Entusiasmo, emotività, autenticità e disponibilità ad essere mossi, “affetti”, sono stati caratteristici della corporeità di chi fa jazz e musica di “contatto”, dei suoi appassionati e dell’ambiente che essi contribuiscono a creare. La frenesia relazionale dell’attuale era postCovid rende ancora più evidente e drammatica la storica carenza nostrana di locali in cui vivere la musica con gli altri e l’assenza di emittenti radiofoniche jazz, mentre si aggravano i tentativi seriali di eliminazione o di sospensione della corporeità. Essere informati sui fatti e sulle circostanze in cui ci si trova, significa comprendere con chi e dove si è in relazione. E’ una necessità strutturale per la sopravvivenza poiché la struttura è l’insieme delle relazioni, comprese quelle nel corso dei tempi, ecco perché è doveroso contestualizzare anche in senso storico. Negli anni ’70 dello scorso secolo godetti di una grande notorietà, che perdura a 50 anni di distanza, anche per due programmi radiofonici Rai nazionali di successo, “Per Voi Giovani” e “Pop off”. Nell’ambiente degli addetti ai lavori dell’epoca si credeva, come si crede ancora oggi che questi programmi avessero come oggetto centrale la musica. In Italia la casta corporativa sotto-governativo-clientelare dei professionisti dei media riesce a materializzare perfettamente due princìpi, il principio di Peter e il principio di Macluhan: “nelle organizzazioni tutti tendono a essere promossi nella scala gerarchica fino a raggiungere il livello di incopetenza” e, quelli che occupano posti di potere, al pari dei generali, sono “ottimamente preparati a combattere la guerra precedente”. Negli anni ’70 si era in piena epoca dei media elettronici mentre tutti credevano di vivere nell’era della scrittura, del festival di Sanremo e della stampa. Una delle rarissime eccezioni era incorporata da Gianni Sassi che nel 1972 mi avrebbe rivelato: “A John Cage della musica non gliene frega una mazza”. In tuti i casi quelli che contavano erano convinti che io mi occupassi di musica, che io fossi un musicologo e che, essendo in Rai, godessi di un grande potere da cui derivava il mio successo, e non viceversa. Ricevevo più richieste di posti di lavoro dell’ufficio di collocamento, richieste di favori, prestiti, raccomandazioni, testimonial, partecipazioni in clubs, logge, clans e conventicole, e anche qualche richiesta di miei pezzi scritti e di mie apparizioni: tra il 1974 e il 1981 nel mensile Playmen Magazine fui titolare di una rubrica che l’editore volle ovviamente che fosse intitolata “musica,” malgrado mi occupassi di ricerche di corporeità, psicoterapia e medicina. Il costrutto mediatico è più efficace della presenza introversa del ricercatore. Il requisito di Yuji sensei del “mai dimostrare e mai mostrare”, in Italia Media equivale a un suicidio rituale. I burocrati, più realisti del re, riconoscono solo ciò che il loro utensile specializzato gli fa credere: “se l’unico utensile che conoscete è un martello, vedrete chiodi dappertutto”. Nel mio lavoro il “prodotto musicale” era solo uno tra gli ingredienti nel medium radiofonico che è fatto di stati d’animo, sensazioni e spinte a costruire linguaggi comuni, unitamente a un effetto collaterale commerciale imprevisto: nel piattume musicale generale stimolava la vendita di dischi esotici che fino ad allora nessuno comprava. Ciò determinò un sostegno importante all’industria discografica italiana fino a un picco dopo il quale ci fu un crollo di vendite di dischi che coincise con la sospensione dei due programmi nel 1975: l’invasione incontrollata delle televisioni e delle radio libere di lì a poco diede il colpo di grazia, le regole del mercato di basso livello presero il sopravvento e l’industria del disco si auto-condannò al fallimento attraverso la pratica masochistica del rincorrere tutto ciò che fosse facilmente etichettabile, impacchettabile e distribuibile, imponendo un processo di dumping (di svalutazione e livellamento verso il basso) e di omologazione (very normal products for very normal people). Come sanno tutti, tranne gli addetti ai lavori, nei miei programmi mediatici e nelle mie proposizioni, allora come ora, mi occupavo in sostanza di st corporeità, di modi di vivere contro-egemonici, dei relativi nuovi linguaggi e soprattutto di “Ecological and Environmental Humanities”, che in Italia a tutt’oggi sono conosciute e praticate solo da Papa Francesco. Da un trentennio la fiction cinematografica e le vicende dell’attualità giornalistica fanno a gara a chi produce la distopia più impensabile. In questi giorni il quotidiano “The Guardian” anticipa che emergeranno rivelazioni clamorose sul virus di Wuhan e sui relativi laboratori multinazionali collegati. Documentari ad altissimo livello sull’Antropocene e sul decadimento esponenziale delle condizioni di sopravvivenza sul pianeta sono già proliferati dopo il Covid 19 ma il filmone sul Grande intrigo del Virus Ultimativo è in preparazione. Sapere dove siamo, oggi è un fattore critico di sopravvivenza: ecco perché giova individuare dove siamo posizionati nella contemporaneità e conoscere il contesto nella continuità della sua prospettiva storica. Nel film “The day after” (1983, Nicholas Meyer) nella scena del conteggio alla rovescia nella base USAF di lancio dei missili nucleari indirizzati alla Russia., l’ufficiale chiede al Comando centrale: “Please, confirm, is this an exercise?”. La risposta raggelante è: “Negative, this is not an exercise!”. Questo repentino e imprevisto collasso dello scarto, tra esercitazione bellica in simulazione e azione di combattimento “materiale”, ricalca esattamnte il collasso irreversibile, in corso in questi giorni, tra rappresentazioni virtuali e vita “reale”. I media rassicurano riportandoci in continuazione ai disagi, “materiali e tangibili”, delle restrizioni, con la promessa del recupero della vita regolare, a meno che non si realizzi l’incubo del grande ritorno pandemico. ma poiché si media sono i principali produttori di virtualità, sono costretti a spacciare come “la realtà” le loro rappresentazioni, anche nelle circostanze attuali in cui l’effetto più clamoroso è “psichico” (nell’antico senso freudiano). Siamo nell’anno domini 2021, ma parole come “psichico”, “materiale”, “corporeo” sono significanti “fluttuanti”, vale a dire significanti ai quali ognuno attribuisce ciò che gli piace e significati spesso arbitrari e personali, non concordati, non condivisi e spesso non condivisibili con altri. La ricaduta immediata è l’isolamento e il “nonsense”, l’effetto a lunga durata è peggio: perdita dei punti di riferimento nonché invasione del rumore di fondo. Sarebbe sensato allora accordarsi su definizioni condivise, per essere in grado di argomentare e confrontarci su ciò che ci è piovuto addosso e su tutto ciò che sta per accadere. Non tanto per mantenere viva la speranza di agire, ma per poterne almeno parlare in modo difforme dal “nonsense” corrente della torre di Babele mediatica e sottrarsi all’iperlocalismo parrocchiale dilagante di conventicole, corporazioni, dipartimenti universitari, regioni, condomìni e condòmini, che caratterizzano da secoli il malaffare del gran bordello dantesco del nostro paese. Nel resto del mondo l’attuale “Antropocene” o “Plasticocene”, coincide con il trionfo della “grande macchina dei giochi” – Internet, un medium che santifica e induce un originale forma di pragmatismo cinico che di solito emerge nei momenti storici critici e che, finora, era stato praticato soprattutto da chi approfitta delle disgrazie altrui: la ricerca di opportunità di di profitto nella catastrofe attuale. “La grande macchina dei giochi” promette questa salvezza a chi riesca a ben comprendere le sue più arcane regole di gioco. Il messaggio è: “non potendo esserci ‘di persona’ nella ‘realtà’, perché, semplicemente, non è permesso entrarci, la macchina genera pratiche sostitutive, in attesa del promesso ‘ritorno’ al ‘come prima’”. Due promesse da marinaio anzi da “macchina dei giochi”: lasciar credere che questa sostituzione sia solo temporanea e che garantisca la continuità dell’esistenza tra l’epoca di prima del virus e quella del dopo. La seconda è quella della continuazione della vita attraverso webinars, incontri a distanza, rappresentazioni, culminanti con l’emancipazione dai vincoli spaziali ma anche dai vincoli temporali: gli eventi, registrati, sono comunque sempre ri-accessibili “on demand”, in tempi diversi da quelli in cui accadono. L’uso intensivo dei virgolettati è un tentativo disperato quanto inutile di creare distinzioni e differenziazioni tra reale e virtuale, mentre è in corso in queste ore non solo la fine delle possibilità di distinzione ma addirittura l’inversione delle polarità: il reale è trasformato in una rappresentazione senza spazio nè tempo e si vaporizza. Si è spenta la notte bianca in cui tutte le notti sono bianche e la televisione ha smesso di fungere da lampada solare. “Tutti a casa!” (1960, Luigi Comencini)? Magari! Il risveglio traumatico dall’illusione del ritorno al “prima”, rivela che non abbiamo mai avuto un reale, la realtà non c’è mai stata, non c’era e addirittura la stessa televisione era pura rappresentazione. Non c’è più niente a cui ritornare. Bisogna trovare qualche altro “corpo” celeste dove atterrare. Ci orientiamo sul “Dove atterrare come Latour, (2019)” in quanto entità ancora dotate di corporeità (embodiment)? O piuttosto sul considerarci “Entità disincarnate” (Cascone, 1980)*, in quanto tali senza necessità di atterrare/atterrarsi? Questo è il suggerimento della rete, della “grande macchina dei giochi”, che costruisce utenti perfetti per la sopravvivenza della rete ma impossibilitati a garantirsi la loro. Uno stato postesistenziale simile a quello dei migranti. Tutti soggetti ad un doppio meccanismo di cancellazione dalla terra di partenza e da quella di arrivo. Sarebbe stato meglio che non ci fossimo mossi dalla nostra base per evitare di perderla? O la nostra base si è già vaporizzata e siamo dispersi nello spazio? Propenderei per la seconda ipotesi se non fosse più inquietante della prima: non abbiamo dove atterrare, o dove tornare, ma abbiamo almeno spazio e tempo, per ricercare nuovi approdi? Niente affatto: c’è conforto e salvezza soltanto nell’esperienza virtuale e negli schermi luminescenti, nelle storie e nei personaggi della rappresentazione che, dal canto loro, beati loro, beneficiano di uno spazio e di un tempo, anche se virtuale e soggetto soltanto allo spegnimento dell’apparecchio o alla sospensione della fornitura elettrica. La vita virtuale ci fa recuperare, in forma di surrogato, lo spazio e il tempo che non abbiamo più, per ricostruirci un esistenza da inventare, di “trans-corporeità” a base mediatica. Rassomigliamo ai personaggi televisivi con cui conviviamo e il nostro nuovo “corpo” mediatico non ricorderà mai più, nemmeno alla lontana, quello di prima: le condizioni del suo sussistere sono ormai protesiche e ibride. Si è innestato dentro di noi, dopo il vettore regolatore mediatico, il regolatore genetico vaccinale, da inoculare ciclicamente. Il nostro orientamento di corpi è totalmente determinato dalla “macchina dei giochi” che, per sua natura, “produce” consumatori incorporei. Quanto rimaneva di biologico viene progressivamente soppiantato dai dispositivi cyborg: ora sono questi dispositivi di impianto che contano, non le “entità” su cui vengono impiantati, noi. L’imperativo lombardo nelle prime fasi della pandemia, “statevene a casa ad aspettare, pigliatevi una pasticca, date tempo all’industria e alla finanza di organizzare i loro interessi e di creare dispositivi risolutivi e distribuibili su larghissima scala planetaria”, ha fatto decine di migliaia di decessi, ma è stato più praticabile di cure faccia a faccia individuali e ha instaurato una nuova politica sanitaria fanta-scientifica e demenziale. Queste esigenze multinazionali, con la devozione delle istituzioni e delle classi dirigenti che la accompagna, hanno inesorabilmente generato l’utente-cyborg che è ancora tutto da ristrutturare poiché ancora occupa troppo spazio e gli schermi luminescenti gli hanno già fatto saltare definitivamente vincoli temporali e ritmi circadiani veglia/sonno. La natura stessa degli eventi da oggi è mutata come è mutata la natura dello spettacolo. Televisione e internet si son o sostituite alle rappresentazioni “dal vivo” e non co-esistono con gli eventi, ma li assorbono dentro di sè. I media elettronici sono “il luogo e il tempo degli eventi”. Questa trasformazione del corpo e dell’umano, del biologico, dello psicologico, del linguaggio, della coscienza e della consapevolezza e, per giunta, l’avvento di un architettura delle relazioni tra entità, non rendono più possibile la sussistenza del buon vecchio, rassicurante e condominiale “inconscio”. L’inconscio cyborg è invece il combinato disposto dei suoi creatori e dell’apparato tecnocratico-finanziario che condiziona l’esistenza in vita e l’ambiente, e a cui l’utente inconsapevolmente si adegua con intensità e devozione. La parete con le mie sei casse di altoparlanti, una serie di riproduttori sonori di varie epoche, CD, vinili, audiocassette, Md, nastri magnetici, nastri Dat, una chitarra, sarà presto fuorilegge. Lo stesso schermo televisivo non è più sostenibile. La necessità h24 di protesi tecnologiche per la mia regolazione in quanto Bio-Cyborg, ormai le porto addosso, dovunque. Tre soli dispositivi saranno consentiti ancora per un breve periodo di transizione fino all’avvento di occhiali video e impianti acustici intra cranici: a) cuffie per chitarra con riverbero, eco e basi per i concerti ambientali da protagonista in rete dal mio bagno ad alta qualità acustica; b) telefonino e c) Ipad 12.9 per riprese, montaggi video e programmazione dei miei siti, del mio sistema di comunicazioni inter-planetarie e delle mie emittenti radiofoniche televisive. Dall’ultimo conclave non capitava più di incontrare per caso i miei vicini. Il tempo che recupero mi consente di partecipare quotidianamente a incontri e webinar con entità dall’altra parte del pianeta. Sono collegato a Perseverance su Marte durante l’esplorazione del cratere Jezero e i suoni in diretta del Mars Rover li utilizzo provvisoriamente come sottofondo nella mia emittente mondiale Mediterranea Web Radio Hub, WRHM-Italy (medradiohub.com) fin quando la nuova sonda spaziale nucleare sovietica non raccoglierà i suoni ambientali di Giove, che con il jazz, la radio e altre arti sonore e tattili sono il mio ambiente abituale. *Entità disincarnate, in Corpo e Comunicazione, Rolling Stone, ed. italiana, 1980