DIRITTO DELL’IMPRESA E DELL’ECONOMIA 1. IL DIRITTO COMMERCIALE Il diritto commerciale rappresenta il diritto delle imprese, essendo l’impresa il motore di ogni economia la sua evoluzione è da sempre connessa con le scelte di politica economica di ogni legislatore (sviluppo storico socio-economico della materia pagg. 9-20). Le teorie dell’impresa hanno due principali scopi: illustrare le funzioni delle imprese ed individuare le strategie che queste dovrebbero attuare per massimizzare la propria efficienza; tale dibattito appassiona tanto i giuristi quanto gli economisti. β’ TEORIE ECONOMICHE: spiegano perché nascono le imprese e descrivono i caratteri delle dinamiche produttive. • Teoria neoclassica: l’impresa è un meccanismo tecnologico grazie al quale le risorse vengono combinate tra loro e trasformate in prodotti o servizi, passaggio da dati input a dati output. • Teoria dell’impresa come nesso di contratti: l’impresa è un complesso di accordi che vari soggetti stringono per i propri interessi omogenizzando gli obiettivi. • Teoria dell’impresa come sistema di relazioni: l’imprenditore decide come destinare le risorse, selezionando le relazioni cruciali per l’attività economica, si occupa dell’organizzazione aziendale e dirige la produzione. • Teoria dei diritti di proprietà: l’identità dell’impresa coincide con gli assetti proprietari relativi ai beni che costituiscono il capitale. β’ TEORIE GIURIDICHE: individuano gli interessi che l’impresa deve perseguire per rispettare i principi espressi dell’ordinamento. β’ TEORIE CONTRATTUALISTE: derivazione anglosassone, sostengono che l’interesse sociale coincide con quello dei soggetti che si accordano tra loro stipulando un contratto e fondando una società per svolgere un’attività economica comune, l’obiettivo dell’impresa è pertanto massimizzare il rendimento dell’investimento compiuto dai soci ossia il valore di mercato delle azioni di cui essi sono titolari. β’ TEORIE ISTITUZIONALISTE: derivazione tedesca, sostengono che l’impresa va considerata un’istituzione sociale che deve contribuire allo sviluppo economico e sociale della comunità di riferimento o del paese di appartenenza. L’interesse della società spesso non coincide con l’interesse dei soci, pertanto, in questa prospettiva l’attività di impresa rappresenta l’adempimento di una funzione più che l’esercizio di un diritto. Nel codice civile italiano hanno prevalso le teorie contrattualiste. Il concetto di interesse sociale viene menzionato in alcune importanti norme di diritto societario (art. 2373, art. 2391, art. 2441) così che gli interessi sociali tipici sono i seguenti: 1. interesse alla massimizzazione del profitto sociale; 2. interesse alla percezione dei dividendi nel corso dell’attività sociale; 3. interesse a influenzare e controllare la gestione della società; 4. interesse alla determinazione del grado di rischio dell’attività sociale; 5. interesse alla codeterminazione della durata dell’investimento; 6. interesse all’alienabilità della propria partecipazione sociale. La necessità di regolare il mercato delle imprese dipende da una serie di esigenze: occorre che il mercato funzioni e si mantenga operativo nel corso del tempo (esigenza di stabilità), che sia in grado di gestire le tipologie di rischio che si sviluppano al suo interno (esigenza di sicurezza), che assicuri le condizioni affinché le negoziazioni siano libere, eque e produttive (esigenza di efficienza). Art. 41 Cost, comma 1 → l’iniziativa economica privata è libera. Esiste un dibattito sostanziale incentrato sull’analisi del concetto di attività economica e su quanto questa espressione coincida o meno con il concetto di attività d’impresa, la conclusione condivisa è che LA COSTITUZIONE AFFERMA IL PRINCIPIO PER CUI L’ATTIVITÀ DI IMPRESA DEVE ESSERE TUTELATA ALLA STREGUA DI UN DIRITTO DI LIBERTÀ, per quanto riguarda iniziare, svolgere e cessare un’attività imprenditoriale. Comma 2 → l’attività economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo tale da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. L’attività d’impresa quando è oggetto di ETEROREGOLAZIONE può essere disciplinata tramite regole o standard: nelle prime il contenuto normativo che deve essere rispettato è individuato ex-ante sotto forma di obbligo o divieto; nei secondi il contenuto normativo è espresso sotto forma di clausole o principi generali che ex-post il giudice o l’interprete devono identificare ed applicare al caso concreto. Gli strumenti di AUTOREGOLAZIONE più conosciuti sono invece i codici di corporate governance ed i codici etici. Tali strumenti si distinguono inoltre tra: a) strumenti di autoregolazione imprenditoriale: accordi e contratti plurilaterali che regolano l’organizzazione interna ed esterna di più imprese nello stesso luogo (contratto di rete); b) strumenti di autoregolazione societaria: servono come standard organizzativo e come standard informativo (codice di autodisciplina delle società quotate promosso da Borsa Italiana s.p.a.). Si distingue inoltre tra norme dispositive, o di default, norme cogenti che come tali devono essere rispettate in tutto e per tutto, ma i loro destinatari possono adottare una disciplina alternativa a quella dettata letteralmente, nei limiti fissati dalla norma dispositiva (art. 1467 per diritto dei contratti/art. 244 per diritto societario) e norme inderogabili delle quali è opportuno servirsi per tutelare soggetti contrattualmente deboli, quando l’esito della negoziazione si potrebbe rilevare iniquo per una delle parti a causa dell’inefficienza del mercato. 2. L’IMPRENDITORE • • • Imprenditore neoclassico → corrisponde alla figura teorizzata da Jean-Baptiste Say, secondo cui si tratta della figura che organizza mezzi, uomini e capitali per produrre, immettere nel mercato e rendere utili i beni realizzati, detto entrepreneur. Scopo ultimo di questo imprenditore è incentivare il consumo; consumo teso a soddisfare i bisogni fisiologici della comunità. I capitali non devono inoltre appartenere all’imprenditore ma possono essere messi a sua disposizione dal capitalista. Imprenditore industriale → l’evoluzione teorica della figura dell’imprenditore si ha con Alfred Marshall, che delinea l’employer quale mente direttiva dell’intero processo produttivo, egli deve coniugare un atteggiamento giudizioso con la propensione al rischio, conoscere il mercato ed affiancarsi un hired manager, un’evoluzione verso il modello di impresa managerialista. L’impresa non è concepita come entità sola, essa si affianca ad altre, insieme alle quali costituisce il settore dell’industria. Imprenditore innovatore → Joseph Alois Schumpeter coniuga l’approccio dinamico dell’impresa industriale con l’innovazione tecnologica realizzata dall’élite imprenditoriale, secondo lui vi è impresa solo ove è possibile realizzare una qualche forma di innovazione. Il codice di commercio del 1882 è ispirato a quello francese nel quale si ripudia la prospettiva normativista e privilegia la figura dell’imprenditore giusnaturalista: è sostanzialmente un commerciante e come tale compie un’attività speculativa basata sullo scambio. Gli atti di commercio sono gli strumenti funzionali a ricavare lucro dalle operazioni di intermediazione economica. Commerciante è chi compie speculazioni su merci (mercante), credito (banchiere), rischio (assicuratore) e lavoro (imprenditore manifatturiero). Nel codice civile del 1942 viene invece presa a riferimento un’attività non tanto tesa alla realizzazione di beni materiali quanto alla realizzazione di utilità in senso lato, è imprenditore chi svolge un’attività che ottiene come risultato il soddisfacimento di un bisogno piuttosto che la creazione di un oggetto, il che comporta che l’imprenditore sia in grado di produrre anche beni di natura immateriale. NOZIONE DI IMPRENDITORE Art. 2082 c.c. → “È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi”. → Gli elementi connotanti l’identità dell’imprenditore sono: 1. Economicità: ossia l’effettivo esercizio di un’attività produttiva di beni o servizi. 2. Organizzazione dei fattori produttivi. 3. Professionalità: tale esercizio deve essere non episodico o occasionale bensì abituale. • • ECONOMICITÀ E LUCRATIVITÀ → l’impresa è un’attività economica. È attività economica ogni attività produttiva che sia praticata rispettando un metodo economico ossia un metodo di gestione che permette all’impresa di essere autosufficiente e sostenere la propria attività. L’imprenditore deve pareggiare con i ricavi della propria impresa i costi dello svolgimento dell’attività produttiva, non è necessaria la realizzazione di un profitto. Lo scopo di lucro non costituisce un requisito essenziale dell’attività d’impresa. Occorre che i beni ed i servizi siano parzialmente destinati al mercato, in quanto se non fosse destinata alla vendita o allo scambio l’attività economica non sarebbe in grado di pareggiare i costi con i ricavi. ORGANIZZAZIONE E PROFESSIONALTÀ → l’organizzazione di un’attività economica si realizza nel coordinamento dei fattori produttivi di cui l’impresa si serve; un imprenditore organizza la propria impresa creando un apparato produttivo stabile coordinando le mansioni del personale (dipendenti) e dei collaboratori, l’adeguatezza dei locali, l’uso delle materie prime, il funzionamento di impianti e la destinazione di risorse finanziarie. • Per professionalità si intende invece l’esercizio abituale dell’attività economica, un esercizio sistematico e ripetuto nel tempo, quindi non occasionale. L’attività non deve essere necessariamente l’unica svolta dall’imprenditore, né la sua attività prevalente, né svolta senza alcun tipo di interruzioni, potrà infatti trattarsi di attività stagionali, è sufficiente che l’esercizio di quella attività sia abituale. [vedi casistiche professionista intellettuale pag. 43] L’ATTIVITÀ DELL’IMPRENDITORE L’attività dell’imprenditore si realizza nel concreto tramite atti d’impresa, ossia singole manifestazioni del comportamento dell’imprenditore. Gli atti d’impresa sono fonte di diritti, obblighi e responsabilità che costituiscono l’oggetto delle regole d’impresa. La categoria comprende atti di ogni tipo: liberi o vincolati, negoziali o non negoziali, leciti e persino non leciti, tutti rientranti nell’attività d’impresa e disciplinati dal codice civile e dalle leggi speciali. Tutti gli atti posseggono una propria e specifica durata temporale ed una propria e specifica complessità. • Inizio e fine dell’attività → il principio di effettività, di natura sostanzialista, afferma che si acquisisce lo status di imprenditore in virtù dell’effettivo inizio dell’attività e si smette di possedere tale status solo in virtù dell’effettiva cessazione di quella attività. A questo si contrappone un principio formalista secondo cui si acquista e si perde lo status di imprenditore solo con l’iscrizione o cancellazione nel registro delle imprese. Occorrerà dunque valutare atti di organizzazione (fase pre-imprenditoriale) e atti dell’organizzazione (esercizio di un’impresa già organizzata) che realizzano i caratteri di economicità e professionalità dell’impresa. • Incapacità all’esercizio d’impresa → a) Principio di legittimazione alla titolarità dell’impresa: nel nostro ordinamento chiunque è legittimato ad assumere la titolarità di un esercizio d’impresa. Infatti, secondo il canone generale tutti i cittadini sono eguali di fonte alla legge. b) Principio di conservazione del patrimonio di un soggetto incapace: la capacità giuridica si acquista al momento della nascita mentre la capacità di agire e quindi anche di esercitare attività d’impresa si acquista con il diciottesimo anno di età. Gli interessi commerciali di chi è sprovvisto di capacità di agire quale titolare di un’impresa sono curati da un legale rappresentante (minori ed interdetti – affetti da grave infermità mentale – sono assistiti da un rappresentante legale; inabilitati – condizione di ridotta capacità di agire. Ad esempio: infermo di mente non grave, tossicodipendente, minori emancipati, minore che abbia compiuto 16 anni e sia autorizzato dal tribunale a contrarre matrimonio – e beneficiari di amministrazione di sostegno sono affiancati da un curatore). • Attività illecita, apparente, occulta → da un’attività illecita (contraria alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume) può discendere la produzione di atti leciti e diritti a una controprestazione vantati da soggetti terzi che abbiano contratto in buona fede con il titolare dell’impresa. Si distingue tra impresa illegale (viola norme che ne subordinano l’esercizio a concessioni o autorizzazione amministrativa) ed impresa illecita (l’oggetto stesso dell’attività dell’impresa è illecito: produzione e spaccio di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, contrabbando). Esistono inoltre i fenomeni dell’impresa apparente e impresa occulta che di solito rilevano non singolarmente ma in aggiunta ad altri soggetti, suoi soci. La società occulta è dunque una società che non esteriorizza il vincolo che lega i propri soci; in quella apparente invece viene presentato esteriormente un vincolo societario che in realtà non esiste. [teoria dell’imprenditore occulto / teoria dell’impresa fiancheggiatrice pag. 55] 3. L’IMPRESA Alla disciplina di cui all’art. 2082 che presenta la nozione di imprenditore si affiancano gli statuti speciali di imprenditore agricolo, definito dalla norma di cui all’art. 2135, e imprenditore commerciale, definito da cinque categorie di attività qualificate come attività commerciali di cui all’art. 2195. La disciplina sull’impresa ci permetterà di individuare a seconda dei casi se è individuale-collettiva, agricola-commerciale, pubblica-privata, lucrativa-mutualistica, for profit-not for profit. IMPRESA AGRICOLA Art. 2135 c.c. → È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge. Questa è la definizione di impresa agricola così come restituitaci dal testo riformato nel 2001, è stato ampliato l’ambito applicativo della norma ed annullato il legame necessario tra sfruttamento del fondo e concetto di attività agricola. L’ordinamento riserva all’attività agricola una manciata di disposizioni codicistiche ed un maggior numero di disposizioni contenute nelle leggi speciali, la disciplina è indubbiamente privilegiata infatti l’imprenditore agricolo non è assoggettabile alle procedure concorsuali (art. 2221), non è soggetto a fallimento, non deve tenere le scritture contabili (art. 2214) e gode di agevolazioni finanziarie e fiscali. È però tenuto ad iscriversi nel Registro delle imprese per scopi di pubblicità legale. Si evince dal codice civile che esistono due categorie di attività agricola: • quella essenziale (comma I, II) incentrata sul concetto di ciclo biologico ossia ogni processo produttivo vegetale o animale riconducibile all’ambiente naturale che si concretizzi nelle attività elencate (coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali). Non si deve avere una mera attività di estrazione e raccolta bensì un’attenzione globale per la cura del terreno e del bosco, inoltre l’industrializzazione di tale attività non ne impedisce la riconduzione ai tratti dell’imprenditore agricolo (e non commerciale). • e quella connessa (comma I, III) incentrata sul legame che una seconda attività, di natura anche commerciale, ha con l’attività di cura e sviluppo del ciclo biologico. Si considerano agricole, sia pure per connessione, le attività commerciali collegate a quella agricola principale, la legge evita così che l’imprenditore agricolo muti la propria identità in imprenditore commerciale o si veda riconosciute due qualità imprenditoriali differenti (es: non è costretto ad assumere la più onerosa veste di imprenditore commerciale il viticoltore che tragga vino dalla propria uva e nel mercato immetta questo prodotto, nonostante la trasformazione del prodotto richieda un’attività di carattere industriale che ha perciò natura commerciale). Affinché l’attività sia considerata agricola per connessione devono ricorrere due caratteristiche: a) la connessione deve essere di carattere soggettivo ossia l’attività agricola connessa deve essere esercitata dal medesimo soggetto che svolge l’attività agricola essenziale (anche se l’attività connessa è svolta collettivamente da agricoltori organizzati in società cooperativa o consorzio). b) la connessione deve essere anche di carattere oggettivo, ossia i prodotti devono essere realizzati prevalentemente tramite l’attività agricola essenziale. IMPRESA COMMERCIALE Art. 2195 c.c. → Sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano: 1) un’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 2) un’attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) un’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4) un’attività bancaria o assicurativa; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti. Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano. Il comma I individua cinque tipologie di attività commerciali, elencazione che ha una valenza meramente esemplificativa e non al contrario tassativa ed esaustiva, ragione per cui può accadere che vi siano attività non riconducibili all’elenco quindi atipiche e purtuttavia commerciali; se l’attività svolta da un imprenditore non è agricola allora si tratta di un imprenditore commerciale, occorre dunque solo accertarsi per sottrazione di non essere in presenza di un imprenditore agricolo. Attività 1) e 2) ricalcano il testo di cui all’art. 2082, il primo con l’aggiunta dell’aggettivo “industriale” inteso qui in senso generico e non tecnico-economico (attività connessa alla trasformazione di materie prime o beni preesistenti secondo modalità tecnologicamente avanzate), il secondo riferito ad ogni attività di cambio quand’anche manchi uno dei due fattori che tecnicamente costituiscono l’intermediazione (acquisto e rivendita); attività 3) e 4) sono specificazioni dei servizi previsti al punto 1) per ciò che riguarda le imprese di trasporto ed i servizi bancari; al punto 5) troviamo attività ausiliarie in una categoria evidentemente residuale nella quale rientrano attività come la spedizione, l’agenzia, la mediazione ed altre sussumibili sempre al punto 1). PICCOLA IMPRESA Art. 2083 c.c. → Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. Il piccolo imprenditore non è assoggettato al fallimento (art. 2221) data la sua minor pericolosità verso il mercato rispetto ai titolari di attività produttive più ampie, è esentato dal tenere scritture contabili (art. 2214) e dall’iscrizione nel Registro delle imprese. Si ritiene che il concetto di piccolo imprenditore debba essere desunto dalla prima e dalla seconda parte della norma complessivamente considerate; pertanto, le figure indicate nella prima parte rappresentano meri esempi: coltivatore diretto, artigiano e piccolo commerciante possono dirsi piccoli imprenditori solo se rispettino il criterio della prevalenza del lavoro proprio e dei propri familiari. Il giudizio sulla prevalenza va inoltre formulato in termini qualitativi e non quantitativi: occorrerà verificare se l’apporto dell’imprenditore e della famiglia possa dirsi prevalente rispetto all’apporto altrui sulla base di una valutazione di carattere funzionale. In conclusione, affinché un imprenditore, commerciale o non, sia considerato piccolo imprenditore si devono verificare due condizioni: • l’imprenditore deve prestare il proprio lavoro nell’impresa; • il suo lavoro e quello dei familiari devono prevalere su quello altrui, sia sul capitale, proprio o altrui, investito nell’impresa. Alla nozione codicistica di piccolo imprenditore si è progressivamente affiancata una serie di fattispecie previste dalla legislazione speciale. La raccomandazione 2003/361/CE fornisce parametri di misurazione di microimpresa (organico inferiore a 10 persone e bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro); impresa piccola (organico massimo di 50 persone e fatturato massimo di 10 milioni di euro); impresa media (organico massimo di 250 persone e fatturato massimo di 50 milioni di euro). Inoltre, la l. 317/1991 in materia di interventi per l’innovazione e lo sviluppo definisce piccola impresa quella che impeghi sino a 250 dipendenti e fatturi annualmente sino a 20 milioni di euro. In Italia su poco meno di 3,5 milioni di imprese nel 2001 3.3 milioni erano microimprese, tra le cause che spiegano la modesta crescita delle imprese in Italia primeggia la difficoltà di reperimento di capitali. IMPRESA ARTIGIANA Art. 45 Cost. → “La legge provvede alla tutela ed allo sviluppo dell’artigianato” dunque quella artigiana è un’attività che gode del riconoscimento di rango costituzionale, inoltre la legge 443/1985 lo disciplina: • art. 3 “È artigiana l’impresa che, esercitata dall’imprenditore artigiano nei limiti dimensionali di cui alla presente legge, abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un’attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazione di servizi, escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali…”; • art. 2 “È imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”; • art. 1 “in conformità all’art. 117 della Costituzione, le Regioni emanano norme legislative in materia di artigianato nell’ambito dei principi di cui alla presente legge” la materia è pertanto riservata alla competenza delle regioni; • limiti dimensionali: a) sino a 18 dipendenti (22 con apprendisti) per l’imprenditore che non lavora in serie; b) sino a 9 dipendenti (12 con apprendisti) per l’impresa che lavora in serie; c) sino a 22 (40 con apprendisti) per l’impresa che svolge la propria attività nei settori delle lavorazioni artistiche, tradizionali e dell’abbigliamento su misura; d) sino a 8 per l’impresa di trasporto; e) sino a 10 (14 con apprendisti) per l’impresa di costruzioni edili. IMPRESA FAMILIARE Introdotta nel codice civile nel 1975 a seguito della riforma del diritto di famiglia in quanto si riteneva imprescindibile offrire una disciplina giuridica specifica ai casi in cui un imprenditore si avvalga della collaborazione lavorativa del coniuge, dei propri parenti o affini, la scelta del legislatore è stata fatta nel segno del rafforzamento dei legami di famiglia tradizionalmente intesi e della solidarietà che si vuole garantire al suo interno in linea con il regime di comunione dei beni. L’impresa familiare non è un’impresa collettiva e conserva la propria natura di impresa individuale per quanto pluripartecipata, inoltre NON è necessariamente una piccola impresa. Ai sensi dell’art. 230-bis è familiare l’impresa alla quale collaborino il coniuge dell’imprenditore, i suoi parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado. I familiari dell’imprenditore hanno diritto: • ad essere mantenuti sulla base delle condizioni patrimoniali di famiglia; • a partecipare ad utili, beni acquistati e incrementi aziendali in proporzione a quantità e qualità del lavoro prestato; • a partecipare alle decisioni sull’impiego di utili ed incrementi, alla gestione straordinaria ed alle decisioni sugli indirizzi produttivi e la cessazione dell’impresa. L’impresa resta formalmente individuale, pertanto, i beni aziendali sono di proprietà esclusiva dell’imprenditore, gli atti di gestione ordinaria sono di competenza esclusiva dell’imprenditore, i diritti patrimoniali e dei familiari costituiscono semplici diritti di credito nei confronti dell’imprenditore. Legge Cirinnà, l. 76/2016 ha esteso la tutela accordata alla famiglia anche alle formazioni sociali di nuovo stampo, le persone unite civilmente si vedono riconosciuti gli stessi diritti e le medesime tutele apprestati al coniuge secondo l’impianto dell’impresa familiare, per la convivenza di fatto invece solo il convivente unito stabilmente da legami affettivi di coppia che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa del convivente matura diritti patrimoniali, assenza di tutela per il convivente di fatto che lavori non nell’impresa, ma solo nella famiglia dell’imprenditore convivente, il convivente di fatto che collabori nell’impresa familiare si vede garantita una partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, ma è escluso il diritto di prelazione sull’azienda ed il diritto al mantenimento. IMPRESA PUBBLICA Secondo una tripartizione dottrinale gli enti italiani possono partecipare alla vita economica del paese svolgendo attività d’impresa in tre modi: a) assumendo una partecipazione nel capitale di una società di diritto privato; b) costituendo un ente di diritto pubblico; c) utilizzando proprie strutture organizzative, questa distinzione nel corso del tempo sta perdendo di significato sia a causa del processo di privatizzazione avviato negli anni Novanta sia a causa della legislazione speciale che ha moltiplicato le varianti di imprese pubbliche, inoltre la dottrina ha con il tempo suggerito di espungere alcune categorie di società dal novero delle imprese pubbliche per come sono classicamente intese (società a partecipazione statale totalitaria o di maggioranza assoluta, società di interesse nazionale ex art. 2451, semiamministrazioni, società che fanno di fatto parte della pubblica amministrazione, che andrebbero considerate come “finte” imprese pubbliche ma che sono formalmente iscritte al Registro delle imprese e vi si applica dunque il diritto societario italiano). Art. 16/18 l. 124/2015 “legge Madia” → contiene principi e criteri direttivi per riformare il settore delle società a partecipazione pubblica. D. lgs. 175/2016: “testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” → prevede la semplificazione del confuso dettato normativo e la razionalizzazione della spesa pubblica nelle società in cui lo Stato od altri enti pubblici esercitino attività d’impresa. Si può infine distinguere una disciplina delle imprese pubbliche di fonte codicistica costituita a sua volta da: 1. norme di diritto societario comune, applicabili a tutti dunque anche alle società a partecipazione pubblica; 2. norme specificamente dettate nel codice civile per le società partecipate dallo stato ed una di fonte extracodicistica, nella quale comunque si fanno rientrare due tipologie di norme: 1) norme dettate per società pubbliche individuate sulla base di variabili quali la natura degli enti pubblici soci o dell’entità della partecipazione; 2) norme pubblicistiche dettate specialmente per gli enti pubblici, nella misura in cui si ritenga che esse debbano essere applicate anche alle società pubbliche. IMPRESA SOCIALE L’espressione “impresa sociale” fa riferimento alle imprese private che hanno ad oggetto la produzione o scambio di beni e servizio di utilità sociale (indicati nel d.lgs. 155/2006). L’ente che eserciti un’impresa sociale deve costituirsi per atto pubblico, se è dotato di un patrimonio di almeno 20.000 euro dal momento della iscrizione nel Registro delle imprese risponde delle proprie obbligazioni, se il patrimonio è sotto di oltre un terzo la soglia citata dispone personalmente e solidalmente anche chi abbia agito in nome e per conto dell’impresa. Disciplina mediante disposizioni di carattere speciale per cui l’impresa sociale: • si iscrive nella sezione speciale del Registro delle Imprese; • deve redigere le scritture contabili; • è sottoposta a liquidazione coatta amministrativa e non a fallimento, ove insolvente; • è soggetta alla vigilanza del ministero del Lavoro. Le grole di governo (gli organi di governo) sono orientate al modello multi-stakeholder: • art. 8: a soggetti esterni all’impresa (stakeholder) è consentito partecipare al rapporto associativo (nominare componenti delle cariche sociali) ma in una misura necessariamente non maggioritaria; • art. 12: “forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività” meccanismi di informazione, consultazione e partecipazione grazie ai quali lavoratori e destinatari possano esercitare un’influenza sulle decisioni dell’impresa. Riforma l. 106/2016, principi fondamentali destinati a regolare costituzione ed organizzazione di enti privati, associazioni, fondazioni, imprese sociali, servizio civile: • art. 6: definisce l’impresa sociale quale tipologia di impresa del Terzo settore che destina gli utili al conseguimento dell’oggetto sociale, adotta modalità di gestione responsabili e trasparenti, favorisce il coinvolgimento dei dipendenti, introduce inoltre l’obbligo di redigere il bilancio sociale ex art. 2423, previsione di specifici obblighi di trasparenza e limiti in materia di remunerazione delle cariche sociali e retribuzione dei dirigenti, obbligo di nomina di sindaci che vigilino sul rispetto della legge e dello statuto e dei principi di corretta amministrazione. SOCIETÀ BENEFIT Distinta dall’impresa sociale è la società con scopo di beneficio oggetto del d.d.l. 1882/2015 ed introdotta nel nostro ordinamento con la l. 208/2015, essa rappresenta un modello per l’attività d’impresa affermatosi negli Stati Uniti nei primi anni Duemila. Si tratta di società che svolgono attività allo scopo di dividere gli utili (for profit), ma perseguendo una più attività di beneficio nei confronti di persone, comunità, territori o ambiente, beni ed attività culturali. In esse si sintetizza dunque il perseguimento di un duplice scopo: all’interno della loro attività principale che è quella economica devono perseguire uno o più effetti positivi, o ridurre gli effetti negativi, su una o più categorie, ed operino in modo responsabile, sostenibile e trasparente dovendo bilanciare l’interesse dei soci e quello dei soggetti sui quali le attività possono avere impatto, la valutazione dell’impatto comprende varie attività: • governo dell’impresa, trasparenza, responsabilità e coinvolgimento; • valutazioni di relazioni con dipendenti e lavoratori; • relazioni con fornitori, territorio e comunità locali ed impatto della società nell’ambiente. [approfondimenti sul capitolo pag. 87-90] 4. LE REGOLE DELL’IMPRESA Regole dell’impresa in generale → esiste un complesso di norme alle quali l’imprenditore deve sottomettersi indipendentemente dall’attività esercitata detta statuto dell’imprenditore, si tratta di: 1. norme costituzionali riguardanti l’attività d’impresa: • art. 41 Cost.: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. • art. 43 Cost.: A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. • art. 46 Cost.: Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende. 2. Larga parte delle norme contenute nel Libro V del codice civile italiano: “dell’imprenditore” 2082 (imprenditore), 2084 (condizioni per l’esercizio dell’impresa), 2086 (direzione e gerarchia dell’impresa), 2087 (tutela delle condizioni di lavoro); “dei collaboratori dell’imprenditore”, “del rapporto di lavoro”, “dell’azienda”, “della disciplina della concorrenza e dei consorzi”. 3. Alcune norme del libro IV tra cui l’art. 1368, comma II: Nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore, le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa. 4. Complesso delle norme previste dalla legislazione speciale. PUBBLICITÀ Gli obblighi pubblicitari a carico degli imprenditori ruotano attorno al registro delle imprese, contemplato già nel testo originario del codice civile del 1942, ma reso operativo con la legge 580/1993 ed il successivo regolamento di attuazione 581/1993 ha sopperito al problema di un universo di dati riferibili alle imprese incompleto e non organico attivando il sistema della pubblicità commerciale impostata secondo criteri di pubblicità soggettiva* (iscrizioni funzionali ad evidenziare quanto attiene all’avvio dell’attività ed ogni altra circostanza relativa all’attività reputata significativa per l’ordinamento) ed avvalendosi di modalità informatiche atte a garantire completezza, coerenza e tempestivo aggiornamento delle informazioni divulgate. Limiti → non hanno obbligo di registrazione le associazioni, le fondazioni, gli enti not for profit. Struttura del registro delle imprese → è costituito da due parti: 1) Sezione ordinaria: qui si iscrivono imprenditori individuali commerciali non piccoli, tutte le società tranne la società semplice (anche se non svolgono attività commerciale), i consorzi tra imprenditori con attività esterna, i gruppi europei di interesse economico con sede in Italia, gli enti pubblici che hanno per oggetto principale un’attività commerciale, le società estere che hanno in Italia la sede della loro amministrazione o l’oggetto principale della loro attività. 2) Sezione speciale: imprenditori agricoli, piccoli imprenditori, società semplici, artigiani, società tra professionisti, società appartenenti ad un gruppo, imprese sociali, start-ups innovative. *Contenuto → vi sono contenuti gli elementi necessari per poter identificare un soggetto economico, se si tratta di una persona fisica si tratterà dei dati anagrafici, della ditta, l’oggetto e la sede dell’esercizio d’impresa, se si tratta di una persona giuridica: atto costitutivo e sue modificazioni, nomina e revoca di esponenti dell’amministrazione. L’iscrizione è obbligatoria e tassativa. Ciò significa che l’inosservanza dei doveri di pubblicità è punita con sanzioni amministrative pecuniarie (obbligatoria) ed è inammissibile l’inclusione nel Registro di atti non previsti espressamente dalla legge (tassativa). L’ufficio del Registro delle imprese verifica la regolarità formale dei documenti ed il provvedimento con il quale l’ufficio rifiuta l’iscrizione può essere oggetto di reclamo entro 8 giorni al giudice di registro; controversa l’esistenza di un potere di controllo di legalità sostanziale. Si distinguono quattro gradi di efficacia degli atti iscritti nel Registro: 1) DICHIARATIVA: effetto giuridico grazie al quale si rendono conosciuti a tutti ed opponibili a chiunque a partire dalla loro registrazione gli atti ed i fatti pubblicati nel Registro così che terzi non possano eccepire giudizialmente di non conoscerli (nelle S.p.a. opponibilità a partire da 15 giorni dall’iscrizione). 2) COSTITUTIVA: da ciò deriva non solo la pubblicità di atti e fatti, ma la vera e propria esistenza di una situazione giuridicamente rilevante. Si ha efficacia costituiva totale quando l’iscrizione è necessaria perché atti e fatti producano effetti sia tra le parti sia verso terzi (es: iscrizione di una società di capitali), si ha invece efficacia costituiva parziale quando l’iscrizione è presupposto di effetti solo verso terzi (riduzione del capitale di società in nome collettivo). 3) NORMATIVA: conduce all’applicazione di un insieme omogeneo di disposizioni in conseguenza dell’iscrizione nel Registro (s.n.c. o s.a.s.). 4) EFFICACIA DI CERTIFICAZIONE ANAGRAFICA (PUBBLICITÀ NOTIZIA): come effetto dell’iscrizione l’atto o il fatto registrato possono essere conosciuti da terzi, ma non divengono altresì opponibili. L’iscrizione nella sezione ordinaria ha efficacia dichiarativa, con eccezione dei casi in cui la legge prescrive che si produca efficacia costituiva. Mentre, l’iscrizione nella sezione speciale ha efficacia di certificazione anagrafica eccetto che per l’imprenditore agricolo per cui l’iscrizione in questa seconda sezione ha efficacia dichiarativa. CONTABILITÀ La tenuta delle scritture contabili fornisce una rappresentazione analitica in termini quantitativi e finanziari di atti di gestione dell’impresa, componenti del patrimonio dell’imprenditore e risultato economico dell’attività, inoltre consente all’imprenditore un controllo costante sull’andamento degli affari. • art. 2114: l’imprenditore deve redigere tutte le scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa (Libro giornale, Libro degli inventari e corrispondenza commerciale tenuti sempre). Le modalità di redazione e conservazione delle scritture sono oggetto di alcuni articoli del codice civile: • art. 2219: devono essere tenute secondo le norme di un’ordinata contabilità, riferimento alla disciplina ragionieristica, indicazioni tecniche della disciplina economico-aziendale; • viene richiesta dal codice civile una regolarità estrinseca della scrittura (no spazi bianchi ed interlinee), non si possono produrre abrasioni nel testo (qualora si cancelli qualcosa deve comunque essere leggibile); • art. 2215: i libri contabili devono essere numerati progressivamente in ogni pagina con certificazione dell’ufficio del Registro delle imprese o del notaio; • art. 2215-bis: ammette la formazione e conservazione delle scritture in via informatica, anche in via esclusiva; • art. 2220: le scritture devono essere conservate per 10 anni dalla data dell’ultima registrazione. Contenuti: LIBRO GIORNALE: riporta giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio d’impresa, rappresenta quindi un registro cronologico ed analitico, la registrazione deve sempre seguire l’ordine di esecuzione ma non necessariamente deve essere fatta ogni giorno. LIBRO DEGLI INVENTARI: predisposto all’inizio dell’esercizio di impresa e successivamente ogni anno, fotografa la situazione patrimoniale dell’imprenditore, ha carattere statico ed è redatto secondo un criterio periodico, questo registro rappresenta le attività e le passività dell’impresa, nonché il patrimonio extra aziendale dell’imprenditore; l’inventario si chiude con il bilancio (stato patrimoniale, conto economico, nota integrativa) nonché con il conto di profitti e perdite. Altre scritture dette “innominate” perché non presenti nel c.c. sono: LIBRO MASTRO: registra le operazioni con criterio sistematico in base a tipologia di azioni, identità di clienti ecc. LIBRO CASSA: registra entrate ed uscite in denaro. LIBRO MAGAZZINO: registra entrate ed uscite in merci e materie prime. Efficacia → le scritture contabili valgono come mezzo giudiziale sia a favore sia contro l’imprenditore. L’art. 2709 prescrive che chiunque intenda avvalersi delle scritture contabili contro un imprenditore non può servirsi soltanto delle parti a sé favorevoli, ma deve leggere ed interpretare le scritture nella loro globalità, possono essere utilizzate da chiunque abbia un interesse ad avvalersene. Di contro possono essere utilizzate a favore dell’imprenditore solo se sono regolarmente tenute, la lite sia con un altro imprenditore, la controversia riguardi rapporti inerenti all’esercizio d’impresa. RAPPRESENTANZA Ausiliari, soggetti che contribuiscono a dirigere l’impresa, possono essere subordinati od autonomi a seconda delle forme giuridiche in cui si estrinseca il rapporto di collaborazione con l’imprenditore ossia nella presenza o meno di un vincolo di dipendenza nei confronti di quest’ultimo, entrambe le tipologie partecipano in modo determinante allo svolgimento dell’attività, ma rimangono estranei agli effetti giuridici di questa cosi come agli effetti economici in quanto non subiscono obblighi nel rischio d’impresa. Gli ausiliari dell’imprenditore (institori, procuratori, commessi) dispongono ex lege del potere di compiere atti giuridici in nome e per conto dell’imprenditore → la rappresentanza commerciale presenta dunque un regime derogatorio rispetto a quello di diritto comune e più favorevole alla rapida e sicura realizzazione delle attività negoziali. L’atto di preposizione a ruoli operativi vale come atto di investitura delle funzioni che spettano agli ausiliari e la procura in questo caso assolve alla funzione di limitare il potere di agire. • INSTITORE: • Art. 2203 “È institore colui che è preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale” insomma è il soggetto collocato al vertice della gerarchia dei soggetti che dipendono dall’imprenditore, solitamente l’institore è un lavoratore subordinato, ma può essere legato all’imprenditore anche da un semplice contratto di consulenza. • Art. 2204 “l’institore può compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa cui è preposto, salve limitazioni contenute nella procura. Tuttavia, non può alienare o ipotecare i beni immobili del preponente se non è stato a ciò espressamente autorizzato. L’institore può stare in giudizio in nome del preponente per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell’esercizio dell’impresa a cui è preposto”. • Art. 2205 “obblighi dell’institore: egli è tenuto all’osservanza delle disposizioni riguardanti l’iscrizione nel Registro delle imprese e la tenuta delle scritture contabili”. • Art. 2208 “l’Institore è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che egli tratta per il preponente per gli atti compiuti dall’institore, il terzo può agire anche contro il preponente per gli atti compiuti dall’institore pertinenti all’esercizio dell’impresa cui è preposto”. • PROCURATORI: • Art. 2209 “coloro i quali in base ad un rapporto continuativo abbiano il potere di compiere per l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio d’impresa, pur non essendo preposti ad esso” i procuratori dispongono di un potere di rappresentanza generale. • L’art. 2206 statuisce la pubblicità della procura. • L’art. 2207 sancisce l’obbligo di deposizione nel Registro delle imprese di atti di limitazione o revoca della procura. • COMMESSI: • Art. 2210 “ausiliari incaricati di compiere atti che ordinariamente comportano la specie delle operazioni di cui sono incaricati” rivestono sostanzialmente funzioni esecutive e di relazione con la clientela dell’impresa, competenti a compiere gli atti ordinari (camerieri, bottegai, cassieri). 5. I BENI DELL’IMPRESA E LA CIRCOLAZIONE DELLA RICCHEZZA AZIENDA Nozione presente all’art. 2555 c.c. → L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. Tale definizione è il corrispettivo in chiave oggettiva di quanto statuito al 2082 in chiave soggettiva, il punto di contatto sta nell’elemento dell’organizzazione (organizzata è l’attività di impresa, organizzati sono i beni che l’imprenditore utilizza), altro punto in comune è la professionalità dell’esercizio imprenditoriale, il termine “complesso” implica un uso congiunto e coordinato dei beni. Impresa ed azienda sono pertanto un’unica struttura produttiva sul piano economico che nel piano giuridico si scompone in impresa, ossia attività dell’imprenditore, ed azienda, ossia l’apparato strumentale all’esercizio dell’attività d’impresa. Secondo la teoria atomistica i beni aziendali sono beni distinti, considerabili solo se singolarmente presi (art. 2556 in caso di alienazione dell’azienda si deve rispettare la forma richiesta per ciascun bene), secondo la teoria universalistica invece i beni aziendali sono considerati come un insieme di beni a tutti gli effetti, una pluralità unica e autonoma (art. 2555 richiama espressamente il complesso di beni). Per avviamento si intende il maggior valore che i beni aziendali assumono in ragione del fatto di essere coordinati dall’imprenditore in funzione strumentale allo svolgimento dell’attività d’impresa, questo può essere oggettivo quando si fa riferimento al valore che un’impresa acquisisce con il coordinamento imprenditoriale ma indipendentemente dal titolare; è invece soggettivo quando si fa riferimento al talento ed alla competenza dell’imprenditore nella gestione dell’azienda. In caso di cattiva gestione l’avviamento può anche mancare per questo pur costituendo una qualità dell’azienda non è un suo elemento necessariamente costitutivo. TRASFERIMENTO: con il termine trasferimento non si intende una successione nell’impresa, dato che si può decidere di continuare a svolgere l’attività o di non continuare limitandosi semplicemente a trasferire l’azienda ad altri. Ciò che passa di mano è l’elemento costitutivo dell’azienda ai sensi dell’art. 2555 ossia un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività, l’insieme dei beni trasferiti (sottratti quelli che l’imprenditore non intende alienare) deve essere idoneo a consentire l’esercizio dell’attività. Non contra il nomen assegnato al contratto per realizzare il trasferimento, ma solamente il risultato negoziale voluto ed ottenuto, ciò con la ratio di scongiurare elusioni intenzionali della disciplina applicabile. Secondo l’art. 2556 i contratti che abbiano per oggetto il trasferimento d’azienda in forma pubblica o scrittura privata devono essere depositati per l’iscrizione nel Registro delle imprese entro 30 giorni, la forma scritta è richiesta per la prova del contratto e non anche per la validità di esso. CESSIONE TEMPORANEA: l’azienda può essere ceduta temporaneamente nei casi in cui viene costituita in usufrutto o concessa in affitto, la ratio della disciplina è quella di garantire all’usufruttuario/affittuario una discrezionalità gestionale adeguata al miglior sfruttamento dell’azienda ed al contempo non vedere maltrattati i beni del concedente. Secondo l’art. 2561 l’azienda va gestita sotto la ditta che la contraddistingue, senza modificarne la destinazione ed in modo da conservarne efficienza, organizzazione, impianti e scorte, al temine dell’usufrutto/affitto la differenza tra la consistenza dell’inventario iniziale e finale deve essere regolata in denaro. • Prestazioni contrattuali in corso: il trasferimento d’azienda implica altresì il trasferimento dei contratti con cui l’imprenditore mantiene in funzione l’attività d’impresa, la regola che vale per il trasferimento dei contratti nei casi di circolazione di azienda è fissata dall’art. 2558 “l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale”. • Prestazioni contrattuali eseguite: nel caso che le prestazioni siano non in corso d’opera, ma integralmente eseguite residuano crediti o debiti che passano dal cedente al cessionario in base a regole specifiche. • • Art. 2259 “la cessione dei crediti ha effetto dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese” la deroga rispetto alla regola generale consiste nella sostituzione della notifica al debitore ceduto con la notifica realizzata tramite l’iscrizione nel Registro. Art. 2260 “per ciò che concerne i debiti il cedente non è liberato dai debiti relativi all’azienda ceduta se il creditore non vi abbia acconsentito” in questo caso la deroga rispetto alla regola generale risiede nel profilo della responsabilità verso i creditori, allo scopo di evitare che la circolazione aziendale dia luogo a fenomeni elusivi; dunque, in mancanza di dichiarazione di liberazione dell’alienante da parte di ogni creditore risponderà dei debiti anche l’acquirente dell’azienda. DIVIETO DI CONCORRENZA: stabilito dall’art. 2557 “chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di 5 anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per oggetto, ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta”, la ratio di questa norma è duplice: a) proteggere l’acquirente consentendogli di trattenere la clientela che fa riferimento all’azienda trasferita; b) proteggere la libertà di iniziativa economica dell’alienante da ciò deriva il limite di 5 anni al divieto. La ragione per cui si ritiene doveroso vietare l’attività concorrenziale all’alienante è da ricondurre a due fattori: l’alienante conosce bene la propria clientela, soprattutto i fornitori e può mantenerli agevolmente fedeli a sé. Inoltre, l’alienante possiede elementi di esperienza connessi ad una data attività imprenditoriale. “Il patto di astenersi dalla concorrenza in limiti più ampi di quelli previsti dal comma precedente è valido purché non impedisca ogni attività professionale dell’alienante”. In ogni caso la sanzione per la violazione del divieto consiste, se l’inadempimento sia di non scarsa importanza, nella risoluzione del contratto di trasferimento dell’azienda e nel risarcimento del danno. [Pag.154 approfondimento sull’azienda] TITOLI DI CREDITO E DEMATERIALIZZAZIONE Il titolo di credito rappresenta un classico esempio di invenzione giuridica. È rapidamente divenuto il principale strumento di circolazione della ricchezza, in specie imprenditoriale. Inizialmente il codice di commercio si occupava solo parzialmente dei titoli di credito, limitandosi a regolare le singole tipologie di strumenti allora in uso (cambiale, assegno ecc.). Fu il codice civile a rivoluzionare le regole in materia, facendo tesoro degli studi vivantiani e introducendo una disciplina unitaria, contenuta nel libro IV (delle obbligazioni) al titolo V. Dal XII secolo compare la cambiale nella forma del pagherò e poi la cambiale tratta. Successivamente si diffonde la cambiale vera e propria, ossia il titolo che segna il passaggio da uno stato in cui il documento assume la funzione economica di un bene mobile che, circolando, fa circolare secondo le leggi sul trasferimento delle merci, il diritto in esso rappresentato. Compaiono ossia i preannunci dei caratteri fondamentali dei titoli di credito: astrattezza, letteralità, autonomia. Tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 iniziano a svilupparsi luoghi deputati alla negoziazione dei titoli. Nelle borse valori, che si affiancano alle borse merci tradizionali, cominciano ad essere trattati in particolare i titoli del debito pubblico, documenti di massa emessi dagli stati in cambio delle somme di denaro elargite loro in prestito da privati investitori, nonché le azioni emesse da compagnie come ad esempio la East India Company costituite per la prima volta in forma di società per azioni. La disciplina dei titoli di credito nel codice civile italiano si caratterizza, oltre che per l’elemento dell’unitarietà, anche per la differenziazione rispetto alla disciplina ordinaria della circolazione della ricchezza. Come mai? • Per facilitare la circolazione dei crediti, cioè una ricchezza futura. • • Tutelare in misura particolare la figura del portatore del titolo, ossia del creditore, rendendolo immune dalle eccezioni personali che avrebbero potuto essere opposte secondo il diritto comune al soggetto che gli/le avesse trasmesso il titolo. Concepiti e utilizzati come strumenti che consentono di tutelare l’acquirente che acquisti il titolo da un soggetto che può risultare non esserne proprietario. Al crocevia delle soluzioni adottate per far fronte a queste tre esigenze si pone l’opzione regolativa che fa ruotare l’intera disciplina dei titoli attorno al possesso del titolo. Il possesso è infatti una condizione che risulta immediatamente evidente e, quindi, chi acquista un titolo dal possessore può fare affidamento sulla condizione di chi gli trasmette il titolo ed essere certo, per ciò stesso, di non subire successive rivendicazioni da parte di terzi sul credito che abbia riscosso grazie al titolo (questo è l’incentivo a stimolare sia nuovi investimenti produttivi sia altri consumi). Il trucco per realizzare questo risultato è usualmente descritto come l’incorporazione del diritto nel titolo di credito ossia, detto altrimenti, il titolo incorpora e veicola il diritto di credito, che così può circolare secondo le regole di circolazione delle cose mobili, eludendo le più complesse e rischiose regole ordinarie sulla cessione dei crediti (più precisamente: nella disciplina codicistica il titolo di credito è trattato come una cosa mobile, che può perciò essere acquistata a titolo originario in virtù del suo possesso in buona fede. PRINCIPI GENERALI Le norme che disciplinano i titoli di credito riguardano tutte le tipologie di titoli e derogano rispetto al diritto comune sulla circolazione dei crediti. Le regole di riferimento sono contenute negli articoli 1992, 1993, 1994 in tema di LEGITTIMAZIONE, ASTRATTEZZA E AUTONOMIA, ai quali poi si aggiunge l’art. 1997 in tema di vincoli sul credito. La disciplina codicistisca fu, fin dal suo esordio, modellata sulla cambiale, titolo di credito astratto per eccellenza. Art. 1992 → titolato: Adempimento della prestazione, si occupa di LEGITTIMAZIONE all’esercizio del diritto menzionato nel titolo: “il possessore di un titolo di credito ha diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purché sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge. Il debitore che senza dolo o colpa grave adempie la prestazione nei confronti del possessore, è liberato anche se questi non è il titolare del diritto”. Affinché il portatore sia legittimato all’esercizio del diritto occorre che abbia acquistato in buona fede il possesso in base alla sua legge di circolazione: tramite consegna se si tratta di titolo al portatore, tramite girata se si tratti di titolo all’ordine, oppure tramite intestazione sul titolo e annotazione nel libro dell’emittente nel caso di titolo nominativo. Legittimazione attiva: si tratta della presunzione sino a prova contraria della proprietà del titolo in capo a chi ne sia possessore, presunzione dalla quale discende la titolarità del diritto in esso incorporato. Legittimazione passiva: il debitore risultante dal titolo può pagare sulla base della semplice presentazione del titolo, non essendo costretto a verificare la regolarità dei precedenti trasferimenti del documento. N.B. il creditore, o portatore del titolo, può pretendere dal debitore la prestazione senza essere tenuto a provare l’acquisto della proprietà del titolo. Per quanto riguarda il debitore invece, affinché possa dirsi liberato dall’obbligazione, non è richiesto di essere in buona fede bensì, più semplicemente, di non essere in dolo o colpa grave. Art. 1993 → titolato: Eccezioni opponibili, descrive indirettamente i caratteri di ASTRATTEZZA e LETTERALITÀ: “il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali, le eccezioni di forma, quelle che sono fondate sul contesto letterale del titolo, nonché quelle che dipendono da falsità della propria firma, da difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione, o dalla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio delle azioni. Il debitore può opporre al possessore del titolo le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori, soltanto se, nell’acquistare il titolo, il possessore ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo” (quest’ultimo caso viene chiamato exceptio doli). N.B. Eccezioni reali: opponibili a qualunque portatore del titolo (eccezioni di forma, eccezioni fondate sul contesto letterale del titolo, falsità della firma, difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione del titolo). Eccezioni personali: opponibili solo a un determinato portatore (riguardanti i rapporti personali nei confronti dei precedenti possessori del titolo). Art. 1994 → titolato: Effetti del possesso di buona fede dal quale si notano i profili di AUTONOMIA dei titoli di credito: “chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito, in conformità delle norme che disciplinano la circolazione, non è soggetto a rivendicazione”. Si tratta ad essere precisi di un carattere di autonomia in sede di circolazione. Per quanto riguarda il possesso si precisa che per possesso conforme alle norme sulla circolazione s’intende il già citato possesso qualificato, ossia il possesso del giratario in caso di titolo all’ordine, e il possesso dell’intestatario sul titolo e nel registro in caso di titolo nominativo. Per quanto riguarda la buona fede anche qui la buona fede si presume, sicché chi contesti la pretesa del possessore in buona fede dovrà essere in grado di provare il contrario in giudizio. Questo vuol dire che il possessore in buona fede acquista il titolo di credito a titolo originario, sicché diviene proprietario del titolo e del relativo diritto (quindi anche se ad esempio abbia acquistato da un ladro, se ciò è avvenuto in buona fede). Esempio del ladro: il ladro essendo venuto in possesso del titolo irregolarmente non diviene proprietario del titolo, ma è comunque legittimato ad esercitare il diritto (dissociazione tra titolarità e legittimazione). Per distinguere le forme di circolazione regolari da quelle irregolari, basterà verificare se il trasferimento del titolo sia avvenuto in base a un valido negozio di trasmissione o meno. Art. 1997 → titolato: Efficacia di vincoli sul credito, riporta che “il pegno, il sequestro, il pignoramento e ogni altro vincolo sul diritto menzionato in un titolo di credito o sulle merci da esso rappresentate non hanno effetto se non si attuano sul titolo”. Norma che merita di essere ricordata da momento che rafforza la pretesa del possessore del titolo di credito disponendo che quei vincoli devono risultare dal titolo medesimo. Diversamente non avranno effetto. In conclusione: il possessore di un titolo, legittimato nelle forme richieste dalla legge per la sua circolazione (ex art. 1992), acquisisce un diritto autonomo rispetto alla posizione dei precedenti possessori sia per quanto riguarda il contenuto del diritto acquistato (ex art. 1993), sia per quanto riguarda la titolarità del diritto acquistato e il suo esercizio (ex art. 1994), sia per quanto riguarda i vincoli non riportati sul titolo (ex art. 1997). CIRCOLAZIONE Semplificando al massimo: i titoli al portatore circolano tramite la consegna del titolo, i titoli all’ordine tramite la consegna del titolo sul quale sia apposta la girata, quelli nominativi tramite la consegna del titolo sul quale sia apposto il nome del possessore in aggiunta all’annotazione sul libro dell’emittente. Titoli all’ordine e titoli nominativi hanno in comune il fatto di presentare il nome del possessore. I titoli al portatore e i titoli nominativi hanno in comune il fatto di essere emessi in serie in conseguenza di operazioni di massa, differiscono quindi dai titoli all’ordine che invece sono emessi in conseguenza di operazioni individuali. Titoli al portatore Art. 2003: “Il trasferimento del titolo al portatore si opera con la consegna del titolo. Il possessore del titolo è legittimato all’esercizio del diritto in esso menzionato in base alla presentazione del titolo”. Legittimazione attiva: si intende la condizione, riconosciuta al possessore qualificato del titolo, di esercitare il diritto in questo incorporato. Legittimazione passiva: sulla base di questa, il debitore che adempia alla prestazione richiesta dal possessore del titolo viene per ciò stesso liberato, a meno che sappia o non possa non sapere che il possessore non è titolare del diritto. I titoli al portatore sono tipici, ossia la loro emissione è ammessa nelle sole ipotesi espressamente contemplate dall’ordinamento (esigenza di vigilanza su volumi di liquidità monetaria). Possono essere: assegni bancari, libretti di deposito, azioni di risparmio, obbligazioni di società, azioni SICAV, quote di fondi comuni, titoli di debito pubblico (ossia tutti titoli emessi in serie). Il passaggio del loro possesso non deve essere documentato in alcun modo: né tramite girata né tramite iscrizione in libri o registri. Titoli all’ordine La legittimazione ad avvalersi del diritto incorporato in un titolo all’ordine si trasferisce con la consegna del titolo e con la girata. La girata costituisce l’elemento cardine della disciplina dei titoli all’ordine. Art. 2008: “il possessore di un titolo all’ordine è legittimato all’esercizio del diritto in esso menzionato in base a una serie continua di girate”. La girata è la dicitura che il possessore del titolo di credito, detto girante, appone sul titolo, normalmente sul retro del medesimo, tramite la quale viene richiesto al debitore di adempiere a favore di un altro soggetto, detto giratario (“deve essere scritta sul titolo e sottoscritta dal girante”). È poi possibile una serie continua di girate (A soggetto creditore e primo portatore del titolo di credito, non si rivolge al debitore per chiedere l’adempimento della prestazione incorporata nel titolo, ma gira il titolo a B, ossia scrive la formula citata e appone la sua firma. Se B, a sua volta, non intende esigere la prestazione può girare il titolo a C, utilizzando la medesima formula e firmando e così via). È necessario che il nome del girante coincida con quello del precedente giratario e che tale corrispondenza possa essere fatta risalire, in via ininterrotta, sino ad arrivare al primo prenditore del titolo di credito. Il girante si trova in una condizione favorevole dal momento che, in conseguenza della girata, non assume alcuna obbligazione. La girata può essere: 1. Piena: contiene il nome del giratario. 2. In bianco: è costituita solo dalla firma del girante. In questo caso il giratario ha 3 possibilità: a) può riempire la girata e avvalersi del titolo; b) può girare il titolo (in pieno o in bianco); c) può trasferire il titolo senza riempire la girata e senza apporne una nuova (come se fosse un titolo al portatore). La girata parziale è dichiarata nulla in base al carattere di assolutezza. Esistono poi due tipi di girate, definite speciali, accomunate dal fatto di produrre effetti limitati: a) girata per procura: il giratario assume la funzione di rappresentante del girante per l’incasso (usualmente una somma di denaro a favore del girante); b) girata in garanzia: si chiama così perché attribuisce al giratario un diritto di pegno sul titolo a garanzia del credito che costui vanti nei confronti del girante (a vantaggio del giratario). Titoli nominativi La legittimazione ad avvalersi del diritto incorporato in un titolo nominativo si trasferisce con la consegna e l’annotazione del nome sul titolo e nel registro dell’emittente. Rispondono all’esigenza di sostenere giuridicamente le esigenze proprie di operazioni non individuali ma di risparmio di massa, operazioni che in quanto tali si realizzano con emissioni in serie. Richiedono l’intestazione del possessore del titolo nel registro dell’emittente, adempimento che richiede all’emittente di collaborare affinché il trasferimento abbia successo. Dal punto di vista economico stiamo parlando di operazioni di mobilitazione della ricchezza e di sollecitazione del risparmio diffuso (es. emissione di azioni e di obbligazioni e di obbligazioni societarie, o emissione di titoli del debito pubblico). L’intestazione nominale e l’annotazione del nome nel registro dell’emittente garantiscono la conoscibilità del possessore nel corso del tempo e quindi rendono la circolazione più controllabile e sicura. Trasferimento in due modi: • Tramite transfert: a sua volta è di due tipi a seconda che si realizzi su iniziativa dell’acquirente o su iniziativa dell’alienante: 1) Iniziativa dell’acquirente: egli sarà tenuto a provare di essere proprietario del titolo. Dovrà dimostrare il suo diritto mediante atto autentico (contratto per iscritto con firma autenticata dal notaio). 2) Iniziativa dell’alienante: adempimenti meno onerosi, egli già risulta come doppio intestatario sul titolo e nel registro. Occorrerà solo che l’alienante provi la propria identità e la propria capacità di disporre con certificazione notarile. • Tramite girata: molto più diffusa. “Il titolo nominativo può essere trasferito tramite girata autenticata da un notaio o da un agente di cambio. La girata deve essere datata e sottoscritta dal girante e contenere l’indicazione del giratario. Il trasferimento tramite girata non ha efficacia nei confronti dell’emittente fino a che non ne sia fatta annotazione nel registro”. L’efficacia del trasferimento non si riscontra prima dell’annotazione. N.B. la doppia annotazione, per quanto necessaria, può avvenire in tempi diversi e da parte di soggetti diversi. Infatti, solo il giratario che abbia interesse a esercitare i diritti menzionati nel titolo chiederà l’annotazione nel registro, e ciò significa che svariati passaggi di mano potranno rimanere sconosciuti all’emittente. E mentre l’annotazione sul titolo è fatta dall’alienante, quella sul registro è fatta dall’emittente. Diversamente dai titoli all’ordine quindi la legittimazione piena si raggiunge solo con la coincidenza tra le risultanze dell’intestazione sul titolo e quelle del registro dell’emittente. Prima di quel momento il trasferimento non ha efficacia nei confronti dell’emittente e perciò i diritti incorporati nel titolo non potranno essere esercitati (eccezione → azioni societarie: il possesso del titolo azionario in base ad una serie continua di girate è sufficiente per la legittimazione all’esercizio di diritti sociali). Ammortamento: ossia ipotesi di perdita involontaria dei titoli di credito: distruzione, smarrimento, sottrazione. • Titoli al portatore: in quanto non nominativi non è dato ricorrere all’autorità giudiziaria per bloccarne la circolazione. Salvo quindi disposizioni di leggi speciali, non è ammesso l’ammortamento dei titoli al portatore smarriti o sottratti. Per quanto riguarda invece il deterioramento dei titoli se tuttora identificabili possono essere sostituiti da titoli equivalenti. • Titoli all’ordine e nominativi: possessore del titolo può fare denuncia e chiedere l’ammortamento con il ricorso al presidente del tribunale. Il presidente compie atti di accertamento e poi si pronuncia con decreto pubblicato sulla gazzetta ufficiale e notificato al debitore. A partire dalla notifica il titolo perde la funzione di legittimazione, ma il debitore non può pagare prima che siano passati 30 giorni dalla pubblicazione. Se non ci sono opposizioni entro 30 giorni il decreto di ammortamento diviene definitivo e sostituisce il titolo rimasto in circolazione. DEMATERIALIZZAZIONE Si fa riferimento ad un processo sicuramente complesso e probabilmente non concluso che nel corso del tempo ha condotto alla dematerializzazione della circolazione delle principali tipologie di titoli di credito, per un verso, e alla dematerializzazione dei titoli medesimi (c.d. decartolarizzazione). I fini di questo processo riguardano l’esigenza di rendere più veloce, sicura, semplice e giuridicamente certa la circolazione dei titoli in quanto beni che, denotati da cartacea materialità, si prestano a essere oggetto di deterioramento, distruzione, smarrimento. Cosa si è fatto: disciplina progressivamente integrata da disposizioni intese ad affidare la creazione e la trasmissione dei titoli a forme elettroniche e modalità telematiche o informatiche. Le principali forme normative sono 3 e perseguono, in aggiunta e in parallelo all’obiettivo della dematerializzazione, quello della gestione accentrata di titoli e strumenti finanziari: • Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF) del 1998. • Disposizioni per l’introduzione dell’euro nell’ordinamento nazionale (del 1998). • Attuazione della direttiva 2007/36/CE, relativa all’esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate. La gestione accentrata di strumenti finanziari rappresentati da titoli emessi da enti privati è esercitata da società per azioni, anche senza fine di lucro, che abbiano per oggetto esclusivo la prestazione di questo servizio, in possesso di risorse finanziarie e di requisiti predeterminati dalla legge, sottoposte a vigilanza da parte della CONSOB e della BANCA D’ITALIA e amministrate, dirette e controllate da soggetti a loro volta in possesso di requisiti prefissati. Alle società di gestione si affiancano gli intermediari (banche, società di gestione del risparmio, ecc.) deputati a immettere gli strumenti finanziari nel sistema. • Emittenti: soggetti che creano gli strumenti negoziati nel sistema. • Titolari degli strumenti finanziari: risparmiatori, soggetti che in virtù di un contratto di deposito di titoli in amministrazione diano incarico all’intermediario di subdepositare gli strumenti presso la società di gestione. Il titolare dello strumento finanziario e l’intermediario stipulano un contratto di deposito che attribuisce al depositario la facoltà di procedere al subdeposito degli strumenti finanziari presso la società di gestione accentrata. Con il subdeposito la società di gestione accentrata viene legittimata a compiere tutte le operazioni inerenti alla gestione nonché le azioni conseguenti all’eventuale distruzione, smarrimento o sottrazione degli strumenti finanziari. Oggetto di gestione accentrata possono essere tre tipi di strumenti finanziari dematerializzati: a) gli strumenti finanziari negoziati o destinati alla negoziazione sui mercati regolamentati italiani; b) gli strumenti finanziari diversi dai primi che siano assoggettati al regime di dematerializzazione per regolamento da parte di Consob e Banca d’Italia; c) gli strumenti finanziari che l’emittente stesso decida di assoggettare al regime di dematerializzazione. 6. I DIRITTI DELL’IMPRESA E LA CIRCOLAZIONE DELLE IDEE SEGNI E DIRITTI DISTINTIVI Ora analizzeremo le regole che tutelano la riconoscibilità dell’impresa, dei prodotti della sua attività e le invenzioni industriali. I diritti di proprietà intellettuale sono costituiti da tre categorie rilevanti per l’attività d’impresa: a) segni distintivi; b) i diritti sulle opere dell’ingegno; c) i diritti sulle invenzioni industriali. Sono compresi nel codice civile complessivamente dall’art. 2563 al 2594 e che non esauriscono la disciplina (molto importante anche la legge sulla “protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio” e, soprattutto, il “codice della proprietà industriale”). Nel loro complesso si tratta di norme, in larga misura di derivazione comunitaria ed internazionale, che hanno finito per contenere quelle di rilievo sostanziale maggiore, con riguardo a tutti e tre i versanti accennati, e che tuttavia non hanno abrogato le disposizioni del codice civile. PRINCIPI GENERALI La regolazione dei segni distintivi non ha creato controversie particolarmente accese. Sia giuristi sia economisti concordano sul fatto che il diritto commerciale debba vietare i comportamenti, intenzionali o meno, idonei a ingegnare confusione sull’identità di un imprenditore (bisogna quindi tutelare l’identità dell’impresa) in base a 2 principi: • Principio di unitarietà: è vietato utilizzare come ditta, ragione o denominazione sociale o insegna il medesimo segno già usato da altri come marchio, e simmetricamente è vietato adottare come marchio l’altrui ditta, ragione o denominazione sociale o insegna. L’adozione di un segno distintivo conferisce all’imprenditore che lo ha adottato il diritto esclusivo ad utilizzarlo. • Principio di relatività: il titolare di un marchio registrato gode del diritto di uso esclusivo del segno unicamente per la classe o le classi merceologiche indicate nella domanda di registrazione e per i prodotti affini, mentre il titolare della ditta o dell’insegna gode del diritto di impedire l’uso di questi segni distintivi solo per attività analoghe o affini all’attività svolta e all’interno dell’ambito territoriale nel quale egli operi. Il dibattito è aperto circa l’utilità di norme che consentono l’uso monopolistico delle idee che possono essere oggetto di diritti d’autore e di brevetto. Infatti è vietato a chiunque sfruttare un’invenzione brevettata da altri senza il permesso di chi l’ha brevettata per primo. Diversamente il diritto d’autore tutela nei confronti di più limitate pratiche di divulgazione mediatica di un’opera dell’ingegno. Da queste premesse studi di natura economica hanno concluso in senso sfavorevole all’utilità di brevetti e copyright, infatti si ritiene che essa ostacolerebbe la circolazione delle idee impedendo alle medesime di essere condivise, integrate, sviluppate a tutto vantaggio del processo di innovazione e ammodernamento economico e sociale. In altri termini, il diritto di monopolio su un’invenzione si presterebbe facilmente a ritardare, ostacolare o addirittura impedire del tutto le innovazioni che invece potrebbero essere sviluppate come conseguenza della prima invenzione. Questa disciplina inoltre favorisce la cattura di rendite, ossia il comportamento inteso a reperire e utilizzare risorse imprenditoriali, umane e materiali, al fine di limitare la concorrenza facendosi attribuire privilegi di carattere legale e di poter essere così più competitivi dal punto di vista produttivo. Obiettivo vantaggioso sul piano privato ma dannoso sul piano sociale. In condizione di monopolio intellettuale, cioè quello assicurato dall’esistenza di brevetti, l’innovatore è posto nella condizione di appropriarsi di una quota consistente del surplus sociale che egli stesso ha generato con la propria invenzione; laddove non esistano tutele brevettuali l’innovatore forse lucrerebbe meno. Ma quindi: i brevetti ostacolano la diffusione delle idee? Un inventore sceglierà di brevettare la propria invenzione se, senza l’aiuto della protezione legale, tema di riuscire a mantenerla segreta per meno della durata del brevetto (20 anni); sceglierà invece di non brevettare se immagini di poter mantenere il segreto su di essa per più di 20 anni anche senza brevetto. Conseguenza: le invenzioni che senza brevetto si potrebbero proteggere per meno di 20 anni, per colpa del brevetto sarebbero monopolizzate per 20 anni. In conclusione, secondo questa teoria il brevetto o non servirebbe, o peggiorerebbe le cose. Quello che fa il legislatore è cercare dei compromessi per provare a non danneggiare nessuno: • L’imprenditore ha il diritto all’uso esclusivo dei propri segni, ma si tratta di un diritto relativo e strumentale rispetto all’obiettivo di distinguere la sua attività imprenditoriale, e con ciò i suoi prodotti o servizi, da quella dei concorrenti. • L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi e diritti di proprietà intellettuale, però anche in questo caso occorre minimizzare i rischi di confusione e di sviamento della clientela e del pubblico in genere. LA DITTA E L’INSEGNA DITTA La ditta è il nome utilizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività d’impresa. A differenza del marchio e dell’insegna, la ditta è un segno distintivo che gli imprenditori iscritti nel registro delle imprese devono necessariamente adottare. È quindi OBBLIGATORIA ove sia esercitata un’attività d’impresa registrata. Chi non è obbligato può comunque adottarla al fine di far conoscere o promuovere meglio la propria attività. Comunque sia formata la ditta deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore. Se non è adottata una ditta diversa, la ditta riproduce il nome dell’imprenditore (in questo caso detta ditta originaria). L’imprenditore può anche adottare una DITTA DERIVATA, ossia a lui trasferita da un altro imprenditore. In tal caso la legge non impone che alla ditta originaria siano aggiunti il cognome o la sigla del nuovo imprenditore (norma vantaggiosa per l’imprenditore perché i consumatori se non informati crederanno di contrarre con il titolare originario, la clientela qui è tutelata solo dalle disposizioni che censurano la pubblicità ingannevole). Il risultato è che un imprenditore può avere più ditte: una originaria e una o più derivate. La ditta rappresenta uno strumento di comunicazione della reputazione dell’imprenditore, di attrazione della clientela e di potenziale vantaggio competitivo. La ditta è tutelata come bene immateriale che conferisce un valore patrimoniale. • Art. 2563: l’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta. • Art. 2564: la ditta uguale o simile, utilizzata da altri imprenditori in un’epoca successiva, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla. In caso di conflitto tra imprenditori prevale chi per primo abbia utilizzato quella ditta, se il conflitto riguarda imprese commerciali prevale chi per primo abbia iscritto la ditta nel registro delle imprese. • Art. 2565: disciplina il trasferimento della ditta con 3 regole: 1) la ditta NON può essere trasferita separatamente dall’azienda; 2) nel trasferimento tra vivi la ditta non passa all’acquirente senza il consenso dell’alienante; 3) nella successione dell’azienda per causa di morte la ditta si trasmette al successore, salvo diversa successione testamentaria. Concentrandoci sui primi due commi possiamo dire che la ditta deve poter essere trasferita perché è un bene immateriale dotato di un considerevole valore economico. Il cedente ha un evidente interesse a utilizzare e monetizzare la ditta come valore di scambio; il cessionario ha un non meno rilevante interesse a che sia garantita la continuità dell’avviamento, ossia ad utilizzare un nome commerciale capace di richiamare la clientela e perciò a realizzare una certa quantità di profitti. La disciplina sul trasferimento è sottesa anche da una funzione pubblicistica di tutela dei consumatori da eventi ingannevoli. A scongiurare il rischio di inganno di provenienza di prodotti, la disposizione prescrive che il trasferimento non sia disgiunto dal trasferimento dell’azienda (dev’essere garantito che la ditta si riferisca al medesimo e originario organismo produttivo). INSEGNA Quando l’insegna sia uguale o simile a quella usata da altri imprenditori, e possa creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa sia esercitata, dovrà essere integrata o modificata in modo tale da differenziarla. Questa è il segno distintivo che serve per identificare ogni azienda (contraddistingue i locali dell’impresa). Essa quindi è un rilevante strumento di attrazione della clientela, soprattutto per quegli imprenditori che puntano a richiamare clienti e accoglierli in locali aperti al pubblico. Possono applicarsi dei principi comuni come alla ditta e al marchio: • non deve essere ingannevole; • deve distinguere il soggetto imprenditoriale al quale si riferisce; • non deve contrastare con l’ordine pubblico e il buon costume. Nulla è detto per quanto riguarda il trasferimento dell’insegna, che però tende ad essere ammesso secondo le regole che guidano il trasferimento del marchio. Sicché deve ritenersi lecita la licenza concessa in via non esclusiva e, in conseguenza, il couso della medesima da parte di più imprenditori tra loro collegati. Come tipicamente avviene nelle catene distributive organizzate e gestite in franchising. IL MARCHIO È il più importante dei segni distintivi, poiché il marchio differenzia i prodotti di un imprenditore dai prodotti dei propri concorrenti. Nel codice civile si occupano del marchio 6 articoli: dal 2569 al 2574. Più importante è una sezione (20 articoli), titolata Marchi, del Codice della proprietà industriale più una serie di disposizioni comunitarie e internazionali. • MARCHIO COMUNITARIO: quando viene registrato presso l’ufficio comunitario dei marchi, producendo i suoi effetti nel complesso dell’UE. Ciò significa che il marchio comunitario è esattamente lo stesso in tutti i paesi europei, e che il suo detentore è titolare di un diritto unitario. • MARCHIO INTERNAZIONALE: dev’essere registrato presso l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale, che ha sede a Ginevra. Non essendo un marchio unico il marchio internazionale è in realtà costituito da un complesso di marchi nazionali, dei quali è però agevolata la registrazione, e tali per cui il titolare può vantare diritti analoghi nei diversi paesi in cui si chiede che il marchio sia tutelato. In entrambi i casi la registrazione dà diritto al suo uso esclusivo ed è essa che rende effettiva la loro tutela. Funzioni del marchio: 1) Distintiva: poiché differenzia i prodotti di un imprenditore dai prodotti dei propri concorrenti. 2) Indicazione della provenienza: nel senso che, grazie al marchio, il consumatore è il grado non solo di distinguere un prodotto da un altro omologo, ma anche di ricollegare quel prodotto a una certa sede o modalità produttiva. 3) Attrattiva: nel senso che, come conseguenza della diffusione di marchi noti e apprezzati, tende a verificarsi un effetto di attrazione del pubblico, esercitato dai marchi famosi, verso altri prodotti simili ma meno conosciuti. Precisazioni: recentemente è stato rimosso il vincolo che univa marchio e azienda, sicché in passato la funzione di indicazione della provenienza poteva dirsi protetta davvero. Oggi invece il marchio può essere ceduto separatamente dall’azienda. Oggi inoltre è consentito il couso del medesimo marchio da parte di più imprenditori concorrenti sulla base di una licenza di marchio non esclusiva. (es. prodotti coop: produttori diversi immettono in commercio prodotti uguali e contraddistinti dallo stesso marchio). Marchio celebre: Recentemente è stata tratteggiata una disciplina specifica per i marchi c.d. celebri, sicché ora la loro funzione attrattiva può considerarsi protetta davvero. Oggi infatti il titolare del marchio celebre può impedire che altri imprenditori si avvalgano del medesimo marchio per contrassegnare prodotti anche completamente diversi dai propri ed ottenere che sia riconosciuto così il proprio diritto di utilizzazione esclusiva. In altri termini mentre i marchi ordinari sono tutelabili solo se sussista il rischio di confusione con il marchio di prodotti affini, per quelli celebri vale la regola per cui indipendentemente dal grado di affinità è sufficiente che si tragga “indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore”. Vari tipi di marchio riconosciuti dal nostro ordinamento: • Di fabbrica: apposto sul prodotto dal fabbricante. • Di commercio: apposto sul prodotto da parte del rivenditore (in questo caso potrebbe darsi che appaiono due marchi sul prodotto: quello del rivenditore e quello del fabbricante, che non può essere tolto). • Individuale: contrassegna i prodotti di un singolo imprenditore. • Collettivo: distingue prodotti di una pluralità di imprenditori associati al fine di garantire “l’origine, la natura o la qualità” di dati prodotti. • Di prodotto: per distinguere i prodotti di un imprenditore. • Di servizio: per distinguere un insieme di attività imprenditoriali. • Generale: se identifica tutti i prodotti di un imprenditore. • Speciale: quando individua le differenze qualitative proprie di serie specifiche di prodotti, ciò che spesso avviene nello stesso ambito della categoria produttiva contrassegnata dal marchio generale (si pensi alla marca generale dell’auto e al suo modello specifico). • Denominativo: costituito solo da parole. • Figurativo: quando realizzato con figure, lettere, cifre e disegni. • Misto: combinando parole e figure. • Forte: marchio di pura invenzione (es. nutella), privo di aderenza concettuale con il prodotto, e come tale particolarmente distintivo. • Debole: marchio parzialmente descrittivo, che echeggi parole ricollegabili al prodotto. Poco tutelato perché bastano minime modifiche perché un altro marchio sia ammesso sul mercato. N.B. Un marchio debole può diventare forte, grazie soprattutto alla pubblicità che ne sia stata fatta. In questo caso si parla di secondary meaning da parte del marchio e si tratta di una possibilità che dimostra come un imprenditore, con un investimento pubblicitario consistente e ben realizzato, sia in grado di creare autonomamente condizioni adeguate a giustificare la protezione legale di un proprio marchio. Per poter essere tutelato dalla legge il marchio deve possedere 4 requisiti ovvero essere: 1) Lecito: non deve contenere segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume, né danneggiare altrui diritti esclusivi, e non può consistere in un ritratto senza il consenso della persona riprodotta. 2) Vero: non deve contenere segni idonei a ingannare il pubblico. 3) Originale: deve distinguere il prodotto rispetto ad altri prodotti del medesimo genere. 4) Nuovo: non confondibile con un marchio altrui precedentemente registrato o usato, né con altri segni distintivi. Registrazione: Può registrare il marchio chi lo utilizzi o si proponga di farlo, e il titolare gode del diritto all’uso esclusivo su tutto il territorio nazionale, quale che sia l’effettiva diffusione del prodotto. Sicché il titolare potrà vietare ai terzi: • di utilizzare un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici; • di utilizzare un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni, possa prodursi un rischio di confusione per il pubblico; • di utilizzare un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se nell’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o rechi pregiudizio agli stessi. Registrando il marchio si ha il diritto all’uso esclusivo per 10 anni, l’iscrizione può poi essere rinnovata per un numero illimitato di volte. La registrazione nazionale costituisce il presupposto per estendere la sua tutela e ottenere il riconoscimento di marchio internazionale. Marchio di fatto: chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso. In questo caso però l’imprenditore non potrà distribuire il prodotto al di fuori del proprio ambito territoriale, né potrà impedire che un altro imprenditore si avvalga del suo marchio per contrassegnare lo stesso prodotto in un ambito diverso dal territorio nazionale. La tutela riconosciuta dalla registrazione del marchio può venir meno: a) per nullità del marchio (in ragione della mancanza dei requisiti); b) per la sopravvenuta illiceità o ingannevolezza del marchio; c) per la volgarizzazione, ovvero quando il marchio abbia perso la propria capacità distintiva; d) per il mancato uso nei 5 anni conseguenti alla registrazione, salvo motivo che lo giustifichi. Questa regola non vale per marchi protettivi, ossia marchi registrati al solo scopo di impedire che altri li utilizzino, purché l’imprenditore paghi la tassa di registrazione. Il marchio può essere trasferito a titolo definitivo o dato temporaneamente in licenza. Per quanto riguarda il trasferimento definitivo, “il marchio può essere trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato”. Per quanto riguarda il trasferimento temporaneo, ossia la licenza, “il marchio può essere oggetto di licenza anche non esclusiva per la totalità o per parte dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato e per la totalità o parte del territorio dello Stato”. Tutele da garantire nei confronti del pubblico, affinché i consumatori non risultino ingannati circa la provenienza del prodotto, sono di due tipi: 1) Tutela di ordine generale: valevole sia per il trasferimento sia per la licenza, secondo la quale “in ogni caso, dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico”. 2) Tutela specifica: valevole solo per la licenza, secondo la quale il licenziatario si obbliga espressamente “a usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati nel territorio dello Stato con lo stesso marchio del titolare o da altri destinatari”. In pratica si tratta della stessa forma di tutela con una clausola che si aggiunge nel secondo caso. DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE Facciamo riferimento all’insieme delle norme che riguardano il diritto d’autore (copyright). Da un lato si riconosce all’autore un diritto di sfruttamento in condizione di monopolio dei propri prodotti, in modo tale da stimolare l’autore per via dei profitti che così gli vengono garantiti, incentivando nel contempo, grazie ad un effetto propulsivo, lo sviluppo della cultura e dell’informazione conseguente alla produzione e alla divulgazione, sia pure controllata, dei medesimi beni. D’altro lato però la società non può godere delle condizioni economiche di divulgazione dei prodotti praticabili in un opposto regime di concorrenza. Si arriva quindi ad un compromesso, una durata lunga ma limitata. PRINCIPI GENERALI Art. 2575: “formano oggetto del diritto di autore le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione”. Vi rientrano anche i programmi per elaboratore (software) e le “banche di dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione intellettuale dell’autore”. Le opere di ingegno sono beni immateriali che letteralmente si realizzano in beni materiali che li contengono e che ne consentono la fruizione e la distribuzione. Su queste opere sono riconosciuti diritti morali e patrimoniali: • Diritto morale: costituisce un diritto della personalità, irrinunciabile, inalienabile e svincolato dalla cessione a terzi del diritto patrimoniale e si concretizza nel: diritto alla paternità dell’opera, diritto a non pubblicare l’opera, diritto ad opporsi ad ogni modificazione, diritto a ritirare l’opera dal commercio. • Diritto patrimoniale: costituisce un diritto di proprietà su quel genere particolare di bene immateriale che è un’opera dell’ingegno, ed è perciò liberamente trasferibile o negoziabile tramite contratti che, non intaccando la titolarità da parte dell’autore, consentono ad altri lo sfruttamento dell’opera. Si concretizza nello sfruttamento dell’opera in via diretta da parte dell’autore, nonché nello sfruttamento in via indiretta mediante la cessione dei diritti, definitivamente o temporaneamente, a soggetti terzi. • Riconoscimento di una privativa: ossia di una serie di diritti che consentono all’autore di escludere chiunque altro da quanto attiene al riconoscimento della titolarità e all’utilizzo della propria opera. IL DIRITTO D’AUTORE Dura 70 anni dalla morte dell’autore, dopo l’opera diventa di pubblico dominio. Si tratta come detto di una figura lunga ma non perpetua. Questo termine però riguarda solo i profili patrimoniali: il diritto morale è invece riconosciuto indefinitamente. Art. 2576: “il titolo originario dell’acquisto del diritto di autore è costituito dalla creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale”. La legge ammette che si possa ricorrere a soluzioni alternative per divulgare le opere dell’ingegno, poiché il diritto di utilizzazione economica di tali opere è liberamente trasferibile, in forma unitaria o meno, tra vivi o a causa di morte: • Contratto di edizione: l’autore può concedere all’editore l’esercizio dei diritti di utilizzazione dell’opera, che l’editore pubblica e mette in commercio a proprie spese. L’autore si obbliga quindi a consegnare l’opera nelle condizioni stabilite dal contratto e a garantire il pacifico godimento dei diritti ceduti per tutta la durata del contratto. L’editore invece si obbliga a riprodurre e porre in vendita l’opera con il nome dell’autore e pagare all’autore i compensi pattuiti. L’editore non può trasferire ad altri senza il consenso dell’autore i diritti acquistati. Salvo patto contrario il compenso dell’autore è pattuito in percentuale rispetto al prezzo di copertina degli esemplari venduti. Il prezzo di copertina è a sua volta fissato dall’editore. Il contratto di edizione non può avere durata superiore ai 20 anni. Per quanto riguarda poi opere non ancora create, devono rispettarsi le regole seguenti: • è nullo un contratto che abbia a oggetto tutte le opere che l’autore possa creare, senza limiti di tempo; • è valido invece un contratto con cui si trasferiscono i diritti relativi a opere ancora da crearsi, se la durata non sia superiore a 10 anni; • se in un contratto di edizione sia stata determinata l’opera che l’autore deve creare, ma non sia anche stato fissato il termine della consegna, l’editore ha sempre il diritto di ricorrere all’autorità giudiziaria affinché sia stabilito un termine. Se l’autore muore in corso d’opera l’editore può considerare risolto il contratto, ma può anche considerarlo compiuto per la parte consegnata, e pagare all’autore un compenso proporzionato ai familiari (possibile solo se l’autore non abbia detto che non vuole pubblicare cose non finite, se lo farà occorre risarcire il danno). TUTELE Le opere dell’ingegno sono tutelate anche attraverso specifiche sanzioni civili, amministrative pecuniarie e penali, a carico di chiunque ponga in essere comportamenti che danneggiano i diritti dell’autore. Si parla di plagio o contraffazione per imitazione totale o parziale degli elementi creativi essenziali di un’opera altrui. Chiunque tema che sia stato violato un proprio diritto può agire in giudizio e chiedere la rimozione e la distruzione di quanto costituisca la violazione e il giudice può ordinare la pubblicazione a spese della parte soccombente della sentenza su uno o più giornali. DIRITTI DI PROPRIETÀ INDUSTRIALE Per un lungo periodo le invenzioni non sono state tutelate dai diritti di natura morale e patrimoniale oggi riconosciuti al loro autore, bensì da regimi di concessione da parte del sovrano. La concessione del privilegio garantiva la possibilità di sfruttare una data invenzione in esclusiva, e poteva essere rilasciata anche a soggetti diversi dall’inventore. Il privilegio: a) era necessariamente collegato all’obiettiva realizzazione dell’invenzione; b) era assegnato all’inventore e non ad un soggetto prescelto a piacere dal sovrano. Non diversamente dalla disciplina sul diritto d’autore, la disciplina sulle invenzioni industriali realizza un compromesso tra interessi opposti: quello dell’inventore a poter contare su una privativa, così da poter sfruttare l’invenzione in via esclusiva, e l’interesse degli imprenditori a condividere e avvantaggiarsi dei benefici derivanti dalle invenzioni. In sostanza si realizza da un lato un fine premiale, nel senso che le regole sulla proprietà industriale devono riuscire a creare adeguati incentivi alla realizzazione di invenzioni, d’altro lato è perseguito un fine escludente, poiché le medesime regole devono al contempo evitare che i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione possano essere vantati da soggetti terzi. Criticità: tale disciplina non ha nascosto l’intento di favorire attività di imprese grandi o di multinazionali, le quali, grazie alla prolungata durata dell’esclusiva, godono di un vantaggio competitivo ideale per penetrare con successo in mercati commerciali meno protettivi nei confronti dei propri competitori nazionali (20 anni). Al contempo si è affermato un sistema che deprime le possibilità dello sfruttamento delle invenzioni da parte delle persone fisiche, a tutto vantaggio del ruolo economico delle persone giuridiche, ossia delle grandi imprese, in specie se costituite nella forma di società di capitali. PRINCIPI GENERALI Le invenzioni industriali costituiscono la soluzione originale di un problema tecnico, e sono intese ad essere utilizzate per la produzione di beni o servizi. Art. 2585: “Possono costituire oggetto di brevetto le nuove invenzioni atte ad avere un’applicazione industriale, quali un metodo o un processo di lavorazione industriale, una macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivo meccanico, un prodotto o un risultato industriale e l’applicazione tecnica di un principio scientifico, purché essa dia immediati risultati industriali”. Da qui si ricava che per primo le invenzioni devono avere un consistente rilievo tecnologico, secondo che possono appartenere a tre tipi diversi: 1) L’invenzione di prodotto: nuovo prodotto materiale. 2) L’invenzione di procedimento: nuovo metodo produttivo, di un processo di lavorazione industriale o di un nuovo dispositivo meccanico. 3) L’invenzione derivata: invenzione che scaturisce da una precedente invenzione, di cui perciò è un’evoluzione. Non possono essere brevettate, perché non considerate invenzioni, le mere scoperte, ossia tutto ciò che già esisteva in natura e che dall’uomo è solo rinvenuto senza un apporto inventivo. Da qui si escludono: • le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici; • i piani, i principi e i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciale, e i programmi di elaboratore (software); • le presentazioni di informazioni; • metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale e metodi di diagnosi applicati al corpo umano o animale. I requisiti per la brevettabilità di un’invenzione sono 4: 1) la novità; 2) l’originalità: significativo progresso tecnico di cui non possa accorgersi una persona esperta del ramo; 3) l’industrialità: concreta possibilità che l’invenzione abbia un’applicazione industriale; 4) la liceità: non contraria all’ordine pubblico o al buon costume. LE INVENZIONI BREVETTATE Nel nostro ordinamento i brevetti sono di tre tipi e riguardano: • le invenzioni industriali; • i modelli di utilità; • i modelli e i disegni ornamentali; Brevetto internazionale: La sua disciplina riconosce, all’inventore che richieda un brevetto in uno qualsiasi dei paesi dell’Unione Europea, il diritto di priorità in tutti i paesi diversi da quello della prima domanda. Inoltre, la novità dell’invenzione è valutata con riferimento alla data del primo deposito nazionale, se le altre domande siano state presentate nei dodici mesi successivi. Va però aggiunto che per ogni altro aspetto l’inventore consegue una serie di brevetti distinti tra loro, ciascuno dei quali è sottoposto a una differente disciplina nazionale. Brevetto europeo: La sua disciplina prevede invece un’unica domanda che consente di ottenere un brevetto dotato di autonomia normativa e di valenza sovranazionale, brevetto che perciò produce gli stessi effetti in tutti i paesi dell’Unione. È rilasciato dall’Ufficio europeo di Monaco e comporta la cessazione degli effetti dei brevetti nazionali che siano stati ottenuti per la stessa invenzione. I diritti sulle invenzioni industriali vengono acquisiti al momento del conseguimento del brevetto. • Diritto di esclusività: “chi ha ottenuto un brevetto per un’invenzione industriale ha il diritto esclusivo di attuare l’invenzione e di disporne entro i limiti e alle condizioni stabilite dalla legge”. • Diritto morale: diritto ad essere riconosciuto autore di un prodotto, in questo caso di un’invenzione. Costituisce un diritto della personalità, imprescrittibile, irrinunciabile e intrasferibile, che non si «trasmette», nemmeno ai congiunti, ma può essere dai congiunti «fatto valere», se ricorrano le condizioni per farlo (cioè dopo la morte dell’autore). • Diritto patrimoniale: si estrinseca nel diritto di utilizzare economicamente l’invenzione in forma esclusiva, e, in particolare, consiste nei seguenti diritti: a) se oggetto del brevetto è un prodotto, nel diritto di vietare a terzi, salvo che vi sia il consenso del titolare, di «produrre, usare, mettere in commercio, vendere o importare» il prodotto in questione; b) se oggetto del brevetto è un procedimento, nel diritto di vietare a terzi, salvo che vi sia il consenso del titolare, di «applicare il procedimento, nonché di usare, mettere in commercio, vendere o importare» il prodotto ottenuto tramite quel procedimento. A differenza del diritto morale, il diritto patrimoniale è alienabile e trasmissibile. Procedimento di brevettazione: 1) per brevettare un’invenzione l’inventore si rivolge all’«Ufficio italiano brevetti e marchi» e presenta la propria domanda, corredata dalla descrizione dell’invenzione, dall’indicazione della funzione dell’invenzione (c.d. «rivendicazione») e dai disegni necessari per rappresentarla adeguatamente, così che essa possa essere «compresa» in ogni suo aspetto; 2) l’Ufficio verifica la regolarità formale della domanda, la sua liceità e che l’invenzione abbia un oggetto per cui è consentita la brevettazione; non è invece tenuto ad accertare l’esattezza della designazione dell’inventore o la sua legittimazione (il brevetto non ha effetto costitutivo del diritto di esclusività, ma genera solo una presunzione); 3) il diritto di esclusività che ne deriva è tutelato con sanzioni civili e penali: al titolare del brevetto spetta l’«azione di contraffazione», promossa contro chi si serva abusivamente dell’invenzione, al fine di ottenere una sentenza che ne inibisca l’ulteriore sfruttamento abusivo. 4) il brevetto per invenzione industriale dura 20 anni a decorrere dalla data di deposito della domanda e non può essere rinnovato, né può esserne prorogata la durata. La cessazione del diritto di esclusiva: il diritto di esclusività riconosciuto grazie al brevetto può essere perso prima del decorso del termine ventennale in due serie di ipotesi: 1) nei casi in cui sia dichiarata la nullità del brevetto (4 cause), che può avvenire se l’invenzione non era brevettabile ai sensi della legge, se non è stata adeguatamente descritta, se l’oggetto del brevetto si estende oltre il contenuto della domanda, e se il titolare non aveva il diritto di ottenerlo; 2) se intervenga una causa di decadenza (2 cause), che si realizza se non si paga la tassa annuale di concessione, o se non venga attuato il brevetto nel termine dei 2 anni dalla concessione della licenza obbligatoria. La legge riconosce anche qualche tutela nei confronti di chi abbia utilizzato un’invenzione senza brevettarla, ci riferiamo all’istituto del preuso: “chiunque nel corso dei 12 mesi antecedenti alla data di deposito della domanda di brevetto abbia fatto uso nella propria azienda dell’invenzione può continuare a usarne nei limiti del preuso”. Trasferimento dei diritti sull’invenzione: con la «licenza di brevetto» il diritto di utilizzare l’invenzione può essere trasferito a soggetti terzi. Essa può essere in esclusiva o meno e può consistere di molteplici contenuti. Può essere remunerata secondo modalità varie. È obbligatorio concedere la licenza di brevetto nell’ipotesi di mancata attuazione dell’invenzione per un triennio, o se nel triennio l’invenzione sia stata attuata in misura sproporzionata rispetto ai bisogni del Paese. Così com’è obbligatorio concedere la licenza di brevetto nell’ipotesi di brevetto «dipendente». Invenzioni dei dipendenti: si possono distinguere 3 tipi di invenzioni dei dipendenti: a) «di servizio» le invenzioni fatte nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d’impiego, in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto o del rapporto, e a tal scopo retribuita. I diritti sull’invenzione sono assegnati, a titolo originario, al datore di lavoro, salvo il diritto spettante all’inventore di esserne riconosciuto autore; b) «aziendali» se non sia prevista una remunerazione come compenso dell’attività inventiva, per quanto l’invenzione venga realizzata nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego. I diritti sull’invenzione sono assegnati in via originaria al datore di lavoro, ma all’inventore spetta, oltre al riconoscimento del diritto morale, un equo premio; c) «occasionali» quando ricorre una coincidenza temporale tra il rapporto di lavoro e l’ottenimento dell’invenzione e non ricorrono i presupposti delle altre due fattispecie. Il diritto patrimoniale spetta al lavoratore, ed è il lavoratore che può fare domanda per brevettare l’invenzione, mentre al datore di lavoro spetta un «diritto di prelazione» per quanto riguarda l’uso (esclusivo o non esclusivo) dell’invenzione, l’acquisto del brevetto o la brevettazione dell’invenzione all’estero. Tale disciplina non si applica alle invenzioni realizzate dai ricercatori (rimangono comunque i titolari esclusivi dei diritti derivanti dall’invenzione) delle università e degli altri enti pubblici con finalità istituzionali di ricerca, introdotta nel 2001: l’università o l’ente di ricerca hanno diritto a una percentuale del canone di eventuali licenze a terzi. Ma all’inventore spetta non meno del cinquanta per cento dei proventi o del canone di sfruttamento dell’invenzione (sistema di compartecipazione). 7. LE RELAZIONI DELL’IMPRESA RELAZIONI CONCORRENZIALI Il diritto antitrust è costituito da regole volte sostanzialmente a vietare comportamenti idonei ad impedire o restringere la concorrenza, esistono due concezioni su come interpretare e applicare le regole antitrust: 1. UGUAGLIANZA ECONOMICA: un primo criterio volto alla tutela dell’uguaglianza delle opportunità economiche degli imprenditori attraverso cui si può tutelare il diritto di concorrenza e dunque favorire politiche di piena concorrenza oppure si può difendere il diritto di proprietà e dunque proteggere l’interesse del singolo imprenditore a ricavare un profitto equo dalla propria attività economica. 2. LIBERTÀ ECONOMICA: un secondo criterio volto alla tutela della libertà individuale degli imprenditori attraverso cui si può tutelare il diritto di concorrenza e dunque creare politiche volte ad avallare il principio di sopravvivenza del soggetto economico più forte oppure tutelare il diritto di proprietà e sostenere politiche che ammettano posizioni di monopolio. Uguaglianza economica → { π·ππππ‘π‘π ππ ππππππππππ§π → πππππ‘ππβπ ππ πππππ ππππππππππ§π π·ππππ‘π‘π ππ ππππππππ‘à → πΌππ‘ππππ π π ππ π’π ππππππ‘π‘π πππ’π Libertà economica → Diritto di concorrenza → Sopravvivenza del soggetto economico più forte Fini antitrust → in passato la disciplina antitrust europea risultò funzionale non tanto a garantire il propagarsi di una vera concorrenza quanto più a consentire l’attuazione negli stati membri delle politiche industriali decise a livello comunitario, in tempi più recenti si è poi premiato l’esigenza di protezione della libertà economica e la capacità di autodeterminazione del singolo imprenditore fino ad arrivare ai fini antitrust del presente che sono principalmente tre: • Evitare il formarsi ed il consolidarsi di condizioni di potere di mercato, ossia il potere di un imprenditore di aumentare i prezzi di un prodotto diminuendo la quantità offerta. • Proteggere ed incentivare la qualità e la varietà di prodotti e servizi offerti. • Tutelare e favorire l’innovazione in ogni sua forma (economica, tecnologica, culturale). Modelli di riferimento teorico di concorrenza → secondo il principio di workable competition (concorrenza sostenibile) il modello di concorrenza perfetta consiste nella presenza sul mercato di un numero di imprese tale che nessuna è in grado di influenzare l’andamento dei prezzi dei beni, scongiurando così l’accumularsi di potere nel mercato / secondo il principio di ottimalità economica che offrono criteri con cui distinguere limitazioni negoziali che hanno come unico effetto la riduzione della concorrenza da quelle che possono promuovere l’efficienza produttiva / secondo i modelli multipurpose invece i comportamenti concorrenziali possono anche coesistere con forme di monopolio o cartello. Indipendentemente dal modello di riferimento viene adottata dagli stati una soluzione di compromesso tra gli interessi degli imprenditori e quelli dei consumatori che presenta: • ammissibilità di limitazioni legali della concorrenza per l’utilità sociale; • ammissibilità di limitazioni negoziali della concorrenza purché non sacrifichino la libertà di iniziativa economica; • ammissibilità di monopoli legali in settori di interesse generale; • divieto di una serie di pratiche anticoncorrenziali; • divieto di atti di concorrenza sleale. Per ciò che riguarda le regole nazionali si tratta comunque di una disciplina residuale in quanto per la concorrenza nel mercato europeo valgono le disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’unione europea. La disciplina italiana ammette ipotesi di limitazione della concorrenza* (limitazioni legali e negoziali, monopolio legale) e divieto di pratiche anticoncorrenziali** (divieto di intese restrittive, abuso di posizione dominante, divieto di atti di concorrenza sleale). Analizziamole: * • Art. 2595 c.c.: limitazioni legali → “la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell’economia e nei limiti stabiliti dalla legge” richiamando il comma 3 dell’art. 41 Cost. “la legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La libertà di concorrenza può dunque subire limitazioni a due condizioni: a) se le limitazioni corrispondono a fini sociali; b) nel porre limitazioni si deve rispettare il principio di riserva di legge. • Art. 2596 c.c.: limitazioni convenzionali → “il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto a una determinata zona o a una determinata attività e non può eccedere la durata di 5 anni”. • Art. 2597 c.c.: monopolio legale → “chi esercita un’impresa in condizione di monopolio legale ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento” vedi art. 43 Cost. Il monopolio pubblico deve: a) essere soggetto a riserva di legge; b) corrispondere a fini di utilità generale; c) riferirsi a settori economici tassativamente prefissati. • L. 287/1990: monopolio di fatto → condizione di un imprenditore che abbia una posizione sostanzialmente monopolistica ma non realizzata in virtù di un regime di esclusiva riconosciuti dalla legge in suo favore. ** Art. 2 L. 287/1990: intese restrittive della concorrenza: 1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordate tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari. 2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico; c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento; d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; e) subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi. 3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Art. 3 L. 287/1990: abuso di posizione dominante: È vietato l'abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, ed inoltre è vietato: a) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose; b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori; c) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; d) subordinare la conclusione dei contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto dei contratti stessi. Art. 5 L. 287/1990: operazioni di concentrazione: 1. L'operazione di concentrazione si realizza: a) quando due o più imprese procedono a fusione; b) quando uno o più soggetti in posizione di controllo di almeno un'impresa ovvero una o più imprese acquisiscono direttamente od indirettamente, sia mediante acquisto di azioni o di elementi del patrimonio, sia mediante contratto o qualsiasi altro mezzo, il controllo dell'insieme o di parti di una o più imprese; c) quando due o più imprese procedono, attraverso la costituzione di una nuova società, alla costituzione di un'impresa comune. 2. L'assunzione del controllo di un'impresa non si verifica nel caso in cui una banca o un istituto finanziario acquisti, all'atto della costituzione di un'impresa o dell'aumento del suo capitale, partecipazioni in tale impresa al fine di rivenderle sul mercato, a condizione che durante il periodo di possesso di dette partecipazioni, comunque non superiore a 24 mesi, non eserciti i diritti di voto inerenti alle partecipazioni stesse. 3. Le operazioni aventi quale oggetto o effetto principale il coordinamento del comportamento di imprese indipendenti non danno luogo ad una concentrazione. Atti di concorrenza sleale → la disciplina della concorrenza sleale è racchiusa in quattro articoli del codice civile e presenta anche alcuni principi generali: costituisce illecito concorrenziale il comportamento di un imprenditore che si avvalga di ogni mezzo “non conforme ai principi della correttezza professionale” / è sufficiente che tale mezzo sia anche solo potenzialmente idoneo a danneggiare l’altrui azienda. • Art. 2598, 1: confusione ossia: a) utilizzo di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, la norma tutela sia l’uso di segni distintivi tipici (marchio, ditta, insegna) che atipici (slogan, involucri, etichette); la norma riguarda inoltre chi: b) imita servilmente i prodotti di un concorrente e chi compie atti di confusione atipici; c) compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività concorrente. • Art. 2598, 2: denigrazione e vanteria ossia: a) chi diffonde notizie sui prodotti e sulle attività di un concorrente idonee a determinarne il discredito; b) chi si appropria dei pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente. • Art. 2598, 3: non correttezza professionale: come anticipato si tratta di chi si avvale direttamente od indirettamente di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda ad esempio storno dei dipendenti e dei collaboratori di un’impresa, dumping ossia praticare prezzi sotto costo, il boicottaggio ossia il rifiuto concordato di più di uno di trattare con un determinato imprenditore, pubblicità ingannevole o menzognera, pubblicità iperbolica, concorrenza parassitaria. Gli atti di concorrenza sleale sono repressi grazie agli strumenti presenti all’art. 2599 che prevede inibitoria alla continuazione degli atti sleali ed eliminazione degli effetti prodotti e all’art. 2600 che prevede qualora gli atti di concorrenza sleale siano compiuti con dolo o colpa che l’autore sia tenuto al risarcimento dei danni. RELAZIONI CONSORTILI Prima della riforma del 1976 la nozione di consorzio era di coordinamento dell’attività di più imprese a scopi eminentemente concorrenziali, con la stesura del riformato art. 2602 si cita invece: “con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese” si affianca così alla funzione anticoncorrenziale una funzione di cooperazione per lo svolgimento di fasi dell’attività d’impresa, dall’articolo si ricavano dunque i quattro elementi costitutivi del consorzio: 1. La natura contrattuale dell’accordo. 2. Il necessario coinvolgimento di più soggetti. 3. La costituzione di un’organizzazione comune. 4. La funzione di cooperazione imprenditoriale alla quale l’organizzazione è destinata. Consorzio contrattuale → il consorzio può essere costituito solo da soggetti imprenditori, ma non è necessario che questi svolgano la medesima attività, il contratto è valido 10 anni. Art. 2603: la forma deve essere scritta a pena di nullità ed egualmente scritte devono essere le modificazioni / contenuto: devono essere specificati oggetto e durata, obblighi e contributi dei consorziati, poteri degli organi consortili, casi di recesso ed esclusione, sanzioni da applicare in caso di inadempimento degli obblighi contrattuali dei consorziati e deve inoltre indicare le condizioni di ammissione di nuovi aderenti. Organizzazione: è necessario nominare un organo deliberativo (assemblea) che raccoglie tutti i consorziati e decide sulla base della volontà comune espressa dalla maggioranza. Il consenso di tutti è richiesto soltanto per modificazioni del contratto. Inoltre si nomina un organo con funzioni gestionali ed esecutive che esercita anche una funzione di controllo, anche tramite ispezioni, delle attività dei singoli consorziati. Attività esterna del consorzio → il consorzio contratta con i terzi tramite un ufficio a ciò deputato. Tale attività può essere intesa come un’attività d’impresa a sé stante ed in questo caso il consorzio si prefigura come una struttura organizzativa utilizzabile per svolgere un’attività imprenditoriale in forma collettiva che richiede la tutela giuridica dei diritti dei terzi, di qui la necessità di disciplinarne: • Pubblicità: il contratto di consorzio deve essere depositato presso il Registro delle imprese. Inoltre entro due mesi dalla chiusura annuale le persone che hanno la direzione devono redigere la situazione patrimoniale osservando le norme relative al bilancio delle s.p.a. • Autonomia patrimoniale: si richiede la costituzione di un fondo consortile formato dai contributi dei consorziati e dai beni che con i contributi sono stati acquistati, per l’intera durata del contratto i consorziati non possono chiedere la divisione del fondo; i creditori del consorzio possono rifarsi esclusivamente sul consortile mentre i creditori dei singoli consorti non possono rifarsi sul fondo. • Rappresentanza: sotto questo profilo si prescrive che nel contratto depositato presso il Registro delle imprese debbano essere indicate le persone a cui vengono attribuite la presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio ed i rispettivi poteri, ed i consorzi possono essere convenuti in giudizio in persona di coloro a cui il contratto attribuisce la presidenza o la direzione. Consorzio societario → la riforma del 1976 ha consentito ai consorzi di adottare una forma societaria con l’introduzione dell’art. 2615-ter, agli imprenditori sono stati così messi a disposizione i tipi societari delle società in nome collettivo, in accomandita semplice, per azioni, a responsabilità limitata, in accomandita per azioni o tutte le società lucrative che possono svolgere un’attività commerciale. Anche prima della riforma non era infrequente assistere alla costituzione di società a scopi consortili, per consentire agli imprenditori di beneficiare del regime di responsabilità limitata, allora non ancora riconosciuto ai consorziati. Una struttura societaria rappresentava e rappresenta inoltre un vantaggio sotto i profili dell’efficienza organizzativa e della riduzione della litigiosità interna. Secondo parte della dottrina i consorzi sarebbero soggetti alle norme consortili per ciò che attiene ai profili sostanziali (rapporti tra soci e con i terzi) e alle norme societarie per quanto riguarda i profili formali (organi, competenze, funzionamento, maggioranze), diversamente si schiera chi in nome della certezza del diritto sostiene che i consorzi devono ritenersi integralmente soggetti alle norme del tipo societario prescelto. RELAZIONI COLLABORATIVE Tali forme di collaborazione non annullano l’indipendenza decisionale delle imprese coinvolte e si tratta di aggregazioni regolate da norme che hanno effetti giuridici solo sul piano dei rapporti interni tra le imprese coinvolte senza dar luogo all’istituzione di enti diversi. • Associazione in partecipazione → art. 2549 “con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto” con questa tipologia di associazioni, dunque, l’associante si procura capitali necessari alla propria attività ed in cambio garantisce all’associato una partecipazione ai guadagni che saranno realizzati. L’associato è dunque un finanziatore che sopporta il rischio d’impresa se dunque l’impresa produce utili riceverà quanto pattuito mentre in caso contrario rischierà di perdere l’intero suo apporto. Solitamente l’apporto dell’associato ha natura patrimoniale, ma può consistere anche in prestazioni d’opera in tal caso il numero degli associati non può essere superiore a tre altrimenti il rapporto sarà considerato lavoro subordinato. La gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante, se l’associato svolge compiti gestori nell’impresa dell’associante sarà verificato il ruolo effettivamente esercitato dall’associato, le pattuizioni relative allo scioglimento dell’associazione e alla divisione del residuo netto in modo tale da accertare che non si tratti di una società. Ripartizione degli utili: art. 2553: salvo patto contrario l’associato deve partecipare alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, la quota degli utili spettante all’associato è proporzionale al valore del suo apporto. • Associazione temporanea di imprese → detta ATI è una forma aggregativa di carattere temporaneo ed occasionale vi si ricorre quando occorre eseguire una prestazione specifica per realizzare un affare di notevole entità materiale, ma delimitato per oggetto e tempo e destinato ad essere concluso in un’unica soluzione. Non è agevole regolare la ATI e più in generale ogni forma di collaborazione temporanea tra imprese in quanto è difficile individuare una fattispecie secondo cui le imprese sono legittimate a porsi verso la controparte come soggetti distinti ma collegati. Nella pratica contrattuale internazionale si sono affermati due distinti modelli organizzativi: 1. Uno secondo cui le imprese assumono congiuntamente e solidalmente verso il soggetto committente l’incarico di eseguire l’opera. 2. Uno, più raffinato, secondo cui tutte le imprese coinvolte conferiscono ad una tra loro detta “capofila/pilota” il mandato per partecipare alla gara per l’aggiudicazione dell’opera, le imprese mandanti mantengono la propria autonomia operativa e rispondono al committente solo per la parte di propria competenza, ferma restando la responsabilità solidare dell’impresa mandataria. Questo modello è stato adottato anche dal codice degli appalti pubblici. Il mandato deve risultare da una scrittura privata autenticata, è gratuito ed irrevocabile e la sua revoca per giusta causa non ha effetto nei confronti del soggetto appaltante, il codice distingue due tipi di raggruppamenti: verticale quando un’impresa realizza i lavori della categoria prevalente e gli altri lavori scorporabili, orizzontale quando i concorrenti realizzano lavori della stessa categoria. • Contratto di rete → l. 5/2009; 179/2012 “con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e competitività sul mercato ed a tal fine si obbligano sulla base di un programma comune di rete a collaborare, scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica”. Elementi qualificanti: le parti devono essere imprenditori, la collaborazione è strumentale all’esercizio comune di attività, lo scopo è l’accrescimento della capacità innovativa e competitiva delle imprese aderenti. Contenuto del contratto: • Norme, ditta, denominazione sociale di ogni partecipante originario o successivo. • Indicazione degli obiettivi strategici di innovazione ed innalzamento della capacità competitiva. • Enunciazione nel contatto di diritti ed obblighi di ciascun partecipante. • Durata del contatto e modalità di adesione, cause di recesso anticipato. • Nome, ditta, ragione e denominazione sociale del soggetto scelto per svolgere l’ufficio di organo comune per l’esecuzione del contratto, i poteri di rappresentanza conferiti a tale organo. • Le regole per l’assunzione delle decisioni dei partecipanti su ogni materia o aspetto di interesse comune. Forma del contratto: atto pubblico, scrittura privata autenticata o atto con firma digitale. Pubblicità: il contratto deve essere iscritto nel registro delle imprese, requisito non di validità, ma di efficacia. Se inoltre è stata prevista l’istituzione di un fondo patrimoniale comune che conferisce autonomia patrimoniale alla rete, si applicano al fondo le disposizioni espresse dagli artt. 2614-2615: la prima prevede l’esclusione della prematura divisione del fondo e la possibilità di aggredirlo per i creditori particolari, la seconda la riferibilità al fondo consortile delle sole obbligazioni assunte dal consorzio. È corretto ritenere che contratto di rete e consorzio svolgano funzioni comuni sì, ma che non possano definirsi contratti coincidenti: infatti il consorzio può farsi carico di alcune fasi dell’attività imprenditoriale, ma non di tutte mentre è possibile affidare alla rete economica un’attività nella sua interezza. Dunque se viene istituito un fondo comune il contratto di rete darà luogo ad un nuovo soggetto di diritto un organo comune che gestisce l’esecuzione del contratto in nome e per conto dei partecipanti, organo qualificabile alla stregua di un ente associativo con rilievo esterno e si avvarrà per il perseguimento del programma del fondo comune, unico fondo i cui i creditori possono far valere i loro diritti; se invece non viene istituito un fondo, le imprese aderenti al contratto di rete pur soggette ad un coordinamento ed al perseguimento di un programma comune, manterranno maggiore autonomia. 8. LE RESPONSABILITÀ DELL’IMPRESA RISCHIO D’IMPRESA Si tratta dell’insieme delle circostanze e degli avvenimenti, futuri ed incerti, i cui effetti possono riflettersi positivamente o negativamente sull’attività d’impresa. L’appropriazione del profitto rappresenta la naturale contropartita per l’imprenditore che assume il rischio connesso all’esercizio della propria attività. Il rischio si può scomporre in: 1) rischio che grava sulla gestione complessivamente intesa dell’impresa; 2) rischio connesso al compito di singoli atti d’impresa; 3) rischio connesso a frangenti specifici in cui l’imprenditore può trovarsi da cui derivino particolari forme di responsabilità. Rischio economico e rischio giudico L’imprenditore può ridurre o amplificare il rischio economico con i propri comportamenti, assumendo sul piano giuridico la relativa responsabilità per gli atti compiuti. Art. 5 l. fall.: è dichiarato fallito l’imprenditore che si trova in stato di insolvenza che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. L’art. 2217 impone l’obbligo di documentare gli utili conseguiti e le perdite subite e connette il principio di prudenza alla funzione economica di attivo e passivo. Trasferimento del rischio Esistono circostanze in cui il rischio d’impresa viene in parte trasferito dall’imprenditore ad altri soggetti e ciò può essere motivato da interessi di natura sia privata sia pubblica: • Privato: intermediazione con enti assicurativi che garantiscono gli imprenditori → l'attività assicurativa si realizza nel coprire dietro corrispettivo i rischi altrui, anche se quando le assicurazioni utilizzano strumenti finanziari emessi da banche si realizzano forme di traslazione del rischio del credito ben più complesse ed onerose. • Pubblico: frangenti in cui lo Stato interviene per salvare le imprese in difficoltà economica → con l'intervento dello Stato per salvare imprese in crisi si concretizza un'incentivazione all'acquisto di questa tramite uno sconto all'acquirente, misura che determina una minore ampiezza del riparto per i creditori. • Misto: imprenditore affiancato da un ente pubblico e parzialmente sgravato dal rischio d’impresa ma non privato della libertà di iniziativa economica e di responsabilità gestionale (rilascio di garanzie o agevolazioni pubbliche su finanziamenti privati) → il fondo di garanzia per i finanziamenti alle piccole e medie imprese consente di alleviare il peso che le banche sopportano per l'erogazione del credito, iniziativa che tuttavia può introdurre elementi distorsivi a carico dell'intero sistema. Vi sono circostanze negoziali nelle quali l'assunzione del rischio rientra nelle regole contrattuali che regolano la derivante operazione economica, il contratto di appalto, per esempio, prevede che l'appaltatore compia l'opera a proprio rischio dal punto di vista tanto economico (difficoltà del lavoro e di non coprire i costi dell'opera con il corrispettivo) quanto giuridico (perimento dell'opera prima della consegna od eventi che ne impediscano il compimento). Il principale strumento di riduzione della responsabilità è rappresentato dallo svolgimento collettivo dell'attività d'impresa tramite un tipo societario, i soci rischiano infatti solo quanto conferito in società, questo ha favorito investimenti in capitale di rischio, ma si realizza una forma di esternalizzazione del rischio d'impresa che viene scaricata sui creditori, la conseguenza di questa esternalizzazione è doppia: 1. inefficiente ed iniqua ripartizione del costo del danno per i creditori; 2. rischio di comportamenti viziati dal moral hazard di chi ha il controllo della gestione della società. RESPONSABILITÀ GIURIDICA È la responsabilità dell’imprenditore per l’esercizio della propria attività economica che esiste da quando esiste l’impresa ed è sottoposta da un insieme di norme proiettate in più ambiti: tutela dell’ambiente e dalla salubrità dei prodotti a garanzia della salute umana, parametri di qualità e sicurezza dei prodotti e controlli sulle clausole contrattuali e metodi di produzione, adeguamento dei contratti dell’imprenditore ai principi di completezza, comprensibilità e trasparenza (art. 41 comma II e III Cost). L'art. 1176 è la norma che fissa il livello di diligenza (la diligenza esonera infatti dalla colpa e dalla conseguente responsabilizzazione) in specie al comma II “nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata”. Responsabilità contrattuale → il comma II sopradetto pur non applicandosi unicamente all'imprenditore è senz'altro rivolto a questa figura. L'imprenditore si ritrova costantemente ad assumere obbligazioni con clienti, fornitori, banche ed istituzioni dalle quali deriva una responsabilità contrattuale. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso sono stati introdotti numerosi nuovi principi in materia di contratti d’impresa (in tema di trasparenza ed informazione, in tema di garanzia della salute, di sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi), sono stati rafforzati quelli preesistenti (in specie correttezza, buona fede ed equità) e sono state previste nuove responsabilità proprie sole dell’imprenditore, è stata disciplinata l’azione collettiva ed inserite misure atte a rendere più rapide ed efficaci le azioni giudiziali. Responsabilità extracontrattuale → una norma fondamentale sotto questo profilo è l'art. 2049 che ha introdotto nell'ordinamento la prima espressione di responsabilità oggettiva “i padroni ed i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”; in sostanza l'imprenditore risponde di qualunque fatto doloso o colposo del dipendente che possa dirsi pertinente all'esercizio d'impresa. La norma in cui si realizza appieno la responsabilità oggettiva è la l. 224/1998 sulla circolazione dei prodotti difettosi per cui “il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto” ossia da quel prodotto “che non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere” la norma si basa dunque sull'aspettativa del cliente e presenta una responsabilità senza colpa nella quale non sono ammesse prove liberatorie, le sole ipotesi di esonero della responsabilità sono contemplate all'art. 6 della stessa norma e non esonerano neppure se il difetto è cagionato da causa ignota. Responsabilità amministrativa → d. lgs 231/2001 ha integrato nel nostro ordinamento la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni, per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Tale responsabilità sussiste per i reati commessi a loro interesse o vantaggio dalle persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione. Il decreto ha introdotto il concetto secondo il quale il presupposto della responsabilità dell'ente risiede nella sua colpa organizzativa, ossia che non siano predisposte misure idonee a prevenire la commissione di reati di elusione fraudolenta elencati poi dallo stesso decreto. Tale disciplina è stata aggiornata fino ad oggi annettendovi ad esempio reati in materia informatica e societaria, abusi di mercato ed anche omicidio colposo e lesioni colpose gravi: mentre la ratio originaria consisteva nel responsabilizzare gli enti rispetto all'operato dei propri soggetti apicali al fine di colpire essenzialmente fattispecie di corruzione, il processo di ampliamento del raggio di azione ha portato alla responsabilità degli enti a profilarsi come uno strumento per prevenire fattispecie numerose e disorganiche. Alcune disposizioni del decreto si occupano di definire i caratteri funzionali dei modelli di organizzazione, gestione e controllo da adottare, la cui efficace adozione consente di non rispondere dell'illecito eventualmente commesso, adottati inoltre sulla base dei codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti. RESPONSABILITÀ SOCIALE Tale tipologia di responsabilità scaturisce dall'esigenza che il governo delle imprese sia meno autoreferenziale e più partecipato da soggetti esterni all'impresa. La responsabilità sociale dell'impresa non ha ancora avuto un riconoscimento legislativo, si ricorre pertanto all'autoregolazione societaria: si ricorre a codici di comportamento, codici etici e modelli di autoregolazione interimprenditoriale, la funzione di governance è quella di coordinare l'attività economica di una o più imprese formalizzando benchmarks di comportamento condivisi in partenza. Impresa etica Parte della dottrina identifica come etica l'impresa che scelga di dedicarsi alla produzione di beni o di servizi che siano vantaggiosi al vivere dell'uomo attraverso la scelta di un ramo merceologico di particolare valore sociale come l'istruzione, l'arte, la conservazione dei beni culturali ed ambientali, l'assistenza alle categorie più deboli. La responsabilizzazione sociale delle imprese ruota intorno alla conformità a dati standard merceologici (produttivi, organizzativi, occupazionali) precostituiti da istituzioni ed enti sovranazionali intesi ad individuare un prototipo di impresa etica. Esistono tre tipi di comportamenti praticati dalle imprese che si vogliono conformare a condotte socialmente responsabili: 1. imprese costrette dalla pressione sociopolitica; 2. imprese che sfruttano le potenzialità della responsabilità sociale nel marketing; 3. imprese intrinsecamente motivate a dare seguito operativo ai valori etici interiorizzati sul piano manageriale e aziendale. Etica d'impresa Tale concetto è complessivamente riconducibile al novero della stakeholder theory, sviluppata da giuristi, sociologi ed economisti. Secondo loro deve essere considerato stakeholder qualsiasi gruppo od individuo che influenzi il raggiungimento di obiettivi di un'impresa. Tale approccio ha descritto l'impresa alla stregua di una struttura democratica laddove gli stakeholders rappresenterebbero quello che è il popolo nella concezione classica di democrazia. Ma secondo alcune critiche alla teoria il bilanciamento di interessi ascrivibili agli stakeholder non ha a che vedere con l'etica e rappresenta uno dei criteri naturali della gestione d'impresa, un secondo ordine di critiche riguarda il fatto che trattare equamente i propri interlocutori – i diversi stakeholder – non implica necessariamente trattarli nella stessa maniera.