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dario antiseri, silvano tagliagambe storia della filosofia dalle origini a oggi. filosofi italiani contemporanei. vol. 13 bompiani (2004)

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LDB
Dario Antiseri laureatosi in filosofia nel 1963 all’Università di Perugia, ha proseguito i
suoi studi presso le università di Vienna, Münster e Oxford su temi legati alla logica
matematica e alla filosofia del linguaggio. Divenuto libero docente nel 1968, ha insegnato
in prestigiose università, quali “La Sapienza” di Roma, Siena, Padova, fino a ricoprire
l’incarico di preside della Facoltà di Scienze politiche alla LUISS di Roma tra il 1994 e il
1998. Nel febbraio del 2002 è stato insignito, insieme a Giovanni Reale, di una laurea
honoris causa presso l’Università Statale di Mosca. Tra le sue opere, tradotte in più
lingue, ricordiamo: Ragione filosofica e fede religiosa nell’età post moderna con Gianni
Vattimo (Rubettino, 2008); Come leggere Pascal (Bompiani, 2005); Come leggere
Kierkegaard (Bompiani, 2005); La Vienna di Popper (Rubettino, 2001), Storia della
filosofia. Storia del pensiero occidentale dalle origini a oggi scritta con Giovanni Reale (La
Scuola, 1997) e Teoria unificata del metodo (Utet, 1981 e successive edizioni).
Giovanni Reale (1931) è uno dei massimi studiosi del pensiero antico, autore di
fondamentali contributi sui Presocratici, Socrate, Platone, Aristotele, Seneca, Pirrone,
Plotino, Proclo e Agostino. Ha composto una Storia della filosofia greca e romana (in dieci
volumi, Bompiani 2004) che si è imposta come un punto di riferimento. Per una nuova
interpretazione di Platone (2010) è la sua opera di maggior successo, come dimostrano lo
straordinario numero di edizioni, le traduzioni in varie lingue e i giudizi dati dagli studiosi
a livello internazionale.
STORIA della FILOSOFIA
dalle ORIGINI a OGGI
STORIA DELLA FILOSOFIA
dalle origini a oggi
Vol. 14 Filosofi italiani contemporanei
© 2008 RCS Libri S.p.A./Bompiani, Milano
© Storia della filosofia greca e romana, 2004
copyright by RCS Libri S.p.A./Bompiani
© Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, 1983
copyright by Editrice La Scuola
© Storia della filosofia, 1997
copyright by Editrice La Scuola
Progetto grafico: Polystudio
Fonti iconografiche: Foto Scala, Firenze
Archivi RCS Libri S.p.A., Milano
Effigie literary photo agency, Milano
L’editore si dichiara disponibile con gli aventi diritto
delle fotografie per eventuali fonti non individuate.
Cover design: Polystudio
In copertina: Mimmo Paladino, San Francesco. Mart, Museo di arte
moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
A cura di Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe
13
STORIA della FILOSOFIA
dalle ORIGINI a OGGI
FILOSOFI ITALIANI CONTEMPORANEI
Con la collaborazione di Vincenzo Cicero
A Massimo Baldini e Marco Mondadori
per quello che hanno dato
e con rimpianto per quanto
avrebbero potuto ancora fare.
Dario e Silvano
PREFAZIONE
Questo volume è stato realizzato allo scopo di informare sugli sviluppi più recenti della
filosofia italiana attraverso le autobiografie di coloro che ne sono stati e ne sono tuttora i
protagonisti. Già questo costituisce un piccolo ma significativo elemento di novità per un
duplice motivo.
In primo luogo perché nei repertori storiografici raramente si presta la dovuta attenzione
alle indagini attuali, in cui sono impegnati pensatori ancora attivi.
In secondo luogo per la scelta, che è stata fatta, di ricostruire le svolte significative della
ricerca, i momenti e i luoghi di particolare rilievo del panorama attuale del pensiero
filosofico del nostro paese dando voce direttamente alle personalità alle quali si devono
questi sviluppi, che nella quasi totalità dei casi hanno redatto personalmente il proprio
profilo. Le sporadiche eccezioni sono quelle in cui i testi sono firmati da altri autori.
Questa opzione ha comportato la rinuncia, da parte dell’editore e dei curatori, alla
consueta e consolidata pratica redazionale dell’uniformità del testo per lasciare spazio
alla diversa scrittura di chi si racconta: l’unico vincolo posto è stato infatti quello di
chiedere agli autori l’ulteriore fatica di scrivere in terza persona, per un minimo di
continuità con i volumi precedenti. Per il resto si è preferito lasciare la massima libertà di
approccio, nella convinzione che questo possa dare al lettore la possibilità di farsi un’idea,
proprio attraverso lo stile narrativo scelto da ognuno, anche della personalità di questi
protagonisti della nostra cultura, del loro diverso modo di porsi in relazione con la propria
vita e con le proprie opere.
A grandi linee si può dire che ciò che emerge da questo quadro è una presenza,
certamente maggiore rispetto al passato anche recente, della nostra filosofia nel
panorama internazionale.
Più intense e continue sono infatti le relazioni con i centri della ricerca nel mondo e con le
scuole di più ampio e riconosciuto prestigio, come dimostra anche il numero di opere
tradotte all’estero e la presenza, tutt’altro che occasionale e sporadica, di nostri autori
nelle riviste o in opere collettanee pubblicate oltre frontiera.
Un altro elemento di rilievo è costituito dalla rapida crescita e dal consolidamento delle
ricerche in un campo, come quello dell’epistemologia, della logica, della filosofia della
scienza, della metodologia delle scienze sociali, della filosofia del linguaggio che in Italia
ha, almeno sotto il profilo accademico, una vita più breve che altrove, dato che la prima
cattedra di Filosofia della scienza è stata quella istituita nel 1956 all’università statale di
Milano e affidata a Ludovico Geymonat.
Nell’arco di poco più di mezzo secolo gli studi in questo settore hanno raggiunto una
diffusione e un livello qualitativo tali da farli figurare degnamente al fianco degli apporti
in ambiti che hanno una tradizione ben più radicata e marcata, come la storia della
filosofia, la filosofia teoretica, la filosofia della politica, la filosofia della religione.
Segnaliamo infine con piacere una presenza femminile che comincia a essere significativa
per l’originalità e lo spessore dei risultati raggiunti. Questo elemento, accanto alla
crescita di giovani generazioni di ricercatori che hanno saputo guadagnarsi
considerazione, rispetto e notorietà anche all’estero e la cui produzione meriterà un
ulteriore approfondimento, costituisce un legittimo motivo di soddisfazione e la prova
migliore che la nostra università, pur tra innegabili problemi e difficoltà, è comunque viva
e riesce tuttora ad assolvere in maniera più che dignitosa il compito formativo che le
spetta.
Dario Antiseri - Silvano Tagliagambe
SOMMARIO
Evandro Agazzi
Dario Antiseri
Massimo Baldini
Enrico Berti
Remo Bodei
Massimo Cacciari
Giuseppe Cacciatore
Ettore Casari
Adriana Cavarero
Carlo Cellucci
Mauro Ceruti
Girolamo Cotroneo
Francesco D’Agostino
Salvo D’Agostino
Maria Luisa Dalla Chiara
Tullio De Mauro
Roberta De Monticelli
Gillo Dorfles
Umberto Eco
Maurizio Ferraris
Giovanni Ferretti
Maria Carla Galavotti
Aldo Giorgio Gargani
Giulio Giorello
Sergio Givone
Tullio Gregory
Eugenio Lecaldano
Sebastiano Maffettone
Diego Marconi
Giacomo Marramao
Vittorio Mathieu
Virgilio Melchiorre
Battista Mondin
Salvatore Natoli
Pier Paolo Ottonello
Paolo Parrini
Alberto Pasquinelli
Marcello Pera
Ugo Perone
Armando Plebe
Vittorio Possenti
Pietro Prini
Giovanni Reale
Giuseppe Riconda
Armando Rigobello
Paolo Rossi
Pietro Rossi
Giorgio Sandri
Giovanni Sartori
Emanuele Severino
Carlo Sini
Silvano Tagliagambe
Fulvio Tessitore
Mario Tronti
Cesare Vasoli
Gianni Vattimo
Salvatore Veca
Carlo Augusto Viano
Vincenzo Vitiello
FILOSOFI ITALIANI CONTEMPORANEI
EVANDRO AGAZZI
Evandro Agazzi, nato a Bergamo nel 1934, si è laureato in filosofia nel 1957 presso
l’Università Cattolica di Milano, dove è stato allievo diretto di Gustavo Bontadini, dal
quale ha attinto l’aspirazione alla costruzione di una metafisica di tipo rigorosamente
conoscitivo, e dove ha pure incominciato ad interessarsi alla filosofia della scienza e alla
logica matematica, grazie al fecondo incontro con il matematico Carlo Felice Manara.
Terminati gli studi di filosofia, ha compiuto gli studi di fisica presso l’Università statale di
Milano. Ha trascorso altresì un anno accademico ad Oxford per ricerche nel campo della
filosofia della scienza, sotto la guida di Jonathan Cohen, entrando in contatto con una
delle migliori scuole della filosofia analitica.
Frattanto i suoi interessi si erano concentrati sulla logica matematica e i fondamenti della
matematica, che passò ad approfondire presso l’Istituto per la logica matematica e la
ricerca sui fondamenti dell’Università di Münster. Vi ascoltò lezioni di Ackermann ed
Hermes, ma soprattutto vi conobbe Ettore Casari, suo coetaneo, il cui contatto, oltre alla
duratura amicizia, hanno avuto positivi influssi sulla sua formazione in questi settori.
Dopo aver pubblicato il suo primo volume (Introduzione ai problemi dell’assiomatica,
1961), che lo pose in evidenza nel mondo filosofico italiano, conobbe Ludovico Geymonat,
con il quale entrò in un rapporto di reciproca stima e sincera amiciza protrattosi per tutta
la vita, nonostante le opposte ispirazioni ideologiche. Entrambi condividevano il forte
apprezzamento per la conoscenza scientifica e vedevano la necessità di elevarne la
coscienza e il ruolo specificamente culturale, ed erano difensori di uno stile rigorosamente
“razionalista” in filosofia. Per questo Geymonat sostenne concretamente A. nei momenti
fondamentali della sua carriera accademica ed ebbe con lui occasioni di franco e
costruttivo dibattito filosofico. Nel frattempo A. veniva sviluppando una sua epistemologia
specialmente indirizzata verso le scienze empiriche e basata su un’articolata teoria
dell’oggettività scientifica.
Nel corso di tali ricerche incontrò l’opera di Vittorio Mathieu (L’oggettività nella scienza e
nella filosofia moderna) che esponeva un nucleo di idee molto affine, e ciò lo spinse ad
incontrare questo filosofo, con il quale pure nacque un rapporto molto stretto di reciproca
stima e amicizia, tradottosi anche nelle forme di concreto appoggio accademico.
Sono queste le scuole e le persone che hanno direttamente influito sulla “formazione” di
A. Con il 1970 (inizio del suo insegnamento come ordinario di Filosofia della scienza
all’Università di Genova) prese avvio una ricca serie di rapporti con ambienti filosofici e
scientifici legati alla sua attività di docente, specialmente a livello internazionale, che
pure contribuirono a foggiare i lineamenti del suo pensiero.
In una prima fase della sua ricerca, come si è detto, A. si è occupato specialmente di
fondamenti della matematica e di logica matematica (Introduzione ai problemi
dell’assiomatica, 1961; La logica simbolica, 1964), sviluppando una critica delle
concezioni strettamente formalistiche e rivendicando anche in queste scienze la presenza
di un livello di significato, un riferimento a contenuti, l’appropriatezza della nozione di
verità e l’intervento di un’intuizione intellettuale distinta dalla semplice inferenza
deduttiva. Ciò senza sottovalutare la polivalenza semantica dei formalismi e
l’allargamento di prospettive che l’adozione del punto di vista formale ha consentito nella
comprensione delle matematiche e della stessa logica. In questa fase la sua duplice
preparazione in campo filosofico e scientifico – sottolineata anche dal conseguimento di
due distinte libere docenze, in Filosofia della scienza (1963) e in Logica matematica
(1966) – lo ha condotto a ricoprire insegnamenti universitari tanto in facoltà scientifiche
(Geometria superiore, Logica matematica, Matematiche complementari nella Facoltà di
Scienze dell’Università di Genova; Logica Simbolica nella Classe di Scienze della Scuola
Normale Superiore di Pisa) quanto filosofiche (Filosofia della scienza, Logica matematica
presso l’Università Cattolica di Milano).
Sebbene questo tipo di interessi non si sia mai esaurito nell’attività di ricerca e docenza di
A., esso è passato in seconda linea, dopo circa un decennio, in quella che possiamo
indicare come una seconda fase del suo itinerario intellettuale. In questa l’interesse si è
spostato verso le scienze empiriche, con particolare riguardo alla fisica.
Nel volume Temi e problemi di filosofia della fisica (1969) egli non si limita a mettere a
fuoco problemi cruciali specialmente della fisica quantistica, ma offre già il nucleo
essenziale quasi completo della sua concezione dell’oggettività scientifica, distinguendone
un senso “debole” (quello secondo cui le proposizioni scientifiche sono oggettive in
quanto “intersoggettive”) e un senso “forte” (quello secondo cui ogni discorso scientifico
si riferisce a ben precisi “ambiti di oggetti”). In entrambi i casi, l’oggetto non va confuso
con una “cosa” del senso comune, bensì risulta dal “ritaglio” che ogni scienza opera sulle
cose ponendosi da un ben preciso “punto di vista”, il che conduce a concepire l’oggetto
scientifico come un insieme strutturato di attributi o caratteristiche (quelle, appunto,
selezionate da ogni particolare scienza). Perciò una medesima cosa può risultare
“oggetto” di parecchie scienze, e quindi dar luogo ad un ventaglio molto ampio di oggetti.
Gli attributi o caratteristiche che una particolare scienza seleziona sono tali che almeno
alcuni di essi debbono essere direttamente legati a operazioni di controllo, le quali,
potendo essere ripetute in modo standardizzato da qualsiasi ricercatore, costituiscono la
base dell’accordo intersoggettivo in cui consiste il senso debole dell’oggettività.
Per altro, queste medesime operazioni sono anche quelle che, applicate ad una cosa
qualunque, consentono di ricavarne l’oggetto di cui una data scienza si occupa, e pertanto
sono il fondamento anche del senso forte (o referenziale) dell’oggettività.
Da queste premesse A. ha potuto ricavare una caratterizzazione generale e non
“riduzionista” del concetto di scienza, riconoscendo come tale ogni forma di sapere dotato
di oggettività e di rigore. La prima si definisce nei modi sopra indicati, i quali sono
applicabili a tutte le scienze, indipendentemente dal fatto di essere naturali, storicosociali, umane, in quanto ciascuna di esse è tenuta, ed è anche in grado, di precisare i
propri specifici criteri operativi di intesa intersoggettiva e di riferimento ai propri oggetti.
Anche il requisito del rigore non si definisce in modo riduzionistico, in particolare esso non
è riducibile al fatto della quantificazione e matematizzazione, in quanto è definibile
semplicemente col fatto che, in ogni discorso scientifico, si deve “dar ragione” in modo
logicamente stringente di quanto si afferma, ma le varie scienze si caratterizzano poi per
il loro modo particolare di articolare i propri argomenti rigorosi. Pertanto il concetto di
scienza risulta precisato in modo non univoco, né equivoco, ma “analogico”, ossia tale da
rispettare, pur nella comunanza dei tratti fondamentali, la specificità dei vari ambiti e stili
di indagine.
A partire da queste premesse è possibile rivendicare la portata veritativa della scienza,
contro le prospettive convenzionaliste e strumentaliste diffuse nell’epistemologia
contemporanea. Si tratta infatti, secondo A., di richiamare il fatto che la verità è, in un
senso fondamentale, una proprietà attribuibile a proposizioni (e in modo meno stretto
anche a sistemi di proposizioni come sono le teorie scientifiche), in base alla relazione
che queste intrattengono con i propri referenti (ossia con gli oggetti cui effettivamente “si
riferiscono”). La loro verità è quindi relativa in questo senso preciso. Ma allora è facile
mostrare come ogni scienza aspiri a stabilire proposizioni vere relativamente ai propri
oggetti e che, di fatto, riesce molto spesso a farlo.
Quelle che furono prese come “falsificazioni” di teorie scientifiche e che, specialmente tra
fine Ottocento e inizi del Novecento, indussero a parlare di una crisi della scienza e della
sua possibilità di conoscere con verità il reale, erano in realtà indicazioni che alcune
autorevoli teorie, erroneamente ritenute vere in senso assoluto, lo erano soltanto
“relativamente” ai loro autentici oggetti, mentre non potevano trattare adeguatamente di
oggetti diversi (caso della meccanica classica di fronte ai microoggetti della meccanica
quantistica).
Ciò che viceversa è giustamente entrato in crisi è la pretesa scientista, di ispirazione
positivista, secondo cui la scienza è capace di conseguire certezze definitive: una tale
ambizione è eccessiva, in quanto (per ragioni anche puramente logiche) ci si è resi conto
che la verità, anche nelle scienze, può essere stabilita soltanto con gradi più o meno
elevati di plausibilità, ma mai con assoluta certezza. La mancanza di certezza assoluta,
per altro, non significa incapacità di raggiungere la verità e, se le cose stanno così, è
inevitabile riconoscere anche la portata realistica della scienza, ossia la sua capacità di
farci conoscere il reale: non in tutta la generalità delle sue dimensioni, ma certamente in
quegli aspetti che ciascuna scienza riesce ad oggettivare.
Queste tesi costituiscono lo sviluppo di un pensiero dipanatosi in molte pubblicazioni di
articoli, saggi, relazioni a congressi, corsi universitari che, in particolare, hanno portato A.
a contatto anche con un ricco mondo di scienziati dotati di sensibilità filosofica. Come
quando, ad esempio, insegnò come professore invitato presso l’Istituto di Fisica Teorica
dell’Università di Berna (1976), o organizzava corsi e convegni quale presidente della
Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza da lui rifondata nel 1972, come
presidente della Società Svizzera di Logica e Filosofia delle Scienze (1985-1992) e
specialmente come presidente per oltre trent’anni dell’Académie Internationale de
Philosophie des Sciences.
Anche questa fase durò circa un decennio e, assieme alla prima, può essere qualificata
come il “periodo analitico” del pensiero di A., data l’affinità di temi e metodi con quelli
della filosofia analitica mondiale, anche se le posizioni da lui sostenute sono nella
maggior parte molto diverse e anche opposte a quelle della filosofia analitica
predominante. Egli comunque fu tra i promotori della filosofia analitica in Italia, di cui la
sua cattedra genovese fu negli anni ’70 il centro di irraggiamento più importante, e molti
degli attuali rappresentanti riconosciuti di tale filosofia in Italia furono suoi allievi diretti.
Del resto egli insegnò in templi della filosofia analitica come le Università di Pittsburgh
(1977, 1990) e Stanford (1991), venendo in contatto con i più autorevoli esponenti della
filosofia analitica americana che gravitavano attorno a tali centri e, quando rinacque
Erkenntnis, la rivista ufficiale del movimento neopositivista e analitico del Circolo di
Vienna, egli venne incluso nel suo comitato scientifico.
Per A., tuttavia, l’impostazione analitica è sempre stata (e rimasta) un metodo
privilegiato, ma non unico, della ricerca filosofica e l’orizzonte dei suoi interessi
speculativi è sempre stato più ampio di quello dei temi canonici dei filosofi analitici. Ciò è
ben visibile nella sua stessa filosofia della scienza dove, fin dagli inizi, egli ha fortemente
sottolineato la contestualizzazione storica e sociale della scienza, in coerenza con il
cospicuo lavoro da lui svolto anche nel campo della storia della scienza. Egli opera tale
sottolineatura non per ricavarne le conclusioni relativistiche che altri autori, in seguito, ne
hanno tratto, bensì per valorizzare il fatto che le oggettivazioni scientifiche colgono
quanto “oggettivamente” può emergere entro determinate condizioni storico-culturali di
indagine della realtà.
Questa impostazione, nello stesso tempo storicista e realista, era piuttosto lontana dai
moduli dell’epistemologia analitica, e incontrava invece interesse nel mondo degli
epistemologi marxisti. A. fu invitato spesso dagli Istituti di Filosofia dell’Accademia delle
Scienze dell’Unione Sovietica e di altri stati socialisti a presentare e discutere le sue
proposte, e suoi lavori apparvero nelle loro riviste, mentre una voce a lui dedicata figura
nella Nuova Enciclopedia Filosofica Russa, edizione rivista dell’analoga opera apparsa ai
tempi dell’Unione Sovietica, in cui pure figurava.
L’immersione dell’impresa scientifico-tecnologica nel contesto sociale ha generato il
dibattito circa la cosiddetta “neutralità della scienza”. A. è intervenuto in esso,
distinguendo un aspetto secondo cui la scienza è un sistema di sapere e un altro secondo
cui è un intreccio di attività umane. Dal primo punto di vista essa è e deve rimanere
“neutrale” rispetto a criteri di valore diversi da quelli dell’oggettività e del rigore (nel
senso che la validità delle sue affermazioni non può essere giudicata in base a tali criteri
“esterni”). Al contrario, in quanto sistema di attività umane, la scienza e la tecnica
sottostanno e debbono sottostare a tutta una serie di criteri e valutazioni di ordine
morale, sociale, e anche politico ed economico, rispetto alle quali non sono “neutrali”. Ciò
giustifica il forte interesse oggi portato sulle questioni etiche riguardanti l’impresa
scientifico-tecnologica. A questo tema A. ha dedicato molta attenzione e anche un
impegnato volume, Il bene, il male e la scienza (1992), tradotto in sette lingue straniere,
in cui elabora (utilizzando strumenti concettuali tratti dalla teoria generale dei sistemi)
una proposta circa il modo di conciliare la giusta libertà e autonomia della ricerca
scientifica con una responsabilità morale nella conduzione di essa. Tale proposta gode di
particolare apprezzamento in molti studi di etica della scienza e della tecnologia a livello
internazionale. In questa medesima linea di ricerca e interessi rientra l’ampia attenzione
dedicata da A. negli ultimi decenni alle tematiche bioetiche.
Questi temi caratterizzano una terza fase della traiettoria filosofica di A., che coincide con
la sua posizione di professore di Antropologia filosofica, Filosofia della natura e Filosofia
della scienza presso l’Università svizzera di Friburgo dal 1979 al 1996 (senza interrompere
per altro il suo insegnamento a Genova). L’accoglimento di questa offerta, rispetto ad
alcune analoghe che gli erano pervenute da altre università straniere in quel periodo,
dipese in buona parte dal fatto che, ormai, gli sviluppi del pensiero di A. debordavano
l’ambito della filosofia della scienza. In particolare, egli venne ad occuparsi, in varie
occasioni, dei rapporti fra scienza, metafisica e fede religiosa (ad esempio, in Philosophie,
science, métaphysique, 1987; Scienza e fede. Nuove prospettive su un vecchio problema,
1983). La sua tesi è che non esistono obiezioni metodologiche che, in nome della scienza,
possano essere rivolte ad una metafisica intesa come un interrogarsi sull’intero con
intenti conoscitivi e con la disponibilità ad ammettere, se così dovesse risultare, che
l’intero contiene dimensioni che trascendono la sfera dell’esperienza sensibile. Egli ritiene
poi, seguendo le tracce di Bontadini, che un discorso razionale rigoroso circa l’effettiva
costruzione di tale orizzonte metafisico sia legittimo e possibile. L’esigenza di certezza,
poi, che ogni uomo avverte circa i grandi problemi sui quali gioca la propria esistenza, e a
cui la scienza (per principio “refutabile”) è strutturalmente incapace di rispondere, apre lo
spazio della fede religiosa, la cui “razionalità” non consiste in un’armonizzazione più o
meno efficacemente ottenuta con i risultati scientifici, bensì nel fatto di trovare nella
metafisica uno “spazio concettuale” cui riferirsi, e in una esperienza specificamente
religiosa del sacro le radici concrete cui fare riferimento.
A. ha anche dedicato molta attenzione alla concezione filosofica dell’uomo, sviluppando il
programma di “dimostrare l’esistenza dell’uomo”, ossia di riaffermare la specificità della
natura umana, di fronte alle pretese di “naturalizzazione” conseguenti al sempre più
vasto diffondersi delle letture puramente scientifiche dell’uomo. In questo sforzo si è
cimentato con i problemi dell’intelligenza artificiale e degli impatti delle scienze nella
interpretazione dell’essere umano, riconoscendo, per un lato, i preziosi contributi
conoscitivi che da queste provengono, ma anche, dall’altro, le limitatezze che conseguono
quando si perda di vista la decisiva fonte di informazione sull’uomo che viene
dall’attenzione prestata all’interiorità, con tutte le sue caratteristiche di coscienzialità
conoscitiva, morale e religiosa (La techno-science et la crise de l’homme contemporain,
1997).
L’ambiente filosofico di Friburgo, in cui erano allora presenti componenti di filosofia
analitica, di fenomenologia, di logica formale, con ispirazioni che andavano da quella
aristotelica a quella kantiana, e con la presenza di valide competenze filologiche nei
campi della filosofia antica e medievale, era di per sé stimolante, ma non meno
importante è stato per A. l’appoggio che questa università ha intenzionalmente offerto al
cospicuo volume di attività internazionali da lui svolto in quegli anni, sia in seno alla
Federation Internationale des Sociétés de Philosophie (FISP), di cui è stato dal 1978 al
1998 Tesoriere, Segretario Generale e infine Presidente (attualmente presidente
onorario), sia dell’Institut International de Philosophie, di cui ha tenuto la presidenza dal
1993 al 1996 (oggi ne è presidente onorario). Queste sono soltanto alcune fra le cariche
che più hanno impegnato A. in attività apparentemente di tipo organizzativo, ma che in
realtà hanno significato per lui un impegno per promuovere nel mondo la filosofia in
quanto ha profondamente creduto nella funzione umana e civile di essa. Egli ha così
anche potuto e dovuto tenere corsi, conferenze e lezioni in tutto il mondo, arricchendo la
sua riflessione di un’apertura verso il dialogo interculturale della quale è oggi sempre più
visibile l’urgenza.
Rientrato definitivamente a Genova da Friburgo, A. si è trasferito, in base alle motivazioni
sopra dette, sulla cattedra di Filosofia teoretica, tenendo corsi sulla metafisica, la
causalità, la libertà, la verità, la persona, la ricerca dell’Assoluto. La sua ricerca continua
con l’obiettivo di sistemare in un’opera monografica organica il complesso della sua
filosofia della scienza, e di rispondere a quella necessità di costruire rapporti fecondi tra
la tecnoscienza e i valori etici, umani e religiosi a cui ci chiama lo stato attuale della
civiltà globalizzata.
Oltre a quelle già ricordate, A. ha ricoperto cariche direttive in numerose società e
istituzioni a livello nazionale e internazionale ed è stato insignito di vari premi e
onorificenze, oltre che dei dottorati honoris causa delle università argentine di Còrdoba,
Santiago del Estero, Mendoza, dell’Università Ricardo Palma di Lima e dell’Università di
Urbino. Alla sua opera sono stati dedicati articoli e volumi in diversi paesi, mentre in suo
onore sono stati pubblicati volumi di saggi fra i quali, particolarmente significativo, quello
recente curato da Fabio Minazzi dal titolo Filosofia, scienza e bioetica nel dibattito
contemporaneo. Studi internazionali in onore di Evandro Agazzi, pubblicato dalla
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2007,
che raccoglie 114 saggi di studiosi di tutto il mondo, molti dei quali dedicati ad esaminare
i vari aspetti del suo pensiero.
La sua bibliografia completa annovera oltre mille titoli, fra i quali si segnalano una
settantina di volumi di cui è autore o curatore e varie centinaia di articoli e saggi in
riviste, opere collettive, enciclopedie, atti di congressi.
DARIO ANTISERI
Dario Antiseri è nato a Foligno (Perugia) il 9 gennaio del 1940. Si è laureato nel giugno
del 1963, all’Università di Perugia, discutendo con Pietro Prini una tesi sul passaggio dal
“primo” al “secondo” Wittgenstein. Armando Rigobello fu il correlatore della tesi. Dal
1963 al 1967 ha proseguito i suoi studi presso le Università di Vienna, Münster ed Oxford.
A Vienna frequentò i corsi di logica tenuti da Kurt Christian e quelli di filosofia della
scienza svolti da Bela von Juhos. Con Juhos ebbe numerosissimi colloqui e non di rado
approfittò della disponibilità di Viktor Kraft, il quale non si spazientì mai nel rispondere
alle sue domande. Fu nella primavera del 1964 che ebbe l’opportunità di conoscere
personalmente Karl Popper in occasione di un seminario da lui tenuto all’Istituto di
Filosofia. Dopo Vienna, Münster per seguire i corsi di logica soprattutto di Hans Hermes. A
Münster frequentò seminari di linguistica generale diretti dal professor Peter Hartmann e
poté anche ascoltare alcune lezioni dell’allora professore Joseph Ratzinger e le
affascinanti conferenze di Joseph Pieper sulla fenomenologia delle virtù. E fu Gilbert Ryle
che ad Oxford gli dette preziosi consigli su questioni riguardanti l’analisi del linguaggio
storiografico.
Assistente di filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Perugia e successivamente di Storia della Filosofia al Magistero di Roma; libero docente
in filosofia teoretica nel 1968, ha insegnato per incarico materie filosofiche al Magistero di
Roma e dal 1969 al 1975 presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Siena, con sede
ad Arezzo. Vinto il concorso a cattedra, venne chiamato ad insegnare Filosofia del
linguaggio all’Università di Padova, dove è rimasto sino al 1986 e dove ha insegnato per
undici anni filosofia della scienza nel Corso di specializzazione in filosofia della scienza, di
cui fu direttore per alcuni anni. I colloqui quasi quotidiani, proseguiti per anni, con
colleghi come Pietro Omodeo, Massimo Aloisi, Aldo Bressan, Mario Austoni, Giovanni
Federspil, Cesare Scandellari ed altri ancora hanno costituito per lui fonti di
insegnamento. Istruttivo anche il dibattito, a volte molto acceso, con non pochi colleghi
filosofi – parecchi dei quali gli apparivano troppo carichi di pretese fondazionistiche.
Guardando indietro, trova utili i molti incontri che a Padova era possibile avere in quegli
anni con uomini di scienza e filosofi provenienti da fuori Italia.
A Padova tenne la prolusione sull’identità del metodo popperiano del trial and error con il
circolo ermeneutico di Gadamer: idea, questa, che lì non fu accettata, che venne
aspramente respinta anche da altri filosofi italiani, che Hans Albert e William Bartley non
giudicarono indovinata, ma della quale oggi più di d’uno è seriamente convinto. Antiseri
ha avuto la fortuna di parlarne due volte anche con lo stesso Gadamer. Gadamer
replicava con lunghe argomentazioni storico-teoretiche in cui esprimeva le sue
perplessità; il compianto Valerio Verra, che partecipò al primo dei due colloqui, si mostrò,
invece, decisamente avverso. Il dibattito tra Antiseri e Albert è proseguito negli ultimi
tempi, come si può vedere dai due volumi: H. Albert-D. Antiseri, Epistemologia,
ermeneutica e scienze sociali, Luiss Edizioni, Roma, 2002; e H. Albert-D. Antiseri,
L’ermeneutica è scienza?, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007. È nell’orizzonte della teoria
unificata del metodo che egli ha affrontato questioni pedagogiche (si possono vedere al
riguardo i volumi: Epistemologia contemporanea e didattica della storia, Armando, Roma,
1974 e successive edizioni; Il mestiere del filosofo. Didattica della filosofia, Armando,
Roma, 1977 e successive edizioni; Epistemologia contemporanea e didattica delle
scienze, Armando, Roma, 1977, volume edito più volte; Teoria e pratica della ricerca
nella scuola di base, La Scuola, Brescia, 1993; con L. Mason, L’insegnamento della storia ,
SEI, Torino, 1987. E poi: la pubblicazione nel 1980 della Teoria unificata del metodo , con
il secondo capitolo dedicato all’epistemologia e alla “logica” della diagnosi clinica, è stata
per Antiseri il trait d’union con clinici di parecchie Facoltà di medicina (Padova, Roma “La
Sapienza”, Roma “Policlinico Gemelli”, Parma, Perugia, Sassari, Cagliari, Istituto
Oncologico Regina Elena di Roma ecc.). La realtà è che i clinici – come in Italia avevano
ben visto medici del livello di Maurizio Bufalini e Augusto Murri, e, come più di recente,
hanno ribadito maestri quali Mario Austoni, Giuseppe Giunchi, Fausto Bonora, Aldo
Torsoli, Giovanni Federspil, Paolo Raineri, Cesare Scandellari, Massimo Lopez, Vito Cagli,
Mario Timio, Giacomo Delvecchio, Pietro Serra, Antonello Malavasi (solo per citarne
alcuni) – devono fronteggiare di necessità questioni che esigono risposte logiche ed
epistemologiche – questioni, oggi rese ancor più acute sia dalla Evidence Based Medicine
che dalla massiccia ed invadente presenza delle medicine “alternative” o “non
convenzionali”. Per anni i seminari di epistemologia tenuti presso l’Istituto di Storia della
medicina dell’Università di Roma sono stati luoghi di incontro e occasioni di discussione
(sulla scientificità o meno della psicoanalisi, sull’“occhio clinico”, sull’“errore” della
medicina e gli “sbagli” del medico, sulle medicine “alternative”, sull’idea di “fatto”,
sull’esistenza o meno del metodo induttivo, sulla medicina basata sull’Evidence, sui
contributi all’epistemologia da parte di medici come Bufalini e Murri o di fisiologi come
Claude Bernard e così via) tra medici, storici della medicina (come non ricordare Mirko D.
Grmek?), biologi, fisici (qui il pensiero va ad Ernest Hutten) e filosofi – tra questi ultimi,
contributi notevoli sono stati dati da Vittorio Somenzi e da Massimo Baldini, il cui primo
lavoro sulla metodologia della clinica (Epistemologia contemporanea e clinica medica)
risale addirittura al 1976. Da parte sua, Antiseri, insieme a Mario Timio, ha scritto il libro:
La medicina basata sulle evidenze, con Prefazione di Paolo Brunetti (Memoria, Cosenza,
2000); con Cesare Scandellari e Giovanni Federspil il volume: Epistemologia, clinica
medica e la “questione” delle medicine “eretiche”, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003.
Altri suoi contributi relativi a problemi epistemologici e a questioni di filosofia della
medicina sono apparsi su “Medicina nei secoli”, su “Medic”, su “KOS” e “La clinica
terapeutica”. Del 2008 è il Dialogo sulla diagnosi, dove Antiseri e il noto clinico romano
Vito Cagli si confrontano sui temi di metodologia e filosofia della medicina. Nel triennio
2002-2005 Antiseri è stato membro del Comitato nazionale di bioetica.
Agli anni di Padova risale la collaborazione di Antiseri con Giovanni Reale – collaborazione
che dapprima ha portato alla stesura dei tre volumi de Il pensiero occidentale dalle origini
ad oggi (più volte riedito e tradotto in spagnolo, portoghese e russo) e che più di recente
si è risolta in un confronto su temi di filosofia teoretica nel libro: Quale ragione? (Raffaello
Cortina, Milano, 2002). I tre anni impegnati nella stesura de Il pensiero occidentale dalle
origini ad oggi sono stati anni di grandi fatiche. Pierre Duhem aveva perfettamente
ragione ad affermare che “fare l’analisi logica di un principio fisico, significa farne l’analisi
storica”. E quel che vale in fisica, vale pure, ad avviso di Antiseri, nelle altre scienze e
vale in filosofia. Per questo, un prolungato bagno nella storia delle idee ha rappresentato
per lui una preziosa fonte di arricchimento intellettuale. Parecchie sono le idee che
uniscono Antiseri a Giovanni Reale; altre li dividono. Molti prevedevano (e alcuni, forse,
speravano) che la loro collaborazione sarebbe presto naufragata. Quel che naufragò fu
invece l’errata (e da alcuni sperata) previsione. Reale e Antiseri hanno lavorato di buon
accordo sulla base del principio di tentare di individuare il problema o i problemi affrontati
dal filosofo analizzato, di vedere le soluzioni da lui proposte e le critiche da lui avanzate
nei confronti di soluzioni alternative. In questo modo, la loro storia della filosofia si è
venuta a configurare – diversamente da altri manuali di filosofia dominati dalla
presunzione di ergersi a tribunali dei filosofi – come una “storia scientifica” di problemi,
teorie e argomentazioni filosofiche, dove la critica alle teorie dei filosofi viene esposta ed
esaminata nelle teorie e argomentazioni di altri filosofi. Nel febbraio del 2002 Reale e
Antiseri hanno ricevuto la laurea honoris causa dall’Università di Mosca.
Da Popper ad Hayek e alla Scuola austriaca di economia il passaggio era destinato ad
essere, per così dire, naturale. Il 25 aprile del 1984 Hayek, a Spoleto, espose ad Angelo
M. Petroni e ad Antiseri gli argomenti di fondo del libro che stava ultimando: The Fatal
Conceit, il suo testamento intellettuale. E con Hayek si discusse pure di Menger e di Mises
e anche di suo “cugino” Wittgenstein e del suo “carissimo amico Popper”; e di Moritz
Schlick, “uno tra i più significativi filosofi della nostra epoca”. Nel 1984 Antiseri pubblica il
saggio Fatti, teorie e spiegazioni in Carl Menger e Karl Popper, apparso su “Nuova Civiltà
delle Macchine”, II, 1, 1984). Negli anni successivi, con il suo trasferimento, nel 1986,
sulla cattedra di Metodologia delle scienze sociali, nella Facoltà di Scienze Politiche della
Luiss, le tematiche di natura metodologica relative alle scienze storico-sociali, nella
tradizione della Scuola austriaca, sono diventate uno dei suoi principali argomenti di
indagine. Della Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Antiseri è stato per otto anni
vicepreside e per quattro anni preside. E fu nel 1989 che Guido Carli, allora presidente
della Luiss, accettò di buon grado la proposta fattagli da Antiseri di istituire un Centro di
metodologia delle scienze sociali, all’interno del quale potessero trovare spazio e
sostegno studiosi, giovani e meno giovani, e non solo della Luiss, interessati alle “ragioni”
logiche, epistemologiche ed economiche della libertà. Un incoraggiante sostegno al
Centro è stato in seguito quello dato da Luigi Abete, successore di Guido Carli alla
presidenza della Luiss. I frutti di un assiduo lavoro, che oramai dura da quasi un
ventennio, rappresentano un cospicuo raccolto che la disponibilità dell’Editore Rubbettino
ha reso fruibile non solo agli studenti delle nostre università ma anche al più ampio
pubblico colto.
L’attività scientifica degli studiosi afferente al Centro di metodologia si è arricchita e
consolidata in confronti e discussioni in Italia e all’estero, con colleghi stranieri di
prim’ordine: Hans Albert (Heidelberg), Raymond Boudon (Sorbona), Joseph Agassi (Tel
Aviv), Alban Bouvier (Sorbona), Svetlana Maltseeva (San Pietroburgo), Donald Gillies
(King’s College, Londra), Michael Novak (Washington), Pascal Salin (Parigi IV), Robert
Sirico (Acton Institute, Grand Rapids), Vladimir Myronov (Mosca), Vassilij Antonovič (San
Pietroburgo), Philippe Nemo (École de Commerce, Parigi), Michael Zöller (Bayreuth),
Valerij Kuznezov (Mosca), Jean Petitot (École Polytechnique, Parigi), Karl Milford
(Vienna), Kurt Leube (Stanford), Pedro Schwartz (Madrid), Peter Kampits (Vienna),
Alejandro Chafuen (Fairfax, Virginia), Leonard Liggio (Fairfax, Virgina) – ed altri ancora.
Importanti convegni il Centro ha organizzato in Italia e all’estero (Francia, Svizzera, USA
ecc.). Significativo è stato il convegno tenuto a Mosca nell’ottobre 2002 su “Benedetto
Croce a Mosca” con interventi di D. Antiseri, O. Boitsova, E. Di Nuoscio, E. Giammattei, L.
Infantino e V. Myronov.
Si può dire che la linea teoretica di fondo che attraversa l’intero lavoro scientifico di
Antiseri consiste nella articolazione dei “limiti razionali” della ragione. L’orizzonte in cui si
inserisce tale suo lavoro è quello kantiano nella rielaborazione fattane da Popper e da
post-popperiani come J. Watkins, J. Agassi e, in special modo, da W. Bartley e dai
marginalisti austriaci come C. Menger, C. von Mises e F.A. von Hayek. Insieme a quello
della falsificabilità delle teorie scientifiche, un tema parallelo ad esso collegato e al quale
Antiseri ha dedicato la sua attenzione, è quello dei rapporti logici, epistemologici e storici
tra le teorie metafisiche e teorie fattualmente controllabili e della razionalità delle teorie
metafisiche – le quali esibiscono la loro razionalità allorché sono criticabili e sono
criticabili quando possono urtare contro qualche pezzo di Mondo 3 (per esempio una
teoria scientifica, un risultato matematico, un teorema logico o un’altra teoria o idea
metafisica) all’epoca ben consolidato e al quale non siamo disposti a rinunciare. Esistono,
dunque, teorie scientifiche quali risposte a problemi scientifici, ed esistono teorie
filosofiche (teodicee o varie forme di ateismo; immagini filosofiche dell’uomo; concezioni
filosofiche della storia, dei valori, dello Stato e della scienza; idee filosofiche della filosofia
ecc.) ed argomentazioni filosofiche, perché esistono autentici problemi di filosofia
irriducibili a problemi scientifici e che anzi zampillano dai diversi ambiti scientifici oltre
che dalla realtà politica o dall’esperienza religiosa.
Razionali le teorie scientifiche in quanto fattualmente falsificabili; razionali (quando non
sono indecidibili) le teorie filosofiche in quanto criticabili; non fondabili razionalmente
sono le norme fondamentali dei diversi sistemi etici. Sulla scia del non-cognitivismo in
etica Antiseri sostiene che i principi dei diversi sistemi etici (ad esempio: “ama il prossimo
tuo come te stesso” ovvero “occhio per occhio, dente per dente”) sono fondamentali in
quanto da essi derivano le altre norme del sistema, ma essi non si fondano su null’altro
che su una nostra scelta di coscienza. Di conseguenza, egli considera la “legge di Hume”
(“non è possibile derivare logicamente asserti prescrittivi da proposizioni descrittive”)
come la base logica della libertà di coscienza. Dalla scienza, da tutta la scienza, non è
possibile estrarre logicamente un grammo di morale. Esistono spiegazioni scientifiche e
valutazioni etiche; ma non esistono spiegazioni etiche. E va da sé che, se si danno scelte
ad occhi chiusi, si danno anche scelte ad occhi aperti: sono, queste, le scelte che si fanno
con l’attenzione, con tutta l’attenzione possibile, alle conseguenze prevedibili (anch’esse
oggetto di scelta) dei principi abbracciati e con l’avvertimento circa l’inevitabile
insorgenza di conseguenze inintenzionali, magari sgradite ed imprevedibili. Da qui la
valutazione positiva da parte di Antiseri dei lavori di R.M. Hare, di Bobbio e, in particolare
modo, di Uberto Scarpelli, le cui lezioni egli ebbe la fortuna di seguire all’Università di
Perugia e con il quale ebbe molteplici colloqui. Ma da qui anche la sua presa di posizione
a favore del relativismo inteso come pluralismo di sistemi etici e pluralismo di visioni del
mondo razionalmente non fondabili e i cui principi da una parte sfidano le nostre
coscienze e dall’altra costituiscono – insieme alla consapevolezza della fallibilità della
conoscenza umana – un presupposto della società aperta.
Su questi argomenti si può vedere quanto Antiseri ha scritto in: Teoria unificata del
metodo, Liviana, Padova, 1980; e UTET Libreria, Torino, 2001; con G. Reale, Quale
ragione?, Cortina Editore, Milano, 2001; con R. Dahrendorf, Il filo della ragione, Reset,
Roma, 1994; Liberi perché fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1995; Le ragioni del
pensiero debole, Borla, Roma, 1993; Relativismo, nichilismo, individualismo. Fisiologia o
patologia dell’Europa?, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; con G. Vattimo, Ragione
filosofica e fede religiosa nell’era post-moderna, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008; con
G. Giorello e S. Tagliagambe, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti,
Bompiani, Milano, 2008. Fallibili e criticabili quando conosciamo, noi – sostiene Antiseri
sulla scia di Hayek – siamo anche ignoranti, soprattutto di conoscenze di situazioni
particolari di tempo e di luogo, non centralizzabili, conoscenze “all’istante” – necessarie
per la soluzione di una miriade di problemi concreti. E questa ignoranza è un ulteriore e
valido argomento a base della nostra libertà: se avrà destini migliori di un’altra quella
società in grado di utilizzare e veicolare il più ampio volume di conoscenze, è allora chiaro
che avrà più successo quella società in cui le decisioni saranno decentrate.
Fallibili e ignoranti, incapaci di prevedere il nostro futuro, incapaci cioè di venire in
possesso di presunte leggi ineluttabili della storia umana, siamo nella impossibilità di
trovare fundamenta inconcussa per le nostre teorie, non solo scientifiche, ma anche per
le nostre teorie etiche e quelle filosofiche. In ciò consiste l’antifondazionismo fatto proprio
da Antiseri, il quale appunto in un orizzonte antifondazionista ha sviluppato le sue
riflessioni sulla questione dei rapporti tra ragione e fede e sui problemi relativi alla teoria
della politica.
È con il volume Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso (Queriniana,
Brescia, 1969, 19944) che Antiseri ha inteso affrontare la questione se ci sia un uso
teologico del linguaggio capace di esibire regole in grado di stabilire sensatezza,
significanza e criteri di accettabilità del linguaggio religioso. Su questa linea è anche la
sua analisi del pensiero del “secondo” van Buren (cfr. Dal non-senso all’invocazione.
L’itinerario speculativo di Paul M. van Buren , Queriniana, Brescia, 1976). Con il libro
Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede (Queriniana,
Brescia, 1980, 19944) egli ha cercato di rovesciare la tesi per cui la metafisica sarebbe o
inutile o dannosa per la scienza e necessaria, invece, per la fede. Non è la scienza a
negare lo spazio della fede; la pretesa di negare tale spazio è stata avanzata da
metafisiche totalizzanti come il positivismo, l’idealismo (in gran parte) o il marxismo
ovvero ancora da tutte le posizioni scientistiche e materialistiche. E ciò, mentre, sulla scia
di pensatori quali K.R. Popper, Th. S. Kuhn, I. Lakatos, J. Agassi, P.K. Feyerabend, W.
Bartley e J. Watkins e di storici delle idee come E.A. Burtt e A. Koyré, non è difficile
vedere che la scienza sarebbe impossibile senza idee metafisiche sugli oggetti costituenti
il mondo e sul loro comportamento. Critico delle posizioni totalizzanti che negano lo
spazio della fede, Antiseri si è sentito da sempre lontano anche da quei metafisici stando
ai quali la fede cristiana sarebbe impossibile e l’intero Cristianesimo azzerato se il loro
metafisico “discorso breve” non fosse valido (cfr. Gloria o miseria della metafisica
cattolica italiana?, Armando, Roma, 1987). Dunque: né una posizione filosofica che neghi
lo spazio della fede, né una concezione che della fede voglia essere “domina” (anche se a
parole si presenta come “ancilla”). L’idea di ragione che si ritrova nel lavoro di Antiseri è
quella di una ragione che riconosce, appunto, i suoi limiti e che apre alle possibilità di
scelta tra l’“assurdo” e la “speranza”. Da qui la sua valutazione, in parte positiva, del
“pensiero debole”, laddove questo apre uno spazio negato, invece, da “assoluti terrestri”,
e rende possibile l’invocazione religiosa di un senso assoluto non costruibile con mani
umane (Le ragioni del pensiero debole, Borla, Roma, 1993, 19952). Si tratta di tematiche
sulle quali Antiseri ritorna in Credere: dopo la filosofia del secolo XX, Armando, Roma,
1999, 20022); in Teoria della razionalità e ragioni della fede (San Paolo, Cinisello
Balsamo, 1994) – volume, questo, arricchito da una Risposta teologico-filosofica del card.
Camillo Ruini; in Quale ragione?, scritto insieme a Giovanni Reale (Cortina Editore,
Milano, 2001) e in Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano (Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2003), volume che contiene una Replica di mons. Rino Fisichella e una
Lettera di Sergio Galvan, e dove l’Autore argomenta per le seguenti tesi: per un cristiano
solo Dio è assoluto, per cui tutto ciò che è umano e storico è non assoluto, è relativo,
desacralizzato, contestabile; e, d’altra parte, il relativista, che non trova assoluti razionali
né in etica né nelle concezioni del mondo, può invocare quel senso assoluto della vita che
non riesce a costruire con l’umana ragione e che invece può trovare aprendosi ed
accogliendo il messaggio cristiano. Ad avviso di Antiseri, la “grande domanda”, per usare
un’espressione di Norberto Bobbio, e cioè la domanda metafisica, non è una interrogatio,
essa è piuttosto solo rogatio. Problemi, questi, che tornano sia in Come leggere Pascal
(Bompiani, Milano, 2005), e in Come leggere Kierkegaard (Bompiani, Milano, 2005,
20072), come anche nel dibattito con Gianni Vattimo (D. Antiseri-G. Vattimo, Ragione
filosofica e fede religiosa nell’era post-moderna, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008) e in
parte nel dibattito con Giulio Giorello e Silvano Tagliagambe (D. Antiseri -G. Giorello,
Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, con una Postfazione di S. Tagliagambe,
Bompiani, Milano, 2008).
Strettamente connessi al tema centrale della elaborazione di una teoria razionale di limiti
della ragione, si trovano, nello sviluppo del lavoro di Antiseri, i problemi relativi al
Methodenstreit delle scienze sociali e, legate a questi, le sue riflessioni sulla teoria della
politica. Al 1974 risale l’antologia Analisi epistemologica del marxismo e della psicoanalisi
(Città Nuova, Roma, 1984) in cui queste due correnti di pensiero vengono sottoposte al
vaglio critico dell’epistemologia fallibilistica. Del 1978 sono le Critiche epistemologiche al
marxismo, volume pubblicato dall’Editore Borla. Qui nel capitolo secondo (pp. 31-50)
vengono esposte le argomentazioni che contro la pretesa scientificità del marxismo
hanno avanzato Karl Popper, Hans Albert, Thomas S. Kuhn, Imre Lakatos, John Worrall,
Albert Einstein, Jacques Monod e Paul K. Feyerabend; mentre nel terzo capitolo vengono
prese in considerazione, più in particolare, le critiche alla dialettica marxista, quelle meno
recenti (B. Bolzano, A. Trendelenburg, Dühring) e quelle più recenti (Max Adler, B.
Russell, J. Monod), e, tra queste, soprattutto quelle di K. Popper e di H. Kelsen; e nel
capitolo quarto si pone sotto esame la “teoria cospiratoria” della società. Siffatte
argomentazioni troveranno in seguito una articolata sintesi nei capitoli XXI e XXII del
Trattato di metodologia delle scienze sociali (UTET Libreria, Torino, 1995, 2004 2); e,
anche se solo in parte, tornano nel più recente lavoro: H. Kiesewetter-D. Antiseri, “La
società aperta” di Karl Popper. Le vicende editoriali di un’opera scritta tra difficoltà e
accolta tra sospetti e ostilità (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008). Nel frattempo,
Antiseri, partendo dalla prospettiva epistemologica di Weber, Popper, Hempel e Gardiner,
aveva dedicato una serie di scritti alla metodologia della storiografia (La metodologia
della storiografia nello storicismo tedesco contemporaneo, Bottega di Erasmo, Torino,
1972; Epistemologia contemporanea e didattica della storia, Armando, Roma, 1974;
Introduzione alla metodologia della ricerca, SEI, Torino, 1986; L’insegnamento della
storia – insieme a Lucia Mason –, SEI, Torino, 1986), in cui la preoccupazione per una
didattica critica della storia veniva fatta poggiare sulla esplicitazione dei concetti di
spiegazione scientifica, di “fatto” storico, e della rilevante distinzione tra spiegazione
storica scientifica e interpretazione storica ideologica. Argomenti, questi, che tornano
anche nel suo recente contributo al volume Conoscere per tracce. Epistemologia e
storiografia, a cura di E. Di Nuoscio e M. Gervasoni, Unicopli, Milano, 2005.
Nel volume Teoria della razionalità e scienze sociali (Borla, Roma, 1986) viene affrontata
in modo sistematico la problematica dell’individualismo metodologico, peraltro già
presente in alcuni saggi scritti da Antiseri nei primi anni Settanta. Tale tematica concerne
la “natura” dei concetti collettivi quali: “Stato”, “partito”, “classe”, “nazione”, “patria”,
“pubblica amministrazione” ecc. Due le tradizioni relative alla questione sotto esame:
quella collettivistica (Saint-Simon, Comte, Hegel, Marx, neo-marxisti, strutturalisti ecc.) e
quella individualistica (Scuola Scozzese, Weber, Simmel, Menger, Mises, Hayek, Popper,
Rothbard, Boudon ecc.). Tre i problemi in ballo: un problema ontologico; un problema
metodologico e un problema politico. Il problema ontologico: che cosa corrisponde nella
realtà effettiva ai termini collettivi? Per i collettivisti ai termini collettivi corrispondono
sostanziali entità che plasmano, normano, istituiscono gli individui; per gli individualisti
sono soltanto gli individui che esistono, ragionano ed agiscono. Il problema
metodologico: quali “oggetti” deve prendere in considerazione il ricercatore sociale, da
dove deve egli iniziare le sue indagini? Per il collettivista la ricerca dovrà prendere in
considerazione quelle leggi che generano e producono il mutamento delle entità collettive
(Stati, nazioni, partiti e così via); per l’individualista il punto di partenza delle ricerche
sociali sono le azioni umane, il cui interrelarsi dà adito ad eventi ed istituzioni sociali, a
conseguenze intenzionali e ad esiti inintenzionali. Il problema politico: è l’individuo in
funzione del collettivo, per esempio dello Stato o del partito; ovvero il collettivo è in
funzione degli individui? Per il collettivista vale la prima alternativa; per l’individualista la
seconda.
Siffatte tematiche Antiseri le ha sviluppate, in parziale disaccordo con Luciano Pellicani,
nel volume L’individualismo metodologico. Una polemica sul mestiere dello scienziato
sociale (Franco Angeli, Milano, 1991, 20042), dove, schierandosi dalla parte
dell’individualismo metodologico, vede nell’analisi delle conseguenze inintenzionali delle
azioni umane intenzionali il compito specifico (Hayek direbbe: esclusivo) delle scienze
sociali. L’azione umana ha motivazioni e conseguenze: le motivazioni costituiscono
l’oggetto delle scienze psicologiche; le conseguenze intenzionali non costituiscono
problema; le conseguenze inintenzionali sono, appunto, l’oggetto delle scienze sociali. E
la consapevolezza della inevitabile insorgenza delle conseguenze inintenzionali delle
azioni umane intenzionali distrugge il costruttivismo (così Hayek chiama quella teoria
secondo cui tutte le istituzioni e tutti i fatti sociali sono, nella loro genesi e nei loro
mutamenti, esiti di azioni intenzionali, di progetti elaborati, voluti e realizzati); e il crollo
del costruttivismo trascina con sé il crollo della teoria cospiratoria della società (stando
alla quale, se tutti gli eventi sociali sono risultati di azioni intenzionali – e questo è il
costruttivismo –, allora fatti ed eventi sociali negativi, per esempio, una sommossa, una
epidemia, l’aumento dell’inflazione, una carestia ecc., saranno necessariamente risultati
di piani o cospirazioni di uomini malvagi) e dello psicologismo (vale a dire della teoria
secondo cui la spiegazione di tutte le istituzioni e di tutti i fatti sociali va ridotta a
sentimenti, ambizioni e intenzioni, dunque a spiegazioni di natura psicologica). Il
costruttivismo crolla perché non tutte le istituzioni e non tutti i fatti sociali sono esiti di
progetti voluti e realizzati – istituzioni come, per esempio, il linguaggio, la moneta, il
mercato, lo Stato, molte località sono sorte in modo spontaneo e molti progetti che pur
riescono non riescono completamente secondo i piani originali. Crolla la teoria
cospiratoria: perché è anche vero che di buone intenzioni sono lastricate le vie
dell’inferno. E crolla lo psicologismo: alle scienze psicologiche, infatti, sfugge l’intero
ambito delle conseguenze inintenzionali. È in tal modo che, all’interno dell’individualismo
metodologico, viene fondata l’autonomia della sociologia in particolare e delle scienze
sociali in generale. Tra i vari saggi di Antiseri sull’individualismo metodologico e il
compito dello scienziato sociale si vedano, oltre al già richiamato volume scritto con
Pellicani: Liberali: quelli veri e quelli falsi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998; Karl
Popper, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999, capp. 8 e 9; La Vienna di Popper, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2000, capp. 7 e 8; Karl Popper e il mestiere dello scienziato sociale, in
AA.VV., Karl Popper e il mestiere dello scienziato sociale, Rubbettino, Soveria Mannelli,
2003, pp. 7-35; F.A. von Hayek , Luiss University Press, Roma, 2007; con H. Albert,
Epistemologia ermeneutica e scienze sociali, Luiss Edizioni, Roma, 2002; con R. Boudon e
A. Oliverio, Teorie della razionalità e scienze sociali , Luiss Edizioni, Roma, 2001; Ragioni
della razionalità. Proposte teoretiche, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, parte quinta,
pp. 645-789; in coll. con L. Infantino, Introduzione all’antologia hayekiana: Conoscenza,
competizione e libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998; in coll. con M. Baldini,
Introduzione all’antologia misesiana: Individuo, mercato e Stato di diritto, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 1998; Introduzione a C. Menger, Gli errori dello storicismo, Rusconi,
Milano, 1991; Introduzione a L. von Mises, Socialismo, Rusconi, Milano 1991; Introduzione
a F. A. von Hayek , L’abuso della ragione , Seam, Roma, 1997, Rubbettino, Soveria
Mannelli, 2007. Al 2005 risale l’antologia, curata da Antiseri, dal titolo: Epistemologia
dell’economia nel “marginalismo” austriaco (con scritti di C. Menger, J. Schumpeter, F.
von Wieser, E. von Boehm-Bawerk, L. von Mises e F. A. von Hayek). Del 2008 è la sua
Introduzione all’antologia, curata da E. Grillo, dal titolo: L’individualismo nelle scienze
sociali (con scritti di H. Dietzel, R. Zuckerkandl, A. Schatz, K. Pribram, F. von Wieser, K.
Diehl, G.E.Burckhardt) – queste due antologie sono state pubblicate dall’Editore
Rubbettino.
Partendo: dalla consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana; dalla
impossibilità di derivare logicamente valori da fatti e, quindi, di fondare in maniera
razionale i valori ultimi dei sistemi etici; dal teorema hayekiano della dispersione, tra
milioni e milioni di uomini, delle conoscenze di situazioni particolari di tempo e di luogo; e
dall’individualismo metodologico – partendo, appunto da tali presupposti, Antiseri ha
cercato di esporre in vari saggi (Logica della ricerca e regole della democrazia, Armando,
Roma, 1973; Liberi perché fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999; Liberali: quelli veri
e quelli falsi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1996; L’agonia dei partiti politici , Rubbettino,
Soveria Mannelli, 1997) le ragioni logiche, epistemologiche ed economiche della “società
aperta”, sulla base, appunto, dei risultati teorici maggiormente consistenti ottenuti in
special modo da H. Kelsen, L. von Mises, F.A. von Hayek e K. R. Popper. Di questi ultimi
tre autori ha curato più di un’opera. Di K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, voll.
2, Armando, Roma, 1973-1974, 20024; Tutta la vita è risolvere problemi, Rusconi, Milano,
1996, Bompiani, Milano, 2001; Alla ricerca di un mondo migliore, Armando, Roma, 2001;
Il futuro è aperto, Rusconi, Milano, 1989; Rivoluzione o riforme?, Armando, Roma, 2002;
Epistemologia razionalità e libertà, Armando, Roma, 1972; Universo aperto, società
aperta, Borla, Roma, 1983. Di L. von Mises, Socialismo, Rusconi, Milano, 1990; Problemi
epistemologici dell’economia, Armando, Roma, 1989; Liberalismo, Rubbettino, Soveria
Mannelli, 1997. Di F.A. von Hayek, La via della schiavitù, Rusconi, Milano, 1995; La
presunzione fatale, Rusconi, Milano, 1997; Individualismo: quello vero e quello falso,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 1996; L’abuso della ragione , Seam, Roma, 1997,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007).
Sempre nell’ambito della teoria politica Antiseri si è impegnato nella rivalutazione della
tradizione del cattolicesimo liberale dell’Ottocento e del Novecento (si vedano l’antologia
Cattolici a difesa del mercato, SEI, Torino, 1995; nuova ed. a cura di F. Felice,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; l’antologia di testi di A. Tosato, Vangelo e ricchezza,
a cura di D. Antiseri; F. D’Agostino e A.M. Petroni, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008;
l’antologia di testi di A. Rosmini, Personalismo liberale, a cura di D. Antiseri e M. Baldini,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001). Come proposte per una politica di libertà Antiseri è
stato tra i difensori del buono-scuola quale mezzo adeguato per un efficiente, equo e
libero sistema di formazione. Si veda, al riguardo, il volume D. Antiseri-L. Infantino, Le
ragioni degli sconfitti nella lotta per la scuola libera, Armando, Roma, 2000. Traduttore di
importanti opere dal tedesco (Scheler, Menger, Pannenberg, Albert, Wittgenstein, Popper
ecc.) e dall’inglese (Peirce, Popper, Hayek, L. von Mises, Warnock, Ferrè, von Buren,
Gilkey), saggi e libri di Dario Antiseri sono, a loro volta, apparsi in più lingue. Citiamo
alcune di queste traduzioni: 1) Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso,
traduzione in francese, 1971; traduzione in lingua céka, 1972; 2) in lingua spagnola sono
state tradotte le seguenti opere: Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso,
1972; Analisi epistemologica del marxismo e della psicoanalisi, 1976; I fondamenti
epistemologici del lavoro interdisciplinare, 1974; La Vienna di Popper, 2000; 3) Le ragioni
del pensiero debole, traduzione inglese, 1976; 4) in lingua russa sono state tradotte le
antologie: a) L. von Mises, Individuo, mercato e stato di diritto (a cura di D. Antiseri e M.
Baldini), 1998; b) F.A. von Hayek, Conoscenza, competizione e libertà (a cura di D.
Antiseri e L. Infantino), 1999; 5) il manuale di filosofia, scritto insieme a Giovanni Reale,
intitolato Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, è stato tradotto in spagnolo,
portoghese e russo; 6) in lingua tedesca è stato tradotto nel 2001 il volume Credere:
dopo la filosofia del secolo XX; 7) è stato tradotto in lingua francese, nel 2004, il volume
La Vienna di Popper; 8) in lingua spagnola e in lingua tedesca Karl Popper, protagonista
del secolo XX; 9) Pensieri liberali è stato pubblicato in Bielorussia, Russia, Serbia e
Spagna; 10) Il filo della ragione, scritto con R. Dahrendorf, ha avuto una traduzione
portoghese; 11) è stato tradotto in inglese nel 2007 il volume La Vienna di Popper. Il
volume Attualità del pensiero francescano, edito dall’Editore Rubbettino nel 2008, è stato
pubblicato simultaneamente nelle seguenti lingue: arabo, francese, greco, indonesiano,
inglese, polacco, portoghese, russo, spagnolo tedesco e vietnamita.
Membro della Direzione scientifica di “Nuova Civiltà delle Macchine”, del Comitato
direttivo delle riviste: “L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate”;
“Tuttoscuola”; “La vita scolastica”; “Il Protagora” – Antiseri ha ideato e diretto collane di
volumi filosofici presso l’Editore Armando, La Scuola Editrice, Borla e Rusconi. Insieme a
Massimo Baldini, Lorenzo Infantino e Sergio Ricossa dirige attualmente la collana
“Biblioteca Austriaca” edita da Rubbettino in Italia e dall’Union Editorial in Spagna.
MASSIMO BALDINI
Massimo Baldini (Greve in Chianti, 18 luglio 1947-Roma, 10 dicembre 2008) si è laureato
in pedagogia presso l’Università di Firenze nel 1969. Nel 1970 è stato nominato assistente
incaricato di filosofia (insegnamento tenuto dal prof. Dario Antiseri) presso la Facoltà di
Magistero dell’Università di Siena. Nel 1975 è diventato professore incaricato di Storia del
pensiero scientifico presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Perugia. Nel
1980 ha vinto il concorso di professore di prima fascia di Filosofia del linguaggio ed è
stato chiamato dall’Università di Bari. Attualmente insegna Semiotica presso la Facoltà di
Scienze Politiche (di cui è anche preside dal 2007) della Luiss Guido Carli di Roma. È stato
membro del Comitato nazionale di bioetica nel triennio 1999-2001. È sposato dal 1978
con Veronica Ferruzzi ed ha due figli, Costanza e Matteo.
Due sono stati gli ambiti filosofici che più di altri ha coltivato: la filosofia della scienza
(con una particolare attenzione al pensiero dell’epistemologo austro-inglese Karl R.
Popper, di cui ha curato anche alcune opere in edizione italiana) e la filosofia del
linguaggio. A partire dagli anni Settanta Baldini ha dedicato numerosi lavori
all’epistemologia contemporanea cogliendone le possibili applicazioni alla medicina, alla
storia della scienza, alla pedagogia e, infine, alla filosofia politica. Nel 1975 ha pubblicato
il volume Epistemologia contemporanea e clinica medica. “Tra l’epistemologia (cioè
quella disciplina che mette in luce i fondamenti logici del lavoro scientifico) e la clinica
medica – egli scriveva – non sono mai stati stabiliti, almeno nel nostro paese, rapporti di
buon vicinato. Nessun lavoro interdisciplinare ha veduto epistemologi e clinici allo stesso
tavolo e in nessuna facoltà di medicina viene insegnata, sia pure come complementare,
l’epistemologia.” Tuttavia, concludeva, “come il fisiologo con i suoi consigli può essere di
aiuto al podista facendogli vincere, ad esempio, una gara che altrimenti avrebbe perduto,
così l’epistemologo può essere di aiuto al clinico mostrandogli quei sentieri metodologici
che gli faranno evitare lunghi giri inutili o gli impediranno di ingannarsi sul reale cammino
percorso”.
Sino agli inizi degli anni Ottanta ha diretto presso l’Istituto di storia della medicina di
Roma (insieme a Dario Antiseri) una Sezione di epistemologia che coinvolse, in vari cicli
di conferenze, numerosi studiosi tra cui Federspil, Scandellari, Hutten, Riverso, Poli,
Timio, D’Agostino, Cappelletti, Giunchi, Di Giandomenico, Grmek, Barone, Bonora, Di
Trocchio. Nel 2003 in collaborazione con Antonello Malavasi ha curato il Dizionario di
metodologia clinica di Augusto Murri.
Parallelamente ha rivolto i suoi interessi anche alla storia della scienza e, in particolare,
alla storia della medicina. Nel 1975 pubblica con l’editore Armando, presso il quale
appariranno nei decenni successivi gran parte delle sue opere, il volume Teoria e storia
della scienza e, qualche anno più tardi, Gli scienziati ipocriti sinceri (1978). In questi suoi
lavori, tra le altre cose, egli afferma che “lo storico della scienza e l’epistemologo devono
prestare la massima attenzione alle riflessioni metodologiche degli uomini di scienza. Gli
scienziati non sono dei sonnambuli, degli atei a livello epistemologico. Di fatto, essi
obbediscono ad un codice di regole che raramente specificano in tutto il suo complesso
articolarsi, ma del quale spesso forniscono squarci significativi. L’epistemologo, dunque,
deve fare i conti con l’epistemologia degli scienziati, con i loro lapsus epistemologici, con
le loro dichiarazioni di fede a livello metodologico contenute nelle lettere, negli appunti,
nei diari di laboratorio, là dove cioè non sono intervenute ipocrite censure”.
Negli anni Ottanta escono Congetture sull’epistemologia e sulla storia della scienza
(1986) e negli anni Novanta Karl Popper e Sherlock Holmes (1998). “Tra lo scienziato, il
medico e il detective – egli afferma – c’è da un punto di vista metodologico, aria di
famiglia. In tempi recenti, del resto, non pochi epistemologi si sono soffermati a riflettere
sui procedimenti metodologici propri della detection, cogliendo somiglianze e differenze
con il metodo seguito dagli uomini di scienza nei loro laboratori e dai medici al letto dei
pazienti.” Ed ha poi aggiunto: “Medici, detective e scienziati sono sulla stessa barca
metodologica. Tuttavia, mentre l’interesse degli scienziati è volto a scoprire e provare
sperimentalmente leggi universali, detectives e medici (ma anche storici) accettano
senza discussioni le leggi universali e si servono di queste per spiegare eventi specifici o
particolari. Solo molto raramente essi (medici, storici e detective) si trovano nelle
condizioni di doversi preoccupare delle leggi universali implicate nelle loro spiegazioni”.
Nel 2000 pubblica insieme a Donatella Lippi una storia della medicina (La medicina: gli
uomini e le teorie) che avrà più edizioni. Nell’introduzione si legge: “Troppo spesso il
medico del nostro tempo concepisce il passato come una prigione dalla quale fuggire e
non come una dimensione che dilata il presente e illumina il futuro. Il passato della sua
disciplina è da lui per lo più vissuto in modo passivo e acritico, è un fardello pesante, un
Anchise che non vuol più portare sulle spalle. Questa perdita del senso del tempo storico,
questa banalizzazione del passato mediante la sua identificazione con teorie e pratiche
nei cui confronti si può solo provare imbarazzo, dà vita ad un sapere privo di radici. È un
voto di povertà non necessario”. La storia della medicina non è per la Lippi e Baldini una
inutile appendice della ricerca scientifica effettiva, né una disciplina destinata ad oscillare
tra l’hobby e lo specialismo inoffensivo, ma una disciplina che tra i medici favorisce la
consapevolezza metodologica consentendo loro, tra l’altro, di non essere vittime di uno
scientismo d’accatto e di imparare a guardare al di là degli specialismi.
Un’attenzione particolare Baldini ha dedicato ai nessi che intercorrono tra l’epistemologia
e la filosofia della politica. Sulla scorta delle riflessioni popperiane ha riletto il pensiero
utopico sia nella sua dimensione storica che in quella teorica. Nel 1974 ha pubblicato Il
pensiero utopico e Il linguaggio delle utopie. Successivamente nel 1994 ha dato alle
stampe La storia delle utopie e ha curato l’edizione di varie opere utopiche: dalla Città
del Sole di Campanella, all’Utopia di Tommaso Moro sino alla Nuova Atlantide di Bacone.
Non è un caso fortuito, egli afferma, che gli utopisti pur partendo dai più alti ideali
finiscano col proporci “società che in realtà posseggono una sola dimensione, società
dove il controllo sociale messo in atto è così intenso da rendere l’individuo un fantoccio.
Infatti, la convinzione che è possibile la costruzione di uno stato perfetto apre la porta,
per motivi logici, alla violenza e al totalitarismo. Le proposte dell’utopista, di fatto,
proprio in quanto presuppongono che sia possibile conseguire una volta per tutte le
istituzioni sociali più perfette, non abbisognano, ed anzi non ammettono critiche e
cambiamenti. Per l’utopista ogni cambiamento apportato al suo schema è, senza appello,
un cambiamento in peggio, un inconcepibile errore”.
Inoltre, ha pubblicato alcune antologie dedicate ai più importanti pensatori liberali del
diciannovesimo e del ventesimo secolo (Polanyi, Popper, Sturzo, Bastiat, Tocqueville,
Lord Acton, Röpke, Von Mises, von Hayek, Costa), soffermandosi sui fondamenti
epistemologici del liberalismo. Nell’opera Il liberalismo, Dio e il mercato (2001) egli ha
sostenuto che il liberale è “un fallibilista, un razionalista critico; egli concepisce la verità
come un ideale regolativo e l’uomo come un cercatore e non un possessore di verità. Il
liberale non crede che la verità sia manifesta o che solo pochi abbiano occhi, per vederla.
È un avversario di ogni concezione che prevede ‘illuminati’, ‘unti del Signore’, infallibili.
Oltre che fallibilista, il liberale è anche antistoricista. Egli, infatti, non ritiene di avere in
tasca l’itinerario della Storia, anzi è ben convinto che non esistono leggi storiche. Inoltre,
il liberale è anche antiperfettista e anticostruttivista e, quindi, antiutopista. Il liberale
ama la tradizione, ma non è un tradizionalista né un conservatore. Il liberale è un
liberista, ama la tolleranza e la democrazia. Infine, ama la libertà ben più
dell’uguaglianza in quanto se va perduta la libertà tra non liberi non c’è nemmeno
uguaglianza”.
Infine, Baldini ha indagato alcune delle implicazioni che intercorrono tra l’epistemologia
contemporanea e la pedagogia. Nell’opera I fondamenti epistemologici dell’educazione
scientifica (1976) egli scrive che “l’epistemologia contemporanea solleva una
problematica pedagogico-didattica di estremo rilievo per quanti sono interessati ad un
rinnovamento dell’educazione scientifica”. Ed aggiunge: alla luce della rete teorica
dell’epistemologia della seconda metà del Novecento “l’insegnante deve mettere in
evidenza gli aspetti investigativi della scienza, deve stimolare la creatività e lo spirito
critico dei suoi allievi, (...) deve far capire che il ruolo dello scienziato è quello di un
interprete. (...) Occorre, inoltre, che faccia comprendere il ruolo giuocato nella ricerca
scientifica dall’immaginazione e che evidenzi l’incompletezza e l’incertezza che
caratterizzano le conoscenze scientifiche attuali”.
In ultimo, va ricordato che ha dedicato anche un’attenzione specifica al ruolo assolto dagli
errori o dagli sbagli nei laboratori scientifici, nelle cliniche mediche e nelle aule
scolastiche (Epistemologia e pedagogia dell’errore, 1986). Presso i filosofi, i pedagogisti e
gli inseguanti, egli ha scritto, l’errore non gode di una buona reputazione. “Di fatto, non si
ha, a tutt’oggi, una adeguata pedagogia dell’errore e gli insegnanti amano presentarsi
come persone che non sbagliano mai. (...) Ciò di cui oggi c’è effettivamente bisogno, è
una più consapevole utilizzazione pedagogica dell’errore. (...) Ogni insegnante deve
riuscire a far comprendere ai propri allievi che l’errore non è qualcosa di scandaloso, ma il
motore tanto del sapere scientifico quanto del processo educativo nel quale sono
coinvolti.”
L’altro grande interesse filosofico di Baldini è stata la filosofia del linguaggio. In
particolare ha studiato le tesi dei semanticisti generali (La semantica generale, 1976; La
tirannia e il potere delle parole. Saggi sulla semantica generale, 1981), un movimento
questo nato negli USA tra le due guerre mondiali del secolo scorso e di cui si era occupato
per primo in Italia negli anni Cinquanta Francesco Barone. Inoltre, ha analizzato le
caratteristiche del linguaggio pubblicitario (Il linguaggio della pubblicità. Le fantaparole,
1996, 3ª ed.) e di quello mistico (Il linguaggio dei mistici, 1986).
Da un punto di vista linguistico, egli ha affermato, “il mistico è colui che tenta
continuamente di dire ciò che non può essere detto. Egli compie continuamente
esperimenti linguistici volti a sondare se il linguaggio può essere usato per rendere
manifesto ciò che rimane nascosto dal suo uso quotidiano. Per dirla con Wittgenstein, si
avventa contro i limiti del linguaggio e torna indietro con la testa sanguinante. Il mistico
procede in modo esitante e talvolta incespica sui sentieri del linguaggio. Stando in bilico
sull’orlo della piattaforma linguistica finisce con l’oscillare tra il paradosso, il non senso e
il silenzio”. In altre parole, per il mistico le parole non sono “domestiche, né
addomesticabili, esse rimangono per lui sempre allo stato selvaggio. Ecco, quindi, che il
suo parlare non è mai un parlare ozioso o routiniero, un inoffensivo esercizio domenicale,
bensì un gesto di grande impertinenza verbale, di grande trasgressività linguistica”.
Il mistico ha bisogno di una lingua nuova per questo ama le antitesi, i paradossi, gli
ossimori, i termini superlativi. “Egli non ascolta il consiglio di Cicerone per il quale la
metafora doveva essere riservata (pudens) e non ardita, infatti mostra di prediligere le
metafore assolute, audaci, vive.” Metafore che sono destinate a provocare incrementi
semantici, a fornire nuove informazioni, a generare nuove conoscenze e scoperte.
Baldini ha indagato il linguaggio dei mistici, ma anche i significati del loro silenzio. A suo
avviso, la scelta del silenzio da parte del mistico non possiede una valenza unica, infatti
se analizziamo attentamente il suo essere-per-il-silenzio vediamo che in esso sono
individuabili almeno tre diversi tipi o modalità del silenzio. Vi è il silenzio come suicidio
linguistico di fronte all’ineffabilità del totalmente Altro (“è un silenzio che ci parla di ciò
che non può essere detto. In altre parole, è un silenzio che apre nuove dimensioni alla
realtà, che ci rende consapevoli che il dicibile, ciò che può essere detto, non è poi tutto”),
ma vi è anche il silenzio come reticenza e, infine, vi è il silenzio come ascolto del
totalmente Altro.
Al tema della chiarezza e dell’oscurità linguistica e delle caratteristiche proprie del
linguaggio filosofico Baldini ha dedicato due opere (Parlar chiaro, parlare oscuro, 1989 e
Contro il filosofese, 1991). La prima contiene un elogio della chiarezza e fornisce una
guida per difendersi dai gerghi allusivi sempre più diffusi nel nostro paese quali, ad
esempio, il politichese, il filosofese, il sociologhese, il pedagoghese, il medichese, il
professorese, il burocratese, il poliziese, l’omiletichese, nonché, infine, il giornalese. Ma
nel fare l’elogio della chiarezza l’autore non ha inteso celebrare le lodi del “facilese” né
sostenere la tesi secondo la quale tutto e in ogni circostanza può essere espresso in
modo chiaro. È sua convinzione, infatti, che abbiamo tanto bisogno della chiarezza
quanto dell’oscurità. Vi sono, a suo avviso, ambiti linguistici (la poesia e la mistica, ad
esempio), in cui non si può essere chiari o non ambigui, in quanto è nell’oscurità che sta
tutta la loro forza e il loro fascino.
Le sue conclusioni sono però improntate al pessimismo. “Il parlare presso i più – egli
afferma –, è divenuto un’attività irriflessa, deprivata, atrofizzata. Sui sentieri del
linguaggio ci si imbatte sempre più spesso in messaggi centrifugati, surgelati, precotti, in
messaggi che denunciano un penoso primitivismo linguistico e che, quindi, possono
essere subiti solo nella disattenzione. L’uomo parlante è stato sostituito dall’uomo
parlato. In altre parole, il parlare è ormai per molti più un fatto che concerne più le corde
vocali che le sinapsi cerebrali. (...) L’uso robotico, desemantizzato, omogeneizzato delle
parole dà vita ad una lingua meticcia e fantasmatica, ad un pappagallismo inerte, ad un
parlare apparentemente chiaro, ma terribilmente sciatto, feriale, anonimo.”
Nell’opera Contro il filosofese Baldini si è soffermato sull’accusa rivolta alla filosofia di
oscurità, accusa che è stata sollevata non solo dai non addetti ai lavori, ma anche da
molti celebri filosofi. Infatti, come egli osserva, “già Clitomaco si lamentava di non aver
mai potuto capire dagli scritti di Carneade di che opinione questi fosse e Lucrezio nel suo
De rerum natura, riferendosi ad Eraclito, scrive che è stato il suo linguaggio oscuro a
renderlo ‘illustre fra gli ignoranti’. Poiché gli sciocchi ammirano e amano di preferenza ciò
che si dice loro nascosto sotto parole pompose”.
In favore della chiarezza si sono schierati nel corso dei secoli Epicuro e Locke, Hobbes e
Kant, Schopenhauer e Russell. Ad ogni buon conto, “tra tutti i filosofi contemporanei
quello che più di altri ha insistito sull’importanza del parlare (e dello scrivere) chiaro
anche in filosofia è stato Karl R. Popper. In tutti i suoi scritti egli insiste sul fatto che la
chiarezza è una virtù importante. Essa, infatti, ci consente, in un ragionevole lasso di
tempo, di individuare i messaggi privi di contenuto o banali e rende impossibile il lavoro
di chi cerca di fare giochi di prestigio o magie con le parole. A detta di Popper, tra i
filosofi l’oscurità procede mano nella mano con l’immodestia culturale”.
Per Baldini la filosofia possiede una intrinseca vocazione alla popolarità. E ciò perché tutti
gli uomini hanno se non dei giudizi, almeno dei pregiudizi filosofici. Per questi motivi, i
filosofi non devono proibirsi i lettori, devono riuscire a farsi leggere, devono tenere nella
dovuta considerazione la divulgazione delle loro riflessioni. Tra il filosofo-sentinella che
ama la chiarezza e la controllabilità e sostiene, come Socrate, di sapere di non sapere e il
filosofo-oracolare che, di contro, preferisce l’oscurità e si presenta sulla scena come un
portatore di verità inscalfibili dal tempo, le preferenze di Baldini vanno decisamente al
primo. A suo avviso, il filosofo non può essere né un burocrate addetto alla manutenzione
delle ideologie, né tantomeno un funzionario addetto a compiti meramente consolatori,
egli è “uno specialista in idee generali che nei vari ambiti del sapere o della realtà
esercita una sorveglianza critica e svolge una decisiva azione demitizzante”.
ENRICO BERTI
Nato a Valeggio sul Mincio (Verona) il 3 novembre 1935, Enrico Berti ha conseguito
nell’Università di Padova la laurea in Filosofia nel 1957 e il diploma di perfezionamento in
Filosofia nel 1963, avendo in entrambi i casi come relatore della tesi Marino Gentile. Nel
corso degli studi universitari ha avuto come professori Luigi Stefanini e Umberto
Padovani, che gli hanno fatto conoscere rispettivamente il personalismo e la metafisica
classica. Alla sua conoscenza del personalismo ha contribuito anche Armando Rigobello,
allora assistente di Stefanini, mentre alla conoscenza della metafisica classica ha
contribuito Gustavo Bontadini, da lui ascoltato in vari convegni. Di questa tuttavia Berti
ha accolto soprattutto la versione proposta da Marino Gentile in termini di problematicità
pura, alla quale ha contribuito anche la frequentazione di Pierre Aubenque, professore
alla Sorbona, nei Simposi Aristotelici internazionali.
Berti è stato professore di filosofia e pedagogia negli Istituti Magistrali dal 1957 al 1961,
assistente nell’Università di Padova dal 1961 al 1964, vincitore del concorso alla cattedra
universitaria di Storia della filosofia antica nel 1963, professore di Storia della filosofia
antica nell’Università di Perugia dal gennaio 1965 al 1969, e di Storia della filosofia dal
1969 al 1971; attualmente è professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di
Padova dal 1° novembre 1971. Berti è stato anche professore supplente nell’Università di
Ginevra (Svizzera) nel 1971, titolare della Cattedra Perelman nell’Università Libera di
Bruxelles nel 1997-1998, professore invitato nella Facoltà di Teologia di Lugano
(Svizzera) dal 2006 e direttore del Centro Interuniversitario per la Storia della tradizione
aristotelica dal 2000 al 2008.
Profilo dell’attività scientifica
Berti è stato spinto alla filosofia da un interesse di tipo teoretico, cioè quello di capire se
la metafisica, da lui considerata la disciplina più autenticamente filosofica perché
irriducibile ad altre forme di sapere, era in grado di reggere di fronte alle critiche del
pensiero contemporaneo (cioè del Novecento). Perciò, nel 1955, chiese la tesi di laurea a
Marino Gentile, uno dei pochi filosofi metafisici allora non caratterizzati in senso
neotomistico e interessati alla filosofia del Novecento. Gentile lo avviò allo studio di
Aristotele, che allora sembrava quanto di più lontano ci potesse essere dall’attualità, ma
che poi è risultato essere per Berti il filosofo classico più attrezzato per reggere il
confronto col pensiero contemporaneo, e lo studio del suo pensiero gli è servito sia come
base per affrontare tutte le articolazioni del sapere filosofico, dalla logica alla metafisica,
dall’etica alla politica, sia come oggetto sul quale praticare una ricerca di tipo
essenzialmente storiografico.
Dalla tesi di laurea e da alcuni lavori successivi è nato il primo libro di Berti, La filosofia
del primo Aristotele (Padova 1962), che ha avuto una certa fortuna, perché lo ha
introdotto nella cerchia prestigiosa dei Symposia Aristotelica (con nomi come Aubenque,
Brunschwig, Düring, Loyd, Owen, Patzig, Ryle, Verbeke, de Vogel) e, insieme con altri
lavori minori su Cicerone e sui presocratici, gli ha consentito di vincere la cattedra
universitaria di Storia della filosofia antica. La sua prima produzione si è così
caratterizzata in senso prettamente storico, addirittura filologico – Jaeger, al cui metodo
storico-genetico Berti si ispirava, pur criticandone i risultati, era essenzialmente un
filologo –, consentendogli di esercitare un’attività di ricerca oggettivamente controllabile.
Ma l’interesse di Berti per la filosofia è rimasto di tipo teoretico, come attestano i suoi
lavori successivi, sia quelli su Aristotele (L’unità del sapere in Aristotele , Padova 1965),
concernenti la differenza tra sapere filosofico e sapere scientifico e la validità del principio
di non contraddizione, sia quelli in cui ha messo a confronto Aristotele prima con
Tommaso d’Aquino, poi con Hegel e Trendelenburg (confluiti nei suoi Studi aristotelici,
L’Aquila 1975). Egli tuttavia non ha mai abbandonato gli studi di storia della filosofia, non
solo antica, che ha continuato a praticare con l’intento di ricostruire soprattutto la storia
dell’aristotelismo e delle sue interazioni con la filosofia delle diverse epoche. Avendo nel
frattempo assunto la cattedra di Storia della filosofia generale, prima a Perugia e poi a
Padova, Berti si è trovato a dover affrontare da posizioni, per così dire, di minoranza, o di
opposizione, il confronto con quella che dopo il ’68 era diventata la filosofia dominante,
cioè il marxismo. La lettura del saggio di Lucio Colletti su Marxismo e dialettica
(pubblicato nella Intervista politico-filosofica, 1975) ha indotto Berti ad occuparsi del
problema della contraddizione, non solo in Aristotele (cosa che aveva già fatto), ma
anche in Kant, Hegel, Marx e il pensiero contemporaneo, durante un seminario tenuto
con alcuni suoi allievi (Lino Conti, Fulvio Longato, Carlo Natali, Cristina Rossitto ed altri), i
cui risultati uscirono nel volume su La contraddizione (Roma 1977). Nel frattempo Berti
ha continuato a lavorare su Aristotele, al quale ha dedicato prima la monografia
Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima (Padova 1977) e poi il Profilo di Aristotele
(Roma 1979); ha lavorato inoltre sul rapporto tra filosofia e scienza, volgendo l’attenzione
a filosofi come Descartes, Spinoza, Leibniz e Kant (Ragione filosofica e ragione scientifica
nel pensiero moderno, Roma 1977); sulla storia dell’aristotelismo, con particolare
attenzione ad una figura significativa del pensiero cristiano come Rosmini (La metafisica
di Platone e di Aristotele nell’interpretazione di Antonio Rosmini, Roma 1979).
Il confronto col pensiero contemporaneo, passato dall’egemonia del marxismo alla “crisi
della ragione” (titolo della famosa raccolta curata da Aldo Gargani, Torino 1979), cioè alla
riscoperta di Heidegger, all’ermeneutica, alla rinascita della filosofia pratica, ha indotto
Berti ad occuparsi delle diverse forme di razionalità, con particolare attenzione alla
dialettica, sia nella sua versione antica che nella sua versione moderna. Sono nati così la
raccolta di saggi Le vie della ragione (Bologna 1987), il volume Contraddizione e
dialettica negli antichi e nei moderni (Palermo 1987) e Le ragioni di Aristotele (Roma-Bari
1989), frutto di un altro seminario tenuto presso l’Istituto italiano di studi filosofici di
Napoli. L’attività di storico della filosofia, interessato anche al problema
dell’insegnamento della filosofia nella scuola secondaria, è continuata con la redazione
del manuale Storia della filosofia (Roma-Bari 1991, di cui il terzo volume è stato scritto in
collaborazione con il più “contemporaneista” dei suoi allievi, Franco Volpi). Una prima
sintesi, contenuta in uno spazio minimo per motivi editoriali, del confronto di Berti col
pensiero contemporaneo è il volume Aristotele nel Novecento (Roma-Bari 1992, seconda
edizione con nuova prefazione 2008), nel quale si mostra l’influenza decisiva di Aristotele
su Heidegger (che Berti aveva già frequentato negli anni Cinquanta, ma che gli è stato
fatto riscoprire da Volpi), sull’ermeneutica, sulla rinascita della filosofia pratica e
soprattutto sulla filosofia analitica inglese, alla quale Berti si è interessato nel corso degli
anni Novanta: egli ha potuto così constatare che la scuola di Oxford (Austin, Ryle,
Strawson, Wiggins) è il luogo in cui, negli ultimi cinquant’anni, la presenza di Aristotele si
è manifestata in tutta la sua potenza. Ma si è trattato, secondo Berti, di una presenza
monca, perché ha riguardato la logica, la filosofia del linguaggio, l’ontologia, l’etica, e non
quella che Aristotele chiamava la “filosofia prima”, cioè la metafisica intesa non solo
come ontologia, bensì anche come scienza delle cause prime, cioè dei princìpi.
Perciò Berti ha cercato di riproporre quest’ultima nella sua Introduzione alla metafisica
(Torino 1993, uscita anche nella raccolta diretta da Paolo Rossi, La filosofia, Torino
1995), nella quale si è ispirato alla proposta del suo maestro Marino Gentile,
reinterpretando la sua “metafisica classica” in termini di metafisica problematica e
dialettica. Ma la formazione aristotelica lo ha indotto anche ad occuparsi di etica e di
politica, riallacciandosi per la prima alla rinascita della filosofia pratica in Germania e
negli Stati Uniti e per la seconda soprattutto al “periodo americano” di Jacques Maritain
(Man and the State, Chicago 1951). Sono nate così la raccolta Soggetti di responsabilità.
Questioni di filosofia pratica (Reggio Emilia 1993) e l’antologia Aristotele nella collana
“Pensatori politici” di Laterza (Roma-Bari 1997), col saggio introduttivo su Il pensiero
politico di Aristotele. L’interesse per la didattica della filosofia, infine, ha preso corpo nel
v o l um e Filosofia, pubblicato in collaborazione con Armando Girotti nella collana
“Professione docente” della casa editrice La Scuola (Brescia 2000), dove Berti ha colto
l’occasione per mettere a confronto i principali metodi di ricerca filosofica e scientifica,
antichi e moderni (cap. II).
Volendo caratterizzare il complesso della sua carriera, si potrebbe presentarla, come Berti
stesso ha fatto, con l’espressione “il circolo di filosofia e storia della filosofia”, con
riferimento ad un circolo non vizioso, ma in qualche misura virtuoso. Infatti l’interesse
teoretico per la filosofia ha spinto Berti a studiare la storia della filosofia, cioè
fondamentalmente Aristotele, le sue origini (Platone), la sua fortuna (l’aristotelismo), la
sua presenza nel pensiero moderno e contemporaneo. Ma la storia della filosofia, cioè
ancora Aristotele, lo ha aiutato ad elaborare una sua filosofia, che non è la filosofia di
Aristotele – sia perché egli riterrebbe ridicolo paragonarsi ad uno dei massimi filosofi di
tutti i tempi, sia perché oggi non si può essere aristotelici, o “neo-aristotelici”, come se
niente fosse successo dopo Aristotele – e perciò è originale nella misura in cui si discosta
da quella di Aristotele.
Nel tentativo di riassumerla molto brevemente, si può dire che Berti continua ad avere
fiducia nella metafisica, più in quella aristotelica, perché non pregiudicata da alcuna fede
religiosa, che in quella della scolastica medievale; ma in una metafisica aristotelica
liberata dai condizionamenti storici della cosmologia antica, e dunque in una metafisica
ridotta all’essenziale, cioè al riconoscimento della problematicità dell’esperienza, ovvero
all’incapacità del mondo in cui viviamo (essere, coscienza, esistenza, storia, scienza) di
spiegarsi interamente da sé e alla conseguente necessità dialettica di un principio
trascendente. Questa metafisica, come Berti ha spiegato in alcuni saggi recenti, può
essere definita alquanto “debole” dal punto di vista epistemologico, cioè povera di
contenuti informativi, ma proprio per questo estremamente “forte” dal punto di vista
logico, cioè difficilissima da confutare. Tuttavia, proprio per il carattere dialettico, cioè
confutativo, del suo procedere, essa – per dichiarazione del suo autore – non può mai
considerarsi definitiva, ma deve continuamente misurarsi con i sempre nuovi tentativi di
negarla. Quanto all’etica, Berti trova molto più soddisfacente un’etica della “felicità” che
un’etica del “dovere”, per la capacità di motivazione che essa possiede, a condizione che
per felicità si intenda non solo il piacere, o l’utile, o il benessere, ma la piena
realizzazione di tutte le capacità umane, sia proprie che altrui, cioè il fulfilment o la
flourishing life, come dicono i neoaristotelici americani (Amartya K. Sen e Martha C.
Nussbaum). Nella individuazione di questo tipo di etica, secondo Berti, può ancora essere
di aiuto la “saggezza” (phronesis) di Aristotele e dei neoaristotelici tedeschi (Gadamer),
ma per la sua fondazione è necessaria una vera e propria filosofia pratica, comprendente
un’antropologia e una teoria del fine ultimo, cioè del bene. Per la sua accettazione, poi, è
indispensabile il richiamo a quei moderni endoxa (opinioni condivise da tutti o dai più)
che sono i diritti umani.
Quanto, infine, alla filosofia politica, Berti ritiene che l’idea aristotelica di polis come
“società perfetta”, cioè autosufficiente, di fronte all’evidente crisi e all’ormai avanzato
declino dello Stato moderno, nazionale e sovrano, riveli ancora tutta la sua validità e trovi
oggi nuove espressioni nelle forme di organizzazione politica sovranazionali, e domani
forse in un’organizzazione politica mondiale, cioè “globale”. Questo però, a condizione
che essa conservi la sua natura di società finalizzata al “bene comune”, cioè al “vivere
bene” di tutti, senza più schiavi, donne inferiori all’uomo, stranieri da tenere lontani. In
ciò egli ritiene, non solo come credente ma anche come storico e filosofo, che l’apporto
delle grandi religioni monoteistiche, e soprattutto del cristianesimo, religione dei diritti
(all’eredità nel Regno) e della libertà (al di sopra della Legge), sia fondamentale e
irrinunciabile.
Prospettive di indagine
Le prospettive future dell’indagine di Berti sono orientate in tre direzioni. La prima,
collegata anche al progetto editoriale di ritradurre e commentare la Metafisica di
Aristotele, si propone di mostrare che questa è alla base dell’odierna “ontologia formale”,
grazie alle dottrine in essa contenute della multivocità, o polisemanticità, dell’essere,
delle categorie, del primato della sostanza, dell’individualità della forma come criterio di
identità. Connessa a questa prospettiva è l’intenzione di applicare la concezione
aristotelica dell’anima come forma e atto primo, cioè come struttura formale e complesso
di disposizioni, al cosiddetto Mind-Body Problem, al fine di mostrare la coincidenza
dell’anima con la sequenza del DNA (già rilevata da illustri biologi) e di eliminare in tal
modo ogni concezione soprannaturale e sostanzialistica dell’anima (come credente, Berti
ritiene che la soluzione cristiana del problema della morte non sia l’immortalità
dell’anima, bensì la resurrezione del corpo). Un’altra prospettiva di ricerca è l’ulteriore
essenzializzazione della metafisica, di una metafisica classica includente la teologia
razionale, mediante una reinterpretazione del primato dell’essere, dalla quale risulti che
l’actus essendi – col quale Tommaso d’Aquino e i tomisti identificano l’essenza stessa di
Dio – non è il semplice atto di esistere, bensì è sempre, come sosteneva Aristotele, l’atto
di un’essenza, che nel caso di Dio è l’essenza divina e quindi la somma di tutte le
perfezioni (non solo l’essere, ma anche il vivere, il pensare, l’amare, ovviamente
coincidenti tra loro). Infine la prospettiva più ambiziosa, ma più difficilmente realizzabile,
è quella di riuscire a ricavare dall’esposizione dei diritti umani, universalmente
riconosciuti, la soluzione di problemi etici e politici concreti, quali i problemi di bioetica
(procreazione assistita, clonazione, trapianto di organi, diritto a una vita di qualità
umana, diritto di morire), i problemi economici (immigrazione, compatibilità ambientale,
disponibilità delle risorse) e i problemi politici (applicabilità della democrazia,
condivisibilità del bene comune, organizzazione di un’autorità politica mondiale).
Riferimenti bibliografici
Principali scritti dell’autore
La filosofia del primo Aristotele, Padova, Cedam, 1962 (attualmente distribuito da Olschki, Firenze), pp. 590; Il “De re
publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963, pp. 103; L’unità del sapere in Aristotele, Padova,
Cedam, 1965, pp. 202; Studi aristotelici, L’Aquila, Japadre, 1975, pp. 364; Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima,
Padova, Cedam, 1977, pp. 477; Ragione filosofica e ragione scientifica nel pensiero moderno, Roma, La Goliardica, 1977,
pp. 239; La metafisica di Platone e di Aristotele nell’interpretazione di Antonio Rosmini, Roma, Città Nuova, 1977, pp. 182;
Profilo di Aristotele, Roma, Studium, 1979, pp. 332 (II edizione 1985, III edizione 1993); I percorsi della filosofia, vol. I: Il
pensiero antico e medioevale, Firenze, Le Monnier, 1980 (ristampato nel 1981, 1983, 1987), pp. 324; Logica aristotelica e
dialettica, Bologna, Cappelli, pp. 63; Il bene, Brescia, La Scuola, 1983 (II edizione 1984), pp. 245; Il pensiero d’occidente
(in collaborazione con Sergio Moravia), Pagine e testimonianze, Firenze, Le Monnier, 1987 (ristampato nel 1987, 1988,
1989, 1991, 1994), pp. 706; Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo, L’Epos, 1987, pp. 306; Le vie
della ragione, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 299; Analitica e dialettica nel pensiero antico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,
1989, pp. 45; Le ragioni di Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 186; Filosofia (in collaborazione con Sergio Moravia), I
testi, vol. I: Dall’antichità al medioevo, Firenze, Le Monnier, 1990 (IV ristampa 1996), pp. 226; Storia della filosofia, vol. I,
Antichità e medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1991 (XIII ristampa 2006), pp. XIX, 295; Storia della filosofia, vol. II, Dal
Quattrocento al Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1991 (X ristampa 2003), pp. XII, 293; Storia della filosofia, vol. III,
Ottocento e Novecento (in collaborazione con F. Volpi), Roma-Bari, Laterza, 1991 (X ristampa 2003), pp. XVI, 465;
Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 278 (nuova edizione con l’aggiunta di una prefazione, 2008, pp.
XXII, 280); Introduzione alla metafisica, Torino, Utet-Libreria, 1993, pp. 125; Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia
pratica, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 1993, pp. 222; Platone teoretico, in Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche. Le radici del pensiero filosofico, 1: La filosofia greca dai Presocratici ad Aristotele, vol. VII, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1993, pp. 91; Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 208; Aristóteles no
século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edições Loyola, 1997, pp. 334; La filosofia del “primo” Aristotele (II
edizione), Milano, Vita e pensiero, 1997, pp. 575; As razões de Aristóteles, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil,
Edições Loyola, 1998, pp. 191; Professione docente: Filosofia (in collaborazione con A. Girotti), Brescia, La Scuola, 2000,
pp. 224; Wprowadzenie do metafizyki (przeklad D. Facca), Warszawa, Wydawnictwo IfiS PAN, 2002, pp. 128; Filosofia
pratica, Napoli, Guida, 2004, pp. 116; Nuovi studi aristotelici, I – Epistemologia, logica e dialettica, Brescia, Morcelliana,
2004, pp. 445; Aristotele: Eubulo o della ricchezza, dialogo perduto contro i governanti ricchi, autentico falso d’autore,
Napoli, Guida, 2004, pp. 90; Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima, con saggi integrativi, Milano, Bompiani, 2004, pp.
736; Nuovi studi aristotelici, II – Fisica, antropologia e metafisica, Brescia Morcelliana, 2005, pp. 592; Incontri con la filosofia
contemporanea, Pistoia, Editrice Petite Plaisance, 2006, pp. 333; Struttura e significato della Metafisica di Aristotele, Roma,
Edusc, 2006, pp. 228 (II edizione 2008); Storia della filosofia dall’antichità a oggi (in collaborazione con F. Volpi), Edizione
compatta, Roma-Bari, Laterza, 2007, 2 voll., pp. XI-518, VIII-406; In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della
filosofia antica, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. XII, 350; Nuovi studi aristotelici, III – Filosofia pratica, Brescia, Morcelliana,
2008, pp. 280; Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Louvain-la-Neuve. Éditions Peeters, 2008, pp.
510.
Scritti sull’autore
C. Rossitto, Riflessioni sulla struttura logica della metafisica. A proposito dell’odierna metafisica di tradizione aristotelica,
Padova, Gregoriana, 1982, pp. 174-203; E. Berti, Autopresentazione, “Filosofia oggi”, 9, 1986, pp. 205-213; F. Volpi, La
filosofia nel Veneto dal 1945 ad oggi, in A. Arslan-F. Volpi, La memoria e l’intelligenza. Letteratura e filosofia nel Veneto che
cambia, Padova, Il Poligrafo, 1989, pp. 83-157; M. Mangiagalli, La “Scuola di Padova” e i problemi dell’ontologia italiana
contemporanea, “Aquinas”, 33, 1990, pp. 639-668; E. Berti, Una metafisica (epistemologicamente) “debole”, “Annuario
Filosofico”, 16, 2000, pp. 27-41; F. Fornero-E. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p.
887; E. Berti, Autoritratto, “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, nuova serie, fasc. 176, 2002, pp. 9-12; M.
Mangiagalli, La scuola filosofica di Padova nella seconda metà del Novecento, in E. Berti (a cura), Marino Gentile nella
filosofia del Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2003, pp. 31-46; F. Longato, voce Berti, Enrico, in Fondazione
Centro Studi Filosofici di Gallarate, Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, 2006, vol. II, pp. 1228-1229; M. Mangiagalli,
Metafisica essenzializzata o metafisica della problematicità?, “Sapienza”, 61, 2008, pp. 53-92.
REMO BODEI
Remo Bodei è nato nel 1938 a Cagliari, dove è rimasto fino al conseguimento della
maturità classica, studiando contemporaneamente flauto traverso al Conservatorio. Da
bambino ha conosciuto i bombardamenti e lo sfollamento.
Nel 1957 è entrato alla Scuola Normale Superiore e si è iscritto a filosofia all’Università di
Pisa. Tra i suoi maestri: Giorgio Colli, Cesare Luporini, Arturo Massolo, Delio Cantimori,
Emilio Gabba e Armando Saitta (anche se il peso maggiore, nella sua formazione,
malgrado la differenza di età, lo ha avuto la rispettosa amicizia con Eric Weil, Arnaldo
Momigliano e Norberto Bobbio).
Nell’estate del 1960 ha frequentato l’Università di Tubinga e, nel 1961-1962, dopo il
conseguimento della laurea, quella di Friburgo, dove ha seguito le lezioni di Eugen Fink.
Conseguito il biennale “diploma di perfezionamento” alla Scuola Normale Superiore, nel
1965, è stato per un anno borsista del CNR all’Università di Heidelberg, dove ha
frequentato i corsi di Hans-Georg Gadamer e condotto ricerche sotto la guida di Dieter
Henrich.
Nel 1969 ha cominciato a insegnare “Storia e storiografia filosofica” presso la Scuola
Normale Superiore (fino al 1993) e dal 1971 al 2005 “Storia della filosofia” alla facoltà di
Lettere e filosofia dell’Università di Pisa (dove ha tenuto anche corsi di estetica). Dal
2006 è professore di filosofia all’University of California, Los Angeles.
Nel frattempo è stato borsista Humboldt presso la Ruhr-Universität di Bochum, dove ha
collaborato con Otto Pöggeler e Klaus Düsing; visiting fellow al King’s College di
Cambridge; visiting professor alla Ottawa University, più volte alla New York University,
alla Toronto University e alla University of California, Los Angeles, nonché all’Universitat
de Girona e alla Universidad Autónoma de México.
È nella direzione delle riviste “Teoria politica”, “Iride”, “Philosophy and Social Criticism” e
“European Journal of Philosophy”; coordina, come supervisore scientifico, il Festival di
filosofia di Modena e collabora alle pagine culturali di alcuni quotidiani.
Il suo primo libro è stato Sistema ed epoca in Hegel, del 1975, un autore che ritorna –
parzialmente o con altre angolature – sia in Scomposizioni: forme dell’individuo moderno
(Torino, Einaudi, 1987), sia in Le prix de la liberté (Paris, Cerf, 1995), opere che traggono
alimento anche dalla traduzione della Vita di Hegel di Karl Rosenkranz, dei Primi scritti
critici di Hegel stesso e di Soggetto e oggetto. Commento a Hegel di Ernst Bloch (nonché
dalla cura dei Tre studi su Hegel di Adorno, di Hegel e lo Stato di Rosenzweig,
dell’Estetica del brutto di Rosenkranz e di La dialettica e l’idea della morte in Hegel di
Kojève). Sin da Sistema ed epoca in Hegel rifiuta uno storicismo che schiaccia il pensiero
sul tempo cronologico e rivendica l’importanza del denigrato “sistema”, presentato in
genere come una specie di camicia di forza. Con ciò scompare anche il dualismo tra il
“giovane Hegel” (fresco, asistematico e attento alla vita e alla varietà della storia) e lo
Hegel maturo (paranoico e pietrificato nel sistema). Ha inoltre cercato di sfatare alcuni
pregiudizi – quale la fine della storia – che provenivano da una cattiva o parziale
interpretazione della famosa metafora della “nottola di Minerva”, emblema della filosofia.
In realtà la civetta ha un antagonista-collaboratore nella “talpa” della storia, che continua
nascostamente a scavare sotto terra. Hegel stabilisce un contrasto e una simultanea
complementarità tra una filosofia giunta alla fine di un’epoca, che vede nel buio con i
grandi occhi di civetta, e la talpa della storia che frattanto continua ad avanzare
inconsciamente: l’una contempla, l’altra fa.
Il tema della storia e del tempo è ripreso in Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch
(Napoli, Bibliopolis, 1983), dove, ripensando i problemi accanto al suo autore, senza
limitarsi a chiosarlo, Bodei analizza l’ipotesi di un tempo storico a più strati (in alternativa
alla struttura del tempo cronologico lineare) e smonta il modello di tempo concepito
come un’unica retta sulla quale scorre un punto indivisibile e senza spessore, il presente,
che, avanzando a velocità costante, si lascia indietro irreversibilmente il passato, proprio
mentre ‘rosicchia’ l’avvenire. Ogni elemento di tale costrutto – la retta, il punto, la
direzione – si può mettere in dubbio. Ad esempio, perché sostenere che il tempo scorre,
che il presente passa? Per Agostino – autore di cui Bodei attraversa il pensiero in Ordo
amoris. Conflitti terreni e felicità celeste (Bologna, Il Mulino, 1991) – noi non ci muoviamo
mai dal presente: in maniera plausibile, il passato esiste solo nel presente come ricordo e
il futuro nel presente come attesa; la percezione del tempo è dovuta alla distensio animi,
in cui il tempo stesso assomiglia a un elastico che si contrae puntualmente
nell’attenzione, si allunga all’indietro nel ricordo e si prolunga in avanti nell’attesa o nella
speranza.
Anche recentemente le riflessioni sui paradossi temporali e sui “cristalli di storicità”
(formazioni concettuali dovute al depositarsi e strutturarsi di eventi e idee) lo hanno
portato allo studio del concetto di “eternità”, che continua a essere interpretato come
tempo infinitamente lungo, mentre l’aión greco e l’aeternitas latina non hanno niente a
che vedere con la durata. In Plotino, Enneadi, III, 7, 11, e in Boezio De consolatione
philosophiae, 5, 6, l’eternità è, infatti, rispettivamente, zoê e plenitudo vitae, vita e
pienezza della vita. Il tempo, di conseguenza, è una specie di emorragia, di perdita di
vita, qualcosa che ci sfugge di mano come sabbia dalle dita.
In questa prospettiva deve essere inserito Piramidi di tempo. Teoria e storie del déjà vu
(Bologna, Il Mulino, 2006), che esamina un fenomeno noto, ma ormai poco studiato e
compreso: quello del déjà vu. Ognuno di noi ha provato la netta e improvvisa sensazione
di aver già vissuto in un passato indefinibile situazioni assolutamente identiche: di aver
già conosciuto una certa persona che incontra per la prima volta, di aver già visto un
luogo in cui non è mai stato, di aver già pronunciato frasi che non ha mai detto. A tale
sporadica, labile e improvvisa impressione di paradossale riconoscimento dell’impossibile
si accompagna l’acuta consapevolezza che la percezione attuale non corrisponde ad alcun
ricordo effettivo. Entrando così in contraddizione con se stessa, l’evidenza del fenomeno
afferma e nega nello stesso tempo ciò che mostra. Dopo aver esaminato gli aspetti
filosofici, religiosi, letterari, psicologici e medici del déjà vu, si avanza l’ipotesi che esso
abbia a che fare con una sorta di protesta contro l’irreversibilità del tempo che per un
istante sospende – proprio quando lo mette in evidenza – il conflitto tra la logica del
desiderio e il principio di realtà.
Il progetto teorico di Bodei è stato quello di elaborare una struttura logico-interpretativa
che consiste nel pensare i conflitti tra concetti nella forma di una complicità
antagonistica, di logos intrinsecamente legato (e, insieme, intrinsecamente estraneo) al
polemos. Pur avendo studiato a lungo Hegel, non è mai stato un fautore della dialettica
in senso canonico (per semplificare: come sviluppo mediante contraddizioni). Ha invece
sempre sviluppato uno spiccato interesse per l’idea di contraddizione, con la
consapevolezza che esistono contraddizioni senza sviluppo e sviluppi senza
contraddizioni. Si è quindi proposto di espandere la regione dell’intelligibilità senza
esaurire o cancellare gli elementi di alterità (passione, delirio, storia, bellezza). Tutto
questo lo ha portato a ripensare – in opere come Se la storia ha un senso (Bergamo,
Moretti e Vitali, 1997) e in Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana (Torino,
Einaudi, 1998) – anche le teorie associate alla dialettica, le filosofie della storia o le
utopie moderne.
Nello studio delle passioni, in particolare, ha dimostrato che le passioni non
rappresentano una semplice turbativa della ragione, una cecità o follia temporanea:
ragione e passioni obbediscono a due logiche, tra loro complementari e antagonistiche
insieme. Per inciso quasi tutti i titoli dei suoi libri riflettono un simile contrasto tra un
elemento ‘freddo’, logico, astratto, e un elemento ‘caldo’, infuocato, affettivamente
segnato: Geometria delle passioni (Milano, Feltrinelli, 1991); Ordo amoris; Le logiche del
delirio. Ragione, affetti, follia (Roma-Bari, Laterza, 2000); Destini personali. L’eta della
colonizzazione delle coscienze (Milano, Feltrinelli, 2002) e Piramidi di tempo. Da qui il suo
stile filosofico, caratterizzato dalla ricerca di idee ‘antisismiche’, in grado cioè di resistere
il più possibile alle critiche e alle sollecitazioni, ma disposto ad accogliere gli argomenti
più persuasivi addotti da altri, consapevole del fatto che essere con-vinti significa essere
vinti insieme, senza umiliazioni personali, dalla forza di un pensiero comune. Di questi
temi, in una prospettiva storica e teorica, ha trattato in Una scintilla di fuoco. Invito alla
filosofia (Bologna, Zanichelli, 2005).
Nel focalizzare tale contrasto tra ragione e passioni o tra ragione e follia Bodei sostiene
che non bisogna farsi impressionare dall’aureola di maestà che circonda la logica. Il
termine logos o il verbo leghein hanno una radice umile, la stessa di “legume”, di
qualcosa che si raccoglie e che si ordina. Nulla preclude, dunque, l’esistenza di una logica
delle passioni o una logica del delirio. Si prenda l’esempio dell’ira. Dico a un amico di
portarmi domani dei documenti di una qualche importanza. Lui arriva, ma se ne è
dimenticato. Mentre scarico su di lui un torrente di contumelie, mi altero in misura
sproporzionata all’evento. A vedermi così, nessuno dubita che il mio comportamento sia
irrazionale, spropositato. Vi è, infatti, un’evidente sproporzione tra la causa e l’effetto.
La logica delle passioni non riguarda, tuttavia, unicamente il momento della reazione
fuori misura: nella collera è come se tutte le frustrazioni, le tensioni e le delusioni
accumulate nel tempo formassero una massa critica, che si scarica di colpo sul
‘parafulmine’ più vicino: l’amico. La proporzione, la logica (dell’ira o di altre passioni) c’è,
ma non deve essere commisurata a un singolo episodio, facendo – come si direbbe con
un’espressione popolare – di ogni erba un fascio.
Un modello analogo viene usato anche in Le logiche del delirio, dove si dimostra come il
delirio – al pari delle passioni – segua una propria logica anomala. La ricerca si inserisce
in una tradizione di interfaccia tra filosofia e psichiatria che si richiama ai nomi di Jaspers,
psichiatra e filosofo, di esponenti della Daseinsanalyse come Binswanger, segnati dal
pensiero di Heidegger, o di Eugène Minkowski, che ha sviluppato alcune intuizioni di
Bergson. In genere però la maggior parte degli psichiatri raramente riflettono sulle
categorie che usano.
Da qui l’impegno a lavorare su corposi testi e casi di psichiatria classica e contemporanea
per esaminare le categorie utilizzate nell’interpretazione del delirio (parola che,
etimologicamente, significa andare fuori dalla lira, dal seminato e che rinvia, quindi, non
solo all’idea di eccesso, ma anche a quella di sterilità). Bodei si è soprattutto soffermato
sul funzionamento del pensiero nelle schizofrenie in fase acuta, quando il malato si crea
una realtà separata, nel tentativo di rendere vivibile un mondo per lui invivibile. Tali
costruzioni servono da difesa nei confronti del peggio, dell’angoscia senza nome.
Per questo succede anche che molti malati implorino il medico affinché non rovini il loro
“capolavoro delirante”.
Destini personali completa un trittico comprendente Scomposizioni e Geometria delle
passioni. Il nucleo comune è formato dalla genealogia dell’individuo occidentale moderno,
vista a partire da due estremi, di nuovo complementari e antagonisti. Uno è
rappresentato da Locke, che pone l’accento sul valore dell’individuo, fondando la teoria
dei diritti umani e del liberalismo politico; l’altro da Schopenhauer, secondo il quale la
nostra individualità è semplice apparenza, mentre quello che conta è l’anonima volontà di
vivere che abita in noi e rende il nostro io nient’altro che “una voce che rimbomba in una
cava sfera di vetro”: quello che ci sembra più nostro, la coscienza di essere un io o un
soggetto, in realtà è qualcosa di estraneo, che non ci appartiene.
Ricostruendo queste due linee fino al presente, ma partendo soprattutto dagli ultimi
decenni dell’Ottocento e giungendo sino a oggi, Bodei ha cercato di elaborare modelli
teorici ed etici per comprendere il nostro presente.
Di temi di estetica, intrecciati all’etica e alla storia, Remo Bodei si era occupato studiando
la poetica di Hölderlin e la Goethezeit (Friedrich Schlegel, Novalis, Goethe) con Hölderlin:
la filosofía y lo trágico (Madrid, Visor, 1990) e Scomposizioni. Forme dell’individuo
moderno (Torino, Einaudi, 1987). A partire da un frammento hegeliano di tre pagine, La
contraddizione sempre crescente…, in Scomposizioni si mostra la tensione, espressa tanto
nel primo, quanto nel secondo Faust, tra una forma di rassegnazione cui gli uomini si
adattano nel subire la vita così come loro è consentita dai rapporti di forza politici e
religiosi e le loro inestinguibili aspirazioni verso una “vita migliore”. Questo volume
rappresenta anche una prova di come si possano affrontare teoricamente i grandi
problemi filosofici senza necessariamente allontanarsi dalla filologia. Diceva Eraclito che
“si scava molta terra per trovare poco oro”.
L’ultimo suo libro ( Paesaggi sublimi. L’uomo di fronte alla natura selvaggia , Milano,
Bompiani, 2008) riprende alcuni temi di estetica, situati tuttavia nel più vasto quadro di
una riflessione sul rapporto tra l’uomo e gli spettacoli naturali. Vi sono, infatti, luoghi che
la maggior parte delle persone ha evitato per millenni e di fronte ai quali ha provato
paura e sgomento: le montagne, gli oceani, le foreste, i vulcani, i deserti. Inospitali, ostili,
desolati, evocano la morte, umiliano con la loro vastità, minacciano con la loro potenza,
ricordano a ognuno la sua passeggera e precaria esistenza nel mondo.
Eppure, dagli inizi del Settecento tali loci horridi cominciano a essere frequentati
intenzionalmente e percepiti come “sublimi”, dotati di una più intensa e coinvolgente
bellezza. Questa radicale inversione del gusto implica anche un nuovo modo di forgiare e
consolidare l’individualità grazie alla sfida lanciata alla grandezza e al predominio della
natura. Da tale confronto scaturisce un inatteso piacere misto a terrore, che, in maniera
ambigua, da un lato rafforza l’idea della superiorità intellettuale e morale dell’uomo
sull’intero universo e, dall’altro, contribuisce a fargli scoprire la voluttà di perdersi nel
tutto.
Fungendo da leva per sollevare gli uomini al di sopra della loro animalità istintuale, il
sublime svolge alcune funzioni specifiche: impedisce la loro resa alla banalità quotidiana,
coltivandoli e rendendoli più propensi a esperienze intellettuali ed emotive profonde;
entra nelle pieghe di una più vasta famiglia di strategie educative elaborate
dall’umanesimo europeo; focalizza l’intermittente e vago presentimento che la vita non si
riduce alla mediocrità o alla sola dimensione politica; riafferma la dignità del singolo di
fronte al sospetto della propria insignificanza e alla dolorosa prospettiva della sua
immancabile scomparsa; ibrida la trascendenza con l’immanenza, facendo calare i
tradizionali attributi di Dio (l’infinità e l’onnipotenza) dall’empireo delle astrazioni
teologiche alla natura percepita dai sensi.
Dopo aver toccato lo zenit, le teorie e la sensazione del sublime conoscono un’eclisse nel
momento in cui pare capovolgersi la bilancia delle forze: quando l’umanità occidentale
crede di aver iniziato a sconfiggere la natura immensa e spaventosa svelandone i segreti
nascosti e soggiogandone le energie ribelli. Il sublime si sposta allora, sempre di più,
dalla natura alla storia e dalla storia alla politica. S’incrina la percezione
dell’incastonamento delle vicissitudini umane nel cosmo e si attenua lo sforzo di svettare
verso l’alto per mezzo della natura. La sostanziale soddisfazione dei più elementari
bisogni materiali, la tendenza a consumare avidamente la vita concessa e quella sognata,
la ricerca di un piacere puro, non commisto alla sofferenza, sembrano in molti fiaccare
questo slancio.
La diffusione del turismo di massa, lo scempio del paesaggio, l’egemonia della tecnica e,
soprattutto, l’inquinamento del pianeta hanno, infatti, reso patetica o scellerata la lotta
contro una natura offesa, ferita e trasformata, almeno nel nostro pianeta, in una Mater
dolorosa. Inoltre, dopo che le prime spedizioni interplanetarie hanno lacerato la placenta
protettiva della biosfera terrestre, lo spazio siderale ha aperto all’umanità nuove frontiere
del sublime. Se e quando lo sguardo verrà in parte distolto dai più assillanti problemi
della Terra, la prospettiva dell’espansione verso altri mondi inaugurerà forse un’epopea
analoga a quella promossa dal ciclo di esplorazioni del globo terracqueo nella prima età
moderna e rivelerà più chiaramente le immensità dello spazio e del tempo.
I progetti di nuove ricerche di Bodei si concentrano nel lungo periodo su tre libri, che
articolano e sviluppano in altre direzioni temi che gli sono familiari: il primo, La vita delle
cose (in programma per l’editore Laterza), ha lo scopo di ricostruire l’alone di significati,
anche affettivi, che si addensano e si stratificano attorno alle cose, all’interno e al di fuori
del loro valore d’uso e di scambio. Al centro si pone la pittura, sia in rapporto a quelle che
si chiamano “nature morte”, sia all’autoritratto in quanto rappresentazione di sé del
soggetto in immagini oggettive.
Il secondo volume, Ira. La passione furente (da pubblicarsi presso Il Mulino), indaga la
natura bifronte di questo affetto: da un lato nobile passione di rivolta contro le offese e le
ingiustizie subite, dall’altro temuta perdita dell’autocontrollo e della libertà di giudizio. Da
un lato, essa si oppone leoninamente ai tentativi altrui (veri o presunti) di sminuirci e di
asservirci impunemente al loro volere, dall’altro, ci espone al pericolo di non essere
presenti a noi stessi, di diventare schiavi dell’opinione altrui o della parte peggiore di noi
stessi. L’ira viene mostrata come un indicatore del grado di vulnerabilità del proprio io e,
talvolta, di eccesso di legittima difesa del suo sistema di valori. In questo senso, ha a che
fare con la salvaguardia dell’identità personale e dell’autostima ad essa collegata.
Il terzo libro, infine, Vite parallele (in programmazione da Feltrinelli) parte dalla
constatazione che ciascuno di noi vive nell’immaginazione altre vite, alimentate dai testi
letterari e dai media. Per loro tramite tenta, da una parte, di porre rimedio alla
limitatezza della propria esistenza individuale (segnata dal luogo e dalla data di nascita,
dal corpo e dalla famiglia, dalla lingua e dalla società), dall’altra, di contrastare il
progressivo restringersi del cono dei possibili nel corso degli anni. Siamo, infatti, costretti
a conquistare la nostra identità attraverso scelte dolorose, potando una dopo l’altra le
successive ramificazioni del nostro essere e cancellando abbozzi di io che avrebbero
potuto consolidarsi. Per sfuggire agli orizzonti ristretti entro cui sarebbe confinata la
nostra vita, per renderla più complessa e robusta, la intrecciamo e la ricombiniamo con
quella di altri, servendoci dell’immaginazione quale antidoto alla povertà di ogni
esperienza singola. Le fiabe, i romanzi, le poesie, i libri di storia, i racconti di viaggio, il
teatro, il cinema, la televisione o internet ci stanano dalla chiusura in noi stessi, attivano
germi che sono in noi in forma latente, spalancano nuovi mondi, inoculano idee, passioni,
sensazioni che altrimenti ci resterebbero precluse.
MASSIMO CACCIARI
Massimo Cacciari è nato a Venezia nel 1944. Si è laureato a Padova in Filosofia nel 1967
discutendo con S. Bettini e D. Formaggio una tesi sulla Critica del giudizio kantiana. Ha
insegnato prima a Padova con Formaggio e poi, dal 1971 a Venezia presso la Facoltà di
Architettura. È ordinario in Estetica dal 1985. Nel 2002 ha fondato con don Verzè la
Facoltà di Filosofia dell’Università “Vita e Salute” di Milano, e ne è stato il primo preside,
chiamando ad insegnarvi personalità come Severino e Reale, Guido Rossi e Panebianco,
Natoli e Roberta De Ponticelli, Varzi e Di Francesco. È stato fondatore e condirettore di
riviste filosofiche e politiche che hanno caratterizzato il dibattito italiano, da “Angelus
Novus” e “Contropiano” negli anni ’60, a “Laboratorio politico” con Tronti, Marramao,
Rodotà e altri, e “Il Centauro”, con B. De Giovanni, negli anni ’80, a “Paradosso”, con
Vitiello, Sini e Givone, negli anni ’90. I suoi studi di filosofia politica gli hanno avvalso il
Premio Hannah Arendt a Brema nel 1999 e la laurea honoris causa dell’Università di
Bucarest in scienze politiche nel 2007. Per i suoi numerosi lavori attinenti l’arte e la
letteratura tedesca l’Accademia di Darmstadt gli ha conferito il Premio per la diffusione
all’estero della cultura tedesca nel 2002. I suoi intensi rapporti col mondo culturale e
filosofico spagnolo sono stati premiati con la prestigiosa medaglia del Circulo de Bellas
Artes di Madrid nel 2005. Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica conferita dal “Pio
Manzù Research Center” nel 2008.
Le sue (esagerate) vicissitudini propriamente politiche non rivestono in questa sede
interesse alcuno.
Considerando retrospettivamente la ricerca di M.C. sembra che alcuni “incontri” molto
precoci, e del tutto “a-accademici” (la sua formazione si è svolta in modo del tutto
“irregolare”, così come la sua “carriera”), ne abbiano segnato la direzione. Basterà
un’occhiata ai primi “titoli” usciti su “Il Volto” (una rivista giovanile pubblicata a Venezia
alla fine degli anni ’50) e, poi, su “Angelus Novus” (che M.C. diresse con C. De Michelis
presso “La Nuova Italia” dal ’64 al ’68): Benjamin, più che Adorno, è la chiave con cui
leggere le avanguardie letterarie e artistiche, da Kafka a Beckett; il Lukács che interessa
è quello de L’anima e le forme e, in parte, di Teoria del romanzo ; la Fenomenologia e
l’Estetica rappresentano le grandi “mappe” costantemente presenti in questi percorsi
lungo i “destini” del contemporaneo. Essi si distaccano totalmente da quelli de La
distruzione della ragione, ma anche dal Löwith di Da Hegel a Nietzsche, che rimane
comunque una lettura “indispensabile” per M.C. in quegli anni. La critica nietzschiana
dell’idealismo classico e la sua “spietata” de-costruzione della “volontà di sistema” sono
assunte come obbligato punto di avvio di ogni autentico “pensiero critico”, forzandone
paradossalmente la “complementarietà” con la marxiana critica dell’ideologia. Un lungo
saggio, Sulla genesi del pensiero negativo (pubblicato nel ’68 su “Contropiano”, la rivista
che M.C. diresse con A. Asor Rosa), costituisce il risultato più interessante di questo
tentativo. Ma già allora si era delineato come decisivo il confronto con Heidegger, che nel
Nietzsche ne aveva “collocato” il pensiero a conclusione della metafisica dell’Occidente.
Ciò costringeva ad una lettura logico-filosofica di questo autore certamente “epochmachend”, sottraendolo ad ogni suggestione “saggistica”. È quanto M.C. tentò con Krisis,
del 1976, dove Nietzsche viene interpretato alla luce della complessiva “crisi dei
fondamenti” che investe la scienza europea tra ’800 e ’900, e questa crisi, a sua volta, in
contrasto netto con ogni “irrazionalismo”, è letta come “energia costituente” nuovi ordini
non più riconducibili alle forme della Ratio dialettica.
Ma in tutti i “suoi autori” M.C. avverte come il lato più “prezioso” sfugga a precisi schemi
storiografici. Proprio ciò che in essi si “compie” indica la svolta successiva. Nel tracciare
un limite è implicita la possibilità del suo superamento. Così nella forma dialettica della
“conciliazione” si manifesta un nuovo, “più alto” modo di vedere gli opposti, e non certo
di decretarne la “scomparsa” (M.C. lo analizza nel saggio che dedica nel 1978 alla
Filosofia del Diritto di Hegel, Critica e crisi del Politico); nell’Oltre-uomo nietzschiano un
movimento ek-statico rispetto alla stessa “formula” della “volontà di potenza”; nel
pensiero critico benjaminiano la vis immaginativa della tradizione teologica mistica
ebraica (un filone di ricerca, questo, che lo porterà allo studio di F. Rosenzweig,
particolarmente centrale in Icone della Legge, del 1985). L’attenzione al “possibile” inaudito dei “suoi autori” M.C. la deve, forse, a quella cura “filologica” che ha appreso nei
suoi anni universitari da maestri come Sergio Bettini, per la storia dell’arte e l’estetica,
Carlo Diano, per la letteratura greca e la filosofia della religione, e da Ladislao Mittner,
per la letteratura tedesca. Ma altrettanto in-audita era, rispetto alla “vulgata” storicistica,
da un lato, e materialistica, dall’altro, la lettura di Marx che M.C. aveva “scoperto” in
Mario Tronti e in Antonio Negri.
Da queste poche note già è evidente l’intreccio (o forse il groviglio) in M.C. della
riflessione filosofica con quella sull’arte e con la prassi politica. Il problema potrebbe
anche risolversi in una battuta: M.C. non riesce a comprendere come si possa intendere la
filosofia greca del V secolo ignorando Fidia o Sofocle, o astrarre il “fare” del pensiero dal
suo essere rivolto alla comprensione delle “forme del fare”. Non si tratta del rapporto tra
“teoria e prassi”, come di due dimensioni originariamente distinte, che dovrebbero poi
“misteriosamente” conciliarsi, ma dell’essenza prassistica dello stesso theorein (così come
non si tratta dell’essere nel tempo dell’uomo, ma dell’essenziale storicità dell’esserci).
Che poi il filosofo si “impegni” o meno direttamente negli “affari” della polis, potrà anche
apparire “occasionale” (anche se non lo era affatto per Platone!), ciò che rimane
essenziale è il carattere costitutivamente politicoagonico della filosofia in quanto
linguaggio della civiltà occidentale. L’unica eccezione all’idea del bios theoretikòs,
concepito come essenzialmente rivolto alla comprensione delle praxeis, è rappresentata,
nella nostra tradizione, dall’epicureismo (“scuola”, quella epicurea, che ha attratto a più
riprese l’attenzione di M.C., in particolare nella sua originalissima versione lucreziana).
Qualsiasi intellettualistica compartimentazione disciplinare diviene, poi, fonte di veri e
propri errori e fraintendimenti quando si affronti il pensiero contemporaneo nella sua
originale complessità, poiché proprio in esso maturano le idee ermeneutiche
fondamentali per cui distinte forme di razionalità concrescono nei diversi linguaggi, e
ciascuna, per essere se stessa, è chiamata a dar ragione del proprio limite e, dunque, a
fare esperienza dell’altra, del diverso da sé. Piuttosto che una “metodologia”, M.C. si è
sforzato, tra anni ’70 e ’80, di “praticare” queste idee, mettendo alla prova la lettura
heideggeriana di Rilke e Trakl, il pensiero, sempre di Heidegger, sull’“abitare” alla luce
delle esperienze architettoniche contemporanee (per i suoi numerosi studi
sull’architettura M.C. ha ottenuto la laurea honoris causa dalla Facoltà di Architettura di
Genova), mostrando il nesso tra musica, pittura, filosofia e scienza in autori come
Kandinsky e Schönberg, Mondrian e Brouwer, Mach e Musil. In tali “pericolose”
Auseinandersetzungen hanno avuto per M.C. un’influenza decisiva le collaborazioni (e
ancor più l’amicizia) con storici come Manfredo Tafuri e artisti come Luigi Nono e Emilio
Vedova.
La “svolta”, se di “svolta” è possibile parlare, matura nella seconda metà degli anni ’80,
anche attraverso nuovi “incontri”. I più importanti hanno luogo nell’approfondire la
interpretazione heideggeriana della storia della metafisica e del suo “compimento”,
interpretazione che rimane alla base della filosofia ermeneutica successiva (M.C. aveva,
tra l’altro, affrontato fin dal loro primo apparire le ricerche di Foucault e Derrida, e in
particolare di quest’ultimo quelle davvero fondamentali contenute in De la
grammatologie). Il confronto con i testi decisivi della tradizione metafisica e teologica
permetteva di sollevare dubbi sempre più radicali nei confronti della sua riducibilità al
paradigma onto-teo-logico e logocentrico. Alla de-costruzione critico-negativa subentrava,
allora, un impegno al ri-ascolto di tale tradizione, non per riattingere “sicure” radici, ma,
all’opposto, per interrogare e “inquietare” con forza quelle che sembrano acquisizioni e
certezze del pensiero contemporaneo. Nello stesso tempo, a M.C. appariva sempre più
evidente l’estrema complessità dell’idealismo classico, la necessità di mettere in rilievo, al
suo interno, o al suo limite, l’opera dello Schelling della “filosofia positiva”, che ben poca
influenza fu in grado di esercitare tra i suoi contemporanei, ma certamente prelude a
motivi essenziali dello stesso Nietzsche e di Heidegger. L’importanza di Schelling, per
M.C., sta nel fatto che la dimensione critico-negativa del pensare, la sua iniziale,
necessaria assenza di presupposto, intende svolgersi, senza “tradirsi”, alla cosa, alla
irriducibile positività dell’essere che l’apparire stesso della cosa manifesta e cela ad un
tempo, secondo quell’interpretazione di a-letheia come disvelatezza che tiene in sé
l’irrappresentabilità e ineffabilità dell’Ultimo, intorno a cui anche Heidegger ha lavorato.
Ma la critica schellinghiana al sistema di Hegel (per la cui comprensione è stato
essenziale a M.C. il rapporto con L. Pareyson) rimandava all’intera tradizione neoplatonica, e l’influenza decisiva di questa sul linguaggio della mistica, non solo cristiana,
alla teologia, in quanto problema del “quaerere deum”, che sta alla base anche di ogni
“teologia credente”, ma non può essere con questa confuso. Una critica davvero radicale
dello “spirito del sistema” non può configurarsi nei termini di un’analitica dell’esserci o di
una filosofia ermeneutica. Essa deve “impugnare” il problema di fondo: quello del
Presupposto, che l’idealismo intende appunto “superare”, senza derubricarlo a
“condizionatezza” storica, a “finitezza”, alla irriducibilità dell’essere parlanti ( ascoltanti e
parlanti) alla posizione del Cogito. Tutte queste modalità del presupporre possono,
infatti, per M.C. essere comprese come nient’altro che momenti della fenomelogia dello
Spirito che si compie come assoluto, perché tutto in sé contiene e perché da nulla si absolve. Il Presupposto che l’idealismo nella sua forma più pura e compiuta non può
superare (e che, non potendo essere superato, ne mette in crisi l’intero sistema) è quello
dell’Inizio, nella sua rigorosa distinzione da Origine, da “ciò” che dà origine, che è “fonte”,
ecc. In Dell’Inizio (1990) il problema è stato affrontato nella sua dimensione metafisica
generale; in Della cosa ultima (2004) M.C. ha cercato di mostrare come, alla luce
dell’idea di Inizio, possa trasformarsi la considerazione dell’itinerario dell’esserci,
intelligenza senziente (Zubiri), logos e pathos, mente e anima, dalla “caverna” del sé,
attraverso le forme del fare, alla libertà come “effusiva sui”, alla singolarità ultima del
“pragma touto” della VII Lettera, alla “cosa” irriducibile al positum dell’idealismo.
Tra queste due opere, e in coerenza con esse, M.C. ha dedicato numerosi studi al
“destino di Europa”. Non avrebbe potuto essere diversamente. Europa non è una
determinazione geografica, ma “il luogo” in cui i problemi e le aporie sopra indicate
avvengono. Europa significa l’avvento della filosofia, della ricerca “libera” del logos sulla
costituzione della physis, della scienza, dell’idealismo in quanto volontà di ridurre la cosa
a positum – e del contraccolpo a tutto ciò, contraccolpo, come si è detto, che continua
lungo tutta la tradizione cosiddetta onto-teo-logica, anche se batte con forza straordinaria
a partire da Nietzsche. E pour cause – poiché Nietzsche, prima ancora che teorico della
volontà di potenza, è malinconico “spettatore” del suo tramonto in Europa. Il significato
geo-politico di questa “crisi” si accompagna e intreccia a quello della “crisi delle scienze
europee” (Husserl). Tale “crisi”, come è evidente, non consiste affatto in un venir meno
della loro “potenza” conoscitiva, e tantomeno della loro capacità di formare con lo
sviluppo tecnologico un sistema unico. Essa vuole indagare, invece, il nesso che le
scienze intrattengono con la “storia” e i “mondi vitali” da cui provengono, le conseguenze
che determina nel loro sistema il venir meno di ogni co-scienza di tale nesso,
l’affermazione sempre più prepotente che la sola forma di razionalità in grado di discutere
sensatamente di ogni manifestazione dell’esserci sia quella “scientifica”. M.C. ha dedicato
un “trittico” a tale interrogazione, in cui filosofia, scienza, teologia e arte ancora una volta
“confondono le loro acque”: Geofilosofia dell’Europa (1994), L’Arcipelago (1997), Europa o
Filosofia (2007, edito solo in spagnolo, Premio Internacional de l’Ensayo a Madrid).
Sempre più nei suoi studi M.C. è andato verificando l’originalità e la forza di quella che è
forse possibile chiamare una “tradizione” del pensiero italiano. È cresciuta in lui negli anni
l’insofferenza nei confronti del vero e proprio pre-giudizio “esterofilo” che sembra
dominare, o dominava fino ad anni recenti, il dibattito filosofico italiano. Nello studiare al
di fuori dei “paradigmi vittoriosi” la storia della metafisica europea, i rapporti tra filosofia
e teologia, i motivi originari dello storicismo contemporaneo, il nesso tra linguaggi e
“ragioni”, alcuni momenti e autori della storia culturale italiana si sono imposti alla sua
attenzione. In particolare una “linea” che connette l’Umanesimo critico, lontano da ogni
retorica “ciceroniana”, a Bruno, a Vico (riletto in chiave esplicitamente anti-idealistica in
un saggio recente Ricorsi vichiani), fino al grande Leopardi (cui ha dedicato alcuni saggi
raccolti in Magis amicus Leopardi, Caserta 2005). Questa “linea” potrebbe condurre, da
un lato, all’agòn di Michelstaedter tra retorica e persuasione, e, dall’altro, allo scetticismo
radicale del Rensi, sfociante nel Mistico (su entrambi questi autori M.C. ha lavorato fin
dagli anni universitari, collaborando anche alla ripresa delle edizioni delle loro opere
presso prestigiosi editori). M.C. vorrebbe raccogliere in un lungo saggio organico tutti i
suoi studi intorno alla “idea” di una tale “linea” (maledetta?), dal Dante “profeta”
all’Alberti del Momus, al Bruno della “asinità”, al drammatico Vico dei “ricorsi”, al Leopardi
dell’oltre-filosofia, fino ai contemporanei già citati. Un simile volume potrebbe intitolarsi
Umanesimo tragico.
Pur ritenendo sostanzialmente concluso con le due opere già citate, Dell’Inizio e Della
cosa ultima, l’impianto fondamentale della propria proposta teoretica, M.C. ritiene che
essa debba più puntualmente rispondere alle numerose obbiezioni che le sono state
rivolte e confrontarsi più approfonditamente con quei “sistemi” di pensiero, nei confronti
dei quali avverte la più profonda concordia discors. Ciò vale in particolare nei confronti
dell’opera, che M.C. ritiene la più importante “impresa” filosofica europea dopo Heidegger
e versus Heidegger, di Emanuele Severino. L’esigenza di ripercorrere criticamente il
cammino intrapreso, di riconsiderare le “stelle fisse” che lo hanno “schiarito”, non
significa affatto voler “chiudere” o “risolvere”, ma, all’opposto, scoprire l’ingens sylva del
dimenticato o del soltanto intravisto – e da esso di nuovo svolgere l’aporia.
GIUSEPPE CACCIATORE
Giuseppe Cacciatore è nato a Salerno nel 1945. Appartiene ad una famiglia di antica
tradizione socialista: suo zio Luigi è stato segretario nazionale della CGIL e ministro nei
governi di solidarietà nazionale; suo padre Francesco è stato deputato socialista dal 1953
al 1972. Dopo aver conseguito la licenza liceale, nella sua città, presso il liceo “T. Tasso”,
si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma. Qui ebbe come suoi
professori e maestri: Gaetano Calabrò, Guido Calogero, Tullio De Mauro, Gabriele
Giannantoni, Augusto Guerra, Franco Lombardi, Francesco Valentini. Nel 1968 si laureò
col massimo dei voti e la menzione speciale della commissione con una tesi (assegnatagli
da Calogero, ma discussa con Giannantoni e Calabrò) sul concetto di Weltanschauung in
Dilthey. Subito dopo la laurea avvenne l’incontro, per Cacciatore decisivo, con colui che
sarebbe diventato il suo maestro, Fulvio Tessitore, allora professore di Storia delle
dottrine politiche e di Storia della filosofia presso l’Università di Salerno, del quale
divenne assistente ordinario a partire dal 1970. Nel 1969 vinse una borsa di studio presso
l’“Istituto Italiano di Studi Storici” B. Croce e qui ebbe la fortuna di seguire maestri
straordinari come Pugliese Caratelli, Sestan, Bacchelli, Franchini, Duby. Nel frattempo
cominciò a frequentare a Napoli i seminari settimanali di filosofia morale di Pietro Piovani,
l’altro grande maestro che, insieme con Tessitore, lo ha maggiormente influenzato nel
suo autonomo percorso di filosofia critico-storicistica. Dopo essere stato dal 1972 al 1980
professore incaricato presso l’Università di Salerno, a partire dal 1981, quale vincitore a
cattedra di Storia della Filosofia, è chiamato dalla facoltà di Lettere dell’Università di
Napoli “Federico II” dove tuttora insegna. È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia
“A. Aliotta”. Ha trascorso periodi di studio all’estero, specialmente in Germania dove ha
frequentato agli inizi degli anni ’80 il seminario di “Geistesgeschichte des Humanismus
und der Renaissance” diretto da Stephan Otto. È stato visiting professor presso numerose
università straniere tra cui München, Halle, Berlin FU, Messico UNAM, UCV Caracas,
Siviglia. È socio delle accademie napoletane (“Pontaniana” e “Lettere Scienze e Arti”) e
dal 2007 è socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei. Cacciatore è autore di una
bibliografia che conta oltre 900 titoli, tra cui 16 monografie e 14 curatele, oltre alle
numerose traduzioni ed edizioni di testi.
I principali nuclei tematici intorno ai quali sono venute sviluppandosi la ricerca e la
riflessione di Giuseppe Cacciatore possono così sintetizzarsi: a) saggi e studi sullo
storicismo tedesco contemporaneo e, in generale, sulla filosofia tedesca ottonovecentesca: con libri e articoli su Dilthey, Humboldt, Droysen, Troeltsch, Cassirer,
Rickert, Riedel; b) ricerche sulla filosofia italiana moderna e contemporanea, con
riferimento particolare al suo profilo “civile” ed etico-politico, con libri e saggi su Bruno,
Vico, sull’illuminismo meridionale, su Cuoco, De Meis, Imbriani, Croce, sull’esistenzialismo
italiano, su Abbagnano e su Pietro Piovani; c) indagini sul marxismo teorico
contemporaneo, con saggi e volumi su Labriola, Ernst Bloch, Lukács, Gramsci, sulla
sinistra socialista italiana; d) ricerche di teoria e storia della storiografia, incentrate sul
nesso tra storicismo filosofico e storicismo degli storici, con volumi e saggi su Droysen,
Lamprecht, su Villari e la storiografia positivistica; e) analisi e interventi sui nessi, storici
e sistematici, tra alcune etiche contemporanee (la rinascita della filosofia pratica
innanzitutto) e la tradizione dello storicismo, con saggi e volumi ancora su Vico e su
Croce; f) ricerche e indagini su alcuni momenti della cultura filosofica ispanica e ispanoamericana con saggi su Ortega, Nicol, Zambrano, Zea, sulla filosofia dei diritti umani.
La ricerca filosofica sullo storicismo, la sua teoria e la sua storia, ha, fin dall’inizio,
caratterizzato l’itinerario intellettuale di Cacciatore. La sua prima monografia, in due
tomi, dedicata a Dilthey (Scienza e filosofia in Dilthey, Guida, Napoli, 1976) non è solo
una rigorosa ricostruzione storico-filologica della ricerca speculativa diltheyana (seguita
attraverso il rapporto dialettico con le filosofie del suo tempo e il tentativo di ridefinizione
metodologica ed epistemologica delle scienze umane), ma anche la delineazione di una
prospettiva teorica che intende declinare in chiave etica e neo-umanistica la condizione
storica come dato fondante del mondo umano, tanto nella sua dimensione esistenziale
quanto in quella etico-politica.
La costante aderenza ai testi, il richiamo e la individuazione delle fonti (dalla deutsche
Bewegung di Novalis, Hölderlin e Goethe, alla scuola storica di Droysen, Savigny e Ranke,
dal confronto con Comte e Mill alla definizione della psicologia come scienza dello spirito,
dalla discussione con il neo-criticismo di Windelband e Rickert fino alla polemica con
Husserl), l’approfondimento del contesto culturale e politico tedesco, sono tutti elementi
finalizzati ad evitare la tendenza di “collocazione” ad ogni costo dell’opera di Dilthey,
spesso fraintesa e contraddittoriamente ricondotta ora al soggettivismo della
Lebensphilosophie, ora al sociologismo tipologico. Buona parte dei lavori successivi
dedicati a Dilthey (alcuni dei quali confluiti nel volume del 1985, Vita e forme della
scienza storica. Saggi sulla storiografia di Dilthey, Introduzione di Fulvio Tessitore,
Morano, Napoli), ma anche un ampio saggio su Etica storia e futuro in Ernst Troeltsch
(1978) e il lungo saggio introduttivo al volume del 1985 significativamente intitolato
Ermeneutica della vita e forme della scienza storica, oltre a numerosi interventi e articoli
su Humboldt, Droysen e altri autori della costellazione storicistica, apparsi tra il 1980 e il
1990, confluiscono tutti nell’alveo di una direzione interpretativa che individua negli autori
e negli orientamenti filosofici indagati la intima connessione tra l’impianto “antropologico”
fondamentale (il Leben e le sue oggettivazioni mondane), la teoria della conoscenza e le
forme del sapere storico. Accanto a questa linea di ricerca se ne profila un’altra che
diviene anch’essa oggetto di riflessioni teoriche e sondaggi storiografici (intensificatisi a
partire dagli anni ’90) aventi al centro l’approfondimento di una teoria storicisticoermeneutica della storia e la rivendicazione, originariamente diltheyana, della funzione
pratica della filosofia. Un problema questo che Cacciatore affronta nella introduzione
all’edizione da egli stesso curata di un libro di Manfred Riedel su L’Universalità della
scienza europea e il Primato della filosofia (ESI, Napoli, 1982).
Un momento ulteriore di approfondimento teorico e storiografico della prospettiva
storicistica di Cacciatore è costituito dal libro Storicismo problematico e metodo critico
(Guida, Napoli, 1993). Al centro di esso non solo ritornano gli autori del Historismus
(Humboldt, Droysen e Dilthey), ma il confronto si apre all’indietro verso uno dei momenti,
per così dire costitutivi, della riflessione moderna sulla storia, Vico, e in avanti con alcune
delle figure-chiave della filosofia novecentesca: Husserl, Rickert, Ortega, Cassirer (a
quest’ultimo Cacciatore ha dedicato un piccolo libro: Cassirer interprete di Kant e altri
saggi, Siciliano Editore, Messina, 2005).
Non si tratta soltanto di una pur attenta rilettura dei testi, ma di un consapevole
programma di ridefinizione delle categorie fondamentali dello storicismo: empiria,
Weltanschauung, Erlebnis, individualità, differenza. L’asse portante su cui ora si fonda la
riflessione di Cacciatore è il tentativo di giustificare e definire la dimensione critica dello
storicismo (in antitesi, dunque, alle sue versioni assolute, materialistiche, idealistiche e
sociologistiche), a partire da un ripensamento del rapporto tra logica e storia, con un
ritorno esplicito al Kant della Critica del giudizio e degli scritti sulla storia, posto all’inizio
di quella “svolta” antropologica” e “antimetafisica” che verrà inaugurata da Humboldt e
teoreticamente consolidata da Dilthey. Alla luce di queste acquisizioni (che vogliono
essere una esplicita integrazione del paradigma dello storicismo “critico-problematico” di
Pietro Piovani e Fulvio Tessitore), la filosofia storicistica si definisce sempre più non come
astratto postulato sulla vita come storia e nient’altro che storia, e neanche come variante
delle filosofie finalistiche e unilineari della storia, bensì come tentativo di radicare il
pensiero nella imprescindibile dimensione etico-pratica e politica della vita. In questo
senso, si può sostenere che, nella storia del pensiero contemporaneo, lo storicismo
critico-problematico ha rappresentato una vera e propria rivoluzione concettuale ed
epistemica che ha segnato e continua a segnare il frastagliato percorso della modernità.
Nel corso degli anni ’90, lo storicismo di Cacciatore viene sempre più caratterizzandosi per
una sua dimensione fortemente eticopratica. Ne è testimonianza il volume L’etica dello
storicismo (Milella, Lecce, 2000). Utilizzando le coordinate teoriche storicistiche e
ricostruendo i luoghi genetici di una vera e propria “etica dello storicismo” (a partire dalla
originaria prospettiva vichiana dei rapporti tra filosofia della mente e filosofia del corpo
sensibile, per arrivare prima alla fondazione diltheyana di una etica sociale radicata sulla
morale dell’individualità e poi ad una concezione storicistica dell’individualità che
trasfigura la filosofia stessa dei valori), si dispiega una esplicita intenzionalità teorica
volta a verificare la plausibilità di una etica dello storicismo nell’inedito scenario della
globalizzazione e della trasfigurazione delle ideologie. I caratteri ancora in parte
inesplorati della società contemporanea non devono costringere ad una “messa in
congedo della filosofia”. Quando essa riesca ad essere attitudine permanente alla critica
e alla interpretazione plurale dei mondi vitali e individuali, allora i suoi strumenti
conoscitivi possono ancora avere senso nella costruzione dell’agire etico-politico. Perciò la
rivalutazione di un’etica dello storicismo può rappresentare uno dei possibili percorsi per
attivare modi e contenuti del ripensamento di categorie e concetti a lungo considerati
immodificabili: la natura e la stessa umanità, la nascita e la morte, la malattia e la
salute, il rapporto tra mente e corpo, la relazione tra sessi e generi. È un lungo tragitto di
ricerca e di pensiero che ha condotto Cacciatore, in coerenza con questa visione della
filosofia e dell’etica storicistiche, a dar vita, con altri filosofi, a uno dei primi Master
interuniversitari italiani di Consulenza filosofica, anche come tentativo di ridisegnare il
nesso tra filosofia pratica e saperi umani (cf. G. Cacciatore-V.Gessa Kurotschka, Saperi
umani e consulenza filosofica, Meltemi, Roma, 2007).
È venuto così profilandosi sempre più un disegno complessivo di una filosofia dello
storicismo critico, che si è via via meglio precisato lungo il versante della ricerca sulla
storia e sulla teoria dello storicismo (da Vico all’Historismus, dalla Kulturgeschichte ai
nuclei principali dello storicismo italiano novecentesco; cf. il volume curato da Cacciatore
e altri: Lo storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive , Guerini, Milano, 1997) e
che si è sempre accompagnato alla esigenza teorica di mettere a confronto le categorie
dello storicismo critico con alcuni esiti della filosofia pratica, delle etiche contemporanee
applicate ai diritti fondamentali di vita e cittadinanza, delle ricerche sull’identità e sulla
filosofia dell’interculturalità e dei loro modelli storici e narrativi.
I più recenti sviluppi di questa linea teorica ed interpretativa che continua a basarsi su un
generale impianto filosofico costituito dalla connessione tra l’individualità del Sé (nelle
sue molteplici forme, psichiche, sensibili, biologiche, estetiche, conoscitive) e il mondo
storico e culturale della vita, hanno indotto Cacciatore ad approfondire un modello di
filosofia della storicità come narrazione della storia pensata, della storia vissuta e della
storia narrata (cf. Cacciatore, La filosofia dello storicismo come narrazione della storia
pensata e della storia vissuta, in Cacciatore-Giugliano Storicismo e storicismi, Bruno
Mondadori, Milano, 2007). Pensata, a partire non più dai modelli della tradizione “forte”
dello storicismo idealista o marxista, bensì dalla rilevanza delle storie singolari e dalla
nuova centralità metodica e teorica assunta dai dati storico-culturali (dando al termine
cultura l’ampia accezione della complessità degli elementi della vita umana e delle
relazioni interculturali: dalla corporeità all’astrazione, dalle strutture elementari
biologiche e psicologiche alla poesia e alle scienze storico-sociali). Vissuta, a partire da
una ontologia (nel senso originario di una modalità di essere) dell’individualità come
fondamento dell’umano nella unitarietà e articolazione delle sue manifestazioni. Narrata,
a partire dal necessario affidarsi al dialogo plurale e interculturale tra reciproche vite e
reciproche storie.
Si è dato ampio spazio al principale nucleo teorico e storico della filosofia di Cacciatore.
Restano però altri segmenti d’indagine e di riflessione che hanno anch’essi avuto uno
spazio di rilievo nella sua autobiografia intellettuale. Uno di essi riguarda alcuni profili di
storia e teoria della storiografia. Gli studi e i saggi dedicati a storici e filologi sono stati
ispirati da quella che non è solo una definizione ad effetto – lo storicismo degli storici –
ma dal convincimento che la genesi della coscienza storica sta alle origini stesse del
moderno e che riscoprirla e ripensarla nelle pagine di grandi storici può contribuire
filosoficamente al recupero necessario di una memoria storica oggi più che mai esposta
all’indifferentismo etico e ideale che si nasconde tanto nel dilagare di improvvisati
revisionismi quanto nel diffondersi di apologie della fine della storia e delle ideologie. In
questo contesto problematico si inseriscono i saggi che Cacciatore ha dedicato a storici e
filologi come Droysen, Boechk, Lamprecht (del quale Cacciatore ha curato anche
importanti testi teorici), Villari, alla storiografia positivistica di metà Ottocento, alle teorie
e ai metodi della ricerca storica nella seconda metà del Novecento. La maggior parte di
questi saggi sono raccolti in un volume (La lancia di Odino. Teorie e metodi della scienza
storica tra Ottocento e Novecento, prefazione di G. Galasso, Guerini, Milano, 1994) che
già dal titolo enuncia la sua intenzionalità teoretica. La storia è come la lancia del dio
della mitologia nordica: la malattia e le grandi crisi storiche che essa produce possono
essere guarite dalla sua stessa lama rigeneratrice.
A questo medesimo filone, per così dire, di storia civile ed eticopolitica (oltre che di teoria
filosofica della storia) possono esser ricondotti anche gli studi e le indagini che, in
numerosi saggi, Cacciatore ha dedicato alla filosofia civile italiana. In modo particolare si
segnalano i volumi e i contributi sui due altri grandi autori (oltre Dilthey) di Cacciatore:
Vico e Croce. Al primo è dedicata una nutrita serie di saggi pubblicati, in massima parte,
nel “Bollettino del Centro di Studi vichiani” del CNR di Napoli, e in un volume apparso in
Germania: Metaphysik, Poesie und Geschichte. Über die Philosophie von Giambattista
Vico, Akademie Verlag, Berlin, 2002. In esso, come negli altri saggi, si insiste nel
privilegiare una curvatura “pratica” della filosofia vichiana, sottratta finalmente alle
riduttive letture o solo sociologistico-prassistiche o solo metafisico-religiose.
Anche su Croce, nel corso degli anni, Cacciatore è tornato più volte come mostra la
raccolta di saggi su Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di B. Croce (Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2005): ed anche in tal caso si è seguita una traccia ermeneutica
incentrata sugli aspetti non “sistematici” dell’opera crociana, ma su quelli etici e praticopolitici (con pagine sul concetto di vita, sull’idea di Europa, sull’autobiografia, sulla
filosofia pratica). Un ulteriore segmento della ricerca sulla filosofia italiana si può trovare
nel libro Giordano Bruno e noi. Momenti della sua fortuna tra ’700 e ’900, prefazione di M.
Ciliberto, Edizioni Marte, Salerno, 2003. L’insieme dei saggi dedicati alla filosofia italiana
si può inquadrare in un disegno interpretativo imperniato sul convincimento che essa si è
quasi sempre ispirata a un paradigma etico-civile come suo tratto predominante.
Cosicché la stessa genesi e la modalità evolutiva della nazione italiana risiedono proprio
nelle premesse e negli sviluppi di un dibattito innanzitutto culturale e politico-filosofico
che riconduce problemi storiografici (l’inizio di una vera e propria storia unitaria italiana,
la scelta tra storia politica dello Stato e storia socio-culturale della nazione, il peso delle
eredità rinascimentali e illuministiche ma anche controriformistiche) a questioni di
carattere teorico, come il rapporto tra storia e filosofia o il nesso tra giudizio morale e
giudizio storico, ma anche a profili di analisi etico-politica ed economico-sociale (cf.
Cacciatore, Genesi crisi e trasformazioni della filosofia civile italiana, in CacciatoreMartirano, Filosofia civile italiana, Città del Sole, Napoli, 2008).
Si può dire che a questo stesso profilo innanzitutto etico-politico facciano riferimento i
non pochi contributi offerti da Cacciatore all’analisi di alcuni momenti chiave del
marxismo teorico occidentale. Ciò appare del tutto evidente nel libro su Ragione e
speranza nel marxismo. L’eredità di Ernst Bloch (Dedalo, Bari, 1979) in cui la
ricostruzione della parabola speculativa del filosofo tedesco è finalizzata alla
individuazione di una teoria-prassi, ragione-speranza, che unisca oggettività della critica e
soggettività dell’opera trasformatrice dell’uomo. Allo stesso ambito sono da ricondurre i
saggi dedicati a Labriola (ora raccolti nel volume Antonio Labriola in un altro secolo.
Saggi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006) e a Gramsci, nei quali prevale l’attenzione
verso una declinazione critica, etica e antideterministica del materialismo storico.
In quest’ambito generalmente etico-politico possono rientrare i saggi e i libri di Cacciatore
dedicati a figure eminenti del socialismo meridionale del secondo dopoguerra (cf. il
volume La sinistra socialista nel dopoguerra. Meridionalismo e politica unitaria in Luigi
Cacciatore, prefazione di F. De Martino, Dedalo, Bari, 1979).
Le prospettive future dell’indagine filosofica di Cacciatore, pur non distaccandosi del tutto
dai nuclei tematici affrontati nel passato, convergono ora su due direttrici fondamentali.
La prima di esse riguarda la filosofia dell’interculturalità. Già in alcuni sondaggi
propedeutici (saggi sull’etica dell’interculturalità e sui nessi tra immaginazione, identità e
interculturalità, apparsi tra il 2005 e il 2007 su “Iride”, “Reset” e “Post-filosofie”) a un
prossimo volume sul tema, ma anche in altri contributi dedicati ad alcuni filosofi dell’area
ispanica e ispanoamericana (María Zambrano, Leopoldo Zea, Eduardo Nicol), si è
delineata una ipotesi di studio che intende porre in termini scientifici e metodici la grande
problematica dell’interculturalità, guardandola da una visuale che mette in primo piano
non tanto e non soltanto le pur importanti prospettive dell’analisi comparata delle culture,
delle filosofie, dei modelli antropologici, quanto, piuttosto, le dimensioni etiche e politiche
(e, ancora prima, filosofico-concettuali) che caratterizzano oggi le categorie di
multiculturalismo, di cittadinanza democratica, di intersoggettività e, in primo luogo, di
relazione e universalismo. La seconda vuole affrontare filosoficamente il tema
dell’immaginazione – e dunque non tralasciando di ritornare a Vico e alla sua
straordinaria “scoperta” filosofica e, cioè, che l’incipit del pensare e dell’agire non è
individuabile nell’onto-gnoseologia del cogito, ma nella raffigurazione genealogica di
sapere affidata alla fantasia e all’immaginazione. Di qui il convincimento che
l’immaginazione (nel senso delle possibilità creative di nuovo pensiero e di nuova realtà)
può giocare un ruolo importante non solo sul piano della ricerca di nuovi raccordi
conoscitivi e nuove connessioni logiche tra astratto e concreto, tra ricerca della verità e
realtà, tra la sfera del razionale/mentale e quella del corporeo/sensibile, ma anche e
soprattutto sul piano della comprensione e della trasformabilità stessa dei mondi reali
dell’etica, della politica e della storia.
ETTORE CASARI
Ettore Casari è nato a Smarano (Trento) il 13 agosto 1933. Compiuti gli studi primari e
secondari a Trento, si è iscritto (1951) alla Facoltà di lettere e filosofia (indirizzo: Lettere
classiche) dell’Università di Pavia. Entrato in contatto con la logica attraverso un corso di
Filosofia morale tenuto da Giulio Preti e poi con la filosofia della matematica attraverso
un corso di Filosofia della scienza tenuto da Ludovico Geymonat, si è laureato (1955) con
una tesi sulla logica megarico-stoica e si è poi trasferito all’Università di Münster dove ha
studiato: logica, con Hans Hermes, Wilhelm Ackermann e Gisbert Hasenjaeger;
matematica, soprattutto con Heinrich Behnke; linguistica, con Peter Hartmann. Libero
docente di Filosofia della scienza dal 1961, è stato incaricato di questa disciplina presso la
Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Pavia (1961/62-1965/66) e di Logica presso
quella di Milano (1962/63-1965/66). Nel semestre estivo 1966 è stato professore
visitatore presso l’Istituto di logica matematica e indagine sui fondamenti dell’Università
di Münster. Chiamato (1966/67) a coprire la cattedra di Filosofia della scienza presso la
Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Cagliari, vi ha tenuto anche, per incarico,
l’insegnamento di Filosofia teoretica. Dal 1967/68 al 1997/98 ha coperto la cattedra di
Filosofia della scienza presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Firenze e dal
1998/99 quella di Logica presso la Classe di lettere della Scuola normale superiore di
Pisa. Dal 2007 è professore emerito di tale Scuola.
Una parte importante del proprio impegno Casari l’ha destinata, in particolare nei primi
anni, alla reintroduzione della logica in Italia, dov’era da tempo pressoché scomparsa.
Scrisse così, oltre a vari articoli e voci enciclopediche, i libri: Logica dei predicati (1957),
Computabilità e ricorsività (1959) e Lineamenti di logica matematica (1959), volume
quest’ultimo che nei decenni successivi ebbe sei ristampe. All’elaborazione ed esposizione
sistematica del sapere istituzionale, sia teorico che storico, ha dedicato comunque anche
in seguito grande impegno pubblicando, fra l’altro, i volumi: La filosofia della matematica
del ’900 (1973); Dalla logica alla metalogica. Scritti fondamentali di logica matematica
(1979); La logica del Novecento (1981); Logica (1996); Introduzione alla logica (1997);
La matematica della verità. Strumenti matematici della semantica logica (2006).
Per quanto riguarda più propriamente la sua attività di ricerca, un ruolo importante l’ha
avuto fin dall’inizio l’esplorazione del problema dei ‘molti come uno’. Partito da
un’attenzione prevalentemente logico-matematica verso la teoria degli insiemi passò poi
ad esaminarla, nella monografia Questioni di filosofia della matematica (1964), come
possibile risposta alla domanda circa la natura degli enti astratti confrontandola, in
particolare, con le due principali alternative concettualistiche allora circolanti: il
predicativismo e l’intuizionismo. In quel contesto entrò in contatto con la sistemazione
della teoria degli insiemi offerta da Paul Bernays e fondata sulla rigorosa distinzione fra il
concetto logico di classe, intesa come estensione di una proprietà, e il concetto
matematico di insieme, inteso come particolare oggetto capace di intrattenere con altri
oggetti del suo stesso genere una certa relazione binaria. Il collegamento fra i due
concetti era dato dalla relazione di rappresentanza: un insieme rappresentava una classe
se e solo se intratteneva quella tale relazione binaria con tutti e soli gli oggetti che
appartenevano a quella classe. Per chiarire: da un lato vi è la classe degli oggetti che
hanno la proprietà di essere rossi, dall’altra un oggetto tale che un qualsiasi oggetto è
rosso se e solo se si trova con esso in quella tale relazione. Il fatto che, come aveva
mostrato Gödel, la sistemazione assiomatica di Bernays poteva venir semplificata
identificando gli insiemi con certe classi e, di fatto, con quelle classi che erano
rappresentabili nel senso di Bernays, se da una lato aveva l’indiscutibile merito di rendere
più agevole il concreto lavoro matematico entro e intorno alla teoria degli insiemi, ne
oscurava però la fondamentale valenza epistemologica della distinzione, convinto della
quale, Casari indagò dapprima (1969) la possibilità di una teoria degli ‘universali’
largamente indipendente da ipotesi ‘platonistiche’, giungendo fra l’altro alla conclusione
di poter riguardare la teoria degli insiemi come quella teoria che tenta di massimizzare la
rappresentabilità dei propri universali. Proseguendo, intravide la possibilità di
generalizzare le idee bernaysiane così da poter inquadrare in modo astratto le varie
risposte emerse sinora nella tradizione al problema dei ‘molti come uno’. A tal fine
esaminò le condizioni sotto le quali si può ragionevolmente considerare che un oggetto
ontologicamente distinto da una classe possa venir riguardato come ‘oggettualizzazione’
di quella classe, lasciando aperta la questione se una tale oggettualizzazione vada intesa
come ‘reificazione’ o invece solo come ‘rappresentazione’. Constatato che ogni approccio
alla questione, da Platone in avanti, aveva dato per pacifico che in un oggetto
‘oggettualizzante’ una classe debbano essere in qualche modo riconoscibili, come sue
‘componenti’, tutti i membri di quella classe, riconobbe che le diverse concezioni si erano
costituite come risposte alla questione: solo i membri di quella classe o anche altre cose
e, in tal caso, quali altre? La prima opzione possibile, e cioè che un oggetto oggettualizza
una classe se e solo se le sue componenti sono tutti e soli i membri di quella classe,
caratterizza la concezione ‘insiemistica’, la quale, letta in termini di reificazione,
costituisce la base comune alle varie forme assunte nella tradizione dal realismo logico e,
in particolare, da quella oggi solitamente chiamata ‘platonismo matematico’. La
terminologia oggi corrente in questa concezione parla dell’oggetto oggettualizzante come
dell’‘insieme’, delle sue componenti come dei suoi ‘elementi’ e della relazione che le
connette come dell’‘appartenenza’. La difficoltà messa in luce da Russell rielaborando il
teorema di Cantor secondo cui non esiste alcuna corrispondenza biunivoca fra i membri e
le sottoclassi di una classe, ha però mostrato che tale concezione deve rinunciare all’idea
che ogni classe possa venire oggettualizzata. La teoria assiomatica degli insiemi appare
così appunto come il tentativo di ampliare quanto più possibile il sistema delle classi
oggettualizzabili. Caratteristica comune a ognuna delle forme nelle quali si è presentata
la seconda opzione è stata l’accettazione del principio che fra le ‘altre’ componenti
dell’oggettualizzante vi siano comunque anche le componenti dei membri della classe e le
componenti di queste componenti e così via, come pure che esso sia il più piccolo oggetto
fra quelli aventi questa proprietà. La terminologia prevalente in tali concezioni – che
Casari, seguendo Bolzano, chiamò ‘sommative’ – parla dell’oggettualizzante come del
‘tutto’, delle sue componenti come delle ‘parti’ e della relazione che le connette come
dell’‘inclusione’. Fra le specializzazioni di questa opzione, spesso legate a impostazioni
nominalistiche, due appaiono rivestire particolare significato, quella ‘booleana’ e quella
‘mereologica’, dovuta a Stanisfaw Lesniewski, le quali, pur se caratterizzate attraverso
concettualizzazioni assai diverse, finiscono, in ultima istanza, per differire soltanto per
quanto riguarda l’oggettualizzabilità della classe vuota. Semplificando: per la prima il
nulla è un oggetto; per la seconda è solo un concetto (o un termine).
Procedendo nell’analisi, finì per interessarsi al problema inverso, quello dell’‘uno come
molti’, ossia al problema della struttura degli oggetti. Dopo un approfondito studio dei
sistemi logici di Lesniewski, i risultati del quale espose in corsi e seminari, ma pubblicò
solo molto più tardi (2001), fu in particolare portato a esaminare la teoria del tutto e
delle sue parti delineata da Husserl nella sua Terza ricerca logica e a tentarne, secondo
l’esplicito auspicio del suo autore, uno sviluppo rigorosamente matematico. Pur
consapevole che nella prospettiva husserliana i rapporti di dipendenza erano
verosimilmente in primo luogo rapporti fra specie e non fra individui, preferì partire da
questi ultimi e inoltre, per quanto riguarda il livello su cui trattare le ‘necessitazioni’ di
questi rapporti, a quello logico-modale, diffuso nella letteratura precedente
sull’argomento, preferì quello direttamente ontologico, scoprendo poi che entrambe
queste scelte le stava facendo contemporaneamente Kit Fine. Fu così indotto a introdurre
delle strutture, che chiamò ‘algebre di difetto’, le quali differivano dalle usuali algebre
topologiche soltanto per il fatto che il reticolo di base non era supposto booleano ma solo
distributivo (anzi, per la verità, ancora un po’ meno). Tale non-booleanità del reticolo gli
consentì, fra l’altro, di dar conto del fatto che per Husserl un oggetto avente parti non ha
necessariamente due parti disgiunte. Identificando il ‘bisogno di integrazione’
[Ergänzungsbedürfnis] con l’operatore di difetto dell’algebra riuscì a mettere in luce la
straordinaria varietà (ne identificò ben otto) delle ‘relazioni di dipendenza’ considerate da
Husserl e a dar conto di un gran numero delle sue concettualizzazioni e asserzioni (fra cui
i famosi Sätze). Dopo la pubblicazione (2000) di questa ricostruzione, ritornò (2007)
sull’argomento illustrando applicazioni e sviluppi di questa problematica nell’intera
riflessione husserliana, in particolare nella Quarta ricerca logica e in Esperienza e giudizio.
Un problema che veniva da lontano, ma che a partire dalla ‘rivoluzione assiomatica’
maturata nella geometria e nell’algebra ottocentesche aveva conosciuto un particolare
rilievo, era quello della identificazione, per un dato teorema di una teoria deduttiva, delle
postulazioni davvero indispensabili alla sua dimostrazione. Casari intravide negli studi
allora diffusi delle cosiddette ‘logiche intermedie’, ossia quelle logiche la cui forza si
colloca fra quella massima della ‘logica classica’ e quella della ‘logica intuizionistica’, la
possibilità di un ulteriore passo avanti lungo quella via: coinvolgere nell’esame delle
postulazioni indispensabili per la dimostrabilità di un teorema di una certa teoria anche
l’apparato logico. Stante il fatto che le indagini correnti sulle logiche intermedie
privilegiavano il livello logico proposizionale, si impegnò soprattutto sul più complesso
livello predicativo, pubblicando fra l’altro (1983), in collaborazione con Pierluigi Minari, un
ampio saggio sulle logiche predicative positive.
In quel torno di tempo cominciò però anche a interessarsi della teoria della
comparazione. Punto di partenza di queste ricerche fu la constatazione che se ‘verità
logica’ doveva significare proposizione la cui verità è indipendente sia dal riferimento dei
suoi termini sia dallo stato del mondo, allora non si riusciva a vedere perché non si
dovessero considerare verità logiche proposizioni come ‘Se Aldo è più buono di Bruno e
Bruno è più buono di Carlo, allora Aldo è più buono di Carlo’ o come ‘Se Aldo è altrettanto
buono quanto Bruno e Bruno non è buono, allora Aldo non è buono’. Il primo tentativo di
dar conto di questo nuovo tipo di verità logiche si concretizzò (1979) nell’introduzione di
operazioni che alla proprietà ‘essere A’ associavano relazioni binarie come ‘essere più A
di’, ‘essere tanto A quanto’, ecc. e alla determinazione per ciascuna di esse delle naturali
condizioni caratteristiche. La lettura, suggeritagli da Carlo Augusto Viano, dei capitoli dei
Topici in cui Aristotele sviluppa la teoria ‘del più, del meno e dell’uguale’, se da un lato lo
confortò nel ritrovare addirittura in Aristotele la conferma della possibilità di una
trattazione formale della comparazione, gli rivelò, dall’altro, come questa problematica
fosse assai più ricca di quanto avesse originariamente pensato. V’era intanto il fatto che
Aristotele non si era limitato a considerare le relazioni di cui sopra, che chiamava ‘quelle
in cui uno è detto di due’, ma aveva esteso la sua teorizzazione anche a ‘quelle in cui due
sono detti di uno’ (Aldo è più (meno, egualmente) buono che cortese) e quelle in cui ‘due
sono detti di due’ (Aldo è più (meno, egualmente) buono di quanto Bruno sia cortese).
Modificando adeguatamente la precedente formalizzazione, riuscì a proporre (1984) una
sistemazione di questi momenti della teoria aristotelica, la cui autentica valenza logica,
pure riconosciuta per secoli, era allora invece misconosciuta. Ma nei Topici c’era molto di
più; in particolare l’accettazione di un argomento del tipo: Se a è meglio di e e anche b è
meglio di e, ma a è più meglio di e di quanto b sia meglio di e, allora a è meglio di b.
Aristotele accettava cioè la comparabilità di due comparazioni (a è meglio di e e b è
meglio di e). Il riconoscimento sia dell’indiscutibile stringenza di tale argomento sia della
sua non ricostruibilità entro il quadro sin lì elaborato lo portò a modificare radicalmente la
prospettiva originaria e a ricercare nel concetto stesso di verità il fondamento logico della
comparazione: la verità e, simmetricamente, la falsità hanno gradi; la proposizione Aldo è
più buono di Bruno è vera solo in quanto la proposizione Aldo è buono è ‘più vera’ della
proposizione Bruno è buono, ossia il grado di verità di Aldo è buono è maggiore di quello
d i Bruno è buono. Da notare che un’idea vicina circola anche in Aristotele, Met.,Γ
5,1008b,33-36: «Noi non diremo che sbagliano equalmente... chi pensa che quattro cose
sono cinque e chi pensa che esse sono mille. Ma se non sbagliano egualmente, è chiaro
che uno sbaglia di meno e quindi dice di più il vero». Lo sviluppo di quest’idea lo portò a
introdurre certe strutture algebriche che chiamò reticoli bifrontali mediante le quali riuscì
(1987) a dare assetto sintattico e semantico rigorosi a vari sistemi di ‘logica comparativa’
caratterizzati da potenza crescente. In tutti questi sistemi, i gradi di verità erano però
pensati come sempre confrontabili: due proposizioni cioè erano comunque o egualmente
vere (false) o l’una era più vera (falsa) dell’altra. L’abbandono, su suggerimento di
Daniele Mundici, di questa restrizione sostanzialmente arbitraria lo portò (1988)
all’introduzione, come sistemi dei gradi di verità, di nuove strutture, che chiamò pregruppi
reticolati, e alla costruzione su di esse di varie logiche comparative, riuscendo fra l’altro a
recuperare come loro casi speciali molti importanti sistemi di logiche polivalenti già
conosciuti da tempo (per esempio, le ‘logiche di Łukasiewicz’). Delle principali di quelle
‘logiche comparative’ è stata dimostrata (2006) da George Metcalfe la decidibilità. Fra le
proprietà rimarchevoli di queste logiche vi è uno sdoppiamento in esse della valenza dei
connettivi, del tutto analogo a quello già consolidato sia nella tradizione delle ‘logiche
rilevanti’ come distinzione fra connettivi intensionali e connettivi estensionali, sia nella
‘logica lineare’ come distinzione fra connettivi additivi e connettivi moltiplicativi;
nell’ultimo lavoro dedicato alle logiche comparative (1995), Casari ha arricchito
ulteriormente la struttura dei gradi di verità, pensati adesso come organizzati non più
solo su due ma su tre livelli.
Accanto a queste ricerche di carattere più schiettamente logico, orientate peraltro, come
non è difficile riconoscere, da un interesse prevalentemente ontologico-formale – egli ha
una volta (2006) riassunto la sua esperienza dicendo di aver «soprattutto subito il fascino
dell’essere possibile» – Casari è andato via via sviluppando un’attenzione particolare per
l’opera di Bernard Bolzano, ancora largamente ignorata al di fuori di una ristretta cerchia
di studiosi. Alla chiarificazione e ricostruzione del pensiero logico, ontologico e
gnoseologico di questo gigante della storia del pensiero egli ha dedicato, a partire dalla
metà degli anni Ottanta, numerosi saggi, corsi, seminari, conferenze, ecc.; tuttora
attende alla stesura di un volume complessivo sull’argomento. Nel quadro di questo
interesse è stato altresì spinto a occuparsi delle vicende successive dell’‘oggettivismo
logico’, in particolare quelle verificatesi all’interno della tradizione della cosiddetta
‘filosofia austriaca’. Entrato così in contatto con il pensiero di Franz Brentano e di tutta la
sua scuola, si è occupato in particolare, come già accennato, di Husserl e
successivamente di Alexius Meinong e del suo allievo Ernst Mally. Attualmente è
fortemente impegnato nello studio di quelle ‘logiche del non-essere’ che, a partire dagli
anni Settanta, hanno cominciato a sorgere sulla base di una riscoperta e rivalutazione
delle idee portanti dell’ontologia meinongiana, idee che Bertrand Russell aveva, dopo un
iniziale apprezzamento, di fatto cancellato dal dibattito filosofico internazionale, non
tanto, o almeno non soltanto, con le sue critiche dirette, quanto piuttosto attraverso lo
spostamento della problematica coinvolta dal livello ontologico a quello linguistico: dagli
oggetti che non esistono ai termini che non denotano.
ADRIANA CAVARERO
Filosofa della politica ed esponente del ‘pensiero della differenza sessuale’, Adriana
Cavarero è oggi fra gli autori italiani più noti nel panorama internazionale. Nata a Bra, nel
1947, dopo gli studi liceali a Torino, si forma all’Università di Padova, trasferendosi poi
all’Università di Verona, dove attualmente vive e insegna. Nel 1990 si impone
all’attenzione del dibattito filosofico e femminista contemporaneo con Nonostante Platone
(Editori Riuniti, Roma), testo di notevole originalità teoretica che suscita, in Italia e
all’estero, un grande interesse. Anche in grazia dell’immediata traduzione in lingua
inglese di questo e dei libri che seguono (Corpo in figure (Feltrinelli, Milano 1995), Tu che
mi guardi, tu che mi racconti (Feltrinelli, Milano 1997), A più voci (Feltrinelli, Milano
2003), e Orrorismo (Feltrinelli, Milano 2007) tale interesse cresce costantemente. Il
dialogo con gli Stati Uniti, e soprattutto con la filosofa femminista Judith Butler, ha inoltre
modo di intensificarsi in occasione di vari inviti a tenere corsi presso prestigiosi atenei, fra
i quali la New York University, Berkeley ed Harvard.
Inserendosi nella critica contemporanea alla tradizione metafisica e, soprattutto, al
paradigma individualistico del soggetto della modernità, il pensiero di Cavarero propone
una soggettività incarnata che, da un lato, punta a restituire un senso concreto all’unicità
di ogni essere umano e, dall’altro, evidenzia la relazione primaria che lo costituisce. In
polemica con la filosofia moderna che insiste su un individuo astratto, caratterizzato da
autonomia e indipendenza, e in polemica con i post-moderni che ne dissolvono l’illusoria
compattezza nella frammentazione, Cavarero elabora un’ontologia relazionale nella quale
creature incarnate e, perciò, sessuate, vengono al mondo e si espongono l’una all’altra. In
questo contesto teorico, la differenza sessuale è una categoria importante, così come lo è
l’esperienza femminile – compendiabile nella figura materna – in quanto ha
ordinariamente a che fare con corpi singolari, esistenze insostituibili, rapporti di
dipendenza e altri indici di quella vulnerabilità essenziale in cui consiste la condizione
umana. Di qui la possibilità di costruire un’etica e una politica che, rifiutando i concetti
astratti della tradizione filosofica e denunciando l’universalizzazione del paradigma
maschile che li supporta, rispondono all’istanza di una soggettività finita, vulnerabile ed
esposta. Nel pensiero di Cavarero, il femminismo è una prospettiva filosofica che,
travalicando il pur ampio ventaglio di studi generalmente raccolti sotto questo nome, si
misura con l’area più innovativa della speculazione contemporanea e, in particolare, della
teoria politica. Ed è proprio in questa luce che il dialogo con Judith Butler, figura
eminente del dibattito filosofico e politico internazionale, assume una particolare
rilevanza. Vengono infatti, qui, ad incrociarsi due riflessioni di matrice femminista – l’una
legata al filone europeo della ‘differenza sessuale’, l’altra a quello anglo-statunitense sul
‘gender’ (spesso considerati incompatibili, se non ostili) – il cui incontro testimonia di una
convergenza di largo impatto sulla scena speculativa, al di là di rigidi steccati disciplinari,
linguistici e geoculturali.
Centrale, nel pensiero di Adriana Cavarero, è appunto la categoria di ‘differenza sessuale’,
che si sforza di restituire un senso adeguato a quel dato elementare della sessuazione
corporea che differenzia gli uomini dalle donne. Ispirandosi a Luce Irigaray, Cavarero nota
che, già nell’ordine della lingua d’uso, il termine ‘uomo’, pur indicando il solo sesso
maschile, pretende per sé una valenza universale, mentre il sostantivo ‘donna’ vale
soltanto per il sesso femminile. Ciò trova corrispondenza nel lessico del sapere
occidentale, ossia nelle varie espressioni teoriche di un ordine patriarcale che, pur
presentandosi come neutro e universale, assume tuttavia a suo unico paradigma un
soggetto sessuato al maschile. Nel sistema che fa coincidere il maschile con l’intero
‘genere umano’, il femminile diventa sinonimo di mancanza, incompletezza e inferiorità.
L’universalizzazione dell’ uomo, inteso come maschio, “pretendendo di valere anche per il
sesso escluso, cancella lo spazio logico del differire originario trasferendolo a valle come
differire conseguente”. 1 Letta come un differire della donna dall’uomo, la differenza
sessuale si traduce in una logica di subordinazione del femminile al maschile. Secondo
Cavarero, uno dei principali problemi di un approccio teoretico che voglia significare la
differenza sessuale come dato sia ontologico che politico consiste nel registrare
l’impossibilità, per la donna, di dirsi attraverso il linguaggio. Una prima, provvisoria
definizione filosofica della donna viene quindi individuata nella consapevolezza
dell’estraneità femminile all’ordine del discorso, in generale, e della filosofia, in
particolare. Come nota infatti ironicamente Cavarero, mimando la celebre formula dello
zoon logon echon di Aristotele, “la donna è un vivente che ha il linguaggio nella forma
dell’autoestraniazione”.2 Il pensiero della differenza sessuale sgorga dalla consapevolezza
dell’estraneità e della separatezza che ne caratterizzeranno il rapporto con il linguaggio
della filosofia, ossia con quel ‘pensiero del Medesimo’ che, occultando la presenza
dell’originario essere due, ha impedito la concezione di un differire che non sia già
preventivamente subordinato, ovvero sussunto, nel gioco autoreferenziale dell’identità
del soggetto maschile. Strategicamente, si tratta di scardinare le rappresentazioni e gli
stereotipi del femminile elaborati dalla tradizione androcentrica, per giungere a un
pensiero nel quale “la pensante si riconosce [ed è] in atto il suo pensiero di sé”. 3 Viene
perciò in primo piano l’esperienza concreta, il corpo. Il soggetto astratto della filosofia
lascia il posto a una singolarità incarnata che vuole significare la determinatezza della
sua incarnazione.
Non solo il corpo – come sfera nella quale la metafisica confina tradizionalmente le
donne, riservando agli uomini la sfera dell’anima (ovviamente) razionale – diventa il
contesto materiale per pensare la soggettività nei termini di una singolarità in carne ed
ossa, ma la stessa funzione materna – che si collega, a sua volta, alla postulata specialità
femminile per generare, nutrire e accudire i corpi – diventa il luogo per pensare la
condizione umana nei termini di una relazione costitutiva. La sfida più difficile riguarda,
del resto, l’impresa di elaborare un ordine simbolico e, soprattutto, un immaginario
femminile che non ripeta il gesto fallogocentrico di riassumere tutte le donne nella
rappresentazione generale – e fusionale – della Donna. Lungi dal proporsi come una
nuova categoria astratta che comprende tutte le donne, la differenza sessuale si propone
infatti come un contesto di significazione che punta, in prima istanza, alla dicibilità di
ognuna nella sua singolare differenza.
È da questa prospettiva che, dopo gli studi giovanili sulla dialettica e la politica di
Platone, Cavarero torna al grande ateniese con intenti decostruttivi, allo scopo di
mostrare quanto la tradizione abbia, da una parte, occultato il femminile, e, dall’altra,
attinto alla sua potenza figurale e simbolica. In Nonostante Platone (1990), originale
anche per lo stile di scrittura, l’autrice si propone di riappropriarsi di alcune figure
femminili dell’antichità, strappandole al testo patriarcale. Penelope, Demetra, Diotima e
la servetta di Tracia vengono infatti “rubate” al contesto (i testi omerici, il mito, i dialoghi
platonici), dislocate dalle cornici di senso in cui erano state fossilizzate, e
“spregiudicatamente” poste in un ambito di “sapere sessuato”, che permette di rileggerle
a partire dall’estraneità femminile rispetto al macrotesto occidentale. Alle donne pensate
e descritte dagli uomini, si contrappongono così donne viste, immaginate, lette e pensate
da donne: “È dunque la centralità del soggetto maschile che qui viene negata nelle sue
pretese universalistiche (e quindi la differenza sessuale come differenza di ruolo da esso
decisa): ma di conseguenza viene appunto messa in crisi l’intera impalcatura simbolica
della cultura occidentale nelle sue figure maschili, e, soprattutto, femminili”.4
Ciascuna delle figure femminili viene fatta giocare contro la tradizione che le ha collocate
in contesti simbolici univoci e funzionali al dominio maschile. Smagliando la tessitura
omerica in punti cruciali – lei che è così esperta nel tessere ma anche nel disfare! – la
fedele Penelope, già docile custode di un focolare che la imprigiona testualmente da
secoli, riesce, in tal modo, a raccontare un’altra storia e a proporsi come un’icona di
libertà eversiva. Da parte loro, Demetra, Diotima e la servetta di Tracia collaborano per
configurare un ordine simbolico femminile che va ben al di là di una decostruzione
scolastica di Platone. Il ‘furto’ operato da Cavarero rispetto alla tradizione è infatti mosso
dalla volontà di potersi dire in quanto donna, a partire però dalla già sottolineata
invisibilità e indicibilità della sessuazione. L’universale ‘uomo’ non solo assolutizza il
maschile e lo pone a misura dell’umano, ma de-corporeizza il soggetto, producendo senso
solo a partire da un dualismo mente/corpo che situa la donna sul polo di una corporeità
senza parola. Finalmente, però, ora la donna “si trova come un intero di mente e corpo
che pretende un nome adeguato, il quale risuoni in un ordine simbolico dove il venire al
mondo di singolarità incarnate – così come è sempre, e mai altrimenti – restituisca senso
a ciascuna e ciascuno”.5
L’intento di Cavarero è quello di forzare i confini del discorso filosofico, mettendo in
evidenza l’amnesia6 maschile della differenza sessuale che vi campeggia da secoli, per
proporre un percorso teorico che affronti, con gli strumenti della filosofia, proprio ciò che
la filosofia non riesce a dire. La sfida si gioca innanzitutto sulla categoria di unicità
incarnata. Il debito nei confronti di Hannah Arendt è evidente. Già in Nonostante Platone,
e in modo ancor più esplicito nei lavori seguenti, l’autrice dà infatti uno spazio crescente
al concetto di unicità e a quello di nascita, ossia alle due categorie che Arendt utilizza per
contrastare la tradizione metafisica, ribadendo la centralità del miracolo del venire al
mondo come punto di partenza per ripensare la politica dopo gli esiti totalitari.
L’originalità di Cavarero sta nel dare alle categorie arendtiane una torsione femminista,
inserendo, nella critica all’astrattezza del soggetto filosofico, gli elementi del pensiero
sessuato: l’unicità è sempre incarnata in un corpo sessuato; la nascita è un venire al
mondo da corpo di madre, “il luogo da cui lo sguardo maschile ha voluto dis-trarsi
trovandosi a fissare la morte come sua angosciante misura”.7
Dal lessico arendtiano, Cavarero prende inoltre la categoria del chi in quanto distinta, se
non opposta, a quella del che cosa. La tesi generale è che, distinguendosi dall’astratta
domanda filosofica che si mostra da millenni propensa a chiedere cos’è l’uomo (oppure
l’essere o il nulla o qualcosa), il pensiero dell’unicità manifesti invece una virtuosa
attitudine per chiedere, ad ogni singolo essere umano, chi egli o ella è. Rifiutando di
focalizzarsi su enti fittizi, l’attenzione va dunque a “viventi umani incarnati in tutto lo
splendore della loro finitezza”. 8 Il registro discorsivo della filosofia ha, in effetti, in
materia, ben poco da dire. Più promettente è, invece, l’ambito della narrazione.
Il tema viene sviluppato in Tu che mi guardi tu che mi racconti (1997), testo nel quale
Cavarero reinterpreta le più celebri ‘storie’ della nostra tradizione – da Edipo a Ulisse, da
Orfeo ai racconti di Karen Blixen – come rispondenti ad un originario desiderio di sentir
narrare, da altri, la propria storia. L’aspetto principale di tale ‘desiderio di narrazione’ è la
mancanza di un’identità, ossia il bisogno di un senso unitario della propria storia che è
sentito da ogni essere umano come irrinunciabile. In questo contesto, il sé si configura,
quindi, come un’unicità che si sente ‘narrabile’, ovvero che percepisce la propria
differenza singolare, ma non riesce a dirla, a significarla. Solo il racconto da parte altrui
della propria storia – paradigmatico è quello narrato nell’Odissea dell’aedo che, alla corte
dei Feaci, racconta delle gesta di Ulisse davanti all’eroe piangente – rivela a ciascuna/o la
tangibilità della propria unicità. Si tratta, crucialmente, di una prospettiva nella quale,
non la morte, bensì la nascita è ciò che rende possibile la narrabilità del sé. Se la filosofia
si è cimentata per secoli con la categoria della morte, la narrazione, o meglio l’etica
narrativa di Cavarero, ispirandosi ad Hannah Arendt, coglie infatti nella categoria della
natalità la conditio per quam siamo esistenti unici, consegnati già da subito a chi sarà poi
in grado di raccontarci la nostra storia. Ciò significa che, in questa dimensione originaria
di reciproca esposizione, esemplarmente inaugurata dagli sguardi fra madre ed infante,
viene in primo piano una identità che cessa di autoprodursi nel discorso definitorio e
astratto della filosofia e va invece a collocarsi nella materialità della relazione. Veniamo
al mondo da un’altra e la nostra umanità si gioca strutturalmente nella dimensione della
relazione. È alla filosofia politica, più che alla filosofia tout court, che Cavarero indirizza
questo rovesciamento dell’assioma individualistico: nascita, narrazione e relazione sono
modi attraverso cui è necessario ripensare la soggettività e la comunità politiche,
mettendo in discussione le categorie basilari della modernità.
Al rapporto, contraddittorio e ambiguo, tra le categorie politiche della modernità e il
corpo è dedicata la complessa rilettura dell’immaginario occidentale che Cavarero
intraprende a partire dalla seconda metà degli anni ’90. In Corpo in figure (1995),
riflettendo sulla metafora del ‘corpo politico’ – indagata attraverso Platone, Aristotele e
Hobbes, ma anche attraverso l’Antigone e l’Amleto, con una importante appendice su
Ingeborg Bachmann e Marìa Zambrano – Cavarero mostra come il discorso della
tradizione politologica sfrutti la potenza figurale del corpo, andando però,
contemporaneamente, a negarne l’esistenza concreta, singolare, incarnata e sessuata. Si
profila, qui, la definitiva consapevolezza che la portata speculativa del pensiero della
differenza sessuale vada ben oltre una questione di esclusione del femminile e di
rivendicazione di diritti. Si tratta, piuttosto, di contaminare il discorso filosofico-politico
con istanze corporee, ovvero di destrutturarne la tradizionale vocazione metafisica. Ciò
tuttavia non significa che Cavarero – nonostante le sue frequentazioni della cosiddetta
‘filosofia continentale’ nel mondo di lingua inglese – abbracci il verbo anti-metafisico del
post-moderno. Sessuazione e incarnazione le consentono infatti di insistere sulla
soggettività incarnata di esistenze uniche e insostituibili, che non solo resistono alla
dissoluzione metafisica nell’Uno, ma contrastano anche le tentazioni postmoderne della
dissoluzione del soggetto nonché lo scivolamento nell’impersonalità del postumano. La
categoria del chi àncora la soggettività a caratteri di finitezza e contingenza
assolutamente concrete.
L’affondo nei confronti del sapere definitorio della filosofia, della sua incapacità di dire
l’unicità e la corporeità – e della conseguente impossibilità di immaginare un diverso
lessico politico finalmente affrancato dal paradigma moderno dell’individuo e dei diritti –
è compiuto da Cavarero nei primi anni del nuovo millennio, a partire dal lavoro sulla voce
(A più voci, Feltrinelli, Milano 2003), passando per un importante contributo di natura
metodologica pubblicato in lingua inglese (Politicizing Theory, in “Political Theory”,
4/2002), fino al recente Orrorismo (Feltrinelli, Milano 2007).
Nel lavoro sulla voce, Cavarero sviluppa in chiave sonora il tema dell’unicità, sostenendo
che proprio l’insostituibilità della voce è un elemento centrale per definire la singolarità
incarnata. La filosofia, a ben vedere, non è altro che una progressiva storia di
devocalizzazione del logos, un annientamento dell’essenziale unicità di ciascuna voce (e
della sua innegabile natura sessuata) in favore di un dominio impersonale del linguaggio.
Notoriamente, tale dominio relega la vocalità femminile a mera chiacchiera o a suono
inarticolato, mortifero e sensuale (le Sirene, la ninfa Eco, la soprano del melodramma).9
A questo destino muliebre di pura sonorità, Cavarero contrappone una ‘politica delle voci’,
ossia il modello di una comunità materialmente generata da una pluralità di voci
singolari, che ‘risuonano’ l’una con l’altra senza accordarsi all’unisono, ma costituendo,
anzi, uno spazio relazionale in cui ciascuna mantiene l’inconfondibilità del suo timbro. Si
tratta, evidentemente, di una nuova frontiera dell’immaginazione politica sulla quale
l’autrice decide di spingere la sua speculazione. Il pensiero della differenza mira
definitivamente ad inceppare il macchinario teorico della filosofia, non solo conficcando
nel suo ingranaggio il dilemma della sessuazione e della corporeità, ma liberando
soprattutto le potenzialità generative di un immaginario femminile radicalmente altro.
Finitezza, sessuazione, corporeità, unicità trovano, nell’ultimo lavoro di Cavarero,
Orrorismo (2007), una collocazione ulteriore che punta sul nodo essenziale fra politica e
ontologia. Riflettendo sulle forme della distruzione contemporanea – esemplificati
spettacolarmente dagli eventi dell’11 settembre 2001 ma distribuiti su tutte le ‘zone
calde’ del pianeta – Cavarero conia la categoria di ‘orrorismo’ per indicare la specificità
epocale di una violenza che si consuma, in modo unilaterale, sull’inerme. ‘Guerra’ e
‘terrorismo’ – termini di un lessico politico obsoleto dei quali viene qui ricostruita la storia
– si mostrano inadeguati a definire uno scenario globale di distruzione la cui peculiarità
sta nel colpire esseri umani inermi, sintomaticamente privi delle caratteristiche
tradizionali del ‘nemico’ e paradigmaticamente coincidenti con l’anonimità del
‘qualunque’, del ‘qualsiasi’. Esemplare è, in questo senso, la scena dei cosiddetti attacchi
suicidi. Il crimine ontologico orrorista punta alla distruzione dell’unicità: sia perché
disfigura l’unità corporea mescolando i brandelli di carne della vittima con quelli del
carnefice, sia perché spersonalizza i suoi bersagli degradandoli preventivamente a vittime
‘casuali’. Secondo Cavarero, lo spirito violento del tempo richiede che la prospettiva del
guerriero sia sostituita da quella dell’inerme, ossia dall’osservatorio di un essere umano
che assume i caratteri essenziali di una costitutiva vulnerabilità. L’ontologia relazionale,
alla luce della devastazione contemporanea, subisce così una torsione luttuosa,
trasformandosi in ontologia della vulnerabilità. La tesi generale – in sintonia con le
posizioni più recenti di Judith Butler10 – è che l’essere corpi vulnerabili ci esponga
reciprocamente a una risposta che deve decidere dell’alternativa fra cura e ferita.
L’assolutamente vulnerabile – ossia l’inerme, che la figura dell’infante incarna in modo
esemplare – evidenzia come, in determinati contesti, tale risposta sia appunto un atto
unilaterale. Il crimine orrorista, già sottratto da Cavarero a tutte le note giustificazioni
che il lessico del guerriero si sforza di formulare, sta precisamente nella responsabilità
chiamata in causa da questa unilateralità. Essa si fa crucialmente più scandalosa quando
è una donna a portarla, come nel caso delle attentatrici suicide cecene o delle torturatrici
di Abu Ghraib. Miticamente impersonata da Medea, oppure dalla testa mozzata di
Medusa, la donna ha infatti una tradizionale familiarità con l’alternativa fra cura e ferita a
cui l’inerme si espone. Il che non significa che l’orrorismo abbia un marchio femminile, ma
piuttosto che la categoria di differenza sessuale, oltre a decostruire il testo patriarcale,
non esita a misurarsi con le contraddizioni più oscure della fenomenologia del presente.
Benché Orrorismo affronti temi squisitamente politici – fra i quali, il genocidio e lo
sterminio, letti attraverso Arendt e Primo Levi – c’è, nel testo, un registro etico che ne
accompagna, in modo pregnante, l’itinerario concettuale. In tutti testi di Cavarero, data la
radicalità della prospettiva teorica, ontologia, politica ed etica finiscono, del resto, per
attrarsi intorno alla questione fondamentale dello statuto stesso della filosofia. Che
questa lasci volentieri il passo alla letteratura e ad altri stili disciplinari, meno costrittivi
nella loro procedura argomentativa, è dunque un effetto voluto e non secondario.
Olivia Guaraldo
1
Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La
Tartaruga, Milano 1987, pp. 43-79, p. 48.
2
Ivi, p. 54.
3
Ivi, p. 60.
4
Adriana Cavarero, Nonostante Platone, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 5.
5
Ivi, p. 6.
6
Cfr. Adriana Cavarero, “Equality and sexual difference: amnesia in political thought”, in Gisela Bock, Susan James (a cura
di), Beyond Equality and Difference, London and New York, Routledge 1992.
7
Cavarero, Nonostante Platone, cit., p. 8.
8
Ibidem.
9
Vale la pena di sottolineare come, da un punto di vista metodologico, tutti i lavori di Cavarero, a partire da Nonostante
Platone, prediligono, a sostegno della forma dell’argomentazione alquanto provocatoria e paradossale, un “lavoro sul mito”
di natura essenzialmente decostruttiva e dislocante: la potenza figurale del mito e della poesia (epica e non solo) fornisce
all’autrice un materiale indispensabile ai suoi scopi, ma soprattutto, grazie alla sua costitutiva polisemia, consente una
maggiore libertà di espressione rispetto al canone filosofico (di cui, però, la polisemia e la poesia del testo platonico
rappresentano una nota eccezione).
10
Si veda Judith Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma 2004, e Ead., Critica della violenza etica.
CARLO CELLUCCI
Carlo Cellucci è nato a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 9 aprile 1940. Pur avendo
iniziato gli studi universitari studiando fisica, è poi passato a filosofia, in cui si è laureato
nel 1964 presso l’Università degli Studi di Milano, discutendo una tesi dal titolo “Ordinali
ricorsivi” con Ludovico Geymonat come relatore.
Dal 1964 al 1967 è stato borsista del Gruppo di Logica Matematica CNR diretto da
Ludovico Geymonat. In seguito ha trascorso due anni in Inghilterra come borsista prima
del CNR e poi della Accademia dei Lincei, studiando sotto la supervisione di John N.
Crossley e Michael Dummett. Dal 1969 al 1971 è stato lecturer in logica matematica
presso l’Università del Sussex (UK), dal 1971 al 1976 professore incaricato di logica
presso l’Università degli Studi di Siena, dal 1976 al 1978 professore straordinario di
filosofia della scienza presso l’Università della Calabria e, dal 1978 al 1979, professore
straordinario di filosofia della scienza presso l’Università di Siena. Dal 1971 al 1978 è
stato anche professore incaricato di logica matematica presso l’Università di Roma La
Sapienza. Dal 1979 è professore ordinario di logica presso l’Università di Roma La
Sapienza.
La sua ricerca si è sviluppata in tre direzioni: la logica matematica (con particolare
riguardo alla teoria della dimostrazione), la filosofia della matematica, e l’epistemologia.
Sulla teoria della dimostrazione ha pubblicato il volume Teoria della dimostrazione
(Boringhieri, Torino 1978). Sulla filosofia della matematica ha curato due antologie, La
filosofia della matematica (Laterza, Bari 1967) e Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui
fondamenti della teoria degli insiemi (Bibliopolis, Napoli 1979).
Questi lavori riguardano direzioni di indagine abbastanza tradizionali nel Novecento.
Successivamente, però, ha pubblicato tre volumi, Le ragioni della logica (Laterza, Bari
1998, 20085) , Filosofia e matematica (Laterza, Bari 2002, 20032) e Perché ancora la
filosofia (2008), nei quali ha proposto un’alternativa alle concezioni dominanti nel campo,
rispettivamente, della logica, della filosofia della matematica, e dell’epistemologia e
filosofia in generale.
Ha inoltre pubblicato il libro La filosofia della matematica del Novecento (Laterza, Bari
2007), nel quale analizza criticamente le principali posizioni della filosofia della
matematica dell’ultimo secolo.
Il percorso di C. potrebbe intitolarsi: ‘Dalla filosofia alla filosofia passando per la logica
matematica’. Infatti, pur provando, fin dal tempo degli studi liceali, un forte interesse per
la filosofia, inizialmente il suo interesse ha trovato un ostacolo nel fatto che, all’epoca in
cui cominciò a occuparsi di filosofia, la scena filosofica era dominata da due scuole che C.
trovava, per diversi versi, aliene. Da un lato, la filosofia analitica, che gli sembrava un
modo di far filosofia pedante e incapace di affrontare problemi rilevanti per la conoscenza
del mondo e della posizione degli esseri umani in esso, erede del dogmatismo
razionalistico wolffiano del Settecento. Dall’altro lato, la filosofia ermeneutica, che gli
sembrava nascondere, dietro il manierismo del tono sapienziale e del linguaggio fumoso,
una sostanziale povertà di idee e un irrazionalismo di fondo, erede di quel nichilismo
tragico dell’Ottocento che aveva portato alle due guerre mondiali.
Un’altra difficoltà nasceva dal fatto che C. non riusciva a darsi una risposta convincente
alla domanda quale ruolo potesse ancora avere la filosofia dopo la nascita della scienza
moderna. Questa aveva invaso l’uno dopo l’altro vari campi della filosofia, rendendola una
disciplina sempre più residuale, tanto che Dummett la avrebbe poi definita come ciò che
“resta quando le discipline che la filosofia ha partorito lasciano la casa paterna” (M.
Dummett, La natura e il futuro della filosofia, Il Melangolo, Genova 2001, p. 10).
Per questo motivo C. decise di occuparsi di quelle parti della filosofia che gli sembravano
meno dipendenti dalle vicende della filosofia contemporanea: la logica e la filosofia della
matematica. La logica, perché lo sviluppo della logica matematica l’aveva dotata della
capacità di trattare questioni che la logica tradizionale non sapeva trattare. La filosofia
della matematica, perché la logica matematica era stata creata da Frege non come un
mezzo di analisi del ragionamento in generale, ma come uno strumento per uno scopo
specifico: assicurare alla matematica il più solido fondamento.
È quanto C. ha effettivamente fatto per tre decenni, occupandosi, nel campo della logica
matematica, soprattutto della teoria della dimostrazione, innanzitutto perché Frege aveva
assegnato alla logica matematica come principale compito quello di studiare il modo più
sicuro di condurre una dimostrazione, onde dare alla matematica il più solido
fondamento. Ma soprattutto perché la teoria della dimostrazione era la parte della logica
matematica sviluppata a tale scopo da Hilbert, il più influente filosofo della matematica
del Novecento. In quel periodo C. è stato influenzato da Kreisel, che veniva proponendo
una lettura critica del programma di fondazione della matematica di Hilbert e di altre
filosofie della matematica del Novecento. Sebbene in seguito le idee di C., come ha
sottolineato in un articolo dal titolo ‘Mathematical logic: what has it done for the
philosophy of mathematics?’ (in P. Odifreddi (a cura di), Kreiseliana. About and around
Georg Kreisel, A K Peters, Wellesley 1996, pp. 365-388), siano molto cambiate rispetto a
quelle di Kreisel, in tale fase l’influenza di Kreisel è stata la più significativa.
Anche la logica matematica e la filosofia della matematica quale veniva praticata dalle
scuole di filosofia della matematica del Novecento, però, non soddisfacevano molto C.,
che proprio per questo era stato attratto dall’atteggiamento di rigorosa critica dall’interno
di Kreisel. Ma si trattava, appunto, di una critica dall’interno, che denunciava i limiti di
certi aspetti della logica matematica e della filosofia della matematica senza però
metterne in discussione i presupposti fondamentali. C. non riusciva ad accontentarsi di
questo perché il metodo della matematica, quale la logica matematica e la filosofia della
matematica lo ipotizzavano, gli sembrava avere ben poco a che fare con l’effettivo modo
di procedere della matematica.
Inoltre, le tematiche della teoria della dimostrazione inaugurate da Hilbert, e poi
sviluppate da Gentzen, erano state talmente studiate da lasciare ben poche illusioni sulle
loro possibilità residue. E gli strumenti tecnici sviluppati in funzione della teoria della
dimostrazione, il cui scopo originario era stato quello di garantire il più solido fondamento
alla matematica, si andavano sempre più rivelando inadatti non solo per quello scopo, ma
anche per qualsiasi altro scopo serio e interessante. Ne sapevano qualcosa i giapponesi,
che per vari anni avevano investito ingenti somme nel progetto della creazione di una
nuova generazione di computer basati sulle tecniche della logica matematica (Fifth
Generation Computer Project), e alla fine erano stati costretti a interromperlo per la sua
manifesta impraticabilità. Priva di usi importanti, la logica matematica rivelava sempre
più limiti analoghi a quelli della logica della tradizione aristotelico-scolastica, denunciati
nel Seicento da Galilei, Bacon, Descartes e Locke.
Né avevano rilevanza le implicazioni ontologiche che venivano comunemente attribuite
alla logica matematica. In ciò C. trovò conforto in una delle rare voci che si erano levate
in dissenso, quella di Wang, che aveva sottolineato che, quand’anche ci si fosse limitati a
pretendere che le teorie scientifiche potessero essere “formulate e formalizzate nel
quadro della logica matematica” – cioè, quand’anche ci si fosse limitati a pretendere che
la logica matematica e la filosofia della matematica avessero rilevanza rispetto ai risultati
finali della conoscenza, piuttosto che rispetto ai processi di scoperta e sviluppo – questa
pretesa si scontrava con il fatto che in realtà “le teorie scientifiche non sono formulate in
questo modo”, perciò “molte delle discussioni su questioni come gli impegni ontologici e
le definizioni formali di verità delle teorie assumono un’aria ipotetica e irreale” (H. Wang,
From mathematics to philosophy, Routledge, London 1974, p. 28).
Questa situazione della logica matematica e della filosofia della matematica è stata per
C. oggetto di continua riflessione per un quindicennio, dall’inizio degli anni Ottanta alla
metà degli anni Novanta, durante il quale periodo, pur continuando a pubblicare lavori
sulla teoria della dimostrazione, andava alla ricerca di un’alternativa. Il risultato di tale
riflessione è stato un corso di lezioni tenuto nel 1993 presso l’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici di Napoli, il cui testo è stato anzitutto la base di un articolo, dal titolo ‘The
growth of mathematical knowledge: an open world view’, presentato a un convegno
tenuto a PennState nel 1995 ma apparso solo alcuni anni dopo (in E. Grosholz e H. Breger
(a cura di), The growth of mathematical knowledge, Kluwer, Dordrecht 2000, pp. 153176).
Ma soprattutto il testo di quelle lezioni è stato la base del libro Le ragioni della logica, nel
quale C. ha cercato di fare i conti con la tradizione logica non solo recente ma anche più
antica, allo scopo di comprendere perché la logica matematica sia andata incontro a un
fallimento simile a quello della tradizione aristotelico-scolastica. La diagnosi proposta è
che, al pari della logica aristotelico-scolastica, la logica matematica è una logica della
giustificazione, cioè una logica il cui scopo è solo quello di giustificare e fondare
conoscenze già acquisite, trascurando completamente i processi attraverso cui si
acquisiscono nuove conoscenze. Una logica così intesa non può essere di alcun aiuto per
comprendere gli effettivi processi conoscitivi. Per di più, a causa dei risultati di
incompletezza di Gödel, essa non riesce neppure a giustificare e fondare conoscenze già
acquisite.
Che la logica matematica sia una logica della giustificazione è stato il risultato della
decisione di Frege di sviluppare la logica matematica come uno strumento per la
giustificazione e fondazione della matematica. Tale decisione, come C. ha sottolineato in
un articolo dal titolo, ‘Gottlob Frege: una rivoluzione nella concezione della logica?’ (in N.
Vassallo (a cura di), La filosofia di Gottlob Frege, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 41-58),
portò Frege a restringere l’ambito della logica entro confini ben più limitati di quelli fissati
da Aristotele, e anche di quelli stabiliti da molti contemporanei, da Mill a von Helmholtz,
sopprimendo, in nome dell’antipsicologismo, ogni attenzione al rapporto tra la logica e i
processi cognitivi. Ma, che la logica matematica sia una logica della giustificazione, è
stato anche il risultato della decisione di Hilbert di svilupparla come uno strumento per
sbarazzare la matematica una volta per sempre del problema dei paradossi, attraverso
una autofondazione che avrebbe dovuto permettere alla matematica di non dover più
dipendere in alcun modo dalla filosofia. Dopodiché i matematici avrebbero potuto
continuare a fare il loro lavoro come prima, senza dover fare più alcun uso della logica
matematica né tanto meno della filosofia.
Alla base delle concezioni della logica sia di Frege sia di Hilbert vi era l’idea che le scienze
fossero sistemi chiusi. In Le ragioni della logica C. ha cercato di mostrare i limiti di questa
idea, sviluppando l’idea alternativa che le scienze siano sistemi aperti, il che comporta
l’abbandono della concezione del metodo della matematica, e in generale delle scienze,
ipotizzata da Frege e Hilbert. La nozione di sistema aperto da lui proposta è applicabile in
linea di principio, oltre che alla matematica e alle scienze naturali, anche a numerosi altri
campi.
Le ragioni della logica contiene soprattutto una riflessione sui limiti della tradizione
logica, ma propone anche un’alternativa. Allo sviluppo di tale alternativa è dedicato in
buona parte il volume successivo di C., Filosofia e matematica, che tratta della natura
della matematica e in particolare del metodo della matematica. In esso si sostiene che il
principale problema della conoscenza matematica è quello della scoperta matematica,
che avviene in base a un metodo già adoperato dai primi matematici greci, in particolare
Ippocrate di Chio, e teorizzato da Platone soprattutto nel Menone, nel Fedone e nella
Repubblica: il metodo analitico.
Tale metodo, quale formulato da Platone, non dà, però, indicazioni sui mezzi con cui
trovare le ipotesi per la soluzione di problemi. In Filosofia e matematica C. ha cercato di
indicare sistematicamente tali mezzi, individuandoli nell’induzione, nell’analogia, nel
ragionamento diagrammatico, nella generalizzazione, nella particolarizzazione, nella
metafora, nella metonimia, nel procedimento definitorio, nell’ibridazione, nella variazione
dei dati, di cui considera una varietà di forme dandone anche numerosi esempi. In tale
volume, inoltre, C. propone un approccio al problema della natura degli oggetti
matematici in base al quale gli oggetti matematici sono essi stessi delle ipotesi per la
soluzione di problemi, onde far uscire tale problema dalle dispute puramente ideologiche
proprie della filosofia della matematica del Novecento, che non hanno alcuna rilevanza né
per l’attività matematica né per la comprensione della natura della matematica.
Una parte di Filosofia e matematica è dedicata a un argomento che è stato molto
importante nella filosofia moderna, ma su cui non vi è stata quasi nessuna riflessione
nella filosofia della matematica del Novecento: i rapporti tra la matematica e il mondo
fisico. È sintomatico del tipo di filosofia della matematica che è stata praticata nel
Novecento che i manuali e le antologie recenti di filosofia della matematica non dedichino
quasi alcuna attenzione a tale argomento. Le questioni relative a esso affrontate da C.
sono: Gli oggetti matematici traggono origine dal mondo fisico? Esiste una stretta
corrispondenza tra la matematica e il mondo fisico? Perché la matematica trova
applicazione al mondo fisico? La matematica è uno strumento assolutamente efficace per
trattare il mondo fisico? Qual è il ruolo della matematica nel mondo fisico? Si tratta di
questioni che hanno affaticato i filosofi soprattutto nell’età moderna, ma alcune di esse
hanno impegnato anche gli scienziati.
In particolare, la questione del perché la matematica trovi applicazione al mondo fisico ha
avuto notevole attenzione in seguito alla pubblicazione nel 1960 dell’articolo di Wigner
sulla ‘irragionevole efficacia’ della matematica nelle scienze naturali, ma non ha ricevuto
convincenti risposte né dai filosofi né dagli scienziati. La risposta di C. in Filosofia e
matematica si collega alla scelta operata dai creatori della scienza moderna, da Galilei a
Newton, di non cercare più di stabilire, come voleva Aristotele, quale fosse l’essenza delle
sostanze naturali, ma di limitarsi a considerarne alcune proprietà come il luogo, il moto,
la figura, la grandezza. Essendo tali proprietà di tipo quantitativo, e quindi matematico,
questo spiega l’applicabilità della matematica al mondo fisico. A un altro aspetto della
questione del ruolo della logica e della matematica nel mondo fisico C. ha dedicato anche
un articolo dal titolo ‘La naturalizzazione della logica e della matematica’ (in P. Parrini [a
cura di], Conoscenza e cognizione. Tra filosofia e scienza cognitiva , Guerini, Milano 2002,
pp. 21-35).
I punti di vista espressi in Filosofia della matematica sono radicalmente diversi da quelli
della filosofia della matematica del Novecento. Le differenze sono elencate
nell’introduzione al libro, una cui versione riveduta è stata pubblicata nell’antologia di
Hersh (R. Hersh [a cura di], 18 Unconventional Essays on the Nature of Mathematics,
Springer, New York 2005, pp. 17-36). Alcune idee di Filosofia e matematica sono state
sviluppate ulteriormente in ‘Mathematical Discourse vs. Mathematical Intuition’ (in C.
Cellucci e D. Gillies [a cura di], Mathematical Reasoning and Heuristics, College
Publications, London 2005, pp. 137-165). In tale articolo, tra l’altro, C. mette in relazione
la questione della natura del metodo della matematica con quella della natura della
dialettica quale impostata nell’antichità.
Una cosa che, con il passar del tempo, a C. è diventata sempre più chiara, è che, come
sottolinea nelle conclusioni del volume La filosofia della matematica del Novecento, non
si può trattare adeguatamente la questione della natura della logica e della matematica
senza affrontare alcune questioni generali riguardanti la natura della conoscenza e della
filosofia stessa. Così C. si è ritrovato di nuovo di fronte al problema che lo aveva assillato
fin dall’inizio, cioè quale valore possa ancora avere la filosofia dopo la nascita della
scienza moderna.
A tale problema C. ha cercato di dare una prima risposta nell’articolo ‘L’illusione di una
filosofia specializzata’ (in M. D’Agostino, G. Giorello e S. Veca [a cura di], Logica e
politica. Per Marco Mondadori, il Saggiatore, Milano 2001, pp. 119-137). E ha cercato di
dare una risposta più articolata nel volume Perché ancora la filosofia. In esso C. in
particolare risponde all’affermazione di Dummett: “Se le università fossero un’invenzione
del ventesimo secolo, sarebbe venuto in mente a qualcuno di includere la filosofia tra le
materie da insegnare e da studiare? Sembra assai dubbio”, riguardo alla filosofia
“qualcuno potrebbe sostenere che siamo di fronte a un anacronismo” (M. Dummett, op.
cit., p. 8). La risposta di C. è che la filosofia continua ad avere un ruolo solo se la si
concepisce come un’attività che mira innanzitutto alla conoscenza, una conoscenza che
non differisce in alcun modo essenziale dalla conoscenza scientifica e non è limitata ad
alcun campo del sapere ma, diversamente dalle scienze, si occupa di questioni che vanno
al di là dei confini delle scienze esistenti, che queste non sanno trattare, e se ne occupa
battendo vie ancora inesplorate. Così facendo, quando ha successo, essa può anche dar
origine a nuove scienze.
Questo vale non solo per il passato ma anche per l’ultimo secolo, nel quale, per esempio,
le basi teoriche dell’informatica sono nate dal tentativo filosofico di Turing di analizzare il
comportamento computistico degli esseri umani, la scienza cognitiva è nata dall’incontro
tra la speculazione filosofica tradizionale sulla mente e l’analisi di Turing, la statistica
bayesiana è nata dagli sforzi filosofici di stabilire che cos’è una credenza razionale. Ed è
ragionevole attendersi che continui a valere anche per il futuro.
Per far questo la filosofia, da un lato, si avvale dell’esperienza dei filosofi del passato,
un’esperienza che è importante perché può far comprendere dove portano certe idee,
evitando di ripercorrere vie che si sono già rivelate impraticabili. E, dall’altro lato, al pari
di ogni scienza, si avvale dei risultati delle scienze esistenti, una possibilità che è
essenziale per il suo progresso, dal momento che la filosofia è un’attività che mira
innanzitutto alla conoscenza e che, per ottenere nuova conoscenza, deve partire dalla
conoscenza esistente.
Per sviluppare questo genere di filosofia, secondo C., occorre affrontare preliminarmente
alcune questioni riguardanti la conoscenza.
1) Occorre sottrarsi ad alcune chimere riguardanti la conoscenza che la filosofia ha
vanamente inseguito, e da cui è stata deviata in direzioni che le hanno impedito di
comprendere adeguatamente la natura della conoscenza. Le chimere analizzate in Perché
ancora la filosofia sono: la verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il
rigore, la mente. La principale ragione per cui la filosofia ha inseguito tali chimere è la
precarietà della vita umana, che genera angoscia. I filosofi credono di potersi sottrarre a
essa cercando un appiglio sicuro in tali chimere, ma un appiglio sicuro non esiste, la
fiducia in esse non è più solida dei castelli di sabbia, e se si vuole sviluppare una filosofia
feconda bisogna sbarazzarsene. Più in particolare essi cercano un appiglio sicuro in quelle
chimere per esorcizzare la paura della morte. Come dice Galilei, “questi che esaltano
tanto l’incorruttibilità, l’inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il
desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non
considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a venire al
mondo. Questi meriterebbero d’incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in
istatue di diaspro o di diamante, per diventar più perfetti che non sono” (G. Galilei,
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Opere, VII, p. 84).
2) Occorre determinare qual è il ruolo della conoscenza nella vita umana e in generale
nella vita di tutti gli organismi. La risposta di C. in Perché ancora la filosofia è che la
conoscenza è un fenomeno naturale che è presente in tutti gli organismi, e non soltanto
in quelli dotati di cervello. Essa è soluzione di problemi, a cominciare da quello più
basilare di tutti, cioè quello della sopravvivenza. La conoscenza occupa un posto così
importante nella vita umana, e in generale nella vita di tutti gli organismi, che senza di
essa la vita, la stessa vita biologica, non avrebbe potuto esistere né potrebbe continuare
a esistere. Tutti gli organismi sono sistemi conoscitivi, e la vita stessa deve la sua
esistenza e il suo mantenimento a un processo conoscitivo. In tale prospettiva, C. tratta
un’ampia gamma di questioni, che vanno dalla mente alla conoscenza percettiva, dalla
logica naturale alla conoscenza a priori, dai mezzi per l’acquisizione della conoscenza alla
conoscenza generale, dalle rappresentazioni visive alla spiegazione.
3) Occorre analizzare i mezzi attraverso i quali la conoscenza viene acquisita. In Perché
ancora la filosofia C. sostiene che la conoscenza è soluzione di problemi, da quello
basilare della sopravvivenza ai problemi apparentemente più astratti e lontani da
esigenze vitali immediate. Che la conoscenza sia soluzione di problemi vale per ogni tipo
di conoscenza, ivi compresa la conoscenza matematica perché, come C. sottolinea anche
nell’articolo ‘Why proof? What is a proof?’ (in R. Lupacchini e G. Corsi [a cura di],
Deduction, computation, experiment. Exploring the effectiveness of proof, Springer, Berlin
2008, pp. 1-27), anche la matematica ha una funzione biologica. Secondo C., il metodo
principale per la soluzione di problemi è il metodo analitico, un metodo i cui primi usi
risalgono alla matematica greca e la cui prima teorizzazione risale a Platone. Del metodo
analitico C. ha proposto un sostanziale arricchimento in Le ragioni della logica e Filosofia
e matematica, indicando i procedimenti non deduttivi attraverso cui le ipotesi per la
soluzione di problemi possono essere scoperte. Ma, in Perché ancora la filosofia e
nell’articolo ora citato, tale metodo assume un ruolo più basilare, biologico, in quanto
mezzo di soluzione di problemi di tutti gli organismi.
Il metodo analitico è la base della creatività. Ponendolo all’origine della conoscenza C. si
oppone a una tradizione ‘romantica’ della filosofia moderna, da Kant a Frege e alla
filosofia analitica, secondo la quale non esiste alcuna via razionale all’acquisizione della
conoscenza, questa è il prodotto di una facoltà irrazionale che si riassume nella parola
‘genio’. In particolare C. si oppone a Popper, il quale sostiene che le ipotesi per la
soluzione di problemi non possono ottenersi dai problemi mediante inferenze non
deduttive perché, mentre le inferenze deduttive possono essere giustificate, le inferenze
non deduttive non possono essere giustificate. In Perché ancora la filosofia C. cerca di
mostrare che, contrariamente a quanto afferma Popper, le inferenze deduttive possono
essere giustificate solo nello stesso senso in cui possono esserlo le inferenze non
deduttive. Tanto le inferenze deduttive quanto quelle non deduttive non possono essere
giustificate e neppure caratterizzate facendo riferimento solo alla struttura logica interna
delle inferenze ma solo facendo riferimento a fattori esterni, e specificamente al ruolo che
tali inferenze svolgono nella conoscenza. Perciò la giustificazione della deduzione non è
qualitativamente diversa da quella dell’induzione.
4) Occorre affrontare la questione delle relazioni tra la conoscenza e il significato della
vita umana. In Perché ancora la filosofia C. sostiene che la vita umana non ha alcuno
scopo e significato da un punto di vista esterno e superiore ma solo da un punto di vista
interno, che questo scopo, come già affermava Aristotele, è la felicità, e che la
conoscenza è una precondizione per questa. Infatti, senza la conoscenza la vita, la stessa
vita biologica, non avrebbe potuto esistere e non potrebbe continuare a esistere. Inoltre,
una condizione essenziale per una vita felice è sapere che cosa si è, e noi in gran parte
siamo ciò che sappiamo. E un’altra condizione essenziale per una vita felice è non essere
paralizzati dalla paura prodotta dal pregiudizio, e solo la conoscenza può fugarla.
Attualmente C. sta cercando di scrivere una sorta di introduzione alternativa alla logica
che risponda alla domanda: che cosa si deve insegnare oggi sotto il nome ‘logica’, data
l’inadeguatezza della logica matematica rispetto agli scopi che essa si proponeva, nonché
rispetto agli altri scopi a cui ci si aspetterebbe servisse la logica? Nel libro intende
proporre una concezione della logica molto più ampia della logica matematica, che
restituisca alla logica il ruolo che essa aveva nel mondo greco, di uno dei pilastri
fondamentali della filosofia.
MAURO CERUTI
Mauro Ceruti è nato a Cremona nel 1953. Studia filosofia presso l’Università degli Studi di
Milano. È allievo di Ludovico Geymonat, sotto la cui direzione si laurea nel 1977, con una
tesi dedicata all’epistemologia genetica di Jean Piaget. Dal 1981 al 1986 lavora nell’unità
di ricerca diretta da Alberto Munari presso la Facoltà di Psicologia e Scienze
dell’Educazione dell’Università di Ginevra e presso il Centro Internazionale di
Epistemologia genetica, fondati da Jean Piaget. In costante collaborazione con Gianluca
Bocchi, sviluppa un percorso di ricerca nell’ambito della filosofia della scienza,
concentrando i suoi studi sui problemi epistemologici delle scienze evolutive. Le teorie
dell’evoluzione biologica, la storia delle idee e la psicologia genetica sono le scienze di
riferimento nel suo progetto di epistemologia sperimentale ed evolutiva.
Dai primi anni ’80 collabora con Donata Fabbri al Centro di Psicologia Culturale di
Ginevra, con Ilya Prigogine presso l’Universitè Libre de Bruxelles, con Henri Atlan e
Francisco Varela presso il CREA (Centre de Recherche d’Epistémologie Appliquée) di
Parigi, con Jean-Louis Le Moigne per il programma MCX (Modélisation de la Complexité),
con Ervin Laszlo e il GERG (General Evolution Research Group) di San Diego. Presso il
CETSAP (Centre d’Études Transdisciplinaires, Sociologie, Antropologie, Politique) di Parigi,
sotto la guida di Edgar Morin, fra il 1986 e il 1993, il suo progetto di epistemologia
evolutiva si espande nel progetto interdisciplinare di antropologia ed epistemologia
complessa. Ceruti promuove una serie di simposi su temi centrali nelle nuove scienze dei
sistemi complessi, che coinvolgono, tra gli altri, oltre ai sopra citati autori, Jerome Bruner,
Heinz von Foerster, Ernst von Glasersfeld, Susan Oyama, Isabelle Stengers, William
Thompson, Lynn Margulis, James Lovelock, Stephen J. Gould, Niles Eldredge, Brian
Goodwin... Da questi incontri nascono alcuni libri pubblicati da Ceruti: L’altro Piaget.
Strategie delle genesi (Emme Edizioni, Milano, 1983, con G. Bocchi, D. Fabbri, A. Munari);
Dopo Piaget. Aspetti teorici e prospettive per l’educazione (Edizioni Lavoro, Roma, 1985,
con D. Fabbri e A. Munari); La sfida della complessità (con G. Bocchi, Feltrinelli, Milano,
1985; Bruno Mondadori, Milano, 2007); Physis. Abitare la Terra (Feltrinelli, Milano, 1988,
con E. Laszlo); Evoluzione e cognizione. L’eredità dell’epistemologia genetica di Jean
Piaget (Lubrina, Bergamo, 1990); Che cos’è la conoscenza (Laterza, Roma-Bari, 1990, con
L. Preta); Epistemologia e psicoterapia (Raffaello Cortina, Milano, 1998, con G. Lo Verso);
Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici (Bruno Mondadori,
Milano, 2000, con G. Bocchi); Le origini della scrittura. Genealogie di un’invenzione (Bruno
Mondadori, Milano, 2001, con G. Bocchi).
La sfida della complessità suscita in Italia un ampio dibattito filosofico, in particolare sui
temi della crisi della razionalità classica. Questo volume, insieme ai successivi testi di
Ceruti, provoca una riflessione epistemologica e apre nuove prospettive di ricerca anche
al di fuori del campo strettamente filosofico, in molte discipline e pratiche sociali:
dall’architettura all’urbanistica, dalla psicologia clinica all’organizzazione aziendale, dalla
sociologia all’antropologia, dalla formazione degli adulti alla pedagogia.
Tra gli anni ’80 e ’90, Mauro Ceruti fonda e dirige tre riviste: La Casa di Dedalo, Oikos,
Pluriverso. Dal 1994 è professore ordinario di Epistemologia genetica presso l’Università
di Palermo, poi presso l’Università di Milano Bicocca, dove è anche preside della Facoltà di
Scienze della Formazione. Dal 2001 al 2008 presso l’Università di Bergamo è professore
ordinario di Filosofia della scienza, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, poi della
Facoltà di Scienze della Formazione e direttore della Scuola di Dottorato in Antropologia
ed Epistemologia della Complessità. Dal 2007 presiede la Società Italiana di Logica e
Filosofia della Scienza. Dal 1999 al 2001 e dal 2006 al 2008 è membro del Comitato
Nazionale per la Bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Nel 2008 è eletto
Senatore della Repubblica.
La prima opera di Mauro Ceruti è Disordine e costruzione. Un’interpretazione
epistemologica dell’opera di Jean Piaget (Feltrinelli, Milano, 1981, con G. Bocchi). Ceruti
sviluppa la prospettiva piagetiana di un’epistemologia evolutiva e sperimentale con un
approccio interdisciplinare che coordina scienze biologiche e cognitive, storia delle scienze
e logica matematica, al fine di definire natura e modalità di sviluppo delle conoscenze.
Delinea un approccio pluralista che valorizza la molteplicità delle epistemologie delle
diverse discipline e, in particolare, elabora una specifica e autonoma epistemologia delle
scienze del vivente. Sulla scia di Piaget, per ogni disciplina distingue un’epistemologia
interna, che ne costituisce i fondamenti metodologici, da un’epistemologia derivata, che
riflette sul significato delle conoscenze acquisite e sulle loro interconnessioni con le
conoscenze acquisite da altre discipline. Su queste basi delinea una rappresentazione del
sistema delle scienze e delle loro epistemologie secondo una struttura a rete, al fine di
comprendere le loro molteplici interazioni. In questa direzione dedica una particolare
attenzione ai rapporti fra biologia, psicologia e logica. Egli propone un approccio
interdisciplinare che consente di individuare le radici biologiche e psicologiche del
pensiero formale, pur ribadendo l’autonomia, quanto a metodi e a problemi, della logica
formale. Parimenti, tale approccio consente di integrare a loro volta le indagini
psicogenetiche con un formalismo matematico, per affrontare questioni di epistemologia
della psicologia e della biologia. Su queste basi la sua ricerca sfocia in una filosofia
costruttivistica della psicologia, della logica e della matematica.
L’epistemologia di Ceruti si sviluppa come alternativa alla concezione della conoscenza
come rappresentazione oggettiva del mondo, fatta propria anche dal filone prevalente
nelle scienze cognitive contemporanee. Egli propone una concezione costruttivistica della
conoscenza e delle relazioni tra soggetto e oggetto, trovandone le radici
nell’epistemologia biologica (Conrad Waddington), sistemica (Ludwig von Bertalanffy) e
cibernetica (Norbert Wiener) delineatasi tra gli anni ’30 e ’50 del Novecento, sviluppatasi
poi nelle teorie dei sistemi complessi e auto-organizzatori e, in particolare, nell’attuale
embodied cognitive science. Di questa tradizione costruttivista e sistemica Ceruti delinea,
nel volume La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica
(Feltrinelli, Milano, 1989), un’articolata genealogia e ne propone un originale sviluppo
teorico. Alla base della sua teoria, in consonanza con le ricerche di Piaget, Bateson, von
Foerster, Maturana, Varela e Morin, sta l’idea secondo cui “la vita in quanto processo è un
processo di cognizione” e dunque “il problema della conoscenza si trova nel cuore stesso
del problema della vita”. L’epistemologia di Mauro Ceruti si definisce dunque, in questa
prospettiva, come un’epistemologia biologica, non nel senso riduzionistico, ma nel senso
dell’individuazione di una medesima forma sistemica e auto-organizzativa che, pur
contraddistinta da livelli di complessità differenti, ugualmente caratterizza il biologico e il
mentale. L’idea di conoscenza come costruzione di mondi si precisa quale storia delle
interazioni fra le dinamiche proprie di un sistema e le dinamiche proprie dell’ambiente di
cui fa parte, quale storia della reciproca compatibilità che si sviluppa o meno fra queste
due polarità. Tali polarità si specificano reciprocamente, coemergono, si co-costruiscono.
In questo senso il costruttivismo è, per lui, un’epistemologia complessa, cioè volta a
ricostruire il carattere ricorsivo e coevolutivo delle relazioni tra soggetto e oggetto.
Attraverso queste analisi Mauro Ceruti sviluppa il suo contributo originale a una teoria
dell’osservatore dei sistemi complessi. In particolare questo tema è approfondito nel
volume Il vincolo e la possibilità (Feltrinelli, Milano, 1986). Ceruti critica l’ideale regolativo
moderno dell’onniscienza che, per quanto riconosciuto inattingibile dalla scienza, è stato
a lungo operativo nel fondare un’interpretazione puramente negativa dei “limiti” della
cognizione umana. Ceruti argomenta come i teoremi di limitazione delle scienze
novecentesche siano un profondo contributo epistemologico allo studio delle modalità di
costruzione e di sviluppo delle conoscenze. Egli offre un’interpretazione dell’idea di limite
come opportunità e non solo come ostacolo, come positiva e non solo negativa, come
costitutiva e non provvisoria, di ogni forma di conoscenza, di ogni relazione cognitiva.
Ceruti mostra come, fino a tempi assai recenti, l’interpretazione condivisa dell’idea di
oggettività abbia richiesto, come sua condizione preliminare, di mettere fra parentesi
l’osservatore nel processo della conoscenza e di mettere fra parentesi le sue particolarità
fisiche, biologiche ed esperienziali, la sua cultura, la sua immaginazione, i suoi obiettivi,
le sue convinzioni, le sue ossessioni, le sue credenze, i suoi miti. Egli argomenta come la
stessa scienza oggi consenta di conoscere se stessa come prodotta da un osservatore
singolare, in un contesto spazio-temporale altrettanto singolare: prodotta da uomini e
donne che hanno un corpo, che hanno un patrimonio genetico, che sono sottoposti a
vincoli fisico-chimico-biologici che dipendono da tutta la storia, remota e meno remota,
della biosfera, del pianeta, delle civiltà, delle culture. Nella prospettiva di Ceruti, le
impronte del corpo, della vita e della cultura, lungi dal dissolversi in uno sfondo
indifferenziato, appaiono come costitutive di ogni forma di conoscenza, compresa la
scienza. Egli critica un’immagine della scienza come rappresentazione panoramica
dell’universo, delineata idealmente da un punto di vista assoluto, sciolto da ogni relazione
con la singolare contingenza di un osservatore storico e umano, di un osservatore interno
all’universo; elabora per contro una visione della scienza generata a partire da uno
spazio-tempo e da un punto di vista limitati, e proprio per questo costitutivamente
singolari, irripetibili e storici, a loro volta tematizzati da questa stessa scienza quali
oggetti di conoscenza.
All’analisi critica dell’ideale dell’onniscienza Ceruti dedica la parte più ampia e originale
del suo lavoro, quale premessa della delineazione di un’epistemologia complessa, intesa
come epistemologia del limite. È in questa prospettiva che egli argomenta come le
scienze contemporanee richiedano una reinterpretazione della nozione di legge come
vincolo, cioè come limite. Le leggi non sono intese come prescrittive, ma come
proscrittive: non prescrivono univocamente, ma limitano l’universo dei possibili. Non
impongono un decorso spazio-temporale dei fenomeni, ma limitano gli insiemi di
possibilità entro i quali, di volta in volta, hanno luogo i processi evolutivi. Ceruti mostra
come le scienze contemporanee (scienze di sistemi complessi ed evolutivi) consentano di
delineare un’immagine radicalmente storica della natura: una storia naturale dei vincoli e
delle possibilità, una storia di coproduzione di vincoli e possibilità, in cui alcune possibilità
si fissano trasformandosi in vincoli, che a loro volta eliminano alternative possibili
producendone contestualmente di nuove. Questa immagine della storia naturale prodotta
dalla storia della scienza viene fatta retroagire da Ceruti sullo studio della storia della
scienza stessa. Qui trova pieno compimento l’intuizione originaria di un’epistemologia
evolutiva, cioè di un’idea della conoscenza come costitutivamente incompiuta.
All’inizio degli anni ’90 il progetto di Ceruti si amplia e trova sintesi nel volume Origini di
storie (Feltrinelli, Milano, 1993, con G. Bocchi). Storia della natura e natura della storia,
cioè scienza storica della natura e natura storica della scienza sono le due prospettive che
ricorsivamente si intrecciano nel definire l’epistemologia evolutiva e complessa di Ceruti.
Nel volume viene ricostruita la storia delle scienze storiche, cioè evoluzionistiche, della
natura. A questo argomento sono dedicati anche i volumi: Modi di pensare post
darwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo (Dedalo, Bari, 1984, con G. Bocchi) ed
Evoluzione senza fondamenti (Laterza, Roma-Bari, 1995), oltre al capitolo Evoluzione.
Sviluppi del darwinismo e prospettive post-darwiniane, in L. Geymonat, Storia del
pensiero filosofico e scientifico (Garzanti, Milano, 1996). Invece, il volume Le due paci.
Cristianesimo e morte di Dio nell’età globalizzata (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005,
con G. Fornari) sviluppa l’antropologia di René Girard circa la genesi delle culture umane,
approfondendo il tema del ruolo delle religioni nel mondo globalizzato. Nel ricostruire la
storia delle scienze evoluzionistiche, e quindi l’evoluzione dell’idea stessa di evoluzione,
egli considera indispensabile una prospettiva complessa. In questo senso propone di
riconsiderare come complementari, cioè in reciproca e ricorsiva codefinizione e
cospecificazione, le polarità concettuali che la tradizione epistemologica prevalente ha
considerato invece come alternative, in reciproca opposizione o in relazione lineare e
gerarchica: continuità e discontinuità, caso e necessità, identità e diversità, unità e
molteplicità... In questa prospettiva Mauro Ceruti delinea un paradigma attraverso cui
ricostruire e interconnettere le storie naturali disvelate dagli sviluppi delle scienze
evoluzionistiche post-darwiniane: storie dell’universo, storie della Terra, storie della vita,
storie della specie umana e delle sue culture. Evidenzia come ogni storia rechi in sé
tracce di altre storie, di trame intrecciate e coerenti, di conflitti e tensioni, di molteplici
possibilità alternative. Mostra come nella coevoluzione di vincoli e possibilità,
nell’aggrovigliato intreccio fra regole ed eventi, fra leggi e contingenze si siano generate
le discontinuità nelle storie dell’universo, della vita, delle specie, delle civiltà.
Nell’immagine della storia delineata da Ceruti l’insieme delle possibilità evolutive non è
statico e predeterminato: l’universo del possibile si rigenera ricorrentemente, in modo
discontinuo e imprevedibile. La storia è anche storia naturale delle possibilità, nella quale
nuovi universi di possibilità si producono in coincidenza con le svolte, le discontinuità, le
soglie dei processi evolutivi.
In questa prospettiva egli concepisce l’identità biologica e le identità culturali della specie
umana come emergenti dalla coevoluzione di diversità intessute in una trama complessa
di relazioni. Ogni identità per Ceruti non può che essere storica, quindi non può che
portare al suo interno tracce delle diverse identità in relazione alle quali è coevoluta; non
può che essere costitutivamente una e molteplice; non può che essere relazionale, in
continua coevoluzione con i suoi contesti di vita. Nella sua opera Ceruti mostra come ciò
valga sia per le identità biologiche sia per le identità culturali. Egli delinea così una
descrizione non essenzialistica, ma coevolutiva delle identità umane, culturali e sociali,
generate da processi storici attraverso contingenze e vincoli ambientali, meticciati e
ibridazioni, colonizzazioni e scoperte, coevoluzioni singolari fra popolazioni ed ecosistemi,
ramificazioni imprevedibili. In questa prospettiva Ceruti indaga le radici profonde della
condizione umana dei nostri giorni, condizione planetaria e globalizzata. Egli identifica
queste radici all’incrocio di tempi brevissimi (le innovazioni degli ultimi decenni), brevi e
medi (l’avventura europea nel mondo durante l’età moderna), lunghi (la diffusione
dell’agricoltura, il diffondersi nel mondo dell’umanità paleolitica), fino a toccare i tempi
ancora più lunghi della storia naturale e dell’evoluzione biologica. In Origini di storie
questo incrocio di tempi consente di comprendere e reinterpretare le stratificazioni, le
svolte e gli imprevisti dell’evoluzione del cosmo, della Terra, della vita, dell’umanità.
Il programma di ricerca di Ceruti prende così corpo in una più ampia antropologia
evolutiva e complessa, quale campo di studio interdisciplinare che integra i molteplici
spazi e tempi dell’evoluzione delle identità umane e che mira a indagare i molteplici e
irriducibili intrecci di natura e cultura, al di là di tutte le divisioni prodotte dagli
specialismi. In questa prospettiva Ceruti propone nuovi sensi e nuove collocazioni per gli
sviluppi di importanti risultati di differenti discipline quali la genetica, la mitologia, la
storia delle idee, la paleontologia, la linguistica. Egli concepisce le identità umane come
un divenire piuttosto che un essere, un processo piuttosto che uno stato. In altre parole,
dal suo percorso di ricerca i tratti definitori dell’identità umana appaiono non come statici,
ma come evolutivi: come caratteristiche costruite in lunghi processi di interazione
nell’evoluzione biologica e nell’evoluzione culturale. La condizione umana viene letta
come una rottura con il carattere stereotipo e ripetitivo dei comportamenti animali: una
rottura che approfondisce il valore dell’individualità e dell’unicità. Ceruti mostra come
l’intera storia umana manifesti questa caratteristica di generatività, sul piano delle lingue,
su quello delle culture, delle società, delle conoscenze: una serie limitata e condivisa di
regole e di elementi ha dato e continua a dare origine a variazioni potenzialmente
infinite, nelle quali ogni singolo itinerario aggiunge qualcosa di originale all’evoluzione
complessiva dell’insieme. Generatività significa dunque per Ceruti che ogni esperienza
umana è connessa alle altre in una rete interminata. Il carattere innovativo dell’attuale
condizione globale della specie umana esige una consapevole tematizzazione di questa
totalità evolutiva. In tale prospettiva, riconoscere la costitutiva incompiutezza di ogni
cultura e l’irriducibile molteplicità delle culture è proprio ciò che rende possibile una
concezione unitaria della storia dell’identità umana. Incompiutezza dell’evoluzione
umana, tuttavia, non equivale per Ceruti a incompletezza: significa che gli esiti futuri del
processo dell’evoluzione e della storia non sono iscritti di necessità nell’attuale forma di
espressione della natura umana. Essi dipendono dai vincoli della storia passata, ma
anche dalle scelte presenti. L’umanità non è un destino: l’umanità è una reinvenzione
continua.
Nel testo Solidarietà o barbarie. L’Europa delle diversità contro la pulizia etnica (Raffaello
Cortina, Milano, 1994, con G. Bocchi) ricostruisce la storia delle identità, delle nazioni e
dei territori europei mostrandone la complessa trama coevolutiva, le loro molteplici
sovrapposizioni, l’intrecciata coesistenza di diversità all’interno di collettività che
ambiscono a definire una propria identità unitaria. Egli mostra come questi siano tratti
irriducibili della civiltà europea, e come le nazioni europee siano intessute di diversità che
costituiscono la loro stessa identità: sono il risultato di sintesi spesso tormentate tra
radici eterogenee e memorie stratificate di passati prossimi e remoti. Ceruti mette così in
discussione l’adeguatezza della nozione statica di identità, tradizionalmente applicata agli
stati, alle nazionalità, alle etnie, alle regioni, alle comunità locali; critica la concezione
dell’identità che intende i confini come barriera che separa dall’altro da sé; elabora una
nozione di identità come membrana che consente di filtrare le differenze e di comunicare
grazie alle differenze. Pensare la storia d’Europa significa per Ceruti mostrare la dialettica
ancora oggi in atto tra processi di omogeneizzazione e processi di diversificazione. La
proposta culturale che ne emerge, per la costruzione dell’attuale Unione Europea, si
fonda su una concezione complessa ed evolutiva delle identità nazionali, in grado di
intrecciare le storie e le memorie e di costruire un immaginario europeo comune. A
questo tema è dedicato anche il volume L’Europa nell’era planetaria (Sperling & Kupfer,
Milano, 1992, con G. Bocchi ed E. Morin).
Le prospettive aperte da un’epistemologia e un’antropologia complesse sono per Ceruti
indispensabili per riformare i progetti educativi nell’età della globalizzazione. A questa
riflessione dedica un testo, Educazione e globalizzazione (Raffaello Cortina, Milano, 2004,
con G. Bocchi), che ha suscitato un ampio dibattito pedagogico e politico. Ceruti pone in
primo piano il paradosso che contraddistingue e paralizza le attuali istituzioni educative,
dai livelli iniziali ai livelli superiori della scolarizzazione: da una parte, tali istituzioni
continuano a essere organizzate secondo principi che separano e frammentano i saperi e
le modalità della loro trasmissione e che tendono a trasmettere un’idea statica dei saperi;
dall’altra parte, tuttavia, i saperi contemporanei proliferano e si diversificano tra loro con
ritmi sempre più accelerati, ma secondo modalità che evidenziano e richiedono una
sempre maggiore interdipendenza tra di essi. Inoltre i grandi oggetti della conoscenza
(universo, specie, terra, storia, umanità...) e i grandi problemi del nostro tempo (energia,
clima, pace, povertà, sviluppo...) esigono sia la coordinazione di molti punti di vista
disciplinari, sia il confronto tra molteplici punti di vista culturali che, nell’età della
globalizzazione, inevitabilmente si incontrano e si scontrano. Per uscire da questa
condizione, che rischia altrimenti di paralizzare e addirittura di rendere controproducente
la funzione educativa della scuola, Ceruti propone di ripensare non solo i contenuti
specifici
dei curricula scolastici, ma anche e soprattutto l’organizzazione degli
apprendimenti e delle relazioni fra i saperi: ciò al fine di promuovere sia la capacità di
apprendere ad apprendere, sia l’acquisizione di un metodo interdisciplinare. A questo
scopo mostra come la scuola abbia bisogno di porre al centro delle sue finalità
l’insegnamento della condizione umana, cioè l’insegnamento transdisciplinare di tutto ciò
che oggi è necessario per vivere il continuo incontro con la diversità dei saperi e delle
culture. Tale insegnamento è inquadrato sulla storia evolutiva della specie umana e
consente di comprendere come Homo sapiens, nel corso della sua storia, non sia nato
umano ma, piuttosto, abbia “appreso ad essere umano”, e come, in un divenire
millenario, nuove forme di umanità si siano stratificate e sostituite. In questa prospettiva,
la rete dei saperi e delle esperienze, che sta emergendo con il procedere dell’età
planetaria, può consentire alla specie umana di apprendere a diventare globale, di
apprendere cioè a legarsi attraverso nuove relazioni sostenibili con l’insieme degli
ecosistemi, a saper sfruttare il potenziale creativo insito nelle diversità culturali, a
imboccare il sottile crinale di una nuova tappa dell’ominizzazione.
Il percorso filosofico di Ceruti, per raccogliere la sfida della complessità, elabora
un’epistemologia volta a pensare insieme identità e diversità, unità e molteplicità,
continuità e discontinuità, invarianza e cambiamento; un’antropologia volta a concepire
l’identità umana come evolutiva e irriducibilmente multipla, generata nell’intreccio di
molteplici storie; un progetto educativo, etico e politico volto a favorire la valorizzazione
e la messa in relazione delle diversità individuali e culturali, quale condizione per
suscitare un nuovo fecondo processo di coevoluzione della specie umana con il pianeta
Terra e delle forme di vita e di cultura che vi si sono evolute. Tale progetto trova la sua
prospettiva nella necessità di elaborare la coscienza di una “comunità di destino” di tutti i
popoli della Terra, nonché di tutta l’umanità con la Terra stessa. Nel suo insieme, l’opera
di Mauro Ceruti delinea la prospettiva di un nuovo umanesimo planetario, che emerge
dall’intreccio coevolutivo fra identità e culture differenti e che riconosce proprio
nell’incompiutezza di ciascuna la matrice stessa della creatività umana.
GIROLAMO COTRONEO
Girolamo Cotroneo, nato a Campo Calabro (Reggio Calabria) il 29 luglio 1934, ha studiato
presso l’Università di Messina, nella cui Facoltà di Lettere e Filosofia ha percorso tutti i
gradi della carriera accademica di una volta, da assistente volontario, ad assistente
ordinario (1966), a libero docente in Filosofia della Storia (1968), a professore ordinario
di Storia della Filosofia (1975).
Negli anni degli studi universitari – tra il 1953 e il 1957 – ha incontrato alcuni dei “grandi”
maestri di quegli anni: il “marxista” Galvano della Volpe, con il quale ha pure discusso la
tesi di laurea sul pensiero di Sören Kierkegaard, in quegli anni al centro del dibattito
filosofico europeo; il “cattolico”, di ascendenze gentiliane, Vincenzo La Via; i “laici”
Giorgio Spini e Rosario Romeo, dai quali ha imparato ad amare gli studi storici quasi
quanto quelli filosofici: e non si può certo escludere che le sue successive scelte culturali,
l’indirizzo impresso ai suoi studi, discendano proprio dall’interesse e dall’amore verso
entrambe queste discipline.
Cotroneo non si è direttamente legato, pur apprezzandone la lezione, a nessuno di questi
maestri: da Della Volpe lo tenne lontano il rifiuto quasi istintivo del marxismo della cui
validità, sia filosofica che politica, non riuscì mai a convincersi, nonostante l’impegno con
cui ne leggeva i testi; da Vincenzo La Via, quella che riteneva una eccessiva “teoreticità”,
il gusto, forse a lui estraneo, della speculazione pura; dai due storici, il convincimento che
i loro metodi e i loro fini fossero piuttosto lontani dalla filosofia, che ai suoi occhi restava
pur sempre lo studio privilegiato.
La sua carriera universitaria prese l’avvio da un incontro affatto fortuito, avvenuto a Roma
nel 1958, con uno dei maggiori studiosi e interpreti di Croce, Raffaello Franchini. E
quando quest’ultimo l’anno successivo venne chiamato sulla cattedra di Filosofia
Teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina, ne divenne
l’assistente, lasciando dopo qualche tempo l’insegnamento nelle scuole statali.
L’incontro con Franchini lo indirizzò verso il pensiero di Benedetto Croce; un filosofo che
non aveva incontrato – se non attraverso Rosario Romeo, e in una prospettiva non
certamente “teoretica” – durante gli anni universitari, e del quale non aveva letto che le
grandi opere storiche e La storia come pensiero e come azione. Su questo modesto
retroterra si innestò il Croce “teoretico” privilegiato da Franchini, e condusse Cotroneo
alla prima – e in un certo senso definitiva, perfezionata, ma mai abbandonata – scelta
culturale: la passione per la ricerca storica, per la storia della filosofia.
Una scelta che, nel bene e nel male, lo ha tenuto lontano dalle “filosofie della crisi” e dal
“nichilismo” heidegger-nietzschiano, che pure hanno occupato larghi spazi nel dibattito
filosofico recente, agendo però sulla filosofia “teoretica” ma non sulla storia della
filosofia, anche quando questa non si presentava nella maniera che Hegel definiva una
“filastrocca di opinioni”, ma veniva costruita con “spirito” filosofico.
Potrebbe sembrare che il lavoro di Cotroneo si presenti come quello di un semplice
storico della filosofia, di uno studioso che soprattutto ha “narrato” la filosofia, riferendo, e
inevitabilmente semplificandolo, il pensiero dei filosofi. Ma “storia della filosofia” può farsi
in molti modi: anche senza giungere alla estrema conclusione di Gentile secondo cui
«filosofia e storia della filosofia sono una stessa cosa», Cotroneo manifestò sia nella
pratica storiografica che negli scritti, diciamo, “teorici”, il suo rifiuto di una storia della
filosofia condotta con (impossibili) criteri “oggettivistici”, come semplice “narrazione”,
appunto, di idee altrui. Il suo modo di intenderla lo ha esposto in diverse occasioni: la
prima nel 1988, nel saggio “Spiegazione” e “narrazione” nel dibattito storiografico; poi nel
1992 con il saggio Il dibattito sulla storia della filosofia nel Novecento e l’anno successivo
con lo scritto Il problema della storia della filosofia, seguiti nel 1997 dal saggio Le nuove
frontiere della storiografia filosofica, tutti preceduti da uno scritto dal titolo Il rango della
storia, apparso nel 1986, dove affrontava il rapporto tra storia e filosofia, da lui risolto in
una prospettiva “storicistica”, sul cui sfondo appariva lo “storicismo assoluto” di
Benedetto Croce.
Questi lavori indicavano un modello di storiografia alquanto diverso da quello proposto
alla cultura italiana da Eugenio Garin nel celebre saggio, apparso nella seconda metà
degli anni Cinquanta del Novecento, La filosofia come sapere storico, che, non senza
qualche ragione, prendeva le distanze dall’idealismo radicale che caratterizzava gran
parte della storiografia filosofica prodotta nel nostro paese; con essi invece proponeva o
riproponeva una sorta di storia “filosofica” della filosofia, distante anche dai modelli della
“storia della cultura” e della “storia delle idee”, nei quali la storia della filosofia veniva
risolta, o dissolta: a suo parere, la storia della filosofia non era “filosofia” in senso
gentiliano, ma certamente “opera della filosofia”. Questo non implicava che la sua fosse
una battaglia di retroguardia: i saggi in cui esponeva non in forma diretta, attraverso
proposte teoriche, ma attraverso la partecipazione al dibattito in corso, il suo approccio
alla storia della filosofia, indicano che quanto, dopo Croce, era accaduto – e molte cose
importanti erano accadute – nel nostro paese su questo problema, era spesso da lui
recepito e innestato nella mai sconfessata visione originaria.
Come indicano le date, i suoi scritti sulla storiografia filosofica sono stati pensati e
composti tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso: dietro questi,
però, vi era una lunga stagione di ricerche concrete, iniziata negli anni Sessanta sotto la
spinta di un interesse, per così dire, generale; un interesse rivolto alla “storia” come tale,
non ancora alla “storia della filosofia”: nella sua ricerca, nel corso delle letture dei grandi
filosofi che avevano discusso intorno, appunto, alla storia, Girolamo Cotroneo incontrò la
Methodus ad facilem historiarum cognitonem di Jean Bodin, alla quale si appassionò al
punto di dedicare ad essa diversi anni di studio, nel corso dei quali, durante un soggiorno,
nel 1962, presso il “Centre d’Études Superieurs de la Renaissance” di Tours, incontrò, e
lavorò sotto la sua guida, Pierre Mesnard, il più autorevole studioso francese di Bodin.
Questo interesse, dal quale nel 1966 nacque la sua prima monografia, Jean Bodin teorico
della storia, aveva la sua genesi pratica in uno dei problemi aperti da Benedetto Croce: le
origini dello storicismo, oggetto di una celebre polemica con Friedrich Meinecke. A quali
conclusioni fosse giunto Croce, non è il caso qui di dire. Per quel che riguarda invece
Cotroneo, il suo studio su Bodin retrodatava la “nascita” dello storicismo, riportandola
all’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, al pensiero del primo filosofo che congiungeva
la storia alla politica e al diritto, ma che soprattutto scopriva la storia – nella triplice veste
di historia humana, naturalis, divina – come “totalità”, quasi avesse intuito che “la realtà
è storia e nient’altro che storia”.
Per confermare la retrodatazione della nascita dello storicismo, Cotroneo allargò la
ricerca all’intero dibattito sul metodo storico nell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento.
Il risultato di questa ricerca, nel corso della quale ha esaminato i vari trattati sulla storia,
i suoi metodi, i suoi fini, la sua natura, il suo oggetto, apparsi in Europa lungo un periodo
che va dalla metà del 1400 alla fine del 1500, fu non soltanto quello di retrodatare ancora
di più la “nascita” dello storicismo, ma anche quello di fare rifluire questi trattati – da
alcuni considerati parte della storia della letteratura, da altri semplicemente sottoprodotti
della grande storiografia rinascimentale – nella storia della filosofia europea, la quale,
nell’età moderna, con i trattatisti, con Bodin e infine con Vico, ha fatto della storia il suo
oggetto privilegiato, aprendo un percorso che doveva portare all’idealismo hegeliano, al
marxismo, allo storicismo critico di Wilhelm Dilthey e allo “storicismo assoluto” di
Benedetto Croce.
La fase successiva del lavoro filosofico di Girolamo Cotroneo vede l’abbandono delle
ricerche sull’età umanistico-rinascimentale, concluse con la pubblicazione nel 1971 di un
denso volume dal titolo I trattatisti dell’“Ars historica”. Il desiderio, l’esigenza di
partecipare al dibattito filosofico in corso, diresse i suoi studi verso la filosofia
contemporanea, dalla quale tuttavia non aveva mai distolto l’attenzione. Accanto ad
alcuni lavori minori, come i saggi raccolti nel volume Storicismo antico e nuovo del 1972,
il testo che segnala i nuovi interessi è il volume del 1976, Sartre: rareté e storia, dove
l’approccio sartriano al problema della storia, e in genere lo storicismo marxista, venivano
pensati e discussi alla luce dell’idea di storia alla quale lo avevano condotto le ricerche
svolte fino ad allora: un’idea che gli consentiva, attraverso una forte critica delle teorie
del filosofo francese, che riteneva il marxismo “l’insuperabile filosofia del nostro tempo”,
di chiudere, come usa dire, i conti con quel marxismo che aveva incontrato alla “scuola”
di Galvano della Volpe, e che mai lo aveva convinto, ma che non poteva ignorare, e con il
quale non poteva, sia pure prendendo le distanze da esso, non discutere, essendo in
quegli anni la filosofia dominante.
Ma l’autore l’incontro con il quale gli offrì gli strumenti per chiudere definitivamente quei
“conti”, e dal quale la sua formazione avrebbe invece dovuto tenerlo lontano, fu
l’antistoricista, l’antidialettico, l’antiplatonico, l’antihegeliano, oltre che antimarxista, Karl
Raimund Popper, al cui pensiero nel 1981 Cotroneo dedicò il volume Popper e la società
aperta. Pur rigettando l’antistoricismo del filosofo austro-inglese e il suo radicale
antihegelismo (Hegel è stato per lui, nonostante gli abbia dedicato pochi studi sparsi, uno
dei punti più forti di riferimento), Cotroneo accoglieva in pieno il concetto di “società
aperta”, facendone il punto di approdo del suo “liberalismo”, costruito – ne riparleremo –
intorno a quello di Benedetto Croce. Ma, di là delle suggestioni offerte dal suo pensiero
politico, Popper gli consentiva di ripensare, sostenuto anche dalla particolare attenzione
da lui rivolta in quel periodo, pur se manifestata soltanto attraverso qualche saggio e
ampi riferimenti occasionali, ai “nuovi” filosofi della scienza – primi fra tutti Thomas Kuhn
e Paul K. Feyerabend – il rapporto tra filosofia e scienza, superando la rigida distinzione
sostenuta dal Croce della Logica.
Quanto detto finora indica il criterio metodologico di Cotroneo: le tesi da lui sostenute
non vengono mai presentate in maniera diretta, sotto la specie di costruzioni teoriche,
ma attraverso la discussione critica degli autori e delle opere tolte in considerazione. Lo
stesso approccio a Croce si presenta con le medesime caratteristiche: non per dare
ragione del suo pensiero, ma per approfondire alcuni nodi teoretici alla cui soluzione gli
sembrava necessario apportare, accanto a quelli di Croce, ulteriori argomenti. Il primo
importante studio sul filosofo napoletano risale al 1970, ed ha per titolo Croce e
l’illuminismo: il suo scopo non era, o non era soltanto, quello di rievocare, accogliendoli o
rifiutandoli, i differenti giudizi di Croce sulla filosofia del Settecento, quanto invece
discutere, o ridiscutere, la vexata quaestio del rapporto tra razionalismo e storicismo,
individuando in quest’ultimo la più alta, perché arricchita dalla concretezza della storia
“reale”, forma di razionalismo.
Gli altri scritti su Croce, molti dei quali si incontrano nel volume del 1992, L’ingresso della
modernità. Momenti della filosofia italiana tra Ottocento e Novecento (a partire dai primi
anni Ottanta il suo interesse si è diretto verso la filosofia italiana della seconda metà
dell’Ottocento, in particolare alla corrente neoidealistica o neohegeliana) e in quello del
1994, Questioni crociane post-crociane, portano anch’essi quest’impronta metodologica: i
nodi teoretici vengono discussi non direttamente, ma attraverso il confronto diretto tra il
pensiero di Croce e alcuni importanti filosofi europei quali Nietzsche e Dilthey; con i suoi
contemporanei italiani, come Labriola, Gentile, Salvemini; e, ancora, la ricerca dei suoi
sviluppi presso alcuni filosofi italiani del Novecento, come Nicola Matteucci e Vittorio de
Caprariis formati alla “scuola” di Benedetto Croce, o presso altri che non potrebbero certo
essere definiti “crociani”, quali ad esempio Felice Battaglia o Antonio Banfi.
Lungo questa via venivano discussi temi come quello già indicato della storia della
filosofia, quello del rapporto tra filosofia e storia, tra filosofia e politica, i problema dei
valori, il senso proprio del marxismo, questioni fondamentali di etica, e altri ancora. Un
lavoro che proseguiva, e forse si concludeva, con gli scritti su Croce raccolti nel volume
del 2005 dal titolo Benedetto Croce e altri ancora, dove si incontrano diversi saggi
dedicati al pensiero politico del filosofo napoletano.
Quest’ultimo è uno dei momenti più forti del discorso di Cotroneo sul suo “auttore”, per
dirla con Giambattista Vico: perché è la lunga, si potrebbe dire ininterrotta, riflessione sul
liberalismo di Croce, alla base dei suoi interventi diretti nel dibattito politicofilosofico degli
ultimi quarant’anni del Novecento; un dibattito che si presentava sotto la forma di un
conflitto tra una cultura minoritaria, ma decisa a fare valere le sue ragioni – quella,
appunto, liberale – e una egemone, quale era allora quella marxista. La sua
partecipazione a quel dibattito – che affiancava, senza interferire con esso, le già indicate
ricerche di storia della filosofia – iniziò, a riprova di quanto il problema etico-politico
premesse sul suo pensiero, assai presto, precisamente nel 1962, anno in cui apparve il
suo primo articolo sulla prestigiosa rivista di Francesco Compagna, “Nord e Sud”, alla
quale collaborò fino all’anno di chiusura, il 1982; nel 1985, quasi come suggello di questo
lungo periodo, raccolse una parte di questi scritti, quelli tra di essi dedicati a problemi
generali di filosofia politica, nel volume Le ragioni della libertà, al quale può venire
affiancato un volume del 1998, Tra filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio ,
nel quale raccolse i non pochi scritti dedicati al filosofo torinese su diverse riviste e
giornali, ognuno seguito da una lettera di commento che lo stesso Bobbio gli aveva
scritto dopo averlo letto.
La sua partecipazione al dibattito filosofico-politico a sostegno del liberalismo – inteso
crocianamente come “teoria metapolitica” – proseguì su altre riviste, come
“Mondoperaio”, “Tempo presente”, “Libro aperto”, presentandosi spesso come un
discorso critico sul pensiero dei filosofi, in senso largo, “liberali” del Novecento – da
Ortega y Gasset a Chaïm Perelman a Hannah Arendt – e come discussione, in anni in cui
la crisi del marxismo si manifestava in maniera sempre più evidente, sui rapporti tra
liberalismo e socialismo. Ma il testo in cui il suo discorso sul liberalismo si presenta in
forma praticamente compiuta, è la lunga introduzione alla prima, anzi all’unica, antologia
degli scritti politici di Croce, apparsa nel 1986, e riedita nel 2004, con il titolo La religione
della libertà.
Alla visione del liberalismo di Cotroneo non concorreva però soltanto il pensiero di Croce:
in essa rientrava infatti la filosofia politica di due grandi del Novecento: il “liberale”
Raymond Aron e il “neo-contrattualista” John Rawls, ai quali ha dedicato soltanto alcune
note occasionali, ma dei quali ha recepito non poche istanze fondamentali per la
formazione di un liberalismo per il futuro.
A questo punto l’indicazione delle due direttrici lungo le quali la sua ricerca filosofica si è
sviluppata e realizzata, dovrebbero risultare con sufficiente chiarezza, per cui rimane il
problema dei suoi possibili ulteriori sviluppi. Difficile prevedere variazioni del quadro
teoretico costruito nel corso degli anni intorno a uno storicismo di originaria matrice
idealistica, ma ripensato alla luce di alcune esperienze della filosofia del secondo
Novecento, quali, sul piano teoretico, la ricordata “nuova” filosofia della scienza, il
liberalismo, non “metapolitico” ma “empirico”, di Raymond Aron o di John Rawls, oltre
che di Karl Popper. Né si può pensare a un mutamento dei criteri metodologici che hanno
guidato il suo lavoro principale, le sue ricerche sulla storia della filosofia, condotte con
metodo individualizzante, attraverso la messa a punto di problemi particolari,
accantonando il problema del “gran peut-être”, secondo, appunto, l’insegnamento di
Croce, il quale già nel secondo decennio del Novecento proponeva un modello di
storiografia filosofica che alla «filosofia del “problema fondamentale”» ne sostituiva una
intesa come “metodologia”, alla quale «doveva corrispondere una storia della filosofia
assai più ricca, varia e pieghevole, che consideri come filosofia non solo ciò che attiene al
problema della immanenza e della trascendenza, del mondo e dell’altro mondo, ma tutto
ciò che è valso ad accrescere il patrimonio dei concetti direttivi e l’intelligenza della storia
effettiva, e a formare la realtà di pensiero, nella quale viviamo».
La realtà del periodo storico che stiamo vivendo ha comportato per tutti i cultori degli
studi filosofici una maggiore attenzione ai problemi “particolari”, essendo praticamente
ormai chiusa la stagione dei “sistemi filosofici”, al posto dei quali sono subentrati
problemi specifici, lontani dalla filosofia speculativa tradizionale. A questo nuovo genere
di studi praticato da Cotroneo ha certamente contribuito il suo incontro con Hans Jonas,
attraverso il quale ha meditato su uno dei temi più sensibili del dibattito contemporaneo,
destinato a proseguire ancora nell’immediato futuro; un tema che ha dato vita a una
nuova disciplina, la bioetica, che coinvolge direttamente scienze come la medicina e il
diritto, e sul quale la filosofia ha detto molte cose decisive. Questo interesse si è
manifestato nei modi e nei termini con i quali si erano sviluppate le sue precedenti
ricerche, sarebbe a dire in lavori monografici piuttosto brevi, intesi a puntualizzare alcuni
argomenti specifici, sistemati nel 2002 in un volume di non grandi dimensioni dal titolo Le
idee del tempo, dove, muovendo ancora una volta da autori e opere molto vivaci,
esponeva il proprio punto di vista su problemi come quello della donazione degli organi,
la modificata struttura della famiglia con l’introduzione delle tecniche della fecondazione
assistita, l’eutanasia, la nuova etica medica, conseguente allo sviluppo della biologia
molecolare e dell’ingegneria genetica.
Non siamo però di fronte a uno studioso eclettico interessato superficialmente al
dibattito filosofico, etico e politico quale si è presentato dal secondo dopoguerra ad oggi:
siamo di fronte, invece, a uno studioso profondamente convinto che oggetto della
filosofia sono i problemi che la “realtà”, gli “altri” saperi, propongono, e sui quali il filosofo
dice la sua – non l’ultima – parola. È molto probabile allora che continuare a discutere,
dando ad esse la forma di piccole monografie intese a sciogliere alcuni nodi teoretici che
presentano i risultati, le teorie prodotte dagli “altri” saperi, ma soprattutto con le nuove
categorie dell’etica e della politica, fondamento ultimo della vita sociale, sarà nei prossimi
anni il suo lavoro filosofico, che, come si vede da quello finora svolto, non intende certo
esaltare la husserliana “funzione arcontica” della filosofia, ma mantenere aperto il
confronto fra di esse e, appunto, la filosofia.
FRANCESCO D’AGOSTINO
Francesco D’Agostino, nato a Roma nel 1946, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Roma nel 1964. Si laurea nel 1968, sotto la guida di Sergio Cotta, con
una tesi in Filosofia del diritto. Contemporaneamente a quelli di diritto, porta avanti studi
teologici, sotto la guida di Dalmazio Mongillo, presso l’Università San Tommaso d’Aquino
(Angelicum) di Roma. Dopo la laurea continua gli studi filosofico-giuridici, anche con
soggiorni presso Università straniere (Bonn, Fribourg); diviene assistente ordinario di
Filosofia del diritto nell’Università di Roma nel 1971. Ottiene il suo primo insegnamento in
Storia delle dottrine politiche nell’Università di Lecce, nel 1973 e poi, dopo alcuni mesi di
insegnamento presso l’Università di Urbino, va ad insegnare Filosofia del diritto
nell’Università di Catania, in cui ottiene l’ordinariato per questa materia nel 1980. Nel
1990 si trasferisce nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tor Vergata,
nella quale insegna tuttora e in cui attualmente dirige il Dipartimento di Storia e Teoria
del diritto. A Roma tiene altresì corsi nella Pontificia Università Lateranense, nella LUISS e
nella LUMSA. Nel 1990 assume, con Francesco Viola, la direzione della Collana Recta
Ratio, per il tipi della Casa editrice Giappichelli di Torino: in quasi vent’anni di vita la
collana, ancora vivacissima, accoglie un centinaio di volumi e si afferma come la più
organica e ricca collana di studi filosofico-giuridici italiana. Nel 1990 viene istituito dalla
Presidenza del Consiglio dei Ministri il Comitato Nazionale per la Bioetica, di cui
D’Agostino è chiamato a far parte, assieme a pochi altri giuristi. Ne diviene presidente per
due mandati quadriennali e si impone rapidamente tra i massimi studiosi italiani di
Bioetica, acquistando altresì, in questa veste, una notevole visibilità mediatica. Ottiene a
Sulmona il “Premio Capograssi” per il diritto nel 1998. Nel 2005 è eletto Presidente
nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani e in questa qualità attiva, per la Casa
editrice San Paolo, la collana Le ragioni del diritto, dedicata a problemi di rilevante
attualità e dal carattere molto agile. A seguito del ritirarsi di Sergio Cotta a vita privata,
assume la condirezione della Rivista internazionale di Filosofia del Diritto. È stato
nominato da Giovanni Paolo II membro della Pontificia Accademia per la Vita e fa parte
del Consiglio Scientifico Ristretto dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
Profilo e attività scientifica
Francesco D’Agostino si è formato come filosofo del diritto alla scuola di Sergio Cotta,
assumendo dal maestro come paradigma fondamentale un atteggiamento, che non lo
abbandonerà più, di indifferenza verso la Teoria generale del diritto (da molti, sulla scia
di Kelsen, identificata con la filosofia giuridica) e un interesse, al medesimo tempo critico
e aperto, per la dottrina del diritto naturale. Le sue prime monografie, Epieikeia. Il tema
dell’equità nell’antichità greca (Milano, Giuffrè, 1973, pp. 204) e La tradizione
dell’epieikeia nel Medioevo latino. Un contributo alla storia dell’idea di equità (Milano,
Giuffrè, 1976, pp. 316), al di là del loro pur rilevante valore storiografico, dimostrano un
esplicito interesse teoretico: nella tradizione storica occidentale l’equità è la giustizia del
caso concreto e la costante tensione verso la sua realizzazione indica il desiderio,
tipicamente occidentale e tipicamente giusnaturalistico, di dare alla giustizia un valore
oggettivo.
Per alcuni anni D’Agostino continua negli studi dedicati al pensiero greco antico ( Per
un’archeologia del diritto. Miti giuridici greci, Milano, Giuffrè, 1979, pp. 164, e Bia.
Violenza e giustizia nella filosofia e nella letteratura della Grecia antica, Milano, Giuffrè,
1983, pp. 132) e alla storiografia filosofico-giuridica (Tirannide, Torino, Giappichelli, 1988,
pp. 59), poi lentamente comincia ad orientare la sua riflessione in direzione più
esplicitamente teoretica. Ad un corso sul diritto naturale dedicato agli studenti
(Normatività e natura, Catania, Torre, 1986, pp.169) fa seguito una ricerca di filosofia del
diritto penale (Sanzione e pena nell’esperienza giuridica, Torino, Giappichelli, 1987, pp.
134), in cui egli rielabora una concezione espiatoria della pena, assolutamente contro
corrente nel contesto del pensiero dominante in materia. Nel 1991 vengono pubblicate,
prima in traduzione spagnola, poi in edizione italiana, le Linee di una filosofia della
famiglia, nella prospettiva della filosofia del diritto (Milano, Giuffrè, 1991, pp. 167; la trad.
spagnola, dal titolo Elementos para una filosofia de la familia, è edita a Madrid da Rialp,
sempre nel 1991, per complessive pp. 163). L’opera ha un suo successo editoriale e
conosce nuove edizioni e ristampe nelle due lingue; nel 1999 l’autore la ripubblica, con
significativi approfondimenti e col titolo Una filosofia della famiglia (Milano, Giuffrè, pp.
205; l’edizione spagnola col titolo Filosofia de la familia appare nel 2006). La famiglia,
studiata ricorrendo oltre che all’antropologia filosofica, all’etnologia e alla psicoanalisi,
viene presentata da D’Agostino come una struttura antropologica fondamentale, nella
quale lo stesso diritto trova le sue radici e le sue condizioni di possibilità. Costante in
quest’opera è la polemica contro le teorie “pluralistiche” della famiglia, che ne riducono
l’essenza ad una variabile storico-sociologica, così come è costante l’attenzione critica
rivolta alla pretesa di dare legittimazione a “nuovi modelli familiari”, anche omosessuali,
tipica di questi ultimi anni. Una brevissima sintesi della filosofia della famiglia di
D’Agostino è costituita dal piccolo volume La famiglia, un bene insostituibile (Siena,
Cantagalli, 2008, pp. 111), che raccoglie i migliori editoriali da lui dedicati a questo tema.
Nel 1992 D’Agostino raccoglie i lavori da lui dedicati alla teologia del diritto, in un volume
dal titolo Il diritto come problema teologico, (Torino, Giappichelli, che arriverà ad una
terza edizione riveduta e ampliata nel 1997 per complessive pp. 317). Il volume apre la
strada a un testo di ancor maggior rilievo, Filosofia del Diritto (1° edizione, Torino,
Giappichelli, 1993, pp. 270, 4° edizione ampliata, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 299; il
volume viene tradotto in spagnolo col titolo Filosofía del derecho, a Bogotá (Colombia)
nel 2007, pp. 259). In quest’opera le linee essenziali del pensiero giusfilosofico di
Francesco D’Agostino sono definitivamente consolidate: il diritto viene presentato come
dimensione antropologica fondamentale, volta a difendere l’identità della persona nella
sua relazionalità costitutiva. Quest’opera consolida la sua fama di principale esponente
dell’orientamento cattolico nella filosofia italiana del diritto. Integrano quest’opera due
successivi piccoli volumi, Diritto e Giustizia (del 2000) e Giustizia. Elementi per una teoria
(del 2006), pubblicati ambedue, intenzionalmente, da una casa editrice non specializzata
in opere giuridiche, ma teologiche e religiose, come la San Paolo di Cinisello Balsamo. Il
rapporto e il raccordo tra giustizia e carità viene ampiamente delucidato in questi due
testi, che senza negare il carattere sociale e contingente dell’esperienza giuridica
evidenziano però in essa una tensione verso il trascendente, che la salva dal cinismo
dell’utilitarismo e ne giustifica pienamente l’immenso rilievo psicologico ed emotivo che
essa ha sempre posseduto nell’animo umano in tutte le culture. Nel 2006 appare altresì
Parole di Giustizia (Torino, Giappichelli, pp. 141), che ripresenta, con suggestive
variazioni e con linguaggio più tecnico ed evidentemente più mirato ai giuristi, le
medesime tematiche.
Accanto ai lavori più specificamente giusfilosofici D’Agostino porta avanti ricerche in
ambito bioetico, anche a seguito del suo impegno nel Comitato Nazionale per la Bioetica.
Pubblica nel 1996 Bioetica, nella prospettiva della filosofia del diritto (Torino, Giappichelli,
3° edizione, 1998, pp. 354), che ottiene un rilevante successo internazionale, attestato
dalle traduzioni in spagnolo (Bioética, EIUNSA, 2003, pp. 260), in francese (Bioéthique,
Québec, Les Presses de l’Université Laval, 2005, pp. 137), in portoghese (Bioética,
Editoria Unisinos, São Leopoldo, 2006, pp. 329). Inserendosi nell’infocato dibattito tra
bioeticisti “laici” e bioeticisti “cattolici”, D’Agostino, senza ovviamente nascondere la sua
appartenenza a questo secondo orientamento, si batte perché venga riconosciuto alla
bioetica uno statuto antropologico non confessionale, riconducibile all’esigenza, propria
della modernità, di proteggere la vita in tutte le sue specifiche dimensioni e in tutti i
contesti in cui essa appaia paradossalmente minacciata dai progressi della biomedicina.
Le sue riflessioni in materia trovano significativi approfondimenti nel volume Parole di
Bioetica (Torino, Giappichelli, 2004, pp. 228) e un’esposizione più didattica in Bioetica.
Nozioni fondamentali (Brescia, La Scuola, 2007, pp. 335) scritto a quattro mani con Laura
Palazzani.
Prospettive future di indagine
È evidente che la complessità e la ricchezza delle tematiche bioetiche occuperanno
D’Agostino a lungo, anche nei prossimi anni. Ma è possibile già fin da ora individuare una
nuova direzione del suo impegno filosofico, a partire da un piccolo volume da lui
pubblicato assieme a Giulio Giorello, Il peso politico della Chiesa (Cinisello Balsamo, San
Paolo, 2008, pp. 77). In questo volume D’Agostino si confronta col problema della
secolarizzazione e in particolare con le nuove forme di laicismo politico libertario sorte in
Occidente a seguito del definitivo crollo del marxismo. D’Agostino è consapevole che il
tema della laicità è divenuto spinosamente controverso: dietro ad esso si gioca nella
modernità una partita che va al di là del discorso filosofico e giuridico tradizionale. Dietro
la bandiera della laicità si collocano nuove pretese all’accoglimento acritico di inedite
rivendicazioni identitarie, che rifiutano il confronto dialogico, perché non credono nel
principio accomunante del logos, e della sua capacità di rendere fratelli gli uomini. Nel
nome di una laicità scettica e relativistica, che sostiene l’insindacabilità degli stili di vita e
l’irriducibile relatività dei modi di pensiero, si sta destrutturando, secondo D’Agostino, la
comunicazione tra gli esseri umani. È giunto quindi il tempo per operare affinché si
realizzi una nuova convergenza tra la sensibilità laica e la sensibilità religiosa. Ambedue
sentono l’esigenza da una parte di custodire e di non tradire la propria identità e dall’altra
di promuovere nel modo più efficace quell’obiettivo irrinunciabile che è il bene umano,
della cui dimensione sociorelazionale i giuristi – o almeno quelli consapevoli della loro
vocazione – si sono tradizionalmente e correttamente ritenuti i custodi. La cultura laica
può svolgere un’essenziale funzione antifondamentalistica, chiedendo continuamente agli
uomini di fede di rendere ragione non solo della speranza che è in loro (secondo la
celebre ammonizione della Prima lettera di Pietro), ma anche della loro visione morale e
quindi del loro impegno socio-politico nel mondo. E la cultura religiosa può aiutare il
pensiero laico a liberarsi da ogni riduzionismo, a capire che alla radice del bene umano
non ci si può illudere che stiano dei calcoli, anche se corretti, ma principi assieme
ontologici e assiologici (quelli che oggi vengono chiamati diritti umani fondamentali), che
solo una visione integrata del reale può tematizzare e rendere plausibili e credibili.
Secondo D’Agostino l’antica alleanza che S. Tommaso stipulò tra pensiero filosofico
aristotelico e la teologia cristiana elaborata dalla tradizione patristica oggi deve riattivarsi
in forme paradigmaticamente analoghe, ma innovative nei contenuti ed è in questa
direzione che, con ogni probabilità, egli rivolgerà nei prossimi anni i suoi sforzi.
SALVO D’AGOSTINO
Fra storia e memoria: le ricerche di uno storico della fisica
Salvo D’Agostino 1 deve i suoi primi interessi nella storia della scienza alle sue prime
esperienze e riflessioni maturate durante gli studi per la laurea in Fisica presso
l’università di Catania e i successivi anni d’insegnamento di matematica e fisica presso i
licei classici di Orvieto e Viterbo. Esperienze e riflessioni che aveva avuto modo di
precisare presso l’Istituto di fisica della università la “Sapienza”, dopo il concorso per
assistente ordinario e l’“incarico” dei corsi di Complementi di Fisica Generale ed
Esperimenti di Fisica.
Essenzialmente, i problemi coi quali si confrontava erano legati al fatto che il tradizionale
percorso concettuale legato ai corsi di laurea e le successive categorie formative nei corsi
per ricercatori scientifici si presentavano in stridente contrasto con quelle che attraverso
l’insegnamento egli percepiva come le reali esigenze dei giovani che si affacciavano
all’universo della scienza e della cultura.
Negli stessi anni settanta, una sua visita nelle università degli Stati Uniti con una borsa
Fulbright gli avevano fatto apprezzare alcuni aspetti delle istituzioni universitarie
americane con la loro varietà di “curricula”, fra i quali lo avevano particolarmente
interessato le lezioni e le pubblicazioni che James Bryant Conant alla Harvard University
dedicava alla formazione dei ricercatori scientifici attraverso corsi di storia della scienza.
Aveva poi seguito le lezioni che Duane Roller dedicava alla storia della scienza nelle ricca
biblioteca di storia della scienza della sua università. Un contratto annuale di
insegnamento di fisica sperimentale a Union College (Schenectady USA), e un corso di
fisica teorica alla Brandais University, avevano perfezionato i suoi interessi
all’insegnamento e le sue conoscenze di fisica teorica. Ritornato in Italia aveva concorso
ai Lincei per una borsa di ricerca in storia della fisica dei Lincei-Royal Society e aveva
trascorso alcuni mesi all’università di Cambridge, sotto la guida di Mary Hesse, studiosa
della scienza maxwelliana. Rientrato nell’ambiente universitario italiano, aveva stabilito
dei contatti con le ricerche e i cultori di epistemologia e storia della scienza che avevano
tentato fortunosamente di affermarsi nella prevalente cultura umanistica del nostro
paese.
Negli anni settanta, aveva così deciso di abbandonare gli “incarichi” d’insegnamenti di
fisica, e le ricerche pertinenti, per l’incarico del corso di storia della fisica, insegnamento
che ha poi proseguito come professore associato sino al pensionamento nel 1992. Alla
decisione avevano contribuito la recente istituzione di un corso di storia della fisica,
fondamentale solo per l’indirizzo didattico della laurea in fisica, e l’incoraggiante appoggio
manifestatogli in varie occasioni da Enrico Persico (Roma 1900-Roma 1969), un illustre
fisico, che aveva introdotto in Italia la meccanica quantistica, ed uno dei pochi fisici allora
interessati a problemi epistemologici.
In quegli anni era maturato per SD l’interesse per una formazione del fisico che desse
rilievo a conoscenze storiche e filosofiche, come premessa al miglioramento
dell’insegnamento a tutti i livelli. Era anche convinto che il nuovo processo formativo
avrebbe poi comportato una maggiore attenzione e competenza al problema di una
diffusione nel paese di una “cultura scientifica”. Negli stessi anni, in collaborazione con
Guido Tagliaferri dell’università di Milano, con Fabio Bevilacqua e Pasquale Tucci, delle
università di Pavia e di Milano, contribuisce alla fondazione del Gruppo Nazionale di Storia
della Fisica, finanziato in parte e per un certo tempo dal CNR. Un’altra istituzione alla
quale la sua attività di storico della fisica deve aiuti e incoraggiamenti è l’Accademia delle
Scienze, detta dei Quaranta, specialmente ad opera del suo compianto presidente,
Gianbattista Marini Bettolo, un programma oggi proseguito dall’attuale presidente, Gian
Tommaso Scarascia Mugnozza. Altri incentivi alla ricerca erano offerti dagli incontri
periodici del Circolo Epistemologico Romano, ospitato presso l’Istituto di Storia della
Medicina, di cui Dario Antiseri era l’animatore, e dove non mancava l’occasione di vivaci
dibattiti su storia della scienza e epistemologia, ai quali partecipavano oltre a Vittorio
Somenzi, allora ordinario di filosofia della scienza alla “Sapienza”, Ernst Hutten, un illustre
fisico tedesco di origine ebraica, allievo di Einstein e di Schroedinger, e Massimo Carrea,
un filosofo genovese allievo di Baratono. Negli stessi anni SD contribuisce alla redazione
del Dizionario Biografico degli Italiani, un’opera dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, e si
occupa degli sviluppi della scienza elettrotecnica in Italia, assieme ai colleghi Arcangelo
Rossi dell’università di Lecce e Adriano Morando del Politecnico di Milano, organizzando
congressi internazionali e la pubblicazione degli atti sulle opere di Galileo Ferraris e di
Giovanni Giorgi.
Il lavoro complessivo di ricerca è documentato in circa duecento pubblicazioni in periodici
nazionali ed esteri di storia della scienza, in due lavori monografici e due libri in
collaborazione. A riconoscimento della sua attività, è stato invitato a tenere conferenze in
varie istituzioni internazionali e università estere, fra le quali il Deutsche Museum di
Monaco (Teichman), il Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte di Berlino (Jürgen
Renn), la London School of Economics (Heinze), la Sorbona (C. Chevalley), l’Università del
South Caroline (congresso internazionale su Heinrich Hertz), oltre che in vari istituti e
università italiane. Oggi fa parte del consiglio scientifico della Società Italiana degli Storici
della Fisica e dell’Astronomia, è nei consigli scientifici delle riviste Physis e Nuova Civiltà
delle Macchine.
La sua storiografia è stata caratterizzata da un diretto confronto con quelli che sono
considerati i classici della fisica. Infatti, pur prestando attenzione ai grandi dibattiti degli
anni sessanta seguiti alla pubblicazione delle note opere di epistemologia e di storiografia
della scienza,2 nelle sue ricerche SD ha preferito indirizzarsi verso un autonomo confronto
con i classici della storia della fisica, da Newton sino alla fisica teorica di Einstein e
Schroedinger. Le sue competenze nel campo scientifico rappresentavano solo “condizioni
al contorno”, utili per quel tanto che consentissero un’effettiva compenetrazione con la
ricerca storiografica. La sua storiografia prendeva lo spunto da una lettura del testo
storico e da un’immersione, non sempre facile, nello stesso, e soltanto dopo il pensiero
risaliva alle conoscenze del fisico del ventesimo e ventunesimo secolo per un confronto
alla pari con gli “scienziati” del passato, un confronto cioè che non presupponesse un
progresso della fisica odierna rispetto alla scienza trascorsa. L’immersione riservava
difficoltà non lievi nel comprendere le idee sottostanti ai procedimenti argomentativi degli
“scienziati” (la loro “logica della ricerca”) e procurava sorprese a volte eclatanti nel
ritrovare procedimenti e metodi di ricerca oggi inusuali, a dir poco, ma che pure
sboccavano nelle grandi scoperte teoriche e sperimentali che hanno preceduto la fisica di
oggi.
Una constatazione che maturava passo a passo con le ricerche riguardava il cambiamento
o mutazione storica delle idee della scienza (per idee intenderò qui e nel seguito
presupposti o “temata” e metodi di indagine teorica e sperimentale). Questa tesi non
comportava una “incommensurabilità” alla Kuhn fra le teorie, perché le mutazioni non
erano totalizzanti, in quanto componenti come la matematica per le teorie (o la
strumentazione per gli esperimenti) facevano sì che il nuovo si confrontasse con il vecchio
accettandolo parzialmente o totalmente e quindi giustificandolo.
Queste componenti costituivano stratificazioni di continuità fra fisiche diverse. Un caso
storico di continuità che è stato oggetto di una pubblicazione riguardava la richiesta
ottocentesca di omogeneità nelle formule rappresentanti le leggi fisiche,3 una
caratteristica che accomunava teorie convenzionalmente ritenute diverse se non opposte
quali l’elettrodinamica di Weber e l’elettromagnetismo di Maxwell ed Hertz.
La tesi storiografica della fondamentalità del cambiamento si è dovuta confrontare
comprensibilmente con la tesi di un “progresso” della scienza, coincidente con uno
sviluppo lineare delle conoscenze, comportante quindi una loro accumulazione. Ma la sua
messa in discussione si basava sulle ricerche che approdavano alla scoperta di una
comparsa, sulla scena scientifica, di “nuova fisica teorica” (un’idea peraltro sostenuta da
Poincaré), una fisica iniziata a metà ottocento con le teorie del campo elettromagnetico
di Maxwell e culminata (contro Poincaré) con la relatività einsteiniana e le teorie del
campo unificato. L’avvento della fisica teorica come la manifestazione di un nuovo modo
di fare fisica è l’oggetto di un libro, pubblicato nella collezione dei Boston Studies.4 Vi si
presenta una ricerca per individuare elementi caratterizzanti il cambiamento, sia sul
piano delle idee che su quello degli esperimenti.5 Vi si sostiene che soltanto attraverso
una caratterizzazione del mutamento delle idee nella nuova fisica teorica, e persino
attraverso una constatazione del loro parziale fallimento nelle cosiddette teorie postrelativistiche dei “campi unificati”, si riusciva a comprendere la “virata concettuale” che è
stata avanzata con le teorie quantistiche. La categoria del fallimento di un programma di
ricerca (che non ha niente a che fare con l’errore e le teorie errate) è venuta così a
introdursi in questa storiografia.6 Ma per qualificarla come categoria storiografica non
concomitante con il senso comune del termine “fallimento” (che attribuisce ad esso
connotazioni screditanti), l’argomento sviluppato in altre ricerche nega che la
caratteristica vincente, cioè euristicamente efficace, delle teorie sia la loro
generalizzabilità.7 È noto che in un’epistemologia pre-critica si è sostenuto che unificare e
generalizzare vanno avanti di pari passo e, in un caso particolarmente cogente, che una
unificazione delle forze fondamentali (uno dei “clue” della moderna fisica)
rappresenterebbe una grande generalizzazione della teoria delle particelle elementari.
Sia come sia, per il futuro della scienza, la tesi della generalizzazione-unificante è stata
trovata smentita in svolte importanti della fisica ottocentesca e novecentesca (Maxwell
ed Einstein). Casi storici importanti come questi hanno mostrato che, all’opposto della
generalizzazione-unificante, una grande fecondità euristica proviene alla ricerca dalla
“finitezza” delle teorie e dei programmi di ricerca, intesa come limitazione nella scelta dei
concetti e degli esperimenti di base e nel rifiuto di generalizzare oltre limiti concordati
(Maxwell ed Hertz rifiutarono drasticamente nelle loro teorie ogni estensione alla
particellarità meccanicistica, assicurandone così la fecondità euristica).8
La congettura hertziana di una sua teoria dell’elettromagnetismo non concomitante nelle
sue stesse opinioni con quella di Maxwell, rappresenta un caso emblematico che mette in
crisi la tesi comunemente accettata che il paradigma della scienza empirica si sviluppa
attraverso il binomio “predizione teorica-verifica sperimentale”. Già Popper con la sua
asimmetria fra conferma e confutazione aveva dimezzato la rilevanza della crucialità degli
esperimenti. Il caso storico di Hertz contraddice la comune tesi del binomio perché la
teoria con la quale si confronta l’esperimento hertziano è una sua costruzione diversa da
quella maxwelliana.9
Considerando poi il “caso” del passaggio dalla “teorie pure” di campo alle teorie
particellari, un passaggio che attraversa i contributi di Maxwell, di Hertz e di Lorentz, si
possono rilevare alcune caratteristiche non convenzionali della transizione fra teorie. In
breve, quei concetti che sono fecondi di risultati nella teoria A diventano difficoltosi, se
non addirittura controproducenti, per un loro ulteriore sviluppo nella teoria B. Infatti,
Lorentz ha dovuto ignorare i maggiori contributi di Maxwell e di Hertz per portare avanti
la sua teoria particellare ed ondulatoria di elettrodinamica. Ma Hertz non ha accettato le
idee di Maxwell, ma solo le sue equazioni.10 Si deve allora parlare di una razionalità non
illimitata, come caratterizzante lo stesso processo razionale, una razionalità locale (per
usare metaforicamente un aggettivo qualificante le teorie fisiche), una “località” cioè che
resiste al processo di generalizzazione. Questa idea di “limite” rimanda a una condizione
necessaria per la fecondità conoscitiva ed applicativa delle teorie e non al senso riduttivo
di impedimento o chiusura. Questa tesi è ovviamente in contrasto con la generalizzazione
totalizzante delle teorie (sino alla “teoria del tutto”), avocata da alcuni fisici come
caratteristica specifica del metodo della scienza, e, specialmente, della fisica teorica.11
Un altro “caso storico” significativo della non generalizzabilità delle teorie è stato trattato
in un saggio che riguarda il passaggio dalla Relatività Ristretta (RR) alla Relatività
Generale (GR).12 Einstein pensava di giungere a costruire una GR nelle cui leggi fossero
contenute quelle della RR, mantenendo così una continuità fra la nuova e la vecchia
teoria, continuità che sarebbe stata assunta a Principio – che era stato chiamato da
Planck “Principio di Corrispondenza”. Ma tale presupposto la teoria che gli cresceva fra le
mani puntualmente smentiva.13 L‘analisi storica ha infatti rilevato come lo stesso
concreto procedimento di costruzione della teoria procedeva in modo diverso dal putativo
“allgemeinen” di Einstein, procedeva cioè mediante l’inaspettato apparire di nuovi
concetti, ottenuti spesso per via analogica, oppure semplicemente logica per via
deduttiva da nuovi postulati. Einstein cominciò ad accorgersi di questo aspetto nel corso
dell’opera di costruzione della teoria, com’è evidenziato da suoi frequenti commenti, ma
soltanto ad opera compiuta, quando la GR gli si presenterà come “teoria tensoriale
metrica”, ben diversa da come l’aveva inizialmente prefigurata, egli divenne consapevole
di avere costruito non soltanto una nuova teoria, ma una nuova forma di teoria. Di questa
nuova consapevolezza si trova traccia nelle opere degli anni trenta e successivi.
La nuova forma di teoria è così anche strettamente collegata al “nuovo modo” della sua
costruzione. Vengono qui a proposito le considerazioni di Cassirer sulla diversità fra le
condizioni “determinanti” la teoria e quelle “date” dalla teoria.14 Quello che la costruzione
stessa della teoria metteva a repentaglio era quindi l’idea di un Principio di
Corrispondenza. In altre parole la nuova teoria non ritrova più dentro se stessa la vecchia
teoria gravitazionale di Newton, ma ritrova, al limite, teorie diverse. Sulla natura e grado
di queste diversità il discorso resta aperto: le teorie limite “rassomigliavano” certamente
alla vecchia teoria. Questa rassomiglianza è anzi un importante criterio guida
nell’accettazione della GR. Contribuisce a dare significato fisico ai simboli matematici
della teoria, ma svolge anche un altro ruolo essenziale nello sviluppo della stessa fisica.15
Giustificando, anche se in senso debole, un Principio di Corrispondenza, Einstein
razionalizzava l’idea di un nuovo sviluppo lineare. Spiegava cioè come i fisici che
sostenevano quelle vecchie teorie si sarebbero comportati “razionalmente”. Ma, al
contempo, con un’interessante variazione rispetto all’idea tradizionale di linearità,
suggeriva un’idea “storicizzata” di questa razionalità, nel senso che ammetteva altre
forme possibili di teorie, accettava cioè l’idea di un “pluralismo teorico”. 16 I criteri per la
scelta della teoria più appropriata vengono demandati da Einstein a un complesso di
giudizi, fra i quali ha perso molta rilevanza la conferma empirica, a favore della
consistenza e semplicità della struttura matematica.17
In questo senso è la stessa storia della GR che, con effetto che richiama la metafora del
feed-back, ha rinnovato la sua storiografia. Una delle conseguenze più interessanti della
GR sul piano epistemologico è quella di averci presentato un nuovo modo di vedere la
fisica del passato, in particolare la teoria gravitazionale di Newton.18 Le svolte cruciali
brevemente accennate e le difficoltà incontrate da Einstein nel risolverle, rivelano il “salto
qualitativo” nella nuova forma di teoria. È nel superamento di questi momenti critici o
svolte cruciali che si rivela quella genialità, che non si saprebbe come collocare nelle
filosofie analitiche. Si può quindi affermare che per questi aspetti l’analisi storica della
nascita della GR riguarda temi fondamentali che sono propri del processo di produzione
del sapere umano in tutti i campi e in tutti i luoghi, non escluse cioè quelle sue forme che
è uso classificare come produzione letteraria ed artistica.19
La ricerca storica assieme alla sua esperienza di lavoro con gli strumenti ha condotto SD
a riconsiderare il problema, agitato nella storiografia recente, della cosiddetta “theory
ladeness” delle osservazioni. Egli ha sottolineato che una maggiore incidenza attuale
della problematica derivava dal fatto che nella fisica moderna più che con “osservazioni”
la teoria si confronta con esperimenti ad alto livello di strumentazione, ponendo così il
problema dell’incidenza delle teorie strumentali nel complessivo procedimento di una
scienza empirica. Una delle sue prime ricerche su Heinrich Hertz ha mostrato come il
successo del celebre esperimento fosse dovuto a un’elaborata teoria della
strumentazione.20 Sul reciproco condizionamento fra teorie strumentali e programmi di
ricerca si è spesso glissato nella storiografia trascurando il problema della inclusività o
esclusività di due ambiti teorici. L’autore ha trovato che il problema riguarda l’accezione
del cosiddetto “principio di corrispondenza” spesso citato dai fisici (Planck) ma poco dai
filosofi, forse perché rappresenta la formulazione più tecnica del principio di continuità (e
di progresso) della conoscenza scientifica.21
È noto che il confronto fra la formulazione matematica della teoria e le teorie riguardanti
operazioni con gli strumenti ha condotto un fisico sperimentale di rilievo come P. W.
Bridgman a postulare come validi solo quei concetti che si possono formulare mediante
operazioni strumentali (o concettuali). La tesi di Bridgman si presenta come eccessiva nel
privilegiare il lato strumentale ed operativo (nelle sue formulazioni più filosofiche) come
un’esaltazione del “fare” nei riguardi di un altrettanto fondamentale concettualizzare, un
aspetto giustamente criticato dallo Hempel. La stessa problematica è stata invece
studiata con acuta introspezione da Giuliano Toraldo di Francia ed è stata sviluppata
dall’autore.22
Un caso storico significativo al riguardo dei “loops” fra concetti e teorie strumentali è
stato individuato dall’autore nel nuovo procedimento con il quale gli strumenti
elettromeccanici (cioè strumenti meccanici adoperati per esperimenti e misure nella
nuova scienza dell’elettricità) vengono introdotti a metà ottocento nelle ricerche sulla
scienza dell’elettromagnetismo.23 Nei suoi aspetti più tecnici, ma non per questo
storiograficamente insignificanti, si tratta della scelta, iniziata da Fourier e proseguita da
Weber, Thomson, Maxwell ed altri (si noti: dai maggiori fisici del periodo), di vincolare a
un criterio di omogeneità l’espressione matematica delle leggi fisiche, di pari passo con
l’altra coinvolgente richiesta di sostituire dei sistemi di unità di misura alle unità
empiricamente incorrelate. Non a caso queste innovazioni si coordinano con l’introduzione
nella sperimentazione di strumenti elettromeccanici cosiddetti “assoluti”. Ne risultava un
nuovo linguaggio nella ricerca che coprirà quella che allora era considerata la ricerca
fondamentale di quasi tutto l’ottocento. Un caso storico di condizioni determinanti in una
situazione storicamente delimitata per metodi e programmi di ricerca.24
Lo studio della strumentazione nello sviluppo della fisica, ha condotto l’autore a una
ricerca sul ruolo degli errori nelle misure strumentali e al problema connesso della “carica
teorica” dei cosiddetti “dati” risultati delle misure.
La carica teorica della strumentazione e il rapporto fra la teoria da controllare (qui
indicata come “teoria principale”) e teorie strumentali rimanda a una circolarità
delimitata del procedimento empirico, un “impatto strumentale” che mette in crisi la tesi
ottocentesca di esperimento cruciale.25 L’autore ha interpretato la circolarità risultante
dalle condizioni imposte dalla teoria strumentale come un’estensione alla fisica detta
“classica” di una precipua condizione che caratterizza le teorie quantistiche.26
È noto che una variazione sul tema dell’“impatto strumentale” è data dalle diverse
interpretazioni delle relazioni di indeterminazione di Heisenberg (1927). Il disturbo
prodotto dall’osservatore su un “sistema” fisico, presupposto oggettivo, viene interpretato
come inevitabile impatto della strumentazione macroscopica su “oggetti microscopici”.
Lo stesso tema è stato invece interpretato da Bohr con una originale veduta della
limitazione imposta dagli strumenti al rilevamento di “dati” con precisione infinita. Il
problema è stato in tempi recenti ripreso introducendo la terminologia di “carica teorica”
delle osservazioni e dei “dati” sperimentali.27 È stato però poco studiato il problema dello
“stato o livello teoretico” della “teoria principale” nei riguardi delle teorie strumentali.
Secondo l’autore, mentre è ovvio che le teorie strumentali non possono essere
“equiestese” rispetto alla “teoria principale”, perché si introdurrebbe così una circolarità
totale vanificante lo stesso procedimento di controllo empirico, se nel procedimento di
controllo empirico o di scoperta sperimentale si tiene conto della “theory ladeness” come
carica teorica degli esperimenti, da mettere a confronto con la teoria principale, non si
può in definitiva negare l’esistenza di loops (o “circoli viziosi” parziali) fra “teorie
principali” e teorie strumentali.
Il problema, poco studiato, riguarda una caratteristica intrinseca delle teorie, il loro
“livello di teoreticità”. L’autore, con il sostegno di casi storici, sostiene la tesi che il “livello
di teoreticità” delle teorie strumentali rientra nella cosiddetta “area di corrispondenza”
della teoria principale.28 Ne consegue che ogni controllo sperimentale delle teorie è un
confronto fra teorie di diverso livello (o appartenenti a diversi livelli di stratificazione).29
Si tratta in definitiva del tema del rapporto fra concettuale e operativo strumentale che è
alla base dell’idea stessa della possibilità di una scienza empirica. In altre parole, si
tratterebbe dei “vincoli” che la “datità” porrebbe al pluralismo teorico (implicito ad
esempio nelle accezioni del convenzionalismo o dell’ a-priorismo).
È una problematica che oggi i fisici-storici affrontano nel campo bollente delle teorie
moderne delle particelle elementari e della “grande unificazione delle quattro forze
fondamentali”, teorie che sono oggetto di ricerche e di costosi e complessi esperimenti
nei grandi laboratori di tutto il mondo e ultimamente con particolare rilevanza al CERN.
L’autore trova incentivi per ulteriori ricerche nel fatto che il problema della carica teorica
degli esperimenti è stato preso in considerazione, con conclusioni quasi diametralmente
opposte, in due lavori notevoli per controllo di fonti specializzate e ricchezza di
argomentazioni critiche.30 Mentre nell’epistemologia del positivismo ottocentesco si
insisteva su una “datità” assoluta delle misure come caratteristica indipendente, neutra,
rispetto ai contesti teorici, Galison ammette una “datità” in forma debole, ma alla fine
coinvolgente la razionalità delle decisioni sulla validità di una teoria. Per Pickering,
invece, si tratta di costruzioni convenzionali che la comunità dei ricercatori porta avanti
perché condizionanti la stessa possibilità di continuità della ricerca, una veduta
sociologica della ricerca che mette in crisi la tesi di oggettiva “datità” dei risultati. Anche
lo storico non può fare a meno di porsi delle domande: la “datità” debole (le “feeble
constraints” di Galison) è esterna a quei “giudizi” sociologicamente contingenti ai quali si
appella Pickering per controbattere la razionalità di Galison? Sarebbe la convergenza dei
“feeble constraints” a rappresentare quella “datità forte” davanti alla quale dovrebbe
arrendersi l’indeterminatezza teorica (la Vieldeutigkeit einsteiniana)? Ma non è il criterio
di questa convergenza esso stesso uno di quei giudizi che Galison vorrebbe sottomettere
alla sua, anche se debole, “datità”? A questi interrogativi l’autore si propone di trovare
risposte in una futura ricerca, partendo da un esame delle pubblicazioni scientifiche sulle
teorie delle particelle cosiddette “elementari” e dei documenti depositati negli archivi dei
principali istituti di ricerca europei ed americani relativi a casi storici significativi.
Che infatti, alla frequente obbiezione che non si possono ricavare tesi epistemologiche da
particolari casi storici, seppure storiograficamente giustificati, che non si generalizza cioè
il singolo “particolare”, lo storico risponde avocando una pregnanza insita nel particolare,
nei suoi “limiti”, che sono fecondi anche perché riflettono aree della cultura scientifica del
suo tempo (quel pre-giudizio, “Vorurteil” di cui in Gadamer, Verità e Metodo) appellandosi
quindi ad altre “forme di generalizzazione”, come nelle tesi del raccontointerpretazione
(Gadamer), oppure a una generalizzazione non induttiva (Cassirer).31 Che la spiegazione
nomologica-deduttiva faccia anche parte di una buona storiografia va anche accettato,
purché essa si differenzi dall’accezione di una sua validità assoluta, che si è voluta
riscontrare come un difetto insito nella pretesa di una illimitata generalizzabilità delle
teorie. Mentre la sua fecondità euristica, come ha mostrato, si collega a quella percezione
del limite, come ambito circoscritto di concetti ed esperimenti al quale si deve la potenza
euristica di una limitata teoria. È questo forse il senso in cui valutare la positività del
“paradigma” kuhniano di contro a una sua accezione puramente limitativa.32 Alla
conseguente domanda se la storiografia è o non è una scienza, l’autore risponde che essa
presuppone che sia a-storicamente definita un’idea di scienza e di metodo scientifico,
mentre una storiografia alla quale l’autore aderisce afferma che uno degli scopi è quello
di indagare quale scienza o quante scienze si siano presentate nella storia. Per questo
l’autore conclude, confortato dalle parole di un grande fisico, che all’idea di “verità” nella
storia come nella scienza, vada sostituita con Schroedinger, quella di “adeguacy”, e che
una buona storiografia si può giudicare dalla sua potenza coordinatrice di dati e
documenti e rivelatrice di nuovi dati e documenti ignorati da una peggiore storiografia.
Analogamente, una buona scienza si può giudicare dalla sua capacità (Schroedinger:
“adeguacy”) nel coordinare in un unico quadro la classe più estesa possibile di una realtà
fenomenica.
1
Indicato nel seguito come SD, oppure: l’autore.
2
Fra le più note: Holton, G. 1973: Thematic Origins of Scientific Thought, Kepler to Einstein, Harvard University Press.
Kuhn T., La struttura delle rivoluzioni scientiche, Feltrinelli 1961. Cassirer E. Substance and Function and Einstein’s Theory
of Relativity, 1923: The Open Court Publ. Co. 1950: The Problem of Knowledge, Philosophy of Science and History of
Science since Hegel, Yale Univ. Press, 1950. Substance and Function and Einstein’s Theory of Relativity , Dover Reprint,
1953.
3
SD, “Absolute Systems of Units and Dimensions of Physical Quantities...”, pp. 5-51, in: Physis (Rivista Internazionale di
Storia della Scienza), 1996, Vol. XXXIII, Fasc. 1-3, NS, pp. 5-51.
4
SD, A History of the Ideas of Theoretical Physics (Essays on the Nineteenth and Twentieth Century Physics) , N° 213 of
Boston Studies in the Philosophy of Science, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, Boston London, 2000, pp. XI-XVII, 1-
379.
5
Le tesi precedenti inducono a prendere in considerazione una storiografia attenta alla mutazione storica delle teorie,
come cambiamento “qualitativo” di metodo, non solo di contenuti. Si può così azzardare un’analogia, quanto meno, con
quello che nel campo artistico-letterario si connette al concetto di “stile”. Vi sarebbe uno “stile” precipuo di ogni teoria,
un’idea che avvicina la creazione scientifica a quella letteraria e artistica. Cfr. Dario Antiseri, “La storia come filosofia della
didattica delle scienze”, in: La fisica nella Scuola, 2007, cit., pp. 4-13. Dario Antiseri, Enzo Di Nuoscio, Marco Gervasoni,
“Epistemologia e storiografia. Le ragioni di una indissolubile alleanza”, in: Nuova Civiltà delle Macchine, Anno XXV, N° 1,
2007, pp. 5-16.
6
SD, “Einstein’s Life-Long Doubts in the Physical Foundations of the General Relativity and Unified Field Theories”, in:
Claudio Garola and Arcangelo Rossi (Edits), The Foundations of Quantum Mechanics-Historical Analysis and Open
Questions, Lecce 1993, Kluwer Academic Publishers, 1995, pp. 167-178.
7
SD, “Le teorie scientifiche sono generalizzabili? Note su storiografia e storia della fisica”, in: Nuova Civiltà delle Macchine,
Anno XXV. N°2-2007, pp. 104-109.
8
SD, “On the Difficulties of the Transition from Maxwell’s and Hertz’s Pure-Field Theories to Lorentz’s Electron”, Physics in
Perspective, 2 (2000), pp. 398-410.
9
SD, “Hertz’s Researches and their Place in Nineteenth Century Theoretical Physics”, Centaurus, 1993, 36, pp. 46-82.
10
SD, “On the Difficulties of the Transition from Maxwell’s and Hertz’s Pure-Field Theories to Lorentz’s Electron”, cit.; SD,
“Hertz’s Researches and their Place in Nineteenth Century Theoretical Physics”, cit.
11
La “limitatezza” delle teorie non si identifica con quella “chiusura paradigmatica” identificata dal Kuhn come essenziale nel
processo di cambiamento delle teorie, in quanto la chiusura kuhniana ha, com’è noto, forti componenti sociologiche, che
sono diverse dalle limitazioni intrinseche nei concetti stessi delle teorie, alle quali si riferisce la tesi della “limitatezza”.
12
SD, “Il principio di Corrispondenza e la Genesi della Teoria Gravitazionale di Einstein”, (Coautore Lucia Orlando), Rivista di
Storia della Scienza, Hoepli. s. II, vol. 2, 1993.
13
SD, “A Controversial Role for Correspondence in Theoretical Physics and Quantum Mechanics”, in: Garola C., Rossi A.
(edits) The Foundations of Quantum Mechanics. Historical Problems and Open Questions, World Scientific, 1998, pp. 151166.
14
Cassirer E., 1923: Substance and Function and Einstein’s Theory of Relativity , The Open Court Publ. Co. 1950: The
Problem of Knowledge, Philosophy of Science and History of Science since Hegel, Yale Univ. Press. 1953: Substance and
Function and Einstein’s Theory of Relativity, Dover Reprint.
15
SD, “A Controversial Role for Correspondence in Theoretical Physics and Quantum Mechanics”, in: Garola. C., Rossi A.
(edits), The Foundation of Quantum Mechanics, World Scientific 1998, pp. 151-166.
16
Howard D., 1988 “Einstein and Eindeutigkeit. A neglected Theme in the philosophical Background to General Relativity”,
in Eisenstaedt J., Kox A.J. (edits), Studies in the History of GR, Birkhauser, 1992.
17
Holton G., 1988: Thematic Origins of Scientific Thought. Kepler to Einstein, Harvard Univ. Press.
18
SD, “Il principio di Corrispondenza e la Genesi della Teoria Gravitazionale di Einstein”, (Coautore Lucia Orlando), cit.
19
Dario Antiseri, Epistemologia e didattica delle scienze, Armando, 1980; Regole della Democrazia e Logica della Ricerca,
Armando, 1977.
20
SD, “Hertz’s Researchers on Electromagnetic Waves”; Historical Studies in the Physical Sciences, Princeton University
Press, 6, (1975) 261-323.
21
SD, “A Controversial Role for Correspondence in Theoretical Physics and Quantum Mechanics”, cit.
22
SD, Gli strumenti Scientifici e la Scienza, Barbieri Editore, Manduria (TA), 2005, pp. 1-110, pp. 92, passim.
23
SD, “Teorie Sistematiche e Strumenti Precisi: per una storia degli strumenti dell’Elettromagnetismo”, in: Giorgio Dragoni
(a cura di), Instrumenta, il Patrimonio Storico-Scientifico Italiano: una realtà straordinaria, Soprintendenza per i Beni Culturali
della regione Emilia Romagna, 1990, pp 247-254.
24
Che infatti l’uso di strumenti elettromeccanici è finito per essere relegato oggi nel mestiere degli elettrotrecnici se non
degli elettricisti.
25
SD, “The End of the Crucial Experiment: A Neglected Theme in the History of the Turn-of-the-Century Theoretical
Physics”, in: G. Costa, G. Calucci & M. Giorgi (edits), Proccedings of the Second International Symposium on Conceptual
Tools for Understanding Nature, World’s Scientific, 1995, pp. 48-64.
26
“Le condizioni di accesso all’oggetto devono far parte del concetto stesso di oggettività…” In breve, “Il famoso
imperativo bohriano di riduzione agli osservabili è esattamente l’equivalente, per la meccanica quantistica, dell’imperativo
kantiano di riduzione ai fenomeni... e... la ragione quantistica è un’impostazione neo-trascendentale” (in: Jean Petitot,
“Introduction”, pp. 11-20, in: Fabio Minazzi , L’épistémologie comme herméneutique de la raison, Brin, 2006, p. 11-12.
Estendendo questo punto di vista si può affermare che le condizioni di accesso al risultato sperimentale, le teorie
strumentali, sono anche nella fisica classica parte del concetto stesso “di dato” oggettivo.
27
Norwood Russel Hanson, The concept of the Positron, Cambridge Univ. Press, 1963.
28
Per un’analisi dettagliata del cosiddetto Principio di Corrispondenza in fisica, cfr.: Peter Amsterdamsky, Philosophical
problems of Modern Physics, Reide Pbl. Co. 1975, pp. 144-159. SD, “A Controversial Role for Correspondence in
Theoretical Physics and Quantum Mechanics”, cit..
29
La stratificazione di teorie di diverso livello è introdotta da Einstein in: Physics and Reality, 1936; trad. italiana: Fisica e
Realtà (Einstein 1936; “Stratificazione del sistema scientifico”, p. 274. La critica alla neutralità teorica dei dati riceve un
notevole conforto dalla tesi di Einstein che i ruoli di dato osservativo e di concetto teorico sono variabili nei diversi contesti
teorici (Einstein, “Reply to Criticism”, 1949, p. 673. Einstein A., “Physics and Reality” (1936), in, A. Einstein, Essays in
Physics, Philosophical Library, N.Y. 1950. Italian transl. “Fisica e Realtà” in Einstein, Idee e Opinioni. Schwarz, Milano, 1957.
A. Einstein, “Reply to Criticism”, in A. Schilpp (edit), Albert Einstein, Philosopher Scientist, The Lib.of Living Philosophers Inc,
1949,1951; repr.: Harper & Brothers pbl, N.Y. 1959, pp. 663-693, pp. 679-680.
30
Andrew Pickering, Constructing Quarks. A Sociological History of Particle Physics, Edinburgh Univ. Press, 1984; Peter
Galison, How Experiments End, Th Univ. Of Chicago Press, 1987.
31
L’accusa di inconsistenza alle generalizzazioni storiografiche muove infatti da posizioni che si rifanno alla generalizzazione
di tipo logico-matematico, che non coincide totalmente, come sopra si è notato, con la generalizzazione delle teorie fisiche.
L’alone soggettivistico che circondava la nozione di “circolo ermeneutico”, è stato sfatato da Gadamer, come riguardante
sia la ricerca storiografica che il metodo e le precipuità delle scienze.
32
Secondo i teorici dell’ermeneutica l’interpretazione di testi e azioni dipende dalla “pre-comprensione” del soggetto
conoscente, la quale è il tessuto dei suoi “pre-giudizi”; quindi l’interpretazione è sempre condizionata dall’ “orizzonte di
aspettative” dell’interprete... È forse questa una interpretazione non riduttiva dell’idea kuhniana di “paradigma”.
MARIA LUISA DALLA CHIARA
Maria Luisa Dalla Chiara, nata a Pola, si è laureata in filosofia a Padova nel 1961, con una
tesi su “Il concetto di dialettica nell’estetica di Theodor Wiesengrund Adorno”. Subito
dopo la laurea si è trasferita a Milano dove ha studiato logica e filosofia della scienza con
Ettore Casari e Ludovico Geymonat. Dal 1970 è docente (prima di logica e poi di filosofia
della scienza) presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. È stata presidente
della “International Quantum Structures Association” e della “Società italiana di Logica e
Filosofia delle Scienze”; vicepresidente della “Division of Logic, Methodology and
Philosophy of Science” e della “Società italiana di Logica e sue Applicazioni”. In occasione
del suo sessantesimo compleanno, la rivista “Foundations of Physics” le ha dedicato due
numeri speciali (vol. 30, n. 9-10), curati da D. Aerts, G. Cattaneo, A. Dvurecenskij, R.
Giuntini.
Un rinascimento logico italiano
Gli anni Sessanta hanno rappresentato un momento “magico” per la rinascita della logica
in Italia. Nel 1961 Ettore Casari (che si era formato a Münster con alcuni grandi maestri
tedeschi) inaugura a Milano il primo corso di logica in una università italiana. L’ambiente
filosofico aveva allora un atteggiamento di curiosità, ma anche una qualche forma di
sospetto verso una disciplina nuova, che rappresentava una singolarità rispetto alla
tradizione culturale italiana. Del resto la logica era completamente assente anche nelle
facoltà scientifiche. Il più grande “defensor logicae” in quegli anni era Ludovico Geymonat
che, pur non essendo uno studioso di logica in senso stretto, vedeva nella logica un
importante strumento per rinnovare gli studi filosofici e per portare un’“aria nuova” nelle
stesse discipline matematiche. In questo clima caratterizzato da una forma di entusiasmo
“pionieristico” il numero dei logici italiani (che provenivano da studi sia filosofici sia
matematici) cresceva rapidamente. Si facevano ricerche che, pur essendo molto tecniche,
si intrecciavano spesso con importanti questioni filosofiche:
la logica può fornire un fondamento per le teorie scientifiche e per la conoscenza in
generale?
in che misura ogni atto di fondazione comporta degli autoriferimenti che possono
avere esiti paradossali?
che cosa significa “significato” e “verità”?
(M. Dalla Chiara ne ha discusso in [1] e [2]).
Le indagini su logica e fondamenti della scienza (e della conoscenza) facevano
inevitabilmente riferimento ai teoremi limitativi della logica (di Gödel e di Tarski), di cui
venivano proposte interpretazioni filosofiche diverse. Spesso questi teoremi sono stati
usati come una “prova” dell’esistenza di una contrapposizione fra formalismi e intuizione.
Si è parlato di “scacco della formalizzazione” e di dimostrazione di una superiorità
dell’intuizione umana rispetto alle intelligenze meccaniche (che sono assimilabili a delle
teorie matematiche formalizzate). Si tratta però di interpretazioni alquanto superficiali. In
realtà, il significato più profondo dei teoremi limitativi è la scoperta di una situazione di
incompatibilità fra alcuni importanti requisiti epistemologici (apparentemente tutti
desiderabili):
coerenza;
massima capacità e sicurezza deduttiva;
massima ricchezza espressiva, con capacità di “autodescrizione”.
Anche le conoscenze non formali sono soggette a questi limiti. E non a caso molte
antinomie per autoriferimento sorgono già a livello intuitivo nel contesto delle lingue
naturali. Pensiamo, per esempio, alla celebre antinomia del mentitore, secondo cui ogni
proposizione che affermi la propria falsità determina una contraddizione (in quanto è vera
se e solo se è falsa). Più che rivelare un limite del pensiero formale, i teoremi limitativi
hanno messo in luce la presenza di alcune difficoltà che riguardano l’architettura generale
delle conoscenze. La logica ha permesso di scoprire dove esattamente si annidano queste
difficoltà e di trasformare così in conoscenze positive dei meri paradossi del pensiero
intuitivo.
La pluralità delle logiche. La logica è una scienza empirica?
Le ricerche logiche italiane degli anni Sessanta erano quasi sempre dominate dagli ideali
di purezza e di universalità della logica classica. Ma negli anni Settanta cominciarono a
scompigliarsi le carte e si verificò un interesse crescente per logiche alternative. Ma
perché abbandonare la logica classica? Da un punto di vista intuitivo la logica classica può
essere descritta come “il modo di ragionare” di una mente onnisciente che opera in un
universo deterministico. Valgono infatti i seguenti principi generali:
1. Ogni problema è deciso semanticamente, in quanto ogni proposizione è vera oppure
falsa (principio semantico del terzo escluso). Nello stesso tempo, una proposizione e
la sua negazione non possono essere contemporaneamente vere (principio
semantico di non contraddizione).
2. I significati si comportano in modo composizionale, nel senso che il significato di una
espressione composta è sempre determinato dai significati delle sue parti.
3. Tutti i significati sono precisi e non ambigui.
Questi principi (che rappresentano una forte idealizzazione, spesso in conflitto con le
applicazioni concrete) sono stati messi in discussione da forme diverse di logica non
classica. In alcuni casi significativi, la concezione oggettiva e descrittiva della verità
(caratteristica della logica classica) è stata sostituita da una concezione epistemica. Su
questa base, il concetto di verità viene identificato con le conoscenze di menti non
onniscienti che agiscono in un universo che può essere deterministico oppure
indeterministico. Ma se le logiche sono tante, come scegliere la logica “giusta” da usare
nelle diverse situazioni? In che misura la scelta della logica è determinata
dall’esperienza? E come possono comunicare fra loro esseri pensanti che ragionano
secondo logiche diverse? Supponiamo per esempio che gli abitanti intelligenti della Terra
usino sempre la logica classica e che giungano a scambiare dei messaggi con degli esseri
extraterrestri i quali usano invece una logica alternativa – per esempio, una logica fuzzy a
tre valori di verità (vero, falso e indeterminato), dove sono violati i principi di non
contraddizione e del terzo escluso. Che possibilità hanno questi esseri di accorgersi di
ragionare secondo logiche diverse, di descriversi e di comunicare? Contrariamente a
quello che potrebbe sembrare a prima vista, le analisi formali hanno dimostrato che nella
situazione ipotizzata terrestri ed extraterrestri sono perfettamente in grado di accorgersi
di usare logiche diverse, di descriversi rispettivamente dal punto di vista logico e di
comunicare, senza ricorrere necessariamente a una metalogica comune. (Questi problemi
sono stati discussi in [2]).
Come è facile immaginare, una fonte di ispirazione importante per la costruzione di
logiche non classiche è venuta dalla fisica, dove hanno un ruolo fondamentale i concetti
di approssimazione, rumore di fondo, caos, indeterminismo. Una situazione tipica che si
verifica spesso nel caso delle scienze sperimentali è per esempio la seguente: una certa
teoria risulta riducibile a un’altra teoria, purché si decida di “trascurare” certi parametri
caratteristici della seconda teoria. Per esempio, secondo un’interpretazione standard
accettata dalla comunità dei fisici, la meccanica classica è descrivibile come un caso
limite della meccanica quantistica, purché si decida di trascurare il valore della costante
di Planck. Un problema logico interessante che si pone a questo punto è il seguente:
come descrivere formalmente in modo adeguato questa operazione di “trascurare”? Si
tratta di giustificare, nell’ambito di una semantica rigorosa, certe asserzioni che sono di
“ordinaria amministrazione” in fisica, come per esempio: “la tale proposizione vale in
situazioni fisiche in cui è irrilevante (cioè assimilabile allo zero) il valore della costante di
Planck” oppure in situazioni fisiche in cui le velocità sono abbastanza lontane dalla
velocità della luce.
Per rappresentare adeguatamente fenomeni semantici di questo tipo si può ricorrere a
una teoria astratta dei modelli fisici, dove il concetto di verità fisica viene definito
modificando in modo opportuno la definizione classica di verità. Su questa base si riesce a
capire come, in generale, ogni teoria fisica storicamente accettata risulti vera rispetto a
un certo dominio di fenomeni: i fenomeni per cui si dice anche che essa fornisce una
“spiegazione”. Nello stesso tempo, il progresso che porta da una teoria a una nuova
teoria – poniamo dalla meccanica classica alla meccanica quantistica – si lascia
formalmente descrivere come un passaggio da una teoria con dominio “meno ampio” a
un’altra teoria con dominio “più ampio”. Proprio in questo senso, la meccanica quantistica
risulta essere una teoria più generale, più progressiva rispetto alla meccanica classica.
Si vede anche come sia possibile che due teorie “rivali” sintatticamente incompatibili
spieghino entrambe lo stesso dominio di fenomeni, senza dar luogo a incoerenze. Il
concetto di verità fisica gode infatti di una caratteristica a prima vista strana, che non
vale per il concetto standard di verità matematica. Può accadere che due proposizioni fra
loro contraddittorie (A, non-A) risultino entrambe vere rispetto a una classe di fenomeni,
senza che questo comporti necessariamente la verità della proposizione contraddittoria
rappresentata dalla loro congiunzione (A e non-A). È dunque possibile che le due teorie
rivali siano entrambe vere rispetto a un dominio di fenomeni, anche se la loro
congiunzione è una teoria contraddittoria.
Tutto ciò sembra avere alcune conseguenze interessanti relativamente alla vexata
questio della incommensurabilità fra teorie scientifiche diverse (discussa da Kuhn,
Feyerabend, Lakatos e da vari altri autori). Perché una nuova teoria, che rappresenta un
progresso, una crescita di conoscenza rispetto a una teoria precedente, dovrebbe
risultare per forza incommensurabile rispetto alla teoria originaria? Diversità non implica
necessariamente inconfrontabilità! La tesi dell’incommensurabilità si fonda su una
semplificazione semantica, che ignora tutte le complesse relazioni formali che possono
sussistere fra teorie diverse. Com’è stato spesso notato, una caratteristica peculiare
dell’attività scientifica è la sua capacità di conservazione: le vecchie teorie non vanno mai
tutto perdute, sono in qualche modo inglobate nelle teorie nuove, che ne rappresentano
una generalizzazione. È per questo che le scienze non sono assimilabili a meri giochi, che
rappresentano
tipici sistemi formali chiusi. Che senso avrebbe giocare
contemporaneamente con le regole degli scacchi e con quelle della dama? Nell’attività
scientifica, invece, è spesso essenziale giocare ricorrendo a teorie diverse, che sono
correlate fra loro da relazioni sintattiche e semantiche.
(Problemi semantici della fisica sono stati studiati, insieme con Giuliano Toraldo di
Francia, in [3], [4], [5]).
Lo strano intreccio fra realtà e possibilità nel mondo dei quanti
Un caso paradigmatico di indagine fisica, dove si mescolano in maniera intrigante
problematiche logiche ed epistemologiche, è rappresentato dalla meccanica quantistica,
teoria che ha contribuito a trasformare alcune idee generali sui concetti di conoscenza
oggettiva, di realtà fisica e sulla interazione fra ciò che esiste e ciò che potrebbe esistere.
Nel contesto della semantica classica, gli oggetti attuali e quelli possibili venivano distinti
in modo netto. Infatti, l’insieme degli oggetti attuali era descritto come un sottoinsieme
(senza contorni sfumati) della classe degli oggetti possibili. La logica quantistica (creata
negli anni Trenta da Birkhoff e von Neumann come una astrazione logica naturale dal
formalismo matematico della teoria quantistica) è, invece, “molto più liberale”, in quanto
ammette che l’esistenza attuale possa, in generale, dipendere da esistenze virtuali. Come
ha osservato il logico e filosofo Quine, il concetto tradizionale di oggetto fisico tende a
“evaporare” nella fisica moderna.
Naturalmente, ogni ricerca logica che riguardi il problema dell’esistenza coinvolge
un’analisi semantica del quantificatore esistenziale, l’operatore logico “esiste almeno un
oggetto tale che...”, il quale si comporta secondo modalità diverse nel contesto di logiche
diverse. Quando si discutono problemi di questo tipo, è utile ricorrere a uno strumento
semantico molto flessibile, che è stato chiamato semantica dei mondi possibili. L’ideabase è molto semplice e risale a Leibniz. Si suppone che il mondo attuale sia correlato
con un certo numero di situazioni alternative, che sono chiamate mondi possibili.
Ovviamente, lo stesso mondo attuale rappresenta un esempio di mondo possibile. La
correlazione fra mondi viene di solito chiamata relazione di accessibilità. Da un punto di
vista intuitivo, un mondo risulta accessibile a un altro mondo, quando il secondo
rappresenta un’alternativa ragionevole rispetto al primo.
Malgrado il suo carattere apparentemente metafisico, la semantica dei mondi possibili
risulta applicabile anche alla logica quantistica, dove il concetto di mondo possibile
ammette una interpretazione fisica molto naturale. L’idea intuitiva di fondo può essere
così illustrata: ogni mondo possibile rappresenta una conoscenza dell’osservatore intorno
all’oggetto fisico studiato (potrebbe trattarsi, per esempio, di un elettrone o di un fotone).
Nelle circostanze più fortunate, un mondo possibile corrisponde a una conoscenza non
contraddittoria massimale, che non può essere estesa in modo coerente a una
informazione più precisa (nell’ambito del linguaggio della teoria). Anche una ipotetica
mente onnisciente non potrebbe saperne di più. Informazioni di questo tipo vengono di
solito chiamate stati puri, sia nella fisica classica sia in quella quantistica. Stati che
rappresentano conoscenze non massimali sono invece chiamati miscele (o anche stati
misti). Nel formalismo matematico della teoria quantistica, sia gli stati puri sia quelli misti
vengono identificati con tipi speciali di oggetti astratti: essi “vivono” in uno spazio
astratto che rappresenta “l’ambiente matematico” per gli oggetti fisici studiati
(tecnicamente, questi spazi sono chiamati spazi di Hilbert). Diversamente da quello che
accade nel caso degli stati puri classici, tutti gli stati quantistici sono logicamente
incompleti. Ciò significa che uno stato puro non può decidere semanticamente tutte le
proprietà fisiche rilevanti di cui può godere l’oggetto descritto da quello stato. In virtù del
c e l e b r e principio di indeterminazione di Heisenberg, molte proprietà sono
necessariamente indeterminate.
E quale può essere il significato fisico della misteriosa relazione di accessibilità? Uno stato
è ritenuto accessibile a un altro stato quando il primo stato è trasformabile nel secondo
per effetto di una misurazione che riguarda una grandezza fisica (come, per esempio, la
posizione o la velocità). La trasformazione di stato indotta dalla misurazione viene anche
chiamata collasso della funzione d’onda.
Se vogliamo capire l’interpretazione fisica del quantificatore esistenziale logicoquantistico, è opportuno ricordare che nella maggior parte delle logiche il quantificatore
esistenziale rappresenta una generalizzazione della disgiunzione. Per illustrare questa
idea con un esempio intuitivo, possiamo riferirci all’universo umano originario,
rappresentato (secondo la tradizione biblica) da un insieme che contiene soltanto due
elementi: Adamo ed Eva. In questo universo, la proposizione esistenziale
Esiste qualcuno che ha mangiato la mela
è chiaramente equivalente alla proposizione disgiuntiva
O Adamo o Eva ha mangiato la mela.
Ma, nel caso dell’universo umano attuale, usare proposizioni disgiuntive (con circa 6
miliardi di membri) al posto di proposizioni esistenziali risulterebbe alquanto scomodo!
Anche nella logica quantistica, il quantificatore esistenziale è una generalizzazione della
disgiunzione. Ma la condizione di verità per proposizioni disgiuntive è più sofisticata
rispetto al caso della disgiunzione classica: la verità di una disgiunzione nel mondo
attuale risulta dipendere in modo essenziale da quello che succede in altri mondi
possibili. Pertanto, una disgiunzione può essere vera (nel mondo attuale) anche quando
entrambi i membri sono indeterminati. Un comportamento semantico di questo tipo, che
può apparire a prima vista un po’ strano, riflette in realtà perfettamente molte situazioni
quantistiche concrete. Infatti, nel mondo quantistico ricorrono spesso alternative che sono
determinate e vere, mentre entrambi i membri dell’alternativa in questione sono
essenzialmente indeterminati.
Vale la pena ricordare che questa proprietà caratteristica della logica quantistica era già
stata presa in considerazione dallo stesso Aristotele. Si deve al logico polacco Łukasiewicz
la scoperta che Aristotele fu il primo logico polivalente. Ma possiamo aggiungere che
Aristotele è stato, in un certo senso, anche il primo logico quantistico. Riferiamoci
all’analisi proposta da LŁukasiewicz del capitolo IX dell’opera aristotelica De
Interpretatione. Si tratta del famoso esempio della battaglia navale. Secondo
l’interpretazione di LŁukasiewicz, Aristotele sostiene che entrambe le proposizioni
Domani ci sarà una battaglia navale,
e la sua negazione
Domani non ci sarà una battaglia navale
non hanno oggi un valore di verità definito. Tuttavia, la disgiunzione
Domani ci sarà una battaglia navale
oppure
Domani non ci sarà una battaglia navale,
deve essere vera oggi (e sempre).
In altri termini, Aristotele sembra consapevole della necessità di distinguere la legge
logica del terzo escluso (ogni proposizione che abbia la forma A o non-A è sempre vera)
dal principio semantico della bivalenza (ogni proposizione è vera oppure falsa: tertium
non datur!). Si ottiene così la possibilità di una situazione tipicamente logico-quantistica:
la verità di una disgiunzione non implica, in generale, la verità di almeno un membro
della disgiunzione stessa. Gli anni Settanta e Ottanta hanno rappresentato un vero
“rinascimento” per le indagini logico-quantistiche, che si sono spesso intrecciate con le
discussioni sui fondamenti e sui paradossi della teoria quantistica. Si sono intensificati i
congressi ed è stata creata una nuova associazione scientifica (l’“International Quantum
Structures Association”) che ha stimolato l’interazione fra logici, matematici e fisici. Sulla
logica quantistica M. Dalla Chiara ha scritto una serie di lavori quasi sempre in
collaborazione con Roberto Giuntini, e qualche volta anche con Gianpiero Cattaneo,
Richard Greechie, Roberto Leporini, Miklos Rédei (per esempio, [6],[8],[9]).
Una nuova linea di ricerca: le logiche della computazione quantistica
Lo strano intreccio fra possibilità e realtà (caratteristico del mondo quantistico) si può
trasformare in una proprietà tecnologica molto utile per i computer quantistici. Il
parallelismo forte di questi computer, è infatti essenzialmente fondato su percorsi di
calcolo virtuali che possono essere seguiti nello stesso tempo. Ed è proprio questo
intreccio che costituisce la ragione dell’efficienza e della velocità dei computer quantistici
(che oggi sono soprattutto “macchine teoriche”, ma si stanno facendo progressi per
realizzarli anche dal punto di vista ingegneristico). Recentemente la computazione
quantistica ha suggerito nuove forme di logica quantistica, che sono state chiamate
logiche quantistiche computazionali. In queste logiche, i significati delle proposizioni sono
identificati con quantità di informazione quantistica. Si viene a creare così un formalismo
matematico per una teoria astratta dei significati, che può essere applicata con successo
allo studio di vari fenomeni semantici, dove comportamenti olistici, contestuali e gestaltici
hanno un ruolo essenziale (dai linguaggi naturali a quelli della musica). È questo il campo
di ricerca a cui si è dedicata recentemente M. Dalla Chiara, insieme con Roberto Giuntini,
Gianpiero Cattaneo, Roberto Leporini e con la musicologa Eleonora Negri ([10], [11],
[12], [13], [14], [15]).
Sia la percezione sia il pensiero umano sono fondamentalmente sintetici. Noi non
vediamo mai un oggetto analizzandolo punto per punto. Quello che facciamo è invece
rappresentarci una forma (o Gestalt), ossia una idea globale dell’oggetto in questione. La
stessa attività razionale si fonda essenzialmente su configurazioni di tipo gestaltico. Per
illustrare questa idea possiamo ricorrere a un esempio (discusso da Giuliano Toraldo di
Francia) che riguarda il gioco degli scacchi. Qualche tempo fa c’è stata una partita in cui il
potente computer Deep Blue ha sconfitto il campione del mondo Gary Kasparov. Si dice
che Kasparov abbia protestato, sospettando la presenza di un qualche intervento umano
nel comportamento del computer. Per quale ragione? Com’è noto, il numero totale delle
possibili partite a scacchi è finito. Pertanto, l’insieme di tutte le partite può essere
suddiviso in tre sottoinsiemi:
1) l’insieme delle partite vinte dal bianco;
2) l’insieme delle partite vinte dal nero;
3) l’insieme delle partite che finiscono patta.
Non potrebbe un fantastico computer del giocatore bianco scegliere sempre dal primo
insieme? Un forte giocatore certamente deve compiere un rapido calcolo, ma prima di
tutto deve essere capace di percepire una Gestalt della posizione, quindi di giudicare per
esperienza la probabilità dei diversi risultati. Kasparov ha avuto un sospetto di questo
genere? Il pensiero gestaltico non può essere rappresentato adeguatamente nel contesto
della semantica classica, che è sostanzialmente analitica e composizionale: il significato
di una espressione composta è sempre determinato dai significati delle sue parti. Nello
stesso tempo, tutti i significati vengono descritti come precisi e non ambigui. Tutto
questo fa sì che la semantica classica sia difficilmente applicabile a un’analisi adeguata
dei linguaggi naturali e delle opere d’arte, dove aspetti olistici e ambigui sembrano avere
un ruolo fondamentale. A questo proposito, si potrebbero fare naturalmente moltissimi
esempi. Un caso particolarmente significativo è rappresentato dall’ultimo verso della
celebre poesia L’Infinito di Giacomo Leopardi:
E ’l naufragar m’ è dolce in questo mare.
Il risultato poetico sembra dipendere essenzialmente dalla relazione semantica seguente:
i significati delle espressioni componenti “naufragar”, “dolce”, “mare” non corrispondono
qui ai significati più comuni di queste parole. Fra l’altro non c’è il mare a Recanati (il
villaggio natio dove si trova il Colle dell’Infinito, a cui la poesia si riferisce). Tuttavia
questi significati sono in qualche modo presenti e vengono correlati in maniera ambigua
con i significati metaforici evocati dall’intera poesia. Si tratta di una situazione semantica
tipica, che è molto frequente nelle opere poetiche.
Ora, nella semantica delle logiche quantistiche computazionali, risultano soddisfatte le
condizioni seguenti:
i significati globali (che possono corrispondere a una Gestalt) sono essenzialmente
vaghi, in quanto lasciano semanticamente indecise molte proprietà rilevanti degli
oggetti studiati;
ogni significato globale determina alcuni significati parziali che, in generale, sono più
vaghi del significato globale stesso;
i significati possono venir rappresentati come sovrapposizioni di altri significati,
eventualmente associati a dei valori di probabilità.
In questo contesto logico, il significato di una proposizione viene identificato con una
quantità di informazione quantistica: un sistema di qubit o, più in generale, una miscela
di sistemi di qubit. Che cos’è un qubit?
Da un punto di vista intuitivo, un qubit può essere visto come una variante quantistica
della nozione classica di bit.
Com’è noto, nella teoria classica dell’informazione, un bit misura l’informazione che si
trasmette (o si riceve), quando si sceglie un elemento da un insieme costituito da due
elementi (per esempio, dall’insieme costituito dalla risposta SÌ e dalla risposta NO). Nella
teoria dell’informazione quantistica, invece, non è in generale possibile riferirsi a delle
risposte precise (come SÌ o NO). La risposta tipica è rappresentata da un forse
quantistico, che può essere descritto come una sovrapposizione quantistica della risposta
SÌ e della risposta NO.
Da un punto di vista fisico, un qubit può essere visto come lo stato puro di una particella
singola, mentre un sistema di n qubit (chiamato anche quregistro) corrisponde allo stato
di un sistema composto costituito da n particelle. L’idea è che una particella singola
(come, per esempio, un elettrone) possa trasportare fisicamente una quantità di
informazione rappresentata da un qubit. Per trasportare l’informazione immagazzinata da
n qubit avremo bisogno, invece, di un sistema composto costituito da n particelle.
Una situazione intrigante, che si verifica nel contesto di alcuni importanti paradossi della
teoria quantistica (come il “paradosso di Einstein-Podolsky-Rosen”) riguarda i fenomeni di
entanglement. Che cosa significa esattamente entanglement (termine che in italiano
viene talvolta tradotto con le espressioni “intreccio” o anche “ingarbugliamento”)? Da un
punto di vista intuitivo, le caratteristiche fondamentali di uno stato entangled sono così
descrivibili:
lo stato rappresenta una informazione massimale (uno stato puro) che descrive un
sistema fisico, composto da un certo numero di particelle;
l’informazione determinata dal nostro stato sulle parti del sistema non può essere
massimale. Pertanto le parti risultano descritte da stati misti (che corrispondono a
informazioni, in generale, ambigue).
I fenomeni di entanglement possono essere usati in modo naturale per descrivere,
attraverso il formalismo delle logiche quantistiche computazionali, situazioni semantiche
tipicamente olistiche. Possiamo riferirci a stati di conoscenza entangled, rappresentati da
particolari quregistri che corrispondono a significati di proposizioni molecolari. Per
esempio, consideriamo una congiunzione che abbia la forma:
B e C.
È possibile la situazione semantica seguente:
il significato della congiunzione è un quregistro, che rappresenta una informazione
massimale (uno stato puro);
i significati di entrambe le parti (B, C) sono entangled e non possono essere
rappresentati da due stati puri (due quregistri).
Si può dire che il significato preciso della congiunzione B e C determina due significati
ambigui per le parti (B, C), significati che sono rappresentati da due miscele. Dunque, è il
significato del tutto che determina i significati della parti, e non viceversa. Infatti
(diversamente da quello che accade nel caso della semantica classica), non è possibile
“andare all’indietro” e ricostruire il quregistro che rappresenta il significato preciso del
tutto a partire dai due significati ambigui delle parti. È come se, una volta rotto, il puzzle
non potesse più essere ricomposto, ricreando l’immagine originaria! Lo stato misto che
costituisce il significato ambiguo di B (di C) può essere visto come il significato
contestuale di B (di C), significato che resta determinato dal contesto globale (il
quregistro che è il significato della congiunzione B e C).
Proviamo ad applicare questo tipo di analisi semantica alla poesia L’Infinito. Potremmo
artificialmente scomporre la poesia nelle due proposizioni seguenti:
• B = ’l naufragar m’ è dolce in questo mare
• C = la poesia L’ Infinito senza l’ultimo verso.
Otteniamo così:
L’Infinito = B e C.
La nostra semantica olistica descrive come il significato contestuale dell’ultimo verso C
(un significato tipicamente ambiguo) sia determinato dal significato globale dell’intera
poesia. Com’è facile immaginare, un’analisi semantica di questo tipo risulta naturalmente
applicabile anche al caso delle opere musicali, dove i significati hanno sempre un
comportamento essenzialmente olistico e contestuale ([15]). La scoperta di similitudini
strutturali nella semantica delle teorie fisiche e in quella dei linguaggi artistici sembra
interessante dal punto di vista conoscitivo e può contribuire a creare significativi “luoghi
di interazione” fra ricerche scientifiche e umanistiche.
Riferimenti bibliografici
Libri
[1] Modelli sintattici e semantici delle teorie elementari, Milano, Feltrinelli, 1968.
[2] Logica, Milano, Mondadori, 1979.
[3] Le teorie fisiche, Torino, Boringhieri, 1981 (con G. Toraldo di Francia).
[4] La scimmia allo specchio, Bari, Laterza, 1988 (con G. Toraldo di Francia).
[5] Introduzione alla filosofia della scienza, Bari, Laterza, 2000 (con G. Toraldo di Francia).
[6] Reasoning in Quantum Theory, Dordrecht, Kluwer, 2004 (con R. Giuntini e R. Greechie).
[7] Sperimentare la logica, Liguori, Napoli, 2004 (con R. Giuntini e F. Paoli)
Alcuni articoli recenti
[8] “Quantum Logics” in D. Gabbay e F. Guenthner (a cura di), Handbook of Philosophical Logic, Vol.6, Dordrecht, Kluwer,
2002, 127-134 (con R. Giuntini).
[9] “The history of quantum logic”, in D. Gabbay e J. Woods (a cura di), Handbook of the History of Logic, Elsevier, 2007,
Vol.8, 205-283 (con R. Giuntini e M. Rédei).
[10] “Compositional and holistic quantum computational semantics”, Natural Computing 6 (2007), 113-132 (con R. Giuntini
e R. Leporini).
[11] “A formal analysis of musical scores”, Mathematica Slovaca 56 (2006), 1-19 (con R. Giuntini).
[12] “Logics from quantum computation”, International Journal of Quantum Information 3 (2005), 293-337 (con R. Giuntini
e R. Leporini).
[13] “Quantum computational logics. A survey’’, in V. Hendricks and J. Malinowski (eds.), Trends in Logic. 50 Years of
Studia Logica, Kluwer, 2003, 229-271 (con R. Giuntini e R. Leporini).
[14] “Reversibility and Irreversibility in Quantum Computation and in Quantum Computational Logics”, in S. Aguzzali, A.
Ciabattoni, B. Gerla, C. Manara, V. Marra (a cura di), Algebraic and Proof-Theoretic Aspects of Non-classical Logics,
Springer, 2007, 84-106.
[15] “From Quantum Mechanics to Music”, Advanced Science Letters 1 (2008), 1-10 (con R. Giuntini e E. Negri).
TULLIO DE MAURO
Tullio De Mauro è nato il 31 marzo 1932 a Torre Annunziata (Napoli). Qui il padre, Oscar,
di una famiglia foggiana di medici e farmacisti, laureato a Napoli in Chimica e diplomato
in Farmacia, aveva appunto una farmacia e una piccola industria chimico-farmaceutica,
poi dismesse in seguito a un tracollo finanziario. La madre, Clementina Rispoli, era di
famiglia napoletana e a Foggia, dove suo padre era stato nominato prefetto, aveva
conosciuto il marito e lo aveva poi seguito nei suoi spostamenti, da Foggia a Roma, di
nuovo a Foggia, poi a Milano, quindi di nuovo a Foggia e poi nei comuni vesuviani. Per
seguire il marito e badare ai figli aveva interrotto gli studi universitari di matematica pur
giunta alle soglie della laurea. Prima di Tullio dal matrimonio erano nati quattro figli,
Franco (1919), Mauro (1922), Rosetta (nata a Lambrate, Milano, nel 1923), Giorgio
(1928), morto in tenerissima età. Trasferitasi la famiglia a Napoli, qui Tullio De Mauro
completò gli studi elementari e si iscrisse alla scuola media nel 1942. Cominciati su
Napoli i bombardamenti diurni a tappeto delle fortezze volanti americane la famiglia
pensò bene di trasferirsi a Roma. Ecco il giudicio uman come spesso erra: pochi mesi
dopo il trasferimento anche Roma subì un disastroso bombardamento aereo del popolare
quartiere di San Lorenzo, non lontano dall’abitazione in cui i De Mauro risiedevano. Né
bastò: nei mesi successivi, nel marzo 1944, durante l’occupazione tedesca della città una
bomba sganciata per errore da un aereo americano colpì l’abitazione dei De Mauro che
tuttavia fortunosamente sopravvissero.
Arrivato a Roma, il De Mauro si era iscritto alla scuola media del Tasso e di qui poi era
passato al ginnasio-liceo Giulio Cesare. Il suo corso di studi medi e mediosuperiori si
svolse con alterne vicende. Un anno egli passava per essere tra i primi della classe, l’anno
dopo aveva invece risultati men che mediocri e un anno fu perfino bocciato, agli esami di
quinta ginnasiale, in italiano, latino e greco. Queste oscillazioni furono dovute
probabilmente all’intreccio di diversi fattori. Da un lato stavano, come per tutta la sua
generazione, gli eventi della guerra e, nel suo caso, lo “sfollamento”, l’abbandono della
sua amata città dell’infanzia e il trasferimento a Roma; e, però, in più, gravavano sul
ragazzetto la morte del fratello Franco, ufficiale pilota, nel cielo di Rimini (3 marzo 1943);
poi la scelta del fratello Mauro di seguire la Repubblica Sociale Italiana e diventare
addetto stampa della X Mas e le conseguenti ansie, prolungatesi nel dopoguerra quando
il fratello, fuggito con discutibile astuzia dal campo di internamento di Coltano, fu
processato in contumacia e in prima istanza condannato per gravi imputazioni (1946), poi
assolto in appello per insufficienza di prove (1947) e solo nel 1948 infine assolto con
formula piena per non aver commesso i fatti imputatigli. E pesavano anche le
irrequietezze del padre, che passava da uno ad altro lavoro poco curando gli aspetti
finanziari della vita familiare, ondeggiante tra momenti di relativo benessere e momenti
di penuria grave e prolungata. A questi fatti che certamente incidevano negativamente
faceva riscontro la consuetudine con intense e svariate letture, favorite dall’abitudine alla
lettura della madre Clementina, colta e insaziabile lettrice di classici, di autori
contemporanei e gialli, dai suggerimenti letterari dei fratelli maggiori, più anziani di dieci
anni e grandi lettori di Medusa verde e arancione, Bompiani marroncini, primi Einaudi, e
infine dalla presenza in casa di una discreta raccolta di libri, sopravvissuta al tracollo
finanziario prima accennato: allora tutti i beni e i mobili della famiglia erano stati liquidati
all’asta, ma i libri, anche alcuni di qualche pregio antiquario ereditati dal nonno prefetto,
tra cui diverse cinquecentine, non li aveva voluti nessuno, restarono senza acquirenti e
furono poi preziosi. Da un anno all’altro accadeva che qualche insegnante scoprisse e
apprezzasse il retroterra di letture del De Mauro, altri anni ciò non avveniva e il ragazzo
veniva considerato perfino con sospetto come saccente o disordinato.
A mettere qualche ordine nel bagaglio di conoscenze e letture andavano provvedendo
fuori della scuola con le loro conversazioni e i consigli due persone verso cui il De Mauro
si è sempre sentito debitore: un allor giovane e valoroso studioso di storia religiosa,
storia medievale e del nostro Risorgimento, e anche insegnante efficacissimo assai amato
dai suoi allievi di liceo e poi di università, Mario Themelly, allievo di Adolfo Omodeo e poi
di Gabriele Pepe, grande amico dei fratelli maggiori, e Giulio Gamberale, un ingegnere
elettrotecnico di origine pugliese, profondamente cattolico, coltissimo. Qualche volta
accadeva che i loro suggerimenti si intrecciassero, come per le letture e una prima
comprensione dei testi cristiani antichi o per un accostamento a Henri Poincaré, a
Windelband e alla critica delle scienze. Altri suggerimenti erano diversificati: Themelly lo
guidò nelle letture e nella non facile prima comprensione di Cartesio e di Kant,
Gamberale lo guidava nelle scelte e letture di quella straordinaria impresa di cultura che
fu la prima BUR. A una crescente sistematicità di letture e studi il giovane fu indotto negli
ultimi due anni di liceo da una fortunata circostanza. Nel disordine della scuola italiana
una congiuntura astrale portò contemporaneamente in quegli anni e poi per qualche anno
ancora nella sezione del Giulio Cesare frequentata dal De Mauro quattro diversi professori
di grande qualità, Nuccia Ascoli Musatti, di famiglia ebrea romana, per la storia dell’arte;
Luigi Fiorito, calabrese, che veniva dal liceo Telesio di Cosenza, per l’italiano; Bruno
Giorgi, romano, per la fisica e la matematica; Alberto Vegezzi, piemontese, che aveva
insegnato nei licei di Todi e di Tivoli, per il greco e il latino. Capire che l’arte del
Novecento non era da irridere e imparare ad apprezzare architetture e figurazioni del
passato (la professoressa portava pazientemente in giro fuori orario i tre quattro allievi a
ciò disponibili a visitare e conoscere i musei e l’immenso museo a cielo aperto che è
Roma); leggere per intero e direttamente, senza mediazione di manuali, i grandi classici
della letteratura italiana; scoprire che la matematica si poteva capire e intravedere gli
orizzonti della fisica contemporanea furono alcune delle esperienze salienti che portarono
un’intera classe, fino ad allora opacamente riottosa, a uno studio “matto e
disperatissimo”. Non per caso da quella sezione di quegli anni vennero studiosi e
professori universitari di fisica, come Giorgio Gerosa e Ezio Ferrari, di filosofia antica,
come Gabriele Giannantoni, di medicina, come Armando e Alfredo Signoretti e Italo Carta,
di economia come Luigi Spaventa. Di quei professori gli stili di insegnamento erano assai
diversi: lievemente ironico e distaccato il professore di fisica, Bruno Giorgi; severo e a
tratti perfino algido, in apparenza, il professor Vegezzi; affettuosa, entusiasta e
scintillante di intelligenza Nuccia Musatti; ogni giorno sorprendente e affascinante Luigi
Fiorito, un professore che non obbediva mai al rito delle interrogazioni e quindi dava voti
solo a fine trimestre, ma annotava a mano a mano e rammentava con precisione le
osservazioni, gli interventi nelle discussioni e la qualità delle relazioni che a turno faceva
tenere (con obbligo di imparare a parlare ordinatamente a braccio, senza leggere dal
testo scritto, che pure era d’obbligo preparare e consegnare). Fiorito di rado stava in
cattedra, più spesso passeggiava nella classe parlando e spesso si sedeva in un banco
accanto a qualcuno degli alunni a discutere un passo, un’idea critica, un dato e a
suggerire letture di poeti, prosatori e storici, di grandi critici come De Sanctis, Gentile,
Russo, Fubini e, soprattutto, Croce, più volte portando lui stesso e prestando i libri di cui
parlava. Diversamente dagli altri insegnanti Fiorito dava agli allievi un rigoroso lei e solo
a volte, se il colloquio si faceva più intenso e coinvolgente, gli sfuggiva con i più valenti
un tu, che suonava come un raro premio.
Il progredire sulla via di studi disciplinati non comportava solo, come è ovvio, acquisizione
di conoscenze e di orientamenti di natura intellettuale, ma acquisizione di abiti di studio
(di abiti nel senso di indumenti in quegli anni finali di liceo il De Mauro poteva
permettersi solo lo stretto necessario, stanti le inquiete propensioni paterne a trascurare
il vile danaro: una giacca blu d’ordinanza del fratello pilota di anno in anno più volte,
toltine i gradi, fu scorciata, rimaneggiata e, come usava, rivoltata, sì che esibiva due
taschini, ma con la crescita non poté più essere riattata e fu con molta vergogna che il
ragazzo o ormai giovane dovette confessare nascostamente al professor Fiorito, il quale
esigeva si venisse in giacca a scuola, che il capo d’abbigliamento richiesto gli mancava e
non poteva permettersene al momento l’acquisto). Agli abiti di studio si univa una
congrua maturazione di orientamenti morali e civili e di lettura in lettura, di riflessione in
riflessione il De Mauro si allontanò dall’ingenuo fascismo moralistico della sua famiglia, e
del resto per vie diverse una simile evoluzione visse il fratello maggiore, Mauro, che
intanto, non più latitante, aveva cominciato a lavorare come redattore nei giornali
palermitani. Un discreto cenno, implicito in una domanda del professor Vegezzi sulle
soglie dell’aula durante un intervallo (“Ma tu, De Mauro, non leggi Il Mondo?”), lo spinse a
procurarsi da allora in poi quel settimanale, che gli fu scuola di vita civile e morale e
anche di stile.
Alla fine del liceo era grande l’incertezza del De Mauro circa gli studi universitari da
intraprendere. Era affascinato dall’idea della fisica e un più che brillante risultato in tale
materia e in matematica gli pareva suggellasse una scelta in tal senso. Ma simili erano i
risultati anche nelle materie letterarie e forte era il peso dei modelli di insegnamento di
Themelly e di Luigi Fiorito, sicché era attratto dall’idea di insegnare a scuola e di
insegnare materie storicofilosofiche e letterarie, dunque di iscriversi alla facoltà di lettere.
La spinta finale gli venne dal fortuito incontro, durante gli esami di maturità, con un
professore fiorentino, Marchi, allievo di Giorgio Pasquali, che, terminato l’esame, gli
suggerì di tentare in autunno il concorso alla Normale di Pisa e gli fornì una reading list
specifica fatta di letture delle classiche opere di glottologia indoeuropea e storia
linguistica di latino e greco di Antoine Meillet e di Giacomo Devoto e della Storia della
tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali. Pochi giorni dopo l’esame, il ragazzo si
dette di furia a queste letture. Conosceva abbastanza il tedesco, ma non il francese che,
per quel che poteva, cominciò a imparare allora sui libri di Meillet. Non potendo
acquistare i volumi, andava a leggere le opere suggeritegli nella grande sala di lettura
dell’Alessandrina e ne faceva pagina dopo pagina riassunti, un’abitudine presa alla scuola
di Fiorito col quale si parlava sì a braccio, ma si scriveva molto per le relazioni e per
tenere memoria di letture e lezioni.
Che esistesse la linguistica era cosa in certa misura appresa già in anni precedenti. Un
valoroso amerindianista, noto all’estero, ma sconosciuto o quasi in Italia, Ippolito
Galante, rientrando nel 1947 in Italia dall’università di Coimbra dove aveva insegnato,
aveva accettato ingenuamente di venire a insegnare al Giulio Cesare (era partito
dall’Italia trent’anni prima quando i licei a Roma erano tre quattro e pochissimi e rinomati
i professori di greco e latino). Vi durò qualche mese, abbastanza però per prendere a ben
volere il ragazzo: insegnava a tutti che esisteva la linguistica comparativa indoeuropea
(di tali lezioni De Mauro conserva qualche appunto scritto con la calligrafia disordinata
che ancora aveva in prima liceo), ma al De Mauro (di cui sapeva che masticava il
tedesco) fece dono del Praktisches Elementarbuch zur Einführung in die Sanskritsprache
di Hermann Camillo Kellner, un primo accostamento all’antico indiano, giusta il motto
oraziano della prima pagina: Est quadam prodire tenus, si non datur ultra “puossi a un
punto arrivar s’oltre non lice” (traduceva il Gargallo nell’Ottocento). Qualche anno dopo
altre schegge di linguistica aveva raccolto dalle note storico-linguistiche della grammatica
greca di Dino Pieraccioni, suggeritagli da Vegezzi, e da una lezione di Luigi Fiorito a
commento di Vico, in cui il professore aveva parlato dell’esistenza di una scienza detta
semantica consistente nello studio scientifico dei mutamenti di significato delle parole. In
quell’estate quei frammenti dispersi presero a ricomporsi e organizzarsi. Il suggestivo ma
generico vichismo attinto da Fiorito e attraverso qualche diretta lettura vichiana
(l’Autobiografia più che la Scienza Nuova) si andò trasformando in un interesse articolato
per lo studio delle lingue filologicamente e scientificamente fondato.
Passò l’estate, i documenti per il concorso alla Normale erano pronti, ma l’amore per una
fanciulla gli fece abbandonare l’idea di rischiare un trasferimento a Pisa: se fosse stato
accolto in Normale avrebbe conosciuto compagni normalisti con alcuni dei quali poi poté
stringere amicizie durevoli solo dieci e più anni dopo. Preferì restare a Roma e così nel
novembre 1950 mise piede nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma.
Lettere, all’epoca, a Roma come in ogni altra grande sede, e forse anche di più, era quel
che Cesare Musatti una volta ha descritto, “una specie di superliceo”, con un ventaglio di
offerte che andavano dall’archeologia e filologia alla storia, dalle lingue e letterature più
varie alla storia dell’arte, alla filosofia, a scienze seminaturali o naturali come la
geografia, la psicologia, l’antropologia culturale. A insegnare vi erano anche persone men
che mediocri, di cui i laudatores temporis acti paiono dimenticare l’esistenza (vero
oggetto di culto erano le dispense di un professore dedicate ad Aristotele che esordivano
dicendo “Lo Stagirita nacque ad Atene”). Ma vi tenevano cattedra personalità
straordinarie per dottrina e levatura intellettuale e morale: Gaetano De Sanctis e
Federico Chabod, Raffaele Pettazzoni e Angelo Brelich, Gennaro Perrotta e Natalino
Sapegno, Pietro Paolo Trompeo e il più grande anglista italiano del Novecento, Alberto
Pincherle e Bruno Nardi, Guido Calogero e Giorgio Levi della Vida, Giuseppe Ungaretti e
Ugo Spirito, Alfredo Schiaffini e Carlo Antoni, Bruno Tucci e Roberto Almagià, Alessandro
Bausani e Lionello Venturi. Da questi spiriti magni promanavano suggestioni che
trascinavano nelle direzioni più svariate dello scibile e non erano da meno gli allora
giovani, talora giovanissimi assistenti, una coorte straordinaria, come Luigi Moretti o
Bruno Gentili, Luca Canali, Lino Lacorte e Francesco Valentini, Carlo Muscetta, Tullio
Gregory e Carlo Salinari, per ricordare almeno qualche nome. Ma il De Mauro aveva ormai
maturato la scelta di un cammino e cercando di resistere ad altre suggestioni dopo il
primo anno, anche, occorre dire, per tener dietro alla fanciulla che amava, si dette a
frequentare le lezioni di glottologia di Antonino Pagliaro e Mario Lucidi.
Secondo Eugenio Coseriu, attento osservatore della linguistica internazionale, Pagliaro è
stato con il danese Louis Hjelmslev massimo tra i teorici del linguaggio del Novecento.
Certamente la sua visione della lingua come mutevole proiezione storico-sociale dei
bisogni espressivi e comunicativi individuali, cioè del bisogno di distinguere e associare
per sé e per gli altri in significati flessibili i saperi (i “valori saputi” egli diceva) necessari
alla vita intellettuale, affettiva, pratica, era fondata su un’esperienza di ricerche e studi
linguistici di rara ampiezza, non comune allora e poi tra molti generalisti e rarissima
purtroppo tra chi professa la filosofia del linguaggio. I suoi studi spaziavano dall’antico
indiano e dal persiano antico al medievale, di cui era tra i rari conoscitori nel mondo, a
greco e latino, ai testi italiani dialettali e in lingua, e fin da giovane aveva acquisito una
grande consuetudine, rara tra i linguisti specie all’epoca, con i testi filosofici, da Platone e
Aristotele a Leibniz, Vico, Kant, Hegel, a Ernst Cassirer e ai logici e filosofi analitici
contemporanei (si trovano nei suoi scritti le prime menzioni italiane di Bertrand Russell e
di Ludwig Wittgenstein). La sua scrittura era sempre rigorosamente argomentata pro
veritate e cercava, con l’oggettività delle enunciazioni, la chiarezza massima possibile per
quanto ardue fossero le questioni o i testi in discussione. Evitava rigorosamente l’uso
della prima persona e sdegnava certe formule care a una parte dello stile colto italiano
del tipo “non convince tale ipotesi” oppure, ovviamente, “convince”: come se il procedere
filologico e scientifico fosse materia non di pubblica falsificabilità ma di personali gusti e
inclinazioni. Nel far lezione stava in piedi, ritto e fermo sulla pedana accanto alla
cattedra, si moveva per breve tratto solo per annotare alla lavagna un nome di studioso
che citasse o una forma d’una delle lingue chiamate in causa, e parlava con distacco
senza ripensamenti e senza enfasi, come avendo meditato a lungo su ciò che andava
dicendo e sulle formulazioni più adeguate. A Pagliaro il De Mauro ritiene di dovere molto
delle sue idee teoriche e non ha mai mancato di sottolineare il suo debito negli scritti e
nella sua attività di insegnamento.
Altro stile aveva Mario Lucidi e lo si vedeva già a prima vista. Scendeva dalla cattedra,
dove saliva quasi solo per usare la lavagna, faceva lezione girando tra i banchi, poneva
questioni agli allievi, discuteva con passione e spesso, se la questione era complessa,
lasciava un impeccabile italiano standard per scivolare verso il romanesco. Del resto la
discesa verso la dialettalità e quotidianità era per lui una sorta di criterio epistemologico:
la indicibilità in quotidianese era motivo di sospetto per una teoria, un concetto,
un’ipotesi. Ingegno matematico, detestava incoerenze e non sequitur. Nello scrivere
risentiva dello stile e dell’atteggiamento mentale di Pagliaro, lo affiancava per acutezza e
non minore originalità teorica. Rispetto a Pagliaro, Lucidi era assai più attento e
interessato agli sviluppi della linguistica teorica del Novecento. Più che nelle lezioni, di
taglio forzatamente introduttivo, nei suoi rari scritti (Lucidi morì prematuramente nel
1961) e nelle conversazioni che intratteneva con gli allievi degni di attenzione, i suoi testi
favoriti di riferimento erano, oltre naturalmente Saussure, i francesi, che a metà secolo
dominavano gli studi teorici come Émile Benveniste e André Martinet, Louis Hjelmslev e
Viggo Brøndal, i cosiddetti praghesi, in realtà profughi esuli dalla Russia sovietica, Roman
Jakobson e Nikolaj Sergeevic Trubeckoj primo forse tra tutti, e infine gli “americani”,
amati e odiati a un tempo, Leonard Bloomfield, Zellig Harris, Charles Hockett, Kenneth
Lee Pike (Noam Chomski era ancora di là da venire nei primi anni cinquanta). La
consuetudine con questi testi dello strutturalismo europeo e americano era allora rara tra
i linguisti, perfino in Francia e Usa, e sconosciuta in Italia come in Germania e Gran
Bretagna.
Se Pagliaro immetteva in una tradizione di studi e pensiero che trovava i suoi punti forti
in Aristotele e, Vico a parte, nella filosofia classica tedesca, Lucidi portava nelle trincee e
prime linee del dibattito teorico di metà Novecento, il più avanzato e, come si è
accennato, assai mal noto in Italia. Linguisti come Walter Belardi e Marcello Durante,
allievi di Pagliaro e Lucidi, hanno fruito di questa duplice scuola e lo stesso deve dirsi di
più giovani, tra cui, appunto, il De Mauro.
Discutendo con Pagliaro e poi soprattutto con Lucidi il De Mauro svolse la sua tesi di
laurea sulla funzione dell’accusativo nelle lingue indoeuropee arcaiche (1956) e sviluppò
poi l’argomento in due successive memorie dei Lincei (1959, 1960), presentate da
Pagliaro, riprendendone i temi anni dopo (1965) in uno scritto sul nome del dativo, dotikè
ptôsis (i tre scritti sono stati ristampati insieme nel 2005 dalle Edizioni di storia e
letteratura). Il De Mauro moveva da una ricognizione delle più accreditate illustrazioni
della funzione dei casi in antico indiano, greco e latino classici, le commisurava
criticamente a una ricognizione sia filologica sia statistica con l’effettivo uso nei testi,
respingeva il riduttivismo referenzialista di tali illustrazioni (l’accusativo caso di chi
subisce l’azione ecc.), elaborava, in particolare per l’accusativo e il dativo in greco, nuove
definizioni del loro valore (integratore generico del verbo l’accusativo, caso circostanziale,
caso dei data condizionanti l’azione, il dativo). Inoltre, sulla scorta di un’acuta e allora
isolata intuizione del logico ed esegeta d’Aristotele Friedrich Adolf Trendelenburg,
propose di ricondurre le denominazioni dei casi greci (ma anche di altre parti della
nomenclatura grammaticale) all’ambiente dei filosofi e grammatici immediati successori
di Aristotele, mal intesi dalla successiva tradizione grammaticale greca e latina digiuna di
prospettive e cognizioni filosofiche ed esposta dunque a misinterpretazioni delle
denominazioni inizialmente dense di spessore filosofico e logico. La grande ondata di
studi sintattici di ispirazione chomskiana ha messo in ombra soluzioni come quelle del De
Mauro e ha imbarcato senza beneficio di inventario le più grottesche definizioni della
tradizione grammaticale tardo antica, con verbi transitivi che “passano” e intransitivi che,
anche se spesso verbi di movimento, “non passano”, nominativi che “fanno l’azione”,
accusativi che “la subiscono” e dativi come caso della persona cui si dà (solo un
grammatico antico osservava sarcastico che magari era anche il caso di colui cui si toglie,
un “toglitivo”).
Di là di risultati contingenti, il De Mauro cominciò a maturare in questi lavori alcune
attenzioni e alcuni orientamenti poi non più dismessi: il primato dell’uso effettivo nella
configurazione e nel trasformarsi dei valori di lingua, il ricorso a strumenti statistici nella
determinazione dell’uso, il rifiuto del riduttivismo referenzialista nella definizione dei
significati di parole e forme grammaticali.
Intanto il De Mauro frequentava anche l’Istituto di filosofia e, venuto in contatto con Ugo
Spirito, espostegli in sede d’esame alcune idee sulle teorie linguistiche di Benedetto
Croce, fu invitato a preparare un articolo su questo tema per il “Giornale critico della
Filosofia Italiana”. Il De Mauro lo scrisse e pubblicò (1954) rilevando le interne incrinature
delle idee linguistiche crociane in sé e in rapporto al sistema della filosofia dello spirito e,
contro le opinioni allora prevalenti, mostrava il progredire di Croce da una radicale
negazione verso il riconoscimento della funzione della lingua come istituto
intersoggettivo, collettivo. Questo lavoro gli valse la richiesta di collaborare con altri
articoli alla “Rassegna di filosofia” e gli guadagnò la stima di Guido Calogero che,
scopertolo in realtà studioso di linguistica, e specialmente interessato a questioni di
significato, più che filosofo, lo invitò a collaborare a una impresa internazionale cui
attendeva con Raymond Klibansky, una storia dei termini chiave del pensiero europeo.
L’impresa si interruppe anni dopo, ma intanto il De Mauro approntò tra 1956 e 1961
alcuni lavori sulla storia semantica delle parole democrazia (con Gennaro Sasso e lo
stesso Guido Calogero), classe, arte. Una decina d’anni dopo, nel più articolato quadro di
una storia degli interscambi tra le grandi lingue di cultura e con un più ragionato rifiuto
delle chiusure monolinguistiche e nazionalistiche della lessicografia delle varie lingue
europee, queste esperienze servirono come primo spunto per elaborare insieme a Tullio
Gregory un progetto di studio complessivo del lessico intellettuale europeo. Il De Mauro
affiancò Gregory fino al 1974 nell’avvio a realizzazione del progetto, dal quale poi nacque
una struttura permanente del CNR, il Centro per il Lessico intellettuale europeo. L’idea
iniziale di uno studio completo, di insieme, di questa sezione del lessico delle lingue
europee dal greco e latino antichi alla latinità medievale e moderna e alle diverse lingue
nazionali, dagli anni settanta allontanatosi il De Mauro cedette il passo alla produzione di
importanti ma isolati segmenti di lavoro (spogli di alcuni autori e testi) e di dotti e
pregevoli convegni su una o altra parola chiave, ma il progetto iniziale attende e
meriterebbe ancora una realizzazione.
Tornando alla prima parte degli anni cinquanta, mentre ancora doveva laurearsi (ciò
avvenne nel 1956), il De Mauro visse alcune esperienze per lui determinanti: la
costituzione a Roma di una fiorente associazione universitaria, l’Unione Goliardica
Romana, di cui fu presidente prima di Stefano Rodotà, che gli dette modo di conoscere
studenti e studiosi di varia facoltà e di vivere per due anni (1954-56) la diretta esperienza
della costruzione di un’organizzazione democratica dal basso; il lavoro, procuratogli da
Riccardo Musatti per sopperire alle necessità della famiglia paterna, di redattore
nell’Istituto Nazionale di Urbanistica e della rivista “L’architettura. Cronache e storia” di
Bruno Zevi, di cui divenne infine redattore capo (1956-57), ricavando dalla irruente e
geniale personalità di Zevi non poche lezioni e di vita e di studio e cognizioni in materie
come l’urbanistica e le società urbane, ciò che doveva di lì a poco rivelarsi prezioso per gli
studi di storia linguistica italiana e che da subito fu occasione di collaborazione con
Francesco Compagna, Renato Giordano, Vittorio De Caprariis e gli altri del gruppo
redazionale di “Nord e Sud”; e infine, grazie ai buoni uffici di Elena Croce che lo aveva
preso a ben volere, l’inizio della collaborazione al settimanale “Il Mondo”, con articoli di
linguistica e di filosofia del linguaggio (1956-65). Sempre spinto da necessità di lavoro
lasciò poi l’INU e “L’architettura” per entrare (con assai miglior stipendio e minore
impegno di tempo) come redattore per l’antichità classica nell’Enciclopedia dello
Spettacolo, un ambiente ancora diverso dove campavano la vita e attendevano a un
lavoro originale e fino a oggi insostituito giovani allora alle prime armi che avrebbero poi
onorato la cultura italiana come Nino Borsellino, Andrea Camilleri, Paolo Chiarini, Italo
Cubeddu, Fedele e Sandro D’Amico, Giancarlo Montesi, Vittoria Ottolenghi, Filippo Maria
Pontani, Francesco Savio (Chicco Pavolini), Luciana Stegagno Picchio (1957-1963).
L’esperienza dell’Enciclopedia dello Spettacolo e ancora una volta i buoni uffici di Gregory,
di cui ancora occorrerà dire, gli valsero l’ingresso nell’Enciclopedia Italiana, dove restò poi
fino al 1976, come redattore per le etimologie, le trascrizioni fonetiche e le voci
linguistiche.
Intanto il De Mauro aveva cominciato il suo cursus universitario. Nominato nel 1957
assistente volontario di Filosofia del linguaggio da Antonino Pagliaro, che teneva da
qualche anno l’incarico gratuito dei corsi di questa materia ancora sconosciuta nelle
università italiane, l’anno stesso aveva vinto il concorso a un posto di assistente ordinario
presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, dove restò quasi tre anni. Alle schiere di
studentesse e studenti che venivano da ogni recesso del Sud (allora l’Orientale era l’unica
facoltà cui si accedeva da qualsiasi canale mediosuperiore), spesso segnati da evidente
povertà, tutti animati dal desiderio di promozione sociale al rango di universitari, suo
compito era tenere esercitazioni per spiegare gli ardui veri della linguistica teorica
europea e americana postsaussuriana. Fu un’altra esperienza di qualche conto trovare le
vie della chiarificazione di concezioni sottili e rigorose talché alla loro comprensione
accedessero ragazzi e ragazze spesso ancora dialettofoni puri. Con molti di questi
studenti il De Mauro, di poco più anziano e a volte perfino più giovane, stabilì rapporti
assai amichevoli e, ricco al loro confronto, li portava con sé spesso nei caffè di via
Mezzocannone a prendere appunto un caffè che per più d’uno, con abbondante zucchero,
era l’unico nutrimento della giornata. Questo fraternizzare con lo studentato fu uno dei
capi d’accusa di un procedimento di radiazione dai ruoli di assistente, procedimento che
dovette però interrompersi perché il De Mauro aveva intanto ottenuto dopo soli quattro
anni dalla laurea, in anticipo rispetto ai tempi di legge previsti la libera docenza in
Glottologia. E ciò, a termini della legge allora vigente, rendeva permanente il suo ruolo di
assistente ordinario vanificando la procedura di radiazione. Comunque, stanti gli evidenti
non buoni rapporti del De Mauro con i docenti dell’Orientale, quantunque anch’essi in
parte allievi e beneficiari dell’amicizia accademica di Antonino Pagliaro, il Pagliaro stesso
richiamò il giovane a Roma cedendogli, per dir così, il corso di Filosofia del linguaggio da
lui tenuto e ciò per un primo anno a titolo gratuito (1961-62), poi a titolo retribuito, sia
pure con i ritardi di pagamento allora usuali che non impedirono al De Mauro di mettere
su casa e di sposarsi con una giovane salernitana, Annamaria Cassese, provvedendo alle
necessità anche della nuova famiglia con gli introiti enciclopedici e le anticipazioni sullo
stipendio concessegli da un amico di famiglia generoso e facoltoso. Così il De Mauro, in
una università come l’italiana già a quel tempo inclinante verso la gerontocrazia, si trovò
men che trentenne titolare dell’allora quasi unico corso di Filosofia del linguaggio in Italia
e ciò, diciamo così, per demeriti accademici e dubbia fama. Si dirà poi alcunché
dell’impostazione di tali corsi.
In un itinerario segnato da occasionalità varie, nel 1958, cominciandosi a discutere delle
celebrazioni centenarie dell’unità d’Italia (1861-1961) e del ruolo che la RAI doveva
avervi, in una combattuta commissione a esse preposte, nella contesa tra diverse fazioni
accademiche, il Pagliaro ottenne o forse meglio impose che ai nomi di assai illustri e
famosi studiosi come Alfredo Schiaffini, Bruno Migliorini e Giacomo Devoto, si affiancasse
un giovane poco noto per approntare sei conversazioni sulla storia linguistica italiana nel
secolo postunitario. L’arrischiata scommessa ricadde sul De Mauro, che era stato fino ad
allora estraneo agli studi di italianistica. Nello studio assai intenso per reperire e
predisporre i materiali su cui costruire le sei conversazioni il De Mauro aveva però alcuni
vantaggi. La formazione linguistica lo portava quasi naturalmente a guardare le cose
italiane in una prospettiva comparativa, europea, come naturalmente le avevano
guardate il grande glottologo Graziadio Ascoli e gli europei Leopardi e Manzoni. Questo
faceva subito balzare agli occhi il paradosso di una lingua nazionale proclamata tale da
secoli, ma in realtà estranea a gran parte della popolazione, come a chiunque sarebbe
stato facile constatare se avesse guardato non solo ai fatti di stile letterario o di novità
lessicali (tale allora era ciò che si chiamava Storia della lingua), ma anche all’uso, a ogni
sorta di uso della lingua, al chi e quando e quanto e come e dove usava o avrebbe potuto
usare una lingua che, per concordi testimonianze, a cominciare da quelle del Manzoni,
fuori di Toscana e fuori in parte di Roma, era stata da secoli e a metà Novecento ancora
restava una lingua d’elezione riservata a chi avesse compiuto buoni studi, da usare nello
scrivere da chi e per chi scrivere e leggere sapesse o in occasioni formali e solenni per
quanti a siffatte occasioni avessero accesso. Gli aspetti del paradosso si circostanziavano
se con un minimo apparato di conoscenze storiche generali si fossero messe in relazione
le vicende linguistiche con la realtà d’un paese policentrico e di classi dirigenti
miopemente arroccate in se stesse. E tanto più quegli aspetti si precisavano se, con
qualche conoscenza e forse solo sensibilità statistico-demografica, si fosse guardato
all’asfitticità della circolazione di cultura tecnica, scientifica e intellettuale e più ancora
alla penuria secolare dell’istruzione: persistevano da secoli grandi masse di non
scolarizzati (che erano il 59,2 della popolazione adulta ancora nel 1955), in gran parte
totali analfabeti confessi e quindi, fuori della Toscana, tagliati fuori dalla possibilità di
accedere all’uso della lingua e costretti perciò a potersi esprimere e intendere solamente
mercé l’uso esclusivo di uno dei tanti dialetti che dai tempi di Dante al Novecento sono
fioriti nella penisola come qualunque buon manuale tedesco o francese di filologia
romanza soleva insegnare. La storia linguistica di un popolo, del popolo che veniva detto
italiano, da storia dei fatti letterari della lingua dal punto di vista che il De Mauro andava
assumendo si mutava in storia di come e la lingua e i dialetti e altri idiomi presenti erano
stati concretamente adoperati e si adoperavano. Gli strumenti di analisi strutturale,
sistemica, guadagnati alla scuola di Pagliaro e di Lucidi permettevano di rivedere
nell’insieme la mole dei fatti ricomponendoli in una prospettiva in cui centrale era il ruolo
delle masse dei parlanti e scriventi nelle loro varie e cangianti articolazioni storiche e
sociologico-demografiche. Di altri due vantaggi non allotrii poté valersi il De Mauro: la
bibliografia disponibile era vasta, ma non ancora torrenziale, a tratti lutulenta e spesso
ripetitiva, come poi è diventata in molti settori dei saperi umanistici, non esclusa
l’italianistica. Leggere i relativamente rari scritti di Camilli, De Lollis, D’Ovidio, Devoto,
Fiorelli, Folena, Hall, Merlo, Migliorini, Pulgram, Rohlfs, Schiaffini, Terracini, quantunque
diverse potessero essere le prospettive, significava leggere cose, non parole e bellurie
accademiche. Un secondo vantaggio era l’impegno di preparare testi destinati alla radio,
vincolati dunque a quella speciale inderogabile esigenza di nitidezza del dettato
radiofonico che Carlo Emilio Gadda aveva pochi anni prima individuato e codificato.
L’insegnamento di Lucidi e Pagliaro, l’esperienza delle lezioni all’Orientale, la severa
scuola di Mario Pannunzio e del “Mondo” (Pannunzio amava ripetere pedagogicamente ai
più giovani collaboratori che aveva respinto un articolo di Croce e uno di Luigi Einaudi per
insufficiente limpidezza: ciò forse era falso, ma suscitava reverenza e sollecitava
impegno), erano un patrimonio che occorreva cercare di mettere a frutto.
A mano a mano che i testi delle conversazioni (di dodici cartelle ciascuno) prendevano
forma fruirono, come i precedenti lavori indoeuropeistici, della lettura paziente e rigorosa
di Mario Lucidi e di una giovane compagna di studi, Anna Davies Morpurgo, divenuta poi
professore di Classical Philology a Oxford. Le conversazioni andarono in onda nel 1961. Le
apprezzò Tullio Gregory che propose all’editore Laterza di pubblicarle. Pur sollecitato da
Pagliaro, che aveva progetti accademici sul giovane, e dall’editore incuriosito e
impaziente, il De Mauro continuò a lavorare sul testo, non tanto per modificare ciò che
nelle conversazioni era stato detto (il testo scritto poi stampato restò largamente
aderente a quello trasmesso via radio), ma per corredarlo del supporto di note e apparati
documentali. Il testo apparve infine per i tipi di Laterza nell’autunno del 1963, le 72
pagine di conversazione erano diventate, con note e marginalia, circa cinquecento. Si
favoleggiò che Gregory e il direttore editoriale dell’epoca, Donato Barbone, avessero fatto
arrivare in tipografia il libro sottraendone la mole alla vista dell’editore Vito Laterza. Ma
non era vero.
Nella massa di dati e letture il De Mauro alcune opere significative non aveva trovato,
come le Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani, in cui il parroco di Calenzano e poi di
Barbiana aveva individuato nell’estraneità alla parola di tanti il punto di crisi di una reale
adesione alla pastorale e ai Vangeli e lo aveva fatto adoperando strumenti di analisi
statistico-demografica analoghi a quelli usati dal De Mauro. Il libro gli sarebbe stato noto
solo più tardi per gli insistenti suggerimenti del fratello Mauro e di due suoi amici
giornalisti, Mario Cartoni e Giorgio Pecorini, i soli autorizzati a forzare il “blocco navale”
con cui don Milani relegato a Barbiana si proteggeva dalle intrusioni del già allora
pettegolo giornalismo italiano. Altri libri aveva trovato, letto e perfino citato in esteso, ma
come testimoni, senza intenderne per allora la portata (“I libri sono importanti, ma non
parlano da soli”, è stato detto). Così accadde al De Mauro per le Lezioni di didattica di
Giuseppe Lombardo Radice, di cui solo dopo capì l’intera portata innovativa che ancora
serbano. E così accadde per i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Vito Laterza,
scorrendo da attento editore la massa dei materiali in appendice al testo del libro, si
imbatté in una citazione gramsciana poi diventata famosa a proposito di questioni
linguistiche: «Non è giusto dire che queste discussioni siano state inutili e non abbiano
lasciato tracce sulla cultura moderna... Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la
questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi, la
necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa
popolarenazionale». Il De Mauro ha ricordato altrove che l’editore Vito Laterza gli si
rivolse con una cauta e cortese telefonata: “Questo”, ebbe a dire, “è il senso vero del
libro”. E chiese il permesso di stampare la pagina di Gramsci sul frontespizio. Il pesante
anticomunismo vigente ancora nell’università e nella scuola italiana poteva danneggiare il
cursus accademico dell’autore, ciò che del resto in piccola misura avvenne. Il libro,
intitolato Storia linguistica dell’Italia unita, da allora è comunque apparso in molte
riedizioni e ristampe, ormai oltre venti.
Chi dovesse leggere, trova in quanto detto l’essenziale degli orientamenti di studio, di
riflessioni e attività del De Mauro, tranne forse una sola aggiunta. Già il primo ciclo di
lezioni romane di filosofia del linguaggio, interrottosi tra 1968 e 1974, quando il De Mauro
fu chiamato a insegnare linguistica generale prima a Palermo, poi nella neonata
università di Salerno, prima di rientrare definitivamente alla Sapienza di Roma, già quel
primo ciclo fece capire al docente che a una visione adeguata del linguaggio, delle lingue
e dell’esprimere e comprendere individuali è possibile pervenire soltanto chiamando a
raccolta e filtrando criticamente, en philosophe o en philologue che sia, gli apporti
derivabili da una pluralità di scienze diverse, dalla statistica alle neuroscienze, dalla
biologia evolutiva alle scienze demologiche e antropologiche, al diritto e, ovviamente,
agli studi storici, sociologici e psicologici. Lo sollecitavano a ciò la complessità stessa
della materia di studio, ma anche l’apporto di allievi di grande valore frequentanti quelle
prime lezioni, come alcuni già in via di laurearsi, quali Federico Albano Leoni ed Elio
Durante, e altri allora novizi come Francesco Antinucci, Roberto Antonelli, Cristiano
Castelfranchi, Giovanni Cerri, Daniele Gambarara, Anna Ludovico, Elda Padalino, Renzo
Paris, Raffaele Simone, Maria Chiara Starace, Virginia Volterra, diventati poi affermati
studiosi in campi disparati, dalla primatologia agli studi strettamente linguistici, alla
psicologia sperimentale. Spinsero poi nella stessa direzione anche coloro che vennero alle
sue lezioni a Palermo, tra 1967 e 1970, come Silvana Ferreri e Franco Lo Piparo, poi a
Salerno, tra 1970 e 1974, come Annibale Elia e Giorgio Graffi, e poi di nuovo a Roma, tra
1974 e 2007, dove innumerevoli furono allievi e allieve e almeno i nomi di alcuni, verso
cui il De Mauro più si sente debitore per i loro studi, possono ricordarsi, come Grazia
Basile, Federica Casadei, Isabella Chiari, Gennaro Chierchia, Felice Cimatti, Marina De
Palo, Franco De Renzo, Donatella Di Cesare, Sara Fortuna, Claudio Iacobini, Stefano
Gensini, Luca Lorenzetti, Caterina Marrone, Federico Masini, Raffaella Petrilli, Gianna
Policarpi, Tommaso Russo iniusta nece raptus e troppo presto scomparso, Anna Thornton,
Massimo Vedovelli, Guido Vetere, Miriam Voghera, a tacere di quelli che gli sono stati
accanto come cirenei nell’assiduo lavoro didattico, prima di involarsi anche loro verso i più
alti fastigi dell’accademia, come Sabine Kösters, Emanuela Piemontese e Massimo
Prampolini. Alle sollecitazioni di tutti questi si dovette se al permanere di due testi
fondamentali di riferimento, il Cours de linguistique générale di Saussure e le
Philosophische Untersuchungen di Wittgenstein (all’inizio entrambi forzatamente proposti
in originale) di anno in anno hanno fatto corona testi e temi di varie scienze, dagli anni
sessanta fino ai più recenti corsi di linguistica generale (1996-2007). Le diverse occasioni
di studio e le diverse esperienze qui già enumerate sono andate convergendo verso l’idea
che l’esplorazione del mondo del linguaggio debba svolgersi integrando saperi
scientificamente accertabili. Certo questo limita il ricorso a formule suggestive. Gli alti voli
sono frenati da tanta zavorra, ma il De Mauro pare non rammaricarsene troppo.
Il seguito della sua attività il De Mauro ama rappresentarselo come una sorta di lungo
susseguirsi di corollari o di verifiche sul campo dei teoremi visti o intravisti negli anni qui
prima evocati. Sono corollari che talora hanno dovuto assumere vesti ponderose e perciò
tali da fuorviare inducendo a pensare che siano cosa nuova: tali il primo lessico
dell’italiano parlato (1993), il primo tesoro dell’italiano letterario del Novecento (2007) o
gli otto volumi del Grande dizionario italiano dell’uso (UTET, Torino 2008), in realtà
nient’altro che tentativi di rivisitazione scrupolosa e complessiva del lessico italiano
ispirata alle esigenze di superare angustie e approssimazioni della tradizione
lessicografica italiana, esigenze maturate negli studi giovanili di semantica storica e
storia linguistica. Tali ancora, per rammentare solo qualche lavoro che ha avuto fortuna e
notorietà e traduzioni in varie lingue, il disegno introduttivo agli studi semantici (1965),
gli studi su Wittgenstein (1966), il commento e la reinterpretazione degli scritti sia
maggiori e più noti sia inediti di Saussure (1967 e 2003), la rivisitazione delle idee
linguistiche di Epicuro e di Gramsci (1996), tutte verifiche in chiave di ricostruzioni
storiche del progressivo definirsi dell’idea di primato dell’uso e del ruolo interno di temps
e masse parlante nei “giochi linguistici”, nei fatti di lingua, per riprendere i termini
suggeriti da Saussure e Wittgenstein. Tale infine l’impegno in imprese pratiche editoriali
ispirate alla volontà di stabilire un legame tra l’alta cultura specialistica dei più vari campi
e cerchie ampie dei lettori, come furono i “Libri di base” (1980-89), e il molto lavoro tra e
con insegnanti della Cittadella di Assisi, delle scuole per l’infanzia di Scandicci, dei CIDICentri di Iniziativa Democratica degli Insegnanti, dell’MCEMovimento di Cooperazione
Educativa, e dei GISCEL-Gruppi di Studio e Intervento nel Campo dell’Educazione
Linguistica, per sviluppare, molto apprendendo con loro insegnanti e da loro, le linee di
un’educazione linguistica che, fissate nelle Dieci tesi per una educazione linguistica
democratica (1975), ora tradotte anche in altre lingue, favorisca le capacità di
espressione e comprensione dei discenti e la loro inclusione pleno iure nella vita sociale,
secondo quanto raccomandano diversi articoli della Costituzione della Repubblica Italiana,
segnatamente il comma secondo dell’art. 3 e l’art. 34. E questi lavori apparentemente
lontani dalla ricerca lo portarono a mettere in questione le correnti teorie lineari della
comprensione linguistica e a elaborare e sviluppare studi teorici diversamente orientati
sulla natura non lineare del comprendere linguistico.
Questo seguito di attività del De Mauro è stato in parte travagliato dai casi della sorte,
come l’assassinio del fratello giornalista nel 1970 o la morte precoce della moglie
Annamaria Cassese nel 1989. Ma lo hanno anche arricchito e sorretto altri eventi: la
nascita e i progressi autonomi dei due figli, Giovanni, valente e atipico giornalista, e
Sabina, che ha continuato la professione materna di p.r.; l’unione, nel 1998, con un’antica
allieva e ora collega valorosa e severa e sposa preziosa, Silvana Ferreri; il sostegno di
amicizie impagabili, da Vito Laterza a Emilio Garroni, da Robert Godel a Luis Prieto o
Eugenio Coseriu, per ricordare solo quelli che non sono più; il progressivo affermarsi di
allieve e allievi di grande valore; l’organizzazione e temporanea direzione di società di
studio; l’assolvimento di incarichi pubblici di qualche onere, ma assai istruttivi, come
l’assessorato alla cultura nella Regione Lazio (1976-77) o il ministero della pubblica
istruzione (2000-2001); diversi riconoscimenti forse immeritati ma lusinghieri dai quali
sembra spinto a pensare che, diis adiuvantibus, possa attendere a nuovi corollari e a
nuovi quod erat demonstrandum. Di tale seguito chi lo volesse può trovare notizie
dettagliate in una bibliografia degli scritti del De Mauro, apparsa col titolo Una storia
linguistica presso l’editore Laterza nel 2002 (a cura di Raffaella Petrilli, Emanuela
Piemontese e Massimo Vedovelli) e altri dati bibliografici e biografici possono trovarsi nel
sito
offertogli
da
alcuni
allievi
e
da
loro
continuamente
aggiornato
www.tulliodemauro.com. Chi avesse pazienza di seguire queste indicazioni anche da esse
ricaverebbe l’immagine più che di un filosofo di un professore di filosofia del linguaggio e
di uno studioso di fatti linguistici attento, nella teoria, nelle ricerche e nella pratica
didattica e operativa, alle dimensioni del significare e del comprendere e anche, di
conseguenza, specialmente attento ai fatti didattici, alla vita degli apprendimenti, della
cultura diffusa e della scuola.
ROBERTA DE MONTICELLI
Roberta De Monticelli, nata a Pavia nel 1952, studia alla Statale di Milano (solo un anno),
alla Scuola Normale e all’Università di Pisa, dove si laurea nel 1976 con una tesi su E.
Husserl: dalla Filosofia dell’aritmetica alle Ricerche logiche; prosegue i suoi studi presso
le Università di Bonn, Zurigo e Oxford, dove è allieva di Michael Dummett, logico e
filosofo del linguaggio. Sotto la sua direzione scrive la tesi di dottorato su Frege e
Wittgenstein (De Monticelli 1982). A Oxford è anche iniziata allo studio della tradizione
platonica da Raymond Klibansky, membro e custode del Circolo Warburg, grande storico
delle idee ed editore di numerosi testi medievali e moderni.
Ricercatrice negli anni Ottanta presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Statale di
Milano, collabora con Andrea Bonomi, titolare della cattedra di Filosofia del linguaggio. A
Milano frequenta per anni i corsi della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale,
approfondendo la sua formazione nel quadro delle sue ricerche sulla tradizione patristica,
monastica e scolastica del platonismo e poi sulla filosofia di Agostino, di cui cura per
Garzanti un’edizione delle Confessioni con testo a fronte, commento e introduzione (La
Spiga 1992).
È dal 1989 al 2004 professore ordinario di Filosofia moderna e contemporanea
all’Università di Ginevra, sulla cattedra che fu di Jeanne Hersch (1910-2000, con Hannah
Arendt e Raymond Klibansky la migliore allieva di Karl Jaspers). Per valorizzare l’opera di
questa pensatrice, fra le più significative del Novecento, crea un’équipe di ricerca
internazionale sull’opera e la figura di Jeanne Hersch, che promuove fra l’altro svariate
traduzioni in italiano e altre lingue di opere della pensatrice ginevrina (cf. per la relativa
bibliografia la pagina web sul sito dell’Università di Ginevra). A Ginevra fonda la scuola
dottorale interfacoltà “La personne: philosophie, épistémologie, éthique” (Facoltà di
Lettere, Psicologia, Medicina e Teologia Protestante), che incoraggia un approccio
interdisciplinare allo studio della persona umana (etica ed etica applicata, ontologia,
fenomenologia, filosofia della mente, filosofia della psicologia, scienze cognitive, storia
della medicina, filosofia della biologia sono fra le discipline coinvolte). Dall’ottobre 2003 è
chiamata per chiara fama all’Università Vita-Salute San Raffaele, dove viene creata una
cattedra di Filosofia della persona: un insegnamento di concezione nuova anche nel nome
(il primo così denominato in Italia). La persona umana, la sua realtà e i modi della sua
conoscenza sono al centro della sua ricerca, che a partire da una attualizzazione del
metodo fenomenologico di Husserl e Scheler affronta alcune delle principali questioni
relative alla posizione della persona umana nella natura e alle diverse sfere della sua
esperienza, misurandosi da un lato con il dibattito contemporaneo promosso dagli
sviluppi della filosofia della mente e delle scienze naturali dell’uomo, biologia,
neuroscienze, scienze cognitive, e dall’altro lavorando ai fondamenti di una teoria della
conoscenza morale in un mondo caratterizzato dalla pluralità delle prospettive valoriali.
Tappe principali e linee di sviluppo
Nella domanda “perché?” c’è una radice comune alla logica e all’etica, e scoprire questa
radice, forse, è scoprire il principio della filosofia come atteggiamento mentale e morale,
come vocazione, come passione. Questo il filo conduttore della sua ricerca; ma
soprattutto l’intuizione generatrice della filosofia fenomenologica, che la incatena fin dal
primo inizio dei suoi studi all’opera di Husserl, segnando un’ideale continuità con la
tradizione della scuola di Paci e poi di Piana. Cioè con quello che oggi possiamo ben
chiamare a posteriori, dopo le avventure della filosofia continentale del secolo scorso fra
marxismi, storicismi, strutturalismi, decostruzionismi, nichilismi e koiné linguistica di conio
heideggeriano, l’eredità novecentesca del grande illuminismo lombardo. Che è poi un
atteggiamento mentale e morale in realtà minoritario nel corso del Novecento, e del
resto costantemente insidiato dalle numerose neo-sofistiche di cui s’è detto: ma fermo
nella convinzione che il pensiero filosofico debba essere, per così dire, la metafisica della
vita quotidiana, e illuminare piuttosto che oscurare le situazioni e le questioni che la vita
quotidiana pone; e che solo così facendo sarà in grado di dare un fondamento di ragione
alle valutazioni, alle scelte, alle azioni, di farsi cioè anche ragione pratica, oltre che
teorica. In entrambi gli usi, la filosofia si presenta dunque nella sua veste socratica di una
ricerca di chiarezza, evidenza e giustificazione o critica per ogni opinione, sentimento o
convinzione in cui si articoli la nostra vita cosciente, sia questa un’opinione relativa
all’essere, al valore o al dovere.
R. De Monticelli conta fra i suoi maestri, oltre a quelli che l’hanno formata alla Scuola
Normale e all’Università di Pisa – Nicola Badaloni, Remo Bodei, Giorgio Gargani – i filosofi
incontrati che hanno avuto più diretto impatto sulla sua ricerca: Michel Dummett, Andrea
Bonomi, Andres Raggio per la parte in senso lato logica di essa, Raymond Klibansky e
Jeanne Hersch per quella etica. I classici decisivi alla sua formazione possono legarsi
ciascuno a una parola chiave della sua ricerca: Husserl (giustificazione); Frege (verità);
Agostino (trascendenza); Leibniz (individualità); Scheler (valori).
La persuasione e la distinzione.
Da Dottrine dell’intelligenza a L’ascesi filosofica
Se husserliano, e di taglio certamente non storico ma teorico, è il primo apprendistato
milanese alla scuola dei diretti successori di Paci, a Pisa e alla Scuola Normale prevale la
storia della filosofia e lo storicismo. De Monticelli vive in quegli anni il profondo disagio
del fondamentale scetticismo che la cultura filosofica italiana nutre nei confronti di ogni
ambizione della filosofia ad essere, accanto alle scienze positive, un ramo della
complessiva ricerca di verità. L’incontro, a Oxford, con Michael Dummett, il maestro che
la segna forse più profondamente, le apre l’universo – già intuito e artigianalmente
cercato con la tesi di laurea sulla filosofia della matematica e della logica del giovane
Husserl – di un pensiero che pone questioni non per mostrarne l’insolubilità ma per
tentare di rispondervi. A Oxford comincia a vedere tutta la profondità e la carica
innovativa dell’opera di Gottlob Frege, uno dei fondatori della logica formale moderna. Ne
dipende la consapevolezza che i filosofi possono conquistare del linguaggio che parlano e
scrivono, e la nuova responsabilità nell’uso delle parole, la sensibilità al loro giusto peso
di verità, che ne deriva loro: la sola irrinunciabile responsabilità etica del filosofo.
Frutto di questi anni è Dottrine dell’intelligenza (De Donato, Bari 1982), con la prefazione
di Michael Dummett, il lavoro in cui l’autrice, rispondendo attraverso un confronto fra la
filosofia fregeana e quella wittgensteiniana del significato alla questione che cosa sia un
pensiero, propone e argomenta alcune tesi che resteranno costitutive di quell’aspetto
della sua ricerca che appartiene alla teoria della ragione (per distinguerlo dagli aspetti
che riguardano rispettivamente la teoria dell’esperienza e la teoria della realtà). Fra
queste tesi, la caratterizzazione delle proposizioni e dei fatti in termini di verità
(rispettivamente, portatori e fattori di verità e falsità) e la distinzione di verità e
giustificazione o verifica, che resterà alla base del concetto di trascendenza del vero
rispetto al certo, al dato o all’evidente.
Ma “in artibus senescendum non est”: con tutta l’importanza che De Monticelli riconosce a
una disciplina di rigore e una scuola di responsabilità linguistica quali dovrebbero essere
la logica e la filosofia del linguaggio per ogni apprendista filosofo, la domanda socratica di
ragione non si limita certamente all’ambito della teoria. “Questo che fai, perché lo fai?” –
Non appena proposta in sede teorica, la nozione di giustificazione scopre la sua origine
socratica e pratica: l’esigenza di giustezza del pensiero si scopre legata a filo doppio con
l’esigenza di giustezza del volere e della decisione – ovvero di giustizia. Ma questa, nella
ricerca di De Monticelli, non è dapprima intesa come una proprietà di organizzazioni
sociali e politiche della convivenza umana, ma come una qualità del volere ben fondato
delle persone.
La ricerca sui fondamenti del volere – o sulla persuasione – cresce lentamente attraverso
esperienze complementari a quella filosofico-linguistica. Esse si riassumono in una
ricognizione dell’esperienza esistenziale, morale e spirituale che riempie l’universo
concettuale di Agostino, studiato come il luogo di formazione della grammatica filosofica
della nostra tradizione, con le sue grandi innovazioni rispetto al mondo greco: la
riflessione sul volere, la sua libertà, la sua servitù, e la delimitazione iniziale dell’essere
personale, e delle sfere di atti in cui consiste. Si profila, anche attraverso la
frequentazione della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, un nuovo elemento di
consapevolezza necessaria alla responsabilità nell’uso del linguaggio: la consapevolezza
del concetto di trascendenza assoluta elaborato dalla tradizione platonica e neoplatonica,
che sottrae il divino alla presa delle categorie. Oltre alla traduzione commentata (con
testo a fronte) delle Confessioni di Agostino (Garzanti 1990), questa ricerca dà luogo a
due lavori, espressione rispettivamente della scoperta, attraverso il pensiero di Leibniz,
dell’ontologia dell’individualità essenziale (che resterà ed è a tutt’oggi l’oggetto
fondamentale dell’aspetto della ricerca di De Monticelli relativo alla teoria della realtà); e
dell’iniezione agostiniana di soggettività nel corpo del pensiero platonico, rivissuta
attraverso la sensibilità di autori novecenteschi (che lasciano emergere il tema centrale
del pensiero dell’autrice nell’aspetto relativo alla teoria dell’esperienza: l’esperienza
morale).
Questi due lavori abbozzano in effetti il guscio ontologico-formale (teoria
dell’individualità) e la polpa fenomenologica (teoria del sentire assiologico) della futura
personologia. Il primo lavoro (Il problema dell’individuazione – Leibniz, Kant e la logica
modale, Edizioni Unicopli 1984, in collaborazione con M. Di Francesco) è un saggio sulle
modalità in Leibniz che affronta con gli strumenti logici moderni i fondamenti della
teodicea leibniziana: il rigetto del volontarismo in teologia, l’ontologia dell’essere
individuale e la teoria del libero arbitrio in metafisica.
Il secondo lavoro (Il richiamo della persuasione. Lettere a Carlo Michelstaedter, Marietti,
Genova 1988) consiste di una serie di meditazioni, in forma di lettere al filosofo suicida
Carlo Michelstaedter, sulle forme della “retorica”, platonisticamente o piuttosto
schopenhauerianamente interpretata come l’illusione della persuasione, la falsa
persuasione che è vita fatta di ruoli, appartenenze, conformismo, opinioni infondate,
inquietudine e distrazione dall’angoscia che incombe. La persuasione e la rettorica (la tesi
di laurea di Michelstaedter, rimasta l’unico suo libro), esplosione fiammante di
un’esigenza assoluta di assoluto, è una lucida rassegna dei volti dell’inautentico – e in
qualche modo dell’idolatrico e dell’ideologico, cioè della contraffazione psicologicamente
rassicurante, socialmente utile, politicamente interessata, dell’assoluto stesso. Il
confronto col pensiero del giovane goriziano è allora un’appassionata discesa alla radice
esistenziale della domanda socratica “perché?” – e della filosofia. E insieme un sofferto
lavoro di depurazione da quell’aspetto che ne fa una domanda di salvezza piuttosto che
una domanda di conoscenza, un interrogare nascente dall’angoscia piuttosto che dalla
meraviglia, l’espressione di una ricerca di consistenza e quiete propria piuttosto che di un
desiderio di visione e comprensione dell’essenza delle cose, o infine la manifestazione di
un’esigenza spirituale (che può o può anche non trovare la via già battuta di una
religione) piuttosto che di un’esigenza di conoscenza. Le Lettere a Michelstaedter sono in
questo senso anche la febbre che nasce dalla fusione delle due vie, e una sorta di
vaccinazione da questa febbre. Che non rifiuta tuttavia di immergersi precisamente in
quell’angoscia dell’inconsistenza da cui si origina una grande parte del fascino che la
filosofia esercita ancora sui giovani: e li rende purtroppo facili vittime della seduzione da
parte di sistemi fondati sulla fusione (o confusione) delle due esigenze. Sistemi in questo
senso “gnostici”: che richiedono l’adesione di una fede e la ritualità iniziatica di una
religione, ma la producono indipendentemente da ogni vera trasformazione dell’ordine
valoriale, cioè da ogni maturazione interiore delle persone, attraverso la creazione e
ripetizione di un gergo di scuola centrato su un insieme di formule oracolari e
incantatorie. Affonda qui una radice della critica dello stile incantatorio in filosofia, che si
rivelerà una costante dei lavori di De Monticelli, e che sarebbe forse riduttivo far risalire
soltanto all’anima razionale (o addirittura a un supposto positivismo), dato che è richiesto
con altrettanta forza dall’anima esistenziale e spirituale del pensiero.
La riscoperta della radice esistenziale della ricerca di “persuasione” apre due direttive al
lavoro a venire. In primo luogo porta in luce un aspetto, troppo ignorato dal pensiero
filosofico contemporaneo, della nostra vita, perennemente affidata a scelte, decisioni,
conflitti, inquietudine e altri drammi della volontà (“So che voglio e non ho cosa io
voglia”, è l’incipit del libro di Michelstaedter). Questo aspetto è l’esperienza del valore –
positivo o negativo – delle cose che incontriamo nel mondo. Il terreno è così preparato
per accogliere l’ultimo grande contributo classico, in ordine di tempo, alla formazione del
pensiero maturo dell’autrice: l’etica e la fenomenologia affettiva di Max Scheler. In
secondo luogo lascia emergere l’esigenza di far posto nel pensiero concettuale alla
formulazione dei diritti della trascendenza (assoluta): cioè di ciò che gli uomini chiamano
Dio o il divino. Il lavoro di distinzione di cui si è detto tende a situare oltre il pensiero
concettuale il riferimento ultimo di questa parola, riferimento ultimo che l’intera
tradizione platonica a partire dallo stesso Platone ha sottratto alla presa delle categorie
del nostro linguaggio; e conseguentemente a respingere la pretesa di ogni sistema
filosofico che voglia conoscere l’assoluto, sia esso teistico o ateistico, identificando
“gnosticamente” conoscenza e salvezza. Tuttavia è il nostro pensiero concettuale stesso,
da Platone a Kant, che riconoscendo i suoi propri limiti, riconosce il diritto di quello che è
oltre quei limiti a comparire nel raggio dell’esperienza umana: salvo negare diritto di
esistenza alla vita spirituale in tutte le sue forme. Risalgono a questi anni, a proposito, le
letture di alcune grandi pagine della letteratura mistica della nostra tradizione (da
Eckhart a Juan de la Cruz, da Teresa d’Avila ad Angelo Silesio a Pierre Caussade, da
Bernardo a Fénelon). E a questi anni risalgono anche le poesie della raccolta Le preghiere
di Ariele (Garzanti 1992).
Il lavoro che chiude questo lungo periodo di formazione e apre forse una nuova stagione
di più matura ricerca è L’ascesi filosofica , Feltrinelli, Milano 1995. “Ascesi filosofica” è
anzitutto esercizio di distinzione, che distingue il problema della conoscenza da quello
della salvezza, mentre delinea il fondamento etico della ragione che è, ripetiamolo, la
responsabilità nell’uso delle parole. È quindi anche esercizio di filosofia “analitica”, ma
non è soltanto ascesi logica. È anzi l’esercizio quotidiano di esperienza dei limiti del
linguaggio, che quasi tutti i filosofi hanno descritto, e cui il termine “trascendenza”
(rispetto agli “schemi delle categorie”) accenna come un cartello indicatore. Questo libro
accoglie indubbiamente anche una parte della grande lezione dell’ultima vera figura
vivente di maestro incontrata: Jeanne Hersch, e il suo acutissimo, kantiano e jaspersiano,
sentimento della Trascendenza come “essere che non diventa mai mondo”. Ma d’altro
canto, apre forse a una stagione nuova, in cui il pensiero dell’autrice, dopo essersi
assoggettato all’apprendistato metodologico e alla critica, si appresta finalmente ad
affrontare alcune definite “cose stesse”, dispiegando concretamente la sua vocazione
fenomenologica. L’ascesi filosofica apre la via all’analisi a parte obiecti: ma si confina
ancora quasi soltanto a parte subjecti. Persegue infatti un solo tema, l’attualità del
vivere, che vi è definita come “la viva partecipazione al sorgere del possibile in ogni
nuovo presente”, quando il farsi del possibile è, insieme, il farsi di noi stessi. Ogni
bambino che apprende a camminare, e in questo apprende gli elementi e i fondamenti
della realtà spaziale, ci ricorda cosa sia la meraviglia di questo primo comprendere. Ma
noi decadiamo costantemente dall’attualità del vivere: quasi ogni nostro presente è
abituale, automatico, scontato. L’ascesi filosofica è una sorta di via negativa alla
fenomenologia, pronta a passare attraverso la vertigine e l’angoscia di una completa
messa fra parentesi del sapere acquisito e degli automatismi delle nostre risposte: è un
lungo esercizio di epoché.
La conoscenza personale e l’ontologia dell’individuale
L’immersione nel ricchissimo patrimonio della fenomenologia cosiddetta “realista” dei
circoli di Monaco e Goettingen da un lato, l’apertura del cantiere della personologia – lo
studio fenomenologico-ontologico della “regione persona”, in linguaggio husserliano,
dall’altro, sono le due inconcluse avventure fra le quali si svolge la ricerca inaugurata da
La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini e associati, Milano
1998 (trad. francese 2000, trad. spagnola 2002). La scoperta di una grande lacuna nella
nostra tradizione filosofica – il pensiero dell’individuale – si presenta prima dal lato
epistemologico: esiste una conoscenza dell’individuale? La tradizione la nega, o la riduce
all’esperienza sensoriale. Eppure la conoscenza che noi acquistiamo delle altre persone –
oltre che di noi stessi – è uno dei fenomeni essenziali della nostra vita, e a questo
fenomeno se ne legano altri altrettanto importanti, che riguardano tutti gli oggetti
debolmente illuminati da una teoria generale: e fra queste una grande classe di artefatti,
le opere dell’arte, della musica, della letteratura. L’epistemologia della conoscenza
personale rinvia direttamente all’ontologia della persona, e ai suoi due strati formale e
materiale. Mentre il lavoro di riscoperta e traduzione di autori fondamentali e troppo
ignorati della tradizione fenomenologica (A. Pfaender, M. Geiger, D. von Hildebrand, E.
Stein fra questi) arriva a un primo risultato in lingua italiana con l’antologia La persona:
apparenza e realtà. Testi fenomenologici 1911-1933 , Cortina, Milano 2000 (versione
francese annunciata per Cerf), un filone di ricerca in ontologia formale e materiale si apre
con una ricognizione delle metafisiche antiche e contemporanee dell’individualità, che
porta l’autrice al confronto con la produzione in ontologia analitica contemporanea (De
Monticelli 2000a, 2004a, 2005, 2008a). Parallelamente a questo esercizio
metodologicamente più consapevole del pensiero fenomenologico in tutto il suo
“candore” ma anche nel suo rigore, la dimensione più spirituale e per così dire “vocativa”
della ricerca trova sue vie più libere, traducendosi nella raccolta di poesie e prose Dal
vivo, Rizzoli BUR 2000.
La trilogia della persona: sentire, volere, identità personale
Nel frattempo i progressi delle scienze cognitive, delle neuroscienze e della biologia
genetica ed evolutiva hanno posto al centro dell’interesse della comunità filosofica la
novità di una scienza naturale ed empirica della mente, e la realizzabilità di un
programma di riduzione esplicativa, o addirittura ontologica, della realtà quotidiana e dei
suoi fenomeni più complessi, come la vita mentale, la coscienza, la cognizione, gli atti e
gli oggetti sociali, alle componenti più semplici di tutto il reale e alle loro leggi, quali sono
studiate dalle scienze naturali e in ultima analisi dalla fisica. Se nella prima metà del
percorso qui riassunto il confronto critico è soprattutto con i relativismi del pensiero
postmoderno, nella seconda metà è piuttosto col naturalismo ormai avviato all’egemonia,
fino a coinvolgere nel complessivo piano di naturalizzazione anche il dominio dei valori e
delle norme, e in particolare l’etica. Il mondo filosofico contemporaneo ha in effetti
confermato ad abundantiam la lucidità dell’analisi husserliana del 1911 (nel suo celebre
testo Filosofia come scienza rigorosa), che vedeva le due grandi sfide neo-scettiche
all’esercizio della ragione filosofica in due forme opposte e complementari di riduzione
dell’eidetico all’empirico: quella naturalistica e quella culturalistica. Su questo sfondo
opera la vocazione antiriduzionistica e antirelativistica della fenomenologia, che resta
tuttavia radicalmente estranea tanto all’appiattimento heideggeriano della scienza sulla
tecnica quanto all’oblio dei soggetti personali nella prosopopea di un supposto destino
dell’Occidente. Si delinea il progetto di una trilogia della persona, che nel più serrato
dialogo con la filosofia della mente e delle neuroscienze affronti la questione di fondo:
che tipo di cosa siamo noi, persone umane? Sul piano ontologico la proposta è quella di
un ulteriore sviluppo dell’ontologia della regione persona, che porti pienamente in luce la
novità ontologica del tipo di individui che noi siamo (quali siamo emersi dalla nostra base
naturale e sociale: la teoria rivendica la propria piena compatibilità naturalistica, anche
rispetto alla biologia evoluzionistica), individui certamente e inseparabilmente fondati in
biologia, ma dotati di condizioni di identità e di esistenza, e di poteri causali, nuovi
rispetto a tutto ciò di cui siamo fatti. Questa novità non è pensabile se non mediante una
categoria ontologica nuova, quella di individualità essenziale, analizzabile nei tratti
categoriali della profondità, dell’inizialità e dell’unicità o non replicabilità. Ciascuno di
questi tratti categoriali, la cui identificazione si ottiene in effetti solo attraverso la
completa immersione nell’analisi fenomenologica dell’esperienza che facciamo delle
persone, funziona da idea-guida per l’esplorazione di una classe di atti, e di loro correlati,
specificamente costitutivi della personalità delle persone. La trilogia della persona si apre
c o n L’ordine del cuore – Etica e teoria del sentire , Garzanti, Milano 2003, seconda
edizione 2007, che si occupa di tutta la dimensione degli atti del sentire, e quindi affronta
in primo luogo il compito delineato negli anni di formazione, di una teoria dell’esperienza
valoriale, e in particolare di quella morale. L’intera argomentazione metaetica e morale
già annunciata nel titolo si riconduce a quella personologica, dedicata all’esplorazione
della vita del sentire, dove la nozione di ethos o ordine di preferenza valoriale si presenta
come la chiave per comprendere quella fisionomia personale di ciascuno (altrui o propria)
che noi afferriamo nei momenti in cui comprendiamo quale è l’ordine delle cose che
stanno a cuore a qualcuno – un ordine che si forma e si riforma con il crescere e
maturare, o al contrario l’inaridirsi e rattrappirsi, di una sensibilità personale. Su questa
base, il libro offre un tentativo di risposta alla questione fondamentale dell’etica oggi:
ovvero, come è possibile una fondazione universalistica del dovere, in presenza di
molteplici prospettive valoriali (multiculturalismo). Chiave della risposta è la netta
distinzione fra etica, o teoria del dovuto da ciascuno a ognuno, ed ethos, o ordine di
priorità valoriale in cui si struttura un’identità morale, una vocazione, un’appartenenza.
Una distinzione proposta con un intento antirelativistico da un lato, ma radicalmente
antifondamentalistico dall’altro, che non esclude dalla filosofia morale in senso lato la
questione della persuasione esistenziale, dell’apertura possibile di ciascuna vita a un
modo del divino o della trascendenza: ma la distingue radicalmente dalla teoria metaetica, per definizione a-teologica o “laica”.
Il secondo volume della trilogia – La novità di ognuno. Persona e libertà (Garzanti 2009)
– esplora i fenomeni riassunti sotto il concetto categoriale di inizialità (neologismo che
fonde le nozioni di iniziativa e creatività). Il suo nucleo centrale propone una teoria del
volere; la sua ambizione personologica è quella di indagare il modo in cui un essere come
noi, che all’inizio della sua vita è immerso in una sorta di caos esperienziale ancora privo
di soggetto, emerge sul flusso di stati emotivi cominciando, attraverso prese di posizione
(sì-no), che sono dapprima indotte da pulsioni e bisogni e dall’ambiente ma divengono
costitutive della sua identità personale, a regolare in modo propriamente umano la sua
esposizione all’informazione ambientale. Dal pulsare della posizionalità emerge il livello
superiore della disposizione a prese di posizione, che chiamiamo volontà. La teoria degli
atti del volere rende conto della parte di iniziativa e creatività che è l’altro senso
fondamentale in cui siamo soggetti – soggetti ad essere colpiti in ogni strato della nostra
sensibilità, ma anche soggetti di azioni efficaci, portatori di poteri causali nuovi rispetto a
quelli cui obbediscono gli strati subpersonali della nostra vita. Perciò anche questo lavoro
fonda personologicamente una tesi di rilevanza metaetica, proponendo una difesa del
libero arbitrio (vale a dire della tesi che ne godiamo), e confrontandosi nella sua prima
parte con lo stato attuale del dibattito analitico in presenza della sperimentazione
neurocerebrale sull’azione, e con le alternative determinista, compatibilista,
libertarioindeterministica.
L’ultima tappa di questa ricerca, attualmente in fieri, indaga i fenomeni raccolti sotto la
categoria della nostra unicità. Il terzo volume della trilogia della persona deve raccogliere
le linee, implicite nei primi due, di una risposta a uno dei problemi meno artificiali e più
carichi di senso per la nostra vita, che la filosofia abbia mai architettato: la questione
dell’identità personale. La tesi difesa è che le persone umane sono individui “leibniziani”,
tali cioè che la loro identità numerica comporta l’identità qualitativa, e quindi l’unicità in
linea di principio. Questo è il senso ontologico profondo di un’accettabile definizione di
persona, e in particolare di persona umana: “il solo essere di cui ci si può chiedere chi sia
(anche se non ce ne fossero altri)”. Ciò che chiamiamo “personalità” non è una nozione
psicologica, ma ontologica: e tuttavia non comporta dualismo (per fondare questa tesi si
farà uso essenziale della teoria husserliana dell’intero e delle parti, e si prenderà
posizione nel dibattito attuale fra tridimensionalisti e quadridimensionalisti riguardo alla
persistenza nel tempo).
Pedagogia filosofica. Da Nulla appare invano a Ontologia del nuovo
La maturata consapevolezza del metodo fenomenologico e degli assunti fondamentali che
esso comporta ha prodotto negli anni una triplice esigenza, strettamente legata anche
all’insegnamento e più in generale alla partecipazione tanto ai pubblici dibattiti quanto ai
dibattiti della comunità filosofica. E cioè, in primo luogo di tradurre il linguaggio arduo e
non sempre uniforme dei classici in un linguaggio insieme rigoroso e perspicuo,
accessibile senza troppi studi iniziatici. In secondo luogo di mostrare quanto il metodo e
lo stile di pensiero fenomenologico sia sensibile e attrezzato a formulare con chiarezza
questioni che sorgono da una riflessione sul mondo quotidiano della nostra vita, o
questioni relative ai molti giudizi di valore che dobbiamo articolare (morali, di etica
pubblica e applicata, relative alle libertà civili), anche in relazione alle (libere) scelte che
dobbiamo fare. In terzo luogo superare la contrapposizione fra filosofia continentale e
filosofia analitica, basata su giudizi in parte giustificati da entrambe le parti, e quindi da
superare accogliendo le giuste modificazioni di atteggiamento. Nulla appare invano –
Pause di filosofia (Baldini Castoldi Dalai 2006) risponde alla seconda di queste esigenze,
affrontando direttamente, in base a spunti di attualità, questioni suscettibili di interessare
un pubblico assolutamente non specialistico. Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi
(Bollati Boringhieri 2006) risponde alla terza, riprendendo e portando alla luce quel filo
conduttore di tutta la ricerca filosofica dell’autrice – ma anche, a suo avviso, della filosofia
stessa in quanto è concepita come esercizio di ragione teorica e pratica – che è l’intreccio
fra etica e logica, fra l’etica come impegno a un fare giusto e giustificabile, di cui è parte
il dire, e la logica come etica del pensare, cioè dell’uso responsabile, univoco e
argomentato del linguaggio. Concepito in forma di esercizi per studenti o appassionati di
filosofia, il libretto mette in dialogo due universi solitamente paralleli, come la teoria
della verità secondo la logica del Novecento e gli abissi della speculazione dostoevskiana
sul male e la libertà.
Alla prima esigenza infine risponde Ontologia del nuovo – La rivoluzione fenomenologica
e la ricerca oggi (in collaborazione con Carlo Conni, Bruno Mondadori 2008), che
costituisce nella sua prima parte un’introduzione insieme pratica e sistematica al metodo
fenomenologico, ai suoi assunti, e alle questioni vive del dibattito analitico
contemporaneo alle quali la fenomenologia può dare un suo illuminante contributo
(corredata di una sinossi di 25 fra tesi, istruzioni e regole, di una breve lista dei termini
classici soggetti ai peggiori equivoci, e di una bibliografia di ricerca). Secondo la tesi che
inquadra il lavoro e giustifica il titolo, la fenomenologia, con rivoluzione che opera nel
modo di pensare la relazione fra apparenza e realtà, è un’ontologia, e non – come si
potrebbe credere – un rifiuto dell’ontologia, dello studio dell’essere delle cose reali e
possibili, a vantaggio dello studio esclusivo dei loro “modi di apparire”. Un’ontologia del
nuovo: in effetti, alla base della rivoluzione fenomenologica c’è l’idea che i fenomeni, cioè
gli aspetti apparenti ed esperibili delle cose, lungi dall’essere mere parvenze, portano
all’esistenza e alla luce cose nuove rispetto ai costituenti di base, di cui pure ogni cosa è
fatta. Così la melodia è una cosa nuova rispetto ai suoni che la costituiscono, così una
persona è una cosa nuova rispetto all’organismo umano che la costituisce, così l’intero
mondo della vita, con le dimensioni qualitative di significato e di valore dei suoi oggetti,
pullula di cose nuove rispetto alle basi fisiche e biologiche nostre e del nostro ambiente.
Lo spirito e l’ideologia. Etica pubblica, religione, spiritualità
Quale spazio lascia la ricerca fenomenologica al lavoro di chiarificazione di quella radice
esistenziale della domanda “perché”, di cui s’è trovata traccia nella produzione in forma di
“lettere” e versi, oltre che nella traduzione e commento agostiniani? L’allegria della
mente (Bruno Mondadori 2004), prova a rispondere a questa domanda, in una sorta di
dialogo con Agostino a partire dai grandi temi del suo pensiero che hanno trovato eco o
sviluppo nel Novecento. Esso prova a definire lo spazio che ha nell’esperienza umana
quella più propriamente “spirituale”, attraverso una fenomenologia che non presuppone,
ma tenta, una caratterizzazione essenziale di quello che intendiamo per “spirito” ed
esperienza di esso. Questo spazio risulta coincidere con una delle tre sfere di ogni vita
personale, e cioè (oltre quella subpersonale fatta di meri accadimenti e processi causali,
e quella personale, retta dai nessi di motivazione, dove ogni esperienza (e atto) è
passibile della domanda “perché?”) quella che possiamo chiamare del gratuito, ovvero
degli atti e dei vissuti che non chiedono “motivazione” benché non siano necessariamente
infondati: la “sfera della rosa”, con riferimento al distico di Silesio: “La rosa è senza
perché, fiorisce per fiorire – di se stessa non cura, che tu la guardi non chiede”. Questa
comprende l’esperienza estetica pura, come l’esperienza morale “surerogatoria” (il bene
oltre il dovuto); e naturalmente, l’esperienza religiosa, fuori e dentro le confessioni
istituzionali. Questo la qualifica come “oltre la ragione”, nel duplice senso di ragione
teorica e ragione pratica: e preserva dunque la gratuità della “grazia”, e di quello che
dicono suo dono, la “fede”. Questa risulta di conseguenza non limitata dalla conoscenza
(quindi libera da motivazioni teoriche e dalla critica scientifica, cioè sottratta a tentazioni
letteraliste) e non richiesta a fondare la morale (quindi sottratta a tentazioni
fondamentaliste). Due caratteristiche indispensabili a garantire la compatibilità delle
religioni anche nella loro veste istituzionale e pubblica con una concezione laica oltre che
liberale e democratica dello Stato. Sulla base di queste idee, ma anche di una profonda
partecipazione al sentire di tradizione cristiana e al miglior patrimonio spirituale del
cristianesimo, e in occasione di recenti prese di posizione della Chiesa cattolica italiana in
materia bioetica e nell’orizzonte di una legislazione potenzialmente restrittiva di diritti
civili, si muove Sullo spirito e l’ideologia – Lettera ai cristiani (Baldini Castoldi Dalai, due
ed. 2007). Dove si criticano le basi filosofiche relativamente nuove di un antimodernismo
cattolico, posteriore al Concilio Vaticano II, che sembra nutrirsi di una visione
neovolontaristica del bene, probabilmente influenzata dal pensiero ermeneutico e
decisionistico del Novecento, ed estranea alla sua miglior tradizione filosofica.
Bibliografia scelta
(1982) Dottrine dell’intelligenza – Saggio su Frege e Wittgenstein, De Donato, Bari, pp. 212, Introduzione di Michael
Dummett (pp. XI-XXX).
(1984) Il problema dell’individuazione – Leibniz, Kant e la logica modale, Edizioni Unicopli, Milano, pp. 174 (in collaborazione
con M. Di Francesco).
(1988) Il richiamo della persuasione. Lettere a Carlo Michelstaedter, Marietti, Genova. Premio letterario “Rapallo” 1988.
(1992) Le preghiere di Ariele, Garzanti, Milano.
(1995) L’ascesi filosofica, Feltrinelli, Milano, pp. 232. Trad. francese L’ascèse philosophique – Phénoménologie et
Platonisme, Vrin, Paris 1997.
(1998) La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini e associati, Milano. Premio di filosofia
“Castiglioncello” 1999. Trad. francese L’avenir de la phénoménologie – Méditations sur la connaissance personnelle AubierFlammarion, Paris 2000; trad. spagnola El conoscimiento personal, Catedra, Madrid 2002.
(2000) La persona: apparenza e realtà. Testi fenomenologici 1911-1933, Cortina, Milano.
(2000a) Andrea o dell’individualità essenziale, in: G. Usberti (ed.), Modi dell’oggettività, Saggi in onore di Andrea Bonomi,
Bompiani, Milano.
(2001) Dal vivo, Rizzoli BUR, Milano.
(2003) L’ordine del cuore – Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano, seconda ediz. 2007.
(2004) L’allegria della mente, Bruno Mondadori Editore, Milano.
(2004a) Leibniz on Essental Individuality, Proceedings of International Symposium on Leibniz (G. Tomasi, editor, M.
Mugnai, A. Savile, H. Posen), Studia Leibnitiana Sonderheft 32, Franz Steiner Verlag, pp. 61-85.
(2005) La persona e la questione dell’individualità, “Sistemi intelligenti”, Anno XVIII; 33, dic. 2005, pp. 419-445.
(2006) Nulla appare invano – Pause di filosofia, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano.
(2006a) Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, Bollati Boringhieri, Torino.
(2007) Sullo spirito e l’ideologia – Lettera ai cristiani, Baldini Castoldi, Milano.
(2008) Ontologia del nuovo – La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi, con C. Conni, Bruno Mondadori, Milano.
(2008a) Subjectivity and Essential Individuality – A Dialogue with Peter Van Inwagen and Lynne Baker, Phenomenology and
Cognitive Science vol. VII, pp. 225-242.
(2009) La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, Milano.
Per ulteriori aggiornamenti, testi on line etc.:
http://www.unihsr.it/persona.asp?id=392
http://www.unisr.it/list.asp?id=5565
GILLO DORFLES
Angelo (Gillo) Dorfles, critico d’arte, pittore e filosofo, è nato a Trieste, il 10 aprile 1910
da padre goriziano e madre genovese. Laureatosi in medicina, con specializzazione in
psichiatria, ha acquisito la libera docenza in estetica, disciplina di cui è stato incaricato
presso l’Università di Trieste dal 1960 al 1964, indi con eguale incarico presso la facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Milano, dal 1965 al 1969. Dopo aver vinto il concorso
di estetica nel 1968 è stato chiamato alla Facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari
prima come straordinario poi a partire dal 1972 come ordinario. All’Università di Cagliari
ha diretto l’Istituto di Discipline Storico-artistiche.
Oltre all’ attività didattica universitaria ha ottenuto nel 1952 una borsa di studio dello
State Dipartment per visitare gli Istituti Universitari degli Stati Uniti; nel 1955 ha fatto
parte del comitato internazionale per l’organizzazione del III Congresso internazionale di
Estetica che si è svolto a Venezia. Nel 1954 ha tenuto un corso sulla “Filosofia dell’arte”
alla “Western Reserve University” di Cleveland (Ohio) e nel 1961 un corso di estetica
presso l’Università di Buenos Aires.
Ha partecipato come relatore a numerosi congressi e convegni di Estetica, Storia
dell’Arte, e discipline affini; ha tenuto gruppi di lezioni e conferenze alle Università di:
Berlino, Liverpool, Atene, Zagabria, Praga, New York, Colonia, Amburgo, Messico, ecc.
Nel 1948 fu tra i fondatori del Movimento per l’arte concreta (insieme ad Atanasio Soldati,
Gianni Monnet, Bruno Munari) e nel 1956 diede il suo contributo alla realizzazione
dell’ADI (Associazione per il disegno industriale).
Come pittore per tutti gli anni 1950 ha preso parte a numerose mostre del Mac, in Italia e
all’estero: ha esposto i suoi dipinti alla Libreria Salto di Milano nel 1949 e nel 1950 e in
numerose collettive, tra le quali la mostra del 1951 alla Galleria Bompiani di Milano,
l’esposizione itinerante in Cile e Argentina nel 1952, e la grande mostra “Esperimenti di
sintesi delle arti”, svoltasi nel 1955 nella Galleria del Fiore di Milano. Nel 1954 è stato
componente di una sezione italiana del gruppo ESPACE.
È autore di numerose monografie di artisti di varie epoche (Bosch, Dürer, Lyonel
Feininger, Wols, Toti Scialoja); ha inoltre pubblicato due volumi dedicati all’architettura
(Barocco nell’architettura moderna, L’architettura moderna ) e un famoso saggio sul
disegno industriale (Il disegno industriale e la sua estetica, 1963).
Considerevole è stato il suo contributo allo sviluppo dell’estetica italiana del dopoguerra,
a partire dal Discorso tecnico delle arti (1952), cui hanno fatto seguito tra gli altri Il
divenire delle arti (1959) e Nuovi riti, nuovi miti (1965). Nelle sue indagini critiche
sull’arte contemporanea Dorfles si è sovente soffermato ad analizzare l’aspetto socioantropologico dei fenomeni estetici e culturali, facendo ricorso anche agli strumenti della
linguistica. A Genova, in particolare, si è occupato anche del lavoro di Claudio Costa, il 20
settembre 2003 è stato presente alla presentazione del libro Materia immateriale della
biografa di Claudio Costa, Miriam Cristaldi, di cui il Dorfles ha scritto la prefazione.
Numerose sono le onorificenze di cui è stato insignito, tra le quali: Compasso d’oro
dell’Associazione per il design industriale (ADI), Medaglia d’oro della Triennale, Premio
della critica internazionale di Girona, Matchette Award for Aesthetics. È Accademico
onorario di Brera, membro dell’Accademia del Disegno di Città del Messico, Fellow della
World Academy of Art and Sciences, Dottore honoris causa del Politecnico di Milano e
dell’Universitad Autonoma di Città del Messico. È stato infine insignito dell’“Ambrogino
d’oro” dalla città di Milano, del “Genoino d’oro” di Genova e del “Sangiusto d’oro” di
Trieste.
Nel suo primo volume Barocco nell’architettura moderna, del 1951, Dorfles si proponeva
di analizzare – partendo da alcune premesse di Woelfflin, Brinckmann, Schmarsow, ecc. –
il quesito di un’ipotetica costante barocca quale prolungarsi di modi barocchi nella nostra
epoca culturale.
L’interesse per l’età barocca lo ha successivamente portato a ulteriori ricerche, tra le quali
vanno menzionate la relazione al Congresso Internazionale di Studi Umanistici, tenutosi a
Venezia, nel 1954, e “Antiformalismo nell’architettura barocca della controriforma”, dove
veniva precisato il rapporto tra l’impostazione filosofico-religiosa del Seicento e
l’evoluzione dell’architettura dell’epoca. Nel suo secondo volume Discorso tecnico delle
arti (Nistri-Lischi, Pisa 1952), tradotto in spagnolo con il titolo Constantes tecnicas de las
artes, veniva affrontato il problema d’una suddivisione delle diverse espressioni artistiche
(poesia, musica, danza, ecc.) attraverso criteri tecnici e operativi, prendendo le mosse da
un esame delle peculiari costanti che accomunano e al tempo stesso distinguono le
singole arti. Nel compiere questa ricerca l’autore puntualizza alcune particolarità tecniche
da lui individuate, come, ad es. il “timbrismo” in pittura e l’“asintattismo” in poesia; due
termini usati qui per la prima volta in questa accezione e che vennero poi ampiamente
adottati dalla critica e saggistica posteriore.
Contemporaneamente a queste ricerche Dorfles prendeva in esame l’opera di due artisti
rinascimentali, Bosch e Dürer, da un punto di vista storico e filosofico, dedicando appositi
capitoli all’analisi del materiale simbolico (nel caso dell’artista fiammingo) e all’estetica
del maestro tedesco quale risulta dai suoi scritti teorici.
Nel successivo volume, Le oscillazioni del gusto e l’arte moderna (Lerici editore, Milano
1958), riprendendo i temi già sviluppati in una serie di saggi pubblicati sulla “Rivista di
Estetica”, su “Aut Aut”, e sul “Journal of Aesthetics”, in particolare “Comunicazione
simbolica e critica dell’opera d’arte”, “Art and the Public: education for mutual
understanding”, “Communication and Symbol in the Work of Art”, veniva analizzata quella
che era chiamata la “costante psicologico-estetica del gusto”, strumento critico
considerato atto a comprendere e spiegare alcune cause dell’incomprensione di
determinate forme artistiche. Ne scaturiva la conclusione che la comprensione dell’arte è
soltanto parzialmente innata ed è legata altresì a una componente gnoseologica – o
meglio simbolico-gnoseologica – che può essere evidenziata ed esaltata mediante
l’educazione.
Sia in questo testo, sia in numerosi altri saggi successivi, come “Entropia e relazionalità
del linguaggio letterario”, “Kunst und Kommunikation”, Dorfles ha insistito sul problema
della comunicazione del linguaggio artistico e della sua conseguente usura. Questo stesso
tema è anche al centro del volume Il Divenire delle arti (Einaudi, Torino 1959), di cui
sono state pubblicate diverse traduzioni all’estero, in cui è affrontato anche lo studio
dell’aspetto simbolico dell’arte, rifacendosi alle ricerche di Cassirer, di Susanne Langer, di
Carnap, e sono esaminate le diverse estetiche “semiotiche” quali appaiono nelle opere di
numerosi studiosi angloamericani, in particolare Richards, Morris ed Empson.
La tesi di Dorfles a proposito del linguaggio artistico è che esso, a differenza del
linguaggio comune, viene comunicato attraverso fattori linguistici ed extralinguistici,
sicché è soggetto a una minore usura rispetto a quest’ultimo. Questa tesi è sviluppata in
particolare in Simbolo Comunicazione Consumo (Einaudi, Torino 1962). Qui, oltre a
occuparsi di semiotica architettonica, comunicazione cinetica e filmica, estetica Zen,
venivano analizzate alcune recenti postulazioni dell’estetica legata alle ricerche
psicologiche di Gombrich e di Arnheim ed evidenziati i punti di accordo e di disaccordo tra
queste e un’impostazione fenomenologica delle stesse. A quest’ultimo tema è dedicata
anche la prefazione alla traduzione italiana del volume di Arnheim Arte e percezione
visiva (Feltrinelli, Milano 1962) da lui stesso curata, dove veniva appunto posto in
particolare rilievo il rapporto tra fenomenologia husserliana e la teoria della Gestalt.
Nelle opere successive gli interessi di Dorfles si sono rivolti a un più approfondito esame
del panorama mitico-simbolico e dei rapporti tra arte e mito. Verso questi interessi egli fu
orientato anche da alcune ricerche concomitanti nel campo dello strutturalismo e
dell’analisi del linguaggio. A questo settore, infatti, era stato dedicato il saggio del 1965
“Pour ou contre une esthétique structuraliste” apparso sulla “Revue Internationale de
Philosophie” (1965), dove venivano appunto esaminati i pro e i contro di un’impostazione
strutturalista applicata all’estetica. Parallelamente a queste ricerche egli aveva
partecipato ad alcuni seminari presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Roma dove
aveva presentato relazioni dedicate in modo specifico ai problemi della demitizzazione, in
particolare “Il mito della naturalità” nel 1956, “Dissociazione tra tendenze mitopoietiche e
iconoclastiche nell’arte” nel 1962 e “Intenzionalità e mitopoietico delle tecniche odierne”
nel 1964. Da queste ultime indagini sono scaturiti due volumi sull’estetica del mito, Nuovi
Riti, Nuovi Miti (Einaudi, Torino 1965) e L’estetica del mito, da Vico a Wittgenstein
(Mursia, Milano 1967). Nel primo di essi venivano studiati soprattutto l’aspetto
mitopoietico e il valore rituale di alcune manifestazioni creative dell’uomo ed era altresì
posto in evidenza, sulla scia di ricerche analoghe già effettuate da Marcel Mauss nei suoi
saggi antropologici, il pericolo per la cultura e per l’arte di alcune componenti
mitagogiche dell’odierna civiltà tecnologica. Rispetto a Mauss veniva sviluppata una
serrata critica di alcune delle posizioni assunte su queste stesse tematiche da C. LéviStrauss. Nel secondo dei due volumi citati erano invece raccolti alcuni saggi di carattere
storico sull’estetica del mito che costituivano un efficace preambolo a un inquadramento
aggiornato del problema. Alcuni di questi saggi, già apparsi sulla “Rivista di Estetica”,
come “Necessità e accidentalità dell’arte e del mito in Schelling”, si riferiscono soprattutto
all’indagine rivolta all’elemento mitico da parte di pensatori come Vico, Schelling,
Cassirer. Soprattutto di Schelling veniva proposta un’attenta lettura volta a mettere in
evidenza l’importanza che la sua opera dedicata al mito ha avuto per alcuni pensatori
contemporanei come Cassirer. Anche di Vico si cercava di precisare in particolar modo
l’influenza avuta su alcuni settori del pensiero contemporaneo e su alcuni recenti studiosi
che hanno rivalutato la sua impostazione simbolico-metaforica dell’arte e del linguaggio.
Dal 1964 in poi l’attività di ricerca di Dorfles prosegue in modo ininterrotto e con grande
intensità, testimoniata da una produzione ricca, fatta di monografie a singoli artisti, testi
storici di più ampio respiro, raccolte di saggi, opere teoriche vere e proprie cui bisogna
aggiungere una grande quantità di articoli in riviste e giornali, presentazioni di mostre e
scritti d’occasione.
Un lavoro imponente, il suo, che testimonia di una presenza culturale continua e
determinante nel dibattito teorico italiano della seconda metà del Novecento non solo per
quanto riguarda le arti plastiche ma anche e soprattutto intorno alla teoria delle
comunicazioni di massa, allo studio dei sistemi di segni e di simboli, alle grandi tendenze
della vita sociale, all’estetica – intesa non solo come teoria dell’arte quanto in senso più
generale come studio dei gusti e delle modalità del loro cambiamento – all’analisi delle
percezioni e delle valorizzazioni collettive, all’indagine sui vari tipi di formatività sociale,
dall’architettura alla moda, dal design ai suoni, dalla percezione alle relazioni sociali.
Si tratta di un campo molto vasto e solo apparentemente eterogeneo, ma in realtà ben
delimitato e organizzato secondo un centro di gravità assai preciso, intorno a cui si
coagulano tutte queste ricerche e percorsi di indagine. A Dorfles interessano in sostanza
tutte quelle pratiche e quegli oggetti che appaiono capaci di farsi portatori di senso e che
allo stesso tempo (proprio in quanto sono significanti e rientrano all’interno di sistemi di
significazione complessi) sono soggetti a essere sottoposti a giudizi di valore. Oltre alle
opere dunque: i gusti, i consumi, le stratificazioni della ricezione dell’arte e dei mezzi di
comunicazione, le mode, i tic, le relazioni sociali, gli oggetti industriali, la pubblicità, la
televisione, tutti i modi in cui è possibile appropriarsi esteticamente del mondo. La ricerca
estetica di Dorfles è una cartografia attentissima e continuamente aggiornata nel tempo
di tutti i giudizi estetici, ovvero delle dinamiche dei gusti di ogni livello. L’estetica non
riguarda per lui l’Arte o il Bello con la maiuscola, ma il modo concreto in cui percezione e
valore, invenzione di forme e loro circolazione sociale si intrecciano. L’estetico è cioè una
categoria sociale, definisce certe attività pratiche e cognitive, certi grandi atteggiamenti
collettivi, in definitiva i modi in cui gli oggetti sono usati e apprezzati nel tempo e nello
spazio.
Questa definizione del campo dell’estetico in termini di gusti e pratiche, cioè di
un’osservazione sociale dei comportamenti estetici, che sembra oggi scontata e
difficilmente aggirabile da chiunque, non lo era affatto nella cultura italiana prima
dell’opera di Dorfles. Nel momento iniziale della sua produzione teorica la cultura italiana
era ancora pienamente impregnata dell’eredità crociana, includendo in questa influenza
non solo i pensatori liberali e idealisti, in via di rapida estinzione, ma anche la sua
componente marxista, maggioritaria in quel momento. L’arte era pensata secondo il
punto di vista crociano come espressione di un assoluto (per i marxisti, non uno Spirito
assoluto, ma la dinamica assoluta, cioè sciolta da ogni determinazione esterna, della
dialettica storica delle classi). Questa dimensione assoluta dell’arte doveva essere colta
da un occhio altrettanto assoluto, secondo una determinazione storica e sostanzialmente
in via intuitiva (al massimo da specificare con metodo filologico).
Ogni analisi che provasse a entrare nei meccanismi comunicativi dei testi artistici, a
studiarne la genesi e la struttura, a vederne la dimensione informativa o percettologica, a
comprenderne la determinazione tecnica o iconologica, era vista con diffidenza; ogni
tentativo di formare la “scienza dello spirito” (o ancor peggio una scienza sociale) con
una metodologia esplicita e oggettivante o di applicare comunque metodi scientifici
all’arte era considerato un errore categoriale, un inutile ossimoro se non proprio una
contraddizione in termini: comunque una sconsacrazione un po’ infantile, da condannare
in nome della sacertà dell’arte.
Le altre pratiche estetiche e narrative, basse e popolari o piccoloborghesi e comunque di
massa, erano viste in maniera puramente negativa sotto la categoria della “non-arte” – o
peggio, come espressione dell’ideologia borghese e dell’industria culturale, votata alla
corruzione delle masse. La sperimentazione artistica, i linguaggi non rappresentativi delle
arti visive e di quelle narrative come la letteratura e il teatro (essendo il cinema di per sé
pericolosamente esposto al confine con la non-arte) erano guardati con profonda
diffidenza.
È bene ripetere che questo atteggiamento profondamente conservatore dominava in
quegli anni sulla grandissima parte della cultura italiana, includendo appieno i suoi settori
“progressisti”. Ancor prima dei corsivi di Roderigo di Castiglia (il Togliatti arbitro culturale
di Rinascita) e degli imperativi di Ždanov provenienti dal gelo russo, vi erano le prese di
posizione di Lucáks e perfino degli “eretici” francofortesi a interdire ogni considerazione
non diciamo positiva ma anche semplicemente interessata agli incroci fra cultura e
consumo, industria e arte, mezzi di comunicazione e produzione estetica, cioè ad alcuni
degli aspetti più caratteristici della realtà culturale del Novecento – proprio quelli che
interessavano invece Dorfles.
Non che non vi fossero negli Stati Uniti, in Europa e anche in Italia idee diverse e
soprattutto modelli differenti di analisi del mondo contemporaneo da cui prendere stimoli.
Una delle dimensioni più significative del lavoro di Dorfles è consistita nel far conoscere
queste tendenze e introdurre i loro autori nel mondo culturale italiano, citandoli,
discutendoli, facendoli tradurre.
In Italia alcuni fenomenologi, tra i quali spicca soprattutto Enzo Paci, qualche sociologo,
qualche antropologo, qualche filosofo della scienza, qualche studioso di estetica e filosofo
come Galvano della Volpe, Luciano Anceschi, Antonio Banfi, qualche psicologo come
Benussi e Musatti, si sforzavano, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, di
attaccare il predominio teorico del modello idealista. Gli artisti visivi erano da tempo
molto più avanti (o comunque molto lontano) delle teorie estetiche correnti; alcuni
letterati e critici formavano dalla metà degli anni cinquanta una corrente che sarebbe
diventata il Gruppo ’63, sforzandosi di mescolare impegno civile e innovazione artistica.
Qualche voce critica cercava strade differenti. E in Francia, in Germania, negli Stati Uniti
si andavano elaborando da tempo modelli di analisi della cultura contemporanea assai
più comprensivi.
È in questo quadro che si può comprendere la funzione decisiva svolta dal lavoro teorico
di Dorfles fra gli anni cinquanta e i sessanta: una vera e propria rivoluzione copernicana
rispetto alla cultura estetica dominante. Non più una teologia dell’arte come espressione
dello Spirito assoluto (o delle classi progressiste), ma lo sguardo fisso sulla produzione
concreta dell’esperienza estetica, realizzata a diversi livelli di gusto e di complessità,
secondo diversi codici di senso, legata sempre a tecniche, gusti, cambiamenti anche
minuti, soggetta a letture diverse e stratificate, a fruizioni spesso anomale e mutevoli.
Non più una barriera rigida, un confine da difendere fra arte e nonarte, ma la visione di
una continuità da esplorare ed eventualmente da valutare in tutti i suoi aspetti, a partire
dai tentativi più arditi di innovazione linguistica al Kitsch più consolatorio. Non più l’idea
che l’arte pura prescinda dal tempo o esprima semplicemente lo spirito della Storia
universale, ma una lucida considerazione del ruolo delle mode (e anche della Moda) in
tutti gli ambiti del gusto. Non la divisione fra consumo e Cultura, ma uno sguardo attento
ai consumi culturali, al modo in cui i vari strumenti di comunicazione determinano
l’immagine del mondo corrente.
Vi è un’altra importante distinzione da rimarcare, che segna l’originalità delle esplorazioni
culturali di Dorfles, durante tutto il loro corso. Nella cultura italiana della prima metà del
Novecento, il campo di ricerca di cui stiamo parlando (pur non percepito come un luogo
unitario; diciamo per semplificare: il dominio estetico) era egemonizzato da due metodi,
entrambi sistematici, gerarchici e totalizzanti: il metodo speculativo dell’estetica pensata
come disciplina filologica e che dunque doveva definirsi in via deduttiva a partire dall’Idea
o dallo Spirito; e il metodo storico che classificava e studiava le opere secondo una
successione pensata fondamentalmente come sviluppo, ma che spesso si fermava
lontano dal campo più incerto e confuso della produzione contemporanea.
Basta prendere in mano i libri di Gillo Dorfles per vedere la sua distanza rispetto a questi
approcci gerarchici e sistematici. Non troviamo alcun impianto speculativo, alcuna volontà
deduttiva; al contrario emerge in essi continuamente un punto di vista empirico che
nasce dal presente e si sforza di vedere e di esplorare, più che di ordinare, il “grande
disordine” originato dalla modernità e dai suoi sviluppi. Proprio per questo, la dinamica
della ricerca è continuamente centrifuga, non punta mai verso un centro ma si lascia
attrarre da periferie apparentemente senza relazione fra loro, di cui si mostrano i possibili
accordi, le felici o pericolose omologie. Nessuna nostalgia per un passato chiaro e
pertanto “luminoso”, nessuna voglia di semplificare attribuendo i fenomeni a schieramenti
ideologici o teorici. Al contrario, una grande attenzione ai fatti concreti, alle tendenze
nascenti, il tentativo di comprendere gli uni e le altre secondo i loro principi e di valutarli
per ciò che erano e via via diventavano. Insomma, uno sguardo per nulla sistematico, che
non si sforza mai di portare all’unità di un principio o almeno di mettere in gerarchia i
fenomeni, ma li esplora velocemente e da vicino, mettendoli in relazione fra loro in modi
sempre nuovi.
Questo modo di procedere spiega l’impressione, che i libri di Dorfles possono fare, di
tornare spesso su un certo numero di argomenti, che però sono affrontati ogni volta da
un punto di vista diverso. Facciamo qualche esempio, attingendo ai libri più importanti: il
tempo, che è al centro dell’Intervallo perduto (Einaudi 1980), è un filo conduttore anche
di Le oscillazioni del gusto (Einaudi 1970); la moda, che è stata diverse volte oggetto di
trattazioni autonome (ricordiamo Moda e modi, Mazzotta, Milano 1979; La moda della
moda, Costa e Nolan 1984), ha un ruolo importante anche in Dal significato alle scelte
(Einaudi 1973). Di architettura, già oggetto di un saggio specialistico nel 1952 (Barocco
dell’architettura moderna, Tamburini, Milano) e di un’opera complessiva ( L’architettura
moderna, Garzanti 1954) si riparla in Artificio e natura come di un possibile oggetto di
semiotica (Einaudi 1968), ma ancora nell’Intervallo perduto (dal punto di vista della
distinzione fra esterno e interno) e in Simbolo comunicazione e consumo per quanto
riguarda la semantica (Einaudi 1962). Il disegno industriale ha quasi altrettanta diffusione
nell’opera di Dorfles: dalla trattazione generale del 1963 (Il disegno industriale e la sua
estetica, Cappelli, Bologna), all’Introduzione al disegno industriale (Einaudi, Torino 1972),
alle analisi che ne troviamo in Simbolo, comunicazione, consumo, in Artificio e natura, in
Dal significato alle scelte.
Si potrebbe continuare a lungo, citando altri oggetti di interesse ricorrente, dall’analisi
dell’esistenza di Binswanger alla televisione, dalle regole della vita relazionale
all’attenzione per la dimensione percettologica dell’estetica, dal consumo alla
fantascienza, dalla pubblicità al simbolismo. Per non parlare dell’arte in senso proprio.
Ognuno di questi interessi è come un filo colorato in un tappeto: si intreccia con gli altri
molte volte in molti modi diversi, scompare sotto agli altri fili, riemerge, forma svariati
disegni e combinazioni, cambia importanza ed apparenza a seconda del modo in cui è
combinato.
Questi temi, tuttavia, non sono quasi mai esposti sistematicamente, ma vengono trattati
in quasi tutti i libri di Dorfles per brevi capitoletti di qualche pagina che ne affrontano un
aspetto specifico, spesso in dialogo con un autore, per lo più straniero, o a partire da un
fatto, da un particolare, da uno spunto teorico. Anche gli autori citati sono spesso
ricorrenti, come degli ideali punti di riferimento con cui si misura il viaggio intellettuale; o
a loro volta come fili significativi dell’arazzo dorflesiano, l’ordito su cui si sviluppa la
varietà della trama: Binswanger e Arnheim, Moles e Bense, Susanne Langer e Charles
Morris, Metz e Husserl sono fra quelli che ricorrono più frequentemente.
Questi capitoletti non si pongono in ordine gerarchico e non presuppongono una
copertura completa dell’argomento, ma ne colgono un lato, un problema, un confronto.
Spesso vi si può ritrovare una posizione da parte dell’autore, ma in genere si tratta di
testi che si sforzano piuttosto di stabilire una mappa, di fare un inventario di dati e di
problemi, più che di imporre una valutazione. Anche quando (abbastanza raramente)
l’architettura generale di un testo è sistematica, ogni parte del lavoro è sviluppata
secondo uno sguardo locale, osservando i fenomeni nella loro specificità, ognuno da un
punto di vista diverso: così Dorfles esplora la cultura del Novecento. Questo modo di
pensare suggerisce ancora una differenza fondamentale rispetto alla tradizione
idealistica: il rifiuto di mettere al centro della ricerca sui fatti estetici una qualche essenza
dei fenomeni, badando invece al loro comportamento concreto, trattandoli insomma
come oggetti fenomenologici, correlati di un’attività soggettiva che deve essere isolata e
messa in questione. Nell’analisi di Dorfles sono sempre presenti i soggetti dei
comportamenti, i movimenti, gli autori, i teorici, le soggettività in gioco: insomma non vi
è mai uno sviluppo impersonale o un’essenza che si dispiega, ma invece fatti concreti,
formatività specifiche da valutare nello spazio e nel tempo in cui hanno luogo, tipi di
consumo culturale che cambiano nel tempo. Tutti i fenomeni appaiono dunque nella
forma di citazioni, riferite a un preciso processo di comunicazione.
Per queste ragioni, per questo sguardo così vicino ai fatti, è impossibile ricostruire nel
lavoro di Dorfles, pur così ricco e decisivo, una “dottrina” ben definita, una “teoria” (se
non nel suo significato originario di sguardo, di frutto di quella “meraviglia” che per
Platone è alla base di ogni sapere). Non vi si può identificare una “tesi” estetica,
semiotica o mediologica generale. Anche se cita volentieri autori sistematici e orientati a
raccogliere fatti a sostegno delle loro ipotesi, Dorfles lavora in maniera diversa: invece di
formulare principi generali, raccoglie con cura anomalie, fenomeni che trasgrediscono i
confini definiti, tendenze in formazione, movimenti ed eclissi; cerca insomma di rendere il
suo quadro di riferimento sempre più complesso e non più semplice.
Questo non significa certamente che egli non faccia delle scelte, anche di carattere
generale. Dorfles è sempre stato attentissimo alle evoluzioni dei gusti e dei
comportamenti, non ha mai distolto lo sguardo dal contemporaneo, ma questa attenzione
non ha mai significato indifferente adesione ideologica a tutto ciò che appaia attuale o
contemporaneo. Tra le righe dei primi libri, in maniera via via più esplicita fino ad alcuni
veri e propri pamphlet degli ultimi anni (Conformisti, Donzelli 1997; Irritazioni, Luni 2000;
Fatti e fattoidi – Gli pseudoeventi nell’arte e nella società, Neri Pozza 1997), emerge il
dissenso, il fastidio, persino l’indignazione per comportamenti collettivi, fenomeni,
personalità: un modo di porsi che non si può non definire critico.
Alla base di questa critica della cultura e non solo dell’arte vi è una deontologia
fondamentale, una moralità del gusto che si esprime anche nella paziente pedagogia
dell’attività pubblicistica: bisogna cercare di contrastare l’appiattimento provocato dalla
società di massa, tentare di far capire quali sono i principi importanti che condizionano
l’invenzione, praticare un rigore comprensivo che non si lasci sedurre dalla stoltezza dei
consumi estetici di maggioranza, ma neppure si separi in una torre d’avorio senza
guardare ciò che accade intorno.
UMBERTO ECO
Autobiografia filosofica
Gli interessi di filosofia di Umberto Eco sono iniziati al liceo, anzitutto per merito di un
professore straordinario, Giacomo Marino che, insieme alla storia e alla filosofia, parlava
di letteratura, musica, psicoanalisi e un giorno che E. gli aveva sentito nominare Marcel
Cerdan credeva fosse un filosofo e invece era un pugile, grande amore di Edith Piaf – ma
Marino lo sapeva e E. no. Insieme a Giacomo Marino hanno avuto grande influenza sulla
formazione filosofica di E. due amici di quattro anni più anziani di lui, che dunque si
stavano laureando quando egli entrava all’università, Delmo Maestri e Giancarlo Lunati.
Grazie a queste influenze E. sviluppava un interesse per gli studi di estetica (e
naturalmente era lettura obbligata, per un esordiente, Croce) ma al tempo stesso,
dovendo fare una specie di paper sulla letteratura straniera per il professore d’italiano di
terza liceo (che, ignorantissimo, non aveva mai tentato di parlarne, mentre di letteratura
contemporanea italiana aveva parlato il bravissimo professore d’italiano della seconda
liceo, Giovanni Sisto) aveva scelto di sua iniziativa il simbolismo francese. Così, essendo
riuscito a trovare in una libreria di Genova vicino a via Pré i testi (in francese) di
Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud e compagnia e col solo appoggio critico di Giacomo
Prampolini e la sua storia universale della letteratura, scovata nella biblioteca civica della
sua città, si era iniziato agli interessi per la letteratura che si sarebbe poi detta
sperimentale – talché, appena arrivato all’università e disponendo di migliori biblioteche,
si era affrettato a iniziare con lentezza la lettura di Joyce. Per la filosofia propriamente
detta, il professor Marino era un cattolico, di quelli che all’epoca venivano designati come
esistenzialisti cristiani e, benché apertissimo a tutte le correnti (gli appunti tratti dalle sue
lezioni, riletti oggi, appaiono ancora attualissimi) aveva fatto una lezione molto bella su
san Tommaso d’Aquino; e Giancarlo Lunati aveva detto che, se un giovane era
interessato alla filosofia, doveva iniziare a leggere il Parmenide di Platone. Eco l’ha fatto,
ogni volta che credeva di aver capito la prima delle nove ipotesi passava alla seconda e si
accorgeva che della prima non aveva capito niente, e così di seguito, per tutta la sua vita
– ragione per cui ha voluto talora sottomettere anche i suoi studenti a questa esperienza
devastante, senza la quale tuttavia non si capisce perché occorra filosofare.
Arrivato all’università, a Torino, E. aveva a disposizione una panoplia di filosofi
diversissimi l’uno dall’altro: Augusto Guzzo, classificato in genere tra gli spiritualisti
cristiani mentre lui si definiva idealista agostiniano (a parte le sue idee, era un
divulgatore magistrale delle idee altrui); Nicola Abbagnano, che era considerato il
caposcuola dell’esistenzialismo positivo, ma che in realtà inclinava sempre più verso certe
correnti della filosofia americana e in ogni caso era il capofila (anche in termini di politica
accademica) di quello che si definiva allora il neo-illuminismo; Norberto Bobbio con cui E.
ha dato un bell’esame su Rousseau prima che scrivesse nel 1955 un libro che poi lo ha
grandemente influenzato, Politica e cultura; Carlo Mazzantini, ottimo medievalista, ma
che faceva lezione alle due del pomeriggio disponendo di un insufficiente sistema di
protesi dentarie, così che pochi studenti insonnoliti seguivano a fatica il suo discorso fatto
principalmente di sibilanti; e altrettanto ardue erano le sue dispense in cui una volta
apparivano nove parentesi incassate l’una nell’altra; e tuttavia affascinava gli uditori
parlando di filosofi medievali quasi sconosciuti.
Con lui E. ha fatto la sua prima esercitazione importante, parecchie decine di pagine sul
modo in cui Jacques Maritain interpretava una possibile estetica tomista. Di lì è nata la
sua avversione per Maritain (e alla confutazione della sua disinvolta storiografia ha
dedicato un ultimo saggio ne Dall’albero al labirinto del 2007) e l’idea che, se si voleva
trovare un’estetica in San Tommaso, bisognava lavorare direttamente sui suoi testi.
Questo con grandi esitazioni di Mazzantini, che diceva che per un giovane misurarsi
direttamente con un grande di quella fatta era imprudente, e consigliava invece di
sfruttare quell’esercitazione per farla diventare una tesi su Maritain.
Chi insegnava estetica a Torino sino al 1950, nel momento in cui E. vi arrivava, era Luigi
Pareyson, ma proprio in quell’anno vinceva il concorso di ordinario a Pavia, e sarebbe
rimasto assente da Torino per due anni. E. aveva trovato qualcuno che, da un punto di
vista laico, si occupava di filosofia medievale, ed era Giovanni Cairola, assistente di
Abbagnano, con il quale E. intavolava lunghe discussioni andando avanti e indietro per i
corridoi di Palazzo Campana. È facile per un giovane attaccarsi a un docente giovane e
più accessibile del maestro, e probabilmente E. avrebbe fatto una tesi su qualcosa di
medievale con Abbagnano via Cairola, quando Cairola, nell’estate del 1952, morì, con
grande dolore di E.
Mentre E. si trovava orfano di un fratello maggiore, ecco che all’inizio del suo terzo anno
accademico Pareyson tornava a insegnare estetica a Torino. Le sue lezioni erano
affascinanti, non erano teatrali come quelle di Guzzo, non scetticamente ironiche come
quelle di Abbagnano, ma rigorosissime, di una limpida e brillante pedanteria. E. deve a
Pareyson, e ad Abbagnano, il suo anticrocianesimo (di cui si trova traccia anche in uno
dei saggi di Dall’albero al labirinto) che per lui ha sempre costituito una sorta di missione
filosofica, écrasez l’infame.
Quando a Pareyson E. propone una tesi sull’estetica di san Tommaso, il professore non
batte ciglio, non la giudica pericolosa, incoraggia l’allievo (anche se il Medioevo non era
materia su cui avesse mai lavorato specificamente) ed ecco che E. dedica due anni a
quella che, discussa come tesi nel 1954, uscirà poi nelle Edizioni di “Filosofia” dirette da
Guzzo, come Il problema estetico in San Tommaso.
Enzo Paci, di cui E. era diventato amico quando si era trasferito a Milano dopo la laurea,
prima alla Rai e poi alla Bompiani, dove gli era stata affidata la collana filosofica Idee
Nuove (diretta prima da Banfi, poi da Paci e infine da lui) gli diceva sogghignando che
avere pensato a una tesi su un argomento giudicato inesistente era come quei
personaggi balzachiani che dovevano iniziare la loro carriera in società con un duello. E in
verità studiare il problema estetico nell’Aquinate era una scommessa. Non perché non
esistessero tentativi in chiave neotomista sin dall’Ottocento (quasi tutti di nessun valore
o, come quello di Maritain, intesi a far dire a san Tommaso quel che l’interprete pensava)
e non fosse già apparso nel 1946 il monumentale Études d’esthétique médiévale di Edgar
De Bruyne, senza il quale E. non avrebbe potuto far nulla (anche qui paga il suo debito in
Dall’albero al labirinto) ma perché, essendo pochissimi quelli che già conoscevano De
Bruyne, in genere ci si atteneva all’anatema crociano: Croce su 398 pagine dell’Estetica
dedicate alla storia della disciplina, ne riservava solo quattro al Medioevo, e per dire in
sostanza che i medievali non sapevano cosa fosse l’estetica; Bernard Bosanquet nella sua
History of Aesthetics (edizione 1904) su 500 pagine ne riservava al Medioevo solo 30, ma
in effetti si occupava della rivalutazione dei secoli medievali fatta dai preraffaelliti e da
Walter Pater; George Saintsbury (1900-1904), nella sua History of Criticism and Literary
Taste in Europe , consacrava due capitoli al Medioevo, ma parlando solo di teorie di
retorica e grammatica; nel 1935 Die Kunstliteratur di Julius Schlosser dedicava solo 24
pagine alle teorie medievali dell’arte, e nel 1937 Die Literarästhetik des europäischen
Mittelalter di Glunz si occupava dell’evoluzione del gusto letterario più che di estetica
teorica.
Il lavoro su san Tommaso veniva inoltre a incrociarsi, per E., con alcuni eventi interiori.
Cattolico militante e dirigente nazionale della Gioventù Cattolica, sempre più influenzato
dal personalismo di Emmanuel Mounier e di Esprit, faceva parte dei “ribelli” che nel 1954
abbandonavano l’organizzazione per protestare contro l’appoggio che Pio XII dava a Luigi
Gedda il quale, nel solco della “operazione Sturzo” del 1952, stava conducendo molto a
destra l’Azione Cattolica. Questa vicenda, che per molti compagni di E. è stata soltanto
politica, per lui (e negli ultimi anni di università erano evidentemente già maturati dubbi
e inquietudini) si trasformava in una vera a propria crisi religiosa, che lo avrebbe portato
su posizioni di rigoroso laicismo.
Il rapporto tra questa vicenda e la sua tesi è stato riassunto nella introduzione alla
seconda edizione (1970) de Il problema estetico in Tommaso d’Aquino (si noti la
scomparsa del “san” semplicemente per riconoscere Tommaso come filosofo tout court,
anche se per caso fosse stato un peccatore). Scriveva infatti E.: “Avevo iniziato questa
ricerca nel 1952 in uno spirito di adesione all’universo religioso di Tommaso d’Aquino, e
mi ritrovo ora ad aver regolato i miei conti da gran tempo con la metafisica tomista e la
prospettiva religiosa. Ma il fatto curioso è che questo regolamento di conti è passato
proprio attraverso l’indagine sull’estetica tomista. Vale a dire che il libro era stato
incominciato come l’esplorazione in un territorio che consideravo ancora contemporaneo
e poi, via via che l’indagine procedeva, il territorio si oggettivava come un passato
remoto, che ricostruivo con passione e con affetto, ma come si mette ordine nelle carte di
un defunto molto amato e rispettato. E questo risultato derivava dalla stessa
impostazione storiografica, che ritengo ancor oggi corretta, per cui via via decidevo di
chiarire ogni termine e ogni concetto reperito nei testi alla luce del quadro storico in cui
questi si erano profilati. Per essere veramente fedele a Tommaso, per non falsarne le
parole attraverso il velo frapposto da migliaia di interpreti troppo interessati, restituivo
Tommaso al suo tempo; così facendo lo riscoprivo nella sua fisionomia autentica, nella
sua ‘verità’: salvo che la sua verità non era più la mia. Andato alla scoperta di un
territorio metafisico mi rimaneva una duplice esperienza di metodo. Il metodo della mia
indagine, che applicherei ancor oggi a qualsiasi ricerca di storiografia filosofica; e il
metodo di Tommaso d’Aquino, la sua lezione di rigore e lucidità, che rimaneva
esemplare, al di là della costruzione filosofica a cui era arrivato, della fede a cui si
ancorava, delle conclusioni che ci offriva. Per questi due aspetti mi trovo oggi a non
rinnegare l’insegnamento di pulizia argomentativa offertomi dal filosofo medievale, e
sarebbe interessante mostrare come e sino a che punto gliene vada ancor debitore; e mi
trovo a non rinnegare questo libro perché mi sento di poter ripetere ancora le parole che
allora ponevo nella introduzione: ‘Crediamo che l’attualità di un filosofo consista anzitutto
nel ritrovarlo uomo del proprio tempo, inserito nella propria epoca, e nel riconoscere
l’aderenza delle sue risposte alla problematica che gli fu propria. In questo anzitutto egli
ci appare grande, nella sua capacità di aver compreso una temperie spirituale e di averla
portata, attraverso la sua personale esperienza culturale, a una maturazione e alla soglia
di successivi approfondimenti. E in questo egli ci appare imitabile: la sua lezione è
anzitutto una lezione di umanità, di metodo – vorremmo dire, conferendo a questo
termine un significato più ampio e più profondo di quello comune’”.
A giudicare dall’argomento scelto per la tesi si dovrebbe dire che E. iniziava allora una
carriera, più che da filosofo, da storico della filosofia, come è testimoniato dal suo lavoro
successivo, Sviluppo dell’estetica medievale (1959), poi rielaborato come Arte e bellezza
nell’estetica medievale (1987), da Beato di Liébana (1973), da vari saggi storici raccolti
nel 1985 in Sugli specchi e altri saggi, da La ricerca della lingua perfetta nella cultura
europea (1993), dalla cura di raccolte come Il segno dei tre – Peirce, Holmes, Dupin
(1983), On the Medieval Theory of Signs (1989), Storia della bellezza (2004) e Storia
della bruttezza (2007), per arrivare nel 2007 a Dall’albero al labirinto nel quale si
raccolgono e sovente si riscrivono saggi di storia della semiotica e del pensiero del segno
attraverso i secoli.
Non solo, ma anche nelle sue opere teoriche E. perviene sempre al problema attuale
partendo dalla sua storia, e così accade ne Il segno (1971), in Semiotica e filosofia del
linguaggio (1984), ne I limiti dell’interpretazione (1990) e in Kant e l’ornitorinco (1997).
In tal senso è ovvio che E. non accetti la divisione tra storico della filosofia e filosofo, così
radicale nei dipartimenti americani. Naturalmente c’è chi ha dedicato tutta la vita soltanto
a studi storici (pur senza lasciare capire quale sia la sua visione teoretica) ma certamente
non si può fare teoria senza partire da una conoscenza storica della questione. Ciò, come
E. spesso dice ai colleghi americani, è tipico della filosofia continentale, dell’influenza
dello storicismo, dal fatto che in Italia si è avuta la fortuna di studiare al liceo la storia
della filosofia, mentre i poveri studenti francesi si sentono di colpo assaliti da questioni
teoretiche e morali di cui ignorano l’origine e l’esistenza di visioni contrapposte. Ma
essere stato educato da una visione storicistica non significa condividere l’idea che nel
corso della storia del pensiero ogni filosofia inveri e faccia maturare quella precedente. Al
contrario, riflettere sul passato significa anche pensare che certe soluzioni della filosofia
di un tempo siano più mature di quelle attuali e sia fruttuoso conoscerle – così come
anche in tecnologia si può decidere in pieno XXI secolo che appare più “avanzato” e volto
al futuro il ritorno all’energia eolica.
Piuttosto ci sarebbe da chiedersi perché, avendo esordito con una ricerca di medievistica,
E. non abbia poi proseguito in questo campo, dando l’impressione, come vedremo, che
abbia compiuto un radicale cambiamento di rotta e di interessi.
È che con la sua tesi E. riteneva di avere fatto lavoro di estetica (e in fondo presso la
cattedra di estetica la tesi era stata presentata) e gli pareva naturale continuare a
occuparsi di estetica – tanto che nei mesi successivi alla laurea pensava, per ragioni che
oggi gli paiono bizzarre ma che allora avevano una qualche attendibilità, di occuparsi
dell’estetica di De Sanctis (e il buon Guzzo a questa notizia gli aveva detto: “ah, voi
giovani, sempre sui contemporanei volete lavorare!”). Ma nel frattempo era accaduto un
fatto nuovo: E. si era trasferito a Milano, avendo trovato un posto alla neonata
Televisione. In Televisione era venuto a contatto con un’esperienza comunicativa allora
nuova, il che lo aveva portato a pubblicare sulla Rivista d’estetica il suo primo saggio
sull’estetica delle comunicazioni di massa; nel palazzo milanese della Rai incontrava i vari
protagonisti dello spettacolo dell’epoca, insieme ad artisti e scrittori; al piano superiore
stava il Laboratorio di Fonologia musicale diretto da Luciano Berio e Bruno Maderna, e
l’incontro con i problemi, le pratiche, le teorie della musica post-weberniana è stato per E.
fondamentale (è stato tramite Berio che ha poi incontrato Barthes e Jakobson, è stato
sulla rivista di Berio, Incontri musicali, che ha iniziato a pubblicare i primi saggi di quel
libro che nel 1962 sarebbe stato Opera aperta; è stato in contatto con Berio e Cathy
Berberian che ha iniziato ad approfondire l’opera di Joyce). Infine nell’ambiente milanese
stava sorgendo Il Verri intorno a Luciano Anceschi e maturavano quegli incontri e quelle
discussioni, e quelle esperienze di arte e letteratura che poi avrebbero dato origine al
Gruppo 63.
Ecco dunque la situazione di un giovane studioso di estetica, che sin dal liceo aveva avuto
contatti con le prime poetiche “moderne” e che si trovava sollecitato sia dalle pratiche
dell’avanguardia che da quelle della comunicazione di massa. Ovvio che orientasse i suoi
studi su questi due temi, coltivando apparentemente interessi discordanti e in effetti
cercando un punto di fusione (via estetica) tra arte “alta” e arte “bassa” – e se poi
moralisti da rotocalco lo accusavano di studiare Topolino come se fosse Dante,
rispondeva che non è l’argomento ma il metodo a definire la correttezza di una ricerca
qualsivoglia (e tra l’altro usando bene il metodo si chiarisce anche perché Dante sia più
complesso di Topolino e non il contrario).
Non l’argomento bensì il metodo. D’accordo, ma quale metodo? La risposta a questa
domanda sarebbe stata data tra la prima e la seconda edizione dell’Opera aperta con
l’orientamento verso uno studio del segno, o semiologia come si iniziava a dire, o
semiotica come si sarebbe detto poi.
Ci si potrebbe chiedere se, facendo della semiotica, E. si allontanasse dalla filosofia. In
effetti ha sempre sostenuto che bisogna distinguere una semiotica generale dalle
semiotiche specifiche: queste ultime sono grammatiche di diversi sistemi di segni e
possono anche aspirare a un rigore scientifico, mentre una semiotica generale è una
forma di filosofia (anzi, ha ripetutamente insinuato che fosse la sola forma di filosofia
oggi consentita, e in fondo anche da altre parti si era detto che la filosofia
contemporanea è stata caratterizzata dal linguistic turn).
E in effetti il primo libro di E. dedicato alla semiotica, ancora sotto l’influenza dello
strutturalismo, La struttura assente del 1968, è per una buona metà fatto di discussioni
filosofiche con Derrida, Foucault, Lévi-Strauss e Lacan e pone in gioco problemi di filosofia
della conoscenza e di ontologia.
La lezione forse più importante che E. ritiene di aver ricevuto da Pareyson è stata quella
sul concetto di interpretazione – che assumeva una funzione centrale nella estetica
pareysoniana. Ora, nel suo personale percorso filosofico, Pareyson avrebbe accentuato
questo suo interesse per l’interpretazione in senso ermeneutico; a E. è accaduto il
contrario, ha incontrato verso la fine degli anni sessanta la teoria dell’interpretazione di
Peirce (e pertanto la sua semiotica in generale) e si è allontanato sia dallo strutturalismo
sia dall’ermeneutica per elaborare quella che, nel bene come nel male, è stata la sua
prospettiva semiotica (e filosofica) personale. Così è accaduto nel 1971 con Le forme del
contenuto, nel 1971 con Segno, nel 1975 col Trattato di semiotica generale e di lì con le
opere successive, già citate.
In questo percorso, mentre affrontava i problemi dell’interpretazione come cooperazione
tra lettore e testo (in particolare con Lector in fabula del 1979) E. veniva a scontrarsi con
una apparente contraddizione. In Opera aperta aveva sancito la possibilità di una
interpretazione infinita dei testi a valenza estetica, e non solo di quelli dell’avanguardia
che si proponevano come esplicitamente aperti a interpretazioni multiple. In Lector in
fabula iniziava, invece, a difendere i diritti del testo rispetto al suo lettore, come se
l’interpretazione non fosse infinita.
È che si stava diffondendo quello che E. ha sempre ritenuto una pericolosa malattia di
ogni filosofia dell’interpretazione e cioè il decostruzionismo. Come ha detto a varie
riprese, la malattia non è da imputarsi a Derrida (anche se è pur vero che Derrida non ha
resistito alle sirene di tanti suoi infedeli seguaci). Derrida aveva elaborato un metodo per
la lettura decostruttiva dei testi filosofici, che mirava a far fuoriuscire dalle pieghe del
testo quello che l’autore cercava di non dire o non sapeva di voler dire. Passato in
America, il metodo derridiano è diventato invece una forma di critica letteraria per cui,
detto alla buona, il lettore può fare del testo quello che vuole, il n’y a pas de vrai sens
d’un texte, come aveva detto una volta Valéry, sino a quello che Rorty avrebbe chiamato
(per ragioni che non si sono mai capite) pragmatismo. Sul dibattito di E. con Rorty fa fede
Interpretation and Overinterpretation del 1992, ma i fondamenti della polemica erano già
sin dal 1990 in I limiti dell’interpretazione. Si noti questa data perché dovremo parlare
dopo dei rapporti tra la riflessione filosofica e la (tarda) attività narrativa di E. Nel 1988
usciva Il pendolo di Foucault, rappresentazione grottesca di ogni deriva occultistica e di
ogni teoria del complotto, ed era nella raccolta di materiale per il romanzo che E. aveva
accumulato materiale sufficiente per tenere in quegli anni un corso sulla “semiosi
ermetica”. Anche qui, la ricerca storica, dal Corpus Hermeticum agli occultismi più recenti,
era andata a nutrire i saggi teorici e in questa tradizione ermetica, fondata sullo
slittamento del senso, E. aveva individuato le origini remote del decostruzionismo
americano.
In verità non è che ai tempi di Opera aperta (che una volta Jauss ha avuto la bontà di
definire testo pioniere delle future teorie della ricezione) E. difendesse la libertà
interpretativa del fruitore (come si diceva a quei tempi) e meno di trent’anni dopo
cercasse di limitarne severamente i diritti. E. aveva ricevuto da Pareyson la lezione di un
processo interpretativo fondato su una dialettica tra iniziativa (dell’interprete) e fedeltà
(al testo). Opera aperta era, come titolo, abbastanza ossimorico, perché proclamava
l’apertura alle interpretazioni da parte di un’opera, nel senso di forma compiuta già data,
prima di ogni interpretazione. E infine sostenere che un’opera può suscitare infinite o
indefinite interpretazioni non significa che tutte le interpretazioni siano buone. Ci sono
interpretazioni che il testo non giustifica, e questo lo aveva già insegnato Agostino nel De
doctrina christiana. È certo difficile dire se e perché una data interpretazione è buona ma
è abbastanza facile dire se e perché è cattiva, e cioè non giustificata (e anzi rifiutata) dal
testo. E. elaborava insomma un principio popperiano per cui se non è possibile provare
una teoria è tuttavia possibile falsificarla. E proprio dalle possibilità di stabilire che un
falso è un falso, e dalla difficoltà di stabilire se qualcosa sia autentico, sono scaturiti
alcuni saggi sul falso e la falsificazione, sull’importanza delle falsificazioni nella e per la
storia, sino al disegno di una simpatica figura di falsificatore nel romanzo Baudolino.
E da questa polemica col decostruzionismo si è sviluppata anche una polemica con il
cosiddetto pensiero debole di Vattimo (e si veda il saggio in merito, già abbozzato in Kant
e l’ornitorinco, in Dall’albero al labirinto). Si badi che a coltivare una teoria
dell’interpretazione, per la quale ovviamente ogni cosa che conosciamo del mondo (e non
solo dei testi) è mediata da una nostra o altrui interpretazione, si rischia di equiparare
non i testi a un mondo ma il mondo a un testo – da un lato – e dall’altro a concluderne
che (visto che conosciamo quelli che chiamiamo fatti solo attraverso interpretazioni,
compreso il fatto che in questo momento piova) allora non esistono fatti ma solo
interpretazioni.
È contro questa versione estrema del nichilismo nietzscheano che E. ha scritto Kant e
l’ornitorinco. Perché, essendo seguace di Peirce, sapeva che non solo ogni interpretazione
nasce dalla presenza di un oggetto dinamico che precede il processo interpretativo, ma
che la stessa sequenza delle interpretazioni, potenzialmente infinita o indefinita, a tratti
si arresta in quello che Peirce chiamava interpretante logico finale, e che è un abito come
disposizione all’azione e pertanto come disposizione a produrre fatti.
Per questo in Kant e l’ornitorinco si dedica il primo capitolo a ridiscutere un concetto
alquanto filosofico a cui, anche se non sempre si vedeva, E. non aveva mai smesso di
riflettere, il concetto di essere. E nell’essere si disegnano delle linee di forza, dei sistemi
di resistenze e ostacoli che in qualche misura dirigono le nostre interpretazioni e, se non
ci indicano le direzioni da prendere, ci impediscono di prenderne alcune.
Questa è la forma di realismo propugnata da E., certo un poco più debole di quella del
vecchio Aquinate, ma pur tuttavia legata a quelle antiche riflessioni sull’esse in quantum
esse. E. si sentirebbe ora di condividere la nozione minima di realismo una volta
enunciata da Searle: per cui ci deve essere un modo in cui le cose vanno; forse non lo
conosceremo mai, ma non varrebbe la pena di pensare se non si assumesse che le cose
vanno in qualche modo; e anche se il modo in cui vanno cambiasse a ogni alito di vento,
questo sarebbe pur sempre il modo in cui le cose vanno.
Con Kant e l’ornitorinco E. fa tuttavia qualche cosa di più. Rivede a vent’anni di distanza
molte posizioni del Trattato di semiotica generale , ed elabora una teoria della
conoscenza e del riferimento basata sul principio di negoziazione – e sul principio di
negoziazione basa anche le sue riflessioni sulla teoria e la pratica della traduzione (vedi
Dire quasi la stessa cosa del 2003).
Per cui se si dovesse definire il filo rosso filosofico sotteso a tutte le ricerche di E. si
dovrebbe dire che il problema è se il mondo esista in qualche modo indipendentemente
dalla prospettiva in cui lo vediamo, come lo conosciamo, come ne parliamo. E di questo
E. ritiene di aver trattato anche quando invece che del mondo parlava di testi estetici, o
di discorsi quotidiani.
Ma è forse ora di concludere cercando di non celare il fatto che in età avanzata, nel 1980,
E. ha iniziato un’attività narrativa e da allora ha pubblicato ben cinque romanzi. All’inizio
non pensava che il narrare avesse qualcosa a che vedere col suo pensiero filosofico,
anche se sul risvolto di copertina della prima edizione de Il nome della rosa (ma si sa, i
risvolti, che non appaiono a firma dell’autore, sono talora un poco spericolati e servono a
far venire voglia di leggere il libro) si legge “di ciò di cui non si può teorizzare, si deve
narrare”. Se questa affermazione viene letta senza intenti decifratori, essa dice
semplicemente che, quando l’autore non ha idee chiare su un argomento, o ne ha troppe
in contraddizione tra loro, non scrive un saggio ma mette in scena dei personaggi che
esprimono ciascuno la propria visione delle cose; e non prende parte per nessuno,
lasciando che il lettore assista a un conflitto di idee ed opinioni. Ed è così che di fatto
avviene, ma non si può evitare che poi i lettori vedano nel racconto una presa di
posizione implicita e lo leggano come allegoria di idee filosofiche – e forse l’autore stesso,
senza avvedersene, ha fatto affiorare delle affermazioni circa il mondo e ha messo in
gioco, narrativamente, una domanda squisitamente filosofica.
Così è accaduto con tanti saggi che hanno poi analizzato l’opera narrativa di E., né si può
negare che una nozione di verità sia messa in questione da Il nome della rosa, che Il
pendolo di Foucault sia un pamphlet contro la menzogna ermetica, che Baudolino sia una
riflessione sugli effetti storici della falsificazione e sulla soglia sottilissima che separa il
falso dal vero.
D’altra parte, in un libro che sarà dedicato a E. nella Library of Living Philosophers della
Southern Illinois University Press si sa che verrà dato uguale spazio sia alla filosofia degli
scritti saggistici che a quella dei romanzi.
E. confida di apprendere dalla lettura di quel libro qualche cosa di nuovo su di lui.
MAURIZIO FERRARIS
Nato a Torino il 7 febbraio 1956, Maurizio Ferraris ( http://www.labont.it/ferraris) è
professore ordinario di filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e filosofia della
Università di Torino. Ha studiato a Torino, Parigi, Heidelberg, e insegnato nelle maggiori
università europee e americane. Ha scritto più di trenta libri, dirige la Rivista di estetica,
è nel comitato direttivo di Critique e di aut aut e collabora dal 1989 al supplemento
culturale del Sole 24 ore. Le sue aree di competenza sono l’ermeneutica, l’estetica,
l’ontologia.
Ermeneutica: spirito e lettera
Ferraris si laurea in filosofia a Torino nel 1979, sotto la guida di Gianni Vattimo. I suoi
primi interessi sono rivolti alla filosofia post-strutturalista francese: Gilles Deleuze,
Jacques Lacan, Michel Foucault, Jean-François Lyotard e soprattutto Jacques Derrida. I
frutti di questa primissima fase sono tre libri: Differenze. La filosofia francese dopo lo
strutturalismo (1981); Tracce. Nichilismo moderno postmoderno (1983); e La svolta
testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics” (1984).
In questi primi anni l’attività di Ferraris procede sul duplice registro del giornalismo
culturale e dell’insegnamento e della ricerca accademica. Dal 1979 al 1988 è redattore,
poi condirettore, di Alfabeta, il cui comitato direttivo comprende, tra gli altri, Antonio
Porta, Nanni Balestrini, Maria Corti, Umberto Eco, Francesco Leonetti, Pier Aldo Rovatti e
Paolo Volponi. Nel 1981 ha inizio il suo rapporto, poi l’amicizia, con Derrida, raccontata e
analizzata in Jackie Derrida. Ritratto a memoria (2006). Al pensatore francese Ferraris ha
dedicato altri volumi: Postille a Derrida (1990), Honoris causa a Derrida (1998),
Introduzione a Derrida (2003), nonché il libro di conversazioni Il gusto del segreto (1997).
Sul piano accademico, dopo due anni di insegnamento a Macerata (1982-83), Ferraris
inizia nel 1984 l’insegnamento a Trieste e una serie di soggiorni a Heidelberg dove, a
contatto con Gadamer, intraprende studi di ermeneutica, e conduce ricerche che si
concretano in scritti come Aspetti dell’ermeneutica del Novecento, in Il pensiero
ermeneutico. Testi e materiali (1986); Ermeneutica di Proust (1987); Nietzsche e la
filosofia del Novecento (1989), e soprattutto Storia dell’ermeneutica (1988).
Nell’incontro con l’ermeneutica, l’apporto del post-strutturalismo viene fatto valere come
critica del retaggio romantico e idealistico che condiziona la tradizione heideggeriana e
gadameriana. Sostenere, come Heidegger, che la scienza non pensa o, come Gadamer,
che l’esperienza della verità è costitutivamente extra-metodica, significa in ultima istanza
porsi al di sopra delle regole, con un atteggiamento che risulta dogmatico, quando non
totalitario. E richiamarsi al dialogo come fusione di orizzonti, a questo punto, ha una
utilità modesta o, più seriamente, presenta una contraddizione: che tipo di dialogo può
aver luogo, nel momento in cui si prescinde dalle regole? Non si tratterà piuttosto di una
finzione di dialogo, di un’apparenza che nasconde il monologo e forse la sopraffazione?
In questo quadro, appare necessario articolare le critiche di Derrida all’ermeneutica,
ponendole in un più ampio contesto. In particolare, l’appello allo spirito contro la lettera,
il paradigma fusionale e vitalistico che l’ermeneutica eredita dall’idealismo, e più
estesamente dal cristianesimo, appare estremamente problematico. Muovendo da queste
considerazioni, Ferraris sviluppa una critica della filosofia heideggeriana che si può
riassumere così: il problema dell’adesione al nazismo di Heidegger (che torna di attualità
alla fine degli anni Ottanta con la pubblicazione della monografia di Victor Farias su
questo tema) non è un incidente di percorso, ma rivela un tratto sostanziale della filosofia
heideggeriana, che, definendo la verità come frutto della decisione e come apertura
storica invece che come conformità della proposizione alla cosa appare come una
giustificazione filosofica del principio di autorità.
La contrapposizione tra spirito e lettera rivela, così, implicazioni morali e politiche:
talvolta i filosofi, e gli uomini comuni, disprezzano la lettera (le norme, i vincoli) rispetto
allo spirito, considerando la prima come una forma, il secondo come un elemento vitale e
autentico. Ma è proprio nella lettera – nelle iscrizioni, nei documenti, nelle leggi – che si
stabiliscono i limiti della sopraffazione e della volontà di potenza: vincoli che nella vita
civile sono forniti dalle leggi, e nelle scienze dalle regole e dalle procedure metodiche;
sicché sostenere che la scienza non pensa (come fa Heidegger) non è molto diverso
dall’affermare la superiorità del leader politico rispetto alle leggi.
La svolta realistica
Queste conclusioni impongono una svolta rispetto all’ermeneutica. La critica a Heidegger,
sviluppata in Cronistoria di una svolta (lunga postfazione alla breve conferenza di
Heidegger La svolta, che Ferraris traduce nel 1991) comporta, a ben vedere, una
revisione complessiva dell’orizzonte storico e concettuale dell’ermeneutica radicale, con
particolare attenzione alle implicazioni etiche e politiche. Sempre in questa sfera di
rettifiche storiografiche, nel 1992, Ferraris cura, insieme a Pietro Kobau, una nuova
traduzione della Volontà di potenza, con una lunga postfazione, Storia della volontà di
potenza, in cui dimostra che le tesi moralmente inaccettabili di Nietzsche non sono (come
pretende la vulgata) frutto di interpolazioni, ma esprimono il nucleo del suo pensiero.
Sotto il profilo più strettamente teorico la critica del vitalismo ermeneutico è poi
articolata in La filosofia e lo spirito vivente (1991), che elabora la contrapposizione
lettera/spirito riconoscendovi un paradigma portante della riflessione filosofica e religiosa,
dal platonismo al cristianesimo all’idealismo tedesco.
Sul piano teorico, la svolta si caratterizza per un passaggio dal relativismo ermeneutico a
un oggettivismo realistico: oggettività e realtà, considerate dall’ermeneutica radicale
come principi di violenza e di sopraffazione, sono di fatto – e proprio in conseguenza della
contrapposizione tra spirito e lettera di cui si è detto – la sola tutela nei confronti
dell’arbitrio. Questo principio vale in ambito moral-pratico anzitutto perché possiede un
fondamento teorico, il riconoscimento di una sfera di realtà indipendente dalle
interpretazioni, dagli schemi concettuali, dalle riformulazioni e dalle eventuali
manipolazioni linguistiche. Si accenna qui una distinzione tra ontologia (quello che c’è) ed
epistemologia (quello che sappiamo a proposito di quello che c’è) che verrà ampiamente
sviluppata dopo il 2000. Queste tesi sono esposte sinteticamente in L’ermeneutica (1998)
e articolate sul piano della critica della cultura in Una ikea di università (2001). Prosegue
intanto la rilettura critica delle coordinate storiografiche che stanno alla base della
ermeneutica radicale: in particolare, nelle analisi svolte nel Nietzsche (1999), un volume
scritto con altri autori, si cerca di restituire alla realtà storica la filosofia nietzschiana,
anzitutto nel suo rapporto con le scienze.
Estetica e fisica ingenua
Venendo alla pars costruens, la svolta si sviluppa soprattutto sul piano di un
ripensamento dei rapporti tra esperienza sensibile e schemi concettuali. A partire dal
1993, Ferraris si impegna in una duplice direzione. Da una parte, lo studio della filosofia
kantiana in quanto pensiero delle forme, ossia come antitesi rispetto al vitalismo teorico
(che nel frattempo si è attuato anche come populismo mediatico). Dall’altra, un
ripensamento dell’estetica in quanto sfera della percezione e della passività, trascurata
dalla filosofia del Novecento in quanto prevalentemente impegnata nell’analisi del
linguaggio e degli schemi concettuali.
Mentre gli studi kantiani daranno i loro frutti solo alla fine del decennio, sin dai primi anni
Novanta si impone la centralità ontologica dell’estetica, anzitutto come ambito di una
teoria dell’esperienza che ha molti tratti in comune con la “fisica ingenua” teorizzata dal
grande percettologo triestino Paolo Bozzi. Come si pone di fronte a noi la realtà?
Anzitutto come qualcosa che si incontra sensibilmente, e che non si può correggere nel
suo darsi effettivo. Questa realtà che si offre in primo luogo come sensazione costituisce
il vero oggetto dell’estetica, che viene ricondotta al suo significato etimologico di
aisthesis. L’elaborazione di questo concetto è svolta in opere come Analogon rationis
(1994), Estetica (1996, con altri autori), L’immaginazione (1996), Experimentelle Ästhetik
(2001), e soprattutto in Estetica razionale (1997), dove si propone una comprensione
dell’estetica non come filosofia dell’arte, ma come ontologia dell’esperienza sensibile,
promuovendo una trasformazione che ha contribuito al rinnovamento del dibattito
disciplinare, caratterizzandosi per due direzioni fondamentali.
In primo luogo, il tentativo di fare interagire l’estetica con la filosofia nel suo insieme,
sottraendola alla dimensione di una specialità accademica, circoscritta alla sfera della
filosofia dell’arte, e spesso riferita soltanto alle opere letterarie. Per evitare questa
regionalizzazione, la proposta innovativa è stata di stabilire un nesso diretto tra estetica
e ontologia, con due conseguenze fondamentali. Da una parte, per l’appunto, inserire il
fatto estetico nel suo insieme nel quadro più generale del discorso filosofico. Dall’altra,
riaprire il dibattito sull’ontologia dell’arte, ossia su che tipo di enti siano quelle cose che
chiamiamo “opere d’arte”.
Tuttavia – e con questo si viene al secondo motivo-guida del ripensamento dell’estetica
proposto negli anni Novanta – il riferimento all’ontologia comportava per l’appunto una
rivalutazione del momento sensibile dell’esperienza estetica, di quel richiamo all’aisthesis
che, soprattutto nel secolo scorso, era apparso come un relitto incoerente, come una
bizzarria onomastica. L’estetica può porsi il problema delle opere solo nella misura in cui
abbia saputo anzitutto rendere ragione del mondo percettivo in cui queste opere trovano
la loro ragion d’essere, e il loro fondamento ontologico.
Ontologia critica e inemendabilità
Nel 1995 Ferraris viene chiamato a Torino, come professore ordinario di Estetica. Passerà
all’insegnamento di Filosofia Teoretica nel 1999. Direttore di programma del Collège
International de philosophie dal 1998 al 2004, nel 2001 fonda il Laboratorio di ontologia
(Labont) e il Centro interuniversitario di ontologia teorica e applicata (Ctao), gruppi di
ricerca che ambiscono a fornire un fondamento a più ampio raggio disciplinare al realismo
difeso con il richiamo all’estetica, e a offrire una dimensione applicativa alla filosofia.
Lo sviluppo teorico di questa prospettiva, che è stato definito come “ontologia critica”, è
attestato in Il mondo esterno (2001), in cui Ferraris fornisce le coordinate fondamentali
della sua prospettiva, cui seguono il volumetto Ontologia (2003), e l’ampia Storia
dell’ontologia (2008, con altri autori). Il proposito più generale che sta alla base della
prospettiva di Ferraris è appunto fornire una piena articolazione filosofica alla nozione di
“fisica ingenua”. Bozzi rilevava come il mondo della vita quotidiana sia in larga parte
impenetrabile rispetto agli schemi concettuali più evoluti. A partire da questa
constatazione, Ferraris propone una tematizzazione critica della confusione tra scienza ed
esperienza, cui va per l’appunto contrapposta una distinzione tra epistemologia (come
sfera del sapere) e ontologia (come sfera dell’essere), che si basa anzitutto sul carattere
di inemendabilità che è proprio dell’essere rispetto al sapere.
È a questo punto che entrano in gioco gli studi kantiani del decennio precedente:
all’origine della confusione tra scienza ed esperienza è una “fallacia trascendentale”,
presentata nel Mondo esterno e analizzata specificamente in Goodbye Kant! Cosa resta
oggi della Critica della ragion pura (2004). L’assunto di fondo è che Kant condivideva con
l’empirismo l’idea che la scienza fosse semplicemente una forma specializzata e codificata
di esperienza; poiché gli empiristi ritenevano che la certezza della scienza fosse
minacciata dalla incertezza della esperienza, ritenne di capovolgere la prospettiva,
fondando l’esperienza a partire dalla scienza, cioè dalla fisica matematica. In questa
maniera, non solo la conoscenza scientifica del mondo, ma anche l’esperienza quotidiana,
veniva fatta dipendere dagli schemi concettuali.
Di qui, per l’appunto, in Ferraris, e in funzione antikantiana, la necessità di ribadire la
differenza tra l’ontologia come teoria dell’esperienza e l’epistemologia come teoria della
scienza. È evidente che per dire che l’acqua è H2O devo possedere teorie, schemi
concettuali, linguaggio; ma non è affatto vero che tutti quegli apparati mi servono per
bere un bicchier d’acqua, o per notare che ci si può bagnare con l’acqua, o che l’acqua è
trasparente. Questo secondo genere di esperienze appare molto meno condizionato da
schemi concettuali di quanto non avvenga nel caso della ricerca scientifica, sicché la tesi
kantiana secondo cui le intuizioni senza concetto sono cieche risulta difficile da applicarsi
nell’ambito dell’esperienza ordinaria.
In positivo, se cerchiamo il tratto caratteristico dell’autonomia dell’esperienza ordinaria
rispetto alle elaborazioni scientifiche, lo troviamo in una impermeabilità rispetto agli
schemi concettuali. Per esempio, non siamo in grado, con il semplice ricorso agli schemi
concettuali, di correggere le illusioni ottiche. Abbiamo cioè un sapere che ha ben poco a
che fare con l’ontologia: posso essere perfettamente consapevole del fatto di trovarmi di
fronte a una illusione ottica, ma questa consapevolezza non mi permetterà di emendarla.
Per questo proprio la nozione di “inemendabilità” – coniata nel Mondo esterno – sta alla
base della rivendicazione della indipendenza del mondo reale rispetto agli schemi
concettuali. Mentre l’epistemologia è una funzione essenzialmente attiva, linguistica e
deliberata, e ha per fine l’emendazione e il raffinamento dei concetti, l’ontologia appare
come una teoria dell’esperienza che, nel suo livello di base, può avvenire in assenza di
linguaggio e di concetti, nella piena passività, e in maniera, per l’appunto, non
emendabile. Riprendendo l’esempio fatto più sopra, posso sapere o non sapere che
l’acqua è H2O, ma mi bagnerà comunque, e non potrò asciugarmi semplicemente
pensando che l’idrogeno e l’ossigeno in quanto tali non sono bagnati.
Oggetti sociali e testualismo debole
Una volta riconosciuta e motivata la distinzione tra ontologia ed epistemologia, si apre
però la via per una riabilitazione della filosofia trascendentale in una sfera diversa da
quella in cui era nata, e cioè in riferimento non più agli oggetti naturali, bensì agli oggetti
sociali. È la tesi proposta in Dove sei? Ontologia del telefonino (2005) e articolata in
scritti di filosofia pop (cioè interessati alla fusione tra cultura accademica e cultura
popolare) come Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede (2006), Sans Papier.
Ontologia dell’attualità (2007), La fidanzata automatica (2007), Il tunnel delle multe.
Ontologia degli oggetti quotidiani (2008).
L’idea di fondo è per l’appunto che una tesi come “le intuizioni senza concetto sono
cieche”, che abbiamo riconosciuto come difficilmente applicabile nel mondo naturale,
spiega benissimo il nostro rapporto con il mondo sociale, che è fatto di oggetti, come il
denaro, i ruoli, le istituzioni, che esistono solo perché noi crediamo che esistano.
Per arrivare a questa considerazione, non basta distinguere l’ontologia dalla
epistemologia, ma occorre, entro una ontologia come teoria dell’oggetto, distinguere tre
famiglie: gli oggetti naturali, che esistono nello spazio e nel tempo indipendentemente da
soggetti; gli oggetti sociali, che esistono nello spazio e nel tempo dipendentemente da
soggetti; e gli oggetti ideali, che esistono fuori dello spazio e nel tempo
indipendentemente da soggetti. A questo punto, non è più possibile sostenere che la
realtà naturale è costruita dalle teorie degli scienziati, come pretendono i postmoderni. E
diventa anche molto difficile asserire che senza schemi concettuali noi non abbiamo
rapporti con il mondo fisico, come hanno sostenuto filosofi meno estremisti, che però non
avevano considerato che gli oggetti naturali, diversamente da quelli sociali, esistono
indipendente dai soggetti, e dunque dagli schemi concettuali.
Come si è visto, invece, gli oggetti sociali dipendono necessariamente da soggetti, ed è in
questo quadro che viene elaborata la legge costitutiva degli oggetti sociali: Oggetto =
Atto Iscritto. Gli oggetti sociali sono atti sociali (tali che avvengano almeno tra due
persone) caratterizzati dal fatto di essere iscritti, su un documento, in un file di computer,
o anche, come memorie, nella testa delle persone. La teoria proposta viene definita come
“testualismo debole”, in quanto assume che le iscrizioni siano decisive nella costruzione
della realtà sociale, ma – diversamente da quello che si può definire come “testualismo
forte”, praticato dai postmoderni – esclude che le iscrizioni siano costitutive della realtà in
generale. Il testualismo debole è dunque tale in quanto risulta dall’indebolimento della
tesi di Derrida secondo cui “nulla esiste fuori del testo”, che viene trasformata in “nulla di
sociale esiste fuori del testo”.
Icnologia e documentalità
Per quanto attiene alle prospettive di ricerca, Ferraris sta completando un volume
sistematico intitolato Documentalità. Ontologia degli oggetti sociali, che vuole offrire una
sintesi della sua ricerca. La tesi di fondo è che la legge Oggetto = Atto Iscritto trova la
sua più piena attuazione nei documenti, sicché la nozione di “documentalità” viene a
definire l’essenza della realtà sociale, sia sotto il profilo statico sia sotto quello genetico.
Non solo gli oggetti sociali consistono strutturalmente in iscrizioni (tanto in senso proprio
quanto in senso esteso, come “archiscrittura”: memoria, ritualità, tradizione), ma che gli
stessi significati e intenzioni presenti nel mondo sociale traggono origine dalla
sedimentazione e dalla rielaborazione di tracce.
In questo quadro, nella elaborazione della nozione di “documentalità” viene recuperato il
concetto di “icnologia” (letteralmente, “dottrina delle tracce”) già proposto in Estetica
Razionale. L’idea di fondo è che, d’accordo con le analisi svolte all’inizio degli anni
Novanta, si sbaglia a presupporre qualcosa come uno spirito dietro alle lettere che
compongono la realtà sociale e, a maggior ragione, la realtà istituzionale. Queste realtà
crescono e si auto-alimentano in base a un sistema di iscrizioni che, permettendo la
fissazione degli atti, contribuiscono alla creazione dei significati e dei vincoli sociali. Un
essere umano che non possieda né linguaggio, né abitudini, né memoria, cioè che sia
privo di iscrizioni e di documenti, difficilmente potrebbe coltivare intenzioni, sentimenti e
aspirazioni sociali. Questa priorità della lettera sullo spirito, così come della tecnica sul
significato, risulta particolarmente evidente nel caso delle opere d’arte, ma vale
ovviamente per la costituzione dei ruoli sociali, delle relazioni di parentela, degli schemi
affettivi e della coscienza di sé.
In questo quadro, la nozione centrale per la formazione dei significati all’interno della
realtà sociale viene individuata nella imitazione, a cui Ferraris aveva dedicato un libro nei
primi anni Novanta: Mimica. Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger (1992).
L’ipotesi di fondo, qui, è che l’iterazione della lettera sarebbe all’origine dello spirito o, in
termini meno arcani, che la tecnica e la mimesi, come possibilità di iterazione, presiedono
alla formulazione non solo delle relazioni e delle strutture, ma anche dei significati che
queste hanno per i soggetti.
GIOVANNI FERRETTI
Nato a Brusasco-Cavagnolo (Torino) il 26 luglio 1933, ha compiuto gli studi filosoficoteologici nel Seminario di Torino (con sede in Rivoli) e, dopo l’ordinazione sacerdotale nel
1957, ha proseguito gli studi a Milano, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ove si
è laureato in filosofia nel febbraio del 1962, e presso la Pontificia Facoltà Teologica, ove
ha conseguito la licenza in Sacra Teologia nell’ottobre del 1962. All’Università Cattolica si
è formato alla scuola d’illustri maestri, come Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi,
intenti a ripensare o rigorizzare la tradizione metafisica neoscolastica in dialogo con il
pensiero critico moderno. Alla Scuola Teologica Milanese ha appreso l’importanza di una
teologia attenta a rileggere il dogma cattolico alla luce della sua evoluzione storica.
Decisivo, per lo sviluppo del suo itinerario intellettuale, l’incontro con la fenomenologia
sia con Husserl, cui fu introdotto da Sofia Vanni Rovighi, sia, soprattutto, con Scheler, su
cui ha lavorato a partire dalla tesi di laurea e a cui ha dedicato la sua prima monografia
in due volumi: Max Scheler. I. Fenomenologia e antropologia personalistica , II. Filosofia
della religione (1972). Importanti, per la maturazione e gli sviluppi del suo pensiero, gli
incontri con la teologia d’impianto trascendentale di Karl Rahner, di cui ha seguito i corsi
a Monaco nel 1964, e con le filosofie ermeneutiche d’impronta ontologica, come quelle di
Luigi Pareyson e di Paul Ricoeur.
Dopo una prima docenza di “Filosofia della religione” presso la Facoltà Teologica
dell’Italia Settentrionale (1968-1977), è stato professore ordinario di “Filosofia teoretica”
nell’Università degli Studi di Macerata (1976-2008), ove ha svolto anche le funzioni di
Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia (1979-1985) e di Rettore (1985-1991). È stato
tra i fondatori e direttori della rivista “Filosofia e teologia” (1987), ideata con lo scopo di
superare gli storici e anacronistici steccati tra filosofia e teologia, e del “Centro di studi
filosoficoreligiosi Luigi Pareyson” in Torino (1995). A Macerata, a partire dal 1984, ha
curato l’organizzazione e la pubblicazione dei colloqui periodici di “Filosofia e religione”,
coinvolgendovi i migliori filosofi e teologi europei.
I primi interessi della sua attività scientifica concernono la filosofia della religione, che
rimarrà tra i centri fondamentali delle sue attenzioni, sia pur polarizzandosi, man mano,
sul tema dei rapporti tra filosofia e teologia. L’incontro con la fenomenologia, in
particolare con Max Scheler, gli permise di individuare e far propria fin dall’inizio la “svolta
fenomenologica” che agli albori del ’900 ha rivoluzionato l’impianto metodologico della
disciplina. Non più l’impostazione “razionalistica”, intesa a ricondurre kantianamente o
hegelianamente la religione nei limiti della pura ragione; né l’impostazione positivistica
“riduzionista”, impegnata ad interpretare il fenomeno religioso in base a fenomeni di altra
natura (economica, psicologica, sociologica); ma neppure la pura e semplice
impostazione “neoscolastica”, tesa a fondare la religione (naturale) sulla metafisica.
L’impostazione metodologica più corretta è ritenuta quella “fenomenologica”, che
riconosce l’originalità essenziale del fenomeno religioso come pure il suo autonomo
fondarsi in virtù dell’intenzionalità rivelativa “oggettiva” propria dell’atto religioso della
“fede”.
L’incontro con le filosofie e le teologie ermeneutiche (da Heidegger a Gadamer, da
Ricoeur a Pareyson, tra le prime; da Bultmann a Schillebeeckx, da Barth a Bonhoeffer tra
le seconde) lo ha infine portato ad un’impostazione non solo fenomenologica ma
fenomenologico-ermeneutica della disciplina, come testimoniato fin dalla voce
programmatica “Filosofia della religione”, stesa per il “Dizionario teologico
interdisciplinare” (Marietti, Torino 1977). In essa si fa tesoro anche degli studi di filosofia
della religione sviluppati in Italia da Italo Mancini e da Alberto Caracciolo negli anni ’6070 del ’900. La filosofia della religione, oltre al compito di analizzare con metodo
fenomenologico l’essenza del fenomeno religioso, senza volerlo “costruire” o “decostruire”
razionalmente, ha anche quello, in gran parte preliminare, di metterne in luce le
condizioni antropologiche di possibilità e di senso, cioè le varie pre-comprensioni
(gnoseologica, ontologica, metafisica, esistenziale, pratica), che ne condizionano
storicamente la comprensione e ne sollecitano sempre nuove interpretazioni.
Questa impostazione se per un verso lo impegnava a confrontarsi, dal punto di vista della
tematica religiosa, con i nodi di fondo della riflessione filosofica contemporanea, per altro
verso lo spingeva a non mantenersi ai margini della teologia ma ad affrontare anche in
quanto filosofo gli stessi contenuti della fede. In quanto riflessione critica su tutta
l’esperienza umana, la filosofia ha, infatti, a suo avviso, tutto il diritto-dovere di
interrogarsi anche sulla verità e il senso dell’esperienza religiosa, quale storicamente si
presenta, e non solo quello di interessarsi alle sue condizioni formali o strutturali di
possibilità. Tale interesse non la trasforma ipso facto in “teologia”, perché questa
comporta una riflessione critica sull’esperienza religiosa svolta “all’interno” della fede e
della tradizione di pensiero che da essa è storicamente scaturita, mentre la riflessione
della filosofia sui contenuti dell’esperienza di fede si svolge come “dall’esterno”, alla luce
della tradizione di pensiero propria della filosofia. Il che non esclude, anzi sollecita, un
reciproco confronto ermeneutico tra la tradizione teologica, radicantesi nei suoi testi
fondatori, e la tradizione filosofica, a sua volta radicantesi nei suoi testi classici. Questo
reciproco confronto tra le due tradizioni interpretative è stato tra gli intenti di fondo della
rivista “Filosofia e teologia” ed egli l’ha argomentato e sviluppato in prima persona nei
due volumi Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia teologica (2002), oltre
che nei volumi dei colloqui maceratesi su “Filosofia e religione”.
L’interesse per le precomprensioni gnoseologiche, ontologiche e antropologiche del
fenomeno religioso, lo portavano, nel frattempo, soprattutto dopo l’inizio della docenza
all’Università di Macerata, ad approfondire teoreticamente tali problematiche. Decisivo, a
questo proposito, l’incontro con il pensiero di Emmanuel Lévinas, avvenuto agli inizi degli
anni ’80, e a cui egli dedicherà la monografia La filosofia di Lévinas. Alterità e
trascendenza (1996) e la raccolta di saggi Il Bene al-di-là dell’essere. Temi e problemi
levinassiani (2003), traendone impulsi per nuove riflessioni, se non proprio per una svolta
nel suo itinerario intellettuale. Lévinas, infatti, se per un verso lo confermava in una
visione della fenomenologia alla Scheler, in cui il centro non è il soggetto trascendentale
intenzionante, ma, se mai, l’oggetto intenzionato che si autodona (secondo la concezione
già scheleriana della Selbstgegebenheit dei fenomeni), per altro verso lo portava a
rivederla radicalmente. Alla scuola di Lévinas, infatti, l’oggetto intenzionato risulta essere
originariamente non tanto un “fenomeno-oggetto” quanto la “significazione etica” che
altri mi rivolge, in contro-tendenza (contro-intenzionalità) alla mia stessa intenzionalità
teoretica; facendomi così scoprire non più anzitutto come “soggetto” attivamente
intenzionante quanto, più radicalmente, come “soggetto” passivamente investito di
responsabilità etica nei confronti d’altri: soggettività, quindi, da intendersi come
“soggezione”, in radicale alternativa al soggetto moderno.
Le conseguenze di tale rivolgimento gli si prospettarono ben presto come rilevanti; non
solo a proposito del soggetto trascendentale husserliano (culmine della soggettività
moderna), che ne risulta in qualche modo capovolto, ma anche a proposito di
quell’orizzonte dell’essere che la tradizione filosofico-metafisica occidentale più
accreditata, Heidegger compreso, considerava correlato indissolubile ed intrascendibile
del pensiero. Lo studio di Lévinas, infatti, lo convinceva che l’orizzonte ultimo del senso
non è l’orizzonte dell’essere, indagato dall’ontologia classica o moderna, ma l’orizzonte
etico, che si schiude in virtù dell’appello che mi proviene dal volto altrui. È questo che
costituisce la nostra soggettività più autentica, antecedentemente alla stessa relazione
ontologica che pur caratterizza la coscienza. Il che non era senza conseguenze anche per
la comprensione epistemologica della teologia. Sulla scia di Heidegger ed in compagnia
con Karl Rahner ed Italo Mancini, l’ontologia era stata anche da lui considerata come
l’indispensabile precomprensione ultima del discorso teologico. Ora, invece, tale primato
sembrava doversi riservare alla precomprensione etica. Ma il lavoro filosofico di Lévinas,
impegnato a “tradurre” in greco, cioè nel linguaggio ontologico della filosofia e con
metodo fenomenologico rinnovato, il messaggio etico dei profeti ebraici e, più in
generale, lo spirito della tradizione religiosa ebraico-talmudica, lo confermava circa quella
possibilità di incrocio ermeneutico della tradizione religiosa ebraico-cristiana e della
tradizione filosofica occidentale, che egli stava maturando sul piano epistemologico.
Nonostante la provocazione levinassiana, egli rimase quindi convinto che l’ontologia,
come pure l’orizzonte trascendentale della coscienza, non potevano essere messi del
tutto fuori circuito dalla riflessione filosofica e teologica. Per questo egli riprese il
confronto con Husserl (come testimonia il volume Soggettività e intersoggettività. Le
Meditazioni cartesiane di Husserl, del 1997) e, soprattutto, lo studio di Kant, cercando
d’interrogarlo sul rapporto tra ontologia e teologia sullo sfondo delle contrapposte
posizioni di Heidegger (l’ontologia è la precomprensione e il correttivo indispensabile
della teologia) e di Lévinas (non l’ontologia ma l’etica è lo sfondo indispensabile della
teologia; bisogna pensare Dio senza “contaminarlo” con l’essere!). Il volume Ontologia e
teologia in Kant (1997), impegnato a “rileggere Kant dopo Heidegger e Lévinas”,
evidenzia in Kant la presenza di due forme di ontologia. La prima, più evidente, è di tipo
fenomenico-oggettuale, ove l’essere – sulla scia dell’ontologia moderna – è strettamente
dipendente dalla funzione costruttivo-trascendentale della coscienza, quale si esercita
soprattutto nell’attività scientifica. Chiaramente tale concetto di essere non è in alcun
modo atto a fornire da sfondo alla teologia; questa, infatti, almeno secondo la tradizione
ebraico-cristiana, è impegnata a pensare Dio come assolutamente trascendente e quindi
non circoscrivibile all’interno dell’orizzonte di una coscienza costituente il senso. La
seconda forma di ontologia, spesso non avvertita, è invece di tipo noumenico-transoggettuale; in quanto sottrae l’essere ad ogni possibile oggettivazione fenomenicoscientifica, essa ci prospetta un concetto di essere che non solo mantiene aperto lo spazio
al pensiero teologico della trascendenza ma è in grado di offrirle un’indispensabile sponda
critica.
Se è vero, infatti, che Kant mette in crisi la metafisica come “ontoteologia”, cioè come
fondata sul concetto di essere nella sua perfezione massima, ritenendo che essa non sia
in grado di offrire una via rigorosamente valida per la dimostrazione dell’esistenza di Dio,
è pur vero che egli valorizzava l’ontoteologia come il coronamento di tutta quanta la
conoscenza umana, in grado addirittura di rettificare e purificare, con il suo concetto di
Dio quale ens realissimum, la conoscenza dell’esistenza di Dio che da altre fonti ci fosse
attingibile. Ad esempio, la fonte della fede morale razionale, propria della ragion pratica,
e, al “limite” dell’etica e sotto la spinta della problematica del male radicale, il “parerga”
di una possibile fonte soprannaturale, come quella della rivelazione cristiana. Ma
entrambe queste fonti non possono prescindere, a suo avviso, dal confronto critico con
l’ontoteologia razionale, pena la caduta in una fede falsa, di tipo superstizioso.
Oltre al tema della diversa e convergente funzione dell’etica e dell’ontologia nei riguardi
della teologia, ciò che maggiormente viene messo in risalto e valorizzato teoreticamente
nel volume è il tema kantiano della differenza tra limiti (Grenzen) e confini/barriere
(Schranken). Mentre i secondi delimitano il campo intrascendibile delle scienze empiriche,
i primi costituiscono quei margini o soglie che permettono alla ragione di autolimitarsi
proprio in virtù del riferimento a ciò che la oltrepassa. Come avviene, secondo Kant, in
quella figura di “metafisica di nuovo tipo”, di cui egli parla soprattutto nei Prolegomeni.
Spingendosi fino “ai limiti” della ragione questa metafisica permetterebbe, infatti, di
trascendere il campo dell’orizzonte fenomenico-oggettuale – proprio delle scienze – pur
senza poter determinare concettualmente l’ulteriorità a cui apre; se non in forma
analogica o simbolica e limitatamente al rapporto che tale ulteriorità noumenica
intrattiene col mondo dei fenomeni. Una forma di metafisica, quindi, che apre bensì al
“mistero” del divino ma senza renderlo per ciò stesso sottomesso alle categorie umane e
quindi mantenendolo nella sua costitutiva incomprensibilità.
Al tema della trascendenza, nella varie forme in cui essa si presenta o è sperimentabile,
si concentrano gli interessi degli ultimi lavori dell’autore. Oltre la forma propriamente
teologica della trascendenza, di cui, anche sulla scia di Lévinas, egli mette
particolarmente in luce la dimensione non teocratico-sacrale bensì agapico-oblativa, egli
è impegnato ad indagare anche altre forme di trascendenza, in qualche modo ritenute il
“luogo o teatro” della trascendenza divina. Ad esempio, la trascendenza dell’alterità
misteriosa dell’altro uomo, mai riducibile alle categorie del mio proprio ego, o quella del
trascendimento del proprio ego autocentrato, che si vive nell’amore gratuito dell’altro.
Quella del vissuto del mio stesso corpoproprio o carne vivente (Leib), mai riconducibile
nello spazio della “fisicità” esteriore del Körper oggetto d’indagine scientifica o quella
dello stesso “che” (dass) del mondo, che già Wittgenstein riteneva non riducibile alla
somma dei fatti sperimentabili nel mondo. Quella, infine, dell’“affermazione originaria”
(come l’ha chiama Jean Nabert) dell’“essere/bene”, che è immanente alla nostra
coscienza e al tempo la trascende, perché ci attesta la nostra costitutiva inadeguatezza
nei suoi confronti e c’impegna incondizionatamente a contrastare ogni forma di male.
Secondo i suggerimenti della più recente fenomenologia francese (Henry e Marion), egli
ritiene che queste forme “fenomenologiche” di trascendenza si presentino come veri e
propri “eventi di donazione”, non risolvibili sul piano dell’ontologia trascendentale
tradizionale. Donde l’interesse per l’elaborazione di un’ontologia della gratuità e della
donazione, che possa permettere d’interpretare più adeguatamente il variegato campo
dell’esperienza umana della trascendenza.
Tra le sue pubblicazioni si segnalano i volumi: Max Scheler. I. Fenomenologia e
antropologia personalistica, Vita e Pensiero, Milano 1972; Max Scheler. II. Filosofia della
religione, Vita e Pensiero, Milano 1972; In lotta con l’angelo. La filosofia degli ultimi due
secoli di fronte al Cristianesimo, Sei, Torino 1989 (in collaborazione con U. Perone, A.
Pastore Perone, C. Ciancio, M. Pagano); La filosofia di Lévinas. Alterità e trascendenza,
Rosenberg & Sellier, Torino 1996; Soggettività e intersoggettività. Le Meditazioni
cartesiane di Husserl, Rosenberg & Sellier, Torino 1997; Ontologia e teologia in Kant,
Rosenberg & Sellier, Torino 1997 (trad. francese Ontologie et Théologie chez Kant, Du
Cerf, Paris 2001); Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, vol.
I. Questioni, vol. II, Figure, Esi, Napoli 2002; Il Bene aldi-là dell’essere. Temi e problemi
levinassiani, Esi, Napoli 2003; Verità fede preghiera. Filosofia e teologia a confronto,
EdiARGO, Ragusa 2006.
Bibliografia completa fino al 2004 in Approssimazioni alla trascendenza. Idea di Dio e
fede religiosa nella filosofia contemporanea, Atti del convegno di studi nel settantesimo
compleanno di Giovanni Ferretti, a cura di C. Ciancio e R. Mancini, Iepi, Pisa-Roma 2005.
MARIA CARLA GALAVOTTI
Maria Carla Galavotti si è laureata con lode in Filosofia presso l’Università di Bologna nel
1970 con una tesi in Filosofia della Scienza, relatore Alberto Pasquinelli. Ha trascorso
l’a.a. 1971-72 presso il Department of History and Philosophy of Science della Indiana
University, fruendo di una borsa di studio. Divenuta poi borsista del Ministero della
Pubblica Istruzione, negli a.a. 1972-73 e 1973-74 ha svolto attività di ricerca e supporto
alla didattica presso la cattedra di Filosofia della scienza dell’Università di Bologna.
Passata alla qualifica di “contrattista”, nell’a.a. 1975-76 ha tenuto l’incarico
dell’insegnamento di Logica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Bologna. L’anno seguente le fu affidato l’insegnamento di Statistica presso il Corso di
laurea in Storia della suddetta Facoltà, ove divenne “incaricata stabilizzata” nel 1979.
Superato il primo giudizio d’idoneità per professore associato, fu inquadrata, a partire
dall’a.a. 1983-84, nel corso di Logica dei sistemi normativi presso il Corso di laurea in
Filosofia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, per passare poi, dal
1° novembre 1987, al corso di Metodologia delle scienze umane, e dal 1° novembre 1991
a quello di Filosofia della scienza. Trascorse l’anno sabbatico 1989-90 presso il Center for
the Philosophy of Science dalla University of Pittsburgh, del quale divenne poi membro
permanente.
Negli a.a. 1991-92, 1992-93 e 1993-94 tenne la supplenza del corso di Filosofia della
scienza presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste, Corso di laurea in
Filosofia. Risultata vincitrice di un concorso di prima fascia, il 1° novembre 1994 prese
servizio come professore straordinario di Filosofia della scienza presso il medesimo
dipartimento. Dal 1° novembre 1997 fu confermata nel ruolo di professore ordinario.
Avendo ottenuto un anno sabbatico, nel 1997-98 trascorse un semestre presso il Clare
Hall College di Cambridge, del quale fu poi nominata membro permanente. Dal 1998 è
professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove tiene corsi di Epistemologia e
Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Lettere e Filosofia.
Nel corso della sua carriera accademica ha effettuato frequenti visite a istituti di ricerca
stranieri, fra i quali il Center for the Study of Language and Information (CSLI) della
Stanford University, il Department of Philosophy della Princeton University, e il Centre for
Time della University of Sydney.
Percorso di ricerca
Fin dalla stesura della tesi di laurea, intitolata La concezione carnapiana del linguaggio
scientifico, Maria Carla Galavotti si è interessata alle tematiche proprie dell’empirismo
logico. Nella tesi, che si concentrava sul pensiero di Carnap negli anni che precedettero i
suoi studi sulla logica induttiva, veniva prestata particolare attenzione al problema del
significato, a quello della demarcazione fra scienza e metafisica, nonché al rapporto fra
linguaggio osservativo e linguaggio teorico. L’influsso di Alberto Pasquinelli, che aveva
studiato con Carnap presso la University of Chicago, è ben visibile nella tesi, prima di
tutto nella scelta del tema, e poi in una caratteristica destinata a segnare tutta l’attività
scientifica di Galavotti: l’approccio storico ai problemi epistemologici.
L’interesse per la ricerca delle radici storiche dei problemi della filosofia della scienza
ispirava il primo articolo pubblicato da Galavotti sulla rivista Il Mulino, intitolato “Alcune
tendenze dell’analisi filosofica contemporanea”. 1 Il saggio ricostruiva l’influenza di
Wittgenstein sulle due principali tendenze della filosofia analitica contemporanea: una più
strettamente scientifica ispiratasi al Tractatus, che ebbe un influsso determinante sul
Circolo di Vienna, e una rivolta all’analisi del linguaggio quotidiano oltre che scientifico,
ispiratasi alle Ricerche filosofiche.
Il periodo trascorso presso la Indiana University nel 1971-72 impresse una svolta decisiva
nell’attività scientifica di Galavotti, soprattutto grazie all’incontro con Wesley Salmon, da
allora divenuto per lei solido punto di riferimento fino al 2001, anno in cui morì in un
incidente d’auto. Sotto l’influenza di Salmon, Galavotti iniziò ad interessarsi alla
probabilità, ai suoi fondamenti, e alle sue implicazioni epistemologiche, ossia ai temi
destinati a costituire l’asse fondamentale della sua ricerca.
Nel 1971, Salmon aveva appena elaborato il suo modello di spiegazione basato sulla
“rilevanza statistica” – il cosiddetto modello SR – che costituisce la più valida alternativa
ai modelli di spiegazione hempeliani: i ben noti modelli “nomologico-deduttivo” e
“induttivo-statistico”. Salmon continuò poi a lavorare al problema della spiegazione
scientifica per i rimanenti trent’anni della sua vita, provocando un acceso dibattito al
quale Galavotti ha preso parte con vari scritti. L’idea di fondo della teoria di Salmon è che
la spiegazione, avendo in generale carattere probabilistico (quello deterministico ne
rappresenta il caso limite), debba essere guidata da un principio di rilevanza statistica, in
grado di ricondurre i fatti da spiegare entro classi di riferimento il più possibile omogenee.
A questa idea si affianca la convinzione che la spiegazione non debba limitarsi a mostrare
l’attendibilità dei fatti alla luce di determinate circostanze, come richiesto dalla teoria
hempeliana, ma debba rivestire carattere causale. Nell’intento di coniugare il carattere
causale con l’impostazione probabilistica data alla spiegazione, la prospettiva di Salmon
include una teoria probabilistica della causalità, incentrata sulla nozione di “processo
causale” e funzionale all’idea che la spiegazione abbia carattere meccanicistico, ossia
spieghi i fenomeni riportandoli nell’ambito di meccanismi aventi carattere statistico.2
Nel corso degli anni, Galavotti ha continuato ad approfondire il dibattito sulla spiegazione
scientifica, giungendo a nutrire qualche dubbio circa l’applicabilità del modello di Salmon,
specie alla sfera delle scienze umane, poiché la nozione di “processo spazio-
temporalmente continuo” sembra adattarsi al più a certe branche della fisica (per
esempio, ai fenomeni regolati dalla meccanica statistica), o alla genetica delle
popolazioni, ma ha notevoli problemi in discipline come l’economia o la psicologia. In
effetti, questa è proprio la conclusione raggiunta dallo stesso Salmon nel suo ultimo
articolo sulla spiegazione, uscito postumo.3
Fra la seconda parte degli anni ’70 e i primi anni ’80, altri avvenimenti segnarono
profondamente la ricerca di Galavotti. Nel 1976 venne chiamato a Bologna come docente
di Calcolo delle probabilità Domenico Costantini: all’epoca uno dei pochi studiosi italiani
interessati ai fondamenti della probabilità, dotato tanto di una profonda conoscenza
dell’inferenza statistica, quanto di una notevole competenza in materia di filosofia della
scienza, avendo frequentato a Milano la Scuola di specializzazione fondata da Ludovico
Geymonat. La presenza di Costantini a Bologna stimolò altri studiosi, primo fra tutti Italo
Scardovi, altro raffinato cultore dei fondamenti della probabilità, a dar vita a incontri
periodici presso il Dipartimento di Scienze Statistiche, per dibattere liberamente i
problemi connessi con la probabilità, l’inferenza statistica, i loro fondamenti e le loro
applicazioni. Quegli incontri offrirono a Galavotti uno stimolo a studiare nuovi aspetti di
una problematica che le appariva sempre più affascinante. Fra Costantini e Galavotti
s’instaurò un’assidua collaborazione destinata a sfociare nella pubblicazione di diversi
articoli, e nell’organizzazione di tre convegni sui fondamenti della probabilità, tenutisi a
Luino nel 1981, 1988 e 1995. Dalla partecipazione di alcuni economisti agli incontri
presso il dipartimento di Scienze Statistiche nacque altresì una proficua collaborazione fra
Galavotti e il docente di Econometria Guido Gambetta, con il quale diresse per alcuni anni
una collana presso l’editore bolognese CLUEB. Fra altri titoli, la collana ha ospitato due
raccolte di saggi a cura di Galavotti e Gambetta, intitolate Causalità e modelli
probabilistici (1983) ed Epistemologia ed economia (1988), nonché le traduzioni in lingua
italiana dei libri The Scientific Image di Bas van Fraassen (1985), e La logique du
probable di Patrick Suppes.
Nel 1978, un convegno sull’epistemologia delle scienze umane tenutosi a Trento diede a
Galavotti l’occasione di conoscere personalmente Patrick Suppes, la cui impostazione
epistemologica, fortemente orientata in senso pragmatistico ed estremamente attenta
all’aspetto applicativo delle problematiche trattate, esercitò un’influenza determinante sul
suo percorso intellettuale. Già a partire dai primi anni ’60 Suppes si era fatto promotore
dell’apertura della filosofia della scienza – tradizionalmente impegnata a studiare le
teorie sotto il profilo logico e formale – all’analisi delle “strutture empiriche”, ossia dei
modelli che descrivono i dati d’esperienza e il modo in cui sono rilevati e organizzati. Ciò
segnava un superamento di alcuni capisaldi dell’empirismo logico, come la netta
distinzione fra linguaggio teorico e linguaggio osservativo, e quella fra “contesto della
scoperta”, di stretta pertinenza dello scienziato, e “contesto della giustificazione”, di
pertinenza del filosofo della scienza. L’epistemologia promossa da Suppes ha carattere
pluralistico, e risponde alla convinzione che l’ideale dell’unità della scienza altro non sia
che una “chimera”, inseguendo la quale il filosofo della scienza finisce col perdere di vista
la specificità che caratterizza le varie discipline scientifiche sotto il profilo metodologico,
che dovrebbe invece costituire il punto di partenza della riflessione sulla natura e i metodi
della scienza. Suppes pone al centro della filosofia della scienza la probabilità, vista come
lo strumento insostituibile per l’acquisizione di conoscenza. Tuttavia, a differenza di
Salmon – allievo di Hans Reichenbach e convinto sostenitore dell’interpretazione
frequentista della probabilità – Suppes abbraccia la più duttile visione soggettiva della
probabilità.
Nei primi anni ’80 ebbero luogo altri due incontri destinati a rivelarsi molto fertili per la
ricerca di Galavotti. Nel 1981, in occasione del primo convegno di Luino, Galavotti
conobbe Richard Jeffrey, già allievo di Carnap e iniziatore di una “logica della decisione”
che coniugava l’idea carnapiana che si possano applicare gli strumenti della logica
all’inferenza probabilistico-induttiva con l’interpretazione soggettiva della probabilità
elaborata da Ramsey e de Finetti. Nel 1982, al convegno della “Logic Methodology and
Philosophy of Science Association” tenutosi a Salisburgo, Galavotti incontrò Bas van
Fraassen, sostenitore di una visione semantica delle teorie scientifiche non lontana da
quella di Suppes, e fautore di una “visione pragmatica” della spiegazione, che all’epoca
Galavotti aveva già avuto modo di apprezzare. Sia Jeffrey sia van Fraassen hanno
esercitato una profonda influenza su Galavotti, che è stata per molti anni assidua
frequentatrice del Department of Philosophy della Princeton University, traendone potenti
spunti di ricerca e preziose occasioni di scambio di idee.
Inoltre, tanto Jeffrey quanto Suppes stimolarono l’interesse di Galavotti nei confronti del
pensiero di Bruno de Finetti, divenuto poi uno dei temi centrali della sua ricerca, che si è
incanalata su un duplice binario: la problematica legata alla spiegazione scientifica e alla
causalità, e i fondamenti della probabilità e dell’inferenza statistica. Lungo questo
percorso, Galavotti si è progressivamente allontanata dall’impostazione di stampo
oggettivistico che caratterizzava l’insegnamento di Salmon, e quindi anche dal
frequentismo che ne costituiva parte integrante, per assumere una posizione più vicina al
pragmatismo di autori come Suppes, Jeffrey e van Fraassen.
Nell’ambito del primo filone di ricerca, Galavotti ha analizzato la struttura della
spiegazione probabilistica, nonché le teorie probabilistiche della causalità. Un primo frutto
dei suoi studi è il libro Spiegazioni probabilistiche: un dibattito aperto, uscito nel 1984
nella collana diretta da lei stessa e Guido Gambetta. A questo volume hanno fatto seguito
numerosi saggi, per lo più pubblicati in lingua inglese.4 Dall’analisi del dibattito sulla
spiegazione probabilistica, Galavotti ha tratto la convinzione che nessuna delle teorie
avanzate in letteratura – inclusi i modelli hempeliani, la teoria della rilevanza statistica di
Salmon, le teorie propensioniste dovute ad autori quali James Fetzer e Paul Humphreys –
offra una prospettiva dotata di applicabilità generale. Lo stesso vale per la nozione di
causalità probabilistica, che ha ispirato teorie assai lontane fra loro: si va dal
meccanicismo di Salmon, teso ad appurare i meccanismi probabilistici responsabili
dell’accadimento dei fenomeni presi singolarmente, alle teorie “manipolative” della causa
sostenute con diverse accentuazioni da Huw Price, James Woodward e altri. La visione
manipolativa, molto popolare in econometria, si basa sull’idea che possano essere definiti
causali quei fattori manipolando i quali è possibile indurre modificazioni in altri aspetti di
un fenomeno. Vi è poi la visione pluralistica di Suppes, che si rivolge esclusivamente alla
causalità “generale”, o “statistica”, esprimente correlazioni riferite all’intera popolazione,
non già ai suoi membri presi singolarmente, e rinuncia a definire la nozione di “causa” in
modo univoco, lasciando tale compito al contesto.
Galavotti opta per una posizione pluralistica vicina a quella di Suppes, atta a combinare il
meccanicismo con la teoria manipolativa, nella convinzione che queste concezioni non
siano inconciliabili, ma piuttosto complementari. Entro tale posizione la teoria di Price,
definita dall’autore “prospettivista” (perspectival), fornisce il quadro filosofico di fondo, di
stampo pragmatistico, nel quale si colloca una nozione di causalità concepita –
riprendendo un’idea di Ramsey – come la proiezione di una caratteristica distintiva della
natura umana, per cui l’uomo è portato a porre in atto determinate azioni per ottenere
certi fini. L’originalità di questa teoria sta nel riportare l’asimmetria del nesso causale
all’esperienza dell’uomo in quanto agente nel mondo. Questa visione della causalità offre
un quadro di riferimento che deve essere dotato di contenuti più specifici per acquisire
operatività. Al fine di conferire a una simile prospettiva portata applicativa, Galavotti
propone di riprendere alcune idee sviluppate nell’ambito della letteratura econometrica,
ove la causalità viene definita in base ai legami funzionali che legano fra loro le variabili
di un modello, ed è associata alla manipolabilità nel senso che si definiscono causali
quelle variabili che possono essere fatte oggetto di intervento politico e servire come
strumento in vista del raggiungimento di scopi prefissati. Idee simili riguardo alla
causalità sono state riprese nella letteratura epistemologica da James Woodward. Mentre
però quest’ultimo intende avanzare una teoria manipolativa della causalità idealmente
dotata di applicabilità generale, Galavotti trae da un esame del modo in cui la nozione di
causalità viene di fatto applicata in diversi settori della ricerca la convinzione che la
nozione manipolativa di causalità debba essere affiancata da quella meccanicistica,
poiché entrambe svolgono un ruolo importante.
Galavotti argomenta questa tesi soprattutto con riferimento ad esempi tratti dai settori
biomedico, economico e giuridico, sottolineando la necessità di distinguere
sistematicamente fra causalità “singolare” e causalità “generale” – cosa spesso trascurata
dalla letteratura filosofica. Non vi è dubbio che la spiegazione degli eventi presi
singolarmente, così come si richiede, ad esempio, ai fini dell’attribuzione di responsabilità
in un processo penale, debba basarsi sulla conoscenza di meccanismi, ma è altrettanto
vero che solo in rari casi si può far leva sulla conoscenza di meccanismi di tipo
probabilistico – come ha dovuto ammettere lo stesso Salmon. Più spesso, ciò di cui si
dispone sono correlazioni probabilistiche, che non possono applicarsi direttamente al caso
singolo. Galavotti insiste che la distinzione fra questi due piani del discorso causale non
vada ignorata, poiché solo partendo da essa si può procedere ad indagare le relazioni fra
i due piani del discorso causale. In molti settori d’indagine si registrano forti interazioni
fra causalità (probabilistica) generale e singolare, e altresì fra causalità meccanicistica e
causalità manipolativa, e ciò raccomanda l’adozione di una visione pluralistica e
contestuale della causalità.5
In merito all’altro filone di studi coltivato da Galavotti, ossia i fondamenti della
probabilità, va ricordato il volume Philosophical Introduction to Probability (Stanford,
CSLI, 2005),6 contenente una rassegna critica delle principali interpretazioni della
probabilità, dalla teoria detta “classica” di Pierre-Simon de Laplace al frequentismo di
John Venn, Richard von Mises e Hans Reichenbach, alla teoria propensionista di Karl
Popper, al logicismo di John Maynard Keynes e Rudolf Carnap, al soggettivismo di Frank
Plumpton Ramsey e Bruno de Finetti. Il libro pone a confronto le posizioni di molti autori,
alcuni dei quali poco studiati, come William Ernest Johnson, che per primo comprese
l’importanza della nozione di scambiabilità (che egli chiamava “postulato di
permutazione”), o William Donkin, che anticipò di più di un secolo il metodo di
condizionalizzazione di Jeffrey. Altro autore sul quale Galavotti ha richiamato l’attenzione
del pubblico filosofico è Harold Jeffreys, il geofisico che studiò la composizione della Terra
e promosse un’interpretazione della probabilità in cui si combinano elementi del logicismo
e del soggettivismo; questa concezione è inserita in una visione epistemologica di stampo
costruttivistico, in cui leggi e teorie scientifiche sono costruite a partire dai dati
dell’esperienza, con l’ausilio della metodologia statistica e dell’induzione probabilistica.7
Galavotti ha dedicato particolare cura allo studio dell’interpretazione soggettiva,
soffermandosi sulle sue origini con l’opera di Ramsey e de Finetti. Del pensiero di Bruno
de Finetti ha approfondito l’aspetto filosofico, che nel gergo attuale può definirsi come
una forma di anti-realismo.8 Lavorando presso gli Archives of Scientific Philosophy della
University of Pittsburgh, durante l’anno accademico 1989-90 Galavotti si è dedicata
all’esame dei manoscritti che compongono la Ramsey Collection, traendone una raccolta
di inediti dal titolo Notes on Philosophy, Probability and Mathematics. 9 Confrontando la
concezione della probabilità di Ramsey con quella di de Finetti, Galavotti ha messo in
evidenza alcune differenze fra il pensiero dei due autori ampiamente trascurate dalla
letteratura.10
Recentemente Galavotti ha affrontato in alcuni scritti la questione di come
l’interpretazione soggettiva renda conto delle probabilità che ricorrono nella scienza, in
particolare in fisica. Per de Finetti queste probabilità sono da considerare alla stregua di
tutte le altre: egli infatti si attesta sulla posizione pragmatista che vede una sostanziale
continuità fra scienza e vita quotidiana. Ramsey, invece, riconosce alle attribuzioni di
probabilità dettate dalle teorie scientifiche una valenza tipicamente oggettiva e ritiene
tuttavia che anch’esse possano trovar posto nell’ambito della prospettiva soggettivista. In
sostanza, l’idea di Ramsey è che queste probabilità esprimano non tanto dei semplici
gradi di credenza, bensì dei “sistemi di credenze” aventi la peculiarità di includere leggi
e/o teorie sulle quali si registra l’accordo della comunità scientifica.11 Il suggerimento di
Ramsey, sorprendentemente trascurato dalla letteratura, punta nella direzione di un
soggettivismo in grado di rendere conto anche delle assegnazioni di probabilità operate in
ambito scientifico.
Nel prendere posizione a favore di una prospettiva di questo genere, Galavotti ha
sottolineato come il netto rifiuto della nozione di probabilità oggettiva operato da de
Finetti non vada inteso come un rifiuto di affrontare la questione dell’obiettività delle
valutazioni di probabilità.12 Al contrario, il problema dell’obiettività è preso in seria
considerazione da de Finetti, che propone una netta separazione fra la definizione e la
valutazione della probabilità: quanto alla definizione, la probabilità è da considerare un
grado di credenza soggettiva; quanto alla valutazione, qualsiasi elemento oggettivo
disponibile, a cominciare dalle frequenze osservate, rientra nell’attribuzione di un valore
di probabilità. De Finetti ha affrontato il problema in molti scritti, in parte frutto della sua
collaborazione con Leonard Jimmie Savage. La soluzione avanzata, che si basa sui
cosiddetti “metodi di penalizzazione”, è discussa nel recentissimo articolo “De Finetti’s
Subjectivism, Objective Probability and the Empirical Validation of Probability
Assessments”,13 scritto da Galavotti in collaborazione con lo statistico bayesiano Philip
Dawid. Attualmente, lo sforzo di Galavotti è teso ad elaborare ulteriormente
un’epistemologia probabilistica di stampo pragmatistico e costruttivistico. Parte
integrante di essa è una forma di soggettivismo che sia in grado di salvaguardare le
ragioni della scienza e il carattere oggettivo delle assegnazioni di probabilità formulate in
tale ambito. Ciò risulta possibile accogliendo il suggerimento di Ramsey di spostare il
problema del fondamento della probabilità oggettiva sul piano dell’interpretazione delle
teorie: egli ripropone un approccio pragmatista e costruttivista, in sostanziale accordo con
le tesi avanzate in tempi più recenti da autori come Suppes e van Fraassen. Altro
ingrediente importante di una simile epistemologia è una nozione flessibile di causalità,
che combini la nozione manipolativa con quella meccanicistica in una prospettiva
contestuale.
Nella convinzione che un simile approccio offra un punto di vista privilegiato da cui
guardare alle problematiche poste da diversi settori della ricerca, specie quei settori che
si sono accostati alla problematica epistemologica più tardi delle scienze naturali,
Galavotti si è recentemente avvicinata alle applicazioni della probabilità e della causalità
probabilistica al processo penale. Ad avviarla in questa direzione fu l’incontro col
penalista Federico Stella, recentemente scomparso, convinto assertore dell’utilità
dell’epistemologia in campo giuridico e lui stesso raffinato cultore di questi studi.14
Negli ultimi anni, Galavotti ha lavorato al rafforzamento della filosofia della scienza a
livello europeo, e a tale scopo ha coordinato un Network finanziato dalla European
Science Foundation nel periodo 2000-2003. Attualmente dirige un Research Networking
Programme, anch’esso promosso dalla European Science Foundation, dal titolo
“Philosophy of Science in a European Perspective”, in essere dal 2008 al 2012. In tale
ambito verranno promosse numerose iniziative, tese non solo a fare il punto sulla ricerca
europea nel settore, ma verosimilmente anche a far emergere le caratteristiche distintive
di un modo europeo di fare filosofia della scienza.15
1
Si veda “Alcune tendenze dell’analisi filosofica contemporanea”, Il Mulino, XX (1971), pp. 1130-1148.
2
L’esposizione più completa della teoria della spiegazione di Salmon è contenuta nel volume Scientific Explanation and the
Causal Structure of the World, Princeton, Princeton University Press, 1984. Gran parte dei suoi articoli successivi sono
raccolti in Causality and Explanation, New York-Oxford, Oxford University Press, 1998.
3
Si veda W.C. Salmon, “A Realistic Account of Causation”, in The Problem of Realism, a cura di Michele Marsonet,
Aldershot: Ashgate, 2002, 106-133.
4
Fra questi i saggi: “Explanation and Causality: Some Suggestions from Econometrics”, in; Recent Developments in
Explanation and Causality, fascicolo della rivista Topoi, 9 (1990), n. 2, a cura di M.C. Galavotti, pp. 161-169; “Probability
and Causality”, in Atti del Congresso “Nuovi problemi della logica e della filosofia della scienza”, Viareggio, 8-13/1/1990, cit.,
volume I: Filosofia della scienza e fondamenti della probabilità e della statistica, a cura di M.C. Galavotti e D. Costantini,
Bologna, CLUEB, 1991, pp. 69-82 (ristampato in M.C. Galavotti, Probabilità, induzione, metodo statistico, Bologna, CLUEB,
1992, pp.149-162); e “Wesley Salmon on Explanation, Probability and Rationality”, in Experience, Reality, and Scientific
Explanation. Essays in Honor of Merrilee and Wesley Salmon, a cura di M.C. Galavotti e A. Pagnini, Dordrecht, Kluwer,
1999, pp. 39-54.
5
Questa tesi è sostenuta da Galavotti in “Causality, Mechanisms and Manipulation”, in Stochastic Causality, a cura di M.C.
Galavotti, P. Suppes e D. Costantini, Stanford, Cal.: CSLI Publications, 2001, pp. 1-13, nonché in “Causal Pluralism and
Context”, in Reasoning, Rationality and Probability, a cura di M.C. Galavotti, R. Scazzieri e P. Suppes, Stanford: CSLI, 2008,
pp. 233-252. Si veda anche il saggio scritto con Raffaella Campaner, “Plurality in Causality”, in Thinking about Causes. From
Greek Philosophy to Modern Physics, a cura di Peter Machamer e Gereon Wolters, Pittsburgh, University of Pittsburgh
Press, 2007, pp. 178-199.
6
Questo libro ha riscosso un’ottima accoglienza da parte della comunità scientifica, ricevendo numerose recensioni
positive, fra le quali si segnala quella di Samuel Kotz, “Some Remarks on a Book on the Philosophy of Probability”, Statistica
vol. 66 (2006), pp. 197-209.
7
A questo autore Galavotti ha anche dedicato l’articolo “Harold Jeffreys’ Epistemology between Logicism and
Subjectivism”, The British Journal for the Philosophy of Science LIV (2003), pp. 43-57.
8
Si veda in particolare l’articolo “Anti-realism in the Philosophy of Probability: Bruno de Finetti’s Subjectivism”, in Bruno de
Finetti’s Philosophy of Probability , fascicolo speciale, a cura di M.C. Galavotti e R.C. Jeffrey, della rivista Erkenntnis, 31
(1989), n. 2-3, pp. 239-261.
9
Napoli, Bibliopolis, 1991.
10
Si veda in particolare “The Notion of Subjective Probability in the Work of Ramsey and de Finetti”, in The Philosophy of
F.P. Ramsey, fascicolo speciale, a cura di M.C. Galavotti, della rivista Theoria LVII (1991), pp. 239-259.
11
La posizione di Ramsey è discussa in M.C. Galavotti, “F.P. Ramsey and the Notion of ‘Chance’”, in The British Tradition
in the 20th Century Philosophy. Proceedings of the 17th International Wittgenstein Symposium , a cura di J. Hintikka e K.
Puhl, Wien, Hölder-Pichler-Tempsky, 1995, pp. 330-340. Si veda anche “Some Remarks on Objective Chance (F.P.
Ramsey, K.R. Popper and N.R. Campbell)”, in Language, Quantum, Music, a cura di M.L. Dalla Chiara, R. Giuntini e F.
Laudisa, Dordrecht-Boston, Kluwer, 1999, pp. 73-82.
12
Si veda in particolare M.C. Galavotti, “Subjectivism, Objectivism and Objectivity in Bruno de Finetti’s Bayesianism”, in
Foundations of Bayesianism, a cura di D. Corfield e J. Williamson, Dordrecht-Boston-London, Kluwer, 2001, pp. 173-186.
13
In Bruno de Finetti, Radical Probabilist, a cura di M.C. Galavotti, Londra, College Publications, in corso di stampa (2009),
pp. 113-130.
14
Frutto di questi studi sono i saggi: F. Stella e M.C. Galavotti, “‘L’oltre il ragionevole dubbio’ come standard probatorio”,
Rivista italiana di diritto e procedura penale, XLVIII (2005), pp. 883-937; e M.C. Galavotti, “Problemi epistemologici del
nesso causalità-probabilità-spiegazione”, in Il nesso di causalità. Profili giuridici e scientifici, a cura di R. Pucella e G. De
Santis, Padova, Cedam, 2007, pp. 3-21.
15
Alcuni suggerimenti in tal senso sono reperibili in M.C. Galavotti, “Philosophy of Science in a European Perspective”, in,
Laws and Models in Science, a cura di D. Gillies, London, King’s College Publications, 2005, pp. 247-252.
ALDO GIORGIO GARGANI
Aldo Giorgio Gargani è nato a Genova, ha conseguito la maturità classica al Liceo C.
Colombo di Genova dove ha avuto la fortuna di incontrare un gruppo di docenti
estremamente capaci, preparati e rigorosi, in particolare il prof. Costanzo Mignone
(Filosofia), il prof. Michele Feo (matematica e fisica), il prof. Libero Pierantozzi
(letteratura italiana). Cinque anni fra ginnasio e liceo impegnati in una rigorosa
applicazione ad uno studio che faceva scoprire nuovi mondi. Il risultato finale fu che da
una provvista così florida di saperi lui, come altri suoi compagni, era indeciso sulla facoltà
da scegliere. Quegli insegnanti liceali li avrebbe rimpianti anche più tardi negli anni
successivi all’università. Alla fine, dopo molte esitazioni e alternative, si era deciso per
l’iscrizione al corso di laurea in filosofia, ma l’ambiente filosofico all’università di Genova,
dominato da un vago spiritualismo religioso, gli appariva, negli anni Cinquanta, di un
grigiore e di uno scolasticismo così scoraggianti da meditare la fuga dalla città natale. Di
qui la decisione di tentare il concorso di ammissione alla Scuola Normale Superiore di
Pisa. Gargani cominciò a sognarsela e a rappresentarsela nella sua mente molto tempo
prima di affrontare il concorso, al quale si erano iscritti circa ottanta candidati per dodici
posti. Le prove d’esame erano impegnative e numerose (prove scritte nelle lingue
classiche, saggi di traduzione dalle lingue moderne, un componimento sulla letteratura
italiana, nello specifico “le fonti virgiliane di Dante”). Ammesso agli orali, insieme a poche
decine di candidati, si era trovato a sostenere un colloquio davanti ad una commissione
costituita da Scaravelli (filosofia), Traglia (latino), Peretti (greco), Raggianti (diciamo,
estetica e metodo critico), Arsenio Frugoni (storia) e Tristano Bolelli (linguistica). Il
colloquio era riuscito vivace, attraente e il candidato, sfuggito alle nebbie spiritualistiche
e antiscientifiche dell’ateneo genovese, si sentiva rassicurato e confortato. Era poi riuscito
vincitore di un posto nella classe di filosofia alla Normale di Pisa, che prevedeva quattro
anni di studio nel palazzo del Vasari nella piazza dei Cavalieri, con i corsi interni
consistenti in una varietà di seminari e prove d’esame oltre agli obblighi esterni con
l’Ateneo pisano. Ma la cosa più importante furono i colloqui, le conversazioni con i suoi
compagni di corso, e non solo con loro ma anche con i matematici e i fisici. Allora alla
Scuola Normale esisteva una vera e propria comunità di giovani studiosi che era
impegnata in continue discussioni. Gargani aveva compagni di studio Giulio Lepschy,
Carlo Ginzburg, Carlo Ascheri, Eduardo Saccone, Remo Bodei, Luigi Picasso, Bruno
Barsella, Adriano Di Giacomo e molti altri con i quali la conversazione poteva andare
dall’Ars Combinatoria di Leibniz (per dirne un gran bene) ai film di Ingmar Bergmann
(anche lui ampiamente approvato e commentato, quasi come Leibniz), fino al film Rocco
e i suoi fratelli di Luchino Visconti (giustamente deplorato e definitivamente bocciato al
termine di un lungo dibattito). Al suo arrivo, in quegli anni nell’Ateneo pisano la filosofia
idealista esercitava ancora la sua egemonia sia pure agonizzante; gentiliani per lo più i
filosofi, crociani i letterati e gli storici dell’arte. Gargani e i suoi compagni di Normale
ricordavano non senza angoscia un professore di filosofia che nelle sue ore di
insegnamento ogni mattina alle 9.15 iniziava la sua lezione dicendo: “il soggetto pone
l’oggetto” e alle ore 10 la concludeva trionfante: “e l’oggetto si risolve nel soggetto!”. Tra
i suoi pezzi forti Carlo Ascheri raccontava il suo esame di Filosofia Teoretica nel corso del
quale Vito Fazio Allmayer lo aveva interrogato sul De Mundo di Aristotele. Ascheri aveva
risposto che in realtà i filologi avevano messo in discussione l’attribuzione di quell’opera
allo Stagirita, al che Fazio Allmayer avrebbe risposto “lasci stare i filologi, noi filosofi
sentiamo che il De Mundo è di Aristotele!”. La situazione filosofica mutò profondamente
con il provvidenziale arrivo di Francesco Barone, autore di un’importante opera, Il
neopositivismo logico, che inaugurò un nuovo corso per gli studi filosofici a Pisa.
L’attenzione si spostò su tematiche logico-matematiche, epistemologiche e sulla filosofia
e storia della scienza. Gargani fu affascinato dalle lezioni e dagli argomenti svolti in modo
critico e argomentato da Barone e decise di svolgere con lui i suoi colloqui alla Scuola
Normale e sotto la guida di Barone scrisse la sua tesi di laurea sulla scuola filosofica di
Cambridge (da G.E. Moore e B. Russell a Ludwig Wittgenstein). Fu incaricato ancora da
studente di fare la traduzione italiana degli scritti logici di Leibniz (a cura di Barone),
pubblicati dalla casa editrice Zanichelli. A questo punto si inserisce il profondo influsso
esercitato da Giulio Lepschy (normalista, qualche anno più avanti di Gargani), linguista,
da poco tornato da un lungo soggiorno di studio a Oxford. Da Lepschy Gargani avrebbe
appreso la lezione del vero rigore, della passione per lo studio insieme all’esercizio critico
degli strumenti intellettuali. Di ritorno dall’Inghilterra Lepschy illustrò a Gargani la svolta
linguistica in filosofia di cui l’Università di Oxford fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta
era divenuta la protagonista. Un volume, prefatto da Gilbert Ryle, portava
significativamente il titolo The Revolution in Philosophy (1956). Il suggerimento decisivo
di Lepschy a Gargani fu quello di richiedere una borsa di studio di un anno all’Università di
Oxford come “postgraduate student” per condurre una ricerca sulla filosofia analitica.
Nominato assistente da Francesco Barone alla cattedra di Filosofia Teoretica, ottenuta la
borsa di studio, Gargani partì al principio degli anni Sessanta per Oxford dove avrebbe
trascorso un anno, presso il “Queen’s College” avendo come tutor il prof. B.F. McGuinness,
studioso specialista di Wittgenstein. Ad Oxford – in cui operavano tra gli altri J.L. Austin,
P.F. Strawson, Gilbert Ryle, Friedrich Waismann, il giovane Michael Dummett – allora la
capitale e il principale punto di riferimento della filosofia analitica per tutto il mondo
anglosassone, Gargani ha iniziato la sua ricerca sull’opera di Wittgenstein e sulla filosofia
del linguaggio con particolare riferimento alle scuole di Oxford e di Cambridge. Oxford
suscitava un’emozione indescrivibile in quanto da un lato esprimeva la solidità di
un’esperienza di ricerca che risaliva ad una tradizione secolare e dall’altro lato
manifestava la vivacità di una profonda innovazione sostenuta da una spregiudicata
militanza filosofica, che si esprimeva nella revisione delle ortodossie filosofiche e culturali
trasmesse. Era Oxford. Appena arrivato, Gargani aveva avuto la sensazione di non sapere
nulla, di non aver imparato nulla e che bisognava ricominciare tutto da capo. Era stato
presentato a Eduard Fraenkel, a Arnaldo Momigliano che saggiamente gli avevano
raccomandato sì di preparare la sua dissertazione su Wittgenstein, ma anche di riservare
il resto del suo tempo alla lettura di Shakespeare, Milton e Virginia Woolf. Gargani ha
seguito quel consiglio, è andato a Stratford on Avon ad assistere alla messa in scena
delle opere di Shakespeare, ha imparato, leggendo anche T. Coleridge, Virginia Woolf,
E.M. Forster, a fare una filosofia migliore di quella che avrebbe fatto senza quelle letture.
Ritornato in Italia, assistente all’Istituto di Filosofia dell’Università di Pisa, Gargani ha
preparato il suo primo libro su Ludwig Wittgenstein, sotto la guida di Francesco Barone,
che ha provveduto a pubblicare nella collana dell’Istituto di Filosofia il volume presso
l’editore Le Monnier nel 1966. Porta il titolo Linguaggio ed esperienza in Ludwig
Wittgenstein; un volume di circa cinquecento pagine, molto analitico sia sul primo
Wittgenstein, ossia sul Tractatus logico-philosophicus , sia sulle opere del secondo
Wittgenstein fino allora note, in particolare sulle Ricerche Filosofiche. Sulle tracce
dell’influsso esercitato dalla prima opera del filosofo austriaco sui membri del Wiener
Kreis il volume di Gargani affronta le tematiche emerse a proposito dello statuto logico e
epistemologico degli “enunciati protocollari”, cioè degli enunciati che si assumeva che
fossero registrazioni obiettive e neutrali dei dati osservativi. La dissoluzione di questo
assunto avrebbe sanzionato a partire dagli anni Sessanta la crisi del neopositivismo
logico. Conseguita la libera docenza in Filosofia Teoretica nel 1969, Gargani nel 1974 è
diventato professore ordinario di Storia della Filosofia Contemporanea presso l’Istituto di
Filosofia, poi Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa, di cui è stato direttore per
alcuni anni impegnato essenzialmente a contrastare l’invadenza degli amministrativi da
un lato e l’opposizione dei bibliotecari nei confronti della ricerca di studenti e docenti
dall’altro. Attualmente Gargani è professore di Metodologie della Ricerca Filosofica presso
il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa.
Nel corso degli anni, Gargani è stato membro del Beirat della Österreichische Ludwig
Wittgenstein Gesellschaft di Kirchberg am Wechsel (Austria) insieme a Jaakko Hintikka,
Newton Garver, Rudolf Haller, Paul Weingartner. Successivamente Gargani ha svolto
seminari e corsi di lezioni presso l’École Normale Superiéure di Parigi. Nel corso degli anni
Ottanta ha partecipato ad una serie di seminari all’Università di New York dove ha avuto
come “discussant” Richard Rorty e da allora nacque una stretta collaborazione e una viva
amicizia con il filosofo americano. Di Rorty Gargani ha curato le edizioni di alcune opere,
La filosofia dopo la filosofia, i due volumi degli Scritti Filosofici fino all’introduzione a
Verità e Progresso.
Nel 1986 Gargani è stato nominato membro del Wissenschaftskolleg di Berlino (un istituto
di ricerche avanzate, allora diretto dal sociologo Wolf Lepenies), insieme ad un gruppo di
filosofi, fra cui Richard Rorty, Ulrich Potthast, Yehuda Elkana, e poi di storici, fisici,
scrittori, musicologi, giuristi, biologi, una trentina di persone in tutto che dovevano
sperimentare progetti collettivi di ricerca in diversi ambiti di studio. L’unico duty era
costituito da un seminario che ciascun fellow doveva sottoporre alla discussione
collettiva. Fra i vari testi Gargani ha redatto un lungo saggio introduttivo ai Geheime
Tagebücher (Diari segreti) di Wittgenstein per l’editore Laterza. È stato un anno
straordinariamente fecondo, florido, il Wissenschaftskolleg era un luogo di continui
incontri con eminenti studiosi, da Nelson Goodman a Hilary Putnam, da Stephen Toulmin
a Charles Taylor e a molti altri. Ma è stata anche un’esperienza straordinaria nei termini
di una svolta intellettuale: decisivo è stato l’incontro con il compositore Luigi Nono che
insegnava allora composizione al conservatorio di Berlino e operava anche alla Akademie
der Künste. In breve il caso era stato questo: il muro di Berlino, sul quale era stata
riversata un’intera estetica, i residui bellici che si potevano allora ancora incontrare
avevano costituito per Gargani una sorta di rammemorazione dei tempi dell’infanzia
nell’epoca della seconda guerra mondiale. Era un modo di guardare quello che Gargani
aveva recuperato e ripercorso attraverso il filtro della memoria interpretante. Un modo di
guardare, sia ben chiaro, non il contenuto di un ricordo specifico. Gli sembrava che le sue
idee sfuggissero alla presa di un ragionamento rigido e conchiuso. A quel punto incontrò
Luigi Nono nella sua abitazione in Leibnizstrasse. Il compositore con la sua consueta
veemenza esponeva i suoi “terribili problemi compositivi” (come lui li definiva): Gargani lo
ascoltava e mentre Nono esponeva i suoi problemi, lui dentro di sé pensava ai propri; ma
il risultato finale fu che quando Gargani uscì dalla casa di Nono non aveva più alcun
dubbio sul fatto che avrebbe dovuto scrivere il suo testo sulla rammemorazione che lo
aveva folgorato passeggiando lungo il muro di Berlino. Salutandolo, Nono congedò
Gargani dicendogli: “sa, per me, la musica è un modo di pensare”. Gargani non avrebbe
mai più dimenticato quella frase. Si mise a scrivere, quasi in segreto, quello che poi
sarebbe apparso presso Laterza come Sguardo e destino. Negli anni successivi Gargani è
stato nominato Gast Professor all’Istituto di Filosofia dell’Università di Vienna, ha svolto
conferenze e seminari presso il Queen’s College di Oxford, alla Freie Universität, alla
Technische Universität di Berlino, nelle Università di Francoforte, di Brema e di
Oldenburg. Dal 2004 è membro ordinario del Wolfson College di Oxford. Nel 2005 ha
svolto un workshop al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Chicago insieme a James
Conant, Michael Kremer e Arnold Davidson dal quale è scaturito il suo ultimo volume
Wittgenstein, Musica, parola, gesto edito nel 2008 dall’editore Cortina nella collana
diretta da Giulio Giorello. Dall’anno accademico 2006-2007 Gargani insegna “Metodologie
della Ricerca Filosofica” per la laurea specialistica presso il Dipartimento di Filosofia
dell’Università di Pisa.
L’attività scientifica di Aldo Giorgio Gargani, che è documentata da un ampio numero di
pubblicazioni, fra volumi e saggi, ha molteplici direzioni di ricerca. Fin dagli anni della
Normale di Pisa si può constatare un prevalente interesse per la filosofia analitica
anglosassone e per il linguistic turn operato da Wittgenstein, temi verso i quali Gargani è
stato orientato dal linguista Giulio Lepschy (con Lepschy e con la sua compagna,
Annalaura Momigliano, entrambi docenti all’Università di Londra, Gargani ha intrattenuto
un rapporto di collaborazione in vari ambiti di ricerca, dal volume collettaneo Crisi della
Ragione, Einaudi 1979 ad un volume su Freud in corso di pubblicazione a Londra nel
2008). La linea predominante della ricerca condotta da Gargani risulta caratterizzata dalla
indagine sistematica e dai contributi su Wittgenstein, Ryle, Strawson, Austin, Dummett,
Quine, Donald Davidson, Rorty, Putnam, Brandom, Hacking, Nozick, documentata in
volumi e saggi, fra i quali Introduzione a Wittgenstein (Laterza), Lo stupore e il caso
(Laterza), Il filtro creativo (Laterza), Wittgenstein. Dalla verità al senso della verità
(Università degli Studi di Pisa) e da ultimo in Wittgenstein. Musica, parola, gesto (Cortina,
2008) ed altri in corso di stampa. In parallelo con questa linea di indagine, Gargani ha
sviluppato alcune ricerche nell’àmbito dell’epistemologia e della storia della scienza,
documentate fra altri saggi in Hobbes e la scienza (Einaudi), Il sapere senza fondamenti
(Einaudi) e nel volume collettaneo Crisi della ragione (Einaudi). Il sapere senza
fondamenti ha suscitato polemiche nella misura in cui è stato frainteso come una
minaccia alla consistenza e alla stabilità del sapere scientifico, laddove il testo di Gargani
è una reinterpretazione, basata su metodologie avvertite e avanzate di ricerca, delle
scienze
fisico-matematiche
sulla
base
di un’epistemologia
costruttivistica.
Un’epistemologia impregnata di ragioni antropologiche pertinenti al ruolo pragmatico del
linguaggio, secondo la quale gli oggetti scientifici sono tanto scoperti quanto inventati, a
partire da una strategia e da una concezione che dalla teoria dei modelli di Maxwell,
Hertz e Boltzmann pervengono fino a Wittgenstein e poi all’epistemologia promossa, fra
gli altri da Kuhn, Hanson, Goodman, Rorty, da un certo Putnam. Un’epistemologia
costruttivistica dunque che per la varietà e complessità dei fattori che intervengono
nell’edificazione del sapere scientifico assume la scienza come una thick description,
ovvero come una descrizione densa. A partire da Wittgenstein e dalla cifra culturalmente
complessa della sua opera, Gargani è stato indotto a sviluppare una serie consistente di
ricerche sulla cultura mitteleuropea e in particolare austriaca: si segnalano Il coraggio di
essere (Laterza), La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca (Laterza),
Ingeborg Bachmann, Il pensiero raccontato (Laterza). Si tratta in questi e altri testi di
ricerche impegnate sulle opere di H. von Hofmannsthal, Peter Altenberg, Hermann Bahr,
Robert Musil, Sigmund Freud, Ludwig Boltzmann, Ernst Mach, Karl Kraus, Arnold
Schönberg, Ingeborg Bachmann, Thomas Bernhard, traendone anche apporti per la
comprensione di alcune movenze fondamentali dell’opera di Wittgenstein. In sostanza,
Wittgenstein condivide con la moderna tradizione culturale austriaca la consapevolezza
della crisi di un modello universale di razionalità – quella che egli definisce ironicamente
“il super-ordine tra super-concetti” – e condivide l’idea di ristabilire un ordine fra i pensieri
attraverso legami intermedi (Zwischenglieder) tra le cose particolari, attraverso le loro
relazioni interne che non implicano una ragione assolutista e dogmatica. La “visione
perspicua” (ossia, connettente, relazionale e contestuale), che costituisce la missione
della filosofia secondo Wittgenstein, ha qualcosa in comune con la missione del poeta
secondo Hofmannsthal, ossia quella di diventare “il fratello fedele di tutte le connessioni”.
Nei suoi recenti studi Gargani ha posto l’accento sulla filosofia wittgensteiniana quale
strumento analitico destinato a rompere con qualunque forma di dogmatismo, di pensiero
unico e assolutistico e a ristabilire l’indagine filosofica quale campo di possibilità e
repertorio di applicazioni linguistiche alternative. In questo senso, il linguaggio non è una
struttura simbolica governata da regole rigide, in quanto esso risulta essere piuttosto una
prassi suscettibile di una varietà di interpretazioni alternative. Come scrive Wittgenstein,
“la regola non serve proprio a nulla: è la cosa spiegata, non la cosa che spiega”. Nel
volume Wittgenstein, Musica, parola, gesto (2008), Gargani ravvisa il nucleo essenziale
del lavoro filosofico di Wittgenstein nella caratterizzazione del linguaggio come gesto,
come fisionomia e suono preposizionale (Satzklang) . Il linguaggio parla per se stesso,
sulla base delle proprie risorse, e in questo senso esso non può essere spiegato o
ricondotto ad un fondamento ulteriore; esso è una certezza vivente, esso dice e
rappresenta di proprio pugno quanto dice. Nei suoi saggi, e in particolare in Il coraggio di
essere, Gargani ha messo in evidenza la dimensione etica dell’opera di Wittgenstein che
fin dal Tractatus logicophilosophicus è intimamente connessa alla ricerca logica,
semantica e estetica, nel senso che è soltanto attraverso l’esperienza dell’autenticità
morale che si può raggiungere la profondità della vita dello spirito e della verità. “Chi non
vuole discendere in se stesso perché è troppo doloroso, costui rimarrà alla superficie
anche nello scrivere”, soleva dire il filosofo austriaco; così come a Russell scriveva: “tu
penserai che sia una perdita di tempo questo almanaccare su me stesso, ma come potrei
essere un logico se non sono ancora un uomo?”. Gargani ha altresì illustrato la funzione
estetica operante nei testi del filosofo austriaco; quest’ultimo scriveva che riteneva di
aver fondamentalmente chiarito il suo rapporto con la filosofia dicendo che “la filosofia si
dovrebbe propriamente comporre poetando” (dichten). Appunto, la filosofia, osserva
Gargani sulle tracce di Wittgenstein, non è una teoria, non è un apparato teorico
sistematico, ma è un lavoro di scavo linguistico-concettuale destinato a dissolvere le false
idealizzazioni, i miti, le sublimazioni che scaturiscono da una erronea concezione della
prassi linguistica, dai fraintendimenti nei quali gli uomini filtrano la visione di ciò che
dicono e fanno. Anziché una teoria, la filosofia restituisce gli uomini ad una visione
corretta e consistente, fra altre possibili e fra loro alternative, del loro operare con le
parole, con i simboli e con gli strumenti intellettuali. Non un solo metodo esclusivo, ma
più metodi, più terapie per far comprendere agli uomini che essi talvolta credono di
pensare quando in realtà ospitano nella loro mente soltanto nonsensi.
Ma non basta. L’assunto che dirige i lavori di Gargani mostra che il modo più florido di
studiare gli altri pensatori non consiste in un’analisi fine a se stessa, in una chiarificazione
che per così dire ricade su se stessa come la linea di un circolo, bensì nello sviluppo
impensato dei contenuti e delle premesse che si trovano nell’opera di un altro pensatore.
Questo è il modo in cui, secondo Gargani, si riannodano tradizione e innovazione, questo
è il modo in cui la migliore comprensione di un maestro, di un pensatore morto consiste
nello svilupparne le idee, le predisposizioni, le tendenze, i significati virtuali verso nuovi
esiti. Ciò che è nuovo nasce da un modo diverso di leggere la tradizione, non rompendo
completamente con la tradizione. È quanto Gargani ha fatto con l’opera di Wittgenstein,
specificamente nel libro Il sapere senza fondamenti, pubblicato nel 1975 da Einaudi e ora
in corso di ristampa presso la casa editrice Mimesis, corredato da una penetrante
introduzione del filosofo americano Arnold Davidson (Università di Chicago).
GIULIO GIORELLO
Giulio Giorello è nato a Milano il 14 maggio 1945 da Carlo (assicuratore) e Wanda
Guastella (casalinga). Era appena finita la guerra e nei primi mesi di “pace” la zona dove
abitava la famiglia (nella parte orientale della città) era controllata dalla cosiddetta
Volante Rossa. L’antifascismo era tradizione di famiglia. La religione cattolica meno.
Giulio venne regolarmente battezzato, anche se la sua formazione rimase tipicamente
laica. In casa era radicato il gusto per la letteratura e per la musica. Le tradizionali fiabe
dell’infanzia (Andersen e i Fratelli Grimm) Giulio le ascoltava dalle donne (nonna e zia)
della linea paterna, quando, d’estate, trascorreva le vacanze nella dimora di campagna di
Le Carcare, nell’Alta Val Bormida (provincia di Savona). La madre gli raccontava le trame
dei poemi omerici e latini – ma anche la grande epopea dei popoli della Mesopotamia.
Così, il suo personaggio preferito non è stato Achille o, ancor peggio, il “pio” Enea, bensì
Gilgamesh lo “splendente” sovrano di Uruk, eroe per i Sumeri e gli Accadi, in lotta contro i
nemici del suo popolo e perfino contro se stesso alla ricerca del segreto della vita.
Da allora, la mitologia e la sua controparte scientifica, la cosmologia, non hanno mai
smesso di attrarre Giorello. A Gilgamesh dedicherà, anni dopo, una sezione del suo
Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito (Raffaello Cortina, Milano 2004): le altre
due sono dedicate a Prometeo e Ulisse, un dio condannato al dolore e un mortale che
rifiuta un’esistenza illimitata per tornare nel mondo degli uomini. Di suo, Gilgamesh
apporta la “esperienza della sconfitta”, avendo fallito nella ricerca dell’immortalità, ma
restando orgoglioso delle mura della sua città e della scrittura che tramanda le sue
imprese (come conclude Ezra Pound i Cantos: “Uomini siate, non distruttori”). Colpivano
la fantasia di Giulio, grazie ai libri regalati dai genitori, anche i protagonisti della storia:
da Alessandro Magno a Mehmet il Conquistatore, da Marco Polo ai grandi della Riforma –
Martin Lutero, Giovanni Calvino e soprattutto Enrico VIII d’Inghilterra. Ma non mancavano
i fumetti: da Topolino “libretto” (allora mensile) all’inossidabile Tex di Gianluigi Bonelli. È
da questo gioco di “mescolanze” – magari esasperando i contrasti – che Giorello ha tratto
l’impressione che la cultura non sia un “mestiere” noioso, bensì un piacere della vita.
Quanto alla musica, c’era una variegata collezione di dischi 78 giri, soprattutto di genere
operistico. Con gli ormai mitici microsolco entrarono in casa quelli che per Giulio sono
divenuti gli amici di sempre: Monteverdi, Buxtehude, Bach, Haendel, Mozart. Negli anni
Sessanta non poteva mancare il rock (Jerry Lee Lewis e Elvis Presley) e poi Johnny Cash,
Joan Baez, Bob Dylan e ovviamente i Beatles e i Rolling Stones. Ciò generava veri e
propri litigi con il fratello maggiore Sergio (nato dal precedente matrimonio di Wanda),
che era un fanatico del “bel canto” italiano. Ma è stato Sergio a fargli conoscere il
cinema: non solo i maestri del neorealismo, ma due grandi come Robert Bresson (Un
condannato a morte è fuggito) e Carl Theodor Dreyer (Dies Irae e Ordet). Non meno
importante era l’affascinante mondo del West: indimenticabile il John Ford di Sfida
infernale (dove Doc Holliday recita Shakespeare), Sentieri selvaggi e Soldati a cavallo
(per non dire di quel capolavoro “irlandese” che è Il traditore).
Per Giulio gli anni del ginnasio al Berchet di Milano sono stati funestati dalla mania
dell’insegnante di italiano per I promessi sposi. A Manzoni Giulio ha sempre preferito
Leopardi; ma si appassionava anche alla lettura di classici stranieri, tra cui William
Faulkner con Santuario, James Joyce con Ulisse e Vladimir Nabokov con Lolita (l’aver
ostentato durante un’ora di lezione una copia di quest’ultimo testo gli doveva procurare
un basso voto in condotta).
Il primo contatto con la filosofia risale al triennio del liceo: il suo testo preferito era l’Etica
di Baruch Spinoza, nella bella traduzione di Libero Sosio pubblicata da Paolo Boringhieri.
Con Sergio si appassionava a discutere le provocazioni di Bertrand Russell, in particolare
Perché non sono cristiano, salvo poi constatare che Sir Bertrand era anche uno dei grandi
innovatori della logica e dell’epistemologia. In quegli stessi anni “scopriva” filosofi
piuttosto eccentrici, almeno rispetto alle classificazioni dei manuali: da Thomas Paine e
Thomas Jefferson, i “risoluti ribelli” delle colonie nordamericane, a illuministi eversivi
come il Marchese de Sade (allora presentato, aggirando la censura, da intellettuali come
Elémire Zolla e Gian Piero Brega). Vi aggiungeva alcuni irregolari del pensiero come Franz
Kafka, Thomas Mann e Robert Musil. E nonostante fosse entusiasta dei poeti russi della
rivoluzione (Aleksandr Blok, Sergej Esenin e Vladimir Majakovskij) e gli piacesse esplorare
il complesso mondo di Antonio Gramsci, il suo poeta preferito restava il Pound dei Pisan
Cantos, nonostante che qualche pedagogista “democratico” esortasse a boicottare la
bellissima versione italiana di Alfredo Rizzardi pubblicata allora da Guanda.
Dopo la maturità (1964) la scelta di iscriversi a Filosofia all’Università degli Studi di
Milano venne determinata dall’impatto che gli aveva suscitato la figura di Ludovico
Geymonat, dal 1956 titolare della cattedra di Filosofia della Scienza in quell’ateneo. Giulio
aveva avuto modo di ascoltarlo (anche al Berchet); erano i tempi in cui Giorgio Strehler
metteva in scena al Piccolo Teatro la Vita di Galileo di Bertolt Brecht e pare che in certe
chiese della città si tenessero novene perché quell’opera non andasse in scena!
Geymonat, in una serie di interventi pubblici, doveva chiarire le differenze tra il
personaggio teatrale e il Galileo storico, focalizzando però il tratto comune: la passione
per la conoscenza del “maligno pisano” (il termine è di Carlo Emilio Gadda) che doveva
trasformare la concezione che l’uomo ha del proprio posto nel cosmo. Il rapporto con il
Piccolo Teatro era destinato a riprendere molti anni dopo quando Giorello ha collaborato
con Luca Ronconi e Sergio Escobar alla realizzazione di spettacoli e incontri teatroscienza, tra cui Infinities di John Barrow.
All’Università insegnavano Mario Untersteiner, mirabile studioso del pensiero dei
presocratici; Mario Dal Pra, che gli avrebbe fatto amare quel meraviglioso “scettico
spensierato” che fu David Hume; Ettore Casari, Maria Luisa Dalla Chiara e Corrado
Mangione, che spiegavano il mondo della logica; Enzo Paci, capace di coniugare insieme
Vico e Joyce, Mann e Husserl. L’influenza predominante per Giorello è stata quella di
Geymonat, di cui lo colpiva soprattutto l’impasto di tolleranza intellettuale e di
sentimento “partigiano”. A casa di Geymonat, in serate dense di fumo e di aroma di
grappa (anche se Giulio già allora preferiva il whiskey) si riuniva un indimenticabile
gruppo di amici (e talvolta, per le circostanze della vita, anche avversari, ma sempre
leali) tra cui Enrico Bellone e Silvano Tagliagambe, e poi Marco Santambrogio. È legata
alle discussioni di quel periodo la pubblicazione insieme a Bellone, Tagliagambe e allo
stesso Geymonat di Attualità del materialismo dialettico (Editori Riuniti, Roma 1974): il
marxismo ridotto a puro “materialismo storico” pareva agli autori un materialismo
“monco”, incapace di confrontarsi con la pratica scientifica intesa come uno dei più
potenti fattori di cambiamento; per di più, esso si rivelava sul piano della realtà effettuale
un ostacolo “illiberale” (nel senso etimologico, visto che, come amava dire Geymonat, la
libertà è per prima cosa libertà di cambiare). Quelle animate discussioni erano segnate
dall’evoluzione intellettuale di Ludovico: dal suo iniziale neopositivismo a una rinnovata
forma di materialismo dialettico. Le simpatie di Geymonat andavano più a Engels e a
Lenin che a Marx; e il coinvolgimento nel “Sessantotto e oltre”, che oggi è diventato così
di moda denigrare, significava per Giorello soprattutto un coinvolgimento nelle battaglie
per i diritti civili che hanno mutato il nostro paese. L’attenzione al rinnovamento del PCI
promosso prima da Luigi Longo, e poi da Enrico Berlinguer, non significava, però,
allineamento sulle posizioni del marxismo all’italiana; né, in particolare, adesione alla
riduttiva concezione dell’impresa tecnico-scientifica come pura “forza produttiva” o a
quella – cara per esempio a certi “fans” di Pietro Ingrao – del pensiero filosoficoscientifico come mera sovrastruttura ideologica. Meno che mai voleva dire sottomissione
acritica alle scelte del Partito Comunista in politica interna o in politica estera. E su
questo punto le posizioni di Giorello cominciarono a divergere da quelle della “scuola” di
Geymonat. Una menzione a parte, in tale contesto, tocca a Marco Mondadori, con cui
Giorello si legherà in una profonda intesa sul piano politico e su quello intellettuale.
Parallelamente a questa fase di impegno politico, procedeva la carriera scientifica. La tesi
in filosofia (1968) era dedicata a un problema della teoria del transfinito creata nella
seconda metà dell’Ottocento da Georg Cantor, più precisamente all’ipotesi del continuo,
che all’inizio degli anni Sessanta era stata affrontata dagli innovativi studi del logico e
matematico Paul J. Cohen. Su suggerimento di Geymonat – e nella convinzione che fare il
filosofo della scienza non abbia senso senza una qualche immersione nella pratica
scientifica – Giorello si iscrisse al Corso di Matematica dell’Università di Pavia, laureandosi
(1971) su una questione di analisi funzionale prospettata nel quadro della “analisi non
standard” ideata da Abraham Robinson. Pavia è stata l’occasione di conoscere docenti e
ricercatori di altissimo valore sia scientifico sia umano: Claudio Baiocchi (analisi
funzionale), Francesco Brezzi (analisi numerica), Niccolò Pintacuda (calcolo delle
probabilità). Ma il principale punto di riferimento è stato, anche in seguito, l’analista
Enrico Magenes.
Dopo aver insegnato per incarico Geometria alla Facoltà di Ingegneria di Pavia, Giorello
vinse nel 1975, a trent’anni, la cattedra di Matematiche complementari presso la Facoltà
di Scienze dell’Università di Catania. Nel 1978 fu chiamato a ricoprire la cattedra di
Filosofia della Scienza che era stata di Geymonat alla Statale di Milano e che occupa
tuttora. Giorello è convinto che la sua ricerca e il suo stesso stile di insegnamento molto
debbano al continuo dialogo con i suoi colleghi milanesi (in particolare il filosofo Carlo
Sini; lo storico Giorgio Rumi; il grecista Dario Del Corno; il fisico Elio Sindoni, passato poi
all’Università di Milano-Bicocca) e con i suoi allievi, di cui gli piace fare almeno il nome di
Michele Di Francesco (attento studioso del pensiero di Russell e oggi apprezzato filosofo
della mente) e di Corrado Sinigaglia, compagno di tante avventure intellettuali (un tempo
fenomenologo e oggi partner del gruppo di Parma dei “neuroni specchio” diretto da
Giacomo Rizzolatti). Un particolare sodalizio, misto di fallibilismo di Popper, teologia
puritana della Great Rebellion (1640-1660) e libertarismo nordamericano si è creato con
lo storico Pietro Adamo, con cui Giulio si è divertito a scrivere un pamphlet dal titolo
Quale Dio per la Sinistra? (Unicopli, Milano 1994), ove i due autori, pur senza crederci
troppo, proponevano di “arruolare” nella fila di chi ancora non si arrende allo “stato di
cose esistente” il Dio di Milton e di Cromwell.
Inizialmente in accordo con Geymonat, Giorello era dell’opinione che la storia della
scienza fosse il banco di prova della dialettica. Sono stati il confronto con i matematici, la
passione condivisa con Marco Mondadori per la filosofia di lingua inglese e per la
tradizione del pensiero liberale, e infine l’esperienza con lo storico Ruggiero Romano alla
redazione dell’Enciclopedia pubblicata da Einaudi (1977-1984) che lo hanno convinto che
la dialettica si spezza in mille frammenti e che nel labirinto creato dalle discipline
scientifiche non governa un’unica Ragione, ma una infinità di ragioni che nessun metodo
riesce univocamente a catturare. Giorello deve a Marcello Cini, pur tra le polemiche,
l’essere stato introdotto al pensiero di Imre Lakatos. La riflessione su questo matematicofilosofo (di cui ha curato l’edizione italiana di Dimostrazioni e confutazioni, Feltrinelli,
Milano 1979) e l’avvicinamento alle tesi di Contro il metodo di Paul Feyerabend
(Feltrinelli, Milano 1979), oltre che alla prospettiva fallibilistica del loro “maestro” Karl
Popper, lo hanno portato a staccarsi dalla concezione marxista e a valorizzare la
contrapposizione di “programmi di ricerca rivali” nell’impresa scientifica, enfatizzando il
pluralismo nella piena fioritura della società civile. La matematica ha rappresentato per
Giorello il modello di una crescita della conoscenza attraverso il rigore formale e la libertà
dell’intuizione, la forma più alta d’intellegibilità dei fenomeni naturali e umani, il terreno
privilegiato in cui superare la specializzazione, nonché la divisione tra “le due culture”. I
suoi principali riferimenti sono stati, in quel periodo, il bourbakista Jean Dieudonné e il
creatore della cosiddetta teoria delle catastrofi, René Thom, di cui ha pubblicato, con
Simona Morini, un libro-intervista (Parabole e catastrofi, il Saggiatore, Milano 1980).
Marcello Pera, che allora si dedicava alla filosofia della scienza, lo ha accusato di essersi
troppo facilmente “convertito” al fallibilismo di Popper e all’anarchismo epistemologico di
Feyerabend; una posizione quest’ultima, gli ha rimproverato Paolo Rossi, che non avrebbe
consentito nemmeno una “razionale” pedagogia. Per Giorello, però, la libertà è sempre
stata più importante di qualsiasi razionalità pedagogica (questo è stato il più profondo
insegnamento di Ludovico Geymonat). Quanto all’anarchismo, esso è coerente col miglior
illuminismo, quello per cui una persona matura rifiuta la tutela di qualsiasi maître à
penser (si ricordi che maître vuol dire tanto maestro quanto padrone).
Gli anni Settanta sono stati difficili per la società italiana in generale e per la Sinistra in
particolare. La scelta sembrava esclusivamente tra la prassi eversiva degli estremisti e la
quiescenza del PCI ai poteri forti. Per Giorello occorreva guardare altrove, ed è su questo
terreno che si sono consolidate l’amicizia e la collaborazione con Mondadori. Giulio
condivideva con Marco inizialmente l’ammirazione per il pensiero di Trotskij (ma non per i
trotskisti) e per lotte di liberazione che parevano anomale da un punto di vista
rigidamente marxista: da Malcolm X e le Pantere Nere USA alla coraggiosa resistenza del
popolo irlandese nelle sei contee dell’Ulster occupate dall’esercito britannico. In un clima
di diffuso conformismo marxista, Giorello e Mondadori riprendevano la lettera e lo spirito
del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill: “Ogni vincolo, in quanto vincolo, è male”. Le
posizioni di entrambi erano percepite sempre più come eretiche nell’ambito del PCI, a
cominciare dalla polemica suscitata da un articolo pubblicato su Rinascita (1979) e
intitolato “L’eclisse dei sistemi centrati”: sistema centrato è, in particolare, il modello
marxista, in teoria nella sua pretesa di ridurre qualsiasi sovrastruttura alla “struttura”
economica; in pratica con il primato del “centro” del partito su qualsiasi altra articolazione
della società. È stata l’esperienza editoriale con Ruggiero Romano a definire la
controparte culturale ed epistemologica dell’esperienza politica delle società senza
centro. L’Enciclopedia scardinava l’immagine della conoscenza come un albero, che
poggia su solide radici e poi conosce le più varie diramazioni, e proponeva l’immagine –
oggi familiare, ma allora rivoluzionaria – del sapere come rete di modelli spesso di
difficile connessione, talvolta apertamente rivali. Quegli anni aprirono una nuova fase di
riflessione, nella quale sono stati significativi per Giulio i rapporti intellettuali (e di
amicizia) con Fernando Gil, Jean Petitot, Krzysztof Pomian, René Thom e altri studiosi
appartenenti alla cerchia dell’Enciclopedia; ma anche gli interessi, coltivati con Marco
Mondadori e Simona Morini, per la concezione “soggettivistica” delle probabilità
propugnata da Bruno de Finetti, e per la teoria “neoutilitarista” creata dal futuro premio
Nobel per l’economia (1994) John Harsanyi. Di Bruno de Finetti Giorello curerà per
l’editore Cortina nel 2006, con il matematico Giordano Bruno e per iniziativa di Fulvia de
Finetti una delle prime opere filosofiche, L’invenzione della verità (originariamente 1934).
Fu soprattutto nell’ambito dei seminari promossi dalla Fondazione Feltrinelli di Milano per
iniziativa di Salvatore Veca che si aprì un serrato confronto tra i vari modelli di razionalità
scientifica e i programmi di scelta sociale. Pur all’interno della stessa concezione
“razionale” della politica, doveva delinearsi, alla fine, una spaccatura: mentre Veca,
Sebastiano Maffettone e la maggioranza dei partecipanti si affidavano alla teoria della
giustizia di John Rawls, Giorello, Mondadori e Morini sostenevano il neoutilitarismo – non
foss’altro perché l’impostazione rawlsiana privilegiando i diritti degli “svantaggiati” finiva
per produrre autentiche discriminazioni (per di più, in Italia ciò portava acqua al mulino
dell’assistenzialismo di matrice cattolico-comunista, così poco sensibile al valore del
merito individuale).
È in tale contesto che Giorello ha ripreso l’approccio dell’individualismo metodologico
come chiave di lettura sia dello sviluppo scientifico sia dell’analisi in campo politico e
sociale, considerando qualsiasi “collettivo” in nome del quale venga sacrificata la libertà
dei singoli nient’altro che un idolo. Proprio le “strutture” via via create dagli individui per
affrontare situazioni di rischio finiscono per rivelarsi tiranniche quando i soggetti coinvolti
dimenticano per quali fini erano stati creati quegli strumenti e ne fanno invece dei valori
assoluti. È qui che, per Giorello, l’esercizio della critica si rivela indispensabile – ed è
questo esercizio che definisce la responsabilità in una cornice libertaria. Qui va cercata la
motivazione che ha spinto Giorello a far sue alcune delle ragioni di popoli di cui ha visto
coartare le legittime ispirazioni a una reale indipendenza – dalla oppressione in Irlanda
all’eliminazione delle stesse possibilità di espressione in Euskadi (Paesi Baschi) – e a
ripensare l’esempio di personaggi che, pur apparendo ai loro contemporanei come
perdenti, hanno invece aperto nuovi orizzonti di libertà: dall’anarchico Buenaventura
Durruti, l’eroe della difesa di Barcellona e di Madrid (1936), a Bobby Sands e gli altri suoi
compagni di prigionia che si lasciarono morire di fame per rivendicare i diritti politici di
tutti i combattenti dell’Ulster (1981).
Andare a cercare la filosofia “nelle pieghe della scienza”, come diceva Geymonat,
significava da una parte l’impegno nella divulgazione e nella comunicazione scientifica,
dall’altra la vigilanza e la lotta contro ogni forma di assolutismo. È avendo in mente il
primo obiettivo che Giorello ha diretto insieme con Marco Mondadori la collana “L’impresa
scientifica” per il Saggiatore (Milano) e ha poi continuato una fruttuosa collaborazione con
la casa editrice che fu di Alberto Mondadori e che è oggi diretta con passione da Luca
Formenton. Particolarmente importante, in ambito editoriale, si è rivelato poi l’incontro
con Raffaello Cortina, per il quale Giorello dirige (validamente aiutato da tutta la
redazione) dal 1994 la collana “Scienza e idee”, giunta oggi a quasi 200 volumi e il cui
punto di fondo è, in breve, non quello di “avvicinare” semplicemente scienza e cultura,
ma di mostrare che la scienza è cultura.
Il secondo obiettivo era connesso alla convinzione che le modalità della ricerca e del
dibattito scientifico costituissero il miglior paradigma cui ispirarsi per regolare la dinamica
di conflitto-cooperazione in politica. Questo è lo spirito con cui si conclude il volume
scritto in collaborazione con Donald Gillies (Università di Londra) La filosofia della scienza
nel XX secolo (Laterza, Roma-Bari 1995); lo stesso spirito che ha informato non pochi
interventi di Giorello sulla stampa italiana (da riviste come MicroMega a quotidiani come
L’Unità, Il secolo XIX, La Stampa e, dal 1985, Il Corriere della Sera, di cui è editorialista).
Dalla pratica scientifica Giorello ha tratto il gusto di discutere le sue idee con amici e/o
avversari e di scrivere a quattro mani, come dimostra la collaborazione con Simona
Morini, quella più che ventennale con Marco Mondadori, prematuramente scomparso nel
1999 – e quella con Corrado Sinigaglia, per non dire dei libri scritti con Francesco
D’Agostino, Bruno Forte, Pier Luigi Gaspa, Umberto Veronesi. Ma ha sviluppato, intanto,
l’abitudine a muoversi in ambiti e paesi diversi: dall’Irlanda al Portogallo, dalla Francia
alla Scozia, dagli USA al Brasile. A Oxford, in Inghilterra, ha lavorato a lungo con amici
come lo storico Christopher Hill e il logico William Newton-Smith. Negli ultimi anni ha
ricoperto incarichi in altre sedi universitarie: Insubria (sede di Como), Urbino e,
attualmente, Politecnico di Milano e IUAV di Venezia. Ritiene che l’esperienza in facoltà
scientifiche riporti la fin troppo aerea filosofia con i piedi per terra e che la frequentazione
dei politecnici o il contatto con il mondo del design offrano l’occasione per misurarsi con i
problemi della tecnologia, che Giorello vede come una sorta di pensiero incarnato nella
realtà e grandissima fonte di emancipazione. Sta lavorando al tema della libertà umana
con il già fisico e oggi biologo Edoardo Boncinelli, nella convinzione che la questione non
si risolva in più o meno sterili contrapposizioni pro o contro il libero arbitrio: piuttosto, la
libertà è un portato dell’evoluzione che ha avuto tra i suoi esiti “una scimmia un po’ più
complessa delle altre”, capace di eludere i vincoli al proprio agire.
Il riferimento all’evoluzionismo non è casuale, visto che in molti ambienti “religiosi” (ma
non solo) si è scatenata una polemica assai dura contro l’eredità intellettuale di Charles
Darwin. Giorello ritiene che tutto ciò sia il sintomo più evidente di un’ostilità al tempo
stesso ottusa e determinata contro il diritto alla scienza che oggi dovrebbe invece far
parte del nucleo delle libertà fondamentali. Non si tratta della solita contrapposizione tra
scienza e fede. Dalla frequentazione con Carlo Maria Martini nell’occasione di due
“Cattedre dei non credenti” ha appreso che quella tra credente e non credente è una
linea di confine che non taglia la società, ma passa piuttosto attraverso la coscienza di
ognuno di noi. Si è Di nessuna chiesa (Raffaello Cortina, Milano 2005) non perché ci si
diverta a schernire questo o quel credo religioso, ma perché si rifiuta il settarismo per cui
i membri di una qualche chiesa vengono a godere per ciò stesso di iniqui privilegi. Il
rischio di dispotismo che corre qualsiasi società democratica è in primo luogo quello del
conformismo imposto magari per maggioranza, cui poi si possono aggiungere misure
liberticide in nome, poniamo, della sicurezza o della stessa economia. Questo è lo spirito
che informa il recentissimo volume di Giorello, il dialogo con Dario Antiseri e Silvano
Tagliagambe: La libertà. Un manifesto per credenti e non credenti (Bompiani, Milano
2008). È sua opinione che una società libera e aperta sia una conquista difficile, non
meno di qualsiasi audace teoria in fisica o in biologia, e che come tutte le conquiste rischi
di continuo di andar perduta. L’unica risposta alla sfida è a suo parere quella stessa del
repubblicano irlandese John Mitchel (1815-1875): “Non opprimere e non essere oppressi”.
Che abbia a che fare con i teoremi della matematica, con le ipotesi della fisica o con un
groviglio di miti che ci arriva dalla più lontana antichità, la “libertà filosofica” che già
veniva teorizzata dai Free Thinkers del Seicento si definisce sempre più come la capacità
di individuare, per queste figure dello spirito, nuove funzioni che ci rendano intellegibili
frammenti di realtà – ma senza alcuna pretesa di aver fissato una volta per sempre la
“vera” immagine del mondo. Da Figure del mito fino a Di nessuna chiesa o alla sua
rilettura di Bruno de Finetti, Giorello non esita a dichiararsi un empirista nella linea di
Hume e un pragmatista in quella di Peirce. Se questo gli vale l’accusa di “relativista”,
tanto meglio. Senza un soffio di relativismo si chiuderebbe la ricerca scientifica, non ci
sarebbe spazio per il dissenso e la società rimarrebbe bloccata in meccanismi puramente
ripetitivi. Altro che il dominio della tecnica o la “dittatura” dei relativisti! I veri apparati
coercitivi sono quelli che vengono impiantati nella coscienza dei singoli da coloro che
ritengono di sapere infallibilmente quel che è meglio per gli altri. Per Giorello non c’è una
corsia di accesso privilegiato alla verità; c’è solo il paziente lavoro che consiste, tanto
nella scienza quanto nell’esistenza quotidiana, nell’imparare dai propri errori e nel cercare
di migliorare le proprie credenze servendosi di quella particolare “logica” che è il calcolo
delle probabilità. Sotto il profilo sociale ciò può implicare la proliferazione di forme di
etica radicalmente differenti, ma tale proliferazione non è una disgrazia bensì un
vantaggio, se si riesce a trarre da questa libera concorrenza un franco riconoscimento del
disaccordo e, magari, la capacità di migliorare il proprio punto di vista.
Giorello ama quel passo di Umano, troppo umano di Nietzsche (II, § 75) dove si dice che
l’amore è semplicemente “capire e rallegrarsi che un altro viva, operi e senta in modo
diverso e contrario al nostro”. Sa bene che questo riconoscimento di una “molteplicità
irriducibile” nella società così come nella persona si dispiega solo in una democrazia di
conflitto – una sorta di guerra fra libertà contrapposte, ove il provvisorio equilibrio
raggiunto oggi può essere domani rimesso in questione. L’unico valore che egli riconosce
a qualsiasi mediazione è quello di aumentare la potenza dei singoli individui, altrimenti si
tratta soltanto di “sofisticheria e inganno”. Per Giorello è nella resistenza a strutture o
comunità prevaricanti sui singoli che si esercita la libertà: è qui che possiamo “sentire e
sperimentare di essere eterni”, per dirla con Spinoza ( Etica, Parte V, Scolio alla
Proposizione XXIII).
SERGIO GIVONE
Nato a Buronzo (Vercelli) l’11 giugno 1944, ha studiato a Torino sotto la guida di Luigi
Pareyson, discutendo con lui nel 1967 una tesi sulla ricezione contemporanea del
pensiero di Pascal. Dal 1976 al 1983 è stato docente di Estetica all’università di Perugia,
prima come incaricato e poi come ordinario (dal 1980). Dal 1984 al 1991 ha insegnato la
stessa disciplina all’università di Torino e successivamente in quella di Firenze. Nel 198384 e nel 1986-87 è stato borsista Humboldt presso l’università di Heidelberg. Ha tenuto
conferenze e cicli di lezioni in numerose università straniere, fra cui la Autonoma di
Madrid, la Sorbona di Parigi, la Standford University e l’università di Tokyo. Dal 2006 è
Pro-rettore dell’ateneo fiorentino. Ha pubblicato: La storia della filosofia secondo Kant
(1972), Hybris e melancholia (1974), William Blake (1978), Ermeneutica e romanticismo
(1983), Dostoevskij e la filosofia (1984), Storia dell’estetica (1988), Disincanto del mondo
e pensiero tragico (1989), La questione romantica (1992), Storia del nulla (1995),
Eros/ethos (2000), Il bibliotecario di Leibniz (2005). Si è dedicato anche alla narrativa,
pubblicando tre romanzi: Favola delle cose ultime (1998), Nel nome di un dio barbaro
(2002) e Non c’è più tempo (2008). Questo esito della sua attività intellettuale trova
spiegazione nell’idea di filosofia come interpretazione e quindi nell’attenzione costante e
privilegiata alla poesia e alla letteratura. In ciò è largamente riconoscibile l’influenza
esercitata sul suo pensiero dalle scuole di Torino (Pareyson) e di Heidelberg (Gadamer).
Profilo
Alla base del progetto di ricerca di S.G. ci fu inizialmente lo studio di Pascal (cui ha
dedicato la tesi di laurea) e di Kant (cui è intitolato il primo libro). Che una linea
intercorresse fra questi autori era la tesi avanzata negli anni Sessanta da Lucien
Goldmann, il quale parlò a questo proposito di “pensée tragique”. Ed è appunto il
pensiero tragico (cui guardava, sia pure in una prospettiva assai lontana da quella
goldmanniana, anche il suo maestro Luigi Pareyson) ad apparirgli già in quegli anni come
una sorta di concetto-guida cui si atterrà costantemente. Tragico in ogni caso è quel
pensiero che non pretende di eliminare le antinomie e di togliere le contraddizioni (vedi
ad esempio l’antitesi kantiana fra il mondo governato da leggi che configurano un
meccanismo universale e il mondo dove regna la libertà), ma semmai le assume al suo
interno e per così dire le sopporta. Pensiero “doppio”, ma non per questo insensato o
irrazionale.
Contemporaneamente S.G. andava esplorando altri momenti di particolare rilevanza e la
sua attenzione si fissava sul romanticismo europeo. Interessante e ricca di implicazioni gli
è sembrata fin da subito la riflessione dei romantici sull’arte e sulla religione, dove
esperienza artistica ed esperienza religiosa finiscono col rovesciarsi l’una nell’altra dando
luogo da una parte a un’estetica a carattere teologico e dall’altra a una teologia a sfondo
estetizzante. Ciò appartiene alla storia del movimento romantico e quindi si trattava
anzitutto di contribuire alla sistemazione critica di una tradizione tutt’altro che
consolidata. Ma in questione erano principalmente gli elementi di novità per certi aspetti
rivoluzionaria che l’identificazione di arte e religione (identificazione che è al centro
dell’opera di William Blake, cui S.G. ha dedicato la prima monografia italiana)
comportava. Due in particolare: e cioè il fatto che l’arte, pur restando saldamente
ancorata all’ambito della finzione e dell’apparenza, venisse investita di una valenza
rivelativa di tipo religioso, così come il fatto che la religione fosse sottratta ai propri
contenuti dogmatici e addirittura concepita come la dimensione per eccellenza della
libertà. Coniugare la religione con la libertà piuttosto che con la necessità e l’arte con la
verità piuttosto che con l’illusione: questa l’eredità che la rivoluzione romantica secondo
S.G. ha lasciato al pensiero contemporaneo.
Ma che cosa lega pensiero tragico e romanticismo? Questa domanda farà da filo
conduttore lungo tutto il percorso che va da Ermeneutica e romanticismo a La questione
romantica passando per Disincanto del mondo e pensiero tragico. Una risposta possibile è
che nell’ambito del pensiero tragico l’artistico e il religioso stanno e cadono insieme. Il
modello è pur sempre quello della tragedia greca, che è spettacolo e rito,
rappresentazione artistica e funzione religiosa poiché, come hanno mostrato fra gli altri
Vernant e Vidal-Naquet (e prima ancora Nestle), la tragedia costituisce la strategia
attraverso cui i Greci hanno fatto i conti con il loro passato mitico mettendolo in scena e
liberandosene criticamente fino a transitare dal mito al logos. Ciò non toglie che il senso
della coesistenza di arte e religione nel tragico vada colta a un livello più profondo. Dove
in gioco è non soltanto la crisi di un mondo (il mondo del mito e della stirpe) e il
passaggio a un altro mondo (il mondo della polis) ma la possibilità stessa di afferrare
concettualmente questo movimento. Il tragico è questa possibilità. Lo è se considerato
juxta propria principia e non in rapporto ad altro.
C’è stato infatti chi ha considerato il tragico come espressione di quella forma di retorica
e di sofistica che si costituisce opponendosi alla dialettica. Pensatore tragico per
antonomasia da questo punto di vista sarebbe Gorgia, il quale nel celeberrimo Encomio di
Elena ma più ancora nell’Apologia di Palamede rivendicò le ragioni di un sapere che
diffida della separazione di vero e falso, perché è nell’intreccio di vero e falso e nel
verosimile che devono essere cercati i moventi delle azioni umane. Tragicamente,
all’uomo non resterebbe che decidere in assenza di una verità fondante e dirimente. Ma
davvero il tragico comporta la rinuncia alla verità? Non è piuttosto una verità
inoggettivabile e sfuggente, ma pur sempre verità, quella che getta la sua enigmatica
luce sul tragico? In un frammento a lungo attribuito a Gorgia, in realtà euripideo, si dice
non già che della verità non ne è più nulla, ma che la verità “può essere qui in un modo e
là nell’altro”.
E c’è anche chi ha sostenuto che il tragico sta interamente nel segno di un irriducibile
antiplatonismo. Perciò il pensiero che pensa il tragico sarebbe un pensiero
fondamentalmente dualistico, pensiero del due anziché dell’uno. Aiuta a capire questo
aspetto una testimonianza di Diogene Laerzio, secondo il quale Platone avrebbe optato
per la filosofia compiendo un atto formale di abiura della tragedia che pure amava
appassionatamente. Una assoluta incompatibilità contrappone filosofia e tragedia. La
filosofia è basata sul principio di non contraddizione. Essa presuppone la possibilità di
giudicare. E giudicare significa: separare vero e falso, bene e male, colpa e innocenza.
Cosa ne sarebbe della filosofia (e del buon ordinamento dello Stato, che la filosofia deve
garantire) se colpa e innocenza coesistessero nello stesso soggetto? Platone esclude che
la verità sia in se stessa contraddittoria. E in effetti la verità non può essere tale. Pena la
distruzione dell’idea stessa di verità. Verità che si contraddice è verità che si nega. Ma a
che cosa allude propriamente il pensiero tragico? Non già a una verità contraddittoria sul
piano logico, ma a una verità in grado di assecondare e di illuminare la contraddittorietà
che è nel cuore del reale e dell’essere. Qui si tratta di un sapere che ben lungi
dall’identificare logica e ontologia, com’è inevitabile a partire da Parmenide e come
accade in Platone, invece tiene l’una e l’altra rigorosamente separate.
Perciò secondo S.G. il pensiero tragico è una modalità filosofica che ha caratteri suoi
propri e un suo specifico stile. Si tratta di un sapere che adotta gli strumenti tradizionali
della filosofia (in particolare la dialettica e la retorica), ma non si attiene ad essi,
ponendosi come sapere di confine o addirittura sconfinante: verso le regioni dell’arte e
della religione. È trasgressore, nel senso letterale del termine. Non rispetta l’interdetto di
Parmenide, che proibisce di pensare il nulla. Questo sapere non contesta il fatto che il
nulla sia impensabile, pena la contraddizione. Però come insegna Plotino (il neoplatonico
Plotino!) assume il nulla, per quanto impensabile, come condizione di pensabilità
dell’incondizionato e dell’assoluto. E quindi della libertà. La libertà infatti o è senza
fondamento, o non è. Ma quel che vale per la libertà vale anche per l’uno, ossia per il
bello-vero-bene, che (è sempre Plotino a farlo notare) può essere attinto solo per via
negativa, secondo il principio additato da Platone nel Sofista: “non questo, non quello,
ma...”. Il bello, il bene, il vero, non coincidono mai con la loro oggettivazione, e tuttavia
sono assolutamente quel che devono essere, come dimostra il fatto che li riconosciamo
anche senza averli mai incontrati prima.
Il nulla (non “il nulla che sta in basso”, direbbe ancora Plotino, ma “il nulla che sta in
alto”) è dunque la stella polare del pensiero tragico. Ed è facendosi guidare da tale
concetto assai problematico che il pensiero tragico si inoltra nelle regioni dell’arte e della
religione: dove religione significa essenzialmente libertà dello spirito e arte a sua volta
fonte di conoscenza. Di paradosso in paradosso. Fino a scoprire per esempio che l’uomo è
tenuto a rispondere anche di ciò che pesa su di lui come qualcosa di fatale o come un
destino. O fino a riconoscere che il detto oraziano poi ripreso da Vico coglie nel segno:
per mendacia poetae veritatem… Si esce così dal tracciato e si penetra in una dimensione
metafilosofica che però non sconfessa la filosofia ma al contrario la esige e la conferma.
Nozioni come quella greca di colpa tragica (amartia) o quella cristiana di peccato esulano
dall’etica. Infatti si lasciano comprendere solo a partire da una dimensione religiosa.
Eppure l’etica non può ignorarle. Analogamente si dirà che tradurre i contenuti di
un’opera letteraria o artistica in asserti filosofici è del tutto fuori luogo. Ma tutto ciò
anziché sminuire il valore conoscitivo dell’arte porta invece a confermarlo.
Si situa in questo contesto la Storia del nulla, apparsa nel 1995 e quindi in un momento
che vedeva al centro del dibattito filosofico europeo e specialmente italiano il tema del
nichilismo. Per S.G. il nichilismo è l’epifenomeno di un più vasto movimento di pensiero,
l’ontologia del nulla, volto a interrogare e a mettere in questione ciò che la filosofia
occidentale aveva censurato e dichiarato impensabile. Mentre per il nichilismo il nulla è
semplicemente un fatto, così come un fatto è il divenire (dal nulla al nulla), invece per
questa paradossale ontologia o “meontologia” il nulla è un problema. Ma che cosa
significa problematizzare il nulla, interrogarlo, metterlo in questione? Significa fare ciò che
metafisica, logica e scienza, che da questo punto di vista non presentano alcuna
discontinuità ma sembrano derivare l’una dall’altra, si rifiutano di fare. Da una parte
l’impensabilità del nulla è il fondamento tanto della metafisica quanto della logica e della
scienza moderna. Dall’altra pensare a partire dal nulla è la condizione per pensare quel
che la scienza sostanzialmente ignora, quel che la logica in fondo nega e quel che la
metafisica aggira: il male e la libertà, anzitutto.
Assumendo il nulla come un fatto e non come un problema, il nichilismo non può più
nascondere il suo carattere strumentale e ideologico. Il nichilismo è la cattiva coscienza
di un’epoca che crede ciecamente nel dominio totale della tecnica e che considera
destinate all’irrilevanza le questioni che non sono di pertinenza scientifica e che invece
l’ontologia del nulla pone in primo piano. Non è un caso che il nichilismo si configuri come
una filosofia della storia blandamente progressista, dove c’è spazio per la liberazione
dagli imperativi morali e dagli assoluti ma non ce n’è alcuno per la libertà e per il male.
Quello che il nichilismo compie è un esorcismo. Evoca il nulla per annullarne il potenziale,
per ridurre il nulla a nulla. E cioè a mero presupposto della negazione, in forza della quale
la caducità e la stessa morte vengono elevate al rango di valori o quantomeno di
presupposto perché i valori ci siano. Insomma, anche per il nichilismo il nulla resta
impensato. Donde l’opportunità di opporre ad esso una autentica ontologia del nulla.
Per far ciò occorre decostruire il nichilismo, portarne alla luce il lato in ombra,
smascherarne gli aspetti evasivi, illusori, ingannevoli. L’opera di Dostoevskij rappresenta
sotto questo aspetto una formidabile occasione interpretativa e un contributo decisivo
alla messa a punto della questione. Ed è in questa chiave che S.G. ha proposto una
lettura filosofica del grande scrittore russo. Ma quale Dostoevskij? Dostoevskij critico ante
litteram di Nietzsche. Ciò non deve sorprendere né implica alcuna forzatura. È stato
Dostoevskij stesso, come Nietzsche avrebbe riconosciuto per primo, a prefigurare i grandi
temi nietzschiani, prospettandone gli esiti catastrofici e portandoli oltre la soglia dove
essi non possono che confutarsi da sé. Si pensi specialmente al superuomo: sia nella sua
variante “forte” sia nella sua variante “debole”. Nel primo caso (Raskolnikov) la morale
utilitaristica è superata nell’al di là del bene e del male, e lì viene ridotta a pratica sociale
ormai obsoleta; ma con ciò l’orrore e la menzogna che sono insiti in questa pretesa
vengono inesorabilmente smascherati. Nel secondo caso (Versilov) la décadence come
destino storico è una vera e propria condizione trascendentale dell’essere al mondo, in
quanto la consumazione e la dissipazione di ogni cosa mediano il prodursi di un senso
possibile della vita umana; ma che il negativo venga considerato esclusivamente in
funzione affabulatoria nasconde una perfetta mistificazione. Come si vede, Dostoevskij
anticipa prospettive e ipotesi che Nietzsche non esiterà a far sue, non tanto ricavandole
da Dostoevskij ma riconoscendole tipicamente dostoevskiane post factum e cioè
avendole elaborate in piena autonomia. Con una differenza sostanziale: se Nietzsche vi
aderisce pienamente, Dostoevskij invece le mette a nudo e le affonda. Per restare ai due
punti sopra ricordati: il superuomo che pensa di poter lasciarsi alle spalle la “morale del
gregge” ignora che a far cadere l’uomo nel male è precisamente la sua illusione di essere
al di là del bene e del male, così come il superuomo che fa sua la “filosofia sperimentale”
propria di chi assume e dismette a piacimento fedi, concezioni, stili di pensiero in realtà è
un nichilista fatuo e distruttore, incapace d’altro (come Stavroghin) che di mettere la sua
non comune energia intellettuale al servizio del nulla.
Lo studio di Dostoevskij, non diversamente da quanto accaduto in precedenza con
William Blake, ha permesso a S.G. di puntualizzare una questione che si è spesso
ripresentata nei suoi scritti, ossia quella riguardante il potenziale conoscitivo della
letteratura e più in generale dell’arte. Di fronte a Dostoevskij impossibile non vedere
come la sua opera apra orizzonti di pensiero del tutto nuovi e dia luogo ad
approfondimenti etico-religiosi ancora da valutare nella loro enorme portata. Si pone qui
il problema: come intendere questo “sapere” e quale il suo rapporto con la filosofia? È
evidente che non si ha qui a che fare con una filosofia larvata, filosofia in maschera, che
attraverso il gioco dialogico dei personaggi lasci affiorare un certo sguardo sul mondo,
una teoria speculativa, un complesso sistematico di tesi filosofiche. E neppure si ha a che
fare con un’anti-filosofia, ossia col dissolvimento della possibilità stessa d’un punto di
vista superiore che ricomponga in unità di senso la complessità del reale. Certo è che si
tratta d’un sapere intraducibile. Qualunque tentativo di trasporlo da un linguaggio a un
altro, per esempio dal linguaggio dell’arte al linguaggio della filosofia, è destinato al
fallimento. Nessun compromesso è possibile. Solo predisponendoci ad ascoltare quel che
l’arte ha da dire in quanto arte, ci è dato di penetrare nel cuore del segreto extra-artistico
che l’opera, ogni opera, porta in sé. Viceversa, non c’è traduzione dell’opera che non
l’impoverisca o la svuoti di significato.
Che l’arte sia conoscenza, può essere affermato solo se si comprende che l’arte è una
forma conoscitiva di tipo particolare, ossia un conoscere che è prima ancora se non
principalmente un fare. Naturalmente vale la reciproca. L’arte è un fare, ma un fare che
mette capo a un vero e proprio mondo: nel quale ognuno può sentirsi a proprio agio o a
disagio, scoprirvi una patria o un luogo utopico, inoltrandosi in esso come lungo i sentieri
di un’avventura conoscitiva. Incontriamo qui una delle maggiori questioni dell’estetica,
che continuamente si ripropone. Nel Novecento in Italia abbiamo avuto una grande
estetica del conoscere (Croce) e una grande estetica del fare (Pareyson). Ma così come
l’estetica del conoscere, pur ascrivendo l’arte all’ambito teoretico ne ribadisce con forza
l’“autonomia” e quindi la peculiarità, per converso l’estetica del fare concepisce il fare
artistico in termini di produzione, di formazione, anzi di “formatività”, e tuttavia identifica
in ogni singola forma un intero universo da scoprire e da interpretare. Vien da chiedersi
se non sia venuto il momento di compiere un passo ulteriore: verso un’estetica che sia
insieme un’estetica del fare e un’estetica del conoscere. Con ciò verrebbe raccolta
l’eredità che più ci appartiene, quella vichiana, per cui l’uomo non conosce se non
facendo, e non fa se non conoscendo, ossia sapendo quel che fa. Vico nostro
contemporaneo, che pensa la verità in rapporto non solo con il factum ma addirittura con
il fictum.
Prospettive future
Quali prospettive apra una filosofia dell’arte in grado di incrociare estetica del fare ed
estetica del conoscere è questione in cui ne va dell’idea stessa di filosofia. È quanto S.G.
ha suggerito nel suo saggio più recente, Il bibliotecario di Leibniz. Che cos’è filosofia per
noi, oggi? Che cosa può ancora essere? A questa domanda elementare, che
imbarazzerebbe più di un filosofo, Leibniz dette una risposta precisa: è “il grande
romanzo della vita”, è la storia (la sola storia vera) in cui tutti i conti alla fine tornano, è il
sapere capace di giustificare tutto ciò che accade. Naturalmente Leibniz non ha mai
scritto questa storia. Non lo ha fatto perché non poteva farlo, in quanto il suo punto di
vista era saldamente ancorato al finito. Ma c’è stato chi, ponendosi dal punto di vista
dell’assoluto, si è assunto tale compito: e chi, se non Hegel? Con Hegel la filosofia della
storia ha celebrato il suo maggior trionfo e conosciuto la sua peggior disfatta. Noi, eredi
di un hegelismo minore, ossia un hegelismo che rinunciando all’autocoscienza ha perduto
la sua bussola, siamo condannati a navigare a vista. La prima nozione a cadere è stata
quella di verità.
Eppure qualcuno ha creduto di poter portare a compimento l’incompiuto progetto della
filosofia. Lo ha fatto con la certezza della realizzazione di un antico sogno: mettere a
disposizione della filosofia un linguaggio perfetto, vale a dire perfettamente formalizzato,
che eliminasse alla radice la possibilità dell’errore, dell’inganno e dell’autoinganno.
Questo sogno sognato a partire da Wittgenstein ha un nome: “purificazione linguistica”.
Puro, inequivoco, a suo modo assoluto, deve essere il linguaggio della filosofia, se vuole
essere linguaggio capace di verità (il solo che lo sia). Altrimenti per la filosofia non
sembra esserci nessuna speranza. O la filosofia si fa trasparente alla verità, o scade a
favola, a chiacchiera, a racconto mitologico. Poco importa che alla filosofia fattasi
perfettamente trasparente resti poco da pensare: in fondo, com’è inevitabile, in ogni
forma più o meno esplicita di parmenidismo, null’altro che l’identità dell’essere con se
stesso. L’essere è: solo questo è dicibile secondo verità. Il resto sia rimosso e
abbandonato a se stesso. La verità vale questo sacrificio.
Appare degno di nota come due prospettive come quelle appena menzionate rivelino una
singolare parentela. Sia l’una sia l’altra in nome della verità (in nome della sola storia
vera, l’una, in nome del solo linguaggio veritativo, l’altra) condannano senza appello tutto
ciò che non si uniforma a questo ideale di conoscenza. E se niente e nessuno ci
autorizzasse a comportarci così? Se, come hanno sospettato Hilary Putnam e Hans
Blumenberg, in questo atteggiamento dovessimo ravvisare un vero e proprio odio per ciò
che l’uomo ha di più propriamente umano, per la molteplicità inesauribile delle voci e
delle storie, per il mondo della vita? Proviamo a rovesciare lo sguardo. Diamo la parola al
mondo della vita. Ascoltiamo le voci e le storie. E magari, che la filosofia da amore per il
sapere diventi amore per il vivente. È probabile che per la filosofia si aprano scenari
promettenti. Ma soprattutto è certo che scrivere romanzi non apparirà più come una
evasione dalla filosofia.
TULLIO GREGORY
Filosofo e storico della filosofia italiano, nato a Roma il 28 gennaio 1929. Durante gli anni
del liceo inizia a collaborare con E. Buonaiuti; è successivamente allievo di P. Carabellese,
C. Antoni e B. Nardi, presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Laureatosi in filosofia
sotto la direzione di Nardi (1950) diventa suo assistente (1950-1955) e, nel 1955,
consegue la libera docenza in Storia della Filosofia Medioevale. Dal 1956 è professore
incaricato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, ove resta anche come
professore ordinario di Storia della Filosofia Medioevale (dal 1° genn. 1962) e poi di
Storia della Filosofia (1967).
Nel 1964, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma fonda, insieme a
T. de Mauro, il Gruppo di Studio per il Lessico Intellettuale Europeo che il 1° agosto 1970
diventa Centro di Studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche (LIE) presieduto da E.
Garin e di cui G. assume la direzione (nel 2001 il Centro si fonde con il Centro di Studio
del Pensiero Antico, fondato da G. Giannantoni, costituendo l’ILIESI, Istituto per il Lessico
Intellettuale Europeo e Storia delle Idee).
Collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani) dal 1951, è poi
responsabile per la Storia della filosofia e del cristianesimo del Lessico Universale Italiano
(1968).
Nel 1980 fonda e dirige, insieme a Paul Dibon, la rivista Nouvelles de la République des
Lettres, che dal 1996 dirige con M. Fumaroli e M. Fattori. Sempre nel 1980 diventa
membro del Consiglio Scientifico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, responsabile
delle sezioni di Storia della filosofia e delle religioni; è inoltre condirettore, con Ignazio
Baldelli, della Appendice V dell’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere e arti.
Successivamente, dirige l’Enciclopedia della moda, la VIa e la VIIa Appendice (XXI
Secolo).
Membro del Consiglio Scientifico dell’Institut de la Langue Française e Directeur d’Études
presso l’École Pratique des Hautes Etudes – Sorbonne (1975-76; 1976-77 nella Ve section,
Sciences Religieuses; 1985-86 nella IVe section, Sciences Historiques et Philologiques), è
stato inoltre Professeur nella Sorbonne (1986-87; 1993-94) e titolare della Chaire
Internationale Blaise Pascal presso il Collège de France (1998). Nel 1988 è stato
nominato Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres (République Française) e, nel 1996,
Doctor honoris causa dell’École Pratique des Hautes Études (Paris-Sorbonne). Membro del
Bureau della Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie Médiévale, ne è stato
presidente dal 1987 al 1992.
Socio nazionale dell’Accademia Nazionale dei Lincei e dell’Accademia Pontaniana, è
altresì membro del Comitato direttivo del Centro di Studi per l’Alto Medioevo e del
Consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze. È Fellow
della British Academy di Londra, dal 1991, e dell’American Academy of Arts and Sciences,
dal 1995.
Membro del Consiglio di Amministrazione della Rai-TV (1993-94) ha presieduto varie
commissioni ministeriali (MIUR) ed è membro del Consiglio Superiore per i beni culturali e
paesaggistici presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Membro del Consiglio
Scientifico del Dipartimento Identità Culturale del CNR, dal 2006. Nel 2002 è stato
nominato Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana.
Forme di conoscenza e ideali di sapere nel Medioevo
Formatosi sotto il magistero di E. Buonaiuti e poi di B. Nardi, G. incentra le sue ricerche
sul pensiero cristiano medievale, privilegiando momenti di passaggio e di rinnovamento
culturale (il platonismo dei sec. XI e XII, la sintesi eriugeniana nel sec. IX) studiati senza
indulgere alle semplificazioni interpretative prevalenti, di impianto sostanzialmente
idealista o neotomista. Nel solco di una storiografia filosofica di saldo impianto storico, G.
privilegia il rigoroso confronto con i testi e le fonti di cui propone un’esegesi sempre
fortemente legata ai diversi contesti culturali. Gli studi sul platonismo e sul naturalismo
della Scuola di Chartres, già argomento della tesi di laurea, confluiscono, nel 1955, nel
volume Anima mundi: la filosofia di Guglielmo di Conches e la Scuola di Chartres (Firenze,
Sansoni), accolto con grande attenzione dalla comunità scientifica; cui seguono due
raccolte di studi dedicati alla tradizione platonica medievale: Platonismo medievale, studi
e ricerche (Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, “Studi Storici”, fasc. 26-27,
1958) e Giovanni Scoto Eriugena, tre studi (Firenze, Le Monnier, 1963). Contrario a ogni
tentativo di ridurre a sistema l’opera dei filosofi, attento piuttosto a mettere in evidenza
le componenti diverse, le tensioni irrisolte, avverso anche alla pretesa di delineare un
corso omogeneo del pensiero filosofico al punto di respingere l’idea stessa di una
presunta ‘unità’ della filosofia, G. preferisce linee di ricerca ove anche le varie posizioni
filosofiche – con le loro connessioni con la riflessione teologica (G. respinge la dicotomia
filosofia/teologia imposta dalla storiografia neotomista) – fanno parte di una più ampia
storia della cultura. Con il volume Anima mundi, G. scrive la prima monografia su uno dei
grandi momenti della nuova cultura del sec. XII evidenziando le diverse posizioni dei
maestri di Chartres sia in rapporto alle loro fonti (soprattutto platoniche) sia nelle loro
originali acquisizioni, fondate sulla ricerca di una ratio nutrita soprattutto dal Timeo e dai
testi della tradizione tardo antica (dall’Asclepio a Macrobio). Senza indulgere al tema
della ‘rinascita’ del sec. XII, G. mette in rilievo l’originalità di posizioni filosofiche e
teologiche maturate in un contesto di nuovi rapporti culturali con tradizioni perdute.
Studia altresì il significato dell’esegesi e della logica di Abelardo; nel volume su Giovanni
Scoto si impegna a chiarirne il pensiero in base alle fonti neoplatoniche (attraverso lo
pseudo-Dionigi e i padri greci) mostrandone le radicali novità nel contesto del sec. IX: il
tema della processio e della reversio, l’escatologia e una filosofia della storia al cui centro
è l’incarnazione. Analizza, attraverso inediti o testi poco studiati quali l’Opusculum di
Manegoldo di Lautenbach, le riflessioni scientificofilosofiche che permettono alle teologie
cristiane di fondarsi contemporaneamente sul Genesi e sul testo timaico, con il commento
di Calcidio e interpretato per involucrum. Se opera dello storico, per G., è anzitutto
‘disarticolare’ ogni presunta ‘sintesi’ e ‘organicità’ nell’opera dei vari pensatori, netto è il
suo rifiuto di categorie interpretative metastoriche e unificanti: alla filosofia preferisce le
filosofie nella loro irriducibile molteplicità; alla ragione, le varie ragioni, ossia i modi
diversi di interpretare il rapporto dell’uomo con il mondo delle sue esperienze come
ciascun pensatore lo ha concepito (onde il valore della ratio mystica, dell’interpretazione
allegorica, della mentalità simbolica, ecc.), così da storicizzare radicalmente anche il
rapporto fra filosofia e teologia, rifiutandone un’intemporale distinzione (in polemica con
la storiografia neoscolastica) ma individuando momenti diversi che vedono ora coincidere,
ora disarticolarsi i modi diversi di esercitare la riflessione razionale sui dati dell’esperienza
religiosa che circoscrive e condiziona tutto l’universo del pensiero cristiano. Secondo
un’originale prospettiva storica, G. attua una proficua e innovativa composizione di
metodi ove accanto alla lezione filologica ‘positivistica’ si collocano il rinnovamento degli
studi teologici (principalmente patristici) promosso da scuole quali Le Saulchoir o LyonFourvière, e una metodologia storicistica esemplarmente rappresentata da E. Garin (già
presente nei ringraziamenti conclusivi del volume del 1955) e teorizzata nelle coeve
riflessioni che quest’ultimo consegna a La filosofia come sapere storico (1959; 19902).
Basta scorrere le note a piè di pagina dei testi di G., fin da Anima mundi, per vedervi,
oltre agli aggiornati impianti storico-filosofici (che includono, per es., E. Cassirer e R.
Klibansky), la vasta e fondamentale accoglienza dei testi di de Lubac, Chenu, Daniélou,
von Balthasar; i riferimenti a K. Barth e a R. Otto come ai lavori di F. Cumont sulla storia
delle religioni e ai testi di Festugière sull’ermetismo (G. è fra i primi in Italia a utilizzare la
Révélation d’Hermés Trismégiste anche come testo per i corsi universitari). L’approccio di
G. all’interpretazione delle filosofie cristiane del Medioevo, gli consente di trasferire sul
piano del lavoro storico strumenti approntati da teologi, biblisti, filologi ed esegeti. In tale
prospettiva G. offre una vigorosa proposta di rinnovamento degli studi medievali oltre che
nel metodo anche nei temi e negli oggetti di studio, insistendo sulla ricchezza e sulla
molteplicità delle tradizioni di pensiero e valorizzando problemi spesso emarginati da
certe tradizioni storiografiche (dalla cosmologia all’escatologia, dal metodo allegoricoteologico applicato all’interpretazione dei fenomeni naturali alla centralità del problema
astrologico nella scolastica del sec. XIII, per dir solo di alcuni dei temi affrontati).
Nel 1965, presso l’editore Armando di Roma, pubblica il commento e la traduzione del De
magistro di Tommaso d’Aquino e nel 1976 viene pubblicato il vol. VI della Storia della
filosofia diretta da M. Dal Pra presso l’editore Vallardi (Milano) per la quale G. redige la
parte relativa al sec. XIII, per l’editore Laterza scrive, oltre al vol. II della fortunata Storia
della filosofia, edita dal 1973 con F. Adorno e V. Verra, la parte relativa alla filosofia
cristiana e medievale del vol. I (volumi ampliati, nella nuova edizione, a partire dal
1996). Nel 1985 cura l’organizzazione e gli atti del Convegno internazionale del LIE I
sogni nel Medioevo. Seminario internazionale (2-4 ottobre 1983) incentrato sui legami fra
divinazione, sogni e teorie mediche, scientifiche e metafisiche fra Antichità e Medioevo e
in cui G. è autore del saggio I sogni e gli astri. Accanto alle esposizioni generali, G. dedica
precisi e ricchi contributi ad aspetti e temi specifici del pensiero medievale il cui
precipitato è raccolto nei volumi Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura
medievale (Roma, 1992) e Speculum naturalis. Percorsi del pensiero medievale (Roma
2007). La tradizione platonica, Abelardo, l’escatologia di Scoto, Tommaso e Bonaventura,
lo statuto della teologia, della filosofia della natura e dell’astrologia: sono soltanto alcuni
dei temi mediante i quali G. scompone rassicuranti sintesi storiografiche, indicando la
plurivocità delle culture del Medioevo e la molteplicità delle filosofie. Il tredicesimo secolo
trova in Aristotele e nei suoi commentatori arabi i fondamenti di una scienza astrologica
che appartiene anche alla cultura teologica, attentamente esaminata. G. dedica inoltre
molti studi alla concezione della natura nel Medioevo, ove in particolare è da sottolineare
l’analisi del passaggio da una lettura simbolica e allegorica delle realtà naturali (che,
insiste, sono forme di conoscenza, non generiche sovrastrutture) a una elaborazione
dell’idea di natura come “causarum series”, nesso, regula, sotto l’influenza prima (sec.
XII) della lezione timaica, poi, più decisamente, per la determinante influenza della fisica
aristotelica che imprime una svolta radicale al pensiero filosofico e teologico lungo i secc.
XIII-XIV. Molteplici e variegati sono i “percorsi del pensiero medievale”, come recita il
sottotitolo del volume del 2007, ove a partire dallo spazio inteso come “geografia del
sacro”, dal tempo concepito entro la linearità della storia in senso cristiano ma anche
sottoposto alla circolarità astrologica dei cieli, dal rapporto fra natura e qualitas
planetarum si giunge all’analisi del rapporto fra la “cosmologia biblica” e le molteplici e
diversificate “cosmologie cristiane” che ne derivano e pretendono di esplicarla, a partire
dalla Tarda antichità e fino all’Età moderna. Una continuità di analisi che dal dato
scritturale ed esegetico arriva fino al sorgere della scienza moderna, raccordando storia
della filosofia e esegesi scritturale, presente ancora nel saggio del 2007, Le acque sopra il
firmamento, genesi e tradizione esegetica presentato a Spoleto in occasione delle
giornate di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (aprile 2007).
La genesi della ragione classica
Dai primi anni Cinquanta, G. estende le sue ricerche anche al Rinascimento e all’Età
moderna, prima con saggi di storia della storiografia (1952-53) e con l’edizione di testi
inediti di F. Patrizzi (1955), poi con il volume Scetticismo ed empirismo. Studio su
Gassendi (Bari, Laterza, 1961), con l’ampio capitolo relativo all’Aristotelismo
rinascimentale pubblicato nella Grande enciclopedia filosofica (Milano, Marzorati, 1964,
vol. VI, pp. 607-837), la serie di articoli Studi sull’atomismo del Seicento, pubblicati nel
“Giornale Critico della Filosofia Italiana” (XVIII, 1964, pp. 38-65; XX, 1966, pp. 44-63;
XXI, 1967, pp. 528-541), dedicati a Sebastian Basson (I), David van Goorle e Daniel
Sennert (II), Ralph Cudworth (III) (riediti, in trad. franc., nel volume miscellaneo Genèse
de la raison classique, Paris, Puf, 2000, pp. 191-290) e l’articolo La saggezza scettica di
Pierre Charron (“De homine”, 21, 1967, pp. 163-82; trad. franc. in Genèse de la raison
classique, cit., pp. 137-56). Nel 1964 per l’editore Frommann (Stuttgart-Bad Cannstatt)
cura l’edizione anastatica degli Opera omnia di P. Gassendi, in sei volumi.
In P. Gassendi, G. ancora una volta individua un soggetto di studio di particolare
complessità difficilmente riconducibile all’unità del sistema che veniva invece invocata
negli studi precedenti (esemplarmente in F. Thomas, La philosophie de Gassendi, Paris,
1889) come unica chiave di accesso al pensiero gassendista, e identificata con
l’esposizione delineata nel Syntagma philosophicum. “Se [...] ci limitiamo all’esame del
suo ‘sistema’, riesce da un lato difficile apprezzare in un’esatta prospettiva i vari scritti
[...] di Gassendi, mentre dall’altro si rischia di isolarne la personalità dall’ambiente in cui
si svolse la sua opera di polemista, di storico, di ricercatore e di sperimentatore”
(Scetticismo ed empirismo, p. 7). Altrettanto fuorvianti sono i tentativi interpretativi tesi a
leggere al di sotto della complessità rivelata dalla traiettoria degli scritti di Gassendi, un
atteggiamento nicodemita di libertina doppiezza. È la tesi di B. Rochot che estremizza
spunti già presenti, in altra prospettiva, nello studio di R. Pintard sul Libertinage érudit
(1943), e che G. contrasta invocando ancora una volta l’esigenza di non anteporre
esigenze di coerenza e di sistematicità a un pensiero che è invece intrinsecamente storico
e consapevolmente iscritto nella problematicità e complessità di un’epoca che il solo
cartesianismo o il solo malebranchismo – e soprattutto i loro interpreti – tendono a
fagocitare nell’unicità della coerenza metafisica. La ragione esemplata da Gassendi,
empirica, antimetafisica e probabilista, conosce non essenze ma “apparentiae” per
costituire una “scientia apparentialis” narrata “historico stylo”. Con la monografia –
fortemente innovativa – su Gassendi si avvia l’esigenza di un confronto con la storia della
scienza e con le fonti meno evidenti delle teorie atomiste fra tardo Rinascimento e prima
Età moderna, sviluppato nello studio dei testi di Basson, Van Goorle, Sennert (autori ben
presenti ai difensori dell’ortodossia scolastica e cattolica della prima metà del Seicento) e
poi, in età cartesiana, di Cudworth. La necessità di un più profondo confronto con le
prospettive interpretative della modernità in merito alla riforma, al libero pensiero e alla
nuova scienza, motiva il ripensamento critico di testi emblematici nelle storiografie del
secondo dopoguerra, quali Le problème de l’incroyance au XVIe siècle. La religion de
Rabelais (1943) di L. Febvre, Mersenne ou la naissance du mécanisme di R. Lenoble
(1943) e il già citato testo di Pintard, che si protrarrà negli scritti successivi sul
libertinismo e nei saggi riuniti nel volume Genèse de la raison classique (2000).
Nel 1974 sul “Giornale Critico della Filosofia Italiana” (LIII, pp. 477-516), esce l’ampio
saggio Dio ingannatore e genio maligno, Note in margine alle Meditationes di Descartes
(riedito in Mundana sapientia, pp. 401-440 e, in trad. franc., in Genèse de la raison
classique, cit., pp. 293-347). Gli esiti estremi della polemica sulla potentia Dei absoluta in
ambito occamista e scotista, i cui dibattiti si strutturano e si prolungano ancora nella
Scolastica di epoca cartesiana sono al centro del confronto fra il tradizionale tema
teologico dell’inganno divino e la gnoseologia cartesiana. Depotenziando piuttosto che
appoggiando la proposta di Gilson di analizzare in Descartes le permanenze del
linguaggio della scolastica (a sua volta ricondotta alla tradizione tomista), G. dimostra
l’esistenza di una tradizione composita, non unitaria, prevalentemente postoccamista,
ove vengono avvertiti e tematizzati problemi che Descartes affronta nell’approfondimento
del tema del fondamento dell’evidenza e quindi della certezza del conoscere. G. evidenzia
gli ascendenti teologici del problema dell’inganno da parte di Dio o del demonio (due
forme di inganno che G. distingue nettamente, sulla base di una puntuale analisi dei testi
cartesiani), inserendo i problemi della gnoseologia di Descartes su un complesso sfondo
di temi filosofico-teologici del suo tempo. Ma il confronto di G. con la modernità si protrae
mediante lo studio dei percorsi che dall’aristotelismo rinascimentale conducono al
naturalismo di Pomponazzi e di Vanini, come al machiavellismo dei libertini (sarà anche il
tema di Aristotelismo e libertinismo “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, LXI, 1982,
pp. 153-167) e lo studio del libertinismo. È del 1979 la monografia dedicata al
Theophrastus redivivus, erudizione e ateismo nel Seicento (Napoli, Morano), ove G.
identifica, mediante il testo del Theophrastus (del quale pubblica per primo larghi
estratti) la ricca costellazione di temi della cultura libertina, attraverso un’analisi delle
fonti con gli esiti radicali che l’anonimo autore ne trae. G. mette in rilievo il carattere
fortemente innovativo del Theophrastus il cui studio si collega ad altri suoi lavori sul
libertinismo. Nel 1981 pubblica l’importante bilancio storiografico Il libertinismo della
prima metà del Seicento, temi e prospettive di ricerca (in G. Paganini, G. Canziani, ed.,
Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, Firenze, La Nuova
Italia, 1981, pp. 3-47) e poi il volume Etica e religione nella critica libertina (Napoli,
Guida, 1986; riedito in trad. franc. in Genèse de la raison classique, cit., pp. 81-135). G.
identifica nel naturalismo aristotelico (Pomponazzi, Vanini, ma anche Cardano, Scaligero
e poi Naudé), nelle teorie politiche della religione (Machiavelli, Bodin e ancora Naudé),
nello scetticismo (La Mothe le Vayer, Montaigne e Charron, alla cui Sagesse è dedicata la
seconda parte del volume) e poi nell’ateismo materialista del Theophrastus gli elementi
fondamentali di una cultura, quella degli esprit forts, riduttivamente conchiusa dalla
prevalente critica entro lo schema dell’erudizione e del conservatorismo politico. Il nesso
fra religione e politica, costitutivo della polemica libertina come della reazione
antilibertina di apologisti quali Lessius, Garasse, Mersenne, Yves de Paris (“ablata Dei
opinione nulla respublica salva et incolumis permanere possit”; p. 24), lo scetticismo
come via al relativismo delle culture e delle credenze, il riconoscimento del ruolo del
“costume”, dell’“impostura” religiosa, della doppiezza della vita sociale, rivelano, in
ambito etico, la coscienza come luogo di intimità o solitudine, secondo la lezione di
Montaigne, e come orizzonte propriamente umano.
Dagli studi dedicati all’Età moderna emerge il composito quadro di quella che G. indica
come “raison classique”, ossia la ‘ragione moderna’ che, ben lontana dall’essere
compendiata ed esemplata dalla ragione metafisica cartesiana, include la ragione scettica
di Montaigne e Charron, la ragione probabile, storica ed empirica, di Gassendi, la ragione
critica libertina con i suoi esiti ateistici e materialistici. Una ragione che coglie le
differenze e i limiti, rivelandosi come complessità e non come strumento di un sistema
omogeneo e unificante.
L’ipotesi storiografica che riconduce il ‘libertino’ a persona ficta facendone un prodotto
della polemica religiosa (L. Godard de Donville, 1989), offre a G. lo spunto per ritornare
sui temi del libertinismo con il saggio Apologeti e libertini (“Giornale Critico della Filosofia
Italiana”, LXXIX, 2000, pp. 1-35), messa a punto storiografica che sottolinea ancora con
forza come proprio la reazione dell’apologetica riveli la persistenza e la pervasività di
temi originalmente e autonomamente libertini intorno ai quali si struttura una coscienza
autonoma, relativistica, scettica e tollerante propria della modernità. Temi, quelli del
relativismo e dello scetticismo, presenti anche nel saggio dedicato a Montaigne Per una
lettura di Montaigne (“Giornale Critico della Filosofia Italiana”, LXXVI, 1997, pp. 145-164),
testo italiano della prefazione a M. de Montaigne, Ensayos (Barcelona, 1997).
Lessicografia e terminologia filosofica moderna. G. ha promosso e, dal 1970, diretto il LIE
insistendo sul rinnovamento della ricerca storico-filosofica fra Tarda Antichità ed Età
moderna, mediante uno stretto collegamento fra storia delle idee e storia della
terminologia di cultura, sempre più aiutata da strumenti informatici. Oltre ai numerosi
articoli che G. ha dedicato nel corso degli anni a specifici temi lessicografici, è il volume
Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (Firenze, 2006) che
raccoglie gli elementi di un programma incentrato sull’analisi del formarsi dello
strutturarsi e del modificarsi incessante del linguaggio filosofico, il cui studio deve essere
condotto mediante il ricorso alle traduzioni, ai lessici, agli strumenti enciclopedici, che lo
definiscono e lo plasmano (soprattutto per la costituzione del moderno lessico di cultura):
“ogni cultura è continua trascrizione, traduzione di precedenti esperienze che, trasferite in
altri contesti, portano nuovi frutti e permettono di scoprire nuovi orizzonti del sapere” (p.
35).
Claudio Buccolini
EUGENIO LECALDANO
Eugenio Lecaldano è nato a Treviso il 29 agosto 1940. Si è laureato in Filosofia nel 1964
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza” e si è
perfezionato in filosofia nel 1968 presso la stessa Università. Professore di filosofia e
storia in alcuni licei di Novara e di Roma, ha lavorato alcuni anni presso il centro di
Ricerche del “Lessico Intellettuale Europeo” del C.N.R., dove è stato ricercatore dal 1970
al 1974. Ha insegnato “Storia della filosofia moderna e contemporanea” presso la Facoltà
di Lettere dell’Università di Siena dal 1974 al 1980 e successivamente presso la stessa
Facoltà è stato professore ordinario di “Filosofia Morale” e per alcuni anni anche Preside.
Dal 1986 insegna presso l’Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Filosofia, prima
“Storia della filosofia morale” e “Bioetica” poi “Filosofia morale”. Dirige dal 2002 il Master
di “Etica pratica e bioetica”.
Biografia
La ricerca di L. ha inizialmente ripreso alcune linee del lavoro fatto, negli anni Cinquanta
e Sessanta, da Aldo Visalberghi per approfondire lo studio della logica del discorso
valutativo. L’attenzione per questa tematica lo ha messo in contatto con il gruppo di
pensatori che si erano impegnati, nel secondo dopo guerra, a dare vita al “neoilluminismo
italiano” e che si raccoglievano intorno alla “Rivista di Filosofia” (nel cui comitato direttivo
L. è entrato nel 1998). Il particolare interesse per il significato del linguaggio morale lo ha
spinto, sul piano internazionale, a seguire l’elaborazione di Richard Merwin Hare e, per il
nostro paese, a tenere conto del lavoro di Giulio Preti e Uberto Scarpelli. Il collegamento
con Scarpelli ha favorito sia l’attenzione per l’elaborazione di una teoria analitica del
linguaggio normativo molto viva, negli anni Settanta, nel gruppo di studiosi che si
riconoscevano nelle idee di Norberto Bobbio; sia la partecipazione ai numerosi incontri di
coloro che in Italia si riconoscevano nello stile della filosofia analitica e che ha poi portato
alla costituzione della “Società Italiana di Filosofia Analitica” (di cui L. è stato il primo
Presidente nel 1992). Il lavoro di riflessione sulle questioni etiche e normative ha portato
L. ad occuparsi delle questioni della bioetica fin dagli anni Ottanta, interesse che, oltre
che in una serie di collegamenti internazionali – ad esempio con Peter Singer ed Helga
Kuhse – si è concretizzato anche con la partecipazione per un certo numero di anni, a
partire dalla sua costituzione nel 1990, ai lavori del “Comitato Nazionale di Bioetica”.
Al lavoro storiografico che L. ha svolto dalla metà degli anni Sessanta presso il “Lessico
Intellettuale Europeo”, centro del C.N.R. diretto da Tullio Gregory, si può fare risalire
l’altro filone di ricerca che lo ha impegnato ad approfondire la conoscenza del pensiero di
David Hume e di altri esponenti della filosofia inglese, dal XVIII secolo ad oggi. Nello
sviluppare questa linea di ricerca L. si è avvalso sia di stimoli provenienti da una serie di
studiosi stranieri – come ad esempio David Fate Norton e il gruppo di studiosi della
“Hume Society” –, sia del confronto continuo con la ricerca svolta da Antonio Santucci per
rendere esplicita la portata filosofica generale dell’empirismo di David Hume.
Le principali tematiche affrontate
L’attenzione di L. fin dagli anni Sessanta si è rivolta alla problematica etica. Si trattava di
individuare a livello critico-filosofico un’elaborazione che permettesse di allontanare la
riflessione sulla morale dalle vaghezze e dalle approssimazioni che sembravano
condannare questa area della cultura ad un prevalere di emozioni irrazionali o di interessi
ideologici radicati in più profonde spinte economiche. La riflessione analitica che sul
linguaggio della morale e il suo significato veniva svolta a partire dagli anni Cinquanta da
una serie di pensatori operanti a Oxford e Cambridge sembrava fornire un ancoraggio più
preciso e rigoroso alla ricerca sulle questioni etiche. L. ha appunto dedicato il suo primo
lavoro, Le analisi del linguaggio morale (Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1970), ad una
ricostruzione complessiva delle teorie sul significato delle principali nozioni etiche, come
“buono” e “dovere”, messe a punto a partire dai Principia Ethica di G.E. Moore per
giungere attraverso le elaborazioni di L. Wittgenstein, W.D. Ross, A.C. Ewing, A.J. Ayer,
C.L. Stevenson, al contributo dei principali esponenti della filosofia linguistica di Oxford e
Cambridge negli anni Sessanta, come ad esempio R.M. Hare. L’interesse per le
acquisizioni realizzate dallo studio della filosofia analitica sul significato dei giudizi morali
si allargava negli anni successivi in due distinte direzioni: da una parte una più
sistematica ricostruzione del pensiero di G.E. Moore, considerato uno dei padri della
filosofia analitica con Introduzione a George Edward Moore (Bari, Laterza, 1972); e
dall’altra uno sforzo di comprendere la natura più peculiare di un approccio naturalistico e
secolare all’etica attraverso lo studio dell’opera di David Hume considerato il fondatore
moderno di questo approccio.
L. si è così anche impegnato a fare conoscere meglio alla cultura italiana tutta una
elaborazione filosofica sulla morale condotta dal pensiero empiristico dal XVIII secolo in
avanti; elaborazione largamente trascurata, nel nostro paese, come testimoniava agli
inizi degli anni Settanta l’assenza di traduzioni di una serie di testi, quali il II e III libro del
Trattato sulla natura umana di Hume, la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith,
l’Introduzione ai principi della morale e della legislazione di Jeremy Bentham. La
mancanza di traduzioni equivaleva spesso alla carenza di un lessico filosofico in grado di
impostare in modo alternativo a quello del razionalismo idealistico e kantiano e dello
spiritualismo cattolico le questioni dell’etica. L. ha proposto questi testi ai lettori italiani a
partire dagli anni Settanta, unitamente alle Lettere a Serena, in cui John Toland
elaborava una critica illuministica dei pregiudizi, e ad una raccolta dei principali scritti
morali di John Stuart Mill.
Parte dell’impostazione che L. ha fatto valere continuativamente nella sua produzione è il
tentativo di rendere esplicita la fertilità della ricerca delle radici storiche di linee di
riflessione contemporanee: questo è, per esempio, il nucleo del volume Hume e la
nascita dell’etica contemporanea (Roma-Bari, Laterza, 1991) e di molti dei saggi – non
solo sui moralisti inglesi del Settecento e J.S. Mill, ma anche su E. Juvalta e B. Russell –
raccolti nel volume Saggi di storia e teoria dell’etica (Gaeta, Biblioteca, 2000). Risalire
alle fasi iniziali di un paradigma teorico tuttora attuale nella riflessione sulla morale aiuta
a individuare gli aspetti caratteristici di questo approccio se confrontato con altri e a
sviluppare eventualmente la sua revisione per metterlo al passo delle problematiche
attinenti il nostro tempo. L. elabora, ancora, nel volume Etica (Torino, Utet-Libreria,
1995) una prospettiva sulle dottrine filosofiche d’oggi rivolta sia a rendere esplicito il
contesto di storia del pensiero morale in cui si collocano, sia i mutamenti principali della
riflessione più recente.
Molta parte del lavoro teorico di L. è stata poi dedicata a rendere esplicite le spiegazioni
che della morale potevano essere offerte all’interno del paradigma filosofico generale che
si ispira a Hume, cercando di accompagnare a questa ricerca meta-etica anche una
rivisitazione critica sul piano delle conclusioni normative, da utilizzare in quell’area di
questioni morali proprie della nostra epoca costituita dai problemi della bioetica.
In primo luogo si tratta di mostrare come, nel quadro del naturalismo empiristico erede di
Hume, si possa collocare una concezione filosofica della morale che riesce a rendere
conto in modo soddisfacente, senza rinunce scettiche e nichilismi della nostra vita etica,
mettendo in primo piano il ruolo dei sentimenti e delle emozioni morali. Ovviamente
questa prospettiva comporta che si abbandonino completamente sia le impostazioni che
fondano la moralità su una qualche base religiosa – rivelazione o leggi naturali – sia
quelle, come nel caso delle posizioni ispirate a Kant, che la fondano su una peculiare
Ragione, di cui solo la specie umana sarebbe dotata. Questi risvolti critici della
concezione sentimentalistica dell’etica sono stati in particolare ricostruiti da L., anche
attraverso il recupero delle loro fonti storiche, in Un’etica senza Dio (Roma-Bari, Laterza,
2006). Delineare compiutamente una concezione meta-etica sentimentalistica porta
anche a insistere sulle trasformazioni che la pratica morale è andata subendo negli ultimi
secoli. Una serie di requisiti epistemologici che accompagnavano le pretese etiche nel
passato, e in primo luogo quella dell’assolutezza e dell’eternità delle soluzioni
prospettate, risultano completamente infondate sulla base di una ricostruzione della
moralità che tenga conto della esperienza comune. L’impostazione sentimentalistica aiuta
inoltre a riformulare tutta una serie di pretese, come ad esempio quella di oggettività –
riformulazione sulla quale L. si è soffermato in vari scritti ed in particolare in L’oggettività
dell’etica: una versione sentimentalistica, “Rivista di Filosofia”, LXXXIX, 1998, pp.353-384.
D’altra parte uno dei compiti principali della prospettiva sentimentalistica è quello di
mostrare che questa analisi dell’etica non esclude che si riconosca la natura riflessiva
delle posizioni morali, viste come una revisione e correzione di emozioni più immediate e
ristrette. Una parte del lavoro teorico consiste appunto nel dare corpo alla possibilità di
ricostruire forme di argomentazioni influenti sulle emozioni e i sentimenti, che non siano
riconducibili a quelle procedure percorse dalla concezione razionalistica.
In questo contesto si tratta di mostrare come la concezione sentimentalistica dell’etica
ruota intorno al riconoscimento della capacità che gli esseri umani hanno di reagire alle
sofferenze e ai piaceri delle altre persone, disapprovando le qualità di quelle persone che
provocano sofferenze negli altri. Si tratta qui di un nucleo dell’etica che passa già sul
piano normativo e che, come insiste L., ha molto a che fare con l’insegnamento di J.S. Mill
e il suo “principio dell’evitare danni agli altri”. Una parte del lavoro di L. è stato quello di
mostrare come un approccio sentimentalistico dell’etica sia in grado di fornire una chiave
di orientamento per affrontare le questioni della bioetica che sembrano così
caratteristiche del nostro tempo. Così, con il suo volume Bioetica. Le scelte morali (RomaBari, Laterza, 1999) ha delineato una trattazione complessiva delle problematiche morali,
che gli sviluppi di biologia e medicina hanno fatto nascere per quanto riguarda le scelte
sulla nascita, la cura e la morte. Una impostazione normativa che coniughi sia
l’autonomia individuale sia la responsabilità nei confronti delle sofferenze altrui, con
l’obiettivo di ridurle quando non volute dalle persone coinvolte, è in grado di fissare nei
giusti limiti l’appello a tutta una serie di nuovi diritti morali, quali ad esempio un diritto a
morire, un diritto alla libertà procreativa, un diritto all’integrità genetica e un diritto ad un
minimo di cure. Più recentemente (Bioetica. Le scelte morali, nuova edizione riveduta e
aggiornata, Roma-Bari, Laterza, 2005) L. ha anche mostrato come lo stesso contesto
etico-normativo sia in grado di affrontare anche le questioni della bioetica in un senso più
ampio, quelle che hanno a che fare con il diritto all’integrità genetica di animali e
vegetali.
La proposta di una concezione complessiva sulle questioni bioetiche viene elaborata da L.
in particolare attraverso un confronto con quelle etiche che considerano non disponibili la
nascita, le cure e la morte. La versione sentimentalistica di un’etica della disponibilità
della vita che eredita alcuni nuclei centrali della riflessione sulla morale di Hume e della
soluzione normativa fornita da J.S. Mill con il suo utilitarismo riformato diventa il nucleo
centrale della posizione di L. In questo quadro la critica nei confronti delle etiche della
non disponibilità è principalmente rivolta a mostrare come esse privilegino la lealtà nei
confronti di leggi naturali o doveri morali assoluti, fino ad esiti crudeli e “immorali” che
negano la rilevanza delle sofferenze reali delle concrete persone coinvolte nelle questioni
della bioetica. Tali questioni segnano quindi un’altra tappa del definitivo superamento di
quelle visioni della moralità centrate su obblighi e norme fondate o su basi religiose o su
presunte conclusioni definitive della ragione.
Prospettive future
Il lavoro di L. degli ultimi anni è rivolto a indicare altri punti del contributo che alla
comprensione della nostra vita morale può essere offerto da una prospettiva teorica che
metta al primo posto i sentimenti piuttosto che la ragione. Si tratta di un work in progress
che si va ampliando e che è al centro dei progetti di ricerca per il futuro.
Ora non si tratta solo – come L. si è sforzato di fare nei suoi scritti già pubblicati – di
mostrare la fertilità della prospettiva sentimentalistica derivata da Hume per spiegare la
capacità che i nostri giudizi morali hanno di motivarci. Né di elaborare una concezione del
soggetto morale distante da quello identificato ad altre concezioni etiche come sostanza
spirituale o persona prevalentemente mossa dalla ragione (una elaborazione che come L.
ha suggerito nel suo articolo The Passion, Character and the Self in Hume, “Hume
Studies”, XXVIII, 2002, pp.443-467, è già molto avanzata in Hume). Questa nuova
concezione del soggetto chiarisce così che il regno della moralità riguarda non solo gli
individui le cui azioni sono pienamente guidate da una presunta ragione universale, ma
anche quelli più semplicemente capaci di essere coinvolti dagli interessi e desideri altrui e
di tenerne conto nelle loro azioni senza fare prevalere le loro esigenze egoistiche.
Vanno più pienamente elaborate altre parti della teoria sentimentalistica arricchendo
ulteriormente le prospettive finora privilegiate del confronto con la ricerca storiografica su
Hume e Mill o con l’elaborazione filosofica sulla morale degli ultimi decenni del XX secolo
(in questo senso, particolarmente utili sono le riflessioni di B. Williams, S. Blackburn e A.
Gibbard). Per sviluppare ulteriormente questa teoria altri contributi – anche non
strettamente filosofici – vanno tenuti presenti: ad esempio quelli offerti dalle acquisizioni
relative all’importanza delle emozioni morali realizzate da parte di tutta l’impostazione
evoluzionistica a partire da C. Darwin fino ai recenti contributi sull’etologia di F. De Waal;
o ancora la ricerca di psicologia empirica sulla formazione individuale della capacità di
fare distinzioni morali, sintetizzata in chiave sentimentalistica da S. Nichols. La riflessione
sulla morale non può non tenere conto delle acquisizioni che le scienze empiriche
realizzano sulla condotta umana.
Infine va ulteriormente elaborata la proposta normativa generale che accompagna
un’etica secolare e sentimentalistica, mettendo insieme l’attenzione di Hume per il
carattere e le virtù con l’utilitarismo liberalizzato di J.S. Mill (in questo senso L. ha già
avviato il lavoro con alcuni saggi recenti, quali quelli comparsi sulla “Rivista di Filosofia”
nel 2007 e 2008 dedicati rispettivamente alla rivisitazione dell’etica di Mill e ai pregi di
un’etica utilitaristica delle virtù). Nel delineare una versione sentimentalistica dell’etica
delle virtù l’impegno teorico di L. è quello di indicare analogie e diversità rispetto alla più
nota delle etiche delle virtù, quella che si richiama ad Aristotele. Un punto di diversità
centrale sta nell’assenza di un rinvio a considerazioni finalistiche nell’approccio empiristico
e sentimentalistico alle virtù. La concezione humeana della virtù è conciliabile non solo
con il riconoscimento di un pluralismo etico, ma anche con diversi modi di dare unità al
campo delle virtù. Una prospettiva normativa da elaborare ulteriormente e mettere alla
prova, in particolare per la sua capacità di confrontarsi con i problemi morali propri della
nostra epoca, non solo quelli della bioetica, ma anche quelli del cambiamento climatico e
più in generale delle nostre responsabilità verso le generazioni future.
SEBASTIANO MAFFETTONE
Sebastiano Maffettone è nato a Napoli il primo aprile 1948 da Pietro e Caterina
Sanseverino. Le caratteristiche più tipiche della sua personalità sono l’amore per la
filosofia e la cultura e la curiosità per le persone e il mondo. Le ritroviamo nella sua vita
di lavoro, che ha avuto un campo d’azione assai vasto: autore di quattordici volumi di
contenuto filosofico, curatela di numerosi volumi antologici, grande impegno accademico
e didattico, introduzione di importanti novità scientifiche nel panorama italiano, direzione
e fondazione di riviste e centri di ricerca, sostanziosa attività pubblicistica, ampia rete di
relazioni internazionali, vasta e continua opera di comunicazione attraverso seminari,
convegni e conferenze in Italia e all’estero. Proveniente da una famiglia fortemente
legata al territorio di origine, Maffettone ha frequentato a Napoli tutti i livelli
dell’istruzione pubblica dalle scuole elementari all’Università. Al liceo Umberto I, ha avuto
come insegnante di filosofia Vera Lombardi (dal 1963 al 1966), che rafforzò la sua
vocazione filosofica. Si è laureato poi, con lode, in Giurisprudenza presso l’Università di
Napoli, con una tesi su Keynes, con il professore de Luca, nell’ambito di un interesse per
l’economia teorica che non lo avrebbe mai abbandonato. I suoi studi di specializzazione
post-laurea hanno avuto luogo in Inghilterra, prima a Oxford poi a Londra, presso la LSE
(London School of Economics), sede quest’ultima dove ha avuto la fortuna di avere tra i
suoi professori Karl Popper, Ernst Gellner (sotto la cui guida ha scritto la tesi di Master of
Science su “Habermas e Rawls”) e Amartya Sen, con cui ha conservato nel tempo un
rapporto di amicizia e collaborazione, traendone ispirazione per i suoi studi di etica ed
economia.
La sua carriera professionale e intellettuale ha avuto inizi travagliati per diverse e
concomitanti ragioni: (I) la morte del professore con cui si era laureato, con cui aveva
iniziato l’attività di ricerca; (II) il fatto di essere figlio unico di un imprenditore e di sentire
le responsabilità dell’azienda di famiglia; (III) lo scarso interesse teoretico che rivestivano
per lui molti degli studi che provenivano dalla Facoltà di Filosofia di Napoli all’inizio degli
anni millenovecentosettanta, spesso legati a uno storicismo a suo avviso troppo chiuso e
finanche ostile all’innovazione concettuale. Quest’ultimo fatto, in particolare, lo portò a
ricercare altrove la matrice dei suoi principali interessi filosofici, a cominciare dall’Istituto
di Fisica Teorica dell’Università di Napoli che, in quello stesso periodo, svolgeva un’attività
importante non solo nel campo specifico di sua competenza ma anche in quello che – in
senso lato – si può dire di filosofia analitica. Maffettone fu prima incuriosito e poi attratto
dalla filosofia analitica, e incominciò a studiare sin dalla prima metà degli anni settanta
sistematicamente logica, filosofia della scienza e filosofia del linguaggio. Nonostante ciò,
il suo primo articolo, pubblicato su “Il Giornale Critico della Filosofia”, fu su Cartesio,
influenzato dalla lezione di Claudio Cesa (germanista, storico della filosofia insigne), che
divenne per anni una sorta di maestro involontario di quello che era allora in fin dei conti
un autodidatta piuttosto incerto sul da farsi. A Oxford, dove era stato invitato da Michael
Dummett, nella seconda metà degli anni settanta, conobbe e divenne amico di Marco
Mondadori (poi precocemente morto nel 1999), logico e filosofo della scienza allievo di
Geymonat, che ne influenzò sia la scelta definitiva per la filosofia morale, politica e
sociale analitica (in senso lato), sia l’inserimento in un gruppo milanese, di cui facevano
parte anche Giulio Giorello, Marco Santambrogio e Salvatore Veca, gruppo che divenne
poi assai importante nella definizione definitiva delle sue tematiche di ricerca. Su questa,
però, influì, probabilmente più di ogni altra cosa, l’opera di un filosofo americano di
Harvard, John Rawls. Maffettone tradusse in italiano A Theory of Justice, il libro che più di
ogni altro ha cambiato la filosofia politica del novecento, conobbe Rawls personalmente e
ne divenne buon amico. Iniziò, così, a frequentarlo, e a lavorare sotto l’influenza sua e di
alcuni colleghi americani, come Dworkin, Nagel, Nozick (morto nel 2002, lo stesso anno di
Rawls), Scanlon, su problemi filosofici che dovevano diventare poi per lui temi permanenti
di ricerca. Nel prosieguo della vita di lavoro, Maffettone non ha mai messo da parte
l’opera di Rawls e il suo modello teorico, su cui si è definitivamente formato, e ha
insegnato Rawls a diverse generazioni di studenti italiani e stranieri.
Maffettone ha lasciato Napoli a ventotto anni, per non farvi ritorno poi mai più in via
definitiva, pur rimanendovi legato non solo affettivamente ma anche professionalmente,
come testimoniano la lunga collaborazione con l’Istituto Suor Orsola Benincasa, portato a
livelli di eccellenza da Antonio Villani (e poi da Francesco de Sanctis), e con il quotidiano
“Il Mattino”. Il fatto biografico e la scelta dei principali temi di ricerca non sono, a
ripensarli, due eventi del tutto separati. Il nonno materno di Maffettone, Roberto
Sanseverino, era stato notaio e amico di Benedetto Croce, contribuendo a creare quella
che poi sarà la struttura istituzionale del crociano “Istituto di Studi Storici”. Anche per
questo motivo, Maffettone, sin da adolescente, era stato portato a identificare lo studio
della filosofia con l’opera di Croce. Ed era proprio l’insoddisfazione creata dal rapporto tra
l’opera di Croce e la necessità di trovare la giustificazione di un pensiero politico
normativo, necessità che Maffettone sentiva come ineludibile dal punto di vista
innanzitutto teoretico e poi come strumento per il riscatto intellettuale del Mezzogiorno di
Italia e per la volontà di rendere la nostra nazione meno ostile alla tradizione liberale. Il
fatto che entrambi questi obiettivi siano ben lungi dall’essere oggi più vicini di
trentacinque anni or sono non mette in discussione le ragioni delle decisioni di allora.
In questa prospettiva, gli anni milanesi, all’inizio degli ottanta, furono assai fruttuosi. Con
gli amici e colleghi sopra ricordati, Maffettone intraprese un progetto politico-culturale di
notevole respiro. L’idea di fondo di questo progetto collettivo era in fondo simile a quella
che un noto letterato, parlando della situazione italiana nel suo complesso, aveva
chiamato una “gita a Chiasso”. Si trattava, per Maffettone e i suoi compagni di strada, di
cercare di dare respiro internazionale a una filosofia, e in un certo senso a una cultura,
italiane, che apparivano asfittiche e provinciali, chiuse tra i limiti di un vecchio storicismo
incartapecorito, di un cattolicesimo filosofico tradizionalistico e di un marxismo sempre
più scolastico. Il gruppo, che Salvatore Veca ebbe il merito di radunare periodicamente
presso la Fondazione Feltrinelli in Milano, contribuì non poco a quest’opera di
svecchiamento. La introduzione di Giorello e Mondadori al saggio “Sulla Libertà” di John
Stuart Mill (uscito per “il Saggiatore”) e la traduzione italiana di A Theory of Justice
(Feltrinelli) furono forse i momenti più rappresentativi all’interno di questo collettivo rito
di passaggio. Insieme ad altre opere, dello stesso Maffettone e di altri, tra cui Antonella
Besussi e Elisabetta Galeotti, in questo periodo avvenne effettivamente dapprima
un’apertura alla filosofia politica normativa e poi un suo progressivo affermarsi, che
indussero un processo positivo di innovazione nell’accademia, nell’editoria, nella
pubblicistica. Nello stesso periodo, Maffettone fondava, sempre a Milano, con due studiosi
di scienze sociali, Elena Granaglia e Paolo Martelli, “Politeia” (ora diretta da Emilio
d’Orazio), e la rivista collegata “Notizie di Politeia”. Questa iniziativa aveva allora
l’ambizione di cambiare lo stile degli studi italiani nelle scienze sociali, introducendo un
lavoro sistematico di gruppo e riunendo i percorsi della ricerca empirica e teoretica,
positiva e normativa. Per quanto riguarda il contributo specifico di Maffettone, all’interno
del gruppo, si può dire che esso consisté nel creare un approccio teorico a cavallo tra
etica applicata e teoria politica, che da quegli anni in poi è diventato abbastanza
popolare tra gli studiosi italiani. Si può dire che la bioetica e l’etica degli affari, come le
conosciamo oggi nel nostro paese, e come le ritroviamo per esempio nel lavoro di
studiosi quali Maurizio Mori e Lorenzo Sacconi, presero forma a seguito di quel lavoro,
collegato a una continua opera di pubblicazione degli autori scientificamente più rilevanti.
Naturalmente, questa attività di politica culturale, era accompagnata da un intenso studio
filosofico e dalla pubblicazione di molti scritti, tra cui numerosi articoli pubblicati in riviste
scientifiche. Si segnalano, in questo primo periodo di lavoro, il libro su Habermas – un
altro studioso che Maffettone ha conosciuto bene e con cui ha collaborato – intitolato
Critica e analisi (Liguori 1980), e il libro su Rawls intitolato Utilitarismo e teoria della
giustizia (Bibliopolis 1982). Con questi libri, Maffettone non solo diffuse l’opera dei due
autori forse più importanti nell’ambito della filosofia sociale contemporanea, ma creò un
paradigma di ricerca nell’ambito della teoria politica normativa, che ancora produce i suoi
frutti, abbastanza evidenti nelle opere di autori diversi per età, maturità teoretica e
inclinazioni come Luigi Caranti, Alessandro Ferrara, Michele Mangini, Virginio Marzocchi,
Stefano Petrucciani, Ingrid Salvatore, Fabrizio Sciacca (solo per citarne qualcuno).
Il lavoro su etica applicata e filosofia politica di questo periodo si può dire culmini con la
pubblicazione, nella parte finale degli anni ottanta, di due libri: Verso un’etica pubblica
(E.S.I. 1988) e Valori comuni (1989, insignito del Premio Tevere). Questi due libri
contribuirono non poco alla diffusione delle idee di Maffettone, rendendo la sua visione
della teoria politica di dominio pubblico in Italia e in qualche modo cambiando il gergo
stesso di questo ambito di indagine. Liberalismo politico post-rawlsiano originalmente
ripensato, etica applicata, una visione individualistica ma attenta ai valori della comunità,
ne sono le caratteristiche più notevoli. In questi anni, Maffettone diventa quello che di
solito si chiama un “intellettuale pubblico”, una figura meno nota nei paesi anglo-sassoni
e più comune in quelli latini. Giornali quotidiani, riviste periodiche, radio e TV lo
intervistano frequentemente – e ciò spesso avviene anche da parte di corrispondenti
stranieri – sui grandi problemi etico-politici del nostro tempo, e rappresentanti politici
nazionali di primo livello lo consultano sulle questioni pubbliche rilevanti. Questa
notorietà extra-universitaria è facilitata dall’intensa attività pubblicistica, svolta da
Maffettone attraverso gli anni. Cominciata con “Il Mattino”, tale attività continua con
“Panorama”, “Corriere della Sera” (di cui è opinionista per circa dieci anni), “il
Messaggero”, “Il Riformista”, “Il Sole 24 ore”, e con la collaborazione a importanti riviste
di cultura politica come RESET (diretta da Giancarlo Borsetti). Maffettone ha anche curato
– per RAI EDUCATIONAL – due programmi divulgativi a larga diffusione, cui hanno
partecipato molti importanti filosofi e intellettuali italiani e stranieri, il primo su “la
pensabilità del mondo” in otto puntate (traendo spunto da un libro di Maffettone), il
secondo sulla “sostenibilità”. Sia come intellettuale pubblico, sia come pubblicista,
Maffettone cerca di mantenere sempre un punto di vista professionale rigoroso, che gli
impedisca di sconfinare nella polemica spicciola o nella politica dei partiti.
Maffettone ha svolto negli anni un’intensa attività accademica, accompagnata da quella
di direttore di ricerca in progetti presentati presso il MIUR, il CNR, la UE. Dopo il primo
periodo napoletano, ha insegnato, per tre anni a Torino (1982-84), filosofia politica, nella
stessa Facoltà di Scienze Politiche, dove fino all’anno prima la materia era stata
insegnata da Norberto Bobbio, considerato il fondatore della disciplina in Italia. Dal 1985
al 1998, Maffettone insegna a Palermo, e in questi anni diventa ordinario di filosofia
politica, collabora con professori come Giuseppe Barbaccia, Francesco Viola e Piero
Violante presso il “Dipartimento di Studi su Politica Diritto e Società”, ed è tra i fondatori
della nuova Facoltà di Scienze Politiche di questa città. Nel contempo, teneva un corso
annuale di specializzazione a Suor Orsola Benincasa a Napoli, con la partecipazione di
prestigiosi studiosi stranieri, corso in cui si sono formati tra gli altri studiosi come Carla
Bagnoli, Luca Ferrero, Michele Mangini. Da allora a oggi, Maffettone ha insegnato presso
l’Università LUISS-Guido Carli di Roma, dove ha avuto la possibilità di lavorare con
colleghi illustri di materie affini tra i quali Dario Antiseri, Massimo Baldini e Luciano
Pellicani. Egli frequenta in questo periodo anche il gruppo creatosi intorno a Eugenio
Lecaldano nella vicina Villa Mirafiori, dove ha sede la Facoltà di Filosofia della Sapienza.
Da quando è alla LUISS, Maffettone ha diretto il CERSDU (Centro Ricerca e Studi sui
Diritti Umani), precedentemente fondato dallo scomparso Paolo Ungari e attualmente
coordinato da Gaia di Martino, cercando di dare allo studio dei diritti umani un’impronta
anche teorico-politica, prima affatto misconosciuta nel nostro paese. In tutti questi anni,
Maffettone ha curato molto la formazione degli studenti e i suoi numerosi allievi, – dal
primo laureato di Napoli, Giampaolo Ferranti, al primo di Palermo, Antonino Palumbo, a
quelli romani degli ultimi anni – si distinguono, dovunque siano impegnati, per il rigore
metodologico e critico. Maffettone fonda coi suoi colleghi (in un convegno presso la
LUISS), convinto della necessità di autonomia di questa disciplina, la SIF (Società Italiana
di Filosofia Politica), di cui diviene primo Presidente. Con l’aiuto di allievi e colleghi cura
anche numerosi volumi antologici, alcuni dei quali hanno anche un significativo rilievo
culturale e pubblico, come Marxismo e giustizia (il Saggiatore, 1984), in cui per la prima
volta in Italia presenta il marxismo analitico, e L’idea di giustizia da Platone a Rawls (con
Veca, Laterza, 1997), che ha avuto molte edizioni ed è stato insegnato in diverse
università italiane. Maffettone fonda, in questo periodo, anche la rivista accademica
Filosofia e Questioni Pubbliche (edita prima da Armando e poi da LUISS University Press e
il Saggiatore), di cui è dall’inizio direttore responsabile, e che da anni pubblica articoli
scientifici di notevole importanza di autori italiani e stranieri, ed è generalmente
considerata una delle riviste più autorevoli nel settore della filosofia politica, morale e
sociale italiane. FQP, come viene chiamata normalmente la rivista, presenta anche, in
ciascun numero, una “terza parte”, meno filosofica e più artistica, in cui spicca la sezione
di arti visive curata da Cornelia Lauf. FQP pubblica una sezione su “Mente e mondo”, in
cui si può notare l’influenza che hanno avuto su Maffettone filosofia della mente e
psicoanalisi, cui il nostro autore si è accostato negli anni anche per merito dei rapporti di
amicizia e collaborazione con Mario De Caro e Lorena Preta.
Nei due libri del 1992, Ermeneutica e scelta collettiva (Guida) e Le ragioni degli altri (il
Saggiatore) Maffettone svolge un’operazione di ampliamento del paradigma rawlsiano in
due direzioni diverse. Nel primo, indaga il retroterra formale delle teorie della giustizia
sociale, in termini di collective choice theory e game theory, presentando anche una
originale derivazione formale del maximin. L’idea innovativa del libro consiste nel
sostenere che gli aspetti formali delle teorie della decisione razionale non sono separabili
dall’analisi ermeneutica del contesto di scelta. In Le ragioni degli altri, invece, Maffettone
espande il paradigma rawlsiano in direzione di soggetti originariamente non previsti da
questo, come gli animali nonumani e la natura. Questa mossa gli consente di affrontare
tra i primi temi di etica ambientalistica e concernenti gli animal rights. Maffettone tra
l’altro è stato il primo a fare pubblicare Peter Singer in italiano. Come sempre nella sua
carriera, Maffettone cerca di esplorare il suo terreno di ricerca in maniera duplice, da un
lato pubblicando libri e articoli suoi, e dall’altro facendo tradurre in italiano – da varie
case editrici, e in particolare collaborando a “il Saggiatore” – autori importanti come
Barry, Dworkin, Honneth, Nagel, Scanlon, Rasmussen, Walzer e molti altri. La
collaborazione con questi autori è duratura, e si espleta in scambi culturali
interuniversitari continui.
Presso la LUISS, Maffettone organizza il seminario annuale denominato “Colloquium in
Ethics, Politics and Society” (http://www.luiss.it/ricerca/centri/ethics/Colloquium), cui
dall’inizio del millennio a oggi hanno preso parte molti tra i più importanti filosofi politici,
morali e sociali del mondo, provenienti da tutti i continenti. Con uno dei più noti tra
questi, Ronald Dworkin, Maffettone pubblica anche I fondamenti del liberalismo (Laterza
1996), in cui i due coautori presentano le loro visioni del liberalismo, accomunate dal
primato dell’eguaglianza e divise su altri aspetti, a cominciare dal rapporto tra etica e
politica. Questo volume ha aperto una significativa discussione critica sul liberalismo in
Italia, di cui – anche per le ragioni prime sottolineate – si sentiva profondamente il
bisogno teorico e pratico.
Il libro del 1998, intitolato Il valore della vita (Mondadori), e quello del 2001, intitolato
Etica pubblica (il Saggiatore, che sta ristampando le opere di Maffettone) fanno il punto
sul rapporto tra etica applicata e teoria politica, che – come detto – rappresenta un
leitmotiv del lavoro filosofico di Maffettone. Il primo, presenta una Lebensphilosophie
razionalista e liberale. Ha come suo sfondo precedenti studi bioetici, ma pretende di
andare al di là di essi per proporre appunto una teoria della vita comprensiva ma non
religiosa. Etica pubblica presenta invece i fondamenti di questa disciplina, che l’autore ha
imposto all’attenzione del pubblico italiano. Particolarmente letti e criticati sono stati qui i
capitoli dedicati all’etica degli affari. È interessante notare come, nel caso di entrambi
questi libri, esperienza teorica e pratica abbiano trovato un felice punto di incontro.
Maffettone, per quanto riguarda la bioetica, è stato membro di quello che è
probabilmente il primo comitato etico italiano in un ospedale, quello diretto da Umberto
Veronesi (con cui Maffettone da allora continua periodicamente a collaborare) presso
l’Istituto Tumori di Milano. E per quanto riguarda l’etica degli affari ha formulato il quadro
teoretico di quello che è forse il più importante codice etico italiano – oltre a scriverne
diversi altri e a formulare alcuni bilanci sociali – quello proposto a Confindustria nel 1992,
in un momento estremamente delicato della vita politica e sociale del nostro paese. La
lunga collaborazione con Confindustria in materia si è espletata principalmente nella
presenza attiva a due cicli del comitato scientifico di questa istituzione, nella
partecipazione a molti convegni nazionali e internazionali da essa organizzati, e nella
costituzione nel 2008 di un Laboratorio LUISS-Confindustria sulla Responsabilità Sociale di
Impresa. Maffettone, per rimanere in questo ambito, è membro del comitato etico di
ACEA ed è stato membro di quello di Capitalia. Questa sintesi di riflessione teorica e
applicazioni pratiche trova riscontro in qualche modo anche nella partecipazione a
comitati scientifici di influenti fondazioni culturali (come la Fondazione Adriano Olivetti, e
la Fondazione Einaudi in Roma). Si è resa evidente anche in alcune consulenze scientificoapplicate, quali quelle fornite negli anni all’ENEA, alla CISPEL e al MIUR.
Maffettone è sicuramente uno degli studiosi italiani che più intrattiene rapporti frequenti
con le istituzioni accademiche e scientifiche straniere. È stato visiting professor molte
volte negli Stati Uniti (Harvard, NYU, Columbia, Tufts, Boston College), dove è stato
anche Senior Fellow presso il Programma in “Ethics and Professions” (Harvard), ma è
stato visiting anche in Francia (presso Maison Sciences de l’Homme e Sciences-Po a
Parigi) e in Inghilterra (LSE). Ha tenuto lezioni e conferenze in più di quaranta paesi
diversi (solo negli ultimi due anni in Cina, India, Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati
Uniti e Australia, tra gli altri), e in molti di questi ha partecipato a convegni internazionali
e pubblicato i suoi interventi negli atti collegati a questi convegni. L’attività di scambio –
come ricordato – con colleghi stranieri è permanente. Ne sono testimonianza i numerosi
programmi di ricerca internazionali, cui Maffettone partecipa, e il PhD in “Political
Theory”, che dirige presso la LUISS. Questo programma – svolto in inglese, con la
partecipazione di molti docenti di tutto il mondo – costituisce, con quasi il 70% di
studenti stranieri, un unicum nel panorama delle scienze umane e italiane. Si può
affermare, anzi, che oggi rappresenta un programma post-graduate all’avanguardia in
Europa, grazie anche all’opera di studiosi più giovani come Marchetti, Pellegrino, Santoro
e di colleghi della LUISS (come De Mucci, Petrucci, Sciso, Villani, etc.).
Dal 2000 in poi sempre di più, Maffettone ha spostato i suoi interessi principali – e quelli
di molti studiosi con lui – su temi e problemi di filosofia politica internazionale. Su questi
ha pubblicato saggi in inglese, francese, tedesco e arabo. Ha inoltre fondato, con Piero
Fassino, Giovanni Aldobrandini, Francesca Catello e altri una ong – denominata
“Humanity” – destinata a trattare questi temi in maniera più applicata. La testimonianza
più importante di questo coinvolgimento intellettuale è costituita comunque dal libro La
pensabilità del mondo (il Saggiatore 2006), in cui Maffettone presenta una teoria
originale nell’ambito dell’etica delle relazioni internazionali. La teoria in questione si basa
sull’idea di “integrazione pluralistica”, che intende rappresentare un’alternativa
all’internazionalismo liberal-democratico di stampo cosmopolitico. Il nucleo della tesi
sostiene che liberalismo e democrazia non si possono imporre dall’esterno, ma devono
invece essere espressi dall’interno di una cultura e di una nazione. Questo tipo di
argomento è stato ripreso in un insieme di articoli in inglese, in corso di pubblicazione, di
cui uno sul modello europeo e il “regionalismo normativo” (sulla rivista americana “The
Monist”) e l’altro sulla global justice (per un volume collettaneo UNESCO, curato da
Thomas Pogge per Oxford University Press 2008). Questa attività scientifica è
accompagnata – oltre che dalla responsabilità scientifica del ciclo “Atlante LUISS”
dedicato agli scenari internazionali – dall’organizzazione recente di un imponente network
internazionale su “Ethics and Global Politics” (http://www.luiss.it/ricerca/centri/ethics/),
che fa seguito alla nomina di Maffettone da parte del Rettore della LUISS come vicario
con delega sulle relazioni internazionali. Il progetto in questione, che deve molto alla
collaborazione intellettuale di colleghi italiani, tra cui Daniele Archibugi, Lucio Caracciolo,
Francesca Corrao e Massimo Egidi (Rettore LUISS), e stranieri tra cui Daniel Bell, Akash
Singh e David Rasmussen, prevede la partecipazione di un centinaio di istituzioni
accademiche di tutto il mondo, e di uno steering committee composto da professori di
tutti i continenti, professori scelti tra i più autorevoli del mondo nell’ambito della teoria
politica internazionale. Scopo del progetto – oltre a quelli impliciti di rafforzare il prestigio
della LUISS e il menzionato programma di PhD in Political Theory – è quello di creare un
paradigma realmente pluralistico nell’ambito delle relazioni internazionali, basato sulla
partecipazione effettiva di esperti di diversa appartenenza culturale e politica. Il progetto
in “Ethics and Global Politics” prevede scambi di professori e studenti, progetti di ricerca
internazionale, programmi accademici condivisi, pubblicazioni plurilinguistiche, seminari di
studio. È stato inaugurato ufficialmente il 5-6 dicembre 2008 con un convegno su “The
Arab Dilemma”, cui hanno partecipato studiosi arabi di grande prestigio, alcuni dei quali
parteciparono già al convegno su “I problemi della democrazia”, organizzato da Humanity
presso la Fondazione Cini a Venezia nel 2006.
In conclusione, le aree di interesse principali di Maffettone sono la filosofia politica (con
particolare riferimento alle teorie della giustizia, alla filosofia politica internazionale, al
liberalismo, ai diritti umani), la filosofia sociale, l’etica (meta-etica, etica normativa e
applicata), la bioetica, l’etica degli affari, la teoria delle relazioni internazionali, l’etica
dell’ambiente e in particolare la questione della sostenibilità, la metafisica e
l’epistemologia, la storia della filosofia, i rapporti tra filosofia analitica e continentale, la
filosofia generale. Maffettone ha finito di scrivere all’inizio dell’estate 2008 un
impegnativo libro su Rawls, che vuole esserne un’introduzione generale, e che
pubblicherà nella prima parte del 2009 in Inghilterra con Polity Press, e sta completando
un libro di filosofia delle relazioni internazionali che spera di pubblicare in inglese nella
seconda parte di quello stesso anno.
DIEGO MARCONI
Diego Marconi è nato a Torino nel 1947. Ha frequentato il liceo classico, prima al
“D’Azeglio” di Torino poi ad Aosta, dove ha avuto come insegnante di filosofia Nynfa
Bosco. Ha studiato filosofia all’Università di Torino, con Nicola Abbagnano, Pietro Chiodi,
Luigi Pareyson e Gianni Vattimo. Si è laureato con Pareyson con una tesi sul pensiero di
Wittgenstein (poi pubblicata col titolo Il mito del linguaggio scientifico. Studio su
Wittgenstein, Milano 1971). All’inizio degli anni ’70 è stato borsista presso la Fondazione
Agnelli, nel Centro di studi sulle culture politiche diretto da Giorgio Galli;
contemporaneamente lavorava all’Università di Torino nel gruppo diretto da Pareyson.
Negli anni 1967-1972 ha partecipato attivamente alla vita politica, all’università e fuori.
Nel 1974 iniziò gli studi graduate all’Università di Pittsburgh (USA) grazie ad una borsa
Harkness (Harkness Fellowship of the Commonwealth Fund) per gli anni 1974-76. A
Pittsburgh studiò soprattutto logica e filosofia del linguaggio (con Richmond H. Thomason
e Nuel Belnap), filosofia della logica e filosofia contemporanea (con Wifrid Sellars e
Nicholas Rescher). Tornato in Italia nel 1976 riprese l’attività come Assistente di Filosofia
teoretica e, dal 1977, come Professore incaricato di Filosofia del linguaggio. Tornò negli
Stati Uniti nel 1979, per conseguire il dottorato di ricerca con una tesi sulla Logica di
Hegel (Contradiction and the Language of Hegel’s Dialectic), avendo come supervisore
Nicholas Rescher. In quell’occasione, oltre ad insegnare logica, seguì i corsi del giovane
Robert Brandom, da poco arrivato a Pittsburgh. Anche in seguito avrebbe trascorso
periodi di studio negli Stati Uniti (1983, 1987, 2004). Professore associato di Filosofia del
linguaggio a Torino dal 1982, è stato poi Professore ordinario di Logica a Cagliari (199091) e poi nuovamente di Filosofia del linguaggio a Vercelli (1991-2004) e infine a Torino
dal 2004. Ha partecipato fin dall’inizio (1992) all’attività della European Society for
Analytic Philosophy, facendo parte del primo comitato direttivo; è stato Presidente della
Società italiana di Filosofia analitica nel biennio 1996-98.
La tesi di laurea di Marconi, pubblicata col titolo Il mito del linguaggio scientifico. Studio
su Wittgenstein (Mursia 1971), si inserisce – con qualche asprezza giovanile – tra gli studi
che, in quegli anni, si proponevano di dissociare la personalità filosofica di Wittgenstein
dal neopositivismo con cui veniva tradizionalmente identificata. Marconi fu tra i primi (non
solo in Italia) a insistere sull’importanza filosofica dell’appartenenza di Wittgenstein
all’ambiente culturale viennese di Adolf Loos e Karl Kraus, di Freud, Mahler e Schönberg.
L’obiettivo non era però quello di costruire un’immagine di Wittgenstein unilateralmente
opposta a quella tradizionale, in cui la logica, ad esempio, diventasse “soltanto
un’occasionale via d’accesso alla filosofia”; ma invece di mettere in luce la connessione
tra le sue ricerche logiche, epistemologiche e di filosofia della matematica e quelle di
argomento estetico, etico e religioso. Il libro, che era una presentazione complessiva del
Wittgenstein allora noto (molte raccolte di appunti non erano ancora state pubblicate),
aveva come tema centrale la transizione dalla posizione del Tractatus logicophilosophicus, in cui solo il discorso delle scienze naturali è sensato e capace di verità,
alla posizione successiva (il cosiddetto “secondo” Wittgenstein), in cui le condizioni di
sensatezza sono considerate proprie di ciascun discorso o “gioco linguistico”. In questa
seconda prospettiva, si pongono i due problemi della comunicazione tra giochi linguistici
diversi e della radice dell’adesione ad un determinato “gioco”. Al secondo problema
veniva data una risposta ermeneutica: “Le regole che costituiscono [un gioco linguistico],
pur essendo in larga misura arbitrarie, dipendono per la loro credibilità dalla realtà così
come essa è interpretata; diversi modi di rapportarsi alla realtà istituiscono regole
diverse”. Quanto al primo problema, la comunicazione tra punti di vista diversi veniva
considerata “una forma di violenza”, che consiste nel tentativo di mutare il punto di vista
altrui; alla filosofia toccava il compito di “mostrare la perenne possibilità di punti di vista
diversi e alternativi”. Il libro si concludeva sostenendo che alla radice dell’assunzione di
un punto di vista – cioè dell’adesione a un gioco linguistico – c’è anche una scelta di
valore: “Una descrizione della realtà è considerata legittima come tale, anche nella
misura in cui fornisce un’immagine del mondo accettabile in base a criteri di valore”.
In questo primo periodo della sua attività filosofica, Marconi aderiva alla prospettiva
ermeneutica difesa in quegli anni da Luigi Pareyson e Gianni Vattimo, insistendo in
particolare sul radicamento fattuale delle nostre scelte concettuali: “Che il gioco
linguistico sia sempre una possibilità, che la partecipazione ad esso implichi sempre in
qualche modo una decisione, non vuol dire che si scelga un gioco linguistico come si
sceglie una cravatta. Esso fa tutt’uno con la vita mia e della comunità a cui appartengo;
in suo nome si combatte; errore e follia sono il nome di ciò che nega la struttura del gioco
[ecc.]” (“Contesto e fondamento”, 1971; poi ricompreso in L’eredità di Wittgenstein,
Roma 1987). I giochi linguistici non hanno altro fondamento che il loro radicamento in
quella che è di fatto la nostra forma di vita, ma questo radicamento è tutt’altro che
debole.
Marconi avrebbe sempre continuato a confrontarsi col pensiero di Wittgenstein (e
continua a farlo tuttora). Alla fine degli anni ’80, la pubblicazione di una raccolta di suoi
scritti sul filosofo viennese gli avrebbe dato l’occasione di una riflessione nuova, in cui,
discutendo del (presunto) relativismo di Wittgenstein, prendeva le distanze dalla deriva
relativistica dell’ermeneutica:
“La consapevolezza della contingenza, della particolarità, in un certo senso della gratuità
del proprio punto di vista (schema concettuale, gioco linguistico, ecc.) non comporta né
l’‘uscita dalla propria pelle’ – la presa di distanza dai propri criteri di giudizio – né
restrizioni dell’ambito di applicazione e di validità di quei criteri, come propone il
relativismo nella sua varietà etnocentrista” (“Altre ragioni”, in L’eredità di Wittgenstein,
1987).
L’esistenza di punti di vista diversi dal nostro non rende necessariamente il nostro punto
di vista più fragile e precario, così come la possibilità – in linea di principio – che una
nostra credenza sia falsa non costituisce di per sé un’obiezione a quella credenza. Queste
posizioni sarebbero state difese più ampiamente in Per la verità (2007).
In scritti successivi di argomento wittgensteiniano, come “Is Understanding a Mental
Process?” (1990) e “Can there be a scientific theory of vision? Hacker on Marr” (2004),
Marconi avrebbe criticato certi aspetti radicalmente antinaturalistici del pensiero di
Wittgenstein, sostenendo che le domande della forma “Che cos’è X?” (che cos’è la
comprensione, che cos’è la visione, ecc.) non ricevono risposta soltanto dall’analisi del
nostro uso del linguaggio, ma anche dall’indagine scientifica. Un’inclinazione naturalistica
si esprime anche nel capitolo conclusivo di Filosofia e scienza cognitiva (“Il ritorno della
natura umana”, 2001), dove peraltro si sostiene che il programma naturalistico di
comprensione degli esseri umani avrà pieno successo solo se riuscirà a dar conto della
normatività del mentale, e non è detto che questo sia possibile.
All’inizio degli anni ’70, l’interesse per proposte epistemologiche alternative a quella del
neopositivismo “liberalizzato”, insieme alla vivacità della discussione che si svolgeva in
quegli anni in Europa intorno alla nozione di dialettica, indusse Marconi a studiare prima
la teoria della psicologia di Kurt Lewin (lo psicologo gestaltista tedesco-americano degli
anni ’30 del Novecento) e poi la dialettica hegeliana, che in quegli anni, anche per la sua
eredità nell’opera di Marx, era un punto di riferimento di molti epistemologi eterodossi. Il
primo prodotto di questi studi (1972-1979) fu l’antologia La formalizzazione della
dialettica (Rosenberg & Sellier 1979) con la relativa Introduzione. Nell’antologia erano
raccolti due tipi di testi: da un lato, tentativi di formalizzazione del discorso dialettico di
Hegel e di Marx; dall’altro, i primi esempi di quella che di lì a poco si sarebbe chiamata
“logica paraconsistente”, cioè la logica “compatibile con la contraddizione”. Sui testi del
primo tipo, Marconi esprimeva non pochi dubbi, per quella che giudicava la loro scarsa
capacità di gettar luce sui modi di costruzione dei discorsi filosofici di Hegel (e di Marx), e
delineava una proposta essenzialmente diversa, poi formulata nella tesi di dottorato
Contradiction and the Language of Hegel’s Dialectic (1980). Sulla logica paraconsistente,
invece, il suo giudizio era più ottimistico; anche se questi sistemi di logica costituivano
più una condizione di possibilità del discorso dialettico che un organon per la costruzione
di quel discorso.
Un’obiezione classica contro il discorso dialettico, mossa ad esempio da Karl Popper, era
infatti la seguente: qualsiasi teoria che includa contraddizioni è di necessità una teoria
banale – cioè una teoria in cui è possibile dimostrare sia p sia non-p, per qualsiasi
proposizione p – perché un principio logico classico (detto “principio dello pseudo-Scoto”)
consente di dimostrare qualsiasi proposizione a partire da una contraddizione. Ma, a
partire dalla fine degli anni ’40 e più intensamente negli anni ’60 e ’70, vennero proposti
sistemi di logica che differivano dalla logica classica per il fatto di non avere la proprietà
espressa dal principio dello pseudo-Scoto. Se una teoria incorporava una logica di questo
tipo, poteva essere al tempo stesso contraddittoria e non banale. Dato che questi sistemi
di logica avevano un potere deduttivo non sensibilmente inferiore a quello della logica
classica, veniva a cadere l’obiezione “formale” di Popper contro le teorie dialettiche.
Nell’antologia, venivano presentati e commentati i principali sistemi allora esistenti, e
veniva proposta una tassonomia delle logiche paraconsistenti. Più o meno negli stessi
anni, Marconi avrebbe dato anche alcuni contributi tecnici alla logica paraconsistente (che
oggi è un settore fiorente della ricerca): per esempio i tableaux semantici per i sistemi Cn
di da Costa (1980) e la semantica algebrica per il sistema D di S.K. Thomason (pubblicata
molto più tardi, nel 1993).
Anche se non è mai stata pubblicata (perché l’autore non ne era soddisfatto), la tesi di
dottorato di Marconi è di fatto il suo secondo libro e uno dei pochi libri di ricerca che egli
abbia prodotto. Marconi parte dalla diffusa convinzione che la natura della dialettica come
metodo non sia ancora stata compresa, e si propone di comprenderne le specificità
logico-linguistiche. Dopo aver fatto vedere che “qualsiasi rappresentazione soddisfacente
del metodo dialettico deve spiegare la formazione delle contraddizioni [dialettiche] a
partire da altre caratteristiche logico-linguistiche del testo hegeliano”, Marconi analizza
“lo status grammaticale e semantico dei termini concettuali” [termini come ‘il qualcosa’,
‘il finito’, ecc.] nel linguaggio di Hegel, e l’uso della copula (‘è’) in certe caratteristiche
forme enunciative hegeliane. La sua conclusione è che le contraddizioni dialettiche hanno
origine dall’indeterminatezza sintattica e semantica dei termini teorici usati da Hegel:
essi vengono sottoposti a ruoli sintattici diversi, e i loro sensi vengono identificati in modi
diversi ed eventualmente incompatibili fra loro. Questa indeterminatezza, peraltro, non
deve essere concepita come derivante da negligenza o semplice incapacità di rigore, ma
deriva dalla convinzione di Hegel che la “scienza” – il sapere assoluto della filosofia –
debba essere “priva di presupposti”, e dal fatto che (di conseguenza) il punto di partenza
della filosofia non possa che essere il linguaggio naturale con tutti i suoi aspetti di
vaghezza e ambiguità. Limitare l’indeterminatezza sintattica e semantica con cui i termini
si danno nell’uso, infatti, equivale ad ammettere presupposti teorici. La teoria incorporata
nell’uso naturale del linguaggio viene poi subito sottoposta a critica, e in questa critica
consiste, in parte, il procedere della dialettica.
L’intreccio, caratteristicamente hegeliano, di assunzioni sostanziali e analisi degli usi
linguistici indusse Marconi – in questi stessi anni – a riflettere sui presupposti metafisici
della semantica del linguaggio naturale correntemente praticata nell’ambito della filosofia
analitica. In “Le ambigue virtù della forma logica” (1979) sostenne che molte analisi
linguistiche sono condizionate dai pregiudizi ontologici dell’analista, e finiscono per
imputare al linguaggio naturale le sue preferenze filosofiche; peraltro, quelle stesse
analisi sono poi presentate come giustificazioni, delle tesi ontologiche da cui in realtà
dipendono.
Nella tesi su Hegel del 1979-80, Marconi non si pronuncia a favore né contro il metodo
dialettico; si limita a mostrare che, anche nella sua interpretazione apparentemente
riduttiva, esso è motivato da scelte teoriche significative di Hegel. Qualche tempo dopo
(nella voce “Dialettica” dell’Enciclopedia Einaudi, 1982) prende invece nettamente le
distanze dalla dialettica considerata come metodo proponibile per la filosofia di oggi:
“Hegel pensava che nella dialettica la filosofia avesse finalmente trovato il suo metodo,
perché in essa il contenuto dei concetti non è determinato sulla base di presupposti
estrinseci e infondati, ma si dispone naturalmente: i concetti svolgono le loro
articolazioni, i termini esibiscono le loro possibilità d’uso. Ma, nella realtà, i testi dialettici
mostrano continuamente di essere costruiti in base a scelte semantiche e inferenziali
opinabili e non più ‘inerenti al contenuto’ di altre. [...] Ma se la dialettica non riesce a
essere il metodo di una scienza filosofica ‘priva di presupposti’ essa diventa nient’altro
che uno stile di analisi del linguaggio [... privo di particolari privilegi nei confronti di altri
stili, che riconoscano francamente i presupposti in base a cui compiono le loro scelte
analitiche”.
All’inizio degli anni ’80, grazie al lavoro di Barbara Partee e di Andrea Bonomi, era
largamente diffusa la convinzione che una delle difficoltà principali del programma teorico
della semantica formale (sviluppato negli anni ’70 da Richard Montague e dai suoi allievi
come David Kaplan e Hans Kamp) fosse la questione del lessico. Una teoria semantica
formale per una lingua naturale come l’inglese o l’italiano non è in grado di distinguere
tra parole che appartengono alla stessa categoria semantica: ‘libro’, ‘tavolo’ e ‘gatto’
hanno, per la teoria, lo stesso valore semantico. L’aggiunta di postulati di significato
riesce in qualche misura a differenziare unità lessicali distinte, ma non fino al punto di dar
conto di ciò che un parlante competente sa, per il fatto di comprendere queste parole.
L’interesse per questo problema indusse Marconi a occuparsi del significato delle parole, e
in particolare di significato dei nomi comuni. Questa ricerca prese due direzioni, che
sarebbero poi entrambe sfociate nello studio della competenza lessicale (cioè dell’insieme
di conoscenze e capacità che sono alla base del nostro uso delle parole).
La prima direzione di ricerca aveva per oggetto le forme tradizionali di rappresentazione
del significato delle parole e la distinzione tra dizionari (che parlano di parole) e
enciclopedie (che parlano di cose). Marconi, studiando la storia della lessicografia, mostrò
che la distinzione non solo concettuale ma pratica tra dizionari e enciclopedie è
relativamente recente (“Dizionari e significato”, 1986) e che, a livello teorico, è molto
difficile dare sostanza alla distinzione tra conoscenza del significato delle parole e
conoscenza del mondo (Dizionari e enciclopedie, Giappichelli 1982, 2a ed. 1986) (molto
più tardi, la ricerca neuroscientifica avrebbe mostrato che la distinzione tra informazioni
semantiche e informazioni sul mondo non è realizzata da processi neurali differenti). In
questo periodo, le ricerche di Marconi sul lessico furono influenzate dal lavoro di revisione
di un dizionario italiano, il Palazzi-Folena, che Marconi stesso coordinò insieme a Carla
Marello e Michele Cortelazzo.
L’altra direzione di ricerca riguardava la rappresentazione del significato lessicale nei
sistemi di intelligenza artificiale, di cui Marconi aveva cominciato ad occuparsi all’inizio
degli anni ’80, seguendo un corso di formazione organizzato da Luciano Gallino presso il
CSI di Torino, imparando a programmare in Lisp e collaborando alla realizzazione di uno
dei primi interpreti semantici artificiali per l’italiano. Fu soprattutto la riflessione sui limiti
dei sistemi artificiali di elaborazione del linguaggio naturale che portò Marconi a
formulare l’ipotesi che la nostra capacità di usare le parole – la competenza lessicale –
abbia due aspetti distinti. Da un lato, noi conosciamo una rete di relazioni tra parole:
sappiamo che i gatti sono animali, che per mangiare bisogna aprire la bocca, che
camminare è un modo di muoversi. Questo lato della competenza – che Marconi chiamò
‘inferenziale’, perché rende possibili le inferenze come “Felix è un gatto → Felix è un
animale” – è realizzato in modo (tutto sommato) adeguato dai sistemi artificiali. Dall’altro
lato, noi sappiamo applicare le parole nel mondo reale (mediato dalla percezione):
sappiamo riconoscere un oggetto rosso, distinguiamo i cani dai gatti, se ci si dice di
andare a prendere un cucchiaio non torniamo con un cacciavite. Questo lato –
“referenziale” – della competenza non è realizzato nei sistemi artificiali; secondo Marconi,
è essenzialmente per questo che abbiamo la fondata impressione che essi non
comprendano davvero i testi che elaborano. Queste tesi furono formulate in
“Rappresentare il significato lessicale” (pubblicato solo nel 1989, ma scritto nel 1985), in
“Two Aspects of Lexical Competence” (1987) e in “Understanding and Reference” (1991).
Furono presentate in una versione più ampia ad una Summer School di Filosofia del
linguaggio svoltasi a Bolzano nell’estate del 1992 e poi nuovamente all’Università di San
Marino nel 1995, beneficiando delle osservazioni critiche di Roberto Casati, Achille Varzi,
Ray Jackendoff e molti altri. Furono poi estese e rielaborate nel libro Lexical Competence
(MIT Press 1997, trad. it. Laterza 1999), preceduto di poco dall’articolo “On the Structure
of Lexical Competence”, pubblicato nel 1995 nei Proceedings of the Aristotelian Society.
Sia nel libro sia nell’articolo Marconi mostra come la tesi dei due lati della competenza
lessicale – cooperanti, ma chiaramente distinti – sia anche un’ipotesi plausibile
sull’elaborazione cerebrale del linguaggio. Molti dati neuropsicologici (oggi rafforzati dalle
ricerche di neuroimmagine) mostrano come le capacità inferenziali e quelle referenziali
siano dissociate: è possibile, ad esempio, perdere la capacità di denominare oggetti pur
conservando la capacità di definire parole, o di ricordare la parola che corrisponde a una
definizione. Il libro mostra inoltre come la semantica formale non sia in grado di dare
pienamente conto della competenza semantica, perché è una teoria puramente
inferenziale; analogamente, i sistemi artificiali tradizionali non comprendono davvero il
linguaggio, perché non sono dotati di competenza referenziale.
Lexical Competence distingue nettamente tra teoria del significato e teoria della
competenza, proponendosi di contribuire alla seconda e non alla prima; ma fa anche
vedere come la teoria standard del riferimento, proposta da filosofi come Kripke, Putnam
e Burge, non sia in grado di dar conto della competenza referenziale, perché il concetto di
riferimento di cui fa uso fa sì che il riferimento delle parole non sia dominabile dai nostri
processi cognitivi. Anche in altri scritti Marconi ha cercato di sottoporre a tensione la
teoria standard del riferimento (“Discussioni recenti sul meaning”, 1976; “Competenza e
nomi propri”, 2000; “Neuropsychological data, intuitions, and semantic theories”, 2005;
“Being and being called”, 2008), mostrando tra l’altro come essa non possa porsi come
teoria della nostra capacità di usare le parole per riferirci alle cose. Ha inoltre sostenuto
che la teoria standard e la teoria alternativa tradizionale (ispirata a Frege) non possono
integrarsi in un paradigma coerente (“Two-dimensional semantics and the articulation
problem”, 2005).
A partire dagli anni ’80, Marconi si è occupato spesso anche del problema della verità: ha
fatto vedere che la cosiddetta “teoria della verità di Tarski” non può essere interpretata
come una teoria della corrispondenza (“Che cos’è la teoria della verità di Tarski”, 1984),
che la verità non dipende necessariamente dall’esistenza di menti capaci di pensieri,
contro ciò che sostengono Heidegger e Richard Rorty (“On the Mind Dependence of
Truth”, 2006) e ha criticato varie forme di relativismo, a partire da intuizioni realistiche
“ingenue” largamente diffuse e, a suo giudizio, difficilmente rinunciabili (Per la verità,
2007; “Tasty for Mary”, 2008). Attualmente, sta cercando di chiarire la natura della
distinzione tra teorie del linguaggio che diano conto del nostro uso del linguaggio da un
punto di vista cognitivo e teorie del significato “classiche”, basate sulla nozione di
condizioni di verità.
GIACOMO MARRAMAO
Giacomo Marramao, nato a Catanzaro il 18 ottobre 1946, si è formato all’Università di
Firenze sotto la guida di Eugenio Garin e Cesare Luporini (in una Facoltà di Lettere e
Filosofia che poteva contare in quegli anni sul magistero di storici come Delio Cantimori
ed Ernesto Sestan, filologi come Gianfranco Contini, logici come Ettore Casari, storici delle
idee filosofiche e scientifiche come Francesco Adorno, Claudio Cesa, Paolo Rossi e Cesare
Vasoli). Da questa fase di formazione – segnata da uno spiccato interesse non solo per la
filosofia ma anche per la storia antica, la filologia classica e romanza, l’antropologia
culturale, la letteratura e la scienza – sono venuti emergendo due temi che avrebbero poi
condizionato in modo decisivo la sua riflessione: per un verso l’istanza di una revisione
dello “storicismo” nella direzione di un approccio scientifico al problema della storia (e del
tempo storico), condensato nella categoria di “morfologico” elaborata da Antonio
Labriola; per l’altro la centralità del concetto di praxis come filo conduttore di una
rilettura filosofica dell’opera di Marx, che si era affermata nel marxismo italiano – con
largo anticipo rispetto alla Marx-Renaissance inaugurata in Europa da Storia e coscienza
di classe di Lukács (1923) – a partire da Giovanni Gentile (con la sua
traduzioneinterpretazione delle Tesi su Feuerbach ) e, successivamente e con declinazioni
diverse, da Rodolfo Mondolfo e Antonio Gramsci. Un ruolo importante è stato svolto nella
delineazione delle sue prime linee di ricerca dalla polemica di Luporini con Galvano Della
Volpe e dalla recezione dell’opera di Louis Althusser e della sua interpretazione
antistoricista di Marx. Proprio Althusser veniva chiamato in causa, in una provocatoria
lettura incrociata con Marcuse, nel suo primo contributo scientifico, dedicato a La nuova
critica marxista e l’estetica: a dimostrazione del fatto che, pur muovendo da ottiche
fondamentalmente antitetiche, due autori cruciali per il dibattito filosofico di quegli anni
ponevano l’esigenza di una considerazione autonoma della dimensione estetica, in
termini radicalmente diversi dai canoni meccanicistici soggiacenti alla teoria del “realismo
socialista” (M 1968).
L’idea di una “riforma della dialettica” sin dalla sua genesi biforcata nelle traiettorie
alternative rappresentate da Croce e Gentile, e della “filosofia della Praxis” di matrice
gentiliana come chiave di volta del marxismo italiano, costituisce il motivo conduttore e
“controcorrente” della tesi di laurea, elaborata tra il 1966 e il 1968 sotto la guida di
Eugenio Garin. Concentrata prevalentemente sull’opera di Rodolfo Mondolfo (con il quale
Marramao ha avuto, a partire dal 1967, un fitto scambio epistolare), la tesi è stata
dapprima parzialmente anticipata su riviste come “Critica marxista” (M 1969a e 1969b) e
il “Giornale critico della filosofia italiana” (M 1970), per essere poi pubblicata in forma
riveduta e ampliata come volume (M 1971). Un chiaro riconoscimento del significato di
quell’opera e della sua tesi di fondo – che presentava, sia pure in una prospettiva diversa,
analogie e punti di intersezione con l’interpretazione “transpolitica” della filosofia del XX
secolo che sarebbe stata sviluppata in anni successivi da Augusto Del Noce – è venuto, a
vent’anni dalla sua pubblicazione, dallo stesso Garin nel saggio introduttivo all’edizione
Garzanti delle Opere filosofiche di Gentile. Dopo aver sottolineato la rottura costituita
dall’intuizione gentiliana, per cui “proprio nel concetto di praxis Marx aveva avviato lo
sviluppo di un tema fondamentale”, Garin osservava: “Sul rapporto Mondolfo-Gentile, e
più in generale sulla posizione del Gentile negli studi su Marx, è da vedere soprattutto
l’importante volume di G. Marramao, Marxismo e revisionismo in Italia [...]. In particolare
sulle Glosse e sul ‘rovesciamento della prassi’ (umwälzende Praxis e revolutionäre Praxis)
[...] Marramao osserva che ‘la traduzione delle Thesen riportata da Mondolfo
sostanzialmente riproduce quella di Gentile’, introducendo tuttavia alcune correzioni
importanti. Non solo: ‘Se Gentile – soggiunge – aveva avuto il merito di indicare l’enorme
importanza filosofica di tutte le Glosse (non soltanto della più famosa XI), Mondolfo ha
l’altro merito di centrare la III e di assumerla, cogliendo e sviluppando lo spunto più
importante del saggio gentiliano, a entelechia dell’intero sistema’. Sempre Marramao
scrive: ‘Si parlava di interpretazione umanistica del marxismo: la scelta di un testo
falsamente limpido come le Thesen über Feuerbach, che aveva dato a Gentile l’occasione
per presentare il pensiero di Marx come una concezione filosofica a base materialistica
ma con presupposti prettamente idealistici, offre dieci anni dopo (1909) a Mondolfo lo
spunto per sviluppare, con tutte le stimolanti mediazioni fornite dalla lettura delle opere
di Feuerbach, i concetti di realer Humanismus e di Prassi che si rovescia, che,
strettamente congiunti tra loro, costituiscono il supporto fondamentale della ´concezione
realistica della storia´’” (Garin 1991, p. 38). Le implicazioni critiche radicali della tesi
rispetto al tradizionale schema teorico-storiografico, volto ad affermare la centralità di
Croce nella vicenda del marxismo italiano, non sfuggivano certo a Garin, che più avanti
osservava: “Giustamente Marramao [...] sottolinea gli equivoci derivati dalla
‘sovrapposizione dell’etichetta Croce a motivi in realtà squisitamente gentiliani’.
‘L’influenza gentiliana sugli sviluppi del cosiddetto ´marxismo italiano´ – nota una volta –
ha subito il singolare destino di essere scambiata, spesso e volentieri, con quella di
Croce, la quale, di conseguenza, per il fatto di essere anch’essa ´riformatrice´ della
dialettica, è stata posta a fondamento della ´filosofia della prassi´’.” Quasi esemplare di
questo modo di porre il rapporto Gentile-Croce l’affermazione di Gramsci (Quaderni, vol.
II, p. 1234): ‘la filosofia del Croce non può essere [...] esaminata indipendentemente da
quella del Gentile [...] l’attualismo gentiliano darà gli effetti di chiaroscuro nel quadro che
sono necessari per un maggior rilievo’” (Garin 1991, p. 39).
Malgrado il giudizio fortemente critico verso il retaggio idealistico della “filosofia della
praxis”, che veniva a coinvolgere la stessa opera di Gramsci (M 1972) ma che sarebbe
stato parzialmente riveduto negli anni successivi (M 1975a), quella iniziale traccia di
riflessione poneva già due esigenze – complementari e in tensione tra loro – destinate a
segnare in profondo il lavoro successivo di Marramao: l’esigenza di un approccio
scientifico alle forme e strutture della storia capace di tenere insieme i momenti della
continuità e della rottura, della storia-processo e della storia-evento; e l’esigenza di
un’analisi differenziata della dinamica – a un tempo materiale e simbolica – di
costituzione dei soggetti.
Una svolta decisiva nella direzione di un approfondimento e ampliamento su scala
internazionale di questa linea di ricerca è stata rappresentata dall’incontro con il milieu
della Scuola di Francoforte, reso possibile dal lungo soggiorno di ricerca presso la GoetheUniversität tra il 1971 e il 1975 (prima come borsista del CNR, poi come fellow della
Alexander von Humboldt Stiftung). A Francoforte Marramao entra presto in contatto, oltre
che con un filosofo della politica come Iring Fetscher e con esperti della “teoria del
valore” di Marx come Helmut Reichelt e Hans-Georg Backhaus, con alcuni tra i maggiori
rappresentanti della seconda e terza generazione della Teoria Critica francofortese, con i
quali intreccia rapporti di stretta collaborazione e di sodalizio personale destinati poi a
svilupparsi nel corso del tempo: da Oskar Negt ad Alfred Schmidt, da Detlev Claussen ad
Helmut Reinicke; mentre negli anni successivi avrebbe intrecciato un fecondo scambio
intellettuale con Jürgen Habermas, Karl-Otto Apel, Claus Offe e Axel Honneth, come pure
con studiosi distanti dalle posizioni della Kritische Theorie, come il sociologo Niklas
Luhmann e lo storico Reinhart Koselleck, e con figure-guida dell’ermeneutica filosofica
come Hans-Georg Gadamer e Rüdiger Bubner. La recezione dei principali motivi
conduttori della Scuola di Francoforte, tuttavia, se per un verso rende Marramao sempre
più consapevole della svolta costituita dall’analisi dei meccanismi di “reificazione” nella
società di massa e dall’assunzione della rilevanza teorico-pratica del “fattore oggettivo
soggettività”, per l’altro lo dispone a un atteggiamento critico, volto ad evidenziare le
aporie inerenti alla nozione di “totalità” di Horkheimer e Adorno alla luce di un confronto
serrato con le scienze sociali: di qui la tendenza – documentata da una serie di lavori
apparsi in Italia, Germania e Stati Uniti (M 1973a, 1973b, 1975b, 1975c, 1975d, 1976a,
1976b, 1977, 1981 e 1984) – a valorizzare, in chiave di contrappunto alla tesi
“continuista” della Dialettica dell’illuminismo, i contributi teorico-economici, teoricopolitici e socio-genealogici di autori come Friedrich Pollock, Henryk Grossmann, Franz
Borkenau, Otto Kirchheimer e Franz Neumann.
Rientrato in Italia, Marramao inizia la sua attività di docente prima all’Università di
Salerno (1975-1977), dove tiene l’insegnamento di Metodologia e tecnica della ricerca
sociale, per passare successivamente all’Università di Napoli “L’Orientale” (1977-1995),
dove tiene la cattedra di Filosofia della politica, e infine (dal novembre 1995)
all’Università di Roma Tre, dove ricopre prima la cattedra di Filosofia politica, poi quella di
Filosofia teoretica. Ma già dalla metà degli anni Settanta, in seguito alle traduzioni dei
suoi lavori, tiene frequenti lectures in importanti università europee e americane. Si
profila, in questo periodo, una traccia di ricerca tesa a valorizzare le linee di tendenza
“eretiche” della Kulturkritik, operanti nel contesto mitteleuropeo tra le due guerre
mondiali lungo la linea di confine tra filosofia e scienze sociali. Di qui l’attenzione rivolta
ai dibattiti filosofico-politici ed epistemologici nella Germania weimariana e al ruolo svolto
dall’intelligentsia austromarxista (O. Bauer, M. Adler, K. Renner) nella cultura viennese
dei primi tre decenni del Novecento. L’interesse per questi temi, lungi dal risolversi in una
ricostruzione puramente storiografica, era motivato da due distinte e complementari
ragioni teoriche: da un lato, l’individuazione dei punti di rottura in cui viene delineandosi
la crisi dell’“essenzialismo” (sia metafisico sia scientifico); dall’altro, la messa a fuoco di
quei momenti topici in cui il pensiero del XX secolo pone a tema i fenomeni della
frammentazione della sovranità e della dislocazione delle forme di potere e di conflitto.
Riguardo al primo aspetto, va ricordato il volume dedicato all’Austromarxismo (M 1977),
che, seguito da una serie di altri saggi sullo stesso tema pubblicati in Italia e all’estero (M
1978, 1979b, 1980 e 1982), mette in luce il carattere insieme innovativo e problematico
di un indirizzo di pensiero che rilegge Marx alla luce della rivoluzione epistemologica
rappresentata dai nomi di Ernst Mach e Otto Neurath e che, sul versante della filosofia
giuridica e politica, si confronta con Hans Kelsen a partire dal fondamentale saggio di
Ernst Cassirer su Concetto-sostanza e concetto-funzione (1910): pur collocandosi su fronti
per molti aspetti opposti, gli “austromarxisti” e Kelsen si trovano accomunati nella stessa
esigenza di “desostanzializzazione” di nozioni come Stato, Diritto e Popolo e nella loro
traduzione in termini “relazionali” e “funzionali”. Riguardo al secondo aspetto, va
menzionato invece il volume Il politico e le trasformazioni (M 1979a). Quest’opera
rappresenta, ad un tempo, un bilancio delle ricerche avviate durante il soggiorno
francofortese e l’avvio di una nuova traiettoria di riflessione incentrata – attraverso un
confronto tra i “marxismi” e l’analisi della razionalizzazione condotta da Max Weber –
sulle metamorfosi del “politico” nel passaggio dalla società libero-concorrenziale alla
società di massa, dal “capitalismo manchesteriano” al “capitalismo organizzato”.
Traducendo in chiave di social philosophy alcuni motivi del dibattito storiografico e
politologico angloamericano (Ch. S. Maier, Ph. Schmitter), il libro individuava nel
fenomeno del “pluralismo corporatista” uno dei principali fattori di scomposizione della
sovranità e nelle soluzioni totalitarie degli anni Trenta non un ripristino della sovranità,
ma un tentativo di fronteggiarne la frammentazione attraverso pratiche di consenso e
disciplinamento, discriminazione e repressione violenta, volte alla “nazionalizzazione delle
masse”. Per altro verso, sganciando la categoria weberiana di “razionalizzazione” dalla
lettura unilaterale proposta dalla linea maggioritaria della Scuola di Francoforte, l’analisi
delineata nel testo finiva per concentrarsi sul tema del “politeismo dei valori”, inteso non
già come armonico pluralismo di punti-di-vista, ma come costellazione conflittuale di
punti-di-attacco. Per questa via, la diagnosi-prognosi di Max Weber veniva messa in
relazione con l’opera di Carl Schmitt: per il quale il “concetto di Politico”, una volta
distinto e reso autonomo dalla forma-Stato moderna, doveva – nell’“epoca delle
neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni” – rapportarsi a quella dimensione tragica del
conflitto di valori e di visioni del mondo, al cui confronto la scena influente hobbesiana del
bellum omnium contra omnes si presentava come un autentico idillio.
Se a partire da quel testo la lettura incrociata dei temi weberiani e schmittiani e il
problema delle trasformazioni del politico nella direzione di un “ordine posthobbesiano”
costituiranno dei richiami costanti e dei punti di non ritorno (M 1985 e 1995), in una
importante tappa successiva della sua riflessione Marramao è giunto alla conclusione che,
per andare alla radice dei processi che hanno condotto alla crisi della grande impalcatura
del Leviatano moderno, non è sufficiente l’“onda corta” della tradizionale filosofia politica,
ma occorre attivare un’“onda lunga” dell’analisi, capace di dar mano a una vera e propria
ricostruzione genealogica dei presupposti del “razionalismo occidentale”. In questo senso,
una svolta decisiva del suo itinerario intellettuale è rappresentata da Potere e
secolarizzazione (M 1983). Con questo libro diviene centrale nella ricerca di Marramao la
problematica filosofica del tempo che, in una relazione assiale con la questione del
potere, verrà da allora in poi a costituire il nucleo centrale della sua riflessione: “Nella
prospettiva da me delineata”, si legge nella prefazione alla nuova edizione del libro, “il
teorema della secolarizzazione offriva il pattern analitico di lettura più efficace per
ricostruire la genealogia del potere, a partire dall’onda lunga rappresentata dalla frattura
determinatasi, nel corpo del pensiero occidentale, in seguito all’irruzione della nuova
costellazione simbolica del tempo lineare di matrice ebraico-cristiana. Una temporalità
cumulativa, irreversibile e orientata al futuro che, spezzando la circolarità paradigmatica
e sinottica della concezione greca del tempo, fa della parola profetica la prima forma di
disincantamento del mondo. In linea con Weber e Löwith – e a dispetto di Heidegger e
della sua “storia del nihilismo e della metafisica” – non solo Atene, ma anche
Gerusalemme racchiude in sé la cifra destinale dell’Occidente. La costellazione metaforica
e simbolica del tempo “infuturante” (con i pilastri costituiti dalle idee di progresso,
rivoluzione, liberazione) si delinea pertanto come l’ineludibile orizzonte di riferimento del
moderno concetto di Storia universale o storia-mondo (Weltgeschichte) che, a partire da
Kant, è destinata a permeare l’intera vicenda della filosofia della storia tra Otto e
Novecento” (M 2005, p. 10). Nel ricostruire, dall’angolazione prospettica delle
metamorfosi dell’intuizione e dell’esperienza del tempo, le tappe del razionalismo
occidentale, il libro chiamava in causa non solo riferimenti filosofici, artistici e letterari
(confrontandosi con la polemica Schmitt-Blumenberg intorno alla secolarizzazione come
con la “storia dei concetti” di O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck, con le ricerche
anglosassoni su metafora e scienza come con le ricerche del grande storico antico Santo
Mazzarino, per la prima volta discusse in sede filosofica), ma includeva nella propria
traiettoria la stessa vicenda delle scienze naturali e sociali: dalla prima rivoluzione
scientifica alla svolta epistemologica rappresentata dal paradigma sistemico e dalla
“teoria delle catastrofi”. Muovendosi controcorrente rispetto al postmoderno filosofico, al
quale contrapponeva la categoria di “ipermodernità”, il libro prendeva le mosse dalla tesi
di Ludwig Wittgenstein, per cui la temporalità cumulativa e infuturante del Progresso non
è una semplice proprietà del Moderno, ma ne costituisce al contrario la forma: una forma
“tipicamente costruttiva”, la cui attività consiste nell’erigere “una struttura sempre più
complessa”. A partire da questo assunto, Marramao giungeva – attraverso una
riconversione filosofica della semantica dei tempi storici di Reinhart Koselleck – alla
conclusione che l’esperienza ipermoderna del tempo, scandita da un’accelerazione
sempre più intensa e vertiginosa delle innovazioni, era rappresentata dalla sindrome del
“futuro passato”: di un futuro non più atteso e intenzionato come speranza di
cambiamento ma esperito come déjà vu e ripetizione dell’identico. In un volume
successivo, Cielo e terra, Marramao ripercorreva la lunga serie di spostamenti semantici
ed estensioni metaforiche attraverso cui il lemma “secolarizzazione” – il cui orizzonte è
rappresentato da un tipico dualismo occidentale: la coppia eternità/secolo – si è
trasformato da terminus technicus sorto originariamente in ambito giuridico in nozione
teologica e di filosofia della storia, fino a denotare da ultimo la crisi di ogni modello di
“storia orientata”: in una temperie ipermoderna delimitata ai due poli dal disincanto
operato dalla scienza e dal prepotente ritorno del mito e delle varie forme di
fondamentalismo religioso (M 1994).
Mentre le tesi di Potere e secolarizzazione divenivano oggetto di intense discussioni sul
piano internazionale (Giner 2006), un approfondimento stricto sensu teoretico della
questione del tempo veniva svolto in due opere successive: Minima temporalia. Tempo,
spazio, esperienza (M 1990) e Kairós. Apologia del tempo debito (M 1992). In questi
lavori, operando uno “spostamento laterale” della visuale adottata nelle sue ricerche
genealogiche sulla secolarizzazione, Marramao – in polemica con le concezioni di Bergson
e di Heidegger, che postulavano con declinazioni diverse una forma pura o “autentica”
della temporalità, più “originaria” rispetto alle sue rappresentazioni/spazializzazioni –
argomenta l’inscindibilità del nesso tempo-spazio e, richiamandosi alla fisica postrelativistica contemporanea, riconduce la struttura del tempo a un profilo aporetico e
impuro, rispetto a cui la dimensione dello spazio costituisce l’ineludibile riferimento
formale per pensarne i paradossi. L’alternativa filosofica avanzata viene così a delinearsi
– tramite un serrato confronto incrociato con i linguaggi dell’arte e della scienza – come
una ontologia postmetafisica dello “spaesante” e della “differenza”, concepita in aperta
rottura con le attuali declinazioni della tematica del “nichilismo”. A differenza del
postmoderno, essa non è più giocata sui consueti “superamenti” e “rovesciamenti”, ma su
una “deangolazione prospettica”: su uno spiazzamento radicale dell’ottica con cui l’intera
tradizione filosofica occidentale – da Platone a Bergson, da Aristotele a Leibniz, da
Nietzsche a Foucault, da Baudelaire a Benjamin – ha finora visualizzato la “questione del
tempo” (Benso 2008).
La categoria di differenza, ricavata da un confronto con il variegato arcipelago del
pensiero filosofico femminista iniziato sin dagli anni Settanta, viene assunta a criterio
ricostruttivo di un universale “nonidentitario” nelle opere più recenti: Passaggio a
Occidente (M 2003) e La passione del presente (M 2008). In questi lavori viene operata
una saldatura tra l’ottica genealogica (prevalente in testi come Il politico e le
trasformazioni, Potere e secolarizzazione, Cielo e terra e Dopo il Leviatano) e l’ottica
teoretica (rappresentata da Minima temporalia e Kairós), al fine di gettar luce sulla
costellazione concettuale e simbolica del nostro presente globale. Passaggio a Occidente
rappresenta un tentativo di fornire un’interpretazione filosofica della globalizzazione. Lo
straordinario “mutamento di scala” che accompagna i fenomeni della nostra epoca non
può essere compreso senza chiamare in causa il nesso di mondializzazione e
secolarizzazione: se è vero che l’età globale mette capo alla nuova realtà del “mondo
finito”, in cui non hanno più senso le distinzioni euclidee tra “dentro” e “fuori”, “centro” e
“periferia”, “territorio” e “frontiera” (come aveva precocemente intuito sin dal 1928 Paul
Valéry nei Regards sur le monde actuel), ne consegue che la cosiddetta globalizzazione
non ha solo un significato tecno-economico e neppure soltanto culturale (falliscono
dunque il bersaglio le diagnosi, apparentemente antitetiche, della “fine della storia”
nell’universale omologazione mercantile di Fukuyama e dello “scontro di civiltà” di
Huntington). Siamo piuttosto di fronte a una paradossale struttura bilogica, caratterizzata
dalla coabitazione conflittuale tra uniformazione tecnologico-mercantile e diaspora
identitaria. Per fronteggiare i guasti prodotti dalla logica uniformante e “desimbolizzante”
del mercato globale e dalla minaccia “ipersimbolizzante” dei conflitti identitari (che
assumono ora la forma del fondamentalismo religioso, ora quella dell’esclusivismo
culturale o del localismo etnico), occorre operare una riconversione dei tradizionali
concetti di identità e differenza, contingenza e necessità, assolutismo e relativismo,
cogliendo nella mondializzazione non una semplice “occidentalizzazione”, ma un
passaggio a Occidente destinato a trasformare tutte le culture (compresa la stessa civiltà
occidentale). L’esigenza – avanzata in conclusione attraverso un serrato confronto con le
posizioni di J. Derrida e J. Habermas – di una “politica universalista della differenza”
viene formulata in base a un radicale riesame critico tanto del gergo “culturalista” oggi
proliferante, quanto delle pretese di universalità delle stesse categorie, tipicamente
occidentali, di filosofia e democrazia.
La prospettiva di un universalismo (o cosmopolitismo) della differenza viene ripresa e
sviluppata in La passione del presente: opera orchestrata in una serie di parole-chiave
che intendono fungere da possibile lessico per “circumnavigare”, muovendo da postazioni
concettuali diverse, la logica e la struttura della nostra modernitàmondo. Una celebre
sentenza di Hegel assegnava alla filosofia il compito di comprendere il proprio tempo nel
pensiero. Secondo Marramao questa responsabilità, caratteristica dell’epoca moderna,
non è demandabile ad altri saperi e tanto meno cedibile a chi si proclama depositario
delle risorse di senso. Ma le prospettive di un’ontologia del presente non possono essere
confuse – come accade a Foucault – con una “ontologia dell’attualità”: per pensare
radicalmente il presente e portarlo-al-concetto occorre essere in grado di coglierne quella
segreta piega inattuale che reca in sé, per dirla con Kant, il signum prognosticum di un avenire inteso non come “orizzonte” ma come “potenziale” simbolico in grado di produrre
un’apertura dell’esperienza verso il futuro. Si spiega così il senso del titolo: “Dove per
passione si intende non solo il coinvolgimento della riflessione filosofica nel destino del
proprio tempo, ma anche il modo in cui la stessa soggettività filosofica, come del resto
ogni altra soggettività, è implicata dal presente nel patirne il peso e le logiche
necessitanti” (M 2008, p. 10). L’assunto programmatico del libro pone esplicitamente
l’esigenza di fare interagire i due poli rappresentati dai diversi stili filosofici dell’analitica e
dell’ermeneutica. Tenere aperto il campo di tensione fra queste due tradizioni di pensiero
appare una condizione imprescindibile non solo per venire a capo del dilemma tra verità e
interpretazione che attualmente paralizza la ricerca filosofica contemporanea, ma anche
e soprattutto per saldare la diagnosi del presente alla dimensione del possibile e della
decisione, orientandola alla prospettiva di un’ontologia del contingente. Tale compito
appare tanto più urgente a fronte di una congiuntura globale sempre più segnata, sul
piano simbolico, dall’implosione del futuro (e dalla dominanza del “futuro passato”) e, sul
piano teorico, dall’allargarsi della forbice tra “verità” e “relativismo”. La tesi soggiacente
al libro muove pertanto dalla scena influente di una modernità-mondo segnata dal
passaggio dalla “colonizzazione del futuro” (operata dalle filosofie “occidentaliste” del
progresso) all’“eternizzazione del presente”: un presente la cui imago aeternitatis,
segnata dall’accoppiata paradossale di “agitazione e sterilità” (A. Badiou), accelerazione
febbrile e stagnazione, rischia di espungere dall’orizzonte le dimensioni “cairologiche” del
possibile e del contingente. La violenza identitaria che caratterizza, sotto la maschera dei
fondamentalismi religiosi, i conflitti (transterritoriali e transculturali) di un mondo glocalizzato, a un tempo uniformato e diasporico, altro non sono che l’interfaccia di un’epoca
delle “passioni tristi”, indotte dalla crisi del futuro come orizzonte di aspettativa. E
tuttavia, accanto all’intreccio perverso di questi fenomeni di implosione e di esplosione
molecolare, riconducibili agli aspetti patogenetici che tende ad assumere la logica
dell’identità, vediamo emergere in diverse aree del pianeta spinte liberatorie che
reclamano una ricostruzione multilaterale del progetto universalistico: muovendo dalla
presa d’atto che – per parafrasare il celebre monito di Amleto a Orazio – esistono più
forme di razionalità (e, conseguentemente, più vie alla libertà e alla democrazia) di
quante la nostra povera filosofia abbia finora potuto immaginare. A una tale ricostruzione
punta, sul piano filosofico, la trama intessuta dalle parole-chiave del libro: nella
convinzione che solo a partire da una critica radicale delle nozioni sostanzialistiche e
“reificate” del Sé, e dall’acquisizione della natura irriducibilmente relazionale e dinamicoprocessuale di ogni identità (sia essa personale o collettiva, culturale o religiosa), si apre
la prospettiva teorico-pratica di un universalismo della differenza imperniato – secondo
una feconda intuizione “kantiana” di Deleuze – sulla logica della “sintesi disgiuntiva”.
Riferimenti bibliografici
– Benso, S. 2008 Marramao’s Kairós: The Space of “Our” Time in the Time of Cosmic Disorientation, in “Human Studies”,
31
– Garin, E. 1991 Introduzione a G. Gentile, Opere filosofiche, Garzanti, Milano
– Giner, S. 2006 La secolarizzazione del tempo e il potere. La filosofia della storia di Giacomo Marramao, in AA.VV., Figure
del conflitto. Studi in onore di Giacomo Marramao, a c. di A. Martinengo, Valter Casini Editore, Roma
– M 1968 La nuova critica marxista e l’estetica, in “Uomini e idee”, X, 1968
_ 1969a Materialismo storico e filosofia della storia, in “Critica marxista”, 3
_ 1969b La riscoperta filosofica del rovesciamento della prassi, in “Critica marxista”, 6
_ 1970 La problematica della scientificità del marxismo nel pensiero di Antonio Labriola, in “Giornale critico della filosofia
italiana”, 3
_ 1971 Marxismo e revisionismo in Italia, De Donato, Bari
_ 1972 Per una critica dell’ideologia di Gramsci, in “Quaderni piacentini”, 46
_ 1973a Introduzione a F. Pollock, Teoria e prassi dell’economia di piano, De Donato, Bari
– 1973b Zum Verhältnis von Politischer Ökonomie und Kritischer Theorie, in “Ästhetik und Kommunikation”, 11
– 1975a Il marxismo di Gramsci e la teoria della transizione, in “Aut Aut”, 148
– 1975b Political Economy and Critical Theory, in “Telos”, 24
– 1975c Teoria della crisi e “problematica della Costituzione”, in “Critica marxista”, 2-3
– 1975d Dialettica della forma e scienza della politica, in “Critica marxista”, 6
– 1976a Theory of the Crisis and the Problem of Constitution, in “Telos”, 26
– 1976b Councils and State in Weimar Germany, in “Telos”, 28 (in collaborazione con G. De Masi)
– 1977 Krisentheorie und “Konstitutionsproblematik”, in AA.VV., Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main
– 1978 Tecnica sociale, Stato e transizione tra socialdemocrazia weimariana e austromarxismo , in AA. VV., Weimar, Il
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– 1979a Il politico e le trasformazioni, De Donato, Bari
– 1979b Zum Problem der Demokratie in der politischen Theorie Otto Bauers, in AA.VV., Otto Bauer un der “dritte” Weg,
Campus Verlag, Frankfurt-New York
– 1980 Tra bolscevismo e socialdemocrazia. Otto Bauer e la cultura politica dell’austromarxismo , in Storia del marxismo,
vol. III/1, Einaudi, Torino
– 1982 Die Formveränderung des politischen Konflikts, in W. Bonss-A.Honneth (eds.), Sozialforschung als Kritik, Suhrkamp,
Frankfurt am Main-New York
– 1983 Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Editori Riuniti, Roma (II ed. 1985)
– 1984 Introduzione a F. Borkenau, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, Il Mulino,
Bologna
– 1985 L’ordine disincantato, Editori Riuniti, Roma (II ed. 1986)
– 1990 Minima temporalia. Tempo, spazio, esperienza, Il Saggiatore, Milano (nuova ed., Sossella, Roma 2005)
– 1992 Kairós. Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari (III ed. 2005)
– 1994 Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari
– 1995 Dopo il Leviatano, Giappichelli, Torino (nuova ed., Bollati Boringhieri, Torino 2000)
– 2003 Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino
– 2005 Potere e secolarizzazione, nuova ed. accresciuta, Bollati Boringhieri, Torino
– 2008 La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo, Bollati-Boringhieri, Torino
VITTORIO MATHIEU
Nato a Varazze (Savona) il 12 dicembre 1923, da famiglia di origine savoiarda. Il padre,
ventenne, lasciò la pittura per seguire a Genova la Scuola di ingegneria navale. Nel 1929,
non trovando lavoro nei cantieri, si impiegò a Torino come disegnatore alla Fiat
Aeronautica. Divenuto responsabile del Laboratorio sperimentale, nell’agosto del 1944 (in
seguito a una lettera calunniosa) fu ucciso con la moglie da un reparto di partigiani
comunisti. Il figlio, finita la guerra, si dimise dalla medesima ditta, dove aveva lavorato
dopo l’8 settembre ’43 quale traduttore e interprete di tedesco, e si laureò in Filosofia
teoretica nel 1946. Dopo essere stato segretario di una commissione d’inchiesta fu scelto
da Augusto Guzzo come suo assistente di ruolo. Libero docente dal 1956, ottenne un
incarico di Filosofia Teoretica a Trieste. Nel 1960 vinse un concorso di Storia della filosofia
e insegnò varie discipline filosofiche a Trieste e a Torino. Lasciò nel 1997 la cattedra di
Filosofia morale e prese a vivere a Roma, dove era stato comandato per tre anni presso
l’Accademia dei Lincei (socio dal 1981), collaborando a giornali e ad attività legate alla
politica.
Oltre al Guzzo influirono su di lui Nicola Abbagnano – in quegli anni occupato a studiare i
precedenti storici dell’esistenzialismo – e Carlo Mazzantini con un corso sui Presocratici. Si
formò sui classici da Platone a Kant (su cui si laureò). Al seguito di Guzzo frequentò
importanti centri di cultura, quali l’Istituto Castelli e la Fondazione Cini. A Gallarate
collaborò a lungo col Centro di studi filosofici cristiani, in particolare per l’Enciclopedia
filosofica, per la quale scrisse numerosissimi articoli.
L’ontologia
Quella che M. chiamerà più tardi “ontologia” nasce dalla riflessione su Kant, e comincia
ad essere teorizzata in L’oggettività nella scienza e nella filosofia (Accademia delle
scienze di Torino, 1960). L’oggetto della nostra esperienza dipende da una struttura
“trascendentale” della mente, cioè da un suo modo di operare identico in tutte le menti
finite (Kant). Ma la mente non riesce a oggettivare la realtà fino in fondo. L’idea di M. fu
perciò di studiare nell’esperienza concreta la differenza dall’oggettività spaziale. Un
colore, ad esempio, si spalma sullo spazio, ma non è totalmente spaziale, perché non può
suddividersi al di sotto di una certa scala, dove è “tutto insieme” e diventa qualità.
Esaminando fenomenologicamente vari contenuti psichici (sentimenti più o meno
profondi), M. li colloca a una distanza progressiva dall’oggettività pura. “Distanza”
ovviamente metaforica, trattandosi di una differenza qualitativa (Il problema
dell’esperienza, Trieste 1963).
In ciò M. fu molto aiutato dalla lettura di Bergson (Bergson: il profondo e la sua
espressione, Torino 1954, 2ª ed. Napoli 1971). Bergson era passato da una
considerazione della durata, irreducibile a una dimensione dello spazio, a
un’interpretazione del modo dell’essere del Tutto, o “cosmo”, inteso all’antica come una
sorta di grande animale. Nel far ciò aveva distinto diversi “livelli di durata”, che sono
diversi modi d’essere della realtà. Nell’Introduzione alla metafisica (1903) aveva
affermato che “uno degli scopi della metafisica è operare differenziazioni e integrazioni
qualitative”. E questo cercherà di fare M.
La filosofia si integra così con la scienza moderna, su cui M. era indotto a riflettere
dall’ambiente torinese, dove era attivo un “Centro di studi metodologici”, fondato da
Abbagnano, Geymonat, Frola, Buzzati-Traverso etc. In maggioranza il Centro inclinava a
un’analisi del linguaggio di tipo neopositivistico, ma lasciava ai soci completa libertà.
Il modo bergsoniano di affrontare la scienza si sposava poi facilmente anche con
un’interpretazione religiosa. Di qui brevi saggi per il centro di Gallarate, in particolare La
magnificenza, virtù mondana (1958 ristampato in Dialettica della libertà, Napoli 1974): la
creazione gratuita del mondo è come un gesto divino di “magnificenza” (virtù analizzata
da Aristotele). Un riassunto di queste prime speculazioni si trova nel volume collettivo La
mia prospettiva filosofica (Padova 1988).
Dopo un periodo di riflessioni prevalentemene sociopolitiche, la seconda fase della
“ontologia differenziale e integrale” è aperta da una conferenza a Halle su Die
Hermeneutik als Brücke über die ontologische Differenz 1994 (L’ermeneutica come ponte
sulla differenza ontologica). La “differenza ontologica” è la differenza dall’oggettività del
1954, alla luce della heideggeriana impossibilità di descrivere l’“essere in quanto essere”.
L’ente è l’azione dell’Essere nella nostra esperienza finita e si differenzia dall’oggetto puro
fino al limite del self o “io”, rappresentabile solo con la metafora del punto. Su ciò è
pronto per la stampa un volume dal titolo N + 1: la dimensione in più, in cui la
differenziazione dei livelli di esistenza sempre più concentrati e la successiva integrazione
qualitativa sono trattate analiticamente e corredate da saggi complementari (“La
meccanica quantistica come controparte della finitudine”, “Lo spazio fisico” etc.)
L’ontologia integrale tratta da ultimo dei valori detti “assoluti” (i trascendentali della
Scolastica): bello, buono, vero. I valori sono sempre rispondenza ad altro: ad esempio, il
valore economico risponde a un desiderio o a un bisogno. Come parlare dunque di valore
assoluto? Anche questo valore a volte è inteso come rispondenza a qualcosa: il vero al
reale, il buono a una norma, il bello alla natura. Ma il valore sarà assoluto solo se è
rispondenza di una cosa a sé stessa. Ciò è pensabile a patto che una cosa (ad es.
un’opera d’arte) esista a più livelli. Allora i più superficiali possono rispondere ai più
profondi, fino al limite del punto. (È ciò che il Bergson del 1954 chiamava “espressione”.)
Economia, diritto, politica
Quando da Schopenhauer e soprattutto da Bergson M. risalì a Plotino, ebbe l’impressione
che in quella filosofia tutto ciò che c’era da dire fosse stato detto: perciò trascurò per
qualche tempo la teoretica per analizzare fenomeni sociopolitici, in particolare La
speranza nella rivoluzione (Milano 1972, 2ª ed. Roma 1992; trad. francese di Alain Pons,
Phénoménologie de l’esprit révolutionaire Parigi 1974 e spagnola, Madrid 1976). La
mistica della rivoluzione – l’opposto della ribellione – è un delirio di onnipotenza: non
vuole cambiare qualcosa, bensì rovesciare il tutto su sé stesso, “da così a così”. Di qui
nasce il giacobinismo (sulla linea Calvino–Rousseau–Robespierre) che è come un Cancro
in Occidente (Milano 1980). Il delirio di onnipotenza si manifesta in particolare nella
mistica dell’inflazione, studiata da M. nella sua forma originaria in John Law. Gli
“assegnati” della rivoluzione francese e il keynesianesimo del Novecento sono una mera
ripetizione del tentativo di Law di estrarre il qualcosa della ricchezza dal nulla della
cartamoneta (Filosofia del denaro dopo il tramonto di Keynes, Roma 1990, trad. spagnola
Madrid 1990). M. ebbe sempre un profondo interesse per gli studi giuridici (aveva dato
esami di legge, senza laurearsi) e difese in particolare il “diritto naturale”, d’accordo con
Sergio Cotta e con Francesco D’Agostino e in amichevole polemica con N. Bobbio e P.
Piovani (Luci e ombre del giusnaturalismo, Torino 1989). Mitica, senza dubbio, l’idea di
formulare un codice di leggi costanti e uguali per tutti; ma che la legge risponda alla
natura (dei rapporti in gioco) è necessario se non si vuole che dipenda solo dalla volontà
del più forte. Lo stesso Piovani, prima di diventare giuspositivista sotto l’influsso di Croce,
aveva sostenuto l’“avolontarietà della norma”, sotto l’influsso di Capograssi. La normativa
però (analogamente alla matematica per il teorema di Gödel) non può fondarsi da sé
sulla pura logica: per essere legittima deve avere anche la forza d’imporsi. Di qui
un’antinomia nel diritto che ha interessato anche Amedeo G. Conte.
Su una intrinseca antinomicità M. ritornerà a proposito della privacy. Questa commette un
“suicidio” quando la richiesta di “essere lasciati soli” si rovescia nel timore della
solitudine, e a ciò si cerca rimedio con la pubblicità (Privacy e dignità umana, Torino
2006).
In accordo con Kant, Perché punire (Milano 1977, 2ª ed. Macerata 2008) sostiene che la
pena, prima che alla società o alle vittime, è dovuta al reo, che solo così viene
reintegrato nel sistema del diritto. La pena in generale consiste in una diminuzione della
libertà del colpevole, simmetrica alla diminuzione che il colpevole ha causata nella
vittima. Sotto l’influsso del Beccaria (valido per la procedura penale, non per il diritto) il
senso della pena è andato perduto, perché il Beccaria riduce la pena a un mezzo di difesa
della società. Anche questo è uno scopo della pena, ma secondario, al pari della
rieducazione morale del reo. Per influsso negativo del “marchese Beccaria” (come lo cita
Kant), parallelamente al perdersi del concetto di pena (in particolare della pena di morte)
si indebolisce anche la difesa della società. A problemi di teoria politica M. fu portato
anche dalla carica di membro esecutivo dell’Unesco, che ricoprì dal 1976 al 1980. Per un
volume diretto da Charles Taylor sui “diritti dell’uomo dal punto di vista della comunità
internazionale” (Parigi 1986) scrisse i Prolegomena, osservando che l’uniformità dei diritti
umani contrasta col fatto che è un diritto umano anche conservare la peculiarità della
propria normativa (questione delicata soprattutto nei confronti dell’islam, su cui M. attirò
l’attenzione anche in uno degli ultimi “Venerdì letterari”).
L’arte
Musica e poesia sono state per M. “consolazioni” in senso schopenhaueriano. Sulla musica
in particolare tenne lezioni di estetica a Trieste e a Torino. Dopo aver studiato Il
demoniaco nella musica (Milano 1983, con un saggio sull’interpretazione), M. conclude
che la musica pura è “ascoltare il silenzio”. Dal nulla dei concetti essa fa emergere il tutto
dell’essere, pur in rapporti formalmente matematici (Il nulla, la musica, la luce, Milano
1996).
La poesia, per contro, può “significar per verba” anche concetti, come fa Il Paradiso di
Dante. Lo fece in particolare Rainer Maria Rilke soprattutto da giovane (Dio nel “Libro
d’ore” di R.M. Rilke, Firenze 1968). Un’attenzione continua M. dedicò al pensiero di
Goethe, dalla conferenza del 1950 su Faust e il disagio dell’uomo d’oggi fino a Goethe e il
suo diavolo custode (Milano 2002) e a Come leggere il Faust (in attesa presso Bompiani).
Parallelo al Faust corre il Meister, che si prolunga anch’esso per tutta la vita di Goethe. M.
mostra che la cosiddetta Theatralische Sendung non è una prima stesura del Meister, ma
una sua contraffazione. Infatti in essa si trova, in tre luoghi paralleli, lo stesso errore di
stampa che i segretari di Goethe non corressero in tutte le edizioni lui vivente; e un
errore di stampa si trasmette solo copiando. Parallelamente alle radici cristiane, M. vuole
che si conservino le Radici classiche dell’Europa (Milano 2002), che rintraccia in
particolare nel senso dell’avventura, e quindi nell’Odissea, nonché in Eraclito.
L’“avventura spirito dell’Europa” è uno dei venti temi che M. trattò per altrettanti volumi
collettivi su concetti fondamentali della creazione artistica. Eraclito è l’oggetto di una
delle cassette multimediali che M. curò per l’Enciclopedia italiana.
Storiografia filosofica
L’attività storiografica di M. nacque dalla proposta della casa editrice La Scuola, di
Brescia, di una Storia della filosofia (1967). Vennero poi le trasmissioni per radio
Monteceneri Temi e problemi della filosofia contemporanea (Roma 1977).
Specialistico, per contro, il volume su La filosofia trascendentale e L’opus postumum di
Kant (Torino 1958), in seguito riscritto in tedesco ( Kant’s Opus postumum , Francoforte
1989, trad.it. Napoli 1991). In una serie di abbozzi tra il 1795 e il 1803, sul “Passaggio dai
principi metafisici della natura alla fisica” Kant aveva affrontato in modo non organico il
problema della fondazione della fisica specifica della nostra esperienza: cioè non della
“fisica in generale” (come avevan fatto gli Anfangsgründe del 1786), bensì della fisica
quale si studia di fatto. Aveva affermato che la mente costruisce all’uopo un fenomeno
indiretto, o “fenomeno del fenomeno”, che permette di perseguire l’unità dell’esperienza,
che è un’esigenza assoluta a priori (“l’esperienza o è una o non è”). Il materiale di tale
costruzione è l’etere, della cui esistenza Kant dà una “dimostrazione a priori”, quale
quella che aveva respinto nel caso dell’esistenza di Dio. A una unità completa
dell’esperienza non si giunge mai (è “asintotica”) e pertanto l’esperienza non dimostra in
senso assoluto l’esistenza dei suoi oggetti. Nel “fenomeno indiretto” dell’ultimo Kant M.
rileva una straordinaria anticipazione della fisica teorica del Novecento, fino alla
meccanica quantistica. In breve: l’oggetto della fisica non è più un “oggetto fisico”.
Quanto a Leibniz, M. ne studiò la corrispondenza con il gesuita Des Bosses sulla
possibilità di pensare la Transustanziazione nel sistema di Leibniz. Riguardando il
vinculum substantiale, questo problema incide sul nucleo stesso della filosofia leibniziana.
M. nega che Leibniz ricada nell’acosmismo di Spinoza: a patto, però, che si tenga
presente il “lato notturno” della sua filosofia (piccole percezioni etc.), messo in luce da M.
con varie conferenze in Germania.
La tecnica e il gioco
Intensa l’attività giornalistica presso il Gazzettino di Venezia, il Corriere della Sera e Il
giornale. Da quest’ultimo sono tratti i cinquanta Elzeviri swiftiani (Milano 1986), spesso
satirici, in particolare contro lo Statobalia, che vorrebbe accompagnare i singoli “dalla
culla alla tomba”. Particolare attenzione il M. ha dedicata alla spersonalizzazione della
tecnica, a partire dal congresso su Scienza e tecnica organizzato da Augusto Guzzo a Pisa
nel 1967. Oggi colpisce La crisi della tecnica nell’età tecnologica (Roma 1999): con la
tecnologia la tecnica si è trasferita dall’uomo sulle macchine, con risultati spettacolari, ma
lasciando un vuoto impressionante in tecniche elementari. (Un esempio tra molti: i
carrelli da spingere, per trasporto di merci o di bambini, hanno quasi sempre come
direttrici le ruote anteriori anziché le posteriori. Finché la strada non è inclinata da un lato
l’effetto è solo ridicolo, ma quando lo è tenere in strada il carrello diviene difficilissimo.)
L’uomo dovrebbe cercar di recuperare tecniche personali, per evitare che la tecnologia
porti al nulla, come predisse lo Heidegger.
Su Gioco e lavoro, da ricordare alcune conversazioni radiofoniche (Milano 1986, 2ª ed.
1989). L’esistenza di M. è coincisa con il periodo di massima popolarità di un gioco – il
bridge, erede del whist – la cui tecnica è difficilissima (padroneggiata perfettamente, e
non sempre, solo da poche decine di persone al mondo). Col nuovo millennio la
popolarità del bridge si va perdendo, appunto a causa della sua difficoltà. Il M., pessimo
giocatore, si è interessato alla tecnica della prima fase del gioco, la “licitazione” che
presenta problemi di teoria dell’informazione; e ne ha elaborato una tecnica specifica, che
ha avuto qualche eco con il procedimento da lui chiamato “salto della quaglia” (cfr.
Bridge d’Italia, 1974, pp.26-33 e 119-121).
Collaborazioni
M. ha collaborato a lungo con l’Accademia dei Lincei per la quale ha scritto una memoria:
Tipologia dei sistemi e origine della loro unità (1994). Inoltre è stato a lungo attivo
presso cinque fondazioni:
a) l’Istituto di studi filosofici Enrico Castelli (che si occupa prevalentemente di Filosofia
della religione) per il quale ha organizzato a Venezia un convegno internazionale su Le
public et le privé (Atti, Roma 1979). L’anno dopo ne ha indetto uno a Roma su Filosofia
e religione davanti alla morte, sul quale la RAI lo ha incaricato di guidare tre
trasmissioni televisive purché il titolo fosse cambiato in Oltre la vita;
b) l’Istituto internazionale di studi filosofici fondato a Napoli da Gerardo Marotta, per il
quale ha tenuto corsi su Kant, Goethe e la filosofia della musica. In questo contesto ha
stretto amicizia con Hans Georg Gadamer divenuto cittadino onorario di Napoli;
c) la Fondazione Balzan nella quale è stato per un ventennio membro del Comitato
Premi;
d) Nova Spes fondata dal Card. Koenig e da Don Pietro Pace, per la quale scrisse Vivere
la speranza (Roma 1985, trad. tedesca Graz 1986);
e) “Ideazione”, fondata da Domenico Mennitti, con interessi di filosofia politica. In questo
ambito M. ha collaborato a diverse iniziative: alla commissione per la riforma
dell’ordinamento giudiziario, nominata da Filippo Mancuso, alla commissione Moratti
per la riforma dei licei, etc. In queste attività M. ha sviluppato una tendenza liberale
che aveva contratta nel 1939, soprattutto per la consuetudine con l’avv. Manlio Brosio,
destinato a diventare Segretario generale della Nato.
VIRGILIO MELCHIORRE
Virgilio Melchiorre è nato a Chieti nel 1931. In qualità di professore straordinario e
successivamente di professore ordinario ha insegnato filosofia morale presso la facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia, dal 1975 al 1979. Successivamente ha
professato la stessa disciplina presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
Cattolica di Milano, ove in precedenza aveva insegnato filosofia della storia. Nello stesso
ateneo e sempre presso la facoltà di Lettere e Filosofia, nel 2000 è passato ad insegnare
filosofia teoretica.
Nell’ambito della stessa facoltà ha diretto, dal 1967 al 1995 la Scuola di specializzazione
in Comunicazioni Sociali. Presso l’Editrice “Vita e Pensiero” ha diretto sino al 2008 le
pubblicazioni del Centro di Metafisica per la sezione Metafisica e storia della metafisica.
Dal novembre del 2003 ha dimesso, per limiti d’età, la titolarità del proprio insegnamento
ed è ora “Professore emerito di filosofia morale”. Nel 1990 il suo volume Analogia e
analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Milano 1991, ha ottenuto il
“Premio Mursia per la cultura e la ricerca scientifica”. Nel 2002 il suo volume Dialettica del
senso. Percorsi di fenomenologia e ontologia è stato insignito del premio “Salvatore
Valitutti”.
Sulla sua ricerca è stata decisiva la frequentazione della neoscolastica, soprattutto nei
modi elaborati in Italia da Gustavo Bontadini, secondo la figura del “pensiero
neoclassico”, e in Belgio da Joseph Maréchal. La sua teoresi, nei suoi diversi sviluppi,
rimane pur sempre legata a questa eredità, in un contrappunto incessante fra Tommaso
e Kant. Non meno decisivo è stato, per la sua teoresi, lo studio di Kierkegaard, affrontato
dapprima nella preparazione della tesi di laurea e poi per il conseguimento della
specializzazione postlaurea. In questa seconda fase fu ampiamente sollecitato
dall’incontro e da un personale contatto con Cornelio Fabro: ne furono influenzati i suoi
scritti su Kierkegaard pubblicati fra il 1953 e il 1957. Lo studio di Kierkegaard tornò poi a
coinvolgerlo, con rinnovato spirito critico, alcuni decenni dopo, a partire dal 1986. Sin
dalle sue prime ricerche fu fortemente influenzato dallo studio di Emmanuel Mounier, ma
anche degli altri protagonisti del personalismo francese, con alcuni dei quali intrattenne
un rapporto personale.
Un’influenza crescente sulla sua ricerca, dalla fine degli anni sessanta dello scorso secolo
in poi, gli è venuta, insieme allo studio di Kant, dalla frequentazione della fenomenologia
di Husserl, di Merleau Ponty e del primo Sartre, oltre che dalle opere di Heidegger. In
questa prospettiva i suoi studi continuano a coniugare i portati della fenomenologia
trascendentale con i grandi temi della metafisica classica. In tal senso è tornato
ripetutamente sulle costituzioni del pensiero moderno ricavandone la possibilità di
fondare sia una nuova interrogazione ontologica, sia una rinnovata concezione
antropologica.
Negli anni della sua formazione universitaria fu certamente decisivo per Melchiorre
l’incontro con Gustavo Bontadini, sia sotto il profilo teoretico, sia sotto il profilo
storiografico. Si ricorderà come il maestro milanese amasse definire la propria filosofia
secondo il modello della “metafisica classica”: un modo per distinguersi da chi lo
collocava nell’ambito del pensiero “neoscolastico” e, per contro, anche da chi lo riteneva
compromesso nelle maglie dell’immanentismo idealistico. Il richiamo alla classicità si
traduceva in Bontadini nella formulazione del cosiddetto “principio di Parmenide”: si
trattava, infatti, di rinviare all’originario pensiero dell’essere, come al logos costitutivo
d’ogni autentica filosofia, all’evidenza che impedisce di coniugare ultimamente l’essere col
nulla e che dunque risolve le aporie del divenire finito, guadagnando infine l’asserto di
un’ultima, assoluta radice di senso. Su questa base Bontadini ripercorreva gli stessi
sentieri della neoscolastica, ma purificandoli e costringendoli al rigore dei principi;
ripercorreva altresì il lungo cammino del pensiero moderno per coglierne la giusta
eredità, sino ai vertici essenziali dell’idealismo.
Fu questa, per Melchiorre e per i suoi compagni di studio, una lezione di grande spessore
logico, una via per intendere la filosofia come “scienza rigorosa”. Era, però, giunto
all’incontro con Bontadini dopo le prime ricerche che lo avevano spinto allo studio di
Kierkegaard, critico di Hegel: un filosofo che, come si sa, dava carne ai concetti
riportandoli concretamente nelle polarità dialettiche dell’esistenza. L’incontro con il
pensatore danese si sarebbe poi accompagnato con lo studio di Jaspers e di Heidegger.
Frattanto Melchiorre era anche preso dal personalismo di Emmanuel Mounier: il discorso
sull’esistenza s’incrociava così con quello dedicato alla storia e all’engagement
comunitario. Frutto di questo incrocio fu un suo piccolo libro del 1963, Il sapere storico. Di
Mounier lo interessava, fra l’altro, il metodo e di questo appunto venne a scrivere in uno
dei suoi primi libri (Il metodo di Mounier ed altri saggi, Milano 1960), anche nello sforzo di
difendere il pensatore francese dall’interpretazione che ne esaltava la figura profetica e
che tuttavia gli obiettava una presunta debolezza speculativa. Mounier lo interessava
pure per il suo modo di ritornare alle origini del pensiero moderno con una originale
lettura di Cartesio, alla maniera di Charles Péguy: questo rinvio alle fonti della modernità
avrebbe avuto nel pensiero di Melchiorre un seguito rilevante.
D’altra parte, sin dai primi anni della sua ricerca, si era occupato di estetica: era questo
un punto che lo divideva dal maestro Bontadini, per il quale l’estetica non era che una
“variante indipendente” rispetto all’ontologia e alla “filosofia prima”. All’allievo del filosofo
milanese sembrava invece che il discorso estetico dovesse legarsi intimamente a quello
ontologico: una discrepanza che si fece evidente già in un primo tentativo teoretico che
Melchiorre pubblicò col titolo Arte ed esistenza (Firenze 1956). In questa direzione,
sarebbero poi seguiti studi di maggior consistenza, dedicati al pensiero simbolico, inteso
come polo dialettico rispetto ai modi della concettualità metafisica, ma anche della
coscienza storica: La coscienza utopica, Milano 1970, Lo schematismo storico in Kant,
saggio dedicato a Bontadini nel 1972, e infine L’immaginazione simbolica, Milano 1972.
S’andò così sviluppando un incrocio a più vie d’uscita: da un lato l’articolazione
argomentativa del discorso ontologico, considerato anche sotto l’aspetto delle sue
manifestazioni simboliche, dall’altro l’articolazione più propria del discorso antropologico,
volto allo studio della persona e infine alla stessa fondazione dell’etica. Alla prima linea di
ricerca appartengono studi di forte impegno teoretico, fra i quali si possono ricordare:
Essere e parola, Milano 1982, 19934; Figure del sapere, Milano 1994; La via analogica,
Milano 1996; Dialettica del senso, Milano 2002, L’ontologia e la questione del
fondamento, Milano 2003. Nella seconda direzione vanno segnalati studi impegnati sia sul
versante più propriamente teoretico, sia su quello della ricognizione storiografica: Corpo e
persona, Genova 1987; Metacritica dell’eros, Milano 1987; Studi su Kierkegaard, Marietti
1987, 1998 2; Analogia e analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant,
Milano 1991; Figure del sapere, Milano 1994; Al di là dell’ultimo, Milano 1998; Ethica,
Genova 2000; Essere persona, 2007.
I due campi non sono divergenti. Sono bensì modi di polarità interattive all’interno di un
unico processo intenzionale, che lo studioso abruzzese ha via via precisato all’incontro,
anche questo decisivo, con la fenomenologia di marca husserliana: le analisi
fenomenologiche sui processi coscienziali, rilette alla luce dei principi logici della
classicità, dovevano così costituire il presupposto opportuno per l’elaborazione di una
sintesi organica.
Precisiamone ora i tratti essenziali, notando che l’interesse per la metafisica, così com’era
maturato al seguito del magistero bontadiniano, fu sin dall’inizio guidato anche da una
rivisitazione del pensiero moderno. Il successivo interesse per la fenomenologia
trascendentale ha poi riportato Melchiorre nuovamente alle origini della modernità, con
un’articolata rivisitazione dell’ego cogito, inteso come inizio apoditticamente essenziale
per la filosofia. Questo inizio è stato ripreso da Melchiorre come esito d’una decisiva
sospensione delle nostre certezze quotidiane, nel modo dell’epoché husserliana rispetto
all’atteggiamento “naturale” della coscienza. A questa sospensione, all’estensione di
questo dubbio metodico, si sottrae solo l’irrecusabile evidenza del dubbio stesso: siamo
appunto a quel residuo apoditticamente certo che Cartesio indicava nel segno della res
cogitans ed è da questo residuo che il cammino della domanda filosofica riprende il suo
inizio, predisponendo un’analisi delle condizioni di pensabilità dell’essere.
L’asserto di quest’inizio doveva, però, essere liberato dagli equivoci che hanno
accompagnato il pensiero moderno inducendo a conclusioni di tipo soggettivistico. Non si
tratta, infatti, di sapere se la realtà del cogito conceda altro da sé, se qualcosa
effettivamente corrisponda all’esser pensato o se invece non valga il solo asserto
dell’esse est percipi. Lo stesso Cartesio, come sappiamo, s’era irretito in questa domanda
tanto superflua quanto impraticabile: superflua perché non avrebbe potuto darsi senza la
notizia dell’altro da sé, impraticabile perché la sua risposta sarebbe ricaduta pur sempre
nel recinto della coscienza dubitante dove, di conseguenza, la stessa domanda sarebbe
tornata senza fine a ripetersi.
Perché, dunque, risalire alla primitività del cogito? La risposta di Melchiorre ha, a questo
riguardo, un tenore tipicamente fenomenologico-trascendentale: se il movimento
dell’epoché deve arrestarsi nella intrascendibilità della coscienza, questo vuol dire che i
modi della coscienza costituiscono i modi dell’apparire dell’essere. Il problema non è
allora se vi sia altro dalla coscienza, bensì con quale senso l’altro si dia a coscienza: la
coscienza come orizzonte del senso, che diversamente si profila a seconda dei modi con
cui la coscienza via via si dispone: nel flusso percettivo o in quello dell’immaginazione,
nelle forme del giudizio o in quelle della trasgressione simbolica ecc. (cfr. Essere e parola,
pp. 117 ss.). La via della verità va pertanto perseguita risalendo ai modi originari del
darsi a coscienza ed è per questo che l’analisi della vita coscienziale costituisce il
presupposto fondamentale per decidere dei sensi dell’essere. L’articolazione di questa
analisi deve così dispiegarsi primamente in una ricognizione dei modi di coscienza, vale a
dire delle condizioni che appunto configurano i modi e i sensi dell’essere. Il discorso del
nostro filosofo si profila, a questo riguardo, per diversi aspetti, tutti però rinviabili alla
domanda fondamentale dell’essere di cui qui conviene far cenno.
Considerata nelle sue strutture primarie, quelle che in definitiva costituiscono l’intero
ventaglio della vita pensante, l’analisi del flusso coscienziale esige, infatti, una riflessione
che dalla fenomenologia trapassa già sul fronte della metafisica. Si segua per questo il
movimento della coscienza percettiva, che nella sua elementarità vale come base
dell’intero processo coscienziale. Parliamo della percezione in se stessa, ma insieme
anche dei suoi contenuti intenzionali. In termini husserliani si direbbe che l’Erlebnis
percettivo va studiato sia dal punto di vista noetico, sia dal punto di vista noematico. Nel
primo senso – nota Melchiorre – dobbiamo tener ferma la condizione temporale e
corporea della coscienza e per questo dobbiamo riconoscere che la percezione si
configura sempre come flusso percettivo e insieme come prospettiva, come un vedere o
un sentire compreso in un certo orientamento, in funzione di un determinato punto di
vista. Questo duplice profilo implica che la percezione non sta mai in se stessa, com’è
detto in un lungo passaggio de La via analogica, che qui conviene citare per esteso. La
percezione, infatti, nel suo costituirsi “non sta mai in se stessa: nel suo fluire essa è per
sé, ma solo in funzione di quel che è stata e in funzione di quel che ancora non è. In
quanto prospettiva, essa è di conseguenza un cogliere per lati e profili o – usando di
nuovo la parola husserliana – per Abschattungen, per adombramenti: di nuovo dobbiamo
riconoscere una strutturale relazione con un non essere che richiama il movimento
percettivo e che sempre lo rende per se stesso trasgressivo. Il corrispettivo noematico di
questo processo è un contenuto sempre determinato, che come tale non vale mai per sé
solo, che è se stesso mentre è per altro e in altro. Quando i contenuti percettivi
giungeranno ad esprimersi nella forma assertiva del giudizio, questo darsi nella
determinazione e nella differenza troverà il suo raccoglimento o la sua unità nella
congiunzione copulativa: l’è della copula si darà allora come una posizione di realtà. Ma,
di nuovo, posizione anche qui significherà appunto determinazione, limite negativo:
determinatio negatio est, diceva Spinoza. E, però, nella più esplicita consapevolezza del
giudizio si fa così tanto più evidente che la negazione non è in sé mai un assoluto, che
non è mai pensabile per sé sola e che dunque ha la sua condizione di possibilità nel rinvio
all’altro dell’essere. Se ora portiamo a fondo questo rilievo e ci interroghiamo sulla
condizione di possibilità che da ultimo fonda ogni negazione, dobbiamo infine riferirci a
u n a attualità d’essere pura ed assoluta: il rinvio della negazione è, come si diceva,
sempre rinvio all’essere, ma se questo rinvio o questa coimplicazione fossero di nuovo e
sempre segnati da un non essere, dovremmo poi ritenere che l’ultima possibilità della
negazione sia propriamente un assoluto non essere, ciò che renderebbe il rinvio
contraddittorio in se stesso. In altri termini, potremmo dire che la trasgressione
prospettica nasce dalla sottesa evidenza che ogni determinazione, mantenuta in sé e per
sé, equivarrebbe a un non senso: donde il rinvio. E però, se il riferimento originario del
rinvio fosse ancora un non essere, il rinvio non sarebbe propriamente tale: sarebbe un
non rinvio e la determinazione colta sarebbe a sua volta proprio un assoluto non senso”
(La via analogica, pp. 29-30).
Appare a questo punto determinante la cogenza del principio classico di non
contraddizione. È questo principio che ora impedisce di ritenere come originario il non
essere: all’origine non può infine darsi che l’essere puro, assoluto, ed è dunque
quest’origine che diversamente si distribuisce nel molteplice differire del reale. Ogni
determinazione non è dunque che de-terminazione, partecipazione finita della non finita
origine. A sua volta, il pensiero stesso della finitudine non è che lo scrigno da cui emerge
la notizia dell’infinito: una notizia che sta al termine della riflessione, ma che a ben
vedere guidava segretamente, sin dall’inizio, l’intero processo riflessivo. La riflessione
s’era, sì, costituita con la domanda trascendentale sulle condizioni di possibilità del flusso
coscienziale, ma il criterio che spingeva alla risposta era già attivo nella posizione stessa
della domanda.
Ritroviamo qui l’asserto cartesiano che, in certo modo, disponeva la nozione dell’infinito
avanti a quella del finito. E ritroviamo pure l’asserto kantiano per cui dato il condizionato
è ad un tempo dato anche l’incondizionato, un asserto che possiamo però assumere non
soltanto come mera esigenza ideale, bensì come un vero e proprio asserto di realtà: se,
infatti, il rilievo del condizionato è un dato dell’esperienza, anche l’incondizionato che ne
costituisce la possibilità dev’essere inteso, se non si vuol cadere in contraddizione, come
reale. La correzione operata da Melchiorre è, a questo riguardo, puntuale: “L’asserto che
dice: “dato il condizionato, è ad un tempo dato anche l’incondizionato”, deve così
necessariamente riferirsi all’esistenza stessa. In altri termini, se la realtà del “dato”
fenomenico implica quella del “dabile” (in sé non dato), questa a sua volta implica la
realtà stessa dell’incondizionato” (Analogia e analisi trascendentale, p. 58).
La coscienza del negativo, il pensiero della finitudine, sin dall’origine, appare dunque
sollecitato dall’idea dell’assoluto o dell’infinito ed è, rispetto a quest’ultima, un
movimento che ritorna sul proprio principio, una riflessione che ne disvela appunto la
fungenza a priori. Questa conclusione forse non è lontana – secondo Melchiorre – dalla
dottrina aristotelica che dice dell’intelletto agente: fonte che tutto produce nell’anima,
come la luce che fa apparire i colori; “atto per essenza”, purezza immortale ed eterna
senza di cui “non c’è nulla che pensi” (De an., Γ 4-5, 429a 10 - 430a 25, cit. in Ethica, p.
30). Con ciò non viene certo sminuito il valore o la provocazione che nasce
dall’esperienza. È, a ben vedere, proprio il dato dell’esistenza finita che, da ultimo,
c’impone di intendere l’assoluto come reale e non come pura idea o come mera esigenza
soggettiva: l’irrealtà dell’assoluto comporterebbe, infatti, la contraddizione della sua idea,
ma in tal senso comporterebbe ad un tempo anche l’impossibilità del finito che invece è
dato effettivamente nella nostra esperienza.
Il filosofo abruzzese fa così notare che il rilievo del cogito s’era dato come inizio
apodittico del sapere, ma che quell’inizio non ha, a ben vedere, che una pura valenza di
metodo. A questa resta sottesa la realtà dell’incondizionato che, in effetti, è il vero inizio
da cui muove l’intera ricerca sull’essere. Siamo, dunque, nel circolo di due inizi di cui
Melchiorre ripete con Kierkegaard: “L’inizio non è ciò da cui si inizia, ma ciò a cui si
giunge; e vi si giunge a ritroso” (cit. in L’ontologia e la questione del fondamento , pp. 1920).
Si dà a questo punto un passaggio fondamentale nella teoresi melchiorriana. Ciò da cui si
inizia, per la finitezza della sua condizione, per la sua incolmabile distanza dal primo
inizio, impone, infatti, un altro percorso: non più nel senso della fondazione, bensì in
quello dell’espressione. L’indicazione dell’assoluto principio dell’essere emergeva in forza
della negazione della negazione, ma proprio per questo doveva concludere nel non
dell’ente, nell’altro dall’essere dell’ente. Ne consegue che della sua identità, stando dalla
parte dell’ente, dalla parte della coscienza finita, di quel principio si può dire dunque solo
in termini negativi, infine come dell’assoluto “niente”. Ma il niente non ha parole che lo
dicano, come sa il silenzio della mistica. L’esperienza di questo silenzio non è, certo,
senza aporie: nella coscienza mistica, passa drammaticamente attraverso la notte
oscura; nella coscienza filosofica rasenta il non senso dell’approdo metafisico. Come non
ricordare, a questo riguardo, l’aporia riconosciuta da Kant nelle conclusioni del proprio
deismo, nell’asserto d’un primo principio senza predicati e senza nomi? Nasce di qui
l’esigenza – e ancora ricordando Kant (Analogia e analisi trascendentale, pp. 71-80) – di
passare dall’indeterminazione del deismo alle determinazioni del teismo: un teismo che
tuttavia non sia pura proiezione antropomorfica, idolatria.
L’adempimento di questa esigenza va cercato, secondo Melchiorre, sul piano espressivo,
ma prima ancora sulla base di un presupposto ontologico. Se, infatti, ogni determinazione
si costituisce come de-terminazione, come partecipazione dell’Essere, questo deve
significare che, pur nella sua negatività, ogni ente porta con sé una presenza dell’Essere:
immanente trascendenza e insieme trascendente immanenza. Da ogni ente può allora
fiorire un qualche segno, un qualche nome dell’Essere, ma appunto può fiorire solo in quel
dire che per se stesso incrocia immanenza e trascendenza: un dire che sta
nell’immediatezza dei suoi significati, ma con un’interiore trasgressività. Tale è – e in
questo Melchiorre si situa in una linea che va da Kant a Ricoeur – il linguaggio simbolico
inteso nella sua duplice articolazione di significati, nell’inscindibile coniugazione di
significati “propri” e di significati “impropri”, dove però la significazione “impropria”
diventa primaria, quasi per epoché dei significati “propri”. Tale è, in generale, il
movimento trasgressivo della metaforicità, che ai suoi vertici si traduce – secondo la
definizione usata da Blumenberg – in “metafore assolute”. Questo dire per trasgressioni o
– che è lo stesso – per analogie, trova la sua autenticità solo quando si accompagni alla
consapevolezza dei propri limiti o della propria parzialità, solo se nel dire permane la
cautela che dispone la parola sul fronte del “teoreticamente impossibile”, sul versante
abissale del silenzio: il silenzio del ni-ente che in sé custodisce l’origine di ogni logos e
che come tale esige l’inconsueto ascolto dell’anima (cfr. La via analogica, pp. 54-55).
Di questo dire e di questo tacere Melchiorre ha scritto a lungo e per diversi percorsi,
risalendo a quel principio di partecipazione di cui s’è già detto: principio che, nel
molteplice delle differenze, esige un’immanente identità d’essere, in altre parole
un’analogia di proporzione (non di proporzionalità) per dirla nel linguaggio della
tradizione scolastica. Fra i diversi percorsi dedicati da Melchiorre ai modi della duplicità
simbolica, spicca in particolare quello relativo al vissuto etico della relazione
intersoggettiva. È, infatti, nell’incontro dei volti che il simbolismo degli sguardi lascia
affiorare la reciprocità e l’affinità delle vite. Il valore etico di questa condizione viene
sviluppato muovendo dal racconto platonico del Simposio, dove si dice dell’uomo
dimidiato dagli dei e quindi delle metà che si cercano e si desiderano per ricostituire
l’unità del principio: ciascun volto, dunque, come metà dell’intero, come simbolico riflesso
d’una origine ritrovata con passione e sofferenza nello scambio d’amore (Symp., 191 BD). “Altrove – ricorda inoltre Melchiorre (Ethica, p. 86) –, con una più suggestiva
coniugazione dei termini, Platone è tornato a ripetere che l’autenticità degli incontri sta
nel cercare dove sia la Pianura della verità (Phaedr., 248 B). Ma appunto a quella pianura
non si sale da soli, bensì cercando nel volto dell’amato, le tracce o l’effigie del proprio dio:
il dio dell’origine al quale sospinge il ricordo. Ed è il ricordo a cui costringe la somiglianza
dell’amato o dell’amata col proprio dio (Phaedr., 252 E – 253 B).”
Questa duplicità dello sguardo incarnato, potrebbe essere usata come icona per l’intero
percorso del filosofo abruzzese. La sua ricerca, a tutt’oggi, resta infatti ancora impegnata
nel nesso di due prospettive complementari: da un lato l’affinamento teoretico di una
metafisica generale, dall’altro il vissuto della coscienza metafisica nei modi concreti del
simbolismo etico-religioso.
BATTISTA MONDIN
Battista Mondin è nato a Monte di Malo (Vicenza) nel 1926. Filosofo e teologo, Mondin ha
effettuato gli studi ordinari di filosofia e teologia nella Congregazione dei Missionari
Saveriani di cui è membro. È stato ordinato sacerdote nel 1952. Ha compiuto gli studi
superiori negli Stati Uniti, dove ha conseguito un Master Degree in filosofia al Boston
College (l’Università dei Gesuiti a Boston) e successivamente il Philophiae Doctor
(dottorato di ricerca) in storia e filosofia della religione presso la prestigiosa università di
Harvard. Rientrato in Italia consegue la Libera Docenza in storia della filosofia
medioevale (1966) che esercita presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nel 1968
accetta la cattedra di Storia della filosofia che gli viene offerta dalla Pontificia Università
Urbaniana. Così inizia il lungo magistero romano. Dirige la facoltà di Filosofia della
medesima università dal 1972 al 2000. Consultore della Congregazione del Clero, della
Congregazione per l’Educazione Cattolica e della Congregazione per le Cause dei Santi.
Perito personale al Concilio Vaticano II. Presidente per molti anni dell’A.D.I.F.
(Associazione dei Docenti Italiani di Filosofia) e della S.I.T.A. (Società internazionale
Tommaso d’Aquino). Socio di numerose accademie e società filosofiche italiane e
straniere. Numerosi i riconoscimenti che gli sono stati conferiti per i suoi meriti scientifici,
in particolare: Laurea honoris causa per le scienze dell’Educazione (dalla Universitade do
Sagrado Coraçao, Brasile); medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per la filosofia,
Cittadinanza Onoraria di Monte di Malo. Studioso enciclopedico, M. coltiva con eguale
interesse e competenza tutti i principali ambiti della filosofia e della teologia, sia in sede
storica e teoretica. Discepolo di Tillich ma ancor più di san Tommaso d’Aquino, M. ha
imparato da questi grandi maestri a fare sia filosofia sia teologia e a mantenere un
rapporto assai stretto tra queste due forme di sapere, mostrando come esse si fecondano
reciprocamente. Così, di tutti i grandi problemi e misteri che sollecitano l’intelligenza
umana, M. ha studiato sia l’aspetto filosofico sia quello teologico.
In sede filosofica l’attenzione di M. è centrata sull’uomo che viene concepito come essere
culturale e quindi come progetto libero che si realizza mediante la coltivazione dei valori
assoluti. In teologia due sono le costanti della riflessione di M.: a) il primato assoluto
dell’originario (Rivelazione, Parola di Dio, Tradizione) e quindi della cristologia originaria,
della ecclesiologia originaria ecc.; b) il dialogo con le religioni non cristiane soprattutto
attraverso la cultura. Notevole l’apporto di M. alla storia della teologia (con quattro tomi
monumentali, dove viene ricostruito tutto il suo percorso) e alla storia della metafisica, di
cui in tre grossi tomi si narra la sua intera vicenda dalle origini fino ad oggi.
Scrittore assai prolifico, M. è l’autore di un centinaio di libri e di circa tremila articoli. Tra i
volumi più importanti segnaliamo: Il principio dell’analogia nella teologia protestante e
cattolica (1963); Il problema del linguaggio teologico dalle origini ad oggi (1975); Una
nuova cultura per una nuova società (1982); Il valore uomo (1983); L’uomo. Chi è?
(1998); Dio. Chi è (1998); La Chiesa primizia del regno (1992); Dizionario enciclopedico
di filosofia teologia e morale (1994); Dizionario enciclopedico di San Tommaso d’Aquino
(1991); Il sistema filosofico di Tommaso d’Aquino (1992); Dizionario dei teologi (1992);
Storia della teologia, 4 voll. (1993); Storia della metafisica, 3 voll. (1994); Manuale di
filosofia sistematica, 6 voll. (2000); La Trinità mistero d’amore (1993); Storia dei Papi
(2007).
Alcune di queste opere sono state tradotte in varie lingue (inglese, spagnolo, portoghese,
polacco, ungherese, lituano, coreano, cinese). Straordinaria l’accoglienza che le opere di
M. hanno ottenuto in Brasile, dove egli è uno degli autori più conosciuti e più studiati e
dove alcune sue opere: L’uomo. Chi è?; La storia della filosofia; L’introduzione alla
filosofia hanno raggiunto la quindicesima edizione. Su M. esiste un’opera collettanea,
intitolata Studi in onore di Battista Mondin curata da R. Serpa, edita da Edizioni Studio
Domenicano, Bologna (2003).
Ricostruzione del profilo dell’attività scientifica di Mondin e dei nuclei tematici principali attorno ai quali essa si è
andata via via strutturando
Negli studi accademici e nel suo insegnamento M. si è dedicato anzitutto all’antropologia
filosofica e solo più tardi si è dedicato allo studio della teologia, soprattutto dopo che si è
imbattuto nella grandezza e nello splendore del mistero della SS.ma Trinità.
L’antropologia dell’autotrascendenza
Come risulta dall’elenco degli scritti, al mistero dell’uomo M. ha dedicato numerosi lavori,
in particolare: L’uomo. Chi è? (che è un classico, ed è tradotto in una decina di lingue);
Antropologia filosofica; Il valore uomo; L’uomo libero; Rifare l’uomo.
La prima originalità di tutti questi studi antropologici è la netta distinzione in due parti: la
prima parte in cui M. studia l’uomo dal punto di vista fenomenologico; mentre nella
seconda lo studia dal punto di vista metafisico. L’esame fenomenologico è assai esteso:
oltre alle solite attività del conoscere e del volere, su cui si concentra l’antropologia
tradizionale, M. prende in considerazione molte altre attività caratteristiche dell’uomo,
quasi sempre disattese nei testi di antropologia filosofica, come il linguaggio, la cultura, il
lavoro, il gioco, la politica, l’arte, la religione. Ma l’originalità maggiore la si incontra nella
parte metafisica. Qui i punti in cui la sua trattazione dell’uomo si distingue dalle altre
sono tre: la dottrina dell’autotrascendenza, la definizione della persona come sussistente
nell’ordine dello spirito, e la definizione dell’uomo come spirito incarnato.
L’autotrascendenza – L’autotrascendenza funge da ponte tra la parte fenomenologica e la
parte metafisica. La fenomenologia ha mostrato che in tutte le sue operazioni, in tutto
quello che l’uomo fa, pensa e desidera, in tutto ciò che vuole e che porta a compimento,
c’è un elemento di autotrascendenza che mentre per un verso ci lascia insoddisfatti dei
risultati acquisiti, per un altro verso ci spinge sempre più avanti e magari più in alto. Così
l’uomo non si accontenta del proprio essere così come è descritto dalla fenomenologia;
egli supera l’homo sapiens, l’homo volens, l’homo videns, l’homo loquens ecc. L’uomo si
scopre allora come spirito: l’uomo trascende tutto il mondo della materia, tutto il mondo
dell’esperienza, tutto il mondo della cultura, perché è spirito. L’autotrascendenza è
un’azione dello spirito, con cui lo spirito finito cerca la piena realizzazione di se stesso
mediante il raggiungimento dello Spirito infinito, Dio.
Definizione di persona – L’uomo è spirito ed è con riferimento allo spirito che M. ha
cercato di definire il concetto di persona, concetto centrale e fondamentale
dell’antropologia filosofica.
S. Tommaso dice che “la persona significa quanto di più nobile si trova in tutto l’universo”
(S. Theol. I, 29, 1); e dà della persona la seguente definizione: “Omne quod subsistit in
intellectuali vel rationali natura habet rationem personae” (C. Gent. IV, 35). Ora, la
conoscenza intellettiva è una funzione essenzialmente spirituale, come è funzione
squisitamente spirituale la libertà. Così la persona è essenzialmente una realtà spirituale,
una realtà sussistente. La persona è un sussistente nell’ordine dello spirito. Lo spirito
nell’uomo non è un’accidentalità, ma la sua sostanza.
Grazie alla sua sussistenza nell’ordine dello spirito l’uomo è allo stesso tempo un essere
chiuso in se stesso, in quanto sussistente ed estremamente aperto ed eccentrico in
quanto è spirito. In quanto spirito egli gode di un’apertura sconfinata, infinita. In quanto
spirito egli può entrare in comunicazione con altri spiriti. Ma la sua sussistenza spirituale
e quindi la sua persona e la sua unicità inviolabile, posseggono due caratteri peculiari: è
uno spirito incarnato ed è uno spirito finito.
È uno spirito incarnato: questa è la definizione più adeguata dell’uomo. È una definizione
più adeguata della celebre definizione aristotelica: “animale ragionevole”. Infatti questa è
una definizione che considera l’uomo dal basso: lo considera anzitutto come animale e lo
distingue dagli altri animali attraverso la ragione. Ma questa è una definizione molto
pericolosa per quanto concerne la sussistenza eterna dell’anima. Sono note le
interminabili discussioni intorno alla dottrina aristotelica relativa alla immortalità
dell’anima. Invece se si considera l’uomo dall’alto e lo si vede anzitutto come spirito, si
mette già al sicuro in partenza il suo statuto ontologico definitivo: lo spirito è, infatti, di
sua natura immortale. Ma quello dell’uomo è uno spirito incarnato, cioè uno spirito legato
essenzialmente alla corporeità e per questo motivo egli deve iniziare la sua esistenza in
questo mondo, dove ogni suo agire, incluso quello intellettivo e libero, assume una veste
sensibile e corporea. La sussistenza spirituale dell’uomo è quindi essenzialmente legata
alla materia. Lo spirito dell’uomo si ipotizza nel corpo. La cultura dell’uomo diviene
pertanto necessariamente anche cultura del corpo, cultura della salute e della efficienza.
E il corpo umano è un corpo sessuato e la sessualità svolge nell’uomo una pluralità di
funzioni, tra cui anzitutto la funzione personalistica: la sessualità è data all’uomo in primo
luogo per la realizzazione della sua persona e nella maggior parte dei casi la
realizzazione della persona passa attraverso un corretto uso della sessualità.
In secondo luogo la sussistenza spirituale dell’uomo è una sussistenza finita: l’uomo è uno
spirito finito anche se è proprio dello spirito tendere all’infinità. Ora è la finitezza dello
spirito umano tesa all’infinito che segna la strada che l’uomo deve percorrere nella
coltivazione di se stesso in vista della propria piena realizzazione. Infatti in quanto spirito
incarnato e finito l’uomo si trova associato con altri spiriti incarnati e finiti. Per questo la
sua esistenza e la sua realizzazione sono essenzialmente legate all’insistenza e alla
realizzazione degli altri spiriti incarnati che sono il suo prossimo. La via più eccellente per
conseguire l’autorealizzazione reciproca è la via dell’amore. Per questo motivo il secondo
comandamento evangelico prescrive: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Una nuova filosofia della cultura e dei valori
Al tema della cultura e dei valori M. ha dedicato quattro libri: Cultura marxismo e
cristianesimo (1979); Una nuova cultura per una nuova società (1982); I valori
fondamentali (1985); Filosofia della cultura e dei valori (1994) e numerosi articoli. È un
tema che lo ha affascinato per molti anni e la prolungata riflessione intorno alla cultura e
ai valori lo ha portato ad elaborare una nuova filosofia sia della cultura sia dei valori.
La prima acquisizione importante è stata la distinzione tra cultura come formazione della
persona e cultura come struttura portante della società. Fino a Hegel quando si parlava
della cultura generalmente si intendeva la coltivazione e la educazione della persona
singola, in particolare del bambino (si intendeva cioè la paideia). Solo lo sviluppo
dell’antropologia culturale alla fine del secolo XIX ha portato alla scoperta del ruolo
fondamentale che ha la cultura nella caratterizzazione di un popolo, di una nazione. Si è
scoperto che la cultura è la sua struttura più importante, la cultura è l’anima di un popolo.
Così si sono distinti due concetti di cultura: in senso soggettivo per cultura si intende la
formazione della persona; in senso oggettivo si intende la struttura, la forma della
società. Tra i due concetti c’è un legame strettissimo: infatti l’educazione dei membri di
un gruppo sociale (di un popolo, di una nazione), avviene mediante l’inculturazione, ossia
mediante l’assimilazione della forma interiore (che è la cultura) propria di quel gruppo. Si
può anche dire che nel suo insieme la cultura di un individuo è il formato piccolo della
cultura della società a cui appartiene, che ne costituisce il formato grande.
Secondo M. ci sono cinque pilastri fondamentali che fungono da sostegno di tutto l’edificio
culturale: la lingua, i costumi, le tecniche, le istituzioni e i valori. Per questo motivo tutte
le sue trattazioni della cultura come struttura della società dedicano un ampio spazio
all’analisi di questi cinque pilastri della cultura.
La storia ci mostra che la cultura moderna è stata colpita da una crisi epocale che ha
minato, scosso e distrutto tutti i suoi pilastri principali e le sue stesse fondamenta. Per
questo si parla – forse affrettatamente – di una cultura postmoderna. Il fenomeno della
crisi è stato denunciato da tutti i grandi pensatori del secolo XX: da Husserl a Heidegger,
da Spengler a Huizinga, da Guardini a Freud, da Marcel a Foucault, da Bloch a Lévinas.
Sono stati proposti anche alcuni progetti culturali per superare la crisi: Popper ha
proposto l’ideale di una società aperta; Fromm l’ideale di una società basata sull’amore;
Maritain l’ideale di una società cristiana; Mounier l’ideale di una società personalistica;
Lévinas l’ideale di una società basata sul rispetto del prossimo. M. ha proposto il progetto
di un nuovo assetto culturale che risponda alle esigenze di una società globalizzata nel
volume Una nuova cultura per una nuova società (1982). Secondo il suo progetto la
cultura di una società globalizzata come la nostra deve possedere tre caratteristiche
principali: deve essere planetaria, umanistica e religiosa.
– Planetaria – Tutte le culture precedenti avevano carattere locale, nazionale, regionale;
erano culture di un popolo particolare: del popolo egiziano, babilonese, greco, romano,
arabo, tedesco, francese, russo ecc. La stessa cultura moderna ha un carattere
essenzialmente regionale: è una cultura fatta per l’uomo occidentale, per l’europeo e per
l’americano e non per tutta l’umanità. Ma oggi l’intero pianeta è diventato un “solo
paese”. Economicamente, politicamente, moralmente, la vita quotidiana di ogni uomo
risente delle tempeste più lontane. L’attacco sferrato da Bin Laden nel 2001 alle Torri
Gemelle è stato il caso più eclatante. Oggi nessun conflitto ha carattere regionale,
nessuna responsabilità è limitata; tutto è globalizzato. Perciò, senza sopprimere le culture
locali o nazionali, oggi è necessario creare una cultura che abbracci tutti gli abitanti del
pianeta, ossia dev’essere una cultura planetaria.
– Umanistica – La nuova cultura non dev’essere a servizio della economia o della politica
ma a servizio dell’uomo, perché il fine ultimo della cultura è la piena realizzazione
dell’uomo, di ogni uomo: e dell’uomo concepito in modo elevato cioè dell’uomo concepito
come un essere sussistente nell’ordine dello spirito, cioè come uno spirito incarnato, che
ha cura del suo corpo, della sua salute e della sua bellezza; ma che è attento soprattutto
alla salute e alla bellezza della sua anima, che vive nel tempo ma in vista dell’eternità e
che cerca di assimilare i valori assoluti e perenni, come la verità, la libertà, la giustizia, la
solidarietà, l’amore e la pace.
– Religiosa – M. afferma che una cultura planetaria deve essere una cultura religiosa. La
ragione di questa affermazione non è dettata soltanto dall’esperienza che tutte le grandi
civiltà del passato (indiana, egiziana, assira, babilonese, greca, romana, araba ecc.) sono
state civiltà profondamente religiose, ma anche e soprattutto dalla verità che l’uomo per
la piena realizzazione di se stesso ha bisogno di Dio. Infatti l’uomo è per natura un
“piccolo Dio” (parvus Deus) è libero e dominus sui come Dio, ma è un dominus in fieri che
per riuscire a dominare le proprie passioni e per amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo
come se stesso ha bisogno dell’aiuto di Dio. Pertanto il culto a Dio, che è la funzione
propria della religione, è anche un elemento essenziale di una cultura integrale. In effetti
la fede religiosa è nell’uomo la seconda ala che spinge il suo spirito in alto, verso Dio, lo
Spirito assoluto che nella sua infinita bontà e misericordia fa dono all’uomo della salvezza
con la verità e la pace.
Né vale l’obiezione che in passato le religioni sono state maggiormente fattori di divisione
e di conflitto che di unione e pacificazione. Anche attualmente le differenze religiose sono
la causa principale delle sanguinose lotte tra arabi ed ebrei, tra islamici ed induisti, tra
musulmani e cristiani ecc. Di fatto le religioni sono più inclini all’intolleranza che al
dialogo. La difficoltà è pertinente e seria, ma non insormontabile, anche se bisogna
ammettere che ci vorranno secoli prima che le religioni, mantenendo intatta la loro figura
e personalità, riescano a diventare un fattore positivo di consolidamento e di unità della
cultura. Ad ogni modo, le religioni possono contribuire in modo decisivo alla creazione di
una cultura pienamente umanistica promuovendo l’assimilazione dei valori assoluti della
verità, della giustizia, della solidarietà, della pace e dell’amore. La cultura planetaria deve
porre al primo posto l’amore dell’uomo come uomo. La cultura planetaria deve essere una
autentica “civiltà dell’amore”, secondo il nobile insegnamento di Papa Montini.
Una nuova cultura per una nuova società è stato uno dei volumi più fortunati di M., che
suscitò vasto interesse specialmente negli ambienti religiosi. Fu preso in attenta
considerazione dall’Assemblea Generale di Santo Domingo dell’Episcopato Latinoamericano nel 1991. La Conferenza scelse come tema lo studio dei rapporti tra cultura ed
evangelizzazione. E dopo avere esplorato accuratamente la natura della nuova
evangelizzazione, nel capitolo conclusivo passa ad analizzare la natura e i compiti della
“cultura cristiana”. Essa afferma giustamente che “possiamo parlare di una cultura
cristiana quando il comune senso della vita di un popolo viene penetrato nel profondo
fino a porre il messaggio evangelico alla base del suo pensiero, nei suoi principi
fondamentali di vita, nei suoi criteri di giudizio e nelle sue norme di comportamento”.
M. ebbe inoltre l’onore di essere l’unico europeo invitato a far parte del gruppo degli otto
esperti che si riunirono a Bogotà durante l’ultima settimana di gennaio del 1991, per
preparare il programma della Conferenza di Santo Domingo.
Il valore come trascendentale dell’essere
Nel campo dell’assiologia M. può vantare il merito di avere elaborato per primo una teoria
filosofica che considera il valore come uno dei grandi trascendentali dell’essere, distinto
dall’uno, dal vero, dal bene e dal bello.
A suo avviso una adeguata teoria dei valori può essere elaborata solo all’interno della
metafisica dell’essere. Il valore è in effetti, come l’uno, il vero, il bene, il bello, una
proprietà trascendentale dell’essere. L’essere in quanto essere non è dotato soltanto di
bontà, di unità, di verità e di bellezza, ma anche di dignità e di nobiltà, cioè di valore. Il
valore è una facciata autonoma dell’essere, distinta sia dal bello, sia dal vero, sia dal
bene. Infatti ciò che il valore indica è qualche cosa di distinto da quanto viene indicato
dagli altri trascendentali: è appunto la dignità, la grandezza (magnitudo), la nobiltà,
l’eccellenza. Perciò il valore non è sinonimo di bene, come pretende la maggior parte dei
tomisti.
L’evidenza della distinzione del valore dagli altri trascendentali si ricava dal fatto che col
valore si istituisce tra l’uomo e l’essere un rapporto differente da quello che si istituisce
negli altri trascendentali. Mentre nella verità ha luogo un rapporto di corrispondenza tra
l’intelligenza e l’essere (adaequatio rei et intellectus); nella bontà un rapporto di
corrispondenza tra la volontà e l’essere; nella bellezza un rapporto di corrispondenza tra
l’ammirazione e l’essere; nel valore si istituisce un rapporto di corrispondenza tra
l’estimazione e l’essere. Il valore emerge nel momento in cui si guarda alla dignità,
all’importanza, alla nobiltà dell’essere.
Certo anche la bontà è un valore, come la verità e la bellezza sono dei valori perché i
trascendentali sono tra loro convertibili. Ma dire che una realtà è buona e dire che è
nobile oppure eccellente non è la stessa cosa; infatti la bontà è oggetto di appetizione,
mentre la nobiltà (il valore) è oggetto di estimazione. I trascendentali sono realmente la
stessa cosa, ma sono concettualmente distinti.
Come tutti gli altri trascendentali, anche il valore possiede due dimensioni, una
soggettiva ed una oggettiva. Tali dimensioni derivano immediatamente e direttamente
dalla sua proprietà di essere una correlazione. Con questo si vede quanto siano infondate
ed errate sia la teoria degli psicologisti che riducono il valore al sentimento sia quella dei
platonici che fanno dei valori delle realtà sussistenti.
Anzitutto il valore gode della prerogativa dell’oggettività e a provarlo ci vuol poco. Basta
tener presente la verità che il valore è una proprietà trascendentale dell’essere (che è
l’oggettività per essenza). Il valore è radicato nell’essere; è una facciata dell’essere; è
uno dei suoi aspetti fondamentali e più interessanti. Il valore è oggettivo come è
oggettiva la verità, come è oggettiva la bontà, come è oggettiva la bellezza.
Ma per avere il valore non basta il polo oggettivo: la dignità dell’essere; occorre anche
quello soggettivo: la stima, il rispetto da parte dell’uomo. Come non sboccia la bellezza
senza l’ammirazione, né la verità senza la conoscenza, né la bontà senza la volontà, così
non fiorisce la dignità, il valore dell’essere senza l’estimazione. In effetti il valore emerge
nel momento in cui c’è un soggetto, l’uomo, che compie un atto positivo di valutazione, di
estimazione e, così, riconosce la dignità di una cosa, di una persona, di un’azione. Il
valore senza l’uomo rimane inespresso, occulto, celato; non risplende; è come un sovrano
senza sudditi, vale a dire non esiste più come sovrano. Può rimanere il regno dell’essere,
ma scompare il regno dei valori. In conclusione il valore, in quanto trascendentale, è
essenzialmente dotato sia di oggettività sia di soggettività.
Il valore primario, fondamentale, radicale da cui dipende qualsiasi altro valore è l’essere.
Come è il più vero di tutte le verità, il più bello di tutte le bellezze, il più buono di tutte le
bontà, parimenti l’essere è il più degno di tutte le dignità, il più nobile di tutte le nobiltà,
il massimo di tutti i valori. Privata dell’essere ogni cosa decade nel nulla e pertanto perde
non soltanto la sua unità, verità, bellezza, ma anche il suo valore. Il nichilismo è
chiaramente la sentenza di morte di tutti i valori. C’è una grande disparità di pareri tra i
filosofi intorno alla facoltà dei valori e ancor più intorno alla loro gerarchia. Generalmente
si afferma che la facoltà dei valori è il sentimento (Lotze e Scheler); altri (G.E. Moore) la
identificano con l’intuizione. A giudizio di M. la facoltà che coglie il valore di una persona,
di un’azione o di una cosa è essenzialmente quella del giudizio: il valore è sempre il
risultato di un giudizio (valorativo), che può essere più o meno immediato o diretto e può
essere accompagnato e supportato dal sentimento dell’empatia, ossia una avvertenza
connaturale della nobiltà, eccellenza, dignità di una azione, di una persona o di una cosa.
Riguardo alla gerarchia, si possono escogitare tante scale di valori quanti sono i valori che
sono assunti come fondamentali: Dio, l’essere, lo spirito, la vita, la scienza, la patria ecc.
Una valida gerarchia dei valori può essere stabilita assumendo come valore assoluto
(anche se non supremo) l’uomo. In tal caso si possono ottenere quattro piani di valori: 1)
economici o vitali; 2) culturali; 3) spirituali; 4) religiosi. Gli ultimi si incentrano
ovviamente su Dio, massimo tra tutti i valori; valore assoluto sotto tutti i punti di vista,
degno della massima devozione, rispetto, adorazione, non solo per quello che è in se
stesso, ma anche per quello che fa per l’uomo, al quale fa dono di una dignità assoluta
come persona, di una grandezza immensa. Gli prepara un progetto di umanità tracciato a
propria immagine, ad immagine del suo Figlio Unigenito, un progetto con cui lo vuole
portare alla massima somiglianza con se stesso, rendendolo partecipe della sua stessa
vita divina.
La metafisica dell’essere di San Tommaso D’Aquino
La formazione filosofica di M. è stata di stampo neotomistico. Nel suo liceo, per lo studio
della filosofia si usava come testo il De Mandato, un solido e rigoroso neotomista della
prima metà del Novecento. Successivamente, al Boston College dei gesuiti e all’Università
di Harvard M. è passato alla lettura diretta dei testi di S. Tommaso, compreso il
monumentale Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, nella elegante edizione
parmense.
Così è diventato uno specialista di S. Tommaso e all’approfondimento del suo pensiero
filosofico ha dedicato otto volumi e moltissimi articoli. I titoli degli otto volumi sono: The
Principle of Analogy in Protestant and Catholic Theology (1963); La filosofia dell’essere di
S. Tommaso d’Aquino (1964); Antologia del pensiero filosofico di S. Tommaso d’Aquino
(1967); St. Thomas Aquinas, Philosophy in the Commentary to the Sentences (1975);
L’ermeneutica metafisica di S. Tommaso (1977); Il sistema filosofico di S. Tommaso
(1985); Dizionario enciclopedico del pensiero di S. Tommaso (1991); La metafisica di S.
Tommaso e i suoi interpreti (2002).
La grandezza di S. Tommaso come teologo è universalmente riconosciuta: egli è il
teologo della Chiesa cattolica per antonomasia e così si è guadagnato il titolo di Doctor
communis.
Invece la grandezza della sua statura filosofica si è imposta all’attenzione degli studiosi
soltanto nella seconda metà del secolo XX per merito di Fabro, Gilson, Maritain, De
Finance, Raeymaeker. Fino allora la filosofia di S. Tommaso era semplicemente
identificata con quella di Aristotele. Alla scoperta della originalità della metafisica di S.
Tommaso e soprattutto alla sua ricostruzione ordinata – tanto da farne un sistema
rigoroso e completo – ha contributo anche M., a partire dalla sua prima opera su S.
Tommaso, La filosofia dell’essere di S. Tommaso d’Aquino (1964), dove presentava la
metafisica del Dottore Angelico in due momenti: momento ascendente o induttivo di
stampo aristotelico, e momento discendente o compositivo, di stampo platonico.
L’originalità della metafisica di S. Tommaso è evidente: essa si basa su un nuovo
concetto di essere, inteso in modo intensivo come puro atto (esse ut actus) e non più
come esse commune ossia come piattaforma universale della realtà. I punti essenziali
della nuova metafisica dell’essere di S. Tommaso sono cinque.
L’intuizione della perfezione assoluta dell’essere
Per S. Tommaso l’intuizione filosofica primaria e fondamentale è quella dell’essere inteso
in senso forte, intensivo. Che questo sia un concetto nuovo, esclusivo di S. Tommaso
risulta dalle espressioni che egli adopera quando parla dell’essere: è un linguaggio nuovo,
inusitato che non si incontra né nella S. Scrittura, né nei Padri della Chiesa né nei filosofi
neoplatonici. Ecco come l’Angelico canta la perfezione dell’essere che ha abbagliato la
sua mente: “Fra tutte le cose l’essere è la più perfetta” (De Pot. 7, 2 ad 9); “Nell’ente
l’elemento più intimo e più profondo è l’essere” (De natura accidentis c. 1); “L’essere è
più nobile di tutte le cose che accompagnano l’essere. Perciò in assoluto è più nobile
anche del conoscere, se pure fosse possibile concepire il conoscere senza l’essere” (In I
Sent d. 17, 1, 2 ad 3); “L’essere è l’attualità di ogni atto e quindi la perfezione d’ogni
perfezione” (De Pot. 7, 2 ad 9); “La nobiltà d’ogni cosa dipende dal suo essere” ( C. Gent.
1, 56). Pertanto per S. Tommaso la metafisica è l’indagine intorno all’essere dell’ente, ma
dell’essere inteso in senso forte, come fonte da cui si irradia ogni realtà e ogni perfezione.
La distinzione ontologica tra essere ed ente
Ente ed essere non sono la stessa cosa. Assunto come termine chiave della metafisica
dell’essere ente dice la totalità della cosa, non una sua parte (l’essenza, la materia, la
forma ecc.). Tuttavia, come suggerisce l’origine stessa del termine ( ens trae origine da
esse) ente connota in modo particolare il suo rapporto con l’essere: “ente è ciò che ha
l’essere (quod habet esse)” (In I Sent. 37, 1, 1) o più precisamente: “è ciò che partecipa
all’essere” (quod participat esse) (S. Theol. I, 4, 2 ad 3). Per contro l’essere è l’atto primo
e ultimo di ogni ente. È l’atto ultimo perché l’essere attua l’ente che esso presuppone
logicamente costituito nella concreta singolarità. L’essere è inoltre l’atto primo perché
l’ente acquista attualità proprio grazie all’essere. L’essere sta quindi al fondo della realtà
dell’ente e la sostiene in tutti i suoi momenti, modalità e forme.
La distinzione reale tra essenza e atto d’essere negli enti
La ragione fondamentale della distinzione reale dell’ente dall’essere è che mentre l’essere
è puro e semplice atto, e questo costituisce la sua essenza; l’ente è invece composto di
atto e potenza e la sua specificità è di avere una essenza realmente distinta dall’essere.
Le essenze – spiega S. Tommaso – sono come dei recipienti e contengono tanto di essere
quanto ne comporta la loro capacità. “L’essere che in se stesso è infinito, può essere
partecipato da infiniti enti e infiniti modi. Se dunque l’essere di qualche ente è finito,
bisogna che esso sia limitato da qualche altra cosa, che sia in una certa guisa presente
nell’ente come suo principio” (C. Gent. I,43). Tale è il ruolo dell’essenza.
La risoluzione degli enti nell’Essere sussistente
Giunti a questo punto: constatata la distinzione reale tra essenza e atto d’essere negli
enti, si impone la necessità di rendere conto della loro effettiva unione. Infatti l’ente non
ha nessun diritto di essere: può avere l’essere ma può anche perderlo: l’ente è
intrinsecamente contingente. Ora la contingenza solleva la questione della sua origine. Le
vie per risolvere il problema dell’origine dell’ente tracciate da S. Tommaso sono due: la
via della composizione e la via della partecipazione.
Muovendo dal fenomeno della composizione dell’ente, il quale è sempre costituito di due
elementi distinti, l’essenza e l’atto d’essere, S. Tommaso imposta la risoluzione in questo
modo: “È necessario che ogni cosa in cui l’essere è diverso dall’essenza, abbia l’essere da
un altro. E poiché tutto ciò che è in virtù di un altro esige come causa prima ciò che è per
sé, vi dev’essere qualche cosa che sia causa dell’essere in tutte le altre, appunto perché è
soltanto essere, altrimenti si andrebbe all’infinito nelle cause. Avendo ogni cosa che non è
solo essere una causa, come s’è visto” (De ente et essentia IV, 27).
Assumendo come punto di partenza la partecipazione dell’ente all’essere S. Tommaso
realizza la risoluzione così: “Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda ad un
altro che sia la stessa cosa per essenza come a suo principio supremo. Per esempio tutte
le cose calde per partecipazione si riducono al fuoco il quale è caldo per essenza. Ora,
dato che tutte le cose che sono partecipano all’essere e sono enti per partecipazione,
occorre che in cima a tutte le cose ci sia qualcosa che sia essere in virtù della sua stessa
essenza, ossia che la sua essenza sia l’essere stesso. Questa cosa è Dio, il quale è causa
sufficientissima, degnissima e perfettissima di tutte le cose: da Lui tutte le cose che
esistono partecipano all’essere” (In Evang. Joan Prol. n. 5).
L’esistenza di Dio e i suoi attributi
La risoluzione dell’ente nell’Essere, mentre per un verso dà un sicuro fondamento all’ente,
per un altro verso comprova l’esistenza dell’Essere stesso, un Essere infinito,
sapientissimo, causa prima d’ogni cosa, che corrisponde a colui che la religione chiama
Dio.
Pertanto oltre che con le famose Cinque Vie, che sono vie comuni che S. Tommaso
riprende da altri filosofi, egli prova l’esistenza di Dio anche con vie proprie, che sono
perfettamente in linea con la sua metafisica dell’essere. D’altronde sarebbe sorprendente
che possedendo una nuova intuizione dell’essere, idea potentissima, fulgidissima,
fecondissima, l’Angelico non avesse trovato in essa anche una scala per risalire fino a Dio.
Infatti la grandezza di un filosofo dipende dalla grandezza della sua intuizione di
partenza, che è la finestra attraverso la quale egli guarda alla realtà; ed è proprio da
quella finestra che egli vede Dio. In tutte le metafisiche il discorso sull’esistenza di Dio
viene logicamente raccordato con l’idea centrale che ha conquistato la mente di un
pensatore. Così, per esempio, se l’idea centrale è il divenire come per Aristotele, allora
l’esistenza di Dio viene argomentata dal divenire; se l’idea centrale è la verità come in
Agostino, allora l’esistenza di Dio viene provata a partire dalla verità; se l’idea centrale è
la sostanza, come per Spinoza, allora l’esistenza di Dio viene argomentata a partire dalla
sostanza ecc.
S. Tommaso, che è stato folgorato dall’idea dell’essere, fa altrettanto: è in rapporto alla
perfezione dell’essere, plesso di tutte le perfezioni e fondamento di ogni realtà, che egli
propone il suo argomento dell’esistenza di Dio. Muovendo dal concetto di essere-
perfezione assoluta e inglobante e dall’esperienza della composizione e partecipazione
della perfezione dell’essere da parte degli enti, l’Angelico elabora la sua prova
“ontologica” dell’esistenza di Dio, visto come esse ipsum subsistens.
Raggiunto Dio attraverso la via ontologica S. Tommaso cerca di descrivere la sua natura
e lo fa guardando attraverso la finestra dell’essere. Questa prospettiva gli consente di
definire meglio gli attributi di Dio e le sue operazioni. Individuata nell’essere stesso
l’essenza di Dio, S. Tommaso si trova nelle mani un criterio validissimo per distinguere
quali attributi appartengono a Dio necessariamente e quali no. Come si è già visto in
precedenza, il criterio di S. Tommaso per stabilire gli attributi di Dio è il seguente: si
prende una perfezione e la si confronta con l’essere; si controlla se si fonda sull’essere
stesso o se invece si ottiene l’essere solo quando si incarna in una determinata essenza.
Nel primo caso ci troviamo di fronte a un attributo di Dio, nel secondo caso no. Degli
attributi di Dio l’uomo ha solo una conoscenza analogica e così anche il linguaggio che noi
usiamo per parlare di Dio ha solo un significato analogico, non un significato univoco o
equivoco, e neppure un significato meramente negativo come sosteneva Mosé
Maimonide.
Sulla dottrina tomistica intorno all’analogia si è acceso un infuocato dibattito tra gli
studiosi di S. Tommaso del secolo XX. Gli scopritori della nuova metafisica dell’essere,
Gilson e Fabro in particolare, rifiutano la tesi del Gaetano secondo il quale la priorità
spetta all’analogia di proporzionalità propria, e assegnano la precedenza alla analogia di
attribuzione intrinseca che si basa sul principio di partecipazione. Questa tesi è stata
convalidata anche da M. nel volume The Principle of Analogy in Protestant and Catholic
Theology (1963).
La trinità agapica
Lo studio della teologia ha occupato larga parte dell’esistenza di M., prima come studente
e poi come docente alla Pontificia Università Urbaniana. Anche in questo campo egli ha
scritto molti volumi, come risulta pure dal quadro bibliografico tracciato in precedenza.
Tra questi volumi figura anche l’opera sua più originale e più bella: La Trinità mistero
d’amore.
Da una decina d’anni la Trinità è diventata non soltanto la devozione principale di M., ma
anche il centro della sua riflessione teologica. Questa lo ha portato a concepire il mistero
trinitario come mistero di sommo, infinito, eterno amore.
Gesù Cristo oltre che rivelatore di se stesso è anche il rivelatore del mistero delle tre
persone divine: solo grazie alla sua rivelazione noi sappiamo che Dio non è una sola
persona, ma è una unica sostanza che sussiste in tre persone: il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo.
Ma la definizione esatta del dogma trinitario è il risultato di una faticosa ricerca che è
durata quattro secoli. A voler ricostruire per sommi capi il lungo processo che dalla
rivelazione ha portato al dogma trinitario, vi possiamo distinguere quattro tappe.
La prima tappa è la rivelazione del nome di Dio a Mosè: “Io sono colui che sono”. La
seconda tappa è la rivelazione per opera di Cristo dei tre volti e dei tre nomi di Dio,
Padre, Figlio e Spirito Santo. Il rivelatore della Trinità è Gesù Cristo, non san Paolo o
qualche altro Apostolo. Il Figlio di Dio fatto uomo è allo stesso tempo l’oracolo del Padre
e il profeta dello Spirito. La terza tappa è costituita dalla riflessione patristica.
Durante quattro secoli di profonda riflessione e di intensa discussione si riesce a trovare
la corretta formulazione del mistero trinitario ricorrendo ai concetti di natura, persona,
relazione e processione. Il Padre, il Figlio e lo Spirito, pur possedendo la stessa identica
natura, sono tre soggetti spirituali distinti, sono tre persone: il Padre è il principio
ingenerato; il Figlio procede dal Padre, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio
(oppure, attraverso il Figlio, secondo i Greci).
Viene infine l’ultima tappa che, con sant’Agostino, chiarisce il mistero trinitario mediante
l’introduzione della immagine psicologica della Trinità: è l’immagine dell’anima che con le
sue facoltà della memoria, della conoscenza e della volontà illustra le divine processioni.
Il Figlio procede dal Padre per via conoscitiva: è la mente, il Logos, la Sapienza del Padre;
lo Spirito Santo procede per via volitiva: è l’amore reciproco tra il Padre e il Figlio.
Senonché questo modo di concepire l’essere di Dio, articolandolo in tre operazioni
(memoria, intelletto e volontà) alla stregua dell’essere umano, si presta troppo
facilmente all’accusa di antropomorfismo, né si sottrae interamente al rischio del
monarchismo, che in forma più o meno accentuata è presente sia presso i greci sia presso
i latini. Del resto lo stesso Agostino alla fine del De Trinitate avverte la fragilità di
qualsiasi immagine della Trinità, inclusa quella psicologica.
In questa situazione è parso a M. che, per trovare una formulazione più adeguata del
massimo mistero del cristianesimo, la cosa migliore sia di risalire alla famosa e bellissima
definizione di Dio che ci ha dato san Giovanni: Deus caritas est (1 Gv. 4, 8).
Va anzitutto notato che questa non è un’affermazione sporadica del più speculativo di
tutti gli evangelisti, ma è un concetto già presente nell’AT e che diviene sempre più
robusto nel NT, specialmente in Paolo e Giovanni. Essi non si accontentano di cantare le
prodigiose imprese dell’amore misericordioso di Dio, il quale mosso da un’immensa
compassione per l’umanità perduta dal peccato non ha risparmiato “il suo stesso figlio,
ma lo ha dato a morte per noi tutti” (Rm 8, 32). San Paolo definisce Dio come “il Dio
dell’amore” (2 Cor 3, 11) e san Giovanni ancora più categoricamente dichiara che “Dio è
amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv. 16).
Sul carattere agapico dell’essere di Dio hanno insistito moltissimi scrittori cristiani, teologi
e mistici e a partire da sant’Agostino molti autori hanno fatto leva su questa verità per
chiarire il mistero trinitario. Agostino e Tommaso e sulla loro scia quasi tutti gli altri
studiosi della Trinità hanno fatto ricorso al concetto dell’amore per chiarire
l’ipostatizzazione della terza Persona della Trinità, lo Spirito Santo, e hanno visto nello
Spirito Santo “la sussistenza dell’amore”: “Spiratio importat processionem amoris
subsistentis” scrive S. Tommaso, vale a dire “la spirazione comporta la processione di un
amore sussistente” (S. Theol I, 43, 2). Così hanno introdotto una distinzione di capitale
importanza, la distinzione tra amore essenziale e amore nozionale. Il primo si identifica
con l’essenza di Dio, il secondo invece caratterizza la terza Persona della Trinità. Però
soltanto pochissimi autori (in particolare Riccardo di S. Vittore e H.U. v. Balthasar) hanno
elaborato tutta la dottrina trinitaria in chiave agapica, radicando nell’amore sia l’unità sia
la Trinità di Dio. Questa è la via che ha scelto anche M., perché è quella che a suo avviso
concilia nel modo migliore le esigenze sia dell’unità sia della Trinità, senza cadere negli
errori del monarchismo oppure del triteismo.
Il punto di partenza di M. è la definizione giovannea: Dio è carità, è amore. Questa è
verità somma, verità luminosissima in se stessa, verità dolcissima e meravigliosa. Nulla
reca più gioia al nostro cuore della scoperta di questa verità: che Dio è essenzialmente,
intensamente, pervasivamente, esplosivamente amore.
Questa verità è talmente ricca di luce da rischiarare oltre che il mistero dell’unità anche
quello della Trinità di Dio. Infatti se la sostanza di Dio è agapica, ossia se essa è tutta
fatta d’amore, allora che essa sia trina non risulta più un’assurdità ma piuttosto una
necessità. Per comprenderlo basta intendere che cosa significa amore.
Amore, nel suo significato più elementare ma anche più vero, vuol dire voler bene, volere
il bene: di qualche persona o anche di qualche cosa, di se stessi o di altri. “Propriamente
causa dell’amore – scrive san Tommaso – è l’oggetto dell’amore. Ma oggetto proprio
dell’amore è il bene: poiché l’amore comporta una connaturalità o compiacenza
dell’amante rispetto all’amato, e per ciascun essere è bene quanto a esso è connaturale o
proporzionato. Perciò si deve concludere che il bene è la causa propria dell’amore” (S.
Theol. I/II, 27, 1). Quindi “l’amore col quale si ama un essere, volendo ad esso il bene, è
un amore in senso pieno ed assoluto” (ivi, 26,4).
Le qualità primarie dell’amore sono la dedizione e l’unione.
Anzitutto il vero amore è dedizione: è un occuparsi dell’altro, l’interessarsi dell’altro, un
dedicarsi e un donarsi all’altro.
Dalla dedizione nasce l’amore: “Di per sé l’amore induce all’unione con le cose amate, nel
limite del possibile” (In III Sent. 27, 1, 1). San Tommaso non si stanca mai di ripetere che
effetto proprio dell’amore è l’unione, una unione che pur restando sul piano affettivo, è
una unione intima, profonda, una unione che immedesima e trasforma. È una virtus
unitiva, un nexus grazie a cui l’amante viene trasformato nell’amato e in certo qual modo
viene convertito in esso. “E per il fatto che l’amore trasforma l’amante nell’amato, esso fa
sì che l’amante penetri nella intimità dell’amato e viceversa; cosicché nulla di ciò che
appartiene all’amato rimanga disgiunto dall’amante” (In III Sent. 27, 1, 1).
L’amore, con le caratteristiche della dedizione e dell’unione, si trova in modo eminente in
Dio. In Lui c’è un amore fontale con cui ama se stesso e tutte le cose. Questo amore
costituisce la sua stessa sostanza. E poiché è proprio dell’amore effondersi, comunicarsi,
donarsi, risulta sommamente conveniente che Dio stesso si costituisca in una comunità di
persone, dove la comunicazione, la dedizione, l’unione acquistino piena e perfetta
realizzazione. Che questo accada nella Trinità noi lo sappiamo soltanto grazie a Gesù
Cristo, il rivelatore del mistero trinitario. Tuttavia, sapendo che Dio è essenzialmente
amore, non è né assurdo né inconcepibile, né impossibile (anche dal punto di vista della
ragione) che nell’essere agapico di Dio fiorisca la Trinità agapica. Così l’amore fontale
trova la sua attuazione in un triplice amore personale: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo.
Il Padre è la radice dell’amore paterno, il Figlio dell’amore filiale, lo Spirito Santo
dell’amore sponsale.
A questo punto si può già formulare schematicamente la proposta di M. di riformulazione
del mistero trinitario, che è la seguente. L’unità di Dio è data dalla sua unica sussistenza
nell’Essere, perché in ordine all’Essere (l’Esse ipsum subsistens) la sussistenza non può
essere che una sola: tre sussistenze infinite dell’essere formerebbero tre dèi! Invece la
trinità delle Persone è data dalla triplice sussistenza dell’amore. Dell’amore infinito di Dio
si danno tre ipostasi: quella del Padre che è l’ipostasi dell’amore sorgivo, quella del Figlio
che è l’ipostasi dell’amore recettivo o obbedienziale, quella dello Spirito Santo che è
l’ipostasi dell’amore reciproco o sponsale.
Osserviamo che questa interpretazione non si discosta affatto dall’insegnamento della S.
Scrittura. Essa ci presenta tutt’e tre le Persone divine sotto le vesti dell’amore. Veste
d’amore il Padre che offre il Figlio per noi; veste d’amore il Figlio che dona la sua vita per
l’umanità; veste d’amore lo Spirito Santo che accende la fiamma dell’amore nei nostri
cuori. La morte di Cristo in croce è l’estrema epifania dell’amore trinitario di Dio. In
quell’evento le tre persone divine sono tutte coinvolte e sono coinvolte come Persone che
si amano e che ci amano infinitamente. Sul Calvario il Padre attraverso lo Spirito Santo fa
dono del Figlio, il quale si svuota totalmente della sua forma divina e allo stesso tempo
(con la morte) anche della forma umana e, così, fa ritorno al Padre. E l’immolazione
totale del Figlio sulla croce è la massima epifania dell’amore di Dio, sia nella sua
circolazione ad intra che ad extra (verso di noi). È epifania dell’amore nella sua struttura
triadica, che certamente è la struttura più perfetta e completa dell’amore.
Questa lettura agapica della Trinità presenta considerevoli vantaggi oltre che dal punto di
vista speculativo anche dal punto di vista semantico. Infatti il linguaggio agapico, che è
squisitamente personalistico, è assai più appropriato e anche più intelligibile per parlare
delle persone divine di altri linguaggi, come il linguaggio ontologico, il linguaggio
psicologico e il linguaggio sociologico.
La lettura agapica del mistero trinitario acquista nuova luce mediante la dottrina della
pericoresi. Questa espressione introdotta da Giovanni Damasceno letteralmente vuol dire
“girare intorno” e propriamente significa la reciproca effusione d’amore tra i tre Eterni
Amanti. In effetti la donazione totale del Padre al Figlio e dal Figlio allo Spirito Santo, col
ritorno completo del dono dal donatario al donatore si riscontra soltanto nell’amore.
Perciò la pericoresi è frutto dell’amore.
Nella donazione agapica ha luogo una comunicazione che non priva il donatore del
proprio dono, anzi, al contrario, nella misura in cui uno fa dono del proprio essere
all’altro, il suo stesso essere si accresce. Ciò avviene proporzionatamente anche nella
pericoresi trinitaria. La trasfusione d’amore tra le tre persone divine è completa, pur
restando salva la peculiarità delle singole Persone: peculiarità per cui il Padre offre il
dono del suo amore; il Figlio lo riceve e lo Spirito Santo mantiene salda e permanente la
donazione. Per questa comunicazione “il Padre è tutto nel Figlio, tutto nello Spirito Santo;
il Figlio tutto nel Padre, tutto nello Spirito Santo; lo Spirito Santo è tutto nel Padre, tutto
nel Figlio” (Concilio di Firenze).
Così ogni Persona viene a trovarsi interamente nell’altra. Ogni Persona include
concretamente le altre due. Nell’abbraccio agapico dei tre Eterni Amanti questa
trasfusione completa dell’uno nell’altro è massimamente intelligibile. È un abbraccio che
esige che l’amore sorgivo del Padre si trasfonda nell’amore recettivo del Figlio, il quale a
sua volta viene a trovarsi interamente nell’amore reciproco dello Spirito Santo.
Nella pericoresi agapica si realizza quella perfetta circolarità della vita divina, per cui
questa non ha bisogno di nessuna effusione ad extra. Il circolo dell’amore è completo in
Dio stesso, e non ha bisogno di allargarsi verso le creature. Anche queste quando Dio
decide di realizzarle, sono frutto dell’amore divino, ma come risultato di un libero atto di
volontà dei Tre Eterni Amanti, e non come effusione naturale dell’amore fontale.
Grazie alla pericoresi i Tre Amanti Divini danzano insieme, con gioia ineffabile, l’eterna
danza del proprio amore, scambiandosi il dono di se stessi senza alcuna riserva. Tutto
l’oceano dell’amore riscalda il cuore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Tutto
l’amore si effonde dal Padre al Figlio e allo Spirito Santo. Col proprio essere ogni amante
divino scambia con gli altri anche il proprio splendore, la propria bellezza, la propria
gloria. C’è una gloria del Padre (“Padre della gloria”, Ef 1,17); c’è una gloria del Figlio
(“irradiazione della sua gloria”, Ebr 1, 4); c’è una gloria dello Spirito Santo (“Spirito della
gloria”, 1 Ptr 4, 14). Ogni Persona contempla, ammira, gioisce della gloria, della bellezza,
dello splendore del volto delle altre Persone. La beatitudine del Padre sta nel
contemplare e nell’ammirare la bellezza, lo splendore del volto delle altre Persone: lo
splendore e la gloria del Figlio e dello Spirito Santo. Analogamente la beatitudine del
Figlio, nella contemplazione e nell’ammirazione della gloria del Padre e dello Spirito.
Così pure la beatitudine dello Spirito Santo sta nella contemplazione e nell’ammirazione
della gloria del Padre e del Figlio. La pericoresi divina consiste nello scambio reciproco tra
i Tre Eterni Amanti della loro vita, amore e gloria.
Entrare nella pericoresi divina: della vita, dell’amore, della gloria del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo è il grandissimo dono che la Trinità ha voluto fare all’umanità. Godere
eternamente di questo dono meraviglioso deve costituire l’obiettivo principale e l’impegno
primario della nostra vita in questo mondo.
SALVATORE NATOLI
Salvatore Natoli è nato a Patti (Messina) il 18 settembre 1942. Si è iscritto nel 1961
all’Università Cattolica S.C. di Milano dove ha studiato sotto la guida di Emanuele
Severino, con cui si è laureato. Tra i suoi maestri Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Rovighi,
Italo Mancini. È arrivato in Cattolica in un momento particolarmente felice, quando si
apriva una controversia tra Bontadini e Severino relativa all’ontologia e alla struttura del
fondamento. Fu una controversia ontoteologica, ma nei fatti fu un dibattito serrato e a
tutto fondo di logica, epistemologia, teoria della conoscenza. Fu una controversia di
elevatissima qualità filosofica e per un giovane fu, soprattutto, una grande lezione di
rigore intellettuale. Nel contempo, grazie ad Italo Mancini, Natoli prese interesse per la
filosofia delle religioni. Di qui per l’antropologia, l’universo simbolico, i sistemi di
credenze, infine le ideologie. Conoscenze, queste, che preparano i suoi successivi studi su
modernità e secolarizzazione. Nella Milano degli anni sessanta, inoltre, ebbe l’opportunità
di frequentare Enzo Paci, Ludovico Geymonat, Cesare Musatti e molti altri. Queste
frequentazioni, gli incontri e le occasioni che offriva la cultura milanese di quegli anni
hanno contribuito molto alla sua formazione ed hanno in vario modo influito sulla sua
maturazione personale, filosofica e culturale nel suo complesso.
Nel corso degli anni settanta, dopo aver lasciato la Cattolica, seguì Emanuele Severino a
Venezia dove divenne prima assistente ordinario di Filosofia teoretica, quindi docente di
Logica. In seguito ha insegnato Filosofia della politica presso la Facoltà di Scienze
politiche di Milano quindi, di nuovo, Filosofia teoretica presso la Facoltà di Scienze della
formazione dell’Università di Bari. Attualmente è ordinario di Filosofia teoretica presso la
Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Milano-Bicocca. Insegna, inoltre,
Etica sociale presso la stessa Università e Filosofia della tecnica e teoria dell’azione
presso la Facoltà di Filosofia “Vita e salute” del S. Raffaele di Milano. Ampia è la sua
produzione scientifica. Tra le sue opere: Soggetto e fondamento, Antenore, Padova 1969;
Ermeneutica e genealogia, Feltrinelli, Milano 1981; L’esperienza del dolore. Le forme del
patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986; La felicità. Saggio di teoria degli
affetti, Feltrinelli, Milano 1994; Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1996;
Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1999; La felicità di
questa vita, Mondadori, Milano 2000; Stare al mondo, Feltrinelli, Milano 2002; Parole
della filosofia o dell’arte di meditare, Feltrinelli, Milano 2004; Guida alla formazione del
carattere, Morcelliana, Brescia 2006; Sul male assoluto, Morcelliana, Brescia 2006; Edipo
e Giobbe, Morcelliana, Brescia 2008. Diverse le traduzioni all’estero. Ha vinto premi di
filosofia (Castiglioncello; Viaggio a Siracusa). È nella redazione e direzione di alcune
riviste filosofiche (Filosofia e teologia, Fenomenologia e società). Collabora a riviste,
settimanali e quotidiani ed è ampiamente presente nel dibattito filosofico, culturale,
sociale e politico.
Profilo dell’attività scientifica e nuclei tematici attorno a cui si è venuta via via strutturando
Natoli già in Cattolica, e pur entro un dibattito logico-ontologico, rivolgeva una particolare
attenzione al tema della soggettività. Il suo primo scritto, verte, infatti, su L’ontologia
fenomenologica dell’“Essere e il nulla” (Vita e pensiero 1969). Ma le sue indagini sul
soggetto trovano il loro sbocco più significativo in Soggetto e fondamento. In questo
scritto, Natoli comincia a mettere in questione l’assolutezza del fondamento e a
individuarne la mobilità. Il fondamento è necessario, ma ciò non vuol dire assoluto: non è
un a priori incondizionato, ma è l’esito di procedure discorsive a partire da luoghi
determinati e predeterminanti. Non esiste una logica che valga per tutto, ma tutto ha una
logica. Lo sforzo sotteso a Soggetto e fondamento non era tanto quello di ricostruire il
pensiero di autori – nel caso Aristotele e Cartesio – quanto piuttosto di analizzare
l’impiantarsi di forme logiche, l’istituirsi di una dinastia di concetti: in breve era
un’indagine sui luoghi e le forme della soggettività, una sorta di topologia del soggetto.
Appena dopo Soggetto e fondamento esce Ermeneutica e genealogia. L’interpretazione
decifra i segni, la genealogia accerta dove e come nascono. Questo libro voleva dare
risposta all’interrogativo: quale ragione? Problematizzava, quindi, la pretesa purezza del
cogito – da questo punto di vista, in continuità con Soggetto e fondamento – e mostrava
come la ragione fosse il prodotto di pratiche discorsive. Qui l’incontro-confronto con
Nietzsche e Foucault. Nel saggio Natoli cercava di far vedere come le pratiche di
inclusione ed esclusione, la giurisdizione della verità costituissero l’ambiente, fossero la
precondizione per il prodursi di ciò che usiamo chiamare ragione. Facendo propria la
lezione di Nietzsche e Heidegger da un lato e di Foucault dall’altro, per Natoli la pratica
filosofica è ricostruzione (genealogia) degli orizzonti di senso che hanno attraversato il
sapere occidentale, ed interpretazione (ermeneutica) del conflitto di significati che inside
a ciascun orizzonte di senso. Al centro di questa filosofia sta la dialettica di senso e
significato: la verità è heideggerianamente l’accadere di un evento che apre ad una
pluralità di significati in lotta tra loro per interpretare il carattere enigmatico del senso
originario. Ma la ricerca filosofica di Natoli, dall’analisi e ricostruzione dei luoghi formali
dell’argomentazione si viene a mano a mano trasformando in un sorta di topologia dei
campi d’esperienza e perciò in un’esplorazione dei mondi storici. Nascono da qui opere
divenute ormai classiche – L’esperienza del dolore , La felicità – che ricostruiscono gli
scenari attraverso i quali la tradizione occidentale ha pensato le situazionilimite
dell’umano. Secondo Natoli la filosofia non spiega tutto, ma getta pur sempre una
qualche luce innanzi ai grandi dilemmi della vita, al buio dell’esistenza. Tuttavia nel
procedere della sua ricerca, si rende conto – e sino in fondo – di come ogni
argomentazione innanzi al dolore fallisce, come la sofferenza ammutolisce e fa apparire
saccente, prepotente e insieme ridicola ogni pretesa di spiegazione. Eppure, nonostante
ogni parola sembri vana, chi soffre aspetta nel silenzio la voce che salva e il dolore lo si
riesce a vivere se in qualche modo accede al linguaggio. Il linguaggio del soffrire, per
quanto la cosa – di primo acchito – possa sembrare paradossale, è espressione della
volontà di vivere e il vivere coincide con le forme di vita concreta. Più esattamente con i
mondi vitali, che sono determinati, storici, che sono, soprattutto, universi di senso. Il
dolore diviene sostenibile se diviene dicibile. Da qui l’analisi delle forme del patire nella
cultura occidentale e nello specifico quella greca, giudaica, cristiana. In breve: tragedia,
redenzione, tecnica. Ora, proprio entro la meditazione sul dolore matura la riflessione
sulla felicità e, a partire da qui, la ripresa e la riproblematizzazione del nesso antico tra
felicità e virtù. Si comincia così a delineare sempre meglio l’approdo del pensiero
natoliano: ciò che in senso lato si può chiamare “etica del finito”. Un’etica ove il richiamo
ai greci più che un ritorno indica un modello da reinterpretare.
Natoli osserva come nella parola éthos risuonino insieme i significati di morale e dimora.
Una pluralità di significati che dà una torsione particolare all’etica come disciplina
filosofica: non calcolo di ciò che è utile ai più, né astratta determinazione di doveri, ma
ricostruzione degli orizzonti di senso attraverso cui gli uomini scandiscono le varie tappe
della vita: la nascita, l’abitare la terra e la costruzione della propria identità, la vecchiaia
e la morte. Per Natoli – con la fine della cristianità – e questo è il significato autentico
dell’espressione “Dio è morto” (cfr. Dio e il Divino) – , il cristianesimo può tornare ad
essere una scelta di vita radicale in e per la sua paradossia. Ma in questa medesima
congiuntura torna attuale un’etica del finito, ispirata al modello greco-pagano – un’etica
non anticristiana, ma postcristiana. Quali i lineamenti di questa etica? “Si può essere
buoni anche senza essere cristiani. Di questo i greci sono un modello. Dopo il
cristianesimo il bisogno di redenzione ha penetrato l’umanità occidentale... Ma la terra
può essere amata per sé sola, senza bisogno di redenzione? In questo contesto i greci
riaffiorano: riaffiora il sentimento tragico. Ci si può mantenere fedeli alla terra: così
com’è, con il suo immenso dolore – da cui non c’è riscatto. Eppure gli uomini possono
lenire le loro sofferenze attraverso la pietà, facendosi carico delle proprie, comuni
debolezze. Di qui la necessità di portarsi all’altezza della propria morte. Ciò vuol dire
sapere accettare il limite: non rovesciare sugli altri le proprie impotenze, non servirsi
degli altri come sgabello della propria ascesa. Per vivere bene è necessaria la misura e la
pietà. Non è necessaria la redenzione. Questa è l’etica del finito.”
Un’etica che deve scacciare, come insensato, il bisogno di infinito: per essa è solo una
malattia da cui, con virtù, guarire per assestarsi sul limite mortale delle proprie
possibilità. Un’etica neopagana pensa il finito nella forma della “naturalità”, ovvero
all’interno di una costellazione categoriale neoaristotelica, in cui la stabilità della sostanza
regge il senso di un mondo, anche di quello umano. La finitudine rende sì instabile
l’esistenza, ma pur sempre nella certezza del ciclo della physis. Di qui la massima
dell’etica neopagana: “...non ci è in alcun modo concesso d’esser di più di quel che
possiamo. E allora? Tocca metterci costantemente in pari con noi stessi. È necessario
inaugurare una circolarità virtuosa tra la nostra coscienza e la nostra potenza. E stare in
equilibrio”. In gioco è l’interpretazione dell’orizzonte di senso contemporaneo,
contrassegnato dal nichilismo. Donde la genealogia del moderno che Natoli disegna in
Progresso e catastrofe: una coppia di concetti in cui si ricapitola l’ambiguità costitutiva
della modernità: da un lato è secolarizzazione – trasposizione nel mondo – dell’idea
cristiana di un fine della storia; un fine che non è più sinonimo di un disegno
trascendente, ma è la certezza che l’uomo ha di costruire una società perfetta: quella che
era una promessa divina diviene una possibilità umana. Di qui l’insorgere delle ideologie
illuministiche del progresso, e delle filosofie della storia – si pensi al marxismo. Un’utopia
che s’è tragicamente rovesciata nell’opposto: lungi dal metter capo alla società perfetta,
s’è risolta nelle spettrali catastrofi dei totalitarismi del Novecento.
Ma il Moderno, insieme a questa secolarizzazione, è stato anche un’apertura illimitata
dell’orizzonte cosmologico e storico; la rivoluzione copernicana, decentrando il posto
dell’uomo nell’universo, è una potente metafora in cui possiamo sorprendere l’altro lato
del Moderno: la consapevolezza, per l’uomo, di non essere all’interno di un disegno
inscritto nella storia, ma di essere gettato nell’esistenza, in una contingenza mitigata da
progetti razionali, che alleggeriscono i pericoli, naturali e sociali, che accompagnano la
vita.
Se questa ambivalenza, tra secolarizzazione e scoperta di una radicale contingenza, ha
segnato l’arco intero della modernità, per Natoli assistiamo oggi, dopo il declino delle
ideologie del progresso, ad una secolarizzazione della secolarizzazione: la storia non si
interpreta più come un, sia pur mondano, finalistico cammino garantito da mete utopiche,
ma si mostra come un luogo, più o meno razionale, in cui enti finiti, quali noi siamo,
interpretano, cooperano e confliggono per dare un senso alla propria esistenza. Ben si
vede come questa interpretazione della modernità, culminante in una secolarizzazione
della secolarizzazione, innovi in modo significativo il dibattito filosofico e storiografico.
Non solo si va al di là della opposizione tra i sostenitori di una origine anticristiana della
modernità e i sostenitori di una genesi cristiana dell’idea di Moderno. Per Natoli, il
Moderno diventa postcristiano portando fino in fondo la mondanizzazione dell’idea
cristiana di una storia teleologicamente orientata. Il Moderno non è in sé anticristiano:
fuoriesce dall’orizzonte della cristianità usando fino in fondo, per autocomprendersi,
categorie cristiane. Un’ipotesi interpretativa che l’autore corrobora attraverso una
genealogia delle categorie greche e cristiane di tempo e storia: dall’idea ciclica del tempo
alla concezione cristiana della storia come rivelazione di un eschaton (di un Fine ultimo).
Una genealogia che mette capo a chiarificanti paragrafi sulle metamorfosi dei concetti di
peccato, provvidenza, infinito, tecnica, rivoluzione… Ma originali sono anche le pagine
dedicate alle peripezie dell’idea gnostica della storia come dialettica di caduta e
conquista, attraverso una conoscenza superiore, della salvezza: tratti gnostici non sono
rintracciabili nei progetti politici che hanno solcato il Novecento? Un’immagine della storia
come orizzonte de-finalizzato, in cui il riconoscimento della irriducibile contingenza
dell’esistenza fa del cristianesimo una delle possibili scelte esistenziali, senza alcuna
garanzia, teologica o politica, inscritta nella storia stessa (cfr. Dio e il Divino). Come dire:
fuoriusciti dai secoli in cui il cristianesimo è stato la grammatica profonda attraverso cui
gli uomini hanno interpretato se stessi, è possibile scoprire come la fede cristiana sia sì
solo una delle possibili scelte di vita, ma non per questo meno autentica. Il Moderno non
è stato una costellazione di secoli in cui la cultura cristiana ha permeato il mondo,
conducendolo, per così dire, ad una maggiore età? Ora il cristianesimo ha dalla sua la
possibilità di essere fino in fondo ciò che Paolo definiva la follia della Croce agli occhi
dalla sapienza dei pagani. Declinata la cristianità sta forse rinascendo questo
cristianesimo? Una prospettiva che, pur nella distanza da una scelta di fede, è anche
perspicua investigazione dell’Antico e del Nuovo Testamento (cfr . L’esperienza del dolore,
parte Seconda). La parole bibliche sono “parole eterne”. La disputa di Giobbe, le
meditazioni di Qohelet, l’invocazione di Gesù sulla croce: in gioco è la destinazione ultima
dell’uomo. Ad apparire costante nel cammino di Natoli è la stringente logicità
dell’argomentazione unita all’attenzione per la ricaduta esistenziale della pratica filosofica
(cfr. Le parole della filosofia). Una filosofia che interroga la vita evitando la scorciatoia
della retorica dell’immediatezza, ma che anzi, nel tener ferma la distanza dello sguardo
teoretico, rivendica uno dei sensi profondi dell’etimo racchiuso nella parola filo-sofia:
amore, tensione alla saggezza. Un compito mai finito. Di qui il tratto sapienziale delle
ultime opere di Natoli (cfr. Guida alla formazione del carattere, Salvezza senza fede).
Filosofare è un esercizio spirituale: darsi una disciplina, investigare su di sé per avere
cura dell’altro, sia esso il mio prossimo o, per chi crede, il messia che, come un ladro, può
giungere inaspettato in una notte oscura.
Prospettive future di indagine
L’etica del finito si declina, in fondo, come grammatica della vita: sono offerte le parole
con cui ognuno può interpretare le proprie esperienze. Vietandosi di essere un’etica
deontologica, l’etica di Natoli ha sì un’indole teleologica (consequenzialista), e sconta
l’intrascendibile orizzonte plurale e conflittuale in cui accade oggi la scelta morale: dà
conto delle crescenti tensioni tra éthos condiviso e babele delle morali individuali. Epperò,
determinandosi come grammatica della finitudine, non si esime dal delineare i doveri
minimi – appunto universali – che rendono sensata, umana, l’esistenza. Di qui la tonalità
della scrittura: un afflato colloquiale, memore di stilemi di un Montaigne e di un Nietzsche
– stilemi in cui ritornano topoi dell’etica ellenistica: etica è arte del ben vivere – stilizzare
forme di senso in cui reggere la vita solcata dall’enigmatico caso (tyche). Un caso che è il
volto contingente della invalicabile necessità inscritta nel finito – quell’ananke che i greci
chiamavano destino. In sintesi: l’opera di Natoli ha completato le tre parti di quella che
nella tradizione filosofica è la methaphysica specialis: l’analisi della questione di Dio (in
Dio e il Divino, La salvezza senza fede), della questione della storia e del mondo
(L’esperienza del dolore , Progresso e catastrofe, Stare al mondo), il problema del
soggetto e del suo destino etico (La felicità, La felicità di questa vita, Dizionario dei vizi e
delle virtù). Un tripartizione che trova il suo impianto teorico e argomentativo in un’
ermeneutica genealogica (Soggetto e Fondamento, Ermeneutica filosofica, Teatro
Filosofico, Le parole della filosofia, L’incessante meraviglia ) che non è improprio fare
corrispondere a ciò che la tradizione chiamava “filosofia prima”.
La filosofia di Natoli è tutte queste cose insieme, anche se darne una definizione è pur
sempre restrittivo. In ogni caso, il suo modo di procedere è sempre di più quello di un
fare filosofia parlando del mondo. Se si vuol trovare un’espressione che sintetizzi in
qualche modo il suo pensiero, si può usare, appunto, Stare al mondo che significa stare
nell’aperto che è spazio del movimento umano, delle sue tensioni e protensioni. Ma quali
sono i confini del reale? E quali sono, poi, i confini dell’anima? E, più in generale, l’anima
può tracciare confini per uomini e cose? Certamente. È proprio questo il compito della
filosofia: generare concetti come fossero una fuga di quinte, che nell’inarrestabile moto
del tempo chiudono di volta in volta i fondali della storia, cercando di dare a quel che
accade logica e direzione. La ricerca di Natoli sembra perciò procedere ad uno studio
sempre più attento alle forme di razionalizzazione, alla definizione del ruolo che affetti e
passioni giocano nella generazione dei concetti e come questi performino le vite. Si tratta
di una sorta di genealogia della ragione ed insieme di una filosofia dell’azione. Nella
specie un’analisi delle forme del fare: prassi, tecnica, poiesis. Non esistono filosofie
perenni, perenne è il filosofare che è lavoro del pensiero, elaborazione di teorie, ma
anche e soprattutto è un ethos, un modo di vivere, di impegnarsi nell’esistenza. Questo è
lo stile filosofico di Natoli, e perciò è anche l’orizzonte entro cui si delineano le sue future
prospettive di ricerca.
PIER PAOLO OTTONELLO
Pier Paolo Ottonello, nato a Genova nel 1941, e ivi laureatosi in Filosofia con Michele
Federico Sciacca, dal ’65 ne è stato assistente e poi l’aiuto, collaborando con lui in diverse
delle sue molteplici iniziative: dalla redazione del suo “Giornale di Metafisica” alla
coordinazione di un’équipe per l’elaborazione di un monumentale Lessico Rosminiano,
nell’ambito di un programma di ricerca del C.N.R. (opera alla morte di Sciacca non più
finanziata sebbene pervenuta alle soglie del suo compimento), alla costituzione e alla
conduzione del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, fondato e diretto da
Sciacca dal ’66. Nel ’69 ha conseguito la libera docenza in Filosofia Teoretica, nello stesso
anno assumendo nell’Università di Genova la titolarità dell’insegnamento di Storia della
Filosofia, che continua come ordinario dal ’75 a tutt’oggi.
È autore di oltre settecento pubblicazioni, in Italia e all’estero, fra le quali si annoverano
36 volumi. È stato il curatore di 87 volumi, fra i quali, dal ’79 ad oggi, dieci volumi
dell’Edizione Nazionale Critica delle “Opere edite e inedite” di Rosmini (del cui Comitato
Scientifico è membro); inoltre ha pubblicato la traduzione di opere di Juan de la Cruz,
Lavelle e Caturelli e l’edizione di opere di Spaventa e Jaja.
Dal ’66 redattore del “Giornale di Metafisica” e dal ’70 della “Rivista Rosminiana”, alla
morte di Sciacca (1975) condirige, insieme con la sua sposa Maria Adelaide Raschini, il
primo dei due periodici, fondato da Sciacca nel ’46 e già da lui diretto e da lui ad
entrambi affidato per la sua continuazione, che si è potuta porre in atto fino al ’77. Dal
’75 a tutt’oggi dirige inoltre la “Rivista Rosminiana”, ora la più antica rivista filosofica in
Italia continuativamente vitale, essendo stata fondata nel 1906. Con Maria Adelaide
Raschini ha coordinato, dal ’75 al ’78, 10 volumi della “Grande Antologia Filosofica”, già
diretta da Sciacca, per circa 10.000 pagine. Insieme con la stessa ha fondato e condiretto
(1978), e poi diretto dalla sua morte (1999) ad oggi, il periodico internazionale “Filosofia
oggi”, nonché, dall’85, il semestrale “Studi Sciacchiani”. Ha inoltre diretto tutte le annate
di “Studi Europei” (1993-2006); organo del Dipartimento universitario intitolato a Sciacca,
chiuso dall’Ateneo alla vigilia (2007) del centenario della nascita di Sciacca (2008) e dopo
che aveva pubblicato oltre 80 volumi e realizzato venti congressi in Italia e all’estero.
Dal ’76 ha inoltre fondato e diretto 19 Collane filosofiche, alcune delle quali continuano a
tutt’oggi. Ha collaborato e collabora a 50 periodici di cinque Paesi. Nel ’90, con Maria
Adelaide Raschini, ha fondato la Società Internazionale per l’Unità delle Scienze
“L’Arcipelago”, con convegni annuali e pubblicazioni, che ora presiede; e, alla fine del
2007, ha costituito e presiede la “Fondazione Michele Federico Sciacca”. Ha condiretto e
diretto una cinquantina di congressi, in Italia e all’estero. Ha tenuto relazioni e
conferenze in diversi Paesi europei ed extraeuropei.
L’interesse fondamentale che anima l’intera attività di Ottonello è di carattere
peculiarmente teoretico, anche entro la sua produzione storiografica, nella chiave di
quella “ontologia dinamica” che resterà la sua cifra teoretica principale.
L’approfondimento anzitutto di Platone (a cui ha dedicato diversi corsi accademici, i cui
testi fino ad oggi non ha pubblicato: ma tra i volumi in programma ha Socrate
contemporaneo), quindi della linea dal nominalismo medievale a quello contemporaneo
(logicistico-neopositivistico), gli ha consentito di organare la propria attività da un lato
nella direzione della ricostruzione interpretativa di gangli della pars destruens rispetto al
modello dell’ontologia dinamica, e dall’altro lato nella erezione, storiograficamente
corroborata, della pars costruens.
Entro il primo versante si può collocare l’opera Struttura e forme del nichilismo europeo,
programmata in quattro volumi, di cui ha finora pubblicato i primi due (1987-88: Saggi
introduttivi e Da Lutero a Kierkegaard), riservando i successivi a Da Plotino a
Schopenhauer e a Nietzsche oggi.
Entro il secondo versante sono inscrivibili Del Cielo e della Terra (1988, 20062), opera
affatto singolare di riflessione personale, L’uomo “equivoco” (1991, 20012) , La barbarie
civilizzata (1993, 1998 2), Ontologia e mistica (2002), il Trattato della Paura (2003),
L’oscuramento dell’interiorità (2005), Confessioni di un conformista (2007), Elogio
dell’ipocrisia (2009): le ultime quattro, in particolare, opere fuori da ogni schema e
accademismo; nonché, fondamentalmente, i cinque volumi su Rosmini fino ad oggi da lui
pubblicati. Includono entrambi i versanti, ma con dominante rilievo di quello costruttivo, i
tre volumi di saggi dedicati all’opera del suo maestro Sciacca: Sciacca, la rinascita
dell’Occidente (1978, 19953) , Sciacca, l’anticonformismo costruttivo (2000) e Sciacca,
interiorità e metafisica (2007).
Sul versante estetico, di grande rilevanza entro la sua prospettiva, ha finora pubblicato
una raccolta di brevi saggi polemici, Scudisciate all’estetica (2000), mentre ha in
programma almeno due opere organiche.
Tra le numerose opere da alcuni anni in programma, se ne segnalano inoltre, in
particolare due — Ideario filosofico e Filosofia della creazione — con la funzione principale
dell’organamento e dipanamento dell’intessitura teoretica della sua attività. Nonché una,
di ampio respiro, che commisuri tale intessitura con gli sviluppi de La filosofia in Italia
oggi.
Dall’’87 ha iniziato a ordinare un’ampia scelta dei propri “Scritti” entro un piano, in
evoluzione, per ora di 31 volumi, di cui ad oggi ne ha pubblicati ventidue.
Il volume di esordio di Ottonello, Dialogo e silenzio, è la dissertazione di laurea, redatta
nel 1963-64 – pubblicata integralmente nel ’67 –, a ridosso del ‘teatro’ sartriano, dalla
Critique, che culminerà nel monumento alla corruzione borghese de L’idiot, a quello
“dell’assurdo”, dal neo-salotto di de Beauvoir-Sartre con le sue aure ed i suoi uffici-
stampa, nonché dalla Filosofia del dialogo del Calogero alle ventate modaiole
dell’‘incomunicabilità’. Dai sedici anni, Ottonello ha frequentato con l’assiduità del neofita
prima Novalis e Goethe – oltre agli scorrazzamenti nella letteratura italiana, dalle rime
petrose dantesche all’oggi –, setacciando poi i protagonisti del romanticismo filosofico e
letterario, la filosofia tedesca da Herder a Schiller, da Hölderlin a Schopenhauer, da
Hamann a Schelling, da Hegel a Kierkegaard, dalla sinistra e destra hegeliana sino a
Nietzsche e filiazioni, da Husserl a Scheler, da Heidegger a Wittgenstein, da Musil a Mann
e a Jung; intersecandovi in modo continuativo lo studio appassionato specie di Platone,
Plotino e Agostino. Ne è emerso, in quel primo lavoro, un intreccio di problemi attraverso
i quali ha inteso riporre in primo piano la costitutività della metafisica: nei termini di una
ontologia dinamica, ossia come dialettica necessaria di finitezza-irrepetibilità
dell’esistenza personale e di assolutezza non formale né nominalistica; tale cioè da dare
ragione argomentata della differenza ontologica Essere-enti, della positività ontologica
degli enti come finiti, della differenza qualitativa tra ente-uomo ed ente-natura; e già
giudicando che i percorsi fenomenologici ed esistenzialisti, peraltro in corso di
impoverimento, mostrano anche storicamente il loro necessario sbocco in forme di
nichilismo, implicito o esplicito; così come a questi percorsi si nutrono e muovono e
tornano, a circolo vizioso, neologicismi e neoconvenzionalismi, di matrice positivista. Il
loro attraversamento critico, che in questo lavoro di necessità resta a livello di sostanziale
allusività – anche per non sopravalutare quanto attraversato – e di traiettoria da
integrare, peraltro già con chiarezza indica tra i suoi risultati la dimostrazione, almeno in
negativo, della necessità e imprescindibilità del percorso metafisico.
Nel ’65-66 Ottonello si addentra nell’ontologia di Rosmini, l’unica organica confutazione
costruttiva – ritenendo che quella di Kierkegaard resti anche intenzionalmente a livello di
edificatrice ironia – della filosofia classica tedesca e dei suoi sbocchi di metà Ottocento.
Lo fa affrontando principalmente nuclei teoretici fondamentali della sua culminante
incompiuta Teosofia – di cui un trentennio dopo curerà la prima edizione critica
nell’ambito di quella nazionale, in 3250 pagine –, che sintetizza intanto nel suo primo
volume su Rosmini, uscito nello stesso ’67.
Dopo aver conseguito la cattedra universitaria, pochi mesi dopo la morte del suo maestro
Sciacca (1975), gli dedica diversi volumi miscellanei e un’ampia serie di studi, che
raccoglie, dal ’78 al 2007, nei tre volumi citati. In particolare, ne La rinascita
dell’Occidente dimostra per saggi che la prospettiva teoretica di Sciacca, nella chiave
fondante di una metafisica creazionista, nettamente distinta dalle metafisiche non
creazioniste,
essenzialmente
cosmologiste,
consente,
unica
nel
panorama
contemporaneo, il sostanziale rinnovamento integrativo delle strade maestre
dell’Occidente, oltre i suoi percorsi nominalisti, razionalisti, spiritualisti, positivisti,
tecnocratici: lasciando che i morti, da Nietzsche a Spengler, seppelliscano se stessi con la
loro abortita figliolanza, sino ai suoi cascami ‘debolistici’. Sciacca è ‘inattuale’ per
l’integralità della sua metafisica, che fonda la libertà e l’immortalità personale e la storia
umana, come dialogo tra la somma e polimorfica dignità ontologica della singola persona
e le supreme leggi della Provvidenza. Da qui il suo anticonformismo costruttivo, fatto
perno della seconda raccolta in volume di saggi, dedicati principalmente alle sue più
mature diagnosi della “stupidità storicizzata” – quelle che Sciacca articola in Filosofia e
antifilosofia, significativamente del ’68, e ne L’oscuramento dell’intelligenza, del ’70 –, che
secondo Ottonello si è cristallizzata globalisticamente a partire, in modo simbolico, dal
breve scritto heideggeriano La fin de la philosophie et la tâche de la pensée (1966), con
effetti di diffusione pandemica della ‘heideggerite’, oggi in via di esaurimento in forza
della stessa autodistruttività propria del nichilismo, alla quale si riduce la sua ametafisica. Nella terza raccolta, Interiorità e metafisica, mette in luce come la prospettiva
della metafisica dell’integralità costituisca il perimetro teoretico dell’articolazione del
fondamento razionale dello straordinariamente ricco mondo dell’interiorità personale, che
ogni forma di nichilismo tenta di ‘glissare’, attraverso una serie di riduzionismi, che
concrescono secondo dinamiche di circoli viziosi, sino all’autodissolversi e autosvelarsi del
profetato ‘oltreuomo’ come sub-animale. Complessivamente dunque conferma il suo
giudizio sulla fondamentale opera di Sciacca La libertà e il tempo (1965) nei termini di
una determinante integrazione costruttiva rispetto alla pleiade delle ‘crisi’ novecentesche,
come nodi irrisolti in cui vengono a stringersi a garbuglio i fili di storicismo,
fenomenologia, esistenzialismo, neopositivismo.
Corrobora quindi storiograficamente siffatta fondamentale traiettoria teoretica
approfondendo le dinamiche e le articolazioni dell’ontologia di Rosmini (L’ontologia di
Rosmini, 1967, 1989 2; L’enciclopedia di Rosmini , 1992, 20082; Rosmini “inattuale”, 1991;
Rosmini, l’ideale e il reale, 1998; Saggi rosminiani, 2005), affiancati dalla cura
dell’edizione nazionale critica di dieci volumi delle sue ‘Opere’. Ne emerge principalmente
una ricca serie di argomentazioni a supporto della persuasione secondo la quale la
triadica ontologia dialettica di Rosmini costituisce la forma culminante della fondazione di
u n a enciclopedia integrale, in tutte le sue indefinite diramazioni, dalle scienze
antropologiche alle scienze della natura, dalla politica all’etica, dall’estetica all’ascetica: le
circa centomila pagine assommate dai testi di Rosmini ne costituiscono al tempo stesso
un’amplissima esemplificazione ed una conferma della sua fondazione teoretica e della
sua apertura e fecondità metodologica, tale da consentirne sempre ulteriori articolazioni
e indefiniti progressi reali, ossia a beneficio dell’integralità della persona e dunque delle
società tutte e della storia umana. L’epoca delle enciclopedie occidentali, da quella
platonica sino a quella iniziata, e non compiuta, significativamente a cavallo della
seconda guerra mondiale, come International Encyclopedia of Unified Science, attraverso
l’enciclopedia rosminiana può rinnovarsi con sostanziale fruttificazione. Sulla base di tale
argomentata persuasione, Ottonello, con Maria Adelaide Raschini sua sposa, nel ’90 dà
vita alla Società Internazionale per l’Unità delle Scienze “L’Arcipelago” (con simposi
annuali: e il periodico internazionale “Filosofia oggi” ne diventa l’organo); inoltre, nel
bicentenario della nascita di Rosmini, realizza un importante congresso (Napoli 1997) su
Rosmini e l’enciclopedia delle scienze (Atti: 1998). Alla morte della sua sposa (1999) ne
ordina gli “scritti” in 22 volumi (1999-2001).
La radiografia storiografica del pensiero dal nominalismo medievale al nichilismo
contemporaneo è tracciata, in una prima prospezione, nei due dei quattro volumi
programmati di Struttura e forme del nichilismo europeo (1987-88). Sin dall’introduzione
al primo volume Ottonello argomenta criticamente, come dimostrazione della
dissoluzione contemporanea della filosofia, del suo stesso senso e dell’imprescindibilità
della metafisica, riguardo al capovolgimento della positività della dialettica eros-logos,
fino all’annullamento e della loro dialetticità e degli stessi suoi termini, quale sbocca, nel
‘dopo-Nietzsche’, da Freud a Marcuse, cascami estremi di un percorso che è progredito
essenzialmente come “oblio della verità di Socrate”: da qui il nucleo del volume Socrate
contemporaneo tra quelli programmati da Ottonello. L’entificazione del nihil e la
conseguente ‘dialettica della riduzione’, che infine di necessità sbocca nel niente di ogni
significato, si svolge da Kant — specie dalla sua metafisica storicamente male intesa – a
Schopenhauer, da Hegel a Stirner, per emergere in Nietzsche come tragica profezia di un
impossibile neoeroico agonismo, quello della ‘veracità’ della vita stessa come guerra
totale.
I tentativi vitalistici di riscatto degli ultrarazionalismi filiati dalle radici nominaliste e poi
illuministe e scientiste finiscono di consumare il senso stesso della filosofia come teoresi,
necessario fondamento di tutte le possibili scienze, nonché delle loro derivazioni praticotecnologiche. Tale plesso di problemi è sotteso nei capitoli centrali del primo volume
dell’opera, dedicati a Sul concetto di decadenza, Storia e progresso, Mito e
trasformazione, nonché di quello intitolato Nichilismo e ateismo. Il secondo volume
dell’opera muove da una sintesi del ruolo storico cardinale di Lutero: dal tardo
nominalismo e dalla sterilizzata scolastica erompe una radice profondamente
irrazionalista, nella chiave tipica di Lutero stesso, ossia sub contraria specie. Sicché,
attraversando il pelago echkartiano, ma sterilmente impaniandovisi, a causa
principalmente dell’omissione intenzionale, teoretica e già per erasione storica, del
germanico genio pretommasiano di Alberto Magno, e quindi di Tommaso stesso, il
percorso filosofico, in modo crescentemente esplicito e poi anche programmatico, si
svolge in termini di sostanziale sostituzione del teoretico da parte di una teologia prima
solo negativa, poi capovolta come teologia del soggetto, e di conseguenza in termini di
sostituzione della filosofia con la politica come infine soggiogatrice dei soggetti in nome
di una superiore concreta ragione storica – coerenza storica della condanna di Socrate! –,
di necessità sofferente la tragedia senza possibili catarsi del conflitto radicale fra la
libertà del ‘singolo’ e ogni forma di potenziale e nominale universalismo. Sicché l’ideale
‘Sacro Romano Impero’ tende a ridursi a conflitti incrociati tra nazionalismi – italicamente,
con Machiavelli, a conflitti tra ‘prìncipi’, assolutizzazioni di nazioni e città in termini
individualistici –, conflitti denunciati invano, anche per la loro radicale sterilità, da geni
quali Erasmo e Vives, presto confinati in dorati isolamenti filologico-pedagogici.
La riduzione del teoretico al prassistico inocula progressivamente nel politico l’economico,
il quale tenderà ad ingigantirsi nel suo seno, fino a consumare la nuova riduzionesostituzione del politico da parte dell’economico, oggi emergente senza più bisogno di
troppe simulazioni od alibi, anzi programmaticamente scelto ed esaltato; e, in parallelo, il
progresso storico viene prevalentemente ridotto a progresso delle scienze, come
alimentatrici potenzialmente inesauribili di tecniche volte all’incremento del ‘benessere’
umano, nel ‘progresso’ sempre più dispiegato della sua antiteticità al comunque inteso
plesso ‘essere’-‘bene’. Il ‘riformato’ Kierkegaard, a processo già inoltrato, traccia una
lucida e ampia diagnosi di tale percorso – ma con esiti di ‘disturbo’ neosocratico ben
presto infine sterilizzato –, nella chiave della decadenza e corruzione della ‘cristianità’,
radicata nel culminare del collasso della filosofia in quella ‘simulata’ da Hegel, e a
muovere dall’accelerazione, tragicamente contro se stesso, del secolarismo
universalizzato e normalizzato – che è già la fine storica del cristianesimo sigillata dal
luterano Hegel: fine con cui copre e maschera, contro se stesso, la stessa consumata fine
storica della filosofia in senso proprio e forte, ossia come metafisica –, di sintomi eclatanti
della quale Lutero era stato giustamente ‘scandalizzato’ nella sua incursione romana. Ben
più ampia diagnosi storico-teoretica, come condizione necessaria per un determinante
progresso storico-metafisico – quella di Kierkegaard, pur acutissima, resta esteticamente
intralciata nella sua intenzionalità riedificatrice, pur antisistematica, anche sul piano
filosofico – la compie il suo contemporaneo Rosmini, individuando in Hegel il nucleo
essenziale del nichilismo, che subito dopo la sua morte eromperà già dispiegato, come
principale impulso dei percorsi successivi, da quelli protopositivisti a quelli proto-socialisti.
I due successivi volumi programmati di Struttura e forme del nichilismo europeo si
prefiggono di ricostruire la continuità di tale percorso, nella modernità, dallo scetticismo
riccamente umanistico di un Montaigne, al deismo ed empirismo inglese, dalle filiazioni
dell’illuminismo francese ai razionalismi più dispiegatamente positivisti e materialisti. Di
tale percorso si può considerare una sorta di assaggio, ma storicamente virato a figure
significativamente ‘perturbanti’ della contemporaneità – da Kropotkin a Cioran – il volume
Antiaccademici e maledetti (2004). Nelle densissime introduzione (La costruzione del
caos) e conclusione (La razionalizzazione del caos) di quest’opera, sintesi della
prospettiva di Ottonello interpretativa dei principali fili dell’intessitura della modernitàcontemporaneità, emergono, in termini essenziali quanto icastici, gli alibi e gli inganni da
bassa neosofistica dei percorsi di ‘razionalizzazione’: il cinismo settecentesco, non
innaturalmente accoppiato con il sadismo, mentre si fa il sottofondo e il bassofondo della
proliferazione delle ‘rivoluzioni’, da quelle ‘scientifiche’ a quelle infine dissolutrici in uno di
politica e di accademia, tende a tradurre la nietzscheana ‘gaia scienza’ in ludicismo
arbitrariamente sfrenato, i cui massimi frutti sono il ‘mercato’ – da marciapiede – della
pseudoarte come della pseudocultura, e la spettacolarizzazione del delitto normalizzato,
risacca subtragica del divertissement planetarizzato. Di siffatto tipo di percorso offre, in
una piccola galleria di scelti e graffianti abbozzi di ritratti di recenti nostri ‘antenati’,
attraverso cui mostra come i rari residui primonovecenteschi della filosofia – da un
Husserl a un Heidegger, da un Gentile a uno Sciacca stesso – vengano rapidamente e
totalmente ‘sostituiti’ nel caso migliore da ‘esteti’, ma quasi sempre da ‘ideologi’ – o
sedicenti tali – della cultura, che ulteriorizzano il collasso teoretico e la ‘sostituzione’ della
filosofia come teoresi metafisica con metodologismi in sostanza arazionali o anarcoidi,
contribuendo alla normalizzazione del dominio dell’antifilosofia in derive ben più
negativamente e sterilmente e distruttivamente ‘dittatrici’ del ‘mercato culturale’, nella afilosofia senza alternative di un Apel (Trasformazione della filosofia , 1973) o di un
Putnam (Rinnovare la filosofia, 1993), sino a inutili e amaramente confuse e
confusionarie, nominalisticamente antinichiliste ma sostanzialmente ipernichiliste, per
assenza radicale di orizzonti metafisici, di un Glucksmann (Una rabbia di bambino, 2008),
che inconsciamente cronicizza senza rimedi un antiinnocente infantilismo.
Le condizioni e gli sviluppi di un’uscita critica da siffatto pantano sono configurate da
Ottonello nella seconda ed accresciuta edizione de La barbarie civilizzata (1998), ampia
raccolta di scritti redatti dal ’63 in poi. In particolare, nei saggi Cultura e creazione,
L’orizzonte essenziale , Aristocrazia e democrazia e La nostalgia della bellezza (sintetica
anticipazione del nucleo della sua filosofia dell’arte, la cui articolazione è sino ad ora in
progetto), Ottonello determina in positivo, attraverso una vasta gamma di
argomentazioni ed esemplificazioni, le condizioni radicali necessarie della stessa civiltà in
quanto tale – in un’epoca in cui forse come non mai per causa propria è a rischio –, ossia
le linee della connessione fondamentale cultura-filosofia, filosofia-metafisica creazionista,
e dunque dell’‘alfabeto’ del discernere, senza né confusioni né impulsi scissori, intuizioneragione-volontà, positività e negatività, strumenti e fini, fini primi e fini ultimi, cronaca e
storia. I collassi contemporanei della signoria di tale ‘alfabeto’, che generano la
sostituzione ‘progressiva’ di filosofia con psicologia-sociologia, di queste con
economicismi, delle scienze con le tecnologie, del tecnologismo con il ‘megagioco’ della
guerra globale, costituiscono nel loro insieme l’intessitura smagliata di quello che
Ottonello chiama, con espressione più coerente che eccessivamente tranchant,
“analfabetismo radicale”: tanto più tale, ossia ‘neobarbarico’, quanto più lanciato –
vorrebbe – verso una onnitecnologizzazione, e quindi infantilisticamente disarmato di
fronte a spiragli catastrofisti di “fine della storia”: storia di cui ha ridotto e infine smarrito
ogni sussistente significato, vendetta ‘storica’ dell’onnistoricizzazione.
Le fruttificazioni tanto proliferanti quanto infine sterili e inquinanti degli ‘equivoci’
contemporanei di marchio filosofico sono tratteggiate – in chiave essenzialmente e
fortemente costruttiva – nella seconda edizione accresciuta de L’uomo “equivoco” (1991),
con moduli stilistici scandalosamente attraversanti le pleiadi dei superconformismi degli
anticonformismi. Al di fuori dei più coerenti percorsi del “conoscere se stessi”
integralmente e della tensione senza compromessi al “divenire se stessi” – la ‘distrazione’
dai quali, in breve, è la radice profonda degli impaludamenti, dei mediocrismi, delle
spietatezze dell’odierna dominante a-filosofia – possono concrescere solo indefinite
giungle di ‘equivoci’, frutti di accoppiamenti indiscriminati di compromessi e di alibi.
Conseguenza necessaria è la dissoluzione libertaristica – le legislazioni sempre più
apertamente sostituiscono il normativo con ratifiche dei trends – di tutte le forme di
società e dunque l’invasività di una ultrahobbesiana guerra totale, riduzione della persona
a guerra totale anzitutto contro se stessa – dunque filiazione coerentemente sub-bestiale
dell’oltreuomo –, ossia a puro ‘gioco’ di struggle of life, premessa del ‘gioco’ estremo
dell’autodistruzione del genere umano, solo oggi, a memoria storica, non solo possibile
ma facilissima.
Del non riconoscersi affatto, da parte di Ottonello, nelle tribù di ‘apocalittici’ o loro
parentele
–
capovolgimenti-negazioni
delle
profondità
dell’Apocalisse
–,
antropologicamente sezionate da quello che considera il migliore Eco (di Apocalittici e
integrati, del ’64), suona eloquente conferma l’orizzonte, solo in apparenza
‘fantastizzante’, in realtà intessuto secondo la trama e l’ordito della morte e
dell’immortalità, la cui cristallizzata esplosione raccoglie nel singolarissimo Del Cielo e
della Terra (redatto nell’83: seconda edizione, 2006), anche letterariamente fuori da ogni
schema. Ne sono ideali integrazioni il Trattato della Paura , del 2003 – nonché L’elogio
dell’ipocrisia, 2009 –, in cui, in forma in prevalenza aforistica – per amore di sinteticità e
in coerente rispecchiamento dell’antisistematismo e anticoerentismo figlio degli essais
montaignani e della ‘fine dei sistemi’ ratificata dal neosocratico ironismo kierkegaardiano,
vertice del romanticismo e inintenzionale padre dello stile nietzscheano –, pone in primo
piano come imprescindibile l’universo dei ‘valori’ fino a ieri variamente assunto come
assoluto e universale, come la condizione stessa della storia e del progredire delle società
tutte. Ancora in forme non accademiche, fa emergere nuclei della relazione essenziale
interiorità-metafisica ne L’oscuramento dell’interiorità , del 2004, nella quale stana fughe
e alibi riduttivi della dinamica dell’interiorità personale: le loro necessarie conseguenze
sono i collassi sino all’autodistruzione della memoria personale e storica, della volontà,
della libertà, della dinamica di perfezionamento costitutiva della persona stessa e dunque
di ogni forma di società. Non riconoscendosi in nessun ‘partito’ né ‘lobby’ o simili, e
pagando con il proprio sangue l’assoluto valore della propria libertà, cattolico persuaso e
praticante, ha ritenuto doveroso, fra l’altro, dedicare una ‘parte’ di quest’opera a Piaghe
della cultura cattolica, che sono poi speculari rispetto a quelle odierne, in sostanza non
altro che variazioni di quelle che ogni spirito appena vigile sa riconoscere in ogni tempo e
latitudine.
Sull’opera di Ottonello si possono vedere i due volumi miscellanei entrambi dal titolo
Strade maestre, rispettivamente usciti nel 1995 e nel 2005.
PAOLO PARRINI
Paolo Parrini, nato a Castell’Azzara (Grosseto) nel 1943, si è formato fra il ’62 e il ’68
sotto la guida di Giulio Preti, divenendone assistente alla Facoltà di Magistero di Firenze
subito dopo la laurea. Alla morte del maestro (1972), ne tiene quasi subito, per incarico,
l’insegnamento al quale unisce nel 1980, su iniziativa di Ettore Casari, la supplenza di
Filosofia teoretica nella Facoltà fiorentina di Lettere e Filosofia. Nel 1982 – vinto il
concorso a ordinario – insegna per un anno a Venezia Storia della Filosofia Moderna e
Contemporanea, ma è subito richiamato a Firenze sulla cattedra di Filosofia teoretica
della Facoltà di Lettere e Filosofia che tuttora ricopre.
L’intensa consuetudine intellettuale con Preti ha irrobustito e affinato gli spiccati interessi
filosofici che Parrini già nutriva e per i quali aveva ricercato il contatto con il pensatore
pavese. Indirizzati in particolare verso la filosofia del linguaggio, la filosofia della scienza
e l’epistemologia (intesa, all’anglosassone, come filosofia della conoscenza), essi si
estendevano anche agli aspetti storici della disciplina.
I primi lavori sono alcuni saggi sul pensiero di Quine (oggetto della tesi di laurea) e la
cura, fra il ’72 e il ’77, dell’edizione italiana delle parti introduttive dei Principia
Mathematica di Russell e Whitehead. L’analisi dell’attacco quineano ai “due dogmi
dell’empirismo” conduce Parrini alla scoperta che il rifiuto del primo ‘dogma’ (il
riduzionismo) non comportava necessariamente – come Quine voleva – il rifiuto del
secondo (l’analiticità) né, più in generale, della distinzione a priori/a posteriori. Occorreva
però un modello di giustificazione epistemica che, pur negando il sintetico a priori
kantiano, conservasse la nozione di a priori in una versione ‘attenuata’ o ‘indebolita’.
A questo tentativo è dedicato il suo primo libro (Linguaggio e teoria. Due saggi di analisi
filosofica, Firenze, 1976), nel quale viene avanzata una concezione relativizzata dell’a
priori – riproposta in seguito in diversi settori dell’epistemologia internazionale – che trae
sostegno da una ripresa dell’olismo di Duhem. L’analisi di un caso particolare (la relazione
tra geometria ed esperienza in Einstein e nella tradizione del convenzionalismo
geocronometrico) lo porta a concludere che una descrizione del rapporto
teoria/esperienza deve dar conto non solo della dipendenza olistica, ossia globale, dei
sistemi teorici dai dati empirici, ma anche del fatto (apparentemente in contrasto con
l’olismo) che nella pratica scientifica alcune classi di esperienze risultano connesse in
modo tale a certe ipotesi singole che il loro verificarsi conta come conferma (o
sconferma) di quelle ipotesi selettivamente prese. Si ammette, allora, che non tutte le
componenti svolgono in una teoria la medesima funzione. Alcune di esse – pur sempre
olisticamente dipendenti dall’esperienza – vanno presupposte come relativamente (o
contestualmente) valide a priori perché le altre, considerate una ad una, possano essere
collegate a specifiche classi di esperienze.
Ciò che il fallimento del riduzionismo insegna non è il rifiuto della distinzione
analitico/sintetico (e a priori/a posteriori), ma 1) la necessità di intendere quella
distinzione in senso relativizzato e 2) l’impossibilità di ricondurre tutto l’a priori ad
assunzioni convenzionali di natura linguistico-analitica, come invece hanno fatto la
maggior parte degli empiristi logici e alcuni loro critici (compreso Quine). Se si accetta
l’olismo, le intelaiature di riferimento (relativamente) a priori debbono includere anche
componenti teoriche di natura sintetica.
Alla luce di questi risultati Parrini si è mosso, sul piano storico, in tre direzioni: ha
approfondito il rapporto tra la gnoseologia critica e l’epistemologia contemporanea (in
Kant and Contemporary Epistemology, Dordrecht, 1994, un volume collettaneo da lui
curato, ma anche in vari altri saggi), ha fatto emergere la differenza tra il
convenzionalismo a curvatura linguistica di Poincaré e l’olismo duhemiano e ha modificato
l’interpretazione tradizionale del processo di formazione dei Circoli di Vienna e di Berlino
e della stessa filosofia neopositivista.
La distinzione fra le due posizioni di Poincaré e Duhem, già segnalata nell’antologia del
1979 Fisica e geometria dall’Ottocento ad oggi (Torino), è stata oggetto di alcuni lavori
successivi tra i quali il libro del 1983, Empirismo logico e convenzionalismo (Milano).
Tornando sulla questione in tempi recentissimi (“Il convenzionalismo epistemologico al di
là dei problemi geocronometrici”, 2007), Parrini ha mostrato come le numerose critiche
rivolte con successo contro un particolare tipo di convenzionalismo, quello
geocronometrico (che seguita a rifarsi, neopositivisticamente, all’impostazione linguistica
di Poincaré) non scalfiscano il più generale convenzionalismo epistemologico legato
all’olismo duhemiano. Quanto al neopositivismo, da un lavoro iniziato nel 1973 e condotto
anche a livello archivistico negli Stati Uniti e in Olanda è emersa la necessità di tener
conto, accanto alle dottrine con cui esso veniva solitamente identificato (in primis il
principio di verificazione e la teoria linguistica dell’a priori), di altre sue importanti
componenti di derivazione neokantiana e husserliana fino ad allora ignorate o trascurate.
Il neopositivismo non è stato, infatti, la mera riedizione in forma logica dell’empirismo
prekantiano, ma una concezione originale e complessa la quale, facendo tesoro anche
della lezione di Kant, ha inteso gettare le basi di un empirismo rinnovato e ‘perfezionato’.
Pure in questo caso tesi assai vicine a quelle sostenute da Parrini tanto in vari saggi
(dall’iniziale “Per un bilancio dell’empirismo contemporaneo: contributo alla storia del
positivismo logico”, 1973/76), quanto in alcuni volumi ( Una filosofia senza dogmi,
Bologna, 1980; il già citato Empirismo logico e convenzionalismo; L’empirismo logico.
Aspetti storici e prospettive teoriche, Roma, 2002; Logical Empiricism. Historical and
Contemporary Perspectives, Pittsburgh, 2003, raccolta curata insieme a M. e W. Salmon)
hanno trovato sempre maggior credito in ambito internazionale fino a divenire l’attuale
interpretazione di riferimento del movimento (entro la quale, in verità, il peso delle
componenti neokantiane e husserliane viene talvolta accentuato oltre il dovuto).
L’attività svolta in campo storico-filosofico e, in particolare, quella consegnata ad una
serie di saggi poi confluiti nel volume del 2004 Filosofia e scienza nell’Italia del
Novecento. Figure, correnti, battaglie (Milano), ha condotto Parrini a porre in evidenza i
tratti prevalentemente umanistico-retorici e genericamente storicistici che hanno
continuato a caratterizzare la cultura filosofica italiana del secondo dopoguerra,
condizionandone la stessa storiografia. Della gran parte di questa egli ha denunciato
l’interesse pressoché esclusivo per la contestualizzazione e la ricostruzione
filologicoerudita dei testi, a scapito di un’adeguata attenzione per la loro dimensione
concettuale-argomentativa (“Ancora su filosofia e storia della filosofia”, 1991). Da tali
valutazioni metodologiche ha poi ricavato alcune proposte didattiche, suggerendo
l’opportunità di dare maggior spazio, nell’insegnamento liceale, alla dimensione teorica
della filosofia e di svincolare la disciplina dalla Facoltà di Lettere con l’istituzione di una
facoltà universitaria autonoma.
La crisi del razionalismo critico di Popper (uno dei temi centrali di Una filosofia senza
dogmi), il proliferare di nuove forme di realismo e di ‘essenzialismo’ sull’onda delle idee di
Kripke, le spinte in senso relativistico provenienti dalla ‘nuova filosofia della scienza’
formano il contesto problematico da cui Parrini è stato mosso a ricercare una concezione
che – senza pretese ‘coercitive’ e in una cornice culturale di carattere laico e ‘illuministico’
– potesse proporsi come una ‘terza via’ tra i due estremi del realismo metafisico e del
relativismo radicale. È nato così, a metà degli anni ’90, il volume Conoscenza e realtà.
Saggio di filosofia positiva (Roma, 1995) uscito poi in inglese in edizione rivista e
ampliata (Knowledge and Reality. An Essay in Positive Philosophy, Dordrecht, 1998).
La ‘filosofia positiva’ si distingue dai vari positivismi del passato risultati ‘perdenti’ alla
prova dell’analisi e, in particolare, lascia cadere la ‘fondazione’ linguistica dell’empirismo
tentata senza successo dai neopositivisti. Essa, però, si qualifica come ‘positiva’ perché
vede buone ragioni per giudicare ancora valide tre idee caratteristiche dell’esprit positif, e
cioè:
1 – Un moderato relativismo epistemico. Poiché l’attività conoscitiva si sviluppa all’interno
di un sistema concettuale di riferimento nel quale compaiono presupposizioni soggettive
e razionali (linguistiche, teoriche e metodologico-axiologiche), essa è epistemicamente
relativa, ma in modo, appunto, moderato. Di contro all’affermazione di Kuhn che “verità,
come dimostrazione, può avere solo un’applicazione intrateorica”, la filosofia positiva non
arriva a dichiarare la relatività della verità e della realtà (relativismo radicale).
2 – L’empirismo olistico. La validità delle nostre pretese cognitive, incluse quelle di tipo
presupposizionale e contestualmente ‘a priori’, dipende in modo globale dall’esperienza, e
dunque esse sono tutte quante ipotetiche e rivedibili. Non esistono né dati assoluti di
esperienza, né condizioni epistemiche assolutamente a priori e apoditticamente certe
(quindi nessuna necessità sintetica alla maniera di Kant). L’attività conoscitiva è un
processo che si regge su se stesso: essa fa perno su alcune credenze accettate in via
provvisoria per vagliarne altre, in uno sforzo di autocorrezione virtualmente infinito che
può toccare non solo le seconde, ma anche le prime.
3 – L’oggettivismo antimetafisico. Il relativismo epistemico moderato che la filosofia
positiva riconosce implica l’impossibilità di una conoscenza (anche solo approssimata o
verosimile) della realtà in sé, e dunque è in contrasto con il realismo metafisico in
qualsivoglia delle sue versioni, ma non preclude la possibilità di aspirare a gradazioni
crescenti di oggettività. L’attività conoscitiva, infatti, resta comunque sottoposta a severi
‘vincoli’, derivanti da una sua doppia dipendenza. In primo luogo, quella dall’esperienza,
la quale esperienza, sebbene non possa selezionare in maniera univoca un particolare
sistema teorico, è in grado però di mostrare l’incompatibilità di alcuni sistemi teorici con i
dati empirici via via disponibili. In secondo luogo, essa dipende anche dall’uso di concetti
e principi che, per le relazioni reciproche che li legano, possono rivelarsi più o meno
‘potenti’ nell’escludere alcune affermazioni a vantaggio di altre. Così, quanto maggiore
sarà la forza unificante dell’apparato teorico messo in campo da un’indagine scientifica
(ricerche storiche comprese), tanto maggiore sarà la possibilità che essa consegua
risultati tali da pretendere a una validità oggettiva e da ottenere, quindi, un
riconoscimento intersoggettivo.
Ma perché queste tre idee possano convivere in una concezione coerente e
filosoficamente sostenibile, è necessario che alcuni dei concetti-cardine di essa – e in
particolare quelli di verità e oggettività (o realtà) – ricevano una definizione nuova, dato
che il significato delle nozioni comuni corrispondenti risulta all’analisi aporetico e
intrinsecamente ‘viziato’ (esse, da un lato, sono intrise di realismo metafisico e di
corrispondentismo, dall’altro sono vincolate a criteri di verità e oggettività di tipo
immanente). Per Parrini, infatti, la filosofia dapprima è analisi delle aporie nascoste nella
mutevole e non tematizzata ‘ragnatela’ di concetti e credenze in cui l’uomo si trova
immerso, e poi è opera di ricostruzione ‘sintetico-razionale’ che elabora, unifica e, se
necessario (come in questo caso) modifica, le nozioni di partenza. Le questioni che essa
affronta sono più generali, astratte e controvertibili di quelle trattate dalla scienza, ma le
due discipline non differiscono quanto a spessore teorico e a potenza costruttiva.
Riallacciandosi ad una celebre controversia storica, Parrini intende allora la conoscenza
non come il rispecchiamento di una realtà che sta dietro all’esperienza e la trascende, ma
come
un’attività sintetica
che unifica l’esperienza medesima. Correlativamente,
reinterpreta le nozioni di verità e oggettività (realtà) come categorie (concetti primitivi
indefinibili) puramente formali, prive di una specificazione di contenuto data una volta per
tutte. L’idea di verità è vuota, perché non disponiamo di criteri applicativi di validità
assoluta o di teorie affidabili dell’evidenza conoscitiva. E l’idea di realtà è vuota, perché la
nozione kantiana di realtà empirica viene qui dissociata – come quella di verità – da ogni
riferimento a condizioni epistemiche universali e necessarie della possibilità
dell’esperienza. È compito della ricerca concreta ‘riempire’ via via queste idee di contenuti
particolari ritenuti (relativamente) validi. Riprendendo una metafora di Simmel, Parrini le
ha paragonate a secchi vuoti che si riempiono al fiume della storia.
Tuttavia, rispetto alle molteplici e mutevoli strutture presupposizionali dell’attività
conoscitiva, questi ‘secchi vuoti’ godono di una loro trascendenza unitaria ideale, da
intendersi in senso regolativo alla maniera di Kant. Verità e oggettività sono ideali-guida
che spingono i nostri sforzi verso sintesi concettuali sempre più ricche di dati, articolate e
comprensive nella ricerca di un sapere il più possibile unitario e oggettivamente valido.
Esse costituiscono la stella polare di un’attività giudicatrice che, avvalendosi di concetti e
principi, si appella ad alcune esperienze per tentare di validare, o invalidare, il valore
oggettivo attribuito ad altre. In questo senso, per Parrini la verità non è depotenziata e
ridotta, per esempio, ad “accettabilità razionale idealizzata” (Putnam). Essa mantiene
tutta la forza che ha per il realista metafisico, ma non può essere ‘staccata’ da ogni sua
possibile applicazione empirica, né indica una qualche corrispondenza fra le nostre
pretese conoscitive e la realtà in sé. La verità è un ideale che ispira e sorregge (senza
garanzie a priori di riuscita) la sintesi delle esperienze attuali e possibili.
Alla ‘elaborazione’ dei concetti di verità e oggettività si accompagna una concezione della
razionalità detrascendentalizzata, aperta e ‘a tessitura larga’. Accanto alla razionalità di
tipo criteriale e a quella logica (o algoritmica), ne va riconosciuta anche un’altra che si
collega alla problematica kantiana del giudizio riflettente, ma viene estesa ora pure alla
scienza. Molte nostre valutazioni e deliberazioni maturano, infatti, non attraverso la
disputa, ma attraverso una discussione critica governata da procedure discorsive
particolari: per esempio, quelle che Aristotele comprende sotto il nome di fronesis, la
denuncia delle contraddizioni performative, le argomentazioni elenctiche (sempre di
aristotelica memoria), i giudizi casistici frequenti nella giurisprudenza, nella critica
artistica e nella medicina clinica. Poiché tali procedure possono essere difese o rifiutate in
modo argomentato citando altri casi particolari, precedenti applicazioni delle massime
utilizzate, analogie di vario tipo e così via, esse vanno considerate razionali sebbene non
si servano della sussunzione logica e matematica del particolare sotto l’universale. In
ogni modo, anche in questo caso è la ricerca ‘sul campo’ a far emergere via via i
procedimenti e le ‘tecniche’ che appaiono al momento massimamente razionali: l’idea di
razionalità non può essere costretta in una serie di regole determinate, date una volta
per tutte; essa, di per sé, non è meno vuota delle idee di verità e oggettività.
A sostegno del proprio realismo empirico (e scientifico, in quanto riguarda pure le entità
inosservabili della scienza), Parrini porta i problemi che affliggono sia il relativismo
radicale sia il realismo metafisico. Il relativismo radicale, affermando l’esistenza di tante
verità e realtà quanti sono i diversi sistemi epistemici di riferimento, rischia di cadere, a
seconda di come viene inteso, o nell’irrilevanza o nell’incoerenza teoriche. Il realismo
metafisico, vedendo la conoscenza come il rispecchiamento di una realtà trascendente
l’esperienza, si scontra con la difficoltà di indicare criteri accettabili di verità, o di
avvicinamento alla verità, e conduce allo scetticismo. Solo la rinuncia all’assolutismo
metafisico può dunque consentirci di riconoscere un valore conoscitivo a ciò che
comunemente consideriamo conoscenza, facendo sì che una visione non più
fondazionalista del metodo scientifico sia qualcosa di meglio della pensata del Barone di
Münchhausen quando tentava di tirarsi fuori dalla palude aggrappandosi ai propri capelli.
Ed in effetti, quella di Parrini vorrebbe essere proprio una concezione antifondazionalista
dell’oggettività, una concezione cioè che, nella situazione filosofica odierna, ‘recuperi il
recuperabile’ quanto a valore oggettivo e razionale dell’impresa scientifica.
La filosofia positiva rifiuta lo scientismo e mostra invece una certa consonanza con il
punto di vista postmoderno. Poiché essa interpreta la conoscenza come un’attività
unificatrice dell’esperienza, il valore conoscitivo paradigmatico attribuito alle scienze
positive non la costringe a negare l’esistenza di una tensione unificante (e quindi
conoscitiva) in formazioni culturali differenti come la religione, il mito o le varie forme di
espressione artistica. Quanto alla metafisica, ne viene contestato il valore conoscitivo
solo se è intesa come conoscenza dell’oggetto in sé, non se è vista come metafisica
critica alla Kant o come metafisica ‘influente’ alla Popper. Il punto d’incontro con le
posizioni postmoderne è offerto dalla tesi del carattere sempre contingente della sintesi
conoscitiva, ossia dalla convinzione di Parrini che non si possa garantire a priori per il
futuro quella possibilità di unificare l’esperienza secondo un sistema di concetti e principi
che finora si è realizzata. C’è vicinanza fra la concezione della verità come ideale
regolativo e il rifiuto postmoderno della possibilità di un’‘unica grande narrazione’ che
trascenda i condizionamenti storico-epistemici del conoscere.
Nel suo tentativo di individuare un nuovo punto di equilibrio fra empirismo e razionalismo,
Parrini cerca di evitare pure i due estremi di una giustificazione epistemica astorica e
puramente strutturale e di uno storicismo concettualmente così debole da vanificare ogni
pretesa alla validità oggettiva (ed anche intersoggettiva) del conoscere, entrando quindi
in rotta di collisione con il nostro frequente richiamarci alla verità e tendere ad essa. Ecco
perché la filosofia positiva vorrebbe essere una ‘terza via’ anche fra il razionalismo e
l’anarchismo metodologico, fra il normativismo e il naturalismo. La rinuncia a fondamenti
indubitabili del sapere non costringe a dissolvere il lavoro filosofico o in qualche scienza
particolare come la psicologia o la biologia, oppure in pratiche ermeneutiche, narrative e
conversazionali argomentativamente poco strutturate.
Il nesso fra antifondazionalismo, oggettivismo antimetafisico e possibilità della filosofia
come indagine teorica autonoma è al centro di un altro libro di Parrini (Sapere e
interpretare. Per una filosofia e un’oggettività senza fondamenti, 2002) in cui si analizza il
rapporto fra epistemologia delle scienze empiriche ed ermeneutica. Attualmente egli sta
ancora approfondendo la sua nozione di verità nella convinzione che si possa e si debba
tentare di superare la divaricazione delle strade battute dalle diverse scuole di pensiero.
Anziché ‘arroccarsi’ sulle proprie posizioni, anche in filosofia sembra più produttivo aprirsi
al dialogo e mirare, come nelle scienze positive, alla tessitura di una trama di rimandi
teorici il più possibile condivisa.
ALBERTO PASQUINELLI
Alberto Pasquinelli è nato a Bologna il 17 gennaio 1929, secondogenito di genitori
entrambi insegnanti di chimica. A Bologna, dopo gli studi liceali, frequenta l’università e
nel giugno del 1951 consegue la laurea in Filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia,
con una tesi su Logica e conoscenza nello storicismo e nel neopositivismo, relatore Felice
Battaglia. Trascorre l’anno accademico successivo presso l’università di Chicago, dove
segue le lezioni di Rudolf Carnap, sotto la cui guida ottiene il “Master of Arts in
Philosophy” nel giugno del 1952.
Di ritorno dagli USA, la peculiarità della sua formazione favorisce l’inserimento di
Pasquinelli tra quei giovani studiosi di Torino, Milano, Bologna, che costituivano la nuova
generazione filosofica del dopoguerra, e che avevano scelto come proprio punto di
riferimento intellettuale la figura e gli scritti di Ludovico Geymonat. Ora, mentre
quest’ultimo ha concluso la sua formazione filosofica a Vienna, presso quel Circolo allora
rappresentato da Moritz Schlick, Pasquinelli invece si era formato a contatto con Rudolf
Carnap, che rappresentava allora il neopositivismo nella versione più matura e articolata.
Gli studi successivi di Pasquinelli dispiegano, approfondiscono e consolidano le linee di
ricerca che le sue fondamentali esperienze giovanili avevano aperto.
Dopo ulteriori soggiorni di studio all’estero (Cambridge, Gran Bretagna, 1953) e in Italia
(presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, 1953-1954), Pasquinelli porta a
compimento la prima fase delle proprie ricerche nel campo della logica e della filosofia
della scienza, e consegue la libera docenza in Filosofia della scienza nel 1958. L’anno
seguente inizia la sua carriera accademica, dapprima come incaricato di Filosofia del
linguaggio (1959-1965) presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Bologna, e
di Epistemologia e metodologia (1961-1965) presso la Facoltà di Scienze del medesimo
Ateneo; quindi, dal 1964, di Filosofia della scienza presso la facoltà di Lettere e Filosofia
dell’università di Firenze e di Metodologia delle scienze sociali presso l’Istituto
universitario di scienze sociali di Trento.
Nel 1965 Pasquinelli diventa professore di ruolo di Filosofia della scienza presso la facoltà
di Lettere e Filosofia dell’università di Bologna, e continua per molti anni a tenere anche
un corso di Epistemologia nella facoltà di Scienze. Sulla cattedra egli rimane per
trent’anni, fino al giugno del 1995, anno del suo ritiro per ragioni di salute. Ha pubblicato
sei libri, alcune antologie e circa centocinquanta contributi tra saggi e articoli. Ha ricevuto
la medaglia d’oro per meriti nella scuola e nella cultura il 17 novembre 1987.
Il programma di ricerca di Alberto Pasquinelli si articola in questi campi: (1) storia del
neopositivismo, in particolare del pensiero di Carnap; (2) storia della scienza: analisi e
valutazione delle scienze formali (logica e matematica), naturali (fisica, chimica,
biologia), sociali (psicologia, sociologia, storiografia); (3) epistemologia: statuto, compiti,
e strumenti conoscitivi di cui dispone.
Pasquinelli ha fatto del neopositivismo il tema centrale delle sue indagini storiche ed
epistemologiche. Ha pubblicato saggi e articoli volti ad illustrare differenti aspetti di tale
indirizzo del pensiero contemporaneo: dall’ampia antologia Il neopositivismo (Torino
1969), al “manifesto” del Circolo di Vienna, La concezione scientifica del mondo (Bari
1979), oltre a interventi sul pensiero di Hans Reichenbach e Carl G. Hempel. Egli ha
sostenuto che all’interno del Circolo di Vienna si riscontrano una varietà e diversità di
contributi epistemologici, entro i quali, tuttavia, si possono ravvisare alcune posizioni
condivise: la base empirico-induttiva delle conoscenze scientifiche, l’utilizzo dell’analisi
logico-linguistica nell’esame delle teorie scientifiche, e l’istanza di una classificazione
sistematica delle scienze. Inoltre, ha segnalato che il neopositivismo ha attecchito nella
cultura filosofica americana, dopo che molti neopositivisti erano emigrati per ragioni
politiche negli Stati Uniti, perché essa era già pervenuta, in modo autonomo, attraverso
Charles S. Peirce e il pragmatismo (soprattutto di John Dewey), ad affrontare i problemi
che erano al centro dell’indagine dei neopositivisti.
Pasquinelli ha pubblicato con continuità saggi sul pensiero di Carnap; ne ha tradotto
l’opera Sintassi logica del linguaggio e altri scritti; è così riuscito a insediarlo stabilmente
nella cultura italiana, come risulta dal libro da lui curato: L’eredità di Rudolf Carnap
(Bologna 1995), cui hanno collaborato ventotto studiosi.
Nell’Introduzione a Carnap (Bari 1972, II ed. 1978), Pasquinelli ha tracciato un profilo del
filosofo tedesco, ponendo in evidenza sia le componenti della sua formazione, ove
centrali risultano i lavori di Gottlob Frege e Bertrand Russell; sia la complessa genesi del
suo pensiero, che ha attraversato varie fasi, ed è stato strettamente connesso con la
conoscenza delle effettive pratiche scientifiche. Egli rileva che Carnap maturò la posizione
epistemologica già prima di inserirsi nel 1926 nel Circolo di Vienna; poi espressa in La
costruzione logica del mondo pubblicata nel 1928 (trad. it., Milano 1966).
Nella varietà delle posizioni e degli scritti, Carnap ha mantenuto alcune “costanti”, come
il metodo della “ricostruzione razionale” dei concetti che formano i diversi campi della
conoscenza, e che hanno alla base i dati fenomenisticamente o fisicalisticamente intesi.
Inoltre, Carnap ha mantenuto salde le idee della riducibilità della matematica alla logica,
e della filosofia come analisi logica del linguaggio. Una particolare attenzione Pasquinelli
ha riservato al periodo americano di Carnap, quando, sollecitato dalla tradizione
pragmatistica, esplora nuovi campi del sapere, apportandovi contributi di grande valore,
quali quelli alla semantica e alla teoria della probabilità.
Pasquinelli è filosofo ed epistemologo della modernità, che egli fa iniziare con la nascita
della scienza ad opera di Galileo Galilei. Allo scienziato pisano ha dedicato Letture
galileiane (1964), ove ne delinea un’interpretazione epistemologica, ossia centrata sul
modello di razionalità scientifica elaborato da Galileo, modello che tiene unito il nesso tra
il valore conoscitivo dell’esperienza, l’argomentazione razionale, e l’uso di una
metodologia sperimentale e ipotetico-deduttiva, di cui Pasquinelli evidenzia le
implicazioni schiettamente filosofiche. Egli fa precedere l’analisi delle opere galileiane da
due profili storico-epistemologici di Copernico e di Keplero, individuando una linea di
sviluppo caratterizzata da un progressivo affinamento delle procedure matematiche, un
potenziamento del controllo empirico e un conseguente assestamento della teoria che
approda alla sistemazione di Newton.
Pasquinelli getta nuova luce su due problemi fondamentali: rileva e documenta, da un
lato, che una rigorosa determinazione del linguaggio scientifico è considerata da Galileo
una condizione indispensabile del discorso scientifico; dall’altro, che la lotta contro le
autorità dei testi aristotelici e biblici è avviata apertamente dopo il 1610, quando Galileo
ha accolto pienamente il copernicanesimo. Egli rende così più esplicito il suo programma
culturale, che ha come obiettivo “far trionfare universalmente il copernicanesimo quale
unica concezione vera del cosmo”. Un cosmo che non ha né una struttura finalistica, né
una essenzialistica; nel modello galileiano della natura c’è solo l’ordine delle leggi,
differenziandosi in ciò radicalmente da quello medievale.
Di fronte alle diverse e più spesso divergenti interpretazioni di Galileo, Pasquinelli ne
rileva la “complessa ispirazione filosofica”, riscontrando la presenza di motivi platonicorealisti, pitagoricocristiani, empiristici e razionalistici, insieme con la novità di una
metodologia la quale ci fornisce, ancora oggi, afferma Pasquinelli, “la base per
interpretare che cosa sia la razionalità scientifica”. L’aspetto innovativo dell’epistemologia
galileiana risiede, dunque, nell’unità fra “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”;
ossia fra sistematiche osservazioni controllabili intersoggettivamente e l’uso di un
rigoroso linguaggio quantitativo. Ciò consente “la formulazione matematica di leggi
generali esprimenti connessioni costanti tra i fenomeni esaminati”. In conclusione,
Pasquinelli, come Geymonat, considera Galileo un illuminista per la sua battaglia antitradizionalistica e per la difesa della razionalità umana.
Nel campo della storiografia scientifica, Pasquinelli ha tracciato la storia della biologia,
psicologia, matematica e logica, nel volume antologico Le teorie scientifiche dal 1860 ad
oggi (Milano 1971), ove si è soffermato sugli scienziati e sulle opere più importanti,
attento sempre a sottolineare gli aspetti fattuali insieme con quelli schiettamente teorici
delle scoperte e delle teorie scientifiche.
Il contributo più importante di Pasquinelli è senz’altro quello dato agli studi di filosofia
della scienza, dei quali è stato uno dei pionieri in Italia. Già il primo lavoro monografico in
campo strettamente epistemologico è significativo: si tratta della Introduzione alla logica
simbolica (Torino 1957), pubblicato nel periodo in cui, anche in questo campo e grazie
all’iniziativa della più giovane generazione di studiosi, la filosofia italiana si apriva a nuovi
contatti ed esperienze culturali. Si avverte in tale opera la lezione di Carnap, per lo spazio
dedicato ai problemi teorici della logica. L’autore esamina i momenti successivi della
storia della logica classica e di quella moderna, quando la disciplina ha assunto i caratteri
di vera e propria scienza. Inoltre, si sofferma sulle varietà dei sistemi deduttivi, sul
linguaggio artificiale, sulla funzione del simbolismo, sulle caratteristiche sintattiche e
semantiche delle scienze deduttive, sulla non riducibilità della logica a puri sistemi
sintattici, e sul rilievo via via maggiore riconosciuto alle considerazioni semantiche nella
costruzione di sistemi assiomatici. In conclusione, siamo di fronte a un testo che presenta
e discute i problemi fondamentali della logica in senso moderno, di cui fornisce anche una
essenziale parte “tecnica”.
Pasquinelli ha quindi dato un assetto rigoroso alla sua concezione epistemologica
nell’opera Nuovi principi di epistemologia (Milano 1964), ove della disciplina definisce lo
statuto formale e fattuale, i compiti e gli strumenti conoscitivi di cui dispone. Al centro
dell’epistemologia delineata dall’autore, si trova l’idea regolativa della “giustificazione
razionale” delle teorie scientifiche. L’epistemologia si configura, pertanto, come una
riflessione critico-filosofica, e non genetico-descrittiva, delle conoscenze scientifiche che,
pur avendo carattere convenzionale, non per questo sono arbitrarie, fondate come sono
su un insieme coerente di definizioni. Sui tratti che contraddistinguono i diversi tipi di
definizione (analitica, connotativa, epistemica, intensionale, operativa, ecc.) l’autore si
sofferma a lungo, controllando il loro valore convenzionale o assertivo, e i rapporti che
intercorrono fra di loro. (Si tratta, com’è noto, di una delle questioni più delicate e
importanti per qualsiasi teoria della conoscenza.)
La parte più innovativa di quest’opera, una volta determinato il carattere di una teoria
analitica della conoscenza, risiede nel tentativo, riuscito, di determinare in termini
storico-critici e teorici rigorosi il lessico dell’epistemologia seguita dal neopositivismo, in
cui un rilievo particolare è riconosciuto alla lezione di Carnap, tenendo conto, nel
contempo, degli apporti di altri rilevanti protagonisti della fase americana dell’empirismo
logico, quali quelli di Carl G. Hempel ed Ernest Nagel. Nei due capitoli centrali del libro,
l’autore sottopone a disamina critica le parole-chiave come ‘descrizione’, ‘spiegazione’,
‘previsione’, e le attività di generalizzazione e concettualizzazione. Nei vari casi, gli
argomenti esaminati sono disposti secondo un ordine che rimane costante: in primo
luogo, l’autore esamina le diverse e spesso divergenti interpretazioni che storicamente
sono state date di ciascuno dei temi presi in esame; successivamente passa alla disamina
critica della questione che consente di raggiungere la determinazione conclusiva. E anche
nel caso in cui quest’ultima apparentemente coincida con la soluzione già avanzata da un
altro epistemologo, nondimeno essa risulta più “forte” e persuasiva, essendo passata al
vaglio di una critica severa.
A titolo esemplificativo, accenniamo al problema della spiegazione. Com’è noto, le
dottrine formulate nel sec. XIX, a proposito della struttura e della validità della
conoscenza scientifica, fanno appello soprattutto ai fondamenti dell’induzione e della
deduzione; al circolo “virtuoso” che unisce l’osservazione e l’interpretazione, i dati
empirici e il calcolo matematico; alla funzione ermeneutica delle ipotesi e allo statuto
teorico delle leggi di natura: sono queste le questioni di fondo che l’epistemologia
dell’Ottocento ha affrontato. Ancora nei primi decenni del Novecento, filosofi e scienziati,
anche tra coloro che appartenevano al Circolo di Vienna (si pensi a Moritz Schlick),
ritenevano che il compito precipuo della scienza consistesse nel formulare previsioni
attendibili. Nell’opera del 1964 Pasquinelli coglie il mutamento di prospettiva verificatosi
nel corso del Novecento, quando l’indagine si è venuta trasferendo ai diversi modelli di
spiegazione, al cui interno, come elementi di una totalità più ampia, si trovano incluse
l’induzione e la deduzione. Il problema della spiegazione ha assunto un rilievo del tutto
eccezionale nell’epistemologia più recente, tanto è vero che secondo alcuni storici e
filosofi il nucleo “duro” della scienza è da ricercare, essenzialmente, nella spiegazione.
Rispetto ai testi più significativi dell’epistemologia novecentesca, Pasquinelli sostiene che
positivismo e pragmatismo costituiscono una prima fase nel processo di riformulazione
dei principi regolativi dell’indagine scientifica, anche se alcune idee di tali orientamenti
sono state riprese e approfondite. È la stessa visione di come si costruisce una teoria
scientifica, nota Pasquinelli, che ora è profondamente mutata, e, di conseguenza, delle
relazioni che intercorrono fra i suoi elementi costitutivi. Si può far datare dal
neopositivismo l’inizio di una nuova fase, determinata dall’enorme complessità che ha via
via assunto il “fenomeno scienza” rispetto alle precedenti immagini, le quali, oggi, non
possono non apparire semplificazioni più o meno giustificate sotto il profilo storico.
Il punto di vista adottato da Pasquinelli, procedendo dalla critica, fra le altre, della teoria
della spiegazione descrittiva, è quello dell’interpretazione nomologico-inferenziale,
secondo cui spiegare significa inferire da leggi o teorie; essa coincide in parte con la
spiegazione causale. Pasquinelli pone a raffronto questa forma di spiegazione con le altre
possibili, come la spiegazione essenzialistica, genetica, teleologica, e ne trae la
conclusione che quella proposta è la più “potente”, ossia è in grado di fornire una
spiegazione più completa delle altre.
Questa scelta è in armonia con l’impostazione linguistica dell’indagine empirico-scientifica
o epistemologica, nella quale, a giudizio di Pasquinelli, intervengono sia componenti di
natura convenzionale, sia elementi empirici, come pure inferenze logiche. La scienza,
infatti, mira a conseguire conoscenze di tipo intersoggettivo e razionale oltre che
empirico; da ciò la necessità di una rigorosa analisi sintattica, semantica e pragmatica del
linguaggio, secondo criteri e scopi che Pasquinelli segnala con accuratezza.
Pasquinelli è un epistemologo “galileiano”, nel senso che, relativamente alla struttura
della scienza, egli ha tenuto ferme le indicazioni dello scienziato pisano circa la
necessaria convergenza delle “sensate esperienze” e delle “certe dimostrazioni”, ossia,
nel nostro caso, delle componenti sperimentali e dei fattori logico-matematici e
convenzionali. Questa essenziale connessione delle due componenti gli fa dire che le
scienze naturali e sociali sono sì distinte, ma non separate sul piano metodologico e
conoscitivo. “La fondazione della conoscenza scientifica”, ha affermato conclusivamente
Pasquinelli, “dipende essenzialmente dalle operazioni empiriche e dai procedimenti
inferenziali con cui esse sono stabilite e giustificate.” Egli riconosce, rifacendosi all’ultimo
Carnap e in polemica con Popper, il valore della logica induttiva, il cui scopo è quello di
fornirci un grado di conferma, ossia di probabilità logica che gli enunciati osservativi
procurano a una ipotesi.
Pasquinelli è incerto nella determinazione del suo orientamento epistemologico, che
definisce “convenzionalismo qualificato in senso empirico-pragmatico” o “empirismo
analitico” o “razionalismo pragmatistico”. Egli critica e respinge sia un “radicale”
razionalismo aprioristico, sia un “radicale” empirismo. Infatti, se l’origine dei concetti e
dei principi fosse soltanto empirica, non avrebbe senso l’alleanza dei dati empirici con le
“certe dimostrazioni”, dal momento che il piano teorico coinciderebbe con quello
empirico; il primo sarebbe solo un prolungamento del secondo. Analoghe difficoltà
insorgono quando si concepisca la conoscenza scientifica come totalmente a priori.
Pasquinelli respinge entrambe le soluzioni; l’epistemologo, a suo parere, ha il compito di
determinare in che modo e in che misura stiano insieme i due fattori costitutivi di ogni
scienza, ossia i procedimenti osservativi e quelli razionali. Da ciò una oggettiva difficoltà
nella determinazione dell’orientamento generale, che non è assimilabile sic et simpliciter
al neopositivismo o al razionalismo; è piuttosto, come dice lo stesso Pasquinelli, un
“empirismo analitico”.
Nell’opera Linguaggio, scienza e filosofia (Bologna 1964), Pasquinelli approfondisce alcuni
aspetti del suo pensiero, rispetto ai tratti distintivi dell’analisi filosofica, ove ridimensiona
l’orientamento della scuola oxoniense che privilegia l’analisi del linguaggio comune. Il che
comporta affrontare la questione del significato; i temi della comunicazione e dei processi
comunicativi nell’esperienza scientifica e artistica. D’altra parte, l’esame dei rapporti fra
logica e filosofia porta a interrogarsi sul valore e i limiti dell’analisi logica in filosofia, i
fondamenti metodologici delle scienze fisiche, gli aspetti logico-linguistici e scientifici
delle proposizioni valorative, a proposito delle quali Pasquinelli “fa i conti” con il pensiero
di John Dewey.
Infine, Pasquinelli ha dato un contributo di sicuro rilievo alla comprensione specifica delle
scienze umane come la sociologia e la psicologia, riconoscendo loro, secondo la
prospettiva neoempiristica, lo statuto di scienze, precisamente quando queste discipline
si disponevano a riprendere, dopo una lunga parentesi, il cammino interrotto. Nella
sociologia intesa come scienza svolge un ruolo importante la procedura convenzionale, e
la storiografia è intesa come una scienza empirica. Nei confronti dello storicismo egli si
richiama alle critiche sollevate da Karl R. Popper, mentre ha rinviato, per ulteriori
riflessioni sulla sociologia, ai lavori del noto e importante studioso Edward Shils e, per la
storia, alle considerazioni metodologiche espresse da Gaetano Salvemini, recentemente
“riscoperte” da alcuni studiosi. In conclusione, anche in questi casi Pasquinelli ha ribadito
che la struttura cognitiva di queste discipline non differisce sostanzialmente da quella
delle scienze naturali.
Nell’ambito della filosofia italiana, Pasquinelli ha recato un contributo importante alla
conoscenza e alla diffusione della filosofia analitica, in particolare dell’empirismo logico,
partecipando in prima persona al rinnovamento e alla sprovincializzazione del pensiero
filosofico-scientifico italiano.
All’epoca degli studi universitari di Pasquinelli, due luoghi in particolare si stavano
imponendo nel nostro Paese, quali fonti di irradiazione del dibattito filosofico: Torino,
soprattutto con la fondazione del “Centro di studi metodologici” (1947), e Milano. Accanto
ad essi, proprio nei primi anni Cinquanta, anche Bologna cominciò a costituire un centro
intellettuale innovativo grazie all’apporto di un gruppo di giovani studiosi che si
organizzarono attorno alla rivista “Il Mulino” (fondata nel 1951), i quali si riconoscevano,
come Pasquinelli, nell’orientamento “neoilluministico” sostenuto dai filosofi torinesi e
milanesi.
Mario Quaranta
Sandra Tugnoli
Pàttaro
MARCELLO PERA
Nato il 28 gennaio 1943 a Pisa, Marcello Pera riuscì a iscriversi all’università a più di
ventitré anni, dopo aver svolto vari lavori. Si è laureato in filosofia all’università di Pisa
nel 1972.
In quegli anni l’ambiente universitario pisano era, come quasi tutto quello italiano,
dominato dal marxismo. Con una sola autorevole eccezione, filosofica e politica:
Francesco Barone. Fu grazie a lui, e alla sua lettura dei maggiori classici del pensiero,
Platone, Aristotele, Cartesio, Leibniz, Spinoza, Locke, Hume, Kant, e poi Wittgenstein, i
neopositivisti e gli analitici, che elaborò le prime categorie del suo successivo pensiero.
Ma soprattutto fu per merito di Barone che imparò una disciplina intellettuale e morale
poco incline alla pressione delle mode.
La scelta di Karl Popper (che allora si cominciava a tradurre) come tema della sua tesi di
laurea e dei suoi primi scritti era certamente in sintonia con questo modo di pensare e
poco in armonia con l’ambiente. Occuparsi del pensatore austro-inglese, sostenitore della
“società aperta” e critico inflessibile dei “falsi profeti” Hegel e Marx, era innovativo
rispetto ad un marxismo diffuso ma ridotto ad una serie trita di slogan e glosse, che non
mancavano di mettere in discussione la stessa oggettività della scienza. È di quegli anni,
ad esempio, la circolazione dello slogan secondo cui “la verità scientifica la decide il
Pentagono”, come pure di altri in settori diversi, su cui poi in seguito, nella sua fase
politica e parlamentare, si sarebbe occupato, quali “la malattia mentale è l’effetto di una
repressione sociale” o “la verità processuale è un rapporto di potere”. Forse “psichiatria
democratica” e “magistratura democratica”, assieme a “scienza democratica” sono stati i
suoi primi bersagli polemici, intellettuali e non solo.
Ha iniziato la sua carriera accademica nel 1976 a Pisa come incaricato di Filosofia della
scienza. Nel 1989, vinto il concorso a cattedra, è stato chiamato all’università di Catania
in qualità di professore straordinario di Filosofia teoretica. Tre anni dopo si è trasferito
all’università di Pisa dove ha assunto la titolarità della cattedra di Filosofia della scienza.
Ha svolto un’intensa attività di ricerca a livello internazionale (Visiting Fellow: Center for
Philosophy of Science, University of Pittsburgh, 1984; Visiting Fellow: The Van Leer
Foundation, Gerusalemme, 1987; Visiting Fellow: Department of Linguistics and
Philosophy, MIT, Cambridge in Massachusetts, 1990; Visiting Fellow: Centre for the
Philosophy of Natural and Social Sciences, London School of Economics, 1995-96).
Nel 1996 è stato eletto senatore nelle liste di Forza Italia. Nel 2001, dopo aver vinto il
collegio uninominale di Lucca, è stato eletto al primo scrutinio Presidente del Senato della
Repubblica. È stato nuovamente eletto in Senato in Emilia Romagna nella XV legislatura
(dall’aprile 2006 all’aprile 2008) e nella regione Lazio nella XVI.
Nelle sue prime lezioni, Pera usò Popper per ampliare le ristrette vedute imposte agli
studenti da un marxismo di maniera. E anche molti anni dopo, in alcuni suoi discorsi
politici, fece ricorso a Popper e alla sua filosofia, ciò che, assieme alla sua amicizia
personale con lui, ha alimentato l’opinione che fosse un popperiano ortodosso. In realtà,
il vero punto di riferimento di tutta la sua riflessione filosofica è sempre stato Kant. I suoi
primi lavori sulla filosofia popperiana – due lunghe memorie pubblicate negli Atti
dell’Accademia delle scienze di Torino, e poi vari scritti, tra cui il volume Popper e la
scienza sulle palafitte (Bari 1981) – cercano di mettere in luce i limiti della filosofia
popperiana, soprattutto il suo antinduttivismo, proprio grazie ad una distinzione
tipicamente kantiana fra leggi trascendentali e leggi empiriche.
Questo è anche il tema del suo primo libro a contenuto teorico, Induzione e metodo
scientifico (Pisa 1978), in cui egli difendeva tesi precisamente antitetiche a quelle di
Popper: che esiste una logica della ricerca scientifica, che questa logica è induttiva, e che
le aspettative logicamente antecedenti alle induzioni di leggi e regolarità sono categoriali
e non congetturali. Quando ha successivamente ripreso il tema in Hume, Kant e
l’induzione (Bologna 1982) e soprattutto in Apologia del metodo (Bari 1982), ha proposto
una correzione e una soluzione nuova: che la logica della ricerca, nella sua veste formale
e in quella metodologica, non è ancora sufficiente se non si tiene in considerazione la
dimensione discorsiva e argomentativa con cui gli scienziati pervengono alla proposta, e
la comunità alla accettazione, di nuovi risultati scientifici.
Questo ha aperto a Pera un ulteriore filone di ricerca: se esiste una logica
dell’argomentazione scientifica, non più solo induttiva, e se questa logica implica la
discussione dentro una comunità, qual è il valore del risultato raggiunto? È ancora
obiettivo o diventa una costruzione sociale? Questa domanda introduce naturalmente la
questione realismo-relativismo. Come può una pretesa scientifica (legge, teoria) essere
considerata “vera” se l’accertamento della sua verità e la sua accettazione dentro la
comunità dei competenti sono funzioni della discussione, necessariamente storica e
contingente, che essi intrattengono? Il realismo presenta il rischio del dogmatismo e dello
scientismo, ma il relativismo ne presenta uno ugualmente grave, quello del nichilismo e
dell’indifferenza morale. Non solo il relativismo è controintuitivo, esso abbassa le nostre
difese e impedisce il sostegno convinto a qualunque credenza. La sua lunga disputa
contro il relativismo – da cui nacquero le sue polemiche con Paul Feyerabend e, in Italia,
con Giulio Giorello o Gianni Vattimo – si manifestò precisamente su questo terreno: se
“tutto va bene”, in che cosa si crede? Se “l’etica è senza verità”, il “sapere senza
fondamenti”, la “società è trasparente”, per citare alcuni titoli e idee in auge negli anni
’90, in nome di che cosa si può affermare la propria opinione o resistere a quelle altrui,
specie quando siano aggressive e illiberali? Nessuno che non voglia suicidarsi
intellettualmente può vivere o avere credenze etiche e politiche sostenendo che ciò in cui
crede non abbia valore in sé e non possa essere creduto da un altro. In realtà, questa del
relativismo è un’altra moda, oggi divulgata da chi ha fatto apostasia (“nessuna chiesa”, il
“pensiero debole”) delle proprie precedenti credenze forti, il marxismo o la fede religiosa.
Dopo il trasferimento dall’università di Catania a quella di Pisa è precisamente questo
problema del relativismo quello su cui egli si è più concentrato, sia nella sua dimensione
epistemologica che in quella etica e politica. Da Paul Feyerabend e da Thomas Kuhn, nel
frattempo divenuti anche suoi amici personali, aveva appreso il significato della relatività
concettuale (che neppure la teoria dell’argomentazione da lui elaborata può negare) e un
lavoro di storia della scienza gliene aveva dato ulteriore conferma. Ne La rana ambigua
(Bari 1986 e Princeton 1991) egli scoprì come la controversia tra Galvani e Volta
sull’elettricità animale presupponesse ampie e complesse visioni del mondo da parte dei
suoi protagonisti, in cui l’aspetto valutativo risulta imprescindibile e anche prevalente su
quello fattuale. Quella controversia non si decise per mezzo di esperimenti, ma tramite
una scelta di visioni metafisiche contrapposte dei fenomeni coinvolti (biologia contro
elettrologia). Benché questo fosse già adombrato nei suoi lavori precedenti, la scoperta
costituì per lui una conferma che anche il modello induttivo che prima aveva sostenuto
dovesse essere rivisto e lo condusse ad approfondire la logica argomentativa della
scienza iniziata con Apologia del metodo. Il “modello a tre” della ricerca (ipotesi dello
scienziato, dati empirici di controllo, discussione dentro la comunità) fu la sua proposta di
schema dell’indagine scientifica, ed è stata anche la sua risposta al problema del
relativismo. I suoi principali studi in materia sono Scienza e retorica (Bari 1992, Chicago
1994) e un saggio in un volume in onore di Francesco Barone, Il mondo incerto (Bari
1994).
Parallelamente a una intensa attività pubblicistica (“Espresso”, “Panorama”, “Corriere
della Sera”, “La Stampa”, “Il Messaggero”), alla quale ha guardato alla maniera
dell’impegno civile e politico di suoi due concittadini lucchesi autorevoli nel mondo
giornalistico, Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, Pera ha sviluppato un interesse politico
più spiccato che lo ha condotto al Senato nel 1996 nelle fila di Forza Italia. In questa
nuova attività ha portato il bagaglio delle sue conoscenze e della sua impostazione dei
problemi intellettuali. Ha insomma cercato di fare “filosofia applicata”. In particolare, il
“modello a tre” della dialettica dell’argomentazione gli è stato utile per impostare i
problemi del giusto processo, al quale ha dedicato anche uno studio mai terminato (e
ancora polveroso fra le sue carte) e per il quale egli è stato promotore e relatore di un
disegno di legge di revisione costituzionale, la riforma dell’art.111 Cost. sul
contraddittorio fra le parti e la posizione terza del giudice, nonché promotore di una legge
sulla ricusazione del pubblico ministero, sia quello di tipo induttivista, che vuole accertare
tutti i fatti, che quello di tipo popperiano, che li vuole esaminare alla luce di una sua
ipotesi, sovente un pre-giudizio politico (a differenza dell’altra, questa seconda riforma,
sfortunatamente per il sistema giudiziario italiano e per tutte le incongruenze che
contiene, non è mai stata approvata). La sostanza concettuale delle sue riforme è che la
prova giuridica non emerge dalla raccolta indiscriminata di indizi (la quale, ovviamente,
non ha mai fine, esattamente come non ce l’hanno i processi italiani perché fondati su
una cultura filosofica sbagliata), ma dal contraddittorio dialettico tra le parti.
Conseguentemente, la verità non può essere intesa come corrispondenza con i fatti
(anche se così può essere definita), ma come quell’insieme di asserzioni garantite dalla
ragionevolezza del dibattito processuale e dalla resistenza alla prova contraria.
La sua polemica contro il relativismo si è ulteriormente alimentata in occasione di eventi
internazionali drammatici e di fenomeni sociali complessi (l’11 settembre, l’islamismo, lo
“scontro di civiltà”, il “multiculturalismo”, il “meticciato”, il processo di unificazione
europea). Il suo problema di oggi è quello della definizione e difesa dell’identità europea
e occidentale (oltre che italiana, ancora afflitta da dispute storiche e fughe in un
patriottismo costituzionale scarsamente avvertito). Le sue precedenti ricerche sono alla
base del libro Senza radici (Milano 2004), nato dall’incontro fortunato e per lui stimolante
e fonte di riflessione con l’allora cardinale Joseph Ratzinger ora Benedetto XVI. Lo stesso
vale per la sua opera più recente, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa,
l’etica (Milano 2008) in cui il problema dell’identità è ancora messo a fuoco e più
sistematicamente analizzato.
La difesa dell’identità cristiana dell’Occidente, la negazione del principio utilitaristico di
autonomia intesa come libertà individuale di scelta senza limiti etici, l’accettazione della
tesi “velut si Deus daretur”, la denuncia della crisi, morale prima che culturale e politica,
dell’Europa, e la sua preoccupazione sulla parabola del liberalismo, lo hanno accostato
polemicamente nella pubblicistica (che sciaguratamente in Italia è diventata la sede
pressoché unica del confronto culturale in luogo di quella scientifica morente) agli
intellettuali “neoconservatori” statunitensi. Il conservatorismo, a suo giudizio, è forse
l’unica dottrina autorevole in grado di salvare il liberalismo dalla propria crisi. Ma la sua
traduzione in spiccioli termini politici è spesso arbitraria e più spesso ancora usata come
arma di polemica politica.
Fra tanti insegnamenti di Popper, uno gli rimane e lo raccomanda sempre come consiglio
a chiunque svolga una professione intellettuale: per avere valore scientifico e culturale,
una discussione non deve avvenire nel “mondo due” delle opinioni soggettive (e delle
dispute inter-personali), ma nel “mondo tre” degli scambi obiettivi di contenuti di
pensiero.
Coerentemente con questa sua convinzione di fondo Marcello Pera avverte che l’ipotetico
lettore che fosse autenticamente interessato ai suoi pensieri è perciò costretto a ricorrere
a questi contenuti, così come sono depositati nel “mondo uno” cartaceo dei libri e degli
studi in cui sono stampati. Egli manifesta tuttavia piena comprensione anche per l’altro
tipo di lettore.
Il principio che è sempre stato alla base del suo orientamento e delle sue valutazioni è
che la filosofia, come diceva Kant, si fa per filosofare. Si fa quindi per vivere, cioè si fa per
testimoniare.
UGO PERONE
Ugo Perone nasce a Torino nel 1945. Qui, dopo gli studi liceali, frequenta l’università e si
laurea con lode e dignità di stampa nel 1967 alla scuola di Luigi Pareyson con una tesi
sulla filosofia della libertà di Charles Secrétan, che riceve il “Premio Luisa Guzzo” per la
miglior dissertazione dell’anno. Inizia successivamente l’insegnamento nei licei, svolto in
parallelo con una borsa di studio presso l’università di Torino, per diventare poi, nel 1972,
assistente di ruolo alla cattedra di filosofia teoretica. Dopo aver tenuto per incarico
insegnamenti presso l’università di Torino e l’università Pro Deo di Roma e dopo un
soggiorno di ricerca a Monaco di Baviera come borsista Humboldt (borsa reiterata
successivamente a Friburgo e a Berlino), Perone, nel 1980, diviene professore associato
di Filosofia della religione a Torino. Nel 1989, vinto il concorso da professore ordinario di
filosofia teoretica, viene chiamato a Roma II, dove insegna per cinque anni. Nel 1994 si
trasferisce all’università del Piemonte Orientale, a Vercelli, dove tuttora insegna, tenendo
corsi di filosofia della religione e di filosofia morale. Dopo essere stato Presidente del
corso di laurea, egli è attualmente al secondo mandato di Direttore del Dipartimento di
Studi umanistici; è inoltre membro del senato accademico e ricopre la carica di Vice
Rettore per gli affari internazionali. Dal 1993 al 2001, per due mandati consecutivi, è
stato assessore alla cultura della Città di Torino nella Giunta Castellani. Dal 2001 al 2003
ha diretto per chiara fama l’Istituto italiano di cultura di Berlino. Ha partecipato alla
fondazione della rivista “Filosofia e teologia” del cui comitato di direzione è membro; è
presidente nazionale dell’Associazione italiana per gli Studi di Filosofia e Teologia
(Aisfet); è presidente della sezione Torino-Vercelli della Sfi e membro del suo direttivo
nazionale; è membro del comitato di direzione del “Giornale di metafisica”; è senior
fellow del Collegium di Budapest; ha fondato e dirige la Scuola di Alta Formazione
Filosofica (SdAFF), che dal 2006 svolge la propria attività a Torino.
Opere – Contributi storiografici
I primi lavori di Perone hanno carattere storiografico. La tesi di laurea (La filosofia della
libertà, Atti dell’accademia delle scienze di Torino, Torino 1968), affronta il tema di una
filosofia della libertà indagandolo in un autore, come il filosofo svizzero Charles Secrétan,
minore ma particolarmente interessante perché collocato alla confluenza di cultura
spiritualistica francese e cultura tedesca posthegeliana. L’esito dell’indagine denuncia
l’incapacità dei moduli spiritualistici, ripiegati sulla coscienza, a fondersi con le più
possenti speculazioni di matrice schellinghiana, incontrate durante le lezioni monachesi di
Schelling. Ne viene, da parte di Secrétan, un progetto ambizioso, affidato a una vasta
Filosofia della libertà, che però arretra di fronte alle obiezioni di scuola francese
(Renouvier). Il tentativo di esplorare le valenze ontologiche della libertà si arresta
ripiegando sui meri referti di coscienza. Ma questi, a loro volta, non sono in grado di
giustificare adeguatamente tutte le implicazioni della nozione di libertà. Il lavoro
successivo, dedicato a Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach (Mursia, Milano
1972) conduce Perone a un diretto confronto con l’ambiente tedesco posthegeliano. Lo
studio ha il pregio di sottrarre la figura di Ludwig Feuerbach alla prevalente linea
interpretativa che ne fa un anello di congiunzione tra Hegel e Marx, in ultima analisi privo
di originalità. Assai più significativo è il suo contributo, se, senza trascurare la matrice
hegeliana, si situa la filosofia di Feuerbach – come Perone documenta con una dettagliata
analisi – sulla scia degli esiti di quella teologia protestante alla cui scuola il filosofo di
Landshut si era formato. In tal modo se ne possono meglio comprendere l’influenza sugli
sviluppi teologici successivi, a partire da Barth, i quali nelle loro formulazioni fanno
largamente i conti con l’ateismo feuerbachiano, considerato come un’imbarazzante pietra
di inciampo, proprio perché esso desume i materiali della propria critica direttamente dal
terreno teologico.
I problemi della filosofia della religione sono perentoriamente sollevati da questo
approfondimento e Perone si dedica a un loro approfondimento sul versante teologico sia
con uno studio dedicato a Bonhoeffer (Storia e ontologia. Saggi sulla teologia di
Bonhoeffer, Studium, Roma 1976) sia contribuendo con altri autori (F. Ardusso, G.
Ferretti, A.M. Pastore) a un’ampia presentazione complessiva delle teologie cattolica e
protestante nel Novecento (La teologia contemporanea, Marietti, Casale 1980, anticipata
da Introduzione alla teologia contemporanea, Sei, Torino 1972). I due lavori si inscrivono
in una temperie filosofico-religiosa particolarmente stimolante, specie nell’ambiente
italiano, e contribuiscono anzi ad arricchirla. Ne è testimonianza la stessa fondazione
della rivista “Filosofia e teologia”, che catalizza, su base filosofica, contributi
interdisciplinari e diversamente orientati rispetto al fenomeno religioso. Gli studi
bonhoefferiani, poi, proseguiti per un’intera vita e culminati nell’organizzazione del
convegno internazionale in occasione del centenario della nascita (v. Dietrich Bonhoeffer.
Eredità cristiana e modernità, a cura di U. Perone e M. Saveriano, Claudiana, Torino
2006), fanno di Perone uno dei maggiori interpreti italiani di tale teologia e quello in cui
la rilevanza schiettamente teoretica della prospettiva bonhoefferiana viene
esplicitamente valorizzata in sede filosofica. L’interpretazione di Perone sostiene l’unità
sostanziale del percorso di Bonhoeffer e l’assoluta originalità della sua visione della
secolarizzazione e attinge dal teologo di Breslau preziosi suggerimenti in relazione ai temi
della modernità e della storia, del concetto di naturale, del rapporto tra ultimo e
penultimo e della correlata tensione tra cielo e terra, della rilevanza anche ontologica e
teologica della questione etica, della concezione della verità come protezione del reale
nella sua multidimensionalità.
Sempre nell’ambito dell’approfondimento degli aspetti di filosofia della religione si situa
un importante lavoro, svolto in collaborazione con altri autori, dedicato a esporre la storia
del rapporto tra filosofia e cristianesimo a partire da Kant (In lotta con l’Angelo, in
collaborazione con C. Ciancio, G. Ferretti, A.M. Pastore, Sei, Torino 1989, 1991 2). Lo
studio costituisce la più ampia storia del rapporto tra filosofia e religione negli ultimi due
secoli e presenta un vasto materiale documentario, unificato da una prospettiva
teoretica, ampiamente esposta da Perone nel primo capitolo, secondo la quale la
tensione tra filosofia e cristianesimo, così caratteristica delle filosofie postsettecentesche, costituisce non solo un dato di fatto, ma anche una chance teoretica. In
luogo infatti di ricercare una conciliazione irenica o un’unità monologica, che produrrebbe
l’umiliazione di una delle due discipline, occorre infatti, secondo gli autori, lavorare
produttivamente sulla tensione di orizzonti, che, pur non potendosi comporre, sono però
in grado di interagire reciprocamente. La figura emblematica della lotta di Giacobbe con
l’angelo (che ritorna in vari scritti di Perone, anche in sede teorica) è simbolo di una
relazione tensiva, di un conflitto che, senza produrre né vincitori né vinti, introduce una
profonda trasformazione di entrambi: Giacobbe muta il proprio nome in Israele e resta
ferito all’anca; l’angelo di Dio si piega alla benedizione del percorso dell’uomo. Filosofia e
religione pretendono entrambe, nel loro ordine, di costituirsi come saperi autonomi,
capaci di generare un orizzonte inclusivo di senso. Di qui l’immanente potenziale conflitto
che le attraversa. Esso peraltro restituisce ciascuna prospettiva a se stessa, avendola
arricchita della necessità di misurarsi con una verità altra, che resiste a ogni semplicistica
riduzione: la ragione filosofica incontra così un luogo in cui la verità si manifesta come ciò
che è dato e mai prodotto; la religione si confronta con il problema di una verità che, pur
avendo in sé la propria legittimazione, non può sottrarsi al riconoscimento, e quindi anche
al giudizio, dell’uomo cui è rivolta.
La tensione di cui si è detto trova per altro massima manifestazione nel moderno e nella
modernità. Gli studi di Perone su Schiller (Schiller: la totalità interrotta, Mursia, Milano
1982) e su Benjamin (tra gli altri: Benjamin e il tempo della memoria, in “Annuario
filosofico”, I, (1985), Mursia, Milano 1986, 241-272, e Soglie: l’altro mondo a casa propria,
in Walter Benjamin: Sogno e industria, Celid, Torino 1996 a cura di E. Guglielminetti, U.
Perone, F. Traniello) ne sono un’approfondita esplorazione.
Schiller, letto per i suoi contributi filosofici, risulta un privilegiato interprete della
modernità, il primo autore consapevole dell’irreversibilità della cesura introdotta dai
moderni, i quali, appunto, non possono che essere sentimentali, ovvero non possono che
essere sempre alla ricerca di quella ingenua natura perduta ch’essi non sono più e a cui
proprio perciò massimamente aspirano. Schiller delinea in questo modo un’originalissima
filosofia della storia, il cui manifesto principale è il Saggio sull’ingenuo e il sentimentale,
ma di cui v’è traccia anche nei suoi drammi, in specie nel Wallenstein. Questa filosofia
della storia, pur non essendo meno ambiziosa di quella hegeliana, non soggiace al
principio della conciliazione, ma lavora sull’irreversibilità della differenza e la rielabora
secondo un modello consapevolmente presentato come ideale.
I numerosi studi su Benjamin, dal canto loro, valorizzano, contro una deriva che si
limitava a opporre in lui marxismo e messianismo, il rilevante potenziale teoretico della
sua filosofia. La modernità, sapientemente descritta da Benjamin, è un luogo di tensione
enorme e quasi insopportabile, insieme inferno e terra promessa. La sua filosofia ha il
merito di rompere con schemi continuistici di tipo storicista e di proporre sempre di nuovo
categorie della discontinuità come basi privilegiate per una possibile salvezza del (e dal)
moderno.
Sulla scia di una praticata concezione dialogica della filosofia, Perone ha pubblicato,
insieme ad altri autori che hanno svolto un intenso lavoro di gruppo, varie storie della
filosofia per i licei. Ci limitiamo qui a ricordare la prima edizione, Storia del pensiero
filosofico (in coll. con A.M. Pastore, G. Ferretti, C. Ciancio, Sei, Torino 1982), cui è
seguita, sempre con gli stessi coautori, Filosofia i testi e la storia (Sei, Torino 1991), un
lavoro che ha introdotto una rilevante innovazione metodologica, presentando la storia
della filosofia a partire dai suoi testi fondatori, nonché l’ultima edizione in ordine di tempo
in coll. con A.M. Pastore, Filosofia (Sei, Torino 2005). Si tratta di libri che hanno segnato
in profondità, ormai da circa un quarantennio, l’insegnamento della storia della filosofia
nella scuola italiana.
Opere teoriche
L’esposizione relativamente ampia dei lavori storiografici vale anche come introduzione ai
saggi di carattere dichiaratamente teorico. In riferimento a questi, quattro nuclei tematici
appaiono di particolare rilevanza. In primo luogo la definizione dei concetti correlati di
moderno e modernità. Si tratta di un tema che, avviato da Modernità e memoria (Sei,
Torino 1987), percorre l’intera produzione di Perone e si nutre degli studi su Cartesio,
Schiller, Benjamin e Bonhoeffer (ricordiamo qui anche Cartesio o Pascal? un dialogo sulla
modernità, Rosenberg & Sellier, Torino 1995, in coll. con C. Ciancio). Il moderno viene
identificato da Perone con l’età post-cartesiana e definito come quell’epoca che si
costituisce in rottura esplicita e consapevole con la tradizione, ma nel convincimento, di
cui Cartesio è un esempio emblematico, della capacità di adempiere con rinnovata
certezza le stesse funzioni dell’antico. Il moderno è dunque età di cesura dall’antico e di
primato assegnato alla novità, nella prospettiva però di una concezione della funzione di
unificazione della cultura non dissimile, pur nella diversità dei contenuti, da quella
dell’antichità classica.
Gli ideali del moderno trovano realizzazione anche storico-politica nella rivoluzione
francese, ben al di là delle aspettative iniziali. È questo successo a far sorgere, in
prosecuzione con il moderno, ma con diversità di accenti, la modernità (di cui Schiller ha
acuta consapevolezza e che Benjamin descrive nei suoi tratti salienti). Qui, mentre i temi
della cesura e dell’interruzione continuano a valere, cade l’ottimistico convincimento di
poter adempiere con strumenti nuovi agli stessi compiti della classicità. Ne risulta
un’enfasi sulla novità per la novità. Scaturisce da ciò anche l’immanente vocazione
nichilistica della modernità, indotta, proprio per assegnarsi un contenuto, a bruciare volta
a volta i propri contenuti nell’esasperata ricerca di una novità più nuova. Questo
procedimento, in certo modo ansiogeno e autodistruttivo, si appaga solo in un nichilismo
esplicito e autoconsolatorio. Oppure richiede a sua volta un’interruzione che sottragga
alla sua malia, pur senza l’illusione che si possa attingere a fonti intatte, immuni dalla
modernità. Come la riflessione teologica sulla secolarizzazione ha mostrato, l’evento
storico di separazione, con cui il moderno si costituisce, rappresenta infatti un elemento
irreversibile. Ciò non significa però assumere che la modernità sia l’unico esito possibile
del moderno. Al contrario, proprio ritornando alle sue fonti originarie, è possibile
rinvenire, secondo Perone, elementi che producono una diversa articolazione del
moderno, che va in direzioni differenti da quelle percorse dalla modernità.
Il cammino per questo procedimento passa attraverso un ritorno alle questioni della
finitezza e del soggetto. È qui un secondo nucleo tematico, sul quale vorremmo
soffermarci, e che ha trovato la sua formulazione più ampia in Nonostante il soggetto
(Rosenberg & Sellier, Torino 1995; trad. ted. Trotz/dem Subjekt , Peeters, Leuven 1998).
Ritornando ancora una volta a Cartesio, Perone propone una filosofia del soggetto finito
che fa perno sul cogito, assunto però non come fondamento di sistema, ma come resto,
tenace e ineludibile, a partire dal quale, in una sorta di lectio difficilior, è possibile esibire
la necessità della relazione con altri e costruire un orizzonte di interpretazione
complessiva del mondo. La vicenda del soggetto nel moderno e nella modernità
conferma, contro ogni riduzione nichilistica, che il soggetto, per quanto brisé (Ricoeur) o
addirittura capovolto (Celan), costituisce un punto estremo di resistenza alla dissoluzione
di senso. Senza dunque installarci in un’ottimistica e immotivata prospettiva dialogica e
relazionale o presupporre l’esistenza di un’intatta alterità assoluta, esente dalla
devastazioni del moderno, è possibile, facendo leva sugli stessi strumenti concettuali che
il moderno ha inaugurato, ritrovare in essi elementi di resistenza alla dissoluzione. Il
soggetto, abbandonate le pretese istituenti, si rivela infatti portatore di una consistenza
preziosa (al di sotto del soggetto non si può scendere; il cogito è una sorta di prova
ontologica minima) e al tempo stesso rigorosamente finita (il soggetto non costituisce né
padroneggia l’intero, semmai può solo rischiosamente enunciarlo in forma di
interpretazione). La finitezza del cogito non scaturisce così dal fatto che esso ponga a sé i
propri limiti, ma dal suo urtare contro barriere inesorabili (l’alterità, la morte) che definiscono la finitezza. Questa dunque, che pur non si vorrebbe tale – perché per sé l’io
vorrebbe poter essere tutto e riempire da solo l’intera scena dell’esistenza –, è costretta a
tornare su di sé, istruita circa la propria limitatezza, e impara così a costruire condizioni di
possibilità in grado di sensatamente orientare quell’esistenza finita in cui si trova
collocata.
Si ricollega a ciò il terzo tema a cui Perone ha dedicato la propria riflessione, ossia la
questione del tempo. Egli affronta complessivamente la questione del tempo in Il
presente possibile, Guida, Napoli 2005 (trad. inglese in corso di stampa). Essa, peraltro,
era stata già anticipata in pagine del citato Nonostante il soggetto e in Le passioni del
finito (Dehoniane, Bologna 1994), in cui un ruolo importante aveva svolto il tema
dell’indugio, ossia della capacità di dilatare l’esistenza finita in una procrastinazione del
tempo sul modello della figura di Sherazade, la quale, sotto la costante minaccia
dell’imminenza della morte, aveva saputo prolungare, attraverso la narrazione, i suoi
giorni, riscattando infine la propria intera esistenza.
La proposta di Perone è di muovere dall’estasi del presente per una riconsiderazione
complessiva del tempo. Le società tradizionali enfatizzano l’importanza del passato e
leggono il tempo come una continuità. La società moderna, come mostra in particolare
Heidegger, privilegia il futuro, ma assumendo un modello di comprensione del tempo non
meno continuistico. In tal modo essa non è però all’altezza della propria stessa
costituzione, segnata, come abbiamo visto, dalla discontinuità strutturale, e finisce per
pagare un troppo alto tributo alla discontinuità attraverso la frantumazione del tempo in
meri istanti, che, per essere autentici, debbono essere posti direttamente in relazione con
il futuro assoluto (in Heidegger, l’anticipazione di morte). Il presente, invece, come soglia
che al tempo stesso discrimina passato e futuro, ma anche li congiunge, può essere,
secondo Perone, l’estasi più propria per un modo d’essere che, senza eccedere i limiti
della finitezza, voglia resistere per un senso possibile. Nel presente la temporalità accade
(e dunque anche inesorabilmente dilegua), ma accade a me, accade nella relazione
strutturale con il soggetto, il quale allora ne tenta, sempre di nuovo, un arresto e una
dilatazione. Il presente non è dunque la puntualità dell’istante, ma l’accadimento del
tempo che si progetta come tempo possibile, come luogo in cui abitare, come punto in cui
conservare il senso di ciò che è già accaduto e di ciò che è atteso, ossia è
un’interpretativa congiunzione unitaria delle tre estasi. Il presente è un tempo di sintesi,
il luogo in cui il semplice scorrere della temporalità si incontra con la resistenza dell’a me
del soggetto finito, il quale osa un progetto di senso. Il presente rescinde e condanna
all’oblio il passato o ne salva la memoria, sfugge il futuro o ne anticipa la realizzazione. In
ogni caso è nel presente che la semplice temporalità si fa tempo umano.
Il più recente lavoro di Perone, La verità del sentimento (Guida, Napoli 2008), costituisce,
sotto l’angolo visuale di un’attenzione al sentimento, un appassionato plaidoyer per una
trasformazione del concetto corrente di ragione filosofica, in modo da restituire alla
filosofia l’antica funzione di amore del sapere, intendendo ciò come la capacità di
congiungere sapientemente amore e sapere (sentimento e razionalità), in modo che
l’amore sia sapere e il sapere sia amore. Ove ciò riuscisse, sostiene Perone, saremmo già
oltre i limiti stretti della modernità, pur senza dover rinunciare alle conquiste del
moderno. Attraverso un’utilizzazione degli esiti della fenomenologia e dell’ermeneutica (a
cui peraltro, per l’esplicita consapevolezza del carattere di cesura della modernità, si
attribuisce un primato), Perone delinea un percorso filosofico che non ha timore di
riprendere i grandi temi ontologici, primo fra tutti la questione della verità, per proporre
una filosofia, che, pur nelle mutate condizioni moderne, sappia riprendere la preziosa
capacità del pensiero classico di fare della ragione filosofica il potenziamento della vita.
L’avvenuta cesura tra vita e pensiero non consente un’irenica riproposizione della loro
unità, ma destina il pensiero a farsi custodia e protezione, alla seconda potenza, delle
attese della vita (del resto, bonhoefferianamente, alla verità è affidato il compito di
essere protezione del reale). Il sentimento è il luogo più prossimo a questa perduta
immediatezza, e proprio perciò conserva tracce cui la ragione deve volgersi, se vuole
ritrovare se stessa.
Del resto la stessa storia tipologica della relazione tra ragione e sentimento ne dà
conferma. Il sentimento della meraviglia si è coniugato nella classicità con una ragione
intesa come potenziamento fino a generare imponenti sistemi metafisici. Ma ha anche
significato, subito dopo, l’abbandono del sentimento, ridotto a semplice forza iniziale per
l’individuo. Il sentimento moderno della paura si è depositato nel dubbio cartesiano e ha
dato luogo a una concezione della ragione come controllo delle passioni. Esteso, esso ha
però prodotto esiti di autodissoluzione, perché, in luogo di applicarsi agli oggetti esterni,
si è rivolto contro lo stesso soggetto e ha assunto la forma di angoscia, come Kierkegaard
e poi l’esistenzialismo hanno mostrato. E la via dell’infinitizzazione del sentimento,
inaugurata nella modernità dal romanticismo, così concentrata com’è sul carattere
soggettivo del sentimento, ha finito per favorirne l’emarginazione culturale. Questi tipi di
sentimento, e i loro esiti, non devono far trascurare anche altri aspetti, che pur li
connotano: nel sentimento classico la meraviglia mostra l’urgere “oggettivo” della cosa e
attesta dunque che il sentimento non è, come si inclina a credere, solo soggettività, ma
anche, e non meno, oggettività. Il sentimento post-cartesiano, a sua volta, conserva
l’ineludibile traccia di un’età che si costituisce dubitando, ossia separandosi
consapevolmente dall’immediatezza (fino a farci esperire nella stessa coscienza questa
condizione strutturale di separatezza). L’infinitizzazione del sentimento, infine, attesta
che nel sentimento dell’essere finito vi è una qualche relazione (di desiderio, di bisogno)
con l’assoluto. Nel sentimento, in ogni caso, è contenuto un legame tra elementi in
tensione tra loro, un tratto che ne è forse l’elemento più prezioso: il legame tra
l’oggettività assoluta della metafisica classica e l’estrema individualità in cui si rifugiano le
filosofie ellenistiche; il legame tra perduta immediatezza e bisogno di nuova
immediatezza del moderno; il legame tra soggettività finita e infinità assoluta del postromanticismo. Tale forza di legame è ciò a cui la ragione deve tornare a volgersi in un
nuovo inizio del pensiero che viene dopo la modernità.
Queste ultime considerazioni delineano un programma ambizioso e che si può definire
come un’ontologia ermeneutica, ovvero una riassunzione dei compiti della filosofia, intesa
come sapere del reale nella sua muldimensionale totalità, nella consapevolezza però del
carattere ineludibilmente ermeneutico – e dunque prospettico, rischioso, intrecciato con
la libertà e la responsabilità della persona – di ogni possibile delineazione di senso.
Intorno a Perone si è raccolta una scuola di giovani studiosi, che, in un volume collettivo,
intitolato Interruzioni (Il melangolo, Genova 2005), ne ha presentato e discusso il
pensiero, tracciando anche originali linee di sviluppo.
ARMANDO PLEBE
Armando Plebe è nato ad Alessandria nel 1927. Si è laureato a Torino prima in Filosofia,
poi in Filologia classica con una tesi in cui ha ricostruito il secondo volume perduto della
Poetica di Aristotele. Si è quindi laureato a Innsbruck nella Philosophische Fakultät. Per
iniziativa di Benedetto Croce, cominciò a pubblicare i suoi scritti presso l’editore Laterza,
che è poi rimasto il suo principale editore. Nel 1961 è stato chiamato a ricoprire la
cattedra di Storia della filosofia nella Facoltà di Lettere di Palermo, dove ha diretto
l’Istituto di Storia della filosofia.
Ha esordito come storico dell’estetica con La nascita del comico, del 1956. Nel 1959, con
Processo all’estetica, ha condotto una critica dell’estetica filosofica in vista di un’estetica
empirica. Sempre in campo estetico ha scritto prima un saggio sull’avanguardia musicale,
La dodecafonia, 1962, poi un libro sulle avanguardie letterarie, Discorso semiserio sul
romanzo, 1965.
Passato a interessi più specificamente filosofici, ha cercato di riproporre in chiave
contemporanea i cardini della logica aristotelica nel volume Introduzione alla logica
formale (1964, 19662) e di elaborare una filosofia materialistica ne Il materialismo oggi,
1980 (trad. tedesca 1983).
Reagendo alla contestazione del 1968, è entrato attivamente nella vita politica, per cui è
stato eletto per due volte senatore della Repubblica e quindi parlamentare europeo. La
sua produzione si è volta quindi ad affrontare temi di filosofia politica. In una prima fase
di tipo polemico ha scritto i volumi Filosofia della reazione (1971) e Quel che non ha
capito Carlo Marx (1972). Sempre nell’ambito della politica militante, ha pubblicato il libro
Dimenticare Marx? (1993) e il breve trattato Dieci lezioni di politica (1994). Più
recentemente Il quinto libro del Capitale (20062) e Il nuovo illuminista (2006). È stato
collaboratore di importanti riviste italiane e straniere, tra cui quella russa “Voprosy
filosofii”, di Mosca, e quella tedesca “Semiosis”, di Stoccarda.
Plebe si definisce un illuminista scettico. Eredita cioè dall’illuminismo la lotta contro le
ideologie astratte e le fedi politico-religiose. Ma considera un mito la fiducia illuministica
in un progresso dell’umanità verso una finale illuminazione razionale. Sostiene un
anarchismo intellettuale, che si differenzia, ad esempio, da quello di un Feyerabend, per
una connotazione radicalmente empirica. Intende però che il suo anarchismo filosofico
non si attesti su posizioni sterilmente negative, ma sia sempre in trincea contro il
continuo ripresentarsi di illusioni teoriche. Anche se questa posizione potrebbe
interpretarsi come un’ideologia di sinistra, tuttavia sia politicamente che filosoficamente
combatte anzitutto proprio i tipici miti della sinistra intellettuale. L’anarchismo di Plebe
vuol essere positivo in quanto è convinto che si possano raggiungere soluzioni provvisorie
dei problemi filosofici, ispirate a un empirismo radicale. Ritiene però che esso non sia
indifferente alle lotte ideologiche del momento. Al contrario, si caratterizza come un
illuminismo tuttora militante in quanto sostiene che la tentazione delle fedi e delle
ideologie non si sia mai estinta, ma continuamente si ripresenti tentando di influire sulle
menti degli uomini. Perciò il suo è un anarchismo militante, che si nutre di una battaglia
continua contro i conformismi teorici, etici e religiosi.
Il primo ambito in cui Plebe ha sviluppato ampiamente il suo pensiero è l’estetica. I suoi
presupposti fondamentali, al proposito, sono stati l’empirismo di Ugo Spirito, ma
soprattutto il materialismo di Galvano Della Volpe. La polemica plebiana contro l’estetica
tradizionale non accoglie però le posizioni dell’estetica avanguardistica italiana del
Gruppo ’63, in quanto da lui ritenute sterilmente formalistiche. Ha cercato invece di
nutrire il suo materialismo sia con l’estetica degli strutturalisti russi, cercando di
svilupparne soprattutto l’aspetto semiotico, sia con l’estetica tedesca di Max Bense e il
suo tentativo di costruire una semiotica numerica sulla scia di Charles Peirce. Per Plebe
fondamentale è l’intento di fornire una fondazione scientifica al pensiero estetico per
sottrarlo all’impressionismo e al soggettivismo. È convinto che si debba tornare a
un’estetica delle regole, tuttora, per lui, la miglior garanzia contro il dilettantismo e il
velleitarismo.
In questo ritiene di essere l’erede più prossimo dell’estetica scientifica di Galvano Della
Volpe. Tuttavia solo parzialmente ne accetta l’impostazione marxista in quanto rifiuta
l’ancoraggio dogmatico implicito in ogni estetica marxista, come quella di Lukács o dello
stesso Della Volpe. Plebe condivide il loro rifiuto di un’estetica astratta in quanto ritiene,
non meno di loro, che l’arte debba essere coinvolta nei processi della realtà concreta.
Tuttavia non accetta che la valutazione di un’opera d’arte debba provenire soprattutto dal
peso politico che essa può esercitare.
Riconosce che l’influsso del marxismo sia stato giovevole in campo estetico perché ha
sottratto la valutazione artistica all’impressionismo e all’astrattezza. In questo la
polemica di Plebe contro Croce è fondamentale. A differenza del crocianesimo, pensa
infatti che non abbia senso chiedere all’arte di essere esente dall’etica e dalla politica.
L’estetica di Plebe, quindi, può considerarsi parzialmente aperta al marxismo, fermo
restando il rifiuto di condizionare i suoi giudizi a posizioni esclusivamente politiche.
Per Plebe l’arte non deve essere condizionata né dalla politica né dall’etica. Ciò però non
significa che essa viva in un mondo avulso dalle concrete vicende sociali. Non esclude che
in determinate circostanze l’arte debba farsi portatrice di una lotta contro i pregiudizi etici
e religiosi. Ma il valore di un’opera d’arte non può farsi consistere nella sua sola funzione
politica. L’opera di Brecht possiede un grande valore artistico non soltanto in virtù delle
sue battaglie politiche, ma principalmente perché ha saputo esprimere quelle battaglie in
maniera non banale, cioè sottraendole alle polemiche occasionali o contingenti. L’ideale
di Plebe non è quindi quello crociano di un’arte pura sottratta al turbine delle lotte
politiche e sociali. È invece quello di un’arte bensì immersa in quelle lotte, però dotata di
una forza autonoma rispetto alle polemiche dell’hic et nunc.
Perciò l’ideale dell’opera d’arte, per Plebe, è una via di mezzo fra il rifiuto dell’arte
universale come espressione assoluta e il rifiuto di un’arte che si riduca alle polemiche
spicciole della contingenza. Si potrebbe quindi definire l’estetica di Plebe come un
marxismo a metà, che accetta il condizionamento sociale dell’arte, ma non accetta che
tale condizionamento rappresenti la sua conditio sine qua non. È questa la tesi che sta
alla base del suo Processo all’estetica.
Questa posizione specifica in campo estetico è in realtà la conseguenza di una più ampia
impostazione teorica di Plebe nei confronti del marxismo. Egli accetta la tesi marxista
dell’origine sovrastrutturale delle teorie filosofiche, ma rifiuta di ridurre ogni
manifestazione umana a una conseguenza delle lotte sociali per la sopravvivenza, cioè ad
essere un epifenomeno dei movimenti economici. Persino le manifestazioni più
spregiudicate dell’uomo non possono ridursi a mere espressioni della sua situazione
materiale.
Questo atteggiamento apparentemente contraddittorio nei confronti del marxismo deriva
dal rifiuto di ricondurre alle lotte sociali l’intera esperienza psichica dell’uomo. Plebe
rifiuta bensì la concezione aristocratica che vede nelle ideologie un esclusivo prodotto
mentale, ma rifiuta altrettanto l’intento di ricondurle esclusivamente alle lotte individuali
e sociali. Un fenomeno quale il laicismo va certamente ricondotto alla rivendicazione
dell’originalità dell’individuo contro l’adesione a posizioni fideistiche. Tuttavia questa
rivendicazione non contraddice il carattere casuale e imprevedibile delle manifestazioni
umane.
Si potrebbe quindi definire quello di Plebe come un anarchismo non sistematico, in
quanto rifiuta di ricondurre ogni fenomeno individuale e sociale alla lotta contro ogni
vincolo precostituito. Il suo è un libero anarchismo, tale cioè da non escludere occasionali
dipendenze da prese di posizione sia teoriche che politiche.
Questa impostazione generale è la chiave per intendere l’atteggiamento di Plebe nei
confronti del marxismo. Di esso egli accetta la pars destruens contro chi considera le
ideologie come prodotti autonomi che sorgano inspiegabilmente nella mente umana.
Infatti sia ogni fede politica e religiosa sia, all’inverso, ogni reazione contro le fedi
esistenti, non sono un prodotto del caso, bensì una conseguenza delle diverse situazioni
individuali e sociali. Ne deriva il rifiuto di ogni condanna assoluta di qualsiasi idea o
posizione sociale. In luogo della condanna occorre sempre comprendere le ragioni di una
data posizione.
Ne consegue un sostanziale relativismo, per cui le affermazioni sia positive che negative
sono sempre suscettibili di essere capovolte quando mutino le situazioni che le
sostengono. Ciò comporta una totale assenza sia di adesioni che di condanne fideistiche.
Nei confronti di ogni teoria, sia pura che pratica, il compito dell’uomo non è quello di
schierarsi a favore o contro, ma quello di comprenderne le motivazioni e vagliarle
criticamente.
Queste idee comportano una radicale assenza non solo di specifici moralismi, ma anche
di quella che amerebbe presentarsi come una moralità liberale. Per Plebe non esiste
alcuna presa di posizione che non possa sia essere sostenuta che essere combattuta a
seconda delle circostanze. La sua è una ripresa dell’antica concezione sofistica del kairós,
secondo cui sono le circostanze a rendere buona o cattiva qualsiasi presa di posizione,
anziché essere le teorie a rendere buone o cattive le circostanze. Si tratta, dunque, di un
anarchismo sia teorico che pratico, pur con le difficoltà che sono connesse ad ogni
anarchismo.
Questo complesso di idee si è venuto evolvendo nel pensiero di Plebe da un iniziale
materialismo a un conclusivo anarchismo teorico ed etico. Espressione della prima
posizione è il libro Il materialismo oggi del 1980, mentre la formulazione più compiuta del
suo pensiero può considerarsi enucleata sia dalle Dieci lezioni di politica del 1994, sia
soprattutto da Il nuovo illuminista del 2006.
Il risultato di queste idee può quindi considerarsi ispirato a un anarchismo relativistico.
Plebe si differenzia dall’anarchismo assoluto, in quanto non si ritiene vincolato alla
negazione di qualsiasi principio. Ad esempio nell’ambito dell’etica contemporanea ritiene
valida l’esigenza di un laicismo assoluto. Perciò si rifiuterebbe di considerare relativa o
contingente l’esigenza di un pensiero laico. Tuttavia ritiene che l’accettazione di
determinati principi sia condizionata a circostanze temporanee e transitorie. Anche il suo
laicismo, quindi, resta valido come istanza antidogmatica, ma non potrebbe mai tradursi
in un imperativo etico assoluto.
Perciò il pensiero di Plebe più che anarchico può definirsi correttamente come scettico.
Difatti ogni scetticismo contiene una componente anarchica in quanto rifiuta di farsi
derivare da principi assoluti, tuttavia si tratta di un anarchismo continuamente
suscettibile di essere messo in discussione dall’istanza scettica per cui nessun principio,
compreso quello anarchico, può considerarsi esente da un esame critico e neppure da un
ripensamento.
Per questo è essenziale al pensiero di Plebe la formulazione di uno dei suoi libri più
importanti, Filosofia della reazione. Il suo pensiero si caratterizza anzitutto come
reazionario, cioè come reazione contro le mode esistenti, non solo contro quelle positive,
ma anche contro quelle di esito negativo. Vuole essere, in primo luogo, una reazione
contro le teorie che derivano dall’accettazione di principi universali, ma inoltre intende
pure reagire contro l’opposta universalità di chi voglia formulare delle negazioni assolute.
Espresso in termini nicciani, Plebe rifiuta sia una qualsiasi accettazione di valori sia
l’opposta accettazione di un’inversione di valori. La filosofia non è, per lui, né il regno del
buon senso, né quello mefistofelico della bancarotta della ragione.
È lecito asserire sia la ragionevolezza della realtà sia, al contrario, l’assurdità del mondo.
È lecito purché ciascuna delle due opposte asserzioni venga fatta seguire da una
limitazione che ne asserisca una validità del tutto contingente a seconda delle
circostanze. Analogamente all’idea cartesiana di una morale “provvisoria”, Plebe non è
contrario all’idea di molteplici spiegazioni provvisorie della realtà, ciascuna con le sue
conseguenze teoriche e pratiche. Quest’idea può essere avvicinata alla teoria di Popper
della falsificabilità delle teorie scientifiche e politiche. Tuttavia Plebe si differenzia da
essa in quanto ritiene che ogni affermazione sia bensì falsificabile, però che la sua
falsificazione non sia mai assoluta, ma sempre suscettibile di essere a sua volta
falsificata.
Ciononostante Plebe non considera il suo pensiero uno scetticismo assoluto. Il suo
radicamento empirico è infatti contrario ad ogni assolutezza, compresa quella di uno
scetticismo radicale. Paradossalmente non si rifiuterebbe di ipotizzare che in futuro egli
possa essere spinto a formulare un’etica ispirata a una qualche fede religiosa, ad esempio
al buddismo. Ma si tratterebbe di un’etica non assoluta, bensì di una sorta di buddismo
provvisorio, suscettibile di trasformarsi in un manicheismo o persino in un qualche
spiritualismo.
L’esempio addotto da qualche relativista per chiarire i fondamenti su cui poggia una
qualsiasi teoria filosofica, rispecchia assai bene il concetto. Esso descrive la situazione di
alcuni naviganti intenti a riparare i fondamenti della loro nave mentre sono essi stessi
condotti dalla nave avariata. In sostanza la filosofia si differenzia da qualsiasi altra
scienza non solo per il suo carattere di provvisorietà, ma soprattutto per il fatto che tale
provvisorietà è a sua volta provvisoria. È la posizione dell’unico scettico coerente, il quale,
a differenza degli altri scettici affermanti di non sapere nulla, sostiene non solo di non
sapere nulla, ma di non sapere neppure se questa sua affermazione sia valida oppure no.
La celebre posizione di Socrate, affermante di sapere di non sapere nulla, va cioè corretta
nell’affermazione per cui uno afferma di non sapere nulla, ma di non sapere neppure se
questa sua affermazione corrisponda a verità.
Questa posizione non comporta però una sorta di passività nei confronti delle teorie al
momento dominanti. Al contrario, proprio per mostrare la fragilità delle teorie dominanti,
Plebe non esclude di trovarsi di volta in volta a militare anche energicamente per una
qualche sua posizione filosofica. Nel ventaglio delle posizioni che egli ipotizza di poter
assumere di volta in volta rientrano però soltanto quelle che non escludono la possibilità
di venir modificate o parzialmente confutate.
Plebe non considera questa soltanto una sua posizione filosofica personale, ma la
posizione coerente dell’uomo pensante che si mette a far filosofia. Se intende davvero
pensare non può appiattirsi nel rinunziare a pronunciarsi data la costante possibilità di
venir confutato. Al contrario, la confutazione deve essere congenita ad ogni affermazione
teorica, senza tuttavia escluderla. Egli ritiene cioè che il filosofo non possa esimersi
dall’esprimere di volta in volta una qualche teoria, ma che debba farlo sempre sotto la
condizione che essa sia valida salva veritate. Occorre però precisare che si tratta di una
verità al momento puramente presunta, in quanto una verità assoluta non esiste.
In questa maniera Plebe ritiene di superare il famigerato argomento antiscettico, secondo
il quale lo scettico sarebbe condannato a contraddirsi automaticamente, perché non solo
non può affermare alcunché, ma non potrebbe affermare neppure il suo scetticismo.
Questo argomento, che ha sempre costituito il cavallo di battaglia di ogni teoria
veritativa, è in realtà facilmente superabile se si pensa che esso impedisce soltanto
l’affermazione di una presunta verità assoluta, ma non di quelle verità provvisorie, contro
le quali l’argomento antiscettico risulta inefficace.
Plebe ritiene così di essere un valido erede di quella rivoluzione intellettuale, che a
partire dal Settecento ha messo continuamente in crisi ogni filosofia positiva. Essa può
fare da base a un anticonformismo che superi la sterilità di una posizione puramente
negativa. La sua negazione infatti è soltanto il rifiuto di ogni assolutezza, non già il rifiuto
della formulazione di teorie e soluzioni provvisorie. Paradossalmente Plebe ritiene che la
vera nemica del pensiero sia l’idea di verità, alla quale tante volte il pensiero è stato
ancorato. Finché infatti il pensiero si ritiene frustrato se non riesce ad ancorarsi ad una
verità, il suo destino sarà sempre quello di autodistruggersi. Invece quando il pensiero
parta dalla negazione fondamentale che esista una possibile verità, allora gli si apre la
possibilità di molteplici teorie, affermabili ciascuna a livello di congettura o di ipotesi.
Questa teoria che vede in ogni pensiero filosofico una congettura più o meno valida
potrebbe farsi ricondurre alla posizione di Popper, secondo cui le teorie altro non sono se
non possibili congetture. La posizione di Plebe è tuttavia radicalmente diversa da quella
di Popper, perché le congetture teorizzate da Popper sono tutte formulate nell’attesa, sia
essa reale o presunta, di trasformarsi presto o tardi in verità almeno parziali. Per Plebe
invece l’idea di verità è la prima nemica della filosofia, perché non appena l’uomo ritiene
di possedere una qualche verità, cessa con ciò stesso di pensare convinto di avere ormai
raggiunto il traguardo del pensiero.
Se poi a questo scetticismo di Plebe si volesse contrapporre ancora una volta l’argomento
antiscettico, per il quale la stessa teoria plebiana non potrebbe essere affermata, egli
risponderebbe che questa contrapposizione non va ritenuta preclusiva dell’attività di
pensare. L’uomo infatti pensa non già perché abbia la certezza di raggiungere una verità,
ma perché l’esercizio della sua mente lo spinge a pensare in ogni caso. E questo esercizio
non è destinato a cessare anche qualora si sia convinti che la verità non esiste o che
comunque non sia raggiungibile.
Uno scetticismo così radicale è suscettibile di avere un futuro? In altre parole chi lo
sostiene è ancora legittimato a continuare a pensare, oppure la sua negazione di uno
sbocco positivo del pensiero impedisce con ciò stesso la possibilità di proseguire a
pensare? Plebe è convinto che non si tratti affatto di un naufragio del pensiero. Al
contrario l’attività umana del pensare è connaturata alla sua mente, ma insieme è
connaturata al dubbio sull’esito positivo dei suoi pensamenti. Non è che si pensi perché si
è convinti di giungere alla verità, bensì si pensa perché la nostra mente non sarebbe
capace di rinunziare a pensare.
Proprio per questo motivo, cioè per l’incapacità del pensiero a rinunziare a pensare, Plebe
prospetta un futuro di riflessioni non inutili in campo filosofico. Rinunziare a riflettere
significherebbe infatti uccidere la facoltà della nostra mente, di cui il pensare è l’attività
fisiologica. Occorre però convincersi che il pensare e il naufragare pensando sono due
attività indisgiungibili. Perciò Plebe ritiene che in futuro dovrà continuare la battaglia in
apparenza contraddittoria (ma forse soltanto in apparenza) di scavare sotto i piedi il
terreno del pensiero filosofico senza tuttavia rinunziare a questa attività apparentemente
autodistruttiva. Può sembrare un paradosso, ma per pensare bisogna convincersi
dell’inutilità del pensiero, e tuttavia questo stesso convincimento è la molla fondamentale
per continuare a pensare.
VITTORIO POSSENTI
Vittorio Possenti, nato a Roma nel 1938, dopo aver compiuto studi universitari di tipo
scientifico (elettronica) ha esercitato attività di ricerca nel campo delle microonde,
continuando a coltivare lo studio della filosofia, iniziato nel liceo a Torino e maturato
negli anni universitari. Ha poi deciso di abbandonare quest’attività per dedicarsi
completamente alla ricerca filosofica in un’epoca in cui se ne diagnosticava la fine, e
l’intento di decostruirla era all’apogèo. Dopo un periodo passato presso il rettorato
dell’Università cattolica (Milano), è divenuto professore associato nella cattedra di Storia
della filosofia morale e poi ordinario in quella di Filosofia politica presso la Facoltà di
lettere e filosofia dell’Università di Venezia. È membro del Comitato Nazionale di Bioetica,
della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e della Pontificia Accademia di san
Tommaso d’Aquino. Ha progettato presso l’Istituto di Studi Filosofici di Milano (19751981) numerosi seminari di approfondimento e convegni, e ha diretto dal 1979 al 1995 la
collana “Scienze umane e filosofia” (Massimo, Milano). Ha partecipato a numerosi
seminari internazionali in specie in Francia e Usa. Ha fondato e dirige Seconda
navigazione. Annuario di filosofia (Mondadori e Guerini, Milano, 1997ss.), è redattore
delle riviste Per la filosofia; La società; Sensus Communis; collabora ad alcuni quotidiani.
La produzione di P. copre 25 titoli di volumi e varie centinaia di saggi, dedicati alla
politica, metafisica, etica e bioetica. Suoi libri e saggi sono tradotti in 10 lingue. È
curatore di ca. 15 volumi.
Negli anni della formazione liceale e universitaria P. è stato attratto dalla storia delle
civiltà, ispirato da giovanili letture di Vico e di A. Toynbee; e dall’epistemologia della
fisica e dalla logica della scienza (A. Einstein, P. W. Bridgman). Nutrì allora l’idea
einsteniana che le teorie filosofiche dovessero elevarsi su una schietta base scientifica,
generalizzandola; e si interessò al conflitto tra religione e scienza imperniato sull’idea di
un Assoluto personale/impersonale. A vent’anni ha incontrato l’istanza metafisica e
umanista attraverso le opere di Maritain e di Tommaso d’Aquino, intuendo le possibilità
speculative e liberanti incluse nella rivelazione cristiana. Filosofia dell’essere,
personalismo, scuola del realismo conoscitivo hanno influito sul suo pensiero, in base
all’idea che la filosofia non è una conoscenza “lunare”, che vive di luce riflessa e senza un
oggetto specifico, ma possiede un proprio accesso al reale e si struttura come sapere. La
partecipazione ai dibattiti civili e teologici degli anni ’60 ha dischiuso orizzonti politici, tra
cui quello della pace, mentre un permanente interesse ha indirizzato l’A. verso l’intreccio
tra messaggio cristiano e questioni morali e civili. Lo studio di numerosi grandi della
filosofia, da Aristotele a Kant, da Schelling a Nietzsche, da Heidegger a Bergson, da
Gentile a Popper, ha consentito un confronto con posizioni diverse e arricchito il quadro
dell’A.
Profilo dell’attività scientifica e dei nuclei tematici principali
Il metodo adottato da P. si concreta nell’attenzione all’attualità storica e intellettuale, per
superare tre fondamentali scismi: lo scisma metafisico-gnoseologico tra mente e realtà
che si sostanzia nell’oblio dell’essere e nell’antirealismo, lo scisma antropologico tra
ragione e volontà, lo scisma culturale tra religione e società, fede e politica.
I principali nuclei della sua attività sono riassumibili come segue: 1) individuare
nell’epoca della secolarizzazione e del consumismo i principali progetti etico-politici
contemporanei, in rapporto al loro modo di intendere la persona, la scienza-tecnica, la
libertà, il nesso tra religione-cultura; 2) avviare una ricostruzione della filosofia politica, e
approfondire la relazione filosofia-società sull’assunto che quando la filosofia declina, la
coscienza di un’epoca si fa vacillante e confusa; 3) esplorare le grandi possibilità
speculative della tradizione della filosofia dell’essere in rapporto al realismo conoscitivo e
alle domande che pone la questione del nichilismo; 4) elaborare il personalismo
ontologico per affrontare tanto i nuovi grandi problemi bioetici e biotecnologici, quanto
quelli politici concernenti la democrazia e la pace; 5) considerare temi etici permanenti,
tra cui la questione del male e della libertà.
1) Storia, filosofia, società. La condizione spirituale degli ultimi decenni del Novecento è
stata segnata da una svolta postmoderna che vede la crisi finale (teorica e pratica) del
marxismo, l’aggiornamento dei fondamentali progetti politici contemporanei
(neoilluminismo, scientismo tecnologico, cultura radicale, cristianesimo politico), il
superamento della privatizzazione illuministica e liberale della religione, l’elaborazione di
un’idea aperta o positiva di laicità. Secondo P. il crollo del comunismo reale negli anni ’80
e più basilarmente la fine dell’epoca delle rivoluzioni intramondane ed atee – che hanno
prodotto enormi distruzioni, a conferma che senza Dio l’uomo può abitare la terra ma la
abiterà contro l’uomo –, hanno reso possibile un incontro tra liberaldemocrazia e
messaggio cristiano. La prospettiva richiede un ripensamento delle principali categorie
politiche capace di sottrarle all’individualismo radicale, al proceduralismo e al mero
contrattualismo.
Il declino dell’idea che a più modernità corrisponde meno religione fa riemergere il
tradizionale problema teologico-politico. La critica all’irrilevanza della fede per la politica
favorisce la ripresa postmoderna di ruolo pubblico per le grandi religioni. Da decenni esse
si ripresentano sullo scenario mondiale, ponendo i problemi di un loro nuovo rapporto con
la civiltà e la politica, differente da quello prevalso nella modernità e spesso segnato in
Occidente da drastiche separazioni. La prospettiva guarda ad una nuova ‘piazza pubblica’
capace di oltrepassare il binomio Stato-mercato, l’intoccabilità di quest’ultimo che
produce impotenza della politica e dilapidazione ecologica, nonché il mito dell’economia
che è tutto e sa tutto. Alto è dunque il bisogno di etica sociale, cui P. ha dedicato vari
studi, in specie a quella elaborata dalla dottrina sociale della Chiesa intesa come ‘filosofia
pubblica’.
Opere: Filosofia e società. Studi sui progetti etico-politici contemporanei (1983), Tra
secolarizzazione e nuova cristianità (1986), Religione e vita civile (2001), Le ragioni della
laicità (2007), Cattolicesimo e modernità. Balbo, Del Noce, Rodano (1995), Oltre
l’illuminismo. Il messaggio sociale cristiano (1992).
2 ) Rilancio della filosofia politica e nuovo accesso ai principi. Con la filosofia politica si
opera il passaggio dal ‘piccolo mondo’ dell’io al ‘grande mondo’ della società, verso la
società aperta della famiglia umana. P. sulla scia di diagnosi attive dagli anni ’50 del
Novecento (Arendt, Maritain, Strauss, Simon, Voegelin), ritiene che la filosofia politica
vada riportata al suo compito primario di pensare la ‘buona società’, lottando contro la
crisi concettuale che procede all’ingrosso da Weber e dall’attacco al diritto naturale. Molte
voci si sono levate per indicare la decomposizione della Scienza politica provocata dal
positivismo, storicismo, comportamentismo. P. ne ha intrapreso una riteorizzazione
attraverso una ripresa di consapevolezza dei principi, sviluppando un dialogo con la
scuola liberale e illuminista, e individuando nella involuzione relativistica di settori della
cultura occidentale un importante rischio per le basi stesse della democrazia, nella ricerca
di una nuova coniugazione di giustizia e libertà. In questa prospettiva ha trattato temi del
pensiero politico, fortemente dibattuti dovunque (bene comune, popolo e società politica,
legge naturale e diritti umani, paradigmi della democrazia), cercando di riscattarli dalla
corruzione e/o banalizzazione in cui sono caduti. In particolare è stata condotta una
critica a Kelsen, alla sua concezione relativistica dei valori e della democrazia, al suo
intento di dissolvere l’idea di ragion pratica, tolta la quale l’ambito della prassi precipita
nell’irrazionalismo e tutto è affidato al volere. Contro Kelsen e Rorty l’A. sostiene
l’importanza della filosofia e dell’antropologia per la democrazia, sulla base dell’idea che
la costruzione del cosmo umano è compito della ragion pratica. Le società occidentali
hanno bisogno di principi e valori (dignità della persona, diritti e doveri dell’uomo,
uguaglianza, libertà, legge), attorno a cui costruire un consenso morale. Insufficiente
risulta una sfera pubblica moralmente neutrale, consegnata al binomio ‘diritto positivo e
morale procedurale’, che riduce il diritto e il giusto a quanto stabilito dalle leggi positive,
e l’etica a regole di equa procedura. Questi problemi, tipici delle “società liberali”
dell’Occidente, suggeriscono un allargamento della filosofia pubblica che vada oltre i pur
significativi nuclei costituiti da note teorie della giustizia e della società aperta. La
rinascita della filosofia politica avviene riprendendo competenza sui suoi problemi, tra cui
massimo è quello della pace: la pace necessaria che non c’è e la guerra inammissibile che
c’è. Occorre disarmare la ragione armata, e intendere secondo un’analisi di struttura che
le guerre nascono dalla condizione anarchica dei rapporti internazionali. Ciò suggerisce
che vada cercata un’organizzazione politica del mondo oltre la sovranità degli Statinazione verso un’autorità politica mondiale o ‘cosmopolitica’, di cui l’ONU è lontana
immagine.
Opere: La buona società. Sulla ricostruzione della filosofia politica (1983), Le società
liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società (1991), Frontiere della pace (1973),
saggi sul personalismo, la pace, l’idea cosmopolitica in Kant e Maritain.
3) Metafisica e realismo. La cerniera tra teoresi e prassi si fonda secondo P. sull’unità tra
ragione teoretica e ragion pratica, come è concepita dal realismo gnoseologico volto alla
conoscenza dell’esistenza. P. ritiene con Kant che la metafisica sia una tendenza naturale
dello spirito umano, ma a differenza di Kant è convinto che essa possa raggiungere il
sapere stabile. L’A. si muove secondo tre intenzionalità:
A) esplorare i differenti modi del rapporto tra mente e reale (scienze fisiche, scienze della
vita, filosofia della natura, matematiche, ontologia), di cui la scienza non è l’unico,
tracciando una topologia dello spirito umano nel suo quest of being. L’antipositivismo
dell’A. non procede da sottovalutazione della scienza, che anzi il progresso scientifico
non riduce ma moltiplica i problemi filosofici. Nel campo della metafisica, sulla base
dell’idea che l’originario è l’essere e che il compito della filosofia consiste nella
conoscenza dell’esistenza, l’attenzione della ricerca possentiana è andata al rapporto
tra essere e intelletto, nella distinzione tra filosofie dell’intellectus e filosofie della ratio.
Mentre la seconda dis-corre e mette in rapporto gli oggetti, il primo coglie qualcosa di
originario e di anteriore al rapporto: l’intelletto intus-legit. Diversamente dalla scienza,
che compone e scompone gli oggetti mondani e le loro relazioni a partire da un’unità
del mondo assunta come dato, la metafisica studia l’unità ontologica delle cose,
mettendo a frutto l’ontologia della partecipazione e della causalità. P. ha inteso
tracciare una “metafisica dell’intelletto” e della sua capacità intuitivo-percettiva
dell’essere, che si manifesta nella percezione dei primi principi speculativi e nel giudizio
di esistenza, capace di raggiungere la radice delle cose. In ciò si esprime un atto di
fiducia nella ragione umana: dalla sua finitezza non derivano la fine dell’universale, la
completa parzialità del concetto, la piena particolarità dell’universale.
B) In tale prospettiva P. ha tracciato un’essenziale “storia della metafisica” quale
progressiva penetrazione della verità dell’essere, culminante nella metafisica dell’actus
essendi. Questa è stata intesa come “terza navigazione”, ulteriore e più compiuta della
seconda navigazione platonico-ellenica quale scoperta della causa soprasensibile (cf.
Fedone): una metafisica transontica che non si arresta all’ente ma procede verso
l’essere stesso, e che individua la ‘struttura originaria’ nella partecipazione dell’ente
all’essere. La metafisica ha per oggetto non il concetto di essere, ma l’essere in se
stesso, e il filosofo deve sempre e nuovamente ribattezzarsi nelle acque dell’esistenza,
fuggendo l’oblio dell’essere e la collera contro la ragione, a favore di un ‘pensiero
ontologico meridiano’.
L’elaborazione del problema dell’essere comporta la dimissione di due modelli
storiografici: quello che ritiene morta ogni metafisica a favore di un postmoderno
postmetafisico; quello heideggeriano secondo cui il corso della filosofia dai greci a noi è
sotto il segno di un progressivo depotenziamento. Dinanzi all’idea fallibilista, secondo
cui ogni sapere riposa su palafitte perennemente rivedibili, e all’intento decostruttivo di
ogni concetto filosofico, esplicatisi nel ’900, la ‘terza navigazione’ libera la metafisica
dall’obiezione dello storicismo e dello scientismo. Essa ricerca una razionalità attenta
alla storia ma non consegnata interamente alla furia del tempo: essa tematizza il
‘ritorno all’eterno’ invece che l’‘eterno ritorno’ (Nietzsche). È stato necessario
riesplorare il concetto di verità come conformità tra mente e realtà, e procedere alla
difesa critica dei primi principi speculativi (ragion d’essere, finalità, causalità). Questo
metodo risulta centrale per pensare il problema dell’evoluzione della vita e le sue
condizioni necessarie di possibilità, spesso trascurate, chiarendo che senza presupporre
una causa suprema, è impossibile che il più provenga dal meno. Si tratta di
riconsiderare il problema del divenire e delle sua cause, su cui la ragione metafisica
rimane imprescindibile.
C) Dinanzi al nichilismo moderno che occupa la scena da quasi due secoli, P. ha maturato
la convinzione che la filosofia dell’essere possieda le categorie per rispondere alla
domanda “che cosa è nichilismo?” e per svelarne il volto inquietante. La sua lettura del
nichilismo, inedita in rapporto a quelle sinora elaborate ed ispirate alla linea NietzscheHeidegger, fa perno sulla nozione di nichilismo teoretico inteso come l’elemento
originario del nichilismo, proveniente da antirealismo, lontananza dall’essere
esistenziale, rifiuto dell’intuizione intellettuale, crisi dell’idea di verità come
corrispondenza tra pensiero e realtà. L’approccio legge in opposizione metafisica e
nichilismo come due nuclei che tendono ad escludersi perfettamente, di cui il primo è la
fisiologia e il secondo la patologia, ed individua nel primato del volere e nella riduzione
della ragione a volontà l’esito ultimo del nichilismo. Il nichilismo europeo ha voluto
liberare l’Europa dalla metafisica, ritenuta distrutta dal criticismo. In realtà il compito
della filosofia è preparare una ripresa della metafisica tale che possa di nuovo tenere
un posto nella storia della civiltà. La ricerca tuttora in corso è stata condotta facendo
interagire elemento teoretico ed elemento storiografico, mettendo alla prova le
acquisizioni speculative in un confronto con autori del moderno (Kant, Husserl,
Heidegger, Nietzsche, Gentile, Habermas, Ricoeur, pensiero analitico, razionalismo
critico). Opere: Nichilismo e metafisica. Terza navigazione (ult. ed. 2004), Il nichilismo
teoretico e la “morte della metafisica” (1995), Essere e libertà (2004), Razionalismo
critico e metafisica. Quale realismo? (1995), Approssimazioni all’essere (1995), “La
domanda sulla verità e i suoi concetti”, in La questione della verità (2003), “Caso,
evoluzione, finalità”, in Natura umana, evoluzione ed etica (2007).
L’unità della ragione e del suo scopo si applica secondo P. anche al nesso tra filosofia e
Rivelazione, nell’assunto che nell’incontro tra compito della ragione e elezione del
cristianesimo si individui un criterio di apertura e stimolo per la filosofia nella sua
ricerca di senso. La circolarità tra filosofia e teologia aiuta a penetrare maggiormente
nella parola rivelata, spingendo la filosofia ad esplorare cammini che da sola non
avrebbe percorso. La religione non è estranea all’ambito del vero, come pretende il
razionalismo che la confina nel campo della pietà e del culto (da Spinoza in avanti).
D’altro canto essa non può ridursi solo ad un compito morale, ma va considerata nella
sua funzione di salvezza e di illuminazione nella ricerca del vero. Dalla scarsità di
riflessione teologica proviene l’appiattimento scientistico o storicistico o estetizzante di
notevole parte della filosofia italiana. Opere: Filosofia e rivelazione (2000, 2ª ed.).
4 ) La persona. Fautore di un personalismo ontologico e sostanziale che includa tutto il
positivo del personalismo relazionale ma non vi coincida, per l’A. il principio-persona è più
fondamentale del principio-responsabilità (Jonas) e del principio speranza (Bloch), e a
fortiori delle filosofie dell’impersonale. Il concetto di persona si presta efficacemente in
tutta una serie di problemi per cui le nozioni di individuo, di soggetto, di coscienza
risultano inadeguate. Esso è essenziale per maneggiare le grandi difficoltà insite
nell’oggettouomo, in specie da quando in Occidente si è cercato di elaborare un’etica
procedurale di norme senza base antropologica, che è il grande equivoco dei moderni e
contemporanei. La persona è una realtà originaria e primitiva che va pensata ad hoc,
senza dimenticare che nel suo avvento si concreta la massima rivoluzione della storia
universale: la emersione della persona, avvenuta all’incrocio tra dogma cristologico e
trinitario e filosofia, cui oggi si oppongono i vari nichilismi che altro non sono che forme
dell’antiumanesimo. La persona come totalità concreta è alla base di una filosofia che
oggi deve fare i conti con la centralità del tema antropologico, con le problematiche
bioetiche (ad es. concernenti lo statuto dell’embrione), e con le concezioni in cui il
soggetto e la natura umana non sono intesi come un presupposto ma un prodotto della
prassi. Inoltre il personalismo egualitario e comunitario è fondamento di un ordine
politico nuovo, proiettato verso la cosmopoli. Opere: Il principiopersona (2006).
5) Temi etici . In questo campo l’A., attento alla questione della legge morale naturale e
allo statuto di ‘autonomia teonoma’ dell’etica, ha elaborato una filosofia della libertà che
nella dialettica tra libero arbitrio e liberazione vada oltre l’ambito della sola libertà di
scelta, e si è misurato col decisivo problema del male. La ricerca ha esplorato la causa
prima del male morale, l’abisso della libertà creata e la difficile questione del ‘male di
natura’ (malattie, catastrofi naturali) in una prospettiva di dialogo tra etica, religione e
rivelazione, lontana dal razionalismo e dall’idea di un’origine solo sociale del male. La
crisi delle teodicee razionalistiche che risolvevano con eccessiva facilità il problema, e
l’insufficienza di altre imprese, non comporta la fine di ogni meditazione sul nesso uomoDio-male, né la perdita della speranza in una liberazione dal male. Rimane la domanda
sull’intimo dissidio tra ragione e volere: quando la prima raggiunge il valore, il secondo
può rifiutarlo e decidere altrimenti. La filosofia non può limitarsi ad essere disciplina
accademica a sfondo teorico ed epistemologico senza toccare la sfera profonda dell’io e le
‘passioni dell’anima’.
Opere: Dio e il male (1995), Essere e libertà (2004), Approssimazioni all’essere (1995).
Edizione e introduzione a opere di J. Maritain, Due monografie (e oltre 10 introduzioni a
trad it. di sue opere) sono state dedicate a Maritain: Una filosofia per la transizione.
Metafisica, persona e politica in J. Maritain (1984), L’azione umana. Morale, politica e
Stato in J. Maritain (2003), un autore in cui P. vede uno dei maggiori pensatori della
modernità, e l’esponente più creativo della filosofia dell’essere nel Novecento.
Studi su personaggi del Novecento italiano, talvolta rimossi dalla storiografia filosofica
ufficiale: F. Balbo, non tanto quello dei cattolici comunisti ma il Balbo che riscopre la
metafisica dell’essere e della partecipazione, e G. La Pira.
Opere: Giorgio La Pira tra storia e profezia. Con Tommaso maestro (2004), Felice Balbo e
la filosofia dell’essere (1984), Profili del Novecento (2007).
Prospettive future della ricerca
La validità postmoderna del principio-persona sarà a breve ripresa in una ricerca
sull’influsso incrociato di tecnica, religione e politica sull’antropologia e il processo
educativo. La nuova centralità della questione antropologica, raramente compresa
dall’università della seconda metà del XX secolo, ha provocato la crisi nella formazione di
una classe dirigente, a lungo avvenuta lungo i sentieri della cultura umanistica.
Come prosecuzione e ulteriore ‘inveramento’ dell’esplorazione sul nichilismo, l’A. prepara
uno studio sul nichilismo giuridico, che in Occidente intende la legge come mera
produzione e manifestazione di volontà, sciolta da ogni contenuto: un atteggiamento in
cui si configura una compiuta soggezione a Nietzsche e al positivismo giuridico radicale, e
la fine della civiltà giuridica.
PIETRO PRINI
Cristianesimo e filosofia nella prospettiva esistenzialistica
Pietro Prini è nato a Belgirate (Novara) il 15 maggio del 1915. Alunno dell’Almo Collegio
Borromeo, si laurea in filosofia a Pavia nel 1941 con una tesi su Il problema delle
categorie nella “Teosofia” di Antonio Rosmini . Prosegue successivamente i suoi studi alla
Sorbona. A Parigi ha modo di entrare in contatto con i pensatori più rappresentativi della
Francia di allora, soprattutto con Gabriel Marcel. Libero docente, nel 1951, in Filosofia
teoretica, insegna per incarico Storia della filosofia antica all’Università di Genova e
successivamente Filosofia morale e Pedagogia all’Università di Perugia, dove nel 1962
viene chiamato, come professore ordinario, alla cattedra di Filosofia teoretica. Ordinario
di Storia della filosofia dal 1964 all’Università di Roma “La Sapienza”, è attualmente
professore emerito della stessa Università. È stato Presidente della Società Filosofica
Italiana e Vice Presidente della Société Méditerranéenne de Philosophie. Ha fondato e
diretto le riviste Cultura e politica e Proteus. Membro dell’Académie du Monde Latin, ha
rappresentato l’Italia alla Conferenza di Tokyo del 1962 sulla scuola primaria in Asia.
Una serie di suoi articoli, scritti tra il 1944 e il 1949, sono stati pubblicati nel 1950 in un
volume dal titolo Itinerari del platonismo perenne. Il 1950 è anche l’anno in cui appare il
suo libro Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile (lavoro più volte riedito e
tradotto in francese, spagnolo e inglese). Con L’esistenzialismo, del 1953, l’Autore
analizza i concetti di fondo del pensiero esistenzialista ordinandoli in quelli che, a suo
avviso, ne costituiscono i tre modi principali corrispondenti a tre età dell’esistenzialismo:
il
modo autobiografico,
quello metafisico e quello umanistico. L’esistenzialismo
autobiografico fu aperto dalla protesta di Kierkegaard contro il panlogismo hegeliano in
nome di una più genuina e meno eludibile esperienza della “soggettività”, e si è concluso,
attraverso le esaltanti avventure spirituali di Nietzsche e di Dostoevskij, nel “sentimento
tragico della vita” di Unamuno e nelle disperate aporie della solitudine di Kafka.
L’esistenzialismo metafisico si è manifestato negli anni immediatamente successivi alla
prima guerra mondiale, nelle opere di Heidegger, di Jaspers, di Marcel e di Berdiaeff,
come un’energica presa di coscienza della crisi delle strutture razionali del mondo
moderno, così da riproporre alle radici il problema del senso ultimo dell’esperienza.
L’esistenzialismo umanistico, infine, negli anni intorno alla seconda guerra mondiale,
soprattutto con l’opera filosofico-letteraria di Sartre in Francia e gli studi teoretici di
Abbagnano in Italia, ha raccolto in sistemi coerenti le categorie esistenziali della
tradizione romantica e metafisica, mirando specialmente a circoscriverne l’ambito dentro
un nuovo concetto dell’uomo, dove la “negatività” o la “problematicità” dell’esistenza
sono assunte come la struttura o il valore stesso di essa, anziché aporeticamente come il
suo limite. Sull’esistenzialismo Prini tornerà nel 1970 con Esistenzialismo e filosofia
contemporanea (dove, tra altri temi, viene preso in considerazione nel capitolo VI il
concetto di storia nell’esistenzialismo, e nel capitolo VII il rapporto tra storia ed
escatologia in Rudolf Bultmann) e nel 1974 con la Storia dell’esistenzialismo.
È nel volume Verso una nuova ontologia, pubblicato nel 1957, che Prini offre una
consistente formulazione del suo progetto filosofico con la proposta di una “ontologia
semantica”, vale a dire di una riflessione filosofica concepita quale ermeneutica di
“documenti ontologici” quali quelli “della poesia e delle grandi esperienze religiose e
morali che hanno rinnovato la prospettiva sulle cose e cambiato il senso del mondo,
abbattendo barriere inibenti e creando il linguaggio di nuove civiltà”. Idee, queste, che
trovano ulteriore articolazione e approfondimento in Discorso e situazione (1961) e nella
prolusione tenuta all’Università di Perugia nel 1962 dal titolo Cristianesimo e filosofia.
Una filosofia aderente alla vita
I n Umanesimo programmatico (1965) Prini pone attenzione alla frattura profonda, di
antico sapere manicheo, tra l’horror naturae dell’analisi esistenziale e l’homo spiritualis
degli ardimenti tecnici e, delineando la fenomenologia di due grandi settori della nostra
vita associata – il mondo del lavoro e il tempo libero –, elabora la proposta di una
ricomposizione di tale dualismo in una misura più integralmente umana, che, fuori dalle
eurofie e dalle esecrazioni, riconosca il paradosso e disponga l’uomo contemporaneo a
fronteggiarlo e dargli un senso con l’accogliere, o almeno col ritenere possibile, la più
radicale delle asimmetrie, quella dell’incontro dell’eterno col tempo in cui consiste
l’esperienza cristiana.
Ed è sempre con l’intento di comprendere il disagio o, meglio, i fattori della “crisi”
dell’uomo contemporaneo, che Prini torna a rileggere Plotino, scavando nella fecondità
dell’idea di “contemplazione creatrice” e interpretando l’autore delle Enneadi come uno
dei grandi maestri dell’umanesimo interiore. In fondo, ripensare Plotino ai nostri giorni,
così come è avvenuto puntualmente in ogni crisi del senso del divino e dell’umano nel
mondo medioevale, rinascimentale e moderno, può voler dire ritrovare la dimensione, la
consistenza ed il peso di ciò che merita di essere, al di là del generale appiattimento
delle tensioni spirituali del nostro tempo. Questa, dunque, l’idea centrale del saggio su
Plotino, pubblicato nel 1968, in seconda edizione nel 1970 e in terza edizione riveduta nel
1992.
Arcaica appare a Prini, ne Il paradosso di Icaro (1976), la contrapposizione tra cultura
scientifica e cultura umanistica, mentre molto più importante, secondo lui, è il dualismo in
cui oggi si fronteggiano la cultura scientifico-tecnologica e quella che si potrebbe
chiamare la cultura iconico-orale dei nuovi linguaggi audio-visivi. La prima è
essenzialmente analitica, formale, corticalizzata; la seconda è essenzialmente
partecipativa, sinestetica, legata al mondo dei sensi e delle emozioni. Analiticità e
partecipazione sono, pertanto, due modi distinti e contrapposti della condotta mentale
che impongono come problema di fondo dell’educazione quello che potrebbe essere detto
il paradosso di Icaro o dell’anticipazione frustrata. La cultura scientifico-tecnologica esige
anni di scolarità “claustrale”, di sosta riflessiva, mentre quella iconicoorale getta gli alunni
nella corrente della vita, emotivamente e in maniera velleitaria, li spinge a volare verso il
sole, ma con ali tenute da giunture di cera. Da qui la necessità di una revisione dei
fondamenti tradizionali dell’antropologia in vista dei sempre più urgenti problemi della
formazione intellettuale e morale delle nuove generazioni.
La natura meta-ideologica del Cristianesimo
Una aderenza alla vita ha dunque costituito il filo rosso che ha guidato l’intera
speculazione filosofica di Prini, come si può anche ben vedere da altri suoi lavori come Il
corpo che siamo (di cui si veda soprattutto il capitolo 3 dedicato alle “ragioni della
bioetica”) e i due volumi Cristianesimo e ideologia (1974) e Il cristiano e il potere (1993),
nei quali, pur con accentuazioni diverse, viene posto in luce il carattere metaideologico
del Cristianesimo.
Il Cristianesimo è una “verità eterna” offerta in un certo momento della storia, ma aperta
a tutta la storia e dunque a tutto il futuro dell’umanità. Di conseguenza, sul piano politico
e sociale, tale riconoscimento ci fa vedere la relatività di tutte le ideologie, di tutti i
sistemi politici e di tutti gli ordinamenti sociali, di fronte all’unicità meta-culturale e metaideologica del messaggio cristiano. Ovviamente, ciò non significa affatto collocare il
Cristianesimo in una specie di “evasione dall’alto”, come avrebbe detto colui che di Prini è
stato maestro, cioè Gabriel Marcel. Non è “evasione dall’alto” per la semplice ragione che,
sebbene nell’ambito sociale e politico il Cristianesimo non abbia né imponga una propria
ideologia, esso tuttavia è un messaggio che, operando in interiore homine, incide in
maniera decisiva sull’atteggiamento del credente di fronte alla propria epoca ed alla
società in cui gli è toccato di vivere. Sta tramontando – scrive Prini – l’ideale della
costruzione di una civitas da qualificarsi come cristiana nelle sue istituzioni, nei suoi
ordinamenti e nei suoi obiettivi, e sta sorgendo in una nuova luce il senso universale,
metastorico e genuinamente ecumenico del Cristianesimo.
Muore la cristianità, perché rinasca nel suo senso autentico il Cristianesimo. In realtà, il
Cristianesimo rappresenta il più radicale rovesciamento dell’esprit bourgeois, la più
energica riaffermazione della subordinazione del fare e dell’avere alla dignità dell’essere:
in un senso escatologico, una vera e propria rivoluzione dei moventi essenziali della
civiltà europea moderna.
Il dibattito sullo scisma sommerso
Ancora sui rapporti tra Cristianesimo e realtà storico-sociale Prini è tornato ne Lo scisma
sommerso. Pubblicato originariamente nel 1998 in un’edizione fuori commercio, questo
saggio – ripubblicato nel 1999 con in Appendice interventi di Gianni Vattimo, Rosso
Malpelo, Barbara Spinelli, Gianni Baget Bozzo, Enzo Bianchi e Giuseppe Pontiggia – ha
innescato una polemica che ha interessato i maggiori quotidiani nazionali coinvolgendo
gran parte del mondo cattolico. Di seguito, solo qualche cenno ad alcuni temi presi in
considerazione da Prini. “La funzione simbolica di Satana – egli afferma – è di metter in
luce la radicalità e il rischio dell’alternativa tra l’Essere e il Niente. È ben vero che la
gerarchia e la maggior parte dei teologi ribadiscono come verità dogmaticamente
definitiva la tesi dell’esistenza del diavolo come persona che tenta gli uomini al peccato;
tuttavia – tiene a far presente Prini – “oggi le cose paiono piuttosto diverse, se da una
recente statistica sulla religiosità in Italia (ricerca organizzata dall’Università Cattolica di
Milano) risulta che ‘soltanto il 25% degli italiani cattolici praticanti crede nel demonio
come realtà personale, come essere tentatore dell’uomo, che si oppone al disegno di
Dio’”.
Un ulteriore delicato argomento: quello dell’inferno. “Alla nuova immagine scientifica del
mondo e dell’uomo, alla razionalità dell’operare tecnologico e all’efficacia terapeutica
della psichiatria moderna, in questa vasta opera di demitizzazione dell’infernale –
prosegue Prini –, si è congiunto anche il progresso della coscienza morale in quell’ambito
della riflessione dove ha influito più direttamente la stessa esperienza religiosa, e
specificamente, nella civiltà occidentale, il messaggio cristiano.” È solo un’irrilevante
minoranza di popolazione (il 16%) che si raffigura l’inferno come luogo di dannazione dei
malvagi nelle fiamme eterne. E un dato del genere – chiede Prini – “non costituisce forse
per la Chiesa gerarchica una specie di scisma sommerso, che nessun affollamento di
grandi piazze o di pellegrini devoti o di giubilei millenari basta a isolare nel
nascondimento della coscienza ove si parla davvero con Dio?”. Meditando su Agostino,
Prini scorge che l’immaginazione della città dei tormenti eterni “non è nient’altro che la
proiezione di un problema di sostituzione e poi di salvaguardia del potere”. Di quel potere
che l’autorità ecclesiastica saprà gestire, “specialmente quando all’eternità dell’Inferno si
aggiungerà – ben presto nella deviazione dei fedeli – la credenza di quell’inferno
temporaneo che è il “purgatorio”, per l’espiazione delle colpe meno gravi, della quale la
chiesa pastorale assumerà in qualche modo l’amministrazione attraverso la preghiera dei
vivi, le elemosine, le messe, le indulgenze”. Il terrorismo spirituale esercitato dalla
confessione tramite “un’idea della giustizia di Dio imposta dall’autorità ecclesiastica”: la
contestazione del piacere visto come colpa, costituiscono altri scottanti argomenti del
libro che si chiude con una impostazione interpersonalistica di alcuni problemi cruciali
della bioetica. Tre giudizi sullo Scisma sommerso. Giuseppe Pontiggia: “C’è in Prini una
tensione ideale verso una società aperta in cui il Cristianesimo scelga tra le eredità del
passato o offra un senso al divenire perenne del mondo”. Barbara Spinelli: “Perché il
Pontefice riceve tanti atei, e non si mette in ascolto dei pensatori cristiani che dissentono
dalle dottrine ufficiali? Perché non apre le porte a credenti come lui, o come Pietro Prini
che ha l’ardire di parlare dello scisma sommerso di una società ansiosa di diventare più
aperta, più libera, meno rabbuiata dalla morale delle Scritture, morale fondata sul
peccato, la colpa, l’inferno?”. Gianni Vattimo: “Lo ‘scandaloso’ libro di questo decano del
pensiero cattolico italiano è una ventata d’aria fresca anche per la cultura laica, abituata
ormai a mummificare il senso del Cristianesimo in alcune norme di umano, troppo umano
buonsenso, e in richiami a una generica, troppo generica, carità”.
L’empirismo mistico di Gabriel Marcel
Nel 1950 Prini dà alla stampa il volume Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile.
Nella Lettera-Prefazione al libro Marcel scrive: “C’est avec une véritable émotion que j’ai
pris connaissance de votre étude. C’est à n’en pas douter une des plus pénétrantes qui
aient été consacrées à ma pensée, une des celles auxquelles les commentateurs de
l’avenir devront en tous les cas se référer. L’expression même de ‘méthodologie de
l’invérifiable’ me parait particulièrement heureuse. Vous avez eu le très grand mérite de
remonter à la source de tout mon développement métaphisique endeçà de toute
adhésion explicite à la religion chrétienne; je dis explicite, car il est infiniment probable
que dès l’origine, sans oser me l’affirmer à moi – même j’étais chrétien, pour autant que
je reconnaissais sans l’ombre d’une doute la transcendance de la foi chrétienne”.
Ebbene, quelle che Prini prende di mira, seguendo il pensiero di Marcel, sono le filosofie
“che s’ispirano al razionalismo epistemologico e che, proponendosi di fondare la ‘scienza’
o un tipo di conoscenza ‘valida per tutti’, sacrificano la singolarità irripetibile dell’esistente
e la incircoscrivibile trascendenza dell’Essere ad un’astratta e vuota universalità di
‘oggetti’ o di ‘funzioni’ gravitanti intorno ad un ugualmente astratto ed iperbolico
‘Soggetto’ che, per essere il soggetto di tutti o di ‘chi non importa chi’ è in effetti il
soggetto di ‘nessuno’”. Con ciò Marcel, dice Prini, fa emergere la consapevolezza di una
profonda esigenza morale e religiosa, di fronte alla quale l’atteggiamento scientista e
tecnicista di quanti si adagiano in una considerazione impersonale ed utilitaria del
mondo, gli appare, per usare un’espressione di Pascal, un “divertissement”, una
volontaria evasione dalle responsabilità dell’attenzione di sé come persona in una
comunità di persone o, più fortemente, un tradimento di quella “fedeltà” religiosa in cui
ogni autentico legame si connette e si fonda. La verità è che la “Scienza” che si è fatta
“idolo di se stessa” tende a trasformare il mondo degli uomini in un mondo di cose ad uso
del più forte. Lo scientismo è un ergastolo mentale, una mutilazione dell’esperienza
umana più ricca e significativa.
E nella ricostituzione o nel recupero dell’esperienza umana considerata nella fioritura dei
suoi aspetti morali e religiosi Prini vede l’intento di fondo della riflessione di Marcel – una
riflessione che trova i suoi riferimenti remoti nel pensiero agostiniano e radici profonde
nell’apologetica esigenziale di Pascal e che si incentra nella dottrina del “mistero
ontologico”, dove l’esistenza si fa autentica nel suo implicarsi ed impegnarsi in un “ricorso
assoluto” che è anche, per ciò stesso, una originaria partecipazione all’Essere, così come
è possibile inferirla da alcuni dati centrali dell’esperienza cristiana, quali la “fedeltà”, la
“speranza” e l’“amore”. Quella di Marcel è, insomma, una polemica antiscientistica, una
analisi delle implicanze esistenziali della ragione, un tentativo di fondare una nuova
ontologia che, al di fuori dell’“ornière scolastique”, si propone come “riflessione alla
seconda potenza” sui momenti più caratteristici e più alti dell’esperienza morale e
religiosa e i suoi risvolti metafisici.
Prini si sente d’accordo con Jean Wahl nel definire la prospettiva filosofica di Marcel come
empirismo mistico che, insieme, è ontologia dell’invocazione – documentati, entrambi
dall’urgenza di recuperare l’“esistenza” o, meglio, i limiti concretamente realistici della
nostra singolarità e di riaffermare l’Essere, vale a dire il fondamento trascendente e la
sorgente e la meta del nostro inquieto cercare.
Problema e metaproblema
E c’è un’unità di ispirazione che, nella ricchezza dei temi trattati da Marcel e nella varietà
delle sue acute analisi fenomenologiche dell’esperienza del credente, vincola tutta la sua
opera filosofica. Unità che, nell’interpretazione di Prini, è da scoprire nel suo sforzo tenace
e lucidamente consapevole sin dalle prime pagine del Journal Métaphysique di tracciare
le linee di struttura di un sapere che in nessun modo può venir ridotto nelle categorie
logico-matematiche della conoscenza oggettiva e che, d’altro canto, è un vero e proprio
procedimento dell’intelligenza e non una arbitraria esigenza soggettiva.
La proposta di Marcel, in altri termini, si risolve nel fondare una metodologia
dell’inverificabile, nel mostrare l’errore del razionalismo moderno nella sua dogmatica e
infondata pretesa di rifiutare, per usare un’espressione del “secondo” Wittgenstein, tutti i
giochi di lingua che non si riducono o non possono tradursi nel giuoco di lingua della
scienza, di rifiutare cioè “forme di vita” irriducibili al discorso scientifico.
L’esperienza religiosa, per gli aspetti che la caratterizzano – vale a dire: la trascendenza
di Dio, la singolarità del credente e l’indeducibilità causale dei suoi eventi – rimane
intrinsecamente inattingibile dalle categorie e dai procedimenti logici e di verificazione
fattuale della scienza oggettiva. Ma dalla constatazione che l’esperienza religiosa sia
inattingibile dalle categorie del discorso scientifico non segue affatto che essa sia
illusoria, che sia la maschera di un istinto o di un bisogno, che non costituisca una
apertura verso quella più profonda e illuminante realtà che “ci comprende”. E se c’è il
problema, se cioè ci sono i problemi della ricerca – dove in base a dati cogniti si cerca
un’incognita adoperando procedimenti condivisi –, c’è anche il metaproblema, vale a dire
il problema dell’Essere, il problema ontologico. E qui è più che opportuno riportarci ad una
pagina nevralgica di Essere o avere: “Riflettendo – scrive Marcel – a ciò che si è soliti
considerare come problemi ontologici: l’essere è? Che cosa è l’essere? ecc. sono stato
indotto a rilevare che io non posso rivolgere la mia riflessione a questi problemi senza
vedere schiudersi sotto i miei passi un nuovo abisso: io che mi interrogo intorno
all’essere, posso dirmi certo di essere? Che qualità posseggo io per procedere a queste
ricerche? Se io non sono, come posso sperare di vederle giungere al termine? Anche
ammettendo che io sia, come posso accertarmi che io sono?”.
Insomma, quando l’interrogazione riguarda l’Essere, il senso del tutto, l’uomo cessa di
essere uno spettatore indifferente poiché la totalità del nostro domandare è “esperienza
della trascendenza”.
L’ontologia dell’invocazione
L’interrogazione radicale, la “domanda ontologica” o Seinsfrage, come la chiamava
Heidegger, ha, nel pensiero di Marcel, una funzione essenzialmente rivelativa. Ed ecco,
allora, che l’aspetto più profondo ed autentico della metafisica è di porsi come
un’“ontologia dell’invocazione”. Invocazione che è possibile solo in un mondo lacerato
dalla disperazione.
Il problema ontologico – scrive sempre Marcel in Essere e avere – non è separabile dal
problema della disperazione, la quale si dà “in quanto io rinnego la mia partecipazione
all’essere e mi ripiego in me stesso in un’avida ed avara volontà di possedere”. Di
conseguenza, una metafisica dell’essere si configura come una vera e propria
“esorcizzazione dalla disperazione”. E il “mistero ontologico”, per la sua interiore
circolarità di illuminazione e di vita, di presenza e di invocazione, si pone soltanto nel
libero e concreto aprirsi ad esso della nostra vita spirituale.
Nell’orizzonte di queste considerazioni diventa ben comprensibile il deciso rifiuto da parte
di Marcel del dilemma, ripetuto sino al fastidio, tra credere o verificare. In una nota del
Journal, Marcel, al riguardo, osserva: “Sempre lo stesso dilemma. Fatto oggettivo o
disposizione interiore. Tutto quello... o nient’altro che questo. Ogni volta che io lo ritrovo,
ho come la sensazione di dover sollevare una montagna. Più che mai, tuttavia, sono
convinto che questo dilemma lascia sfuggire l’essenziale della vita religiosa e del pensiero
metafisico più profondo”. E qui sta, nell’interpretazione di Prini, il merito filosofico
principale di Marcel: egli ha riproposto, sgombrandolo da arcaismi “scolastici”, il problema
di una conoscenza metafisica come intelligenza dell’esperienza religiosa.
La metafisica è un’esperienza religiosa cristallizzata
Non poche delle riflessioni contenute in Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile
verranno riprese e approfondite da Prini nel 1957 nel volume Verso una nuova ontologia e
troveranno una articolata sistemazione teoretica nel 1960 in Discorso e situazione. Qui
Prini sostiene che è proprio l’esperienza religiosa a costituire una delle fonti più genuine
da cui gli uomini hanno attinto originariamente gli attributi dell’Essere. In fondo – così
egli scriveva – “non c’è metafisica che non derivi, in maniera più o meno remota, da
un’ispirazione religiosa. “La metafisica, si potrebbe dire, è un’esperienza religiosa
cristallizzata. In realtà, la caratterizzazione teologica dell’Assoluto non è colta come una
semplice struttura eidetica in cui si obbiettivano le aspirazioni della coscienza religiosa,
ma piuttosto come il riflettersi dell’Assoluto stesso in un’esperienza che pretende di
attingerlo, in qualche modo, e di esprimerlo. “La classificazione del religioso sotto le
categorie logiche o estetiche o etiche, o peggio la riduzione atea di esso ad un fenomeno
di proiezione illusoria dei desideri e dei bisogni umani (secondo la formula del Feuerbach:
‘la teologia è antropologia’), appaiono come un vero e proprio fraintendimento”. A
sostegno della sua tesi Prini adduce i risultati messi a disposizione dalla fenomenologia
della religione – risultati che a sufficienza dimostrerebbero la superficialità di una
artificiosa nozione di una “religione naturale” costruita dall’Illuminismo negli schemi di un
vago deismo disarticolato da una effettiva conoscenza etnografica e psicologica e
pertanto incapace di cogliere quanto vi è di proprio e di irriducibile nell’esperienza
religiosa. Ma è dalle ricerche svolte da studiosi come Chantepie de la Saussaye, William
James, Max Scheler, Rudolf Otto, Karl Kerényi, Gerardus van der Leeuw, Mircea Eliade e
altri ancora che emerge un prezioso contributo di chiarificazione della “categoria” propria
del religioso. Sulla scia di questi autori è possibile affermare, in linea generale, che ciò
che è stato messo in luce è il carattere dell’esperienza religiosa come esperienza della
“differenza infinita”, per usare l’espressione di Kierkegaard, tra l’uomo e Dio. Il “Sacro” o
il “Numinoso” – così Otto chiama l’oggetto proprio dell’esperienza religiosa – “è
assolutamente sui generis e non è definibile in senso stretto”, “è un àrreton, un ineffabile,
in quanto assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale”. L’uomo religioso,
scrive G. van der Leeuw in Fenomenologia della religione, “sa con certezza che qualche
cosa viene verso di lui sulla strada: può darsi che l’angelo cammini davanti a lui e lo guidi
con sicurezza; può essere invece l’angelo dalla spada fiammeggiante, che gli sbarra la
strada; ma è indubitabile che qualche cosa di estraneo taglia la strada della sua
potenzialità”. Ebbene, quanto Prini sostiene è che senza questa rivelazione non c’è
autentica esperienza religiosa. Ma ciò sarà possibile solo a patto che non si strappino via
le radici della propria interiorità (intimior intimo meo), quel senso di “essere creatura”
che è tensione ed apertura al “mistero”. E quel che va compreso del “mistero” è che esso
ci comprende. Per cui di Dio non si può parlare religiosamente, se non parlando a Dio. In
altri termini, quel che Prini sostiene è che una riflessione sulla religione che non voglia
smarrirsi o cancellare questo carattere della coscienza religiosa, dovrà porsi essa stessa
in un modo invocativo, anziché contemplativo.
Questo è il punto di approdo delle argomentazioni che l’Autore sviluppa in Discorso e
situazione, dove viene distinta una riflessione di primo grado da una riflessione di
secondo grado.
E se la riflessione di primo grado è relativa al discorso oggettivo o scientifico, al discorso
privato o intersoggettivo (Io-Tu) e al discorso collettivo o di gruppo, la riflessione di
secondo grado viene concepita da Prini come una propedeutica alla comprensione di
discorsi semantici o rivelativi dell’essere, così come si pongono nei diversi contesti
linguistici della poesia, dell’esperienza morale e di quella religiosa.
Può il cristiano filosofare come la Rivelazione non ci fosse stata?
Nel 1962, nella già richiamata prolusione da lui pronunciata all’Università di Perugia e
intitolata Cristianesimo e filosofia, Prini affermava che “c’è un carattere ludico
nell’atteggiamento del credente, quando pretende di poter mettere tra parentesi la
propria fede e di essere anch’egli, nella ricerca della verità, come dice Husserl, ein
wirklicher Anfänger, ‘un vero e proprio principiante’”. La realtà è che “una fede che possa
essere interrotta o sospesa anche soltanto in maniera provvisoria, non è più fede”. Il
credente, insomma, gioca al Cristianesimo allorché finge che la propria fede sia
irrilevante per la sua ricerca filosofica. E ciò per il motivo che “il Cristianesimo ha
inaugurato un nuovo comportamento della ragione verso la verità”. Difatti, per Prini, il
paradosso del Cristianesimo è che la verità – nella sua assolutezza, anche se non nella
sua compiutezza – si è rivelata nella storia dell’uomo. Lì bisogna cercarla, nella
determinatezza di alcune circostanze precise di tempo e di luogo, nella continuità della
sua presenza attraverso la comunità di coloro che l’hanno ricevuta e tramandata; lì, nella
storia, e non fuori dalla storia in un mondo soprasensibile, miticamente preconosciuto e
conoscibile attraverso un’intuizione intellettuale. Ciò significa che la verità si è rivelata e
si rivela attraverso una testimonianza, e dunque in un incontro, dove il testimone è esso
stesso, nella sua persona, l’unica garanzia, l’unico fondamento giustificativo di ciò che egli
attesta. La verità di un’attestazione non può essere infatti sottoposta agli stessi criteri di
verifica degli enunciati oggettivi, poiché in questi, al contrario, la persona di colui che
afferma o nega può e dev’essere neutralizzata e messa tra parentesi, risultando la verità
dell’enunciato dalla semplice ripetibilità, da parte di chiunque, del procedimento razionale
che ha condotto alla sua enunciazione. Infine il contenuto della verità rivelata è tale da
trascendere qualunque misura di rapporti o di possibilità soltanto umane, è di natura
“sacrale” o “misterica”, ed è perciò irriducibile a qualunque costrutto teorico di cui la
ragione abbia l’iniziativa e possa raggiungere le leggi di costituzione intrinseca.
Per il cristiano, dunque, la verità si è rivelata nella storia; la verità si è rivelata e si rivela
attraverso una testimonianza, in un incontro in cui il testimone stesso è l’unica garanzia
di quanto egli attesta; e, infine, i contenuti di questa verità sono irriducibili a qualunque
costrutto teorico di cui la ragione abbia l’iniziativa. La verità cristiana, pertanto, è nella
storia e non fuori dalla storia come lo è, invece, la presunta verità metafisica concernente
un mondo soprasensibile senza storia, appunto. La verità cristiana non si fonda con
esperimenti ripetibili o argomentazioni metafisiche: la sua giustificazione sta nel
testimone stesso; e i suoi contenuti non sono riducibili a costrutti teorici. Di conseguenza,
“una filosofia della storicità, una logica della testimonianza e una fenomenologia del
Sacro costituiscono – secondo Prini – altrettanti momenti o passaggi obbligati del
comportamento riflessivo o critico all’interno della fede, o, come direbbe il Gilson, del
‘filosofare nella fede’”.
Qui – nel filosofare nella fede – sta la serietà del filosofo cristiano. Ma il cristiano che
filosofa come se la Rivelazione non ci fosse stata, o che cerca un senso della vita e della
storia come se il messaggio di salvezza cristiano non esistesse, costui non prende sul
serio la sua fede. In fondo, non crede. Non crede né alla verità cristiana, né alla ricerca
filosofica. Se cerca davvero un senso filosofico, per esempio, della vita umana, della
storia degli uomini, allora fa questo perché è ormai fuori della verità cristiana: non ci
crede più, gioca al cristianesimo. Se, invece, crede davvero nella verità cristiana, allora
gioca con la filosofia. Ma, dice Prini, non si può giocare impunemente col cristianesimo né
con la filosofia che è nata e ha posto il suo problema fuori dal cristianesimo. Un aut-aut si
impone in nome della nostra più rigorosa autenticità mentale, in nome del carattere
indisgiungibilmente integrale del nostro essere insieme credenti e pensatori.
Filosofia cristiana come ontologia sacrale
Il pensatore credente, che crede davvero, non filosofa fuori dalla fede. Egli filosofa dentro
alla sua fede, proprio perché questa non è per lui uno scherzo o qualcosa di cui ci si possa
disfare a seconda delle occasioni o della convenienza. Il concetto di filosofia cristiana
avanzato da Prini esige innanzitutto l’eliminazione di quel radicato equivoco consistente
nel pensare che la fede traballi o non si fondi o non sia addirittura possibile senza
l’intermediazione “di una metafisica deduttiva”. Si tratta proprio di un equivoco perché,
“se la metafisica è affrontata nella serietà del suo porsi come ‘filosofia prima’ o filosofia
dell’inizio radicale, diventa inconciliabile con la fede, e se invece ci si sforza di concordarla
con la fede, diventa solo indifferenza o ludus o parodia mimetica”. Un pensiero cristiano,
così concepito, “elimina, afferma Prini, la dissociazione interna tra fede e ragione –
questa specie di “schizofrenia” o di vera e propria malattia mentale –, che da più di
quattro secoli ha intaccato la cultura cristiana”. I grandi pensatori cristiani, a cominciare
da San Tommaso, hanno filosofato dentro la fede, ma questo non è accaduto, per
esempio, nel tomismo moderno da cui Prini prende le dovute distanze, perché “l’idea
tomistica” dell’essere è al di qua del Sacro, cioè è assunta fuori dall’esperienza religiosa
in cui essa può avere un senso. “La filosofia cristiana non può porsi se non come, prima di
tutto, una ontologia del Sacro”. Talché, un siffatto progetto di filosofia cristiana “rinuncia
a quella specie di profanazione e di vanificazione formalistica che è diventata la
metafisica tradizionale nelle scuole cristiane”. E, d’altra parte, “la filosofia cristiana ha il
compito di manifestare e di far presente, nel cuore stesso della cultura umana in tutte le
sue espressioni, una unità di senso che presiede o deve presiedere a tutte le condotte
umane, private o collettive”. Questo, però, non significa che la filosofia cristiana abbia “la
pretesa di concludersi nel codice perentorio di una precettistica morale o politica”. Essa
“si pone come una manuductio ad sapientiam, come la trasmissione, appropriata
all’infinita molteplicità delle circostanze, di un senso della vita, del sapore della verità per
la quale, come voleva Kierkegaard, si possa veramente vivere e morire. Non interporrà
tra se stessa e i problemi reali della vita lo schermo “inutile o incerto” di una traballante
metafisica, ma, più semplicemente, affronterà quei problemi con la serietà e la ricchezza
interiore di chi ha avuto in consegna un messaggio di redenzione”.
La fede è possibile solo in un mondo ontologicamente contingente
La riflessione sulla tematica del rapporto fede e ragione, fede e cultura e storia è una
costante nel pensiero di Prini. Così, in uno scritto del 1979 – dal titolo Credere e pensare
–, Prini ha inteso dissipare quelli che paiono gli equivoci che si annidano alla radice del
dilemma tra la sicurezza della fede e la sincerità del domandare metafisico. Bisogna
chiedersi – egli afferma – se non è proprio dell’essenza della fede l’essere in un mondo in
cui sia possibile il dubbio metafisico. Ciò significa, specifica Prini, che in un mondo che
può essere descritto come un sistema della necessità – ossia in un mondo pensabile in
maniera tale da essere totalmente determinato nella immutabile conclusività del suo
destino – la fede non avrebbe posto, se non eventualmente come una specie di subscienza, destinata a scomparire nel compimento di un processo razionale. In sostanza, la
fede, sostiene Prini, è possibile solo in un mondo da cui sono scomparsi gli assoluti
terrestri, di cui le metafisiche immanentistiche sono solo degli esempi. La fede è
unicamente una più o meno importante favola “in un mondo che può essere descritto
come un sistema della necessità”, in un mondo “totalmente determinato nella immutabile
conclusività del suo destino”. E così – egli ha scritto – è stata di fatto pensata la fede
dall’immanentismo filosofico moderno che ha contrapposto ad essa il sapere assoluto di
un mondo, dov’è impossibile, come lo era per Spinoza o per Hegel, l’apparizione degli
eventi in cui si esprime imprevedibilmente l’assolutezza e la sacralità dell’azione di Dio, la
creazione e l’incarnazione, il miracolo, la provvidenza e l’invocazione, e dunque la fede.
Esistono, quindi, metafisiche che, se accettate, rendono la fede impossibile. La realtà è
che, sottolinea Prini, nella condizione della nostra avventura terrena la fede può esistere
soltanto in un mondo che comporti, alla radice del proprio statuto ontologico, la
possibilità di non essere quello che è e di essere quello che non è: un mondo, come
direbbe Gabriel Marcel, che comporti delle lesioni reali, che sia soggetto a minacce e
pericoli che non siano soltanto delle paure infantili; un mondo, infine, che possa essere
davvero, e forse proprio per il potere misterioso e terribile dell’uomo, il luogo dello
smarrimento e della disperazione.
Non c’è, dunque, incompatibilità tra la fede e una filosofia che, con tutta la serietà
possibile, scruta sui sogni falliti di un uomo che si pensava onnipotente. Le metafisiche
del secolo scorso – metafisiche del trionfo senza limiti dell’uomo, del progresso
inarrestabile, della ragione onnipotente, di cui il positivismo, l’idealismo e il marxismo
sono gli esempi più chiari – non sono più proponibili oggi. Verità eterne, sensi assoluti
insiti nella storia umana, fondamenti indistruttibili di teorie etiche o metafisiche non
paiono più cose del nostro mondo. Ed è proprio in un mondo del genere, dice Prini, che la
fede, in quanto fede, è possibile. Una fede genuina – che non è certamente da
confondere con la tranquillità filistea di chi pretende che la verità gli sia data in possesso
una volta per sempre – non può istituirsi se non là dove la possibilità della domanda
metafisica si ripropone continuamente, ossia nel mondo della contingenza, della finitezza,
della minaccia reale, dell’opzione, della profezia e della speranza.
Da tutto ciò ben si vede che compito fondamentale del filosofo cristiano non è, per Prini,
quello di provare l’esistenza di Dio (“la théodicée c’est l’athéisme”, ha scritto Gabriel
Marcel) ma di dimostrare, semmai ce ne fosse bisogno, che l’uomo non è un dio; il
compito è quello di porre in evidenza la fragilità – l’umanità – degli umani prodotti e
progetti, la loro relatività e precarietà, la mancanza di un loro fondamento ultimo e
definitivo. Non la costruzione e la venerazione dei vitelli d’oro, ma la demolizione di
questi in nome dell’Assoluto è compito del pensatore cristiano. Lo spazio del Sacro non si
costruisce popolando, con presunte dimostrazioni irrefutabili, l’universo di entità metaempiriche, ma spopolando la Terra dai presunti assoluti costruiti con mani umane. In
breve, il problema filosofico del cristiano si pone, scrive Prini, in questi termini: “Come
dev’essere pensata la struttura della realtà, nella sua totalità, perché questo senso della
vita, ancora in un ordine di eventi soprannaturali, possa esservi incluso?”. Il punto fermo,
il “punto di Archimede” del cristiano “è il suo senso religioso della vita, iscritto in
un’economia di eventi che oltrepassano l’ambito di questo mondo, anche se si
manifestano in questo mondo”. E come tutte le concezioni filosofiche autentiche, anche la
filosofia del cristiano è una Gedankewelt, un “mondo di pensiero”, con la sua ipotesi
originaria di senso in una scelta vissuta, esercitata conflittualmente nell’esperimento
decisivo dell’esistenza. In tal modo, risulterà che il dialogo tra la filosofia del cristiano e le
altre filosofie consisterà essenzialmente nel confronto tra la ricchezza in determinazioni
ed in profondità dei rispettivi sensi della totalità del reale nei quali esse riescono a
fondarsi: non una lotta di esclusioni o di riduzioni o di “superamenti”, ma una dialettica di
compossibilità di Gedankenwelten, di Idee che si sono fatte Sistemi di concetti e di valori.
E si tratterà di una dialettica cui sono vissute ben più fecondamente, nella loro storia, le
diverse forme della filosofia cristiana o, come meglio si dovrebbe dire, le filosofie dei
cristiani, tanto sono diverse e non contraddittorie le strutture del reale, nella sua totalità,
in cui ha potuto essere fecondata la possibilità del senso cristiano dell’esistenza nella
storia del pensiero occidentale.
Il problema filosofico del cristiano sta, dunque, secondo Prini, nel come pensare la
struttura della realtà perché il senso cristiano della vita possa esservi incluso. E il mondo
dove la fede è possibile è il mondo della contingenza, un mondo ontologicamente
contingente – questo “luogo dello smarrimento e della disperazione”.
Il prof. P. Prini ringrazia Lidia Giancola e Dario Antiseri
per la messa a punto redazionale del presente testo
GIOVANNI REALE
Giovanni Reale è nato a Candia Lomellina (Pavia) nel 1931. Ha frequentato il Liceo
Classico nella vicina Casale Monferrato, e si è laureato presso l’Università Cattolica di
Milano nel 1954. Si è perfezionato in Germania dal 1954 al 1956 a Marburg e nel 1957 a
Monaco di Baviera. Nel 1962 ha conseguito la Libera docenza in Storia della filosofia
antica, e ha avuto subito l’incarico per l’insegnamento di questa materia presso
l’Università Cattolica in Milano.
La prima cattedra che ha ricoperto come professore di ruolo è stata quella di Storia della
filosofia presso l’Università di Parma 1971/1972 (dove ha insegnato per un triennio anche
Filosofia morale dal 1968 al 1971). Dal 1972/1973 è passato come professore di ruolo
alla cattedra di Storia della filosofia antica all’Università Cattolica di Milano, dove ha
fondato il “Centro di Ricerche di Metafisica”, e ha diretto le parallele collane “Temi
metafisici e problemi del pensiero antico” e “Platonismo e Filosofia patristica”, nelle quali
ha pubblicato opere di riferimento di autori di fama internazionale. Dal 2002 è passato
alla nuova Facoltà di Filosofia del San Raffaele di Milano.
Oltre che del pensiero antico e tardo antico pagano e cristiano, si è occupato del pensiero
filosofico in generale, come dimostrano le collane da lui dirette come “Il Pensiero
occidentale” e “Testi a fronte” della Bompiani, in cui vengono pubblicate opere dalle
origini della filosofia a oggi e l’opera Storia della filosofia dalle origini a oggi (ultima
edizione molto ampliata, Bompiani-Corriere della Sera, Milano 2008). Suoi scritti sono
tradotti in quindici lingue. Ha ricevuto numerose onorificenze.
Opere pubblicate
Il concetto di filosofia prima e l’unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano
1961 (Bompiani, Milano 20087).
Teofrasto e la sua aporetica metafisica, La Scuola Editrice, Brescia 1964.
Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e commento, 2 volumi, Loffredo, Napoli
1968; edizione rinnovata, 3 volumi, Vita e Pensiero, Milano 1993; ristampa di questa
stessa edizione in volume unico con il titolo: Giovanni Reale, Introduzione, traduzione e
commentario della Metafisica di Aristotele, Testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2004.
Melisso, Testimonianze e frammenti , La Nuova Italia, Firenze 1970 (che contiene, oltre
alla edizione e alla traduzione dei testi, l’ampia monografia Melisso e la storia della
filosofia greca, pp. 1-268). Introduzione a Aristotele, Editori Laterza, Bari 1974; 200714.
Storia della filosofia antica, 5 volumi, Vita e Pensiero, Milano 1975-1980; nuova edizione
totalmente rinnovata: Storia della filosofia greca e romana, 10 volumi, Bompiani, Milano
2004.
Per una nuova interpretazione di Platone, edita in modo provvisorio nel 1984, via via
rinnovata nelle venti edizioni successive, fino all’ultima Vita e Pensiero, Milano 200321.
L’estremo messaggio spirituale del mondo antico nel pensiero metafisico e teurgico di
Proclo, che è una monografia introduttiva a Proclo, I Manuali (pp. V-CCXXIII), Rusconi,
Milano 1985.
Introduzione a Proclo, Editori Laterza, Bari, 1989.
Il trattato sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele. In collaborazione con
Abraham Bos, Vita e Pensiero, Milano 1995 (Radicale rifacimento della prima edizione
edita presso Loffredo, Napoli 1974).
Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo di oggi, Cortina, Milano 1996.
Guida alla lettura della Metafisica di Aristotele, Editori Laterza, Bari, 1997; 20074.
Eros dèmone mediatore. Il gioco delle maschere nel Simposio di Platone, Rizzoli, Milano
1997; Bompiani, Milano 2005.
Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 1998; Bur, Milano 2004;
20083.
Raffaello. La “Disputa”. Una interpretazione filosofica e teologica dell’affresco con la
prima presentazione analitica dei singoli personaggi e dei particolari simbolici e allegorici
emblematici, Rusconi Libri, Milano 1998.
Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Cortina, Milano 1999.
Raffaello. Il “Parnaso”. Una rilettura ermeneutica dell’affresco con la prima presentazione
analitica dei personaggi e dei particolari simbolici, Rusconi Libri, Milano 1999.
Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000; Bur, Milano 2004,
20083.
Quale ragione?, con Dario Antiseri, Cortina, Milano 2001.
Alle radici culturali e spirituali dell’Europa. Per la rinascita dell’“uomo europeo”, Cortina,
Milano 2003.
Valori dimenticati dell’Occidente, Bompiani, Milano 2004.
La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, Bompiani, Milano 2003; 20086.
La “Scuola di Atene” di Raffaello. Una interpretazione storico-ermeneutica. Nuova
edizione aggiornata e integrata, Bompiani, Milano 2005 (prima edizione Rusconi, Milano
1987).
Karol Wojtyła, un pellegrino dell’assoluto, Bompiani, Milano 2005.
L’arte di Riccardo Muti e la Musa platonica, Bompiani, Milano 2005.
I misteri di Grünewald e dell’Altare di Isenheim. Una interpretazione storico-ermeneutica,
Bompiani, Milano 2006. Nuova edizione con il film in DVD di Elisabetta Sgarbi, Apparizioni
Mathis Grünewald, allegato in cofanetto, Bompiani, Milano 2008.
Agostino e la scrittura dell’interiorità, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2006, in
collaborazione con Carlo Sini, con introduzione di Massimiliano Finazzer Flory.
Le Nozze nascoste o la Primavera di Sandro Botticelli. Nell’ottica dell’umanesimo
fiorentino, Bompiani, Milano 2007, con allegato in cofanetto un film di Elisabetta Sgarbi in
DVD, girato agli Uffizi (una prima e differente edizione era stata pubblicata con il titolo
Botticelli, La Primavera o Le nozze di Filologia e Mercurio?, Idea Libri, Rimini 2001).
Il valore dell’uomo, Bompiani, Milano 2007, in collaborazione con Angelo Scola, con un
intervento di Armando Torno.
Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle “Dottrine non scritte”, Bompiani,
Milano 2008, con in appendice due interviste di Giovanni Reale a Hans-Georg Gadamer.
Il pianto della statua nelle sculture sacre in terracotta di Niccolò dell’Arca, Guido Mazzoni
e Antonio Begarelli, in collaborazione con Elisabetta Sgarbi, e con il film della Sgarbi in
DVD allegato in cofanetto, Bompiani, Milano 2008.
Per le collane “Il Pensiero Occidentale” e “Testi a fronte” della Bompiani ha curato la
pubblicazione di oltre duecento volumi, con inclusi pensatori di tutto l’arco del pensiero
dell’Occidente.
L’interpretazione dei Presocratici
Reale ha iniziato lo studio dei Presocratici con l’aggiornamento del volume III della Parte
I di La filosofia dei Greci, di E. Zeller-R. Mondolfo, dedicato agli Eleati, su richiesta dello
stesso Mondolfo, un lavoro che comportava la lettura di tutto quanto si era scritto, dopo
lo Zeller, su Senofane, Parmenide, Zenone e Melisso, La Nuova Italia, Firenze 1967. Ha
proseguito i suoi studi con l’edizione di Melisso, Testimonianze e Frammenti , con
monografia introduttiva su Melisso e la storia della filosofia greca e commentario per la
collana “Biblioteca di Studi Superiori” dell’Editrice La Nuova Italia, Firenze 1970. Ha poi
tradotto Parmenide, Sulla natura, con introduzione e note per la Bompiani, 2001. Infine
ha curato, con vari collaboratori, la prima traduzione integrale della grande raccolta di
Hermann Diels e Walther Kranz, I Presocratici, Bompiani 2006 (20083).
Come è stato da tempo riconosciuto, i Presocratici costituiscono la memoria della nostra
civiltà occidentale. E tale “memoria” è veramente essenziale, perché l’Europa e l’uomo
occidentale possano mantenere la loro “identità”. In effetti, il senso di filosofia come
posizione dei problemi ultimativi, ossia come metafisica, è una creazione dei Greci, non
solo con Platone e Aristotele, ma proprio già a partire dai Presocratici. Il “principio”
(l’arché) indagato dai Presocratici non era quell’inizio che la cultura pre-filosofica
ricercava in esseri divini, e meno che mai l’inizio in senso puramente cronologico, ma era
la ricerca di ciò da cui, in cui e per cui le cose sono. Reale pensa che nella domanda sul
principio sia contenuta la domanda iniziale e sostanziale del pensare filosofico metafisico
dell’Occidente. La ricerca e la conoscenza del principio comporta la conoscenza del senso
di tutte le cose che dipendono dal principio stesso, e quindi la conoscenza dell’“intero”,
della realtà nel suo insieme.
L’“intero” (holon) non è solo l’“insieme” fisico delle singole cose, ossia la mera somma
delle parti. Nel problema dell’“intero” non è in questione la quantità della realtà che si
vuole dominare, bensì la qualità dell’approccio a questa realtà, ossia l’angolazione in
funzione della quale la si vuole dominare. La domanda sull’“intero”, dunque, viene a
coincidere con la domanda sul “principio fondante”, e quindi unificante la molteplicità, e
coincide con la domanda sul “perché ultimo” delle cose, dal momento che è proprio
questo “perché ultimo” che costituisce l’orizzonte della comprensione di tutte le cose in
senso globale. Dunque, l’indagine dei Presocratici fu una indagine sull’“intero”, ossia, per
usare un altro termine che esprime un concetto emblematico, una indagine sulla physis,
nella misura in cui la physis dei Presocratici abbracciava l’essere nella sua interezza.
Se vengono letti in una corretta ottica ermeneutica, i Presocratici risultano essere dei
pensatori veramente cospicui, e si verifica la verità dell’asserto di Heidegger che la
filosofia con i Greci è nata grande. E in effetti emergono nei frammenti di alcuni
Presocratici messaggi veritativi di straordinaria portata.
Platone (e non pochi con lui) considerava Parmenide il maggiore dei Presocratici. Gli
dedicò il dialogo omonimo, e nel Teeteto lo presenta così: “Parmenide mi sembra che sia,
per dirla con Omero, ‘venerando e insieme terribile’” (28 A 5). Le preferenze di Reale,
tuttavia, sono piuttosto per Eraclito. Hegel, per esempio, sosteneva di aver utilizzato
nella sua Logica quasi tutti i frammenti eraclitei. Fa spesso richiamo al grande frammento
45, in cui l’uomo riconosce per la prima volta l’infinita profondità della propria ragione
(del proprio logos): “I confini dell’anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu
proceda fino in fondo nel cercare le sue strade: così profonda è la sua ragione”. Reale
ritiene non meno forte il frammento 85: “Difficile è la lotta contro il desiderio, perché ciò
che esso vuole lo compera a prezzo dell’anima”, nel quale Eraclito per certi aspetti
anticipa addirittura la tesi di fondo che Goethe svilupperà nel suo Faust. E ai giovani di
oggi, molti dei quali sono piuttosto scettici e privi di speranze, ancora Eraclito secondo
Reale manda un messaggio straordinario: “Se uno non spera, non potrà mai trovare
l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio” (B 18). Il che significa che
proprio sperando e solo sperando si trova l’insperabile.
Un pensiero di Anassagora (B 21a), che il grande Democrito faceva suo e lodava (A111),
secondo Reale, è un emblema vero e proprio del pensare greco: “Le cose che si vedono
sono l’aspetto visibile di quelle che non si vedono”. I fenomeni non si risolvono in ciò che
immediatamente vediamo, ma rimandano tutti a qualcosa di ulteriore che non si vede,
ma dal quale derivano e del quale provano l’esistenza. E questo esprime molto bene ciò
che significa fare filosofia nel senso più forte, ossia cercare appunto ciò che sta oltre il
fenomeno per spiegare i fenomeni stessi, cosa, questa, che vale per ogni vero filosofare.
L’interpretazione di Socrate
Nel volume Socrate (Rizzoli 2000; Bur 20073) Reale ha condensato tutte le sue ricerche
fatte in connessione con i suoi studi sull’evoluzione del pensiero dei Greci.
Secondo Reale Socrate gettò i fondamenti della filosofia morale, sulla base del motto
delfico “conosci te stesso”. È il primo filosofo che ha risposto alla domanda “Che cos’è
l’uomo?”. L’uomo è la sua anima ( psyché), in quanto è proprio l’anima che lo distingue da
qualsiasi altra cosa. L’anima coincide con la nostra coscienza pensante e operante, con la
nostra ragione. Per Socrate l’anima è l’io consapevole, è la personalità intellettuale e
morale. Il messaggio di fondo di Socrate è contenuto in questo passo della platonica
Apologia di Socrate: “Uomini, non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di
alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima in modo che diventi buona
il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù
stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico”
(cfr. 29 D-30 B). Le varie fonti confermano questo, sia pure in modi e in ottiche differenti.
Secondo Reale Socrate è certamente l’eroe della dialettica. Egli costringeva gli
interlocutori a definire l’argomento intorno a cui verteva l’indagine; poi scavava in vario
modo nella definizione fornita, esplicitava le manchevolezze, le contraddizioni a cui
portava; invitava quindi a tentare una successiva definizione, e con il medesimo
procedimento la confutava, e così di seguito fino al momento in cui l’interlocutore si
riconosceva ignorante (si vedano tutti i dialoghi giovanili di Platone). Fu proprio con
questo “momento confutatorio” del proprio metodo che Socrate si procacciò le più vivaci
avversioni e le più dure inimicizie, che alla fine gli valsero la condanna a morte.
In effetti, Socrate con tale metodo veniva considerato ed era effettivamente un
rivoluzionario. Costringeva coloro con cui discuteva a mutare il modo tradizionale di
pensare: voleva giungere al perché e all’essenza delle cose di cui si parlava, respingendo
totalmente il modo di pensare per immagini e opponendo il nuovo modo di pensare per
concetti.
L’oralità di Socrate, secondo Reale, è in netta antitesi con la tradizionale oralità su cui si
era fondata la cultura dei Greci per secoli. Mentre l’oralità tradizionale era di carattere
mimetico-poetico (fondata sui poeti), la nuova oralità era invece di carattere dialettico,
introdotta già dai filosofi a lui precedenti, ma da Socrate portata alle estreme
conseguenze e diffusa a tutti i livelli e comunicata a tutti i cittadini.
Ciò che diceva Socrate non era più memorizzabile come i versi dei poeti, e, per fissarlo e
riutilizzarlo, richiedeva di necessità lo strumento della scrittura. E infatti tutti i Socratici
scrissero i logoi sokratikoi, ossia dialoghi socratici, che Platone trasformerà in vere e
proprie opere d’arte.
L’interpretazione di Platone
A partire soprattutto dagli anni Ottanta Reale si è dedicato allo studio sistematico di
Platone e del Platonismo. Ha invitato Hans Krämer (il leader filosofico della nuova
interpretazione di Platone della Scuola di Tubinga) a scrivere il volume Platone e i
fondamenti della metafisica, e, nel corso della traduzione di tale opera e nelle discussioni
con l’autore, Reale si è convinto della fondatezza e della fecondità del nuovo paradigma
ermeneutico, con la proposta di rileggere Platone alla luce di quanto ci è stato
tramandato sulle platoniche “Dottrine non scritte”, e quindi di interpretare il pensiero del
grande filosofo sulla base non solo della tradizione scritta ma anche di quella orale. Come
gli scritti non si comprendono a fondo senza le dottrine non scritte, così le informazioni
pervenutici sulle dottrine orali non si possono intendere se non in stretta connessione con
gli scritti, nella dinamica di un preciso circolo ermeneutico. Reale ha proseguito la
collaborazione con la Scuola di Tubinga traducendo opere di Konrad Gaiser e di Thomas
A. Szlezák e di altri autori, e ha arricchito il nuovo paradigma ermeneutico con ulteriori
approfondimenti. Nella sua opera Per una nuova interpretazione di Platone (1984,
200321), ha dimostrato in che senso il nuovo paradigma si differenzi dal punto di vista
epistemologico da quello tradizionale (che sosteneva l’autarchia dei dialoghi), sulla base
della teoria di Kuhn. Ha dimostrato come negli scritti di Platone si intreccino due stili: uno
per la diffusione di molte sue convinzioni a tutti i lettori, e uno allusivo con cui il filosofo
comunicava i suoi messaggi ultimativi ai discepoli dell’Accademia, e ha fatto vedere come
a partire soprattutto dal Simposio Platone incominci a comunicare con tale stile sue idee
di fondo e come nel Fedone venga già tracciata la mappa della metafisica platonica in
modo pressoché completo. Ha dimostrato con analisi puntuali come la dottrina del
Demiurgo rientri a perfezione nel nuovo paradigma con analisi dettagliate dei puntichiave del Timeo.
Nel Platone del 1998 Reale ha dimostrato la precisa posizione assunta da Platone nei
confronti della rivoluzione culturale con il passaggio dall’oralità alla scrittura in atto fra la
seconda metà del V secolo a.C. e la prima metà del IV, discutendo e completando la tesi
di Havelock.
Nel volume del 2008 Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi platonici alle “Dottrine non
scritte” (pp. 245-259), Reale ha presentato un quadro completo dei contributi della
Scuola di Milano complementari a quelli della Scuola di Tubinga, e le varie pubblicazioni
da lui promosse su Platone a partire dagli anni Ottanta e i contributi di suoi allievi. Nelle
dottrine non scritte Platone definiva il Bene (principio primo di tutte le cose) come Uno,
Misura suprema di tutte le cose, e considerava come principio antitetico la Diade
indefinita di Grande-e-piccolo, da cui deriva il negativo e il male. L’essere deriva dalla
mediazione sintetica dei due principi (e in questo senso l’Uno-Bene sta al di sopra
dell’essere). In tutte le realtà, anche nella vita etica, il bene è la giusta misura, che
deriva dell’Uno che determina il molteplice, a vari livelli e in differenti modi.
Reale ha pubblicato nel 1991 in volume unico Tutti gli scritti di Platone con la
collaborazione dei suoi allievi (prima presso la Rusconi con sei edizioni) ora con la
Bompiani (20001, 20085), ha pubblicato anche traduzioni di singoli dialoghi per la
Bompiani (Apologia di Socrate, Critone, Eutifrone, Fedone, Fedro, Gorgia, Ione, Menone
Protagora, Simposio, Timeo); inoltre, il Fedro e il Simposio sono stati pubblicati da Reale
con ampio commentario anche nelle edizioni della Lorenzo Valla (Mondadori, Milano 1998
e 2001).
L’interpretazione di Aristotele
L’attività scientifica di Reale è iniziata però non con Plaotne ma con Aristotele, cui ha
dedicato una decina di anni di intenso lavoro. Già nella seconda metà degli anni
Cinquanta e in particolare negli anni Sessanta (soprattutto con Il concetto di filosofia
prima, 1961 [20087] e poi con la traduzione e il commento delle Metafisica, 1968 [ultima
ediz. Bompiani 2004]), Reale prendeva posizione contro il paradigma storico-genetico
nell’interpretazione di Aristotele inaugurato da Werner Jaeger, allora predominante.
Nell’Aristoteles del 1923, Jaeger sosteneva la tesi che la Metafisica non solo non ha una
unità letteraria, ma neppure una unità concettuale e dottrinale. Mancherebbe di un
minimo comun denominatore stabile e preciso. In quell’opera (come del resto nel
pensiero di Aristotele in generale) ci sarebbero non solo tensioni dialettiche fra differenti
concetti, ma vere e proprie opposizioni e contrasti teoreticamente insanabili, ossia non
mediabili. Escludendo una prospettiva unitaria mediatrice delle opposizioni, non rimane,
se si vuol salvare la cospicua statura del filosofo, se non una scansione e una collocazione
delle differenti e opposte tesi in tempi diversi, ossia la loro assegnazione a differenti fasi
di una evoluzione spirituale del loro autore.
La parabola dell’evoluzione storico-genetica diventa, in questo modo, un canone
ermeneutico risolutivo dei vari problemi per unificare l’opera di Aristotele in generale e la
Metafisica in particolare. Le tappe dell’evoluzione di Aristotele, secondo Jaeger, sono tre:
1) dapprima lo Stagirita è stato un Platonico, con forti interessi teologici; 2)
successivamente, sono prevalsi in lui interessi ontologici (interesse per l’essere in quanto
essere, per l’entelechia immanente, per la struttura della sostanza sensibile); 3) infine,
sono prevalsi interessi empirici, le raccolte e le sistemazioni di dati di fatto, e la concreta
comprensione dei fenomeni empirici.
Reale ha dimostrato che, a ben vedere, questa parabola evolutiva rispecchia esattamente
la legge dell’evoluzione attraverso i tre stadi di cui parlava Comte, che Jaeger, pur senza
dichiararlo, presuppone. L’interpretazione storico-genetica di Jaeger è errata dal punto di
vista metodologico, in quanto non ha alcun documento di base per stabilire le epoche di
composizione dei vari testi, e deduce le date da presupposti concettuali (Jaeger deduce
dei dati di fatto dalla sua interpretazione e non viceversa). Sulla base delle stesse
premesse metodologiche altri studiosi hanno capovolto la parabola evolutiva ricostruita
da Jaeger, e di fatto si è verificato che sulla base del paradigma storico-genetico si è
potuto dimostrare tutto e il contrario di tutto, e in tal modo il paradigma si è frantumato.
In realtà, proprio le quattro definizioni della metafisica che dà Aristotele – 1) ricerca delle
cause e dei principi primi, 2) teologia, 3) teoria dell’essere in quanto essere, 4) teoria
della sostanza – giudicate dal paradigma storico-genetico fra loro in conflitto, non solo
non si contraddicono, ma si implicano a vicenda. La ricerca delle cause e dei principi primi
include Dio e il divino fra le cause; l’essere si spiega concentrandosi soprattutto sul suo
significato principale, che è quello della sostanza, e indagando le cause e i principi della
sostanza; il problema sull’essere e sulla sostanza implica strutturalmente la domanda
teologica se ci sia o no un essere e una sostanza oltre il sensibile. Oggi il paradigma
storico-genetico è del tutto superato e nessuno lo accetta in alcun modo, ma per circa
mezzo secolo è stato predominante e Reale è stato il primo a dimostrarne l’infondatezza
in modo sistematico e nei dettagli.
Reale ritiene però che Jaeger sia stato il più grande filologo classico tedesco del secolo
scorso, e giudica la Paideia jaegeriana un vero capolavoro, a tutt’oggi un punto di
riferimento imprescindibile per comprendere la formazione dell’uomo greco, motivo per
cui Reale ha ripubblicato i tre volumi originari di quest’opera in uno unico con sua
introduzione (Bompiani 2003).
L’interpretazione dei Neoplatonici
Dei Neoplatonici, Reale si è occupato di Plotino con un Saggio introduttivo, prefazioni e
note di commento alla traduzione di tutte le Enneadi curata da Roberto Radice (con
annessa la Vita di Plotino di Porfirio a cura di Giuseppe Girgenti), per l’Editore Mondadori,
nella collana “I Meridiani. Classici dello Spirito” 2002. Su Proclo ha scritto L’estremo
messaggio spirituale del mondo antico nel pensiero metafisico e teurgico di Proclo, che è
un ampio saggio introduttivo (pp. V-CCXXIII) al volume Proclo, I Manuali: Elementi di Fisica,
Elementi di Teologia, I te
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