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Visioni d'impresa 100Confindustria,2019-AM&BDS-1

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Visioni d’Impresa
Un secolo di industria
nel Salernitano
a cura di
Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia
ISBN 9788894925487
EURO 40,00
© 2019 – Areablu Edizioni S.r.l.
www.areabluedizioni.it
Cava de' Tirreni (SA) – Italy
Si ringraziano per il loro contributo
ISBN 978-88-94925-48-7
Coordinamento operativo
Vito Salerno, Raffaella Venerando
Archivio Fotografico Parisio
Napoli
Consulenza fotografica
Massimo Pica - Agenzia fotografica, Salerno
Progetto grafico
EOLO - Ernesto Manzolillo
Stampa e allestimento
Grafica Metelliana SpA
www.graficametelliana.com
———
Riproduzione su gentile concessione delle imprese
© Copyright di Confindustria Salerno
I diritti di traduzione, di riproduzione, di memorizzazione elettronica
e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi
i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non
espressamente autorizzata
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Immagine di copertina
Salerno, post 1945, EBAD - Archivio Digitale Eboli
Fondo Fotografico Luigi Gallotta
MUDIF
Museo Didattico della Fotografia
Nocera Inferiore (SA)
EBAD - Eboli Archivio Digitale
Fondo Fotografico Luigi Gallotta
Pasticceria Pantaleone - Salerno
Ceramica Pinto srl - Vietri sul Mare
Gaetano Buscetto srl - Nocera Inferiore
Associazione ARKOS - Battipaglia
Un ringraziamento particolare a
Prof. Nicola Oddati
Dott. Mario Rocco
Visioni d’Impresa
Un secolo di industria
nel Salernitano
a cura di
Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia
Indice
Salerno luogo di impresa, un lungo racconto di intuito e coraggio
Andrea Prete - Presidente Confindustria Salerno
Imprese e industria in provincia di Salerno: dal Novecento al nuovo millennio
Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia
11
Cento anni di imprenditoria salernitana tra storie e immagini
Testi e selezione fotografica ad opera dei curatori
29
Pastifici
30
Imprese Conserviere
38
Tabacchifici e Imprese Alimentari
46
Carta e Cartotecnica
57
Legno e Arredo
68
Imprese Tessili
75
Industria Metalmeccanica
80
Ceramica e Laterizi
95
Chimica e Plastica
104
Attività Marittimo-Portuali e Trasporti
108
Turismo e Distribuzione
116
I Presidenti
Le Imprese
4
7
125
127
5
Imprese e industria in provincia di Salerno:
dal Novecento al nuovo millennio
Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia
1. Confindustria Salerno: i primi cento anni
Sorta nel 1919 come Fascio Industriale della Provincia di Salerno, l’associazione confindustriale salernitana in questi mesi vive i suoi cento anni di storia associativa. Il sodalizio compie i suoi primi passi
come organizzazione aderente all’Unione Regionale
Industriale (URI) di Napoli, unitamente all’Associazione industriali Serici di Caserta, all’Unione Provinciale
Industriali Commercianti Agricoltori della Provincia di
Caserta, e all’Associazione Industriale Molisana.
La cronaca cittadina, nell’agosto del 1919, riportava che Luigi Barracano, prestigiosa figura del tessuto
economico salernitano, aveva dato vita alla Federazione Meridionale Commerciale e Industriale con la
precisa volontà di «formare una unione salda, pronta
ad ogni sacrificio per il bene della collettività e per il
progresso ed incremento economico della regione, in
armonia con quello generale della nazione» (Il Giornale di Salerno, 2 agosto 1919). La strada era tracciata: l’ingegner Antonio Santoro, qualche mese più tardi, l’11 dicembre, nella qualità di presidente, convocò
nei locali della sua ditta l’assemblea straordinaria dei
soci salernitani del Fascio Industriale Regionale (Risorgimento Salernitano, 20 dicembre 1919).
A partire dagli anni venti, il sodalizio, assunta la
nuova definizione di Fascio Industriale della Provincia di Salerno, aprendo alle piccole e piccolissime
realtà imprenditoriali – che con difficoltà riuscivano
a rapportarsi alle più grandi e importanti realtà industriali salernitane – provocò non poche diffidenze
verso le stanze napoletane, accusate di difendere solo
gli interessi delle grandi aziende sia partenopee che
salernitane, al punto che nel 1923 mutò il nome in
Unione Industriale Commerciale Agricola della provincia di Salerno. Nulla però era cambiato ai vertici,
ancora saldamente nelle mani di Giulio Grimaldi (dal
1922) e del duo vice presidenziale Matteo Scaramella e Giuseppe Bisogno. All’indomani degli accordi di
Palazzo Vidoni (1925), che prevedevano l’ingresso di
Confindustria nel sindacato fascista, e dell’entrata in
vigore della legge Rocco sulla Disciplina giuridica dei
rapporti collettivi di lavoro (1926), si completò la piena adesione al regime fascista. L’associazione salernitana dal 1926 prese il nome di Unione Industriale
della Provincia di Salerno.
Ad assumerne la presidenza, che mantenne fino
al termine del secondo conflitto mondiale, fu Matteo Scaramella, figlio di Domenico – uomo di spicco
della vita economica salernitana, che per moltissimo
tempo ricoprì la carica di presidente della Camera di
Commercio di Salerno – ed erede dal 1928 del pastificio di famiglia, una delle più importanti realtà meridionali del settore. Il senso di fiducia verso la nuova
gestione si manifestò nello stesso anno, allorquando
si registrarono 800 nuove adesioni all’Unione. Gli
anni sotto la guida Scaramella furono vissuti, per altro
riuscendoci, alla conquista di una piena autonomia
soprattutto verso la Camera di Commercio. L’associazione ormai si autorappresentava a livello sindacale
e inviava al prefetto periodici rapporti sullo stato di
salute della produzione industriale in provincia.
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Nei difficili anni del secondo dopoguerra, il conte Alessandro Tibaldi, titolare dell’omonima industria
tessile, guidò tra il 1944-45, la Libera Associazione
degli Industriali: Salerno e la sua provincia iniziavano
nuovamente a fare impresa. Già dal 1945, però, a
guidare l’Associazione durante gli anni della ricostruzione, fino al 1961, fu Tommaso Prudenza, amministratore delegato del pastificio Rinaldo.
Alla vigilia degli anni sessanta, il paese stava vivendo, in piena espansione, il miracolo economico e
nel Mezzogiorno iniziavano gli interventi straordinari
concertati dal Ministero delle partecipazioni statali e
dalla Cassa per il Mezzogiorno. Salerno si avviava a
diventare il secondo polo industriale campano grazie
anche al suo sindaco, Alfonso Menna, che fortemente volle e realizzò l’Area di Sviluppo Industriale. Intanto, in questo decennio l’Associazione degli industriali
fu guidata prima da Giulio Santoni (1961-1965) e poi
dall’industriale ceramico Matteo D’Agostino (19651969), che chiuse la sua presidenza nell’anno dell’autunno caldo tra mobilitazioni operaie e rivendicazioni
salariali. Un anno prodromo alla crisi economica degli
anni settanta, segnati dalla fase del ridimensionamento aziendale (produzione e occupazione). Una crisi
che colpì i due settori trainanti dell’economia italiana
sin dagli anni della ricostruzione: l’edilizia e il tessile.
Enrico Giunta, dal 1969 al 1975, e Davide Morlicchio,
dal 1975 al 1979, guidarono Assindustria nei difficili
anni dei due shock petroliferi (1973 e 1979).
Iniziò poi la lunga parentesi in cui Giuseppe Amato, storico esponente dell’industria alimentare salernitana, guidò l’Associazione (1979-1986). Sono gli anni
in cui le manifatture ancora stentavano a riprendersi,
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e lo stesso poteva dirsi per il settore conserviero, ormai in crisi strutturale; i pastifici e l’edilizia mostravano
importanti recuperi, grazie anche alla forte domanda
dovuta alla ricostruzione post terremoto dell’Irpinia
(1980). Al termine del doppio mandato gli successe
l’imprenditore edile Augusto Strianese (1986-1990),
tra l’altro, anche esponente di spicco della Camera
di Commercio di Salerno. Sotto la sua presidenza fu
fondata la testata giornalistica degli industriali salernitani Costozero.
Gli anni novanta si aprivano all’insegna della deindustrializzazione; le imprese salernitane che erano
ancora in attività si videro costrette a ridurre il numero degli occupati e quelle di altri settori, già da
tempo in crisi, come il conserviero, dovettero invece
ricorrere all’occupazione stagionale. In questo scenario ritornò alla guida di Assindustria Giuseppe Amato
(1991-1995), seguito poi da Sossio Pezzullo (19951999). Ad Antonio Paravia (1999-2003), per il settore
metalmeccanico, spettò di traghettare l’Associazione
verso il nuovo millennio, quando fu scelto Andrea
Prete (2003-2007).
Il mandato di Agostino Gallozzi (2007-2011), per
il settore mare e trasporti, terminò con le sue dimissioni, cui seguì il commissariamento affidato al suo
past president, il senatore Sossio Pezzullo (giugno
2011-febbraio 2012).
I contrasti interni non facevano bene all’associazione, soprattutto in quegli anni di crisi che avevano indebolito il tessuto economico e produttivo della
provincia. Confindustria Salerno contava circa 700
associati, e sebbene molte fossero le eccellenze presenti tra di essi, dall’alimentare al conserviero, dal
polo grafico editoriale, al metalmeccanico, tuttavia
era più che mai viva la dura realtà che invece parlava
di cassa integrazione, di licenziamenti e di fallimenti.
Su tutti quello che ha fatto più male: il Pastificio Antonio Amato, un’azienda storica del settore che per
mezzo secolo ha legato il suo nome a quello della
città. Tra la pausa estiva e l’autunno una figura riuscì
a mediare la crisi fra gli schieramenti, facendo superare incomprensioni e contrapposizioni: era quella di
Mauro Maccauro, già presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Campania, che il 3 febbraio
2012 iniziò il suo mandato per terminarlo nel 2017,
anno in cui Andrea Prete – candidato unico alla successione – tornò a guidare Confindustria Salerno. Nel
suo nome, rispettabile, competente, pregno di spirito
confindustriale, l’Associazione oggi celebra i suoi primi 100 anni.
2. Il modello di specializzazione manifatturiero
Il 15 novembre 1885 il prefetto di Salerno, nella
sua relazione sullo spirito pubblico, evidenziava che
«fra le Provincie del Mezzogiorno questa, che ho l’onore di amministrare, è senza dubbio una delle più
importanti sotto il rapporto dell’industria manifatturiera». E menzionava, anzitutto, «le industrie dei
filati, tessuti e stampati di cotone, quella della fabbricazione dei panni-lana; l’altra dei filati in lino e canape; quella della manifattura delle paste alimentari,
e quella della fonderia Fratte» (ACS, Min. Int., Gab
(1892-94), b. 20, f. 57/3).
Attraverso la relazione prefettizia, si può affermare che la storia dell’industria in provincia di Salerno
mette in luce, già nel tardo XIX secolo, un modello di
specializzazione manifatturiera basato sulle industrie
tradizionali e leggere che tese a rafforzarsi, tra Otto
e Novecento, grazie agli sviluppi del settore conserviero. L’evoluzione di tale assetto riflette, in parte, le
dinamiche storiche nazionali e campane, seppure con
proprie scansioni temporali, ma anche con proprie
peculiarità, considerato il peso storicamente rivestito
dal tabacco e, ancor oggi, dal settore dei minerali non
metalliferi.
Durante il Novecento l’occupazione manifatturiera in Italia si è concentrata, in modo persistente, nei
settori della meccanica, del tessile-abbigliamento, del
legno-mobilio e dell’alimentare. I cinque settori rappresentavano l’84% degli addetti nel 1927 e costituiscono ancora (2011) il 73% del totale. Mentre a inizio
secolo il tessile e l’abbigliamento erano i settori leader
dell’industria manifatturiera, nel nuovo millennio, invece, il settore meccanico (nell’accezione del censimento industriale del 1951) ha ormai una posizione
d’indiscusso primato.
Nel caso italiano, il meccanico ha conquistato la
leadership degli addetti già al 1927, anche se solo
negli anni del miracolo economico è avvenuto il sorpasso sul settore tessile-abbigliamento, preso nel
suo insieme (1961). Invece, in Campania, dove l’agroalimentare continua ad avere un peso, la definitiva affermazione del settore meccanico (33%) si è
consumata durante gli anni sessanta, di pari passo
con il ridimensionamento del tessile-vestiario (18%) e
dell’alimentare (crollato all’11,5%).
Un ulteriore ritardo ha caratterizzato l’industria
manifatturiera della provincia di Salerno. Il divario
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temporale trova spiegazione nelle origini storiche e
nella permanenza di lunga durata della struttura industriale ottocentesca che, basata sulle industrie tessili introdotte dagli svizzeri e sull’agro-alimentare, ha
mostrato una persistenza secolare. Ancora nel 1927 il
63% degli addetti trovava impiego nei comparti tradizionali; se si considera anche il peso del settore del
legno (14%), appare chiaro come l’industria salernitana vedesse all’epoca un’assoluta predominanza dei
comparti leggeri (¾ degli addetti totali).
Tale specificità ha relegato, per lungo tempo, a un
ruolo marginale il settore meccanico salernitano che,
pertanto, ha stentato ad affermarsi nel primo Novecento (6-8% sino al 1951). Qualche miglioramento si
è registrato solo negli anni cinquanta (11,8%), anche
per la contemporanea crisi del tessile; al 1961, tuttavia, il settore alimentare (40%) deteneva saldamente
una leadership che ha mantenuto nel decennio successivo, nonostante la crisi occupazionale degli anni
sessanta (24,5% al 1971).
Dopo una crescita trentennale, solo nel 1981 il
settore meccanico salernitano (26,4%) è riuscito a
superare quello alimentare (23,2%) e ad affermarsi
come il comparto manifatturiero con la più alta percentuale di addetti. A ciò hanno contribuito anche
le stesse dinamiche del tessile e dell’alimentare dagli
anni cinquanta. Mentre l’industria tessile ha subito
una pesante crisi occupazionale da cui non si è più
ripresa, invece l’industria alimentare ha conosciuto
una forte fluttuazione degli addetti, con un’aspra alternanza tra periodi crescita o di crisi occupazionali,
che hanno riportato il numero degli addetti del 1991
ai livelli del 1951.
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In definitiva, l’industria meccanica nella provincia
di Salerno si è affermata come il principale settore
manifatturiero con un decennio di ritardo rispetto
alle dinamiche regionali e con un gap ventennale a
confronto con il caso italiano. Tra il 1991 e il 2011, similmente al trend regionale e nazionale, il metalmeccanico ha ulteriormente consolidato il suo primato a
livello provinciale, incrementando il suo peso relativo nell’occupazione manifatturiera provinciale (3537%), nonostante l’aumento relativo dell’alimentare
(dal 19 al 24%). Nondimeno, esistono ancora marcate differenze tra l’assetto provinciale e quello campano e italiano, laddove si consideri che nel Salernitano il metalmeccanico assorbe una quota di addetti
nettamente inferiore, mentre l’alimentare ha un peso
notevolmente superiore rispetto al caso regionale e,
soprattutto, nazionale.
3. La parabola del tessile
Il tessile-abbigliamento ha rappresentato sino alla
metà del Novecento il settore strategico dell’industria
manifatturiera salernitana. In particolare, dagli anni
venti dell’Ottocento, il cotone si affermò come il comparto fondamentale, relegando lana, lino e canapa a
un ruolo complementare, se non residuale.
Una forte identità culturale, religiosa, linguistica e
sociale, rafforzata da valori condivisi e da forti legami
familiari, aveva unito le tre generazioni di imprenditori svizzeri (e tedeschi) che, in meno di un secolo,
avevano reso i due poli produttivi del Salernitano un
complesso industriale di livello internazionale. Nel
1919, con l’egida di Nitti e l’appoggio della SME e
della Banca Italiana di Sconto, i Cotonifici riuniti di
Salerno (1916) e il gruppo di Robert Wenner furono
riunificati e italianizzati nelle Manifatture Cotoniere
Meridionali. I disegni di razionalizzazione, espansione verticale e contenimento dei costi, portati avanti
dal padovano Bruno Canto, forte dell’appoggio politico e della stampa, tuttavia, si infransero presto nel
fallimento della banca mista di riferimento e nella
politica deflazionistica del regime (1926). Quota 90,
infatti, penalizzò le esportazioni dei tessuti standardizzati di basso costo del gruppo, smerciati nei mercati balcanici e orientali. Ai primi sintomi della crisi
del 1929, le MCM, fortemente indebitate, passarono
sotto il controllo del Banco di Napoli che, con la gestione Paratore, puntò a risanare finanziariamente la
società, anche con riduzioni salariali e dell’orario di
lavoro.
Nella crisi degli anni trenta, numerose cessazioni di
attività e pesanti riduzioni della produzione interessarono anche le imprese cotoniere minori e gli altri comparti tessili, specie il laniero che, nella valle dell’Irno e
nel Picentino, vantava un’antica tradizione protoindustriale. I pochi lanifici industriali, di origine ottocentesca, cresciuti sino alla Grande Guerra, conobbero
un progressivo ridimensionamento o scomparvero; il
lanificio Notari (Vietri sul Mare) fu tra i pochi a sopravvivere e, anzi, puntando sul confezionamento abiti,
ebbe una fase di sviluppo sino a metà anni ’60.
Anche peggiori furono, forse, gli anni cinquanta.
Danneggiate dalla guerra, le MCM riuscirono ad ottenere prestiti dal Banco di Napoli e dal piano ERP, ma
si ritrovarono fortemente indebitate e furono salvate
dall’IRI, finendo nel calderone delle partecipazioni sta-
tali. Più infelice fu, invece, il destino di quelle imprese
minori che, con propri target e nicchie di mercato,
avevano continuato l’attività negli anni precedenti.
Nel decennio, infatti, chiusero sia la storica tessitura meccanica cavese di Leopoldo Siani, che risaliva al
1899, ma anche gli Stabilimenti Tessili Mattioli che,
da metà anni trenta, si erano localizzati a Vietri sul
Mare. La crisi postbellica implicò anche la dismissione
delle imprese canapiere di Sarno, ponendo fine a una
tradizione che risaliva all’Ottocento. Dallo stabilimento della Partenopea (1841), rilevante impresa nazionale anche dopo l’unificazione, erano infatti derivate,
grazie a imprenditori di diversa nazionalità, numerose
iniziative industriali, di dimensioni più modeste, tra
cui spiccava la Buchy e Strangmann, che sino allora
avevano occupato una non trascurabile manodopera.
La tradizione laniera, invece, conobbe un nuovo
slancio quando la Marzotto sud aprì a Salerno (1959)
un grande stabilimento di confezionamento di abiti
maschili. La società, poi denonimata Issimo, era una
diretta filiazione della Marzotto, grande gruppo di
Valdagno, che così, precorrendo i tempi, si impiantava
nel Mezzogiorno attraverso fondi BIRS tramite l’Isveimer. Altre iniziative, dalla SNIA Viscosa, poi TEX-SAL
(fibre artificiali) alle Manifatture Tessili Cavesi (biancheria e arredo casa), arricchirono il settore per un
certo periodo. Dopo un buon andamento, tuttavia,
nel 1983 arrivò la decisione unilaterale di sospendere la produzione della Issimo, ma anche altri impianti
chiusero negli stessi anni.
Poco dopo, tra il 1986-87, si arrivò alla privatizzazione delle Manifatture Cotoniere Meridionali. Il passaggio all’IRI non aveva riempito di contenuti indu-
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striali il gruppo cotoniero che, però, restava rilevante
sotto il profilo occupazionale. Negli anni settanta,
l’impresa era passata all’ENI, incaricata di riorganizzare l’intero settore tessile nazionale, ma il fallimento del piano Lanerossi aveva aperto, nel libro bianco
delle Partecipazioni statali, una nuova pagina che
prevedeva lo smobilizzo ai privati.
Di una tradizione plurisecolare, oggi, restano poche tracce, come le Manifatture Tessili Prete, che,
sorte nei difficili anni cinquanta, proprio a Scafati,
indicano nella qualità del made in Italy una possibile
strada per fare impresa in un settore non più strategico per le sorti industriali.
4. L’industria alimentare: il ruolo dei pastifici
Nel Novecento l’industria alimentare è stata una
costante peculiare del modello manifatturiero salernitano. Durante il secolo, pur con fluttuazioni, il
settore ha assorbito più di un quarto degli addetti
provinciali, con un massimo del 40% nel 1961; la
sua importanza relativa, diminuita dal 1991 (20%)
e nuovamente cresciuta nel 2011 (24%), resta piuttosto elevata a confronto con i corrispettivi valori
regionali e nazionali. La sua composizione interna,
escludendo per il momento il conserviero, ha subito
variazioni considerevoli che, a fronte delle numerose imprese olearie d’inizio secolo, hanno visto l’emergere del lattiero-caseario. In ogni caso, a lungo
i pastifici hanno rappresentato il simbolo stesso di
un’industrializzazione provinciale ascrivibile all’imprenditoria locale.
Antica tradizione campana, la pasta fresca pro-
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dotta dai maccaronari era un’arte bianca piuttosto
diffusa, tra XVII e XVIII secolo, nella costiera amalfitana e, poi, tra Gragnano e Torre Annunziata. La
produzione industriale della pasta, invece, cominciò
ad affermarsi nel tardo Ottocento, quando alcune
imprese, come Barilla e Buitoni, elevandosi rispetto
alle numerose iniziative artigianali, iniziarono a meccanizzare il processo produttivo. Un processo simile
si riscontra anche nel Salernitano.
All’epoca, la macinazione dei cereali, spesso animata da energia idraulica, era diffusa in modo capillare in provincia, mentre la produzione di pasta, con
torchi manuali, era realizzata in appena 27 comuni,
tra cui Nocera Inferiore, dove operavano una decina
di pastifici, come quello di Isaia Gabola. Negli anni
ottanta, Domenico Scaramella (1883) e poi il pasticio
Rinaldo (1868) cominciarono a modernizzare i loro
impianti, utilizzando energia a vapore, torchi idraulici Pattison, impastatrici a motore, gramole a coltelli,
macchinari per l’essiccazione artificiale. Il vapore, in
particolare, consentì a molini e pastifici di svincolarsi dalle fonti di energia naturali e di localizzarsi nel
capoluogo e nelle più popolose città della provincia.
La presenza nelle istituzioni intermedie (Camera
di Commercio), la padronanza dei mercati meridionali di approvvigionamento e la continua ricerca di
mercati sbocco furono altri tratti comuni ai pastifici Scaramella e Rinaldo. L’attività molitoria, tuttavia, rimase prevalente e solo nei primi decenni del
Novecento la produzione di pasta divenne rilevante, proprio mentre il settore conosceva un processo
di concentrazione, acuito dalle difficoltà belliche e
dal difficile dopoguerra. Lo stesso pastificio dei fra-
telli Natella, che a cavallo della Grande Guerra aveva conosciuto una grande espansione produttiva,
fu assorbito da Scaramella negli anni venti. In tale
decennio la trasformazione in società anonima consentì ai due principali pastifici salernitani non solo
l’introduzione di innovazioni, l’elettrificazione degli
impianti e miglioramenti nei rifornimenti e nella distribuzione, ma anche di fronteggiare, a differenza
di altri competitors (Alterio, Spera), gli effetti della
grande depressione.
Nonostante la crisi mondiale, i successivi anni
trenta rappresentarono, anche per altri produttori, una fase di espansione, grazie alla battaglia del
grano, all’autarchia e alle esportazioni sui mercati
coloniali. Mentre il pastificio Crudele emergeva a
Pontecagnano e Marcantonio Ferro rilevava a Cava il
pastificio Tirreno (1938), ancora più evidente appare
il successo del pastificio dei fratelli Gabola che, prima
della guerra, raggiunse una consistenza patrimoniale
persino superiore al pastificio Rinaldo.
L’operazione Avalanche, con i danni arrecati agli
stabilimenti, segnò i destini incrociati e le fortune dei
pastifici provinciali, tanto più che, con la ripresa dei
consumi, la pastasciutta diventava progressivamente
una presenza quotidiana sulla mensa degli italiani,
affermandosi come cibo nazionale e non solo. Nel
dopoguerra, grazie a finanziamenti del Banco di Napoli, la famiglia Ferro riuscì a modernizzare radicalmente il suo stabilimento, ma la sua affermazione
si arrestò alla metà degli anni sessanta. Poco dopo
chiuse anche il pasticio Scaramella che, con fondi
Isveimer, aveva cercato di rilanciare la produzione indirizzandola ai mercati inglese e mediorientale.
Il pasticio Rinaldo, invece, fu rilevato dalla famiglia Amato. Trasferendosi da S. Cipriano Picentino a
Salerno negli anni trenta, Antonio, insieme al nipote
Giuseppe, si era affermato nel commercio all’ingrosso di generi alimentari, tanto da ottenere dalle forze
alleate di occupazione l’incarico di distribuire vettovaglie alimentari alla popolazione. Grazie all’autofinanziamento e con aiuti Isveimer, gli Amato puntarono sull’innovazione e sul marketing, realizzando
uno stabilimento all’avanguardia e prodotti di altissima qualità, grazie al ciclo integrato di produzione
interamente controllato, dallo stoccaggio del grano
fino alla produzione della semola. Con tale produzione, il pastificio Antonio Amato riuscì a posizionarsi
al quarto posto in Italia per quota di mercato. La recente crisi (2009-2012), tuttavia, ha concluso ingloriosamente più di mezzo secolo di grandi successi
imprenditoriali.
Originari di Frattamaggiore, ma ebolitani d’adozione, Luigi Pezzullo prima e don Sossio rilevarono un
locale pastificio (1940) e, nell’arco di qualche decennio, lanciarono con successo l’OrodiNapoli. Dopo il
terremoto dell’80, elevata competitività grazie ad un
sofisticato sistema informatico, pochi scioperi dovuti
alla gestione paternalistica, provvidenze pubbliche e
aziende agrarie e zootecniche consentirono alla Pezzullo di essere tra le prime cinque aziende italiane
produttrici di pasta. Il modernissimo stabilimento,
con sistema giapponese stock-less (riduzione scorte
e veloce evasione degli ordini), alla fine del decennio
venne però ceduto alla Buitoni di De Benedetti.
Oggi, il rilancio dei due storici brand salernitani – Antonio Amato e l’OrodiNapoli – è affidato a
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due affermati gruppi alimentari, rispettivamente Di
Martino e Newlat (famiglia Mastrolia), che ne hanno
rilevato la proprietà.
5. L’affermazione dell’industria conserviera
Il conserviero rappresenta il comparto portante
dell’industria alimentare in provincia di Salerno. Le
origini risalgono a fine Ottocento e inizio Novecento, quando la Cirio, dopo una lunga e pionieristica
esperienza nella conservazione di prodotti ortofrutticoli, s’insediò nell’area del San Marzano e localizzò
i primi stabilimenti nel triangolo tra San Giovanni a
Teduccio, Castellammare e Sarno. Il suo esempio fu
presto imitato da imprese napoletane, con forti legami con gli Stati Uniti, come la Fratelli Santarsiero e la
Vincenzo Del Gaizo che nel 1920 si fusero attraverso
un’integrazione orizzontale. Altre imprese arrivarono
nel dopoguerra, come la Vitelli (poi ELVEA) di Torre
del Greco, che dal commercio del corallo nel mercato americano iniziò a esportare conserve alimentari,
o come la emiliana Paolo Baratta che, partendo dal
commercio di formaggi stagionati, si insediò nella
Piana del Sele, oggetto di rilevanti interventi di bonifica.
Nel 1928, tra l’agro nocerino-sarnese e Battipaglia, si contavano 93 imprese, di cui 50 con più di 100
addetti, e operavano i grandi stabilimenti conservieri
di marchi ormai rinomati: Cirio, Del Gaizo Santarsiero, Torrigiani, Bertozzi, Santerasmo, Paolo Baratta e la
ligure-lombarda Fratelli Caronni.
Nel primo Novecento, se le iniziative napoletane
ed esogene furono più rivelanti per organizzazione,
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capitali e tecnologie, la notevole crescita del settore
fu dovuta alla presenza di numerose piccole e medie
imprese locali. Sin dai primi decenni erano in attività i
conservifici di Salvatore Forino (Nocera Inferiore) e di
Ernesto e Silvestro Crudele (Pontecagnano), ai quali
si aggiunsero, tra gli altri, Antonio Petti (1925) e Annibale Pancrazio (1930). Gli intrecci con altre attività
agricole e industriali caratterizzarono numerose iniziative conserviere autoctone, come nel caso della S.
A. Nocerina Conserve Alimentari (pastificio, confettificio), della Industria Salernitana Conserve Alimentari
Florio & C., legata al gruppo Florio-Petrone (industria
olearia), della società Rinaldi (castagne, frutteti) o
della Gabriele Gambardella & Figli (vivai di agrumi).
Molte di queste società erano destinate a divenire,
nel secondo dopoguerra, tra le più affermate imprese
conserviere, almeno sino agli anni sessanta.
La crescita delle esportazioni, esponenziale sino
alla Grande Guerra, fu legata alla domanda delle comunità di emigranti in cerca dei sapori della propria
terra d’origine. Dopo le difficoltà belliche, che favorirono la Cirio grazie alle commesse militari, gli anni
venti conobbero una forte ripresa dei flussi di esportazione sino a quando gli effetti di quota 90 (rivalutazione della lira) e della grande depressione non si
abbatterono su un settore con una forte vocazione
all’export. A inizio anni trenta si registrarono fallimenti, cessazioni, inattività, acuiti dalla mancanza di
capitali per il fallimento della Cassa di Risparmio di
Salerno (1931).
Il rincaro dei prezzi, tuttavia, non impedì alla Cirio
di diventare il più grande gruppo conserviero europeo, con linee diversificate, stabilimenti in tutta Italia
e diverse aziende agrarie, oltre allo zuccherificio di
Capua. La Delsa, invece, meno favorita dal regime,
incontrò maggiori difficoltà e fu costretta a ricorrere a
un mutuo IRI. A fronte dei mutamenti nelle abitudini
alimentari dei discendenti della prima ondata di emigrazione, altre imprese, invece, tramite nuove linee
produttive, integrazioni verticali ed espansioni territoriali, riuscirono a esportare nelle colonie e a conquistare altri mercati esteri.
La fine del secondo conflitto mondiale, con il ripristino delle relazioni commerciali internazionali e
le importazioni di banda stagnata, e poi l’apertura
del Mercato Comune Europeo videro un proliferare
di iniziative – spesso di piccole dimensioni, con una
impronta tecnologica e finanziaria tradizionale – che
sfociarono nella crisi di sovrapproduzione di fine anni
sessanta, seguita dal ridimensionamento dei principali gruppi storici.
Il passaggio alla modernità produttiva, accompagnato da un ricambio che segna l’emergere delle
attuali imprese leader, implicò la ristrutturazione del
settore tra gli anni sessanta e ottanta, mentre si consolidava una filiera produttiva che, con il supporto
di numerose aziende di trasporto, vedeva a monte
imprese metalmeccaniche e a valle imprese di imballaggi.
L’introduzione del premio di produzione CEE
(1978) e il fenomeno della bipolarizzazione tra trasformazione e produzione, con le aree di coltivazione
sostanzialmente trasferite in Puglia, comportò, dagli
anni ’80, un nuovo assetto caratterizzato dalla riduzione dell’occupazione e della dimensione aziendale,
ma anche dalla polarizzazione tra le molte microim-
prese e alcune di grandi dimensioni.
Tra i principali player emerge, oggi, considerando
anzitutto il fatturato, il gruppo La Doria, seguito dalla
Giaguaro e dalla Antonio Petti fu Pasquale. Storie diverse caratterizzano tali imprese. Più antica è la Petti
(1925) che, attraverso l’incrocio con la famiglia Gambardella (1950) e l’acquisizione dello stabilimento di
Venturina Terme (1973), ha allargato il baricentro alla
Toscana. Più recente è, invece, la Giaguaro (1978)
che, con stabilimenti a Caivano (ex Cirio) e a Sarno, risale agli anni ’60. La Doria (1954), infine, nata dall’esperienza nel commercio di prodotti ortofrutticoli
di Diodato Ferraioli, è diventato un grande gruppo
alimentare, affermandosi come impresa unbranded
attraverso le private labels. Con origini differenti, ma
accomunate da una concezione moderna del fare impresa, tali società rappresentano, insieme ad altre di
antica tradizione (Pancrazio), la punta di un settore
fortemente radicato - attraverso più di un secolo - su
un territorio dai caratteri decisamente distrettuali.
Negli anni Duemila, nonostante la recessione
dell’ultimo decennio, il settore conserviero dell’agro nocerino sarnese, con una funzione anticiclica,
ha retto alla crisi e, anzi, puntando sulla qualità, è
cresciuto in modo evidente, garantendo sostanzialmente i livelli occupazionali e consentendo all’area di
svilupparsi.
6. La «stagione» del tabacco
Dagli anni venti/trenta sino agli anni sessanta il
tabacco ha avuto, in termini occupazionali, un peso
considerevole nell’industria manifatturiera salernita-
19
na che non trova riscontro nel modello di specializzazione campano e nazionale. Rispetto al totale degli
addetti provinciali, il settore ne assorbiva il 12-16%
tra il 1937 e il 1951 e quasi l’8% nel 1971, corrispondenti ad oltre la metà dell’occupazione settoriale
regionale.
La tradizione cavese nel tabacco «da fiuto» e la
presenza dell’Istituto sperimentale a Scafati, con tecnici come Leonardo Angeloni, crearono le premesse
per la diffusione del tabacco. L’impulso decisivo derivò, tuttavia, dalle agevolazioni normative (1917) previste a vantaggio dei concessionari speciali autorizzati
a produrre tabacco per le manifatture del Monopolio
e dalle bonifiche realizzate nella Piana del Sele, prima
dalla ditta Valsecchi e Farina, confluita nella Società
Anonima Bonifiche, e poi dai due Consorzi, istituiti a
destra e sinistra del fiume.
Impresa di riferimento fu la Società Agricola Industria Salernitana (1918) che, avviato inizialmente un
caseificio a Battipaglia, riuscì in un quindicennio ad
assorbire i tabacchifici concorrenti e i frutteti della
Bonvicini a Paestum, così da acquisire una posizione
monopolistica in provincia, assumendo la denominazione di Società Agricola Industriale Meridionale
(1933-35). Medi e grandi proprietari, come Gerardo
Alfani e Mattia Farina (deputato popolare e poi senatore fascista), furono gli animatori della compagine,
prima che emergesse il ruolo imprenditoriale di Carmine De Martino (poi deputato democristiano nella
Repubblica). Dismessa l’essiccazione di tabacchi da
sigari, la SAIM orientò la produzione in linea con la
politica autarchica del fascismo, al fine di sostituire
l’importazione di sigarette americane con prodotti
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nazionali. Forte in provincia di 13 tabacchifici, con
annesse aziende agrarie e case per operai, realizzò
un’espansione fuori provincia (Campobasso, Castel
Fidardo, Scanzano), sino a divenire il principale concessionario speciale del Paese.
Acquisita la tenuta di Persano (1940), si trasformò, tramite l’incorporazione della TEPS (1941), con le
sue linee filo-tramviarie, in un gruppo polisettoriale,
secondo una strategia rafforzata, dopo il conflitto,
con la creazione di un’azienda conserviera, con annesso scatolificio, e con la costituzione della SECER
(1944), società edilizia, ad azionariato diffuso, volta
a fronteggiare – anni prima del piano INA-Casa – la
questione abitativa. Ottenuti grandi risarcimenti per i
danni di guerra subiti, nel 1949 la SAIM avviò i primi
scorpori e vantaggiose dismissioni all’ATI, sino a trasformarsi in un gruppo di fatto (1955), composto da
varie società (SAIM, SAIS, SAID, SLAI, STIV), unite da
legami familiari.
A seguito della peronospera del 1961, quando si
paventava una crisi di lungo periodo per la tabacchicoltura italiana, Carmine De Martino e le sue imprese
ordirono un’operazione (milionaria) di importazione
di tabacchi dall’estero, in violazione delle leggi sul
monopolio. Finirono così al centro dello scandalo dei
«tabacchi messicani» che portò, invano, alla messa
in stato d’accusa del ministro delle Finanze Trabucchi (1964), quando ormai l’onorevole salernitano era
già scomparso in piena campagna elettorale (1963).
Coinvolte nello scandalo e senza la guida di De Martino, un lento declino accompagnò le imprese del
gruppo, portando alla sostanziale scomparsa del
comparto provinciale.
7. I minerali non metalliferi: una tradizione
persistente
Nel corso del Novecento, la lavorazione provinciale dei minerali non metalliferi ha assorbito, con una
punta massima nel 1971 (12%), una percentuale
piuttosto stabile di addetti (6-9%) e ha avuto una rilevanza più elevata rispetto al peso rivestito dal settore
a livello regionale e nazionale.
Già nel tardo Ottocento, il Salernitano, oltre a
vantare la tradizione ceramica vietrese e numerose
fornaci, contava pure un’apprezzabile produzione di
laterizi, grazie all’impianto cilentano della Dell’Osso e
Del Mercato e, soprattutto, al moderno stabilimento,
con sistema Hoffmann, avviato a Brignano da Matteo
D’Agostino (1885). Superata la fase involutiva d’inizio
secolo, i primi decenni del Novecento conobbero una
notevole ripresa. A fine anni venti, il settore rappresentava ormai circa un terzo dell’occupazione e della
forza motrice regionale, grazie alla crescita di alcuni
comparti (vetro, cemento artificiale, laterizi).
Pur accentrato nel napoletano, il comparto vetrario conobbe nei grandi impianti delle Vetrerie Meridionali (Vietri sul Mare) un moderno stabilimento
meccanico automatizzato (lastre di vetro, bottiglie),
capace di superare la vecchia lavorazione «a soffio».
Fu Cesare Ricciardi, grande industriale livornese, animatore di vari stabilimenti, a rilevarlo e trasformarlo
(1925-26), continuando l’attività sino al dopoguerra. Ad avviare la produzione di cemento artificiale fu,
invece, la Società Anonima Cementi Salerno (1909),
fondata da Luigi Barracano, che nel 1923 fu rilevata
dalla bergamasca Italcementi, grande impresa della
famiglia Pesenti, già in possesso di una trentina di
opifici in Italia. Per tutto il Novecento, il cementificio
di Salerno, più volte potenziato e poi delocalizzato
nell’area industriale (anni ’90), ha rappresentato una
costante nella realtà produttiva provinciale.
Nei laterizi, principale protagonista fu ancora, la
S. A. Fornaci Meridionali Matteo D’Agostino (1919)
che, incorporata la Fornace Tiberina, orientò gli impianti di Brignano e Formia verso la produzione di
piastrelle maiolicate da rivestimento, espandendosi
nel centro-sud. Il comparto, in piena effervescenza,
fu arricchito dalla presenza di nuove società anonime (Montecorvino Rovella, Casalvelino) e soprattutto dalla SALID (Salerno) che, rianimata da Barracano
e rilevata dagli Scaramella, aveva ancora un grande stabilimento negli anni ’60. Prima della guerra,
i laterizi assorbivano circa il 40% degli addetti del
settore provinciale, ma anche della forza motrice regionale.
Il conflitto mondiale, quasi annullando i progressi
compiuti, rallentò la ripresa degli anni cinquanta; con
la crisi dell’area vietrese, il settore appariva concentrato tra il capoluogo, Cava, i Monti Picentini e l’agro nocerino-sarnese. Matteo D’Agostino junior, tra i
principali protagonisti del periodo, fondata l’Ernestine
(1948), riuscì a creare e guidare un gruppo d’imprese
che consentirono alla sua Ceramica una forte ascesa
nel successivo decennio. Proprio a partire dagli anni
sessanta, una serie di iniziative portarono ai grandi
insediamenti esogeni della Ideal Standard (sanitari) e
della Pennitalia (vetro piano), seguiti, a fine decennio,
da imprese di medie dimensioni, come Promeo Sud
(materiali refrattari per siderurgia), C.A.V.A e, a inizio
21
anni settanta, Ceramica Casarte (con stabilimenti a
Salerno e Giffoni).
Dagli anni settanta, con l’emergere della crisi edilizia, è prevalsa una tendenza alla moltiplicazione
delle unità locali, accompagnata da frammentazione
aziendale e riduzione occupazionale, anche se il settore ha accresciuto il suo peso a livello regionale, per
il più ampio regresso dell’area napoletana. Gli anni
ottanta assistettero alla dismissione dello stabilimento
della Ideal Standard e alla crisi che coinvolse il gruppo D’Agostino, rilevato invano dalla Gepi, prima di
essere acquisito dalla Ceramica Francesco De Maio. Il
nuovo millennio, invece, ha visto la chiusura dell’impianto della AGC Flat Glass e lo stesso stabilimento
della Italcementi è a rischio. Tra le poche realtà di
rilievo, resistono, invece, antiche imprese ceramiche
(De Maio, Pinto, Solimene) o società centenarie (Cianciullo Marmi) che trovano nella forza della storia uno
slancio per nuove sfide imprenditoriali.
8. Carta, legno e plastica: destini incrociati
L’importanza del settore legno ha tradizioni consolidate nell’economia del Salernitano, almeno fino
al secondo dopoguerra. Il grosso della produzione era
rivolto per lo più alla trasformazione – pali, doghe per
botti e traverse ferroviarie – del legname proveniente
dai boschi (querce, cedri, faggi e castagni) del Cilento, del Vallo di Diano e dell’Alto e medio Sele. Inoltre,
accanto a una manifattura artigianale di ottimi ebanisti, una parte del settore era occupato, sin dall’ultimo
ventennio dell’Ottocento, da alcune importanti realtà
industriali, tra queste la Giovanni Mauke e Figli (1883)
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con il suo stabilimento al ponte di Fratte (Salerno),
sorto accanto alla filanda di Davide Vonwiller cui apparteneva il suolo e parte dei fabbricati. La ditta, presente anche con un negozio a Salerno, per oltre 50
anni rivestì, anche con Adolfo, un ruolo importante
sul mercato nazionale con i suoi lavori di arredo in legno, lavorato anche a vapore. Altra presenza cittadina d’inizio secolo era quella della ditta D’Amico, che
nei suoi depositi, presso il porto, immagazzinava dalle
sottili chiancarelle a vari prodotti d’esportazione. In
provincia, già da fine secolo operava Gaetano d’Agostino & C. (1884) che sempre a Vietri controllava
anche la A. Gallotti & C. (1887). Alla vigilia del primo
conflitto mondiale troviamo a Scafati la Ditta Capone,
Tricento e Cardillo (1914).
Il raffronto fra i dati del censimento industriale del
1927 e quelli del 1937 mostra un settore in espansione, ma di fatto ancora legato alla dimensione artigianale. Questi sono gli anni in cui capaci ebanisti avviavano in piccoli laboratori di provincia, attività familiari
che, nel tempo, sarebbero diventate importanti punti
di riferimento nel settore. Così la storia aziendale di
Francesco Giannattasio, che dal fare mobili, si trasformò in azienda familiare avviandola nel 1963, in
piena fase espansiva del settore, e specializzandola
nel segmento dei serramenti e degli avvolgibili in
legno. Dagli anni settanta, fino agli inizi dei ‘90, il
settore si avviava verso la decrescita delle unità locali
che in realtà stava a indicare ampliamenti di impianti
e nuove localizzazioni. Questo il caso della famiglia
Basile che nel 1970 trasportava arte e competenze
nell’innovativo stabilimento di Nocera Superiore e si
apriva all’arredamento di lusso e all’internazionaliz-
zazione, nonostante il settore legno abbia registrato, nell’ultimo ventennio novecentesco, un lento, ma
costante trend negativo, prolungatosi fino al nuovo
millennio.
Nell’ambito del settore legno-mobilio, si colloca il
segmento dei materassi che, in provincia di Salerno,
conta su tutta una galassia di piccole imprese cresciute all’ombra del trend positivo del comparto. Ancora
oggi, il segmento riesce a contrastare la concorrenza, soprattutto americana, con la qualità del made
in Italy. Un settore dove le aziende nel tempo hanno saputo far leva sulla creatività, le innovazioni e le
competenze. Tre caratteristiche che ad esempio hanno fatto della Valflex (Rinaldi Group) di Giffoni Valle
Piana, una moderna organizzazione aziendale.
Per quanto riguarda, invece, il cartario, il patrimonio salernitano per tutto il ‘700 si fondava essenzialmente sul polo amalfitano (Amalfi, Maiori, Minori,
Ravello) che con circa 44 cartiere costituiva il nucleo
portante di un settore che nel Mezzogiorno ne contava complessivamente 64. Di questa antica tradizione, ne fu eccellente interprete Luigi Amatruda, con la
sua cinquecentesca cartiera amalfitana nella Valle dei
Mulini, il quale – puntando sulla tradizione – ne aveva
fatto un richiesto prodotto di nicchia. Una famiglia
che delle difficoltà del mercato, della forte concorrenza, dell’impossibilità di investire e dell’avarizia della
natura ha saputo fare dei punti di forza e oggi è, con
la decima generazione, a portare avanti la sua sfida
imprenditoriale.
Nel 1887 la provincia di Salerno contava 28 opifici
che occupavano 415 addetti, un numero d’aziende
che rimase pressoché inalterato per circa 50 anni a
fronte di oscillanti livelli occupazionali, di fatto tendenti sempre verso il basso. Un discorso diverso per
gli stabilimenti tipografici che, dagli appena 17 del
1887 con soli 153 addetti, nel censimento industriale
del 1937 li troviamo in numero di 147 con 287 operai. Iniziava proprio a fine ‘800 l’esperienza della Di
Mauro che, partita da una piccola stamperia a Cava
de’ Tirreni, si espandeva fino agli anni ’80 grazie anche ai finanziamenti dell’Isveimer e della Cassa del
Mezzogiorno; oggi, seguendo nuove strategie aziendali si è avvicinata al mercato del packaging flessibile. Diversa la partenza, nel settore legno, ma stessa
e più precoce la destinazione per un’altra centenaria
impresa salernitana: il Gruppo Sada che sin dal 1931
si era occupata di imballaggi e a partire dall’inizio
degli anni sessanta avviò la lavorazione del cartone
ondulato fino all’attuale ingresso nel packaging biodegradabile, riciclabile e riutilizzabile. L’uso della carta
alimentare fu la partenza di un altro storico marchio
salernitano, la De Luca, che oggi con shoppers, sacchetti e altri prodotti in carta è proiettato verso i mercati internazionali.
Un discorso a parte merita la Arti Grafiche Boccia
che, da oltre 50 anni presente nell’editoria, rappresenta una solida realtà imprenditoriale. Superati i difficili momenti dei primi anni novanta, già agli inizi del
nuovo millennio era pronta all’importante collaborazione con il Gruppo Espresso che la proiettava verso
importanti traguardi. Iniziata una fase di crescita, realizzava elevati investimenti al punto da diventare oggi
una delle più importanti realtà europee.
La Medac, infine, sin dagli anni sessanta iniziava a
produrre contenitori e bicchieri in carta paraffinata,
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che poi a partire dal 1977 trasformava in politenata;
riusciva così ad espandersi anche sui mercati esteri.
Da ultimo, in un settore non particolarmente rappresentativo dell’industria salernitana novecentesca,
Battipaglia diveniva oggetto di investimenti e uno
snodo tra storie d’impresa. Il nuovo millennio, infatti, mentre assisteva dolorosamente alla chiusura della Paif, che sin dal 1972 aveva avviato un moderno
stabilimento di prodotti monouso in plastica, vedeva
la definitiva affermazione della Jcoplastic, grazie alle
scelte innovative, coraggiose ed ecosostenibili compiute sin dalle origini.
9. Il metalmeccanico: alla conquista del primato
Sin dal primo Ottocento, la metalmeccanica campana è stata a lungo concentrata nella fascia costiera
da Capo Miseno a Punta Campanella. Una propaggine dell’area napoletana era rappresentata, nel Salernitano, dalla Fonderia Fratte. Sorta nel 1835 come
officina di riparazione dei cotonifici svizzeri, tese a
specializzarsi nella costruzione di macchine e caldaie a vapore, sino a divenire, a inizio secolo, uno dei
pochi stabilimenti per impianti industriali del Mezzogiorno. Non rientrata nell’italianizzazione delle MCM
(1919), fu stabilimento ausiliario durante la Grande
Guerra, ma accusò poi problemi di riconversione, rischiando più volte la chiusura durante la grande depressione, nonostante fosse, in provincia, il principale
opificio meccanico. Ciò evidenzia chiaramente la debolezza del settore salernitano nella prima metà del
Novecento.
Eppure, tra le due guerre, non mancarono inizia-
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tive foriere di successivi sviluppi. Mentre i Cantieri Vigliar e la Soriente poterono avvantaggiarsi della politica di riarmo in vista della guerra, salvo poi entrare
in crisi a conflitto concluso, invece, diverse imprese
meccaniche cominciarono a lavorare a servizio dell’industria alimentare, nacquero le Fonderie Pisano e,
soprattutto, la Magaldi (1929) avviò con successo a
Buccino la produzione di una supercinghia realizzata
in pelle di bufala, utilizzata nell’industria automotive
e nelle acciaierie.
Passi più significativi nella crescita del settore
provinciale si ebbero, però, solo a partire dagli anni
cinquanta. Accanto a fonderie, piccoli stabilimenti
siderurgici (La Meccanica Nese), modeste produzioni metalmeccaniche e alla Magaldi, nuove e rilevanti
iniziative, arrivate dall’esterno, come l’emiliana Maccaferri (gabbioni zincati) e la Kerr (prodotti odontoiatrici), trovarono nel Salernitano una favorevole localizzazione, insieme ai più modesti impianti locali.
Negli anni sessanta, con l’industrializzazione del
Mezzogiorno, i comparti metallurgico e meccanico
cominciarono ad assumere un assetto più moderno
e funzionale, grazie al supporto del Consorzio industriale (1961) e ai finanziamenti bancari e dell’Isveimer, allora presieduto dal sindaco di Salerno Alfonso
Menna. Lo sviluppo industriale salernitano, oltre ad
avere un carattere complementare rispetto ad altre
iniziative meridionali, lasciò spazio a fenomeni di
accumulazione locale, per la prevalenza di iniziative
locali rispetto alle fabbriche importate (nazionali ed
estere).
L’area d’insediamento ebbe come centri principali
Salerno – con i grandi stabilimenti della Ideal Stan-
dard (sanitari, radiatori) e della Landis & Gyr (termostati) – e Nocera Inferiore, con 10 stabilimenti quasi
tutti di supporto all’industria conserviera. Tra le principali iniziative del periodo vanno rammentate imprese come SAICOM (carperteria), Paravia (ascensori e
montacarichi), Gaetano Buscetto (macchine per conservifici) e aziende di produzione di contenitori metallici (Lattografica, F.lli Celentano). Emersero pure alcune fonderie di seconda fusione (le Pisano) e imprese
di carpenteria metallica (Sassonia); anche la metallurgica salernitana, pur con minori addetti, conobbe un
incremento e alcune novità di rilievo (Brollo e Pillar
Naco Industries).
A inizio anni settanta assumevano ormai rilievo
due gruppi di produzione. Il primo era rappresentato dalle imprese produttrici di scatole metalliche per
l’industria conserviera o di macchine per l’industria
alimentare e per cartiere. In quest’ambito, oltre alla
Superbox Meridionale (Battipaglia), crebbero pure
aziende di minori dimensioni (Fa.ba sud, Gambardella, Litosud, Berga Sud, De Iuliis C. & A. e Meritermica). Il secondo gruppo, più innovativo, traeva
origine soprattutto, ma non solo, da investimenti di
provenienza extra-locale e concerneva accessori in
gomma-metallo per autovetture (Smae del gruppo
Pirelli), produzioni elettromeccaniche – CTM, Sele
Cavi, Face Sud (Battipaglia) e Fatme (Pagani) – e macchinari per impianti di sollevamento e trasporto (Paravia, Industrie Magaldi). Mentre queste ultime rappresentavano gli esempi più innovativi delle iniziative
imprenditoriali di origine locale, l’espansione delle
reti telefoniche coincideva con lo spostamento nella
Piana del Sele del baricentro produttivo e con il rapi-
do decollo, dopo la crisi delle produzioni alimentari e
del tabacco a fine anni sessanta, della zona industriale di Battipaglia.
Negli ultimi trent’anni del Novecento l’industria
metalmeccanica salernitana ha finito per acquisire
una posizione di leadership a livello provinciale, assorbendo un terzo circa del totale degli occupati nell’intera industria manifatturiera salernitana, laddove nel
1971 rappresentava soltanto il 16% circa. In particolare, alla fine del secolo, il 90% dell’occupazione
metalmeccanica provinciale appariva concentrato in
cinque-sei comparti. La metallurgia, con più del 40%
degli addetti, la meccanica di base (meno del 20%),
l’elettronica/elettrotecnica (in forte calo) e la meccanica di precisione (con la FOS) erano i soli che, insieme
alla siderurgia, mostravano una qualche specializzazione regionale.
Numerose trasformazioni e difficoltà hanno interessato il settore nell’ultimo ventennio che, tra l’altro, ha visto la cessione alla multinazionale Otis di
un brand storico come Paravia. Non mancano, però,
esempi d’imprese, dal Gruppo Magaldi alla Euroflex,
in grado di crescere e di raccogliere le nuove sfide
della globalizzazione e dell’internazionalizzazione anche per riconfermare al metalmeccanico provinciale
un primato faticosamente conquistato.
10. Il porto: approdo e partenza per sfide
d’impresa
Il porto di Salerno nel primo dopoguerra non si
mostrava pienamente rispondente ai bisogni della navigazione e, con i persistenti problemi d’interramento
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verso levante, continuava a rivivere frustrazioni che
sembravano appartenere al passato. Ma il primo
ventennio comunque si chiudeva con un importante risultato: l’inaugurazione nel novembre del 1925
del tronco di allacciamento alla Stazione Ferroviaria.
Un’opera importante per la movimentazione sul molo
che iniziò a coinvolgere importanti operatori del settore come ad esempio i D’Amico – oggi armatori di
successo – che proprio alla metà degli anni trenta si
avviavano a diventare una multinazionale di successo. Gli anni alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia (giugno 1940) videro un rifiorire del movimento
marittimo mercantile del porto di Salerno, che aveva
visto crescere sensibilmente i suoi traffici come nel
1934, quando avevano raggiunto la punta massima
di 203 mila tonnellate.
Poi, nei giorni dello sbarco, il porto fu protagonista
di importanti operazioni militari che, per la logistica,
videro molto attiva una delle più antiche e importanti
famiglie di spedizionieri: gli Autuori che non indugiarono a prestare il necessario supporto agli alleati. Nel
1944 si diede avvio alla ricostruzione dei Magazzini
Generali e dal 1947 fino al 1964 fu tutto un susseguirsi di interventi volti soprattutto all’adeguamento
dell’infrastruttura. I lavori ripresero nel 1969 con finanziamenti disposti dalla Cassa per il Mezzogiorno.
Solo con il piano regolatore del 1974 fu previsto
l’allargamento dell’imboccatura del porto, l’approfondimento dei fondali portuali, il prolungamento
dei moli Manfredi e Trapezio. Questi, infatti, erano gli
anni in cui terminal operators, come Giuseppe Gallozzi, iniziavano importanti investimenti in attrezzature portuali per la movimentazione dei containers,
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proiettando il porto verso le grandi rotte del trasporto
marittimo containerizzato. Un segmento che si avviava a registrare ritmi di crescita sostenuti per oltre
un ventennio. Il piano per Salerno, voluto nel 1993
dall’allora sindaco De Luca, tra i diversi progetti di riqualificazione della città, prevedeva quello della nuova Stazione Marittima che venne vinto dallo studio
Zaha Hadid Ltd di Londra nel 2000. Opera di straordinaria bellezza architettonica – situata nei pressi del
porto commerciale e di quello turistico e completata
nel 2016 – consente un traffico passeggeri di circa
500.000 unità all’anno, diventando un importante
terminale nell’ambito dei servizi turistici.
11. Un valore aggiunto: il turismo
Turismo, cultura, dieta mediterranea sono il valore
aggiunto nella provincia di Salerno. Un territorio che
si estende per circa 5.000 kmq comprendendo, capoluogo incluso, zone di eccellenza turistica che vanno
dalle Costiere amalfitana e cilentana e ai loro splendidi entroterra, fino alle comunità degli Alburni e ai
luoghi termali.
Nulla d’improvvisato: le radici sono antiche e, senza andare troppo lontano, risalgono quantomeno agli
anni che il Grand Tour voleva Salerno e parte del suo
territorio come una meta obbligata per il viaggiatore.
Così, dalle più avventurose tappe tardo settecentesche a quelle più educative della prima metà dell’800,
esse venivano compiute per una completa formazione culturale dei giovani e ricchi aristocratici europei,
un Erasmus ante litteram.
Accanto a loro, poi, tutto un nutrito gruppo di ar-
tisti le cui gouache hanno immortalato scorci straordinari di paesaggi, da Paestum alla costiera amalfitana.
Ma si veniva anche per studiare, come a Cava de’ Tirreni dove, sin dai primi decenni dell’800, giungevano
dall’Italia e dall’estero studiosi che andavano a consultare la ricca biblioteca/archivio della vicina Abbazia
Benedettina della SS. Trinità. Essi durante il soggiorno
pernottavano all’albergo Metelliano, probabilmente
nello stesso luogo dove oggi sorge l’Hotel Scapolatiello.
Con il tempo l’offerta ricettiva nella provincia si
adeguava alla sempre crescente domanda di servizi.
Accanto alle mete privilegiate del turismo internazionale, inglese e tedesco, come Amalfi e Positano, ora
anche Ravello si inserisce nel circuito con le sue due
splendide ville, Cimbrone e Rufolo, grazie soprattutto
all’intraprendenza della famiglia Schiavo.
Il turismo, soprattutto per Amalfi e il suo circondario, è stato negli anni a cavallo tra i due secoli scorsi
un modo per riconvertire un’economia in crisi; un’occasione da cogliere per uscire dalla difficile fase recessiva in cui versava la sua economia. Una fase di
ristagno che – aggravata dalla crescente esclusione
dai mercati di sbocco e di riferimento – generò la crisi
tanto dell’industria del sapone e del ferro, quanto dei
settori cartario e pastario. Quest’ultimo, soprattutto,
fu protagonista di un esodo verso la più dinamica realtà imprenditoriale di Gragnano.
Dal primo ventennio del Novecento la domanda di
turismo si stava spostando anche verso quello balneare e centri come Maiori e Praiano iniziavano a investire in prime modeste strutture ricettive, che poi dagli
anni ’50 iniziarono a vivere una golden age. La fascia
costiera si stava gradualmente dilatando e ora anche i
centri di Vietri, Conca dei Marini, Erchie, Cetara erano
diventate apprezzate mete turistiche.
La costiera cilentana, con l’eccezione di Paestum
nei circuiti turistici già dal XIX secolo, iniziò più tardi
a investire nel settore e prima nel 1952 con Palinuro (Club Méditerranée) e poi via via con tutti gli altri
centri costieri: Agropoli, Ascea, Castellabate, Pisciotta
e via dicendo. Le due costiere seguono due diversi
modelli di sviluppo turistico: quello amalfitano, rivolto
a intercettare una più qualificata domanda alberghiera, e l’altro cilentano, che puntava soprattutto sulla
domanda di giovani (con campeggi) e famiglie (con
seconde case in uso o in fitto), sviluppatasi con l’esplosione del turismo di massa, all’indomani del miracolo economico. I finanziamenti concessi tra gli anni
’50 e ’60 dalla Cassa per il Mezzogiorno stimolarono
in provincia la costruzione di nuove strutture, determinando una forte espansione del settore edile, che
poi si ridimensionò negli anni settanta all’indomani
dei due shock petroliferi e dei fatti legati al terrorismo. Sul finire di questi anni, alla riduzione del numero delle strutture si accompagnarono, invece, sempre
più frequenti casi di ampliamento e ammodernamento per adeguarle alle esigenze che la nuova industria
del viaggio richiedeva dal mercato (numero maggiore
a prezzi più competitivi). Una tendenza che sarebbe
continuata fino alla fine del XX secolo, ovviamente
sempre a maggiore vantaggio della qualità. Infine, sin
dai primi anni del Novecento, nell’area di Contursi si è
incentivata un’altra forma di turismo, quello termale,
che nel tempo ha poi creato uno dei più importanti
sistemi nazionali.
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12. Conclusioni
Un’antica vocazione industriale ha caratterizzato,
dai secoli più remoti, l’assetto manifatturiero ed economico della provincia di Salerno. Sin dalla medievale
produzione cartaria e dalla secolare tradizionale ceramica vietrese, un’atmosfera industriale ha finito per
“contagiare” i numerosi settori che dall’Ottocento al
Duemila si sono sviluppati in una delle province italiane più industrializzate. Accanto a investimenti pubblici e privati, nazionali ed esteri, nel corso dei decenni è
cresciuta anche un’imprenditoria locale capace di fare
impresa in senso moderno e in grado di innovare e
competere sulla frontiera tecnologica internazionale.
Certo, la crisi del 2008 ha implicato una brusca caduta, difficoltà occupazionali e terziarizzazione delle
aree industriali. Il ritiro delle multinazionali e di gruppi italiani, pur tra permanenze, si è accompagnato
alla chiusura di imprese storiche o all’assorbimento
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di altre in grandi corporation. Nell’agro-alimentare
emergono, però, le imprese conserviere più dinamiche e coraggiose. Innovazione e internazionalizzazione premiano, in diversi settori, antichi gruppi imprenditoriali, imprese storicamente consolidate e aziende
prossime alla quotazione borsistica. Nuove realtà di
nicchia, di design e del made in Italy competono in
un’economia globale assecondando antiche vocazioni industriali. Attraverso il porto e Marina d’Arechi
approdano e partono rinnovate sfide imprenditoriali
che ormai coinvolgono anche rotte terrestri internazionali. La risalita appare difficile, ma è più di una speranza. «Fare impresa», come sostiene il presidente di
Confindustria Salerno Andrea Prete, è «un mestiere
difficile ma carico di vita» (Costozero, 9-5-2017).
(A entrambi gli autori sono da attribuire i paragrafi 2 e 12,
Aldo Montaudo è responsabile dei paragrafi 3-7 e 9, Biagio Di
Salvia dei paragrafi 1, 8, 10-11; il lavoro, comunque, è condiviso
da entrambi)
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2019
dalla Grafica Metelliana SpA per Areablu Edizioni
in Mercato San Severino (SA)
Visioni d’Impresa
Un secolo di industria
nel Salernitano
a cura di
Aldo Montaudo e Biagio Di Salvia
ISBN 9788894925487
EURO 40,00
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