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Il debito pubblico
1 È giustificabile la spesa in deficit?
2 La natura del debito pubblico
3 Dimensione e sostenibilità del debito pubblico
3.1 Il debito pubblico nella contabilità nazionale
3.2 L’aritmetica del rapporto debito/PIL
3.3 Insolvenza e sostenibilità del debito pubblico
4 Strategie di riduzione del rapporto debito/PIL
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1. È giustificabile la spesa in deficit?
La presenza di un deficit non deve essere considerata un aspetto patologico della
gestione di bilancio. Il fatto che le entrate correnti (le imposte) possano non coprire
per intero le spese dello Stato trova diverse giustificazioni nella logica economica.
Le principali sono
1. la necessità di effettuare investimenti finalizzati ad aumentare lo stock di capitale
pubblico dell’economia (es. infrastrutture), al fine di alimentare la crescita; e
2. l’esigenza di stabilizzare l’economia in presenza di variazioni cicliche o eventi
negativi di carattere eccezionale, quando cioè occorre scongiurare gli effetti di una
caduta del livello di attività che potrebbero determinare una sottoutilizzazione della
capacità produttiva se non addirittura danni permanenti alla stessa.
L’effettuazione di investimenti richiede la necessità di concentrare la spesa per la
realizzazione di opere i cui benefici si manifesteranno nel tempo. Pur in presenza di vantaggi di lungo periodo che eccedono i costi, il reperimento delle risorse
per la realizzazione degli investimenti potrebbe risultare estremamente oneroso se
affidato soltanto alle entrate correnti. L’aumento richiesto di imposte potrebbe infatti suscitare resistenze politiche tali da compromettere la realizzazione delle opere
richieste.
Considerazioni analoghe valgono nel caso in cui le necessità di bilancio siano dovute agli effetti di eventi avversi che, qualora non affrontati con decisione, potrebbero
compromettere il funzionamento dell’economia: l’esempio tradizionale è l’eventualità di una guerra, che richiede la rapida mobilitazione di risorse, peraltro in un
momento nel quale l’attività economica e quindi la base imponibile può aver subito una contrazione. Un esempio più vicino a noi è la recente pandemia, quando
è stato necessario, al fine di evitare la cessazione definitiva di molte attività, con
perdite permanenti nella capacità produttiva, utilizzare la spesa pubblica per sostenere le imprese con trasferimenti a fondo perduto. La perdita di reddito dovuta
alla riduzione dell’attività economica non solo ha ridotto le entrate fiscali, ma ha
reso necessario in molti casi rinviare o ridurre in modo consistente le imposte.
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Infine, nel caso della stabilizzazione macroeconomica, lo Stato ricorre al debito per
stimolare la domanda attraverso la spesa corrente per trasferimenti, ad esempio sussidi di disoccupazione o aiuti alle imprese (la spesa per investimenti non sarebbe
attivabile con pari rapidità); con aumenti di spesa non coperti da maggiori entrate, si intende evitare che lo stimolo dato dall’aumento di consumi e investimenti
pubblici sia frustrato da una riduzione dei consumi privati per effetto di aumenti
di imposte.
Nei casi descritti, il ricorso al debito consente una riallocazione temporale delle imposte, per cui le necessità immediate di bilancio vengono, per così dire, finanziate
con le entrate fiscali future. Quando l’indebitamento finanzia spese che determinano un aumento della capacità produttiva (ad esempio la realizzazione di infrastrutture pubbliche) o ne impediscono la distruzione (nel caso di eventi catastrofici),
con effetti duraturi sul livello del PIL, i benefici della spesa effettuata si manifesteranno in periodi futuri, dunque trasferire al futuro il carico fiscale necessario per
finanziare tale spesa può essere vista come un modo per riallineare costi e benefici
dell’azione pubblica.
La rinuncia a sincronizzare entrate e spese, evitando che esigenze di spesa concentrate in particolari periodi diano luogo a impennate nella pressione fiscale, non
risponde solo alla necessità di superare vincoli di natura politica o una sorta di
criterio di equità intertemporale (per cui è giusto che la spesa venga pagata man
mano che se ne manifestano i benefici). Una pressione fiscale uniforme nel tempo, a prescindere dalla possibile variabilità delle spese, contribuisce a evitare che
il bilancio pubblico determini un’eccessiva variabilità del reddito disponibile dei
contribuenti. Non è ottimale che tale variabilità si ripercuota sui consumi: ricordiamo che, in presenza di preferenze convesse, un individuo tenderà a distribuire
uniformemente i propri consumi nel suo orizzonte di vita. Anche se in astratto
i contribuenti potrebbero attenuare la variabilità del proprio reddito disponibile
dovute alle variazioni delle imposte modificando il proprio risparmio o ricorrendo all’indebitamento, nella realtà questa possibilità incontra evidenti limiti ed è
dunque preferibile che sia lo Stato a far ricorso ove necessario al debito al fine di
rendere quanto più possibile uniformi nel tempo la entrate fiscali.
Infine, da un punto di vista di efficienza, abbiamo già discusso in questo corso come
l’effetto distorsivo delle imposte aumenti in modo più che proporzionale rispetto
all’aliquota, cosicché un’aliquota più bassa su una più ampia base imponibile risulta preferible, quanto a effetto distorsivo complessivo, rispetto a un’aliquota più
elevata su una base imponibile più ristretta.
La possibilità di spendere senza gravare direttamente sui contribuenti nel periodo
corrente può tuttavia avere effetti deresponsabilizzanti. Spesso i governi si mostrano incapaci di programmare correttamente entrate e spese; l’emergere di deficit,
invece di riflettere un’oculata allocazione di spese e entrate nel tempo, può essere il risultato di scelte poco attente al benessere della collettività, determinate da
opportunismo. In questo caso, c’è il rischio che il debito cresca in modo eccessivo, mettendo a rischio la stabilità finanziaria e compromettendo la possibilità di
utilizzare appieno gli strumenti della politica di bilancio.
2. La natura del debito pubblico
Il debito pubblico è argomento di accesa discussione in ambito economico e politico. Spesso, tuttavia, si fa ricorso all’analogia tra debito di uno stato e debito di un
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privato, che è per molti versi inappropriata. In primo luogo, lo Stato ha una vita
virtualmente infinita1 e non ha dunque necessità di ripianare integralmente i propri
debiti entro un orizzonte temporale definito; il debito in scadenza viene normalmente rimborsato ricorrendo all’emissione di nuovo debito (rollover del debito), e
ciò può continuare indefinitamente finché vi sono risparmiatori disposti ad acquistare titoli del debito pubblico, cioè finché lo stato viene percepito come solvibile.
Sono rari i casi in cui un debito è stato effettivamente ridotto in termini nominali; normalmente una riduzione del suo peso sull’economia non avviene tanto per
effetto di una riduzione del suo ammontare nominale, ma in conseguenza di una
crescita proporzionalmente maggiore del PIL. Non è dunque irrealistico ragionare adottando l’ipotesi che il debito abbia carattere perpetuo e che il suo costo sia
rappresentato dalla corresponsione di interessi per un numero infinito di periodi.
Un secondo aspetto che rende lo Stato un debitore sui generis è la sua capacità di
indebitarsi nella propria moneta, ovvero di creare, attraverso la banca centrale, il
mezzo di pagamento con il quale il debito può essere estinto2 . Se da un lato la
possibilità di rimborsare il proprio debito attraverso la creazione di base monetaria
rappresenza una protezione dal rischio di insolvenza, non bisogna dedurne che un
ricorso sistematico a questo strumento sia privo di inconvenienti: la «monetizzazione» del debito, cioè l’acquisto di titoli di debito pubblico da parte della banca
centrale, incontra un limite nel fatto che l’aumento della moneta in circolazione,
spingendo gli individui ad aumentare i propri consumi e investimenti, potrebbe
creare spinte inflazionistiche; l’inflazione, quando non anticipata, equivale a un’imposta che grava su tutta la ricchezza (nonché su ogni entrata) espressa in termini
nominali e non indicizzata. D’altra parte, una moneta che tende a perdere valore
è poco attraente per i creditori, che chiederanno un interesse più elevato per investire in titoli in tale moneta denominati; per questa ragione, se da un lato generare
inflazione può essere un modo per liberarsi di un elevato debito pregresso, dall’altro, per contenere il costo dell’accesso ai mercati finanziari, gli stati hanno tutto
l’interesse a rendere credibile il fatto che non ricorreranno a tale possibilità.
Un terzo aspetto che rende inappropriata l’analogia tra debito di uno stato e debito
di un individuo o una famiglia è il fatto che, quando il debito di uno Stato è nei
confronti dei suoi cittadini, debitori e creditori sono all’interno della stessa collettività e, in certa misura, ciascuno può trovarsi a ricoprire entrambi i ruoli (creditore
in quanto possessore di titoli di stato, debitore in quanto contribuente dal quale lo
stato ottiene le risorse per sostenere il peso del debito). Quando effettuato presso
creditori residenti nello Stato, il ricorso al debito di per sé non modifica le risorse
disponibili per l’economia né nel periodo corrente né nei periodi futuri, ma ne detemina solo una riallocazione (in questo caso tra spesa privata e spesa pubblica nei
diversi periodi)3 . Non c’è dunque analogia con l’accensione di un prestito da parte
1
Quando uno stato si dissolve, l’obbligo di pagare il debito non passa in modo automatico a chi
ne prende il posto. In ogni caso, difficilmente il governo di uno Stato si preoccuperà di un problema
del genere.
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È questo il caso delle principali economie avanzate, ma non è quanto si verifica ad esempio
per i paesi in via di sviluppo. Con l’adozione dell’euro, gli stati europei hanno rinunciato a questa
prerogativa; i debiti che erano stati accesi nelle valute nazionali sono stati convertiti nella nuova valuta
comune, sulla quale nessun paese singolarmente ha controllo. Come vedremo, questa circostanza
spiega l’esistenza di regola particolari per i paesi membri della UE e in particolare dell’eurozona.
3
Diverso è il caso in cui il debito viene contratto con creditori esteri, una situazione particolarmente frequente laddove il risparmio interno è modesto, come nei paesi in via di sviluppo. Nel caso
di debito verso l’estero si attinge al risparmio dei non residenti per finanziare necessità di spesa cor-
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di un individuo, che aumenta le risorse di oggi ma riduce quelle di domani, quando
la necessità di restituire il prestito ai creditori renderà necessario ridimensionare i
consumi.
Da questa circostanza deriva un comune fraintendimento, che si traduce nell’affermazione che con il debito il costo delle spese effettuate oggi sarebbe scaricato sulle
future generazioni. Se da un lato è vero che il ricorso al debito comporta un rinvio
del momento della tassazione, ciò non implica che il costo della spesa effettuata
oggi venga sostenuto domani.
Come evidenziato da molti economisti fin dagli albori della disciplina economica4 ,
le modalità di finanziamento di una spesa da parte dello Stato, con entrate correnti
o mediante ricorso al debito, non modificano il dato reale sottostante, ovvero il
fatto che quella spesa (ad esempio, la realizzazione di un’infrastruttura pubblica)
sottrae risorse a possibili impieghi alternativi nel momento in cui essa è effettuata,
non essendoci la possibilità di attingere a risorse (lavoro o altri fattori produttivi)
che ancora non sono disponibili. Che si ricorra al debito o alle imposte, sarà in ogni
caso la generazione presente a sopportarne l’onere, cioè a dover destinare risorse
alla sua realizzazione. Nelle parole di Luigi Einaudi [1940, pp. 119-20]:
Se si costruisce una ferrovia dal costo di 100 milioni, forsechè il terreno sarà stato spianato, i terrapieni innalzati, i ponti costruiti, le gallerie
forate, le stazioni erette, i binari lanciati con lavoro e con materiale futuro? Mai no. Che cosa è il costo della ferrovia, se non la fatica durata
nello spianar terreni, innalzar terrapieni, forar gallerie, costruire ponti, fabbricare traversine rotaie locomotive carrozze e carri? Chi durò
quella fatica? I posteri od i viventi? […] Non esiste nessun mezzo
per far sostenere ai posteri il costo, la fatica, il dolore di nessuna spesa presente. Se noi vivi vogliamo fare una spesa dobbiamo pagarcela
noi con i mezzi presenti, dobbiamo volgere a quello scopo i mezzi che
sarebbero disponibili per raggiungere altri fini presenti.
Se da un lato è vero che le generazioni future dovranno pagare i costi associati all’accensione del debito (immaginando un debito irredimibile, tale costo è dati dagli
interesse per tutti gli anni a venire, ma il discorso non cambia se consideriamo la
restituzione dl capitale), dall’altro saranno sempre le generazioni future a percepire
tali pagamenti. In altre parole, il pagamento degli interessi non è che un trasferimento effettuato in ciascun periodo futuro tra i membri di una stessa collettività,
in qualità di contribuenti e di creditori. La ricchezza complessiva della collettività
non viene né aumentata né diminuita da tale trasferimento. Il debito pubblico è
debito che una collettività deve a se stessa; per usare un’espressione molto efficace,
è un debito che «la mano destra deve alla mano sinistra». Che il debito pubblico
rappresenti un onere per le future generazioni è un’affermazione che dipende dall’errata proiezione di una prospettiva individuale alla collettività nel suo insieme,
un caso di «fallacia di composizione».
L’argomento illustrato stabilisce peraltro una differenza rilevante tra debito interno, sottoscritto dai membri della stessa collettività, e debito estero, cioè debito verso non residenti; quest’ultimo comporta infatti un trasferimento di risorse prima
renti, a fronte dell’impegno a trasferire all’estero, con il pagamento degli interessi e la restituzione
del debito, una parte delle proprie risorse future.
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Possiamo menzionare l’economista britannico di impostazione keynesiana Abba Lerner [in
particolare Lerner, 1948], ma anche esponenti della tradizione italiana di scienza delle finanze di
orientamento liberale come Antonio De Viti Di Marco e Luigi Einaudi.
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BOX 1. L’obiezione di Buchanan
Nonostante gli economisti abbiano per lo più criticato l’analogia tra debito dello Stato e debito di
una famiglia, non sono mancate voci divergenti.
L’argomento per cui il debito costituisce in effetti un trasferimento dell’onere delle spese correnti
alle generazioni future è stato difeso ad esempio
da Buchanan [1958]. Secondo Buchanan non è
corretto affermare che il costo del progetto finanziato con debito sia sostenuto nel momento di realizzazione della spesa, in quanto coloro che forniscono le risorse per tale spesa, ovvero i sottoscrittori dei titoli di stato, non stanno in realtà sostenendo alcun costo; se essi rinunciano al consumo
è perché in cambio hanno la promessa di essere
rimborsati in futuro del capitale e degli interessi. In ultima analisi, a sostenere un costo sono
solo i contribuenti, che pagano le imposte necessarie a finanziare la corresponsione degli interessi
ai creditori, ma nel caso di finanziamento a debito tali contribuenti sono parte della generazione futura; è chiara dunque la differenza rispetto
al caso di finanziamento con imposte correnti, in
cui il costo viene sostenuto dai contribuenti della
generazione presente.
A ben vedere il disaccordo di Buchanan dipende dal fatto che egli ritiene scorretto parlare di un
costo della collettività nell’aggregato, preferendo
focalizzarsi sugli effetti sui gruppi specifici di individui (i contribuenti, i creditori che detengono
il debito ecc.). Nella sua prospettiva, il costo del
ricorso al debito è identificato con il costo sopportato dagli individui obbligati al pagamento dell’imposta. Alla fine la risposta alla domanda «sono le generazioni future a pagare?» sembra essere questione definitoria: se ci riferiamo all’effetto
del debito sulle risorse a disposizione all’economia nel suo complesso in un momento futuro nel
tempo, vale la conclusione che non è possibile trasferire l’onere alle generazioni che verranno; se ci
riferiamo ai contribuenti come individui e considerando che il costo non sia dato da una minore disponibilità di risorse ma dall’essere soggetti
al prelievo coattivo delle imposte, concluderemo
che con il debito il costo viene trasferito su individui che almeno in parte appartengono a una generazione successiva a quella vivente al momento
dell’effettuazione della spesa.
in entrata e poi in uscita (in questo avvicinandosi maggiormente al caso del debito
privato): la possibilità di acquistare all’estero quanto necessario per realizzare l’opera pubblica, a fronte della necessità di trasferire all’estero gli interessi, e quindi
rinunciare a parte dei consumi, nei periodi futuri.
Affermare che per l’economia intesa come aggregato il debito non comporti un
trasferimento dal futuro al presente (tra «generazioni») non equivale tuttavia a sostenere che la presenza del debito pubblico e la sua dimensione siano irrilevanti e
non impongano alcun costo. Il ragionamento per cui il debito non riduce le risorse
a disposizione delle generazioni future vale con riferimento a quello che potremmo indicare come il costo diretto del finanziamento della spesa effettuata e confuta
l’idea ingenua che il debito determini un trasferimento della spesa da un periodo
all’altro, che siano cioè le generazioni future a prestarci ciò di cui abbiamo necessità
oggi.
Occorre però considerare almeno due ulteriori aspetti. Il primo è che la presenza del debito impone l’obbligo di realizzare nei periodi futuri una redistribuzione
delle risorse tra i membri della collettività; visto che la posizione di ciascuno in
quanto contribuente è diversa da quella che ricopre in quanto creditore tale redistribuzione può essere di entità rilevante. Abbiamo visto che le imposte non sono
un mero trasferimento, ma comportano dei costi aggiuntivi (ci siamo già soffermati
sulla nozione di eccesso di pressione e sulla distorsività delle imposte, che abbiamo
reso con l’immagine del «secchio bucato» di Okun). Naturalmente la perdita ci
sarebbe stata anche in caso di finanziamento tramite imposte correnti, ma si sarebbe verificata per intero al momento in cui è effettuata la spesa; il finanziamento a
debito ha l’effetto di spostare tale distorsione, e quindi il relativo costo, nel futuro.
Un secondo aspetto da considerare è che il ricorso al debito potrebbe modificare
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le scelte degli individui in merito al risparmio e all’accumulazione di capitale. Il
finanziamento tramite debito pubblico dovrà attingere al risparmio della generazione corrente (ragioniamo qui nell’ipotesi di un’economia chiusa), e questo avrà
l’effetto di ridurre le risorse disponibili per altri impieghi concorrenti dello stesso.
L’effetto del finanziamento con debito sarà pertanto quello di ridurre le risorse disponibili per aumentare, tramite gli investimenti, la dotazione di capitale privato,
e quindi il reddito disponibile delle generazioni future.
L’idea che il debito si traduca in una riduzione del risparmio disponibile per investimenti privati e la tassazione, riducendo i consumi privati correnti, non abbia tale
effetto potenzialmente negativo per la crescita, presuppone che gli individui reagiscano diversamente ai due strumenti di finanziamento; in particolare, presuppone
che i titoli del debito pubblico vengano considerati come ricchezza privata, cioè
che gli individui anticipino al proprio attivo la percezione degli interessi sui titoli
ma non considerino simmetricamente una passività la prospettiva di dover pagare
in futuro le imposte per finanziare quegli interessi. Il consumo corrente resta invariato (con il risultato di una riduzione della spesa per investimenti privati) per
effetto della mancata anticipazione dei costi del debito. Questa diversa percezione dei benefici e dei costi nei due casi può essere considerata come una forma di
«illusione finanziaria».
L’effetto macroeconomico del ricorso al debito viene dunque a dipendere da come esso influenzerà le decisioni individuali di consumo e risparmio. Assume inoltre rilevanza l’effetto che tali decisioni avranno sugli investimenti. A questo riguardo, le posizioni degli economisti sono tutt’altro che unanimi e possono essere
schematizzate come segue.
A un estremo, è stato sostenuto che individui perfettamente razionali e lungimiranti considereranno del tutto indifferente il finanziamento con imposte o con
debito, per cui la modalità di finanziamento della spesa pubblica non ha rielvanza:
è questa la tesi dell’equivalenza ricardiana, approfondita nel Riquadro 2.
• Al di fuori di tale ipotesi, ritenendo che gli individui non reagiscano all’emissione di debito pubblico aumentando il proprio risparmio in misura equivalente,
si argimento che il debito pubblico determini una riduzione del rispamio disponibile e quindi uno spiazzamento degli investimenti privati, con effetti negativi sull’accumulazione di capitale e quindi sul reddito futuro (osserviamo che l’effeto di
spiazzamento dovrebbe essere meno rilevante in un contesto di mobilità internazionale dei capitali, nel quale è possibile attingere al risparmio estero senza che
questo determini un aumento dei tassi di interesse).
• In un’ottica keynesiana, dal fatto che il debito pubblico determini una contrazione del risparmio aggregato seguono conclusioni diametralmente opposte: l’effettuazione di spesa in deficit determinerà, tramite l’effetto del moltiplicatore della
domanda aggregata, un aumento del livello del PIL e del reddito. Ciò è vero in
particolare quando l’economia è al di sotto del livello di pieno impiego. In questo
caso la spinta della domanda produrrà un aumento della produzione e una riduzione della disoccupazione senza innescare effetti inflazionistici e senza spiazzare
la spesa privata. Inoltre, è l’aumento della domanda, non la disponibilità di risparmio, a promuovere l’attività di investimento dei privati. Nelle parole di Vickrey
[1998, p. 1340, trad. nostra]
•
I deficit sono considerati una forma di prodigalità immorale a spese delle
future generazioni, che avranno una minore dotazione di capitale. […]
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BOX 2. La tesi dell’«equivalenza ricardiana»
La tesi per cui il debito pubblico sarebbe percepito dal settore privato come ricchezza è stata oggetto di critica negli anni Settanta da parte dell’economista Robert Barro, che ha ripreso e ampliato un vecchio argomento avanzato già all’inizio del XIX secolo da David Ricardo. Ricardo osservò che, su un piano di equivalenza attuariale,
il finanziamento di una spesa a debito può essere considerato equivalente al suo finanziamento
tramite un’imposta sul patrimonio corrente. L’equivalenza veniva evidenziata da Ricardo ipotizzando che il servizio del debito venisse finanziato
con imposte patrimoniali; sappiamo che il valore
attualizzato di un’imposta gravante su un patrimonio si capitalizza sul valore corrente dello stesso. La riduzione del valore del patrimonio per effetto delle imposte future richiesta dalla presenza
del debito è duque equivalente alla riduzione che
sarebbe determinata se, invece di ricorrere al debito, a tale patrimonio fosse applicata un’imposta una tantum dello stesso ammontare. Ricardo
era ben consapevole come tale conclusione fosse solo un’astrazione: debito e imposte sarebbero
considerati equivalenti dai contribuenti solo sotto ipotesi irrealistiche circa la loro capacità di anticipare correttamente gli effetti futuri delle decisioni odierne. Lo scetticismo di Ricardo non
ha tuttavia impedito di ribattezzare «equivalenza
ricardiana» la tesi della perfetta equivalenza tra
imposte correnti e ricorso al debito.
Nella sua riformulazione dell’argomento ricardiano, Barro afferma che individui razionali non saranno soggetti a illusione finanziaria: in presenza di un ricorso al debito pubblico, essi terranno
conto delle maggiori imposte future che ne deriveranno e reagiranno accantonando una quantità
corrispondente di risorse (cioè riducendo i pro-
pri consumi e aumentando il risparmio in misura pari al debito stesso). All’obiezione che parte
del debito potrebbe essere a carico non già di tali individui ma delle generazioni future, Barro risponde ipotizzando che gli individui di oggi considerino i propri discendenti come propria estensione, cioè che essi tengano conto del benessere
di figli e nipoti nelle proprie decisioni di consumo e risparmio† ; essi si comportano cioè come se
avessero un orizzonte di vita infinito. Per questa
ragione, diventa per loro indifferente il momento
in cui le imposte dovranno essere pagate: che le
imposte siano pagate oggi o nel futuro, essi riallocheranno i propri consumi sull’intero orizzonte temporale in modo ottenere il profilo di spesa desiderato. In pratica, essi risponderanno alla
scelta del governo di posticipare le imposte aumentando il proprio risparmio e i lasciti ai propri
eredi.
La tesi dell’equivalenza ricardiana nella formulazione di Barro è stata utilizzata negli anni Settanta per contestare, nell’ambito della più generale
critica alle politiche fiscali espansive di impronta
keynesiana, l’idea che la spesa pubblica in deficit
potesse avere un’efficacia espansiva maggiore della spesa finanziata con imposte. Se gli individui di
oggi tengono conto del costo delle imposte future, un’espansione della spesa pubblica in deficit,
non diversamente dal caso di spesa finanziata con
imposte, sarà compensata e quindi vanificata nei
suoi effetti macroeconomici da una riduzione dei
consumi privati [Barro, 1974].
†
Per la validità di questo argomento non occorre ipotizzare che gli individui valutino l’utilità delle generazioni future al pari della propria, è sufficiente che l’utilità dei discendenti sia presa in considerazione come
determinante delle scelte di risparmio.
La realtà è l’esatto opposto: i deficit aumentano il reddito disponibile
degli individui, in quanto le spese dei governi che costituiscono un reddito per i destinatari di quelle spese eccedono quanto sottratto al loro
reddito disponibile da imposte, tasse e tariffe. Questo potere d’acquisto aggiuntivo, una volta speso, induce un aumento della produzione e
investimenti in capacità produttiva aggiuntiva, che rappresenterà parte
della vera eredità per il futuro. Ciò in aggiunta agli investimenti pubblici in infrastrutture, istruzione, ricerca e così via. Maggiori spese in
deficit, tali da riciclare i risparmi, derivanti da un PIL sempre crescente, in eccesso su quanto può essere riciclato dall’azione di investimento
dei privati motivata dal profitto, lungi dall’essere qualcosa di immorale
è una necessità economica.
Molti economisti riconoscono la validità della tesi keynesiana per il breve periodo,
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quando l’economia è in condizioni di sotto-utilizzazione delle risorse, ma mettono in guardia sul fatto che l’accumulo di debito pubblico possa compromettere la
crescita nel medio/lungo periodo.
In aggiunta all’effetto negativo sul risparmio e allo spiazzamento degli investimenti
privati, si possono individuare altri canali attraverso i quali l’accumulo di un debito pubblico elevato potrebbe compromettere la crescita dell’economia. Tali effetti
dipendono non tanto dalla spesa in deficit e dal ricorso al debito in sé, quanto dal
fatto che possa esserci un limite massimo al debito tollerabile per un’economia. In
prossimità di tale limite, la difficoltà di ricorrere ulteriormente al debito può compromettere la capacità di un governo di mettere in campo politiche di stabilizzazione anticicliche. Inoltre, i timori degli investitori sulla capacità di sostenere il debito
possono portare ad aumenti dei tassi di interesse con effetti avversi sull’economia.
La questione del rapporto tra debito pubblico e crescita è stata anche oggetto di
numerose analisi empiriche, che hanno per lo più evidenziato come bassa crescita e debito elevato tendano ad essere fenomeni correlati, almeno per le economie
anvanzate. Tuttavia, in questo come in altri casi, correlazione non significa necessariamente presenza di un nesso causale. Come abbiamo già detto e come vedremo
meglio in seguito, l’aumento del debito è un effetto della bassa crescita prima ancora che esserne una causa; inoltre, bassa crescita e tendenza ad accumulare debito
potrebbero avere una spiegazione comune, per esempio una debolezza delle istituzioni o una conduzione poco lungimirante della politica economica. L’analisi dei
dati non consente dunque di concludere che vi sia un effetto del livello del debito
sulla crescita [Debrun et al., 2020], e non ha consentito di individuare una soglia
precisa, comune ai diversi paesi, oltre la quale il debito possa rappresentare un
problema.
In conclusione, possiamo affermare che l’esistenza del debito pubblico, finché il
suo livello non è tale da mettere in dubbio la capacità dello Stato di sostenerlo,
determinando un rischio di insolvenza, non sembra rappresentare un problema.
Anzi, il fatto che lo Stato sia un debitore affidabile fa sì che all’emmissione di titoli
di stato si riconosca un ruolo positivo, visto che essi rappresentano un’attività a
basso rischio (safe asset) necessaria per un’efficienza diversificazione dei portafogli dei risparmiatori. Occorre dunque spostare la nostra attenzione al tema delle
determinanti dell’evoluzione del debito e della sua sostenibilità.
3. Dimensione e sostenibilità del debito pubblico
3.1. Il debito pubblico nella contabilità nazionale
Il debito pubblico corrisponde alla somma di un insieme specifico di passività della pubblica amministrazione. La definizione utilizzata nell’ambito della UE5 comprende tra tipologie di passività finanziarie: (1) biglietti, monete e depositi; (2) titoli
diversi dalle azioni, esclusi gli strumenti finanziari derivati; (3) prestiti. Convenzionalmente non fanno parte del debito pubblico le banconote, emesse dal sistema
della Banca centrale europea, ma ne fanno invece parte le monete metalliche, che
sono coniate per conto del Tesoro dei singoli stati. Un’altra importante esclusio5
Tale definizione è codificata in un protocollo allegato al Trattato di Maastricht ed è ulteriormente
specificata nel Manual on Government Deficit and Debt, pubblicazione aggiornata periodicamente in
linea con le convenzioni contabili SEC2010.
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debito pubblico / PIL
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Germania
Spagna
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Francia
Irlanda
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Italia
Regno Unito
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2019
2018
2017
2016
2015
2014
2013
2012
2011
2010
2009
2008
2007
2006
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2004
2003
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1998
1997
1996
0
ne dalla definizione ufficiale di debito sono i cosiddetti debiti commerciali della
Pubblica amministrazione, ovvero i debiti verso fornitori in attesa di pagamento6 .
Nelle economie avanzate e in quelle emergenti, la maggior parte del debito è in
forma di titoli negoziabili sui mercati finanziari, mentre un ruolo più limitato hanno
i prestiti da parte di istituzioni finanziarie nazionali e internazionali. Diversa è la
situazione di molti paesi in via di sviluppo, con mercati finanziari poco sviluppati,
il cui debito consta in prevalenza di prestiti ottenuti da altri stati o da istituzioni
internazionali (es. la Banca mondiale).
Ai fini del calcolo del debito, viene preso in considerazione il valore facciale dei
titoli, ovvero il valore dovuto al momento del rimborso (in alternativa, sarebbe
possibile riferirsi al valore di mercato, ma ciò renderebbe il calcolo più complesso
e l’ammontare più volatile).
Il soggetto debitore che si prende in considerazione è la pubblica amministrazione, cioè il consolidato delle amministrazioni centrali, di quelle locali e degli enti
di previdenza; da questo aggregato (indicato nelle statistiche internazionali come
general government) vengono lasciate fuori le imprese pubbliche finanziarie e non
finanziarie. Essendo la banca centrale, in quanto istituzione finanziaria, esterna al
perimetro della pubblica amministrazione, non si considerano debito pubblico le
sue passività, mentre sono parte del debito pubblico i crediti che essa vanta verso il
Tesoro7 . Il fatto che negli ultimi anni le banche centrali abbiano acquistato rilevanti quantità di titoli pubblici (con il quantitative easing) comporta che il debito nelle
mani dei risparmiatori privati sia in effetti solo una parte del livello complessivo del
debito.
6
I debiti commerciali dovrebbero essere saldati nell’arco di pochi mesi, ma spesso i ritardi nei
pagamenti hanno portato nel nostro Paese all’accumulo di uno stock consistente di debiti, dell’ordine
di diverse decine di miliardi di euro. Un vero e proprio debito nascosto alle statistiche ufficiali, che
ha reso necessarie operazioni straordinarie di ripianamento.
7
Altre importanti istituzioni finanziarie pubbliche le cui passività non rappresentano debito
pubblico sono la Cassa Depositi e Prestiti e le omologhe casse esistenti in altri paesi europei.
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Figura 1. Il
rapporto
debito/PIL in
alcuni paesi
dell’eurozona
(1996-2019)
10
Analogamente, l’esclusione dall’aggregato di unità (banche o imprese) di proprietà
pubblica può avere conseguenze rilevanti ai fini di un corretto apprezzamento della
posizione debitoria dello Stato, sia perché tali unità possono detenere debito pubblico nel proprio portafogli (dunque, il debito non esisterebbe se consolidassimo i
loro conti con quelli della Pubblica amministrazione), sia perché esse possono avere a loro volta passività che in caso di necessità lo Stato potrebbe essere chiamato
a ripianare.
Altre passività non incluse nel debito pubblico sono i debiti, anche di soggetti privati, per i quali lo stato ha offerto una garanzia; da tale garanzia potrebbe sorgere,
in caso di insolvenza del soggetto debitore, un’obbligazione per lo Stato. Se tali
garanzie sono esplicite si parla «passività contingenti», ma in alcuni casi può trattarsi di passività implicite. Si pensi alle istituzioni finanziarie too big too fail, ovvero
le istituzioni che in caso di difficoltà lo Stato non può permettersi di lasciar fallire,
pena il tracollo dell’intero sistema finanziario. Nel caso della crisi del 2008, diversi
stati europei che partivano da un livello di debito pubblico «ufficiale» molto contenuto si sono ritrovati nel giro di pochissimo tempo a raggiungere livelli molto
elevati per effetto delle operazioni di salvataggio nei confronti dei rispettivi sistemi
bancari; emblematico il caso dell’Irlanda, il cui rapporto debito/Pil passò dal 25%
del 2007 al 111% nel 2011.
Oltre ai casi sopra riportati, vi sono altri tipi di obbligazioni finanziarie che lo Stato
ha assunto nei confronti dei cittadini. Tra di esse in primo luogo le pensioni: si
parla di debito pensionistico con riferimento al valore delle pensioni future non
«coperte» da attività finanziarie (dunque, nel caso di un sistema a ripartizione, il
valore attuale totale dei diritti pensionistici maturati). Il valore stimato del debito pensionistico può essere assai elevato (tra il 15 e il 20% del Pil nei principali
paesi europei); tuttavia, si tratta di un ammontare la cui determinazione è incerta,
sia perché l’esborso dipende dalle previsioni sull’andamento demografico e sull’andamento delle variabili macroeconomiche, sia perché lo Stato può modificare
unilateralmente le modalità di calcolo della pensione.
Infine, il debito cui si fa comunemente riferimento è il debito lordo. Per una visione
più completa della posizione finanziaria della pubblica amministrazione dovremmo
tuttavia considerare anche il lato delle attività. Si consideri il caso della Norvegia:
a fronte di un debito lordo pari nel 2019 a circa il 40% del Pil, il paese scandinavo
dispone di un fondo sovrano alimentato dai proventi delle estrazioni petrolifere
nel Mare del Nord, la cui consistenza, nell’ordine del 150% del Pil, porta il debito
netto a valori negativi, pari al (-105% del Pil nel 2019). Senza arrivare a situazioni
così eclatanti, è chiaro che, dato un certo stock di debito, uno Stato si troverà in
una posizione ben diversa a seconda che disponga o meno di un portafoglio di
partecipazioni in imprese pubbliche o altre attività finanziarie o reali (es. immobili,
infrastrutture, risorse naturali o riserve in oro o valuta).
3.2. L’aritmetica del rapporto debito/PIL
Ci soffermiamo ora sul rapporto esistente tra le variabili di bilancio e il debito al
fine di identificare la «regola» che ne descrive la dinamica. Il punto di partenza è
la relazione esistente tra debito e deficit descritta dalla seguente semplice relazione
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11
contabile8 :
[15.1]
Bt = Bt−1 + Dt
lo stock di debito pubblico alla fine del periodo t (Bt ) è pari allo stock alla fine del
periodo precedente (Bt−1 ) aumentato del deficit di bilancio realizzato nel periodo
Dt .
A noi, tuttavia, più dello stock di debito interessa il rapporto tra questo e il PIL. La
ragione è semplice: il peso del debito è sempre relativo alle dimensioni dell’economia, visto anche che è dalla ricchezza creata nell’economia nazionale che il governo
potrà trarre, attraverso le imposte, le risorse per sostenere il debito stesso. Indicando con Yt il PIL nel periodo t (nota bene: il PIL è una variabile flusso, dunque
riferita non a un instante ma a un lasso di tempo di durata definita), abbiamo:
[15.2]
Bt Bt−1 Dt
Bt−1
D
=
+
=
+ t
Yt
Yt
Yt (1 + nt )Yt−1 Yt
con nt che rappresenta il tasso di crescita del PIL nel periodo t, per cui Yt = (1 +
nt )Yt−1 . Possiamo riscrivere l’equazione come
[15.3]
bt =
bt−1
+ dt
1 + nt
dove le lettere minuscole corrispondono ai valori delle variabili (debito e deficit) in rapporto al PIL corrente. La formula evidenzia come il valore finale del
rapporto debito/PIL dipenda positivamente dal deficit (in rapporto al PIL) dt e
negativamente dalla crescita del PIL nt .
Un esercizio interessante è studiare l’evoluzione di bt al crescere di t nell’ipotesi
che queste due variabili restino costanti nel tempo (dunque dt = d e nt = n). In
questo caso la legge di crescita di bt è
[15.4]
bt =
1
b +d
1 + n t−1
si tratta di un’equazione alle differenze che descrive una traiettoria convergente
in quanto il coefficiente 1/(1 + n) è inferiore a uno. Il livello b∗ cui bt converge
asintoticamente si può facilmente trovare ponendo b∗ = bt = bt−1 . Otteniamo:
[15.5]
b∗ =
1+n
d
d≈ .
n
n
In altre parole: mantenendo costante il rapporto deficit/PIL (d) e in presenza di
un tasso di crescita costante n, il rapporto debito/PIL tenderà a convergere a un
livello finito e pari approssimativamente al rapporto d/n. Questa conclusione trova
riscontro nelle regole definite dall’Unione europea nel Trattato di Maastricht del
1992 (vedi Esempio 1).
Il processo di convergenza è illustrato nella figura 2. Partendo da b1 , il livello b2 è
dato dal valore assunto dalla retta che rappresenta l’equazione [15.4]. Riportando
tale valore sull’asse orizzontale per mezzo della bisettrice troviamo b3 e così via
fino a convergere al livello b∗ che corrisponde al punto di incontro della retta che
rappresenta la [15.4] con la bisettrice.
In presenza di debito pubblico, l’ammontare del deficit non è determinato interamente dalle decisioni relative alla spesa e alle entrate pubbliche, in quanto una
8
Come vedremo più avanti, il debito può variare anche per altre ragioni, diverse dal deficit, il cui
effetto è classificato come variazione stock-flussi.
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Figura 2. La
convergenza
del rapporto
debito/PIL con
deficit e
crescita
costanti
ð‘ð‘Ą
=
ð‘ð‘Ą
−1
ð‘ð‘Ą
ð‘ð‘Ą
=
1 ð‘ð‘Ą
𝑛
1+
−1
+𝑑
45â—Ķ
𝑏∗ 𝑏4 𝑏3
𝑏 ð‘Ą−1
𝑏2
𝑏1
Esempio 1. I parametri del Trattato di Maastricht
Il Trattato di Maastricht del 1992 stabilisce che la politica di bilancio dei paesi dell’Unione europea sia vincolata al rispetto di alcuni parametri. In particolare, il rapporto
deficit/PIL non può eccedere il 3% e il rapporto debito/PIL non può eccedere il 60%
(o, se più alto di questo valore, deve convergere verso tale livello).
La scelta di tali parametri può essere compresa considerando che all’inizio degli anni
Novanta era considerata fisiologica una crescita nominare del PIL pari al 5% (in presenza di inflazione del 2%, in linea con il mandato di stabilità dei prezzi conferito alla
Banca centrale europea, una crescita nominale del 5% corrisponde a una crescita reale
del 3%).
Applicando la formula [15.5] vediamo che crescita del 5%, deficit del 3% e debito del
60% rappresentano valori tra loro compatibili. Più precisamente, il mantenimento di
un deficit non superiore al 3% in presenza di crescita del 5% è in grado di assicurare
una convergenza del rapporto debito/PIL a un valore non superiore a 3%/5% = 60%.
parte della spesa è spesa per interessi sul debito pregresso. Possiamo dunque distinguere nel deficit la componente «ereditata» della spesa, gli interessi, da quella
più direttamente controllabile attraverso la politica di bilancio. Scriviamo:
[15.6]
Dt = iBt−1 − (Tt − Gt )
iBt−1 è la spesa per interessi, data dal prodotto del tasso di interesse i per lo stock
di debito alla fine del periodo precedente, Tt sono le imposte (o più in generale le
entrate) e Gt è la spesa pubblica al netto della spesa per interessi, ovvero la spesa
primaria; la differenza Tt − Gt è il saldo primario (quando la differenza è positiva si
parla di avanzo primario) nel periodo t. Dividendo tutti i termini al PIL corrente
Yt e ricordando che Yt = (1 + n)Yt−1 , abbiamo:
Dt
Bt−1
T − Gt
[15.7]
=i
− t
Yt
(1 + n)Yt−1
Yt
che, utilizzando le variabili rapportate al PIL, possiamo riscrivere come:
i
[15.8]
dt =
b − at
1 + n t−1
dove at = (Tt − Gt )/Yt rappresenta il saldo primario in rapporto al PIL9 .
Sostituendo l’espressione di dt nella [15.4] e rimaneggiando i termini otteniamo
1+i
[15.9]
b − at
bt =
1 + n t−1
9
Il lettore presti attenzione al fatto che nella nostra formulazione un valore positivo di at
rappresenta un avanzo, mentre un dt positivo indica un saldo negativo, cioè una situazione di deficit.
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BOX 3. Valori reali e nominali della crescita e degli interessi
L’espressione [15.10] fa riferimento al tasso di crescita nominale (l’aumento del PIL
incorpora cioè l’aumento dei prezzi dei beni prodotti) e al tasso di interesse nominale.
In molti casi può essere utile depurare tali dati dalla componente inflazionistica. La
crescita reale g è calcolata a partire dalla crescita nominale n depurandola dal tasso di
inflazione π, secondo la formula:
1 + n = (1 + g)(1 + π).
Analogamente, è possibile calcolare il rendimento reale di un’attività, cioè il rendimento al netto dell’aumento del valore dell’attività stessa che rappresenta un mero recupero
della perdita di potere d’acquisto. La relazione tra interesse reale r e nominale i è:
1 + i = (1 + r)(1 + π).
Con semplici calcoli abbiamo dunque:
r−g
(1 + r)(1 + π)
1+i
1+r
i−n
=
−1=
−1=
−1=
,
1+n 1+n
1+g
1+g
(1 + g)(1 + π)
per cui la [15.10] può essere riscritta con riferimento alle variabili reali:
bt − bt−1 =
r−g
b − at .
1 + g t−1
equazione che mette in relazione diretta il saldo primario con il debito pubblico al
termine del periodo, in funzione del debito pregresso, del tasso di interesse e del
tasso di crescita. Possiamo riformulare l’espressione esplicitando la variazione del
rapporto debito/PIL:
i−n
[15.10]
Δbt = bt − bt−1 =
b − at ;
1 + n t−1
la variazione del rapporto debito/PIL viene qui scomposta in una componente
«inerziale» e in una componente, l’avanzo primario, che riflette più direttamente
le scelte di politica fiscale; la componente inerziale, in quanto rappresenta l’effetto
dovuto alla dinamica interesse-debito, dal quale potrebbe innescarsi un processo
di crescita incontrollata, è a volte indicato con il termine suggestivo di «effetto palla
di neve» (snowball effect).
Il termine (i − n)/(1 + n) è spesso indicato come tasso di interesse aggiustato per
la crescita; vediamo che il ruolo svolto da questa variabile nella relazione [15.10],
dove le quantità sono espresse in rapporto al PIL, è del tutto simmetrico rispetto al
ruolo di i nell’espressione corrispondente con le variabili in valore assoluto: ΔBt =
iBt−1 − (Tt − Gt ).
L’equazione [15.10] è estremamente utile per determinare, ad esempio, il saldo primario necessario a stabilizzare il rapporto debito/PIL; in questo caso basta infatti
imporre la condizione di invarianza di tale rapporto (Δbt = 0) per ottenere:
i−n
[15.11]
at =
b ;
1 + n t−1
un livello dell’avanzo at superiore a tale valore determinerà dunque una riduzione
del bt , e simmetricamente un livello inferiore darà luogo a un aumento del rapporto debito/PIL. Procedendo in modo analogo, a partire dalla [15.10] è possibile
determinare il saldo primario necessario per ottenere obiettivi diversi dalla stabilizzazione, ad esempio una riduzione del rapporto debito/PIL di un valore desiderato. Va tuttavia precisato che l’aggiustamento di at così determinato otterrà l’effetto
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BOX 4. Le determinanti del debito pubblico italiano
L’equazione [15.10] ci aiuta ad analizzare i fattori
che determinano l’evoluzione del debito pubblico. Possiamo scomporre ulteriormente il termine che rappresenta l’effetto snowball in due componenti, quella dovuta al tasso di interesse, che
aumenta il debito, e quella dovuta alla crescita
nominale del PIL, che lo riduce. La crescita del
rapporto debito/PIL risulta così determinata
Δbt
=
i
n
bt−1 −
b −
1+n
1 + n t−1
spesa per
interessi
crescita
debito
crescita PIL
nominale
at
avanzo
primario
Alle componenti indicate occorre aggiungerne
una quarta, detta aggiustamenti stock-flussi, che
ricomprende le variazioni nello stock del debito
non riconducibili al saldo negativo o positivo del
conto economico: ad esempio acquisizioni nette di attività finanziarie, modifiche del valore del
debito in valuta dovute a variazioni del tasso di
cambio, aggiustamenti statistici.
Il grafico in calce illustra l’evoluzione del debito italiano da 1980 ad oggi, evidenziando il peso
delle quattro componenti descritte. Nella parte
superiore è riportato il rapporto debito/PIL, bt ;
nella parte inferiore, le barre sono posto al di sopra o al di sotto dello zero a seconda che abbiano
contribuito ad aumentare o a ridurre il rapporto
debito/PIL. L’altezza della bassa indica l’entità di
tale contributo. I rombi indicano l’effetto netto,
ovvero la variazione Δbt , in ciascun anno.
Negli anni Settanta (non indicati nel grafico) la
crescita del rapporto debito/PIL era stata limitata nonostante il manifestarsi di deficit di bilancio.
Ciò era dovuto principalmente al contenimento
dei tassi di interesse per effetto dell’acquisto massiccio di titoli di Stato da parte della Banca d’Italia
(con conseguente creazione di base monetaria),
nonché dell’elevata inflazione e crescita nominale di quegli anni. La preoccupazione per le tensioni inflazionistiche spinse a un mutamento nel
regime di politica monetaria, sancito nel 1981 dal
cosiddetto «divorzio» tra Tesoro e Banca d’Italia,
a seguito del quale la banca pose fine alla politica
di acquisti sistematici.
% GDP
120
100
80
2015
2010
2005
2000
1995
1990
1985
1980
60
♦ = yearly growth of debt/GDP
15
10
% GDP
5
0
-5
-10
-15
primary balance
interest expenditure
nominal GDP growth
stock-flow adjustment
Source: own elaboration on Eurostat data
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15
L’esame del grafico ci consente di riconoscere
diverse fasi:
1980­1992: per effetto di un aumento dei tassi
di interesse (in tutto il mondo la politica monetaria diventa meno accomodante) e della riduzione
drastica del tasso di inflazione, la differenza tra
interessi e tasso di crescita nominale diventa positiva; i governi di quegli anni esitano ad accompagnare l’aumento della spesa pubblica con aumenti della pressione fiscale: il deficit primario
che ne risulta e l’effetto «snowball» determinano
un aumento estremamente marcato del rapporto
debito/PIL, che in dodici anni raddoppia;
riesce a ridurre il debito di oltre 15 punti;
2007­2015: è un periodo di forti turbolenze; la
crisi finanziaria, determinando una forte contrazione del PIL, peggiora sensibilmente i conti pubblici di tutti i paesi europei; la successiva crisi
debitoria che investe i paesi del Sud Europa nel
2010-11 spinge all’adozione di politiche di austerità finalizzate a migliorare il saldo di bilancio e
scongiurare una crisi di fiducia degli investitori;
tali politiche finiscono tuttavia per deprimere ulteriormente la crescita e il rapporto debito/PIL
arriva al 135%;
1992­1995: l’aumento del rapporto debito/PIL
viene interrotto da energiche politiche di austerità
(aumenti della pressione fiscale e riduzione della
spesa pubblica): il saldo primario passa in avanzo, e salvo eccezioni resterà sempre in avanzo da
questo momento in poi;
2015­oggi: il rapporto debito/PIl si stabilizza al
di sopra del 130% mentre, aiutata da bassi tassi
di interesse, l’economia italiana cerca un difficile
equilibrio tra rispetto dei vincoli di bilancio europei e tentativi di rilancio della crescita; in tale situazione già precaria interviene la crisi del Covid,
attualmente in corso.
1996­2007: lo sforzo di risanamento del bilancio
viene favorito dalla riduzione dei tassi di interesse; anche in questo caso si tratta di un fenomeno mondiale, ma nel caso dell’Italia viene aiutato
dalla scelta di adesione all’euro, che modifica le
aspettative di inflazione e di svalutazione; la spesa per interessi resta bassa fino alla Grande Recessione: realizzando avanzi primari e nonostante
la crescita non certo vivace di questi anni l’Italia
A completamento della nostra analisi, il grafico in
calce riporta la serie storica dell’andamento mensile del tasso di interesse medio sulle emissioni di
titoli di stato nel periodo considerato. A tale serie
abbiamo affiancato (linea grigia «a gradini») quella della crescita annua del PIL nominale. Come
già ricordato, il manifestarsi di una differenza positiva tra le due variabili concorre a determinare
la crescita del rapporto debito/PIL.
20
15
10
5
0
−5
1984
1989
1994
1999
2004
2009
2014
2019
Fonte: Eurostat
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16
previsto su bt solo a condizione che i e n restino invariati; questa condizione non
è in generale garantita, visto che la politica di bilancio influenza il tasso di crescita
dell’economia (si pensi all’effetto depressivo di una politica di consolidamento fiscale sulla domanda interna) e potrebbe determinare, attraverso una modifica delle
aspettative degli investitori, il tasso di interesse pagato sui titoli di stato.
L’esame della [15.10] e della [15.11] ci suggerisce alcune considerazioni sull’evoluzione del rapporto debito/PIL in funzione del livello dell’avanzo primario:
• quando i > n, per evitare un aumento del debito è necessario un saldo primario
at positivo e maggiore del livello indicato dalla [15.11]; notiamo che tale livello
risulta crescente al crescere del rapporto debito/PIL: ciò significa che al crescere
del rapporto debito/PIL diventa sempre più difficile frenarne una crescita ulteriore;
se l’avanzo at è inferiore al livello richiesto dalla [15.11], l’effetto sarà dunque quello
di un aumento progressivo e sempre più rapido di bt a causa dell’effetto snowball;
• viceversa, quando n > i la dinamica del debito è stabile: visto che il tasso di interesse aggiustato per la crescita è negativo, un aumento del rapporto debito/PIL
riduce la crescita dello stesso; ciò implica che fissare il saldo primario at a un qualsiasi livello (anche un livello negativo) è sufficiente a garantire una convergenza del
rapporto debito/PIL bt verso un valore finito10 .
In sintesi, l’evoluzione del debito pubblico dipenda dall’interazione di tre variabili:
l’avanzo primario at , il tasso di crescita n e il tasso di interesse i. Anche se la politica
fiscale influenza direttamente at e (almeno nel breve periodo) n e può influenzare
indirettemente i, dovrebbe essere chiaro che aumento e diminuzione del debito
riflettono un insieme di fattori che vanno ben oltre la gestione del bilancio pubblico,
e includono le politiche per la crescita e la politica monetaria, sia nazionale che
internazionale, nonché fattori in parte al di fuori del controllo dei governi.
Gran parte della discussione tra economisti sulla strategia più adeguata per affrontare una situazione di debito elevato riguarda proprio l’effetto delle politiche di
aggiustamento del saldo primario sulle altre variabili macroeconomiche. Da un
lato, chi sottolinea la rilevanza degli effetti delle variabili fiscali sulla domanda aggregata, mette in evidenza come politiche di consolidamento fiscale (un aumento
di at ) possano essere vanificate dall’effetto depressivo sulla domanda e quindi su
n (almeno nel breve periodo); dall’altro, chi auspica l’adozione di tali politiche
sottolinea l’effetto che una decisa azione di risanamento può ingenerare sulla fiducia degli investitori, determinando una riduzione del tasso i tramite l’effetto sulle
aspettative11 .
3.3. Insolvenza e sostenibilità del debito pubblico
Esiste un livello massimo del rapporto debito/Pil, raggiunto il quale uno Stato può
dirsi insolvibile?
Introduciamo innanzitutto alcune definizioni: parliamo di insolvenza se un debitore non è in grado di onorare le obbligazioni derivanti dal proprio debito, cioè di
rimborsare i titoli alla scadenza e di corrispondere gli interessi ai creditori. Il manTale valore può essere desunto procedendo in modo analogo a quanto fatto per trovare b∗ nella
[15.5]: fissiamo b = bt = bt−1 nella [15.9] e otteniamo b = a(1 + n)/(i − n).
11
È questo il meccanismo alla base della confroversa tesi della «austerità espansiva», che afferma
come l’effetto depressivo dei tagli alla spesa pubblica possa essere più che compensato dalla spinta
esercitato sugli investimenti privati dalle aspettative suscitate dal risanamento di bilancio.
10
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cato pagamento degli interessi o del capitale alla scadenza è detto default12 ; si parla
di default anche nel caso di una rinegoziazione del debito coi creditori, che può
consistere in una modificazione delle scadenze di pagamento (es. trasformazione
di titoli a breve in titoli a lungo termine) o una riduzione del valore dei pagamenti
(in questo caso si parla di ristrutturazione del debito). Un caso recente di rinegoziazione del debito pubblico è stato quello della Grecia nel 2012, dopo molti decenni
nei quali non si assistiva a casi di default in Europa occidentale.
Un debitore che ha risorse sufficienti a evitare una situazione di insolvenza è detto solvibile. In termini più precisi, la solvibilità è definita dal rispetto del vincolo
di bilancio intertemporale, ovvero dalla condizione che il valore attuale dei saldi
primari di bilancio futuri sia pari al valore attuale degli esborsi derivanti dal debito (interessi più stock del debito stesso). Come abbiamo già detto, gli stati sono
debitori particolari: la loro vita è virtualmente infinita, dunque nel caso del debito
pubblico non si prevede che la restituzione del capitale avvenga in un orizzonte finito. La definizione riportata è dunque corretta in astratto, ma la sua applicazione
richiederebbe la formulazione di previsioni attendibili sulla politica di bilancio e
sull’andamento macroeconomico futuro su un orizzonte virtualmente infinito.
Su un piano più operativo, si preferisce dunque parlare di sostenibilità del debito,
con riferimento a una situazione in cui c’è un elevata probabilità uno Stato risulti
solvibile. Un criterio per valutare la sostenibilità si può ottenere a partire dalle
condizioni analizzate nel paragrafo precedente, relative all’evoluzione del debito in
funzione dei valori correnti del saldo di bilancio e delle variabili macroeconomiche
rilevanti; in particolare dalla condizione [15.11], che individua l’avanzo primario
compatibile con una stabilizzazione del rapporto debito/PIL. Quando tale avanzo
può essere mantenuto a un livello pari o superiore a quello necessario a evitare un
aumento del debito/PIL, possiamo escludere che il debito si avvii su un sentiero di
crescita «esplosiva». Un livello dell’avanzo primario temporaneamente inferiore a
quello richiesto non rappresenta un problema, a patto che il divario sia rapidamente
colmabile con un’appropriata azione correttiva del governo. La dimensione del
divario ci dà dunque una misura del grado di sostenibilità del debito pubblico.
L’indicatore di sostenibilità fiscale di lungo termine utilizzato dalla Commissione
europea, denominato s2, si ispira a questa logica: esso indica l’aggiustamento fiscale
necessario a stabilizzare il rapporto debito/PIL al livello corrente.
Osserviamo che il criterio descritto non individua uno specifico livello del rapporto
debito/PIL, anche se la formula indica che maggiore è tale rapporto (bt ) maggiore
sarà l’avanzo primario richiesto per la sua stabilizzazione. Un livello limite potrebbe
essere tuttavia desunto dalla formula [15.11] se fossimo in grado di determinare il
massimo di avanzo primario aĖ‚ che il governo è in grado di realizzare. Esplicitando
da tale formula il valore del debito otteniamo
1+n
[15.12]
bĖ‚ =
a.Ė‚
i−n
Come già evidenziato, una volta superato il livello bĖ‚ e trovandosi nell’ipossibilità
di realizzare un avanzo superiore a a,Ė‚ il rapporto debito/PIL è destinato inesorabilmente ad aumentare lungo un sentiero di instabilità che porterà lo Stato a una
situazione di insolvenza.
Sebbene concettualmente chiaro, anche il criterio descritto resta di difficile applicazione pratica. Il livello a,Ė‚ il massimo valore di avanzo primario, dipende da una
12
Default e insolvenza non sono la stessa cosa perché il default può essere una scelta volontaria del
governo, non necessariamente dettata da un’incapacità di effettuare i pagamenti.
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BOX 5. Le conseguenze di un default
Anche se spesso di pensa al default come a una
scelta binaria, esso può aver luogo con varie modalità e intensità. Innanzitutto, uno Stato può scegliere di fare default rispetto ad alcuni ma non tutti i creditori: difficilmente le obbligazioni verso
istituzioni internazionali come il FMI subiscono
gli effetti di un default, mentre una rinegoziazione
del debito è più frequente nei rapporti di credito
bilaterali tra i governi o nei confronti dei privati
detentori di titoli. È inoltre possibile scegliere di
non rimborsare o rimborsare parzialmente, a seconda dei casi, ai soli creditori residenti o ai soli
non residenti.
Il default può essere unilaterale (hard) o negoziato (soft) con i creditori, può comportare una riduzione del valore del credito (si parla di haircut), in
alcuni casi sostanziale o addirittura totale, oppure consistere in una ridefinizione delle scadenze
su un orizzonte pù lungo (sostituzione di titoli a
breve termine con titoli a più lungo termine).
Rispetto a quello di un creditore privato, il default di uno Stato non è normalmente regolato da
una procedura codificata; alcuni effetti sono sotto il controllo dello Stato stesso, che è in grado di
imporre unilateralmente le proprie condizioni ai
creditori, almeno coloro che sono suoi cittadini
o residenti. A questo proposito, acquista rilievo
il fatto che la giurisdizione competente sia quella
nazionale o quella di qualche altro paese (scelta
frequente nel caso di paesi in via di sviluppo, finalizzata a conquistare la fiducia degli investitori
internazionali).
Si capisce dunque che le conseguenze di un default possono essere assai diverse. L’effetto più
ovvio consiste per il creditore in una perdita di
affidabilità, che può comportare l’esclusione dai
mercati internazionali dei capitali e/o un aumento
del costo di accesso a nuovo credito, per certo un
periodo (sulla durata di tale periodo, se sia limitato a pochi anni o estesa a un periodo più lungo,
le opinioni divergono).
Costi aggiuntivi per l’economia possono derivare dal fatto che la difficoltà di accesso al credito
può estendersi ai soggetti privati del paese in default. Spesso, il default danneggia le istituzioni
finanziarie che hanno molti titoli di stato in portafoglio (solitamente quelle dello Stato, ma non solo), riducendo nell’immediato le disponibilità di
credito per l’intera economica, con conseguenze
pesanti sull’attività economica complessiva e sulla
crescita.
pluralità di fattori di difficile determinazione, molti dei quali di natura politica:
quale aumento delle imposte o riduzione delle spese sono disposti ad accettare i
cittadini/elettori? La risposta può cambiare nel tempo, in funzione del grado di
consenso da parte dell’elettorato verso le politiche del governo, della percezione
dell’urgenza delle misure di aggiustamento nonché dell’equità della distribuzione
dei sacrifici richiesti, e così via. A certe condizioni, il governo potrebbe addirittura decidere che il costo politico di attuare pesanti misure di austerità è addirittura
superiore al costo di un default. La distinzione tra capacità e volontà di onorare le
proprie obbligazioni è in pratica tutt’altro che netta.
Ad aumentare ulteriormente la complessità del problema di identificare il possibile limite massimo del rapporto debito/PIL contribuiscono inoltre due ulteriori
elementi:
il possibile verificarsi di shock macroeconomici tali da determinare un repentino
ridimensionamento delle prospettive di crescita dell’economia: pensiamo a eventi
imprevisti come la recente pandemia, a crisi o recessioni di forte intensità, a un
peggioramento delle ragioni di scambio in paesi che dipendono in modo cruciale
dall’esportazione di risorse naturali, a un aumento dei costi di finanziamento dovuti a politiche monetarie restrittive nei paesi creditori e così via. Pur in presenza
di una situazione che sarebbe sostenibile in condizioni «normali», il verificarsi di
circostanze particolari potrebbe spingere l’economia su un sentiero non sostenibile.
• Un altro fattore di potenziale instabilità è dato dal ruolo delle aspettative. Per
potersi rifinanziare sul mercato, lo Stato deve risultare affidabile agli occhi dei suoi
creditori, ma l’affidabilità dipende a sua volta dalla possibilità di accedere a condi-
•
Massimo D’Antoni, 2021 — Materiale didattico protetto da licenza Creative Commons 4.0 (BY NC ND)
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zioni ragionevoli ai mercati finanziari. Non conta dunque solo il sussistere di condizioni oggettive di sostenibilità, la percezione del rischio di insolvenza da parte
degli investitori, il «sentimento» prevalente, è altrettanto importante. Su un piano concettuale gli economisti distinguono l’insolvenza dall’illiquidità, identificando
quest’ultima con l’incapacità di rifinanziare il proprio debito sui mercati finanziari.
Per effetto della volatilità delle aspettative, può accadere che uno stato abbia i propri «fondamentali» macroeconomici a posto e sia solvibile, e tuttavia resti vittima
di un problema di illiquidita per effetto di una crisi di fiducia. Purtroppo, l’illiquidità può essa stessa determinare l’insolvenza: se gli investitori temono che lo Stato
possa non onorare i propri debiti, potranno rifiutargli ulteriore credito, o chiedere
un premio molto elevato sui titoli di nuova emissione. Ma l’aumento della spesa per
interessi, comportando la necessità di aumentare le entrate o il ricorso al credito,
può a sua volta alimentare la sfiducia e generare una spirale che può portare fino al
default (un caso di previsioni che si «auto-avverano»).
Se dunque possiamo ritenere per un verso che il raggiungimento di un sentiero
di sostenibilità non rappresenti un obiettivo particolarmente arduo per uno Stato
legittimato a tassare i propri cittadini (in caso di necessità il governo può riuscire
a giustificare aumenti di entrate o tagli di spesa che vanno ben al di là dei livelli
correnti), per altro verso l’incertezza dovuta alla possibilità di shock macroecononomici non previsti e alla volatilità delle aspettative consiglia un atteggiamento di
prudenza. L’avvicinarsi a valori che possono essere considerati dagli investitori come prossimi al massimo livello sostenibile può, attraverso l’innescarsi di un circolo
vizioso di perdita di fiducia ed elevati interessi, aumentare significativamente il rischio di una crisi debitoria. Si tratta di un rischio che è condizionato da un ulteriore
insieme di fattori:
la struttura per scadenze dei titoli del debito, a breve o a lungo termine: titoli
a breve devono essere rinnovati con maggiore frequenza; normalmente scadenze
più lunghe sono associate a un rischio minore, visto che aumenti repentini dei tassi
di interesse non interesseranno i «vecchi» titoli e avranno dunque un impatto più
sulla spesa più diluito nel tempo13 ;
• l’identità dei creditori (banche, investitori istituzionali, organizzazioni internazionali) e il fatto che essi siano residenti o non residenti può comportare diverse
reazioni al verificarsi di eventi imprevisti; normalmente, una quota elevata del debito collocata all’estero rappresenta un fattore di maggiore esposizione alle volatilità
dei mercati (tab. 1);
• la valuta in cui è denominato il debito; il fatto che il debito sia emesso in valuta estera (es. in dollari), frequente nel caso di paesi con valuta considerata poco
solida, comporta che per il suo rimborso vi sia adeguata disponibilità della valuta
in questione, ed espone il paese al rischio di una crisi della bilancia dei pagamenti
nonché alle fluttuazioni del tasso di cambio.
•
4. Strategie di riduzione del rapporto debito/PIL
Il debito publico deve essere restituito? Abbiamo già rilevato che anche da questo
punto di vista l’analogia con il caso del debito individuale è mal posta: dal momento
che l’economia non è vincolata a un orizzonte di vita finito, la restituzione del debito
13
La durata media dei titoli de debito pubblico italiano è di circa 7 anni; ciò significa che ogni anno
si rinnova in media circa 1/7 del debito complessivo.
Massimo D’Antoni, 2021 — Materiale didattico protetto da licenza Creative Commons 4.0 (BY NC ND)
20
tab. 1. Detentori del debito pubblico di alcuni paesi UE, 2019 (% del debito totale)
Totale
residenti
Banca
centrale
Residenti
Altre istit.
finanziarie
monetarie
Altre
istituzioni
finanziarie
Settore
non
finanziario
33,14
44,23
52,01
50,97
51,27
68,08
55,88
48,27
79,33
16,60
12,83
17,82
18,70
14,88
16,83
0,00
13,55
20,35
12,72
13,73
23,14
19,87
15,75
25,91
36,92
14,47
27,36
3,12
14,04
8,63
12,21
17,23
15,85
13,86
5,55
24,73
0,70
3,62
2,42
0,19
3,42
9,48
5,09
14,70
6,88
Austria
Belgio
Germania
Spagna
Francia
Italia
Polonia
Portogallo
Svezia
Non residenti
66,86
55,77
47,99
49,03
48,73
31,92
44,12
51,73
20,67
Fonte: BCE. Le altre istituzioni finanziarie monetarie sono le banche e i fondi comuni monetari; le altre istituzioni finanziarie
comprendono i fondi pensione, le assicurazioni, i fondi di investimento ecc.
pubblico può essere indefinitamente rinviata (in altre parole: occorre restituire il
singolo titolo di debito, ma ciò può essere fatto emettendo un nuovo titolo di pari
ammontare); l’unico rischio, come abbiamo visto, è che lo stato perda la capacità
di accedere al credito perché gli investitori hanno perso fiducia nella sua solvibilità.
Finché il livello debito/PIL si mantiene su livelli gestibili, il suo costo per l’economia è limitato alla necessità di pagare gli interessi ai creditori. Se le entrate fiscali
non possono essere aumentate per ragioni politiche, la spesa per interessi sottrarrà
risorse altri utilizzi del budget pubblico (es. la spesa sociale o la spesa per investimenti), e questo può spingere un governo ad attuare politiche di riduzione del
peso del debito.
I costi e benefici di una riduzione del debito sono di natura analoga, seppure di
segno opposto, a quelli di un’effettuazione di spesa in deficit; la riduzione comporta un anticipo delle entrate fiscali, dai periodi futuri al periodo corrente. Ciò
può comportare una riduzione dei consumi correnti (per la stessa ragione per cui
una spesa a debito può determinare una riduzione dei risparmi privati). Il lettore
può a questo proposito ripercorrere il ragionamento che abbiamo svolto riguardo
all’effetto del debito sulle generazioni future.
In effetti, è raro osservare una riduzione dello stock nominale di debito. La riduzione del rapporto debito/PIL si realizza normalmente tramite un aumento del
PIL più rapido dell’aumento del debito. Una crescita sostenuta del PIL è senz’altro la strada più indolore per ridurre il peso di un debito percepito come troppo
elevato. L’aumento del PIL da un lato aumenta il denominatore del rapporto, dall’altro a parità di spesa pubblica migliora il saldo di bilancio in quanto determina
un aumento «automatico» delle entrate.
Azioni più decise di riduzione del debito sono attuate quando il livello del rapporto
debito/PIL raggiunge valori giudicati preoccupanti. La riduzione si può ottenere,
oltre che con la crescita, in uno dei seguenti modi.
Mediante la realizzazione di maggiori avanzi primari. Se l’avanzo è superiore al
livello necessario a stabilizzare il debito (equazione [15.11]) il rapporto debito/PIL
si riduce. L’avanzo primario può crescere per effetto di un aumento delle imposte o
per una riduzione delle spese; tali politiche di consolidamento fiscale (o «austerità»)
sono spesso considerate la via maestra da interprendere per la riduzione del debito,
specie in presenza di bassa crescita; l’inconveniente principale è che esse hanno un
effetto depressivo sulla domanda (pubblica nel caso di riduzioni della spesa, priva-
•
Massimo D’Antoni, 2021 — Materiale didattico protetto da licenza Creative Commons 4.0 (BY NC ND)
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BOX 6. Episodi di riduzione del debito nella storia d’Italia
Guardando all’esperienza storica meno recente
dell’Italia, possiamo identificare tre fasi di significativa riduzione del rapporto debito/Pil, il cui
andamento è riportato nella figura in calce.
Nella prima, più graduale e stabile, corrispondente grosso modo al periodo giolittiano, il rapporto debito/PIL si ridusse a partire dal picco del
120% raggiunto nel 1897 per effetto di una crescita economica sostenuta insieme a una politica
di bilancio rigorosa (mantenuta fino alla guerra di
Libia del 1911), portando il rapporto al di sotto
dell’80%,
Le altre due fasi ebbero luogo a seguito delle due
guerre mondiali.
Le necessità finanziarie legate allo sforzo bellico
del 1915-18 avevano visto un aumento consistente della componente di debito verso estero, con
prestiti dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna,
che anche a causa degli effetti del tasso di cambio
e della caduta del PIL nell’immediato dopoguerra
raggiunse l’85% nel 1920 (in quell’anno il debito
pubblico complessivo tocca il suo massimo storico del 160%). Le operazioni di finanza straordiI guerra
mondiale
180
naria (es. un’imposta patrimoniale) introdotte dai
governi negli anni 1919-20 ebbero effetti limitati
sul bilancio pubblico. La riduzione che osserviamo negli anni successivi fu dovuta principalmente
alla riduzione e successiva cancellazione dei prestiti esteri deciso nell’ambito della soluzione del
problema delle riparazioni di guerra.
Più traumatica, ma anche più rapida e risolutiva,
fu la riduzione del debito che ebbe luogo successivamente alla caduta del regime fascista: la forte
ventata inflazionistica degli anni 1943-46 (l’indice dei prezzi aumentò di circa 15 volte) ne determinò una drastica perdita di valore reale, portandolo nel 1947 a un livello poco superiore al 20%
del PIL. Per effetto dell’elevata crescita reale del
PIL del cosiddetto «miracolo economico», nonché per effetto della repressione finanziaria, il rapporto debito/PIL si sarebbe mantenuto su compresi tra il 28% e il 37% per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, pur in presenza di un deficit di
bilancio e nonostante un’inflazione modesta.
Per un’analisi della fase più recente rimandiamo
a quanto detto nel Riquadro 4.
crisi
II guerra
del 1929 mondiale
Maastricht
160
140
100
80
60
40
Massimo D’Antoni, 2021 — Materiale didattico protetto da licenza Creative Commons 4.0 (BY NC ND)
2000
1990
1980
1970
1960
1950
1940
1930
1920
1910
1900
1890
0
1880
20
1870
% PIL
120
22
ta nel caso di aumento delle imposte) e attraverso il meccanismo del moltiplicatore
questo può determinare, almeno nelle fasi di aumento iniziale dell’avanzo, una minore crescita o addirittura una riduzione del PIL, con l’effetto di ridimensionare
o neutralizzare del tutto l’effetto positivo sul saldo di bilancio pubblico. I fautori
delle politiche di austerità sottolineano come tali effetti siano presenti solo nel breve periodo e ritengono che energiche politiche di consolidamento fiscale possano
avere un effetto di rassicurazione per gli investitori (un segnale che il governo è
realmente intenzionato a ridurre il debito), determinando una riduzione dei tassi
di interesse e incoraggiando gli investimenti privati.
• Tramite la creazione di base monetaria da parte della banca centrale. La banca
centrale acquista titoli di stato e la liquidità creata consente al Tesoro di effettuare le proprie spese. L’operazione, che equivale per lo Stato a finanziare la proprie
spese «stampando» moneta, è detta signoraggio; il debito nel bilancio della banca
centrale è conteggiato come parte del debito pubblico, ma viene sottratto alla necessità di trovare collocazione sui mercati finanziari e non comporta il pagamento
di interessi (che vengono «restituiti» al Tesoro dalla banca centrale). Un secondo
effetto della creazione di base monetaria è attraverso il possibile effetto inflazionistico: nella misura in cui l’aumento della liquidità determina una spinta all’acquisto
di beni e quindi (quando l’economia è in condizioni di pieno impiego) un aumento
del livello dei prezzi, l’effetto sarà una riduzione del valore reale del debito. Occorre precisare che è solo l’inflazione non anticipata a beneficiare lo Stato in quanto
debitore (nonché ogni altro debitore, determinando una distribuzione a spese dei
creditori e detentori di ricchezza finanziaria), visto che l’inflazione anticipata sarà
incorporata nel tasso di interesse richiesto dagli investitori; il beneficio derivante
dall’inflazione sarà tanto maggiore quanto più lunga è la scadenza dei titoli già in
essere a tasso fisso, il cui interesse non potrà essere adeguato alle nuove condizioni
prima della scadenza. Naturalmente, la possibilità per lo Stato di emettere titoli
a lunga scadenza a sua volta dipende dal fatto che gli investitori possano contare
sul fatto che non vi saranno ventate inflazionistiche. Nelle nostre formule che descrivono l’evoluzione del debito un aumento dell’inflazione determina un aumento
della crescita nominale n; se tale aumento non è atteso, il tasso di interesse i resta,
almeno inizialmente, invariato, determinando una riduzione del termine i − n. Il
ricorso all’inflazione può essere un modo efficace per ridurre il peso del debito, ma
ci sono degli ovvii limiti alla possibilità di aumentarla in modo non previsto dagli
operatori; inoltre, il livello di inflazione può facilmente sfuggire al controllo della
politica monetaria e occorre dunque tenere conto dei costi che il governo potrebbe
essere costretto a sostenere per riportare la crescita dei prezzi a livelli accettabili.
• Attuando misure di repressione finanziaria. Il termine si riferisce a tutte quelle
forme di regolazione che consentono ad uno stato di emettere titoli a tassi inferiori al tasso di mercato per titoli di pari maturità e rischiosità. L’esempio tipico
è l’imposizione di obblighi alle banche nazionali di detenere parte delle proprie
riserve in titoli di Stato, ma in generale lo stesso obiettivo si ottiene introducendo
frizioni di vario tipo nei mercati finanziari. Questa modalità di controllo del tasso
di interesse e quindi della dinamica del debito, spesso utilizzata congiuntamente
alla leva inflazionistica, è particolarmente efficace in presenza di controlli ai movimenti di capitale. Non è un caso che il ricorso alla repressione finanziaria sia
stato particolarmente importante nelle economie avanzate nel periodo successivo
alla Seconda guerra mondiale, vigenti le restrizioni finanziarie previste dal regime
di Bretton Woods, mentre è diventato via via meno rilevante con la liberalizzazione
Massimo D’Antoni, 2021 — Materiale didattico protetto da licenza Creative Commons 4.0 (BY NC ND)
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finanziaria a partire dagli anni Ottanta.
Un’altra strategia spesso suggerita per la riduzione del debito è quella di utilizzare i proventi della vendita di parte del patrimonio pubblico (imprese pubbliche,
immobili ecc.). La cessione di beni di proprietà pubblica ai privati in alcuni casi
può essere ragionevole (es. nel caso di immobili che lo Stato non riesce a utilizzare
in modo adeguato o attività che sarebbero meglio gestite da soggetti privati), ma
l’opportunità di effettuarla non dovrebbe dipendere dal fatto che i proventi siano
o meno utilizzati per ridurre ridurre il debito. Non dobbiamo dimenticare che,
dal punto di vista patrimoniale, un’operazione del genere rappresenta una semplice partita di giro: se da un lato si riducono la passività rappresentate dal debito
pubblico, dall’altro si riduce l’attivo patrimoniale e, nel caso di imprese pubbliche,
si rinuncia ad un flusso futuro di profitti e/o agli obiettivi di politica industriale
che giustificava la proprietà pubblica. Per queste ragioni, se una privatizzazione
motivata dall’intento di ridurre il debito può avere un’attrattiva sul piano politico
e di immagine, essa ha poche giustificazioni dal punto di vista economico.
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