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ISTITUZIONI E POLITICHE CULTURALI

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ISTITUZIONI E POLITICHE CULTURALI
Professori Francesco Chillemi e Sabrina Pedrini
PRIMO MODULO
La cultura
Mentre la conoscenza è individuale, la cultura è collettività. È la cultura con la sua dimensione emotiva a
consentire agli uomini di comunicare, essa è la dimensione attraverso la quale viviamo. Essa cambia nel tempo,
esistono forme di cultura differenti. Infatti, il ragionamento dell’uomo parte da presupposti e premesse del suo
tempo da cui poi fa discendere una verità che è valida in tali premesse ma che non sempre è corretta
universalmente. Il pensiero logico non è connaturato all’essere umano ma è solo un modo di organizzare la realtà
per trovare delle soluzioni rispetto a dei problemi. Esso è alla base di tutta la cultura occidentale, sia del pensiero
filosofico che del pensiero scientifico. La cultura è una dimensione dentro alla quale si è immersi, è una
combinazione di valori, credenze, rituali, dubbi e incertezze che accomunano le persone. È il minimo comun
denominatore di una certa comunità, in cui si sviluppano pensieri e abitudini specifici. La cultura è in evoluzione
in quanto l’interpretazione gioca un ruolo fondamentale.
Economia della cultura:
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Economia → deriva dal greco oikos nomos, ossia l’organizzazione della casa/famiglia che è la più piccola
comunità esistente
Cultura → ha una definizione più complessa
L’economia della cultura costringe a ragionare in termini antropologici, fisiologici e scientifici ecc. economia e
cultura sono da affrontare in un orizzonte transdisciplinare, ossia con ambizione di creare una nuova forma di
sapere in cui la soluzione ai problemi risiede nel ripensare a una prospettiva che trasforma persino le discipline
coinvolte. Il binomio cultura-economia è stato considerato dall’ortodossia accademica con sospetto fino a qualche
decennio fa. Infatti, l’economia della cultura è una disciplina giovane che ha solamente quarant’anni.
L’antropologia culturale
Che cos’è la cultura? L’antropologia culturale a partire dalla fine dell’Ottocento propone diverse risposte a questa
domanda. Essa si propone di definire la cultura come ciò che rende l’uomo unico, differenziandolo dalle altre
creature.
La prima evidenza di cultura umana corrisponde con la tendenza dell’uomo a lasciare delle tracce (es: sepoltura).
Egli da sempre ha usato la natura per creare un simbolo, ossia un qualcosa il cui corpo assume e riconduce ad
un significato. Ogni simbolo ha un corpo che è la sua sostanza concreta e uno spirito che corrisponde con il suo
significato. Un oggetto può cambiare significato se l’uomo appartiene ad un codice culturale differente. Il
significato, dunque, non sta nell’oggetto ma viene ricondotto da una collettività.
A fine Ottocento con l’Evoluzionismo si iniziò a ritenere che la cultura andasse studiata come un oggetto, ossia
con metodo scientifico. Tuttavia, essa non è un oggetto ma assume una valenza simbolica; dunque, tale approccio
era un equivoco. Tale corrente sosteneva l’idea di una cultura evolutiva, ossia di una cultura diacronica attraverso
tempo e storia. Secondo questo pensiero la cultura era andata sviluppandosi con il tempo e aveva raggiunto il
proprio vertice nella cultura occidentale.
A inizio Novecento la teoria dell’evoluzionismo venne smentita dal nuovo pensiero dello Stoicismo, che
contestava il metodo comparativo-gerarchico secondo cui tutti le culture andassero confrontate con quella
occidentale. Franz Boas, un antropologo tedesco, introdusse all’idea dell’esistenza di una pluralità di culture
uniche ed irripetibili e che ognuna di esse andasse studiata nella sua singolarità, rifiutando dunque le leggi
universali in ambito culturale. Il mondo simbolico nel quale l’uomo è immerso però non gli consente di avere uno
sguardo neutro e obbiettivo nel valutare le altre culture in quanto egli è sempre influenzato dalla mentalità della
sua cultura e del suo tempo. Quindi, vi è sempre un pregiudizio che condiziona l’interpretazione dei simboli delle
altre culture.
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Nacque poi il Funzionalismo che riteneva che ogni cultura dovesse essere studiata da dentro, immergendosi in
essa e guardando la stessa da una prospettiva interna. Ogni cultura deve essere studiata in loco, quindi con una
valorizzazione del metodo empirico. L’osservazione partecipante è la via per l’antropologo di assumere il punto
di vista degli autoctoni e comprenderne la visione del mondo. Il limite sta nel fatto che, anche se si cerca di
imparare una cultura diversa, non si riesce però mai a liberarsi del proprio modo di pensare. Esponente del
funzionalismo è Malinowski, il quale aveva concepito ogni cultura come l’insieme di funzioni sociali di un popolo.
Negli anni Cinquanta si diffuse poi lo Strutturalismo che considerava l’esistenza di strutture primitive profonde
che accomunano le varie culture nelle varie differenze. Il maggior esponente di tale corrente è Levi-Strauss il quale
riteneva che tutte le culture avessero valore in quanto tale, ma che esse condividono strutture cognitive profonde
con cui il pensiero organizza il reale. Ma, ancora una volta, è difficile valutare le strutture cognitive di fondo senza
farsi influenzare dalla struttura su cui si fonda la propria cultura
Infine, dagli anni Settanta l’antropologia interpretativa iniziò a sostenere che non esistono strutture comuni alle
diverse culture in quanto queste ultime sono modelli simbolici che non possono essere paragonati dato che
interpretano la loro propria realtà in maniera diversa. Le culture sono quindi un modello di significati trasmesso
storicamente, significati incarnati in simboli, per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la
loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita. Secondo Geertz, l’antropologia è “una scienza interpretativa
alla ricerca di significati”. L’antropologo interpreta sempre e quindi modifica la sua prospettiva. Ogni cultura è una
sintesi di concetti elaborati da una comunità, che lo studioso tenta di interpretare ma non esiste una visione
oggettiva. Ogni interpretazione è sempre condizionata da pregiudizi storici-linguistici della cultura
dell’osservatore stesso. Anche la stessa cultura è in evoluzione, per cui la prospettiva da cui si analizza cambia nel
tempo. Questo crea un blocco, ossia l’abbandono di una ambizione universale per soffermarsi sullo studio di aspetti
specifici. Anche l’ambizione universale è figlia dell’Occidente che si è convinto di poter studiare un argomento e
trovarne il cuore, la legge universale valida per tutti.
Cultura e passato
Le risposte dell’antropologia alla domanda circa cosa sia la cultura hanno gradualmente permesso di capire che la
cultura non si può oggettivare. Infatti, a tale domanda si può rispondere che la cultura non è una cosa. L’uomo è
il grande selezionatore del patrimonio culturale che però non è qualcosa che rimane fermo in un luogo, ma è vivo
in quanto in continua trasformazione. Il passato non è stabile, ma è frutto di una continua reinterpretazione da
parte dei contemporanei. Ogni generazione sceglie e individua in ciò che proviene dal passato quello che ha valore,
dandone un peculiare significato. Tutto ciò che l’uomo ha ereditato in quanto ritenuto importante, se non viene
più considerato significativo perde valore ed è destinato a scomparire. Dunque, il passato può scomparire se
ritenuto privo di significato. Da qui l’enorme responsabilità di ogni nuova generazione. Il fenomeno della “cancel
culture” mira proprio a cancellare tutto ciò che non è in linea con i valori del proprio tempo. Questo approccio è
sbagliato in quanto comporta di dover eliminare le radici che hanno portato a una conclusione e quindi la
conclusione stessa perde forza.
La memoria è il retaggio di una cultura orale che ritiene che la storia e il passato siano fondamentali per tracciare
le vie del futuro. Tuttavia, l’idea che una tradizione culturale esista di per sé è miopia, è un’ingenuità naturalistica
che ignora il ruolo del soggetto nel processo conoscitivo. Sono gli atti interpretativi a dotare di senso gli eventi
passati. Per esempio, la funzione del Duomo di Milano è cambiata in quanto originariamente l’arte serviva agli
analfabeti per comprendere mentre oggi a tale edificio viene conferito un valore estetico. L’arte però non è solo
bellezza estetica ma anche una raffigurazione del mondo in un secondo livello per ergersi a strumento di
identificazione, educazione e cultura. È quindi un codice di comportamento, quello a cui crediamo. L’arte è
raffigurazione di quello che ha senso per la propria contemporaneità, è trasfigurazione di un rituale. Per il singolo
artista è un mezzo con cui esprimersi e farsi capire dalla collettività. Anche i musei non devono puntare a esporre
semplicemente le opere con una didascalia ma a creare una esperienza immersiva a seguito della quale si capisce
meglio il mondo esposto. Arte è rito, ritmo e diritto, tutti concetti che devono essere tenuti insieme in quanto
formano un’anima unica che è cresciuta nella storia.
Lo studio non può essere scientifico e quindi considerare l’arte solo come oggetto in quanto la sua forza principe
è il significato. Il significato è un’anima che cresce dentro una storia. Si pensi al Giudizio universale, esso è
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rappresentazione del modo di sentire e della crisi avvertita dall’uomo cinquecentesco. Se si dimentica il passato,
anche il Giudizio universale perde di senso e diventa un insieme di disegni inutili. Il significato che invece ad oggi
riconduciamo si lega ai tasselli del passato che abbiamo deciso di tramandare. Il filosofo Carlo Sini dice proprio
che “il passato accade nel presente ed esso esige il futuro per il suo senso e compimento. Letteralmente: non c’è
passato senza futuro”. Il passato può essere modificato in quanto si trova all’interno della narrazione dell’uomo.
Non esiste passato senza dei testimoni e delle comunità che lo raccontino. Quindi l’uomo si trova di fronte a una
serie di concetti che non sono ovvi e ha il grande compito di decidere che cosa ha valore e che cosa non lo ha. Come
dice lo stesso Sini, il passato non è mai dato o già costituito ma si trasforma e cambia. Per esempio, se il nazismo
avesse vinto, noi non avremmo la stessa idea su quel periodo storico tragico.
L’essere umano è una creatura che vive all’interno di una collettività nella quale bisogna condividere le
conoscenze per sopravvivere. Nella collettività umana si assiste ad una trasmissione del sapere esperienziale
individuale in maniera duratura, in modo tale che tutti possano imparare da tale esperienza. Tale trasmissione è
possibile attraverso l’arte, che è una rappresentazione del mondo in un secondo livello. Grazie alle modalità di
rappresentazione l’uomo ha creato dei modi simbolici di rappresentare il mondo, che consentono di
sopravvivere e di condividere il sapere individuale. Si pensi alle prime testimonianza artistiche, i geroglifici, sorte
proprio per condividere una conoscenza individuale acquisita e per consentire all’uomo la sopravvivenza. Negli
ultimi anni l’arte ha perso molto questo aspetto.
Vi è una differenza tra linguaggio alfabetico e linguaggio figurativo (ideogrammi). Gli ideogrammi sono simboli
e quindi possono assumere molteplici significati in quanto assomigliano a elementi della natura. Solo
appartenendo a una determinata cultura se ne possono capire i significati simbolici. L’alfabeto invece ha il potere
di creare una dimensione in cui tutti capiscono in quanto è l’oggetto che conta. Il problema sorge quando non si
riesce ad oggettivare l’origine dell’oggettività. Per esempio, se si trattano temi culturali, per comprenderli a fondo
bisogna appartenere a quella dimensione culturale stessa. In definitiva, il figurativo ha la potenza enorme di
suscitare molteplici espressioni e racconti diversi mentre la parola è asettica seppur esatta.
Il distacco dal passato, la scomparsa del futuro
Ad oggi, le società occidentali hanno un grande problema nella relazione con il passato. Si parla anche di un
distacco dal passato che porta a un rischio di scomparsa del futuro. Se infatti una cultura diventa
accumulazione di nozioni, essa è destinata a morire perché non è più vissuta come lo specifico processo storico
da cui si è originata la conformazione sociale, politica e civile del presente di un popolo. Se oggettivato come pura
eredità culturale, questo sapere tradizionale perde la sua dimensione più narrativa e diviene estraneo ai suoi
stessi figli. Ciò significa che la storia di una civiltà non è un percorso lineare in costante progresso: gli sviluppi e
le conquiste, gli errori e le disfatte non sono acquisiti una volta per tutte. Ad ogni generazione spetta il compito di
vagliare ciò che della tradizione aiuta ad abitare il presente, per la costruzione di un futuro pregno
di senso, quindi di direzione.
Giorgio Agamben, un filosofo italiano, sostiene che vi è poca evoluzione nella coscienza e nella cultura. In un
sistema non alfabetizzato fondato sulla tradizione orale, vi è un’identità assoluta tra l’atto di trasmissione e ciò che
viene trasmesso. In questa dimensione allora non esistono valori etici, religiosi, estetici al di fuori dell’atto di
trasmissione. Il passato ha senso in quanto percepito come parte integrante di una storia che si vive anche nel
presente. Il gap tra atto di trasmissione e cosa trasmessa e la valutazione della cosa trasmessa
indipendentemente dall’atto di trasmissione sorge quando la tradizione orale perde la sua forza vitale. Questo
problema è il fondamento delle società non tradizionali, ad esempio le società logiche-individualiste in cui vi è il
potente desiderio di dimostrare tutto ciò che viene affermato. La conseguenza di questo fenomeno è l’accumulo
di cultura. Se non si conosce la storia, il futuro scompare in quanto siamo bloccati in una dimensione senza
evoluzione poiché non abbiamo la forza e la spinta proveniente dal passato. In questa situazione, l’uomo è bloccato
in un presente perenne nel quale il passato è statico, non comunica nulla e quindi il futuro non potrà mai avverarsi.
Le decisioni si prendono in collegamento tra passato ereditato, presente in cui si vive, futuro che si vuole disegnare.
Quando una cultura perde il suo significato di trasmissione, ossia il suo legame con il passato, l’essere umano è
privato di punti di riferimento e si trova bloccato in una dimensione chiusa davanti alle nuove prospettive.
L’identità passa attraverso una comunità e dalle esperienze condivise della stessa, dalla quale nasce un senso di
identità che è sempre frutto di incontri e relazioni a livello micro e a livello di società e incontro di culture e civiltà.
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Più una società è aperta più essa è in grado di trasformarsi senza perdere la sua origine assorbendo quindi linfa di
novità ed evoluzione. La dimensione in cui l’uomo è così bloccato è rappresentata perfettamente nell’opera
Persistenza della memoria di Dalì. Il passato si accumula dietro l’uomo ma non ha significato per questo: l’uomo
allora si sente oppresso da questi elementi passati. Sospeso in questa condizione, l’essere umano è proiettato in
un tempo alienante in quanto non fornisce una dimensione entro la quale si possa trovare un punto da cui spingersi
nel futuro.
Con Socrate si iniziano a staccare esperienza vivente e concetto; egli, ad esempio, inizia a ricercare il concetto di
coraggio e non di un uomo coraggioso. Questo porta a staccarsi dalla dimensione del mito e a creare il gap tra atto
di trasmissione e cosa trasmessa. Si entra nel mondo della filosofia logica-filosofica. Si ha un potente desiderio
di dimostrare tutto quello che viene affermato. Con il protrarsi di questa visione è sempre più marcata la
differenza: questo ha portato alla società occidentale attuale che concepisce il passato come staccato. La situazione
attuale fatica a ricondurre il presente alla storia passata. La dimensione narrativa è molto importante per tener
viva una tradizione, consente di capire da dove vengono determinate caratteristiche che connotano l’identità
culturale.
La rivendicazione dell’identità di cui si sente parlare da forze politiche risulta ingenua in quanto l’identità passa
attraverso una comunità, esperienze condivise e rielaborate. L’identità non dipende da sé ma è frutto di incontri.
L’Italia è stata un centro di incontri diversi e da qui la sua forza come polo culturale. Più una società è aperta, senza
perdere le proprie origini, più riesce a evolversi. Il progresso non è legato solo al passare del tempo, la storia è un
saliscendi di momenti di maggior e minore evoluzione.
Cultura e conoscenza
Le origini del pensiero
Alle origini del pensiero umano, i “protoumani” si sono trovati in un luogo ameno e hanno dovuto comprendere
che cosa fare. Ciascuno ha fatto delle scoperte e delle esperienze diverse da condividere attraverso la parola che
permette di esprimere uno stato d’animo, ma soprattutto attraverso lo strumento dei segni, ancora più potente
in quanto stabile e duraturo. Per visualizzare questo concetto è utile adottare la metafora della mappa: essa non
sarà mai una perfetta rappresentazione delle scoperte fatte, ma è una riduzione utile che serve a tutti per
comprendersi fin da subito nonostante tagli fuori l’esperienza individuale.
La rappresentazione, sia figurativa che grafica-alfabetica, è un elemento fondamentale per la condivisione del
sapere. La scrittura alfabetica è caratterizzata da un’ambivalenza: essa è distaccata dall’esperienza diretta vissuta
ma al contempo riesce a trasmettere un messaggio chiaramente ed efficacemente. La condivisione avviene
attraverso le scritture in senso lato, ossia tramite delle rappresentazioni su supporti esterni. Questo permette
di creare un universo simbolico in cui i pezzi di natura diventano riferimento a qualcos’altro, un qualcosa che
non tutti riescono ad interpretare, ma solo chi è immerso in quella determinata cultura. Tale universo simbolico
permette di creare un sapere collettivo (= cultura) diverso dall’esperienza del singolo e quindi un’identità
culturale di individui coscienti che ha ricadute sui singoli. Per questo però serve una comunità che li trasmetta,
altrimenti il singolo sarebbe perso.
I viventi protoumani sono soggetti ad esperienze comuni e singole di elaborazioni emotive e cognitive del vissuto.
In questa fase iniziale si parla di un soggetto conoscente ma non autocosciente, ossia un soggetto che conosce
ma non è consapevole di ciò che sta facendo. Non vi è dunque distinzione né tra soggetto e oggetto né tra pensiero
analitico e sintetico (propria della cultura occidentale). In epoca primordiale la coscienza è un tutt’uno con ciò che
avviene nell’abbiente circostante: l’esperienza è un unicum tra soggetto e oggetto in quanto non vi è ancora
l’autocoscienza. Il soggetto inizia a conoscere ma non sa di essere un individuo dotato di caratteristiche ed
emozioni. In una fase successiva, si assiste ad una condivisione delle esperienze tramite scritture su supporti
esterni al corpo (supporti esosomatici). Il vissuto soggettivo si esternalizza e prende forma e corpo in
rappresentazioni che diventano patrimonio comune, fonte di un sapere accessibile agli altri. È in questo
momento che il soggetto capisce il suo vissuto e lo rappresenta.
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Le rappresentazioni sono utili a:
a) chi vede tali rappresentazioni e quindi impara un nuovo un sapere/esperienza che è stata vissuta da un
altro
b) chi ha vissuto l’esperienza in epoca primordiale, al fine di capire e rendersi cosciente circa cosa sia
successo veramente uscendo dal flusso di emozioni provate (nascita autocoscienza)
Attraverso la condivisione delle esperienze su supporti esterni si configura un mondo di secondo livello che
rende più dominabile la vita, altrimenti luogo di minacce e pericoli continui e ingovernabili. In questo modo si
raggiunge l’ultima fase, ossia quella di nascita della cultura, dell’identità e dell’individuo autocosciente. La
configurazione del mondo contribuisce alla nascita della cultura, un universo simbolico di credenze e prassi,
condiviso da un gruppo che orienta la vita di ciascuno e ne norma i comportamenti. Segue l’identità culturale, che
è frutto della reiterata narrazione simbolica delle origini da cui discendono le pratiche collettive di una data cultura
(arte, rito, ritmo, diritto). Da qui e solo da qui nascono gli individui auto-coscienti. L’autocoscienza consiste nel
rendersi conto della distinzione tra soggetto ed evento: l’uomo separa l’esperienza per organizzare un mondo e
dominarlo.
Dalla conoscenza alla cultura: un modello a tre livelli
La rappresentazione dell’iceberg aiuta a capire il rapporto tra cultura e conoscenza. La cultura è il patrimonio
collettivo di nozioni condivise da una civiltà, società, comunità o gruppo. Essa corrisponde quindi con il sapere
condiviso, che è inevitabilmente più rozzo di una conoscenza individuale e approfondita in quanto spesso l’uomo
è esperto in un determinato settore ma conosce meno bene gli altri. Per questo motivo è essenziale instaurare un
rapporto con la conoscenza altrui, proprio per ampliare il proprio sapere. La cultura ha il grande effetto di riuscire
a diffondere presso tutti una visione, seppur parziale e limitata, della conoscenza verticale e specifica di ciascun
settore.
Il modello a tre livelli si legge dal basso verso l’alto ed è formato da:
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Livello A → CONOSCENZA
Livello B → INTERMEDIAZIONE
Livello C → CULTURA
Il primo livello è quello della conoscenza, che è in costante accrescimento in quanto le competenze e le discipline
sono in continua evoluzione. Vi è però un livello di intermediazione che funge da intermediario a questa crescita;
tale livello riguarda la diffusione dei saperi mediante figure o enti, quali ad esempio scuole e università, che fanno
in modo che la conoscenza specialistica si apra al maggior numero possibile di persone (sapere condiviso).
L’ultimo livello è allora la cultura, intesa come output di nozioni condivise. Il fine di questo schema è quello di
orientare i comportamenti umani; infatti, tutti sono orientati dal suo funzionamento: nessuno conosce tutto in
modo approfondito e specializzato e quindi ha bisogno di conoscenze altrui per implementare le proprie affinché
la conoscenza, attraverso l’intermediazione, diventi cultura condivisa. A sua volta la cultura è in rapido
mutamento in quanto influenzata dall’evolversi della conoscenza, che nel mondo occidentale è da secoli in
incessante ed esponenziale accrescimento e si articola in un vasto numero di discipline a loro volta suddivise in
branche sempre più numerose, complesse e appannaggio del ristretto numero dei rispettivi esperti. Tuttavia, tra
conoscenza e cultura sussiste un rapporto circolare in quanto anche la cultura è in grado di orientare le scelte
del futuro, incluse quelle riguardanti le direzioni di sviluppo della conoscenza stessa. Per esempio, sono persone
non specialiste in scienza che decidono se finanziare o meno uno scienziato, e la loro decisione viene presa in base
alla loro cultura. Quindi anche l’evoluzione della conoscenza è determinata dalla cultura. Infine, è pericoloso
mettere in discussione un paradigma già affermato: se la differenza tra conoscente e acculturato è minima non
sorgono problemi e il rapporto circolare funziona; se invece il gap tra conoscenza e cultura è ampio, il rischio è
quello che la cultura generale non consenta alla conoscenza specialistica di evolversi. Per esempio, se viene
proposta una ricerca che va in controtendenza rispetto a un determinato paradigma, tale ricerca non riceverà
finanziamenti in quanto non si può assicurare a priori di raggiungere un risultato. Cultura e conoscenza hanno un
rapporto di reciproca influenza, la cui chiave di funzionamento è il livello di intermediazione che ha un ruolo
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fondamentale in quanto permette di mediare tra i rapporti tra le due, ossia tra competenza e percezione della
competenza stessa.
Ogni uomo è ignorante in certi aspetti, dunque, risulta inevitabile avere fiducia nelle conoscenze altrui altrimenti
il sistema a tre livelli non regge in quanto esso è basato sul fatto che ognuno fa affidamento anche sulle competenze
degli altri. Se l’intermediazione non funziona si rompe tale rapporto di fiducia e nasce una grande difficoltà. Risulta
dunque chiaro il ruolo fondamentale dell’intermediazione. Riguardo all’inevitabile ignoranza del singolo
rispetto allo scibile, gli scienziati cognitivi Sloman e Fernbach sostengono che la “chiave della nostra conoscenza
sta nelle persone e nelle cose intorno a noi. La natura intrinsecamente collettiva dei saperi condivisi spiega perché
spesso supponiamo di sapere di più rispetto a quanto effettivamente sappiamo e perché i metodi didattici e di
management basati sul singolo individuo spesso falliscono”.
Il confine tra cultura e conoscenza è molto labile, considerare una piuttosto che l’altra dipende dal quadro di
riferimento: il meccanismo da tenere conto è la differenza tra conoscenze individuali nel senso di
approfondimento e il minimo comune denominatore che crea un’identità (= cultura). Una decisione presa sulla
base di un comune censore rende la conoscenza un sapere condiviso attraverso degli intermediari. Il sapere
condiviso poi può diventare legge, se ritenuto giusto dalla maggioranza di color che aderiscono a tale sapere. La
maggioranza decide in base alla propria cultura. Esempio: Università Bicocca ha cancellato un corso su Dostoevskij
in concomitanza con lo scoppio della guerra Russia-Ucraina per evitare le polemiche. Dostoevskij è uno dei più
grandi pensatori dell’Ottocento nonché personaggio chiave della cultura occidentale. Dunque, la colpa dei figli (i
russi che hanno innescato una guerra) ricade sui padri, ossia i pensatori russi del passato. In tale ragionamento vi
è ombra della cancel culture: non bisognerebbe adottare un approccio di questo tipo ma al contrario valorizzare
la cultura russa nelle sue componenti. Questo è un esempio di come la tendenza culturale ha effetto su decisioni e
normative all’interno della società. Se vi è un problema di questo tipo bisogna analizzare perché esso accade: si
tratta di un problema chiaramente legato al livello dell’intermediazione.
La rivoluzione digitale ha avuto un impatto enorme sull’intermediazione in quanto è caratterizzata da una
prospettiva orizzontale e non gerarchica di diffusione del sapere. Le nuove figure legate all’intermediazione, come
il procumer (produttore di contenuti) permettono che un contenuto venga messo a disposizione del più ampio
pubblico possibile, senza che la sua fonte debba necessariamente appartenere a un certo filone della conoscenza.
In questo modo il singolo ha accesso a una parte molto più ampia di cultura sia per quanto riguarda la ricezione
dei contenuti che per quanto riguarda la sua possibilità di aggiungerne. Il singolo è dunque colui che viene
indottrinato ma che ha anche il potere di indottrinare. Tuttavia, il fatto che “chiunque” possa offrire contenuti
risulta un problema.
La visione Occidentale
Il modello a tre livello viene applicato anche nella società occidentale. In tale società risulta:
• Livello A → conoscenza = branche del sapere logico
• Livello B → intermediazione = divulgazione e rielaborazione creativa dei saperi
• Livello C → cultura come output = nozioni e pratiche condivise
La conoscenza riguarda le branche del sapere logico ossia scienze umanistiche, sociali, naturali, formali e
applicate. L’intermediazione di questi saperi è svolta da:
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Università e Istituzioni Scolastiche
Associazioni culturali
Partiti politici
Mass e new Media dell’informazione (stampa, Tv, Internet ecc.)
Industrie culturali e creative (cinema, editoria, musica, artigianato ecc.)
A livello di intermediazione risulta fondamentale la creatività in quanto essa, oltre ad avere un potere enorme
nell’innovazione della conoscenza, permette di spiegare meglio la realtà e nell’innovazione della conoscenza. Essa
permette infatti di diffondere un sapere complesso e specialistico nei suoi elementi fondamentali, al fine che esso
risulti comprensibile a molte persone. Dunque, ha il ruolo di porre una persona nelle condizioni di avere un’ampia
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visione sulle cose. Per esempio, in passato l’arte veicolava un messaggio teologico a tutti. La diffusione del sapere
permette di creare una cultura, ossia un insieme di nozioni e pratiche condivise. La cultura è un sistema
simbolico in costante rimodulazione grazie al quale una comunità definisce la propria identità, elabora giudizi
etici ed estetici (vero o falso, bello o brutto, giusto o sbagliato), perpetua o abbandona usi e costumi tradizionali e
orienta le norme politico-sociali della collettività. Le nozioni condivise a loro volta orientano in maniera decisiva
le branche del sapere e gli studi specialistici. Dunque, anche nel caso della società occidentale sussiste un rapporto
circolare tra conoscenza e cultura.
v La conoscenza occidentale: il potere del logos
La conoscenza occidentale si distingue dalle altre per la sua capacità di pensiero analitico-sintetico che
trasforma una cultura narrativa e simbolica portandola al culmine dell’astrazione. Tale processo è reso possibile
dal potere del logos, ossia la parola. I simboli/ideogrammi attraverso i quali l’uomo racconta le sue esperienze
per farle divenire sapere comune, nella cultura occidentale diventano una trascrizione di tutto ciò che la persona
può raccontare. Con la trascrizione però viene meno però è il flusso di pensiero proprio dell’individuo. Il più grande
potere della cultura occidentale è l’alfabeto. Il primo vero e proprio alfabeto che astrae totalmente il termine
dall’esperienza è quello greco. Ad esempio, la parola “cane” non assomiglia all’esperienza reale del cane che può
essere vissuta, ma rimanda all’idea astratte e universale di cane che ricomprende diverse razze. La scrittura
alfabetica permette all’uomo di parlare e raccontare esperienze da trascrivere cosicché chiunque possa capire ciò
che egli ha vissuto. Da qui la sua enorme potenza. L’alfabeto permette di:
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Aiutare chi ha vissuto l’esperienza a comprenderla
Aiutare gli altri a comprendere
Rappresentare l’esperienza su un supporto senza tempo
Ragionare per concetti e per idee
In definitiva, il logos permette di estrarre dall’esperienza singola ed irripetibile la struttura e l’essenza di un evento
analizzandolo per come esso è, permettendo quindi di trasmetterlo agli altri in maniera comprensibile ed esatta.
Il significato può essere colto da chiunque conosca il linguaggio. Il primo passaggio consiste dunque nella
definizione di idee universali e astratte che consentono a chiunque di capire il significato delle parole scritte. Da
ciò discende un passaggio ulteriore compiuto da Aristotele, quello della dimostrazione: una volta definiti i
concetti si può ragionare in modo logico-sequenziale. Nasce così l’oggettività, che è fondamento di tecnologia e
scienza.
L’alfabeto consente di lavorare sul concetto, sull’idea astratta che è alla base della cultura dell’universale. La
cultura dell’universale, che è propria dell’Occidente, ritiene che il mondo possa essere strutturato in maniera
ordinata cosicché ogni cosa possa essere definita singolarmente in quanto ogni esperienza è concretizzazione di
un’idea astratta. Tuttavia, la cultura nasce dall’esperienza individuale e non è possibile trovare l’origine
dell’universale in quanto non tutte le culture ragionano per universale. L’Occidente ha da sempre cercato l’origine
di ogni cosa. Con Socrate e poi con Platone si è iniziato a pensare per universale, partendo da idee astratte da cui
discendono le esperienze concrete. Ma per pensare per concetti bisogna guardare da fuori in modo asettico la
propria situazione. Non si può trovare l’elemento universale per tutte le culture, in quanto la cultura occidentale
ha un proprio universale e solo chi appartiene a tale cultura può comprenderlo. Ad esempio, l’antropologia è una
disciplina delle scienze sociali che ricerca i tratti universali nelle culture ma essa è propria solo della cultura
occidentale, dunque l’universale di una cultura non vale per un’altra. Non si può oggettivare la cultura.
L’alfabeto compie un passo ulteriore rispetto all’ideogramma. L’ideogramma mantiene un rapporto con il visibile
e il reale in quanto è una stilizzazione di una figura. Tuttavia, tale stilizzazione contiene dei significati profondi che
vanno oltre ciò che si vede, per questo la raffigurazione risulta comprensibile solo a coloro che condividono una
determinata cultura. Ha però il vantaggio di mantenere il rapporto con l’esperienza che invece viene meno con
l’alfabeto. Con l’alfabeto, infatti, i segni fonetici espressi o scritti non hanno nessuna somiglianza con l’esterno,
nessun referente reale. Questo porta a creare una distanza tra esperienza vissuta e sapere in quanto una parola
non assomiglia al concetto a cui fa riferimento. È il concetto che va visto in riferimento alla categoria di cui fa parte
e quindi associato alla parola. Con l’alfabeto la cultura occidentale ha creato un mondo complessissimo fatto di
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concetti, attraverso diversi strumenti atti a trasformare le proprie condizioni di esistenza. Questo ha avuto due
effetti:
•
•
Negativo → perdita del contatto con la dimensione emotiva di ciò che è avvenuto (segno snaturato e
devitalizzato)
Positivo → possibilità per chiunque conosca l’alfabeto ma non abbia vissuto l’esperienza di comprendere
il significato di ciò che è avvenuto
Con l’alfabeto si guadagna una capacità di astrazione concettuale enorme, che consente di creare un mondo di
secondo livello complessissimo e di inventare nuovi concetti. Il concetto permette di organizzare la vita, fare
scoperte scientifiche e rendere l’uomo più tecnologico. È dunque l’alfabeto che consente alle culture di evolversi:
la cultura basata sulla conoscenza alfabetica permette la costante evoluzione della conoscenza e quindi poi della
cultura. Le culture orali invece tendono a non evolversi, non hanno il senso del futuro e del progresso in quanto
vivono ancorate alle loro tradizioni (es: indiani d’America che ripetono sempre gli stessi riti). Non si tratta di un
confronto di qualità tra le culture ma di una differenza esistente nella realtà. La cultura basata sulla conoscenza
alfabetica e tecno-scientifica permette la costante evoluzione della conoscenza in quanto un concetto può essere
creato all’infinito. Basti pensare al fatto che tutte le nuove teorie scientifiche introducono conoscenze nuove.
Proprio perché i concetti si possono creare all’infinito, sorge un limite nella scienza. Quest’ultima è il luogo delle
certezze ma solo fino a prova contraria e proprio su questo si basa il suo limite. Essa lavora sia in termini di logica
deduttiva che in termini di logica induttiva.
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Logica deduttiva → si parte dalla causa e si arriva agli effetti (ha certezze)
Logica induttiva → si parte dagli effetti per risalire alla causa (non si può mai sapere se la causa sia
effettivamente giusta e quindi tale logica non ha certezze)
La scienza si trova sempre nella situazione di dover partire da alcuni effetti per poter elaborare una teoria che
cerca di spiegare alcuni fatti, teoria che poi viene verificata. La teoria è resa possibile dal concetto, dal linguaggio
alfabetico che permette di creare concetti nuovi. Karl Popper diceva che ogni teoria deve essere falsificabile, ossia
deve esserci un possibile evento che smentisce la teoria. Infatti, se non vi sono elementi che la smentiscono essa
non è una teoria ma un inganno. Tutte le teorie scientifiche sono dunque vere solo fino a prova contraria. in quanto
ad un certo punto emergono elementi che fuoriescono dai confini della teoria scientifica, imponendo alla scienza
di elaborarne una nuova a partire da quanto già scoperto e acquisito in precedenza. L’intelligenza consiste nel
creare qualcosa che prima non esisteva: la creatività è propria dell’uomo, che grazie ad essa si contraddistingue
dalla macchina. La teoria è dunque la formula che nei passaggi minimi mostra il risultato ma non è la fotografia
dell’esperienza provata.
La teoria universale ma non assoluta ad un certo punto non riesce a giustificare tutti i fenomeni che provengono
dal suo quadro di riferimento. La scienza permette, con la creatività della mente umana, di creare una nuova teoria
che riesce a ricomprendere anche questi fenomeni, imponendosi in definitiva come nuovo paradigma. Per
esempio, se si è convinti che i cigni sono bianchi ma ad un certo punto si vedono dei cigni neri la teoria non riesce
a giustificare questo fatto e quindi nasce un nuovo paradigma. Le teorie possono essere viste come centri
concentrici: le teorie precedenti smentite permettono di creare nuove teorie più esatte.
La realtà nella sua totalità comprende anche l’essere umano. Le costruzioni teoriche dell’essere umano includono
tutte le esperienze possibili e i fenomeni ravvisabili dalle tecnologie ma quando si cerca di mettere l’essere umano
stesso e le sue modalità di conoscenza al centro si crea un circuito in cui la nascita del mondo di secondo livello
che configura la realtà in cui il soggetto vive non è racchiudibile all’interno di una teoria. Questo in quanto nella
teoria si crea un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto che nascono simultaneamente e non
separatamente. La grande capacità dell’essere umano è quella di prendere coscienza fermando un’esperienza e
rappresentandola su un supporto esterno. In questo modo è possibile rappresentare anche sé stessi e capire chi si
è e i propri valori/convinzioni. In questo sistema allora nasce anche l’identità soggettiva e gli oggetti.
La conoscenza è la fase successiva, la fase in cui l’essere umano è autocosciente. A questo punto però se nel sistema
di soggetto che oggettiva, si pone come oggetto della conoscenza il soggetto stesso nasce un problema di
autoreferenza, ossia non si riesce ad oggettivare il soggetto conoscente in quanto egli è causa di tutto questo
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processo. L’antropologia cerca un oggetto comune a tutti che però non può essere il soggetto conoscente. Per
esempio, se un soggetto disegna, egli taglia fuori dalla sua rappresentazione della realtà il gesto con cui ha
compiuto il disegno. Dunque, il soggetto che conosce non può includere nella sua conoscenza il gesto conoscitivo
con il quale è arrivato alla conoscenza stessa. Il gesto in definitiva non può essere circoscritto. Questo problema è
inevitabile e risulta il limite della capacità di rappresentazione. In altre parole, la realtà nella sua configurazione
comprende anche gli esseri umani e la loro capacità creativa e inventiva. Però tale aspetto non può essere
rappresentato negli schemi e poi nelle teorie. La teoria dunque è l’esito di un atto creativo che non può essere
ricondotto al gesto compiuto per crearla. L’aspetto creativo di mente e corpo non può essere ricompenso in
un’elaborazione oggettivante. La realtà non è riducibile a una teoria in quando taglia fuori l’essere umano che
conosce. Questo comporta non si possa sapere se la realtà abbia una struttura in sé.
v Occidentalizzazione delle culture mondiali e crisi della cultura occidentale
Nel Novecento si verifica l’occidentalizzazione delle culture mondiali. Il paradigma occidentale tecnologicoscientifico, per la sua imparagonabile potenza ed efficacia di risultati, si è diffuso a livello planetario. La conoscenza
diventa così sempre più simile e le culture si assomigliano progressivamente sempre di più (omologazione delle
culture). Questo rappresenta un problema in quanto chi non è figlio di una visione propria di una cultura differente
dalla sua vive uno scontro tra la scienza proposta e la visione originaria della sua cultura. La proposta culturale
occidentale può confliggere con valori diversi e non compatibili.
Nonostante il paradigma occidentale si sia profondamente diffuso, in epoca contemporanea si sta assistendo ad
una crisi della cultura occidentale in quanto tale paradigma manca di coerenza all’interno del suo modo di
pensare. Infatti, nel Novecento emerge sempre di più l’idea del limite intrinseco di tutti i saperi della cultura
occidentale. Si prende consapevolezza del fatto che non esistono verità assolute a prescindere da chi le incarna e
ne dà voce e che le teorie umane non corrispondono esattamente alla realtà. Quest’ultima ha una sua dimensione
in cui l’uomo è immerso ma l’uomo: nel momento in cui l’uomo prova a staccarsi da tale dimensione per studiare
la realtà prende coscienza dell’ingenuità nel pensare che la struttura della realtà sia direttamente accessibile
all’uomo. L’uomo essendo immerso nella realtà, può solamente fornirne una rappresentazione oggettivata che
è una riduzione incompleta che gli permette di organizzare i pensieri. Però l’uomo non può staccarsi dalla realtà
in quanto immerso in essa.
La crisi della cultura occidentale deriva da una dicotomia tra scienze e filosofia. Già lo scienziato Charles Percy
Snow (1959) aveva rilevato come la conoscenza abbia conosciuto una profonda divaricazione tra sapere tecnicoscientifico e sapere umanistico.
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Sapere tecnico-scientifico → ha impatto sulla società in termini partico-applicativi grazie
all’introduzione di strumenti innovativi che trasformano i mezzi con cui l’uomo organizza la vita
comunitaria e grazie a nuove modalità di relazione interpersonale (si pensi all’effetto che ha avuto negli
ultimi decenni la rivoluzione digitale sulla quotidianità delle persone)
Sapere umanistico → esercita una notevole influenza sulla cultura in senso stretto, quello che gli antichi
greci chiamavano doxa (= cultura), ossia le opinioni largamente condivise
Per via delle difficoltà all’accesso del suo linguaggio (matematico), il sapere scientifico tende a divenire cultura di
massa molto lentamente e solo parzialmente, tramite la semplificazione divulgativa. Dunque, è il pensiero
umanistico a condizionare il senso comune, ossia quel sapere di seconda mano su cui ciascun individuo non
può che basarsi per gestire gli strumenti che non conosce e per formarsi un’opinione sugli argomenti che non
padroneggia appieno. Tali argomenti sono evidentemente la maggior parte, vista la succitata vastità, complessità
e rapidità di evoluzione dello scibile. Nonostante il problema di comunicabilità del sapere tecnico-scientifico possa
essere risolto attraverso l’intermediazione, il pensiero umanistico condiziona il senso comune in maniera molto
più efficace in quanto non presenta una barriera linguistica.
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In definitiva, sussiste una dicotomia tra scientismo del
paradigma tecnico-scientifico e relativismo del pensiero
filosofico. I due paradigmi risultano inconciliabili in quanto
il primo non si interessa dei suoi fondamenti e guarda solo
all’efficacia di quello che compie, prendendolo per vero in
maniera assoluta, mentre il secondo afferma che ognuno
ha la propria relatività e dunque verità. Questo porta ad una contraddizione a livello dell’intermediazione in
quanto sussistono due tipologie di comunicazione totalmente diverse. Si giunge allora alla crisi della cultura
occidentale.
L’intermediazione potrebbe travisare il significato della conoscenza e portare ad un concetto fasullo di cultura non
corrispondente a un dato della conoscenza, assecondando così il dogma relativista. Al contrario, potrebbe accadere
che uno scienziato assolutizzi la propria conoscenza che porta al concetto di universo ma anche di nulla.
Considerando l’oggettività della sua conoscenza neutra che non deriva dall’oggetto, egli non si pone il dubbio e
fonda una teoria con le leggi della scienza.
Una civiltà guidata da una visione dogmatica, acriticamente oggettivante (scientismo) oppure individualisticosoggettivante (relativismo) oppure da una visione ecumenica che forza vanamente la coesistenza delle prime due,
è destinata a perdere la connessione con il proprio passato, trasformando il presente in una nebulosa senza
bussola, il cui valore è affidato alla sola sensibilità individuale o di gruppi di minoranza, senza il recupero di un
sentire comunitario. La perdita di connessione con la storia della propria evoluzione culturale svuota il presente
della dimensione diacronica della narrazione identitaria, mostrando il futuro non come un'occasione di
concretizzazione delle progettualità attuali, radicate in una storia, ma come un tempo imprevedibile e
sconosciuto, potenziale minaccia allo stato presente.
Viene a delinearsi così una degenerazione della società, che si frammenta in gruppi distinti refrattari ai
cambiamenti, chiusi nella loro auto-referenza e maldisposti al confronto con l’altro. Così, la pluralità di idee che è
il sale del pensiero creativo, scientifico e conoscitivo viene tradotta in pluralità di punti di vista, in cui la
distinzione tra teorie accreditate e mere opinioni personali sfuma. In questa situazione non vi è più qualcuno che
detiene la verità in mano e viene meno l’autorevolezza di una teoria. Il pericolo è che la cultura (sapere condiviso)
venga influenzata e trasformata dalle visioni meglio veicolate mediaticamente, a prescindere dalla loro
consistenza logica e solidità epistemologica. Se tutto è relativo, ha la meglio la teoria più convincente dal punto di
vista retorico-emotivo e non logico. Questo discorso può essere spiegato dalla finestra di Overton, un sociologo
statunitense che ha sviluppato un protocollo secondo il quale si può trasformare un’idea inaccettabile in un’idea
normata da una legge, attraverso un grande esercizio di retorica. Per farlo, prima di tutto bisogna trovare il
modo di esporre un’idea e di presentarla nella sua radicalità. Successivamente si adotta un caso limite in cui l’idea
assume un altro aspetto in quanto calata in un’esperienza di vita.
In questo caso essa è giudicata in base al contesto. Ci si sposta
così alla situazione particolare e quindi vi è una componente di
empatia diversa. Mettendo insieme universale e particolare
quest’idea attecchisce e molti iniziano a percepirla come ipotesi
da valutare. Poi per il fenomeno di omologazione diventa tale
idea popolare e infine legge in quanto tutti si trovano d’accordo.
Questo è avvenuto per esempio attraverso la propaganda nazista, nella quale partendo da punti di vista diversi si
arriva allo stesso risultato grazie alla retorica. I principi della propaganda (o principi dell’anti-ragionamento) di
Goebbels, sono strategie di condizionamento basate sulla retorica:
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Principio della semplificazione e del nemico → è necessario adottare una sola idea, un unico simbolo
e soprattutto identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali
Principio del metodo di contagio → riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo
Principio della trasposizione → caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco
con l’attacco; se non si possono negare le cattive notizie bisogna inventarne di nuove per distrarre
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Principio dell’esagerazione e del travisamento → trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che
sia, in minaccia grave
Principio della volgarizzazione → tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al
meno intelligente degli individui ai quali va diretta; quanto più è grande la massa da convincere, più
piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare
Principio dell’orchestrazione → la propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle
instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive ma convergendo sempre sullo stesso
concetto senza dubbi o incertezze
Principio del continuo rinnovamento → occorre emettere costantemente informazioni e argomenti
nuovi a un tale ritmo che quando l'avversario risponde il pubblico è già interessato ad altre cose; le
risposte dell'avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse
Principio della verosimiglianza → costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i
cosiddetti palloni sonda o attraverso informazioni frammentarie
Principio del silenziamento → passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e
dissimulare le notizie che favoriscono l'avversario
Principio della trasfusione → la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti
di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali; si tratta di diffondere argomenti
che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi
Principio dell’umanità → portare l'agente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti,
creando una falsa impressione di unanimità
v La rivoluzione digitale
Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, sostiene che la cultura nell’illuminismo, in cui prevale il mito della
ragione, era considerata il riscatto dei popoli che dovevano liberarsi dalle catene dell’ignoranza e grazie a un alto
livello culturale migliorare le proprie condizioni di vita. Vi era quindi una visione gerarchica del sapere per cui i
vertici del potere, detentori del sapere stesso, dovevano educare le masse al sapere. Invece, con i New Media a
livello culturale accade l’opposto, ossia la celebrazione e incarnazione di nuovi dogmi quali la libertà di scelta e la
pari dignità di tutte le idee e opinioni. Ne consegue il rigetto della struttura verticale a favore di una struttura
orizzontale del sapere (non gerarchica) e il cambiamento del concetto di cultura, che viene vista come una
serie di prodotti e offerte ai quali ciascuno può accedere liberamente. Parlare di rivoluzione digitale porta a
considerare due aspetti:
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Positivo (cultura) → la cultura non corrisponde più con l’obbiettivo di portare le persone a un livello di
cultura vicino alla conoscenza, ma è la celebrazione di certi dogmi in cui al centro vi è l’individuo,
l’indipendenza del pensiero e l’idea che il sapere non debba essere detenuto da pochi e poi distribuito;
allora non si parla più di cultura ma di accesso alla conoscenza
Negativo (comunicazione e intermediazione) → accesso a un pubblico sempre più ampio di una
molteplicità di informazioni/contenuti senza necessità che questo appartenga a un certo filone della
conoscenza; dunque, vi è una ricezione più ampia di contenuti ma anche una maggiore possibilità di
offrirne e il fatto che “chiunque” possa offrire contenuti risulta un problema (pluralità di voci)
Bauman ha coniato l’espressione società liquida con la quale si riferisce al cambiamento profondo di paradigma
nella concezione di cultura (concezione illuminista v/s new media della rivoluzione digitale). Infatti, il nome
cultura in passato è stato assegnato a una missione di proselitismo progettata e intrapresa per educare le masse
(illuminismo), ma nel mondo moderno essa ha cambiato funzione: celebra il fatto che ognuno ha le proprie idee e
può condividerle. La cultura è attualmente in una fase liquido-moderna, fatta a misura della libertà individuale
di scelta e concepita per servire tale libertà. In tale fase essa assume una funzione diversa, ossia quella di sedurre
i clienti creando nuovi bisogni pur mantenendo allo stesso tempo bisogni già radicati o permanentemente
insoddisfatti. La cultura oggi è fatta di offerte, non di norme. Nella nostra società di consumatori essa si trasforma
in un magazzino di prodotti concepiti per il consumo, ciascuno in competizione per spostare o attirare l’attenzione
dei potenziali consumatori nella speranza di conquistarla e trattenerla più a lungo.
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Abbandonare standard rigidi, assecondare la mancanza di discriminazione, servire tutti i gusti senza privilegiare
alcuno, incoraggiare l’irregolarità e la flessibilità e rendere romantica la mancanza di stabilità e l’incoerenza è la
giusta strategia da seguire. A tale proposito è importante parlare della questione dell’inclusività. È chiaro che
nessuno debba essere discriminato per le sue idee ma questo non significa che tutte le idee valgono. Da qui
l’importanza della distinzione tra persona e idee. L’idea di includere tutte le visioni non è possibile in quanto se
una delle idee è in contrasto con le altre essa è destinata a venire meno. Se un’idea è incompatibile con la cultura
e la civiltà in cui vorrebbe affermarsi, o convince la cultura stessa a cambiare idea o si creano attriti sociali e dunque
essa deve essere messa da parte. Come capire dunque se un’idea è giusta o meno? Il filtro nonché chiave di
interpretazione riguarda l’argomentazione: se essa non sta in piedi è retorica. Dunque, attraverso il dialogo si
può cercare di argomentare la propria idea e spiegare perché essa sia giusta. Questo riguarda la civiltà occidentale,
ma quando si parla di culture diverse il dialogo non basta in quanto esso è un elemento proprio dell’Occidente.
Bisogna allora trovare dei mezzi per comunicare anche a persone proveniente da culture diverse e capirle. Le
tecnologie immersive in questo senso hanno un potere immenso.
Caratteristiche della rivoluzione digitale dei new media:
a) Facilità di accesso ad una sterminata mole di contenuti
b) Facilità di produzione e diffusione di contenuti culturali
c) Affermazione della figura del prosumer (consumer + producer = l’uomo è sia consumatore che
produttore di contenuti)
d) Processo partecipativo di creazione di contenuti culturali (es: Wikipedia) → Pierre Levy aveva teorizzato
il concetto di intelligenza collettiva
e) Declino generalizzato dei corpi intermedi (politici e culturali) e quindi del modello verticale
dell’istruzione e dell’informazione
Nel processo partecipativo (d) tutte le competenze vengono messe in comune con l’obbiettivo di incrementare la
conoscenza e la cultura. Ecco allora che tutti i corpi intermedi perdono potere in quanto ogni uomo è in grado di
intermediare da solo (declino del modello verticale). Si assiste dunque al fenomeno della disintermediazione:
l’intermediazione (e), proprio perché esiste la figura del prosumer, va in crisi in quanto perde l’egemonia della sua
funzione. Così, il modello verticale della diffusione del sapere sparisce in parte.
Circa i pericoli della disintermediazione Tom Nichols, un politologo statunitense, afferma che l’uomo sta
assistendo alla fine dell’idea stessa di competenza, ossia a un crollo della divisione tra professionisti e profani,
studenti e insegnanti, conoscitori informati e speculatori fantasiosi. Cfr. aspetto negativo della rivoluzione digitale.
Inoltre, come dice Zanchini, Instagram, come tanti altri social media e internet, creano il fenomeno del pregiudizio
delle conferme (Confirmation Bias) secondo cui l’uomo invece di essere stimolato a cambiare visione, segue
sempre le stesse idee e viene bersagliato da informazioni che confermano ciò che pensa. Tale meccanismo per
cui si cercano continuamente conferme della “propria” convinzione si oppone al metodo scientifico in cui si
cercano smentite della propria tesi. Chi ha bisogno di ricercare la propria convinzione è in una condizione di
debolezza in quanto non ha una grande padronanza di essa. Il problema è che invece di essere esposto a ciò che è
opposto alla propria visione, con la rivoluzione digitale l’uomo è sempre più portato a ricevere conferme di ciò che
pensa. Circolano quasi soltanto informazioni coerenti con le proprie convinzioni e preferenze. Si tratta di una
strategia pubblicitaria che è stata decisa in questo modo e non è connaturata alla natura stessa della rivoluzione.
Il meccanismo del pregiudizio di conferma si scontra con il metodo scientifico, secondo cui chi ha una tesi deve
verificarla fino a prova contraria attraverso delle ricerche.
Se l’uomo perde la fiducia nell’intermediario, non può affidarsi a ciò che pensa lui in quanto egli è influenzato dalla
mentalità e la cultura del suo tempo e della sua civiltà. La sua testa non basta. Siccome l’intermediazione è
un’esigenza dell’uomo, il problema risiede nel comprendere su chi fare affidamento in un mondo di confusione e
di infinità di informazioni. Gérald Bronner, un sociologo francese, afferma che con il crescere della produzione di
conoscenza, diminuisce la parte di competenza che il singolo può sperare di dominare. Questo significa che una
società basata sul progresso della conoscenza diventa la società della credenza per delega, ovvero della fiducia. I
miti del complotto rendono un gran servizio alla sete umana di comprendere il mondo: sono fondati su un effetto
di disvelamento molto soddisfacente per la mente. Permettono infatti di dare coerenza a fatti che fino a quel
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momento non ne avevano e di trovare relazioni tra avvenimenti apparentemente indipendenti. Si tratta di miti
spettacolari che colpiscono facilmente l’immaginazione, per questo motivo sono facilmente memorizzabili.
L’uomo da spesso adito a teoria complottiste in quanto il bombardamento di informazioni lo porta a un senso
di smarrimento e di incertezze, che viene meno proprio con tali teorie. L’uomo non riesce più a capire come farsi
un’idea e quindi la teoria complottista ha una sua attrattiva per la sua natura di mettere ordine. È sano trovare una
correlazione, i punti cardine, tra elementi apparentemente opposti in quanto ciò corrisponde a un bisogno di senso
connaturato nell’uomo in quest’epoca digitale caratterizzata da una velocità di informazioni. Tuttavia, le teorie
complottiste cercano di smentire un’idea e questo non permette di avere una visione multi-prospettica all’interno
della società. Inoltre, non è semplice convincere una persona dell’inconsistenza dei suoi argomenti, che sono quelli
propri della teoria complottista, perché egli vede immediatamente il suo interlocutore come il difensore della tesi
ufficiale che lui vuole combattere.
Come ogni strumento, i new media veicolano informazioni secondo peculiari modalità che ne influenzano
l’apprendimento. Gli effetti collaterali dei new media sono:
1) Incremento della capacità di lettura frammentata dovuta alla necessità di gestione di notevoli quantità
di informazioni e input audiovisivi simultanei
2) Diminuzione della capacità di lettura analitico-sintetica (connessioni analogiche, ragionamento
inferenziale) data da uno stimolo a una lettura che coniuga diversi codici (visivo, uditivo e intellettuale)
Manfred Spitzer, neuroscienziato tedesco, inoltre, annovera tra le conseguenze neurologiche dell’uso frequente di
tecnologie informatiche l’aumento di disturbi di memoria, dell’attenzione e della concentrazione.
Infine, l’enorme mole di contenuti resi disponibili dalla rete globale e l’assenza di criteri gerarchici nella
presentazione di contenuti, dovuti al venire meno dell’intermediazione e all’aumento della cultura orizzontale,
espone gli utenti a:
3) rischio di sovraccarico cognitivo (information overload) → l’enorme contenuto di informazioni non
richiede una lettura spasmodica, dunque, travolge le persone; allora la mente umana seleziona ciò che
ritiene più interessante, che però non è una scelta basata sul criterio gerarchico
4) rischio di assorbimento di informazioni non approfondite (nozionismo) o fittizie (fake news) o
impropriamente associate (fallacie logiche)
Saper ragionare logicamente permette di scartare immediatamente delle posizioni che non stanno in piedi su un
determinato argomento. Sapere come associare dei concetti o delle informazioni è una grande arma di cui l’uomo
si può dotare. Altrimenti egli finisce nel fenomeno del nozionismo, per cui assorbe informazioni non approfondite.
Il mediatore, proprio in un’epoca come la nostra, ha una responsabilità etica enorme. Per esempio, se un
giornalista non approfondisce le informazioni e quindi non svolge il suo ruolo da intermediario potrebbe orientare
erroneamente su più canali le persone che si fidano di lui e questo ha dei risvolti negativi nelle loro vite.
La neo-intermediazione
Oggi l’uomo si divide tra gli algoritmi che disegnano i suoi percorsi sulla base dei suoi gusti e dei consigli di amici,
esperti, influencer. Tuttavia, il suo sistema di informazione e comunicazione lo porta a ricevere informazioni che
confermano continuamente le sue idee. Non ci troviamo dunque affatto nell’età della disintermediazione, ma la
figura del mediatore è diversa da quella del Novecento.
Il “nuovo” mediatore è:
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antigerarchico
invisibile
dotato di un potenziale di azione vastissimo
In rete vi è senz’altro libertà di azione individuale ma è un ambiente non predisposto di per sé alla parità delle
condizioni di partenza (es: chi è famoso viene ascoltato maggiormente). Il mediatore del futuro, trovandosi
nell’ottica di parlare solo di ciò che conosce e nella misura in cui conosce, deve essere in grado di comunicare un
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messaggio e di far sentire la sua voce, tenendo testa a un sistema che può erodere la democrazia delle istituzioni.
Egli per farlo deve dotarsi degli strumenti giusti e delle nozioni per saperli usare al meglio. In particolare, egli deve
dotarsi di alfabetizzazione new-mediatica e competenze digitali per muoversi attraverso vie sia orizzontali
che verticali.
v Il problema del pensiero occidentale
Vi è un problema che riguarda il pensiero occidentale: divergenza tra l’affermarsi dell’esattezza e il tipo di
comunicazione usato dagli intermediari. Esempio: uno scienziato che è un genio in quello che fa ma non sa cosa
sia esattamente la scienza, permette un progresso della sua disciplina ma prende delle scelte e ha delle visioni (che
poi comunica) che non sono indifferenti in quanto confondono il suo spettro di conoscenze con lo spettro di
conoscenze umanistico-filosofiche.
L’atto di produrre conoscenza non è un prodotto ma un atto di invenzione, basato su degli studi approfonditi e
non casuali. Inventare non significa creare qualcosa di falso ma creare una struttura vera. La confusione tra cos’è
la scienza e i risultati della scienza è grave: significa che l’uomo non ha capito cosa gli permette di conoscere.
•
Primo problema: paradigma tecnico-scientifico preso come dogma
Il paradigma tecnico-scientifico non è un dogma ma un principio. Consideralo come un dogma porta a convincersi
che alcuni risultati scientifici possano permettere di risalire a una struttura della realtà e di comprendere degli
aspetti dell’uomo (esempio: credere che la felicità dipenda dai neuroni della ricompensa). Invece, i risultati di uno
scienziato valgono solo all’interno della sua disciplina, che non può scoprire cos’è la coscienza umana in quanto
quest’ultima viene prima ed è proprio ciò che permette di svolgere delle ricerche e degli studi scientifici. Per
esempio, il paradigma del codice genetico è bloccato da qualche decennio in quanto non vi sono evoluzioni in
questo senso; forse perché si sta riducendo l’uomo a una macchina formata da un codice alfanumerico. L’uomo
non è un codice: non è possibile aver scoperto la molecola della felicità e lo scienziato che afferma il contrario,
ossia di averla scoperta, non ha capito a livello culturale cos’è veramente l’esperienza di conoscenza umana e la
capacità umana di conoscere attraverso la scienza. Se il paradigma-tecnico scientifico, che ha effetti
incredibilmente potenti, attraverso l’intermediazione diventa un equivoco allora si giunge a false conclusioni circa
la realtà (come l’affermazione circa il fatto che la felicità dipende dai neuroni della ricompensa). Lo scienziato si
illude così di poter spiegare tutta la realtà con esattezza e certezza.
Aristotele ritiene che vi sia perfetta corrispondenza tra struttura della realtà e struttura della mente umana (e
quindi della conoscenza) in quanto la realtà è influenzata dalle categorie di colui che conosce. Tuttavia, non vi è
una dimostrazione del fatto questo sia vero. Si tratta di una corrispondenza che è ritenuta totale dalla visione
filosofica ma che non può essere considerata una cosa naturale. Infatti, la configurazione della realtà perde il
riferimento dell’esperienza vivente e taglia fuori il lato conoscitivo che non può essere ricompreso in nessuna
teoria sulla realtà. L’origine di questo ignoto è ignota a qualsiasi tendenza oggettivante.
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Secondo problema: confusione tra cultura e conoscenza
Il problema della confusione tra conoscenza e cultura porta ad ignorare il quadro di riferimento filosofico. Il
relativismo filosofico non può essere assolutizzato. La filosofia è il susseguirsi di pensatori che impongono la
loro visione confrontandosi con il pensiero precedente, salvando o demolendo la filosofia precedente. Essa non è
“per tutti i gusti” come invece promuove la Feltrinelli. Infatti, affermarlo comporta il rovesciamento
dell’intermediazione in quanto significa promuovere un prodotto culturale che va contro ai gusti, considerandolo
quindi come prodotto di consumo. Invece, il prodotto culturale ha lo scopo di portare la conoscenza al maggior
numero di persone possibile. Affermare che la filosofia è per tutti i gusti non permette di vederla come uno
strumento di cultura che consente il progresso del pensiero, ma tale visione è invece frutto della cultura
orizzontale e dell’idea derivante dal relativismo secondo cui se tutto è relativo allora tutte le idee dipendono dai
gusti personali e hanno tutte il medesimo valore.
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Terzo problema: confusione tra causa ed effetto
Per parlare di questo problema è utile riferirsi al tema dell’inclusione come principio di selezione sul lavoro.
Secondo alcune politiche aziendali di recruitment, il processo di selezione del personale deve attrarre un’ampia
fascia di candidati con diverse caratteristiche. L’azienda deve dunque fare attenzione alla composizione
eterogenea della propria forza lavoro. Tuttavia, l’uomo deve poter avere accesso ad un determinato lavoro a
prescindere da tutte le categorizzazioni (età, cultura ecc.), e solamente in base alle proprie competenze, alla
propria bravura e alla propria meritevolezza. È vero che rimane importante la diversificazione e l’inclusione del
personale, realizzabili mettendo tutti nella posizione di avere le stesse opportunità e rimuovendo gli ostacoli
eventuali. Però, la politica di inclusione non deve essere adottata a priori per la selezione dei dipendenti. Questo
perché, nonostante tale politica sia estremamente importante, un datore di lavoro non deve assumere solamente
con l’intento di aumentare la diversity aziendale, ma deve farlo in base alla bravura e meritevolezza della
persona. Se questo non avviene si verifica un sistema di esclusione, caratterizzato dall’assunzione a valle di una
sola tipologia di dipendenti aventi determinate caratteristiche diverse tra loro che permettono l’eterogeneità. Ecco
allora che l’inclusione come principio di selezione sul lavoro è un’assurdità. La politica di inclusione di per sé
è giusta, ma essa non va applicata sul lavoro in quanto si rischia di selezionare il personale solo in base a
caratteristiche prefissate e non in base alle sue competenze meritorie.
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Quarto problema: confusione tra uguale valore di ogni persona e uguale valore di ogni idea
L’inclusione di ciascun individuo non significa la non discriminazione delle sue convinzioni personali/idee.
L’individuo ha una ricchezza che deriva dalla sua storia e dalla sua cultura; tale ricchezza è più grande della sua
individuale vita biologica. È possibile conoscere la sensibilità e le emozioni di una persona. Quindi far coincidere
la persona nella sua dignità con le idee che manifesta è una riduzione assurda. Discriminare le idee è inevitabile:
una persona può sempre esprimere le proprie idee ma queste non vanno incluse se sono sbagliate. L’inclusione di
tutte idee non ha senso e non significa discriminare una persona in quanto essa non è ridotta alle sue idee. Tutti
hanno diritto di esprimere le proprie idee ma non tutte le idee vanno incluse. Confondere persone e idee
comporta di ridurre la persona alle sue idee. Dunque, l’inclusione di tutte le idee è impraticabile: se due idee sono
opposte almeno una delle due, se non tutte e due, è sbagliata.
Cultura e creatività
La creatività è l’elemento distintivo dell’uomo, che non si può racchiudere e definire in nessuna conoscenza.
Walter Santagata, un pioniere dell’economia della cultura, ha affermato “La cultura è motore della creatività e la
creatività a sua volta, è alla base dell’innovazione sociale ed economica”.
L’eredità culturale di una collettività è ciò da cui nessuno può sottrarsi. Essa determina e stabilisce le mappe di
riferimento della cultura in senso ampio (valori, convinzioni ecc.) che permettono a ciascun individuo di esprimere
la propria creatività in una dimensione predefinita. La creatività appartiene a ciascun individuo in modo
irriducibile e imprevedibile e porta ad un arricchimento culturale, sociale ed economico a livello di collettività.
Ecco allora che la dimensione individuale e collettiva si intrecciano. Lo stimolo alla possibilità di creatività che
ciascun uomo ha è fondamentale. La creatività però necessita di una delimitazione, ossia di regole che ne
permettono lo sviluppo.
EREDITA’ CULTURALE → CREATIVITA’ → ARRICCHIMENTO CULTURALE, SOCIALE ED ECONOMICO
Pier Luigi Sacco, un economista della cultura, sostiene che “Il tema della creatività non interessa solo pochi esperti
o artisti ma riguarda tutta la società: lo sviluppo economico infatti funziona, dal punto di vista della creatività,
quando tutta la società che possiede un’apertura mentale, una curiosità verso il nuovo che diviene capacità di
partecipare alle proposte di innovazione che nascono”.
→ La creatività viene solitamente associata all’esperto o all’artista ma in realtà riguarda tutta la società e tutti i
campi del sapere e della pratica. A tale proposito si parla di creatività in senso lato, ossia capacità di innovare.
Quando la società ha un’apertura mentale, data dalla sua cultura, allora è capace di dare un contributo alle
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esperienze innovative e la creatività del singolo si sprigiona assieme allo sviluppo socioeconomico di tutto il paese.
Vi è infatti una relazione tra partecipazione culturale e creatività nel senso di innovazione. Oggi, i paesi che
riescono meglio a sfruttare la creatività e che quindi sono più innovativi sono quelli in cui è più elevata la
partecipazione culturale, cioè dove il fatto di produrre cultura, ascoltare le storie degli altri, partecipare alle idee
degli altri è parte dell’essere cittadini. Questo diventa un problema serio in un paese come l’Italia. Nel nostro paese
fin dal rinascimento si è sviluppata la retorica. Tuttavia, essendo la cultura vista come un accumulo di risultati
prodotti, la retorica non serve: la cultura andrebbe vissuta e reinterpretata, resa comprensibile nella sua essenza,
continuata e modificata in base alle necessità attuali. A causa della concezione sbagliata di cultura e di creatività,
in Italia vi sono altissimi livelli di analfabetismo funzionale, altissime quote di persone che non hanno accesso alle
opportunità culturali (spesso giovani), soprattutto al Sud. La creatività permette alla cultura di vivere, senza di
essa rischia di morire. Anche l’attività di intermediazione è una forma creativa in quanto permette di far emergere
il significato. Per esempio, l’interazione tra tutte le tecnologie è interessante in quanto se si trovasse una chiave
per fare in modo di far vivere il proprio passato glorioso in maniera coinvolgente e attualizzata, l’Italia a livello di
consapevolezza di sé e di appeal verso l’estero potrebbe essere più informata e profondamente coinvolta. Le nuove
tecnologie interattive sarebbero perfette per entrare in sinergia con il patrimonio culturale e valorizzarlo.
Sacco ritiene anche che i paesi che oggi si stanno rivelando più competitivi siano soprattutto quelli dell’Estremo
Oriente che stanno sviluppando strategie estremamente sofisticate ed efficaci per legare sviluppo e creatività.
Questa è una vera e propria emergenza nazionale: anche la politica economica italiana dovrebbe sviluppare questo
tipo di strategia al fine di assicurare all’economia e alle nuove generazioni una capacità di contare come paese di
punta nello sviluppo economico del futuro. In Italia, dunque, poiché senza innovazione e rimanendo ancorati a
un’idea di cultura nel senso di retaggio del passato (e quindi destinata a morire) emerge un problema di identità
fittizia formata da pochi valori banali e senza vita. L’incontro è la chiave della ricchezza culturale italiana: i distretti
culturali sono il potenziale italiano.
Il mondo della creatività
Santagata in “Libro bianco sulla creatività” sostiene che la creatività si esprime a due livelli:
1) livello oggettivo → attraverso i beni e nei servizi la cultura è incorporata in un processo logico,
organizzativo o produttivo (struttura organizzativa di un distretto culturale, impresa di ricerca, impresa
di venture capital)
La cultura come dato acquisito a livello oggettivo diventa oggetto di creatività nel senso che si trovano dei modi
attraverso cui il patrimonio culturale può essere disperso e sfruttato. La cultura è già data come assodata
(patrimonio culturale) e la creatività si esercita sul patrimonio culturale, luogo con delimitazione territoriale
specifica, e al suo interno si esercitano forze con sinergia di intenzioni e realizzazioni.
2) livello soggettivo → creatività come caratteristica umana e individuale
L'atmosfera culturale influenza i processi creativi. Così, una dimensione socioculturale più libera, dinamica e
interdisciplinare favorisce la produzione di creatività e l'emergere di talenti. L'aspetto soggettivo della creatività
definisce quindi le strategie per mantenere costante e accrescere il tasso sociale di creatività per mezzo di:
•
•
•
•
•
Processi formativi accademici (es: Accademia delle Belle Arti)
Processi di Learning by doing in contesti creativi (si scopre un talent provando ad applicarsi in qualcosa
che attrae)
Attrazione di talenti dai paesi esteri
Riduzione dei costi di accesso alla cultura
Applicazione dei diritti sulla proprietà intellettuale a tutela della creatività (se si vuole fare un mestiere
creativo o un’opera di creatività intellettuale bisogna essere protetti e tutelati; la mancanza di questo
disincentiva la creatività)
Esistono anche visioni discordanti e controtendenza, come quella del professore Boldrin, economista ed ex politco
italiano, che contesta il concetto del Copyright considerandolo un disincentivo alla sana competizione presente
in un mercato libero. Secondo il professore, il Copyright creerebbe dei monopoli per cui non sarebbe data la
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possibilità ad altri di sfruttare l’idea concreta dell’ideatore per farne un servizio migliore. Egli sostiene che vi sia
una sovrastima del pericolo che un mancato riconoscimento di una paternità comporterebbe (≠ plagio). La
possibilità di sfruttare un servizio per renderlo più utile e fruibile è ostacolata dal copyright. Egli considera che
non sia possibile rubare il lavoro intellettuale perché rimane il vantaggio del first mover, di colui che ha creato per
primo sul mercato un prodotto. Inoltre, ritiene che il fatto che esiste già un prodotto sul mercato creato dal first
mover sia già di per sé un disincentivo. Ecco allora che si apre un grande dibattito: il timore della competizione è
un problema culturale o è un giusto senso di tutela del proprio lavoro?
Stili e modelli di produzione culturale di creatività
Cultura e creatività si combinano in modi diversi a seconda delle condizioni storiche dei vari paesi, dando luogo a
modelli in parte differenti. Infatti, in alcuni modelli prevalgono gli aspetti tecnologici e le innovazioni tecniche,
in altri prevalgono gli aspetti economici relativi allo sviluppo di mercati, in altri ancora gli aspetti giuridici come
l'applicazione del copyright e infine in altri gli aspetti culturali e la qualità sociale.
Si possono individuare due modelli:
1) Creatività per l’innovazione → contraddistingue i paesi Nord-europei e Nord-americani ed ha lo scopo
di offrire un prodotto o servizio innovativo e dirompente che porti un vantaggio economico anche in
ambito culturale
2) Creatività per la qualità sociale → contraddistingue i paesi del Mediterraneo, africani, latino-americani
e asiatici e non consiste solo in una questione di innovazione, ma anche in una serie di esternalità
positive, ossia di effetti socio-culturali non direttamente legati all’operazione svolta; se la creatività che
si concretizza in beni e servizi serve a migliorare il benessere dei cittadini, l’integrazione tra persone
appartenenti a culture differenti e la qualità della vita allora le ricadute sono più profonde ed interessanti
rispetto al mero ritorno economico
L’Italia in questo campo si pone in una posizione intermedia in quanto essa è potenzialmente vincente in termini
di sviluppo economico, reddito, esportazioni e posti di lavoro ma conferisce anche una profonda importanza alla
cultura. Infatti, nel nostro paese vi è un proprio mito della cultura, che comprende la consapevolezza
dell’importanza della storia. In America invece, per esempio, vi è un bisogno di ricerca delle proprie radici che
fatica ad essere trovato. Questa rigidità è indice del fatto che vi è una debolezza nella concezione della creatività,
vista maggiormente come innovazione volta al profitto. Ciò che manca nella civiltà americana è la visione di fondo
retaggio di una dimensione culturale collettiva. In Italia invece vi è uno spettro di cultura e quindi conoscenza
decisiva per creare connessioni tra elementi diversi.
L’inarrestabile progresso delle industrie culturali e creative
Santagata ravvisa un incremento esponenziale della domanda di contenuti culturali e creativi, dovuto
essenzialmente a:
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•
•
spinta propulsiva della new economy (information and communication technology) → ha aperto un
mercato globale, in particolar modo nel settore audiovisivo, attraverso strumenti che permettono di
diffondere elementi creativi a livello globale (es: netflix)
incremento della ricchezza globale e dunque aumento del livello d’istruzione → ampliamento del
target
progressivo mutamento del mercato dei beni materiali → sempre più orientato ad una competizione
che mira alla qualità dei prodotti invece che ai bassi costi di produzione
In questo scenario il Made in Italy si trova in una posizione favorevole, in quanto il modello della creatività per
la qualità sociale (2) innesca meccanismi simbolici e processi di identificazione che superano la mera logica costibenefici. L’Italia ha una forza simbolica incredibile all’estero in materia di arte, creatività e bellezza.
Cultura e creatività per la qualità sociale nell’esperienza italiana
Con qualità sociale si intende il grado con cui le persone partecipano alla vita sociale, economica e culturale
comunitaria, nonché allo sviluppo del benessere e del potenziale sia collettivo che individuale. La cultura gioca
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ovviamente un ruolo cruciale per il mantenimento o l’aumento della qualità sociale in termini di coesione della
comunità e qualità delle relazioni umane.
Misurare le politiche culturali, le iniziative promosse e la partecipazione culturale di un popolo in termini
quantitativi (come faceva fino a poco fa l’UE) comporta un problema: i dati rilevati di fatto non forniscono
informazioni interessanti. Ecco allora che risulta importante valutare questi temi concretamente e capire
qualitativamente i risvolti positivi che essi hanno a livello di vita comunitaria.
La creatività va vista come mezzo e non come fine: la creatività senza cultura è cieca. Nonostante l’innovazione
passi attraverso la creazione di beni e servizi volti a migliorare la società, non bisogna creare al fine di innovare
qualcosa. La creatività ha il potere di far progredire non solo l’economica, ma anche moltissimi altri aspetti della
società. Sebbene la creatività costituisca un input fondamentale per la produzione culturale, essa non va intesa
come un fine in sé. La creatività è il mezzo per perseguire obiettivi il cui valore è socialmente condiviso, sia in
ambito culturale che tecnologico. Per esempio, con questa visione l’istruzione non è vista come la messa a
disposizione di nozioni che servono per un obbiettivo ma come un modo per fornire strumenti la fine di capire la
propria identità.
Affinché diventi qualità sociale, la creatività deve coniugarsi con la storia culturale e la dimensione etica di una
comunità. In Italia la creatività e le industrie culturali tipicamente conseguono maggior successo soprattutto negli
spazi creativi delle città e dei suoi distretti produttivi e sistemi locali di impresa.
La cultura come storia e territorio
La città è stata e continua ad essere la cornice ideale entro cui si producono e distribuiscono socialmente beni
culturali intangibili, flussi di informazione e di conoscenza. Oggi in particolare, le città sono incontri di culture dalla
cui commistione possono originarsi nuova linfa ed energia innovativa. Grazie alla sua conformazione storicoculturale, l'Italia è molto ricca su molteplici livelli e sul suo territorio si incontrano una moltitudine di sinergie date
dalle diverse specificità territoriali. I distretti culturali e industriali italiani producono tipicamente beni di
artigianato e design fondati sulla cultura locale e sulla tradizione. Si creano interazioni tra le varie realtà che
portano un prodotto o servizio ad essere altamente distintivo. Santagata sostiene che tra gli elementi ricorrenti
figurano:
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•
•
produzione di beni in cui prevalgono significative componenti intangibili estetiche, di design e di
decorazione
forte coesione sociale che genera fiducia e cooperazione seppur in un contesto di concorrenza
marcato senso di identità (→ anche se oggi gli italiani stanno perdendo un po’ di quel senso identitario)
circolazione intensa e libera di informazioni sui mercati e sulle innovazioni tecnologiche
sviluppo di esternalità positive
mercato del lavoro locale caratterizzato da una vasta gamma di specializzazioni
forte densità di micro e piccole imprese localizzate
tendenza dell’artigianato a evolvere verso il design industriale (coniugazione di qualità e quantità)
Il distretto culturale è realizzabile in Italia grazie anche alla sua conformazione territoriale e della popolazione. La
qualità locale assume lo status di forza di media impresa per cui si esce dall’ambito della produzione artigianalefamigliare per raggiungere quello di impresa più grande.
Santana inoltre enuncia quelle che per lui sono determinanti per l’espressione creativa di un territorio:
•
•
•
presenza di una comunità non conservatrice e in trasformazione sociale (luoghi di dinamismo sociale e
intellettuale)
concentrazione spaziale di conoscenze e attività creative (favorisce la realizzazione delle ambizioni
individuali)
rapporto tra le imprese caratterizzato da integrazioni sia orizzontali che verticali
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Cultura e creatività
La sempre maggiore attenzione alla qualità sociale chiama in causa la creatività e la cultura, che divengono risorse
più che mai preziose. Santagata individua 4 classi di politiche culturali, due negative e due positive:
1)
2)
3)
4)
politiche di distruzione di cultura (N)
negligenza nei confronti dei beni culturali (N)
politiche di conservazione (P)
politiche di produzione di cultura (P)
L’Italia paradossalmente si contraddistingue per elevati punteggi in ciascuna di queste categorie, avendo quindi
il 50% di aspetti positivi e 50% di aspetti negativi, anche se rimangono dubbi e questioni contrastanti. In
particolare, il nostro paese nelle politiche di conservazione risulta avere una performance soddisfacente mentre
nelle politiche di produzione appare in ritardo su innovazione e qualità dei prodotti tecnologici. Il ritardo italiano
dello sviluppo tecnologico impatta considerevolmente in quanto per produrre cultura servono strumenti
tecnologici avanzati. Dunque, gli aspetti negativi potrebbero essere dovuti alla mancanza di tali strumenti. Inoltre,
l’Italia ha un patrimonio talmente vasto e quasi incalcolabile che emerge anche il problema circa la capacità di una
sua gestione.
La conoscenza tecnologica e l’innovazione rappresentano anche una frontiera nelle industrie culturali in Italia.
Infatti, un rilevante punto debole dell’industria culturale italiana è riscontrabile sul versante delle innovazioni
tecnologiche (da considerarsi come le nuove risorse strategiche). In settori quali cinema, editoria, radio, tv,
videogame ecc. le produzioni italiane faticano a trovare spazio nei mercati internazionali. Per quel che riguarda le
industrie di computer, software e ICT, i mercati sono ormai dominati da società multinazionali estere.
In realtà il ritardo italiano di conoscenza tecnologica (e non di concretizzazione in soluzioni tecnologiche) è stato
smentito da Federico Faggin, imprenditore che ha inventato il primo microprocessore. In Italia vi sono strutture
che permettono di lasciare esprimere i talenti ma il problema emerge dopo. Il problema non è di formazione e
conoscenza ma di scelte politiche adottate e di investimenti.
La creatività riguarda tutti e 3 i livelli di conoscenza, intermediazione e cultura. Essa è fruttifera nel momento in
cui il gap tra conoscenza (A) e cultura (C) è piccolo. Infatti, minore è il gap tra saperi specialistici e nozioni
condivise, maggiore è la possibilità di sviluppare nei singoli individui una fruttifera creatività interdisciplinare,
capace di innovare la conoscenza e arricchire la cultura. Per interdisciplinare si intende una cultura che sa
vedere connessioni tra elementi e discipline diverse.
Secondo Santagata, i 12 settori produttivi che sfruttano la sinergia tra creatività e cultura possono essere
raggruppati in 3 macroaree. Tale tripartizione ha una logica precisa ma è passibile di revisione in quanto possono
cambiare i criteri che vengono adottati.
A) Cultura materiale → espressione del territorio e delle comunità
• Moda
• Design industriale e artigianato
• Industria del gusto
B) Patrimonio storico e artistico → frutto delle generazioni passate e presenti
• Patrimonio culturale (musei, monumenti, archivi, biblioteche)
• Musica e spettacolo (arti performative)
• Architettura
• Arte contemporanea
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N.B. La musica è in continua evoluzione e ha una tradizione antichissima per cui è in grado di veicolare messaggi
molto più profondi rispetto agli spettacoli. Dunque, musica e spettacolo non dovrebbero essere messi sotto la
stessa voce.
C) Produzione di contenuti, informazioni e comunicazione
• Patrimonio culturale
• Musica e spettacolo
• Architettura
• Arte contemporanea
Santagata spiega il motivo di tale tripartizione. Il settore della Moda e quello del Design industriale e artigianato si
fondano su un'esperienza storica, su un’accumulazione di saperi attraverso diverse generazioni di creativi e su
sistemi industriali distrettuali. Allo stesso modo l'Industria del gusto è fortemente legata al territorio e alla sua
storia. I settori del patrimonio storico e artistico invece interessano attività e beni centrali per la produzione ed
espressione di cultura. Va tuttavia rilevato che tali attività di produzione spesso non sono di natura industriale.
Questo patrimonio culturale rappresenta la vetrina della cultura italiana e può avere un notevole impatto per le
attività economiche ad esso connesse in particolare il turismo culturale. Infine, la terza macro-categoria riguarda
tutti quei settori che si inseriscono nell’ambito della produzione di contenuti, informazioni e comunicazione.
Tale distinzione va vista in modo critico: bisogna sempre avere uno sguardo interdisciplinare circa la definizione
di cultura e indirizzare le scelte sulla base di un ragionamento attento e profondo. La categorizzazione attuata
influenza poi le decisioni politiche e culturali che si vanno ad adottare.
Identificazione della catena di valore della creatività nel processo produttivo di ogni settore
Le seguenti fasi rappresentano i momenti centrali della generazione del valore di un prodotto:
•
•
•
Concezione → caratterizzata dall’ideazione dei prodotti e quindi dalla loro tutela in termini di proprietà
intellettuale
Produzione → consente di trasformare in beni e servizi commerciali un dato prodotto creativo/oggetto
culturale
Distribuzione → la rete che permette la diffusione di tali beni e servizi, tramite canali tradizionali e/o di
nuova generazione
L’arte contemporanea
L’arte contemporanea appartiene alla macroarea del patrimonio storico e artistico individuata da Santagata nel
suo schema. Inoltre, è indicativa del fatto che esiste una dicotomia nella concezione passata e presente di cultura.
Mettere a confronto arte rinascimentale e arte contemporanea permette di sottolineare la trasformazione
dell’arte nel tempo a seguito dell’evoluzione della conoscenza e del rapporto con la cultura. Il Rinascimento è
caratterizzato dall’arte figurativa, che è mimesi della natura, mentre il processo evolutivo contemporaneo
mostra come si passi sempre di più ad un’arte concettuale caratterizzata dall’uso esasperato dei colori e delle
geometrie, che consentono di arrivare ad un’arte sempre più astratta. Tutta l’interiorità della persona diventa
oggetto di tale esperimento artistico e conoscitivo. Sorge dunque l’emblema di tenere unite le due anime della
conoscenza occidentale, ossia realtà esterna e realtà interiore. Infatti, con l’arte contemporanea l’obbiettivo non
è più quello di cogliere la realtà e rappresentarla così com’è, ma di dare voce alla propria interiorità attraverso
differenti modalità espressive. L’astrazione, il concetto e l’approfondimento della definizione di arte diventano
sempre più preponderanti. Così il commento dell’artista risulta decisivo per la comprensione della sua stessa
opera.
•
Urlo di Munch (1893) → rappresentando il soggetto al centro viene meno l’esigenza di rappresentare la realtà
esterna ma sorge quella di mostrare la propria interiorità attraverso la trasfigurazione della natura. La
rappresentazione della natura diventa occasione di rappresentazione di un sentimento o di una condizione
20
•
•
esistenziale che l’artista sta vivendo. A livello visivo non si tratta di un discorso di mimesi, ma di capacità di
esprimere la propria interiorità attraverso l’arte.
Fuga di Kandinskij (1914) → mondo dell’arte e mondo della natura vengono separati e lo spettatore ha un
ruolo decisivo in quanto deve capire il senso profondo dell’opera e l’essenza dell’arte. Inoltre, lo spettatore
dovrebbe sfruttare l’opera d’arte per cercare la vita interiore. Infatti, tramite la rappresentazione separata
dalla natura, dovrebbe cogliere qualcosa di più profondo che non è raffigurabile ma che l’arte può far intuire.
Vi è una spersonalizzazione del messaggio: l’artista non trasmette un’esperienza da comunicare ma lo
spettatore deve cogliere la vita interiore rappresenta. È dunque fondamentale il coinvolgimento dello
spettatore, che non è passivo ma è il destinatario dell’opera. L’arte diventa un modo per creare uno strumento
e un’occasione che permette all’osservatore di capire un messaggio profondo e proiettarlo nella propria
contemporaneità e nella propria vita.
Composizione n°10 di Mondrian (1915) → il titolo diventa decisivo per dare senso a quanto viene
rappresentato. Se Munch rappresenta la soggettività che ha bisogno di esprimersi e cerca un contatto empatico
con l’esterno ma ha come esigenza imminente di esprimere sé stesso, invece Mondrian utilizza la natura come
fonte di ispirazione. La natura è dunque un mero stimolo che serve per creare opere astratte in grado di far
emergere uno stato emozionale nello spettatore, che lo spinge verso la ricerca di verità e il raggiungimento
delle fondamenta delle cose. Successivamente però sparisce anche l’orizzonte umano: si cerca qualcosa di
cui non si ha traccia nemmeno nella natura. Ecco allora che diviene centrale la somma coscienza. Apoteosi
della riduzione logocentrica del profondo dell’essere umano, che però non ha più nulla di umano, nemmeno
nella rappresentazione.
Marcel Duchamp porta all’apice il processo di astrazione, rivoluzionando il concetto e il senso di arte. L’atto
creativo non è realizzato solo dall’artista, ma lo spettatore aggiunge il proprio contributo. Si tratta di
un’anticipazione dell’opera aperta: lo spettatore è co-creatore del significato dell’opera. L’opera non ha un
significato in sé ma il significato scaturisce a monte dall’intenzionalità dell’artista e a valle dall’interpretazione dei
fruitori. L’atto creativo allora riguarda entrambi i soggetti che contribuiscono a dare un senso all’opera. Il
contributo fondamentale all’atto creativo non è l’opera finita ma chi vi sta dietro, artista e interprete. L’opera non
è il manufatto ma il processo simbolico di interiorizzazione.
•
•
Fontana (1917) → l’orinatoio di Duchamp rappresenta l’apoteosi del relativismo: l’oggetto cambia di
significato se portato in un luogo diverse e se viene posto in una posizione diversa. L’oggetto si trasfigura nel
senso che ha una funzione diversa data dalla sua diversa collocazione e dal fatto di non essere un prodotto
dell’attività dell’artista ma il risultato di un’operazione concettuale che consiste nel prendere un oggetto e
dotarlo di un nuovo significato (ready-made) per fare in modo che diventi oggetto di discussione, analisi e
stimolo per le varie interpretazioni. Vi è una rivoluzione totale che riguarda la risposta alla domanda su cosa
sia l’arte. L’opera d’arte è teatro di un processo di simbolizzazione, ossia di dotazione di un significato ad un
oggetto che in quanto tale è insignificante ma che diventa opera se messo in un determinato contesto (es:
museo) che richiede implicitamente un’interpretazione in chiave artistica e non necessita di un’azione fisica
ma può essere frutto di un’azione prettamente intellettuale.
L.H.O.O.Q. (1919) → mettendo i baffi alla gioconda Duchamp rivoluziona il significato dell’opera: crea un’opera
diversa provocatoria che chiama in causa lo spettatore
La rivoluzione enorme che porta a compimento Duchamp riguarda la rottura con l’arte figurativa premoderna,
che veicola una forma di intermediazione tra conoscenza e cultura. Tale tipologia di arte ha come idea di base la
mimesi: si scopre come è fatta la realtà in quanto vi è una corrispondenza tra organizzazione esterna del mondo e
modo con cui la mente umana vede tale mondo. Dunque, da un lato vi sono degli elementi esterni (= enti reali) e
dall’altro le rappresentazioni mimetiche di tali elementi. Elementi esterni e rappresentazioni trovano una
corrispondenza per cui vi è un’identica struttura tra esterno e interno. Le rappresentazioni mimetiche dell’uomo
consentono anche di scoprire nuovi enti reali (es: attraverso microscopio si scopre l’atomo). Con l’arte
concettuale si assiste ad un salto epocale circa il rapporto tra realtà ed esterno/interno e il rapporto tra capacità
di conoscenza della realtà e rappresentazione della mente umana. In particolare, viene a mancare la parte legata
alla realtà esterna. Lo strumento del linguaggio permette di dare forma a una realtà che di per sé non ha
consistenza; è dunque estremamente importante il linguaggio simbolico in quanto esso racchiude tutto ciò che
non ha consistenza. Duchamp incarna la visione del relativismo filosofico che però può sfociare nel nichilismo:
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nulla esiste in quanto è tutto una creazione del linguaggio umano e prevale solo chi ha maggiori capacità di imporre
le proprie idee con la forza retorica e di persuasione. La realtà appartiene al linguaggio umano e viceversa. La
realtà è infatti anche l’essere umano: non è qualcosa che sta al di fuori ma riguarda, oltre agli aspetti naturali,
anche gli aspetti concettuali propri dell’uomo. Questo rovesciamento è al passo con i tempi e riguarda una
rivoluzione epocale. L’arte si chiama contemporanea da più di 100 anni in quanto è un concetto accettato a livello
culturale da molto tempo e per questo viene meno la sua evoluzione. Se tutta è rappresentazione simbolica, la bolla
autoreferenziale ha ragione in sé stessa ed è infalsificabile, nulla può smentirla.
La visione di Duchamp si è diffusa a livello culturale (es: Andy Warhol con la Pop Art). Arthur Danto, critico d’arte
e professore estetica, ha iniziato a ragionare su questi meccanismi e ha cercato di limitare il proliferare infinito
di interpretazioni. Egli disse: “L’opera definita tramite una data interpretazione deve essere compatibile con
l’epoca dell’artista, in termini di concetti disponibili”. Ritiene dunque che interpretare con gli occhi del proprio
tempo un’opera d’arte di un altro periodo storico non consente di cogliere il messaggio che voleva veicolare
l’artista: bisogna storicizzare e capire il significato che quest’ultimo voleva trasmettere nel suo tempo. Altrimenti
a qualsiasi opera potrebbe essere attribuito qualsiasi significato. Biosgna dunque distaccarsi dal criterio ancorato
meramente all’associazione del periodo storico dell’opera.
Danto espone una serie di esempi che permettono di reagire in maniera lucida al proliferare delle interpretazioni.
La pop art è la celebrazione dell’indistinzione tra sacro-profano, commerciale-culturale e serio-faceto che ha
attinenza con quanto diceva Bauman sulla società liquida. Negli anni 1950-1960 diventarono di moda e molto
diffuse negli USA delle pagliette d’acciaio che servivano per pulire le stoviglie. L’inventore di tale oggetto era un
astrattista un po' fallito che decise di lanciarsi nel mondo dell’advertising che stava spopolando in America per
fare successo. Con un gioco di colori molto studiato contribuì al lancio del prodotto “Brillo” che ebbe un enorme
successo e divenne distintivo di un periodo per tutti gli americani. Andy Warhol, figura
predominante della Pop Art, si inserì sulla scia del pensiero di Duchamp. Egli decise di
ricostruire l’estetica del prodotto di uso comune commerciale “Brillo” dipingendo delle
scatolette di legno e ponendole a piramide una sopra l’altra. Ponendo la sua realizzazione in
un museo, la decontestualizzò e la fece divenire una vera e propria opera d’arte chiamata
“Brillo Boxes” (1964). Egli celebrò l’opera anche in chiave consumistica: dopo 5 anni dalla
realizzazione essa valeva 1000$ e nel 2010 valeva 3 milioni di dollari. Nell’opera Brillo Boxes,
l’oggetto non ha nulla a che vedere con la capacità tecnica di dipingere o con un talento
creativo manuale, ma riguarda un talento creativo intellettuale e concettuale che è stato capace di trasformare
un oggetto di uso comune, decontestualizzarlo e attribuirgli un nuovo significato che non può essere veicolato se
non attraverso un nuovo contesto artistico/museale. Il luogo stesso conferisce lo status di opera d’arte a ciò che
viene rappresentato in quel luogo. Quindi, l’opera d’arte non ha nulla a che fare con l’oggetto (in questo caso la
scatoletta di lamette d’acciaio non ha nulla a che fare con l’opera che è stata poi realizzata da Wharol. L’oggetto
assume un valore di opera d’arte ma anche economico solo se posto all’interno di un apposito luogo. La ricaduta a
livello economico (aumento del prezzo) è da attribuirsi alla fama acquisita dell’oggetto collocata in un luogo di
esibizione.
Mike Bidlo, un artista concettuale americano, realizzò l’opera “Not Warhol” per la
celebrazione del cinquantennio di Warhol. Egli utilizza una serie di Brillo boxes
identiche a quelle di Warhol ma le colloca in un tempo e in uno spazio diverso. Il
significato risulta allora profondamente diverso, nonostante gli oggetti usati per la
realizzazione siano simili. Infatti, non è l’oggetto a fare l’arte ma il messaggio divulgato
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che dipende dalla collocazione spaziale e temporale diversa. Ecco allora che l’opera di Bidlo è un’opera
autonoma e dunque l’artista va riconosciuto per la sua operazione intellettuale. Nonostante le due opere siano
simili, risultano diverse in termini concettuali di significato.
Piero Manzoni realizza un’opera chiamata “Merda d’artista”, che rappresenta una provocazione e una critica fatta
dall’interno rispetto a quel trend artistico affermatosi a seguito di Duchamp. Il titolo incorporato all’interno del
supporto fisico indirizza bene all’intento dell’artista che è quello far capire che non è l’opera d’arte che fa l’artista
ma l’arte è tale perché prodotta da un artista. Infatti, se l’opera è concettuale e non dispone di un criterio
contenutistico ancorato alla storia dell’arte, ecco allora che l’artista può rendere arte tutto ciò che produce,
persino i suoi escrementi. Manzoni sta cercando di far capire che nel momento in cui l’artista viene riconosciuto
dal pubblico, tutto ciò che fa va considerato opera d’arte. Tuttavia, questo porta all’eliminazione di un criterio di
valutazione indipendente e rimane solamente la capacità di una persona di affermarsi. Per cui, anche se
quest’ultimo genera qualcosa che ha poco valore, se riesce ad affermarsi acquista notorietà. Con la sua opera
Manzoni voleva denunciare il trend iniziato da Duchamp, ma la cosa buffa è che in realtà egli si inserisce a
pieno come parte integrante di tale meccanismo. Allora la sua opera è considerata un divertissement più che
una critica a livello culturale.
Anish Kapoor realizza l’opera “Cloud Gate”, composta da una superficie riflettente enorme la cui caratteristica è
quella di concretizzare il paradigma concettuale dell’arte tale per cui il ruolo dello spettatore è decisivo come
co-creatore dell’opera. Infatti, a seconda dei cambiamenti atmosferici e della posizione dell’osservatore, l’opera
cambia e riflette l’ambiente circostante in modo diverso. Dunque, il paradigma dell’arte concettuale è incorporato
proprio all’interno dell’opera. Inoltre, il titolo dell’opera instrada alla comprensione del gioco di riflessi in quanto
si riferisce alla presenza di un agente atmosferico (“cloud”).
Nel 1995 Robert Rauschenberg realizza “White Paintings”, un’opera costituita da pannelli dipinti di bianco e che
si modifica per mezzo delle ombre degli spettatori. Si tratta di un’opera nuda senza identità che però diventa tale
per mezzo dello spettatore. Anche in questo caso viene concretizzato il paradigma concettuale in arte: l’opera è in
costante mutamento a seconda dello spettatore che la osserva. Senza spettatore, dunque, l’opera non può essere
considerata tale.
L’operazione di Duchamp pone in luce la natura dell’arte come trasfigurazione simbolica. Infatti, l’arte readymade punta l’attenzione sul fatto che gli oggetti di per sé non hanno significato e per questo necessitano di uno
spirito che glielo conferisca. Il significato non appartiene all’oggetto se non all’interno di una comunità di
interpreti, che con il loro giudizio e la loro emotività danno significato alle opere. La funzione dell’arte è quella
di essere configurazione nuova rispetto ad uno status quo in quanto fornisce una chiave di lettura originale rispetto
al conosciuto e al vissuto, che riesce a fermare su un supporto stabile ciò che l’artista voleva comunicare. Arte come
specchio della realtà. Tuttavia, tutti gli strumenti di configurazione creati dall’uomo non sono mero specchio della
realtà ma una chiave di lettura nuova con la quale vedere il mondo. Quindi l’operazione di Duchamp è molto
innovativa e profonda in quanto mostra come vi sia questo meccanismo da tenere sempre presente rispetto
all’arte: le opere non hanno un valore intrinseco ma un valore che deriva dal processo culturale e
dall’interpretazione. Se però l’uomo ritiene che tutte le interpretazioni siano valide e che tutto il mondo sia
simbolico nel senso di gioco linguistico allora si entra nella impasse filosofica e nell’assenza del criterio
interpretativo. Si entra allora in una dimensione tale per cui nel proprio quadro di riferimento una cosa vale
l’altra e quindi vi è assenza di una via d’uscita. Questo blocca le discipline che dunque tendono inevitabilmente ad
arrestarsi. Non vi è quindi più ancoraggio con il passato e con la storia evolutiva della tradizione cui una comunità
appartiene. Questo porta l’uomo ad essere un elemento bloccato nello spazio. Se manca il criterio di definizione
dell’opera d’arte tutto gioca sulla capacità dell’artista di affermare sé stesso.
In sintesi, con Duchamp si assiste all’esplicitazione dell’arte come trasfigurazione simbolica (arte concettuale).
L’arte liberatasi dal dover avere un senso si scopre però senza scopo e finisce prigioniera di un’impasse filosofica,
che consiste nell’assenza di un criterio di definizione. Così, l’arte diventa identicamente “contemporanea” e
smarrisce l’orizzonte della sua evoluzione.
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Effetti della concettualizzazione dell’arte
•
L’artista come marchio per prodotti in serie
Per affermarsi, un artista tende a realizzare delle opere che rompono uno schema. La creatività per esplodere in
originalità culturale deve avere come scopo quello di riproporre qualcosa di alternativo. Le opere inoltre devono
assomigliarsi proprio per far emergere il più possibile la visibilità dell’artista. Dunque, solo creando serialità egli
riesce a farsi riconoscere.
Il testo del 2009 di Sacco e Vettese enuncia che “La visibilità sociale degli artisti comincia a fare concorrenza a quella
delle rockstar. Ma la differenza sta, o meglio stava, nel fatto che mentre la musica rock è parte della cosiddetta
industria culturale - vale a dire, un settore produttivo nel quale il prodotto in vendita è fatto per essere riprodotto in
tirature illimitate, la cui effettiva entità dipende soltanto da quella della domanda - l'arte contemporanea è invece
(o forse dovremmo cominciare a dire era) parte del core, cioè del nucleo della produzione culturale, che si
organizza con modalità che non hanno a che fare con l’industria ma semmai con la piccola bottega artigiana.
Evidentemente, però, non è più così: anche gli artisti, a loro modo, stanno cominciando a produrre in serie. [...] E
anche qui si trova in fondo un'analogia con le rockstar che ormai scrivono libri, firmano profumi e vestiti, o aprono
bar e ristoranti: pratiche ormai sempre più diffuse tra gli stessi artisti, come nel caso di Damien Hirst”.
Damien Hirst realizza una serie di opere simili tra loro nelle quali pone degli animali dentro a delle teche al fine di
provocare lo spettatore attraverso un argomento sensibile. Con questa provocazione egli riesce a raggiungere la
notorietà. Con le sue opere l’artista si pone al centro; infatti esse sono emanazione della sua volontà di affermarsi.
•
Autoreferenzialità e retoriche del consenso (It’s art if we say so)
Pierluigi Panza, scritto, giornalista e critico dell’arte italiano, scrive: “II conferimento di valore si ottiene attraverso
la capacità dell’iperinformazione di spettacolarizzare un oggetto, un’opera, addirittura un individuo. [...] Gli uffici
di comunicazione, le logiche di marketing diventano il campo di esercizio e affermazione della "volontà d'arte" in un
orizzonte post-critico, dove il giornalista-cronista tiene il registro dei fatti artistici più o meno imposti. A tutto ciò
corrisponde l’organizzazione per eventi delle grandi esperienze internazionali (...le 120 Biennali presenti nel
mondo) come luoghi deputati alla costruzione del consenso intorno alle proposte d’arte. Oltre al politicamente
corretto (ossequiato o appositamente infranto per provocare scandalo ed eco mediatica; ndr), i sistemi di costruzione
del consenso sono compresi entro le nuove forme retoriche del multiculturalismo (per es., identità diventa valore
solo se proposta dalle minoranze), con conseguente perdita di territorialità dell'arte e [...] valorizzazione di ciò che è
immateriale”.
→ La capacità di un’opera o addirittura di un artista di emergere e di assumere valore è data dal fenomeno
dell’iperinformazione: attraverso la comunicazione e in particolare la macchina mass e new mediatica, l’artista
può mostrare sé stesso ed affermarsi. Vi è dietro un discorso di autoreferenzialità tale per cui l’artista si basa
esclusivamente su sé stesso e sui propri desideri, non curandosi dei rapporti con altre realtà. Questo è ben visibile
nell’opera di Maurizio Cattelan nella quale egli stesso viene rappresentato. Inoltre, le grandi esperienze
internazionali sono i luoghi adibiti alla costruzione del consenso intorno alle proposte d’arte in quanto consentono
agli artisti di ottenere visibilità a livello internazionale. Ecco allora che assume
importanza esclusivamente l’abilità a farsi riconoscere optando per l’utilizzo di
temi sensibili o scottanti che creino un eco mediatico. Tale riconoscimento è
tanto più ampio quanto più è ampia la creatività dell’artista, che a volte diventa
persino spericolata (es: creare un’opera di plastica per sensibilizzare sul tema
dell’uso eccessivo della plastica). Alla luce di ciò, l’opera d’arte è frutto di
un’esigenza e non di un intento culturale preciso.
•
Potere finanziario, capitale di visibilità e omologazione
Panza aggiunge: “Negli ultimi decenni, l'arte è entrata nell'epoca della sua riproducibilità finanziaria [ed] è
diventata come un future (una scommessa sul futuro) e un gioco di segni senza referenza. [...] Gli artisti sono
consapevoli della connessione tra mondo finanziario e della comunicazione; pertanto, sono impegnati a creare
network di rapporti sociali qualificati per creare valore finanziario sulla propria opera (conditio sine qua non
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della messa in gioco dell'opera stessa). (...] Per conseguire un'adeguata comunicazione pubblica che consenta di
acquisire un potere di visibilità, è fondamentale vetrinizzarsi e spettacolarizzarsi. [...] Oggi, per un artista, è più
importante mettersi in scena che produrre opere. L'acquisizione di capitale di visibilità avviene attraverso dei
mediatori (critici, giornalisti, curatori, biografi), che svolgono operazioni di scouting e costruzione della reputazione
all’interno del sistema finanziario attraverso creazione di eventi, campagne stampa, sostegno pubblicitario,
inserimento nel circuito di rassegne internazionali. Relativismo e pragmatismo hanno spalancato le porte all'avvento
di questa situazione. L'assenza di corrispondenza con la realtà degli enunciati diventa adeguamento dei discorsi al
discorso finanziariamente meglio sostenuto e che ha la migliore possibilità di esercizio. Il discorso dominante diventa
logica di un sistema che, attraverso la forza finanziaria, sostiene i media che costruiscono un capitale di
visibilità intorno a ciò di cui (si finge di) discutere. [Ciò causa] la ripetitività dell'azione concettuale, sempre più
spesso identica a sé stessa o ad una precedente. In più, rinunciando ad una valutazione autonoma, il critico si
disintegra come attore marginale.”
→ I “segni senza referenza” si riferiscono all’universo di parole e concetti che si rimandano a vicenda senza
arrivare ad una prova concreta con la realtà esterna. Vi è una connessione tra mondo dell’arte, mondo della
comunicazione e mondo finanziario. Gli artisti devono allora creare una connessione di rapporti sociali che
permettano di creare un valore finanziario alle opere. La comunicazione pubblica è efficiente se l’artista è
capace di spettacolarizzarsi e mettersi in scena. Questo diventa addirittura più importante che produrre delle
opere. L’artista assume visibilità grazie ai mediatori che svolgono l’attività di ricerca e costruzione della
reputazione proprio all’interno di un sistema finanziario. Essi scelgono gli artisti che hanno più probabilità di
essere finanziati in base alla proposta che fanno. I finanziamenti avvengono sulla base dei messaggi che devono
essere veicolati dall’opera. È proprio questa forza finanziaria che sostiene i media in grado di costruire il capitale
di visibilità. Questo porta inevitabilmente alla costante ripetizione dell’azione concettuale in quanto l’artista
deve creare qualcosa che gli dia notorietà e quindi in linea con l’interesse e il pensiero dominante. Questa
ripetizione però è sempre più spesso identica a sé stessa o a una precedente.
Damien Hirst realizza un’opera chiamata “La vergine madre” (2005), per la quale
si ispira alle Ballerine di Degas. L’enorme scultura gioca rappresenta una bambina
di 14 anni incinta. Essa gioca con temi molto in voga al tempo: maternità, apertura
androgina e robotica, transumanesimo, violenza sulle donne ecc. Moltissimi temi
messi insieme che suscitano un certo interesse ma che sono privi di un focus
preciso in quanto l’intento è quello di parlare al senso comune e creare un
interesse e un’attrazione, senza prendere una posizione articolarla. La bambina
è raffigurata incinta ma non dovrebbe essere incinta. Però, nonostante questo sia
scabroso è la natura che lo consente. Se il corpo è in grado di dare vita ecco allora
che l’età alla quale avere figli risulta un problema culturale. L’intento di Hirst è
quello di creare provocazione ma egli non si schiera a favore di nessuna risposta
circa questo quesito. Anche il titolo confonde ma permette di conferire l’idea di
provocazione.
Maurizio Cattelan realizza un’opera chiamata “L.O.V.E” (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità) in Piazza Affari a Milano.
La statua rappresenta la finanza che fa il dito medio ai cittadini. L’artista si inserisce all’interno della contestazione
dei cittadini alla finanza. Operazioni in cui l’artista ha carta bianca per interpretare le sue opere come meglio
credere per diffondere dei messaggi.
Cattelan stesso ha detto: "Credo che ogni opera assuma un significato diverso a seconda del tempo di cui diventa
simbolo. Devo confessare che nel 2010 non mi sarei mai aspettato di riuscire con una sola immagine a predire il futuro
politico del Bel Paese: che avremmo visto i fascisti e i promotori del V-day uniti per il governo della nazione non era
nemmeno annoverabile nelle mie fantasie più perverse. È la dimostrazione che l'arte va al di là del pensiero
dell'artista. Spero che arrivi presto il giorno in cui altri monumenti ci rappresenteranno meglio di quello.”
Ivan Tresoldi poi ha dipinto l’unghia del dito di rosa. Questo atto illegale contribuisce alle lotte femministe e all’atto
di denuncia per la violenza contro le donne. Anche qui vi è l’ombra di Duchamp (cfr. baffetti dipinti sulla Gioconda).
Duchamp è l’innovatore di questo tipo di espressione, infatti, la riproposizione del secolo dopo da parte di Tresoldi
è difficilmente riconducibile a un pensiero originale. Si tratta comunque di un discorso di autopromozione.
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La tendenza all’omologazione è legata al meccanismo che tende contorcere la creatività in quanto impone una
strategia personal branding.
Fenomeno della taylorizzazione dell’arte
Santagata parla di fenomeno di Taylorizzazione dell’arte: “L'arte contemporanea, regno incontrastato del pensiero
creativo e di tutte le sue complesse e sfuggenti modalità di manifestazione, sembra al contrario muoversi quasi verso
un modello tayloristico della catena di montaggio, in una lotta perpetua con le scadenze pressanti di una
programmazione artistica sempre più fitta e geograficamente pervasiva. È vero che molti degli artisti di maggior
successo - e soprattutto quelli che per realizzare le loro opere hanno bisogno di processi produttivi che coinvolgono
un alto numero di competenze interdisciplinari - dispongono ormai di squadre di collaboratori organizzate come
piccole o persino medio- piccole imprese, ma bisogna comunque riconoscere che siamo di fronte ad un profondo
cambiamento nelle modalità di produzione dell’arte contemporanea e forse del senso stesso del fare
artistico”.
Il contesto circostante influenza la professione dell’artista e il modo di fare arte, tanto che l’arte contemporanea si
sta muovendo sempre di più verso un modello tayloristico della catena di montaggio. Le cause principali del
fenomeno della produzione in serie sono:
•
•
Richieste continue di produzione artistica provenienti da una varietà di ambienti sia tradizionali (musei,
gallerie, fondazioni, fiere, collezioni private, case editrici) che nuovi (azienda, istituzioni pubbliche,
ospedali, università, parchi scientifici)
Nuovo mercato di consumatori (paesi emergenti come quelli arabi o dell’estremo oriente, dove l’arte
contemporanea diventa status symbol legato alla possibilità di accesso ad un consumo e alla ridefinizione
di un’identità sociale)
Se l’opera d’arte e la cultura diventano simbolo non di una storia culturale ma di uno status, si crea un
cortocircuito ambiguo: si assiste ad una ridefinizione di identità sociale tramite le opere. In questa ottica, arte e
cultura non simboleggiano qualcosa che ha a che fare con l’opera ma con lo status sociale di una determinata
realtà. Se non si conosce l’opera e non vi è una connessione tra culture, l’opera d’arte diventa solo merce. Si perde
tutta la carica di significati artistici e culturali da parte di chi entra in contatto con queste opere. Occorre perciò
ricordarsi che la cultura non è mai una cosa.
Lo scenario italiano dell’arte contemporanea
Per quanto riguarda lo scenario italiano dell’arte contemporanea, ad oggi abbiamo una situazione in cui
pochissimi artisti affermatisi attraggono tanti acquirenti a discapito degli altri. L’affermazione di questa tendenza
si chiama effetto Matteo per indicare come “i vincitori prendono tutto”. Lo status della scena italiana è bivalente:
•
•
Artisti affermatisi negli anni 60’ e 70’ appartenenti all’arte povera e alla transavanguardia sono ancora
quotati
Artisti attuali poco presenti sulla scena internazionale, a parte qualche personalità isolate
Le opere d’arte che hanno più valore sul mercato sono quelle create da artisti degli anni 60’ e 70’, mentre gli artisti
attuali sono personalità isolate che sono riuscite sporadicamente ad entrare nei meccanismi necessari per ottenere
visibilità. Mentre in un mondo come quello accademico-scientifico un simile fenomeno è comprensibile e sensato
in quanto l’auctoritas dello studioso affermato ha giustamente un certo peso, nel settore dell’arte contemporanea
esso si pone come anomalia paradossale, tipicamente italiana. Ciò deriva dal netto ridimensionamento della
realtà artistica italiana sul mercato internazionale.
Vi è un pregiudizio nei confronti dell’arte contemporanea italiana: si confronta lo straordinario passato italiano
con il presente e questo rende la produzione attuale di scarso valore. Questo pregiudizio, quindi, svilisce la
concezione dell’arte presente. Il mito dello straordinario patrimonio culturale e artistico italiano però va
visto più da vicino al fine di comprenderlo al meglio.
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In particolare, Santagata individua le debolezze strutturali del settore culturale in Italia:
•
Collezionismo privato
In Italia, il collezionismo privato è presente ma anche segnato da una marcata frammentazione. Una possibile
lettura di questo fenomeno viene fornita da Max Weber, un sociologo tedesco, che sottolinea la visione diversa di
cultura nei paesi anglosassoni di impronta protestante rispetto a quella presente nei paesi europei di impronta
cattolica (quindi anche l’Italia). Questa differenziazione ha delle ripercussioni nel modo di concepire il denaro.
Infatti, secondo l’ottica protestante una persona che si arricchisce può farlo in quanto benedetto da Dio, che
considera tale persona dotata e in gamba. Dunque, chi ha questo privilegio sente il bisogno di ricambiare il dono
ricevuto attraverso delle azioni all’interno della società (come opere di filantropia). Invece, la morale cattolica
vede nel denaro lo sterco del demonio, quindi chi lo possiede non deve esporlo e farne un vanto. Da questo
consegue che in Italia non esistono molte figure di personaggi abbienti che mettono a disposizione i propri averi
alla società.
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Committenza e collezionismo pubblico o aziendale
Gli enti pubblici e le realtà aziendali non finanziano/sponsorizzano molto l’arte contemporanea in quanto
preferiscono altre forme di espressioni culturali. L’arte contemporanea, infatti, non è considerata come un
investimento che verrebbe percepito in chiave positiva dai cittadini e questo porta a non sfruttare una possibile
fonte di potenziamento della struttura del settore culturale. La cultura influenza scelte che possono essere negative
per lo sviluppo di un settore culturale. Esistono alcuni programmi di collezionismo aziendale ma l’incapacità di
valutazione competente inficia il successo di queste strategie sul lungo periodo.
•
Legge del 2%
La legge del 2% (oggi 3%) è un tentativo di legare la ristrutturazione di un’opera pubblica con la promozione
di qualche forma di arte contemporanea: consente di destinare fino al 3% dei costi di costruzione o di
ristrutturazione di un’opera pubblica alla committenza di un’opera d’arte da installare all’interno dell’edificio in
questione. Nonostante questo vantaggio protezionale, l’incentivo non è stato sfruttato. Inoltre, la modifica
legislativa del 2012 ha limitato l’applicabilità ai soli progetti di importo pari o superiore a 1 milione di euro. Il
problema di fondo è la concezione e la dignità dell’arte contemporanea nella mentalità italiana.
•
Scarsa promozione all’estero dell’arte italiana
Le poche mostre organizzate nelle grandi capitali del mondo rivelano la grave inadeguatezza dei promotori
culturali italiani e degli istituti di cultura (scelta di location poco adatte, mancanza di intermediazione tra
artista ospite e realtà locale). Tali enti hanno lo scopo di fungere da mediatori tra realtà straniera e artisti nazionali
che vogliono promuovere le proprie opere in questi paesi esteri. Infatti, se vi è un aiuto esterno per comprendere
chi sono gli interlocutori, l’esperienza di un artista può essere preziosa per la sua formazione. Ecco allora che
l’inadeguatezza di questi enti va evidentemente a danno degli artisti emergenti, che non trovano strutture di
sostegno in terra straniera. Tutte queste debolezze hanno l’effetto di NON aiutare l’Italia a creare una base di
domanda necessaria a facilitare:
-
crescita di gallerie competitive internazionalmente
attrazione di artisti stranieri di fama
lancio o possibilità di carriera di artisti italiani, costretti ad espatriare per cercare di affermarsi
Santagata individua delle possibili soluzioni, ossia delle politiche culturali attuabili, a questi problemi:
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Potenziamento del personale degli istituti italiani di cultura
Sviluppo di un collezionismo privato
Creazione di spazi espositivi non profit e di piattaforme per la sperimentazione e il confronto tra artisti
italiani
Attrazione di curatori e promotori stranieri in Italia
Introduzione di incentivi fiscali per la produzione d’arte
Concessione di spazi pubblicitari su riviste d’arte italiana, in edizioni estere
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Il potenziamento del personale degli istituti italiani di cultura fa riferimento al fatto che in Italia vi sono molti
esperti d’arte ma questi si trovano in condizioni lavorative estranee alle loro competenze o comunque non
valorizzanti le loro conoscente. Infatti, spesso all’interno degli istituti culturali non si trovano personalità con tali
competenze, cosa che non permette di promuovere la cultura italiana all’estero. Ecco allora che a livello di politiche
culturali pensare di formare il personale attraverso la presenza in loco di consulenti porterebbe nuove
competenze decisive per comprendere i meccanismi del settore dell’arte contemporanea, atte quindi a creare una
rete di relazioni con enti sul territorio. Gli istituti fungerebbero così da agenzie di promozione di nuovi talenti,
offrendo loro la possibilità di usufruire di piattaforme durature e collaudate.
Santagata insiste anche sullo sviluppo del collezionismo privato sull’esempio di Kunstverein. Attraverso
istituzioni private (associazioni private di collezionisti), mosse da una progettualità collettiva di promozione
dell’arte in un’ottica di insieme e non di competizione, è possibile sviluppare maggiormente il collezionismo
privato.
La soluzione proposta che riguarda la creazione di spazi espositivi non profit e di piattaforme per la
sperimentazione e il confronto tra artisti italiani si rifà al modello delle Kunsthalle tedesche, ossia spazi
espostivi liberi e privi di collezione che non sono definiti in un certo tipo di tematica, ma sono laboratori in cui
i giovani talenti tedeschi incontrano gli artisti affermati internazionali. Questi spazi non profit sono generalmente
sostenuti a livello economico dalle municipalità e amministrazioni locali.
Il vero problema profondo però è il pregiudizio culturale. L’arte contemporanea in Italia tende ad essere
associata all’industria dello spettacolo, ossia intesa come forma di puro intrattenimento. Ciò discende da una
condivisa concezione pregiudiziale dell’arte come rappresentazione estetica. Santagata afferma si creano degli
effetti sulla concezione culturale di oggi tali per cui vi è un problema: l’arte contemporanea ha una dignità che a
livello di sovvenzioni non è considerata decisiva e meritevole, proprio in quanto legata al concetto di
intrattenimento. Questo in quanto è un ibrido tra arte e qualcosa di spettacolare.
Per arginare questo problema sono stati realizzati alcuni tentativi. Per esempio, attraverso l’attivazione di un
nuovo corso, l’università Iuav di Venezia ha cercato di mantenere vivace lo scambio con artisti e critici
internazionali anche avvalendosi della competenza in città di un magnete come la Biennale. Peraltro il corso ha
dovuto subire un notevole ostracismo da parte non solo dell’Accademia delle Belle Arti, con la quale l’università
è entrata in conflitto senza riuscire a creare uno scambio osmotico, ma anche da parte delle altre Facoltà del
medesimo ateneo. Dietro a tale ostracismo sembra stagliarsi un dubbio di fondo sulla necessità che la formazione
artistica avvenga a livello universitario. Si è dunque creata una contrapposizione tra la concezione di arte come
tecnica da apprendere e quella di arte come insegnamento. L’arte a livello universitario viene vista come storia e
teoria da studiare e apprendere oppure come una propaggine dello spettacolo. Il mondo culturale italiano continua
a sentire che le arti visive siano parti del sapere pratico, che non merita di essere approfondito in associazione
con un’alta tradizione di teoria. Vi è inoltre una confusione linguistica: da un lato vi è la storia delle arti visive che
si inserisce a seguito di quelle figurative, dall’altro lato la concezione di arte visiva come sapere pratico. Servirebbe
invece un’osmosi tra le due concezioni, ossia una conoscenza sia storica che tecnica.
Tale ideologia si riflette anche a livello formativo: il problema è che la formazione non è focalizzata e non è
strategica rispetto al mondo del lavoro. Dunque, non è una formazione propedeutica a fasi successive di un
percorso. Nelle accademie, spesso lo studente è seguito da un docente solo e quindi è esposto a pochi stimoli.
Così, in una realtà dove l’artista diventa uno specialista non si sviluppa alcuna visione alternativa. A tale
proposito è stato fatto un esperimento dal DAMS di Bologna la cui idea era quella di fare in modo che insegnanti e
professionisti fossero uniti al fine di creare un laboratorio teorico e pratico che univa arte, musica e spettacolo.
In tale esperimento si è quindi cercato di affiancare artisti professionisti ai docenti affinché il tipo di esperienza
universitaria fosse una fucina di talenti sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista teorico. Quella che
doveva essere una svolta decisiva si è però dovuta scontrare con una prevalenza degli insegnamenti teorici e la
difficoltà di avere importanti momenti laboratoriali. In particolare, è risultato difficile arruolare nel corpo
insegnante dei professionisti che non tendono alla ricerca di riconoscimenti accademici. Dunque, l’effetto di questo
esperimento è stato quello di ridurre il tutto ad un sapere teorico: i professionisti si sono sforzati poco ad
entrare nel mondo universitario e l’idea di unire le due dimensioni teorica e pratica è andata a scontrarsi contro
una realtà che ha visto nel DAMS un insegnamento puramente teorico e senza capacità di formare professionisti
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in senso creativo. È quindi diventato un corso di studi più di tipo teorico-creativo non orientato alla pratica
dell’artista. Questo deriva dal fatto che non può essere realizzato un laboratorio se mancano professionisti che
forniscono la loro conoscenza tecnica e la loro esperienza circa tutte le dinamiche riguardanti il mondo
professionale. La professione dell’artista è learning-by-doing quindi un insegnamento teorico non può svolgere
questo compito.
Il pubblico dell’arte contemporanea
Il museo può divenire un modello di sviluppo locale di un territorio che sappia cogliere l’arte come fonte di
incremento dell’economia e della qualità sociale. Esso può permettere inoltre di far comprendere le potenzialità
dell’arte contemporanea in quanto può diventare:
•
•
attrattore → permette di aumentare la visibilità locale degli artisti, catalizzando l’attenzione di turisti e
cittadini
attivatore → può far nascere delle collaborazioni tra soggetti imprenditoriali e favorire collaborazioni
interdisciplinari all’interno del contesto locale
La combinazione di queste due funzioni distinte può avere ricadute cruciali: a livello sociale stimolano l'ambiente
circostante a generare nuove forme di sapere, così da sviluppare un dialogo con il territorio inteso come luogo
dinamico dove si crea innovazione. Il museo può dunque diventare una fonte di nuove finestre sul futuro.
L’Italia ha un enorme patrimonio culturale e il modo in cui esso viene presentato, per esempio nei musei, può
essere a sua volta creativo e artistico. Il soggetto dell’arte contemporanea può essere il patrimonio culturale
italiano stesso e la sua valorizzazione. Se si agisce a livello culturale lavorando su ciò di cui si ha a disposizione
e lo si fa creando le condizioni per fare in modo che artisti contemporanei possano esprimersi, ecco allora che si
realizza qualcosa che avrà successo culturale e al contempo dia modo agli artisti contemporanei di esprimersi in
chiave inedita, cosa che riattiva il significato culturale del patrimonio. Dunque, la mera presenza dei visitatori i
musei che prevedono una fruizione passiva (modello oggettivo del sapere) non può certo essere considerata una
pratica di arricchimento culturale. Un modello museale immersivo e interattivo, che coniughi creatività e
tecnologia, può invece offrire esperienze coinvolgenti a livello emozionale, cognitivo ed intellettuale,
valorizzando il patrimonio storico artistico e culturale italiano in una chiave inedita. Questo ha un doppio valore:
si creano le condizioni per l’espressione degli artisti e si ha un coinvolgimento del pubblico ma allo stesso tempo
può essere promossa una trasformazione culturale del territorio in chiave di arricchimento e innovazione. Ciò
permette di immergere il pubblico in una dimensione in grado di trasmettere i valori culturali. Nell’esperienza
immersiva e interattiva l’arte è in grado di trasmettere molte cose facendo emergere il lato emotivo e sensoriale
di ciò che viene rappresentato. Questo permette a ciascuno di confrontare le emozioni rappresentate con le
proprie. Solo quando si riesce a creare empatia, ci si riesce a far ascoltare. Lo strumento condiziona la
comunicazione sia in senso positivo che in senso negativo, in base a quanto si conosce lo strumento e a quanto lo
si riesce a sfruttare per il proprio scopo. L’arte ha la forza di far vedere dietro le sovrastrutture mentali dell’uomo
e quindi di far vedere la vera bellezza.
Gli audiovisivi
La terza macro-categoria di settori economici in cui la creatività produce cultura individuata da Santagata, ossia
quella che riguarda la produzione di contenuti, informazioni e comunicazione contiene al suo interno
software, editoria, TV e radio, pubblicità e cinema.
Il cinema
A fine 800’ nasce il cinema, che ha avuto un potentissimo impatto sull’immaginario collettivo della società di
massa prima in Occidente e poi nel mondo intero. Durante la prima proiezione gli spettatori in sala rimasero molto
scossi in quanto videro un treno che arrivava in stazione e si spostava verso di loro entrando nell’occhio della
telecamera. Di fronte a questo nuovo movimento del treno che si avvicinava verso gli spettatori, questi ultimi
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scapparono. Questo dimostra come il fatto di proiettare immagini in movimento su uno schermo abbia colpito
molto la psicologia umana e abbia creato una reazione immediata.
David Lynch nel cortometraggio “Curtain’s up” sostiene che il cinema è un linguaggio a sé stante che ha un potere
particolare di sfruttare una serie di codici, è dunque un linguaggio che ne contiene molti altri (gestuale, della parola
e visivo). La pittura non è in grado di riprodurre in chiave poetica tutti gli elementi del reale. Il cinema ha elementi
in comune con il teatro, in quanto in entrambi gli ambiti ogni spettacolo è unico. Infatti, un’opera cinematografica
che sembra un prodotto unitario, in realtà è diversa ad ogni proiezione in quanto l’audience e ciascuno spettatore
reagisce in modo unico e diverso a una stessa proiezione.
Il medium cinematografico si contraddistingue per la compresenza di peculiarità diverse:
•
•
•
potere immaginifico
effetto realistico
dimensione spazio-temporale (compresi i suoni)
Lynch sostiene anche che le idee vanno colte nel profondo e il cinema poi è in grado di restituirle. L’effetto realistico
è dato dalla fotografia, che aiuta l’uomo a identificare ciò che vede in quanto è come se egli vedesse qualcosa di
reale che si compie.
La combinazione di questi 3 elementi peculiari ha effetti potenti sul coinvolgimento dello spettatore. Il cinema
vanta tale coinvolgimento come nessun altro campo artistico sa fare. Vittorio Gallese parla della teoria della
simulazione incarnata basata sulla scoperta dei neuroni a specchio, ossia questi neuroni che si attivano quando
l’uomo compie un gesto o quando egli lo vede compiere. Questo spiega come vedere qualcuno compiere un gesto
nella sua dinamicità da un’altra persona o compiere tale gesto direttamente stimola il cervello dell’uomo allo stesso
modo (si attivano gli stessi neuroni). Perciò lo spettatore tende ad immedesimarsi con gli eventi diegetici, ossia
le situazioni finzionali mostrate sullo schermo. Anche a teatro esiste questo fenomeno ma è più chiara la differenza
tra attore e personaggio che interpreta, tra luogo finzionale della storia e luogo reale. Il cinema invece permette di
creare un vero e proprio evento che acquisisce una credibilità notevole agli occhi dello spettatore.
Murray Smith aggiunge che vi sono 3 livelli di coinvolgimento dello spettatore rispetto a un film al cinema:
1) percezione → immedesimazione superficiale con un personaggio a livello puramente emotivo e
inconsapevole
2) psicologico → immedesimazione nella situazione e nei sentimenti che prova un dato personaggio
3) morale (livello di maggior impatto in merito alla coscienza) → immedesimazione con la vicenda del
personaggio, che lo spettatore comprende umanamente e supporta
Il terzo livello riguarda il supporto morale dato a un personaggio in quanto lo spettatore si indentifica
profondamente e consapevolmente con lui a livello umano/morale e non solo psicologico.
Il filosofo francese Gilles Deleuze è stato uno dei primi ad occuparsi di cinema, non come terreno di specchio della
realtà o forma espressiva di secondo livello rispetto a forme con storia più lunga e riconosciuta, ma in quanto unica
forma espressiva particolare, originale e diversa. Egli afferma che il cinema è una forma di pensiero non
analitico, un cosmo costituito da immagini sonore in movimento. Questo in quanto con la sua forza è in grado
di travolgere, superando la tendenza a giudicare il mondo e organizzarlo in modo analitico-sintetico. Vi è un
movimento, un suono, un flusso vitale che prende vita sullo schermo. Il medium cinematografico induce alla
sospensione dell’incredulità, un meccanismo necessario per immergersi in un’opera finzionale. Quando si
guarda un film al cinema, occorre mettersi in una dimensione psicologica che consenta di immergersi nella finzione
proposta dalla proiezione. Il cinema in quanto formato da elementi della vita di ogni uomo è in grado di facilitare
la sospensione dell’incredulità. Per quanto le immagini siano registrate, il tempo inglobato sullo schermo attrae lo
spettatore, che non è passivo ma catturato dall’effetto ammaliante e coinvolgente delle immagini sonore in
movimento. Inoltre, il buio della sala accentua strategicamente il coinvolgimento.
Il cinema aveva una dimensione sociale e collettiva, era percepito come un vero e proprio evento. Il cinema
come evento ha un significato importante: non si tratta di andare a vedere uno spettacolo tra gli altri ma tale
medium porta con sé la dimensione di esperienza collettiva. Ognuno con la propria reazione e il proprio modo di
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vivere l’esperienza condivisa con gli altri apporta contenuto all’esperienza stessa. Questo ha un forte impatto
sociale.
Ø Il cinema italiano
In Italia, cominciare dagli anni ‘40, il cinema diventa medium di massa ed esperienza identitaria collettiva. Al
contrario dall’epoca mussoliniana, lo stato non è più giudice del valore e della diffusione di un film attraverso la
propaganda e la censura. Con il neorealismo vengono portate sullo schermo vicende esemplari ambientate
nell’Italia del tempo al fine di fornire chiavi di lettura del contemporaneo al pubblico in un momento tragico
successivo al fascismo. in questo modo il cinema non è visto solo come specchio della realtà quanto più come
specchio per la realtà, ossia come mappa di riferimento. Il cinema però, come dice anche Lynch, ha il potere
grandissimo di generare immagini e mondi veri e propri, dunque, non dovrebbe ridursi a rappresentare ciò che
esiste ma anche scenari per esplorare mondi possibili alternativi.
Negli anni ‘80 l’Italia è investita da una profonda crisi dell’industria cinematografica, a causa anche
dell’affermazione della TV commerciale. Le produzioni hanno un grandissimo calo (minimi storici). Inoltre,
anche la qualità della proposta diminuisce a mano a mano, tanto che le proposte diventano ripetitive e meno
attraenti: le pellicole sono mere copie di secondo ordine dei Blockbuster statunitensi o delle commedie
all’italiana.
Alla fine degli anni 90’-primo decennio 2000, l’Italia conosce una ripresa del cinema italiano con la ripresa di
spettatori, maggiori incassi ecc. Si assiste al boom di presenze in sala, con apice nel 2007, e gli incassi dei film
italiani superano quelli statunitensi. Le ragioni di questa ripresa straordinaria sono:
•
Ragioni generazionali
Una nuova generazione di produttori non assistita dallo Stato è capace di conciliare e tenere insieme l’esigenza
commerciale con l’istanza artistica vera e propria. Inoltre, nuove generazioni di registi e sceneggiatori
prendono piede sulla scena elaborando novità rispetto al passato attraverso nuove storie più coinvolgenti e mirate
a fasce più ampie di spettatori. Un’altra ragione generazionale è rintracciabile nel cambiamento di sensibilità
del pubblico stimolata dalla fiction televisiva capace di trasmettere contenuti diversi. Inoltre, lo star system
italiano è stato rinnovato dall’emergere di nuovi volti di fama nazionale. Infine, le strategie di marketing sono
state implementate per far in modo che il prodotto venisse spettacolarizzato e pensato in relazione al target.
•
Ragioni politiche
Le ragioni politiche sono legate al fatto che nel 2004 è stata emanata la Legge Urbani, finalizzata a combattere
l’assistenzialismo statale all’industria cinematografica, bloccando finanziamenti a pioggia e inducendo i
produttori a tenere insieme creatività e prodotto commercialmente valido sul mercato. Inoltre, tale legge ha
previsto anche l’imposizione di criteri oggettivi nella selezione dei film da sovvenzionare. Tuttavia, questa mossa
ha avuto effetti controproducenti in quanto si è innescato un meccanismo automatico di attribuzione di successo
ai film, tali per cui il finanziamento continuava ad essere previsto solo per registi e produttori già affermati e con
una solida storia alle spalle. Il tutto andava a detrimento degli autori emergenti.
Le criticità strutturali dell’industria cinematografica italiana sono:
•
Stagionalità e strategie di distribuzione
La concentrazione delle uscite dei film nel periodo invernale instaura un circolo vizioso tra le tendenze del
pubblico e l’offerta stagionalmente differenziata. L’idea di distribuire i film solo in determinati periodi deriva dalla
tendenza del pubblico a usufruire del servizio cinematografico prevalentemente in quei periodi. Questo però non
fa che aggravare la tendenza in quanto si crea una concentrazione anomala che danneggia il sistema. Di
conseguenza, i film di alta stagione prevedono investimenti iniziali per la promozione pubblicitaria molto più
elevati rispetto ai film distribuiti in altri periodi, considerati sconfitti in partenza. Inoltre, la concentrazione del
numero di copie in uscita nel primo weekend comporta il drastico calo delle presenze in sala dopo il primo
weekend di programmazione. Si tratta di un fenomeno fisiologico che però viene assecondato e aggravato dalle
succitate strategie.
31
Va ricordato che quando sono le major statunitensi a distribuire film italiani, esse assicurano alla pellicola
un’uscita in un numero di città e in numero di copie superiore a quanto accade con i distributori italiani.
•
Prossimità come disincentivo alla creatività
Il pubblico italiano tende ad associare il cinema americano all’esotico, ad un mondo di storie individuali ed
eccezionali. Al contrario, dal cinema italiano si attende la prossimità, ossia storie che siano un eco del vissuto
quotidiano. Il rischio connesso a tale tipologia di visione è che la produzione italiana tenda a dare vita a pellicole
che si limitano a proporre una serie di cliché sulla società nostrana. Ecco allora che il cinema viene visto come
mero specchio della realtà e non fa intravedere nessuna potenzialità e forma di creatività nuova. Questo è un
retaggio del neorealismo. Muccino è un produttore significativo in questo periodo in quanto i suoi film sembrano
realizzati da registi diversi per quanto riguarda la scelta della tipologia di film da proporre. Da un lato, con il film
“Ricordati di me” egli propone una storia segnata da crisi esistenziali e di identità per il pubblico italiano mentre
dall’altro lato, con “The pursuit of happyness” propone una storia mirabolante e toccante tipica per una
destinazione di pubblico americano. Anche a livello di scelte stilistiche la differenza è notevole. Nel film per
pubblico italiano è evidente un atteggiamento che asseconda un’aspettativa del pubblico.
Nel 2017 si assiste ad una nuova crisi del cinema italiano, che vede solo il 17% degli incassi totali. È una crisi
solo apparentemente imprevedibile in quanto il termine di paragone è stato l’anno precedente, anno in cui le
pellicole occupano il 28% del mercato e segnano il 54% di presenze e il 56% di biglietti venduti in più rispetto ai
dati del 2017, ma anche anno in cui l’andamento positivo è stato realizzato grazie a soli 2 film, ossia “Perfetti
sconosciuti” e “Quo vado”. Dunque, la differenza di incassi tra 2016 e 1017è evidentemente legata all’uscita di
questi due film record nel 2016.
Il tentativo di riposta alla crisi sistemica del cinema italiano è costituito dalla Legge Franceschini del 2016/2017,
che cerca di porre rimedio e contrastare il sistema dei finanziamenti che finiscono per sostenere un numero
esiguo di player tipicamente già affermati. In particolare, questa legge prevede agevolazioni e contributi per
giovani artisti e produttori emergenti attraverso:
-
fondo cinema → permette che l’industria del cinema e audiovisiva si autofinanzi sfruttando gli introiti
dell’erario già derivanti da altre attività cinematografiche (autofinanziamenti)
aumento degli investimenti pari al 60%
agevolazioni fiscali per aziende e privati che finanziano il settore
processo di digitalizzazione del patrimonio mirato a diffondere il cinema come espressione culturale
istituzione del Consiglio superiore per il Cinema e l’Audiovisivo
Negli anni 2020 la pandemia aggrava e porta all’apice la crisi strutturale del settore cinematografico e
audiovisivo. Le sale cinematografiche devono concorrere sempre di più con le piattaforme di streaming online,
che diminuiscono la fruizione cinematografica.
La rivoluzione OTT
Nell’ambito del cinema visto come sistema legato a dinamiche produttive e distributive, si è verificata la
rivoluzione Over The Top. Ester Corvi parla di tale rivoluzione nel suo libro Streaming revolution. Gli ultimi anni
hanno visto imporsi le imprese OTT che sfruttano internet per offrire servizi e contenuti tramite una varietà di
dispositivi. Con l’avvento delle piattaforme di video streaming, il settore audiovisivo ha subito un profondo
mutamento che ha interessato l’intera filiera: ideazione, finanziamento, produzione e distribuzione. Queste
piattaforme possono contare su un doppio vantaggio rispetto alla TV digitale terrestre e satellitare:
1) non devono coprire costi di trasmissione e gestione di rete
2) non sono legate a vincoli locali o nazionali e puntano al mercato globale
Il successo delle piattaforme OTT è stato favorito dai processi tecnologici, che sono la chiave decisiva anche a
livello di possibilità di fruizione da parte del pubblico:
•
•
notevole aumento della velocità di navigazione su internet in gran parte del mondo
diffusione globale degli smartphone
32
•
concomitante potenziamento e moltiplicazione di sociali networks (componente emozionale e di
engagement)
La combinazione di questi 3 elementi porta queste le piattaforme OTT a sbaragliare completamente il mercato
audiovisivo grazie all’ampiezza dell’offerta di contenuti e alla varietà di supporti disponibili alla fruizione di
tali contenuti che prima erano inimmaginabili.
Ø La distribuzione audiovisiva
Le piattaforme di video streaming generano i loro ricavi tramite diverse modalità, come gli abbonamenti, la
pubblicità o combinazione dei due. Il lancio del servizio streaming di Netflix nel 2010 ha progressivamente
sfumato i confini tra mondo prima separati: televisione, cinema e internet.
Al modello Multichannel Video Programming Distributor (MVDP) dei broadcaster televisivi classici, che comprano
i diritti di programmi multimediali e li ripropongono all’utente finale attraverso un’offerta multi-canale, le
piattaforme streaming OTT hanno opposto un modello Direct To Consumer (DTC), tale per cui i diritti dei
programmi offerti da una società di media vengono aggregati e venduti direttamente all’utente finale,
bypassando tutti gli intermediari. Inoltre, le piattaforme DTC non hanno necessariamente bisogno di possedere i
diritti di proprietà intellettuale dei programmi, ma solo quelli di distribuzione. Per esempio, Netflix distribuisce
sia i contenuti originali che quelli su licenza sulla sua piattaforma. Il modello DTC ha avuto un effetto disruptive
in quanto ha incluso il coinvolgimento e la profilazione dei consumatori. Da un lato i consumatori sono diventati
sempre più esigenti di contenuti nuovi per via dell’enorme disponibilità e varietà di contenuti a cui hanno avuto
accesso negli ultimi anni. Dall’altro lato le diverse piattaforme streaming utilizzano tecnologie sempre più avanzate
per profilare gli utenti, tracciando le esperienze di visione così da fornire loro suggerimenti personalizzati. In
questo modo, le nuove esigenze del pubblico sono per le piattaforme una risorsa fondamentale per fare di ogni
produzione un’occasione di successo. I cambiamenti della tecnologia e dei gusti del pubblico spingono molte
aziende del settore dell’intrattenimento audiovisivo a vedere nel DTC una destinazione inevitabile. La
profilazione del cliente e l’engagement infatti permettono di stabilire una connessione con gli spettatori che
permette di acquisire informazioni per una più profittevole tipologia di comunicazione, caratterizzata da
suggerimenti personalizzati e annunci pubblicitari mirati.
Ø La fruizione audiovisiva
Il video lineare è il sistema utilizzato dalla TV tradizionale, in base al quale i contenuti sono organizzati in un
flusso simultaneo e pianificato, consentendo a tutti gli utenti di sintonizzarsi sullo stesso programma nello
stesso momento. L'avvento dei servizi Video On Demand (VOD) ha portato a una forte migrazione del consumo
di intrattenimento lontano dalle reti lineari. Il loro punto di forza è una vasta e variegata libreria di contenuti
disponibili in qualsiasi momento e su qualsiasi dispositivo (smartphone, pc, tablet, smart TV), tramite un
processo di ricerca e recommendation, pensato per essere agevole e ben funzionante. Nasce quindi l’opportunità
di fruire di cataloghi ampissimi di produzioni per cui non vi è più nessuna finestra temporale o spaziale, palinsesto
invece dei canali televisivi. I servizi di video on demand non hanno però solo pregi, hanno anche limiti. Il loro
principale svantaggio è la frammentazione del pubblico nel tempo, una situazione che crea non pochi problemi
agli inserzionisti pubblicitari che devono cambiare logiche anche se sono spesso abituati a operare con le logiche
di una decina di anni fa. Viceversa, tramite la TV lineare i contenuti vengono diffusi simultaneamente a un vasto
pubblico. Questa capacità di fornire una concentrazione sincronizzata dei telespettatori rimane importante per i
contenuti il cui valore è riconosciuto solo se è consumato in diretta (live), come nel caso dello sport e delle notizie.
Infatti, non vi è molto valore nel trasmettere notizie o contenuti sportivi già vecchi, mentre il valore dei programmi
di intrattenimento (serie tv e film) generalmente non decade in maniera significativa nel breve periodo.
(cfr. strategia di Netflix sotto) I programmi televisivi che hanno uno spazio su un canale TV per un contenuto
audiovisivo non incentivano molto al rischio in quanto se si investono dei soldi a livello di produzione per
qualcosa che poi non suscita interesse nel pubblico, l’intero investimento va perduto. In tale ambito, trasmettere
un programma rischioso e senza caratteristiche tipiche porta a perdere spettatori e investimenti fatti. Con
l’avvento dei VOD scompare tale palinsesto di trasmissione dei contenuti in un tempo e in uno spazio preciso, per
cui ci si può permettere di sperimentare in quanto anche se la produzione non ha subito successo, nel futuro
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potrebbe acquisirlo. Il produttore ha la facilità di capire se quel contenuto può funzionare senza dover
preoccuparsi del fatto che ciò che propone venga subito apprezzato dal pubblico. Per esempio, un contenuto di
netflix potrebbe essere lanciato in un determinato periodo ma apprezzato dal pubblico successivamente.
Ø L’offerta audiovisiva
A partire dal modello di business comune DTC, le varie piattaforme streaming OTT articolano la loro offerta on
demand secondo modalità differenti:
-
-
Subscription Video On Demand (SVOD) → richiede un canone fisso per accedere ad un intero catalogo
(es: Netflix, Sky Online, Mediaset Infinity e Tim Vision); servizi SVOD consentono quindi agli utenti di
fruire dei contenuti audiovisivi senza limiti e senza pubblicità, previo abbonamento
Transactional Video On Demand (TVOD) → tipologia pay-per-view che prevede l'acquisto di ogni
singolo contenuto (es: ITunes di Apple, Chili Tv)
Advertising Video On Demand (AVOD) → offre accesso gratuito ai contenuti per tutti gli utenti e si
finanzia con le inserzioni pubblicitarie (es: YouTube e i portali Web di broadcaster, che consentono di
rivedere contenuti andati in onda, come RaiPlay e MediasetPlay).
Uno dei maggiori vantaggi del modello AVOD è la facilità di acquisizione degli utenti: poiché questi ultimi non
pagano, possono registrarsi e iniziare a guardare i contenuti scelti senza alcun impegno finanziario. L'AVOD offre
anche un chiaro modello di distribuzione dei ricavi per i creatori di contenuti video, poiché è facile attribuire la
monetizzazione incrementale degli annunci pubblicitari ai singoli video, utilizzando le metriche di visualizzazione.
Il principale svantaggio del modello AVOD è invece che il flusso dei ricavi è poco prevedibile ed è molto
dipendente dalla qualità dei video, che a sua volta determina l'aumento o il calo degli utenti, e dalla notorietà del
marchio. E, se non si hanno molti utenti, è difficile attirare l'attenzione degli inserzionisti pubblicitari.
Ø La sfida di Netflix e la rincorsa dei nuovi player
Si assiste ai seguenti eventi:
A) Un gigante della tecnologia come Apple lancia una sua piattaforma Apple TV
B) TV e pay TV tradizionali (come Sky e Mediaset, in Italia) fanno accordi con Netflix
C) L'industria cinematografica deve far fronte ad uno scenario in cui le vendite di biglietti nelle sale USA
sono in tendenziale calo nell'ultimo decennio. Gli studi di Hollywood hanno allora lanciato propri servizi
di streaming (es: Disney con Disney+) per sfidare Netflix
Netflix, nel giugno 2019, ha raggiunto un livello di penetrazione del 46% negli Stati Uniti e del 6% nei mercati
esteri (esclusa la Cina), contro rispettivamente il 69% e il 38% della pay tv. Invece gli utenti dei servizi video
OTT in Italia, in base alle elaborazioni di EY, al gennaio 2019 erano 11 milioni e sono divenuti 17,8 a gennaio 2022
solo quelli relativi alle principali piattaforme a pagamento (Netflix, TIMvision, Infinity, NowTv, Amazon Prime
Video, Eurosport Player e, da settembre 2018, anche DAZN), per un totale di 32 milioni di utenti Pay e Free
(sempre a gennaio 2022).
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Ø La strategia di Netflix a tutta creatività e basso rischio
Nell'arena dell'industria dell'intrattenimento, la partita si gioca su tre fronti:
1) qualità e novità dei contenuti video
2) livello di accessibilità fornita (facilità di fruizione e convenienza di prezzo)
3) massimizzazione del reperimento dei data per la profilazione (modalità di accesso e preferenze degli
utenti)
Netflix e le altre maggiori piattaforme SVOD, a differenza della tv tradizionale, non devono creare contenuti che
piacciano agli inserzionisti, ma al loro pubblico potenziale. Un'audience che non è nazionale ma globale, ben
predisposta a vedere i film o le serie in lingua originale, propensa a consumare più puntate di una serie in una volta
sola e a commentarla in un flusso continuo sui social media. Al loro pubblico gli operatori SVOD offrono qualcosa
di decisamente innovativo rispetto al passato: una comunicazione personalizzata, basata sulle scelte di visione
fatte in precedenza, che consente di individuare precise community di audience grazie alla grande mole di
informazioni che gli operatori SVOD stessi riescono a ricavare, essendo per loro natura dei big data.
Grazie a tutti questi dati, cambiano anche le modalità di sviluppo di una serie televisiva. Sempre più spesso
non serve una puntata pilota, strumento fondamentale che invece le reti tv utilizzano per stabilire se vi è
un'audience interessata a una serie, ma si decide subito per una stagione intera. Famoso il caso, nel 2011, di Casa
di Carta: quella volta Netflix, applicando il suo approccio innovativo, non fece un'offerta per un episodio pilota
come gli altri si aspettavano, ma offri 100 milioni di dollari impegnandosi a pagare in anticipo per due stagioni
da 26 episodi. Il valore di una stagione intera dipende inoltre dagli accordi di licenza con Netflix, che
generalmente, finanzia tutti i costi di produzione e mantiene i diritti globali dei suoi contenuti originali per
un periodo di tempo anche lungo. In questo modo, anche se una stagione intera di una serie non ha il riscontro
sperato presso il pubblico, va comunque ad ampliare il suo catalogo di contenuti nell'attesa che, prima o poi, trovi
un pubblico interessato, a differenza della tv tradizionale che valuta il successo in base all'audience, in un certo
periodo di tempo.
È difficile inoltre immaginare un enorme fallimento creativo per Netflix perché, a differenza dei film degli studi di
Hollywood, sulla piattaforma il flusso non si arresta mai. Ci possono essere fallimenti minori (come le serie
cancellate dopo la prima stagione), dato il volume delle produzioni e la velocità con cui Netflix prende le decisioni,
ma il costo del fallimento di una sua produzione è molto inferiore al costo di un fallimento per una rete TV o per
una major, perché sulla piattaforma non vi è il problema della scarsità di "spazio sullo scaffale". Può quindi
restare lì il tempo che serve per trovare il suo pubblico, grande o piccolo che sia. Se una rete televisiva o uno studio
sbagliano a produrre un contenuto, non sono solo i costi e le risorse dedicate alla creazione di quello spettacolo
che sono stati sprecati, ma anche lo spazio limitato sugli " scaffali" che avrebbe potuto essere utilizzato in maniera
migliore. Gli studi di Hollywood realizzano in media circa 15 film all'anno ciascuno. Le reti televisive USA arrivano
a riempire circa 22 ore nella fascia di prima serata a settimana. Il loro intero processo decisionale avverso al rischio
è pensato per selezionare i 15 migliori film o le 22 migliori ore di tv. Nel caso di Netflix, invece, uno show fallito
fa perdere solo gli investimenti destinati a quello scopo, ma al contrario un successo inaspettato ha un
enorme valore. E per questo motivo è disposta a correre molti rischi, sperimentando più di altre.
Non a caso, negli ultimi anni, i più famosi showrunner (= i responsabili di tutti gli aspetti creativi delle serie TV)
sono stati contesi dalle maggiori piattaforme di streaming video, disposte a pagare cifre con molti zeri per averli
nei loro team.
Innanzitutto, i maggiori player dello streaming video, per battere la concorrenza, devono lanciare
continuamente delle novità, al fine di tenere alto l'interesse degli abbonati ed evitare che disdicano
l'abbonamento. In secondo luogo, in uno scenario di competizione sempre più accesa, anche le pay TV non
possono essere da meno. Inoltre, la decisione degli studi di Hollywood, come quella di Disney, di lanciare proprie
piattaforme di streaming, ha come conseguenza la volontà di ritirare e non stringere più, in futuro, accordi su
licenza (licensing deal).
Netflix deve puntare quindi sempre di più, come del resto sta facendo già da alcuni anni, sui contenuti originali.
La formula adottata da Netflix, cioè quella di pagare ai talenti ingenti somme anticipate (upfront money) per
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i contenuti che devono realizzare al posto di utilizzare il vecchio modello della syndication (cioè della
partecipazione ai profitti legati alla vendita ad altre emittenti), viene adottata sempre più spesso anche dagli
operatori tradizionali, con diversi vantaggi per gli showrunner.
Le nuove potenzialità degli audiovisivi
È necessario inventare nuovi tipi di intrattenimento che richiedano e giustifichino le piattaforme tecnologiche
in via di sviluppo. I sistemi di realtà virtuale e di realtà aumentata promettono opportunità di intrattenimento
molto innovative. Hanno bisogno di un linguaggio artistico completamente nuovo ma, fino a quando non
emergerà, il limite non sarà della tecnologia, bensì della nostra capacità di approfittarne come mezzo espressivo.
È già oggi possibile immaginare, per esempio, un percorso interattivo in realtà virtuale di un luogo artistico
particolarmente esclusivo oppure di un luogo geografico che è difficile avvicinare nella realtà. Ma se fosse
disponibile un'esperienza di visita che sempre più persone, tra quelle che rinunciano al viaggio, giudicassero
eccitante, abbinata a sistemi di commercio elettronico non intrusivi e snelli, che permettano magari di acquistare
i prodotti di artigianato e gastronomia locali, si potrebbe trovare un nuovo equilibrio per espandere l'economia, la
cultura e le opportunità per tutti.
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