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COME VINCONO L’ANSIA I GRANDI PERFORMER

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COME VINCONO L’ANSIA I GRANDI PERFORMER
Strategie per sfuggire alle “trappole mentali” più diffuse
MORRA AARONS-MELE
APRILE 2023
ECCO UN PICCOLO SEGRETO: ci sono persone di grande successo che sono tormentate dall'ansia,
temono il verificarsi degli scenari peggiori e ogni piccola cosa che potrebbe andare storta, rimuginano
sugli errori commessi e quando confrontano il proprio operato con quello altrui ne escono sempre
male, si concentrano sui feedback negativi e non accettano gli elogi.
Per molti versi, la loro ansia li aiuta: dopotutto, alimenta la loro spinta, il duro lavoro e i risultati. Sono
dipendenti apprezzati proprio perché si impegnano al massimo e non si accontentano se non
dell’eccellenza. Se, però, non viene monitorato, ciò che per qualcuno può essere salutare, in altri casi
rischia di rendere la persona infelice, il che diminuisce le sue prestazioni e ne limita i progressi di
carriera.
Pensiamo a Mark Goldstein, un avvocato; qualche anno fa non riusciva a smettere di immaginare
catastrofi, ad esempio essere accusato di negligenza, e si paragonava di continuo ai colleghi. «La
nostra realtà conta all’incirca 1.800 avvocati», ricorda, «e io pensavo che gli altri 1.799 fossero in
grado di gestire meglio lo stress generato dal nostro lavoro e dalla vita che facciamo.» Per
compensare, rivedeva ossessivamente le sue e-mail alla ricerca di errori e lavorava durante le
vacanze.
Nihar Chhaya racconta una storia simile; nonostante fosse stato nominato uno dei 100 migliori
executive coach al mondo dal leadership coach Marshall Goldsmith, egli era solito immaginare che la
sua attività fosse sempre traballante e si chiedeva se non sarebbe stato meglio lavorare in un'azienda
più grande piuttosto che in proprio. «Nella mia testa, tutti gli altri erano perfetti», racconta. «Io ero
quello che non sarebbe mai riuscito a eccellere.»
Confesso di soffrire della stessa malattia. Di recente, mi è stato chiesto di entrare a far parte di un
gruppo di autori di testi sul business e ho provato un'immediata sensazione di panico. Chi ero io per
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essere inclusa tra questi scrittori di best-seller, popolari TED speaker e persino un generale a tre
stelle? Soffrivo di una forma acuta di Sindrome dell'impostore.
Molti di noi fanno la stessa cosa: soccombono a quelle che gli psicologi chiamano trappole mentali o
che altri definiscono distorsioni cognitive o errori del pensiero: schemi di pensiero intrinsecamente
negativo e fallace, così radicati che si attivano in modo automatico e hanno l’unico scopo di attirarci
in trappola. Quando ne cadiamo preda non riusciamo a vedere chiaramente, a comunicare con
efficacia o a prendere decisioni corrette e basate sui fatti e le conseguenze possono avere un effetto
negativo sia su di noi che sui team che ci troviamo a guidare.
Purtroppo, le trappole mentali sono molto comuni tra i soggetti ansiosi: per sfuggirvi, alcuni ricorrono
all'eccesso di lavoro, altri a droghe o all’alcol, all'evitamento o a un comportamento passivoaggressivo. Esistono soluzioni migliori. Il primo passo consiste nel comprendere quali possono essere
le varie trappole e nell'identificare a quali siamo più soggetti. A quel punto, potremo adottare
contromisure consapevoli, mirate e supportate da varie ricerche che ci possono aiutare a liberarci.
TRAPPOLE MENTALI E VIE DI FUGA
Sono undici le trappole mentali che con maggior frequenza ci colpiscono sul lavoro e a ciascuna di
esse si può sfuggire in modi specifici. La maggior parte degli esempi che seguono proviene dai libri di
David Burns Feeling Good: The New Mood Therapy e The Feeling Good Handbook. Ne ho aggiunti altri
che sembrano colpire in modo particolare le persone di successo ma ansiose.
Pensiero dicotomico (tutto o niente). Burns descrive questo fenomeno come la tendenza a vedere le
cose in bianco o nero. Se, per esempio, ai nostri occhi una situazione non raggiunge la perfezione,
potremmo considerarla come un fallimento totale. Un esempio comune è quello del colloquio di
lavoro: chi ragiona secondo la logica del “tutto o niente” uscirà dal colloquio avendo in mente l’unico
errore che ha commesso o quella cosa che avrebbe voluto dire e non ha detto e ne concluderà che
l'intero incontro è stato un fallimento. È più salutare considerare il colloquio nel suo complesso: certo,
magari a posteriori qualcosa avremmo potuto farla in modo diverso, ma nel complesso è andata
bene. Uno dei modi migliori per reagire alla logica del “tutto o niente” è sostituire la “o” con la “e”. Il
colloquio ha avuto momenti positivi e negativi, è stato un mix di cose buone e cattive.
Quando siete convinti che una cosa sia un disastro completo e nulla più, chiedete consiglio a qualcuno
di cui vi fidate. Di solito, io mi rivolgo a mio marito o al mio ex socio in affari: entrambi mi conoscono
bene e sono in grado di aiutarmi a vedere le sfumature di grigio invece che a ricadere nella mia solita
visione di perfezione o fallimento.
Etichettatura. Secondo Burns, l'etichettatura è una forma estrema di pensiero dicotomico. Invece di
dire: «Ho commesso un errore», ci attribuiamo un'etichetta negativa: «Sono un perdente». Tutti
abbiamo le nostre etichette preferite quando si tratta di criticare noi stessi: “fallimento”,
“incompetente”, “non qualificata”, “immeritevole”.
Quando si attribuisce la fonte di un problema al carattere di una persona invece che al suo pensiero
o comportamento, è come se si dicesse che la situazione non ha margini di miglioramento. Quando
arriviamo a pensare di essere sbagliati nel profondo (sono un fallimento) e non una persona normale
che commette errori o prende decisioni sbagliate (di tanto in tanto, fallisco), in pratica ci siamo già
arresi. Lo stesso accade quando si etichettano gli altri. «Vediamo gli altri come dei cattivi e basta»,
scrive Burns. «Questo ci fa sentire ostili e [...] lascia poco spazio alla comunicazione costruttiva».
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Uno dei modi migliori per combattere questa trappola mentale (e altre) è quello di fare una disamina
il più possibile oggettiva ed esaminare le argomentazioni a favore e contro l'ipotesi di partenza.
Supponiamo che prendiate una decisione sbagliata e che il vostro pensiero automatico sia: sono un
idiota! Innanzitutto, quali sono le prove che siete un idiota? In questo caso specifico, la prova consiste
nella decisione sbagliata che avete preso. Descrivete l'errore. Ora riflettete: una singola scelta
sbagliata è davvero la prova che siete degli idioti? Certo che no.
Anche documentare l'opinione contraria è utile. Ci sono prove che indicano che non siete un idiota?
Credo che troverete molte evidenze che attestano la vostra competenza e abilità. Se questa
riflessione bilanciata dovesse mettere in evidenza aree di miglioramento - che poi sono quelle che vi
rendono ansiosi - consideratelo, semplicemente, un campanello d’allarme che vi invita a prestare
maggiore attenzione e a impegnarvi di più.
Saltare alle conclusioni. Questa diffusa trappola mentale può assumere due forme. Una è la
cosiddetta lettura del pensiero, che si verifica quando concludiamo - in modo del tutto arbitrario che qualcuno ha una reazione negativa nei nostri confronti. (Quella persona non pensa che io meriti
la promozione, Sono sicuro che lei mi odia). L'altra è la chiaroveggenza, che consiste nel prevedere
che le cose andranno male anche in assenza di prove oggettive. Questo può portare all'inazione.
(Perché disturbarsi a provare?)
Una volta mi convinsi che una collega fosse arrabbiata con me perché non mi sorrideva quando ci
incrociavamo in corridoio: alla fine, venne fuori che era preoccupata e infelice perché i suoi figli non
stavano bene. Ho anche affrontato delle presentazioni dando per scontato che avrei combinato un
pasticcio e questo ha aumentato le probabilità che andasse proprio così. In effetti, entrambi i modi
di saltare alle conclusioni possono ridurre l'autostima, la produttività, le relazioni e il processo
decisionale.
A questa trappola mentale ci si può opporre con la verità. Provate a chiedervi: «Ho accesso ai pensieri
reconditi di un'altra persona? Davvero posso sapere cosa accadrà in futuro?» Potete anche ripensare
alle volte in cui, in passato, avete tratto conclusioni affrettate e vi siete sbagliati.
Visione catastrofica. Questa trappola mentale ci fa saltare alla peggiore conclusione possibile sulla
base di poche o nessuna prova: quella piccola macchia sulla pelle deve essere un melanoma. Un litigio
con la persona che più conta per noi segnerà la fine della relazione. Una valutazione del rendimento
non proprio perfetta porterà al nostro licenziamento. Un catastrofista si aspetta sempre lo scenario
peggiore, indipendentemente da quale sia il problema che sta affrontando.
Anche in questo caso, questo modo di pensare non tiene conto delle prestazioni effettive.
Supponiamo che l'analisi del flusso di cassa della vostra attività sia meno positiva del previsto.
All'improvviso, cominciate a pensare che l'azienda possa fallire e che perderete il lavoro. Anche se il
nostro cervello sa che è altamente improbabile, quando siamo bloccati in questa trappola mentale,
anche lo scenario più stravagante ci sembra plausibile. In questo caso, tenete a mente i consigli della
pluripremiata autrice Ashley C. Ford: l'ansia è un narratore inaffidabile che «ti mente e ti dice che
ogni cosa non farà che andare male.» Ricordate, come raccomanda Ford, che «i sentimenti non sono
fatti».
Se vi è difficile usare il raziocinio per uscire dall'irrazionalità, provate a compiere un'azione piccola ma
significativa per fermare la spirale mentale in cui siete intrappolati: chiedete un parere a un
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osservatore imparziale che possa farvi ragionare, oppure cercate di spostare l'ago della bilancia anche
solo un po’ più in là, lontano dalla catastrofe. Anche un piccolo progresso può spingere il cervello a
ricentrarsi e a tornare a lavorare in modo produttivo. Mantenete l'attenzione concentrata su ciò che
potete fare nel breve termine invece che su ciò che potrebbe accadere l'anno prossimo o anche fra
tre mesi.
Filtro mentale. Burns descrive così i filtri mentali: «Si sceglie un singolo dettaglio negativo e ci si
sofferma su di esso in modo esclusivo, così che la visione di tutta la realtà si oscura, come la goccia
d'inchiostro che colora tutta l’acqua contenuta in un becher.» A titolo di esempio cita una speaker
che riceve molti feedback positivi sul suo discorso, ma li ignora e si fissa, invece, sul commento critico
di un collega.
Naturalmente può accadere anche il contrario: le persone possono concentrarsi su ciò che è andato
bene e chiudere un occhio su ciò che non è andato bene, ma gli ansiosi sono più propensi a
soffermarsi sugli aspetti negativi, a non riconoscere e capitalizzare tutte le cose che hanno fatto bene.
Questo porta a sentirsi scoraggiati o, addirittura, a perdere ogni speranza.
Un modo pratico per uscire da questa trappola è tenere traccia dei risultati ottenuti e degli elogi
ricevuti: prendete nota di ogni volta che raggiungete o superate un obiettivo o registrate una vittoria
per Il vostro team o la vostra azienda e conservate tutte le e-mail, i tweet o i messaggi che contengono
feedback positivi. Questo vi fornirà la prova oggettiva che state facendo un buon lavoro e potrete
ritornare sul vostro elenco ogni volta che vi sentite sopraffatti o dubbiosi. (Un vantaggio in più: un
diario dei risultati raggiunti rende le autovalutazioni e le valutazioni della performance un gioco da
ragazzi).
Squalificare i lati positivi. Si tratta di una trappola mentale molto simile al filtraggio, ma la chiamo in
causa perché si manifesta molto spesso nei leader ansiosi. Ho sentito molti di essi liquidare i propri
successi insistendo sul fatto che erano frutto del caso, della fortuna o di una buona scelta di tempo,
oppure che chiunque avrebbe potuto ottenere ciò che avevano ottenuto loro.
Questa potrebbe passare per umiltà e, in quanto tale, meno dannosa di altre trappole, ma può
causare grossi problemi se impedisce di replicare un trionfo o di cimentarsi in qualcosa di nuovo. Una
mia ex collega, ad esempio, teme di parlare in pubblico: anche se ha tenuto presentazioni che sono
state ben accolte, crede che ognuna di esse sia stata frutto di casualità, per cui rinuncia a opportunità
interessanti che richiederebbero una maggiore esposizione pubblica.
Trappola del “dovere”. Arrivata a questo punto, dovrei essere più avanti nella mia carriera. Non
dovrebbe essere così difficile fare carriera in questa azienda. Dovrei saperlo bene. Gli esempi di
questa diffusissima trappola mentale, che si verifica quando la realtà non soddisfa le nostre grandi
speranze o le nostre aspettative, sono infiniti. Le affermazioni che includono la parola “dovrei” o i
suoi parenti stretti, “per forza”, “dovrebbe andare così” e “bisogna”, possono danneggiare il vostro
umore e la vostra motivazione, perché, come scrive Burns, vi fanno sentire frustrati e insubordinati
invece che in grado di operare dei cambiamenti e di raggiungere i vostri obiettivi.
Quando vi trovate a fare un'affermazione che contiene il “dovrei”, provate a riformularla in modo più
leggero e meno impegnativo. Per esempio, invece di “dovrei essere più avanti nella mia carriera”,
provate a dire “vorrei essere più avanti nella mia carriera”. Dopodiché, valutate se ci sono azioni che
potete intraprendere per arrivare a una risoluzione del problema. Se ci sono, mettetele in pratica. Se
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non ci sono, potreste rendervi conto che la vostra affermazione “dovrei” non è realistica. Ad esempio,
“dovrei essere sempre in grado di anticipare le esigenze del mio capo" è uno standard irraggiungibile.
Confronto sociale. Confrontarsi con gli altri è particolarmente dannoso, soprattutto quando si
traduce in autovalutazioni dal sapore fatalistico: lui farà sempre vendite più alte delle mie, lei
guadagnerà sempre di più rispetto a me. Sul lavoro, il risultato è una competizione malsana e un
aumento dell'ansia, che ostacolano la collaborazione e il rendimento del gruppo.
Per uscire da questa logica, trasformate il confronto in curiosità. Per esempio, Chhaya dice di essersi
allenato a pensare: «Oh, wow, è interessante quello che stanno facendo, perché non provare?»
Oppure: «Ehi, per loro ha funzionato, ma non è quello che voglio fare io.» Il segreto è concentrarsi su
chi si è e su ciò che si vuole realizzare, anziché farsi prendere dall'ansia e distrarsi coi risultati ottenuti
dagli altri.
Personalizzazione e colpevolizzazione. Sono espressioni opposte dello stesso errore di pensiero. La
personalizzazione si verifica quando ci si ritiene responsabili di circostanze e azioni che sono fuori dal
proprio controllo: ad esempio, se uno dei vostri diretti collaboratori è in difficoltà e lo considerate
una prova del fatto che siete un cattivo manager. Gli psicologi ritengono che possiamo cadere in
questa trappola mentale per darci l'illusione di essere in controllo, per evitare il conflitto o per
replicare un atteggiamento di remissività che abbiamo fatto nostro durante l'infanzia.
La colpevolizzazione, invece, consiste nell'attribuire il problema interamente ad altri: è colpa del
vostro dipendente se non riesce a gestire il carico di lavoro; non si capisce, infatti, perché non possa
mantenere gli stessi standard elevati cui vi attenete voi.
Una risposta più sana consiste nel riconoscere che la verità, probabilmente, si trova da qualche parte
nel mezzo o che, di minima, richiede indagini ulteriori. In un caso come quello appena citato, per
esempio, fareste bene a incontrare il vostro collaboratore diretto per chiedergli quale pensa che
possa essere la causa del problema e poi studiare insieme a lui possibili soluzioni.
Ruminazione. Si tratta di un atteggiamento ossessivo con cui la mente torna ripetutamente su eventi
negativi del passato, su problemi presenti o su quelli che ci aspettiamo si verifichino in futuro: si tratta
di un enorme amplificatore dell’ansia, fin troppo comune. Chi non ha mai ripensato mentalmente a
un commento incauto, a una decisione sbagliata, a un incidente che l’ha ferito o a un ritorno tutt’altro
che trionfale, tornandoci sopra più e più volte? A chi non è mai capitato di fissarsi su un problema al
lavoro o in una relazione, tanto da far passare in secondo piano tutto il resto?
Ciò che distingue la ruminazione da un’utile elaborazione è che non porta a nuovi modi di pensare,
di comportarsi o di affrontare i problemi: si limita a esplorare lo stesso territorio, ancora e ancora,
bloccandoci in un atteggiamento negativo. La ruminazione focalizzata sul futuro può essere positiva:
se siamo preoccupati per un compito difficile che ci aspetta, ci impegneremo di più; se ci tormenta
l’idea di un esito negativo, faremo del nostro meglio per evitarlo. In realtà, però, le cose funzionano
in modo diverso: l’ossessione ci precipita e ci fa languire in uno stato di inazione.
Un modo per interrompere questo meccanismo consiste nello scrivere ciò che ci passa per la testa,
in modo da poterci accorgere quando i nostri pensieri sono irrazionali o non seguono alcuna logica.
Questo ci spinge ad andare avanti.
Ragionamento emozionale. Questa trappola può essere riassunta con l’espressione me lo sento,
quindi deve essere vero. Per esempio: mi terrorizza l'idea di andare in aereo: volare deve essere
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molto pericoloso. Qualsiasi psicologo, però, vi dirà che i sentimenti sono in realtà il prodotto di
pensieri e convinzioni, e se i nostri pensieri sono distorti, le emozioni che proviamo a causa loro non
rispecchieranno certo la realtà.
Sul lavoro, il ragionamento emozionale potrebbe manifestarsi come qualcosa del tipo: mi sento
davvero sopraffatto dal mio carico di lavoro, quindi non sono in grado di gestire il mio lavoro.
Purtroppo, può spingere a una risposta controproducente e determinare il verificarsi proprio della
situazione che si vorrebbe evitare (una specie di profezia che si auto-avvera). Ad esempio, se reagite
alla sensazione di sovraccarico evitando o procrastinando, andrete a peggiorare la situazione. Invece,
come per altre trappole mentali, è necessario fare il possibile per “uscire dalla propria testa”.
Parlatene con un esperto imparziale e fate una verifica di realtà sulle situazioni in cui tendete a
ragionare in modo emozionale. È molto probabile che la vostra auto-percezione di incompetenza, ad
esempio, sia esagerata o del tutto ingiustificata.
SCHIVARE LE TRAPPOLE
Ho già dato alcuni consigli su come affrontare ogni singola trappola mentale, ma ci sono diverse
pratiche generali che possono aiutarvi a evitarle o a rifuggirle tutte. (Ai soggetti più ansiosi, consiglio
anche di rivolgersi a un buon terapeuta).
Fate dell'ansia una vostra alleata. Quando viene imbrigliata, questa complicata emozione può
diventare un'utile fonte di informazioni e, in ultima analisi, un vantaggio in termini di leadership, ma
solo se la si comprende meglio. Ponetevi domande di specificazione come: “Che cosa mi preoccupa
esattamente?”, “Si tratta di una persona, di una situazione o di un potenziale esito?”, “Perché sono
in ansia per questo?”.
Quando si identifica la vera fonte dell'ansia, si può smettere di agire secondo automatismi e
cominciare a operare con intenzione e concentrazione. Chhaya dice di aver fatto pace con il suo io
“nevrotico”: «Ho capito che [...] questa è la mia tendenza naturale e per certi versi mi aiuta, perché
mi fa pensare in anticipo a molte questioni.»
Praticate l'auto-empatia. Come ha dimostrato la professoressa di psicologia Kristin Neff, sostituire il
“giudizio di sé” con la “gentilezza verso di sé” può ridurre notevolmente i livelli d’ansia. Se vi
approcciate a voi stessi in modo più positivo, vi sentirete meglio, penserete più chiaramente e
sfuggirete alle trappole mentali.
Ecco un esercizio per voi: pensate a qualcosa che avete fatto bene di recente; magari un risultato
positivo al lavoro, un proficuo scambio di opinioni con un amico o persino un allenamento che siete
riusciti a infilare in una giornata impegnativa. Ora, dite a voi stessi: ho fatto un buon lavoro e, mentre
lo fate, cercate di sentirlo davvero. Non passate subito a un pensiero negativo, a una critica o alla
prossima voce della vostra lista di cose da fare ma crogiolatevi per un po' nel vostro risultato.
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Cercate di vedere il lato umoristico. Alcune trappole mentali sono davvero divertenti se le spingiamo
fino alle loro conclusioni logiche: davvero l’errore di battitura che avete fatto vi farà licenziare? È mai
possibile che sia solo colpa vostra se l’azienda per cui lavorate non ha raggiunto gli obiettivi di
vendita? Certo che no! Se riuscite a riconoscere l'assurdità di simili ipotesi e a trovarle divertenti,
immediatamente la morsa della trappola mentale si allenterà. Sconfiggete l'ansia imparando a riderci
sopra.
Fate attività fisica. A volte, il miglior modo per uscire dalla propria testa è muovere il corpo. Correte
su per le scale. Alzatevi in piedi e fate un po’ di stretching. Mettete della musica e ballate. Anche
scrivere le cose invece che limitarsi a pensarle può creare una separazione tra cervello e corpo.
Provate con la meditazione guidata. La meditazione è stata a lungo raccomandata dagli esperti come
metodo per ridurre l'ansia, ma ho scoperto che quando mi sento davvero bloccata in una trappola
mentale, una pratica di meditazione silenziosa si trasforma rapidamente in ruminazione, in pensieri
catastrofici, attenzione selettiva, etichettatura o qualsiasi altra cosa mi affligga quel giorno. Può
funzionare meglio la meditazione guidata, in cui un'altra persona vi accompagna lungo il percorso,
dandovi modo di concentrarvi su qualcosa di diverso dai vostri pensieri inutili. La magia accade
quando possiamo fare una pausa e resettare.
Dite semplicemente di no. Questo può sembrare fin troppo semplice, ma funziona. Quando siete
presi in una trappola mentale, interrompetela letteralmente dicendo “No” o “Stop” o “No, grazie” o
“Non oggi!”. Più prendete questa abitudine, più diventerà radicata. Il vostro cervello avrà trovato un
modo per liberarsi da un pensiero ansiogeno prima che sia lui a intrappolarvi.
IL VOSTRO POTENZIALE, REALIZZATO APPIENO
Per raggiungere il vostro pieno potenziale non potete lasciare che le trappole mentali vi tengano in
pugno. Goldstein, per esempio, si è liberato, dopo aver preso un’aspettativa dal lavoro, per imparare
le pratiche di mindfulness e autocompassione. La sua ambizione e, talvolta, anche la sua ansia sono
ancora presenti, ma non è più catastrofista e quindi non si sente più bloccato.
Anche Chhaya ha capito come lasciare che i dati oggettivi plachino i suoi dubbi e le sue
preoccupazioni: «Negli ultimi sette anni ho avuto successo con l'attività e sono più impegnato che
mai», spiega, «quindi ora posso dire che me la caverò.»
Per quanto mi riguarda, sono l'esempio vivente di come si possa mettere a frutto una personalità
ansiosa. Conduco un podcast sul tema, ci ho scritto anche un libro sopra e faccio da coach ad altre
persone come me. Il mio messaggio è semplice: se riusciamo a gestire l'ansia e a ridurre il prezzo che
ci richiede, aiuteremo noi stessi a lavorare con maggior energia e ingegno. Otterremo prestazioni
migliori e ci sentiremo meglio, diventeremo leader per i quali le persone vorranno lavorare e ci
assumeremo i rischi necessari per creare cambiamenti positivi. Otterremo gli stessi risultati
professionali, magari anche superiori, senza sentirci costantemente sotto stress.
MORRA AARONS-MELE è autrice di The Anxious Achiever: Turn Your Biggest Fears Into Your
Leadership Superpower (Harvard Business Review Press, 2023), da cui questo articolo è tratto, e
conduce il podcast Anxious Achiever di LinkedIn Presents.
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