Visioni d’Impresa Un secolo di industria nel Salernitano a cura di Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia ISBN 9788894925487 EURO 40,00 © 2019 – Areablu Edizioni S.r.l. www.areabluedizioni.it Cava de' Tirreni (SA) – Italy Si ringraziano per il loro contributo ISBN 978-88-94925-48-7 Coordinamento operativo Vito Salerno, Raffaella Venerando Archivio Fotografico Parisio Napoli Consulenza fotografica Massimo Pica - Agenzia fotografica, Salerno Progetto grafico EOLO - Ernesto Manzolillo Stampa e allestimento Grafica Metelliana SpA www.graficametelliana.com ——— Riproduzione su gentile concessione delle imprese © Copyright di Confindustria Salerno I diritti di traduzione, di riproduzione, di memorizzazione elettronica e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non espressamente autorizzata ——— Immagine di copertina Salerno, post 1945, EBAD - Archivio Digitale Eboli Fondo Fotografico Luigi Gallotta MUDIF Museo Didattico della Fotografia Nocera Inferiore (SA) EBAD - Eboli Archivio Digitale Fondo Fotografico Luigi Gallotta Pasticceria Pantaleone - Salerno Ceramica Pinto srl - Vietri sul Mare Gaetano Buscetto srl - Nocera Inferiore Associazione ARKOS - Battipaglia Un ringraziamento particolare a Prof. Nicola Oddati Dott. Mario Rocco Visioni d’Impresa Un secolo di industria nel Salernitano a cura di Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia Indice Salerno luogo di impresa, un lungo racconto di intuito e coraggio Andrea Prete - Presidente Confindustria Salerno Imprese e industria in provincia di Salerno: dal Novecento al nuovo millennio Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia 11 Cento anni di imprenditoria salernitana tra storie e immagini Testi e selezione fotografica ad opera dei curatori 29 Pastifici 30 Imprese Conserviere 38 Tabacchifici e Imprese Alimentari 46 Carta e Cartotecnica 57 Legno e Arredo 68 Imprese Tessili 75 Industria Metalmeccanica 80 Ceramica e Laterizi 95 Chimica e Plastica 104 Attività Marittimo-Portuali e Trasporti 108 Turismo e Distribuzione 116 I Presidenti Le Imprese 4 7 125 127 5 Imprese e industria in provincia di Salerno: dal Novecento al nuovo millennio Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia 1. Confindustria Salerno: i primi cento anni Sorta nel 1919 come Fascio Industriale della Provincia di Salerno, l’associazione confindustriale salernitana in questi mesi vive i suoi cento anni di storia associativa. Il sodalizio compie i suoi primi passi come organizzazione aderente all’Unione Regionale Industriale (URI) di Napoli, unitamente all’Associazione industriali Serici di Caserta, all’Unione Provinciale Industriali Commercianti Agricoltori della Provincia di Caserta, e all’Associazione Industriale Molisana. La cronaca cittadina, nell’agosto del 1919, riportava che Luigi Barracano, prestigiosa figura del tessuto economico salernitano, aveva dato vita alla Federazione Meridionale Commerciale e Industriale con la precisa volontà di «formare una unione salda, pronta ad ogni sacrificio per il bene della collettività e per il progresso ed incremento economico della regione, in armonia con quello generale della nazione» (Il Giornale di Salerno, 2 agosto 1919). La strada era tracciata: l’ingegner Antonio Santoro, qualche mese più tardi, l’11 dicembre, nella qualità di presidente, convocò nei locali della sua ditta l’assemblea straordinaria dei soci salernitani del Fascio Industriale Regionale (Risorgimento Salernitano, 20 dicembre 1919). A partire dagli anni venti, il sodalizio, assunta la nuova definizione di Fascio Industriale della Provincia di Salerno, aprendo alle piccole e piccolissime realtà imprenditoriali – che con difficoltà riuscivano a rapportarsi alle più grandi e importanti realtà industriali salernitane – provocò non poche diffidenze verso le stanze napoletane, accusate di difendere solo gli interessi delle grandi aziende sia partenopee che salernitane, al punto che nel 1923 mutò il nome in Unione Industriale Commerciale Agricola della provincia di Salerno. Nulla però era cambiato ai vertici, ancora saldamente nelle mani di Giulio Grimaldi (dal 1922) e del duo vice presidenziale Matteo Scaramella e Giuseppe Bisogno. All’indomani degli accordi di Palazzo Vidoni (1925), che prevedevano l’ingresso di Confindustria nel sindacato fascista, e dell’entrata in vigore della legge Rocco sulla Disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro (1926), si completò la piena adesione al regime fascista. L’associazione salernitana dal 1926 prese il nome di Unione Industriale della Provincia di Salerno. Ad assumerne la presidenza, che mantenne fino al termine del secondo conflitto mondiale, fu Matteo Scaramella, figlio di Domenico – uomo di spicco della vita economica salernitana, che per moltissimo tempo ricoprì la carica di presidente della Camera di Commercio di Salerno – ed erede dal 1928 del pastificio di famiglia, una delle più importanti realtà meridionali del settore. Il senso di fiducia verso la nuova gestione si manifestò nello stesso anno, allorquando si registrarono 800 nuove adesioni all’Unione. Gli anni sotto la guida Scaramella furono vissuti, per altro riuscendoci, alla conquista di una piena autonomia soprattutto verso la Camera di Commercio. L’associazione ormai si autorappresentava a livello sindacale e inviava al prefetto periodici rapporti sullo stato di salute della produzione industriale in provincia. 11 Nei difficili anni del secondo dopoguerra, il conte Alessandro Tibaldi, titolare dell’omonima industria tessile, guidò tra il 1944-45, la Libera Associazione degli Industriali: Salerno e la sua provincia iniziavano nuovamente a fare impresa. Già dal 1945, però, a guidare l’Associazione durante gli anni della ricostruzione, fino al 1961, fu Tommaso Prudenza, amministratore delegato del pastificio Rinaldo. Alla vigilia degli anni sessanta, il paese stava vivendo, in piena espansione, il miracolo economico e nel Mezzogiorno iniziavano gli interventi straordinari concertati dal Ministero delle partecipazioni statali e dalla Cassa per il Mezzogiorno. Salerno si avviava a diventare il secondo polo industriale campano grazie anche al suo sindaco, Alfonso Menna, che fortemente volle e realizzò l’Area di Sviluppo Industriale. Intanto, in questo decennio l’Associazione degli industriali fu guidata prima da Giulio Santoni (1961-1965) e poi dall’industriale ceramico Matteo D’Agostino (19651969), che chiuse la sua presidenza nell’anno dell’autunno caldo tra mobilitazioni operaie e rivendicazioni salariali. Un anno prodromo alla crisi economica degli anni settanta, segnati dalla fase del ridimensionamento aziendale (produzione e occupazione). Una crisi che colpì i due settori trainanti dell’economia italiana sin dagli anni della ricostruzione: l’edilizia e il tessile. Enrico Giunta, dal 1969 al 1975, e Davide Morlicchio, dal 1975 al 1979, guidarono Assindustria nei difficili anni dei due shock petroliferi (1973 e 1979). Iniziò poi la lunga parentesi in cui Giuseppe Amato, storico esponente dell’industria alimentare salernitana, guidò l’Associazione (1979-1986). Sono gli anni in cui le manifatture ancora stentavano a riprendersi, 12 e lo stesso poteva dirsi per il settore conserviero, ormai in crisi strutturale; i pastifici e l’edilizia mostravano importanti recuperi, grazie anche alla forte domanda dovuta alla ricostruzione post terremoto dell’Irpinia (1980). Al termine del doppio mandato gli successe l’imprenditore edile Augusto Strianese (1986-1990), tra l’altro, anche esponente di spicco della Camera di Commercio di Salerno. Sotto la sua presidenza fu fondata la testata giornalistica degli industriali salernitani Costozero. Gli anni novanta si aprivano all’insegna della deindustrializzazione; le imprese salernitane che erano ancora in attività si videro costrette a ridurre il numero degli occupati e quelle di altri settori, già da tempo in crisi, come il conserviero, dovettero invece ricorrere all’occupazione stagionale. In questo scenario ritornò alla guida di Assindustria Giuseppe Amato (1991-1995), seguito poi da Sossio Pezzullo (19951999). Ad Antonio Paravia (1999-2003), per il settore metalmeccanico, spettò di traghettare l’Associazione verso il nuovo millennio, quando fu scelto Andrea Prete (2003-2007). Il mandato di Agostino Gallozzi (2007-2011), per il settore mare e trasporti, terminò con le sue dimissioni, cui seguì il commissariamento affidato al suo past president, il senatore Sossio Pezzullo (giugno 2011-febbraio 2012). I contrasti interni non facevano bene all’associazione, soprattutto in quegli anni di crisi che avevano indebolito il tessuto economico e produttivo della provincia. Confindustria Salerno contava circa 700 associati, e sebbene molte fossero le eccellenze presenti tra di essi, dall’alimentare al conserviero, dal polo grafico editoriale, al metalmeccanico, tuttavia era più che mai viva la dura realtà che invece parlava di cassa integrazione, di licenziamenti e di fallimenti. Su tutti quello che ha fatto più male: il Pastificio Antonio Amato, un’azienda storica del settore che per mezzo secolo ha legato il suo nome a quello della città. Tra la pausa estiva e l’autunno una figura riuscì a mediare la crisi fra gli schieramenti, facendo superare incomprensioni e contrapposizioni: era quella di Mauro Maccauro, già presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Campania, che il 3 febbraio 2012 iniziò il suo mandato per terminarlo nel 2017, anno in cui Andrea Prete – candidato unico alla successione – tornò a guidare Confindustria Salerno. Nel suo nome, rispettabile, competente, pregno di spirito confindustriale, l’Associazione oggi celebra i suoi primi 100 anni. 2. Il modello di specializzazione manifatturiero Il 15 novembre 1885 il prefetto di Salerno, nella sua relazione sullo spirito pubblico, evidenziava che «fra le Provincie del Mezzogiorno questa, che ho l’onore di amministrare, è senza dubbio una delle più importanti sotto il rapporto dell’industria manifatturiera». E menzionava, anzitutto, «le industrie dei filati, tessuti e stampati di cotone, quella della fabbricazione dei panni-lana; l’altra dei filati in lino e canape; quella della manifattura delle paste alimentari, e quella della fonderia Fratte» (ACS, Min. Int., Gab (1892-94), b. 20, f. 57/3). Attraverso la relazione prefettizia, si può affermare che la storia dell’industria in provincia di Salerno mette in luce, già nel tardo XIX secolo, un modello di specializzazione manifatturiera basato sulle industrie tradizionali e leggere che tese a rafforzarsi, tra Otto e Novecento, grazie agli sviluppi del settore conserviero. L’evoluzione di tale assetto riflette, in parte, le dinamiche storiche nazionali e campane, seppure con proprie scansioni temporali, ma anche con proprie peculiarità, considerato il peso storicamente rivestito dal tabacco e, ancor oggi, dal settore dei minerali non metalliferi. Durante il Novecento l’occupazione manifatturiera in Italia si è concentrata, in modo persistente, nei settori della meccanica, del tessile-abbigliamento, del legno-mobilio e dell’alimentare. I cinque settori rappresentavano l’84% degli addetti nel 1927 e costituiscono ancora (2011) il 73% del totale. Mentre a inizio secolo il tessile e l’abbigliamento erano i settori leader dell’industria manifatturiera, nel nuovo millennio, invece, il settore meccanico (nell’accezione del censimento industriale del 1951) ha ormai una posizione d’indiscusso primato. Nel caso italiano, il meccanico ha conquistato la leadership degli addetti già al 1927, anche se solo negli anni del miracolo economico è avvenuto il sorpasso sul settore tessile-abbigliamento, preso nel suo insieme (1961). Invece, in Campania, dove l’agroalimentare continua ad avere un peso, la definitiva affermazione del settore meccanico (33%) si è consumata durante gli anni sessanta, di pari passo con il ridimensionamento del tessile-vestiario (18%) e dell’alimentare (crollato all’11,5%). Un ulteriore ritardo ha caratterizzato l’industria manifatturiera della provincia di Salerno. Il divario 13 temporale trova spiegazione nelle origini storiche e nella permanenza di lunga durata della struttura industriale ottocentesca che, basata sulle industrie tessili introdotte dagli svizzeri e sull’agro-alimentare, ha mostrato una persistenza secolare. Ancora nel 1927 il 63% degli addetti trovava impiego nei comparti tradizionali; se si considera anche il peso del settore del legno (14%), appare chiaro come l’industria salernitana vedesse all’epoca un’assoluta predominanza dei comparti leggeri (¾ degli addetti totali). Tale specificità ha relegato, per lungo tempo, a un ruolo marginale il settore meccanico salernitano che, pertanto, ha stentato ad affermarsi nel primo Novecento (6-8% sino al 1951). Qualche miglioramento si è registrato solo negli anni cinquanta (11,8%), anche per la contemporanea crisi del tessile; al 1961, tuttavia, il settore alimentare (40%) deteneva saldamente una leadership che ha mantenuto nel decennio successivo, nonostante la crisi occupazionale degli anni sessanta (24,5% al 1971). Dopo una crescita trentennale, solo nel 1981 il settore meccanico salernitano (26,4%) è riuscito a superare quello alimentare (23,2%) e ad affermarsi come il comparto manifatturiero con la più alta percentuale di addetti. A ciò hanno contribuito anche le stesse dinamiche del tessile e dell’alimentare dagli anni cinquanta. Mentre l’industria tessile ha subito una pesante crisi occupazionale da cui non si è più ripresa, invece l’industria alimentare ha conosciuto una forte fluttuazione degli addetti, con un’aspra alternanza tra periodi crescita o di crisi occupazionali, che hanno riportato il numero degli addetti del 1991 ai livelli del 1951. 14 In definitiva, l’industria meccanica nella provincia di Salerno si è affermata come il principale settore manifatturiero con un decennio di ritardo rispetto alle dinamiche regionali e con un gap ventennale a confronto con il caso italiano. Tra il 1991 e il 2011, similmente al trend regionale e nazionale, il metalmeccanico ha ulteriormente consolidato il suo primato a livello provinciale, incrementando il suo peso relativo nell’occupazione manifatturiera provinciale (3537%), nonostante l’aumento relativo dell’alimentare (dal 19 al 24%). Nondimeno, esistono ancora marcate differenze tra l’assetto provinciale e quello campano e italiano, laddove si consideri che nel Salernitano il metalmeccanico assorbe una quota di addetti nettamente inferiore, mentre l’alimentare ha un peso notevolmente superiore rispetto al caso regionale e, soprattutto, nazionale. 3. La parabola del tessile Il tessile-abbigliamento ha rappresentato sino alla metà del Novecento il settore strategico dell’industria manifatturiera salernitana. In particolare, dagli anni venti dell’Ottocento, il cotone si affermò come il comparto fondamentale, relegando lana, lino e canapa a un ruolo complementare, se non residuale. Una forte identità culturale, religiosa, linguistica e sociale, rafforzata da valori condivisi e da forti legami familiari, aveva unito le tre generazioni di imprenditori svizzeri (e tedeschi) che, in meno di un secolo, avevano reso i due poli produttivi del Salernitano un complesso industriale di livello internazionale. Nel 1919, con l’egida di Nitti e l’appoggio della SME e della Banca Italiana di Sconto, i Cotonifici riuniti di Salerno (1916) e il gruppo di Robert Wenner furono riunificati e italianizzati nelle Manifatture Cotoniere Meridionali. I disegni di razionalizzazione, espansione verticale e contenimento dei costi, portati avanti dal padovano Bruno Canto, forte dell’appoggio politico e della stampa, tuttavia, si infransero presto nel fallimento della banca mista di riferimento e nella politica deflazionistica del regime (1926). Quota 90, infatti, penalizzò le esportazioni dei tessuti standardizzati di basso costo del gruppo, smerciati nei mercati balcanici e orientali. Ai primi sintomi della crisi del 1929, le MCM, fortemente indebitate, passarono sotto il controllo del Banco di Napoli che, con la gestione Paratore, puntò a risanare finanziariamente la società, anche con riduzioni salariali e dell’orario di lavoro. Nella crisi degli anni trenta, numerose cessazioni di attività e pesanti riduzioni della produzione interessarono anche le imprese cotoniere minori e gli altri comparti tessili, specie il laniero che, nella valle dell’Irno e nel Picentino, vantava un’antica tradizione protoindustriale. I pochi lanifici industriali, di origine ottocentesca, cresciuti sino alla Grande Guerra, conobbero un progressivo ridimensionamento o scomparvero; il lanificio Notari (Vietri sul Mare) fu tra i pochi a sopravvivere e, anzi, puntando sul confezionamento abiti, ebbe una fase di sviluppo sino a metà anni ’60. Anche peggiori furono, forse, gli anni cinquanta. Danneggiate dalla guerra, le MCM riuscirono ad ottenere prestiti dal Banco di Napoli e dal piano ERP, ma si ritrovarono fortemente indebitate e furono salvate dall’IRI, finendo nel calderone delle partecipazioni sta- tali. Più infelice fu, invece, il destino di quelle imprese minori che, con propri target e nicchie di mercato, avevano continuato l’attività negli anni precedenti. Nel decennio, infatti, chiusero sia la storica tessitura meccanica cavese di Leopoldo Siani, che risaliva al 1899, ma anche gli Stabilimenti Tessili Mattioli che, da metà anni trenta, si erano localizzati a Vietri sul Mare. La crisi postbellica implicò anche la dismissione delle imprese canapiere di Sarno, ponendo fine a una tradizione che risaliva all’Ottocento. Dallo stabilimento della Partenopea (1841), rilevante impresa nazionale anche dopo l’unificazione, erano infatti derivate, grazie a imprenditori di diversa nazionalità, numerose iniziative industriali, di dimensioni più modeste, tra cui spiccava la Buchy e Strangmann, che sino allora avevano occupato una non trascurabile manodopera. La tradizione laniera, invece, conobbe un nuovo slancio quando la Marzotto sud aprì a Salerno (1959) un grande stabilimento di confezionamento di abiti maschili. La società, poi denonimata Issimo, era una diretta filiazione della Marzotto, grande gruppo di Valdagno, che così, precorrendo i tempi, si impiantava nel Mezzogiorno attraverso fondi BIRS tramite l’Isveimer. Altre iniziative, dalla SNIA Viscosa, poi TEX-SAL (fibre artificiali) alle Manifatture Tessili Cavesi (biancheria e arredo casa), arricchirono il settore per un certo periodo. Dopo un buon andamento, tuttavia, nel 1983 arrivò la decisione unilaterale di sospendere la produzione della Issimo, ma anche altri impianti chiusero negli stessi anni. Poco dopo, tra il 1986-87, si arrivò alla privatizzazione delle Manifatture Cotoniere Meridionali. Il passaggio all’IRI non aveva riempito di contenuti indu- 15 striali il gruppo cotoniero che, però, restava rilevante sotto il profilo occupazionale. Negli anni settanta, l’impresa era passata all’ENI, incaricata di riorganizzare l’intero settore tessile nazionale, ma il fallimento del piano Lanerossi aveva aperto, nel libro bianco delle Partecipazioni statali, una nuova pagina che prevedeva lo smobilizzo ai privati. Di una tradizione plurisecolare, oggi, restano poche tracce, come le Manifatture Tessili Prete, che, sorte nei difficili anni cinquanta, proprio a Scafati, indicano nella qualità del made in Italy una possibile strada per fare impresa in un settore non più strategico per le sorti industriali. 4. L’industria alimentare: il ruolo dei pastifici Nel Novecento l’industria alimentare è stata una costante peculiare del modello manifatturiero salernitano. Durante il secolo, pur con fluttuazioni, il settore ha assorbito più di un quarto degli addetti provinciali, con un massimo del 40% nel 1961; la sua importanza relativa, diminuita dal 1991 (20%) e nuovamente cresciuta nel 2011 (24%), resta piuttosto elevata a confronto con i corrispettivi valori regionali e nazionali. La sua composizione interna, escludendo per il momento il conserviero, ha subito variazioni considerevoli che, a fronte delle numerose imprese olearie d’inizio secolo, hanno visto l’emergere del lattiero-caseario. In ogni caso, a lungo i pastifici hanno rappresentato il simbolo stesso di un’industrializzazione provinciale ascrivibile all’imprenditoria locale. Antica tradizione campana, la pasta fresca pro- 16 dotta dai maccaronari era un’arte bianca piuttosto diffusa, tra XVII e XVIII secolo, nella costiera amalfitana e, poi, tra Gragnano e Torre Annunziata. La produzione industriale della pasta, invece, cominciò ad affermarsi nel tardo Ottocento, quando alcune imprese, come Barilla e Buitoni, elevandosi rispetto alle numerose iniziative artigianali, iniziarono a meccanizzare il processo produttivo. Un processo simile si riscontra anche nel Salernitano. All’epoca, la macinazione dei cereali, spesso animata da energia idraulica, era diffusa in modo capillare in provincia, mentre la produzione di pasta, con torchi manuali, era realizzata in appena 27 comuni, tra cui Nocera Inferiore, dove operavano una decina di pastifici, come quello di Isaia Gabola. Negli anni ottanta, Domenico Scaramella (1883) e poi il pasticio Rinaldo (1868) cominciarono a modernizzare i loro impianti, utilizzando energia a vapore, torchi idraulici Pattison, impastatrici a motore, gramole a coltelli, macchinari per l’essiccazione artificiale. Il vapore, in particolare, consentì a molini e pastifici di svincolarsi dalle fonti di energia naturali e di localizzarsi nel capoluogo e nelle più popolose città della provincia. La presenza nelle istituzioni intermedie (Camera di Commercio), la padronanza dei mercati meridionali di approvvigionamento e la continua ricerca di mercati sbocco furono altri tratti comuni ai pastifici Scaramella e Rinaldo. L’attività molitoria, tuttavia, rimase prevalente e solo nei primi decenni del Novecento la produzione di pasta divenne rilevante, proprio mentre il settore conosceva un processo di concentrazione, acuito dalle difficoltà belliche e dal difficile dopoguerra. Lo stesso pastificio dei fra- telli Natella, che a cavallo della Grande Guerra aveva conosciuto una grande espansione produttiva, fu assorbito da Scaramella negli anni venti. In tale decennio la trasformazione in società anonima consentì ai due principali pastifici salernitani non solo l’introduzione di innovazioni, l’elettrificazione degli impianti e miglioramenti nei rifornimenti e nella distribuzione, ma anche di fronteggiare, a differenza di altri competitors (Alterio, Spera), gli effetti della grande depressione. Nonostante la crisi mondiale, i successivi anni trenta rappresentarono, anche per altri produttori, una fase di espansione, grazie alla battaglia del grano, all’autarchia e alle esportazioni sui mercati coloniali. Mentre il pastificio Crudele emergeva a Pontecagnano e Marcantonio Ferro rilevava a Cava il pastificio Tirreno (1938), ancora più evidente appare il successo del pastificio dei fratelli Gabola che, prima della guerra, raggiunse una consistenza patrimoniale persino superiore al pastificio Rinaldo. L’operazione Avalanche, con i danni arrecati agli stabilimenti, segnò i destini incrociati e le fortune dei pastifici provinciali, tanto più che, con la ripresa dei consumi, la pastasciutta diventava progressivamente una presenza quotidiana sulla mensa degli italiani, affermandosi come cibo nazionale e non solo. Nel dopoguerra, grazie a finanziamenti del Banco di Napoli, la famiglia Ferro riuscì a modernizzare radicalmente il suo stabilimento, ma la sua affermazione si arrestò alla metà degli anni sessanta. Poco dopo chiuse anche il pasticio Scaramella che, con fondi Isveimer, aveva cercato di rilanciare la produzione indirizzandola ai mercati inglese e mediorientale. Il pasticio Rinaldo, invece, fu rilevato dalla famiglia Amato. Trasferendosi da S. Cipriano Picentino a Salerno negli anni trenta, Antonio, insieme al nipote Giuseppe, si era affermato nel commercio all’ingrosso di generi alimentari, tanto da ottenere dalle forze alleate di occupazione l’incarico di distribuire vettovaglie alimentari alla popolazione. Grazie all’autofinanziamento e con aiuti Isveimer, gli Amato puntarono sull’innovazione e sul marketing, realizzando uno stabilimento all’avanguardia e prodotti di altissima qualità, grazie al ciclo integrato di produzione interamente controllato, dallo stoccaggio del grano fino alla produzione della semola. Con tale produzione, il pastificio Antonio Amato riuscì a posizionarsi al quarto posto in Italia per quota di mercato. La recente crisi (2009-2012), tuttavia, ha concluso ingloriosamente più di mezzo secolo di grandi successi imprenditoriali. Originari di Frattamaggiore, ma ebolitani d’adozione, Luigi Pezzullo prima e don Sossio rilevarono un locale pastificio (1940) e, nell’arco di qualche decennio, lanciarono con successo l’OrodiNapoli. Dopo il terremoto dell’80, elevata competitività grazie ad un sofisticato sistema informatico, pochi scioperi dovuti alla gestione paternalistica, provvidenze pubbliche e aziende agrarie e zootecniche consentirono alla Pezzullo di essere tra le prime cinque aziende italiane produttrici di pasta. Il modernissimo stabilimento, con sistema giapponese stock-less (riduzione scorte e veloce evasione degli ordini), alla fine del decennio venne però ceduto alla Buitoni di De Benedetti. Oggi, il rilancio dei due storici brand salernitani – Antonio Amato e l’OrodiNapoli – è affidato a 17 due affermati gruppi alimentari, rispettivamente Di Martino e Newlat (famiglia Mastrolia), che ne hanno rilevato la proprietà. 5. L’affermazione dell’industria conserviera Il conserviero rappresenta il comparto portante dell’industria alimentare in provincia di Salerno. Le origini risalgono a fine Ottocento e inizio Novecento, quando la Cirio, dopo una lunga e pionieristica esperienza nella conservazione di prodotti ortofrutticoli, s’insediò nell’area del San Marzano e localizzò i primi stabilimenti nel triangolo tra San Giovanni a Teduccio, Castellammare e Sarno. Il suo esempio fu presto imitato da imprese napoletane, con forti legami con gli Stati Uniti, come la Fratelli Santarsiero e la Vincenzo Del Gaizo che nel 1920 si fusero attraverso un’integrazione orizzontale. Altre imprese arrivarono nel dopoguerra, come la Vitelli (poi ELVEA) di Torre del Greco, che dal commercio del corallo nel mercato americano iniziò a esportare conserve alimentari, o come la emiliana Paolo Baratta che, partendo dal commercio di formaggi stagionati, si insediò nella Piana del Sele, oggetto di rilevanti interventi di bonifica. Nel 1928, tra l’agro nocerino-sarnese e Battipaglia, si contavano 93 imprese, di cui 50 con più di 100 addetti, e operavano i grandi stabilimenti conservieri di marchi ormai rinomati: Cirio, Del Gaizo Santarsiero, Torrigiani, Bertozzi, Santerasmo, Paolo Baratta e la ligure-lombarda Fratelli Caronni. Nel primo Novecento, se le iniziative napoletane ed esogene furono più rivelanti per organizzazione, 18 capitali e tecnologie, la notevole crescita del settore fu dovuta alla presenza di numerose piccole e medie imprese locali. Sin dai primi decenni erano in attività i conservifici di Salvatore Forino (Nocera Inferiore) e di Ernesto e Silvestro Crudele (Pontecagnano), ai quali si aggiunsero, tra gli altri, Antonio Petti (1925) e Annibale Pancrazio (1930). Gli intrecci con altre attività agricole e industriali caratterizzarono numerose iniziative conserviere autoctone, come nel caso della S. A. Nocerina Conserve Alimentari (pastificio, confettificio), della Industria Salernitana Conserve Alimentari Florio & C., legata al gruppo Florio-Petrone (industria olearia), della società Rinaldi (castagne, frutteti) o della Gabriele Gambardella & Figli (vivai di agrumi). Molte di queste società erano destinate a divenire, nel secondo dopoguerra, tra le più affermate imprese conserviere, almeno sino agli anni sessanta. La crescita delle esportazioni, esponenziale sino alla Grande Guerra, fu legata alla domanda delle comunità di emigranti in cerca dei sapori della propria terra d’origine. Dopo le difficoltà belliche, che favorirono la Cirio grazie alle commesse militari, gli anni venti conobbero una forte ripresa dei flussi di esportazione sino a quando gli effetti di quota 90 (rivalutazione della lira) e della grande depressione non si abbatterono su un settore con una forte vocazione all’export. A inizio anni trenta si registrarono fallimenti, cessazioni, inattività, acuiti dalla mancanza di capitali per il fallimento della Cassa di Risparmio di Salerno (1931). Il rincaro dei prezzi, tuttavia, non impedì alla Cirio di diventare il più grande gruppo conserviero europeo, con linee diversificate, stabilimenti in tutta Italia e diverse aziende agrarie, oltre allo zuccherificio di Capua. La Delsa, invece, meno favorita dal regime, incontrò maggiori difficoltà e fu costretta a ricorrere a un mutuo IRI. A fronte dei mutamenti nelle abitudini alimentari dei discendenti della prima ondata di emigrazione, altre imprese, invece, tramite nuove linee produttive, integrazioni verticali ed espansioni territoriali, riuscirono a esportare nelle colonie e a conquistare altri mercati esteri. La fine del secondo conflitto mondiale, con il ripristino delle relazioni commerciali internazionali e le importazioni di banda stagnata, e poi l’apertura del Mercato Comune Europeo videro un proliferare di iniziative – spesso di piccole dimensioni, con una impronta tecnologica e finanziaria tradizionale – che sfociarono nella crisi di sovrapproduzione di fine anni sessanta, seguita dal ridimensionamento dei principali gruppi storici. Il passaggio alla modernità produttiva, accompagnato da un ricambio che segna l’emergere delle attuali imprese leader, implicò la ristrutturazione del settore tra gli anni sessanta e ottanta, mentre si consolidava una filiera produttiva che, con il supporto di numerose aziende di trasporto, vedeva a monte imprese metalmeccaniche e a valle imprese di imballaggi. L’introduzione del premio di produzione CEE (1978) e il fenomeno della bipolarizzazione tra trasformazione e produzione, con le aree di coltivazione sostanzialmente trasferite in Puglia, comportò, dagli anni ’80, un nuovo assetto caratterizzato dalla riduzione dell’occupazione e della dimensione aziendale, ma anche dalla polarizzazione tra le molte microim- prese e alcune di grandi dimensioni. Tra i principali player emerge, oggi, considerando anzitutto il fatturato, il gruppo La Doria, seguito dalla Giaguaro e dalla Antonio Petti fu Pasquale. Storie diverse caratterizzano tali imprese. Più antica è la Petti (1925) che, attraverso l’incrocio con la famiglia Gambardella (1950) e l’acquisizione dello stabilimento di Venturina Terme (1973), ha allargato il baricentro alla Toscana. Più recente è, invece, la Giaguaro (1978) che, con stabilimenti a Caivano (ex Cirio) e a Sarno, risale agli anni ’60. La Doria (1954), infine, nata dall’esperienza nel commercio di prodotti ortofrutticoli di Diodato Ferraioli, è diventato un grande gruppo alimentare, affermandosi come impresa unbranded attraverso le private labels. Con origini differenti, ma accomunate da una concezione moderna del fare impresa, tali società rappresentano, insieme ad altre di antica tradizione (Pancrazio), la punta di un settore fortemente radicato - attraverso più di un secolo - su un territorio dai caratteri decisamente distrettuali. Negli anni Duemila, nonostante la recessione dell’ultimo decennio, il settore conserviero dell’agro nocerino sarnese, con una funzione anticiclica, ha retto alla crisi e, anzi, puntando sulla qualità, è cresciuto in modo evidente, garantendo sostanzialmente i livelli occupazionali e consentendo all’area di svilupparsi. 6. La «stagione» del tabacco Dagli anni venti/trenta sino agli anni sessanta il tabacco ha avuto, in termini occupazionali, un peso considerevole nell’industria manifatturiera salernita- 19 na che non trova riscontro nel modello di specializzazione campano e nazionale. Rispetto al totale degli addetti provinciali, il settore ne assorbiva il 12-16% tra il 1937 e il 1951 e quasi l’8% nel 1971, corrispondenti ad oltre la metà dell’occupazione settoriale regionale. La tradizione cavese nel tabacco «da fiuto» e la presenza dell’Istituto sperimentale a Scafati, con tecnici come Leonardo Angeloni, crearono le premesse per la diffusione del tabacco. L’impulso decisivo derivò, tuttavia, dalle agevolazioni normative (1917) previste a vantaggio dei concessionari speciali autorizzati a produrre tabacco per le manifatture del Monopolio e dalle bonifiche realizzate nella Piana del Sele, prima dalla ditta Valsecchi e Farina, confluita nella Società Anonima Bonifiche, e poi dai due Consorzi, istituiti a destra e sinistra del fiume. Impresa di riferimento fu la Società Agricola Industria Salernitana (1918) che, avviato inizialmente un caseificio a Battipaglia, riuscì in un quindicennio ad assorbire i tabacchifici concorrenti e i frutteti della Bonvicini a Paestum, così da acquisire una posizione monopolistica in provincia, assumendo la denominazione di Società Agricola Industriale Meridionale (1933-35). Medi e grandi proprietari, come Gerardo Alfani e Mattia Farina (deputato popolare e poi senatore fascista), furono gli animatori della compagine, prima che emergesse il ruolo imprenditoriale di Carmine De Martino (poi deputato democristiano nella Repubblica). Dismessa l’essiccazione di tabacchi da sigari, la SAIM orientò la produzione in linea con la politica autarchica del fascismo, al fine di sostituire l’importazione di sigarette americane con prodotti 20 nazionali. Forte in provincia di 13 tabacchifici, con annesse aziende agrarie e case per operai, realizzò un’espansione fuori provincia (Campobasso, Castel Fidardo, Scanzano), sino a divenire il principale concessionario speciale del Paese. Acquisita la tenuta di Persano (1940), si trasformò, tramite l’incorporazione della TEPS (1941), con le sue linee filo-tramviarie, in un gruppo polisettoriale, secondo una strategia rafforzata, dopo il conflitto, con la creazione di un’azienda conserviera, con annesso scatolificio, e con la costituzione della SECER (1944), società edilizia, ad azionariato diffuso, volta a fronteggiare – anni prima del piano INA-Casa – la questione abitativa. Ottenuti grandi risarcimenti per i danni di guerra subiti, nel 1949 la SAIM avviò i primi scorpori e vantaggiose dismissioni all’ATI, sino a trasformarsi in un gruppo di fatto (1955), composto da varie società (SAIM, SAIS, SAID, SLAI, STIV), unite da legami familiari. A seguito della peronospera del 1961, quando si paventava una crisi di lungo periodo per la tabacchicoltura italiana, Carmine De Martino e le sue imprese ordirono un’operazione (milionaria) di importazione di tabacchi dall’estero, in violazione delle leggi sul monopolio. Finirono così al centro dello scandalo dei «tabacchi messicani» che portò, invano, alla messa in stato d’accusa del ministro delle Finanze Trabucchi (1964), quando ormai l’onorevole salernitano era già scomparso in piena campagna elettorale (1963). Coinvolte nello scandalo e senza la guida di De Martino, un lento declino accompagnò le imprese del gruppo, portando alla sostanziale scomparsa del comparto provinciale. 7. I minerali non metalliferi: una tradizione persistente Nel corso del Novecento, la lavorazione provinciale dei minerali non metalliferi ha assorbito, con una punta massima nel 1971 (12%), una percentuale piuttosto stabile di addetti (6-9%) e ha avuto una rilevanza più elevata rispetto al peso rivestito dal settore a livello regionale e nazionale. Già nel tardo Ottocento, il Salernitano, oltre a vantare la tradizione ceramica vietrese e numerose fornaci, contava pure un’apprezzabile produzione di laterizi, grazie all’impianto cilentano della Dell’Osso e Del Mercato e, soprattutto, al moderno stabilimento, con sistema Hoffmann, avviato a Brignano da Matteo D’Agostino (1885). Superata la fase involutiva d’inizio secolo, i primi decenni del Novecento conobbero una notevole ripresa. A fine anni venti, il settore rappresentava ormai circa un terzo dell’occupazione e della forza motrice regionale, grazie alla crescita di alcuni comparti (vetro, cemento artificiale, laterizi). Pur accentrato nel napoletano, il comparto vetrario conobbe nei grandi impianti delle Vetrerie Meridionali (Vietri sul Mare) un moderno stabilimento meccanico automatizzato (lastre di vetro, bottiglie), capace di superare la vecchia lavorazione «a soffio». Fu Cesare Ricciardi, grande industriale livornese, animatore di vari stabilimenti, a rilevarlo e trasformarlo (1925-26), continuando l’attività sino al dopoguerra. Ad avviare la produzione di cemento artificiale fu, invece, la Società Anonima Cementi Salerno (1909), fondata da Luigi Barracano, che nel 1923 fu rilevata dalla bergamasca Italcementi, grande impresa della famiglia Pesenti, già in possesso di una trentina di opifici in Italia. Per tutto il Novecento, il cementificio di Salerno, più volte potenziato e poi delocalizzato nell’area industriale (anni ’90), ha rappresentato una costante nella realtà produttiva provinciale. Nei laterizi, principale protagonista fu ancora, la S. A. Fornaci Meridionali Matteo D’Agostino (1919) che, incorporata la Fornace Tiberina, orientò gli impianti di Brignano e Formia verso la produzione di piastrelle maiolicate da rivestimento, espandendosi nel centro-sud. Il comparto, in piena effervescenza, fu arricchito dalla presenza di nuove società anonime (Montecorvino Rovella, Casalvelino) e soprattutto dalla SALID (Salerno) che, rianimata da Barracano e rilevata dagli Scaramella, aveva ancora un grande stabilimento negli anni ’60. Prima della guerra, i laterizi assorbivano circa il 40% degli addetti del settore provinciale, ma anche della forza motrice regionale. Il conflitto mondiale, quasi annullando i progressi compiuti, rallentò la ripresa degli anni cinquanta; con la crisi dell’area vietrese, il settore appariva concentrato tra il capoluogo, Cava, i Monti Picentini e l’agro nocerino-sarnese. Matteo D’Agostino junior, tra i principali protagonisti del periodo, fondata l’Ernestine (1948), riuscì a creare e guidare un gruppo d’imprese che consentirono alla sua Ceramica una forte ascesa nel successivo decennio. Proprio a partire dagli anni sessanta, una serie di iniziative portarono ai grandi insediamenti esogeni della Ideal Standard (sanitari) e della Pennitalia (vetro piano), seguiti, a fine decennio, da imprese di medie dimensioni, come Promeo Sud (materiali refrattari per siderurgia), C.A.V.A e, a inizio 21 anni settanta, Ceramica Casarte (con stabilimenti a Salerno e Giffoni). Dagli anni settanta, con l’emergere della crisi edilizia, è prevalsa una tendenza alla moltiplicazione delle unità locali, accompagnata da frammentazione aziendale e riduzione occupazionale, anche se il settore ha accresciuto il suo peso a livello regionale, per il più ampio regresso dell’area napoletana. Gli anni ottanta assistettero alla dismissione dello stabilimento della Ideal Standard e alla crisi che coinvolse il gruppo D’Agostino, rilevato invano dalla Gepi, prima di essere acquisito dalla Ceramica Francesco De Maio. Il nuovo millennio, invece, ha visto la chiusura dell’impianto della AGC Flat Glass e lo stesso stabilimento della Italcementi è a rischio. Tra le poche realtà di rilievo, resistono, invece, antiche imprese ceramiche (De Maio, Pinto, Solimene) o società centenarie (Cianciullo Marmi) che trovano nella forza della storia uno slancio per nuove sfide imprenditoriali. 8. Carta, legno e plastica: destini incrociati L’importanza del settore legno ha tradizioni consolidate nell’economia del Salernitano, almeno fino al secondo dopoguerra. Il grosso della produzione era rivolto per lo più alla trasformazione – pali, doghe per botti e traverse ferroviarie – del legname proveniente dai boschi (querce, cedri, faggi e castagni) del Cilento, del Vallo di Diano e dell’Alto e medio Sele. Inoltre, accanto a una manifattura artigianale di ottimi ebanisti, una parte del settore era occupato, sin dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, da alcune importanti realtà industriali, tra queste la Giovanni Mauke e Figli (1883) 22 con il suo stabilimento al ponte di Fratte (Salerno), sorto accanto alla filanda di Davide Vonwiller cui apparteneva il suolo e parte dei fabbricati. La ditta, presente anche con un negozio a Salerno, per oltre 50 anni rivestì, anche con Adolfo, un ruolo importante sul mercato nazionale con i suoi lavori di arredo in legno, lavorato anche a vapore. Altra presenza cittadina d’inizio secolo era quella della ditta D’Amico, che nei suoi depositi, presso il porto, immagazzinava dalle sottili chiancarelle a vari prodotti d’esportazione. In provincia, già da fine secolo operava Gaetano d’Agostino & C. (1884) che sempre a Vietri controllava anche la A. Gallotti & C. (1887). Alla vigilia del primo conflitto mondiale troviamo a Scafati la Ditta Capone, Tricento e Cardillo (1914). Il raffronto fra i dati del censimento industriale del 1927 e quelli del 1937 mostra un settore in espansione, ma di fatto ancora legato alla dimensione artigianale. Questi sono gli anni in cui capaci ebanisti avviavano in piccoli laboratori di provincia, attività familiari che, nel tempo, sarebbero diventate importanti punti di riferimento nel settore. Così la storia aziendale di Francesco Giannattasio, che dal fare mobili, si trasformò in azienda familiare avviandola nel 1963, in piena fase espansiva del settore, e specializzandola nel segmento dei serramenti e degli avvolgibili in legno. Dagli anni settanta, fino agli inizi dei ‘90, il settore si avviava verso la decrescita delle unità locali che in realtà stava a indicare ampliamenti di impianti e nuove localizzazioni. Questo il caso della famiglia Basile che nel 1970 trasportava arte e competenze nell’innovativo stabilimento di Nocera Superiore e si apriva all’arredamento di lusso e all’internazionaliz- zazione, nonostante il settore legno abbia registrato, nell’ultimo ventennio novecentesco, un lento, ma costante trend negativo, prolungatosi fino al nuovo millennio. Nell’ambito del settore legno-mobilio, si colloca il segmento dei materassi che, in provincia di Salerno, conta su tutta una galassia di piccole imprese cresciute all’ombra del trend positivo del comparto. Ancora oggi, il segmento riesce a contrastare la concorrenza, soprattutto americana, con la qualità del made in Italy. Un settore dove le aziende nel tempo hanno saputo far leva sulla creatività, le innovazioni e le competenze. Tre caratteristiche che ad esempio hanno fatto della Valflex (Rinaldi Group) di Giffoni Valle Piana, una moderna organizzazione aziendale. Per quanto riguarda, invece, il cartario, il patrimonio salernitano per tutto il ‘700 si fondava essenzialmente sul polo amalfitano (Amalfi, Maiori, Minori, Ravello) che con circa 44 cartiere costituiva il nucleo portante di un settore che nel Mezzogiorno ne contava complessivamente 64. Di questa antica tradizione, ne fu eccellente interprete Luigi Amatruda, con la sua cinquecentesca cartiera amalfitana nella Valle dei Mulini, il quale – puntando sulla tradizione – ne aveva fatto un richiesto prodotto di nicchia. Una famiglia che delle difficoltà del mercato, della forte concorrenza, dell’impossibilità di investire e dell’avarizia della natura ha saputo fare dei punti di forza e oggi è, con la decima generazione, a portare avanti la sua sfida imprenditoriale. Nel 1887 la provincia di Salerno contava 28 opifici che occupavano 415 addetti, un numero d’aziende che rimase pressoché inalterato per circa 50 anni a fronte di oscillanti livelli occupazionali, di fatto tendenti sempre verso il basso. Un discorso diverso per gli stabilimenti tipografici che, dagli appena 17 del 1887 con soli 153 addetti, nel censimento industriale del 1937 li troviamo in numero di 147 con 287 operai. Iniziava proprio a fine ‘800 l’esperienza della Di Mauro che, partita da una piccola stamperia a Cava de’ Tirreni, si espandeva fino agli anni ’80 grazie anche ai finanziamenti dell’Isveimer e della Cassa del Mezzogiorno; oggi, seguendo nuove strategie aziendali si è avvicinata al mercato del packaging flessibile. Diversa la partenza, nel settore legno, ma stessa e più precoce la destinazione per un’altra centenaria impresa salernitana: il Gruppo Sada che sin dal 1931 si era occupata di imballaggi e a partire dall’inizio degli anni sessanta avviò la lavorazione del cartone ondulato fino all’attuale ingresso nel packaging biodegradabile, riciclabile e riutilizzabile. L’uso della carta alimentare fu la partenza di un altro storico marchio salernitano, la De Luca, che oggi con shoppers, sacchetti e altri prodotti in carta è proiettato verso i mercati internazionali. Un discorso a parte merita la Arti Grafiche Boccia che, da oltre 50 anni presente nell’editoria, rappresenta una solida realtà imprenditoriale. Superati i difficili momenti dei primi anni novanta, già agli inizi del nuovo millennio era pronta all’importante collaborazione con il Gruppo Espresso che la proiettava verso importanti traguardi. Iniziata una fase di crescita, realizzava elevati investimenti al punto da diventare oggi una delle più importanti realtà europee. La Medac, infine, sin dagli anni sessanta iniziava a produrre contenitori e bicchieri in carta paraffinata, 23 che poi a partire dal 1977 trasformava in politenata; riusciva così ad espandersi anche sui mercati esteri. Da ultimo, in un settore non particolarmente rappresentativo dell’industria salernitana novecentesca, Battipaglia diveniva oggetto di investimenti e uno snodo tra storie d’impresa. Il nuovo millennio, infatti, mentre assisteva dolorosamente alla chiusura della Paif, che sin dal 1972 aveva avviato un moderno stabilimento di prodotti monouso in plastica, vedeva la definitiva affermazione della Jcoplastic, grazie alle scelte innovative, coraggiose ed ecosostenibili compiute sin dalle origini. 9. Il metalmeccanico: alla conquista del primato Sin dal primo Ottocento, la metalmeccanica campana è stata a lungo concentrata nella fascia costiera da Capo Miseno a Punta Campanella. Una propaggine dell’area napoletana era rappresentata, nel Salernitano, dalla Fonderia Fratte. Sorta nel 1835 come officina di riparazione dei cotonifici svizzeri, tese a specializzarsi nella costruzione di macchine e caldaie a vapore, sino a divenire, a inizio secolo, uno dei pochi stabilimenti per impianti industriali del Mezzogiorno. Non rientrata nell’italianizzazione delle MCM (1919), fu stabilimento ausiliario durante la Grande Guerra, ma accusò poi problemi di riconversione, rischiando più volte la chiusura durante la grande depressione, nonostante fosse, in provincia, il principale opificio meccanico. Ciò evidenzia chiaramente la debolezza del settore salernitano nella prima metà del Novecento. Eppure, tra le due guerre, non mancarono inizia- 24 tive foriere di successivi sviluppi. Mentre i Cantieri Vigliar e la Soriente poterono avvantaggiarsi della politica di riarmo in vista della guerra, salvo poi entrare in crisi a conflitto concluso, invece, diverse imprese meccaniche cominciarono a lavorare a servizio dell’industria alimentare, nacquero le Fonderie Pisano e, soprattutto, la Magaldi (1929) avviò con successo a Buccino la produzione di una supercinghia realizzata in pelle di bufala, utilizzata nell’industria automotive e nelle acciaierie. Passi più significativi nella crescita del settore provinciale si ebbero, però, solo a partire dagli anni cinquanta. Accanto a fonderie, piccoli stabilimenti siderurgici (La Meccanica Nese), modeste produzioni metalmeccaniche e alla Magaldi, nuove e rilevanti iniziative, arrivate dall’esterno, come l’emiliana Maccaferri (gabbioni zincati) e la Kerr (prodotti odontoiatrici), trovarono nel Salernitano una favorevole localizzazione, insieme ai più modesti impianti locali. Negli anni sessanta, con l’industrializzazione del Mezzogiorno, i comparti metallurgico e meccanico cominciarono ad assumere un assetto più moderno e funzionale, grazie al supporto del Consorzio industriale (1961) e ai finanziamenti bancari e dell’Isveimer, allora presieduto dal sindaco di Salerno Alfonso Menna. Lo sviluppo industriale salernitano, oltre ad avere un carattere complementare rispetto ad altre iniziative meridionali, lasciò spazio a fenomeni di accumulazione locale, per la prevalenza di iniziative locali rispetto alle fabbriche importate (nazionali ed estere). L’area d’insediamento ebbe come centri principali Salerno – con i grandi stabilimenti della Ideal Stan- dard (sanitari, radiatori) e della Landis & Gyr (termostati) – e Nocera Inferiore, con 10 stabilimenti quasi tutti di supporto all’industria conserviera. Tra le principali iniziative del periodo vanno rammentate imprese come SAICOM (carperteria), Paravia (ascensori e montacarichi), Gaetano Buscetto (macchine per conservifici) e aziende di produzione di contenitori metallici (Lattografica, F.lli Celentano). Emersero pure alcune fonderie di seconda fusione (le Pisano) e imprese di carpenteria metallica (Sassonia); anche la metallurgica salernitana, pur con minori addetti, conobbe un incremento e alcune novità di rilievo (Brollo e Pillar Naco Industries). A inizio anni settanta assumevano ormai rilievo due gruppi di produzione. Il primo era rappresentato dalle imprese produttrici di scatole metalliche per l’industria conserviera o di macchine per l’industria alimentare e per cartiere. In quest’ambito, oltre alla Superbox Meridionale (Battipaglia), crebbero pure aziende di minori dimensioni (Fa.ba sud, Gambardella, Litosud, Berga Sud, De Iuliis C. & A. e Meritermica). Il secondo gruppo, più innovativo, traeva origine soprattutto, ma non solo, da investimenti di provenienza extra-locale e concerneva accessori in gomma-metallo per autovetture (Smae del gruppo Pirelli), produzioni elettromeccaniche – CTM, Sele Cavi, Face Sud (Battipaglia) e Fatme (Pagani) – e macchinari per impianti di sollevamento e trasporto (Paravia, Industrie Magaldi). Mentre queste ultime rappresentavano gli esempi più innovativi delle iniziative imprenditoriali di origine locale, l’espansione delle reti telefoniche coincideva con lo spostamento nella Piana del Sele del baricentro produttivo e con il rapi- do decollo, dopo la crisi delle produzioni alimentari e del tabacco a fine anni sessanta, della zona industriale di Battipaglia. Negli ultimi trent’anni del Novecento l’industria metalmeccanica salernitana ha finito per acquisire una posizione di leadership a livello provinciale, assorbendo un terzo circa del totale degli occupati nell’intera industria manifatturiera salernitana, laddove nel 1971 rappresentava soltanto il 16% circa. In particolare, alla fine del secolo, il 90% dell’occupazione metalmeccanica provinciale appariva concentrato in cinque-sei comparti. La metallurgia, con più del 40% degli addetti, la meccanica di base (meno del 20%), l’elettronica/elettrotecnica (in forte calo) e la meccanica di precisione (con la FOS) erano i soli che, insieme alla siderurgia, mostravano una qualche specializzazione regionale. Numerose trasformazioni e difficoltà hanno interessato il settore nell’ultimo ventennio che, tra l’altro, ha visto la cessione alla multinazionale Otis di un brand storico come Paravia. Non mancano, però, esempi d’imprese, dal Gruppo Magaldi alla Euroflex, in grado di crescere e di raccogliere le nuove sfide della globalizzazione e dell’internazionalizzazione anche per riconfermare al metalmeccanico provinciale un primato faticosamente conquistato. 10. Il porto: approdo e partenza per sfide d’impresa Il porto di Salerno nel primo dopoguerra non si mostrava pienamente rispondente ai bisogni della navigazione e, con i persistenti problemi d’interramento 25 verso levante, continuava a rivivere frustrazioni che sembravano appartenere al passato. Ma il primo ventennio comunque si chiudeva con un importante risultato: l’inaugurazione nel novembre del 1925 del tronco di allacciamento alla Stazione Ferroviaria. Un’opera importante per la movimentazione sul molo che iniziò a coinvolgere importanti operatori del settore come ad esempio i D’Amico – oggi armatori di successo – che proprio alla metà degli anni trenta si avviavano a diventare una multinazionale di successo. Gli anni alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia (giugno 1940) videro un rifiorire del movimento marittimo mercantile del porto di Salerno, che aveva visto crescere sensibilmente i suoi traffici come nel 1934, quando avevano raggiunto la punta massima di 203 mila tonnellate. Poi, nei giorni dello sbarco, il porto fu protagonista di importanti operazioni militari che, per la logistica, videro molto attiva una delle più antiche e importanti famiglie di spedizionieri: gli Autuori che non indugiarono a prestare il necessario supporto agli alleati. Nel 1944 si diede avvio alla ricostruzione dei Magazzini Generali e dal 1947 fino al 1964 fu tutto un susseguirsi di interventi volti soprattutto all’adeguamento dell’infrastruttura. I lavori ripresero nel 1969 con finanziamenti disposti dalla Cassa per il Mezzogiorno. Solo con il piano regolatore del 1974 fu previsto l’allargamento dell’imboccatura del porto, l’approfondimento dei fondali portuali, il prolungamento dei moli Manfredi e Trapezio. Questi, infatti, erano gli anni in cui terminal operators, come Giuseppe Gallozzi, iniziavano importanti investimenti in attrezzature portuali per la movimentazione dei containers, 26 proiettando il porto verso le grandi rotte del trasporto marittimo containerizzato. Un segmento che si avviava a registrare ritmi di crescita sostenuti per oltre un ventennio. Il piano per Salerno, voluto nel 1993 dall’allora sindaco De Luca, tra i diversi progetti di riqualificazione della città, prevedeva quello della nuova Stazione Marittima che venne vinto dallo studio Zaha Hadid Ltd di Londra nel 2000. Opera di straordinaria bellezza architettonica – situata nei pressi del porto commerciale e di quello turistico e completata nel 2016 – consente un traffico passeggeri di circa 500.000 unità all’anno, diventando un importante terminale nell’ambito dei servizi turistici. 11. Un valore aggiunto: il turismo Turismo, cultura, dieta mediterranea sono il valore aggiunto nella provincia di Salerno. Un territorio che si estende per circa 5.000 kmq comprendendo, capoluogo incluso, zone di eccellenza turistica che vanno dalle Costiere amalfitana e cilentana e ai loro splendidi entroterra, fino alle comunità degli Alburni e ai luoghi termali. Nulla d’improvvisato: le radici sono antiche e, senza andare troppo lontano, risalgono quantomeno agli anni che il Grand Tour voleva Salerno e parte del suo territorio come una meta obbligata per il viaggiatore. Così, dalle più avventurose tappe tardo settecentesche a quelle più educative della prima metà dell’800, esse venivano compiute per una completa formazione culturale dei giovani e ricchi aristocratici europei, un Erasmus ante litteram. Accanto a loro, poi, tutto un nutrito gruppo di ar- tisti le cui gouache hanno immortalato scorci straordinari di paesaggi, da Paestum alla costiera amalfitana. Ma si veniva anche per studiare, come a Cava de’ Tirreni dove, sin dai primi decenni dell’800, giungevano dall’Italia e dall’estero studiosi che andavano a consultare la ricca biblioteca/archivio della vicina Abbazia Benedettina della SS. Trinità. Essi durante il soggiorno pernottavano all’albergo Metelliano, probabilmente nello stesso luogo dove oggi sorge l’Hotel Scapolatiello. Con il tempo l’offerta ricettiva nella provincia si adeguava alla sempre crescente domanda di servizi. Accanto alle mete privilegiate del turismo internazionale, inglese e tedesco, come Amalfi e Positano, ora anche Ravello si inserisce nel circuito con le sue due splendide ville, Cimbrone e Rufolo, grazie soprattutto all’intraprendenza della famiglia Schiavo. Il turismo, soprattutto per Amalfi e il suo circondario, è stato negli anni a cavallo tra i due secoli scorsi un modo per riconvertire un’economia in crisi; un’occasione da cogliere per uscire dalla difficile fase recessiva in cui versava la sua economia. Una fase di ristagno che – aggravata dalla crescente esclusione dai mercati di sbocco e di riferimento – generò la crisi tanto dell’industria del sapone e del ferro, quanto dei settori cartario e pastario. Quest’ultimo, soprattutto, fu protagonista di un esodo verso la più dinamica realtà imprenditoriale di Gragnano. Dal primo ventennio del Novecento la domanda di turismo si stava spostando anche verso quello balneare e centri come Maiori e Praiano iniziavano a investire in prime modeste strutture ricettive, che poi dagli anni ’50 iniziarono a vivere una golden age. La fascia costiera si stava gradualmente dilatando e ora anche i centri di Vietri, Conca dei Marini, Erchie, Cetara erano diventate apprezzate mete turistiche. La costiera cilentana, con l’eccezione di Paestum nei circuiti turistici già dal XIX secolo, iniziò più tardi a investire nel settore e prima nel 1952 con Palinuro (Club Méditerranée) e poi via via con tutti gli altri centri costieri: Agropoli, Ascea, Castellabate, Pisciotta e via dicendo. Le due costiere seguono due diversi modelli di sviluppo turistico: quello amalfitano, rivolto a intercettare una più qualificata domanda alberghiera, e l’altro cilentano, che puntava soprattutto sulla domanda di giovani (con campeggi) e famiglie (con seconde case in uso o in fitto), sviluppatasi con l’esplosione del turismo di massa, all’indomani del miracolo economico. I finanziamenti concessi tra gli anni ’50 e ’60 dalla Cassa per il Mezzogiorno stimolarono in provincia la costruzione di nuove strutture, determinando una forte espansione del settore edile, che poi si ridimensionò negli anni settanta all’indomani dei due shock petroliferi e dei fatti legati al terrorismo. Sul finire di questi anni, alla riduzione del numero delle strutture si accompagnarono, invece, sempre più frequenti casi di ampliamento e ammodernamento per adeguarle alle esigenze che la nuova industria del viaggio richiedeva dal mercato (numero maggiore a prezzi più competitivi). Una tendenza che sarebbe continuata fino alla fine del XX secolo, ovviamente sempre a maggiore vantaggio della qualità. Infine, sin dai primi anni del Novecento, nell’area di Contursi si è incentivata un’altra forma di turismo, quello termale, che nel tempo ha poi creato uno dei più importanti sistemi nazionali. 27 12. Conclusioni Un’antica vocazione industriale ha caratterizzato, dai secoli più remoti, l’assetto manifatturiero ed economico della provincia di Salerno. Sin dalla medievale produzione cartaria e dalla secolare tradizionale ceramica vietrese, un’atmosfera industriale ha finito per “contagiare” i numerosi settori che dall’Ottocento al Duemila si sono sviluppati in una delle province italiane più industrializzate. Accanto a investimenti pubblici e privati, nazionali ed esteri, nel corso dei decenni è cresciuta anche un’imprenditoria locale capace di fare impresa in senso moderno e in grado di innovare e competere sulla frontiera tecnologica internazionale. Certo, la crisi del 2008 ha implicato una brusca caduta, difficoltà occupazionali e terziarizzazione delle aree industriali. Il ritiro delle multinazionali e di gruppi italiani, pur tra permanenze, si è accompagnato alla chiusura di imprese storiche o all’assorbimento 28 di altre in grandi corporation. Nell’agro-alimentare emergono, però, le imprese conserviere più dinamiche e coraggiose. Innovazione e internazionalizzazione premiano, in diversi settori, antichi gruppi imprenditoriali, imprese storicamente consolidate e aziende prossime alla quotazione borsistica. Nuove realtà di nicchia, di design e del made in Italy competono in un’economia globale assecondando antiche vocazioni industriali. Attraverso il porto e Marina d’Arechi approdano e partono rinnovate sfide imprenditoriali che ormai coinvolgono anche rotte terrestri internazionali. La risalita appare difficile, ma è più di una speranza. «Fare impresa», come sostiene il presidente di Confindustria Salerno Andrea Prete, è «un mestiere difficile ma carico di vita» (Costozero, 9-5-2017). (A entrambi gli autori sono da attribuire i paragrafi 2 e 12, Aldo Montaudo è responsabile dei paragrafi 3-7 e 9, Biagio Di Salvia dei paragrafi 1, 8, 10-11; il lavoro, comunque, è condiviso da entrambi) 29 Finito di stampare nel mese di dicembre 2019 dalla Grafica Metelliana SpA per Areablu Edizioni in Mercato San Severino (SA) Visioni d’Impresa Un secolo di industria nel Salernitano a cura di Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia ISBN 9788894925487 EURO 40,00