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4-5-6 SOCIOLOGIA GENERALE E DELLO SPORT

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“IL PENSIERO MARXIANO”
PROF.SSA SIMONA IANNACCONE .
Indice
1 Il materialismo storico ------------------------------------------------------------------------------------ 3
2 La teoria delle classi --------------------------------------------------------------------------------------- 9
3 Il “Capitale” ---------------------------------------------------------------------------------------------- 12
4 L’alienazione alla base del sistema capitalista ----------------------------------------------------- 15
Riferimenti bibliografici -------------------------------------------------------------------------------------- 17
1 Il materialismo storico
Una delle figure che ha segnato maggiormente la storia della sociologia, per l’influenza che ha avuto sulle vicende
culturali e politiche successive, è stata quella del filosofo tedesco Karl Marx (1818- 1883). Pur non considerandosi affatto
un sociologo in molte delle sue opere ha affrontato problemi economici, politici e sociali con un’intuizione e una
penetrazione sociologica tale da essere stato un termine di confronto inevitabile per generazioni e generazioni di
sociologi.
La filosofia di Marx sta all’origine della teoria sociologica del conflitto. La società consiste, secondo Marx, in un equilibrio
stabile di forze contrapposte, che, attraverso le loro lotte e le loro tensioni, generano il mutamento sociale. Marx assume
come punto di partenza una concezione di tipo evolutivo; egli pose alla base del processo non lo sviluppo pacifico ma la
lotta e, all’origine di tutto, la tensione tra opposti, considerando il conflitto sociale, in particolare, come l’elemento
determinante del processo storico.
Tale modo di pensare, che non si accordava con la maggior parte delle dottrine dei suoi predecessori del secolo
precedente, era però in sintonia con gran parte del pensiero del diciannovesimo secolo.
La formazione filosofica di Marx è segnata soprattutto da G.W.F. Hegel e da L. Feuerbach.
Da Hegel, Marx derivò quella concezione olistica della società, in base alla quale essa appare come un tutto
strutturalmente interrelato, ed egli ritenne, conseguentemente, che qualsiasi aspetto dell’insieme, sia esso il sistema
giuridico, l’istruzione, la religione o l’arte, non potesse essere compreso se considerato isolatamente. Aggiunse inoltre
che le società non sono soltanto insiemi strutturati, ma anche totalità in divenire. In ordine ad esse il modo di produzione,
che nel sistema hegeliano svolgeva soltanto un ruolo secondario, agisce, secondo Marx, come variabile indipendente.
Proprio in questa precisazione risiede il suo contributo specifico.
Sebbene i fenomeni storici fossero il risultato di un’interazione di molteplici fattori, tutti, tranne quello economico, erano,
in ultima analisi, variabili dipendenti. Il sistema filosofico di Marx fonda le sue basi su un assunto di partenza: non è la
coscienza degli uomini a determinare la loro condizione sociale, ma è la loro condizione sociale a determinarne la
coscienza; ovvero, la condizione sociale influisce in modo determinante sul tipo di giudizi che si formano nella mente, lo
stesso contenuto della mente, le idee, i desideri, le aspettative, sono condizionate in modo preminente dall'ambiente
sociale in cui l'uomo si trova a vivere. Il mondo empirico e contingente dei rapporti sociali ma, soprattutto e come
vedremo meglio in seguito, dei rapporti economici, vengono a determinare e ad essere la prima e vera causa del modo
in cui l’uomo pensa la realtà.
Questo punto di vista è già una critica importante al sistema filosofico di Hegel, per il quale la coscienza determina ed è
essa stessa la realtà; in effetti, la posizione di Marx inverte i termini della questione e concede la preminenza alla realtà
rispetto alla coscienza. Anche la posizione di Feuerbach viene criticata: se è vero che riconducendo tutto all’uomo,
Feuerbach aveva posto il problema della natura umana di ogni entità eterna presente alla coscienza (prima fra tutte
quella di Dio), Marx avverte che in Feuerbach, come in tutti i pensatori precedenti, l'errore vuole essere superato
solamente nella coscienza, per cui basta cambiare il modo di pensare per eliminare l'errore, mentre Marx mette in risalto
che l’errore può venire superato solo con un cambiamento sostanziale della stessa realtà in cui gli uomini si trovano a
vivere, così che, una volta cambiata la realtà, questa determini in modo nuovo anche la coscienza.
Queste affermazioni traggono origine dalla volontà di Marx di attenersi principalmente ai dati empiricamente osservabili
in modo tale da fondare un sistema filosofico che abbia in sé i caratteri scientifici propri della fisica. Il materialismo di
Marx si sviluppa quindi entro l'affermazione che è nella realtà empirica che scaturisce la verità della coscienza, poiché la
coscienza è determinata dai dati empirici.
Iniziando un’amicizia che durerà tutta la vita, nel 1844 incontrò Engels (1820-1895), il quale gli sarà di conforto
intellettuale, morale e materiale. La collaborazione dei due fu politica e teorica. In via preliminare, Marx e Engels
dovevano sgombrare definitivamente il campo dagli equivoci dei giovani hegeliani, che si erano illusi di trasformare la
società tramite l'attività puramente teorica della critica: per questo motivo essi provvidero con «La Sacra Famiglia».
La punta più avanzata del movimento filosofico (hegeliano) contemporaneo era tuttavia rappresentata da Feuerbach:
con lui bisognava fare i conti. Ciò avvenne nelle «Tesi su Feuerbach» (1845) di Marx, e soprattutto, nell' «Ideologia
tedesca» (1845/46 pubblicata postuma), opera di entrambi, anche se Engels ne attribuì il merito principale a Marx, nella
quale vengono poste le basi della “concezione materialistica della storia”( che spiega la storia a partire dalle strutture
concrete). Feuerbach aveva smascherato il mondo rovesciato della religione, ravvisandone la radice antropologica, ma
non aveva colto in modo adeguato il carattere storico della natura umana e le condizioni storiche che rendono possibile il
costituirsi della religione stessa. Il problema per Marx ed Engels consiste nell'abolire, più che la religione, le condizioni
storiche che la rendono possibile. Marx non si è limitato a descrivere la realtà sociale, ma ne ha denunciato i mali e le
ingiustizie, dichiarando la necessità di cambiarla attraverso una rivoluzione. Nella filosofia di Feuerbach é ancora forte
un’eredità di stampo illuministico, specialmente nella sua concezione della natura umana come essenza priva di storia e
nell'interpretazione materialistica di tale essenza. Il materialismo di Feuerbach, concepisce l'uomo come entità naturale
dotata di corporeità e sensibilità e quindi fondamentalmente passiva, non come prassi attiva trasformatrice della natura;
di conseguenza egli considera la realtà sensibile come oggetto già costituito, non prodotto dall'attività sensibile umana.
Da questo punto di vista, Hegel risulta superiore a Feuerbach, in quanto ha individuato il carattere autoproduttivo
dell'attività umana, anche se solamente in quanto spirito e non come attività sensibile.
In realtà, gli uomini si distinguono dagli animali non perché dotati di pensiero, bensì quando iniziano a produrre i loro
mezzi di sussistenza. Ciò che gli individui sono, dipende dalle condizioni materiali della loro produzione: questo é il
presupposto basilare della concezione materialistica della storia. Secondo Marx, infatti la storia umana non è altro che lo
sviluppo di forme di produzione della vita materiale e corrispondenti modi di organizzazione sociale. Marx non adopera
più il concetto di “essenza umana”, ma parte dagli uomini caratterizzati dai bisogni e dai mezzi per soddisfarli. Marx
rifiuta una concezione della storia come pura raccolta di fatti senza connessioni, ma anche quella della storia
speculativa, che attribuisce le vicende storiche all’azione di soggetti immaginari, come l’autocoscienza hegeliana.
Per Marx, il modo con cui gli uomini stabiliscono rapporti tra loro nella incessante lotta per strappare alla natura i mezzi
di sussistenza era la forza motrice della storia. «La prima azione storica è…la produzione della vita materiale stessa, e
questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia»1. Il soddisfacimento delle
esigenze fa nascere «nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica»2. Quando i mezzi
per appagare i bisogni avvertiti in precedenza sono stati reperiti, nascono nuove necessità. Il problema é di spiegare i
fatti nella loro successione, senza pretendere di dedurli da un principio filosofico astratto. Per Marx la base della società
é economica ed é data dal modo di produzione (che comprende l’intera struttura economica della società ad es.
feudalesimo, capitalismo) che la caratterizza. Dopo aver superato il primitivo stadio comunitario di sviluppo, gli uomini,
nello sforzo di soddisfare i bisogni primari e quelli secondari, danno vita a rapporti di cooperazione di tipo antagonista. La
soddisfazione di un bisogno ne genera altri e, per rispondere a questi nuovi bisogni, gli uomini costruiscono rapporti
sociali sempre più complessi. I crescenti bisogni impongono la divisione del lavoro (soprattutto tra lavoro manuale e
lavoro intellettuale), la conseguente divisione degli uomini in classi sociali e l’instaurazione della proprietà. Il grado di
sviluppo delle forze produttive é quindi indicato dal grado di sviluppo della divisione del lavoro: questa ha assunto
storicamente varie forme, dando luogo in particolare alla separazione tra città e campagna, cioè tra agricoltura, da una
parte, e commercio e industria, dall'altra, e successivamente anche tra industria e commercio.
Il modo di produzione non coincide con la società nella sua totalità, ne é solamente la base; infatti la “società civile” é
costituita da tutto l'insieme delle relazioni materiali tra individui entro un determinato grado di sviluppo delle forze
produttive. Ai gradi di sviluppo del lavoro corrispondono forze produttive diverse e diverse forme della proprietà. Marx ed
Engels distinguono 4 tipi di proprietà: 1) la proprietà tribale, in cui predominano la caccia, la pesca e la pastorizia e dove,
in un secondo tempo, interviene anche l'agricoltura: in essa la divisione del lavoro é ancora scarsa; 2) la forma di
proprietà caratteristica della comunità antica, in cui ormai si é costituito lo Stato e in cui la principale forza produttiva di
cui si avvalgono i proprietari é costituita in gran parte da schiavi: in questa forma già compare la divisione del lavoro tra
città e campagna e, quindi, tra agricoltura, industria e commercio; 3) la proprietà feudale, in cui predomina l'agricoltura:
in essa la società é organizzata gerarchicamente in ordini e corporazioni e incominciano a generarsi le prime forme di
capitale; 4) la proprietà caratteristica del modo di produrre capitalistico, in cui predomina l'industria. In questo quadro, la
natura stessa non appare più come qualcosa di statico; infatti anch’essa ha una storia, legata ai processi dell’ industria e
ai rapporti umani: una natura scissa dalle vicende delle società umane non esiste. La storia umana, a sua volta, non
viene più concepita come lo svolgimento dell'essenza umana in generale, ma come sviluppo di forme di produzione della
vita materiale e corrispondenti modi di organizzazione sociale. Questo non significa che sia possibile dedurre dal modo
di produzione la totalità delle forme e delle relazioni sociali, ma solo che esso é la condizione necessaria per spiegare il
carattere delle istituzioni sociali e politiche e i loro condizionamenti reciproci. I modi di produzione determinano il
carattere dei rapporti sociali e politici e la stessa produzione delle idee: non la coscienza determina la vita, ma la vita
determina la coscienza e i suoi prodotti. Questo é il nucleo della distinzione tra struttura e sovrastruttura. Con la prima si
intende la base economica di una determinata società, ossatura da cui dipende la sovrastruttura. L’insieme dei rapporti
di produzione, cioè i rapporti che gli uomini stabiliscono tra loro quando, per il perseguimento dei loro fini produttivi,
utilizzando le materie prime e le tecnologie (mezzi di produzione più importante) esistenti, costituisce «la “base reale”
che la definisce e la distingue da un’altra, fondando e determinando tutti gli altri aspetti della vita sociale e su questa s i
eleva una sovrastruttura, insieme delle istituzioni giuridico-politiche e delle teorie morali, religiose, filosofiche ecc. che
dipendono da una determinata struttura economica, alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.
Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non
è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro
coscienza».
In altri termini, è la struttura economica che determina le leggi di uno Stato, le forme artistiche, le religioni, la filosofia e
non viceversa.
Questo significa che per comprendere il processo storico bisogna partire dai modi in cui gli uomini producono la loro vita
materiale, più che da ciò che essi dicono o pensano di essere.
Ecco il materialismo storico: le forze motrici della storia sono di natura materiale, cioè socio-economica e non spirituale o
astratta. Secondo Marx, la cui concezione storica è dunque relativistica, tutte le relazioni sociali poste in essere dagli
uomini così come tutti i sistemi di pensiero affondano in modo specifico le loro radici nei diversi periodi storici. Per
esempio, mentre gli economisti classici avevano considerato la tripartizione tra proprietari fondiari, capitalisti e salariati
come un dato eterno dell’ordine naturale delle cose, Marx riteneva tali categorie come espressione specifica di
determinati periodi storici, come prodotto di uno stato di cose storicamente transitorio.
La specificità storica è la connotazione essenziale del pensiero di Marx: quando, ad esempio, sosteneva che tutti i
periodi storici del passato erano stati caratterizzati dalla lotta tra le classi, subito dopo aggiungeva che a seconda dei
periodi storici tali lotte avevano assunto caratteri diversi. Mentre i suoi predecessori avevano inteso considerare la storia
come una monotona successione di lotte tra i ricchi e i poveri, tra i detentori e i non detentori del potere, Marx,
differenziandosi nettamente da essi, sosteneva che certamente le lotte di classe avevano contrassegnato l’intero corso
della storia, ma di volta in volta le parti in lotta erano diverse.
2 La teoria delle classi
La teoria delle classi di Marx si fonda sulla premessa che «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di
classi»4. Secondo tale concezione, sin da quando la società umana è uscita dal suo stadio primitivo e relativamente
indifferenziato, essa ha continuato a reggersi sulla base di una fondamentale divisione in classi in lotta tra loro per il
perseguimento dei rispettivi interessi.
Il destino dell’uomo nella storia è quello di vivere una contraddizione che nasce nella struttura economica. I rapporti di
produzione in cui si è trovato l’uomo durante l’intero sviluppo della sua storia si manifestano palesemente nei rapporti di
proprietà, ovvero nel modo in cui si possiedono i mezzi che servono a produrre le cose necessarie alla sua sussistenza.
Nella struttura economica vengono a crearsi due classi di uomini: una che detiene i mezzi di produzione e una che
rappresenta la forza lavoro, la classe che produce i beni utilizzando mezzi di produzione che non sono di loro proprietà.
Durante il corso della storia, nel periodo schiavistico dell’antichità, le classi egemoni, i cittadini e i patrizi rappresentavano
la classe dominante, la classe che deteneva i mezzi di produzione, mentre gli schiavi, e in diversa misura i plebei, erano
la forza lavoro. Nel periodo medioevale, allo stesso modo, i signori della nobiltà feudale detenevano la proprietà di quei
mezzi che i servi della gleba utilizzavano per produrre i beni di cui non erano naturali possessori. Anche nel periodo
contemporaneo a Marx, il periodo dello sviluppo industriale, si assiste alla divisioni in classi: da un lato la borghesia, la
classe di moderni capitalisti, che detengono il capitale e le industrie, ovvero i mezzi di produzione e assuntori di salariati,
e dall’altro i proletari, la classe di moderni salariati, che, non avendo mezzi di produzione propri, sono ridotti a vendere
la loro forza-lavoro per vivere.
Non si deve credere che Marx e Engels trattino la classe borghese in modo esclusivamente negativo. Alla borghesia
vengono riconosciuti meriti di grande portata storico-politica: è essa che ha abbattuto le rigide barriere del feudalesimo e
ha permesso uno sviluppo economico universale e razionalizzato, ma il suo destino è quello di generare una classe
avversa (il proletariato) destinata a soverchiarla. Il progresso della grande industria crea unioni di operai organizzati e
coscienti della propria forza e missione. La borghesia produce, dunque, i suoi seppellitori. Ma non è col rompere le
macchine, ammoniscono Marx e Engels, che il proletariato rovescerà il dominio borghese. Per rimuovere questa
ingiustizia, vera e propria contraddizione interna al sistema economico di ogni epoca, non è possibile intervenire per via
puramente mentale, ma occorre intervenire nella struttura stessa del sistema economico in modo da rimuovere
concretamente e materialmente le cause di tale contraddizione. Tale rimozione avviene nella storia nei periodi di
rivoluzione, ovvero in quelle epoche in cui gli uomini delle classi sfruttate sono in grado di comprendere la loro situazione
e di cambiare i rapporti di forza all’interno della struttura economica.
Soltanto la lotta politica potrà avere ragione dell’oppressione capitalistica. E dovrà inevitabilmente trattarsi di una lotta
violenta, gestita da un proletariato autenticamente rivoluzionario e organizzato; il proletariato è destinato a realizzare una
rivoluzione, tale da portare alla soppressione di tutti gli antagonismi di classe e ad una società senza classi.
Nel sistema capitalista i borghesi che detengono la proprietà dei mezzi di produzione rappresentano la classe che
intende impedire lo sviluppo della storia conservando la struttura socio-economica esistente. Il mutamento, nel sistema
capitalista, è rappresentato dai proletari, la forza lavoro nelle fabbriche, che, essendo, in posizione di svantaggio,
premono per un cambiamento dello stato di cose esistente.
Sono i proletari che nel sistema di produzione moderno garantiscono la dialettica del processo storico e tendono a
distruggere il sistema di produzione borghese. Per Marx il successivo sviluppo della società borghese porta a una forma
socio-economica nuova e definitiva, in cui la rivolta della classe dominata porterà alla definitiva eliminazione delle classi
e della stessa lotta di classe, annullando di fatto anche la proprietà privata (la proprietà privata dei mezzi di produzione è
infatti connaturata alla classe dominante).
Pertanto, la soluzione al capitalismo, la nuova tappa dello sviluppo storico promossa dalle classi subordinate, è il
comunismo. Esso si configura estremità opposta al sistema di produzione capitalista: nella società capitalista non
esisteranno più classi e lotta di classe, separazione tra oggetto prodotto e produttore (alienazione), i mezzi di produzione
saranno di proprietà comune. Da questo ne deriva che anche la sovrastruttura ideologica della società, da sempre
espressione del sistema economico guidato dalle classi dominanti, verrà definitivamente smantellata, per cui non
saranno più necessari ne lo Stato ne la religione, ne qualsiasi altra espressione del dominio di una classe sull’altra. «Il
comunismo è cioè la sintesi suprema in cui viene rimossa ogni contraddizione sociale e, insieme, è la liberazione
concreta dell’individuo umano»5.
Marx parte, quindi, da un comunismo primitivo, “straccione”, perché le “forze produttive”, con cui egli intende le
condizioni tecnico-materiali della produzione (es. macchine, materie prime), erano molto modeste, un momento storico in
cui non c’erano la proprietà privata, non c’erano classi, conflitti, disuguaglianze, ma la natura non era dominata
dall’uomo. Ad un certo punto si verifica un evento che cambia la storia: nasce la proprietà privata.
Per Marx la proprietà privata è una colpevole caduta delle altezze morali della civiltà primitiva alle barbarie borghesi.
La tragedia della storia si concluderà con il comunismo finale, a cui si giungerà attraverso la rivoluzione proletaria, dopo
una breve fase di dittatura del proletariato, che userà il suo dominio per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle
mani dello stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante. Le prime misure da prendere nella fase della
conquista del potere saranno: 1) espropriazione della proprietà fondiaria; 2) abolizione del diritto di eredità; 3)
accentramento del credito finanziario in mano dello Stato; 4) accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano dello
Stato; 5) sviluppo delle fabbriche e degli strumenti di produzione; 6) uguale obbligo di lavoro per tutti; 7) istruzione
pubblica e gratuita di tutti i fanciulli.
Quanto alla conduzione della cosa pubblica, essa verrà realizzata non più dallo stato (che viene soppresso), ma dalla
partecipazione diretta dei membri della comunità secondo la forma della democrazia diretta e dell’autogoverno popolare.
Quella che Marx sogna è una società di uomini liberi e eguali, in cui la libertà di tutti coincide con la libertà di ognuno e
che realizzi il benessere collettivo.
3 Il “Capitale”
L’indignazione per la situazione sociale esistente, la fede nella realizzazione di un mondo migliore furono gli stimoli,
senza dei quali non vi sarebbe stato alcun Capitale (I edizione 1867), che spinsero Marx ad un esame sempre più
minuzioso e particolareggiato del funzionamento del sistema capitalista. È l’opera in cui Marx ha dato l’esposizione più
ampia e organica delle sue analisi dei rapporti di produzione, del loro sviluppo storico e delle loro conseguenze politiche
e sociali.
Marx riconosce il debito verso gli economisti classici (Smith e Ricardo), che hanno colto con acutezza alcuni caratteri
costitutivi dell’economia capitalistica e hanno elaborato alcune categorie (come quella del valore) e leggi con significato
scientifico. Il loro grave limite sta, invece, in una carenza di prospettiva storica. L’intento di Marx è quello di trasformare
la scienza dell’economia politica, storicizzandola.
Il concetto da cui parte il discorso de Il Capitale è quello di merce (ossia beni prodotti dal sistema economico), forma
elementare della ricchezza nella società capitalistica, che viene definita oggetto utile che soddisfa bisogni umani di
qualunque specie. In tale senso essa è utile e ha quindi un “valore d’uso”: un bene ha un valore indicato dall’uso che se
ne può fare (utilità che un dato bene ha per chi lo possiede). Ma ogni merce è depositaria anche di un “valore di
scambio” (quantità di bene o di moneta che si da in cambio di un altro bene o servizio), che permette il suo scambio con
certe quantità di altre merci. Dunque, una determinata merce ha insieme un valore d’uso, in relazione alla sua qualità, e
un valore di scambio, in relazione alla sua quantità; il primo, valutato in funzione del consumo, il secondo in funzione
dello scambio.
Tale valore di scambio è dato dalla quantità di lavoro socialmente impiegato per produrle, lavoro inteso
indipendentemente dalla sua qualità specifica, lavoro come dispendio di energia, lavoro astratto6. La grandezza di valore
di una merce è allora determinata dalla quantità di lavoro astratto racchiuso in essa e la quantità di lavoro è data dal
tempo di lavoro impiegato per produrla, tempo di lavoro necessario in media, socialmente necessario.
Per la maggiore comodità degli scambi, allo scambio diretto si è sostituita la moneta (gli scambi avvengono attraverso il
denaro, la merce-denaro, la merce equivalente di ogni altra). Ma sia che lo scambio sia diretto, sia attraverso la moneta,
una merce non si può scambiare con un’altra, se il lavoro che ci vuole per produrre la prima non è uguale al lavoro
necessario per la seconda. Le merci sono perciò “soltanto misure determinate di tempo di lavoro coagulato”. I beni
rappresentano lavoro umano cristallizzato. Il lavoro è il minimo comune denominatore dei beni, e quindi ciò che consente
di realizzare gli scambi secondo certe regole.
Ma anche il lavoro (forza-lavoro) è una merce che il proprietario (il proletario) vende, in cambio del salario, al proprietario
del capitale (il capitalista). Il capitalista acquista materie prime, macchinari, combustibile ecc., denaro investito nella
forma di capitale costante C, e forza-lavoro, che è una merce come un’altra, nella forma del salario, calcolando il valore
necessario a produrla; tale quantità di lavoro è traducibile nel valore dei mezzi di sussistenza (alimentari, vestiario, spese
varie sostenute dall’operaio mediamente, per es. in un giorno) necessari a far lavorare e a tenere in vita il lavoratore con
la sua famiglia, come capitale variabile V.
La forza-lavoro di un operaio sarà dunque impiegata giornalmente per otto ore ma pagata secondo il suo valore di
scambio che corrisponde, per esempio, a sei ore di lavoro: può bastare il salario percepito per sei ore di lavoro perché
l'operaio acquisti quei mezzi di sussistenza che gli consentono di riprodurre giornalmente la sua forza-lavoro, la sua
capacità lavorativa. Ma la forza-lavoro è una merce speciale perché produce a sua volta merci, altri valori, che non
vengono compensati a chi li produce. Sono essi a produrre quel «plusvalore» che consente al capitalista di arricchirsi in
modo ingiusto in rapporto al proletario.
Le altre due ore lavorate dall'operaio, e per le quali egli di fatto non percepisce salario, costituiscono il pluslavoro che si
traduce in plusvalore di cui il proprietario della forza-lavoro, il capitalista, si appropria legittimamente, in quanto egli ha
acquistato, con regolare contratto, la merce forza-lavoro per il suo valore d'uso, consistente nel produrre lavoro per otto
ore. E la merce prodotta in otto ore dall'operaio contiene il valore della materia prima e il valore corrispondente al
consumo in otto ore dei mezzi di produzione, C, il valore di sei ore di lavoro retribuito V e il plusvalore corrispondente a
due ore non retribuite, PV.
Se nella circolazione avverrà lo scambio delle merci prodotte in quel giorno col denaro, il capitalista avrà recuperato il
Capitale investito C + V e avrà realizzato il plusvalore PV. Lo sviluppo del capitale si otterrà reinvestendo il plusvalore. Il
capitale, non avendo senso se non come fonte di profitto, tende ad una continua accumulazione a concentrarsi nella
struttura del monopolio, determinando un crescente impoverimento del proletariato a fronte di un aumento incessante
delle quantità di merci prodotte; egli vede ridurre sempre di più il suo mercato e il suo salario, è costretto quindi a
lavorare per aumentare sempre di più un plusvalore di cui non sarà mai il beneficiario.
È su questa contraddizione che si fonda la crisi del capitalismo: chi detiene i mezzi di produzione esaspera sempre di la
ricerca del plusvalore così da minimizzare i salari e massimizzare il profitto.
4 L’alienazione alla base del sistema capitalista
La storia dell’umanità presentava, secondo Marx, un duplice aspetto: era ad un tempo la storia dell’uomo che realizza un
controllo crescente sulla natura e la storia della sua progressiva alienazione. L’alienazione si può definire come una
condizione nella quale gli uomini sono dominati da forze che essi stessi hanno create e che si contrappongono loro
come forze alienate.
Marx riteneva che tutte le principali istituzioni della società capitalistica, come la religione, lo stato, l’economia politica
avessero alla base una condizione di alienazione, i cui molteplici aspetti erano inoltre tra loro interdipendenti. Tuttavia
l’alienazione sul luogo del lavoro ha, per Marx, un’importanza fondamentale, giacchè egli considerava l’uomo soprattutto
come homo faber, l’uomo in quanto produttore.
Nel mondo del lavoro l’alienazione si sostanzia in quattro aspetti. L’uomo si aliena: a) dagli oggetti che produce , b) dal
processo di produzione, c) da se stesso, d) dalla comunità dei propri simili.
Gli uomini producono beni per soddisfare i propri bisogni. Tali beni hanno quindi un valore d’uso, ovvero hanno un
significato in rapporto all’uso che se ne fa. Nel sistema capitalista il valore d’uso viene trasformato in valore di scambio,
per cui il bene non è più prodotto solamente per soddisfare bisogni, ma viene prodotto per essere scambiato.
In questo meccanismo si avverte una separazione tra l’oggetto prodotto e l’uso per cui è stato costruito. Chi lo produce
non è più nemmeno proprietario dell’oggetto stesso, in quanto il lavoratore vende la propria capacità lavorativa al datore
di lavoro (il lavoratore vende le sue capacità al capitalista, il quale risulta il vero proprietario dell’oggetto prodotto dai suoi
dipendenti).
Non solo il produttore reale di un oggetto non è più il suo proprietario, ma non è nemmeno proprietario dei mezzi che
servono a produrre l’oggetto.
Questa separazione tra l’oggetto prodotto e la sua proprietà è l’alienazione, per cui l’oggetto acquista vita propria e
autonoma rispetto al produttore: il prodotto non ha più la sua funzione originaria di soddisfare direttamente e in modo
immediato il bisogno che lo produce. Il lavoratore, poi, non è nemmeno in grado di ricevere l’esatto e diretto compenso
derivante dalla sua produzione ma riceve invece in cambio un salario definito dal proprietario del suo lavoro.
L’alienazione è quindi la separazione tra proprietario e bene prodotto che genera disinteresse per la cosa prodotta e
iniquità, poiché sarebbe equo che il produttore di un bene ne ricevesse in cambio il pieno valore di scambio invece di
ricevere una parte minore di quel valore sottoforma di salario.
“MAX WEBER E LA «SCIENZA COMPRENSIVA DELL’AZIONE SOCIALE»” ’
PROF.SSA SIMONA IANNACCONE .
Indice
1 La razionalità dell’azione sociale ----------------------------------------------------------------------- 3
2 Tipi di potere --------------------------------------------------------------------------------------------- 10
3 La stratificazione sociale ------------------------------------------------------------------------------- 12
Riferimenti bibliografici -------------------------------------------------------------------------------------- 14
1 La razionalità dell’azione sociale
Max Weber ( 1864 – 1920) rappresenta una delle figure dominanti della sociologia del Novecento. Determinante, è stato
il suo contributo allo sviluppo della disciplina sia per i diversi studi storico-sociologici elaborati su vari aspetti della realtà
sociale (studio delle religioni, del capitalismo), sia per i criteri innovativi introdotti nell’analisi dei fenomeni sociali.
Centrale nel pensiero di Weber è l’esigenza di una approfondita riflessione sui metodi che dovrebbero consentire non
soltanto alla sociologia, ma a tutte le scienze storico-culturali di rivendicare un autentico carattere scientifico. Egli si
oppone tanto all’oggettivismo positivistico, con la sua illusoria pretesa di possedere carattere scientifico in quanto
fondato sull’analisi di fatti materiali, quanto alle tendenze intuizionistiche di uno storicismo teso a cogliere l’individuale
nella sua irripetibilità e peculiarità. Si tratta invece di elaborare robuste strutture logiche che consentano alle scienze
storiche e sociali di raggiungere risultati validi e verificabili.
A tale scopo è però anzitutto necessario chiarire che queste scienze sono avalutative, non possono decidere nulla circa
i “valori”, vale a dire circa le ragioni delle nostre scelte politiche, morali e religiose. Il sociologo non deve valutare i fatti
sociali, ma limitarsi a inquadrarli all’interno dei fenomeni culturali in cui si verificano, evitando di esprimere le sue
personali convinzioni. Pertanto, la sociologia, se vuole essere una scienza, non deve esprimere giudizi di valore sui
fenomeni che studia, ma deve limitarsi a descriverli e a darne spiegazioni soddisfacenti.
Una scienza empirica, sosteneva Weber, non può mai consigliare ad alcuno ciò che egli dovrebbe fare, quantunque
possa aiutarlo a chiarire a se stesso ciò che egli può o vuole fare, in base ai mezzi a sua disposizione e alle condizioni
storiche in atto.
Politica e scienza risultano perciò distinte, non perché le scienze non abbiano presupposti politici, morali e religiosi, ma
perché le scienze non possono fondare e determinare tali scelte. A queste spetta invece il compito di mostrarne la
razionalità intrinseca o meno, nel senso di chiarire se i mezzi scelti per un certo scopo sono ad esso coerenti o meno. La
razionalità non è mai un principio assoluto o estrinseco alla situazione storica o sociale, ma è il metodo per
comprenderla e operare in essa in modo coerente. Weber considerò la sociologia come «la scienza comprensiva
dell’azione sociale» . A differenza di molti suoi predecessori, che consideravano la sociologia in termini socio-strutturali,
egli concentrò la propria analisi sui singoli individui agenti (il mondo di partenza sono l’attore e la sua azione sociale,
l’individuo considerato come atomo e di unità base del sistema sociale). La sociologia, poi, si distingue dalle scienze
storiche, nell’adempiere a questo compito, in quanto non deve essere una semplice descrizione di fenomeni particolari,
ma deve essere comprensione delle azioni sociali nella loro costante uniformità e nel significato che gli individui
attribuiscono ad esse. Anche gli atteggiamenti umani mostrano, infatti, “connessioni e regolarità”, come ogni altro
divenire, e oggetto della sociologia sono proprio quegli atteggiamenti umani che si riferiscono all’agire altrui e devono
essere spiegati in base a tale riferimento. Per Weber dunque, a differenza del positivismo, non ci sono “fatti sociali”
originari, qualificabili in sé come tali e anteriori all’azione e intenzione concreta dei singoli uomini, ma soltanto forme di
“agire sociale”, risultanti dall’atteggiamento di uno o più individui in rapporto all’agire di altri individui. All’obiezione
secondo cui solamente con riferimento al mondo della natura è possibile raggiungere una conoscenza razionale di tipo
causale, giacché il mondo umano, a causa della sua imprevedibilità ed irrazionalità, non è suscettibile di spiegazione
razionale, Weber risponde ribaltando le posizioni. Mentre la conoscenza della natura deve sempre derivare dall’esterno
e noi possiamo solamente osservare il corso esteriore degli eventi e registrarne le uniformità, in ordine all’azione umana
noi possiamo andare oltre la semplice registrazione delle ricorrenti sequenze di eventi; il metodo della sociologia trova le
sue basi nella comprensione oggettiva, nella capacità di cogliere il significato dell’agire sociale dall’interno.
Naturalmente, con questo metodo Weber si oppone ai positivisti. «I fatti sociali sono, in ultima analisi, fatti intellegibili».
Non possiamo comprendere l’azione umana penetrando i significati soggettivi che gli attori attribuiscono al loro
comportamento e al comportamento degli altri. Coerentemente Weber ha definito la sociologia come «una scienza la
quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente
nel suo corso e nei suoi effetti»
Weber sosteneva che il comportamento privo di tale senso non rientra nell’ambito della sociologia. Per Weber
l’azione sociale si differenzia in base alla scelta dei fini e dei mezzi dell’azione, generando quattro tipologie base:
1. l’ “agire razionale orientato allo scopo” (strumentale), motivato dal fine che ci si è preposti di raggiungere, in cui sia il
fine sia i mezzi sono scelti razionalmente, è esemplificato dall’attività dell’ingegnere che, per costruire un ponte, tra i vari
mezzi possibili per raggiungere l’obiettivo sceglie quello tecnicamente più efficiente;
2. l’ “agire razionale orientato ai valori” (morale), è motivato da una credenza in un valore assoluto che può essere etico,
religioso, estetico ecc. solo per se stesso e indipendentemente da ogni prospettiva di successo, ad esempio il
raggiungimento per la salvezza;
3. l’ “agire affettivo”, si basa non su una valutazione razionale dei mezzi e degli scopi ma sullo stato emotivo degli
individui agenti, come nel caso dei partecipanti ai servizi di una setta fondamentalista;
4. l’ “agire tradizionale”, nasce da abitudini acquisite, dalla fiducia in «ciò che è valido da sempre»; un esempio di tale
azione può essere offerto dal comportamento dei membri di una congregazione ebraica ortodossa.
Tra questi differenti modi dell’agire sociale, il primo è quello che interessa lo sviluppo del processo moderno di
razionalizzazione: per Weber, infatti, la società capitalistica è organizzata in base alla razionalità rispetto allo scopo, che
consiste nell’accrescimento dei profitti. Weber sosteneva che nella società moderna sia nella sfera politica sia in quella
economica, nel campo del diritto e persino in quello delle relazioni interpersonali, l’efficiente applicazione dei mezzi ai fini
è divenuta prevalente ed ha sostituito le altre fonti dell’azione sociale.
L’esigenza di una consapevolezza razionale dei metodi e dei limiti delle scienze storiche e sociali non vuole essere
un’affermazione astratta o generica, ma corrisponde pienamente alla situazione dell’uomo contemporaneo.
Con l’età moderna, che ha affermato il primato della coscienza su ogni altro criterio, è infatti cominciato in Europa un
processo di razionalizzazione che ha portato al “disincanto” del mondo, vale a dire alla caduta di tutte le premesse
teologiche o metafisiche sulle quali in altri tempi si fondavano i giudizi universali di valore. L’uomo non nutre più alcuna
illusione sulla “realtà” dei suoi ideali e tanto meno l’illusione positivistica che tali ideali possano essere fondati
oggettivamente sui fatti storici o sociali e sul loro sviluppo. Il fatto, il dato, invece, è una sorta di realtà inesauribile di
fronte alla quale la scienza storica e sociale è capace di orientarci solo nella misura in cui compie delle scelte, seleziona
certi aspetti costruendo, sulla base di essi, dei tipi ideali (strumento metodologico specifico, indicato da Weber, per
studiare i fatti sociali) che non possono essere giudicati in base a criteri assoluti, ma esclusivamente in base alla loro
efficacia nel consentirci di connettere razionalmente i processi storici e sociali. Weber sosteneva che nessun sistema
scientifico è mai in grado di riprodurre la realtà nella sua concretezza e totalità, e che non esiste alcun apparato
concettuale, che possa mai dare una spiegazione completa dell’infinita diversità dei fenomeni particolari.
Un tipo ideale è una astrazione concettuale che fornisce al ricercatore un metro per accertare ad un tempo nei casi
concreti le similitudini e le deviazioni; esso fornisce il metodo fondamentale per uno studio comparativo.
I tipi ideali, vale a dire i concetti generali di certe realtà storiche e sociali (cristianesimo, capitalismo, ecc.) oppure di certe
specie di realtà storiche e sociali (Stato, Chiesa, setta, ecc.) non sono affatto rappresentazioni del reale, ma
accentuazioni di certi suoi aspetti per comprenderlo. In questo senso anzi i tipi ideali hanno un carattere dichiaratamente
e necessariamente utopico, poiché indicano dei modelli razionali, dei concetti-limite a cui si deve commisurare e
comparare la realtà per poterla comprendere. In tal modo però la inevitabile soggettività dei presupposti delle scienze è
riscattata dalla logicità e coerenza degli strumenti concettuali con cui viene analizzato il dato di per sé inesauribile nella
sua molteplicità.
Weber sottolinea la tendenza dei processi di razionalizzazione della vita a trasformarsi da mezzi in fini assoluti,
rivoltandosi quindi contro l’uomo e trasformandosi perciò in irrazionalità. La razionalizzazione del mondo si profila
sempre più come un processo che chiude l’uomo in una sorta di «gabbia d’acciaio» creata da lui medesimo: dal
guadagno, il quale, diventando capitale, si trasforma in fine autonomo dotato di proprie leggi. Tale «gabbia d’acciaio» di
Weber è dunque l’insieme dei processi di burocratizzazione, razionalizzazione, meccanizzazione in atto nella società
moderna.
Si deve a Max Weber lo studio della burocrazia come fenomeno tipico dell’epoca moderna. Weber individua nel
processo di razionalizzazione della società l’aspetto che qualifica più di ogni altro la modernità. Tale processo consiste in
una trasformazione radicale, attraverso la quale i metodi di produzione, i rapporti sociali e le strutture culturali
tradizionali, caratterizzati da modi spontanei e basati sulla pratica personale, vengono sostituiti da procedure
sistematiche, precise calcolate razionalmente. Ciò permette innanzitutto di applicare le regole in modo imparziale:
mentre, per esempio, nel mondo pre-moderno la giustizia veniva direttamente amministrata dal capo o dagli anziani del
villaggio, e in gran parte dipendeva dalle relazioni personali, nelle società moderne le leggi sono applicate secondo
regole definite e in modo tendenzialmente impersonale. La burocrazia è appunto, per Weber, una forma particolarmente
pervasiva, e per certi aspetti pericolosa, di tale processo di razionalizzazione, giacché essa implica direttamente la
gestione non tanto di oggetti, macchine o procedure, quanto piuttosto di essere umani, i quali devono essere organizzati
per conseguire finalità specifiche. Per analizzare i tratti tipici della burocrazia, Weber utilizzò il concetto di “tipo ideale”; il
tipo ideale di burocrazia è quindi un modello di burocrazia, che nella sua interezza non corrisponde precisamente ad
alcuna situazione storica specifica, sempre suscettibile di variazioni accidentali, ma permette di confrontare forme di
burocrazie diverse sulla base dei loro caratteri comuni. Il tipo ideale di burocrazia consta secondo Weber di alcuni
elementi fondamentali.
divisione del lavoro, cioè la distribuzione delle attività necessarie agli scopi
renderlo responsabile dello svolgimento del proprio lavoro.
ordine gerarchico all’interno dell’organizzazione. Ogni ufficio è sottoposto alla
dell’autorità di ciascuno deve essere definito precisamente.
operazioni è governato da un sistema di regole scritte, che ha lo
principio di impersonalità).
Svolge il suo compito in modo imparziale e distaccato , considerando in modo impersonale i dipendenti e il pubblico. Non
si ha a che fare con individui, ma con casi di lavoro.
carriera, è basato su qualifiche tecniche, su un
sistema di promozioni generalmente prevedibile basato sia sul merito, sia sull’anzianità, ma non su favoritismi
personali, è protetto dal licenziamento arbitrario.
iguarda l’attività dell’ufficio deve essere
separatezza della
sfera pubblica).
professione”; per eseguirla sono richiesti un corso di studi determinato e prove di qualificazione
prescritte come condizione preliminare per l’assunzione.
burocrazia sono separati dal controllo dei loro mezzi di lavoro (separatezza dei beni materiali).
Questo coordinamento burocratico delle azioni di un vasto numero di persone è divenuto il carattere strutturale
dominante delle moderne forme di organizzazione. Secondo Weber un’organizzazione di questo tipo è adatta a
controllare in modo molto efficace la produttività di un grande numero di individui, in quanto essa elimina, o quantomeno
limita, il capriccio individuale nelle decisioni, assicura complessivamente una buona competenza media dei lavoratori,
riduce le possibilità di corruzione (sulla quale erano per lo più basati i sistemi più tradizionali di gestione
dell’amministrazione) e riduce anche la prassi di ottenere un incarico per legami di parentela o amicizie personali.
I tipi di organizzazione burocratica sono tecnicamente superiori a tutte le altre forme di amministrazione, tanto quanto la
produzione per mezzo delle macchine è superiore ai metodi artigiani4.
4 M. Weber, Economia e società, cit. pp. 287-288
Weber tuttavia mise in evidenza anche le disfunzioni determinate dalla burocrazia. Il suo maggior vantaggio, la
possibilità di calcolare i risultati, la rende anche lenta e persino inefficace nel trattare i casi individuali; così i moderni
sistemi giuridici razionalizzati e burocratizzati sono divenuti incapaci di considerare le fattispecie particolari, cui i
precedenti sistemi di giustizia bene si confacevano.
Il pessimismo di Weber è evidente nel suo considerare la burocratizzazione e la razionalizzazione un destino inevitabile
pieno di oscuri presagi, una tendenza oppressiva che ha evidenti analogie con l’idea di alienazione di Marx. Entrambi
concordano sul fatto che i moderni metodi organizzativi hanno paurosamente accresciuto l’efficacia e l’efficienza della
produzione e dell’organizzazione ed hanno consentito all’uomo un dominio senza precedenti sul mondo della natura.
Essi concordano anche sul fatto che il nuovo mondo razionalizzato ed efficiente si è trasformato in un mostro che
minaccia di rendere disumani i suoi creatori.
Ma Weber si distacca da Marx nel momento in cui questi considera l’alienazione soltanto come uno stadio transitorio
sulla via della reale emancipazione dell’uomo.
Vi è, tuttavia, un altro aspetto per il quale Weber si differenzia da Marx o piuttosto ne amplia la concezione. In armonia
con il proprio interesse per la sfera della produzione economica, Marx aveva abbondantemente dimostrato come
l’organizzazione industriale capitalistica conduceva all’espropriazione del lavoratore dai mezzi di produzione: come il
lavoratore della moderna industria, a differenza del lavoratore dell’era artigianale, non possedeva i propri strumenti ed
era quindi costretto a vendere il proprio lavoro a coloro che lo controllavano. Pur aderendo nel complesso a tale analisi,
Weber contrappose al riguardo l’osservazione che tale espropriazione dagli strumenti del lavoro era il risultato inevitabile
di qualsiasi sistema di produzione razionalizzato e centralmente coordinato e non una conseguenza del sistema
capitalistico in quanto tale. Tale espropriazione avrebbe caratterizzato tanto il sistema socialista di produzione quanto
quello capitalistico.
2 Tipi di potere
Nella sua opera postuma più famosa, Economia e Società (1922), Weber definisce il potere come la «capacità di indurre
altri a fare ciò che non farebbero spontaneamente». Tale nozione di potere rinvia a una duplice dimensione:
relazione, in quanto indispensabile e ineliminabile fattore della regolazione e della coesione sociale;
struttura, che esprime in modo empiricamente accertabile le gerarchie sociali in termini di ricchezza, influenza,
comando.
In questa seconda accezione, il potere costituisce quella che si chiama dimensione algebrica a somma zero, perché a
ogni acquisizione di potere da parte di un attore sociale corrisponde una proporzionale perdita da parte di altri.
In un’ottica relazionale è praticamente impossibile determinare la quantità del potere che viene esercitato da individui e
gruppi su altri individui e gruppi: il potere è una sorta di lubrificante, una materia fluida indispensabile al funzionamento
dell’ordine sociale e capace di assumere le più svariate e persino imprevedibili modalità. Privilegiando, invece, l’ottica
strutturale, a somma zero, il potere ci apparirebbe come una sostanza solida, presente in quantità costante entro un
sistema politico o economico e perciò destinata ad essere ridistribuita di volta in volta come esito di conflitti ed
espressione di variabili rapporti di forza.
Sempre Weber pone il potere, o meglio, il potenziale di decisione, alla base della stratificazione sociale, e ne suggerisce
una tipologia collegata a differenti forme di legittimazione. Quello di legittimazione è un concetto cruciale, dal momento
che tutta la sociologia del potere weberiana si fonda sulla domanda basilare: “perché obbediamo”?. O meglio: “perché
siamo indotti a fare ciò che non faremmo spontaneamente?”. Una possibile risposta sta nell’istinto di sopravvivenza o nel
timore. Ci pieghiamo alla forza per salvare un bene più grande, come la vita; ma nessun potere può sperare di
mantenersi nel tempo utilizzando esclusivamente la forza. Chi aspiri a detenere in modo durevole il potere deve godere
di una forma di legittimazione che gli consenta l’esercizio dell’autorità e, ove occorra, anche della forza. Tutti i regimi
politici e tutte le forme di leadership, in altre parole, hanno bisogno di legittimarsi per preservarsi, differenziandosi così
dall’azione temporanea che si esprime attraverso il puro ricorso alla violenza fisica o alla minaccia. Secondo Weber si
devono distinguere vari tipi di potere a seconda della loro pretesa di legittimità.
1. Il potere legal-razionale, costituisce il potere in quanto funzione collettiva, legittimata da procedure certe, verificabili e
socialmente condivise. È ciò che avviene nel caso dell’elezione popolare della rappresentanza politica o in quello
dell’autorità burocratica codificata da procedure, tipo concorsi pubblici e carriere amministrative. È questo il potere che
tende sempre più a caratterizzare le relazioni gerarchiche nella società moderna. Per Weber il tipo più importante di
potere legal-razionale è quello che si avvale di un apparato amministrativo burocratico, che è per definizione imparziale,
come prescrive la cosiddetta etica del funzionario.
2. Il potere tradizionale, si basa, invece, sulla continuità, nel tempo, della legittimazione e sulla sua efficacia
rassicurante. È il caso delle sovranità dinastiche, trasmesse per via ereditaria (es. la monarchia inglese). In una
rappresentazione estensiva, il concetto è associato alle grandi famiglie imprenditoriali (es. la dinastia Agnelli).
3. Il potere carismatico, poggia sulla capacità di coloro che pretendono obbedienza in base al proprio straordinario
valore, di ordine morale, religioso od eroico. Si fonda sull’attribuzione al leader di qualità straordinarie, che lasciano
immaginare una sorta di investitura sovrannaturale. (es. Gandhi, Hitler).
La tipologia relativa alle diverse forme di potere è importante per più di un motivo: il suo contributo sociologico poggia in
modo più specifico sul fatto che Weber, contrariamente a molti teorici politici, concepisce il potere in tutte le sue
manifestazioni come espressione delle relazioni tra coloro che esercitano il potere e coloro che sono tenuti
all’obbedienza, piuttosto che come attributo dei capi. Sebbene la sua nozione di carisma possa non essere stata
espressa in una definizione rigorosa, la sua importanza poggia sullo sviluppo dell’idea weberiana secondo cui il capo
deriva il suo ruolo dall’idea che coloro che sono tenuti all’obbedienza hanno della sua missione.
3 La stratificazione sociale
La concezione weberiana della stratificazione parte dall’analisi elaborata da Marx, ma la modifica mettendo in rilievo
anche altri fattori importanti oltre quelli dipendenti dal controllo dei mezzi di produzione. Weber pone l’accento soprattutto
sugli effetti che l’appartenenza a una determinata classe ha sulle opportunità di vita di una persona, ossia sulla
possibilità di ottenere tutto ciò che in una determinata società è considerato desiderabile e di evitare quello che è
giudicato indesiderabile.
La concezione di Weber del concetto di classe è multidimensionale rispetto a quella unidimensionale di Marx, perché
introduce nuovi criteri di valutazione, come lo status politico o potere, lo status economico o ricchezza, lo status sociale o
prestigio. Ad esempio un individuo può essere politicamente molto potente ma non ricco, oppure essere molto ricco ma
non per questo possedere prestigio, o ancora possedere prestigio ma essere povero.
Weber ritiene che le fonti delle disuguaglianze e i principi fondamentali della stratificazione sociale vadano ricercati non
solo nell’ambito dell’economia, ma anche nella sfera della cultura e in quella della politica. Mentre nella sfera economica
gli individui si uniscono sulla base di interessi materiali comuni, formando le classi sociali, nella sfera della cultura essi
seguono comuni interessi ideali e danno origine ai ceti; nella sfera politica, infine, gli individui si associano in partiti o in
gruppi di potere per il controllo dell’apparato di dominio.
Nella definizione di classe, Weber non si allontanava troppo da Marx. «Il possesso e la mancanza di possesso, scriveva,
costituiscono le categorie fondamentali di tutte le situazioni di classe»5. Tuttavia la teoria della stratificazione di Weber si
differenzia da quella di Marx per il fatto che egli introduce una categoria strutturale aggiuntiva, quella di «ceto». Weber
riteneva che Marx non fosse riuscito a vedere l’importanza di tale categoria proprio perché aveva concentrato la sua
attenzione esclusivamente sulla sfera produttiva. Dunque, secondo Weber non solo la classe, ma anche il ceto e il
gruppo di dominio sono fattori essenziali per la comprensione dei processi di stratificazione.
Il concetto di ceto (fondato sul possesso e sulla gestione del potere), e più in particolare di condizione di ceto acquista
perciò in Weber fondamentale importanza. A differenza delle classi che
possono essere come non essere raggruppamenti di carattere comunitario, i ceti normalmente sono comunità che
hanno a loro fondamento da un lato la consapevolezza che gli appartenenti ad esse hanno del loro stile di vita (stesso
gusto, stesse preferenze di consumo), e dall’altro la stima e la considerazione che viene accordata loro dagli altri. I ceti si
distinguono l’uno dall’altro per il diverso grado di prestigio di cui godono.
«Definiamo “situazione di ceto”, ha scritto Max Weber, ogni componente tipica del destino di gruppi di uomini, la quale
sia condizionata da una specifica valutazione sociale, positiva o negativa, dell’ “onore” che è legato a qualche qualità
comune di una pluralità di uomini».
Questo ha importanti conseguenze. «L’onore di ceto si esprime normalmente soprattutto nell’esigere una condotta di vita
particolare da tutti coloro i quali vogliono appartenere ad una data cerchia. Connessa con ciò è la limitazione dei rapporti
sociali»6. Discende da tale situazione l’aspettativa che vi siano limiti imposti ai rapporti sociali con coloro che non
appartengono al ceto e una pretesa distanza sociale dalle persone socialmente inferiori.
Secondo Weber, solo la condizione di ceto può assicurare una comune base dell’agire. L’attenzione va quindi posta sui
fattori anche psicologici, che determinano sia le condizioni dell’agire individuale, sia la suddivisione stessa delle persone
in gruppi sociali di diverso rango e prestigio; ciò, senza trascurare la base per la comprensione della stratificazione
sociale.
L’elemento costitutivo dell’essere sociale non è insomma per Weber semplicemente l’appartenenza di classe, quanto
piuttosto l’insieme di abitudini, tradizioni e idee che ogni individuo, quale appartenente a un ceto, si vede indicate come
fondamento del proprio agire. Ciò, d’altra parte, non significa che la condizione di ceto vada pensata come indipendente
da quella di classe, giacché condizione di ceto e condizione di classe stanno fra loro in un rapporto che si gioca a più
livelli.
“LA SOCIOLOGIA COME SCIENZA SOCIALE”
PROF. PAOLO DE NARDIS .
Indice
1 LA SCIENZA EMPIRICA --------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2 LA RICERCA ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5
3 DALLA VECCHIA SOCIOLOGIA DEL LAVORO ALLA NUOVA SOCIOLOGIA DELLE EMOZIONI 6
4 TRE DICOTOMIE DELLA SOCIOLOGIA ----------------------------------------------------------------------------- 8
1 La scienza empirica
E’ chiaro che qualunque metafisica delle etichette ha un valore accademico, ha un valore convenzionale ma la scienza è
unica, quindi noi dobbiamo tener presente che abbiamo la prospettiva diversa sulle tre fasi e questa prospettiva diversa
però coinvolge immediatamente la stessa essenza, la stessa sostanza della disciplina.
Allora se la società comporta dei problemi, come possiamo affrontare questi problemi? E qui c’è già un punto
fondamentale da tener presente. La sociologia, in quanto scienza, fornisce le diagnosi di queste situazioni che non
tornano, di queste situazioni “patologiche” che comportano problema sociale e non semplicemente evento sociale, ma
non fornisce le terapie.
Le terapie spettano ai politici cioè a coloro che hanno in mano la possibilità di decidere e che possono, e a nostro avviso
dovrebbero, tener presente dei risultati della ricerca sociale su campo e quindi della sociologia. La sociologia può fornire
dati per risolvere problemi ma, tanto per usare una terminologia medica, si avvale soprattutto della diagnostica e non
della terapia.
Tuttavia, la sociologia è la tipica scienza che si iscrive nella prospettiva della cultura occidentale, quindi la scienza che si
fonda sullo sperimentalismo e sulla possibilità di poter ripetere in laboratorio l’esperimento; il laboratorio altro non è che
la realtà sociale. Questa realtà particolare è una molto cangiante, è una realtà difficilmente intrappolabile in formule,
rispetto ad altre realtà. Proprio per questo le scienze sociali che si occupano dell’ umano comportamento, forse sono più
difficili da questo punto di vista rispetto alle scienze esatte o alle scienze della natura. Perché in questi casi, soprattutto
nelle scienze della natura, l’oggetto si può studiare in termini puramente razionali e secondo quindi una prevedibilità
dell’oggetto stesso che difficilmente si sottopone a smentite.
Facciamo un esempio: se io studio un certo elemento della natura, formato da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno,
H2O che chiamiamo acqua, che in genere in natura lo si trova allo stato liquido, sappiamo perfettamente che più o meno
a zero metri di altitudine può cambiare stato a seconda della temperatura. Nel senso che a 0° si solidifica, da liquido
diventa solido e a 100° evapora, da acqua liquida diventa vapore acqueo. Se abbiamo o enunciamo il secondo principio
della dinamica e diciamo che la forza è uguale alla massa per l’accelerazione della forza di gravità dei corpi, sappiamo
benissimo che questa descrizione sotto forma di legge non viene smentita a meno che non accada qualcosa di
particolare, ma di molto particolare e quindi possiamo in qualche modo non soltanto descrivere e spiegare il fenomeno,
ma addirittura anche prevedere che facilmente anche in altre condizioni questa legge verrà osservata e onorata. Con
l’umano comportamento non è così, nel senso che l’umano comportamento si fonda sull’unità di misura fondamentale
che è l’azione sociale che è qualche cosa protesa verso uno scopo e che si avvale evidentemente di una strumentazione
relativa a mezzi istituzionalizzati per raggiungere un fine societario, però sappiamo bene che all’interno di questa
tensione verso lo scopo si possono inserire degli elementi non prevedibili, come dire delle variabili impazzite.
Una quota parte dell’umano comportamento, che non è intrappolabile nella razionalità assoluta, ma che si può studiare
soltanto attraverso quell’emotività, quell’espressività che sovente è irrazionale, sovente è lunatica. Sovente siamo
irrazionali, sovente siamo lunatici noi stessi che studiamo l’umano comportamento. Ecco perché è difficile il lavoro del
sociologo, perché si è immessi in una struttura sociale e quindi si pensa in un certo modo perché la struttura sociale
comporta modi di pensare. Nello stesso tempo si studia come se fosse qualche cosa di altro, la stessa struttura sociale e
bisogna tener presente che essa è composta da individui, donne uomini che siano, si comporta in maniera razionale, ma
una quota parte di irrazionalità, di azioni non logiche che entrano a far parte del modo di comportarsi, ma che non è
possibile anticipare attraverso una prevedibilità solamente, meramente logica. Tutto questo significa che c’è questa
quota parte di azioni non logiche che dobbiamo tener presente quando parliamo di prevedibilità delle scienze sociali.
Tutto questo comporta che evidentemente si capisce e si può ben concepire perché il paradigma dominante delle
scienze sociali, in particolare della sociologia, stenti a costituirsi. Non è soltanto per la giovane età delle discipline, ma è
soprattutto perché c’è rispetto alle altre scienze una quota parte di comportamento non logico, alogico, irrazionale, che
non possiamo prevedere. Da questo punto di vista le opzioni individuali, le prospettive che in qualche modo possono
incrociarsi con le singole sensibilità degli studiosi o di modi di vedere la vita, le visioni della vita degli studiosi, in qualche
modo comportano più l’opzione per teorie e quindi l’adesione a scuole particolari che non una vera e propria possibilità di
costruzione di un ombrellone comune, quello che abbiamo chiamato il paradigma di tutti.
Quindi questo tipo di ragionamento ci fa capire come ci siano molti discorsi che rischiano di arenarsi in una deriva di tipo
solamente teoretico se non si raddrizzano con quella che è la severità, la difficile e severa prova della verità, che non è
la verità assoluta, ma è semplicemente la verità in quanto verifica empirica sul campo delle cose.
2 La ricerca
Noi possiamo dire qualunque cosa e possiamo costruire qualunque ipotesi dal punto di vista del disegno della ricerca,
ma non possiamo mai applicare quella che è la difficile e severa prova della verità. Siccome non siamo in verità
teologiche né in verità filosofiche né in verità relative alle scienze esatte o alle scienze naturali, la nostra verità altro non
è che la verifica di quelle ipotesi teoriche o la disconferma, vale a dire la falsificazione di quelle ipotesi teoriche che
comunque danno validità alla ricerca su campo. Da questo punto di vista la validità corrisponde alla legittimità. La ricerca
è legittima, è scientificamente accettabile. L’oggettività scientifica in qualche modo fa da surroga e supplenza a quella
quota parte di irrazionalità che pure muove l’umano comportamento e che ripeto costa di azioni logiche e azioni non
logiche. Quelle azioni non logiche determinate non tanto dalle nostre facoltà raziocinanti, dalle nostre facoltà logiche o
razionali, ma da quella affettività, da quella emotività, da quella passionalità che pure diventano oggetti di studio delle
scienze sociali e che in qualche modo entrano nell’impasto di questa salsa verde dell’oggetto sociale per la quale
dobbiamo trovare adeguate teorie di risposta, anche se queste teorie non possono assurgere ancora alla nobiltà più alta
del paradigma. Tutto questo per dire come in effetti inizialmente, se pensiamo alle prime ricerche in età industriale,
quello che interessava di più è il nuovo modo di produzione, perché il nuovo modo di produzione comportava grosse
ricchezze da parte degli imprenditori, quindi grossi profitti. La categoria del profitto, che nasce dal punto di vista teorico
con Adam Smith con “la ricchezza delle Nazioni”, il primo pensatore che apre l’economia politica moderna, la scienza
politica moderna, diventa di fatto però l’aguzzina, da un punto di vista materiale, di tante povertà che si creano in quel
periodo. Non c’è ancora una normalizzazione di questo nuovo modo di produzione. Quindi le prime ricerche si basano
molto sulle classi povere, sulla povertà, la classe operaia, il proletariato nascente.
3 Dalla vecchia sociologia del lavoro alla nuova sociologia delle emozioni
La sociologia nasce sostanzialmente come sociologia del conflitto industriale. Man mano poi si è sviluppata in tanti
campi nascendo dall’indotto di questo argomento, la famiglia, i bambini, la comunicazione fino ad arrivare, soprattutto
oltre oceano quindi negli Stati Uniti d’America, proprio ad analizzare quei momenti che rappresentano un po’ la spina nel
fianco della stessa sociologia, vale a dire le passioni, l’emozioni e i sentimenti. Ci si è resi conto che la sociologia poteva
esprimere tutto, riusciva a spiegare tutto però non spiegava tre cose fondamentali: la nascita, la morte e l’amore.
Questi tre punti fondamentali evidentemente erano stati espunti, erano stati non trattati o addirittura maltrattati in tutti i
sensi dalla sociologia che si occupa più di lavoro, conflitto ecc. La difficoltà alla costruzione di un paradigma è che pure
nel lavoro, nei conflitti, nelle organizzazioni complesse i movimenti di appetenza e avversione, simpatia e antipatia,
conflitto e collaborazione, ci sono e sono momenti molto spesso non determinati dalla fredda razionalità delle cose. Essi
sono fortemente condizionati da una passionalità, da un’emotività, da una affettività, da una espressività, da un modo di
costruire anche le proprie identità che il sociologo non può trascurare, ma che diventano prepotentemente e a volte
tragicamente presenti all’osservazione del sociologo e non possono essere più evitate.
Non si può essere più distratti rispetto a queste grosse problematiche dell’umano comportamento e delle vite umane che
si incontrano nel sociale. Come può il sociologo ignorarle? Ecco che quindi la sociologia è passata man mano da quella
che era la vecchia sociologia del lavoro, la vecchia sociologia magari anche del vecchio rapporto città-campagna, la
vecchia sociologia delle relazioni industriali, alla sociologia delle emozioni, dei sentimenti, delle passioni, a quella
sociologia anche dell’irrazionale e della lunaticità dell’umano comportamento. Perché ci siamo accorti che altrettanto
soventi siamo irrazionali e lunatici a noi stessi. Se non conosciamo prima noi stessi, secondo il vecchio monito socratico,
come possiamo riuscire a conoscere il mondo sociale in cui viviamo? Ecco che molte branche sono nate dalla nuova
sociologia. Sono nate soprattutto da quella sociologia che non riguardava più il lavoro, ma riguardava il tempo libero.
Abbiamo quindi la sociologia della comunicazione, la sociologia dell’amore, la sociologia dei sentimenti, la sociologia
dello sport, tutte branche, che fanno parte dell’ultima ora delle riflessioni sociologica che per troppi anni non si è
occupata di esse e che in qualche modo noi possiamo recuperare superando i limiti che la vecchia tradizione sociologica
aveva imposto attraverso quella curiosità intellettuale che permette di adeguare la nostra cassetta degli attrezzi a quelle
che sono le nostre nuove realtà.
4 Tre dicotomie della sociologia
A questo punto diventa fondamentale capire bene però quando si parla di sociologia di cosa stiamo parlando e che le
stesse teorie a volte sono diametralmente opposte. Ne elenchiamo tre per ora, che in qualche modo fanno capire in
quale dilemma a volte ci dobbiamo dibattere.
La prima dicotomia: INDIVIDUALISMO - STRUTTURALISMO
La società esiste innanzitutto? Perché se non esiste la società non esiste neanche la sociologia che studia la società e
che è la scienza della società. Perché la società esista non dobbiamo dimostrarlo, lo vediamo sempre, ma da che cosa
ce ne accorgiamo? Dal fatto che tutti noi siamo persone diverse, nessuno è simile all’altro, ne da un punto di vista
esterno ne da un punto di vista interno, però ci intendiamo tutti.
Che la società esista è un dato di fatto. Come è possibile la società una volta che esiste? E la società esiste prima
dell’individuo o è l’individuo che fa la società? Questo è il primo dilemma. Il dilemma per propria natura ha due corni. Da
un lato abbiamo l’individualismo e dall’altro il societarismo , vale a dire quello che viene chiamato tecnicamente lo
strutturalismo olistico, cioè quella che è la forma generale di una società che tutto abbraccia, “olon” in greco è tutto.
Viene prima l’individuo o prima la società?
La seconda dicotomia: STRATIFICAZIONE SOCIALE - CONFLITTO SOCIALE
La società si pone come tanti gruppi sociali omogenei. Questi gruppi sociali omogenei si dispongono in maniera
stratificata, gli uni sugli altri oppure fra di loro litigano? Sono cooperanti o confliggenti? C’è una sorta di pace sociale
molto molto irenica per cui ognuno svolge senza problemi il proprio mestiere o ci sono conflitti forti nel momento in cui
dobbiamo o i vari gruppi tendono a tutelare i propri interessi?
La terza dicotomia: ORDINE SOCIALE - MUTAMENTO SOCIALE
La società è sempre in equilibrio, in ordine? O cambia? Ordine o mutamento sociale? Molti sociologi hanno enfatizzato il
principio dell’ordine e dell’equilibrio. Basti pensare agli economisti classici, che avevano un’idea della società fondata
sull’equilibrio della domanda e dell’offerta per esempio, altri invece sul fatto che tutto il mutamento, pantarei il vecchio
Eraclito, e quindi non si può non pensare al vecchio mutamento sociale. C’è quindi chi ha sottolineato più l’equilibrio e
chi di più il cangiamento.
Queste tre coppie concettuali, che come si vede dicono una cosa e il contrario di essa, e si elidono fra di loro, in qualche
modo poi vedremo come è possibile ricomporle attraverso la logica dell’indagine scientifica sociale e quell’unica forma di
oggettività possibile per la sociologia che non è nella sostanza, non è negli oggetti, non è nelle teorie, ma che per ora è
solo sul metodo.
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