno, in gergo essere internamente gestita. Un tempo, tutti i fondi
d’investimento erano internamente gestiti.
25
Nella fattispecie, può succedere che la controparte non sia più in grado di onorare il contratto derivato,
generalmente uno swap.
50
Poi le cose sono cambiate, e oggi la struttura è la seguente: una società d’investimento, come
Blackrock per esempio, apre un fondo d’investimento e lo offre al pubblico. Nonostante il
fondo sia poi posseduto dagli investitori, Blackrock, in qualità di sponsor del fondo, ne è
anche il gestore. Attenzione qui, perché Blackrock è una società a
parte con dei suoi azionisti. La cosa importante per gli investitori
del fondo è che le operazioni di Blackrock (commissioni, prestito
titoli, metodo d’investimento, ecc.) non confliggano con i propri
interessi.
In sostanza, ciò che andiamo a guardare è: la rispettabilità del
gestore, la bravura del gestore, la presenza di forti conflitti di
interesse tra il gestore e gli azionisti del fondo.
a) Rispettabilità del gestore: giudicare la rispettabilità di una società di investimento
non è diverso dal giudizio che si può esprimere su un’istituzione finanziaria in
generale, come una banca o un’assicurazione. Innanzitutto, quanto grande è? Quanti
investitori hanno scelto quel gestore come amministratore del loro capitale?26 Da
quanto tempo esiste la società? Qual è il suo passato? Come ha trattato gli investitori?
È stata coinvolta in scandali? Quanti fondi ha chiuso perché non andavano bene? È
trasparente, ovvero riesco a individuare tutti i dati essenziali per giudicare la bontà
dei suoi fondi dai documenti messi a disposizione? Come vedi sono tutte domande di
buon senso: bisogna fare qualche ricerca, ma non è così difficile trovare le risposte.
b) Bravura del gestore: dal nostro punto di vista, ossia di un investitore passivo che
investe in ETF come fossero fondi indicizzati non quotati, la bravura del gestore sta
nel fatto di costruire e gestire un portafoglio che effettivamente replichi l’indice. È
una gran beffa quando spiacevolmente ci accorgiamo che il nostro fondo indicizzato
si è perso l’indice. Quello che bisogna vedere è se i fondi di
quel gestore seguono bene gli indici sottostanti o se invece
capita spesso che incorrano in differenze significative. Puoi
vedere questa differenza nella pagina web del fondo alla
voce «tracking difference» o «tracking error». Se non è
esplicitata, basta vedere la differenza tra i rendimenti del
fondo e quelli del benchmark (cioè l’indice che il fondo deve
seguire) sotto la voce «performance».
c) Conflitti d’interesse: questo sarebbe un capitolo un po’ lungo che cercherò di ridurre
a un solo punto fondamentale: chi è il proprietario della società d’investimento.
Pensiamoci un attimo: la situazione migliore è quella in cui il fondo è internamente
gestito, per cui non c’è nessuna società d’investimento ma il gestore risponde
26
Meglio investire solo con gestori che abbiano almeno qualche centinaio di miliardi di euro di asset in
gestione.
51
direttamente agli azionisti del fondo. Siccome questa condizione negli ETF non
esiste,27 andiamo per approssimazione, dalla struttura migliore alla peggiore:
i.
Società cooperativa: è un caso molto raro in cui la società di
investimento è posseduta dai fondi d’investimento offerti al
pubblico. In questa struttura, l’utile della società d’investimento
dovrebbe essere distribuito ai fondi, visto che sono i proprietari.
Di conseguenza, la società d’investimento non fa utili ma lavora al
costo, garantendo commissioni basse. Inoltre, non avrebbe senso
agire contro l’interesse dei suoi stessi proprietari, per cui è difficile
che si verifichino conflitti.
ii.
Società privata: qui il gestore è una società separata, ma non quotata.
Generalmente è posseduta dal fondatore o dalla sua famiglia. Pur essendo un
soggetto diverso dal fondo, il fatto che sia ancora nelle mani dei fondatori e
non sia quotata rende la società più flessibile, nel senso che non deve
necessariamente perseguire la massimizzazione del profitto ma può adattarsi
a conseguire una profittabilità più bassa pur di servire al meglio gli investitori
nei suoi fondi.28
iii.
Società quotata: è il caso in cui il gestore è una società quotata in borsa. Qui
le cose cambiano perché le società quotate hanno degli azionisti esterni (che
potremmo anche essere noi!) che vogliono vedere dei ritorni sul loro capitale
investito: si dice che la società ha un costo del capitale. Una società
d’investimento quotata deve essere molto brava a mediare gli interessi degli
azionisti dei fondi, che vogliono la massimizzazione
dei loro ritorni, con gli interessi dei propri azionisti,
che vogliono la massimizzazione degli utili, cioè
delle commissioni.
iv.
Conglomerato finanziario quotato: quando il
gestore è parte di un gruppo finanziario quotato
che fa molte altre cose non è un buon segno.
Infatti, c’è un problema di conflitto di interessi non solo a livello di
commissioni, ma anche a livello di servizi. Ad esempio, se il gestore è parte di
una banca (come molto spesso accade), come può essere neutrale verso
aziende a cui il gruppo vende molti altri servizi, come corporate banking,
27
È pressoché inesistente nei fondi di investimento in generale. Può esistere per alcuni fondi chiusi, mentre è
molto comune nei fondi immobiliari, in gergo REIT (real estate investment trust) che però esulano dai temi qui
trattati.
28
Non c’è motivo di dispiacersi per i proprietari di tale società d’investimento: supponiamo che una società di
questo tipo gestisca 100 miliardi di euro su cui applica l’1% di commissioni all’anno. Tolto un 80% tra costi e
tasse, l’utile per la famiglia è di 200 milioni di euro. Se, per tenere alto il servizio, la famiglia decide di
abbassare le commissioni allo 0,5% annuo, l’utile diventa 100 milioni di euro. A meno che non abbiano un
tenore di vita da miliardari russi, non cambia molto.
52
investment banking, ecc.? Come può essere obiettivo nel giudicare l’operato
del management aziendale se questo è cliente di altre divisioni del gruppo?
E infatti, un altro punto importante è come il gestore di un fondo
vota quando si reca all’assemblea degli azionisti ogni anno:
contrasta il management aziendale ogni tanto, per esempio se
questo si aumenta la paga mentre l’azienda è in perdita? O
approva ogni richiesta senza chiedere molto?
Ovviamente non mi aspetto che tu vada a vedere come i gestori
del fondo votano per ogni azienda, però se ti capita fai caso al fatto
che i voti del gestore siano pubblicati sul proprio sito e resi noti
agli investitori, anche tramite documenti ufficiali (molti gestori pubblicano un rapporto
annuale sulla corporate governance): se così è significa almeno che il gestore è trasparente
ed è sensibile a uno dei temi più scottanti del capitalismo moderno.29
29
Il tema a cui faccio riferimento è il cosiddetto problema di agenzia, già noto fin dagli anni ‘30: chi controlla
che i manager delle aziende non spendano e spandano i soldi degli azionisti? In teoria, gli azionisti stessi. Ma
se questi investono tramite i fondi, questo compito è lasciato ai gestori del fondo. Lo sottolineo perché non è
scontato che i manager dell’azienda facciano sempre gli interessi degli azionisti: stipendi esagerati, benefit
senza senso, bonus che deprivano gli azionisti dei loro ritorni erano all’ordine del giorno alla fine degli anni ’90,
e potrebbero tornare se i gestori dei fondi non vigilano attentamente sul capitale degli investitori.
53
CAPITOLO 5: COSA PUO’ ANDARE STORTO: GLI ERRORI DA NON FARE
Fino al capitolo precedente, abbiamo parlato di come si costruisce un portafoglio solido. Se
il tutto ti sembra facile, oserei quasi di buon senso, vuol dire che ho compiuto la mia
missione.
Utilizzando questo metodo d’investimento, anche senza strafare e senza farsi venire male al
fegato, è possibile ottenere ottimi ritorni dal mercato finanziario.
Non so se te lo stai chiedendo anche tu, ma per quanto mi riguarda, quando ho capito che
esisteva un modo così semplice di investire, mi è venuta spontanea una domanda: ma perché
allora la gente non lo usa?
Forse perché viviamo in un mondo frenetico dove appare facile
ciò che invece non lo è, e un po’ perché forse è naturale cercare di
essere i primi, anche a costo di voler imparare a correre prima di
saper camminare.
Fatto sta, che la maggior parte degli investitori commette un sacco
di errori quando comincia a investire. Il mercato finanziario è
considerato o una prerogativa dei potenti, di coloro «che sanno»,
o una specie di gioco d’azzardo, tant’è che si usa ancora l’orrendo
detto «giocare in borsa».
Vi sono numerosi modi in cui si può venire impoveriti, anziché arricchiti, dal sistema
finanziario, ma tutti sono pressoché raggruppabili in tre situazioni: la vendita forzata, il
deterioramento dell’investimento, e il mancato guadagno.
Vendita forzata
Nel gergo odierno, si parla di «perdita» ogni qual volta il prezzo dell’investimento scende
sotto il suo valore iniziale. C’è chi «controlla» una volta l’anno, chi ogni trimestre, chi
addirittura ogni giorno.
Se il tuo investimento passa da 100 a 50 nei primi sei mesi, e poi a
150 dopo un anno, hai veramente perso o guadagnato qualcosa?
La risposta per un investitore è no, giacché l’investimento si effettua
per il lungo termine.
Si realizza una perdita (o un guadagno) solo nel momento in cui si
smobilizza l’investimento, ossia si vende il titolo.
La cosa più terribile che ti può succedere è che tu sia forzato a vendere il tuo investimento.
Così facendo realizzi la perdita, ossia trasformi il titolo in contante, e a quel punto la perdita
di potere d’acquisto diventa permanente.
54
Immagino che a questo punto ti chiederai: ma perché mai dovrei essere forzato a vendere il
mio investimento?
La risposta è che, anche senza accorgersene, a volte gli investitori si ritrovano loro malgrado
in una di queste situazioni, assolutamente da evitare.
1) Acquisto di titoli a margine
Questa è la situazione con cui ho cominciato questo scritto, quando
il mio denaro investito è evaporato senza che neanche me ne
accorgessi.
Il problema dell’acquisto a margine, anche detto a leva, è che si
comprano titoli con denaro altrui: metto 1.000 euro, ne prendo a
prestito altri 9.000 della banca e investo un totale di 10.000 euro.
Se il titolo sale del 5%, il mio ritorno è di 500 euro, cioè 50% sul mio capitale. Fantastico.
Così facendo però si è in balia dei colpi di testa di breve termine che spesso accadono nei
mercati finanziari.
E attenzione, perché gli scossoni non succedono solo quando capita una crisi o un evento
sfortunato (come una frode, una causa, o un disastro ambientale), ma possono avvenire
anche in periodi di quiete e anche se nulla di così terribile accade all’azienda. Semplicemente
il mercato reagisce male.
Prendiamo un esempio recente, e cioè il tonfo in borsa di SAP, la prima azienda tedesca per
capitalizzazione, avvenuto a fine ottobre 2020.
SAP ha presentato dei conti non belli e il mercato ha reagito così: -20% in un giorno.30
Che cosa succede all’investitore che ha investito 1.000 euro a leva per un totale di 10.000?
Come vedi il tonfo avviene in modo rapidissimo (praticamente alle 9:00 di mattina).
L’ammontare dell’investimento passa quindi da 10.000 euro a 8.000.
30
Fonte: Yahoo Finance.
55
1. Ma per la banca non va bene questo, giacché essa deve essere sempre in grado di
rientrare dal prestito in qualsiasi momento: mica si prende il rischio di un
investimento tuo!
Quello che fa è vendere di corsa i titoli, facendo assorbire al tuo capitale la perdita.
In questo caso, avendo un margine del 10% (1.000 su 10.000),
l’investitore perde sicuramente il suo denaro. Ma può succedere di
peggio: se la banca non riesce a vendere immediatamente e la
perdita raggiunge il 20%, come in questo caso, anche il capitale
della banca viene eroso, e ovviamente questa si rifà
sull’investitore, il quale deve mettere altri 1.000 euro di tasca
propria.
Insomma, con questo scherzo l’investitore ha perso il 200% di
quello che ha messo.
2) Investire denaro di cui si ha bisogno
Investire a margine è altamente rischioso, ma non è l’unico modo per subire una vendita
forzata.
Un altro caso è quando si investono soldi che servono a breve termine. Per esempio,
l’investitore può aver bisogno di quei 1.000 euro che ha investito, che ora sono diventati di
colpo 800.
Anche in questo caso, l’investitore deve vendere realizzando una perdita. Meno di prima,
perché «solo» del 20%, ma pur sempre una riduzione permanente del suo potere d’acquisto.
3) Acquisizione da parte di azienda terza o chiusura del fondo d’investimento
C’è un altro caso in cui può avvenire una vendita forzata, e questo però riguarda tutti gli
investitori.
È il caso in cui un’azienda terza acquisisce la società pagandola in
denaro, in gergo uno «squeeze-out»: invece di offrire agli azionisti
della società acquisita azioni dell’acquirente, quest’ultima paga in
denaro e si sbarazza, appunto «spreme fuori», i vecchi azionisti.
Questi si ritrovano, ancora una volta, con i loro titoli trasformati in
denaro contante, e con qualsiasi guadagno o perdita forzatamente
realizzati.
Questo avviene se chi compra ha abbastanza liquidità da effettuare un acquisto in denaro
invece che scambiare azioni, e se il prezzo della società acquisita è abbastanza basso da
giustificarlo. Questa spada di Damocle è il motivo per cui le società con capitalizzazione bassa
56
sono più rischiose di quelle con capitalizzazione alta, perché è più facile comprare una società
da un miliardo di euro che non una da cinquanta miliardi.
Un ultimo caso di vendita forzata può succedere se il fondo tramite
cui hai investito decide di chiudere i battenti. Il fondo liquida i titoli
e restituisce agli investitori il denaro. Se questo avviene mentre il
prezzo dei titoli del fondo è più basso rispetto all’acquisto, il fondo
liquida in perdita.
Avevo già affrontato questa tema nella discussione sugli ETF, e
ribadisco che è molto importante scegliere gestori che non abbiano
la tendenza a chiudere fondi se questi non vanno come previsto.
Deterioramento dell’investimento
Come abbiamo appena visto, la vendita forzata si verifica quasi sempre perché l’investitore
azzarda una speculazione, ossia cerca di cavalcare il mercato nel breve termine.
Ahimè, anche l’investitore di lungo termine può commettere grossi errori: generalmente, il
problema sta nella scelta del singolo investimento o nella composizione del portafoglio.
A differenza della speculazione di breve termine, questo errore è in realtà insito nella società
capitalistica: l’azienda dove l’investitore è azionista comincia a diventare meno competitiva,
perde quote di mercato, fa meno utile o va proprio in perdita, taglia il dividendo, e così via.
Il prezzo dell’azione si muove di conseguenza.
Prendiamo il caso di Telecom Italia negli ultimi 20 anni. È un caso interessante perché si
trattava di un’azienda solida con delle buone prospettive di crescita, ma che a seguito una
privatizzazione rocambolesca, diversi passaggi di mano, e aumento della competizione nel
mercato, si è ritrovata ad affrontare continue difficoltà da cui non ne è più uscita.
Il risultato è il grafico che segue:31
31
Fonte: Yahoo Finance.
57
Colpa di un mercato impazzito? Certamente no, visto che una riduzione di pari entità si
ritrova anche nella distribuzione dei dividendi, addirittura dismessi dal 2014 al 2019:32
0,14 0,14
0,10
0,11
0,08
0,05 0,05
0,06
0,04
0,02
0,01
20
04
20
05
20
06
20
07
20
08
20
09
20
10
20
11
20
12
20
13
20
14
20
15
20
16
20
17
20
18
20
19
20
20
0,00 0,00 0,00 0,00 0,00 0,00
L’investitore che avesse investito 1.000 euro sul titolo Telecom nel 2000, si ritroverebbe oggi
con soli 100 euro, e un dividendo nove volte più basso di quello che percepiva nel 2004 (dopo
non aver preso niente per sei anni).
Visto che non mi risulta che il costo della vita in Italia sia calato del
90% rispetto a vent’anni fa, l’investimento in Telecom Italia ha
chiaramente comportato una perdita permanente di potere
d’acquisto.
Investimenti terribili come quello in Telecom Italia sono più
probabili quando si investe in titoli singoli, giacché, ti ricorderai dal
capitolo 3, così facendo l’investitore sostiene il rischio d’impresa.
Quando si investe in un indice di mercato, il proprio investimento si muove in linea con
l’economia e si evitano rischi specifici. Purtroppo, questo non assolve da errori madornali,
specialmente quando si esce dal seminato e si va ad investire in economie che non c’entrano
niente con la nostra pensando che decollino, e queste invece vanno molto peggio di noi.
Ti presento il Nikkei 225, il più famoso indice del mercato giapponese, negli ultimi 50 anni:33
32
33
Fonte: Borsa Italiana.
Fonte: Trading Economics.
58
Il Giappone ebbe un’ascesa meteorica negli anni Sessanta e Settanta, ma ben presto la sua
crescita si trasformò in bolla speculativa. Da quando è scoppiata all’inizio degli anni Novanta,
il Giappone è entrato prima in recessione deflattiva, poi in un lungo periodo di stagnazione
quasi secolare, da cui non è più veramente riuscito a venirne fuori.
Cosa sarebbe successo all’investitore italiano degli anni Ottanta che, viste le perfomance
eccezionali delle aziende giapponesi fino a quel momento, avesse
deciso di investire in Giappone invece che a casa propria?
Dall’apice della bolla, il Nikkei è ancora sotto del 30% dopo 30 anni.
I dividendi, in questo caso molto più stabili rispetto al caso Telecom,
avrebbero aiutato ad attutire il colpo per l’investitore, ma non
abbastanza da compensare la perdita di potere d’acquisto
risultante dal continuo deterioramento dell’economia giapponese.
Mancato guadagno
Poco prima ho scritto che non mi risultava che il costo della vita in Italia fosse diminuito negli
ultimi vent’anni. In realtà non solo non è affatto diminuito, è aumentato del 38%:34
34
Fonte: World Bank.
59
Cosa significa questo grafico? Che se nel 2000 andare a mangiare una pizza con gli amici
costava 10 euro, oggi ne costa quasi 14.
È il concetto di inflazione, di cui abbiamo parlato nei primi capitoli
di questo scritto.
Concretamente, l’inflazione non è altro che la perdita di potere
d’acquisto del denaro liquido.
Se dal 2000 a oggi i prezzi sono aumentati complessivamente del
38%, significa che l’investitore che ha lasciato in banca denaro
liquido per 100.000 euro ha perso potere d’acquisto per 38.000
euro.
L’inflazione è subdola, perché non si vede, non troverai mai nessun -38% in rosso sul tuo
conto corrente per segnalarti che il tuo denaro ha perso di valore.
Per questo, il mancato guadagno sembra un errore veniale. Ma non lo è, giacché comunque
comporta una perdita di potere d’acquisto, che come abbiamo visto può essere significativa.
Inoltre, il rischio che l’inflazione aumenti e la perdita di potere d’acquisto si faccia ancora più
cospicua è tanto più alto quanto è più lungo l’orizzonte temporale dell’investitore.
60
CAPITOLO 6: NON DIMENTICHIAMOCI DELLE TASSE
Non c’è nulla di certo a questo mondo a parte la morte e le tasse, diceva Benjamin Franklin,
uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America.
E infatti, le tasse non risparmiano di certo l’investitore, in Italia così come all’estero, ed è
bene ricordarsi che esistono perché possono avere un impatto
significativo sul rendimento degli investimenti.
Il seguente non vuole certo essere un trattato tributario, tuttavia,
nonostante vi siano una moltitudine di situazioni diverse, penso
però che possa dare un quadro generale delle imposte più
importanti con cui, ahimè, ti troverai quasi certamente ad avere a
che fare.
Gli investimenti sono tassati tramite due tipologie di imposte: le imposte sul capitale e le
imposte sul reddito.
Partiamo dalle prime (le più fastidiose).
Imposte Sul Capitale
Questo tipo di imposte si applica in due modi:
1) sul totale del capitale; e
2) sull’accrescimento del capitale.
Un’imposta che assoggetta annualmente l’intero capitale dell’investitore è anche chiamata
imposta patrimoniale. Il suo nome ufficiale è imposta di bollo, in gergo anche detta minipatrimoniale (anche se non capisco dove sia il «mini»), e colpisce per uno 0,2% l’intero
ammontare degli strumenti finanziari detenuti dall’investitore a valore di mercato, con
applicazione trimestrale.
Per esempio, se detieni azioni e obbligazioni per un valore di 100.000 euro alla fine di marzo,
ti sarà addebitata per il trimestre gennaio-marzo un’imposta di
bollo di 50 euro. Il calcolo è il seguente:
(100.000 x 0,2%) / 4 = 50
Il totale dell’imposta sull’anno è di 200 euro (100.000 x 0,2% = 200),
ma l’addebito è di 50 euro perché avviene su base trimestrale.
L’altro tipo di imposta sul capitale è l’imposta sul capital gain.
Se ti sei già cimentato con un po’ di trading l’avrai certamente incontrata. Il capital gain in
inglese significa guadagno in conto capitale. Così come asset, anche capital gain è un termine
così specifico che non viene neanche tradotto (tecnicamente sarebbe plusvalenza).
61
L’imposta sul capital gain si applica sull’apprezzamento del prezzo dello strumento finanziario
al momento della vendita rispetto al momento dell’acquisto.
Se compri un’azione a 100 euro e la rivendi a 150 euro, il capital gain è di 50 euro. Su questo
ammontare si applica un’aliquota unica del 26%.
(Prezzo di vendita – prezzo di acquisto) x 26% =
(150 – 100) x 26% = 13
Il guadagno netto in conto capitale non è quindi 50 ma 37 (50 – 13).
Esiste la possibilità di compensare guadagni con perdite, per cui se
vendo un altro titolo realizzando una perdita di 50 euro o superiore
questo va a compensare interamente il guadagno di cui sopra. Al
di là del fatto che non vi è nessun piacere nel realizzare le perdite,
anche se si pagano meno tasse, per un investitore di lungo termine
questo artifizio è di poco conto.
La vera seccatura di queste due imposte è che sono d’intralcio per l’accumulazione di
capitale.
Facciamo un esempio. Ammettiamo che Giovanni, il mio amico d’infanzia con cui ho
cominciato questo scritto, investa 10.000 euro in un fondo azionario con un orizzonte di 10
anni. Il fondo è a capitalizzazione e rende mediamente un 7% all’anno in totale.
Trascorsa la decade, Giovanni si aspetta di trovare 20.000 euro (un investimento al 7% annuo
capitalizzato raddoppia dopo 10 anni).
Ma ci sono due problemi:
4) Come ha fatto Giovanni a pagare l’imposta di bollo? Al
primo anno l’imposta era di 20 euro (10.000 x 0,2%),
all’ultimo di 40 (20.000 x 0,2%).
Ci sono solo due modi: o ha pagato di tasca sua ogni anno,
o ha venduto qualche quota per pagare l’imposta, ma così
facendo ha ridotto il suo rendimento al 6,8%: dopo dieci
anni si ritrova con 19.307 euro, 700 euro in meno di quello
che pensava.
5) Se vuole smobilizzare l’investimento, Giovanni deve pagare l’imposta sul capital
gain. Se il prezzo iniziale era di 10.000 euro e quello finale di 20.000, l’imposta si
applica sull’intero accrescimento del capitale, ossia 10.000 euro. Giovanni pagherà:
(20.000 – 10.000) x 26% = 2.600 euro
Il totale del capitale netto d’imposta sul capital gain sarà dunque di 17.400 euro,
ossia un incremento del 74% invece che del 100%.
62
Non ci sono grandi soluzioni a questo problema: lo Stato ha bisogno di entrate (altrimenti,
da dove verrebbe la sicurezza di investire in titoli di Stato?), e quindi le tasse sono un male
necessario, come si suol dire.
Inoltre, per spezzare una lancia a favore dello Stato, bisogna dire
che l’Italia consente di capitalizzare i dividendi e di differire
completamente le imposte su questi fino a quando l’investitore
non smobilizza l’investimento.
Siccome, come vedremo tra poco, anche i dividendi sono tassati
al 26%, l’imposta che Giovanni va a pagare dopo 10 anni è anche
comprensiva dei dividendi che non sono stati soggetti a imposta,
bensì pienamente capitalizzati.
Imposte Sul Reddito
Queste sono più semplici, perché assomigliano di più all’imposta sul reddito da lavoro di cui
tutti siamo a conoscenza. Il reddito in questo caso è rappresentato da quanto viene pagato
all’investitore sotto forma di interessi e dividendi dai suoi investimenti.
Sul totale di quanto percepito si applicano le seguenti aliquote:
-
Titoli di Stato: 12,5%
Tutto il resto (dividendi, interessi da obbligazioni societarie, ecc.): 26%
Generalmente, la banca o il broker con cui investi agisce da sostituto d’imposta, per cui ti
addebita l’imposta dovuta in conto corrente e la versa all’amministrazione finanziaria.
Ti ritrovi in conto l’ammontare netto e non ti devi preoccupare di nulla.35
E fin qua, tutto bene.
Un problema più complicato sorge quando investi in titoli esteri
(cosa che farai sicuramente), specialmente azioni.
Parto subito con un esempio. Ammettiamo che tu investa in azioni
Apple. Apple paga un dividendo trimestrale, quindi ogni tre mesi (ai
fini fiscali) parte un pagamento dall’America e arriva in saccoccia a
te in Italia.
Siccome non sei residente in America, lo Stato americano non può tassarti. Quello che fa è
richiedere ad Apple (in concreto al soggetto incaricato di gestire il pagamento del dividendo)
che trattenga una parte del dividendo e lo versi all’amministrazione finanziaria americana.
Questa imposta si chiama ritenuta alla fonte.
35
Quando si sceglie un broker, è bene assicurarsi che agisca da sostituto d’imposta. Se in conto corrente vedi
solo dividendi e interessi ma niente tasse, informati se è dimenticanza del broker o se questo lascia a te la
responsabilità di dichiarare i proventi.
63
Se fosse finita qua non sarebbe un problema, il fatto è che quando ricevi il dividendo da Apple
al netto dell’imposta americana anche l’Italia vuole tassarti.
Eh già!
Per evitare la doppia imposizione, esistono una serie di trattati
internazionali. Per farla breve, l’America trattiene un po’ meno e
l’Italia applica l’imposta sul dividendo netto e non sul totale.
Di fatto c’è doppia imposizione, diciamo un po’ meno di quello che
potrebbe essere.
Nella tabella seguente ti scrivo:
1) L’imposta alla fonte già considerando il trattato con l’Italia
2) La ritenuta totale dopo l’imposta italiana
Paese
Stati Uniti
Germania
Francia
Regno Unito
Svizzera
Olanda
Canada
Ritenuta alla fonte
15%
26%
30%
0%
35%
15%
25%
Ritenuta totale
37%
45%
48%
26%
52%
37%
45%
A parte gli Stati Uniti, tutti gli altri paesi applicano il trattato a posteriori. In concreto, mentre
gli Stati Uniti applicano il trattato prima di pagare il dividendo, tutti gli altri lo applicano solo
se l’investitore, dopo aver ricevuto il dividendo, richiede il rimborso dell’eccessiva ritenuta
alla fonte con richiesta formale all’amministrazione finanziaria del paese di origine.
Concretamente, non si fa.
Prima di fiondarti a investire nel Regno Unito, che non impone ritenute alla fonte, considera
che tutto questo ginepraio fiscale diventa molto più facile se investi
tramite un fondo, ad esempio un ETF.
Il mio mentore Prof. Dhruv Shanghavi, che ha la confidenza con le
imposte che Roger Federer ha con la racchetta da tennis, diceva
sempre che, con i fondi d’investimento, si è trovata una soluzione
semplice a un problema complesso. Poche volte capita, ma, per
fortuna, con i fondi è stato così.
In sostanza, il fondo, muovendo masse molto più importanti rispetto a un investitore
individuale, ha l’intesse, le capacità e i mezzi per farsi ridare l’eccesso di ritenuta applicata
alla fonte, per cui per tutti i paesi diventa del 15% o meno.
64
In più, spesso i fondi hanno la sede in paesi che offrono un ottimo trattamento fiscale: non
elusione, ma ad esempio trattati bilaterali più favorevoli e nessuna imposizione a livello del
fondo.
Perciò, se investi tramite un ETF, non ti devi preoccupare di tutte le menate fiscali locali, e
sai che hai il miglior trattamento fiscale che puoi ottenere alla fonte.
Naturalmente, l’investimento in ETF non azzera il problema della doppia imposizione: una
volta che la ritenuta alla fonte è al 15%, dovrebbe essere l’Italia che concede un credito più
alto. Purtroppo, non è così, vedilo come un costo che tutti noi dobbiamo pagare per investire
all’estero, investimento da cui a mio avviso non si può prescindere.
Un’ultima nota riguardo alle obbligazioni: spesso i titoli di Stato,
anche di paesi importanti e ad alta tassazione come Francia,
Germania, Stati Uniti e Giappone, sono esenti da ritenuta alla
fonte o è applicata una ritenuta molto più bassa rispetto ad altri
titoli.
Combinata con la tassazione italiana al 12,5%, si capisce come i
titoli di Stato, prima dell’avvento dei tassi a zero o negativi,
sarebbero un ottimo strumento per chi ha bisogno di reddito
stabile.
65
NOTE FINALI: COSA ASPETTARSI DA UN INVESTIMENTO?
Nei primi sei capitoli di questo scritto abbiamo imparato che:
1) L’economia si muove secondo dei cicli economici ben definiti.
2) Vi sono diversi tipi di asset che vanno meglio a seconda del ciclo economico in cui si
trova l’economia.
3) Il modo migliore per investire in uno specifico asset è tramite un fondo indicizzato,
che offre massima diversificazione e costi minimi.
4) Per scegliere un buon fondo indicizzato bisogna vedere il gestore, i costi, e scegliere
l’indice giusto.
5) Non sempre si guadagna dai mercati finanziari: si può perdere soldi tramite la vendita
forzata, il deterioramento dell’investimento, e il mancato guadagno.
6) Le tasse sul capitale e sui redditi da capitale diminuiscono i ritorni offerti dal mercato
finanziario.
A questo, la domanda che immagino ti starai chiedendo è: cosa
posso aspettarmi da un investimento nei mercati finanziari,
seguendo la teoria che ho fin qui esposto?
A questa domanda ti rispondo in due modi.
Per quanto riguarda il futuro, ti posso dire che questo non è un
metodo scientifico, perché non c’è niente di scientifico
nell’economia e nella finanza. Le cose cambiano troppo
rapidamente per fare delle previsioni accurate.
Come dice Warren Buffet, le previsioni sono pericolose, specialmente se sul futuro.
Tuttavia, ti posso assicurare che questo metodo si basa il più possibile sulla logica: a mio
avviso, è il miglior modo di investire senza doversi affidare all’opinione di nessuno.
Ed è per questo che è così potente. Se le cose non dovessero andare bene, saprai che la tua
è una scelta logica, e quindi non avrai paura di stare sbagliando perché hai seguito il consiglio
di qualche guru finanziario, o semplicemente le tue sensazioni del
momento.
Personalmente, sapere che sto investendo sulla base del buon
senso e della logica mi è di grandissimo aiuto psicologico.
Per quanto riguarda il passato, andiamo a vedere come avrebbe
performato un portafoglio costruito secondo i canoni descritti
sopra.
Faccio subito un caveat, e cioè che i ritorni passati non sono garanzia di ritorni futuri, ma
questo lo sai già. Devo però basarmi sui dati degli asset americani in dollari, che sono più facili
66
da reperire e sono più completi. Ho comunque inserito anche le performance degli
investimenti europei.
Procediamo
Il primo portafoglio si basa esattamente su quanto da me descritto:
50%: azioni USA
25%: titoli di Stato americani (ho usato quelli a 10 anni)
20%: titoli di Stato americani indicizzati (TIPS)
5%: oro.
Il secondo portafoglio si basa unicamente sul mercato azionario
USA. Come scritto sopra, per un investitore giovane che sta accumulando può aver senso
investire unicamente in azioni.
Il terzo portafoglio rappresenta le azioni europee.
I dati sono dal 2001 a oggi, primi dati disponibili per i TIPS.
Il piano di investimento prevede di ribilanciare ogni anno e di capitalizzare dividendi e
interessi.36
Durante gli scorsi vent’anni, il portafoglio quattro stagioni o sempreverde, se possiamo così
chiamarlo, si comporta come da manuale. Sale moderatamente durante la crescita inflattiva
degli anni 2000, tiene bene la crisi finanziaria del 2008, e cavalca la crescita con bassa
inflazione della decade scorsa. 10.000 dollari diventano quasi 39.000, per un tasso annuo di
quasi il 7% (nella tabella CAGR, compound annual growth rate, tasso annuo di crescita
capitalizzato).
36
Fonte: Portfolio Visualizer.
67
Anche il portafoglio puramente azionario USA raggiunge lo stesso risultato, anche se in
maniera più rocambolesca. Come ho scritto, per un giovane che accumula, i bassi del mercato
sono del tutto irrilevanti, anzi sono occasioni di ingresso per capitalizzare a un tasso più alto.
Le azioni europee hanno fatto peggio di tutti. Attenzione però
perché durante i primi anni 2000, e fino al 2012, non è stato così.
Come vedremo meglio dopo, non c’è nessun motivo storico per
aspettarsi che le azioni europee continuino a guadagnare molto
meno di quelle americane nel lungo termine.
Ora vediamo la stessa dinamica in un orizzonte temporale più
ampio. Per la precisione, dal 1986 (da quando ho trovato i dati).
In più, ho dovuto sostituire i TIPS, che sono stati introdotti solo alla fine degli anni ’90, con i
titoli di Stato a breve termine, che svolgono una funzione simile anche se sono di gran lunga
meno efficaci.
Come vedi, la differenza tra un sempreverde e un azionario USA puro si accentua. È anche
vero però che il sempreverde è molto più stabile.
Inoltre, i ritorni sono in entrambi i casi eccezionali: 19 volte per il sempreverde e 38 per
l’azionario puro, su un arco di 35 anni.
Le azioni europee vanno un po’ peggio, ma attenzione però: come detto in precedenza, qui
è ancora più chiaro di come ci siano stati periodi quando le aziende europee andavano meglio
di quelle americane, per esempio fino a metà degli anni Novanta.
Per cui non è per niente detto che continuino ad andare peggio.
Dico questo perché dal punto di vista di noi europei è molto più sensato costruire un
portafoglio basato sull’Europa. L’America, o altri paesi come il Giappone o i mercati
emergenti, sono importanti elementi di diversificazione, ma non il punto di partenza.
68
Un’altra cosa importante sono i tassi di crescita. L’Europa fa «male» rispetto all’America ma
capitalizza comunque quasi al 9%. L’America quasi all’11%.
Dati per le azioni USA che risalgono addirittura a fine 1800 ci dicono
che le aziende USA in media capitalizzano al 7%, che infatti è lo stesso
tasso che abbiamo visto nel primo grafico (dal 2000).
È vero che ci sono state due guerre di mezzo, però, se vuoi essere
conservativo, tieni presente questo numero e non i tassi pazzeschi
che a volte si sentono.
Del resto, con un’inflazione media del 2%,37 avrai più che difeso e
aumentato il tuo potere d’acquisto.
Perché, in fin dei conti, investire significa proprio questo: accumulare ricchezza reale per
aumentare, grazie a utili, dividendi, e interessi, il proprio potere d’acquisto.
Buon investimento!
37
Il tasso di inflazione medio in America durante il 1900 è stato del 2,88%, nonostante le due guerre e
l’inflazione degli anni ’70. Avendo un target del 2%, non c’è motivo di pensare che l’inflazione in Europa sia
particolarmente più alta.
69
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