ISTITUZIONI E POLITICHE CULTURALI Professori Francesco Chillemi e Sabrina Pedrini PRIMO MODULO La cultura Mentre la conoscenza è individuale, la cultura è collettività. È la cultura con la sua dimensione emotiva a consentire agli uomini di comunicare, essa è la dimensione attraverso la quale viviamo. Essa cambia nel tempo, esistono forme di cultura differenti. Infatti, il ragionamento dell’uomo parte da presupposti e premesse del suo tempo da cui poi fa discendere una verità che è valida in tali premesse ma che non sempre è corretta universalmente. Il pensiero logico non è connaturato all’essere umano ma è solo un modo di organizzare la realtà per trovare delle soluzioni rispetto a dei problemi. Esso è alla base di tutta la cultura occidentale, sia del pensiero filosofico che del pensiero scientifico. La cultura è una dimensione dentro alla quale si è immersi, è una combinazione di valori, credenze, rituali, dubbi e incertezze che accomunano le persone. È il minimo comun denominatore di una certa comunità, in cui si sviluppano pensieri e abitudini specifici. La cultura è in evoluzione in quanto l’interpretazione gioca un ruolo fondamentale. Economia della cultura: • • Economia → deriva dal greco oikos nomos, ossia l’organizzazione della casa/famiglia che è la più piccola comunità esistente Cultura → ha una definizione più complessa L’economia della cultura costringe a ragionare in termini antropologici, fisiologici e scientifici ecc. economia e cultura sono da affrontare in un orizzonte transdisciplinare, ossia con ambizione di creare una nuova forma di sapere in cui la soluzione ai problemi risiede nel ripensare a una prospettiva che trasforma persino le discipline coinvolte. Il binomio cultura-economia è stato considerato dall’ortodossia accademica con sospetto fino a qualche decennio fa. Infatti, l’economia della cultura è una disciplina giovane che ha solamente quarant’anni. L’antropologia culturale Che cos’è la cultura? L’antropologia culturale a partire dalla fine dell’Ottocento propone diverse risposte a questa domanda. Essa si propone di definire la cultura come ciò che rende l’uomo unico, differenziandolo dalle altre creature. La prima evidenza di cultura umana corrisponde con la tendenza dell’uomo a lasciare delle tracce (es: sepoltura). Egli da sempre ha usato la natura per creare un simbolo, ossia un qualcosa il cui corpo assume e riconduce ad un significato. Ogni simbolo ha un corpo che è la sua sostanza concreta e uno spirito che corrisponde con il suo significato. Un oggetto può cambiare significato se l’uomo appartiene ad un codice culturale differente. Il significato, dunque, non sta nell’oggetto ma viene ricondotto da una collettività. A fine Ottocento con l’Evoluzionismo si iniziò a ritenere che la cultura andasse studiata come un oggetto, ossia con metodo scientifico. Tuttavia, essa non è un oggetto ma assume una valenza simbolica; dunque, tale approccio era un equivoco. Tale corrente sosteneva l’idea di una cultura evolutiva, ossia di una cultura diacronica attraverso tempo e storia. Secondo questo pensiero la cultura era andata sviluppandosi con il tempo e aveva raggiunto il proprio vertice nella cultura occidentale. A inizio Novecento la teoria dell’evoluzionismo venne smentita dal nuovo pensiero dello Stoicismo, che contestava il metodo comparativo-gerarchico secondo cui tutti le culture andassero confrontate con quella occidentale. Franz Boas, un antropologo tedesco, introdusse all’idea dell’esistenza di una pluralità di culture uniche ed irripetibili e che ognuna di esse andasse studiata nella sua singolarità, rifiutando dunque le leggi universali in ambito culturale. Il mondo simbolico nel quale l’uomo è immerso però non gli consente di avere uno sguardo neutro e obbiettivo nel valutare le altre culture in quanto egli è sempre influenzato dalla mentalità della sua cultura e del suo tempo. Quindi, vi è sempre un pregiudizio che condiziona l’interpretazione dei simboli delle altre culture. 1 Nacque poi il Funzionalismo che riteneva che ogni cultura dovesse essere studiata da dentro, immergendosi in essa e guardando la stessa da una prospettiva interna. Ogni cultura deve essere studiata in loco, quindi con una valorizzazione del metodo empirico. L’osservazione partecipante è la via per l’antropologo di assumere il punto di vista degli autoctoni e comprenderne la visione del mondo. Il limite sta nel fatto che, anche se si cerca di imparare una cultura diversa, non si riesce però mai a liberarsi del proprio modo di pensare. Esponente del funzionalismo è Malinowski, il quale aveva concepito ogni cultura come l’insieme di funzioni sociali di un popolo. Negli anni Cinquanta si diffuse poi lo Strutturalismo che considerava l’esistenza di strutture primitive profonde che accomunano le varie culture nelle varie differenze. Il maggior esponente di tale corrente è Levi-Strauss il quale riteneva che tutte le culture avessero valore in quanto tale, ma che esse condividono strutture cognitive profonde con cui il pensiero organizza il reale. Ma, ancora una volta, è difficile valutare le strutture cognitive di fondo senza farsi influenzare dalla struttura su cui si fonda la propria cultura Infine, dagli anni Settanta l’antropologia interpretativa iniziò a sostenere che non esistono strutture comuni alle diverse culture in quanto queste ultime sono modelli simbolici che non possono essere paragonati dato che interpretano la loro propria realtà in maniera diversa. Le culture sono quindi un modello di significati trasmesso storicamente, significati incarnati in simboli, per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita. Secondo Geertz, l’antropologia è “una scienza interpretativa alla ricerca di significati”. L’antropologo interpreta sempre e quindi modifica la sua prospettiva. Ogni cultura è una sintesi di concetti elaborati da una comunità, che lo studioso tenta di interpretare ma non esiste una visione oggettiva. Ogni interpretazione è sempre condizionata da pregiudizi storici-linguistici della cultura dell’osservatore stesso. Anche la stessa cultura è in evoluzione, per cui la prospettiva da cui si analizza cambia nel tempo. Questo crea un blocco, ossia l’abbandono di una ambizione universale per soffermarsi sullo studio di aspetti specifici. Anche l’ambizione universale è figlia dell’Occidente che si è convinto di poter studiare un argomento e trovarne il cuore, la legge universale valida per tutti. Cultura e passato Le risposte dell’antropologia alla domanda circa cosa sia la cultura hanno gradualmente permesso di capire che la cultura non si può oggettivare. Infatti, a tale domanda si può rispondere che la cultura non è una cosa. L’uomo è il grande selezionatore del patrimonio culturale che però non è qualcosa che rimane fermo in un luogo, ma è vivo in quanto in continua trasformazione. Il passato non è stabile, ma è frutto di una continua reinterpretazione da parte dei contemporanei. Ogni generazione sceglie e individua in ciò che proviene dal passato quello che ha valore, dandone un peculiare significato. Tutto ciò che l’uomo ha ereditato in quanto ritenuto importante, se non viene più considerato significativo perde valore ed è destinato a scomparire. Dunque, il passato può scomparire se ritenuto privo di significato. Da qui l’enorme responsabilità di ogni nuova generazione. Il fenomeno della “cancel culture” mira proprio a cancellare tutto ciò che non è in linea con i valori del proprio tempo. Questo approccio è sbagliato in quanto comporta di dover eliminare le radici che hanno portato a una conclusione e quindi la conclusione stessa perde forza. La memoria è il retaggio di una cultura orale che ritiene che la storia e il passato siano fondamentali per tracciare le vie del futuro. Tuttavia, l’idea che una tradizione culturale esista di per sé è miopia, è un’ingenuità naturalistica che ignora il ruolo del soggetto nel processo conoscitivo. Sono gli atti interpretativi a dotare di senso gli eventi passati. Per esempio, la funzione del Duomo di Milano è cambiata in quanto originariamente l’arte serviva agli analfabeti per comprendere mentre oggi a tale edificio viene conferito un valore estetico. L’arte però non è solo bellezza estetica ma anche una raffigurazione del mondo in un secondo livello per ergersi a strumento di identificazione, educazione e cultura. È quindi un codice di comportamento, quello a cui crediamo. L’arte è raffigurazione di quello che ha senso per la propria contemporaneità, è trasfigurazione di un rituale. Per il singolo artista è un mezzo con cui esprimersi e farsi capire dalla collettività. Anche i musei non devono puntare a esporre semplicemente le opere con una didascalia ma a creare una esperienza immersiva a seguito della quale si capisce meglio il mondo esposto. Arte è rito, ritmo e diritto, tutti concetti che devono essere tenuti insieme in quanto formano un’anima unica che è cresciuta nella storia. Lo studio non può essere scientifico e quindi considerare l’arte solo come oggetto in quanto la sua forza principe è il significato. Il significato è un’anima che cresce dentro una storia. Si pensi al Giudizio universale, esso è 2 rappresentazione del modo di sentire e della crisi avvertita dall’uomo cinquecentesco. Se si dimentica il passato, anche il Giudizio universale perde di senso e diventa un insieme di disegni inutili. Il significato che invece ad oggi riconduciamo si lega ai tasselli del passato che abbiamo deciso di tramandare. Il filosofo Carlo Sini dice proprio che “il passato accade nel presente ed esso esige il futuro per il suo senso e compimento. Letteralmente: non c’è passato senza futuro”. Il passato può essere modificato in quanto si trova all’interno della narrazione dell’uomo. Non esiste passato senza dei testimoni e delle comunità che lo raccontino. Quindi l’uomo si trova di fronte a una serie di concetti che non sono ovvi e ha il grande compito di decidere che cosa ha valore e che cosa non lo ha. Come dice lo stesso Sini, il passato non è mai dato o già costituito ma si trasforma e cambia. Per esempio, se il nazismo avesse vinto, noi non avremmo la stessa idea su quel periodo storico tragico. L’essere umano è una creatura che vive all’interno di una collettività nella quale bisogna condividere le conoscenze per sopravvivere. Nella collettività umana si assiste ad una trasmissione del sapere esperienziale individuale in maniera duratura, in modo tale che tutti possano imparare da tale esperienza. Tale trasmissione è possibile attraverso l’arte, che è una rappresentazione del mondo in un secondo livello. Grazie alle modalità di rappresentazione l’uomo ha creato dei modi simbolici di rappresentare il mondo, che consentono di sopravvivere e di condividere il sapere individuale. Si pensi alle prime testimonianza artistiche, i geroglifici, sorte proprio per condividere una conoscenza individuale acquisita e per consentire all’uomo la sopravvivenza. Negli ultimi anni l’arte ha perso molto questo aspetto. Vi è una differenza tra linguaggio alfabetico e linguaggio figurativo (ideogrammi). Gli ideogrammi sono simboli e quindi possono assumere molteplici significati in quanto assomigliano a elementi della natura. Solo appartenendo a una determinata cultura se ne possono capire i significati simbolici. L’alfabeto invece ha il potere di creare una dimensione in cui tutti capiscono in quanto è l’oggetto che conta. Il problema sorge quando non si riesce ad oggettivare l’origine dell’oggettività. Per esempio, se si trattano temi culturali, per comprenderli a fondo bisogna appartenere a quella dimensione culturale stessa. In definitiva, il figurativo ha la potenza enorme di suscitare molteplici espressioni e racconti diversi mentre la parola è asettica seppur esatta. Il distacco dal passato, la scomparsa del futuro Ad oggi, le società occidentali hanno un grande problema nella relazione con il passato. Si parla anche di un distacco dal passato che porta a un rischio di scomparsa del futuro. Se infatti una cultura diventa accumulazione di nozioni, essa è destinata a morire perché non è più vissuta come lo specifico processo storico da cui si è originata la conformazione sociale, politica e civile del presente di un popolo. Se oggettivato come pura eredità culturale, questo sapere tradizionale perde la sua dimensione più narrativa e diviene estraneo ai suoi stessi figli. Ciò significa che la storia di una civiltà non è un percorso lineare in costante progresso: gli sviluppi e le conquiste, gli errori e le disfatte non sono acquisiti una volta per tutte. Ad ogni generazione spetta il compito di vagliare ciò che della tradizione aiuta ad abitare il presente, per la costruzione di un futuro pregno di senso, quindi di direzione. Giorgio Agamben, un filosofo italiano, sostiene che vi è poca evoluzione nella coscienza e nella cultura. In un sistema non alfabetizzato fondato sulla tradizione orale, vi è un’identità assoluta tra l’atto di trasmissione e ciò che viene trasmesso. In questa dimensione allora non esistono valori etici, religiosi, estetici al di fuori dell’atto di trasmissione. Il passato ha senso in quanto percepito come parte integrante di una storia che si vive anche nel presente. Il gap tra atto di trasmissione e cosa trasmessa e la valutazione della cosa trasmessa indipendentemente dall’atto di trasmissione sorge quando la tradizione orale perde la sua forza vitale. Questo problema è il fondamento delle società non tradizionali, ad esempio le società logiche-individualiste in cui vi è il potente desiderio di dimostrare tutto ciò che viene affermato. La conseguenza di questo fenomeno è l’accumulo di cultura. Se non si conosce la storia, il futuro scompare in quanto siamo bloccati in una dimensione senza evoluzione poiché non abbiamo la forza e la spinta proveniente dal passato. In questa situazione, l’uomo è bloccato in un presente perenne nel quale il passato è statico, non comunica nulla e quindi il futuro non potrà mai avverarsi. Le decisioni si prendono in collegamento tra passato ereditato, presente in cui si vive, futuro che si vuole disegnare. Quando una cultura perde il suo significato di trasmissione, ossia il suo legame con il passato, l’essere umano è privato di punti di riferimento e si trova bloccato in una dimensione chiusa davanti alle nuove prospettive. L’identità passa attraverso una comunità e dalle esperienze condivise della stessa, dalla quale nasce un senso di identità che è sempre frutto di incontri e relazioni a livello micro e a livello di società e incontro di culture e civiltà. 3 Più una società è aperta più essa è in grado di trasformarsi senza perdere la sua origine assorbendo quindi linfa di novità ed evoluzione. La dimensione in cui l’uomo è così bloccato è rappresentata perfettamente nell’opera Persistenza della memoria di Dalì. Il passato si accumula dietro l’uomo ma non ha significato per questo: l’uomo allora si sente oppresso da questi elementi passati. Sospeso in questa condizione, l’essere umano è proiettato in un tempo alienante in quanto non fornisce una dimensione entro la quale si possa trovare un punto da cui spingersi nel futuro. Con Socrate si iniziano a staccare esperienza vivente e concetto; egli, ad esempio, inizia a ricercare il concetto di coraggio e non di un uomo coraggioso. Questo porta a staccarsi dalla dimensione del mito e a creare il gap tra atto di trasmissione e cosa trasmessa. Si entra nel mondo della filosofia logica-filosofica. Si ha un potente desiderio di dimostrare tutto quello che viene affermato. Con il protrarsi di questa visione è sempre più marcata la differenza: questo ha portato alla società occidentale attuale che concepisce il passato come staccato. La situazione attuale fatica a ricondurre il presente alla storia passata. La dimensione narrativa è molto importante per tener viva una tradizione, consente di capire da dove vengono determinate caratteristiche che connotano l’identità culturale. La rivendicazione dell’identità di cui si sente parlare da forze politiche risulta ingenua in quanto l’identità passa attraverso una comunità, esperienze condivise e rielaborate. L’identità non dipende da sé ma è frutto di incontri. L’Italia è stata un centro di incontri diversi e da qui la sua forza come polo culturale. Più una società è aperta, senza perdere le proprie origini, più riesce a evolversi. Il progresso non è legato solo al passare del tempo, la storia è un saliscendi di momenti di maggior e minore evoluzione. Cultura e conoscenza Le origini del pensiero Alle origini del pensiero umano, i “protoumani” si sono trovati in un luogo ameno e hanno dovuto comprendere che cosa fare. Ciascuno ha fatto delle scoperte e delle esperienze diverse da condividere attraverso la parola che permette di esprimere uno stato d’animo, ma soprattutto attraverso lo strumento dei segni, ancora più potente in quanto stabile e duraturo. Per visualizzare questo concetto è utile adottare la metafora della mappa: essa non sarà mai una perfetta rappresentazione delle scoperte fatte, ma è una riduzione utile che serve a tutti per comprendersi fin da subito nonostante tagli fuori l’esperienza individuale. La rappresentazione, sia figurativa che grafica-alfabetica, è un elemento fondamentale per la condivisione del sapere. La scrittura alfabetica è caratterizzata da un’ambivalenza: essa è distaccata dall’esperienza diretta vissuta ma al contempo riesce a trasmettere un messaggio chiaramente ed efficacemente. La condivisione avviene attraverso le scritture in senso lato, ossia tramite delle rappresentazioni su supporti esterni. Questo permette di creare un universo simbolico in cui i pezzi di natura diventano riferimento a qualcos’altro, un qualcosa che non tutti riescono ad interpretare, ma solo chi è immerso in quella determinata cultura. Tale universo simbolico permette di creare un sapere collettivo (= cultura) diverso dall’esperienza del singolo e quindi un’identità culturale di individui coscienti che ha ricadute sui singoli. Per questo però serve una comunità che li trasmetta, altrimenti il singolo sarebbe perso. I viventi protoumani sono soggetti ad esperienze comuni e singole di elaborazioni emotive e cognitive del vissuto. In questa fase iniziale si parla di un soggetto conoscente ma non autocosciente, ossia un soggetto che conosce ma non è consapevole di ciò che sta facendo. Non vi è dunque distinzione né tra soggetto e oggetto né tra pensiero analitico e sintetico (propria della cultura occidentale). In epoca primordiale la coscienza è un tutt’uno con ciò che avviene nell’abbiente circostante: l’esperienza è un unicum tra soggetto e oggetto in quanto non vi è ancora l’autocoscienza. Il soggetto inizia a conoscere ma non sa di essere un individuo dotato di caratteristiche ed emozioni. In una fase successiva, si assiste ad una condivisione delle esperienze tramite scritture su supporti esterni al corpo (supporti esosomatici). Il vissuto soggettivo si esternalizza e prende forma e corpo in rappresentazioni che diventano patrimonio comune, fonte di un sapere accessibile agli altri. È in questo momento che il soggetto capisce il suo vissuto e lo rappresenta. 4 Le rappresentazioni sono utili a: a) chi vede tali rappresentazioni e quindi impara un nuovo un sapere/esperienza che è stata vissuta da un altro b) chi ha vissuto l’esperienza in epoca primordiale, al fine di capire e rendersi cosciente circa cosa sia successo veramente uscendo dal flusso di emozioni provate (nascita autocoscienza) Attraverso la condivisione delle esperienze su supporti esterni si configura un mondo di secondo livello che rende più dominabile la vita, altrimenti luogo di minacce e pericoli continui e ingovernabili. In questo modo si raggiunge l’ultima fase, ossia quella di nascita della cultura, dell’identità e dell’individuo autocosciente. La configurazione del mondo contribuisce alla nascita della cultura, un universo simbolico di credenze e prassi, condiviso da un gruppo che orienta la vita di ciascuno e ne norma i comportamenti. Segue l’identità culturale, che è frutto della reiterata narrazione simbolica delle origini da cui discendono le pratiche collettive di una data cultura (arte, rito, ritmo, diritto). Da qui e solo da qui nascono gli individui auto-coscienti. L’autocoscienza consiste nel rendersi conto della distinzione tra soggetto ed evento: l’uomo separa l’esperienza per organizzare un mondo e dominarlo. Dalla conoscenza alla cultura: un modello a tre livelli La rappresentazione dell’iceberg aiuta a capire il rapporto tra cultura e conoscenza. La cultura è il patrimonio collettivo di nozioni condivise da una civiltà, società, comunità o gruppo. Essa corrisponde quindi con il sapere condiviso, che è inevitabilmente più rozzo di una conoscenza individuale e approfondita in quanto spesso l’uomo è esperto in un determinato settore ma conosce meno bene gli altri. Per questo motivo è essenziale instaurare un rapporto con la conoscenza altrui, proprio per ampliare il proprio sapere. La cultura ha il grande effetto di riuscire a diffondere presso tutti una visione, seppur parziale e limitata, della conoscenza verticale e specifica di ciascun settore. Il modello a tre livelli si legge dal basso verso l’alto ed è formato da: • • • Livello A → CONOSCENZA Livello B → INTERMEDIAZIONE Livello C → CULTURA Il primo livello è quello della conoscenza, che è in costante accrescimento in quanto le competenze e le discipline sono in continua evoluzione. Vi è però un livello di intermediazione che funge da intermediario a questa crescita; tale livello riguarda la diffusione dei saperi mediante figure o enti, quali ad esempio scuole e università, che fanno in modo che la conoscenza specialistica si apra al maggior numero possibile di persone (sapere condiviso). L’ultimo livello è allora la cultura, intesa come output di nozioni condivise. Il fine di questo schema è quello di orientare i comportamenti umani; infatti, tutti sono orientati dal suo funzionamento: nessuno conosce tutto in modo approfondito e specializzato e quindi ha bisogno di conoscenze altrui per implementare le proprie affinché la conoscenza, attraverso l’intermediazione, diventi cultura condivisa. A sua volta la cultura è in rapido mutamento in quanto influenzata dall’evolversi della conoscenza, che nel mondo occidentale è da secoli in incessante ed esponenziale accrescimento e si articola in un vasto numero di discipline a loro volta suddivise in branche sempre più numerose, complesse e appannaggio del ristretto numero dei rispettivi esperti. Tuttavia, tra conoscenza e cultura sussiste un rapporto circolare in quanto anche la cultura è in grado di orientare le scelte del futuro, incluse quelle riguardanti le direzioni di sviluppo della conoscenza stessa. Per esempio, sono persone non specialiste in scienza che decidono se finanziare o meno uno scienziato, e la loro decisione viene presa in base alla loro cultura. Quindi anche l’evoluzione della conoscenza è determinata dalla cultura. Infine, è pericoloso mettere in discussione un paradigma già affermato: se la differenza tra conoscente e acculturato è minima non sorgono problemi e il rapporto circolare funziona; se invece il gap tra conoscenza e cultura è ampio, il rischio è quello che la cultura generale non consenta alla conoscenza specialistica di evolversi. Per esempio, se viene proposta una ricerca che va in controtendenza rispetto a un determinato paradigma, tale ricerca non riceverà finanziamenti in quanto non si può assicurare a priori di raggiungere un risultato. Cultura e conoscenza hanno un rapporto di reciproca influenza, la cui chiave di funzionamento è il livello di intermediazione che ha un ruolo 5 fondamentale in quanto permette di mediare tra i rapporti tra le due, ossia tra competenza e percezione della competenza stessa. Ogni uomo è ignorante in certi aspetti, dunque, risulta inevitabile avere fiducia nelle conoscenze altrui altrimenti il sistema a tre livelli non regge in quanto esso è basato sul fatto che ognuno fa affidamento anche sulle competenze degli altri. Se l’intermediazione non funziona si rompe tale rapporto di fiducia e nasce una grande difficoltà. Risulta dunque chiaro il ruolo fondamentale dell’intermediazione. Riguardo all’inevitabile ignoranza del singolo rispetto allo scibile, gli scienziati cognitivi Sloman e Fernbach sostengono che la “chiave della nostra conoscenza sta nelle persone e nelle cose intorno a noi. La natura intrinsecamente collettiva dei saperi condivisi spiega perché spesso supponiamo di sapere di più rispetto a quanto effettivamente sappiamo e perché i metodi didattici e di management basati sul singolo individuo spesso falliscono”. Il confine tra cultura e conoscenza è molto labile, considerare una piuttosto che l’altra dipende dal quadro di riferimento: il meccanismo da tenere conto è la differenza tra conoscenze individuali nel senso di approfondimento e il minimo comune denominatore che crea un’identità (= cultura). Una decisione presa sulla base di un comune censore rende la conoscenza un sapere condiviso attraverso degli intermediari. Il sapere condiviso poi può diventare legge, se ritenuto giusto dalla maggioranza di color che aderiscono a tale sapere. La maggioranza decide in base alla propria cultura. Esempio: Università Bicocca ha cancellato un corso su Dostoevskij in concomitanza con lo scoppio della guerra Russia-Ucraina per evitare le polemiche. Dostoevskij è uno dei più grandi pensatori dell’Ottocento nonché personaggio chiave della cultura occidentale. Dunque, la colpa dei figli (i russi che hanno innescato una guerra) ricade sui padri, ossia i pensatori russi del passato. In tale ragionamento vi è ombra della cancel culture: non bisognerebbe adottare un approccio di questo tipo ma al contrario valorizzare la cultura russa nelle sue componenti. Questo è un esempio di come la tendenza culturale ha effetto su decisioni e normative all’interno della società. Se vi è un problema di questo tipo bisogna analizzare perché esso accade: si tratta di un problema chiaramente legato al livello dell’intermediazione. La rivoluzione digitale ha avuto un impatto enorme sull’intermediazione in quanto è caratterizzata da una prospettiva orizzontale e non gerarchica di diffusione del sapere. Le nuove figure legate all’intermediazione, come il procumer (produttore di contenuti) permettono che un contenuto venga messo a disposizione del più ampio pubblico possibile, senza che la sua fonte debba necessariamente appartenere a un certo filone della conoscenza. In questo modo il singolo ha accesso a una parte molto più ampia di cultura sia per quanto riguarda la ricezione dei contenuti che per quanto riguarda la sua possibilità di aggiungerne. Il singolo è dunque colui che viene indottrinato ma che ha anche il potere di indottrinare. Tuttavia, il fatto che “chiunque” possa offrire contenuti risulta un problema. La visione Occidentale Il modello a tre livello viene applicato anche nella società occidentale. In tale società risulta: • Livello A → conoscenza = branche del sapere logico • Livello B → intermediazione = divulgazione e rielaborazione creativa dei saperi • Livello C → cultura come output = nozioni e pratiche condivise La conoscenza riguarda le branche del sapere logico ossia scienze umanistiche, sociali, naturali, formali e applicate. L’intermediazione di questi saperi è svolta da: • • • • • Università e Istituzioni Scolastiche Associazioni culturali Partiti politici Mass e new Media dell’informazione (stampa, Tv, Internet ecc.) Industrie culturali e creative (cinema, editoria, musica, artigianato ecc.) A livello di intermediazione risulta fondamentale la creatività in quanto essa, oltre ad avere un potere enorme nell’innovazione della conoscenza, permette di spiegare meglio la realtà e nell’innovazione della conoscenza. Essa permette infatti di diffondere un sapere complesso e specialistico nei suoi elementi fondamentali, al fine che esso risulti comprensibile a molte persone. Dunque, ha il ruolo di porre una persona nelle condizioni di avere un’ampia 6 visione sulle cose. Per esempio, in passato l’arte veicolava un messaggio teologico a tutti. La diffusione del sapere permette di creare una cultura, ossia un insieme di nozioni e pratiche condivise. La cultura è un sistema simbolico in costante rimodulazione grazie al quale una comunità definisce la propria identità, elabora giudizi etici ed estetici (vero o falso, bello o brutto, giusto o sbagliato), perpetua o abbandona usi e costumi tradizionali e orienta le norme politico-sociali della collettività. Le nozioni condivise a loro volta orientano in maniera decisiva le branche del sapere e gli studi specialistici. Dunque, anche nel caso della società occidentale sussiste un rapporto circolare tra conoscenza e cultura. v La conoscenza occidentale: il potere del logos La conoscenza occidentale si distingue dalle altre per la sua capacità di pensiero analitico-sintetico che trasforma una cultura narrativa e simbolica portandola al culmine dell’astrazione. Tale processo è reso possibile dal potere del logos, ossia la parola. I simboli/ideogrammi attraverso i quali l’uomo racconta le sue esperienze per farle divenire sapere comune, nella cultura occidentale diventano una trascrizione di tutto ciò che la persona può raccontare. Con la trascrizione però viene meno però è il flusso di pensiero proprio dell’individuo. Il più grande potere della cultura occidentale è l’alfabeto. Il primo vero e proprio alfabeto che astrae totalmente il termine dall’esperienza è quello greco. Ad esempio, la parola “cane” non assomiglia all’esperienza reale del cane che può essere vissuta, ma rimanda all’idea astratte e universale di cane che ricomprende diverse razze. La scrittura alfabetica permette all’uomo di parlare e raccontare esperienze da trascrivere cosicché chiunque possa capire ciò che egli ha vissuto. Da qui la sua enorme potenza. L’alfabeto permette di: • • • • Aiutare chi ha vissuto l’esperienza a comprenderla Aiutare gli altri a comprendere Rappresentare l’esperienza su un supporto senza tempo Ragionare per concetti e per idee In definitiva, il logos permette di estrarre dall’esperienza singola ed irripetibile la struttura e l’essenza di un evento analizzandolo per come esso è, permettendo quindi di trasmetterlo agli altri in maniera comprensibile ed esatta. Il significato può essere colto da chiunque conosca il linguaggio. Il primo passaggio consiste dunque nella definizione di idee universali e astratte che consentono a chiunque di capire il significato delle parole scritte. Da ciò discende un passaggio ulteriore compiuto da Aristotele, quello della dimostrazione: una volta definiti i concetti si può ragionare in modo logico-sequenziale. Nasce così l’oggettività, che è fondamento di tecnologia e scienza. L’alfabeto consente di lavorare sul concetto, sull’idea astratta che è alla base della cultura dell’universale. La cultura dell’universale, che è propria dell’Occidente, ritiene che il mondo possa essere strutturato in maniera ordinata cosicché ogni cosa possa essere definita singolarmente in quanto ogni esperienza è concretizzazione di un’idea astratta. Tuttavia, la cultura nasce dall’esperienza individuale e non è possibile trovare l’origine dell’universale in quanto non tutte le culture ragionano per universale. L’Occidente ha da sempre cercato l’origine di ogni cosa. Con Socrate e poi con Platone si è iniziato a pensare per universale, partendo da idee astratte da cui discendono le esperienze concrete. Ma per pensare per concetti bisogna guardare da fuori in modo asettico la propria situazione. Non si può trovare l’elemento universale per tutte le culture, in quanto la cultura occidentale ha un proprio universale e solo chi appartiene a tale cultura può comprenderlo. Ad esempio, l’antropologia è una disciplina delle scienze sociali che ricerca i tratti universali nelle culture ma essa è propria solo della cultura occidentale, dunque l’universale di una cultura non vale per un’altra. Non si può oggettivare la cultura. L’alfabeto compie un passo ulteriore rispetto all’ideogramma. L’ideogramma mantiene un rapporto con il visibile e il reale in quanto è una stilizzazione di una figura. Tuttavia, tale stilizzazione contiene dei significati profondi che vanno oltre ciò che si vede, per questo la raffigurazione risulta comprensibile solo a coloro che condividono una determinata cultura. Ha però il vantaggio di mantenere il rapporto con l’esperienza che invece viene meno con l’alfabeto. Con l’alfabeto, infatti, i segni fonetici espressi o scritti non hanno nessuna somiglianza con l’esterno, nessun referente reale. Questo porta a creare una distanza tra esperienza vissuta e sapere in quanto una parola non assomiglia al concetto a cui fa riferimento. È il concetto che va visto in riferimento alla categoria di cui fa parte e quindi associato alla parola. Con l’alfabeto la cultura occidentale ha creato un mondo complessissimo fatto di 7 concetti, attraverso diversi strumenti atti a trasformare le proprie condizioni di esistenza. Questo ha avuto due effetti: • • Negativo → perdita del contatto con la dimensione emotiva di ciò che è avvenuto (segno snaturato e devitalizzato) Positivo → possibilità per chiunque conosca l’alfabeto ma non abbia vissuto l’esperienza di comprendere il significato di ciò che è avvenuto Con l’alfabeto si guadagna una capacità di astrazione concettuale enorme, che consente di creare un mondo di secondo livello complessissimo e di inventare nuovi concetti. Il concetto permette di organizzare la vita, fare scoperte scientifiche e rendere l’uomo più tecnologico. È dunque l’alfabeto che consente alle culture di evolversi: la cultura basata sulla conoscenza alfabetica permette la costante evoluzione della conoscenza e quindi poi della cultura. Le culture orali invece tendono a non evolversi, non hanno il senso del futuro e del progresso in quanto vivono ancorate alle loro tradizioni (es: indiani d’America che ripetono sempre gli stessi riti). Non si tratta di un confronto di qualità tra le culture ma di una differenza esistente nella realtà. La cultura basata sulla conoscenza alfabetica e tecno-scientifica permette la costante evoluzione della conoscenza in quanto un concetto può essere creato all’infinito. Basti pensare al fatto che tutte le nuove teorie scientifiche introducono conoscenze nuove. Proprio perché i concetti si possono creare all’infinito, sorge un limite nella scienza. Quest’ultima è il luogo delle certezze ma solo fino a prova contraria e proprio su questo si basa il suo limite. Essa lavora sia in termini di logica deduttiva che in termini di logica induttiva. • • Logica deduttiva → si parte dalla causa e si arriva agli effetti (ha certezze) Logica induttiva → si parte dagli effetti per risalire alla causa (non si può mai sapere se la causa sia effettivamente giusta e quindi tale logica non ha certezze) La scienza si trova sempre nella situazione di dover partire da alcuni effetti per poter elaborare una teoria che cerca di spiegare alcuni fatti, teoria che poi viene verificata. La teoria è resa possibile dal concetto, dal linguaggio alfabetico che permette di creare concetti nuovi. Karl Popper diceva che ogni teoria deve essere falsificabile, ossia deve esserci un possibile evento che smentisce la teoria. Infatti, se non vi sono elementi che la smentiscono essa non è una teoria ma un inganno. Tutte le teorie scientifiche sono dunque vere solo fino a prova contraria. in quanto ad un certo punto emergono elementi che fuoriescono dai confini della teoria scientifica, imponendo alla scienza di elaborarne una nuova a partire da quanto già scoperto e acquisito in precedenza. L’intelligenza consiste nel creare qualcosa che prima non esisteva: la creatività è propria dell’uomo, che grazie ad essa si contraddistingue dalla macchina. La teoria è dunque la formula che nei passaggi minimi mostra il risultato ma non è la fotografia dell’esperienza provata. La teoria universale ma non assoluta ad un certo punto non riesce a giustificare tutti i fenomeni che provengono dal suo quadro di riferimento. La scienza permette, con la creatività della mente umana, di creare una nuova teoria che riesce a ricomprendere anche questi fenomeni, imponendosi in definitiva come nuovo paradigma. Per esempio, se si è convinti che i cigni sono bianchi ma ad un certo punto si vedono dei cigni neri la teoria non riesce a giustificare questo fatto e quindi nasce un nuovo paradigma. Le teorie possono essere viste come centri concentrici: le teorie precedenti smentite permettono di creare nuove teorie più esatte. La realtà nella sua totalità comprende anche l’essere umano. Le costruzioni teoriche dell’essere umano includono tutte le esperienze possibili e i fenomeni ravvisabili dalle tecnologie ma quando si cerca di mettere l’essere umano stesso e le sue modalità di conoscenza al centro si crea un circuito in cui la nascita del mondo di secondo livello che configura la realtà in cui il soggetto vive non è racchiudibile all’interno di una teoria. Questo in quanto nella teoria si crea un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto che nascono simultaneamente e non separatamente. La grande capacità dell’essere umano è quella di prendere coscienza fermando un’esperienza e rappresentandola su un supporto esterno. In questo modo è possibile rappresentare anche sé stessi e capire chi si è e i propri valori/convinzioni. In questo sistema allora nasce anche l’identità soggettiva e gli oggetti. La conoscenza è la fase successiva, la fase in cui l’essere umano è autocosciente. A questo punto però se nel sistema di soggetto che oggettiva, si pone come oggetto della conoscenza il soggetto stesso nasce un problema di autoreferenza, ossia non si riesce ad oggettivare il soggetto conoscente in quanto egli è causa di tutto questo 8 processo. L’antropologia cerca un oggetto comune a tutti che però non può essere il soggetto conoscente. Per esempio, se un soggetto disegna, egli taglia fuori dalla sua rappresentazione della realtà il gesto con cui ha compiuto il disegno. Dunque, il soggetto che conosce non può includere nella sua conoscenza il gesto conoscitivo con il quale è arrivato alla conoscenza stessa. Il gesto in definitiva non può essere circoscritto. Questo problema è inevitabile e risulta il limite della capacità di rappresentazione. In altre parole, la realtà nella sua configurazione comprende anche gli esseri umani e la loro capacità creativa e inventiva. Però tale aspetto non può essere rappresentato negli schemi e poi nelle teorie. La teoria dunque è l’esito di un atto creativo che non può essere ricondotto al gesto compiuto per crearla. L’aspetto creativo di mente e corpo non può essere ricompenso in un’elaborazione oggettivante. La realtà non è riducibile a una teoria in quando taglia fuori l’essere umano che conosce. Questo comporta non si possa sapere se la realtà abbia una struttura in sé. v Occidentalizzazione delle culture mondiali e crisi della cultura occidentale Nel Novecento si verifica l’occidentalizzazione delle culture mondiali. Il paradigma occidentale tecnologicoscientifico, per la sua imparagonabile potenza ed efficacia di risultati, si è diffuso a livello planetario. La conoscenza diventa così sempre più simile e le culture si assomigliano progressivamente sempre di più (omologazione delle culture). Questo rappresenta un problema in quanto chi non è figlio di una visione propria di una cultura differente dalla sua vive uno scontro tra la scienza proposta e la visione originaria della sua cultura. La proposta culturale occidentale può confliggere con valori diversi e non compatibili. Nonostante il paradigma occidentale si sia profondamente diffuso, in epoca contemporanea si sta assistendo ad una crisi della cultura occidentale in quanto tale paradigma manca di coerenza all’interno del suo modo di pensare. Infatti, nel Novecento emerge sempre di più l’idea del limite intrinseco di tutti i saperi della cultura occidentale. Si prende consapevolezza del fatto che non esistono verità assolute a prescindere da chi le incarna e ne dà voce e che le teorie umane non corrispondono esattamente alla realtà. Quest’ultima ha una sua dimensione in cui l’uomo è immerso ma l’uomo: nel momento in cui l’uomo prova a staccarsi da tale dimensione per studiare la realtà prende coscienza dell’ingenuità nel pensare che la struttura della realtà sia direttamente accessibile all’uomo. L’uomo essendo immerso nella realtà, può solamente fornirne una rappresentazione oggettivata che è una riduzione incompleta che gli permette di organizzare i pensieri. Però l’uomo non può staccarsi dalla realtà in quanto immerso in essa. La crisi della cultura occidentale deriva da una dicotomia tra scienze e filosofia. Già lo scienziato Charles Percy Snow (1959) aveva rilevato come la conoscenza abbia conosciuto una profonda divaricazione tra sapere tecnicoscientifico e sapere umanistico. • • Sapere tecnico-scientifico → ha impatto sulla società in termini partico-applicativi grazie all’introduzione di strumenti innovativi che trasformano i mezzi con cui l’uomo organizza la vita comunitaria e grazie a nuove modalità di relazione interpersonale (si pensi all’effetto che ha avuto negli ultimi decenni la rivoluzione digitale sulla quotidianità delle persone) Sapere umanistico → esercita una notevole influenza sulla cultura in senso stretto, quello che gli antichi greci chiamavano doxa (= cultura), ossia le opinioni largamente condivise Per via delle difficoltà all’accesso del suo linguaggio (matematico), il sapere scientifico tende a divenire cultura di massa molto lentamente e solo parzialmente, tramite la semplificazione divulgativa. Dunque, è il pensiero umanistico a condizionare il senso comune, ossia quel sapere di seconda mano su cui ciascun individuo non può che basarsi per gestire gli strumenti che non conosce e per formarsi un’opinione sugli argomenti che non padroneggia appieno. Tali argomenti sono evidentemente la maggior parte, vista la succitata vastità, complessità e rapidità di evoluzione dello scibile. Nonostante il problema di comunicabilità del sapere tecnico-scientifico possa essere risolto attraverso l’intermediazione, il pensiero umanistico condiziona il senso comune in maniera molto più efficace in quanto non presenta una barriera linguistica. 9 In definitiva, sussiste una dicotomia tra scientismo del paradigma tecnico-scientifico e relativismo del pensiero filosofico. I due paradigmi risultano inconciliabili in quanto il primo non si interessa dei suoi fondamenti e guarda solo all’efficacia di quello che compie, prendendolo per vero in maniera assoluta, mentre il secondo afferma che ognuno ha la propria relatività e dunque verità. Questo porta ad una contraddizione a livello dell’intermediazione in quanto sussistono due tipologie di comunicazione totalmente diverse. Si giunge allora alla crisi della cultura occidentale. L’intermediazione potrebbe travisare il significato della conoscenza e portare ad un concetto fasullo di cultura non corrispondente a un dato della conoscenza, assecondando così il dogma relativista. Al contrario, potrebbe accadere che uno scienziato assolutizzi la propria conoscenza che porta al concetto di universo ma anche di nulla. Considerando l’oggettività della sua conoscenza neutra che non deriva dall’oggetto, egli non si pone il dubbio e fonda una teoria con le leggi della scienza. Una civiltà guidata da una visione dogmatica, acriticamente oggettivante (scientismo) oppure individualisticosoggettivante (relativismo) oppure da una visione ecumenica che forza vanamente la coesistenza delle prime due, è destinata a perdere la connessione con il proprio passato, trasformando il presente in una nebulosa senza bussola, il cui valore è affidato alla sola sensibilità individuale o di gruppi di minoranza, senza il recupero di un sentire comunitario. La perdita di connessione con la storia della propria evoluzione culturale svuota il presente della dimensione diacronica della narrazione identitaria, mostrando il futuro non come un'occasione di concretizzazione delle progettualità attuali, radicate in una storia, ma come un tempo imprevedibile e sconosciuto, potenziale minaccia allo stato presente. Viene a delinearsi così una degenerazione della società, che si frammenta in gruppi distinti refrattari ai cambiamenti, chiusi nella loro auto-referenza e maldisposti al confronto con l’altro. Così, la pluralità di idee che è il sale del pensiero creativo, scientifico e conoscitivo viene tradotta in pluralità di punti di vista, in cui la distinzione tra teorie accreditate e mere opinioni personali sfuma. In questa situazione non vi è più qualcuno che detiene la verità in mano e viene meno l’autorevolezza di una teoria. Il pericolo è che la cultura (sapere condiviso) venga influenzata e trasformata dalle visioni meglio veicolate mediaticamente, a prescindere dalla loro consistenza logica e solidità epistemologica. Se tutto è relativo, ha la meglio la teoria più convincente dal punto di vista retorico-emotivo e non logico. Questo discorso può essere spiegato dalla finestra di Overton, un sociologo statunitense che ha sviluppato un protocollo secondo il quale si può trasformare un’idea inaccettabile in un’idea normata da una legge, attraverso un grande esercizio di retorica. Per farlo, prima di tutto bisogna trovare il modo di esporre un’idea e di presentarla nella sua radicalità. Successivamente si adotta un caso limite in cui l’idea assume un altro aspetto in quanto calata in un’esperienza di vita. In questo caso essa è giudicata in base al contesto. Ci si sposta così alla situazione particolare e quindi vi è una componente di empatia diversa. Mettendo insieme universale e particolare quest’idea attecchisce e molti iniziano a percepirla come ipotesi da valutare. Poi per il fenomeno di omologazione diventa tale idea popolare e infine legge in quanto tutti si trovano d’accordo. Questo è avvenuto per esempio attraverso la propaganda nazista, nella quale partendo da punti di vista diversi si arriva allo stesso risultato grazie alla retorica. I principi della propaganda (o principi dell’anti-ragionamento) di Goebbels, sono strategie di condizionamento basate sulla retorica: • • • Principio della semplificazione e del nemico → è necessario adottare una sola idea, un unico simbolo e soprattutto identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali Principio del metodo di contagio → riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo Principio della trasposizione → caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco; se non si possono negare le cattive notizie bisogna inventarne di nuove per distrarre 10 • • • • • • • • Principio dell’esagerazione e del travisamento → trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave Principio della volgarizzazione → tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta; quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare Principio dell’orchestrazione → la propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive ma convergendo sempre sullo stesso concetto senza dubbi o incertezze Principio del continuo rinnovamento → occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi a un tale ritmo che quando l'avversario risponde il pubblico è già interessato ad altre cose; le risposte dell'avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse Principio della verosimiglianza → costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i cosiddetti palloni sonda o attraverso informazioni frammentarie Principio del silenziamento → passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l'avversario Principio della trasfusione → la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali; si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi Principio dell’umanità → portare l'agente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità v La rivoluzione digitale Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, sostiene che la cultura nell’illuminismo, in cui prevale il mito della ragione, era considerata il riscatto dei popoli che dovevano liberarsi dalle catene dell’ignoranza e grazie a un alto livello culturale migliorare le proprie condizioni di vita. Vi era quindi una visione gerarchica del sapere per cui i vertici del potere, detentori del sapere stesso, dovevano educare le masse al sapere. Invece, con i New Media a livello culturale accade l’opposto, ossia la celebrazione e incarnazione di nuovi dogmi quali la libertà di scelta e la pari dignità di tutte le idee e opinioni. Ne consegue il rigetto della struttura verticale a favore di una struttura orizzontale del sapere (non gerarchica) e il cambiamento del concetto di cultura, che viene vista come una serie di prodotti e offerte ai quali ciascuno può accedere liberamente. Parlare di rivoluzione digitale porta a considerare due aspetti: • • Positivo (cultura) → la cultura non corrisponde più con l’obbiettivo di portare le persone a un livello di cultura vicino alla conoscenza, ma è la celebrazione di certi dogmi in cui al centro vi è l’individuo, l’indipendenza del pensiero e l’idea che il sapere non debba essere detenuto da pochi e poi distribuito; allora non si parla più di cultura ma di accesso alla conoscenza Negativo (comunicazione e intermediazione) → accesso a un pubblico sempre più ampio di una molteplicità di informazioni/contenuti senza necessità che questo appartenga a un certo filone della conoscenza; dunque, vi è una ricezione più ampia di contenuti ma anche una maggiore possibilità di offrirne e il fatto che “chiunque” possa offrire contenuti risulta un problema (pluralità di voci) Bauman ha coniato l’espressione società liquida con la quale si riferisce al cambiamento profondo di paradigma nella concezione di cultura (concezione illuminista v/s new media della rivoluzione digitale). Infatti, il nome cultura in passato è stato assegnato a una missione di proselitismo progettata e intrapresa per educare le masse (illuminismo), ma nel mondo moderno essa ha cambiato funzione: celebra il fatto che ognuno ha le proprie idee e può condividerle. La cultura è attualmente in una fase liquido-moderna, fatta a misura della libertà individuale di scelta e concepita per servire tale libertà. In tale fase essa assume una funzione diversa, ossia quella di sedurre i clienti creando nuovi bisogni pur mantenendo allo stesso tempo bisogni già radicati o permanentemente insoddisfatti. La cultura oggi è fatta di offerte, non di norme. Nella nostra società di consumatori essa si trasforma in un magazzino di prodotti concepiti per il consumo, ciascuno in competizione per spostare o attirare l’attenzione dei potenziali consumatori nella speranza di conquistarla e trattenerla più a lungo. 11 Abbandonare standard rigidi, assecondare la mancanza di discriminazione, servire tutti i gusti senza privilegiare alcuno, incoraggiare l’irregolarità e la flessibilità e rendere romantica la mancanza di stabilità e l’incoerenza è la giusta strategia da seguire. A tale proposito è importante parlare della questione dell’inclusività. È chiaro che nessuno debba essere discriminato per le sue idee ma questo non significa che tutte le idee valgono. Da qui l’importanza della distinzione tra persona e idee. L’idea di includere tutte le visioni non è possibile in quanto se una delle idee è in contrasto con le altre essa è destinata a venire meno. Se un’idea è incompatibile con la cultura e la civiltà in cui vorrebbe affermarsi, o convince la cultura stessa a cambiare idea o si creano attriti sociali e dunque essa deve essere messa da parte. Come capire dunque se un’idea è giusta o meno? Il filtro nonché chiave di interpretazione riguarda l’argomentazione: se essa non sta in piedi è retorica. Dunque, attraverso il dialogo si può cercare di argomentare la propria idea e spiegare perché essa sia giusta. Questo riguarda la civiltà occidentale, ma quando si parla di culture diverse il dialogo non basta in quanto esso è un elemento proprio dell’Occidente. Bisogna allora trovare dei mezzi per comunicare anche a persone proveniente da culture diverse e capirle. Le tecnologie immersive in questo senso hanno un potere immenso. Caratteristiche della rivoluzione digitale dei new media: a) Facilità di accesso ad una sterminata mole di contenuti b) Facilità di produzione e diffusione di contenuti culturali c) Affermazione della figura del prosumer (consumer + producer = l’uomo è sia consumatore che produttore di contenuti) d) Processo partecipativo di creazione di contenuti culturali (es: Wikipedia) → Pierre Levy aveva teorizzato il concetto di intelligenza collettiva e) Declino generalizzato dei corpi intermedi (politici e culturali) e quindi del modello verticale dell’istruzione e dell’informazione Nel processo partecipativo (d) tutte le competenze vengono messe in comune con l’obbiettivo di incrementare la conoscenza e la cultura. Ecco allora che tutti i corpi intermedi perdono potere in quanto ogni uomo è in grado di intermediare da solo (declino del modello verticale). Si assiste dunque al fenomeno della disintermediazione: l’intermediazione (e), proprio perché esiste la figura del prosumer, va in crisi in quanto perde l’egemonia della sua funzione. Così, il modello verticale della diffusione del sapere sparisce in parte. Circa i pericoli della disintermediazione Tom Nichols, un politologo statunitense, afferma che l’uomo sta assistendo alla fine dell’idea stessa di competenza, ossia a un crollo della divisione tra professionisti e profani, studenti e insegnanti, conoscitori informati e speculatori fantasiosi. Cfr. aspetto negativo della rivoluzione digitale. Inoltre, come dice Zanchini, Instagram, come tanti altri social media e internet, creano il fenomeno del pregiudizio delle conferme (Confirmation Bias) secondo cui l’uomo invece di essere stimolato a cambiare visione, segue sempre le stesse idee e viene bersagliato da informazioni che confermano ciò che pensa. Tale meccanismo per cui si cercano continuamente conferme della “propria” convinzione si oppone al metodo scientifico in cui si cercano smentite della propria tesi. Chi ha bisogno di ricercare la propria convinzione è in una condizione di debolezza in quanto non ha una grande padronanza di essa. Il problema è che invece di essere esposto a ciò che è opposto alla propria visione, con la rivoluzione digitale l’uomo è sempre più portato a ricevere conferme di ciò che pensa. Circolano quasi soltanto informazioni coerenti con le proprie convinzioni e preferenze. Si tratta di una strategia pubblicitaria che è stata decisa in questo modo e non è connaturata alla natura stessa della rivoluzione. Il meccanismo del pregiudizio di conferma si scontra con il metodo scientifico, secondo cui chi ha una tesi deve verificarla fino a prova contraria attraverso delle ricerche. Se l’uomo perde la fiducia nell’intermediario, non può affidarsi a ciò che pensa lui in quanto egli è influenzato dalla mentalità e la cultura del suo tempo e della sua civiltà. La sua testa non basta. Siccome l’intermediazione è un’esigenza dell’uomo, il problema risiede nel comprendere su chi fare affidamento in un mondo di confusione e di infinità di informazioni. Gérald Bronner, un sociologo francese, afferma che con il crescere della produzione di conoscenza, diminuisce la parte di competenza che il singolo può sperare di dominare. Questo significa che una società basata sul progresso della conoscenza diventa la società della credenza per delega, ovvero della fiducia. I miti del complotto rendono un gran servizio alla sete umana di comprendere il mondo: sono fondati su un effetto di disvelamento molto soddisfacente per la mente. Permettono infatti di dare coerenza a fatti che fino a quel 12 momento non ne avevano e di trovare relazioni tra avvenimenti apparentemente indipendenti. Si tratta di miti spettacolari che colpiscono facilmente l’immaginazione, per questo motivo sono facilmente memorizzabili. L’uomo da spesso adito a teoria complottiste in quanto il bombardamento di informazioni lo porta a un senso di smarrimento e di incertezze, che viene meno proprio con tali teorie. L’uomo non riesce più a capire come farsi un’idea e quindi la teoria complottista ha una sua attrattiva per la sua natura di mettere ordine. È sano trovare una correlazione, i punti cardine, tra elementi apparentemente opposti in quanto ciò corrisponde a un bisogno di senso connaturato nell’uomo in quest’epoca digitale caratterizzata da una velocità di informazioni. Tuttavia, le teorie complottiste cercano di smentire un’idea e questo non permette di avere una visione multi-prospettica all’interno della società. Inoltre, non è semplice convincere una persona dell’inconsistenza dei suoi argomenti, che sono quelli propri della teoria complottista, perché egli vede immediatamente il suo interlocutore come il difensore della tesi ufficiale che lui vuole combattere. Come ogni strumento, i new media veicolano informazioni secondo peculiari modalità che ne influenzano l’apprendimento. Gli effetti collaterali dei new media sono: 1) Incremento della capacità di lettura frammentata dovuta alla necessità di gestione di notevoli quantità di informazioni e input audiovisivi simultanei 2) Diminuzione della capacità di lettura analitico-sintetica (connessioni analogiche, ragionamento inferenziale) data da uno stimolo a una lettura che coniuga diversi codici (visivo, uditivo e intellettuale) Manfred Spitzer, neuroscienziato tedesco, inoltre, annovera tra le conseguenze neurologiche dell’uso frequente di tecnologie informatiche l’aumento di disturbi di memoria, dell’attenzione e della concentrazione. Infine, l’enorme mole di contenuti resi disponibili dalla rete globale e l’assenza di criteri gerarchici nella presentazione di contenuti, dovuti al venire meno dell’intermediazione e all’aumento della cultura orizzontale, espone gli utenti a: 3) rischio di sovraccarico cognitivo (information overload) → l’enorme contenuto di informazioni non richiede una lettura spasmodica, dunque, travolge le persone; allora la mente umana seleziona ciò che ritiene più interessante, che però non è una scelta basata sul criterio gerarchico 4) rischio di assorbimento di informazioni non approfondite (nozionismo) o fittizie (fake news) o impropriamente associate (fallacie logiche) Saper ragionare logicamente permette di scartare immediatamente delle posizioni che non stanno in piedi su un determinato argomento. Sapere come associare dei concetti o delle informazioni è una grande arma di cui l’uomo si può dotare. Altrimenti egli finisce nel fenomeno del nozionismo, per cui assorbe informazioni non approfondite. Il mediatore, proprio in un’epoca come la nostra, ha una responsabilità etica enorme. Per esempio, se un giornalista non approfondisce le informazioni e quindi non svolge il suo ruolo da intermediario potrebbe orientare erroneamente su più canali le persone che si fidano di lui e questo ha dei risvolti negativi nelle loro vite. La neo-intermediazione Oggi l’uomo si divide tra gli algoritmi che disegnano i suoi percorsi sulla base dei suoi gusti e dei consigli di amici, esperti, influencer. Tuttavia, il suo sistema di informazione e comunicazione lo porta a ricevere informazioni che confermano continuamente le sue idee. Non ci troviamo dunque affatto nell’età della disintermediazione, ma la figura del mediatore è diversa da quella del Novecento. Il “nuovo” mediatore è: • • • antigerarchico invisibile dotato di un potenziale di azione vastissimo In rete vi è senz’altro libertà di azione individuale ma è un ambiente non predisposto di per sé alla parità delle condizioni di partenza (es: chi è famoso viene ascoltato maggiormente). Il mediatore del futuro, trovandosi nell’ottica di parlare solo di ciò che conosce e nella misura in cui conosce, deve essere in grado di comunicare un 13 messaggio e di far sentire la sua voce, tenendo testa a un sistema che può erodere la democrazia delle istituzioni. Egli per farlo deve dotarsi degli strumenti giusti e delle nozioni per saperli usare al meglio. In particolare, egli deve dotarsi di alfabetizzazione new-mediatica e competenze digitali per muoversi attraverso vie sia orizzontali che verticali. v Il problema del pensiero occidentale Vi è un problema che riguarda il pensiero occidentale: divergenza tra l’affermarsi dell’esattezza e il tipo di comunicazione usato dagli intermediari. Esempio: uno scienziato che è un genio in quello che fa ma non sa cosa sia esattamente la scienza, permette un progresso della sua disciplina ma prende delle scelte e ha delle visioni (che poi comunica) che non sono indifferenti in quanto confondono il suo spettro di conoscenze con lo spettro di conoscenze umanistico-filosofiche. L’atto di produrre conoscenza non è un prodotto ma un atto di invenzione, basato su degli studi approfonditi e non casuali. Inventare non significa creare qualcosa di falso ma creare una struttura vera. La confusione tra cos’è la scienza e i risultati della scienza è grave: significa che l’uomo non ha capito cosa gli permette di conoscere. • Primo problema: paradigma tecnico-scientifico preso come dogma Il paradigma tecnico-scientifico non è un dogma ma un principio. Consideralo come un dogma porta a convincersi che alcuni risultati scientifici possano permettere di risalire a una struttura della realtà e di comprendere degli aspetti dell’uomo (esempio: credere che la felicità dipenda dai neuroni della ricompensa). Invece, i risultati di uno scienziato valgono solo all’interno della sua disciplina, che non può scoprire cos’è la coscienza umana in quanto quest’ultima viene prima ed è proprio ciò che permette di svolgere delle ricerche e degli studi scientifici. Per esempio, il paradigma del codice genetico è bloccato da qualche decennio in quanto non vi sono evoluzioni in questo senso; forse perché si sta riducendo l’uomo a una macchina formata da un codice alfanumerico. L’uomo non è un codice: non è possibile aver scoperto la molecola della felicità e lo scienziato che afferma il contrario, ossia di averla scoperta, non ha capito a livello culturale cos’è veramente l’esperienza di conoscenza umana e la capacità umana di conoscere attraverso la scienza. Se il paradigma-tecnico scientifico, che ha effetti incredibilmente potenti, attraverso l’intermediazione diventa un equivoco allora si giunge a false conclusioni circa la realtà (come l’affermazione circa il fatto che la felicità dipende dai neuroni della ricompensa). Lo scienziato si illude così di poter spiegare tutta la realtà con esattezza e certezza. Aristotele ritiene che vi sia perfetta corrispondenza tra struttura della realtà e struttura della mente umana (e quindi della conoscenza) in quanto la realtà è influenzata dalle categorie di colui che conosce. Tuttavia, non vi è una dimostrazione del fatto questo sia vero. Si tratta di una corrispondenza che è ritenuta totale dalla visione filosofica ma che non può essere considerata una cosa naturale. Infatti, la configurazione della realtà perde il riferimento dell’esperienza vivente e taglia fuori il lato conoscitivo che non può essere ricompreso in nessuna teoria sulla realtà. L’origine di questo ignoto è ignota a qualsiasi tendenza oggettivante. • Secondo problema: confusione tra cultura e conoscenza Il problema della confusione tra conoscenza e cultura porta ad ignorare il quadro di riferimento filosofico. Il relativismo filosofico non può essere assolutizzato. La filosofia è il susseguirsi di pensatori che impongono la loro visione confrontandosi con il pensiero precedente, salvando o demolendo la filosofia precedente. Essa non è “per tutti i gusti” come invece promuove la Feltrinelli. Infatti, affermarlo comporta il rovesciamento dell’intermediazione in quanto significa promuovere un prodotto culturale che va contro ai gusti, considerandolo quindi come prodotto di consumo. Invece, il prodotto culturale ha lo scopo di portare la conoscenza al maggior numero di persone possibile. Affermare che la filosofia è per tutti i gusti non permette di vederla come uno strumento di cultura che consente il progresso del pensiero, ma tale visione è invece frutto della cultura orizzontale e dell’idea derivante dal relativismo secondo cui se tutto è relativo allora tutte le idee dipendono dai gusti personali e hanno tutte il medesimo valore. 14 • Terzo problema: confusione tra causa ed effetto Per parlare di questo problema è utile riferirsi al tema dell’inclusione come principio di selezione sul lavoro. Secondo alcune politiche aziendali di recruitment, il processo di selezione del personale deve attrarre un’ampia fascia di candidati con diverse caratteristiche. L’azienda deve dunque fare attenzione alla composizione eterogenea della propria forza lavoro. Tuttavia, l’uomo deve poter avere accesso ad un determinato lavoro a prescindere da tutte le categorizzazioni (età, cultura ecc.), e solamente in base alle proprie competenze, alla propria bravura e alla propria meritevolezza. È vero che rimane importante la diversificazione e l’inclusione del personale, realizzabili mettendo tutti nella posizione di avere le stesse opportunità e rimuovendo gli ostacoli eventuali. Però, la politica di inclusione non deve essere adottata a priori per la selezione dei dipendenti. Questo perché, nonostante tale politica sia estremamente importante, un datore di lavoro non deve assumere solamente con l’intento di aumentare la diversity aziendale, ma deve farlo in base alla bravura e meritevolezza della persona. Se questo non avviene si verifica un sistema di esclusione, caratterizzato dall’assunzione a valle di una sola tipologia di dipendenti aventi determinate caratteristiche diverse tra loro che permettono l’eterogeneità. Ecco allora che l’inclusione come principio di selezione sul lavoro è un’assurdità. La politica di inclusione di per sé è giusta, ma essa non va applicata sul lavoro in quanto si rischia di selezionare il personale solo in base a caratteristiche prefissate e non in base alle sue competenze meritorie. • Quarto problema: confusione tra uguale valore di ogni persona e uguale valore di ogni idea L’inclusione di ciascun individuo non significa la non discriminazione delle sue convinzioni personali/idee. L’individuo ha una ricchezza che deriva dalla sua storia e dalla sua cultura; tale ricchezza è più grande della sua individuale vita biologica. È possibile conoscere la sensibilità e le emozioni di una persona. Quindi far coincidere la persona nella sua dignità con le idee che manifesta è una riduzione assurda. Discriminare le idee è inevitabile: una persona può sempre esprimere le proprie idee ma queste non vanno incluse se sono sbagliate. L’inclusione di tutte idee non ha senso e non significa discriminare una persona in quanto essa non è ridotta alle sue idee. Tutti hanno diritto di esprimere le proprie idee ma non tutte le idee vanno incluse. Confondere persone e idee comporta di ridurre la persona alle sue idee. Dunque, l’inclusione di tutte le idee è impraticabile: se due idee sono opposte almeno una delle due, se non tutte e due, è sbagliata. Cultura e creatività La creatività è l’elemento distintivo dell’uomo, che non si può racchiudere e definire in nessuna conoscenza. Walter Santagata, un pioniere dell’economia della cultura, ha affermato “La cultura è motore della creatività e la creatività a sua volta, è alla base dell’innovazione sociale ed economica”. L’eredità culturale di una collettività è ciò da cui nessuno può sottrarsi. Essa determina e stabilisce le mappe di riferimento della cultura in senso ampio (valori, convinzioni ecc.) che permettono a ciascun individuo di esprimere la propria creatività in una dimensione predefinita. La creatività appartiene a ciascun individuo in modo irriducibile e imprevedibile e porta ad un arricchimento culturale, sociale ed economico a livello di collettività. Ecco allora che la dimensione individuale e collettiva si intrecciano. Lo stimolo alla possibilità di creatività che ciascun uomo ha è fondamentale. La creatività però necessita di una delimitazione, ossia di regole che ne permettono lo sviluppo. EREDITA’ CULTURALE → CREATIVITA’ → ARRICCHIMENTO CULTURALE, SOCIALE ED ECONOMICO Pier Luigi Sacco, un economista della cultura, sostiene che “Il tema della creatività non interessa solo pochi esperti o artisti ma riguarda tutta la società: lo sviluppo economico infatti funziona, dal punto di vista della creatività, quando tutta la società che possiede un’apertura mentale, una curiosità verso il nuovo che diviene capacità di partecipare alle proposte di innovazione che nascono”. → La creatività viene solitamente associata all’esperto o all’artista ma in realtà riguarda tutta la società e tutti i campi del sapere e della pratica. A tale proposito si parla di creatività in senso lato, ossia capacità di innovare. Quando la società ha un’apertura mentale, data dalla sua cultura, allora è capace di dare un contributo alle 15 esperienze innovative e la creatività del singolo si sprigiona assieme allo sviluppo socioeconomico di tutto il paese. Vi è infatti una relazione tra partecipazione culturale e creatività nel senso di innovazione. Oggi, i paesi che riescono meglio a sfruttare la creatività e che quindi sono più innovativi sono quelli in cui è più elevata la partecipazione culturale, cioè dove il fatto di produrre cultura, ascoltare le storie degli altri, partecipare alle idee degli altri è parte dell’essere cittadini. Questo diventa un problema serio in un paese come l’Italia. Nel nostro paese fin dal rinascimento si è sviluppata la retorica. Tuttavia, essendo la cultura vista come un accumulo di risultati prodotti, la retorica non serve: la cultura andrebbe vissuta e reinterpretata, resa comprensibile nella sua essenza, continuata e modificata in base alle necessità attuali. A causa della concezione sbagliata di cultura e di creatività, in Italia vi sono altissimi livelli di analfabetismo funzionale, altissime quote di persone che non hanno accesso alle opportunità culturali (spesso giovani), soprattutto al Sud. La creatività permette alla cultura di vivere, senza di essa rischia di morire. Anche l’attività di intermediazione è una forma creativa in quanto permette di far emergere il significato. Per esempio, l’interazione tra tutte le tecnologie è interessante in quanto se si trovasse una chiave per fare in modo di far vivere il proprio passato glorioso in maniera coinvolgente e attualizzata, l’Italia a livello di consapevolezza di sé e di appeal verso l’estero potrebbe essere più informata e profondamente coinvolta. Le nuove tecnologie interattive sarebbero perfette per entrare in sinergia con il patrimonio culturale e valorizzarlo. Sacco ritiene anche che i paesi che oggi si stanno rivelando più competitivi siano soprattutto quelli dell’Estremo Oriente che stanno sviluppando strategie estremamente sofisticate ed efficaci per legare sviluppo e creatività. Questa è una vera e propria emergenza nazionale: anche la politica economica italiana dovrebbe sviluppare questo tipo di strategia al fine di assicurare all’economia e alle nuove generazioni una capacità di contare come paese di punta nello sviluppo economico del futuro. In Italia, dunque, poiché senza innovazione e rimanendo ancorati a un’idea di cultura nel senso di retaggio del passato (e quindi destinata a morire) emerge un problema di identità fittizia formata da pochi valori banali e senza vita. L’incontro è la chiave della ricchezza culturale italiana: i distretti culturali sono il potenziale italiano. Il mondo della creatività Santagata in “Libro bianco sulla creatività” sostiene che la creatività si esprime a due livelli: 1) livello oggettivo → attraverso i beni e nei servizi la cultura è incorporata in un processo logico, organizzativo o produttivo (struttura organizzativa di un distretto culturale, impresa di ricerca, impresa di venture capital) La cultura come dato acquisito a livello oggettivo diventa oggetto di creatività nel senso che si trovano dei modi attraverso cui il patrimonio culturale può essere disperso e sfruttato. La cultura è già data come assodata (patrimonio culturale) e la creatività si esercita sul patrimonio culturale, luogo con delimitazione territoriale specifica, e al suo interno si esercitano forze con sinergia di intenzioni e realizzazioni. 2) livello soggettivo → creatività come caratteristica umana e individuale L'atmosfera culturale influenza i processi creativi. Così, una dimensione socioculturale più libera, dinamica e interdisciplinare favorisce la produzione di creatività e l'emergere di talenti. L'aspetto soggettivo della creatività definisce quindi le strategie per mantenere costante e accrescere il tasso sociale di creatività per mezzo di: • • • • • Processi formativi accademici (es: Accademia delle Belle Arti) Processi di Learning by doing in contesti creativi (si scopre un talent provando ad applicarsi in qualcosa che attrae) Attrazione di talenti dai paesi esteri Riduzione dei costi di accesso alla cultura Applicazione dei diritti sulla proprietà intellettuale a tutela della creatività (se si vuole fare un mestiere creativo o un’opera di creatività intellettuale bisogna essere protetti e tutelati; la mancanza di questo disincentiva la creatività) Esistono anche visioni discordanti e controtendenza, come quella del professore Boldrin, economista ed ex politco italiano, che contesta il concetto del Copyright considerandolo un disincentivo alla sana competizione presente in un mercato libero. Secondo il professore, il Copyright creerebbe dei monopoli per cui non sarebbe data la 16 possibilità ad altri di sfruttare l’idea concreta dell’ideatore per farne un servizio migliore. Egli sostiene che vi sia una sovrastima del pericolo che un mancato riconoscimento di una paternità comporterebbe (≠ plagio). La possibilità di sfruttare un servizio per renderlo più utile e fruibile è ostacolata dal copyright. Egli considera che non sia possibile rubare il lavoro intellettuale perché rimane il vantaggio del first mover, di colui che ha creato per primo sul mercato un prodotto. Inoltre, ritiene che il fatto che esiste già un prodotto sul mercato creato dal first mover sia già di per sé un disincentivo. Ecco allora che si apre un grande dibattito: il timore della competizione è un problema culturale o è un giusto senso di tutela del proprio lavoro? Stili e modelli di produzione culturale di creatività Cultura e creatività si combinano in modi diversi a seconda delle condizioni storiche dei vari paesi, dando luogo a modelli in parte differenti. Infatti, in alcuni modelli prevalgono gli aspetti tecnologici e le innovazioni tecniche, in altri prevalgono gli aspetti economici relativi allo sviluppo di mercati, in altri ancora gli aspetti giuridici come l'applicazione del copyright e infine in altri gli aspetti culturali e la qualità sociale. Si possono individuare due modelli: 1) Creatività per l’innovazione → contraddistingue i paesi Nord-europei e Nord-americani ed ha lo scopo di offrire un prodotto o servizio innovativo e dirompente che porti un vantaggio economico anche in ambito culturale 2) Creatività per la qualità sociale → contraddistingue i paesi del Mediterraneo, africani, latino-americani e asiatici e non consiste solo in una questione di innovazione, ma anche in una serie di esternalità positive, ossia di effetti socio-culturali non direttamente legati all’operazione svolta; se la creatività che si concretizza in beni e servizi serve a migliorare il benessere dei cittadini, l’integrazione tra persone appartenenti a culture differenti e la qualità della vita allora le ricadute sono più profonde ed interessanti rispetto al mero ritorno economico L’Italia in questo campo si pone in una posizione intermedia in quanto essa è potenzialmente vincente in termini di sviluppo economico, reddito, esportazioni e posti di lavoro ma conferisce anche una profonda importanza alla cultura. Infatti, nel nostro paese vi è un proprio mito della cultura, che comprende la consapevolezza dell’importanza della storia. In America invece, per esempio, vi è un bisogno di ricerca delle proprie radici che fatica ad essere trovato. Questa rigidità è indice del fatto che vi è una debolezza nella concezione della creatività, vista maggiormente come innovazione volta al profitto. Ciò che manca nella civiltà americana è la visione di fondo retaggio di una dimensione culturale collettiva. In Italia invece vi è uno spettro di cultura e quindi conoscenza decisiva per creare connessioni tra elementi diversi. L’inarrestabile progresso delle industrie culturali e creative Santagata ravvisa un incremento esponenziale della domanda di contenuti culturali e creativi, dovuto essenzialmente a: • • • spinta propulsiva della new economy (information and communication technology) → ha aperto un mercato globale, in particolar modo nel settore audiovisivo, attraverso strumenti che permettono di diffondere elementi creativi a livello globale (es: netflix) incremento della ricchezza globale e dunque aumento del livello d’istruzione → ampliamento del target progressivo mutamento del mercato dei beni materiali → sempre più orientato ad una competizione che mira alla qualità dei prodotti invece che ai bassi costi di produzione In questo scenario il Made in Italy si trova in una posizione favorevole, in quanto il modello della creatività per la qualità sociale (2) innesca meccanismi simbolici e processi di identificazione che superano la mera logica costibenefici. L’Italia ha una forza simbolica incredibile all’estero in materia di arte, creatività e bellezza. Cultura e creatività per la qualità sociale nell’esperienza italiana Con qualità sociale si intende il grado con cui le persone partecipano alla vita sociale, economica e culturale comunitaria, nonché allo sviluppo del benessere e del potenziale sia collettivo che individuale. La cultura gioca 17 ovviamente un ruolo cruciale per il mantenimento o l’aumento della qualità sociale in termini di coesione della comunità e qualità delle relazioni umane. Misurare le politiche culturali, le iniziative promosse e la partecipazione culturale di un popolo in termini quantitativi (come faceva fino a poco fa l’UE) comporta un problema: i dati rilevati di fatto non forniscono informazioni interessanti. Ecco allora che risulta importante valutare questi temi concretamente e capire qualitativamente i risvolti positivi che essi hanno a livello di vita comunitaria. La creatività va vista come mezzo e non come fine: la creatività senza cultura è cieca. Nonostante l’innovazione passi attraverso la creazione di beni e servizi volti a migliorare la società, non bisogna creare al fine di innovare qualcosa. La creatività ha il potere di far progredire non solo l’economica, ma anche moltissimi altri aspetti della società. Sebbene la creatività costituisca un input fondamentale per la produzione culturale, essa non va intesa come un fine in sé. La creatività è il mezzo per perseguire obiettivi il cui valore è socialmente condiviso, sia in ambito culturale che tecnologico. Per esempio, con questa visione l’istruzione non è vista come la messa a disposizione di nozioni che servono per un obbiettivo ma come un modo per fornire strumenti la fine di capire la propria identità. Affinché diventi qualità sociale, la creatività deve coniugarsi con la storia culturale e la dimensione etica di una comunità. In Italia la creatività e le industrie culturali tipicamente conseguono maggior successo soprattutto negli spazi creativi delle città e dei suoi distretti produttivi e sistemi locali di impresa. La cultura come storia e territorio La città è stata e continua ad essere la cornice ideale entro cui si producono e distribuiscono socialmente beni culturali intangibili, flussi di informazione e di conoscenza. Oggi in particolare, le città sono incontri di culture dalla cui commistione possono originarsi nuova linfa ed energia innovativa. Grazie alla sua conformazione storicoculturale, l'Italia è molto ricca su molteplici livelli e sul suo territorio si incontrano una moltitudine di sinergie date dalle diverse specificità territoriali. I distretti culturali e industriali italiani producono tipicamente beni di artigianato e design fondati sulla cultura locale e sulla tradizione. Si creano interazioni tra le varie realtà che portano un prodotto o servizio ad essere altamente distintivo. Santagata sostiene che tra gli elementi ricorrenti figurano: • • • • • • • • produzione di beni in cui prevalgono significative componenti intangibili estetiche, di design e di decorazione forte coesione sociale che genera fiducia e cooperazione seppur in un contesto di concorrenza marcato senso di identità (→ anche se oggi gli italiani stanno perdendo un po’ di quel senso identitario) circolazione intensa e libera di informazioni sui mercati e sulle innovazioni tecnologiche sviluppo di esternalità positive mercato del lavoro locale caratterizzato da una vasta gamma di specializzazioni forte densità di micro e piccole imprese localizzate tendenza dell’artigianato a evolvere verso il design industriale (coniugazione di qualità e quantità) Il distretto culturale è realizzabile in Italia grazie anche alla sua conformazione territoriale e della popolazione. La qualità locale assume lo status di forza di media impresa per cui si esce dall’ambito della produzione artigianalefamigliare per raggiungere quello di impresa più grande. Santana inoltre enuncia quelle che per lui sono determinanti per l’espressione creativa di un territorio: • • • presenza di una comunità non conservatrice e in trasformazione sociale (luoghi di dinamismo sociale e intellettuale) concentrazione spaziale di conoscenze e attività creative (favorisce la realizzazione delle ambizioni individuali) rapporto tra le imprese caratterizzato da integrazioni sia orizzontali che verticali 18 Cultura e creatività La sempre maggiore attenzione alla qualità sociale chiama in causa la creatività e la cultura, che divengono risorse più che mai preziose. Santagata individua 4 classi di politiche culturali, due negative e due positive: 1) 2) 3) 4) politiche di distruzione di cultura (N) negligenza nei confronti dei beni culturali (N) politiche di conservazione (P) politiche di produzione di cultura (P) L’Italia paradossalmente si contraddistingue per elevati punteggi in ciascuna di queste categorie, avendo quindi il 50% di aspetti positivi e 50% di aspetti negativi, anche se rimangono dubbi e questioni contrastanti. In particolare, il nostro paese nelle politiche di conservazione risulta avere una performance soddisfacente mentre nelle politiche di produzione appare in ritardo su innovazione e qualità dei prodotti tecnologici. Il ritardo italiano dello sviluppo tecnologico impatta considerevolmente in quanto per produrre cultura servono strumenti tecnologici avanzati. Dunque, gli aspetti negativi potrebbero essere dovuti alla mancanza di tali strumenti. Inoltre, l’Italia ha un patrimonio talmente vasto e quasi incalcolabile che emerge anche il problema circa la capacità di una sua gestione. La conoscenza tecnologica e l’innovazione rappresentano anche una frontiera nelle industrie culturali in Italia. Infatti, un rilevante punto debole dell’industria culturale italiana è riscontrabile sul versante delle innovazioni tecnologiche (da considerarsi come le nuove risorse strategiche). In settori quali cinema, editoria, radio, tv, videogame ecc. le produzioni italiane faticano a trovare spazio nei mercati internazionali. Per quel che riguarda le industrie di computer, software e ICT, i mercati sono ormai dominati da società multinazionali estere. In realtà il ritardo italiano di conoscenza tecnologica (e non di concretizzazione in soluzioni tecnologiche) è stato smentito da Federico Faggin, imprenditore che ha inventato il primo microprocessore. In Italia vi sono strutture che permettono di lasciare esprimere i talenti ma il problema emerge dopo. Il problema non è di formazione e conoscenza ma di scelte politiche adottate e di investimenti. La creatività riguarda tutti e 3 i livelli di conoscenza, intermediazione e cultura. Essa è fruttifera nel momento in cui il gap tra conoscenza (A) e cultura (C) è piccolo. Infatti, minore è il gap tra saperi specialistici e nozioni condivise, maggiore è la possibilità di sviluppare nei singoli individui una fruttifera creatività interdisciplinare, capace di innovare la conoscenza e arricchire la cultura. Per interdisciplinare si intende una cultura che sa vedere connessioni tra elementi e discipline diverse. Secondo Santagata, i 12 settori produttivi che sfruttano la sinergia tra creatività e cultura possono essere raggruppati in 3 macroaree. Tale tripartizione ha una logica precisa ma è passibile di revisione in quanto possono cambiare i criteri che vengono adottati. A) Cultura materiale → espressione del territorio e delle comunità • Moda • Design industriale e artigianato • Industria del gusto B) Patrimonio storico e artistico → frutto delle generazioni passate e presenti • Patrimonio culturale (musei, monumenti, archivi, biblioteche) • Musica e spettacolo (arti performative) • Architettura • Arte contemporanea 19 N.B. La musica è in continua evoluzione e ha una tradizione antichissima per cui è in grado di veicolare messaggi molto più profondi rispetto agli spettacoli. Dunque, musica e spettacolo non dovrebbero essere messi sotto la stessa voce. C) Produzione di contenuti, informazioni e comunicazione • Patrimonio culturale • Musica e spettacolo • Architettura • Arte contemporanea Santagata spiega il motivo di tale tripartizione. Il settore della Moda e quello del Design industriale e artigianato si fondano su un'esperienza storica, su un’accumulazione di saperi attraverso diverse generazioni di creativi e su sistemi industriali distrettuali. Allo stesso modo l'Industria del gusto è fortemente legata al territorio e alla sua storia. I settori del patrimonio storico e artistico invece interessano attività e beni centrali per la produzione ed espressione di cultura. Va tuttavia rilevato che tali attività di produzione spesso non sono di natura industriale. Questo patrimonio culturale rappresenta la vetrina della cultura italiana e può avere un notevole impatto per le attività economiche ad esso connesse in particolare il turismo culturale. Infine, la terza macro-categoria riguarda tutti quei settori che si inseriscono nell’ambito della produzione di contenuti, informazioni e comunicazione. Tale distinzione va vista in modo critico: bisogna sempre avere uno sguardo interdisciplinare circa la definizione di cultura e indirizzare le scelte sulla base di un ragionamento attento e profondo. La categorizzazione attuata influenza poi le decisioni politiche e culturali che si vanno ad adottare. Identificazione della catena di valore della creatività nel processo produttivo di ogni settore Le seguenti fasi rappresentano i momenti centrali della generazione del valore di un prodotto: • • • Concezione → caratterizzata dall’ideazione dei prodotti e quindi dalla loro tutela in termini di proprietà intellettuale Produzione → consente di trasformare in beni e servizi commerciali un dato prodotto creativo/oggetto culturale Distribuzione → la rete che permette la diffusione di tali beni e servizi, tramite canali tradizionali e/o di nuova generazione L’arte contemporanea L’arte contemporanea appartiene alla macroarea del patrimonio storico e artistico individuata da Santagata nel suo schema. Inoltre, è indicativa del fatto che esiste una dicotomia nella concezione passata e presente di cultura. Mettere a confronto arte rinascimentale e arte contemporanea permette di sottolineare la trasformazione dell’arte nel tempo a seguito dell’evoluzione della conoscenza e del rapporto con la cultura. Il Rinascimento è caratterizzato dall’arte figurativa, che è mimesi della natura, mentre il processo evolutivo contemporaneo mostra come si passi sempre di più ad un’arte concettuale caratterizzata dall’uso esasperato dei colori e delle geometrie, che consentono di arrivare ad un’arte sempre più astratta. Tutta l’interiorità della persona diventa oggetto di tale esperimento artistico e conoscitivo. Sorge dunque l’emblema di tenere unite le due anime della conoscenza occidentale, ossia realtà esterna e realtà interiore. Infatti, con l’arte contemporanea l’obbiettivo non è più quello di cogliere la realtà e rappresentarla così com’è, ma di dare voce alla propria interiorità attraverso differenti modalità espressive. L’astrazione, il concetto e l’approfondimento della definizione di arte diventano sempre più preponderanti. Così il commento dell’artista risulta decisivo per la comprensione della sua stessa opera. • Urlo di Munch (1893) → rappresentando il soggetto al centro viene meno l’esigenza di rappresentare la realtà esterna ma sorge quella di mostrare la propria interiorità attraverso la trasfigurazione della natura. La rappresentazione della natura diventa occasione di rappresentazione di un sentimento o di una condizione 20 • • esistenziale che l’artista sta vivendo. A livello visivo non si tratta di un discorso di mimesi, ma di capacità di esprimere la propria interiorità attraverso l’arte. Fuga di Kandinskij (1914) → mondo dell’arte e mondo della natura vengono separati e lo spettatore ha un ruolo decisivo in quanto deve capire il senso profondo dell’opera e l’essenza dell’arte. Inoltre, lo spettatore dovrebbe sfruttare l’opera d’arte per cercare la vita interiore. Infatti, tramite la rappresentazione separata dalla natura, dovrebbe cogliere qualcosa di più profondo che non è raffigurabile ma che l’arte può far intuire. Vi è una spersonalizzazione del messaggio: l’artista non trasmette un’esperienza da comunicare ma lo spettatore deve cogliere la vita interiore rappresenta. È dunque fondamentale il coinvolgimento dello spettatore, che non è passivo ma è il destinatario dell’opera. L’arte diventa un modo per creare uno strumento e un’occasione che permette all’osservatore di capire un messaggio profondo e proiettarlo nella propria contemporaneità e nella propria vita. Composizione n°10 di Mondrian (1915) → il titolo diventa decisivo per dare senso a quanto viene rappresentato. Se Munch rappresenta la soggettività che ha bisogno di esprimersi e cerca un contatto empatico con l’esterno ma ha come esigenza imminente di esprimere sé stesso, invece Mondrian utilizza la natura come fonte di ispirazione. La natura è dunque un mero stimolo che serve per creare opere astratte in grado di far emergere uno stato emozionale nello spettatore, che lo spinge verso la ricerca di verità e il raggiungimento delle fondamenta delle cose. Successivamente però sparisce anche l’orizzonte umano: si cerca qualcosa di cui non si ha traccia nemmeno nella natura. Ecco allora che diviene centrale la somma coscienza. Apoteosi della riduzione logocentrica del profondo dell’essere umano, che però non ha più nulla di umano, nemmeno nella rappresentazione. Marcel Duchamp porta all’apice il processo di astrazione, rivoluzionando il concetto e il senso di arte. L’atto creativo non è realizzato solo dall’artista, ma lo spettatore aggiunge il proprio contributo. Si tratta di un’anticipazione dell’opera aperta: lo spettatore è co-creatore del significato dell’opera. L’opera non ha un significato in sé ma il significato scaturisce a monte dall’intenzionalità dell’artista e a valle dall’interpretazione dei fruitori. L’atto creativo allora riguarda entrambi i soggetti che contribuiscono a dare un senso all’opera. Il contributo fondamentale all’atto creativo non è l’opera finita ma chi vi sta dietro, artista e interprete. L’opera non è il manufatto ma il processo simbolico di interiorizzazione. • • Fontana (1917) → l’orinatoio di Duchamp rappresenta l’apoteosi del relativismo: l’oggetto cambia di significato se portato in un luogo diverse e se viene posto in una posizione diversa. L’oggetto si trasfigura nel senso che ha una funzione diversa data dalla sua diversa collocazione e dal fatto di non essere un prodotto dell’attività dell’artista ma il risultato di un’operazione concettuale che consiste nel prendere un oggetto e dotarlo di un nuovo significato (ready-made) per fare in modo che diventi oggetto di discussione, analisi e stimolo per le varie interpretazioni. Vi è una rivoluzione totale che riguarda la risposta alla domanda su cosa sia l’arte. L’opera d’arte è teatro di un processo di simbolizzazione, ossia di dotazione di un significato ad un oggetto che in quanto tale è insignificante ma che diventa opera se messo in un determinato contesto (es: museo) che richiede implicitamente un’interpretazione in chiave artistica e non necessita di un’azione fisica ma può essere frutto di un’azione prettamente intellettuale. L.H.O.O.Q. (1919) → mettendo i baffi alla gioconda Duchamp rivoluziona il significato dell’opera: crea un’opera diversa provocatoria che chiama in causa lo spettatore La rivoluzione enorme che porta a compimento Duchamp riguarda la rottura con l’arte figurativa premoderna, che veicola una forma di intermediazione tra conoscenza e cultura. Tale tipologia di arte ha come idea di base la mimesi: si scopre come è fatta la realtà in quanto vi è una corrispondenza tra organizzazione esterna del mondo e modo con cui la mente umana vede tale mondo. Dunque, da un lato vi sono degli elementi esterni (= enti reali) e dall’altro le rappresentazioni mimetiche di tali elementi. Elementi esterni e rappresentazioni trovano una corrispondenza per cui vi è un’identica struttura tra esterno e interno. Le rappresentazioni mimetiche dell’uomo consentono anche di scoprire nuovi enti reali (es: attraverso microscopio si scopre l’atomo). Con l’arte concettuale si assiste ad un salto epocale circa il rapporto tra realtà ed esterno/interno e il rapporto tra capacità di conoscenza della realtà e rappresentazione della mente umana. In particolare, viene a mancare la parte legata alla realtà esterna. Lo strumento del linguaggio permette di dare forma a una realtà che di per sé non ha consistenza; è dunque estremamente importante il linguaggio simbolico in quanto esso racchiude tutto ciò che non ha consistenza. Duchamp incarna la visione del relativismo filosofico che però può sfociare nel nichilismo: 21 nulla esiste in quanto è tutto una creazione del linguaggio umano e prevale solo chi ha maggiori capacità di imporre le proprie idee con la forza retorica e di persuasione. La realtà appartiene al linguaggio umano e viceversa. La realtà è infatti anche l’essere umano: non è qualcosa che sta al di fuori ma riguarda, oltre agli aspetti naturali, anche gli aspetti concettuali propri dell’uomo. Questo rovesciamento è al passo con i tempi e riguarda una rivoluzione epocale. L’arte si chiama contemporanea da più di 100 anni in quanto è un concetto accettato a livello culturale da molto tempo e per questo viene meno la sua evoluzione. Se tutta è rappresentazione simbolica, la bolla autoreferenziale ha ragione in sé stessa ed è infalsificabile, nulla può smentirla. La visione di Duchamp si è diffusa a livello culturale (es: Andy Warhol con la Pop Art). Arthur Danto, critico d’arte e professore estetica, ha iniziato a ragionare su questi meccanismi e ha cercato di limitare il proliferare infinito di interpretazioni. Egli disse: “L’opera definita tramite una data interpretazione deve essere compatibile con l’epoca dell’artista, in termini di concetti disponibili”. Ritiene dunque che interpretare con gli occhi del proprio tempo un’opera d’arte di un altro periodo storico non consente di cogliere il messaggio che voleva veicolare l’artista: bisogna storicizzare e capire il significato che quest’ultimo voleva trasmettere nel suo tempo. Altrimenti a qualsiasi opera potrebbe essere attribuito qualsiasi significato. Biosgna dunque distaccarsi dal criterio ancorato meramente all’associazione del periodo storico dell’opera. Danto espone una serie di esempi che permettono di reagire in maniera lucida al proliferare delle interpretazioni. La pop art è la celebrazione dell’indistinzione tra sacro-profano, commerciale-culturale e serio-faceto che ha attinenza con quanto diceva Bauman sulla società liquida. Negli anni 1950-1960 diventarono di moda e molto diffuse negli USA delle pagliette d’acciaio che servivano per pulire le stoviglie. L’inventore di tale oggetto era un astrattista un po' fallito che decise di lanciarsi nel mondo dell’advertising che stava spopolando in America per fare successo. Con un gioco di colori molto studiato contribuì al lancio del prodotto “Brillo” che ebbe un enorme successo e divenne distintivo di un periodo per tutti gli americani. Andy Warhol, figura predominante della Pop Art, si inserì sulla scia del pensiero di Duchamp. Egli decise di ricostruire l’estetica del prodotto di uso comune commerciale “Brillo” dipingendo delle scatolette di legno e ponendole a piramide una sopra l’altra. Ponendo la sua realizzazione in un museo, la decontestualizzò e la fece divenire una vera e propria opera d’arte chiamata “Brillo Boxes” (1964). Egli celebrò l’opera anche in chiave consumistica: dopo 5 anni dalla realizzazione essa valeva 1000$ e nel 2010 valeva 3 milioni di dollari. Nell’opera Brillo Boxes, l’oggetto non ha nulla a che vedere con la capacità tecnica di dipingere o con un talento creativo manuale, ma riguarda un talento creativo intellettuale e concettuale che è stato capace di trasformare un oggetto di uso comune, decontestualizzarlo e attribuirgli un nuovo significato che non può essere veicolato se non attraverso un nuovo contesto artistico/museale. Il luogo stesso conferisce lo status di opera d’arte a ciò che viene rappresentato in quel luogo. Quindi, l’opera d’arte non ha nulla a che fare con l’oggetto (in questo caso la scatoletta di lamette d’acciaio non ha nulla a che fare con l’opera che è stata poi realizzata da Wharol. L’oggetto assume un valore di opera d’arte ma anche economico solo se posto all’interno di un apposito luogo. La ricaduta a livello economico (aumento del prezzo) è da attribuirsi alla fama acquisita dell’oggetto collocata in un luogo di esibizione. Mike Bidlo, un artista concettuale americano, realizzò l’opera “Not Warhol” per la celebrazione del cinquantennio di Warhol. Egli utilizza una serie di Brillo boxes identiche a quelle di Warhol ma le colloca in un tempo e in uno spazio diverso. Il significato risulta allora profondamente diverso, nonostante gli oggetti usati per la realizzazione siano simili. Infatti, non è l’oggetto a fare l’arte ma il messaggio divulgato 22 che dipende dalla collocazione spaziale e temporale diversa. Ecco allora che l’opera di Bidlo è un’opera autonoma e dunque l’artista va riconosciuto per la sua operazione intellettuale. Nonostante le due opere siano simili, risultano diverse in termini concettuali di significato. Piero Manzoni realizza un’opera chiamata “Merda d’artista”, che rappresenta una provocazione e una critica fatta dall’interno rispetto a quel trend artistico affermatosi a seguito di Duchamp. Il titolo incorporato all’interno del supporto fisico indirizza bene all’intento dell’artista che è quello far capire che non è l’opera d’arte che fa l’artista ma l’arte è tale perché prodotta da un artista. Infatti, se l’opera è concettuale e non dispone di un criterio contenutistico ancorato alla storia dell’arte, ecco allora che l’artista può rendere arte tutto ciò che produce, persino i suoi escrementi. Manzoni sta cercando di far capire che nel momento in cui l’artista viene riconosciuto dal pubblico, tutto ciò che fa va considerato opera d’arte. Tuttavia, questo porta all’eliminazione di un criterio di valutazione indipendente e rimane solamente la capacità di una persona di affermarsi. Per cui, anche se quest’ultimo genera qualcosa che ha poco valore, se riesce ad affermarsi acquista notorietà. Con la sua opera Manzoni voleva denunciare il trend iniziato da Duchamp, ma la cosa buffa è che in realtà egli si inserisce a pieno come parte integrante di tale meccanismo. Allora la sua opera è considerata un divertissement più che una critica a livello culturale. Anish Kapoor realizza l’opera “Cloud Gate”, composta da una superficie riflettente enorme la cui caratteristica è quella di concretizzare il paradigma concettuale dell’arte tale per cui il ruolo dello spettatore è decisivo come co-creatore dell’opera. Infatti, a seconda dei cambiamenti atmosferici e della posizione dell’osservatore, l’opera cambia e riflette l’ambiente circostante in modo diverso. Dunque, il paradigma dell’arte concettuale è incorporato proprio all’interno dell’opera. Inoltre, il titolo dell’opera instrada alla comprensione del gioco di riflessi in quanto si riferisce alla presenza di un agente atmosferico (“cloud”). Nel 1995 Robert Rauschenberg realizza “White Paintings”, un’opera costituita da pannelli dipinti di bianco e che si modifica per mezzo delle ombre degli spettatori. Si tratta di un’opera nuda senza identità che però diventa tale per mezzo dello spettatore. Anche in questo caso viene concretizzato il paradigma concettuale in arte: l’opera è in costante mutamento a seconda dello spettatore che la osserva. Senza spettatore, dunque, l’opera non può essere considerata tale. L’operazione di Duchamp pone in luce la natura dell’arte come trasfigurazione simbolica. Infatti, l’arte readymade punta l’attenzione sul fatto che gli oggetti di per sé non hanno significato e per questo necessitano di uno spirito che glielo conferisca. Il significato non appartiene all’oggetto se non all’interno di una comunità di interpreti, che con il loro giudizio e la loro emotività danno significato alle opere. La funzione dell’arte è quella di essere configurazione nuova rispetto ad uno status quo in quanto fornisce una chiave di lettura originale rispetto al conosciuto e al vissuto, che riesce a fermare su un supporto stabile ciò che l’artista voleva comunicare. Arte come specchio della realtà. Tuttavia, tutti gli strumenti di configurazione creati dall’uomo non sono mero specchio della realtà ma una chiave di lettura nuova con la quale vedere il mondo. Quindi l’operazione di Duchamp è molto innovativa e profonda in quanto mostra come vi sia questo meccanismo da tenere sempre presente rispetto all’arte: le opere non hanno un valore intrinseco ma un valore che deriva dal processo culturale e dall’interpretazione. Se però l’uomo ritiene che tutte le interpretazioni siano valide e che tutto il mondo sia simbolico nel senso di gioco linguistico allora si entra nella impasse filosofica e nell’assenza del criterio interpretativo. Si entra allora in una dimensione tale per cui nel proprio quadro di riferimento una cosa vale l’altra e quindi vi è assenza di una via d’uscita. Questo blocca le discipline che dunque tendono inevitabilmente ad arrestarsi. Non vi è quindi più ancoraggio con il passato e con la storia evolutiva della tradizione cui una comunità appartiene. Questo porta l’uomo ad essere un elemento bloccato nello spazio. Se manca il criterio di definizione dell’opera d’arte tutto gioca sulla capacità dell’artista di affermare sé stesso. In sintesi, con Duchamp si assiste all’esplicitazione dell’arte come trasfigurazione simbolica (arte concettuale). L’arte liberatasi dal dover avere un senso si scopre però senza scopo e finisce prigioniera di un’impasse filosofica, che consiste nell’assenza di un criterio di definizione. Così, l’arte diventa identicamente “contemporanea” e smarrisce l’orizzonte della sua evoluzione. 23 Effetti della concettualizzazione dell’arte • L’artista come marchio per prodotti in serie Per affermarsi, un artista tende a realizzare delle opere che rompono uno schema. La creatività per esplodere in originalità culturale deve avere come scopo quello di riproporre qualcosa di alternativo. Le opere inoltre devono assomigliarsi proprio per far emergere il più possibile la visibilità dell’artista. Dunque, solo creando serialità egli riesce a farsi riconoscere. Il testo del 2009 di Sacco e Vettese enuncia che “La visibilità sociale degli artisti comincia a fare concorrenza a quella delle rockstar. Ma la differenza sta, o meglio stava, nel fatto che mentre la musica rock è parte della cosiddetta industria culturale - vale a dire, un settore produttivo nel quale il prodotto in vendita è fatto per essere riprodotto in tirature illimitate, la cui effettiva entità dipende soltanto da quella della domanda - l'arte contemporanea è invece (o forse dovremmo cominciare a dire era) parte del core, cioè del nucleo della produzione culturale, che si organizza con modalità che non hanno a che fare con l’industria ma semmai con la piccola bottega artigiana. Evidentemente, però, non è più così: anche gli artisti, a loro modo, stanno cominciando a produrre in serie. [...] E anche qui si trova in fondo un'analogia con le rockstar che ormai scrivono libri, firmano profumi e vestiti, o aprono bar e ristoranti: pratiche ormai sempre più diffuse tra gli stessi artisti, come nel caso di Damien Hirst”. Damien Hirst realizza una serie di opere simili tra loro nelle quali pone degli animali dentro a delle teche al fine di provocare lo spettatore attraverso un argomento sensibile. Con questa provocazione egli riesce a raggiungere la notorietà. Con le sue opere l’artista si pone al centro; infatti esse sono emanazione della sua volontà di affermarsi. • Autoreferenzialità e retoriche del consenso (It’s art if we say so) Pierluigi Panza, scritto, giornalista e critico dell’arte italiano, scrive: “II conferimento di valore si ottiene attraverso la capacità dell’iperinformazione di spettacolarizzare un oggetto, un’opera, addirittura un individuo. [...] Gli uffici di comunicazione, le logiche di marketing diventano il campo di esercizio e affermazione della "volontà d'arte" in un orizzonte post-critico, dove il giornalista-cronista tiene il registro dei fatti artistici più o meno imposti. A tutto ciò corrisponde l’organizzazione per eventi delle grandi esperienze internazionali (...le 120 Biennali presenti nel mondo) come luoghi deputati alla costruzione del consenso intorno alle proposte d’arte. Oltre al politicamente corretto (ossequiato o appositamente infranto per provocare scandalo ed eco mediatica; ndr), i sistemi di costruzione del consenso sono compresi entro le nuove forme retoriche del multiculturalismo (per es., identità diventa valore solo se proposta dalle minoranze), con conseguente perdita di territorialità dell'arte e [...] valorizzazione di ciò che è immateriale”. → La capacità di un’opera o addirittura di un artista di emergere e di assumere valore è data dal fenomeno dell’iperinformazione: attraverso la comunicazione e in particolare la macchina mass e new mediatica, l’artista può mostrare sé stesso ed affermarsi. Vi è dietro un discorso di autoreferenzialità tale per cui l’artista si basa esclusivamente su sé stesso e sui propri desideri, non curandosi dei rapporti con altre realtà. Questo è ben visibile nell’opera di Maurizio Cattelan nella quale egli stesso viene rappresentato. Inoltre, le grandi esperienze internazionali sono i luoghi adibiti alla costruzione del consenso intorno alle proposte d’arte in quanto consentono agli artisti di ottenere visibilità a livello internazionale. Ecco allora che assume importanza esclusivamente l’abilità a farsi riconoscere optando per l’utilizzo di temi sensibili o scottanti che creino un eco mediatico. Tale riconoscimento è tanto più ampio quanto più è ampia la creatività dell’artista, che a volte diventa persino spericolata (es: creare un’opera di plastica per sensibilizzare sul tema dell’uso eccessivo della plastica). Alla luce di ciò, l’opera d’arte è frutto di un’esigenza e non di un intento culturale preciso. • Potere finanziario, capitale di visibilità e omologazione Panza aggiunge: “Negli ultimi decenni, l'arte è entrata nell'epoca della sua riproducibilità finanziaria [ed] è diventata come un future (una scommessa sul futuro) e un gioco di segni senza referenza. [...] Gli artisti sono consapevoli della connessione tra mondo finanziario e della comunicazione; pertanto, sono impegnati a creare network di rapporti sociali qualificati per creare valore finanziario sulla propria opera (conditio sine qua non 24 della messa in gioco dell'opera stessa). (...] Per conseguire un'adeguata comunicazione pubblica che consenta di acquisire un potere di visibilità, è fondamentale vetrinizzarsi e spettacolarizzarsi. [...] Oggi, per un artista, è più importante mettersi in scena che produrre opere. L'acquisizione di capitale di visibilità avviene attraverso dei mediatori (critici, giornalisti, curatori, biografi), che svolgono operazioni di scouting e costruzione della reputazione all’interno del sistema finanziario attraverso creazione di eventi, campagne stampa, sostegno pubblicitario, inserimento nel circuito di rassegne internazionali. Relativismo e pragmatismo hanno spalancato le porte all'avvento di questa situazione. L'assenza di corrispondenza con la realtà degli enunciati diventa adeguamento dei discorsi al discorso finanziariamente meglio sostenuto e che ha la migliore possibilità di esercizio. Il discorso dominante diventa logica di un sistema che, attraverso la forza finanziaria, sostiene i media che costruiscono un capitale di visibilità intorno a ciò di cui (si finge di) discutere. [Ciò causa] la ripetitività dell'azione concettuale, sempre più spesso identica a sé stessa o ad una precedente. In più, rinunciando ad una valutazione autonoma, il critico si disintegra come attore marginale.” → I “segni senza referenza” si riferiscono all’universo di parole e concetti che si rimandano a vicenda senza arrivare ad una prova concreta con la realtà esterna. Vi è una connessione tra mondo dell’arte, mondo della comunicazione e mondo finanziario. Gli artisti devono allora creare una connessione di rapporti sociali che permettano di creare un valore finanziario alle opere. La comunicazione pubblica è efficiente se l’artista è capace di spettacolarizzarsi e mettersi in scena. Questo diventa addirittura più importante che produrre delle opere. L’artista assume visibilità grazie ai mediatori che svolgono l’attività di ricerca e costruzione della reputazione proprio all’interno di un sistema finanziario. Essi scelgono gli artisti che hanno più probabilità di essere finanziati in base alla proposta che fanno. I finanziamenti avvengono sulla base dei messaggi che devono essere veicolati dall’opera. È proprio questa forza finanziaria che sostiene i media in grado di costruire il capitale di visibilità. Questo porta inevitabilmente alla costante ripetizione dell’azione concettuale in quanto l’artista deve creare qualcosa che gli dia notorietà e quindi in linea con l’interesse e il pensiero dominante. Questa ripetizione però è sempre più spesso identica a sé stessa o a una precedente. Damien Hirst realizza un’opera chiamata “La vergine madre” (2005), per la quale si ispira alle Ballerine di Degas. L’enorme scultura gioca rappresenta una bambina di 14 anni incinta. Essa gioca con temi molto in voga al tempo: maternità, apertura androgina e robotica, transumanesimo, violenza sulle donne ecc. Moltissimi temi messi insieme che suscitano un certo interesse ma che sono privi di un focus preciso in quanto l’intento è quello di parlare al senso comune e creare un interesse e un’attrazione, senza prendere una posizione articolarla. La bambina è raffigurata incinta ma non dovrebbe essere incinta. Però, nonostante questo sia scabroso è la natura che lo consente. Se il corpo è in grado di dare vita ecco allora che l’età alla quale avere figli risulta un problema culturale. L’intento di Hirst è quello di creare provocazione ma egli non si schiera a favore di nessuna risposta circa questo quesito. Anche il titolo confonde ma permette di conferire l’idea di provocazione. Maurizio Cattelan realizza un’opera chiamata “L.O.V.E” (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità) in Piazza Affari a Milano. La statua rappresenta la finanza che fa il dito medio ai cittadini. L’artista si inserisce all’interno della contestazione dei cittadini alla finanza. Operazioni in cui l’artista ha carta bianca per interpretare le sue opere come meglio credere per diffondere dei messaggi. Cattelan stesso ha detto: "Credo che ogni opera assuma un significato diverso a seconda del tempo di cui diventa simbolo. Devo confessare che nel 2010 non mi sarei mai aspettato di riuscire con una sola immagine a predire il futuro politico del Bel Paese: che avremmo visto i fascisti e i promotori del V-day uniti per il governo della nazione non era nemmeno annoverabile nelle mie fantasie più perverse. È la dimostrazione che l'arte va al di là del pensiero dell'artista. Spero che arrivi presto il giorno in cui altri monumenti ci rappresenteranno meglio di quello.” Ivan Tresoldi poi ha dipinto l’unghia del dito di rosa. Questo atto illegale contribuisce alle lotte femministe e all’atto di denuncia per la violenza contro le donne. Anche qui vi è l’ombra di Duchamp (cfr. baffetti dipinti sulla Gioconda). Duchamp è l’innovatore di questo tipo di espressione, infatti, la riproposizione del secolo dopo da parte di Tresoldi è difficilmente riconducibile a un pensiero originale. Si tratta comunque di un discorso di autopromozione. 25 La tendenza all’omologazione è legata al meccanismo che tende contorcere la creatività in quanto impone una strategia personal branding. Fenomeno della taylorizzazione dell’arte Santagata parla di fenomeno di Taylorizzazione dell’arte: “L'arte contemporanea, regno incontrastato del pensiero creativo e di tutte le sue complesse e sfuggenti modalità di manifestazione, sembra al contrario muoversi quasi verso un modello tayloristico della catena di montaggio, in una lotta perpetua con le scadenze pressanti di una programmazione artistica sempre più fitta e geograficamente pervasiva. È vero che molti degli artisti di maggior successo - e soprattutto quelli che per realizzare le loro opere hanno bisogno di processi produttivi che coinvolgono un alto numero di competenze interdisciplinari - dispongono ormai di squadre di collaboratori organizzate come piccole o persino medio- piccole imprese, ma bisogna comunque riconoscere che siamo di fronte ad un profondo cambiamento nelle modalità di produzione dell’arte contemporanea e forse del senso stesso del fare artistico”. Il contesto circostante influenza la professione dell’artista e il modo di fare arte, tanto che l’arte contemporanea si sta muovendo sempre di più verso un modello tayloristico della catena di montaggio. Le cause principali del fenomeno della produzione in serie sono: • • Richieste continue di produzione artistica provenienti da una varietà di ambienti sia tradizionali (musei, gallerie, fondazioni, fiere, collezioni private, case editrici) che nuovi (azienda, istituzioni pubbliche, ospedali, università, parchi scientifici) Nuovo mercato di consumatori (paesi emergenti come quelli arabi o dell’estremo oriente, dove l’arte contemporanea diventa status symbol legato alla possibilità di accesso ad un consumo e alla ridefinizione di un’identità sociale) Se l’opera d’arte e la cultura diventano simbolo non di una storia culturale ma di uno status, si crea un cortocircuito ambiguo: si assiste ad una ridefinizione di identità sociale tramite le opere. In questa ottica, arte e cultura non simboleggiano qualcosa che ha a che fare con l’opera ma con lo status sociale di una determinata realtà. Se non si conosce l’opera e non vi è una connessione tra culture, l’opera d’arte diventa solo merce. Si perde tutta la carica di significati artistici e culturali da parte di chi entra in contatto con queste opere. Occorre perciò ricordarsi che la cultura non è mai una cosa. Lo scenario italiano dell’arte contemporanea Per quanto riguarda lo scenario italiano dell’arte contemporanea, ad oggi abbiamo una situazione in cui pochissimi artisti affermatisi attraggono tanti acquirenti a discapito degli altri. L’affermazione di questa tendenza si chiama effetto Matteo per indicare come “i vincitori prendono tutto”. Lo status della scena italiana è bivalente: • • Artisti affermatisi negli anni 60’ e 70’ appartenenti all’arte povera e alla transavanguardia sono ancora quotati Artisti attuali poco presenti sulla scena internazionale, a parte qualche personalità isolate Le opere d’arte che hanno più valore sul mercato sono quelle create da artisti degli anni 60’ e 70’, mentre gli artisti attuali sono personalità isolate che sono riuscite sporadicamente ad entrare nei meccanismi necessari per ottenere visibilità. Mentre in un mondo come quello accademico-scientifico un simile fenomeno è comprensibile e sensato in quanto l’auctoritas dello studioso affermato ha giustamente un certo peso, nel settore dell’arte contemporanea esso si pone come anomalia paradossale, tipicamente italiana. Ciò deriva dal netto ridimensionamento della realtà artistica italiana sul mercato internazionale. Vi è un pregiudizio nei confronti dell’arte contemporanea italiana: si confronta lo straordinario passato italiano con il presente e questo rende la produzione attuale di scarso valore. Questo pregiudizio, quindi, svilisce la concezione dell’arte presente. Il mito dello straordinario patrimonio culturale e artistico italiano però va visto più da vicino al fine di comprenderlo al meglio. 26 In particolare, Santagata individua le debolezze strutturali del settore culturale in Italia: • Collezionismo privato In Italia, il collezionismo privato è presente ma anche segnato da una marcata frammentazione. Una possibile lettura di questo fenomeno viene fornita da Max Weber, un sociologo tedesco, che sottolinea la visione diversa di cultura nei paesi anglosassoni di impronta protestante rispetto a quella presente nei paesi europei di impronta cattolica (quindi anche l’Italia). Questa differenziazione ha delle ripercussioni nel modo di concepire il denaro. Infatti, secondo l’ottica protestante una persona che si arricchisce può farlo in quanto benedetto da Dio, che considera tale persona dotata e in gamba. Dunque, chi ha questo privilegio sente il bisogno di ricambiare il dono ricevuto attraverso delle azioni all’interno della società (come opere di filantropia). Invece, la morale cattolica vede nel denaro lo sterco del demonio, quindi chi lo possiede non deve esporlo e farne un vanto. Da questo consegue che in Italia non esistono molte figure di personaggi abbienti che mettono a disposizione i propri averi alla società. • Committenza e collezionismo pubblico o aziendale Gli enti pubblici e le realtà aziendali non finanziano/sponsorizzano molto l’arte contemporanea in quanto preferiscono altre forme di espressioni culturali. L’arte contemporanea, infatti, non è considerata come un investimento che verrebbe percepito in chiave positiva dai cittadini e questo porta a non sfruttare una possibile fonte di potenziamento della struttura del settore culturale. La cultura influenza scelte che possono essere negative per lo sviluppo di un settore culturale. Esistono alcuni programmi di collezionismo aziendale ma l’incapacità di valutazione competente inficia il successo di queste strategie sul lungo periodo. • Legge del 2% La legge del 2% (oggi 3%) è un tentativo di legare la ristrutturazione di un’opera pubblica con la promozione di qualche forma di arte contemporanea: consente di destinare fino al 3% dei costi di costruzione o di ristrutturazione di un’opera pubblica alla committenza di un’opera d’arte da installare all’interno dell’edificio in questione. Nonostante questo vantaggio protezionale, l’incentivo non è stato sfruttato. Inoltre, la modifica legislativa del 2012 ha limitato l’applicabilità ai soli progetti di importo pari o superiore a 1 milione di euro. Il problema di fondo è la concezione e la dignità dell’arte contemporanea nella mentalità italiana. • Scarsa promozione all’estero dell’arte italiana Le poche mostre organizzate nelle grandi capitali del mondo rivelano la grave inadeguatezza dei promotori culturali italiani e degli istituti di cultura (scelta di location poco adatte, mancanza di intermediazione tra artista ospite e realtà locale). Tali enti hanno lo scopo di fungere da mediatori tra realtà straniera e artisti nazionali che vogliono promuovere le proprie opere in questi paesi esteri. Infatti, se vi è un aiuto esterno per comprendere chi sono gli interlocutori, l’esperienza di un artista può essere preziosa per la sua formazione. Ecco allora che l’inadeguatezza di questi enti va evidentemente a danno degli artisti emergenti, che non trovano strutture di sostegno in terra straniera. Tutte queste debolezze hanno l’effetto di NON aiutare l’Italia a creare una base di domanda necessaria a facilitare: - crescita di gallerie competitive internazionalmente attrazione di artisti stranieri di fama lancio o possibilità di carriera di artisti italiani, costretti ad espatriare per cercare di affermarsi Santagata individua delle possibili soluzioni, ossia delle politiche culturali attuabili, a questi problemi: • • • • • • Potenziamento del personale degli istituti italiani di cultura Sviluppo di un collezionismo privato Creazione di spazi espositivi non profit e di piattaforme per la sperimentazione e il confronto tra artisti italiani Attrazione di curatori e promotori stranieri in Italia Introduzione di incentivi fiscali per la produzione d’arte Concessione di spazi pubblicitari su riviste d’arte italiana, in edizioni estere 27 Il potenziamento del personale degli istituti italiani di cultura fa riferimento al fatto che in Italia vi sono molti esperti d’arte ma questi si trovano in condizioni lavorative estranee alle loro competenze o comunque non valorizzanti le loro conoscente. Infatti, spesso all’interno degli istituti culturali non si trovano personalità con tali competenze, cosa che non permette di promuovere la cultura italiana all’estero. Ecco allora che a livello di politiche culturali pensare di formare il personale attraverso la presenza in loco di consulenti porterebbe nuove competenze decisive per comprendere i meccanismi del settore dell’arte contemporanea, atte quindi a creare una rete di relazioni con enti sul territorio. Gli istituti fungerebbero così da agenzie di promozione di nuovi talenti, offrendo loro la possibilità di usufruire di piattaforme durature e collaudate. Santagata insiste anche sullo sviluppo del collezionismo privato sull’esempio di Kunstverein. Attraverso istituzioni private (associazioni private di collezionisti), mosse da una progettualità collettiva di promozione dell’arte in un’ottica di insieme e non di competizione, è possibile sviluppare maggiormente il collezionismo privato. La soluzione proposta che riguarda la creazione di spazi espositivi non profit e di piattaforme per la sperimentazione e il confronto tra artisti italiani si rifà al modello delle Kunsthalle tedesche, ossia spazi espostivi liberi e privi di collezione che non sono definiti in un certo tipo di tematica, ma sono laboratori in cui i giovani talenti tedeschi incontrano gli artisti affermati internazionali. Questi spazi non profit sono generalmente sostenuti a livello economico dalle municipalità e amministrazioni locali. Il vero problema profondo però è il pregiudizio culturale. L’arte contemporanea in Italia tende ad essere associata all’industria dello spettacolo, ossia intesa come forma di puro intrattenimento. Ciò discende da una condivisa concezione pregiudiziale dell’arte come rappresentazione estetica. Santagata afferma si creano degli effetti sulla concezione culturale di oggi tali per cui vi è un problema: l’arte contemporanea ha una dignità che a livello di sovvenzioni non è considerata decisiva e meritevole, proprio in quanto legata al concetto di intrattenimento. Questo in quanto è un ibrido tra arte e qualcosa di spettacolare. Per arginare questo problema sono stati realizzati alcuni tentativi. Per esempio, attraverso l’attivazione di un nuovo corso, l’università Iuav di Venezia ha cercato di mantenere vivace lo scambio con artisti e critici internazionali anche avvalendosi della competenza in città di un magnete come la Biennale. Peraltro il corso ha dovuto subire un notevole ostracismo da parte non solo dell’Accademia delle Belle Arti, con la quale l’università è entrata in conflitto senza riuscire a creare uno scambio osmotico, ma anche da parte delle altre Facoltà del medesimo ateneo. Dietro a tale ostracismo sembra stagliarsi un dubbio di fondo sulla necessità che la formazione artistica avvenga a livello universitario. Si è dunque creata una contrapposizione tra la concezione di arte come tecnica da apprendere e quella di arte come insegnamento. L’arte a livello universitario viene vista come storia e teoria da studiare e apprendere oppure come una propaggine dello spettacolo. Il mondo culturale italiano continua a sentire che le arti visive siano parti del sapere pratico, che non merita di essere approfondito in associazione con un’alta tradizione di teoria. Vi è inoltre una confusione linguistica: da un lato vi è la storia delle arti visive che si inserisce a seguito di quelle figurative, dall’altro lato la concezione di arte visiva come sapere pratico. Servirebbe invece un’osmosi tra le due concezioni, ossia una conoscenza sia storica che tecnica. Tale ideologia si riflette anche a livello formativo: il problema è che la formazione non è focalizzata e non è strategica rispetto al mondo del lavoro. Dunque, non è una formazione propedeutica a fasi successive di un percorso. Nelle accademie, spesso lo studente è seguito da un docente solo e quindi è esposto a pochi stimoli. Così, in una realtà dove l’artista diventa uno specialista non si sviluppa alcuna visione alternativa. A tale proposito è stato fatto un esperimento dal DAMS di Bologna la cui idea era quella di fare in modo che insegnanti e professionisti fossero uniti al fine di creare un laboratorio teorico e pratico che univa arte, musica e spettacolo. In tale esperimento si è quindi cercato di affiancare artisti professionisti ai docenti affinché il tipo di esperienza universitaria fosse una fucina di talenti sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista teorico. Quella che doveva essere una svolta decisiva si è però dovuta scontrare con una prevalenza degli insegnamenti teorici e la difficoltà di avere importanti momenti laboratoriali. In particolare, è risultato difficile arruolare nel corpo insegnante dei professionisti che non tendono alla ricerca di riconoscimenti accademici. Dunque, l’effetto di questo esperimento è stato quello di ridurre il tutto ad un sapere teorico: i professionisti si sono sforzati poco ad entrare nel mondo universitario e l’idea di unire le due dimensioni teorica e pratica è andata a scontrarsi contro una realtà che ha visto nel DAMS un insegnamento puramente teorico e senza capacità di formare professionisti 28 in senso creativo. È quindi diventato un corso di studi più di tipo teorico-creativo non orientato alla pratica dell’artista. Questo deriva dal fatto che non può essere realizzato un laboratorio se mancano professionisti che forniscono la loro conoscenza tecnica e la loro esperienza circa tutte le dinamiche riguardanti il mondo professionale. La professione dell’artista è learning-by-doing quindi un insegnamento teorico non può svolgere questo compito. Il pubblico dell’arte contemporanea Il museo può divenire un modello di sviluppo locale di un territorio che sappia cogliere l’arte come fonte di incremento dell’economia e della qualità sociale. Esso può permettere inoltre di far comprendere le potenzialità dell’arte contemporanea in quanto può diventare: • • attrattore → permette di aumentare la visibilità locale degli artisti, catalizzando l’attenzione di turisti e cittadini attivatore → può far nascere delle collaborazioni tra soggetti imprenditoriali e favorire collaborazioni interdisciplinari all’interno del contesto locale La combinazione di queste due funzioni distinte può avere ricadute cruciali: a livello sociale stimolano l'ambiente circostante a generare nuove forme di sapere, così da sviluppare un dialogo con il territorio inteso come luogo dinamico dove si crea innovazione. Il museo può dunque diventare una fonte di nuove finestre sul futuro. L’Italia ha un enorme patrimonio culturale e il modo in cui esso viene presentato, per esempio nei musei, può essere a sua volta creativo e artistico. Il soggetto dell’arte contemporanea può essere il patrimonio culturale italiano stesso e la sua valorizzazione. Se si agisce a livello culturale lavorando su ciò di cui si ha a disposizione e lo si fa creando le condizioni per fare in modo che artisti contemporanei possano esprimersi, ecco allora che si realizza qualcosa che avrà successo culturale e al contempo dia modo agli artisti contemporanei di esprimersi in chiave inedita, cosa che riattiva il significato culturale del patrimonio. Dunque, la mera presenza dei visitatori i musei che prevedono una fruizione passiva (modello oggettivo del sapere) non può certo essere considerata una pratica di arricchimento culturale. Un modello museale immersivo e interattivo, che coniughi creatività e tecnologia, può invece offrire esperienze coinvolgenti a livello emozionale, cognitivo ed intellettuale, valorizzando il patrimonio storico artistico e culturale italiano in una chiave inedita. Questo ha un doppio valore: si creano le condizioni per l’espressione degli artisti e si ha un coinvolgimento del pubblico ma allo stesso tempo può essere promossa una trasformazione culturale del territorio in chiave di arricchimento e innovazione. Ciò permette di immergere il pubblico in una dimensione in grado di trasmettere i valori culturali. Nell’esperienza immersiva e interattiva l’arte è in grado di trasmettere molte cose facendo emergere il lato emotivo e sensoriale di ciò che viene rappresentato. Questo permette a ciascuno di confrontare le emozioni rappresentate con le proprie. Solo quando si riesce a creare empatia, ci si riesce a far ascoltare. Lo strumento condiziona la comunicazione sia in senso positivo che in senso negativo, in base a quanto si conosce lo strumento e a quanto lo si riesce a sfruttare per il proprio scopo. L’arte ha la forza di far vedere dietro le sovrastrutture mentali dell’uomo e quindi di far vedere la vera bellezza. Gli audiovisivi La terza macro-categoria di settori economici in cui la creatività produce cultura individuata da Santagata, ossia quella che riguarda la produzione di contenuti, informazioni e comunicazione contiene al suo interno software, editoria, TV e radio, pubblicità e cinema. Il cinema A fine 800’ nasce il cinema, che ha avuto un potentissimo impatto sull’immaginario collettivo della società di massa prima in Occidente e poi nel mondo intero. Durante la prima proiezione gli spettatori in sala rimasero molto scossi in quanto videro un treno che arrivava in stazione e si spostava verso di loro entrando nell’occhio della telecamera. Di fronte a questo nuovo movimento del treno che si avvicinava verso gli spettatori, questi ultimi 29 scapparono. Questo dimostra come il fatto di proiettare immagini in movimento su uno schermo abbia colpito molto la psicologia umana e abbia creato una reazione immediata. David Lynch nel cortometraggio “Curtain’s up” sostiene che il cinema è un linguaggio a sé stante che ha un potere particolare di sfruttare una serie di codici, è dunque un linguaggio che ne contiene molti altri (gestuale, della parola e visivo). La pittura non è in grado di riprodurre in chiave poetica tutti gli elementi del reale. Il cinema ha elementi in comune con il teatro, in quanto in entrambi gli ambiti ogni spettacolo è unico. Infatti, un’opera cinematografica che sembra un prodotto unitario, in realtà è diversa ad ogni proiezione in quanto l’audience e ciascuno spettatore reagisce in modo unico e diverso a una stessa proiezione. Il medium cinematografico si contraddistingue per la compresenza di peculiarità diverse: • • • potere immaginifico effetto realistico dimensione spazio-temporale (compresi i suoni) Lynch sostiene anche che le idee vanno colte nel profondo e il cinema poi è in grado di restituirle. L’effetto realistico è dato dalla fotografia, che aiuta l’uomo a identificare ciò che vede in quanto è come se egli vedesse qualcosa di reale che si compie. La combinazione di questi 3 elementi peculiari ha effetti potenti sul coinvolgimento dello spettatore. Il cinema vanta tale coinvolgimento come nessun altro campo artistico sa fare. Vittorio Gallese parla della teoria della simulazione incarnata basata sulla scoperta dei neuroni a specchio, ossia questi neuroni che si attivano quando l’uomo compie un gesto o quando egli lo vede compiere. Questo spiega come vedere qualcuno compiere un gesto nella sua dinamicità da un’altra persona o compiere tale gesto direttamente stimola il cervello dell’uomo allo stesso modo (si attivano gli stessi neuroni). Perciò lo spettatore tende ad immedesimarsi con gli eventi diegetici, ossia le situazioni finzionali mostrate sullo schermo. Anche a teatro esiste questo fenomeno ma è più chiara la differenza tra attore e personaggio che interpreta, tra luogo finzionale della storia e luogo reale. Il cinema invece permette di creare un vero e proprio evento che acquisisce una credibilità notevole agli occhi dello spettatore. Murray Smith aggiunge che vi sono 3 livelli di coinvolgimento dello spettatore rispetto a un film al cinema: 1) percezione → immedesimazione superficiale con un personaggio a livello puramente emotivo e inconsapevole 2) psicologico → immedesimazione nella situazione e nei sentimenti che prova un dato personaggio 3) morale (livello di maggior impatto in merito alla coscienza) → immedesimazione con la vicenda del personaggio, che lo spettatore comprende umanamente e supporta Il terzo livello riguarda il supporto morale dato a un personaggio in quanto lo spettatore si indentifica profondamente e consapevolmente con lui a livello umano/morale e non solo psicologico. Il filosofo francese Gilles Deleuze è stato uno dei primi ad occuparsi di cinema, non come terreno di specchio della realtà o forma espressiva di secondo livello rispetto a forme con storia più lunga e riconosciuta, ma in quanto unica forma espressiva particolare, originale e diversa. Egli afferma che il cinema è una forma di pensiero non analitico, un cosmo costituito da immagini sonore in movimento. Questo in quanto con la sua forza è in grado di travolgere, superando la tendenza a giudicare il mondo e organizzarlo in modo analitico-sintetico. Vi è un movimento, un suono, un flusso vitale che prende vita sullo schermo. Il medium cinematografico induce alla sospensione dell’incredulità, un meccanismo necessario per immergersi in un’opera finzionale. Quando si guarda un film al cinema, occorre mettersi in una dimensione psicologica che consenta di immergersi nella finzione proposta dalla proiezione. Il cinema in quanto formato da elementi della vita di ogni uomo è in grado di facilitare la sospensione dell’incredulità. Per quanto le immagini siano registrate, il tempo inglobato sullo schermo attrae lo spettatore, che non è passivo ma catturato dall’effetto ammaliante e coinvolgente delle immagini sonore in movimento. Inoltre, il buio della sala accentua strategicamente il coinvolgimento. Il cinema aveva una dimensione sociale e collettiva, era percepito come un vero e proprio evento. Il cinema come evento ha un significato importante: non si tratta di andare a vedere uno spettacolo tra gli altri ma tale medium porta con sé la dimensione di esperienza collettiva. Ognuno con la propria reazione e il proprio modo di 30 vivere l’esperienza condivisa con gli altri apporta contenuto all’esperienza stessa. Questo ha un forte impatto sociale. Ø Il cinema italiano In Italia, cominciare dagli anni ‘40, il cinema diventa medium di massa ed esperienza identitaria collettiva. Al contrario dall’epoca mussoliniana, lo stato non è più giudice del valore e della diffusione di un film attraverso la propaganda e la censura. Con il neorealismo vengono portate sullo schermo vicende esemplari ambientate nell’Italia del tempo al fine di fornire chiavi di lettura del contemporaneo al pubblico in un momento tragico successivo al fascismo. in questo modo il cinema non è visto solo come specchio della realtà quanto più come specchio per la realtà, ossia come mappa di riferimento. Il cinema però, come dice anche Lynch, ha il potere grandissimo di generare immagini e mondi veri e propri, dunque, non dovrebbe ridursi a rappresentare ciò che esiste ma anche scenari per esplorare mondi possibili alternativi. Negli anni ‘80 l’Italia è investita da una profonda crisi dell’industria cinematografica, a causa anche dell’affermazione della TV commerciale. Le produzioni hanno un grandissimo calo (minimi storici). Inoltre, anche la qualità della proposta diminuisce a mano a mano, tanto che le proposte diventano ripetitive e meno attraenti: le pellicole sono mere copie di secondo ordine dei Blockbuster statunitensi o delle commedie all’italiana. Alla fine degli anni 90’-primo decennio 2000, l’Italia conosce una ripresa del cinema italiano con la ripresa di spettatori, maggiori incassi ecc. Si assiste al boom di presenze in sala, con apice nel 2007, e gli incassi dei film italiani superano quelli statunitensi. Le ragioni di questa ripresa straordinaria sono: • Ragioni generazionali Una nuova generazione di produttori non assistita dallo Stato è capace di conciliare e tenere insieme l’esigenza commerciale con l’istanza artistica vera e propria. Inoltre, nuove generazioni di registi e sceneggiatori prendono piede sulla scena elaborando novità rispetto al passato attraverso nuove storie più coinvolgenti e mirate a fasce più ampie di spettatori. Un’altra ragione generazionale è rintracciabile nel cambiamento di sensibilità del pubblico stimolata dalla fiction televisiva capace di trasmettere contenuti diversi. Inoltre, lo star system italiano è stato rinnovato dall’emergere di nuovi volti di fama nazionale. Infine, le strategie di marketing sono state implementate per far in modo che il prodotto venisse spettacolarizzato e pensato in relazione al target. • Ragioni politiche Le ragioni politiche sono legate al fatto che nel 2004 è stata emanata la Legge Urbani, finalizzata a combattere l’assistenzialismo statale all’industria cinematografica, bloccando finanziamenti a pioggia e inducendo i produttori a tenere insieme creatività e prodotto commercialmente valido sul mercato. Inoltre, tale legge ha previsto anche l’imposizione di criteri oggettivi nella selezione dei film da sovvenzionare. Tuttavia, questa mossa ha avuto effetti controproducenti in quanto si è innescato un meccanismo automatico di attribuzione di successo ai film, tali per cui il finanziamento continuava ad essere previsto solo per registi e produttori già affermati e con una solida storia alle spalle. Il tutto andava a detrimento degli autori emergenti. Le criticità strutturali dell’industria cinematografica italiana sono: • Stagionalità e strategie di distribuzione La concentrazione delle uscite dei film nel periodo invernale instaura un circolo vizioso tra le tendenze del pubblico e l’offerta stagionalmente differenziata. L’idea di distribuire i film solo in determinati periodi deriva dalla tendenza del pubblico a usufruire del servizio cinematografico prevalentemente in quei periodi. Questo però non fa che aggravare la tendenza in quanto si crea una concentrazione anomala che danneggia il sistema. Di conseguenza, i film di alta stagione prevedono investimenti iniziali per la promozione pubblicitaria molto più elevati rispetto ai film distribuiti in altri periodi, considerati sconfitti in partenza. Inoltre, la concentrazione del numero di copie in uscita nel primo weekend comporta il drastico calo delle presenze in sala dopo il primo weekend di programmazione. Si tratta di un fenomeno fisiologico che però viene assecondato e aggravato dalle succitate strategie. 31 Va ricordato che quando sono le major statunitensi a distribuire film italiani, esse assicurano alla pellicola un’uscita in un numero di città e in numero di copie superiore a quanto accade con i distributori italiani. • Prossimità come disincentivo alla creatività Il pubblico italiano tende ad associare il cinema americano all’esotico, ad un mondo di storie individuali ed eccezionali. Al contrario, dal cinema italiano si attende la prossimità, ossia storie che siano un eco del vissuto quotidiano. Il rischio connesso a tale tipologia di visione è che la produzione italiana tenda a dare vita a pellicole che si limitano a proporre una serie di cliché sulla società nostrana. Ecco allora che il cinema viene visto come mero specchio della realtà e non fa intravedere nessuna potenzialità e forma di creatività nuova. Questo è un retaggio del neorealismo. Muccino è un produttore significativo in questo periodo in quanto i suoi film sembrano realizzati da registi diversi per quanto riguarda la scelta della tipologia di film da proporre. Da un lato, con il film “Ricordati di me” egli propone una storia segnata da crisi esistenziali e di identità per il pubblico italiano mentre dall’altro lato, con “The pursuit of happyness” propone una storia mirabolante e toccante tipica per una destinazione di pubblico americano. Anche a livello di scelte stilistiche la differenza è notevole. Nel film per pubblico italiano è evidente un atteggiamento che asseconda un’aspettativa del pubblico. Nel 2017 si assiste ad una nuova crisi del cinema italiano, che vede solo il 17% degli incassi totali. È una crisi solo apparentemente imprevedibile in quanto il termine di paragone è stato l’anno precedente, anno in cui le pellicole occupano il 28% del mercato e segnano il 54% di presenze e il 56% di biglietti venduti in più rispetto ai dati del 2017, ma anche anno in cui l’andamento positivo è stato realizzato grazie a soli 2 film, ossia “Perfetti sconosciuti” e “Quo vado”. Dunque, la differenza di incassi tra 2016 e 1017è evidentemente legata all’uscita di questi due film record nel 2016. Il tentativo di riposta alla crisi sistemica del cinema italiano è costituito dalla Legge Franceschini del 2016/2017, che cerca di porre rimedio e contrastare il sistema dei finanziamenti che finiscono per sostenere un numero esiguo di player tipicamente già affermati. In particolare, questa legge prevede agevolazioni e contributi per giovani artisti e produttori emergenti attraverso: - fondo cinema → permette che l’industria del cinema e audiovisiva si autofinanzi sfruttando gli introiti dell’erario già derivanti da altre attività cinematografiche (autofinanziamenti) aumento degli investimenti pari al 60% agevolazioni fiscali per aziende e privati che finanziano il settore processo di digitalizzazione del patrimonio mirato a diffondere il cinema come espressione culturale istituzione del Consiglio superiore per il Cinema e l’Audiovisivo Negli anni 2020 la pandemia aggrava e porta all’apice la crisi strutturale del settore cinematografico e audiovisivo. Le sale cinematografiche devono concorrere sempre di più con le piattaforme di streaming online, che diminuiscono la fruizione cinematografica. La rivoluzione OTT Nell’ambito del cinema visto come sistema legato a dinamiche produttive e distributive, si è verificata la rivoluzione Over The Top. Ester Corvi parla di tale rivoluzione nel suo libro Streaming revolution. Gli ultimi anni hanno visto imporsi le imprese OTT che sfruttano internet per offrire servizi e contenuti tramite una varietà di dispositivi. Con l’avvento delle piattaforme di video streaming, il settore audiovisivo ha subito un profondo mutamento che ha interessato l’intera filiera: ideazione, finanziamento, produzione e distribuzione. Queste piattaforme possono contare su un doppio vantaggio rispetto alla TV digitale terrestre e satellitare: 1) non devono coprire costi di trasmissione e gestione di rete 2) non sono legate a vincoli locali o nazionali e puntano al mercato globale Il successo delle piattaforme OTT è stato favorito dai processi tecnologici, che sono la chiave decisiva anche a livello di possibilità di fruizione da parte del pubblico: • • notevole aumento della velocità di navigazione su internet in gran parte del mondo diffusione globale degli smartphone 32 • concomitante potenziamento e moltiplicazione di sociali networks (componente emozionale e di engagement) La combinazione di questi 3 elementi porta queste le piattaforme OTT a sbaragliare completamente il mercato audiovisivo grazie all’ampiezza dell’offerta di contenuti e alla varietà di supporti disponibili alla fruizione di tali contenuti che prima erano inimmaginabili. Ø La distribuzione audiovisiva Le piattaforme di video streaming generano i loro ricavi tramite diverse modalità, come gli abbonamenti, la pubblicità o combinazione dei due. Il lancio del servizio streaming di Netflix nel 2010 ha progressivamente sfumato i confini tra mondo prima separati: televisione, cinema e internet. Al modello Multichannel Video Programming Distributor (MVDP) dei broadcaster televisivi classici, che comprano i diritti di programmi multimediali e li ripropongono all’utente finale attraverso un’offerta multi-canale, le piattaforme streaming OTT hanno opposto un modello Direct To Consumer (DTC), tale per cui i diritti dei programmi offerti da una società di media vengono aggregati e venduti direttamente all’utente finale, bypassando tutti gli intermediari. Inoltre, le piattaforme DTC non hanno necessariamente bisogno di possedere i diritti di proprietà intellettuale dei programmi, ma solo quelli di distribuzione. Per esempio, Netflix distribuisce sia i contenuti originali che quelli su licenza sulla sua piattaforma. Il modello DTC ha avuto un effetto disruptive in quanto ha incluso il coinvolgimento e la profilazione dei consumatori. Da un lato i consumatori sono diventati sempre più esigenti di contenuti nuovi per via dell’enorme disponibilità e varietà di contenuti a cui hanno avuto accesso negli ultimi anni. Dall’altro lato le diverse piattaforme streaming utilizzano tecnologie sempre più avanzate per profilare gli utenti, tracciando le esperienze di visione così da fornire loro suggerimenti personalizzati. In questo modo, le nuove esigenze del pubblico sono per le piattaforme una risorsa fondamentale per fare di ogni produzione un’occasione di successo. I cambiamenti della tecnologia e dei gusti del pubblico spingono molte aziende del settore dell’intrattenimento audiovisivo a vedere nel DTC una destinazione inevitabile. La profilazione del cliente e l’engagement infatti permettono di stabilire una connessione con gli spettatori che permette di acquisire informazioni per una più profittevole tipologia di comunicazione, caratterizzata da suggerimenti personalizzati e annunci pubblicitari mirati. Ø La fruizione audiovisiva Il video lineare è il sistema utilizzato dalla TV tradizionale, in base al quale i contenuti sono organizzati in un flusso simultaneo e pianificato, consentendo a tutti gli utenti di sintonizzarsi sullo stesso programma nello stesso momento. L'avvento dei servizi Video On Demand (VOD) ha portato a una forte migrazione del consumo di intrattenimento lontano dalle reti lineari. Il loro punto di forza è una vasta e variegata libreria di contenuti disponibili in qualsiasi momento e su qualsiasi dispositivo (smartphone, pc, tablet, smart TV), tramite un processo di ricerca e recommendation, pensato per essere agevole e ben funzionante. Nasce quindi l’opportunità di fruire di cataloghi ampissimi di produzioni per cui non vi è più nessuna finestra temporale o spaziale, palinsesto invece dei canali televisivi. I servizi di video on demand non hanno però solo pregi, hanno anche limiti. Il loro principale svantaggio è la frammentazione del pubblico nel tempo, una situazione che crea non pochi problemi agli inserzionisti pubblicitari che devono cambiare logiche anche se sono spesso abituati a operare con le logiche di una decina di anni fa. Viceversa, tramite la TV lineare i contenuti vengono diffusi simultaneamente a un vasto pubblico. Questa capacità di fornire una concentrazione sincronizzata dei telespettatori rimane importante per i contenuti il cui valore è riconosciuto solo se è consumato in diretta (live), come nel caso dello sport e delle notizie. Infatti, non vi è molto valore nel trasmettere notizie o contenuti sportivi già vecchi, mentre il valore dei programmi di intrattenimento (serie tv e film) generalmente non decade in maniera significativa nel breve periodo. (cfr. strategia di Netflix sotto) I programmi televisivi che hanno uno spazio su un canale TV per un contenuto audiovisivo non incentivano molto al rischio in quanto se si investono dei soldi a livello di produzione per qualcosa che poi non suscita interesse nel pubblico, l’intero investimento va perduto. In tale ambito, trasmettere un programma rischioso e senza caratteristiche tipiche porta a perdere spettatori e investimenti fatti. Con l’avvento dei VOD scompare tale palinsesto di trasmissione dei contenuti in un tempo e in uno spazio preciso, per cui ci si può permettere di sperimentare in quanto anche se la produzione non ha subito successo, nel futuro 33 potrebbe acquisirlo. Il produttore ha la facilità di capire se quel contenuto può funzionare senza dover preoccuparsi del fatto che ciò che propone venga subito apprezzato dal pubblico. Per esempio, un contenuto di netflix potrebbe essere lanciato in un determinato periodo ma apprezzato dal pubblico successivamente. Ø L’offerta audiovisiva A partire dal modello di business comune DTC, le varie piattaforme streaming OTT articolano la loro offerta on demand secondo modalità differenti: - - Subscription Video On Demand (SVOD) → richiede un canone fisso per accedere ad un intero catalogo (es: Netflix, Sky Online, Mediaset Infinity e Tim Vision); servizi SVOD consentono quindi agli utenti di fruire dei contenuti audiovisivi senza limiti e senza pubblicità, previo abbonamento Transactional Video On Demand (TVOD) → tipologia pay-per-view che prevede l'acquisto di ogni singolo contenuto (es: ITunes di Apple, Chili Tv) Advertising Video On Demand (AVOD) → offre accesso gratuito ai contenuti per tutti gli utenti e si finanzia con le inserzioni pubblicitarie (es: YouTube e i portali Web di broadcaster, che consentono di rivedere contenuti andati in onda, come RaiPlay e MediasetPlay). Uno dei maggiori vantaggi del modello AVOD è la facilità di acquisizione degli utenti: poiché questi ultimi non pagano, possono registrarsi e iniziare a guardare i contenuti scelti senza alcun impegno finanziario. L'AVOD offre anche un chiaro modello di distribuzione dei ricavi per i creatori di contenuti video, poiché è facile attribuire la monetizzazione incrementale degli annunci pubblicitari ai singoli video, utilizzando le metriche di visualizzazione. Il principale svantaggio del modello AVOD è invece che il flusso dei ricavi è poco prevedibile ed è molto dipendente dalla qualità dei video, che a sua volta determina l'aumento o il calo degli utenti, e dalla notorietà del marchio. E, se non si hanno molti utenti, è difficile attirare l'attenzione degli inserzionisti pubblicitari. Ø La sfida di Netflix e la rincorsa dei nuovi player Si assiste ai seguenti eventi: A) Un gigante della tecnologia come Apple lancia una sua piattaforma Apple TV B) TV e pay TV tradizionali (come Sky e Mediaset, in Italia) fanno accordi con Netflix C) L'industria cinematografica deve far fronte ad uno scenario in cui le vendite di biglietti nelle sale USA sono in tendenziale calo nell'ultimo decennio. Gli studi di Hollywood hanno allora lanciato propri servizi di streaming (es: Disney con Disney+) per sfidare Netflix Netflix, nel giugno 2019, ha raggiunto un livello di penetrazione del 46% negli Stati Uniti e del 6% nei mercati esteri (esclusa la Cina), contro rispettivamente il 69% e il 38% della pay tv. Invece gli utenti dei servizi video OTT in Italia, in base alle elaborazioni di EY, al gennaio 2019 erano 11 milioni e sono divenuti 17,8 a gennaio 2022 solo quelli relativi alle principali piattaforme a pagamento (Netflix, TIMvision, Infinity, NowTv, Amazon Prime Video, Eurosport Player e, da settembre 2018, anche DAZN), per un totale di 32 milioni di utenti Pay e Free (sempre a gennaio 2022). 34 Ø La strategia di Netflix a tutta creatività e basso rischio Nell'arena dell'industria dell'intrattenimento, la partita si gioca su tre fronti: 1) qualità e novità dei contenuti video 2) livello di accessibilità fornita (facilità di fruizione e convenienza di prezzo) 3) massimizzazione del reperimento dei data per la profilazione (modalità di accesso e preferenze degli utenti) Netflix e le altre maggiori piattaforme SVOD, a differenza della tv tradizionale, non devono creare contenuti che piacciano agli inserzionisti, ma al loro pubblico potenziale. Un'audience che non è nazionale ma globale, ben predisposta a vedere i film o le serie in lingua originale, propensa a consumare più puntate di una serie in una volta sola e a commentarla in un flusso continuo sui social media. Al loro pubblico gli operatori SVOD offrono qualcosa di decisamente innovativo rispetto al passato: una comunicazione personalizzata, basata sulle scelte di visione fatte in precedenza, che consente di individuare precise community di audience grazie alla grande mole di informazioni che gli operatori SVOD stessi riescono a ricavare, essendo per loro natura dei big data. Grazie a tutti questi dati, cambiano anche le modalità di sviluppo di una serie televisiva. Sempre più spesso non serve una puntata pilota, strumento fondamentale che invece le reti tv utilizzano per stabilire se vi è un'audience interessata a una serie, ma si decide subito per una stagione intera. Famoso il caso, nel 2011, di Casa di Carta: quella volta Netflix, applicando il suo approccio innovativo, non fece un'offerta per un episodio pilota come gli altri si aspettavano, ma offri 100 milioni di dollari impegnandosi a pagare in anticipo per due stagioni da 26 episodi. Il valore di una stagione intera dipende inoltre dagli accordi di licenza con Netflix, che generalmente, finanzia tutti i costi di produzione e mantiene i diritti globali dei suoi contenuti originali per un periodo di tempo anche lungo. In questo modo, anche se una stagione intera di una serie non ha il riscontro sperato presso il pubblico, va comunque ad ampliare il suo catalogo di contenuti nell'attesa che, prima o poi, trovi un pubblico interessato, a differenza della tv tradizionale che valuta il successo in base all'audience, in un certo periodo di tempo. È difficile inoltre immaginare un enorme fallimento creativo per Netflix perché, a differenza dei film degli studi di Hollywood, sulla piattaforma il flusso non si arresta mai. Ci possono essere fallimenti minori (come le serie cancellate dopo la prima stagione), dato il volume delle produzioni e la velocità con cui Netflix prende le decisioni, ma il costo del fallimento di una sua produzione è molto inferiore al costo di un fallimento per una rete TV o per una major, perché sulla piattaforma non vi è il problema della scarsità di "spazio sullo scaffale". Può quindi restare lì il tempo che serve per trovare il suo pubblico, grande o piccolo che sia. Se una rete televisiva o uno studio sbagliano a produrre un contenuto, non sono solo i costi e le risorse dedicate alla creazione di quello spettacolo che sono stati sprecati, ma anche lo spazio limitato sugli " scaffali" che avrebbe potuto essere utilizzato in maniera migliore. Gli studi di Hollywood realizzano in media circa 15 film all'anno ciascuno. Le reti televisive USA arrivano a riempire circa 22 ore nella fascia di prima serata a settimana. Il loro intero processo decisionale avverso al rischio è pensato per selezionare i 15 migliori film o le 22 migliori ore di tv. Nel caso di Netflix, invece, uno show fallito fa perdere solo gli investimenti destinati a quello scopo, ma al contrario un successo inaspettato ha un enorme valore. E per questo motivo è disposta a correre molti rischi, sperimentando più di altre. Non a caso, negli ultimi anni, i più famosi showrunner (= i responsabili di tutti gli aspetti creativi delle serie TV) sono stati contesi dalle maggiori piattaforme di streaming video, disposte a pagare cifre con molti zeri per averli nei loro team. Innanzitutto, i maggiori player dello streaming video, per battere la concorrenza, devono lanciare continuamente delle novità, al fine di tenere alto l'interesse degli abbonati ed evitare che disdicano l'abbonamento. In secondo luogo, in uno scenario di competizione sempre più accesa, anche le pay TV non possono essere da meno. Inoltre, la decisione degli studi di Hollywood, come quella di Disney, di lanciare proprie piattaforme di streaming, ha come conseguenza la volontà di ritirare e non stringere più, in futuro, accordi su licenza (licensing deal). Netflix deve puntare quindi sempre di più, come del resto sta facendo già da alcuni anni, sui contenuti originali. La formula adottata da Netflix, cioè quella di pagare ai talenti ingenti somme anticipate (upfront money) per 35 i contenuti che devono realizzare al posto di utilizzare il vecchio modello della syndication (cioè della partecipazione ai profitti legati alla vendita ad altre emittenti), viene adottata sempre più spesso anche dagli operatori tradizionali, con diversi vantaggi per gli showrunner. Le nuove potenzialità degli audiovisivi È necessario inventare nuovi tipi di intrattenimento che richiedano e giustifichino le piattaforme tecnologiche in via di sviluppo. I sistemi di realtà virtuale e di realtà aumentata promettono opportunità di intrattenimento molto innovative. Hanno bisogno di un linguaggio artistico completamente nuovo ma, fino a quando non emergerà, il limite non sarà della tecnologia, bensì della nostra capacità di approfittarne come mezzo espressivo. È già oggi possibile immaginare, per esempio, un percorso interattivo in realtà virtuale di un luogo artistico particolarmente esclusivo oppure di un luogo geografico che è difficile avvicinare nella realtà. Ma se fosse disponibile un'esperienza di visita che sempre più persone, tra quelle che rinunciano al viaggio, giudicassero eccitante, abbinata a sistemi di commercio elettronico non intrusivi e snelli, che permettano magari di acquistare i prodotti di artigianato e gastronomia locali, si potrebbe trovare un nuovo equilibrio per espandere l'economia, la cultura e le opportunità per tutti. 36