Sbobine di Diritto Penale 1 – Domenico Mazzatura – a.a. 2021/2022 Lezione 1 I grandi temi del diritto, ancora ad oggi dibattuti, sono fondamentalmente temi di diritto penale. La centralità del diritto penale è data dal fatto che ancora nella nostra società democratica e moderna questo si ponga come fulcro assoluto di discussione. I grandi temi di discussione politico-giuridica sono di diritto penale. Ancora nel 2021 abbiamo bisogno del diritto penale? È possibile e necessario che al giorno d’oggi la prima reazione ad un errore o un reato debba essere l’incarcerazione? Facendo un esempio, se adesso andassimo a controllare per quali reati è stata arrestata la popolazione di un carcere femminile, vedremmo che per la stragrande maggioranza questi sono reati contro il patrimonio: andando a prendere le carte d’archivio di un carcere ottocentesco si riscontrerebbe la stessa identica situazione. Nel giro di 200 anni poco è cambiato. Nel giro di secoli non siamo riusciti a trovare una valida alternativa al carcere? In fondo questo è il diritto penale: applicazione di una pena. C’è la pena capitaria e la pena carceraria. Non siamo riusciti a trovare una valida alternativa al diritto penale. Il difficile contemperamento da un lato con la necessità di intervenire con una misura di limitazione di libertà personale e dall’altro un diritto penale umano, che si rivolga all’uomo. Quindi si ha bisogno di un diritto penale, ma un diritto penale minimo, che intervenga laddove ve ne sia bisogno, e imponga la pena carceraria solo a quei soggetti particolarmente pericolosi e recidivi che merita di essere incarcerati, vedendo nel carcere solo l’extrema ratio. L’esempio viene facile: si pensi all’omicidio colposo stradale, la cui pena minima è 5 anni di carcere. Ecco, si pensi ad un ragazzo che beve due spritz e finisce per investire un altro suo collega, uccidendolo. È chiaro che dal punto di vista della lesione del bene giuridico, questa è massima, Ma c’è davvero la necessità di imporre un minimo di 5 anni di carcere ad un ragazzo: questo risponde a un diritto penale umano o a un diritto penale vendicativo? Umanamente è comprensibile che i familiari della vittima chiedano retribuzione per il crimine commesso: ma lo Stato non può ragionare ancora secondo lo schema della legge del taglione. Oggi si parla molto di populismo penale, ove c’è un nemico da combattere inasprendo pene e reati: non è inasprendo e irrigidendo le pena ad oltranza contro la concatenazione di nemici che l’opinione pubblica si fa che si costruisce un diritto penale umano. Il diritto penale è necessario in una qualsiasi società: ma al diritto penale ci dobbiamo rivolgere malvolentieri. Le tre grandi macroaree del diritto penale sono: la legge penale, il reato e la pena. Lezione 2 Il diritto penale si rivolge a dei fatti illeciti. Non solo il diritto penale però si rivolge a dei fatti illeciti: il caso principe è sicuramente il diritto privato con la responsabilità civile. Il diritto penale tratta e sanziona però i fatti illeciti per eccellenza, quelli più gravi. La domanda che ci si deve porre è dunque quale sia la materia penale: da un lato, è una domanda con una facile risposta; dall’altro molto più articolata e complessa di quello che potrebbe sembrare. Cos’è dunque il diritto penale? Sostanzialmente, il diritto penale incrimina un fatto illecito che viene punito con sanzioni di tipo criminale. Aprendo il Codice Penale, nelle sue battute introduttive, quando vengono dettate le prime norme agli artt 17 ss., si detta anche il catalogo delle pene, delle sanzioni penali in senso stretto. Il criterio definitorio del diritto penale, quindi, un criterio di tipo sanzionatorio; un criterio molto semplice e chiaro che permette di distinguere nettamente l’illecito penale da qualsiasi altro fatto illecito. Il diritto penale è informato sul principio di legalità (legalità del reato e del sistema sanzionatorio): esso stabilisce che costituisce illecito ciò che è punito secondo le sanzioni penali. Le sanzioni penali, nell’impianto dato dal Codice del 1930, erano: l’ergastolo, la reclusione e la multa per delitti, ai quali si aggiungeva la pena di morte (nel CP del ’30, che superava la visione liberale del codice Zanardelli, era prevista la pena di morte). Oggi, dall’entrata in vigore della Costituzione, per punire i delitti, l’ordinamento non prevede più la pena di morte: le sanzioni penali sono dunque l’ergastolo, reclusione e multa. Per le contravvenzioni, l’altro illecito penale, sono invece previste la pena detentiva dell’arresto e quella pecuniaria dell’ammenda. Il concetto di materia penale ha subito però un’evoluzione a seguito dell’influsso della giurisprudenza europea: si pongono tutto una serie di nuovi istituti in cui il confine tra diritto penale e diritto amministrativo è labile. Si pensi, ad esempio, alla confisca: la storia della confisca è una storia antichissima negli ordinamenti europei; la confisca consiste nella privazione di tutte le disponibilità patrimoniali di un individuo. È da considerarsi dunque una sanzione penale? Il fatto illecito che conduca ad una confisca è da considerarsi un illecito penale? Il d.lgs. 231/2001, però, qualifica espressamente la confisca come sanzione conseguente ad un illecito amministrativo. L’illecito penale è ciò che è punito con sanzione penale. A questo concetto puramente formale di diritto penale si cerca da sempre di affiancarvi un concetto sostanziale: il concetto sostanziale di reato, fra bene giuridico e principio del danno. La storia del diritto penale è importante per capire la necessità e il significato del concetto di reato. In questo si scontrano due visioni del diritto penale: una lo vede come strumento di controllo sociale in cui il rapporto tra Stato ed essere umano si configurava come rapporto sovrano-suddito. Secondo questa visione, il diritto penale nasce come dovere del cittadino nei confronti dello Stato. E questa visione è stata dominante lungo la storia del diritto penale. Vi è stato poi il grande spartiacque della storia, cioè l’illuminismo: in quest’epoca nasce il diritto penale moderno e il concetto di reato inteso in senso sostanziale. Nell’illuminismo nasce l’idea dello Stato moderno e, in particolare, l’idea del contratto sociale aiuta a fondare il diritto penale moderno: per quest’idea, ovviamente, l’uomo nasce libero e dotato di ogni possibile diritto. Il rapporto con lo Stato, in questa visione del mondo, è dato dall’idea del contratto sociale: l’uomo libero rinuncia a parte delle sue potestà in favore dell’entità statale e in cambio ottiene dallo Stato sicurezza e protezione, obbligandosi ad obbedire alle sue direttive ed imposizioni. Il diritto penale rispecchia questo rapporto: l’individuo rinuncia a un bene (potenziale o meno) in favore dello Stato in cambio della tutela di altri beni giuridici. Lo Stato dunque mantiene un potere di coazione attraverso il diritto penale, ma lo fa non per imporre una determinata volontà sovrana, ma per tutelare beni giuridici. Ove l’individuo agisse in danno ai beni giuridici tutelati dallo Stato, questo può incriminarlo attraverso il diritto penale. Chi decide però quali sono i beni giuridici da tutelare? La collettività tutta riunita nelle sue rappresentanze o in altra maniera, attraverso la legge. Dunque, si può dire che un reato, inteso in senso sostanziale, è un comportamento illecito lesivo di un bene giuridico tutelato dall’ordinamento. La definizione formale e quella sostanziale devono dunque necessariamente completarsi: lo Stato punisce con sanzione penale un determinato fatto illecito perché lesivo di un bene giuridico tutelato. In questa definizione c’è il recepimento del principio di necessaria offensività, per il quale il diritto penale interviene per punire comportamenti offensivi. Detto principio agisce anche come limite all’operato dello stesso legislatore. Potrebbe lo Stato decidere di non incriminare certuni comportamenti, pur essendo lesivi di un bene giuridico? Esiste un obbligo di tutela penale? In questo senso è stato assolutamente determinante il penalista tedesco Gustav Radbruch. In particolare, contro gli individui commissori di atti orribili e criminali durante il regime nazista che, processati alla sua caduta, opposero la difesa di aver agito secondo quanto disposto da legge, Radbruch contesta che l’individuo si rende partecipe degli errori dello Stato che sanziona penalmente condotte non offensive. Il giurista tedesco enuncia poi quella che verrà chiamata la “formula di Radbruch” (Radbruch formel): i tre valori che regolano il diritto penale sono certezza, giustizia e utilità sociale. Tutti i legislatori dovrebbero ispirarsi a questi tre principi: uno tra loro è però prioritario, quello di certezza o legalità. C’è però un solo caso in cui la giustizia prevale sulla certezza della legalità: quando la legge diviene intollerabilmente ingiusta (la formula di Radbruch cita infatti: “il giudice è tenuto a rispettare la legge fino a quando questa non diventi intollerabilmente ingiusta”). Un bene giuridico è dunque un valore di cui è portatore un individuo oppure la comunità tutta. Lezione 3 Se è l’ordinamento giuridico a decidere quale bene giuridico conviene tutelare, ha senso, al giorno d’oggi, basare tutta la trattazione ed evoluzione del diritto penale su questa teoria? L’esempio sovviene facilmente: nel 1938, l’ordinamento penale italiano ha ritenuto che il bene giuridico da tutelare fosse la razza italica. Nel giro di qualche anno, caduto il regime fascista, il bene giuridico da tutelare è divenuta la difesa della persona e della sua identità prescindendo da elementi razziali o di altro tipo. A fronte di un ravvedimento così repentino, la teoria dei beni giuridici è ancora valida? Il concetto di bene giuridico nasce in una concezione giusnaturalistica: l’uomo nasce corredato da una serie di diritti e di libertà degni di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. Oggi, questi diritti e beni inizialmente postulati in una visione giusnaturalistica sono passati ad un piano di diritto positivo. Una serie di documenti legislativi, nazionali ed internazionali, sanciscono una serie di diritti inviolabili delle persone come tali. La giurisprudenza, europea e nazionale, elaborano e postulano i diritti inviolabili dell’uomo sulla base di dati di diritto positivo. Il concetto di bene giuridico è inserito in questo panorama di diritto positivo. Si veda ad esempio l’art 583-bis c.p., sulle mutilazioni genitali femminili, che nasce dall’idea di tutela del bene giuridico della dignità della donna, percepita in moltissime convenzioni internazionali: il legislatore italiano (come quello di molti altri paesi europei) a tutela dell’integrità fisica e della dignità della donna. Sono possibili molti altri esempi, ove il diritto nasce in una visione giusnaturalista, ma evidentemente viene codificato da una legge positiva. Oggi, sicuramente, il concetto di bene giuridico da tutelare ha un fondamento nel diritto positivo. Il bene giuridico, oltre ad essere un limite per il legislatore, è anche un criterio guida per l’interprete, in primis il giudice: in casi problematici ove le fattispecie non siano di facile e immediata individuazione il giudice deve farsi guidare dalla teoria dei beni giuridici per capire se una certa condotta è da sopprimere penalmente o meno, perché rientrante nelle fattispecie penale punita. Il concetto di materia penale ha sempre aiutato l’interprete a delimitare i confini tra ciò che concerne il diritto penale, il diritto civile e il diritto amministrativo. Il problema è che il diritto penale è molto cambiato: ad oggi il sistema punitivo dell’ordinamento italiano (ma anche degli altri ordinamenti occidentali) è molto variegato, ad esempio, accanto alla responsabilità penale della persona fisica, dal d.l. 231/2001 vi si affianca una responsabilità amministrativa per reato dell’ente, giudicata dal giudice penale. La Corte Europea è più volte intervenuta sul tema, con la prima e la più importante sentenza che incorpora i c.d. parametri Engel: secondo questi, se in un certo caso ci sono abbastanza similitudini con un caso di diritto penale, vi si devono applicare le relative garanzie. Questo fa si che si crei intorno al diritto penale un’area di istituti (come le misure di prevenzione amministrative, e.g. daspo) che non appartiene strettamente all’area di competenza del diritto penale, ma costituisce materia penale e in quanto tale dovranno essere applicate tutte le garanzie sostanziali e procedurali generali previste per il diritto penale in senso stretto. Oggi dunque rientrano nella materia penale sicuramente i reati, delitti e contravvenzioni, ma anche tutti quegli illeciti punitivi, in cui il trattamento sanzionatorio ha un carattere di afflittività equiparabile al diritto penale. Lezione 4 Le vicende storiche del Codice Penale italiano sono relativamente semplici: nell’epoca post-napoleonica, dopo l’era delle codificazioni del diritto portate da Napoleone, tutti gli Stati preunitari italiani si dotano di codici penali; il primo Codice unitario italiano è il c.d. Codice Zanardelli del 1889, che prende il nome dal Ministro della Giustizia in carica al tempo. Il Codice Zanardelli rimane in vigore fino all’inizio degli anni ’30. Nel vigore del regime fascista viene emanato l’attuale Codice Penale italiano. Vi è da chiedersi se il Codice Penale del ’30 sia fascista nel suo impianto. La risposta non è immediata come si potrebbe pensare: l’emanazione del Codice fu anticipata da uno straordinario dibattito scientifico. I codici preunitari e il Codice Zanardelli erano stati fortemente influenzati da quella che viene comunemente chiamata scuola classica del diritto penale, il cui maggiore esponente italiano è stato Francesco Carrara. C’è da dire però, a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, irrompe in tutta Europa la dottrina del positivismo giuridico, il cui primo esponente fu Cesare Lombroso, e che ebbe una forte eco in tutto il dibattito penalistico italiano ed europeo. Il Codice Penale, emanato appunto nel ’30, risente di questo dibattito, e in alcuni casi si riesce ancora ad individuare l’influsso della scuola classica, ma in altri si vede l’approccio innovativo portato dalla scuola del positivismo giuridico. Per esempio, viene inserita la misura di sicurezza, postulata proprio in seno alla scuola positiva, che sia affianca alla pena creando il c.d. doppio binario, e la cui funzione non è quella di punire certune condotte, ma neutralizzare e curare la persona malata potenzialmente criminale (l’idea di Lombroso era infatti che il delinquente nascesse malato). In molto le teorie della scuola positiva sono state superate (alcune di queste sono ad oggi palesemente antiquata); di certo ha avuto una grande importanza nell’identificare l’infermità di mente. Nel Codice Penale italiano attuale, nell’art 108 c.p., sopravvive l’impianto dato dalle teorie antropologiche di Lombroso. Dunque nel Codice Penale del ’30 si riscontrano queste due anime della discussione giuridica penale: quella della scuola classica e quella della scuola positiva. Però, mentre il Codice Zanardelli è un codice liberale, il Codice Rocco risente dell’autoritarismo fascista, e ciò si vede particolarmente nella scelta delle sanzioni da applicare e nella parte speciale: l’esempio è semplice, il Codice Zanardelli non prevedeva la pena di morte, il Codice Rocco la prevede. Se poi si vede la costruzione della parte speciale, viene adottato un modello discendente. Normalmente, se qualcuno pensa al reato archetipico, pensa all’omicidio e, in generale, ai reati contro la persona: questo tipo di ragionamento è rispecchiato da diversi codici in un modello ascendente, cioè a partire dai reati conto la persona per arrivare a quelli contro lo Stato. Il primo articolo della parte speciale del Codice Rocco è l’art 241: “Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato”. La parte generale è invece piuttosto equilibrata, tanto più che è riuscita a resistere fino ad oggi senza sostanziali modifiche. Peraltro, il Codice Rocco ha attraversato tutto il periodo del fascismo, fino alla guerra, senza subire, come invece successe in Germania, la soppressione della legalità e l’introduzione del “sano sentimento del Fuhrer”. Nel ’45, alla fine del regime fascista, il Codice Rocco rimane in vigore, con la soppressione però della pena di morte. L’altro avvenimento di ovvia e grande importanza, nel diritto penale italiano, è stata l’emanazione della Costituzione. Ci sono poche norme in Costituzione che riguardano il diritto penale, ma queste sono fondamentali: l’art 25, co. 2, Cost. codifica il principio di legalità, enucleato nel sempreverde brocardo romano “nullum crimen sine previa lege penali certa”. Il principio di legalità era già previsto all’art 1 del Codice Rocco. L’altro grande principio è quello codificato nell’art 27 Cost., che sancisce al primo comma che la responsabilità penale è personale, e al terzo comma che le pene non devono essere contrarie al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione. La Costituzione chiaramente non detta nuove regole solo per il diritto penale: altri ambiti normati dalla Costituzione avranno poi nel corso dell’epoca repubblicana un’enorme influenza sul Codice Penale. Ad esempio, lo sciopero era un reato nel Codice Rocco, ma nella lettera della Costituzione è un diritto. Ancora oggi l’evoluzione giurisprudenziale della Corte Costituzionale è una fonte importantissima per il diritto penale: il caso Cappato è stato deciso dalla Consulta appena due anni fa. La Costituzione dunque funge da faro per l’adeguamento del Codice Rocco, sia tramite riforme legislative, sia tramite le sentenze della Corte Costituzionale. Il legislatore, negli 80 anni dall’emanazione del Codice, ha avuto ampio spazio di manovra: nella parte generale, ci sono state importanti riforme; nella parte speciale, le riforme hanno cambiato quasi tutto. Quindi, si può dire che al momento della sua emanazione il Codice Penale fosse un codice influenzato dall’ideologia fascista. Oggi, a fronte delle profonde modifiche, non si può dire lo stesso. Il problema piuttosto è che le stratificazioni di modifiche e addizioni nel corso degli anni ne hanno un po’ confuso la struttura. Gli altri paesi europei, dal dopoguerra in poi, hanno proceduto ad una riforma totale dei codici penali: ci sono i codici di prima generazione, cioè quelli modificati immediatamente dopo la guerra negli anni ’50, nel caso di Germania e Austria; ci sono quelli modificati dopo la caduta di regimi autoritari negli anni ’70, com’è il caso di Spagna e Portogallo; in Francia il codice è stato cambiato negli anni ’90, dopo 180 anni di vigenza del codice Napoleonico; poi ancora, tutti i paesi dell’Est Europa all’indomani della caduta del comunismo negli anni ‘90. Perché in Italia non si è ancora avuta? In fondo, anche in Italia ci sarebbe bisogno di procedere ad una riforma del Codice Penale, quanto meno nella sua struttura. Il problema è, come al solito, la difficoltà di formare una maggioranza in Parlamento, spesso diviso e di difficile composizione, capace di modificare aspetti delicati del diritto penale. Un altro problema del nostro ordinamento è l’enorme crescita della legislazione complementare. Ciò che emerge è che c’è un’ipertrofia del diritto penale. Anche in quest’ambito, sarebbe necessario procedere ad una riorganizzazione. Lezione 5 Il principio di legalità è una delle parti centrali del diritto penale, e funge da fondamento del diritto penale moderno. Viene attribuita la paternità del principio di legalità ad Anselm von Feuerbach. Il principio di legalità si colloca storicamente sempre nel secolo dei lumi e delle codificazioni: il criterio di legalità è infatti strettamente collegato con lo stato di diritto. Ogni considerazione relativa al diritto penale moderno deve partire dall’art 25, co. 2, Cost., che enuncia appunto il principio di legalità: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Nel 1930, il principio di legalità era già enunciato dal Codice Rocco, all’art 1. La Costituzione si pone dunque in perfetta continuità con il Codice Penale; il cambio di prospettiva è stato quello di dare il valore di norma costituzionale al principio di legalità. Il principio di legalità ha una funzione di garanzia, in diverse sfaccettature di essa: innanzitutto, una norma penale che incida sui diritti fondamentali dei cittadini (come ad esempio la libertà di movimento), è bene che sia frutto di un procedimento democratico, cioè la riserva di legge, il primo corollario del principio di legalità (solo la legge può incidere sulla materia penale; il secondo importante corollario è il principio di irretroattività, dato che la legge penale può disporre solo per il futuro; la terza grande garanzia, corollaria del principio di legalità, è la determinatezza e la tassatività della fattispecie, visto che il diritto penale deve incriminare singole condotte e deve determinarle in modo tassativo, preciso e puntuale. Tra l’altro, oltre a regolare il rapporto tra cittadino e Stato nella conoscenza precisa delle condotte illecite, il principio di determinatezza e tassatività regola anche i rapporti tra i poteri dello Stato, in particolare tra quello legislativo e quello giudiziario: se la norma penale è una norma generica chiaramente il potere del giudice, nell’applicarla, si estende ad libitum (non a caso in Germania i nazisti abolirono il principio di legalità sotto il profilo del divieto di analogia, per cui ogni fattispecie penale diventò necessariamente un contenitore vuoto). È chiaro dunque che il principio di legalità è il cardine di ogni stato democratico di diritto: ciononostante, al giorno d’oggi si presentano diversi profili di problematicità, legati ovviamente all’evoluzione dell’ordinamento. Per esempio, uno dei problemi attiene alle fonti del diritto, e dunque alla riserva di legge: ad oggi, negli Stati membri dell’UE, cosa si intende per legge? È chiaro che nell’800, quando si parlava di legge si intendeva la legge del parlamento. Ma adesso, il problema diventa anche l’interpretazione dei rapporti tra fonti nazionali e fonti sovraordinate di diritto internazionale (e.g., in UE esiste il principio di primautè du droit europèen: primato anche sulle fonti di diritto penale?). Un altro problema è sicuramente l’applicazione giurisprudenziale: se l’idea della Rivoluzione Francese era che il giudice dovesse essere semplicemente un automa che applicasse la legge scritta, questa visione risulta un po’ antiquata oggi, dove si sa che il giudice con la sua interpretazione crea, almeno in parte, la norma stessa. Ma nei paesi di Civil Law, dove il precedente giudiziario non è vincolante, si crea il problema dei controlimiti a questo potere creativo giurisprudenziale: quanto si deve estendere in modo da non entrare in conflitto con il principio di legalità? Inevitabilmente, il diritto penale è intessuto da un lato da principi fermi e fondamentali, peraltro irrinunciabili; dall’altro, una serie di problematicità poste dai tempi moderni e dalla loro continua evoluzione. È chiaro infatti che il principio di legalità nasce in una società molto più semplice, dove l’unica legge era quella del parlamento; ad oggi, con un sistema composito di fonti della legge, e un apporto molto più capillare ed importante della giurisprudenza, peraltro anch’esso in modo composito e complesso, il panorama legislativo diventa molto più difficile da interpretare. L’art 25 Cost. è dunque un pilastro dell’ordimento giuridico italiano. Il principio di legalità è però ovviamente importantissimo anche a livello internazionale ed europeo: in particolare, l’art 7 CEDU statuisce che nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui era stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parlando invece della riserva di legge, essa riguarda il sistema delle fonti del diritto penale. La ratio, come testé detto, è quella del rispetto del metodo democratico. La riserva di legge garantisce la formazione di un diritto penale democratico, che rispetti e rispecchi la volontà popolare. Le fonti del diritto penale sono diverse, e come detto prima, nonostante l’apparente semplicità del tema, hanno una loro complessità. Al vertice delle fonti vi sono sicuramente la Costituzione e le leggi costituzionali. La Costituzione infatti dà delle disposizioni di principio sul diritto penale, ma non prevede reati, a parte un singolo caso: l’art 90 Cost., ossia i c.d. reati presidenziali, l’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione. Poi, chiaramente e ragionevolmente, non vengono introdotti nuovi reati con leggi costituzionali: tale incarico è affidato alla legge ordinaria. Per cui, la fonte principale del diritto penale è la legge formale del Parlamento. Accanto alla legge ordinaria ci sono gli atti legislativi del governo, ossia decreto-legge e decreto legislativo: se per il secondo non ci sono problemi a ritenere che rispetti la garanzia di democraticità richiesta dal principio di legalità, visto che preceduto da una legge delega; per quanto riguarda il decreto-legge, operando esso sul doppio requisito di necessità ed urgenza, che in materia penale possono certamente esistere, deve essere realmente l’unico mezzo utilizzabile per far fronte alla situazione di necessità, come più volte richiamato dalla Corte Costituzionale (altrimenti, verrebbe meno la garanzia di democraticità). Il decreto-legge è dunque uno strumento straordinario tra le fonti del diritto penale, proprio per la natura intrinsecamente democratica di quest’ultimo. Una questione problematica, all’interno della trattazione delle fonti del diritto penale, è quello del rapporto tra il potere legislativo e le sentenze della Corte Costituzionale. È un problema questo relativamente nuovo, visto che negli ultimi 20 anni si è molto estesa l’influenza delle sentenze della Consulta in materia penale. È ovvio che nei suoi più di 70 anni di attività la Corte ha avuto un ruolo fondamentale, basti pensare a tutte le declaratorie di incostituzionalità sulle norme del Codice Penale riguardanti lo sciopero e la serrata. Astrattamente, l’operato della Corte Costituzionale non dovrebbe entrare in conflitto con il principio della riserva di legge: ciononostante, ultimamente il conflitto si pone per un particolare tipo di sentenze, ossia le sentenze additive. Un caso paradigmatico è il c.d. caso Cappato: di fronte al rifiuto di DJ Fabo, che a seguito di un incidente stradale era stato tenuto in vita artificialmente e aveva perso ogni tipo di mobilità ed indipendenza personale, di morire attraverso l’interruzione dell’alimentazione o della respirazione forzata e alla sua corrispondente richiesta di morire tramite iniezione in Svizzera, Cappato, esponente del Partito Radicale, ha accompagnato DJ Fabo in Svizzera per procedere al suicidio assistito (fattispecie prevista e regolata nella Confederazione Elvetica, purché per scopi altruistici). Dopo averlo accompagnato, Cappato si autodenuncia a norma dell’art 580 c.p.; sennonché la Corte s’Assise del Tribunale di Milano decide di sollevare questione di legittimità costituzionale sull’art 580 c.p. Non ne aveva chiesto però la declaratoria di illegittimità tout court, ma solo limitatamente a quegli individui privi di “vita autonoma” che aveva espresso la volontà di morire. La Corte Costituzionale si è trovata di fronte ad un problema non da poco, tenendo conto che aveva qualche tempo prima emesso un’ordinanza-monito al Parlamento, perché legiferasse entro un anno in materia, avendo la Corte stessa ravvisato profili di illegittimità costituzionale. Il Parlamento però non è stato in grado di legiferare in materia: la Corte dunque si ritrovava nella situazione di dover accettare il ricorso del giudice a quo, ma con l’ovvia necessità di restituire una norma non zoppa. Un grande costituzionalista, Crisafulli, dice che la Corte Costituzionale può operare solo a “rime obbligate”: la Corte necessita di uno strumento per poter intervenire in situazioni come quelle sopra esposte, ma può dettare una regola purché ne ricalchi una già presente nell’ordinamento. Nel caso Cappato, dunque, la Corte recupera le norme sul c.d. fine-vita e le applica anche ai casi di agevolazione al suicidio: nei casi in cui, dunque, è possibile interrompere il trattamento forzato è anche lecito farsi iniettare una sostanza fatale da un soggetto terzo. Un altro problema si pone anche riguardo al principio di irretroattività della norma penale, soprattutto quando si deve decidere che legge deve essere applicata al caso in esame, quando in materia una legge sia stata dichiarata illegittima dalla Corte. Il problema è che per i fatti antecedenti alla declaratoria di incostituzionalità di una determinata legge penale si può far rivivere la precedente norma penale, ma per quanto riguarda i fatti commessi nel periodo di vigenza la questione si fa più complicata, tenendo conto del principio di irretroattività. La Corte ha risolto la questione, nel rispetto del principio di legalità, stabilendo che, se una norma era ab origine costituzionalmente illegittima, essa deve scomparire ex tunc dall’ordinamento, come se non fosse stata mai emanata. Lezione 6 Sempre nell’ambito del principio della riserva di legge, nel sistema delle fonti del diritto penale devono anche considerarsi i rapporti con consuetudine, legge regionale e atti amministrativi. Per quanto riguarda la legge regionale, l’art 117 Cost statuisce espressamente che lo Stato ha la competenza esclusiva su giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale e giustizia amministrativa. Anche prima della Riforma del Titolo V, non vi è mai stato dubbio né nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, né nella dottrina costituzionalistica, sul fatto che le Regioni (sia a statuto ordinario che speciale) non avessero alcuna competenza nella legislazione penale. Sono presenti però, nel nostro sistema penale, norme che richiamano la legislazione regionale: le c.d. norme penali in bianco. Si pensi ad esempio al diritto urbanistico: la Regione Basilicata e la Regione Sardegna potrebbero avere due normative differenti per quanto riguarda l’edificazione su suolo demaniale del litorale; nel T.U. dell’edilizia, infatti, vengono richiamate implicitamente le leggi regionali. In particolare, l’art 44, lett. A e B vengono indentificate come leggi penali in bianco: nel valutare l’illegittimità della costruzione di un’opera, se fatta senza [o in difformità del] titolo edilizio (e.g. il permesso di costruire), si deve fare riferimento alla particolare normativa di concessione del titolo emanata dalla Regione dove si è edificato. Dunque, sicuramente la legge regionale non può essere fonte primaria per il diritto penale, ma vi è di certo una rilevanza, dato che possono incidere sulla struttura della fattispecie. Per quello che riguarda invece le fonti subordinate alla legge, iniziando dalla consuetudine, né quella incriminatrice, né quella abrogatrice (c.d. desuetudine) hanno rilevanza in maniera penale. È questa ovviamente una scelta operata dal sistema della legge scritta: in altri ordinamenti, la consuetudine ha avuto un’influenza sul sistema penale. Nel medioevo, nel sistema di Common Law, ad esempio, i giudici decidevano sul caso criminale valutando le norme consuetudinarie del posto e la decisione presa l’anno precedente. La consuetudine può avere una qualche rilevanza solo laddove venga richiamata da una norma di legge. LA consuetudine poi, pur non potendo né creare né abrogare una norma, può avere rilevanza per la sua interpretazione: ad esempio, per gli studenti dell’Università di Padova esiste la tradizione, al momento della laurea, della stesura di un “papiro” contenente una serie di fatti scabrosi o comunque privati del laureando. Nessuno si sognerebbe di denunciare per diffamazione chi ha steso il papiro. Il giudice, nel valutare la fattispecie penale, deve anche valutare le tradizioni e le consuetudini esistenti. Infine, parlando di regolamenti ed atti amministrativi, nessuno dei due può essere annoverato tra le fonti del diritto penale. Così come per la questione della legge regionale, anche i regolamenti o gli atti amministrativi possono avere una rilevanza penale, allorquando vengano richiamati dalle leggi penali in bianco: ad esempio, il T.U. sugli stupefacenti richiama la tabella ministeriale (che è un atto amministrativo) per distinguere droghe leggere e droghe pesanti, e dunque comminare pene differenti a seconda dei casi. Ancora, la classica ipotesi di norma penale in bianco è l’art 650 c.p.: l’articolo statuisce che chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o d’igiene è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro. È evidente che vi è un richiamo ad un atto amministrativo, però ad un singolo atto amministrativo, indirizzato ad un preciso individuo: se, per tramite dell’art 650 c.p., si punisse ogni inottemperanza agli atti amministrativi, verrebbe meno indirettamente la riserva assoluta di legge del diritto penale. Il principio di determinatezza è il secondo corollario del principio di legalità. La struttura di una fattispecie di una norma penale può fare riferimento ad elementi naturalistici e ad elementi normativi. Vi è necessità di costruire le fattispecie penali in maniera determinata perché se così non fosse verrebbe meno il rapporto di certezza fra cittadino e Stato. Il principio di determinatezza è sostanzialmente quello della lex certa, in modo che venga descritta determinatamente nei suoi elementi costitutivi. Dunque l’elemento connotante la fattispecie penale deve essere determinato, e deve essere percepito come tale sia dal cittadino sia dal giudice: è importante che la fattispecie sia determinata per evitare di allargare troppo l’arbitrio del giudice, che, se fuori controllo, farebbe ancora venire meno il principio di certezza e dunque quello di legalità. Peraltro, vi sono diversi gradi di determinatezza della fattispecie: in alcuni casi è massima, come ad esempio l’art 575 c.p. ossia l’omicidio; in altri, può essere meno rigida, come all’art 529 c.p., che fa rifermento agli atti ed oggetti che secondo il comune sentimento, estrapolato da massime esperienziali, offendono il pudore. Sul principio di determinatezza vi è stata anche un’importante sentenza della Corte Costituzionale. La Consulta, con sent. n. 96/1981, ha infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art 603 c.p., rubricato “Plagio”. Esso statuiva che chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni. Anche a prima vista, si nota che la norma mancava di determinatezza: ad esempio, cosa si intende esattamente per “ridurre al proprio potere”? Si intende un potere fisico, morale etc.? Lo stesso si può dire per “stato di soggezione”: che cosa si intende per soggezione? Per contestualizzare la vicenda e la norma, si guardi a chi negli anni ’70 denunciava e veniva denunciato ai sensi dell’art 603 c.p.: per la stragrande maggioranza, erano a contenuto sessuale, in particolare omosessuale. L’archetipo di caso poteva essere un giovane che aveva relazioni sessuali con un uomo molto più grande di lui e dotato di un qualche tipo di autorità sullo stesso. Un caso di questo tipo è quello che ha portato alla declaratoria di incostituzionalità della norma: infatti, la Corte ritenne che la norma fosse troppo indeterminata sullo “stato di soggezione”, soprattutto per quanto riguardava la distinzione tra stato di soggezione patologico o fisiologico. La Corte ritenne peraltro, che la norma fosse indeterminata sia intrinsecamente, per le ragioni suddette; sia estrinsecamente, dato che, potendo rivolgere lo sguardo alla scienza psichiatrica per trovare la risposta, questa non poteva comunque darne una certa. Ad oggi, seguendo l’evoluzione della scienza psichiatrica, che da tempo ha introdotto nel DSM il caso di manipolazione mentale, si dibatte per la reintroduzione di una norma penale (più determinata) che contrasti e punisca questo fenomeno. Il principio di determinatezza è peraltro tornato di nuova attualità per l’influsso della giurisprudenza europea. Il caso fondamentale è il caso Contrada, deciso dai giudici della CEDU: questa sentenza afferma che la norma penale deve possedere un requisito di riconoscibilità del precetto, quale precondizione di conoscibilità di ogni norma [ndr: questa parte era estremamente prosaica e mi rompevo i maroni a sbobinarla, leggila sul libro e non cagare il cazzo]. Una stretta conseguenza del principio di determinatezza è il divieto di analogia. Esso è previsto anche dalla legge: l’art 14 delle preleggi del Codice Civile. L’analogia svuota di significato il principio di legalità: il divieto di questa implica infatti che il giudice non possa creare una nuova norma penale per un caso concreto ove manchi, anche quando questa si fondi sulla eadem ratio. Lezione 7 Il principio di irretroattività è disciplinato dall’art 2, co. 1, c.c.; ha un fondamento di rango costituzionale nell’art 25, co. 2, Cost.; ed è, inoltre, previsto da numerose convenzioni internazionali, prima fra tutte la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’art 7. Nullum crimen sine previa legi penali: la norma ha una funzione di garanzia e di certezza, ed ha una consacrazione a livello costituzionale; c’è stata però una tradizionale deroga a questo principio, non prevista in Costituzione, ma prevista all’art 7 CEDU. Questo, infatti, dopo aver enunciato il principio di irretroattività della legge penale (secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato) specifica al co. 3 che l’art 7 stesso non ostacolerà il rinvio a giudizio e la condanna di una persona colpevole d’una azione o d’una omissione che, al momento in cui fu commessa, era criminale secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. L’eccezione fa riferimento, ovviamente, ai crimini commessi dai nazisti in Germania: i loro crimini contro gli ebrei erano talmente odiosi che, anche dove la legge li avesse comandati, sono comunque perseguibili, perché sono contrari ai principi generalissimi di un ordinamento di una nazione civile. Dunque l’unica eccezione al principio di irretroattività è la fattispecie dei crimini contro l’umanità. Un altro problema è che cosa si intende per legge penale nel principio di irretroattività: si potrebbe infatti intendere per leggi penali sia quelle sostanziali che quelle processuali. La legge penale sostanziale è quella che punisce una determinata condotta, e, visto il principio di irretroattività, la norma disporrà solo per il futuro, sia dal punto di vista dell’incriminazione che da quello sanzionatorio. Per converso, il diritto processuale è disciplinato da un diverso criterio: il c.d. tempus regit actum. Per questo motivo, le norme processuali penali non sono vincolate dal principio di irretroattività. Ci sono però delle situazioni ed istituti che si pongono al confine tra legge sostanziale e legge processuale: un esempio è la prescrizione (artt 157 ss. c.p.), cioè una causa estintiva del reato che si fonda sul decorso del tempo. La sua funzione è quella di legare alla pena una funzione riabilitativa e rieducativa (non avrebbe senso condannare una persona per, ad esempio, un furto commesso 15 anni prima). Il legislatore del Codice Rocco aveva infatti stabilito che per tutti i reati ci fosse la prescrizione, tranne per quelli puniti con l’ergastolo. Mentre altri ordinamenti vedono la prescrizione come un istituto processuale, nell’ordinamento italiano la prescrizione è sicuramente pensata e percepita come un istituto sostanziale: la Corte Costituzionale ha sempre sostenuto che l’istituto della prescrizione è di diritto sostanziale, e, dunque, le modifiche peggiorative di questa non possono che disporre per il futuro; un altro esempio di istituto a cavallo tra norme sostanziali e norme processuali è quello delle misure cautelari. La Cassazione è granitica nell’affermare che le misure cautelari siano di natura processuale. Negli ultimi tempi si è presentato un caso problematico: quello delle misure alternative alla detenzione. Il nostro ordinamento prevede che, per le condanne fino a 4 anni, il condannato con condanna esecutiva possa presentare un’istanza al Tribunale di Sorveglianza per avere una misura alternativa alla detenzione: o l’affidamento in prova ai servizi sociali o la detenzione domiciliare. Con la legge Bonafede, però, sono state modificate le ipotesi di preclusione alle misure alternative alla detenzione: alla preclusione per reati di mafia e quelli di natura sessuale, viene aggiunta quella per i reati contro la Pubblica Amministrazione. Chiaramente si sono creati dei grossi problemi, visto l’ampio numero di reati adesso preclusi dalle misure alternative alla detenzione, e soprattutto, visto che la norma si applicava retroattivamente. Alcuni Tribunali, in particolare quelli di Sorveglianza, hanno immediatamente sollevato una questione di legittimità costituzionale, ritenendo che la norma fosse viziata da irragionevolezza e che fosse sbagliato e ingiusto applicarla retroattivamente secondo l’interpretazione della Cassazione (la quale, come detto supra, ha sempre ritenuto le misure alternative norme processuali perché inerenti all’applicazione della pena e non alla pena in sé). La Corte Costituzionale accoglie con una sentenza la questione di legittimità, ritenendo che ci sia una tale differenza tra la pena da scontare in carcere e quella delle misure alternative da renderle due pene diverse: viene dunque ribaltata l’interpretazione formalistica della Cassazione, dovendosi ritenere le misure alternative alla detenzione istituti di natura sostanziale e non più processuale. Parlando invece della retroattività favorevole, è questo un principio tradizionalmente stabilito dal nostro sistema penale, ma anche dall’ordinamento europeo in senso lato. È l’art 2, co. 4, c.p. a codificare questo principio: qual è però il suo fondamento, la sua ratio? Il principio di retroattività favorevole trova il suo fondamento nel principio di eguaglianza. Questo però ha diverse ricadute: innanzitutto, se da un lato il principio di irretroattività ha un lampante fondamento costituzionale (nell’art 25 Cost.), lo stesso non si può dire per il principio di retroattività favorevole; se però quest’ultimo principio ha il suo fondamento nel principio costituzionale di eguaglianza, si potrebbe ritenere che esso stesso sia di rango costituzionale, e dunque inderogabile dal legislatore ordinario. Nella pratica, il legislatore ha più volte introdotto un regime più favorevole per alcuni istituti penali, ma ha allo stesso tempo emanato leggi intertemporali che ne bloccavano l’applicazione per il passato. La Corte Costituzionale si è dovuta esprimere sul tema: nella fattispecie, si trattava della riforma del regime della prescrizione penale del 2005, che introduceva un trattamento più favorevole e che si applicava a tutti i fatti, anche a quelli commessi in passato, a condizione però che non fosse iniziato un processo. Di fronte all’apertura di una questione di legittimità costituzionale, la Corte ha affermato che il principio di retroattività favorevole è costituzionalmente protetto dall’area dell’art 3 Cost.; tra l’altro viene sancito anche da due norme di trattati internazionali recepite dal nostro ordinamento (in particolare, l’art 49 della Carta di Nizza e l’art 15 del Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici di New York). Dunque il principio di retroattività favorevole è costituzionalizzato. Ciononostante, la Corte ha anche affermato che, mentre il principio di irretroattività non ammette deroghe, la retroattività favorevole può essere derogata dal legislatore ove ci siano altri interessi costituzionalmente protetti da bilanciare con essa. Come testé detto, il principio di retroattività favorevole è altresì disciplinato dal Codice Penale all’art 2, co. 2, 3 e 4. Questi, rispettivamente, regolano: al comma 2, la c.d. abolitio criminis, ossia il caso più forte di retroattività favorevole (viene chiamata infatti iperretroattività). Il comma cita: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali”; nel caso in cui avvenga la c.d. abolitio criminis, questa ha un effetto talmente forte da travolgere anche il giudicato; il comma 3, introdotto nel 2006, cita: “Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria”. Questo comma è stato introdotto dietro la forte pressione della lobby dei giornalisti, al fine di depenalizzare quanto più possibile i reati di diffamazione; al comma 4, viene regolata l’ipotesi di modifica del trattamento. Infatti, questo cita: “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. Questo non è un caso di iperretroattività, perché non coinvolge il giudicato. Non è sempre semplice però distinguere tra modifica del trattamento ed abolitio criminis. Si prenda ad esempio il caso dell’abuso d’ufficio: nel 1930 questo era chiamato abuso innominato; nel 1990 diventa abuso d’ufficio; nel 1996-7 viene riformulato e modificato completamente nella sua struttura; nel 2020 viene modificato per una quarta volta. Capire se è uno o l’altro caso non è facile ed è lasciato all’interprete deciderlo (ad esempio, quando fu abrogato l’art 519 c.p., non fu un caso di abolitio criminis, perché fu contestualmente introdotto l’art 609-bis c.p., che punisce la violenza sessuale). Lezione 8 Il problema della modifica del trattamento non si pone solo allorquando venga modificata la pena di un determinato reato: la situazione più problematica si pone allorquando il legislatore decida di modificare la fattispecie stessa (ipotesi della c.d. riformulazione della fattispecie). Infatti, potrebbe diventare difficile per l’interprete capire se si tratti di una riformulazione della fattispecie o di una vera e propria abolitio criminis. Si prenda ad esempio l’art 519 c.p., abrogato nel 1996, che citava: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe taluno a congiunzione carnale è punito con la reclusione da tre a dieci anni”. Lo stesso anno, è stato introdotto l’art 609-bis c.p., che cita: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. Dunque è stata sicuramente abrogata la vecchia norma, che formalmente è venuta meno; di certo però non si tratta di abolitio criminis, ma di una riformulazione della fattispecie. Per distinguere se ci si trovasse difronte ad una abolitio criminis o ad una riformulazione della fattispecie, dottrina e giurisprudenza, a partire dal secondo dopoguerra, hanno usato diversi criteri: 1. criterio della valutazione in concreto, di derivazione tedesca, il cui ragionamento seguiva lo schema del “prima punibile + dopo punibile = sempre punibile”. Questo criterio è stato però presto abbandonato: pur essendo tendenzialmente efficace in casi semplici, era un concetto metodologicamente sbagliato, perché la valutazione di presenza o meno di una aabolitio criminis deve essere fatta in astratto raffrontando le fattispecie e la loro evoluzione, non sul concreto caso giudiziario; 2. criterio della continuità del tipo di illecito, accolto da una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Secondo questo criterio, perché vi sia un rapporto di mera riformulazione della fattispecie, vi deve essere una continuità nella struttura della fattispecie e nella punizione della lesione del bene giuridico tutelato. Vi è sicuramente un miglioramento rispetto al criterio precedente, visto che si sposta sul piano astratto la valutazione della fattispecie. La dottrina, in particolare nella persona del prof. Tullio Padovani, ha però sollevato diverse critiche a questo criterio: innanzitutto, si biasima al criterio di essere troppo vago, e di non essere ancorato a dei dati precisi, come dei dati formali o strutturali; 3. criterio della continenza o dei rapporti strutturali, nato dalle critiche rivolte al precedente criterio dal prof. Padovani. Secondo questo criterio, perché vi sia un fenomeno di riformulazione e non di vera e propria abolitio criminis, analizzando la struttura della norma, è necessario che la vecchia norma sia contenuta dalla nuova o viceversa. Usando la terminologia della Cassazione, è necessario che vi sia la c.d. specialità diacronica: tra la vecchia norma e la nuova vi deve essere un rapporto di specialità, cioè o deve essere aggiunto un elemento specializzante, o la precedente fattispecie speciale deve essere fatta rientrare in una più generale (e.g. congiunzione carnale del vecchio art 519 c.p. e atti di libidine del vecchio art 521 c.p. ora rientrano nella categoria più generale degli atti sessuali di cui all’art 609-bis c.p.). Le modifiche della fattispecie possono essere immediate e mediate. Per modifiche immediate si intendono quelle modifiche che intervengono direttamente sulla fattispecie incriminatrice. Per modifiche mediate si intendono quelle per cui non viene direttamente modificata la norma, ma ne viene modificata una a cui la norma fa riferimento (e.g. le norme penali in bianco: quando cambia la norma di riferimento cambia anche la fattispecie che richiama detta norma). Al regime della retroattività favorevole si sottraggono le norme eccezionali o temporanee, come enunciato dall’art 2, co. 5, c.p.; ciò, tra l’altro, conferma che il principio di retroattività favorevole, pur essendo costituzionalizzato, ammette deroghe. L’ultimo comma dell’art 2 cita: “Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti”. La Corte Costituzionale, con sentenza 51/1985 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale comma «nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nel secondo e terzo [ora quarto] comma dello stesso art. 2 c.p.», nel rispetto del principio della caducazione retroattiva del decreto-legge non convertito. Originariamente infatti, le disposizioni dell’art 2 c.p. si applicavano anche nei casi di decadenza e di mancata conversione dei decreti-legge [ndr: tutta questa parte sull’ultimo comma onestamente non l’ho capita, vedi sul libro dioporco]. L’Unione Europea è nata dall’idea di porre un ordinamento giuridico comune europeo, superiore a tutti gli ordinamenti nazionali. Sin dai primi istanti, però, il coordinamento tra questa idea e il diritto penale si pose come problema fondamentale. Innanzitutto, perché il diritto penale, fra tutte le branche e le tipologie di legge presenti nei vari ordinamenti, è quello più strettamente legato alla cultura e alla società di un Paese; e proprio per questo ogni singola Nazione tendenzialmente tiene a mantenere una sfera di autonomia in questo ramo del diritto. Nel 1960, al tempo del Trattato di Roma, onde evitare inutili frazioni tra i firmatari, l’idea di un diritto penale europeo non si era nemmeno profilata. In aggiunta a tutto ciò, per il diritto penale si pone un problema specifico: il c.d. deficit di democraticità del diritto penale europeo, inerente al fatto che esistono persistenti problemi di rappresentanza e di democraticità nel processo legislativo europeo. Il principio di legalità, che è un irrinunciabile caposaldo del diritto penale moderno, si fonda sull’idea che solo la volontà popolare estrinsecata nelle varie forme di rappresentanza possa trasformarsi in norma penale. Ciò non si può dire che succeda a livello di UE: è vero che esiste un Parlamento Europeo, i cui membri sono eletti dai cittadini europei, ma quest’ultimo non ha una potestà esclusiva in materia penale, le leggi che l’UE emana passano anche attraverso il Consiglio d’Europa su proposta della Commissione Europea, organi entrambi costituiti sotto nomina governativa. Ad oggi, in ogni caso, l’UE sta assumendo un ruolo cardine anche nel diritto penale, visto che il TFUE le assegna una c.d. competenza indiretta in materia penale. Ad esempio, l’art 83 TFUE cita, ai primi due commi: “Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni. Dette sfere di criminalità sono le seguenti: terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata”. Normalmente, infatti, l’UE legifera per tramite dei regolamenti, che sono self-executing; invece in materia penale può solo emanare direttive, che devono essere recepite dagli stati membri, per di più contenenti solo norme minime e solo in determinate materie. Lezione 9 [ndr: manca la prima parte della lezione, che si ricollegava a quella precedente sul diritto europeo e il rapporto col diritto penale. In particolare, manca la applicazione e la disapplicazione del diritto europeo]. La teoria del reato è frutto di due secoli di interpretazione: da quando, alla fine del ‘700, è nato il diritto penale moderno ad oggi, molte cose si sono trasformate a fronte di un florido dibattito filosofico, politico e giuridico. Costruire delle categorie per il reato non è solo uno sforzo di logica, ma ha anche alla sua base delle scelte ideologiche di politica criminale. Leggendo i resoconti dei processi penali ci si può rendere conto di quanto sia cambiata la concezione di reato nel corso del tempo. Oggi si dice innanzitutto che il reato è un fatto umano: si ancora a un principio di materialità il reato, punendosi solo i fatti materiali. Fino a quando, ad esempio, un’idea che potrebbe essere pericolosa in potenza rimane soltanto tale, allora non ci potrà essere una punizione: solo a seguito di un fatto materiale, scaturito da quella idea, può operare il diritto penale. Adesso questi sono assunti tendenzialmente scontati, ma non lo sono stati in passato: individui che non hanno estrinsecato alcun tipo di comportamento criminale sono stati incriminati in passato per le loro credenze o appartenenze. È stata una grande conquista del diritto penale moderno ancorare la teoria del reato al principio di materialità. Accanto all’elemento oggettivo del comportamento in sé si deve mettere quello soggettivo della riferibilità del comportamento. Viene così a delinearsi una responsabilità personale del reato, eliminando tutte quelle forme di responsabilità oggettiva o per fatto altrui che pure erano presenti nel diritto penale. Discende poi dalla riferibilità del comportamento la categoria di imputabilità: imputabile è solo chi è capace di intendere e di volere. Si individua così una categoria che è a monte del giudizio di colpevolezza, il suo primo passaggio. La teoria del reato origina proprio dall’intenzione dei moderni penalisti di identificare cosa sia il reato. La scuola classica lo individuava nel combinato tra forza fisica e forza psichica: in questo momento nasce la concezione moderna di reato, cioè un comportamento materiale contra ius, accompagnato da un elemento psicologico di dolo o colpa. È questa la c.d. teoria bipartita del reato. In questo periodo si enuclea anche un trinomio di principi importanti per il diritto penale moderno: 1. l’uomo nasce libero, essendo dotato di un libero arbitrio e, in quanto tale, è capace di scegliere se fare il male o il bene; 2. ciò implica che liberamente scegliendo il male, si è colpevoli. Questo passaggio fonda l’idea della colpevolezza; 3. ad un comportamento colpevole non può che seguire una retribuzione. È quanto postulato dalla teoria retributiva della pena. Il brocardo malum passionis propter malum actionis ne è esemplificativo: viene assoggettata a pena solo una condotta illecita. Anche questo è un principio forse oggi scontato, ma importantissimo, che ha permesso al diritto penale moderno di divincolarsi dall’idea vendicativa della pena. Dalla fine del ‘700 ad oggi sono passati due secoli. Vi sono state diverse discussioni ed istanze su quanto postulato sulla teoria del reato. Innanzitutto, la scuola del positivismo giuridico, che ha una visione “antropologica” del diritto penale, e pone al suo cardine non tanto il fatto, quanto il soggetto agente. Secondo la costruzione di questa scuola, si nasceva delinquenti (in particolare Cesare Lombroso cercava nei crani dei briganti uccisi la c.d. “fossetta occipitale”), e vi erano peraltro differenti delinquenze a seconda del sesso e della razza. Il diritto penale della scuola positiva si fondava dunque sulle tipologie e sulla tipizzazione dei delinquenti. Anche questa teoria ha lasciato un segno nel sistema penale odierno, si legga ad esempio l’art 108 c.p., che cita: “È dichiarato delinquente per tendenza chi […] riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole”. Le idee di Lombroso hanno avuto anche influenza sugli sviluppi successivi del diritto penale: all’inizio del ‘900, prima dell’entrata in vigore del Codice Rocco, un suo allievo (Enrico Ferri) sosteneva l’idea del positivismo basato sulla realtà sociale: il delinquente non è solo da un punto di vista antropologico tale, ma è anche la società che lo porta a delinquere. Tutto ciò implica una visione radicalmente diversa del sistema penale, soprattutto rispetto al trinomio prima esposto. È un modello che vede il soggetto come irresponsabile e quindi non considerabile colpevole. La scuola positiva dice dunque che, per un soggetto socialmente pericoloso, non si deve adottare una pena, ma prendere delle misure di sicurezza. Il dibattito penalistico della dottrina italiana si basa sul confronto e sulla stratificazione delle due scuole. Infine prevale la scuola classica, nella sua costruzione strutturale, ma non è immune dalle influenze della scuola positiva. Lezione 10 L’evoluzione della teoria del reato parte con la concezione che il reato è composto da due elementi: l’elemento oggettivo e l’elemento soggettivo (c.d. teoria bipartita del reato). Questa teoria ha l’indiscusso merito di enucleare per la prima volta un concetto astratto di reato: in tutti i reati ci devono essere almeno questi due elementi per determinarli come tali. L’elemento oggettivo è il fatto commesso; l’elemento soggettivo è l’elemento psicologico, ovverosia il dolo o la colpa. La teoria bipartita del reato attraversa la storia del diritto penale fino ai giorni nostri. La teoria però, a un certo punto, entra in crisi a livello sistematico: in Germania viene elaborato ed individuato un terzo elemento del reato. La teoria tripartita del reato affianca all’elemento oggettivo e quello soggettivo l’antigiuridicità: perché ci sia un reato deve esserci una condotta umana, una antigiuridicità intesa come contrasto con l’ordinamento del fatto e un elemento soggettivo. La dottrina tedesca elabora questo terzo elemento per ragioni praticosistematiche: la teoria bipartita non riusciva a collocare né nell’elemento oggettivo, né in quello soggettivo le situazioni giuridiche delle cause di giustificazione. Un esempio intuitivo e immediato delle cause di giustificazione è la legittima difesa. Peraltro, in un primo momento i sostenitori della teoria bipartita tentano di evitare di aggiungere un ulteriore elemento sostenendo che le cause di giustificazione non siano altro che delle circostanze negative dell’elemento oggettivo: non è altro che un escamotage, ed infatti la dottrina penalistica tedesca supera la teoria bipartita. La teoria tripartita elaborata in Germania viene recepita sin dal dopoguerra dalla giurisprudenza e dottrina italiana. Vi sono però ancora delle perplessità rispetto all’antigiuridicità come elemento autonomo del reato: se il fatto è incriminato è in sé antigiuridico. Certo è che oggi la dottrina dominante accoglie la teoria della tripartizione. Sempre a cavallo fra ‘800 e ‘900, un altro grande penalista tedesco, Reinhard von Frank, elabora la c.d. concezione normativa della colpevolezza. Per colpevolezza si intende l’elemento soggettivo: nella terminologia della scuola classica, si parlava di “forza psichica”, riferendosi al dolo e alla colpa; il cambiamento di termine che opera la dottrina tedesca non è solo superficiale, ma indica un’evoluzione e una raffinazione della teoria del reato. La colpevolezza infatti non è solo dolo e colpa: la colpevolezza implica un giudizio di rimproverabilità e di imputabilità prioritario rispetto a quello di dolo o colpa. L’intuizione della dottrina tedesca è che la colpevolezza non è un elemento unitario: è infatti un concetto graduabile. Il frutto di questa evoluzione sistematica e concettuale è la teoria del reato che è assolutamente dominante anche oggi. Dunque il reato si compone: 1. un fatto umano; 2. un giudizio di contrarietà all’ordinamento, e quindi antigiuridicità, del fatto. Ci sono delle cause di giustificazione nel nostro sistema penale che escludono l’antigiuridicità del fatto. Sono le c.d. scriminanti, previste dagli artt. 50-54 c.p.; 3. la colpevolezza, intesa come rimproverabilità del soggetto perché capace di intendere e di volere, di autodeterminarsi e di capire il disvalore della sua condotta. La colpevolezza è poi graduabile. Così come per l’antigiuridicità, ci sono cause di non punibilità che riguardano la colpevolezza: sono queste le c.d. cause di esclusione della colpevolezza o scusanti (e.g. le antinomie di dovere. Un esempio di antinomie di dovere potrebbe essere il medico che durante la pandemia, a fronte di una occupazione massima della terapia intensiva, decide di salvare un 40enne piuttosto che un 80enne). Un’ulteriore variante della teoria del reato aggiunge ai tre tradizionali elementi un quarto: la punibilità. Da sempre, nel nostro ordinamento, ci sono delle cause di non punibilità in senso stretto. Parte della dottrina penalistica classica italiana risponde alla domanda sullo scopo delle cause di non punibilità affermando che esse sono scelte di politica criminale del legislatore che, per varie ragioni, ritiene non opportuno punire certe condotte tipizzate (si veda, ad esempio, art 649 c.p.). Normalmente, la punibilità non è un elemento autonomo, ma è un’esatta conseguenza del fatto-reato; eccezionalmente, il legislatore ha ritenuto di prevedere delle cause di non punibilità. Altri studiosi hanno però individuato nella punibilità un elemento autonomo, dato che nel Codice Penale sono state introdotte numerose norme che separano l’accertamento del reato dalla sua punibilità: ad esempio, l’art 131-bis c.p. che cita: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”. Ci sono quindi casi per i quali, pur essendo presenti i tre elementi del reato, si sceglie di non punirlo. Dunque, alcuni studiosi hanno trovato più coerente dal punto di vista sistematico aggiungere la punibilità come elemento autonomo. Peraltro, in Germania continua l’elaborazione dottrinale sulla teoria del reato. In particolare, una delle ultime elaborazioni, che non ha preso piede in Italia, è la c.d. teoria finalistica dell’azione. Questa teoria parte dall’assunto che le nostre condotte siano tutte finalisticamente orientate. Sostanzialmente, questa dottrina ritiene che nel fatto tipico vadano subito valutate anche il dolo e la colpa, perché non esistono atti o comportamenti neutri, ed essi vanno valutati come penalmente rilevanti anche alla luce del fine che hanno (e.g. una mano sul seno può essere sia un atto sessuale lecito, sia una molestia, sia un controllo medico). Dunque dolo e colpa vanno valutate due volte: prima, riferendosi alla tipicità (si deve fare cioè la valutazione della diligenza media o professionale); poi, riferendosi alla rimproverabilità. Lezione 11 Tradizionalmente, si diceva che il soggetto attivo del reato non può che essere la persona fisica. Negli ultimi anni, il tema è tornato di estrema novità, all’esito delle ultime riforme che hanno interessato gli stati europei, e che hanno scardinato la nozione tradizionale di soggetto attivo del reato. Tutto il diritto penale moderno nasce rivolto alla persona fisica: è altrettanto vero che rispetto ai primi momenti di postulazione ed evoluzione del diritto penale la nostra società è profondamente cambiata. È chiaro che al centro del diritto penale non può che esserci l’uomo che delinque, ma è anche palese come il progresso sociale abbia dato grande importanza alle persone giuridiche ed enti collettivi. Grandi enti societari influenzano nel bene e nel male la vita della collettività tutta. Nella trattazione penalistica classica, una delle idee fondamentali è che societas delinquere non potest. Ma questa non è altro che una finzione giuridica e dunque una scelta operata da quella scuola di pensiero, perché è chiaro che a livello criminologico e sociologico un ente può sicuramente delinquere, e di fatti lo fanno (si pensi a tutti i processi sull’inquinamento, sulla sicurezza sul posto di lavoro etc.). Ovviamente, è chiaro che la società o l’ente collettivo può delinquere solo per tramite della persona fisica, ma per scelte di politica industriale spesso reiterate per anni. Questo però genera non pochi problemi: il singolo funzionario della società o dell’ente può essere imputato e incriminato, ma la società continuerà ad esistere. È la conseguenza di aver costruito un sistema penale indirizzato unicamente alla persona fisica, e l’obiezione che si fa è che una società o un ente non possono essere puniti, non possono andare in carcere. Ma è anche vero che sarebbe superficiale pensare che il diritto penale moderno non potesse prevedere delle misure pecuniarie e interdittive con un alto grado di afflittività nei confronti dell’ente o della società come tali. E di questo ci è data conferma anche dal fatto che negli stati di common law vige il principio societas delinquere potest. Dalla costituzione dell’Unione Europea, ci si è dunque posti il problema se ci si dovesse uniformare al principio della civil law continentale (societas delinquere non potest), o a quello della common law inglese (societas delinquere potest). In questa vicenda è stata cruciale la Francia, che sotto la presidenza Mitterand rinnova il codice penale (che risaliva al 1810, in epoca napoleonica), e accoglie il principio anglosassone per cui societas delinquere potest nel nuovo codice penale. Sotto la spinta di diversi tratti internazionali (convenzione PIF, protezione interessi finanziari), anche in UE si iniziò a premere perché venisse introdotta la responsabilità penale della persona giuridica. Con il d.lgs. 231/2001 il legislatore italiano introduce nell’ordinamento penale la responsabilità dell’ente. L’art 1, co. 1 di detta legge reca: “Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato”. Prima dell’introduzione della presente norma, nell’ordinamento italiano non erano escluse forme di responsabilità della persona giuridica, ma si collocavano esclusivamente sul piano della responsabilità civile o amministrativa. Peraltro, anche nel Codice penale erano previste delle responsabilità civilistiche, come ad esempio l’art 197 c.p., la cui rubrica iuris cita: “Obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende”. La grossa obiezione fatta prima che il d.lgs. 231/2001 entrasse in vigore era che non si potesse punire una persona giuridica perché la pena è personale strettamente collegata alla sua finalità rieducativa (come richiesto dalla nostra Costituzione). È chiaro che il nostro sistema penale è costruito proprio dalle fondamenta sulla persona fisica. La soluzione di compromesso, adottata dal legislatore italiano, è stata quella di introdurre con il d.lgs. 231/2001 una responsabilità formalmente amministrativa, ma con molti aspetti e conseguenze di quella penale. Il decreto summenzionato prevede la nuova categoria della responsabilità amministrativa da reato. Questo d.lgs. è stato introdotto proprio sulla spinta propulsiva della convenzione europea PFI: infatti, l’art 325 TFUE assegna una competenza indiretta all’UE per la tutela degli interessi finanziari europei; tanto è vero che il d.lgs. 231/2001, al momento della sua introduzione, sanciva una responsabilità amministrativa alla persona giuridica solo per pochi reati, e tutti sostanzialmente contro l’UE (e.g. truffe in danno dell’UE) o la PA nazionale (perché questi ledono indirettamente gli interessi finanziari europei). Ad oggi il catalogo di reati per i quali la persona giuridica ha una responsabilità amministrativa è di molto ampliato. Da questo però si capisce che la responsabilità dell’ente esiste solo per un numero chiuso di reati tipizzati, non è generale. Nei venti anni di vigenza del decreto, sono intervenute numerosissime modifiche (la più recente è della l. n. 22/2022), che hanno allungato moltissimo il catalogo dei reati di cui la persona giuridica risponde con responsabilità amministrativa. I più importanti sono: art 24-ter. Delitti di criminalità organizzata (introdotto nel 2008); art 25-ter Reati societari (introdotto nel 2002, poi modificato nel 2015); art 25-sexies. Abusi di mercato (introdotto nel 2005); art 25-septies. Omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (introdotto nel 2007, poi modificato nel 2008); art 25-octies. Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, nonché autoriciclaggio (introdotto nel 2007) art 25-undecies. Reati ambientali (introdotto nel 2009, poi modificato nel 2011); art 25-quinquiesdecies. Reati tributari (introdotto nel 2019); art 25-septiesdecies. Delitti contro il patrimonio culturale (introdotto nel 2022). Come si vede dalle date di introduzione o modifica, l’intervento del legislatore è stato occasionale e asistematico (la nota di colore che è paradigmatica dell’intervento legislativo italiano è data dall’art 25quater-1: pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili). Per quanto riguarda i principi fondamentali stabiliti dal presente decreto, l’art 5 sancisce quando la persona giuridica incorre in responsabilità amministrativa da reato; quest’ultimo infatti cita: “L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)”. Per cui, i presupposti per i quali l’ente incorre in responsabilità amministrativa da reato sono: 1. il reato deve essere commesso o da un organo di vertice dell’ente o da uno dei dipendenti sottoposti ad esso (requisito soggettivo); 2. il reato deve essere commesso da parte di questi soggetti nell’interesse o a vantaggio dell’ente. L’art 6, d.lgs. 231/2001, sancisce però che l’ente può evitare di rispondere, principalmente, se prova che l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Lo stesso articolo sancisce anche altri presupposti che, se provati, evitano all’ente di incorrere in responsabilità amministrativa da reato [ndr: quello citato è il più importante]. I citati “modelli di organizzazione” non sono altro che regole di comportamento (si intende, scritte) che l’ente adotta e di cui ne assicura l’applicazione. Prima di parlare dell’apparato sanzionatorio del d.lgs. 231/2001, sono necessari dei cenni riguardo la sanzione e la pena in generale. Secondo l’idea tradizionale, la pena cardine del nostro sistema è la pena detentiva; da tempo però nel dibattito dottrinale si alzano voci per indicare come la pena detentiva, per quanto centrale, sia un fallimento del sistema e che, accanto a questa, dovrebbe essere dato più spazio alle pene pecuniarie. Il problema delle pene pecuniarie è però, da un lato, la loro reale afflittività (o meglio, mancanza di essa) rispetto alla pena detentiva; dall’altro, che la pena detentiva fissa può essere terribilmente iniqua. Il d.lgs. 231/2001 risolve in parte questi problemi, escogitando una pena pecuniaria non più fissa, ma per quote: queste sono variabili, e tengono in conto la capacità dell’ente di incidere sulla società tutta. Per risolvere anche il problema dell’afflittività, il decreto dà ampio spazio alle sanzioni interdittive. In conclusione, la responsabilità amministrativa per reato della persona giuridica è una responsabilità penale? Seguendo i parametri Engel della CEDU, dovremmo rispondere di sì. Un diverso tema è però quello della responsabilità collegiale, ovverosia la responsabilità per reato degli organi collegiali dell’ente. Infatti, quando si tratta di imputare l’ente di un determinato reato, non è sempre facile capire (soprattutto in società molto strutturate) chi ha le competenze di gestione per quel determinato ambito entro il quale è stato commesso il reato. Peraltro, nelle società ci sono anche organi di controllo, che potrebbero essere partecipi della responsabilità per omissione di controllo. Un ulteriore distinzione operata dal Codice Penale sul soggetto attivo è tra reati comuni, cioè quelli che possono essere commessi da chiunque (come ad esempio l’omicidio), e reati propri, che possono essere commessi solo da determinati soggetti o determinate categorie di soggetti (come ad esempio l’infanticidio, che può essere commesso solo dalla madre in condizione di abbandono morale e materiale connesso al parto; o come il peculato, che può essere commesso da un pubblico ufficiale). Lezione 12 Il fatto tipico è composto da tre grandi sottocategorie: condotta, nesso di causalità ed evento. Non necessariamente tutti i reati sono reati di condotta ed evento, perché esistono dei reati che sono di mera condotta, come ad esempio tutti i reati omissivi propri. Peraltro, anche dalla struttura delle norme si può intuire se il reato è composto di condotta ed evento ovvero se sia di mera condotta: nel primo caso, si veda l’art 582 c.p. “Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale (condotta), dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente (evento) […]”; nel secondo, l’art 595 c.p. “Chiunque […] comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione (condotta), è punito […]”. Il nesso di causalità è invece quel nesso eziologico che collega determinati eventi a determinate condotte. Una condotta può essere un’azione ovvero un’omissione. Il diritto penale moderno ha poco più di due secoli; ciononostante, la struttura dei delitti tradizionali è molto antica, volendo si potrebbe far risalire addirittura al Codice di Hammurabi: queste sono le tipiche fattispecie naturalistiche dell’omicidio o del furto, che rinviano a concetti naturali comuni e che sono pressoché costanti. Oggi si affiancano a questo tipo di fattispecie di condotta quelle che rinviano a concetti normativi, come l’abuso di informazioni privilegiate (insider trading) presente nel TUF. Ci sono poi, all’interno della fattispecie di condotta, elementi soggettivi ed elementi oggettivi: in alcuni casi, il legislatore, già in seno al fatto tipico indica una valenza soggettiva (il classico esempio era, prima della sua abrogazione, l’art 581 c.p. “Atti di libidine”: già con il termine libidine si faceva riferimento ad un fatto soggettivo). La fattispecie di condotta può poi avere una struttura differente sul piano temporale. Ad esempio, l’art 660 c.p. cita: “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito […]”. Il legislatore infatti struttura alcune fattispecie con condotte reiterate nel tempo. Per tornare all’esempio, se alle molestie si aggiunge un turbamento nella vita della vittima determinato da queste, si può configurare il reato di stalking: nel caso delle molestie, è un reato di mera condotta; nel caso dello stalking, è un reato di condotta ed evento, ma in tutti e due i casi detta condotta deve essere reiterata. Si distinguono così i reati istantanei da quelli di durata. Un ulteriore elemento particolarmente importante della condotta è la c.d. suitas, cioè il coefficiente di riferibilità psicologica, e serve a distinguere condotte che sono dominabili dal soggetto da condotte che non lo sono (e.g. una vespa punge Tizio mentre sta in macchina e Tizio sterza bruscamente: la reazione alla puntura non è però psicologicamente riferibile a Tizio perché non è dominabile, perciò manca di suitas). Il fatto tipico è la pietra angolare su cui si regge il reato, nel sistema del diritto penale moderno. Il nostro è un sistema basato sulla commissione di un fatto: si può incriminare solo sulla base di un fatto (è infatti importante ricordarsi che in Germania c’è stata una tale involuzione del diritto penale per la quale non era più prioritariamente rilevante il fatto commesso. E nemmeno si può dire che non c’è il pericolo di un ritorno di fiamma di queste teorie, si pensi ad esempio al terrorismo, che è una minaccia ma non può essere incriminato fino a quando non si concretizza). Il legislatore codicistico ha avuto accortezza a non incriminare i c.d. reati di sospetto, anche se alcuni ne erano originariamente presenti come ad esempio l’art 708 c.p., che cita: “Chiunque, trovandosi nelle condizioni personali indicate nell'articolo precedente (sostanzialmente, i condannati per reati contro il patrimonio), è colto in possesso di denaro o di oggetti di valore, o di altre cose non confacenti al suo stato, e dei quali non giustifichi la provenienza, è punito […]”. Questa norma, giudicata incostituzionale dalla Corte, non puniva un fatto, ma puniva il sospetto di un fatto. Il problema che norme come questa pongono è che scardinano completamente il sistema costruito sul fatto-reato, perché una volta che si permette di incriminare un soggetto per un sospetto di furto (ma non un fatto), lo si potrebbe ben fare anche per un sospetto di reati contro l’ordine pubblico. Con i reati di sospetto viene meno il principio di materialità, nullum crimen sine actione. Ancora, sempre a rimarcare la centralità del fatto nel nostro sistema penale, non esistono i c.d. reati di opinione: un individuo può essere facinoroso e riottoso contro il Presidente della Repubblica nella sua sfera personale, e ciò non è penalmente rilevante. Lo diventa se e solo se questa opinione si estrinseca in una condotta offensiva, nel qual caso potrà essere incriminato per offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica (art 278 c.p.). L’art 42 c.p. è l’articolo dedicato ai criteri di imputazione psicologica del reato; la rubrica iuris infatti reca: “Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva”. Questo articolo ha creato spesso confusione, soprattutto in combinato con l’art 43 c.p.: il co. 1 dell’art 42 recita infatti: “Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà”; con coscienza è volontà, il legislatore sembra riferirsi al dolo (che in realtà è appunto specificato all’art 43 c.p.). Il legislatore si sta però riferendo al requisito minimo di riferibilità psicologica del fatto, cioè la c.d. suitas testé esposta. Il Codice Penale peraltro tipizza dei casi in cui viene meno la suitas della condotta: art 45 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore”; art 46 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi”. Questa però non è un’elencazione tassativa: in tutti i casi in cui manca la suitas non ci sarà punibilità (e.g. un epilettico in preda ad una crisi non sarà punibile per eventuali reati commessi). La suitas non va confusa con l’imputabilità, che si riferisce alla capacità di intendere e di volere. Il legislatore può seguire diverse tecniche per incriminare una condotta. Può scegliere di incriminare una mera condotta ovvero incriminare una condotta-evento, in connessione alla potenziale lesione del bene giuridico sottostante: infatti, in determinati casi, dove il bene giuridico tutelato è particolarmente rilevante, è sufficiente anticipare la tutela al disvalore di condotta (ad esempio, l’omicidio è un reato di condottaevento, il cui bene giuridico tutelato è la vita; la strage è un reato di mera condotta, dato che il bene tutelato è l’incolumità pubblica. Infatti, l’art 422 c.p. cita: “Chiunque, […] al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità è punito, se dal fatto deriva la morte di più persone, con l'ergastolo”, dunque senza che difatti sia morto qualcuno). Sul piano della struttura della fattispecie, si possono distinguere elementi o concetti naturalistici da elementi o concetti normativi. Le fattispecie costruite con elementi normativi sono quelle i cui concetti traggono la loro definizione o il loro significato da altre leggi dell’ordinamento (ad es. i reati tributari; ovvero l’art 529 c.p., che dà una definizione di atti e oggetti osceni agli effetti della legge penale: in natura non esiste un “atto osceno”). Oramai, persino il reato naturalistico per eccellenza, l’omicidio art 575 c.p., ha nella fattispecie concetti normativi. In particolare, quando la norma dice: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito […]”, con “morte” si intende la morte cerebrale, che è stabilita per legge (art 1, l. n. 578/1993). Ancora, in determinati casi il legislatore può corredare la fattispecie di elementi finalistici o soggettivi, cioè costruire fattispecie la cui rilevanza penale origina dal fine della condotta: sono tutte le ipotesi dei c.d. reati a dolo specifico. Un esempio che racchiude sia la distinzione tra elementi naturalistici e normativi, sia la presenza di elementi finalistici è la fattispecie dell’art 624 c.p., che cita: “Chiunque s'impossessa della cosa mobile altrui (elemento normativo), sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri (elemento finalistico), è punito […]”. Lezione 13 La prescrizione è una causa estintiva del reato che si basa sul decorso del tempo. È prevista in quasi tutti gli ordinamenti occidentali, o direttamente o come istituti equivalenti. Storicamente, nell’ordinamento italiano, fino alla c.d. Prima Repubblica, ogni 15-20 veniva concessa un’amnistia che estingueva tutti i reati ormai risalenti nel tempo e non particolarmente gravi. Dalla fine della Prima Repubblica non vengono più concesse amnistie, comportando ciò in un aumento del carico giudiziario. Per questo negli ultimi anni la prescrizione penale è diventata argomento centrale del dibattito dottrinale e politico: è infatti usata come una sorta di amnistia occulta, dato che le Procure lasciano prescrivere molti reati, circa il 40% dei procedimenti. Dunque, vista l’enorme importanza del tema, da un lato il legislatore ultimamente è più volte intervenuto sulla prescrizione; dall’altro, al vaglio giudiziario, si è posto il problema di quando può considerarsi prescritto un reato. Tutto ciò ha fatto tornare molto attuale anche la discussione sui c.d. reati di durata. Ci sono moltissime fattispecie nel nostro ordinamento di c.d. reati istantanei, cioè che si realizzano con un unico atto (e.g. omicidio, lesioni, etc.); cosa diversa è quando il legislatore prevede che perché ci sia un reato siano necessarie una pluralità di condotte. Nel nostro Codice Penale ci sono diversi reati a condotte plurime, che si protraggono nel tempo. Queste categorie sono importanti per diversi aspetti: innanzitutto per la prescrizione, visto che la prescrizione inizierà a decorrere dall’ultimo degli atti del reato di durata (ad esempio, nel reato di maltrattamenti, la prescrizione inizierà a decorrere dall’ultimo episodio di maltrattamenti). Le diverse categorie di reati di durata sono state individuate in sede dottrinale e giurisprudenziale, dunque non sono così definite dal Codice stesso. In ogni caso, le categorie sono le seguenti: c.d. reato abituale o a condotta plurima o reiterata, in cui il legislatore richiede, per la consumazione dello stesso, che siano presenti una pluralità di condotte reiterate. Nella costruzione della fattispecie, si presenta come elemento costitutivo la ripetizione intervallata nel tempo di condotte omogenee ovvero dirette verso lo stesso bene giuridico, per quanto di diversa forma. In questo tipo di reato, il legislatore ritiene di assorbire in un’unica fattispecie condotte che di per sé potrebbero essere rilevanti o irrilevanti penalmente. Esempi di reati abituali sono l’art 612-bis c.p. (atti persecutori, id est stalking); l’art 572 c.p. (maltrattamenti); l’art 660 c.p. (molestia); c.d. reato eventualmente abituale, di conio giurisprudenziale. L’esempio paradigmatico è lo sfruttamento della prostituzione (previsto dalla legge Merlin: art 3, l. n. 75/1958): per quanto già solo la scelta del legislatore indichi come questo reato sia connotato da una pluralità di comportamenti, la giurisprudenza ha creato la categoria del reato eventualmente abituale, ritenendo che anche il lenone [ndr: il pappone] che ha sfruttato solo una volta la prostituta commette il reato di sfruttamento della prostituzione (anche se normalmente il reato dovrebbe essere integrato da condotte plurime); c.d. reato permanente (da non confondere con il reato istantaneo ad effetti permanenti), in cui la condotta illecita è istantanea, e consiste solo nell’inizio: ciò che perdura nel tempo è la lesione del bene giuridico. In dottrina si era anche sostenuto che il reato permanente constasse di due condotte: una attiva, che dà inizio all’illecito; ed una omissiva. Questa teoria è stata considerata però una finzione giuridica tendenzialmente inutile. Esempio di reato permanente è l’art 605 c.p. (sequestro di persona); anche i reati associativi sono reati permanenti; c.d. reati a consumazione prolungata, in cui le condotte sono diverse e plurime, ma sono caratterizzate dal legislatore in una visione d’insieme e unitaria. Esempio di reato a consumazione prolungata l’art 648-bis c.p. (riciclaggio). Un altro tema importante relativo al fatto tipico è la costruzione delle fattispecie in conformità al principio di offensività. Una delle caratteristiche del diritto penale liberale è quella di conformarsi al principio della c.d. necessaria offensività delle fattispecie: con ciò si intende che le fattispecie incriminate dal legislatore, per essere tali, devono essere necessariamente lesive di beni giuridici. Oggi si ritiene che la costruzione della fattispecie, già nella descrizione del fatto tipico, debba uniformarsi al principio di necessaria offensività. Si prenda ad esempio l’art 241 c.p., che cita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l'indipendenza o l'unità dello Stato, è punito […]”: il legislatore è intervenuto su questo articolo nel 2006 per aggiungere la parte “atti violenti diretti e idonei”, proprio per specificare che solo una tale condotto è aderente al principio di necessaria offensività (un gruppo sparuto di persone che si dichiarano una repubblica indipendente e fanno parate in giro per una determinata città non integrano il reato). Un ulteriore distinzione è quella tra reati di pericolo e reati di danno (reato di pericolo per antonomasia è l’art 56 c.p., “Delitto tentato”; reato di danno per antonomasia è l’art 575 c.p., l’omicidio). Nell’ambito delle fattispecie di pericolo, il legislatore anticipa la tutela penale. All’interno delle fattispecie di pericolo si pone una biforcazione: 1. c.d. reati a pericolo concreto; 2. c.d. reati a pericolo astratto. Lezione 14 [ndr: manca un’intera lezione, purtroppo, sul reato omissivo] Il nesso di causalità, cioè il legame che unisce una condotta illecita ad un determinato evento, è un requisito indefettibile e necessario per la costruzione di un fatto tipico penalmente rilevante. A volte, come potrebbe essere per l’omicidio, è molto facile rilevare questo nesso causale. Altre volte non è altrettanto semplice: molta della storia recente è segnata dalla ricerca di una regola dell’imputazione causale. Il Codice Penale, agli artt 40 e 41, detta una disciplina della causalità. L’art 40, co. 1, c.p. richiede espressamente un legame causale tra la condotta attiva o omissiva e l’evento perché sussista un reato. Il co. 2 dello stesso articolo viene sancita l’equiparazione tra la causalità attiva e la causalità omissiva per la quale non impedire un evento, di cui si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. La causalità omissiva ha però dei criteri di accertamento diversi rispetto alla causalità attiva: è infatti un giudizio ipotetico, dato che si deve ricostruire ex post se la condotta omessa avrebbe potuto impedire l’evento se non fosse stata omessa. All’art 41 c.p. viene disciplinato il concorso di causa. Ogni evoluzione di ogni teoria dottrinale fa riferimento alla stessa teoria primigenia, da cui tutte si sono mosse, cioè la c.d. teoria della conditio sine qua non o dell’equivalenza causale: questa viene a delimitare per prima qual è il rapporto causale. La teoria viene attribuita storicamente a von Buri. Essa propone al giudice che deve valutare se la condotta ha prodotto l’evento una regola: il giudice deve operare un giudizio controfattuale, intendendosi con quest’ultimo un giudizio con cui il giudice, eliminando dalla ricostruzione storica la condotta che si presume illecita, valuta se l’evento si sarebbe prodotto ugualmente. Insomma, si deve valutare se la condotta sia la conditio sine qua non dell’evento. Questa è la teoria che, peraltro, ha fortemente influenzato l’elaborazione delle regole di imputazione causale del Codice Rocco (artt 40 e 41 c.p.). La teoria però presenta due problemi: 1. seguendo stricto iure la teoria della conditio sine qua non si potrebbe arrivare a dei risultati poco convincenti. In particolare, la teoria, se portata alle sue estreme conseguenze porterebbe a considerare causali anche i remoti antecedenti dell’evento con una regressio ad infinitum; 2. la teoria dell’equivalenza causale funziona male anche nel caso in cui ci sia un concorso di cause. Tutte le teorie che si sono succedute dopo questa sono dei correttivi o delle nuove prospettive per l’accertamento della conditio sine qua non. In un primo momento, si cerca di salvare la teoria della conditio sine qua non dalla regressio ad infinitum spostando l’attenzione sull’elemento psicologico del reato: per i reati puniti a titolo di dolo o di colpa, si ammetteva l’esistenza di un nesso causale, ma senza dolo o colpa veniva ignorato. Questo però è un errore logico, ponendosi sullo stesso livello due accertamenti diversissimi tra loro e tra loro in una relazione di priorità: l’accertamento della causalità è a monte di quello di colpevolezza (se non c’è un nesso causale non può esserci colpevolezza). Viene dunque proposta una seconda teoria, che avrà molta fortuna: la teoria della c.d. causalità adeguata. Essa statuisce che il giudice deve valutare secondo l’id quod plerumque accidit [trad.: ciò che accade di solito] se quella determinata condotta è stata causa dell’evento, venendo a togliere quelli che sono i nessi causali eccezionali dal giudizio di responsabilità. Questo è dunque un correttivo di buon senso. Anche questa teoria ha però le sue criticità: mancando di una reale e solida rigorosità, è efficace in casi semplici, ma diventa sostanzialmente un lavoro di motivazione del giudice in casi più complessi. Nel secondo dopoguerra emerge una nuova teoria che vede la sua elaborazione in Italia da parte di un grande penalista, Federico Stella. Si parte da una premessa metodologica: l’errore fino a quel momento perpetrato dalle altre teorie è stato quello di impostare il problema in termini di causalità giuridica, visto che la causalità è, in realtà, un problema scientifico. Prima di affrontare le tematiche giuridiche, il giudice penale deve individuare, recependola dalle evidenze scientifiche, la legge di copertura scientifica del fenomeno, id est la legge che spiega sul piano fenomenico il decorso causale (la legge di copertura scientifica è stata usata per la prima volta dalla Cassazione, ormai 40 anni fa, sul processo della diga di Stava). La legge di copertura deve essere assolutamente sicura, riproducendo un rapporto causa-effetto scientificamente certo; altrimenti, c’è la legge statistica, per cui, seppure il rapporto di causalità non è sicuro al 100%, le probabilità sono vicine alla certezza. Dire che il giudice deve semplicemente recepire le leggi scientifiche non significa di certo dire che egli si debba comportare come un automa: se, in un primo momento, il giudice deve valutare la sussistenza di un nesso di causalità solo sulla base delle evidenze scientifiche, in un secondo momento è lui e solo lui che può e deve formulare la regola processuale. Un problema posto da questa teoria è che non sempre c’è una prova di causalità scientifica. Lezione 15 La disciplina della causalità e normativamente accolta nel nostro Codice Penale agli artt 40 e 41 c.p.: l’art 40 c.p. statuisce un principio generale dell’ordinamento penale per il quale non può esserci un reato se non c’è un nesso di causalità tra la condotta e l’evento. All’art 41 c.p. viene invece disciplinato il concorso di cause. Per quanto riguarda la causalità omissiva, essa viene disciplinata dall’art 40, co. 2, c.p., che sancisce l’equiparazione tra la causalità attiva e la causalità omissiva: non impedire un evento, di cui si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. L’accertamento di un nesso causale omissivo richiede un giudizio ipotetico: e questo è facile nei casi semplici, ma quando una condotta ha un esito che è anche ipoteticamente incerto, non è così immediato stabilire un nesso di causalità tra l’evento e l’omissione di detta condotta. La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione (a cui sono devoluti i casi di responsabilità colposa), usava un criterio percentualistico nei casi dubbi (ad es. un bambino con la peritonite muore alle 5 del mattino; i genitori, la sera prima, avevano chiamato due volte, alle 5 e alle 10, il medico di base, il quale aveva sottovalutato i sintomi del bambino. Davanti al giudice, i periti medici affermano che, se il medico avesse agito come avrebbe dovuto alle 5, non era sicuro che il bambino si salvasse, ma ne aveva un apprezzabile grado di probabilità, del 40%. Il giudice condanna il medico di base). Rivoluzionaria è la sentenza Franzese (sent. n. 30328/2002) delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: superando sia il criterio della certezza (che funziona in un giudizio di causalità attiva, ma non in quello ipotetico della omissiva), sia il criterio percentualistico, la Corte afferma che bisogna valutare non il fenomeno generale, ma il fenomeno concreto con un giudizio di verosimiglianza logica, volta a dimostrare che, se si fosse verificata la condotta prescritta ed omessa, l’evento non sarebbe accaduto (sostanzialmente, si deve escludere ogni causa alternativa dell’evento, avendo riguardo al fatto concreto e non alla generalità). Nella stragrande maggioranza di vicende processuali penali complesse si è in presenza di concause. Il concorso di cause è regolato dall’art 41 c.p., che, al co. 1, cita: “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento”. Dunque il colpevole risponde lo stesso del reato commesso, anche qualora ci sia un concorso di cause; a meno che il colpevole non riesca a provare che le cause sopravvenute siano da sole sufficienti a determinare l’evento (art 41, co. 2, c.p.). Perché dunque la concausa escluda il nesso di causalità della condotta illecita, deve essere idonea a creare un nesso di causalità autonomo. L’evento è ciò che accade a seguito della condotta illecita dell’individuo, e collegato ad esso da un nesso eziologico, e si sostanzia in una modifica della realtà naturale. In passato, si discuteva, riflettendo sui reati di mera condotta e sui reati di evento, e dalla lettura della norma sull’elemento psicologico del reato (art 43 c.p.), in particolare sulla parte della norma dedicata ai delitti dolosi. Sembrava infatti che tutti i reati dolosi avessero un evento: “Il delitto: è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”. Ma non è altro che un problema di errata interpretazione della norma: con la stessa espressione, si indicano due significati di evento profondamente diversi tra loro. L’evento a cui l’art 43 c.p. fa riferimento non è l’evento naturalistico risultato di una condotta illecita, ma è l’evento in senso giuridico, cioè la lesione del bene giuridico nella forma del danno o del pericolo. Dunque, ad esempio, nell’omicidio, l’evento in senso naturalistico è la morte, mentre l’evento in senso giuridico è la lesione del bene giuridico della vita. Il problema semmai oggi è il ruolo del disvalore di condotta e del disvalore di evento: per alcuni reati, soprattutto colposi, si assiste ad una completa prevaricazione del disvalore di evento rispetto al disvalore di condotta. Un esempio può essere paradigmatico: Jacopo e Gabriele sono ad una festa e bevono fino ad ubriacarsi; entrambi prendono la macchina a fine serata per tornare a casa. Jacopo torna a casa senza nessun problema, mentre Gabriele investe un uomo in bicicletta; Gabriele verrà processato e condannato a 5 anni di reclusione. In tutti e due casi, il disvalore di condotta è lo stesso: il guidare in stato di ebrezza. Il quid pluris che determina il diverso trattamento sanzionatorio è il disvalore di evento. In questo caso il disvalore di condotta è stato considerato marginale rispetto all’evento lesivo: ma l’evento è quasi completamente casuale e la differenza di trattamento sanzionatorio, per lo stesso disvalore di condotta, è abissale (da 0 a 5 anni di reclusione). In dottrina si discute ancora molto su questo tema. Lezione 16, 17 e 18 L’antigiuridicità (Rechtswidrigkeit) è il secondo elemento del reato. L’antigiuridicità è una valutazione, fatta dall’ordinamento sul piano oggettivo, circa la corrispondenza di quel comportamento alle norme dell’ordinamento. Dire che perché ci sia un reato ci deve essere l’antigiuridicità significa dire che la condotta criminale deve essere contra ius. Se il comportamento è secundum ius, ossia è presente una causa di giustificazione o scriminante, non ci sarà reato e il comportamento è lecito. L’antigiuridicità è formale, cioè deve essere espressamente prevista da una norma di legge, non necessariamente di diritto penale. Non si possono creare ipotesi di antigiuridicità materiale, facendo riferimento a generali valori dell’ordinamento. Che un determinato comportamento sia giuridico od antigiuridico dipende dall’esistenza di una causa di giustificazione. Ci si potrebbe chiedere però se esistano delle cause di giustificazione non codificate, atipiche: da sempre ci sono stati dei comportamenti che difficilmente vengono ricondotti ad una causa di giustificazione, date delle loro caratteristiche peculiari. Uno di questi comportamenti è lo sport: ci sono sport non violenti, eventualmente violenti e necessariamente violenti. Si prenda il caso della boxe, necessariamente violenta: se durante un incontro una persona muore, si può far rientrare il comportamento in una delle cause di giustificazione? La giurisprudenza cerca di non incriminare la condotta, almeno quando ci sia stato il rispetto delle regole di gioco e di quelle cautelari, facendola rientrare nell’ambito dell’art 50 o dell’art 51 c.p.; ma non è una giustificazione convincente, proprio perché la condotta è difficilmente inquadrabile in una causa di giustificazione. Le cause di giustificazione hanno tutte un fondamento comune: il bilanciamento degli interessi. La c.d. antigiuridicità specifica o speciale è quando il legislatore, già nella struttura della fattispecie del reato, si è preoccupato di aggiungere una circostanza giustificatrice per la quale l’eventuale condotta non sarà penalmente illecita. Esempio è l’art 622 c.p.: “Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento […]”. La giusta causa è l’eventuale scriminante della condotta illecita. Nel Codice Penale, agli artt 50 ss. c.p., sono previste le cause di non punibilità (in tutte le cause di giustificazione il legislatore usa un termine atecnico nell’incipit della norma che è “non è punibile”; questo è perché nel 1930, la dottrina penalistica italiana non aveva ancora convintamente aderito alla teoria tripartita del reato. Adesso la dottrina utilizza i termini “è giustificato” o “è scriminato”, al posto di quello sopra citato”. La terminologia penalistica corretta prevede che le cause di non punibilità vengano piuttosto chiamate cause di giustificazione o scriminanti). Le scriminanti sono le seguenti: art 50 c.p., rubricato “Consenso dell’avente diritto”, che cita: “Non è punibile [rectius: è giustificato] chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”. Innanzitutto, è necessaria una premessa metodologica: non sempre il consenso/dissenso opera sul piano dell’antigiuridicità. Esistono delle fattispecie che già sul piano della tipicità danno rilevanza al consenso, come ad esempio l’art 614 c.p. (violazione di domicilio). Per seguire l’esempio, se Tizio invita in casa sua Caio, Caio non è che commette violazione di domicilio scriminata dal consenso dell’avente diritto: non commette una violazione di domicilio tout court, perché la stessa fattispecie ontologicamente e prioritariamente prevede il dissenso come elemento costitutivo del reato. In tutte le fattispecie che non hanno come elemento costitutivo il consenso, la causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto può operare: si pensi a tutti i casi di trattamenti sanitari (operazioni, donazioni del sangue, etc.), che potrebbero astrattamente rientrare nella fattispecie di lesioni, e invece non sono punibili proprio perché sono fatte con il consenso dell’avente diritto. Il problema risiede piuttosto nella disponibilità del diritto: esistono, nel nostro ordinamento, dei beni indisponibili, primo fra tutti la vita umana (ciò si ricava anche dall’art 579 c.p.) e la dignità di questa; altri beni indisponibili sono i beni pubblici, come la personalità dello Stato, la PA, etc. Altri beni invece sono intrinsecamente disponibili, come tutti i beni patrimoniali. Ci sono però situazioni problematiche, come ad esempio l’integrità fisica. In questo caso, c’è una norma fondamentale, l’art 5 c.c., che stabilisce che gli atti di disposizione sul proprio corpo possono essere compiuti a condizione che non portino a delle menomazioni permanenti dell’integrità fisica. Altre leggi che consentono atti di disposizione che portano invece a menomazioni permanenti sono quella sul cambio di sesso (l. n. 164/1982) e quella sul trapianto di rene (l. n. 458/1967). Anche per quanto le limitazioni della libertà personale ci sono dei problemi: esse sono ammissibili, e quindi la libertà personale è disponibile, purché siano temporanee e non contra bonus mores. Come caso paradigmatico c’è il c.d. caso Muccioli, fondatore di San Patrignano: per impedire che i tossicodipendenti in crisi di astinenza scappassero dalla comunità, venivano legati e chiusi in una stanza. La giurisprudenza ritenne che la condotta di Muccioli fosse legittima perché scriminata dal consenso dell’avente diritto e dallo stato di necessità. Chi può operare il consenso è il titolare del bene, soprattutto sui beni personalissimi. Anzi, proprio riguardo ai beni personalissimi come l’integrità fisica si pongono dei problemi di operatività: per dare il proprio consenso è necessaria la capacità d’agire? La tesi più ragionevole è quella di fare riferimento al tipo di reato che si deve scriminare. Il consenso dell’avente diritto è sempre però revocabile. art 51 c.p., rubricato “esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”, che è una causa di giustificazione molto importante, perché costituisce la conferma sul piano del diritto positivo del generale principio di unitarietà dell’ordinamento e dell’unitarietà del concetto di antigiuridicità. La norma cita: “L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità [co. 1]. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine [co. 2]. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo [co. 3]. Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine [co. 4]”. Attraverso questa norma, in particolare del co. 1, entra nell’ordinamento penale tutta la liceità degli altri rami dell’ordinamento. L’esercizio di un diritto rende scriminato sul piano penale il comportamento del soggetto che si avvalso del diritto stesso. Tramite questa norma si operano i più complessi bilanciamenti di interessi dell’ordinamento penale, come potrebbero essere quello tra diritto di critica e di satira, costituzionalmente tutelato, e la diffamazione dell’individuo. Peraltro, la stessa scriminante dell’esercizio del diritto opera tramite il bilanciamento di interessi: si prenda ad esempio il diritto costituzionalmente tutelato della libertà di parola e manifestazione del pensiero. Il primo requisito perché l’esercizio di esso, quandanche fosse diffamante, sia lecito ai sensi dell’art 51 c.p., è che sia il resoconto della verità dei fatti; il secondo è che ci sia un interesse sociale; il terzo è la continenza. Sempre al co. 1 c’è anche la seconda scriminante della norma: l’adempimento di un dovere. Il dovere può essere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo. Il soldato a cui viene ordinato di sparare, e che spara ed uccide, adempiendo al dovere e non esercitando il suo legittimo diritto di obiezione di coscienza, non potrebbe essere punito per omicidio. Il co. 2 specifica che se un reato è commesso da qualcuno per ordine dell’Autorità, sarà il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine a rispondere del reato. Per quanto riguarda chi esegue l’ordine, intervengono sulla questione i co. 3 e 4: chi ha eseguito l’ordine risponde del reato, a meno che, per un errore di fatto, non abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Quando invece il reato è stato commesso sotto un ordine illegittimo, ma la legge non consente alcun sindacato di legittimità sostanziale dell’ordine (il sindacato sulla legittimità formale c’è sempre), chi ha eseguito l’ordine non ne risponde penalmente. Nel caso dei militari, anche quando la legge non consenta un sindacato di legittimità sostanziale sull’ordine, la giurisprudenza ritiene, sin dal dopoguerra, che siano colpevoli del reato se l’ordine è manifestamente criminoso ed è stato ugualmente eseguito. Nell’evoluzione giurisprudenziale, si ritiene oggi che già l’ordine che comanda un reato sia manifestamente criminoso (si veda il caso della Caserma Diaz o di Aldrovandi); art 52 c.p., rubricato “difesa legittima”, che è la più tradizionale, avendo radici addirittura nel diritto romano (vim vi repellere licet), e controversa causa di giustificazione. L’articolo è stato recentemente modificato due volte: la prima, dalla l. n. 59/2006; la seconda, dalla l. n. 36/2019. Questi due interventi sono frutto di un certo populismo penale del legislatore: il co. 1, rimasto intatto dall’emanazione nel ’30 del Codice Rocco, è limpidissimo nel definire e regolare la legittima difesa come causa di giustificazione. Gli altri commi sono stati aggiunti per dare una risposta politica a una pressione popolare sui casi discussi di violazione di domicilio (art 614 c.p.), ove la vittima ha usato armi da fuoco per difendere la sua proprietà e la sua incolumità fisica. Il diritto di legittima difesa ha infatti specifici limiti (e non è detto che un soggetto che spara a un altro perché lo sta rapinando vi rientri). Nell’istituto della legittima difesa si devono distinguere: 1. la legittima difesa tout court, prevista e disciplinata dal co. 1, che cita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. La norma chiarisce quali sono i requisiti della legittima difesa: a. la costrizione. Non ci deve essere alternativa al compimento del fatto-reato. Ciò si può anche misurare in base al principio del commodus discessus [trad: facile via d’uscita]: se la situazione lo permette, bisogna evitare di commettere il fatto-reato in legittima difesa e rimuoversi dalla situazione di pericolo; b. la necessità di difendere un diritto proprio o altrui. La legittima difesa copre ogni diritto, dai personalissimi ai patrimoniali; c. il pericolo attuale. Il pericolo non può essere né futuro, né passato. Le situazioni più problematiche e i casi più complessi si pongono proprio sul pericolo cessato: non può operare la scriminante della legittima difesa una volta che l’offesa ingiusta è stata consumata; d. un’offesa ingiusta (contra ius). L’offesa ingiusta è il comportamento oggettivamente illecito di un essere umano (l’offesa di un’animale non può essere mai ingiusta: l’eventuale fattoreato commesso per difendersi sarà scriminato per stato di necessità. L’offesa di un animale può essere ingiusta solo se è strumento di un essere umano). L’offesa deve essere ingiusta sul piano oggettivo; e. la proporzionalità della difesa rispetto all’offesa. Il concetto di proporzionalità non deve essere inteso come stretta proporzionalità fra beni giuridici; la proporzionalità va valutata in base sia alla tipologia di bene giuridico aggredito, sia in base alla modalità di aggressione; 2. la legittima difesa domiciliare, prevista e disciplinata dai co. 2, 3 e 4. L’espressione “domiciliare” è riduttiva: il co. 2 fa riferimento all’art 614 c.p., cioè la violazione di domicilio, capendosi dunque che i luoghi di domicilio sono l’abitazione, ogni altro luogo di domicilio, e le dipendenze di essi. Sostanzialmente, sono i luoghi ove si svolge la vita privata. Al co. 3, il legislatore, agli effetti del presente articolo, ha allargato la definizione di domicilio ai luoghi dove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Le susseguenti riforme del 2006 e del 2019, sovrapponendosi, hanno reso difficile agli interpreti quale fosse l’effettiva portata innovativa della norma. L’avverbio “sempre” è stato introdotto con la novella del 2019. Dunque, la norma istituisce una presunzione iuris et de iure di sussistenza del rapporto di proporzione, purché siano presenti i seguenti presupposti: a. quando taluno è legittimamente presente nel suo domicilio o, ai sensi del co. 3, qualunque altro luogo dove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale; b. quando questi eserciti la legittima difesa usando un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo (il legislatore ha voluto inserire “arma legittimamente detenuta”, ma è un pleonasmo, fatto al fine di dare un crisma di legalità in più alla norma); c. un’aggressione alla propria o altrui incolumità (ma questo rientrerebbe già nell’alveo del co. 1) ovvero; d. un’aggressione ai beni propri o altrui, ma solo quando non vi sia desistenza e vi è pericolo di aggressione. La norma lascia non pochi problemi di interpretazione: è chiaro che si rientrerebbe nella sfera di protezione del co. 1 quando un soggetto si intrude in un domicilio armato e minaccia di sparare. Ma se il legislatore introduce una presunzione di legge col solo reale requisito di invadere un domicilio o un’attività, si capisce che i casi dubbi di probabile eccesso di legittima difesa divengono difficili da inquadrare nella norma. Ciò e vieppiù complicato dall’introduzione nel 2019 del co. 4: in questo caso si stabilisce una presunzione assoluta non solo sulla proporzionalità, ma su tutti i requisiti della legittima difesa. Dunque c’è sempre legittima difesa quando taluno compia un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uno di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone. Non è facile dare una lettura costituzionalmente orientata a questa norma: o si dà un’interpretazione riduttiva, sostanzialmente facendo rientrare tutti i casi dei co. 2, 3 e 4 nella legittima difesa del co. 1 (rendendo gli altri commi una superpretazione, un’elencazione esemplificativa di casi che rientrano nell’art 52, co. 1, c.p.); ovvero si dichiara incostituzionale la norma, perché se applicata letteralmente sarebbe palesemente sproporzionata. Altra norma importantissima in tema di legittima difesa (ma che riguarda anche gli altri casi di scriminanti, tranne l’art 50 c.p.) è l’art 55 c.p., che cita, al co. 1: “Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. Prima di analizzare l’eccesso colposo, si deve distinguere questo dalla legittima difesa putativa: il caso più famoso ed esemplificativo è il c.d. caso Re Cecconi. Re Cecconi era un famoso calciatore della Lazio, che entrato in una gioielleria fece per scherzo il gesto di avere una pistola nel soprabito e venne fatalmente sparato dal gioielliere. Il gioielliere fu assolto per “legittima difesa putativa”: non c’è infatti nessun presupposto della legittima difesa, ma il soggetto credeva (il gioielliere) erroneamente che questi fossero presenti. La disciplina, per questi casi, è data dall’art 59 c.p. (circostanze non conosciute o erroneamente supposte), ed è sostanzialmente un errore sulle cause di giustificazione, che può portare alla non punibilità per assenza del dolo o eventualmente a una punibilità colposa. Nell’eccesso colposo di legittima difesa, invece, i presupposti della legittima difesa sono presenti, ma colposamente si eccedono i limiti di legge (qualora invece ci fosse un eccesso doloso non si è più tutelati dalla scriminante). Nel 2019, la stessa legge che ha modificato l’art 52 c.p. ha novellato anche l’art 59 c.p., introducendo il co. 2. Dal punto di vista terminologico, non si parla di eccesso colposo, ma di una vera e propria causa di non punibilità; infatti, la norma cita: “Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell'articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all'articolo 61, primo comma, n. 5) ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. La legge prende ispirazione da una norma presente nel Codice Penale tedesco, che codifica l’ipotesi di eccesso della legittima difesa determinato da una condizione di paura: in particolare, l’ordinamento penale tedesco prevede che il soggetto che per paura od errore eccede nella legittima difesa non è punito; non è però una causa di giustificazione, è una causa di esclusione della colpevolezza. La legge inserita dal legislatore del 2019 non è però così chiara: il co. 2 cita infatti l’art 61, co. 1, n. 5), c.p., che è un’aggravante. Il legislatore del 2019 ha trasferito una circostanza aggravante che riguarda l’aggressore all’aggredito. In ogni caso, quando ci troviamo di fronte all’eccesso di legittima difesa domiciliare come ai sensi dell’art 55, co. 2, c.p., non siamo in presenza di una causa di giustificazione, ma di una causa di esclusione della colpevolezza (in questo caso non viene meno l’antigiuridicità, viene meno la colpevolezza); art 53 c.p., rubricato “Uso legittimo delle armi”. Il soggetto qualificato per il quale questa norma opera è il pubblico ufficiale: l’articolo, peraltro, opera solo in via residuale, cioè solo per i casi già non protetti né dall’art 51, né dall’art 52 c.p.; è chiaro che non è un campo di applicazione molto ampio, ma nel 1930 era stato introdotto per eliminare il requisito della proporzionalità nella legittima difesa e dunque dare più potere e più impunità alla polizia. È altrettanto chiaro che nell’ordinamento costituzionale italiano odierno, anche per l’art 53 c.p. vale sempre la proporzionalità dell’uso delle armi rispetto al pericolo, perché sia legittimo e dunque scriminante. Dunque i pubblici ufficiali possono usare legittimamente le armi se vi sono costretti dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza (comunque violenta) all'Autorità, sempre tenendo conto alla proporzionalità dell’uso. Sempre nel co. 1 dell’art 53 c.p., sono elencati dei casi particolari in cui il pubblico ufficiale può usare legittimamente le armi. Questi può farlo, infatti, per “di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”. In questi casi ci sono requisiti diversi rispetto che alla legittima difesa; art 54 c.p., rubricato “Stato di necessità”. Questa è forse la causa di giustificazione più antica e tradizionale, necessitas non habet legem. Peraltro, è tanto antica quanto controversa. Il fondamento e la ratio della scriminante dello stato di necessità sono differenti da quelli della legittima difesa: le situazioni di stato di necessità non hanno il carattere omogeneo che ha la legittima difesa (ove c’è sempre e comunque il diritto dell’aggredito che prevale sull’offesa ingiusta), ove c’è sempre un bilanciamento di interessi in gioco. Alle volte nello stato di necessità, pur essendoci un terzo incolpevole che subisce un fatto-reato che nella legittima difesa non c’è, si può ricostruire il bilanciamento di interessi che si fa per l’art 52 c.p.; talaltre volte, i comportamenti messi in atto in stato di necessità non sono in alcun modo qualificabili come secundum ius, e dunque hanno un fondamento totalmente diverso. Molti ordinamenti, per questo motivo, inseriscono lo stato di necessità anche nelle cause di esclusione di colpevolezza: con dunque due stati di necessità, uno scriminante e uno scusante. In Italia, la tradizionale interpretazione è stata sempre quella di vedere lo stato di necessità come scriminante fondata sul bilanciamento di interessi. Però questa interpretazione non è granitica come prima: molti studiosi adesso pensano che sia piuttosto una scusante. C’è una terza strada però, che segue quella imboccata dall’ordinamento tedesco: quando c’è conflitto tra beni giuridici eterogenei, lo stato di necessità è una scriminante; quando c’è conflitto tra beni giuridici omogenei, lo stato di necessità è una scusante. Infine, per quanto riguarda i presupposti dello stato di necessità, essi sono: 1. un pericolo attuale di un danno grave alla persona (il pericolo può derivare dal comportamento illecito di terzi; ma potrebbe derivare anche da situazioni naturalistiche, che prescindono dal comportamento illecito altrui. Nella maggior parte dei casi, lo stato di necessità si realizza proprio a prescindere da un comportamento illecito). Il pericolo deve poi essere rivolto alla persona, non qualsivoglia diritto o situazione giuridica tutelata; il richiamo normativo fa sicuramente riferimento alla vita o alla incolumità individuale, ma si ritiene faccia riferimento anche ai diritti personalissimi, quindi anche libertà personale, libertà sessuale etc. Il pericolo deve poi essere attuale: non può essere futuro, né passato. Il co. 3 dell’art 53 c.p. parla anche dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia: in questo caso la costrizione senza alcuna alternativa integra l’attualità del pericolo. La situazione di pericolo, peraltro, non deve essere volontariamente causata; 2. la reazione alla situazione di pericolo deve essere proporzionata. Il co. 2 impone l’eccezione per cui la norma sullo stato di necessità non si applica a chi abbia un determinato e particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. Lezione 19 La colpevolezza è il terzo elemento del reato: è quello che ha avuto un processo di enucleazione più lungo. Si iniziò con la bipartizione del reato in elemento materiale ed elemento psicologico; poi si è passati alla teoria tripartita, con l’aggiunta dell’antigiuridicità: anche l’elemento psicologico ha subito una trasformazione, perché è diventato la colpevolezza. La colpevolezza è infatti un elemento composito, più complesso del semplice dolo o della semplice colpa: è infatti un giudizio di rimproverabilità soggettiva, che enuclea al suo interno anche il giudizio di imputabilità. Il nostro Codice Penale, però, non usa nemmeno una volta il termine “colpevolezza”. L’imputabilità, nel Codice Rocco, è messa al Titolo IV, all’infuori dunque del Titolo II “Del Reato”: adesso la situazione è radicalmente cambiata, rispetto al 1930, visto che la colpevolezza non solo è riconosciuta come terzo elemento del reato, ma è addirittura imposto dalla lettura delle norme della Costituzione Italiana. Il termine “colpevolezza” non è menzionato nella Carta Costituzionale. Ciononostante, il tema della colpevolezza emerge in connessione al tema della responsabilità oggettiva. Come si è detto, nel 1930 non era ancora completamente accolta l’idea che la colpevolezza fosse composta dall’elemento psicologico a da un giudizio di imputabilità: in particolare, l’art 42, co. 3, c.p. codifica la responsabilità oggettiva, per cui un soggetto è chiamato a rispondere della propria condotta, in base al mero rapporto di causalità materiale, senza necessità che si provi la sussistenza della colpevolezza (esemplificativo della responsabilità oggettiva è il brocardo latino qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu [trad: chi versa nell’illecito risponde anche per il caso fortuito]). Nel Codice Rocco vi erano una serie di norme (dunque di diritto positivo) che prevedevano una responsabilità oggettiva, senza che ci fosse bisogno di provare la sussistenza della colpevolezza. Una di queste norme apre una questione di legittimità costituzionale e dà la capacità alla giurisprudenza della Corte Costituzionale di poter modificare il proprio orientamento: l’art 5 c.p., che cita: “Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale (ignorantia legis non excusat)”. Con sent. 364/1988, la Corte Costituzionale afferma l’esistenza di un principio di rango costituzionale della colpevolezza, argomentando dall’art 27, co. 3, Cost., che stabilisce due cose: l’umanità della pena e la finalità rieducatoria della stessa. Il passaggio argomentativo che unisce la funzione di rieducazione della pena alla colpevolezza è che per rieducare un certo soggetto si deve avere un presupposto: si può rieducare una persona che ha commesso una condotta rimproverabile, colpevole. Non ci può essere rieducazione se non c’è colpevolezza: la Corte Costituzionale, così facendo, ha legato indissolubilmente il presupposto della colpevolezza alla finalità rieducativa della pena. In questa sentenza della Corte Costituzionale si rivoluziona completamente l’orientamento dell’ordinamento tutto: non vale più il principio della responsabilità oggettiva. Ciò ha portato a diverse declaratorie di incostituzionalità per diversi istituti del Codice Penale; ma ha portato anche a diversi interventi legislativi, e a nuove interpretazioni della lettera della Costituzione e della legge penale, in modo tale che fosse costituzionalmente orientata. Ciononostante, esistono ancora una sparuta minoranza di norme che prevedono una responsabilità oggettiva, per le quali la Corte ha una certa difficoltà a dichiararne l’illegittimità (e.g. l’art 44 c.p.). Lezione 20 [ndr: manca una parte della lezione, immagino i primi 10-15 min] Il Capo I del Titolo IV del Codice Penale regola il primo dei due elementi della colpevolezza: l’imputabilità. L’art 85 c.p. è la norma fondamentale in tema di imputabilità. La norma cita: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere”. La norma quindi statuisce che sia imputabile solo chi, al momento della commissione del fatto, era capace di intendere e di volere. La capacità di intendere e di volere è sostanzialmente determinata da due fattori: l’età e l’assenza della malattia di mente. Con capacità di intendere si fa riferimento alla comprensione e al discernimento del valore o del disvalore delle nostre condotte; con capacità di volere si fa riferimento alla facoltà di autodeterminarsi come individui. Altra norma importante è l’art 86 c.p., che cita: “Se taluno mette altri nello stato d'incapacità d'intendere o di volere, al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso dalla persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato di incapacità”. La norma è molto semplice e diretta: se un determinato soggetto mette in uno stato di incapacità di intendere e di volere un altro, al fine di fargli commettere qualche delitto, quest’ultimo è un mero strumento, e dunque non risponde della sua condotta. L’art 87 c.p., invece, codifica un’eccezione all’art 85 c.p. (c.d. actio libera in causa): “La disposizione della prima parte dell'articolo 85 non si applica a chi si è messo in stato d'incapacità d'intendere o di volere al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa”. In questo caso, la norma fa retroagire il giudizio di colpevolezza, che non si dovrà operare al momento della commissione del reato, ma prima, cioè quando il soggetto si è messo in una condizione di incapacità di intendere e di volere. Le norme successive all’art 87 c.p. regolano i fattori che fanno venire meno o attenuare la capacità di intendere o di volere. Ci sono fattori che escludono tout court la capacità di intendere e di volere, ed altri che la attenuano solamente. I fattori che la escludono, escludono in toto anche l’imputabilità; i fattori che la attenuano, hanno solamente l’effetto di ridurre l’apparato sanzionatorio, diminuendo la pena. La decisione presa dal legislatore in questo senso è sempre stata molto discussa in dottrina e giurisprudenza, ma è rimasta inalterata dal 1930. Il primo fattore che incide sulla capacità di intendere e di volere è il vizio di mente. L’istituto è regolato da tre norme. Le tre norme vanno lette insieme, perché solo così danno un quadro completo ed organico della disciplina del vizio di mente. Queste sono: 1. art 88 c.p., che cita: “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d'intendere o di volere”; questa norma codifica il vizio di mente totale, idoneo ad escludere completamente la capacità di intendere e di volere e dunque l’imputabilità; 2. art 89 c.p., che cita: “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”. Questa norma identifica il vizio parziale di mente, idoneo ad attenuare la capacità di intendere e di volere e dunque di diminuire la pena del condannato; 3. art 90 c.p., che cita: “Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità” Le prime due norme hanno in comune che, nell’individuare un vizio totale o parziale di mente, fanno riferimento allo stesso fattore determinante: l’infermità. Il vizio di mente, qualsiasi esso sia, deve derivare da un’infermità. La terminologia usata dal Codice è molto precisa, ed è anche riduttiva: viene accolto nel Codice infatti solo il c.d. paradigma medico. Le uniche infermità idonee a determinare un vizio di mente sono quelle che si sostanziano in una malattia fisica o mentale che incidono sulla capacità di intendere e di volere. Oggi il c.d. paradigma medico accolto nel 1930 sta venendo messo in discussione in dottrina e in giurisprudenza, visto l’enorme avanzamento fatto dalla scienza psichiatrica negli ultimi 90 anni: è particolarmente spinosa la questione dei disturbi di personalità. L’ostacolo al riconoscimento dei disturbi della personalità come infermità determinanti il vizio di mente era dato dall’art 90 c.p.: le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una sentenza di ormai 20 anni fa, hanno riconosciuto che anche i disturbi di personalità possano rilevare ai fini del vizio di mente, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Il vizio totale, dunque, esclude la capacità di intendere e di volere e dunque l’imputabilità: a colui il quale venga riconosciuto un vizio totale di mente, si possono applicare diverse e varie misure di sicurezza. La più grave è la REMS (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ove il soggetto incapace abbia una pericolosità sociale. Nell’ipotesi di vizio parziale, c.d. ipotesi di semi-imputabilità, ci sarà l’applicazione congiunta di pena e di misura di sicurezza. Dopo l’applicazione della pena, il colpevole andrà in una c.d. Casa di Cura e di Custodia. L’art 91 c.p. riguarda l’esclusione (al primo comma) e la riduzione (al secondo comma) della capacità di intendere e di volere per ubriachezza c.d. accidentale. L’articolo infatti cita: “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità d'intendere o di volere, a cagione di piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore. Se l'ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, la pena è diminuita”. Sono sostanzialmente casi di scuola: il soggetto che lavorando in una distilleria si ubriaca a causa dei vapori alcoolici o del soggetto che, per scherzo altrui, ingerisce una bevanda alcoolica, ritenendola analcolica, o di chi assume, senza saperlo, un farmaco che accentua gli effetti dell'alcool, anche in dosi minime e quindi altrimenti innocue. L’art 92 c.p. invece riguarda l’ubriachezza volontaria. L’articolo cita: “L'ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore non esclude né diminuisce la imputabilità. Se l'ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata”. In questa norma, al co. 1, è stata operata una fictio iuris: l’ubriaco, che sia tale per volontà o per colpa o negligenza, non è capace di intendere o di volere, ma la legge lo ritiene comunque capace e dunque imputabile. Il co. 2 prende, invece, in esame la c.d. ubriachezza preordinata. Quest'ultima, che viene considerata una forma di espressione dello "stato preordinato di incapacità" di cui all' art 87 c.p., vale però. diversamente da questo, come circostanza aggravante. A norma dell’art 93 c.p., “Le disposizioni dei due articoli precedenti si applicano anche quando il fatto è stato commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti”. L’art 94 c.p. tratta invece dell’ubriachezza abituale. Chi commette un reato in stato di ubriachezza abituale, si vedrà la pena aumentata. Agli effetti della legge penale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoliche e in frequente stato di ubriachezza. Lo stesso trattamento è accordato a chi commette il reato sotto l’azione di sostanze stupefacenti, ed è dedito all’uso di queste. L’art 95 c.p. codifica l’intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, e cita: “Per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 e 89”. La norma pone l'esigenza di chiarire la differenza tra stato di cronica intossicazione determinato dall'uso di alcool e stato di ubriachezza abituale, per i quali il legislatore ha predisposto un trattamento differenziato. Infatti nel primo caso non c'è imputazione, mentre per la seconda ipotesi scattano gli aumenti di pena. La Corte Costituzionale, con sent 144/1998, ha chiarito che la cronica intossicazione si differenzia dalla ubriachezza abituale in quanto è un dato irreversibile ovvero, in questo caso, i fenomeni tossici sono stabili, persistendo anche dopo l'eliminazione dell'alcool assunto, di conseguenza la capacità del soggetto può essere permanentemente esclusa o grandemente scemata. La cronica intossicazione è quindi trattata dal legislatore come una vera e propria infermità che determina un’incapacità. L’art 96 c.p. è forse la norma più antiquata in tema di imputabilità: tratta infatti della non imputabilità del sordomuto perché è incapace. È una norma questa che presumeva l’incapacità di intendere e di volere del sordomuto per via della sua infermità; ad oggi sarebbe veramente poco opportuno presumere un fatto del genere [ndr: il professore dice che la norma non è politically correct]. L’art 97 c.p., che riguarda la non imputabilità per età, codifica una presunzione iuris et de iure, dato che cita: “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”. La norma è talmente perentoria che se, per ipotesi, un ragazzino di tredici anni uccidesse tutta la sua famiglia, il PM non potrebbe che archiviare le indagini e rimandare il caso ai Servizi Sociali: non sono dunque applicabili nemmeno le misure di sicurezza. L’art 98 c.p. rientra in quei casi di c.d. semi-imputabilità. La norma infatti cita: “È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d'intendere e di volere; ma la pena è diminuita”. In questi casi è competente il Tribunale dei Minorenni. La norma stabilisce una presunzione relativa di capacità di intendere e di volere: si presume che, fino a prova contraria, chi ha superato i 14 anni di età sia capace di intendere e di volere perché ha raggiunto un certo grado di maturazione psichica. Il Tribunale dei Minorenni deve prima di tutto infatti stabilire se il criminale sia capace, prima di poter procedere oltre. Quanto alle conseguenze: se il minore viene ritenuto incapace di intendere e di volere, si cerca di mantenerlo in famiglia o al massimo in comunità; se il minore viene ritenuto capace, sarà condannato al carcere minorile, con pena diminuita. Lezione 21 L’art 42, co. 2, c.p. cita: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”. La norma istituisce la regola di imputazione soggettiva nei delitti: normalmente si risponde a titolo di dolo, se non è espressamente prevista la colpa o la preterintenzione. Da questa norma si ricava inoltre che esistono tre forme di elemento psicologico nel sistema penale italiano: dolo, colpa e preterintenzione. Nelle contravvenzioni il principio è diverso, ed è quello dell’indifferenza dell’atteggiamento doloso o colposo; ciò non significa che le contravvenzioni possono essere commesse a prescindere dal dolo o dalla colpa, ma significa che è necessario, per commetterle, il dolo o perlomeno la colpa (art 42, co. 3, c.p.). Peraltro nel nostro sistema penale ci sono delle contravvenzioni che sono costruite o come strutturalmente dolose o come strutturalmente colpose. Il Codice Rocco, al successivo art 43, definisce sia il dolo, sia la colpa, sia la preterintenzione. In particolare, il delitto è: doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente; colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Nel nostro ordinamento ci sono dunque due forme di elemento psicologico: il dolo e la colpa. La terza, la preterintenzione, è una figura eccezionale e di fatto parte del dolo. Il legislatore del 1930 ha di fatti costruito una figura generale sulla base di un singolo reato, l’omicidio preterintenzionale (art 584 c.p.): e infatti, nel Codice non c’è nessun altro reato che porti nel suo nomen iuris l’aggettivo “preterintenzionale”. Il dolo viene definito come rappresentazione e volizione: questi sono i due elementi richiesti dal Codice Penale. Ci sono state sempre grandi diatribe riguardo al dolo solo come rappresentazione o del dolo solo come volizione: partono tutte dal sistema penalistico tedesco, ove non esiste una definizione di dolo, ma esso viene definito in negativo, deducendosi dall’errore sul fatto, che è un errore rappresentativo. Questa diatriba non è però priva di conseguenze, visto che alcune volte vi è la tendenza di identificare il dolo ove ci sia la rappresentazione ma a prescindere dalla volontà: dottrina e giurisprudenza hanno alle volte forzato l’interpretazione dell’art 43 c.p. equiparando alcune figure di atteggiamento psicologico alla volontà colpevole (la giurisprudenza oggi pacificamente equipara alla volontà colpevole la rappresentazione dell’evento come certo, la rappresentazione dell’evento come possibile e l’accettazione del rischio). Nella figura-tipo, che è quella del dolo intenzionale, sono emerse delle categorie del dolo, in cui viene equiparato al dolo intenzionale altre forme di dolo, diretto od eventuale. L’oggetto del dolo è l’evento dannoso o pericolo. Si è molto discusso se accanto all’evento ci dovesse essere un quid pluris, ossia la coscienza dell’illiceità del comportamento: in alcuni reati infatti si pone il problema della divergenza fra la volontà dell’evento in senso materiale e la coscienza dell’illiceità dell’evento stesso. Il tema è stato recentemente ravvivato nel dibattito penalistico in luce dei c.d. reati culturalmente orientati: l’esempio è il padre che da uno schiaffo alla figlia perché va in discoteca in minigonna, perché per la sua cultura di provenienza è un atto sconcio e/o pericoloso, in un animo di ius corrigendi e non di reale dolo. La giurisprudenza esclude, in forza dell’art 5 c.p. (ignorantia legis non excusat), che la coscienza dell’illiceità possa essere un requisito. Quanto all’accertamento del dolo, essendo l’elemento psicologico del reato e dunque un elemento interno all’imputato, non è facile. È molto più difficile rispetto all’accertamento della colpa, che di fatti si basa su un dato normativo: la colpa non è altro che la violazione di una norma cautelare. È evidente che per ricostruire la presenza di dolo o di colpa in una determinata condotta si deve partire dagli elementi fattuali e materiali del caso concreto e non da statuizioni di principio. L’accertamento del dolo si deve fare secondo l’argomentazione della c.d. praesumptio hominis, che consiste in un'argomentazione grazie alla quale si può indurre l'esistenza di un fatto ignoto partendo dalla conoscenza di un fatto noto. Ci sono diverse forme di dolo: 1. dolo intenzionale, che si verifica quando lo scopo del delitto commesso è quello di realizzare la condotta criminosa (nei reati di azione) o di provocare l’evento (nei reati di evento); 2. dolo diretto, che si verifica quando vengono rappresentati gli elementi costitutivi del reato e si è consapevoli che agendo in un certo modo lo si commetterà. Il reato non rappresenta lo scopo da realizzare, ma lo strumento utilizzato per raggiungere l’obiettivo; 3. dolo eventuale, che si verifica quando anche se non si agisce con l’intenzione di commettere un reato si è comunque consapevoli che ciò potrebbe accadere e si agisce nonostante tale rischio; 4. dolo generico; 5. dolo specifico, quando nella descrizione della fattispecie c’è un’ulteriore finalità dell’agente oltre all’evento dannoso o pericoloso (e.g. l’art 624 c.p., il furto: l’evento dannoso è l’impossessarsi della cosa mobile altrui, l’ulteriore finalità è il trarne profitto); sono questi gli elementi soggettivi della fattispecie, dove il legislatore, già nella costruzione della fattispecie, colora il fatto tipico di un elemento soggettivo. In alcuni casi il dolo specifico può essere un’aggravante; 6. dolo antecedente, concomitante e susseguente. Questa distinzione serve solo a specificare che è necessario che il dolo sia presente al momento della commissione del reato; 7. dolo generale. Lezione 22 [ndr: manca tutta la prima parte della lezione sulla differenza tra dolo eventuale e colpa] Anche la colpa viene definita dal Codice Penale. È innanzitutto caratterizzata da un elemento negativo: è colposo o contro l’intenzione il delitto quando l’evento dannoso o pericoloso, anche se previsto, non è voluto dal soggetto agente. Nel nostro Codice si trovano però tre istituti, della c.d. colpa impropria, in cui si ha un trattamento di regime sanzionatorio colposo per condotte che sono in realtà caratterizzate dalla volontà: l’errore sul fatto colposo (art 47 c.p.); l’errore sulla causa di giustificazione colposa (art 59 c.p.); l’eccesso colposo (art 55 c.p.). In alcuni casi la legge può richiedere anche un requisito positivo: in questi casi si distingue una colpa generica da una specifica. La colpa generica è la violazione di una regola sociale di comportamento (citando l’art 43 c.p., “si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia”); la colpa specifica è invece la violazione di una specifica norma scritta dell’ordinamento (continuando la citazione “ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”). Nell’ambito della colpa generica, un altro problema posto dall’art 43 c.p. riguarda i termini negligenza, imprudenza e imperizia. Tradizionalmente la giurisprudenza e la dottrina distinguono una doppia misura della colpa: una colpa oggettiva e una colpa soggettiva. Riguardo la colpa oggettiva, si valuta l’imperizia o la negligenza o l’imprudenza paragonando il comportamento del soggetto agente a quello del c.d. agente modello, cioè dell’homo eiusdem condicionis ac professionis. In quest’ambito il tema più interessante e problematico è quello della colpa medica, perché la colpa medica non può essere normativizzata, vista la sua continua e rapida evoluzione. In Italia, a differenza di molti altri ordinamenti, la colpa medica è una colpa penale (art 590-sexies c.p.): il Codice Penale statuisce che qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida. Queste ultime non sono delle norme di legge, ma sono le pratiche che la comunità medica dà come assicurate e da seguire nel caso concreto e sono aggiornate, a seconda dell’avanzamento della scienza medica, dalla comunità stessa. In questo caso l’agente modello in ambito medico è rappresentato da quello che segue le linee guida. Un’altra problematica, ancora nell’ambito della colpa generica, è presentata dal c.d. rischio consentito. [ndr: da questo punto in poi la lezione è incomprensibile]. Lezione 23 Fra il fatto e l’evento ci deve essere un rapporto causale. Come integrazione alla teoria della causalità è stata da qualche tempo proposta la c.d. teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento: questa ha come tema il nesso fra la condotta e la realizzazione dell’evento giuridico che la norma vuole prevenire. Quando si parla di causalità della colpa, il giudice deve accertare la causalità sul piano materiale, ma deve anche accertare che si è realizzato quello specifico evento che la norma vuole evitare. La terza forma di imputazione non è un terzo autonomo elemento psicologico. Nella maggior parte degli altri ordinamenti europei non esiste una terza forma di imputazione come la preterintenzione; nei paesi di common law esiste ad esempio una figura intermedia tra dolo e colpa che è la recklessness. Il nostro ordinamento in questo è singolare: formalmente, prevede un’ipotesi di imputazione a titolo di preterintenzione; ciononostante, questo non si traduce in singole fattispecie nella parte speciale. Nel Codice Penale, dal punto di vista meramente nominalistico, esiste una singola fattispecie traduzione del concetto di preterintenzione, che è l’omicidio preterintenzionale. La struttura della preterintenzione è costruita secondo il fatto che si realizza un evento più grave, non voluto, e dunque oltre l’intenzione; c’è quindi un delitto-base ed un evento aggravante: la struttura della preterintenzione prevede che il dolo del soggetto agente copra solo il delitto base, essendo invece l’evento aggravante all’infuori della sua intenzionalità, ma comunque legato alla condotta del soggetto agente da un nesso di causalità. Il concetto della preterintenzione è costruito fondamentalmente sull’unica fattispecie che ha nel suo nomen iuris l’aggettivo “preterintenzionale”, ossia l’art 584 c.p., l’omicidio preterintenzionale. La struttura della preterintenzione pone però alcuni problemi, anzitutto metodologici. Nel nostro sistema penale e costituzionale vige il principio di colpevolezza: secondo l’interpretazione fornita dalla Corte nella sent 364/1988, l’evento più grave deve essere voluto perlomeno a titolo di colpa. Nell’ipotesi della preterintenzione (che, in fin dei conti, è il nomen iuris dei reati aggravati dall’evento), il problema è dunque quello dell’imputazione dell’evento aggravante: nei lavori di preparazione del Codice Penale, e in quella che è stata l’interpretazione pacifica della Cassazione per decenni, il reato aggravante era imputato a titolo di responsabilità oggettiva (se c’era il nesso causale con il delitto-base, il reato aggravante era imputato a prescindere dalla colpa); all’esito della giurisprudenza costituzionale prima citata e dell’evoluzione dell’interpretazione del sistema penale tutto, si tende a recuperare l’evento aggravante sotto un profilo di colpa, intesa qui come la prevedibilità in concreto (questo vale sia per i reati espressamente nominati preterintenzionali, sia per tutti reati aggravati dall’evento). Della responsabilità oggettiva rimane dunque poco nel nostro ordinamento: ciononostante è una figura ancora presente. Ad esempio, l’art 44 c.p., che cita: “Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto”; il classico esempio di reato a condizione obbiettiva di punibilità è l’incesto (art 564 c.p.). La norma infatti cita: “Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto […], è punito […]”, ove “in modo che ne derivi pubblico scandalo” è la condizione obbiettiva di punibilità. Altri casi di responsabilità oggettiva sono via via scomparsi e riassorbiti o reinterpretati in casi di responsabilità colpevole, ad opera del legislatore o della Corte Costituzionale. L’art 116, co. 1, c.p., per esempio, cita: “Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione”; la legge, addebitando al concorrente l'evento diverso o più grave di quello voluto, era stata pensata dal legislatore come un'ipotesi di responsabilità oggettiva pura. Tuttavia, la Corte Costituzionale, con sent. 42/1965, ha rifiutato l'idea che si trattasse di una responsabilità di questo tipo, stabilendo che per la sussistenza della norma devono sussistere sia il rapporto di causalità materiale, sia un coefficiente di colpevolezza, in quanto il reato diverso o più grave deve rappresentarsi nella mente del soggetto, come sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto. Esistono diverse tipologie di errore: come è motivo di invalidità del negozio nel diritto civile, può essere nel diritto penale fattore di esclusione della colpevolezza. All’interno del sistema penale, vi sono ulteriori classificazioni dell’errore: l’errore-motivo, che porta una falsa rappresentazione della realtà e che a sua volta può essere di due tipi, cioè di fatto o di diritto, anche se la terminologia è ormai superata, essendo più corretto dire errore sul fatto ed errore sul precetto; errore-invalidità. Lezione 24 L’art 5 c.p. cita: “Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale”. La norma esprime un tradizionale principio fondamentale della legge penale, dato che l’obbligatorietà e l’effettività della legge penale si fonda su questo presupposto. Storicamente, c’è un cuore del diritto penale, fatto di reati e norme talmente tanto insite nel nostro vissuto comune che sarebbe impossibile ignorarle o non conoscerle (l’omicidio, il furto etc.); dall’altro il principio dell’art 5 c.p. ha un’enorme importanza visto che negli anni si è venuta ad agglomerare intorno al cuore del diritto penale una legislazione complementare enorme. Allo stesso tempo, la dottrina e la giurisprudenza si sono sempre domandate se questa norma avesse delle eccezioni: in via generale, non sembra che sia possibile che ce ne siano. La manualistica del secondo dopoguerra ammetteva solo che ci potesse essere qualche caso limite di non operatività della legge, in particolare nel caso di mancanza di informazioni sulla nuova legge penale. Il problema però oggi è diverso (visto che ogni cittadino può in ogni momento conoscere la nuova legge penale grazie ad internet), e parte dal fatto che c’è un’enorme legislazione penale complementare e spesso di minuzioso dettaglio. Ciò ha portato a chiedersi se non ci fossero casi ove l’errore sulla legge penale possa essere scusabile: così facendo, nel 1988 è stata sollevata questione di legittimità costituzionale sull’art 5 c.p. La sent 364/1988 della Corte Costituzionale, a partire anche dalla analisi delle dottrine formatesi sull’argomento negli altri paesi europei, statuisce che non si può muovere un rimprovero al soggetto quando la sua ignoranza derivi da un errore scusabile, errore scusabile che si fondi su fattori oggettivi (dunque un errore che derivi dalla soggettività dell’individuo non è mai scusabile). C’è un’ignoranza inevitabile fondata su un errore scusabile derivato da fattori oggettivi: quando il soggetto, non conoscendo le normative di settore, si è affidato ad un altro soggetto qualificato (e.g. la PA) per avere un’interpretazione corretta della legge, e questi ne ha fornita una sbagliata; ovvero, quando la norma è oggetto di un contrasto giurisprudenziale, a seguito di un mutamento successivo dell’orientamento giurisprudenziale; ovvero ancora quando la norma è talmente oscura da non poterne conoscere il significato. Sul piano dell’inquadramento dogmatico, la dottrina fa rientrare questo errore nelle cause di esclusione della colpevolezza: alcuni studiosi pongono la conoscibilità della legge penale come quarto elemento della colpevolezza; altri, la pongono come inesegibilità, dunque sostanzialmente una scusante. La disciplina sull’errore è data dall’art 47 c.p., che al co. 1 cita: “L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”; l’errore sul fatto è dunque derivante da un errore di fatto (se Tizio e Caio hanno lo stesso telefono, e Caio prende il telefono di Tizio credendolo il suo, Caio ha commesso un furto ma basato su un errore di fatto). L’errore sul fatto normalmente non è punibile, perché fa venire meno il dolo: salvi i casi di una responsabilità colposa. Nell’errore di fatto ci può essere infatti una colpa, quando non si rispettino le norme cautelari della negligenza, imperizia o imprudenza. Il dolo fa venire meno l’errore di fatto. L’art 47, co. 3, c.p., cita: “L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”; non tutta la fattispecie di un determinato reato deve essere costruita su elementi materiali: potrebbero anche essere presenti elementi normativi. Nelle fattispecie penali spesso vengono richiamati elementi normativi; qualora si tratti, però, di richiami a norme extrapenali, l’errore su quest’ultime fa venire meno il dolo. A onor del vero, la norma non ha avuto una grande applicazione giurisprudenziale, visto che non è facile individuare il confine tra l’art 5 c.p. e l’art 47, co. 3, c.p. L’art 48 c.p. cita: “Le disposizioni dell'articolo precedente si applicano anche se l'errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall'altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterlo”; questa è una norma di integrazione (anche abbastanza semplice), la persona, cadendo in inganno, commette un errore e viene dunque meno il dolo. L’art 59, co. 4, c.p. cita: “Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”; la norma è costruita seguendo la stessa struttura dell’art 47, co.1, c.p.: se l’agente erra sulle cause di non punibilità, fa un errore rappresentativo sulla situazione di fatto, e dunque viene meno il dolo e con esso la punibilità; salva sempre la responsabilità colposa. Nel Codice Penale è presente anche una risalente disciplina relativa al c.d. errore-inabilità: gli artt 82 e 83 c.p.; queste norme sono nate in un’ottica di responsabilità oggettiva. Se l’errore-motivo è l’errore che cade sulla rappresentazione, di fatto o di diritto, l’errore-inabilità è l’errore dei mezzi di esecuzione. Sono questi i casi dei c.d. reati aberranti (e.g. Tizio vuole sparare e uccidere Caio, ma si sbaglia e spara a Sempronio). In questi casi, si pone comunque un problema di rappresentazione, perché c’è una divergenza tra ciò che è voluto dal soggetto agente e ciò che effettivamente accade. Esistono tre forme di reato aberrante: 1. aberratio ictus, dove l’errore riguarda la persona offesa (art 82 c.p.). L’aberratio ictus a sua volta si distingue in: monooffensiva (Tizio vuole uccidere Caio e per errore uccide Sempronio), la cui disciplina è data dall’art 82, co. 1, c.p., che cita: “Quando, per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere […]”. Il legislatore opera in questo caso una fictio iuris: l’agente viene punito per una condotta dolosa, anche se in realtà ha commesso un tentato reato e un reato colposo. plurioffensiva (Tizio vuole uccidere Caio e per errore uccide Sempronio e Caio), la cui diciplina è data dall’art 82, co. 2, c.p., che cita: “Qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave, aumentata fino alla metà”. Questa è un’ipotesi di c.d. cumulo giuridico: in ipotesi come queste il legislatore non fa un cumulo materiale delle pene, ma fa un cumulo giuridico, ovverosia individua la violazione più grave e procede ad un aumento; 2. aberratio delicti, dove per errore si realizza un reato diverso da quello voluto (art 83 c.p.), e dove il colpevole risponde a titolo di colpa dell’evento non voluto, quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato altresì l'evento voluto, si applicano le regole sul concorso dei reati. 3. aberratio causae, che è prevista solo in sede dottrinale e non è mai stata disciplinata, e ricorre quando per errore si realizza un processo causale che porta all’evento diverso da quello che il soggetto agente si era rappresentato e voluto. L’aberratio causae si deve distinguere dal dolo generale: nel primo caso si ha un’unica condotta e un processo causale che non era coperto dal dolo; nel secondo si hanno due condotte, una sorretta dal dolo e l’altra sorretta dall’evento colposo e ricondotta al dolo della prima. Lezione 25 La disciplina delle circostanze è data dagli artt 59-70 c.p.; la disciplina è particolarmente articolata e complessa: l’istituto delle circostanze si colloca infatti tra la teoria del reato e la teoria della commisurazione della pena. Le circostanze sono i c.d. accidentalia delicti, ovverosia degli elementi non necessari della fattispecie, ma che possono connotare il reato in senso positivo o negativo, rendendola più o meno grave. Allo stesso tempo rientrano nell’ampio alveo della commisurazione della pena: le circostanze hanno in questo caso un ruolo fondamentale, perché permettono di adeguare la pena al disvalore effettivo del fatto tipico. La pena fissata a priori in una determinata fattispecie di reato potrebbe essere infatti fuori proporzione rispetto all’effettivo disvalore di una condotta. Le circostanze sono elementi accidentali del reato, che connotano in senso più o meno grave il fatto tipico e che comportano un aumento o una diminuzione di pena, operando sul minimo o sul massimo edittale. Le circostanze dunque permettono di scendere sotto il limite minimo o di superare il limite massimo. È in ogni caso importante distinguere se in una fattispecie un certo elemento sia una circostanza o un reato autonomo: se è un reato autonomo, la pena dovrà essere calcolata tra il minimo e il massimo edittale riportati nella determinata norma; se invece è una circostanza, la pena andrà calcolata sul reato base, e poi essere aumentata o diminuita a seconda della circostanza. Il regime sanzionatorio concreto dunque cambia profondamente. Si è in presenza di una circostanza aggravante o attenuante quando nella fattispecie sono presenti tutti gli elementi del reato più qualche elemento specializzante. Si possono distinguere: circostanze aggravanti, che a loro volta si dividono: 1. circostanze aggravanti comuni, codificate dall’art 61 c.p.; 2. circostanze aggravanti speciali; circostanze attenuanti, che a loro volta si dividono: 1. circostanze attenuanti comuni, codificate dall’art 62 c.p.; 2. circostanze attenuanti generiche, codificate dall’art 62-bis c.p.; se delle circostanze aggravanti generiche sarebbero illegittime costituzionalmente, per violazione del principio di determinatezza e tassatività della fattispecie, sono state previste nel dopoguerra le c.d. circostanze attenuanti generiche. L’art 62-bis, co. 1, c.p. infatti cita: “Il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell'articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena […]”. Le circostanze generiche possono far riferimento a fattori soggettivi, che incidono sul fatto commesso e sulla personalità dell’agente. I parametri di riferimento sono indicati all’art 133 c.p.; 3. circostanze attenuanti speciali; circostanze oggettive, codificate all’art 70, n. 1), c.p. e che sono quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell'offeso. Le circostanze oggettive riguardano tutti i concorrenti nel reato; circostanze soggettive, codificate all’art 70, n. 2), c.p. e che sono quelle che concernono la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l'offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole. Fra queste ultime vi sono le circostanze che riguardano l’imputabilità, e dunque il vizio di mente totale o parziale e la minore età fra i 14 e i 18 anni. Le circostanze soggettive riguardano solo il singolo individuo colpevole, quandanche ci fosse un concorso di persone nel reato. Le circostanze, di regola, comportano un aumento o una diminuzione della pena di massimo 1/3, ci sono però delle circostanze, c.d. ad effetto speciale, che determinano l’aumento o la diminuzione della pena in maniera autonoma o comunque in misura superiore a 1/3 (art 63, co. 3, c.p.). Dagli artt 63 ss. c.p. ci sono una serie di disposizioni che regolano la diminuzione o l’aumento della pena; è una disciplina molto complessa, per norma di legge ove ci sia una circostanza ad effetto speciale e sullo stesso reato operino altre circostanze, l’aumento o la diminuzione della pena operato da quest’ultime si calcola sulla pena già aumentata o diminuita dalla circostanza ad effetto speciale. Potrebbe succedere che per uno stesso reato concorrano circostanze attenuanti e aggravanti. A norma dell’art 69 c.p., il giudice può operare come meglio ritiene un giudizio di bilanciamento delle circostanze di segno opposto; da vari anni, però, il legislatore tende ad escludere alcune circostanze ad effetto speciale dal potere di bilanciamento del giudice. Il legislatore dunque congela il potere del giudice di individualizzare la pena attraverso il bilanciamento delle circostanze, e lo fa con una in particolare: la recidiva. Quanto al criterio di imputazione delle circostanze, questo è regolato dall’art 59 c.p.: le circostanze attenuanti, in quanto oggettivamente esistenti, sono valutate a favore dell’agente anche se questi non lo conosce o se le ritiene per errore inesistenti, in applicazione del principio del favor rei. Questa norma valeva anche per le circostanze aggravanti, fino a quando non è stata novellata dalla l. 19/1990, che ha modificato il co. 2: le circostanze aggravanti sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. Come testé citato, una norma importantissima nel sistema delle circostanze è l’art 69 c.p., che cita: “Quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tien conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti [co. 1]. Se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tien conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti [co. 2]. Se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze [co. 3] […]”. A cominciare dell’epoca di emersione del terrorismo politico con la legislazione d’emergenza, se il terrorista collaborava poteva avere un regime di attenuazione straordinariamente basso tramite delle circostanze attenuanti speciali (da tre ergastoli si poteva passare a 15 anni di reclusione); allo stesso tempo, per coloro che chiamavano irriducibili e che si rifiutavano di collaborare, le pene non ammettevano un giudizio di bilanciamento delle circostanze: con la circostanza aggravante del terrorismo, e non usufruendo delle circostanze attenuanti speciali, vigeva un divieto di bilanciamento. Questa tendenza è “tornata di moda” (è talmente tanto tornata di moda che la Cassazione sta usando un nuovo termine per identificare le circostanze che non entrano in bilanciamento, ossia la “circostanza privilegiate”) in tempi più recenti: la l. 251/2005 ha aggiunto il co. 4 all’art 69 c.p.; questa modifica ha importato l’impossibilità di bilanciare in senso favorevole determinate circostanze. La più importante è l’art 99, co. 4, c.p., cioè la recidiva reiterata, in cui si incorre dopo due condanne per reati dolosi. Talché la Corte Costituzionale (e basta vedere le note riportate sotto l’articolo nel Codice) è dovuta intervenire continuamente sull’ultimo comma dell’art 69 c.p., per dichiarare l’illegittimità della norma nella parte in cui prevede il divieto di bilanciamento anche rispetto a diverse circostanze attenuanti. Una circostanza aggravante particolarmente importante rilevante è la recidiva. La recidiva ha una disciplina ad hoc all’art 99 c.p.; la recidiva è sempre stato uno dei grandi temi della politica criminale: dopotutto, il vero delinquente non è quello primario o quello occasionale, è il recidivo. Il recidivo è un soggetto che ha commesso di nuovo un reato dopo una condanna. La stragrande maggioranza della popolazione carceraria è composta da recidivi: diventa dunque un tema importantissimo di politica criminale come rispondere e strutturare questo istituto. Storicamente, gli orientamenti sono stati i più diversi: tutti gli ordinamenti europei concordano nel principio che il recidivo vada punito più severamente; alcuni sono più duri (in California e altri Stati americani c’è per esempio la c.d. regola del baseball: three strikes and you’re out, dopo tre condanne se va bene si rischiano i 30 anni di carcere), altri di meno. La posizione italiana a riguardo è molto cambiata nel tempo, dato che la recidiva è l’istituto della parte generale del diritto penale più modificato: entra in vigore nel ’30, dove era prevista come l’unica circostanza aggravante obbligatoria, e nel ’74 subisce una prima modifica e, nell’ottica di creare un diritto penale più aderente al dettato costituzionale con un’individualizzazione e mitigazione della pena, diviene facoltativa; con la riforma del 2005 (riforma ex Cirielli), coincidente con l’inizio di un c.d. populismo penale, la recidiva viene ritrasformata in alcuni casi in obbligatoria e con degli aggravamenti di pena fortissimi. Da questo momento in poi è più volte intervenuta la Consulta, che con una serie di sentenze ha cercato di allentare l’estremo rigore, che spesso risultava in condanne irragionevoli, che la norma aveva imposto. Lezione 26 All’istituto della recidiva, storicamente, sono stati trovati diversi fondamenti: essa può essere pensata in un’ottica diagnostico-retributiva ovvero in un’ottica prognostico-preventiva; nel primo caso il recidivo è trattato come maggiormente colpevole, nel secondo caso viene ritenuta non sufficiente la pena data precedentemente. Nel nostro ordinamento, in un secolo di discussione penalistica, sono state sostenute ampiamente entrambe le tesi. Se si preferisce il primo fondamento, si recupera anche il rapporto tra l’istituto della recidiva e il principio di materialità del fatto, venendo il soggetto condannato in base al rapporto che i due reati commessi hanno tra di loro. La recidiva può essere distinta in: recidiva generica o semplice, che comporta un aumento della pena di 1/3, dopo che l’agente, già condannato per un delitto non colposo, commetta un altro delitto non colposo (art 99, co. 1, c.p.); recidiva aggravata, ove la pena può essere aumentata fino alla metà e di cui ci sono diverse ipotesi (art 99, co. 2, c.p.): 1. recidiva specifica, se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole. L’art 101 c.p. specifica quando i reati sono della stessa indole: “Agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo preveduti da disposizioni diverse di questo codice ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni”; 2. recidiva infraquinquennale, se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente; 3. recidiva vera o quasi-vera, se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena. Qualora concorrano più circostanze fra quelle qua indicate, l'aumento di pena è della metà (art 99, co. 3, c.p.); recidiva reiterata, quando l’agente, dopo aver commesso un primo delitto non colposo ed essere stato condannato, e dopo ancora aver commesso un secondo delitto non colposo ed essendo stato condannato con recidiva, commette un terzo delitto non colposo. In questo caso, l’aumento della pena, nel caso di recidiva generica, è della metà e, nei casi di recidiva aggravata, è di 2/3 (art 99, co. 4, c.p.). L’art 69, co. 4, c.p. esclude in toto la circostanza aggravante della recidiva reiterata dal giudizio di bilanciamento: la Corte Costituzionale è però intervenuta con 8 diverse sentenze nel corso degli ultimi 15 anni sul tema, allargando il giudizio di bilanciamento tra diverse circostanze attenuanti e la circostanza aggravante della recidiva reiterata; l’art 99, co. 5, c.p. prevedeva una recidiva obbligatoria che consisteva nell’aumento della pena non inferiore ad 1/3 se il colpevole era già stato condannato per uno dei delitti indicati all’art 407, co. 2, lett. a), c.p.p. (sostanzialmente, reati ritenuti molto gravi: mafia, terrorismo, smercio di stupefacenti). La Corte Costituzionale, con sent 185/2015, ha dischiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo, limitatamente alle parole “è obbligatorio e,”. In effetti, la scelta del legislatore di introdurre una recidiva obbligatoria andava contro le scelte fatte sul sistema penale dal dopoguerra in poi. In nessun caso l'aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo (art 99, co. 6, c.p.). Il concorso apparente di norme è un problema di applicazione della legge penale: ad esempio, si prendano gli artt 609-bis e 610 c.p.; il primo cita: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito […]”; il secondo cita: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito […]”. Sembra dunque che ci sia una sovrapposizione tra gli ambiti applicativi delle due norme. In questi casi in cui il caso concreto può essere astrattamente ricondotto a più fattispecie di reato è necessario capire che norma di legge applicare, a meno di violare un principio fondamentale dell’ordinamento: ne bis in idem, cioè non punire due volte un medesimo fatto. La questione si risolve semplicemente in un giudizio di specialità: la norma che meglio si adatta al caso concreto, e dunque è più specifica, assorbe il disvalore della norma più generale (ad esempio, se taluno spintona e minaccia un altro per impossessarsi di qualcosa, verrà condannato per rapina, non anche per furto). Il principio fondamentale che regola il concorso apparente di norme è il principio del ne bis in idem sostanziale: esistono norme che recepiscono il giudizio di disvalore presente in un’altra norma. Nel nostro ordinamento non si può punire due volte una stessa condotta, anche se astrattamente riconducibile a più fattispecie, quando una norma assorbe tutto il disvalore della condotta stessa. Il principio del ne bis in idem è un principio ampiamente riconosciuto in sede giurisprudenziale, anche in ambito europeo: in quest’ultimo ambito, la Corte dell’UE ha sanzionato l’Italia perché puniva lo stesso disvalore più volte. Nel Codice Penale vi è una norma ad hoc che regola il fenomeno del concorso apparente di norme, ovverosia l’art 15 c.p.: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. In questo articolo viene fondamentalmente codificato il principio, che è prima logico e poi giuridico, di specialità: legis specialis derogat legi generalis. Si tratta poi di specialità diacronica. Il reale problema del concorso apparente di norme è che in alcuni casi non è così semplice capire quale è la norma speciale che integra il disvalore di quella generale; è chiaro che è facile per precetti ristretti e tendenzialmente inequivoci, ma la legislazione penale si è immensamente allargata, con ambiti che sono anche molto complessi. In sede dottrinale e, parzialmente, giurisprudenziale si è tentato e si tenta ancora di introdurre nuovi ed ulteriori criteri interpretativi di valore, per tentare di evitare il ne bis in idem: questi sono il principio di sussidiarietà, ricorrente quando la norma stessa indica la propria applicabilità vicaria, ove non ne sia in concreto applicabile un’altra; e il principio di consunzione, per il quale due norme concorrerebbero solo apparentemente qualora l’applicazione di quella contenente la sanzione più grave esprima già l’intero disvalore del fatto. Diverso dal concorso apparente di norme è il concorso (reale) di reati: così come le circostanze, il concorso di reati è un istituto a cavallo tra teoria del reato e teoria della pena. Si tratta infatti di stabilire una disciplina di condanna per quei casi in cui uno stesso soggetto abbia commesso più reati: la risposta intuitiva potrebbe essere quella di compiere un cumulo materiale delle pene, ma si arriverebbe a dei risultati assolutamente irragionevoli. Già nel medioevo, dopotutto, i glossatori italiani si erano posti di evitare un cumulo materiale delle pene. Lezione 27 Il concorso apparente di norme è ispirato al principio del ne bis in idem sostanziale: non può essere fatto carico del disvalore di due norme, quando una norma viene ad assorbire tutto il disvalore. Sul piano della disciplina normativa, il concorso apparente è regolato dall’art 15 c.p., che istituisce come criterio di risoluzione il principio di specialità. Non è sempre facile, però, trovare un rapporto strutturale di specialità. Alcuni studiosi hanno proposto, ad integrare il criterio di specialità, altri criteri: il criterio della specialità reciproca e della specialità in concreto. Il limite di queste teorie è che in realtà finiscono per abbandonare il criterio strutturale, tendendo a sostituire ad un criterio formale e astratto due criteri di valore: dunque finiscono per forzare la norma dell’art 15 c.p., che fa riferimento ad un criterio formale e astratto. In sede dottrinale si è dunque deciso di integrare i due criteri con ulteriori due criteri: il criterio di sussidiarietà, che presuppone l’astratta sussunzione della fattispecie concreta all’interno di una pluralità di disposizioni normative poste in relazione gerarchica. L’esempio che si fa è l’art 316ter c.p. “Indebita percezione di erogazioni pubbliche”, e che inizia con “Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis […]”; l’art 640-bis c.p., “Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”, a sua volta rimanda all’art 640 c.p. “Truffa”. In questi casi, che sono le ipotesi di fattispecie con c.d. clausole di riserva (determinate o indeterminate) è lo stesso ordinamento a stabilire un rapporto gerarchico tra norme, che consegue in una sussidiarietà: la norma trova applicazione solo quando quella sussidiaria non trova riferimento; il criterio di consunzione o di assorbimento. Questo è un criterio di valore: una norma non trova applicazione quando un’altra norma viene a coprire tutto il disvalore di quella determinata condotta. Ipotesi ove si può vedere il criterio di consunzione è il c.d. reato progressivo, in cui lo stesso bene giuridico viene offeso con progressione crescente; o anche le ipotesi di antefatto e postfatto non punibile. In ogni caso, il criterio del ne bis in idem trova accoglimento normativo anche in altre norme del Codice Penale. Un importante esempio è offerto dall’art 84 c.p., “Reato complesso”. A norma del detto articolo, le disposizioni sul concorso di reato non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato. Ad una lettura minimale, quest’articolo potrebbe sembrare null’altro che una ripetizione dell’art 15 c.p.; oggi, in realtà, la dottrina dominante intende questa norma come una codificazione del principio del ne bis in idem. Ci possono essere reati complessi eventuali o necessari. Altra codificazione del principio del ne bis in idem è l’art 68 c.p., che cita: “Salvo quanto è disposto nell'articolo 15, quando una circostanza aggravante comprende in sé un'altra circostanza aggravante, ovvero una circostanza attenuante comprende in sé un'altra circostanza attenuante, è valutata a carico o a favore del colpevole soltanto la circostanza aggravante o la circostanza attenuante, la quale importa, rispettivamente, il maggiore aumento o la maggiore diminuzione di pena […]”. Se i due criteri sono ben accolti dalla dottrina, la giurisprudenza è ancora restia ad accoglierli completamente, anche se stanno iniziando ad affiorare le prime decisioni prese con cognizione dei due criteri di sussidiarietà e consunzione. Un altro problema, emerso nel contesto della giurisprudenza europea, è il concorso di norme intrasistematico: molto spesso ci si può imbattere in situazioni per cui una stessa condotta è disciplinata sia come illecito sia come illecito amministrativo. Dalla nota sentenza della CEDU Grande Stevens è stato affermato un principio di ne bis in idem intrasistematico: lo stesso illecito, una volta sanzionato a livello amministrativo (o penale), non può essere sottoposto nuovamente a processo penale (o amministrativo). Poi la giurisprudenza europea (sia della CEDU sia dell’UE) è ritornata sul tema, mitigando l’impatto della sentenza Grande Stevens: si richiedono adesso una serie di requisiti più stringenti perché il principio del ne bis in idem, così come esposto poco sopra, sia in vigore. Quando si parla del concorso di reati si fa riferimento al complessivo trattamento sanzionatorio che deriva da una situazione in cui il medesimo soggetto abbia commesso e sia imputato per più reati. La disciplina del concorso di reati è un’altra disciplina importantissima della politica criminale che il legislatore sceglie di intraprendere: a seconda di come è regolata si ricorrerà, in concreto, di più o di meno al carcere. Ci sono tre possibili criteri con cui si può disciplinare, e si è disciplinato, il concorso di reati: 1. criterio dell’assorbimento, in cui il reato più grave assorbe tutti gli altri. Questo criterio è applicato in pochi paesi, e di fatto solo per alcuni istituti, quindi non in maniera generalizzata; 2. criterio del cumulo giuridico, che è al momento il prevalente. In questo caso, è la legge a stabilire un cumulo di pene in cui non si procede alla somma aritmetica, ma ad una determinazione unitaria della pena. Esso opera individuando il reato più grave tra quelli in concorso, e si applica la pena fissata per quel reato; dopodiché si procede ad un aumento di pena fino alla metà; 3. criterio del cumulo materiale delle pene, utilizzato per esempio, negli Stati Uniti [ndr: madonna che merda di paese diocane]. Sostanzialmente si fa una somma aritmetica delle pene. Il criterio del cumulo giuridico è, come detto, quello più diffuso, almeno negli ordinamenti europei. Ciò è determinato innanzitutto da motivi di opportunità sociale: se si utilizzasse il criterio del cumulo materiale, le carceri sarebbero di fatto strapiene anche di una criminalità non grave e tendenzialmente non pericolosa; ci sono anche altri motivi, mitigare le pene è necessario anche per adeguarle al loro effettivo disvalore. Già dal medioevo, dunque, in Italia si cerca di trovare delle soluzioni alternative al cumulo materiale delle pene: alcuni istituti hanno trovato la loro strada fino al Codice Penale. Ci sono infatti degli istituti antichissimi tuttora regolati dal nostro Codice, quali il concorso formale di reati e il reato continuato (o continuazione di reati). La scelta italiana del criterio da usare per il concorso di reati è in via astratta molto rigorosa, dato che leggendo le norme (artt 71 ss c.p.), si capisce che il criterio adottato è quello del cumulo materiale temperato. L’art 73 c.p. in questo è esemplificativa, visto il suo tenore lapidario: “Se più reati importano pene temporanee detentive della stessa specie, si applica una pena unica, per un tempo eguale alla durata complessiva delle pene che si dovrebbero infliggere per i singoli reati [...]”. Il regime del cumulo materiale è però temperato, infatti, all’art 78 c.p., vengono codificati dei limiti agli aumenti della pena. D’altro canto pene troppo lunghe o anche perpetue farebbero venire meno la finalità rieducativa della pena richiesta dalla nostra Carta Costituzionale. Il concorso formale di reati e il reato continuato temperano però la rigorosità del criterio del cumulo materiale scelto dal nostro legislatore. La disciplina è stata novellata nel ’74: prima la disciplina era molto più rigorosa, e molto più limitati erano i casi di deroga. Entrambi gli istituti sono regolati dall’art 81 c.p.; sono questi due istituti profondamente diversi, che hanno però in comune la previsione del cumulo giuridico: in particolare, si individua la pena prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo. L’art 81, co. 1, c.p. detta la disciplina del concorso formale: “È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge”. È facile capire la ratio che soggiace al cumulo giuridico nel caso di concorso formale: il disvalore è dato da una condotta unitaria, anche se viola diverse disposizioni ovvero viola più volte la stessa disposizione. L’art 81, co. 2, c.p. detta la disciplina del reato continuato: “Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge”. Storicamente, è stato più difficile giustificare la ratio del reato continuato: anche se ci sono diverse condotte, tra di loro non unitarie, fanno riferimento alla stessa colpevolezza; i reati successivi al primo commesso non sono altro che la continuazione dello stesso disegno criminoso colpevole. Lezione 28 Nel concorso formale di reati si può distinguere: concorso formale eterogeneo, quando con un’unica azione od omissione sono stati commessi più reati. L’unicità dell’azione o dell’omissione va intesa in senso naturalistico: c’è unicità dell’azione quando c’è una contestualità di tempo e di luogo; c’è unicità dell’omissione quando c’è un medesimo contesto spazio-temporale; concorso formale omogeneo, quando con la medesima azione od omissione è stato commesso più volte lo stesso reato. Il concorso formale di reati ha perso molto della sua valenza pratica dopo la riforma del ’74 che ha interessato il reato continuato: quest’ultimo ha infatti di molto aumentato il suo campo di applicazione. Il reato continuato ha però conservato parecchie problematiche. Perché ci sia un reato continuato, è necessaria a) la presenza di una pluralità di azioni od omissioni, b) esecutive di un medesimo disegno criminoso, c) che violino la stessa o diverse disposizioni di legge. L’unicità del disegno criminoso è il requisito unificante: in questa unicità si giustifica anche il trattamento di favor rei. È in ogni caso questo un elemento soggettivo, immanente all’individuo che compie diverse azioni od omissioni criminose. Si può parlare di unicità del disegno criminoso allorquando ci sia un’unicità finalistica di scopo; deve essere dunque presente un qualche tipo di “programma” criminoso, che non deve essere necessariamente determinato, ma nemmeno può essere un programma generico. Non c’è bisogno che ci sia un’unicità temporale: a seconda delle tipologie del reato e delle condotte le azioni od omissioni criminose possono essere anche molto dilazionate nel tempo, purché siano rispondenti ad un unico disegno criminoso (ci sono reati, come il falso nella dichiarazione dei redditi, che si possono commettere una volta l’anno: è chiaro che il soggetto che per 5 anni consecutivi dichiara il falso avrà un unico disegno criminoso, con la conseguenza che potrà essere applicato l’art 81 c.p.). La pluralità di azioni o di omissioni devono essere per forza dolose, essendo preordinate a un unico disegno criminoso; in dottrina si è tuttavia prospettata la teoria che possano rientrare nel reato continuato anche i delitti connotati da colpa con previsione (si può fare l’esempio del datore di lavoro che non adegua i suoi stabili alle norme antincendio, al fine di risparmiare. Se scoppia un incendio, e dei dipendenti vengono coinvolti, il datore risponderebbe dei plurimi reati per colpa con previsione, e si potrebbe prospettare l’ipotesi di un reato continuato). Un altro problema interessante del reato continuato è il suo rapporto con la cosa giudicata. Perché una sentenza passi in giudicato ci vogliono 15 giorni. Si supponga che un soggetto patteggi per un furto; uscito dall’aula del Tribunale ruba di nuovo una borsetta, e un mese dopo, mentre sta rubando una bicicletta, viene arrestato in flagranza. I tre eventi sono molto ravvicinati tra di loro, ma intanto la prima condanna è passata in giudicato. Un giudice chiaramente applicherà l’istituto della recidiva al ladro; una parte della dottrina però sosteneva che in casi come questo si dovrebbe applicare anche la disciplina del reato continuato. La giurisprudenza della Cassazione ha accolto questo orientamento [ndr: dice giustamente il prof che siamo il paese degli azzeccagarbugli, non posso che essere d’accordo]. Un disegno criminoso si può dunque protrarre anche dopo una sentenza di condanna passata in giudicato. Quanto alla determinazione della pena nel reato continuato, si individua la pena base (che per norma dell’art 81 c.p. è quella della violazione più grave) e si determina tenendo conto delle varie circostanze attinenti alla violazione; dopodichè si procede all’aumento da un giorno fino al triplo, tenendo conto del numero e del tenore dei c.d. reati satelliti. In ogni caso, il cumulo giuridico non può essere mai più sfavorevole del cumulo materiale (art 81, co. 3, c.p.). Nell’ottica draconiana della riforma ex Cirielli, per il recidivo reiterato è stato previsto anche un aumento del minimo dell’aumento della pena nel caso di concorso formale o reato continuato (art 81, co. 4, c.p.). Vi sono due tipi di concorso di persone nel reato: quello necessario, perché costitutivamente richiesto dalla fattispecie perché vi sia reato (e.g. rissa, incesto, associazione a delinquere, etc.); e quello eventuale. Il concorso di persone nel reato è disciplinato dagli artt 110 ss c.p.; l’art 110 c.p. cita: “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti”. Nella norma appena citata vi sono due funzioni diverse: una è la funzione di incriminazione, visto che ha una funzione di estensione della punibilità a tutti quelli che concorrono in un determinato reato; l’altra è una funzione di trattamento sanzionatorio, dato che stabilisce che tutti i concorrenti in un determinato reato sono in via generale puniti alla medesima maniera. Visto che la norma è carente nel definire i requisisti di un concorso di persone nel reato, si devono ricavare in via interpretativa dalla lettura complessiva delle norme dell’istituto. Il primo requisito è ovviamente la pluralità di soggetti; dall’art 111 c.p. “Determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile”, si capisce che è indifferente se alcuni di questi soggetti siano non imputabili o non punibili. Il secondo requisito è la realizzazione di un fatto tipico, o nella sfera della consumazione o in quella del tentativo. Di sicuro non ci sarà concorso di persone nel reato quando ci si ferma al mero accordo o all’istigazione non accolta. Il secondo requisito si ricava dall’art 115 c.p. (in cui tra l’altro è previsto uno dei pochi casi di possibilità di applicazione di misure di sicurezza anche senza l’effettiva o tentata consumazione di un delitto: nel caso di accordo o di istigazione accolta il giudice può infatti applicare misure di sicurezza), che cita, al co. 1: “Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo”. Un caso in cui, ad esempio, la legge richiede la mera istigazione per integrare una fattispecie di reato è l’art 322 c.p., “Istigazione alla corruzione”. Il terzo requisito è un contributo causale, materiale o morale, di tutti i concorrenti nel reato. Questo contributo può essere di tipo attivo o di tipo passivo. I problemi più grossi si pongono di solito sulla causalità omissiva: il tipico esempio è quello della madre che, pur sapendo, non fa niente per impedire le molestie sessuali subite dalla figlia da parte del patrigno. È infatti molto complesso definire i confini tra concorso, anche esterno, e mera connivenza: basti pensare che la Cassazione in 10 anni ha cambiato tre orientamenti sul tema: si è infatti, posta in giurisprudenza la problematica dell’ammissione di un concorso “esterno” nel reato associativo, finalizzato a rendere punibili quelle condotte che in qualche modo agevolino o facilitino l’esecuzione dei reati-fine da parte del sodalizio criminoso, senza tuttavia integrare una delle condotte tipiche, che realizzano una vera e propria partecipazione, caratterizzando l’operato dei partecipanti all’associazione. Inizialmente, la giurisprudenza di legittimità aveva negato l’ammissibilità di un concorso eventuale di persone nel reato associativo, sulla base della considerazione per cui non è affatto agevole poter distinguere tra la figura del partecipante all’associazione e quella del mero concorrente esterno, poiché in entrambi i casi la condotta dell’agente è eziologicamente rilevante per la commissione del reato. Tuttavia, successivamente, la Cassazione è riuscita ad individuare delle linee di confine tra le due figure, di associato e di concorrente esterno, ammettendo infine la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. In sintesi, la giurisprudenza ha rilevato come il contributo dell’associato rivesta, a differenza di quello del concorrente, un carattere di permanenza e stabilità molto più accentuato. Mentre l’associato prende parte all’associazione proprio al fine di commettere stabilmente e continuativamente una serie di illeciti, aderendo anche psicologicamente al cosiddetto “pactum sceleris” e manifestando una condivisione totale degli scopi dell’associazione (affectio societatis), il concorrente esterno contribuisce in maniera episodica ed occasionale alla realizzazione dei delitti inseriti nel programma dell’associazione e, in ogni caso, anche se l’attività è ripetuta, senza manifestazioni di adesione al vincolo associativo. Manca, in altre parole, in capo al concorrente nel reato, un inserimento stabile nella realtà delinquenziale, avendo egli di mira più che altro l’obiettivo di agevolare e rafforzare l’attività criminale dell’associazione, fornendo un contributo causale alla realizzazione del programma criminale, sorretto, si ritiene in giurisprudenza, dal dolo diretto, con esclusione di quello meramente eventuale. Il quarto requisito è l’elemento soggettivo che, a norma dell’art 110 c.p., non può che essere doloso, visto che la norma non specifica altrimenti. L’art 113 c.p., però, stabilisce che ci può essere una cooperazione colposa: sono due istituti diversi, tanto che la norma appena citata nomina questa cooperazione colposa. Perché ci sia un concorso di persone nel reato ci vuole, come minimo, il dolo di partecipazione, di fornire un contributo causale. Lezione 29 Ci sono state varie teorie su quali principi motivassero, fondassero e regolassero il concorso di persone nel reato. Una di queste è la teoria della c.d. accessorietà: con l’istituto del concorso di persone nel reato il sistema penale viene a considerare rilevanti penalmente condotte che sono accessorie a quelle dell’autore del reato. Questa teoria ha avuto molta fortuna ed ancor’oggi è seguita; nel tempo ne sono state proposte molte altre: il limite della teoria dell’accessorietà è che non prende in considerazione le ipotesi di coautoria. Il Codice Penale accoglie la teoria del contributo causale, senza particolare distinzione di che contributo si tratti: basta che ci sia perché sia presente un concorso di persone nel reato. L’idea del contributo causale come teoria accolta dal Codice viene cementificata dal dettato normativo dell’art 114 c.p.: “Il giudice, qualora ritenga che l'opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato a norma degli articoli 110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato, può diminuire la pena”. Un aspetto problematico è l’elemento soggettivo nel concorso di persone nel reato: come detto sopra, perché ci sia concorso di persone nel reato è necessario il dolo di partecipazione. L’art 113 c.p. cita: “Nel delitto colposo, quando l'evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”. Quando dunque si può parlare di cooperazione colposa? Si ripete il problema prima posto in relazione all’art 110 c.p.: la norma dell’art 113 c.p. manca di una definizione. C’è cooperazione quando il soggetto con la sua condotta è consapevole di partecipare ad una condotta riferibile a più soggetti: si intende, partecipare ad una condotta che di per sé è lecita ma che diventa illecita con la violazione delle norme cautelari. In ciò si può anche trovare la differenza con il c.d. concorso di fatti colposi indipendenti: ad esempio, un soggetto che va oltre i limiti di velocità ed investe un ciclista che non rispetta il diritto di precedenza non è una cooperazione colposa, perché manca la consapevolezza e la coscienza di collaborare ad una condotta. Grande rilevanza teorica e pratica riveste la questione dell’ammissibilità di un concorso tra condotte di soggetti che versino in situazioni soggettive eterogenee: per quanto riguarda il concorso doloso in delitto colposo, si fa il classico esempio di chi consegni un veleno ad un'altra persona affinché commetta un omicidio e questa, conoscendo la natura della sostanza, la dimentichi in un luogo facilmente accessibile a tutti di modo che possa essere ingerita dalla vittima; per quanto riguarda il concorso colposo in delitto doloso, la giurisprudenza più recente tende ad ammettere la configurabilità di tale istituto, sulla base della considerazione per cui tale figura potrebbe assumere rilevanza in quei casi in cui la regola cautelare violata dall’agente sia volta a reprimere, e ad evitare, la condotta dolosa di un terzo. La vicenda che meglio esprime tale problematica è quella affrontata dalla Corte di Cassazione con la sent 22042/2015, relativa al caso di un medico psichiatra il quale, interrompendo il trattamento farmacologico a cui era sottoposto il paziente, ha permesso allo stesso di adottare condotte pericolose, sfociate infine nell’omicidio di un operatore sanitario. La distinzione tra circostanze oggettive e soggettive assume particolare importanza nel concorso di persone nel reato: se viene identificata una circostanza oggettiva, i suoi effetti si estendono su tutti i concorrenti nel reato; se ne viene identificata una soggettiva, gli effetti rimangono a favore o contro del singolo colpevole. L’art 116 c.p. regola il c.d. concorso anomalo: “Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”. La norma era un’ipotesi di responsabilità oggettiva, e prescinde dal dolo rispetto all’evento che fino alla fine si è verificato: a rilevare è unicamente il contributo causale. Tuttavia, la Corte Costituzionale, con sent 42/1965, ha rifiutato l'idea che si trattasse di una responsabilità di questo tipo, stabilendo che per la sussistenza della norma devono sussistere sia il rapporto di causalità materiale, sia un coefficiente di colpevolezza, in quanto il reato diverso o più grave deve rappresentarsi nella mente del soggetto, come sviluppo logicamente prevedibile in concreto di quello voluto. [ndr: la parte sull’art 117 c.p. non l’ho capita molto bene]. Il tentativo è uno dei grandi temi del diritto penale: la problematica principale, che ha formato il tema più importante riguardante il tentativo, è la punibilità della condotta tentata. Nel diritto penale, da sempre, c’è un bilanciamento di fondo su cosa sia più importante da punire e sopprimere: il disvalore della condotta o il disvalore dell’evento. I reati di pericolo però dimostrano che l’ordinamento tiene a sopprimere, oltre al disvalore dell’evento, anche quello della condotta, quandanche questa non si sia concretizzata in un determinato evento: però questi sono casi eccezionali. L’ordinamento penale italiano si è fermato alla tradizionale idea che i reati debbano consumarsi: se l’ordinamento si dovesse fondare sul disvalore di condotta, quantomeno tutti i reati dolosi dovrebbero essere perseguiti anche quando solo tentati; ma soprattutto, si anticiperebbe in modo sproporzionato la rilevanza penale, che in un ordinamento penale liberale può arrivare al massimo fino alla sfera del pericolo. Anticipando troppo la rilevanza penale si finirebbe col punire degli atti che non sono lesivi di nessun bene giuridico e quindi inoffensivi. Nella sistematica del Codice Penale, il tentativo è quindi costruito su un piano oggettivo, ove per manifestarsi sono necessari atti idonei alla commissione del reato e diretti in modo non equivoco. Un istituto che si pone accanto al tentativo è quello del c.d. reato impossibile. L’art 56, co. 1, c.p. cita: “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica”. Innanzitutto, il tentativo è ammissibile solo per i delitti, non per le contravvenzioni. Come detto supra, il legislatore si ispira ad una visione oggettiva del tentativo: si segue dunque l’iter criminis della condotta, che può essere appunto consumata o tentata. Il delitto è tentato sia se l’azione non si compie, sia se l’evento non si verifica: nel primo caso si parla di tentativo incompiuto, nel secondo di tentativo compiuto. Devono essere rispettati diversi requisiti perché ci sia un tentativo: 1. il primo requisito è l’idoneità degli atti. Con idoneità si intende idoneità relativa, cioè la determinata condotta nel caso concreto deve essere ritenuta idonea alla realizzazione dell’evento, attraverso il giudizio della c.d. prognosi postuma. La necessità di questo requisito è confermata anche dalla disciplina del reato impossibile, di cui all’art 49, co. 2, c.p.: “La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per la inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso”; la norma rappresenta la c.d. inidoneità assoluta; 2. il secondo requisito è quello della non equivocità degli atti. In questo caso si devono distinguere gli atti preparatori dagli atti esecutivi: questi ultimi sono sicuramente rilevanti sul piano del tentativo. Il Codice Rocco non ha seguito questa distinzione, limitandosi a richiedere il requisito dell’univocità: l’atto da equivoco diventa univoco quando è indirizzato finalisticamente e sul piano oggettivo a commettere un delitto. È chiaro che l’univocità degli atti è da valutare soprattutto sul caso concreto, più che in astratto. Lezione 30 Come si è detto supra, il tentativo può essere solo relativo ai delitti: in dottrina, però, si è discusso e si continua a discutere su che categorie di delitti possano configurarsi come tentativi. Una categoria per la quale, per esempio, non è facile ricostruire il tentativo è il reato omissivo proprio. Si pensi ad esempio al delitto di omissione di soccorso: si può mai tentare di omettere il soccorso? Certa parte della giurisprudenza, infatti, sostiene che vi sia una divergenza di fondo tra la figura del tentativo e la realizzazione di un delitto omissivo proprio. Nel momento in cui scada il termine per attivarsi utilmente al fine di evitare la realizzazione del delitto omissivo proprio, infatti, il reato sarà da considerarsi già consumato in maniera definitiva, mentre, prima di quel momento, si sarà al di fuori dell’area del penalmente rilevante. Nonostante ciò, altra parte della giurisprudenza sostiene che il tentativo possa trovare applicazione anche al cospetto di delitti omissivi propri, bastando che l’agente ponga in essere degli atti volti a rendere impossibile l’adempimento del comando imposto dalla legge, collocandosi volontariamente in una situazione che potrebbe condurre, se portata a compimento, alla realizzazione del delitto omissivo proprio. Un’altra categoria problematica in questo senso sono i delitti di attentato. Si prenda ad esempio l’art 422 c.p.: “Chiunque, fuori dei casi preveduti dall'articolo 285, al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità è punito, se dal fatto deriva la morte di più persone, con l'ergastolo”. Quando in gergo giornalistico si dice “tentata strage” si commette un errore terminologico, perché la fattispecie del reato di strage è già integrata: non ci può essere un tentativo di un delitto di attentato. Non tutti i delitti di pericolo sono, però, inconciliabili con la struttura del tentativo: un esempio è l’art 423 c.p., “Incendio”. In un incendio doloso ci si potrebbe trovare sicuramente di fronte a un tentativo, quando un soggetto compie atti idonei e non equivoci a cagionare un incendio. Si è detto che possono essere tentativi solo i deletti dolosi: si discute però sulla compatibilità del dolo eventuale con l’istituto del tentativo. Storicamente, la giurisprudenza ammetteva questa compatibilità, affermando che il tentativo, rappresentando una “fattispecie ridotta” del reato consumato, sarebbe pienamente compatibile con lo stato soggettivo riscontrato in quest'ultimo, anche nel caso in cui si tratti di dolo eventuale. Tuttavia, tale tesi è stata sconfessata dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione, la quale ha viceversa proclamato una assoluta inconciliabilità del tentativo con il profilo soggettivo del dolo eventuale, alla luce del fatto che sussisterebbe una incompatibilità logica di fondo tra il requisito della univocità degli atti, espresso dalla formula “atti diretti in modo non equivoco” di cui al l’art 56, co. 1, c.p., e lo stato soggettivo del dolo eventuale il quale, per definizione, si colloca ad un gradino inferiore rispetto al dolo diretto, contemplando una accettazione del rischio dell’evento, più moderata, e di certo non “univoca”, come invece richiesto per gli atti che configurano il tentativo. Un’altra incompatibilità è tra il tentativo e i reati preterintenzionali, proprio per il fatto che all’interno dell’elemento psicologico della preterintenzione c’è anche una componente di colpa. L’art 56, co. 3, c.p. cita: “Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”. È questa la c.d. desistenza volontaria. Si ritiene che essa si configuri allorquando l’agente, avendone ancora il dominio, interrompa l’azione posta in essere in maniera del tutto volontaria (essa postula, infatti, un tentativo incompiuto), indipendentemente dalle circostanze esterne che ostino alla consumazione del reato. Volontarietà, tuttavia, non corrisponde a spontaneità, potendo l’agente desistere dall’azione anche per calcoli di natura utilitaristica o per valutazioni arbitrarie, che lo convincano per esempio a commettere il reato in un momento successivo e più favorevole: deve tuttavia sussistere una “possibilità di scelta ragionevole” riguardo all'opportunità di portare a compimento l’intento criminoso, non configurandosi la desistenza quando l’interruzione dell’azione sia stata dettata dalla presenza di svantaggi e pericoli talmente gravi da scoraggiare l’intento criminoso. La desistenza è configurata dalla dottrina come una esimente e, più in particolare, come causa sopravvenuta di non punibilità. L’art 56, co. 4, c.p. cita: “Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”. È questo il c.d. recesso attivo. Nell'ipotesi del recesso attivo l’agente, dopo aver compiuto l’azione, si adopera affinché l’evento non si realizzi, e tale contegno configura una circostanza attenuante del reato consumato. Da molti anni è dominante la teoria tripartita del reato: fatto-tipico, antigiuridicità e colpevolezza. Alcuni studiosi postulano però un quarto elemento del reato: la punibilità. La punibilità, si diceva, è la conseguenza di un reato: se c’è un reato, questo deve essere punito. Ciò però non spiegherebbe norme come l’art 649 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo [delitti contro il patrimonio non violenti] in danno: 1) del coniuge non legalmente separato; 1-bis) della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso; 2) di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell'adottante o dell'adottato; 3) di un fratello o di una sorella che con lui convivano […]”. Esistono dunque delle cause di non punibilità in senso stretto, che sono qualcosa di diverso dalle scriminanti e dalle scusanti: mentre le scriminanti incidono sull’antigiuridicità e le scusanti sulla colpevolezza, le cause di non punibilità sono estranee alla struttura del reato e determinano che un fatto di reato sia non punibile. L’idea che la punibilità fosse semplicemente la conseguenza di un reato è, a un certo punto, entrata in crisi: sono nati diversi istituti in cui emerge una c.d. “sequenza infranta” (id est, la punibilità segue il reato, in alcuni casi l’ordinamento infrange la sequenza: c’è il reato ma non la punibilità). Un esempio importantissimo, introdotto di recente, dal d.lgs. 28/2015, è l’art 131-bis c.p.: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale […]”. Con una norma come questa, nel nostro ordinamento si viene ad affermare una cesura tra il reato e la punibilità. Ecco che allora molti studiosi hanno giustamente inferito che fosse più coerente prevedere un quarto elemento del reato che si fonda sulla punibilità. Il professor Cocco in particolare sostiene che tutti gli istituti della non punibilità siano fondati sul principio di sussidiarietà: il legislatore rinuncia alla pena perché esistono alternative negli altri rami dell’ordinamento. Argomento diverso sono invece le condizioni obiettive di punibilità, disciplinate dall’art 44 c.p., che rimane una delle più importanti ipotesi di responsabilità oggettiva residuata nel Codice Penale. L’articolo cita: “Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto”. La disposizione in oggetto sancisce la punibilità del soggetto anche per il verificarsi di una condizione e di un evento, nonostante l'evento, da cui dipende la condizione, non sia da lui voluto. Ciò si verifica solamente nei casi in cui sia la legge a richiedere il verificarsi della condizione ai fine della rimproverabilità del soggetto. La condizione obiettiva di punibilità viene tradizionalmente qualificata come un elemento estrinseco della condotta colpevole del reo, in quanto avvenimento esterno, aggiuntivo e successivo al fatto, distinto sia dalla condotta delittuosa che dall'evento tipico conseguente alla condotta stessa. Esempio di condizione obiettiva di punibilità è l’art 564 c.p.: “Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione da uno a cinque anni […]”, dove “in modo che ne derivi pubblico scandalo”, è la condizione obiettiva di punibilità. La ratio per cui il legislatore richiede un quid pluris al fatto di reato, e per la quale subordina poi questo a un regime di responsabilità oggettiva è di restringere la rilevanza penale di un certo reato. La condizione obiettiva di punibilità più importante è la dichiarazione di fallimento. Lezione 31 [ndr: manca una lezione sulla giustificazione della pena] Esistono tre momenti in cui entra in gioco la determinazione della pena. La prima fase è quella della comminatoria edittale: sostanzialmente, la fase del legislatore, ossia la scelta sul se punire e sul quanto punire. La risposta al se punire è data dai principi del diritto penale minimo. La seconda fase è quella della commisurazione in concreto, cioè che pena comminare al soggetto nel singolo caso concreto. La terza fase è quella dell’esecuzione della pena, che per molto tempo è stata tralasciata dagli studiosi (non a caso si parlava di diritto penitenziario) e che adesso sta assumendo una nuova centralità: se l’ordinamento dà alla pena una finalità rieducativa il momento dell’esecuzione di questa è assolutamente cruciale. Iniziando dalla fase della comminatoria edittale, è un’attività costante del legislatore intervenire nel sistema penale. Quando si tratta di fissare i minimi e i massimi edittali di una pena per un determinato reato, il legislatore deve tener conto di diversi fattori in gioco, a cominciare dal tipo e intensità della lesione del bene giuridico tutelato. Poi, nel determinare la pena, deve prendere in considerazione anche altre circostanze ed elementi: l’elemento retributivo, che deve essere proporzionato alla lesione. Già dal disvalore del fatto si può ricavare la proporzionalità della pena (malum passionis propter malum actionis); l’elemento preventivo e rieducativo, che deve essere modulato a seconda della fattispecie astratta e delle modalità del reato e dei suoi elementi oggettivi e soggettivi (ad esempio, la differenza di pena tra il delinquente minorenne e quello maggiorenne); l’elemento di prevenzione generale, cioè l’effetto deterrente che la pena ha sulla collettività. Una norma priva di una sanzione effettiva non ha funzione di dissuasione. Prevedere dei range di pena ampia ha un’importanza fondamentale nel permettere di individualizzare la pena e differenziare il disvalore delle svariate condotte che sono astrattamente riconducibili ad una stessa fattispecie. La seconda fase della commisurazione giudiziale in concreto è particolarmente importante: nei limiti stabiliti dalla legge penale, permette al giudice di individualizzare la pena per ogni singolo reato commesso da ogni singolo reo. La ratio è che non tutti i reati sono uguali, seppur appartenenti alla stessa fattispecie, e il giudice deve adeguare la pena come meglio crede al caso concreto. Nel determinare la pena il giudice deve aver una visione finalistica: il fatto commesso e il soggetto che lo ha commesso devono essere rilevanti, in tutte le loro circostanze e istanze, alla commisurazione della pena. La disciplina legale è data dall’art 133 c.p.; nel commisurare la pena, i parametri a cui si deve rifare il giudice sono sempre il principio retributivo e quello rieducativo. I due parametri cambiano moltissimo nel commisurare la pena a seconda di quale dei due è prevalente. Di sicuro non viene mai considerata nella commisurazione giudiziale il principio di prevenzione generale (il problema forse qui è che c’è un condizionamento mediatico e dell’opinione pubblica operato sul giudice, e quindi si finisce per prendere in considerazione anche questo principio): con la pena mai può essere strumentalizzata una persona (unicuique suum, ad ognuno il suo, commisurato alla gravità del reato e alla esigenza rieducativa nel caso concreto). Nella fase dell’esecuzione della pena vale invece solo la finalità rieducativa: il fatto nel suo disvalore è a questo punto già stato sanzionato; rimane solo la persona con le esigenze di rieducazione e reinserimento in società. L’ordinamento penitenziario italiano ha avuto una grande evoluzione: esistono diversi istituti per creare un percorso personalizzato e finalizzato alla rieducazione dell’imputato. Parlando invece della disciplina normativa della commisurazione giudiziale della pena, il problema che il legislatore si è posto deriva dall’abbandono dell’idea della pena fissa (c.d. pena tariffa): in un sistema inn cui le pene sono fissate ab origine dalla legge non c’è alcun bisogno di una commisurazione giudiziale. Ha contribuito a superare questa tendenza la teoria del reato e in particolare la colpevolezza; peraltro, un sistema di pena fissa sarebbe sicuramente incostituzionale. Nel nostro sistema permangono dei reati a pena fissa, ma questi sono i reati più gravi, puniti con l’ergastolo: tutti reati, che siano puniti con la detenzione o con pene pecuniarie, prevedono dei minimi e dei massimi di pena. La pena discrezionale ha però in sé un rischio insito: che la discrezionalità diventi arbitrio. La discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena deve essere una discrezionalità vincolata, non assoluta. Il nostro legislatore dunque, all’art 132 c.p. statuisce la prima norma di disciplina della commisurazione della pena. Questa cita: “Nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena discrezionalmente; esso deve indicare i motivi che giustificano l'uso di tale potere discrezionale [co. 1]. Nell'aumento o nella diminuzione della pena non si possono oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvi i casi espressamente determinati dalla legge [co. 2]”. È questa una norma fondamentale, che caratterizza il nostro ordinamento in una maniera garantistica: il fatto che il giudice possa usare un potere discrezionale, ma solo sotto motivazione, dà ragione del primo vincolo imposto alla discrezionalità di questi. La commisurazione della pena in un certo modo deve avere un fondamento, e questo fondamento non può che estrinsecarsi in una motivazione. L’art 133 c.p. cita invece: “Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa [co .1]. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo [co. 2]”. Questa è la norma che indica i parametri che il giudice deve seguire nella commisurazione della pena: gravità del reato e capacità a delinquere. Questi parametri devono però essere letti e interpretati alla luce dei principi teleologici della pena, cioè quello retributivo e quello rieducativo. Una grande discussione, sin dal dopoguerra, riguarda il tipo di lettura a cui debbano essere sottoposti questi parametri: una prima lettura concepisce la gravità del reato come riferimento ad una valenza diagnosticoretributiva e invece la capacità a delinquere come riferimento ad una valenza prognostico-preventiva. Questo approccio tradizionale è stato oggi in larga parte superato, molta parte della dottrina e della giurisprudenza dà in generale prevalenza al carattere rieducativo della pena. Certo è che tutti questi parametri possono essere letti in una duplice valenza. Da tempo si parla di una riforma nel diritto penale processuale, con cui si vorrebbe separare il giudizio di accertamento della responsabilità da quello di commisurazione della pena (sul modello britannico). Il Titolo II del Capo I del Codice Penale è dedicato alle pene. L’art 17 c.p. statuisce: “Le pene principali stabilite per i delitti sono: 1) [la morte]; 2) l'ergastolo; 3) la reclusione; 4) la multa [co. 1]. Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: 1) l'arresto; 2) l'ammenda [co. 2]”; l’art 18 c.p. cita invece: “Sotto la denominazione di pene detentive o restrittive della libertà personale la legge comprende: l'ergastolo, la reclusione e l'arresto. Sotto la denominazione di pene pecuniarie la legge comprende: la multa e l'ammenda”. Questo è l’impianto tradizionale del Codice. All’inizio, accanto alle pene detentive e a quelle pecuniarie era prevista la pena capitale: dall’entrata in vigore della Costituzione la pena di morte è proibita. Nel corso degli anni il legislatore ha cercato di introdurre nuove pene (e.g. il giudice di pace può condannare al lavoro sostitutivo). Nel nostro ordinamento la scelta compiuta dal legislatore è stata quella della pena detentiva: il carcere dunque come pena naturale dell’illecito penale. Quest’impronta “carcerocentrica” è ancora molto presente nella nostra coltura e nel nostro sistema penale: in Italia, le pene pecuniarie hanno avuto ed hanno un ruolo modestissimo. L’idea carcerocentrica è negli ultimi anni entrata molto in crisi (il carcere ha un costo sociale altissimo, sia nel senso proprio economico del termine, sia perché finisce per essere un fattore criminogeno più che rieducativo; senza contare poi che il carcere dovrebbe essere visto come ultima ratio). Il problema della pena pecuniaria è che rischia di essere molto ineffettiva (lo è forse di più per le persone giuridiche). Quanto alle singole pene, partendo dalle pene detentive, queste sono: 1. l’ergastolo, cioè la pena perpetua, la più grave prevista attualmente dall’ordinamento italiano. L’ergastolo è stato oggetto di numerose sentenze della Corte Costituzionale: la più importante declaratoria di illegittimità costituzionale riguarda l’ergastolo nei confronti dei minorenni. L’ergastolo è oggi applicabile dunque solo nei confronti dei maggiorenni. La fisionomia dell’ergastolo è molto cambiata nel corso degli anni, visto che anche agli ergastolani deve essere garantito un percorso di riabilitazione (tutte le sentenze della Consulta riguardanti l’ergastolo ostativo hanno affermato questo principio: l’ergastolo può essere costituzionale nella misura in cui sia indirizzato ad una riabilitazione, che può e deve concludersi con la liberazione condizionale). La pena perpetua può avere dunque una fine, dopo 26 anni, nella liberazione condizionale, a patto che ci sia stato un effettivo percorso di riabilitazione. Nell’ottica della lotta alla mafia si sono introdotti una serie di aggravamenti all’ergastolo per determinati, in particolare attinenti alla fase della sua esecuzione: il regime del carcere duro e il c.d. 41-bis (art 41-bis, l. 663/1986 e s.m.i.). Tra queste misure si annovera anche il c.d. ergastolo ostativo: sostanzialmente, un ergastolo in cui non si può beneficiare delle misure favorevoli previste dall’ordinamento penitenziario, prima fra tutti la liberazione condizionale 8che può essere concessa solo se l’ergastolano collabora con l’Autorità Giudiziaria). La Corte Costituzionale ha rilevato l’incostituzionalità dell’istituto, ma non l’ha ancora dichiarata, lasciando il tempo al legislatore di trovare un istituto alternativo che permetta al Giudice di Sorveglianza di valutare la possibilità di accedere alla liberazione condizionata anche a chi si rifiuta di collaborare. 2. la reclusione; 3. l’arresto. Lezione 32 Le norme sulle pene pecuniarie scontano un problema: il rischio che siano non effettive. Il nostro Codice nasce con una visione delle pene pecuniarie come strumenti di poco valore: o è prevista come accessoria alla pena detentiva, o è prevista come pena dei reati c.d. bagatellari o delle contravvenzioni. Da tempo si è posta all’attenzione una riforma della pena pecuniaria, nell’ottica di renderla effettiva: si è presa più coscienza del fatto che anche le c.d. misure patrimoniali possano avere un’efficacia dissuasiva, e in questo senso anche le pene pecuniarie potrebbero certamente risultare adeguate. Il problema è anzitutto un problema di esecuzione della pena, ma anche di rimodulazione della pena pecuniaria (una pena troppo alta, o al contrario una sproporzionata scontano gli stessi problemi di ineffettività): in quest’ottica sono stati introdotti gli artt 133-bis e 133-ter c.p.; il primo cita: “Nella determinazione dell'ammontare della multa o dell'ammenda il giudice deve tener conto, oltre che dei criteri indicati dall'articolo precedente, anche delle condizioni economiche del reo. Il giudice può aumentare la multa o l'ammenda stabilite dalla legge sino al triplo o diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa”. Questa norma serve per parametrare la pena pecuniaria alle condizioni economiche del reo, in modo da renderla effettiva. Il secondo cita: “Il giudice, con la sentenza di condanna o con il decreto penale, può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l'ammenda venga pagata in rate mensili da tre a trenta. Ciascuna rata tuttavia non può essere inferiore a euro 15. In ogni momento il condannato può estinguere la pena mediante un unico pagamento”. Le pene pecuniarie sono particolarmente importanti per quanto riguarda la c.d. responsabilità dell’ente: le pene pecuniarie, infatti, si dovrebbero principalmente rivolgere alla criminalità economica o la criminalità contro il patrimonio. La sanzione pecuniaria, che per l’ente è la sanzione ordinaria, diventa particolarmente effettiva in questi casi (soprattutto in funzione preventivo-dissuasiva). È per questo che la pena pecuniaria, oggi, non va valutata solo guardando alla sistematica del Codice, ma anche guardando alla responsabilità amministrativa per reato dell’ente, ove ha di fatti un’effettività molto più marcata. Alla pena pecuniaria si affianca anche un altro istituto, che originariamente era una misura di sicurezza patrimoniale: la confisca. Spesso oggi, sia nei confronti della persona giuridica che nei confronti della persona fisica, assieme alla pena pecuniaria viene spesso prevista la confisca. Le pene accessorie hanno ancora un’importanza significativa nel nostro ordinamento: esse hanno un’origine molto antica, perché, da un punto di vista storico, la loro funzione è quella di pene diffamanti (e.g. il condannato messo alla gogna). Un tipo di pena del genere ovviamente non sarebbe compatibile con il sistema costituzionale italiano. L’art 19 c.p. elenca dunque le specie di pene accessorie: “Le pene accessorie per i delitti sono: 1) l'interdizione dai pubblici uffici; 2) l'interdizione da una professione o da un'arte; 3) l'interdizione legale; 4) l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; 5) l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; 5-bis) l'estinzione del rapporto di impiego o di lavoro; 6) la decadenza o la sospensione dall'esercizio della responsabilità genitoriale [co. 1]. Le pene accessorie per le contravvenzioni sono: 1) la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte [35]; 2) la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese [co. 2]. Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di condanna [co. 3]”. La funzione della pena principale è afflittiva in ottica retributivo-rieducativa: la pena accessoria ha invece una funzione interdittiva. Negli ultimi anni il legislatore sta ritornando con interesse alle pene accessorie, sempre a rischio di scadere nell’incostituzionalità, soprattutto quando codifica pene accessorie perpetue (che spesso e volentieri vanno contro i fini rieducativi della pena, come fa qualcuno a rientrare in società se gli è impossibile tornare al suo posto di lavoro?). Con la sent 222/2018, per esempio, la Corte Costituzionale ha stabilito che è incostituzionale la previsione di pene accessorie di durata fissa decennale (inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e incapacità di esercitare uffici direttivi nelle imprese) per tutti coloro che siano condannati per bancarotta fraudolenta. Pene accessorie temporanee di durata fissa, come quelle previste dalla norma dichiarata illegittima, non sono compatibili con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Particolare è poi il regime giuridico delle pene accessorio: esse operano automaticamente, ope legis. Il giudice potrebbe anche non menzionarle nella sentenza, ma verrebbero recuperate in sede di esecuzione. Si è sempre affiancato alla pena in senso lato la sua funzione afflittiva. È interessante analizzare, in confronto ad essa, il c.d. doppio binario del sistema penale, composto dalle misure di sicurezza. Il Codice del 1930 accoglie l’impostazione di sistema della scuola classica, affermando che di regola il delinquente è colpevole e sottoposto a pena; prevede però allo stesso tempo un nuovo istituto derivato dalla scuola positiva: la misura di sicurezza. La misura di sicurezza si fonda sul concetto di pericolosità sociale. In questo si fonda il doppio binario del Codice Penale: la pena nei confronti del reo imputabile e responsabile delle sue condotte; la misura di sicurezza relativa al soggetto non responsabile ed imputabile. La misura di sicurezza ha dunque caratteristiche completamente diverse dalla pena: innanzitutto non è afflittiva, ma il suo obiettivo è curare il soggetto che non è capace di intendere e di volere; la misura di sicurezza, nell’impianto originario, è indeterminata nel minimo e nel massimo, perché si devono accertare le c.d. presunzioni di pericolosità sociale (in realtà oggi ha una fine, perché sono state queste ultime ritenute costituzionalmente illegittime). Il doppio binario dovrebbe dunque essere alternativo: o un soggetto è imputabile, e quindi gli si comminano pene; o un soggetto non è imputabile, e dunque vengono applicate le misure di sicurezza. La contraddittorietà che ancora persiste nel nostro sistema è che esistono dei casi di binario congiunto: il caso più importante è quello del vizio parziale di mente, ma vale anche per chi è minore di anni 14 ma maggiore di anni 18 (i c.d. semi-imputabili); e le tre figure del delinquente abituale, professionale e per tendenza (c.d. figure di pericolosità qualificata). In questo il Codice è particolarmente antiquato, e non si è mai avuto nemmeno un tentativo di riforma. Anche le misure di sicurezza devono avere un ancoraggio costituzionale forte. Vi è solo una deroga nei principi costituzionali per quanto riguarda le misure di sicurezza, ossia l’irretroattività: le misure di sicurezza possono essere applicate anche retroattivamente (art 200, co. 1, c.p.). I presupposti delle misure di sicurezza sono dati da diverse norme del Codice Penale, che già nel 1930 si era preoccupato di bardare questo istituto di tutte le generali caratteristiche della legalità. L’art 199 c.p. cita: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”. La norma stabilisce che il principio di legalità vige anche per le misure di sicurezza: sotto questo profilo c’è un’esatta assonanza tra misure di sicurezza e pene. L’art 202 c.p. cita invece: “Le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato. La legge penale determina i casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato”. Questa è una norma fondamentale: il presupposto della misura di sicurezza è un reato e il soggetto deve essere pericoloso socialmente. Esistono solamente due eccezioni al principio di necessaria commissione di un fatto di reato appena espresso: il reato impossibile (art 49 c.p.), in cui, a prescindere dalla commissione di un reato (data l'inidoneità dell'azione), il soggetto può essere sottoposto a misure di sicurezza, perché ha posto in essere una condotta che può essere ritenuta pericolosa socialmente; l'accordo criminoso non eseguito o l'istigazione a commettere un delitto, se l'istigazione non viene accolta (art 115 c.p.). Le ipotesi evidenziate rappresentano situazioni prossime al reato, al punto da essere definite quasi reati. [ultima ndr: manca l’ultima lezione perché lo stronzo non l’ha caricata]